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LEZIONE 2

La società tardo romana: Il Brigante


Non sempre i ceti inferiori furono la principale area di reclutamento del brigantaggio,
anche se lo sono spesso nelle sue rappresentazioni letterarie. La figura del bandito nel
corso della secolare storia di Roma è insita nella sua storia perché è sempre stata
presente anche nei periodi più felici. In un primo momento la figura del brigante
interessava le zone costiere del mar Mediterraneo e non furono poche le spedizioni contro
quegli uomini che, in epoche diverse hanno sempre tentato di imporre la propria legge su
quei mari. Si ricordino quei pirati che tanto male fecero solcando il mare nostrum al
punto che intere regioni dell’Impero, che si affacciavano sul Mediterraneo, venivano
considerate loro proprietà.
Da Plutarco sappiamo che la Cilicia fu la prima roccaforte dei pirati che, dopo aver aiutato
Mitridate nella sua guerra contro Roma (88-85 a.C.), presero coscienza delle loro
possibilità e di conseguenza iniziarono ad osare sempre di più sino a recare danni molto
ingenti ai traffici romani. Sempre Plutarco narra come durante le guerre civili, quando i
Romani sembravano concentrati più sulla terre ferma che sui mari, i pirati divennero
padroni indisturbati delle acque del Mediterraneo, ormai rimasto senza nessuno che
vegliasse su quelle rotte. Essi pertanto, non solo attaccavano qualsiasi naviglio avesse
avuto la sventura di incrociare la loro rotta, ma si diedero a devastare isole e città
costiere.
I successi dei pirati e la facilità con cui riuscivano ad accumulare ingenti ricchezze,
attirarono tra le loro fila anche rampolli di illustri e nobili famiglie che si imbarcarono in
navi pirate nell’illusione di procurarsi in tempi brevi fama e onore. Se si considera che il
periodo delle guerre civili impegnò Roma per alcuni decenni, non stupisce come i pirati
abbiano potuto impadronirsi con relativa facilità di scali e fari fortificati in punti strategici.
I continui successi delle loro imprese criminali, oltre ad attrarre persone di alto lignaggio
o avventurieri di ogni sorta procurava un grave danno a Roma, incrinando il suo prestigio.
Roma d’altronde sembrava, in quel momento, non avere la forza necessaria ad opporsi a
uomini temerari disposti a tutto che avevano reso impraticabili le vie del Mediterraneo
danneggiando in modo drammatico i commerci.
Un primo colpo alla loro potenza fu inferto all’epoca di Silla; ci fu poi la disfatta del
pretore Marco Antonio che nei pressi di Creta fu vinto e fatto prigioniero. Infine, a seguito
della fortunata campagna del console Metello il quale riuscì ad assoggettare Creta, ed
inoltre successivamente all’impresa di Pompeo che, tra la primavera del 67 e l’inverno del
66, fiaccò la resistenza dei pirati, sino a limitare fortemente la loro capacità di offendere
anche se, è noto, la pirateria non sarà mai completamente debellata. Il bandito era una
figura odiata nel mondo romano perché in grado di destabilizzare uno stato che si era
imposto su gran parte della terra proprio grazie al suo ordine, uno stato che, a un
esercito eccezionalmente bene organizzato e a una burocrazia efficace grazie soprattutto
alle tasse che riusciva a raccogliere nei territori assoggettati; ma la raccolta di quelle
tasse sarebbe stata gravemente compromessa se i territori romani fossero stati troppo
frequentemente bersaglio di azioni brigantesche che ne impoverissero gli abitanti.
Pertanto non stupisce che termini quali latro , latrones , e latrocinius fossero considerati
gli insulti più gravi tanto da essere usati ad indicare anche gli avversari nella foga degli
scontri politici. Nei primi anni della Roma imperiale lo stesso Ottaviano non poche volte
ebbe a tacciare Antonio e Sesto Pompeo dell’appellativo di briganti in quanto da lui
considerati nemici mortali dello stato. Nel secolo III le città divennero l’unico possibile
rifugio contro i briganti che infestavano le campagne. In effetti già Svetonio ricorda come
Ottaviano, subito dopo l’eliminazione di Antonio, si preoccupò di porre un freno al grave
degrado dei costumi che si era largamente diffuso nelle campagne a seguito del lungo
periodo di guerre civili.
Periodo durante il quale i briganti poterono agire pressocché indisturbati soprattutto nelle
campagne, minacciando così i commerci con le continue imboscate a danno dei
viandanti, che potevano sentirsi al sicuro solo dopo aver varcato le mura di un centro
cittadino. Anche se spesso ciò non era abbastanza; infatti anche qui le case dovevano
essere sprangate per difendersi dai malintenzionati che nottetempo si aggiravano per le
deserte vie cittadine. Di notte anche la stessa capitale dell’impero diventava
estremamente pericolosa tanto che veniva sconsigliato qualsiasi tragitto cittadino
notturno se non per questioni di improrogabile urgenza. Tutti ricordiamo i vivacissimi
ritratti della Roma notturna lasciataci da Giovenale. Il banditismo, considerata la sua
diffusione in tutte le regioni dell’impero, era considerato dai cittadini alla stregua di una
calamità naturale che, improvvisamente, è in grado di colpire chiunque. La pericolosità
della situazione potrebbe giustificare in qualche modo l’indifferenza dei passanti di fronte
ad un fatto di violenza che si verificasse davanti ai loro occhi. Si veda per esempio la
parabola del buon samaritano il solo a fermarsi in aiuto di una vittima di un’aggressione
di banditi sulla strada da Gerusalemme a Gerico.
La frequenza degli assalti di latrones , viene certificata dal numero invero alto di epitaffi
ed epigrafi tombali che ricordano che il defunto è stato interfectus a latronibus . Fra i
tanti ricordiamo la pietra tombale eretta presso Prizren, nella Mesia superiore, da tale Sita
Dasipi in onore del padre Scerviaedus Sitaes ( CIL 3, 8242), e la descrizione molto più
elaborata voluta da Antonius Valentinus sempre per il padre, suo omonimo, che era
ufficiale della tredicesima legione Gemina, “ucciso dai banditi” su una strada della alpi
Giulie loco quod appellatur scelerata , in un luogo maledetto ( ILS 2646, Aidusinna presso
Tergeste). Regioni dove anche le legioni romane avrebbero con molta riluttanza accettato
di appropinquarsi si trovavano anche nella pars Occidentis dell’impero, laddove persino
un militare non si sentiva tutelato perché i locali erano in qualche misura succubi della
delinquenza di zona. Quei delinquenti erano personaggi provenienti, in taluni e non rari
casi, dalle file dell’esercito stesso.
Si può finalmente affermare che lo scontro tra stato e i briganti non giunse mai ad una
conclusione. Prova ne sono tutti quei signori che continuarono ad esercitare il proprio
potere sin quando, verso la seconda metà del secolo III, in Gallia e nella penisola iberica,
trovarono le condizioni favorevoli per una nuova e molto pericolosa ribellione allo stato
centrale. Anche stavolta le motivazioni saranno sia economiche, sia di sete di potere ma
le conseguenze per l’impero romano saranno devastanti.
Approfondimenti della lezione 2
A proposito del banditismo riassumiamo un racconto di Ammiano Marcellino che
sintetizza le imprese dei banditi isaurici dell’età tardo-imperiale e le reazioni dell’esercito
romano contro di essi. Ammiano racconta che quelle popolazioni, colpite dal trattamento
riservato ad alcuni connazionali i quali, fatti prigionieri, furono esposti alle fiere durante
uno spettacolo in un anfiteatro di Iconio, città della Pisidia, sconvolti da quell’indegno
spettacolo, si rivoltarono e, poiché il mare che potevano osservare dall’alto offriva loro
sufficienti prede, si diedero alla pirateria. Ben presto però quelle rotte vennero evitate dai
mercanti che volevano salvaguardare le loro merci e quindi gli isauri rivolsero la loro
attenzione alla zona della Licaonia confinante con l’Isauria dove bloccarono le strade con
numerosi posti di guardia e fecero scempio delle ricchezze dei viandanti.
La guarnigione romana del luogo tentò di opporsi a questo continuo latrocinio ma
vanamente perché quei briganti – così li chiama Ammiano – agivano seguendo le regole
della guerriglia e cioè le loro azioni erano rapidissime, efficaci e, dopo aver depredato,
scappavano precipitosamente rifugiandosi nei loro nascondigli situati in montibus
impeditis et arduis , zone inaccessibili per un esercito regolare. Ciò spiega come mai
bande di irregolari potessero stabilirsi in quei luoghi che, non solo offrivano un sicuro
riparo dalla milizia romana, ma consentivano loro di esercitare un certo potere sulla
scarsa ma presente popolazione. Quelle regioni dell’Anatolia sud orientale, della Cilicia e
delle zone montuose dell’Isauria per la morfologia del terreno risultavano di difficile
accesso e di fatto poco avvertivano il peso dell’autorità statale.
Guida allo studio della lezione 2
Per approfondire il tema del brigantaggio in epoca romana si studino le pagine dedicate a
tale fenomeno nel libro di L. Montecchio, I bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico a
alto medioevo , Roma 2012.
Lezione 3

Povertà nel basso impero


Parlando di povertà non ci si può esimere dal fare una breve e necessaria premessa sulla
differenza fra il concetto contemporaneo ed il concetto antico e tardoantico di povertà,
senza tralasciare il punto di vista cristiano che sconvolgeva la concezione del mondo
pagano. Se per noi moderni la povertà è una situazione economica e sociale
quantificabile, la cultura romana, senza porre dei confini quantificati, distingueva fra una
condizione di sobria autosufficienza, vale a dire la paupertas , ed una situazione di
bisogno, la egestas , che poteva spingere alla dipendenza dalla pietà altrui, e cioè la
mendicitas . In età tardoantica il diffondersi della cultura cristiana impose vieppiù
importanti mutamenti di prospettiva in quest’ambito, sia nel lessico, sia nella concezione
della povertà e dei poveri. Pauperes e paupertas designarono con molta maggiore
frequenza rispetto ai termini concorrenti come egentes egestas , mendici mendicitas ,
l’area dei ceti e degli individui che verranno assistiti dalla chiesa e dai fedeli, che non
necessariamente si trovava in una situazione di acuto bisogno materiale.
A tal proposito va fatta un’ulteriore precisazione. Nella tradizionale politica romana
prevarrà sempre una visione che vede opposti, più semplicemente, la nobilitas alla plebs
o al populus , termini nei quali vanno compresi sia i pauperes , sia la paupertas , che l’
egestas , e la mendicitas ; pertanto si tratta della gran parte della popolazione
dell’impero che pure aveva la possibilità di lavorare e di trovare sostentamento. Il
Carcopino ha calcolato che, in epoca traianea, circa un terzo della popolazione di Roma
viveva nell’indigenza, il resto, invece, pur vivendo dignitosamente, non poteva certo
competere quanto a ricchezza con quella che si potrebbe definire l’alta borghesia. In
effetti il termine pauperes includeva un enorme numero di persone, dal nullatenente
(inclusi i mendicanti), sino agli artigiani e i negozianti.
Insomma con il termine pauperes si indicavano coloro che non facevano parte della
classe dirigente. Un simile iato tra ricchi e poveri si manifestava con maggiore evidenza
nelle province e ancor più nelle campagne, dove pochi erano i proprietari terrieri a fronte
di un’enorme quantità di contadini che dipendevano in tutto e per tutto dalla benevolenza
del dominus , soprattutto nei periodi di carestie o catastrofi naturali. Un secolo e mezzo
dopo, la situazione sarà più o meno simile se non peggiorata e nelle province occidentali
la proporzione tenderà ad allargarsi a favore della povera gente che faticava a
sopravvivere. Si veda in proposito anche l’esaustiva relazione del Whittaker che
stigmatizza quella che era l’idea di povero degli antichi e dei romani in modo particolare,
per i quali la povertà era fatale conseguenza di mancanza di buona volontà e di virtù. In
effetti tale idea era comune nel mondo pagano dove, d’altronde, veniva vista quasi come
punizione divina anche una grave malattia.
La povertà veniva considerata – ne facemmo cenno prima - quasi come una malattia
sociale capace di minare l’equilibrio di una società; ecco spiegato l’impegno con cui lo
stato cercò di arginare in qualche modo la grande miseria, soprattutto nel periodo che va
da Traiano ai primi Antonini, periodo nel quale un notevole liberalismo economico aveva
consentito a molte persone capaci di raggiungere un grado di agiatezza notevole anche
partendo da situazioni miserabili. Ci piace, anche in questo caso, rifarci al pensiero del
Carcopino il quale esaltava l’istituzione di un diritto di usufrutto ereditario in grado di far
fare un salto di qualità a livello economico a tutti coloro «che avevano avuto il coraggio di
dissodare i loro campi».
Lo storico francese elogia quel periodo perché afferma come «le riforme che principi
degni finalmente della loro sovranità avevano imposto a tutti i rami della loro
amministrazione, la restaurazione di una semplice e vigorosa disciplina nell’esercito, la
cura con la quale erano scelti i capi civili e militari, coincidendo con l’ottimo trattamento e
con gli stipendi elevati con i quali venivano retribuiti i loro servigi e impedito il loro
disinteresse, costituivano altrettanti fattori o misure favorevoli al sorgere e svilupparsi di
una media borghesia in nuovi strati sociali», (J. CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma ,
Bari 1967, 88). In buona sostanza, quello fu il periodo in cui uomini di buona volontà
riuscirono ad acquisire ricchezze anche notevoli. Il che aveva rafforzata la convinzione
come il povero era in qualche modo responsabile della propria indigenza.
Il che aveva rafforzata la convinzione come il povero era in qualche modo responsabile
della propria indigenza. Qualche decennio dopo, accanto al venir meno della solidità
dell’istituzione familiare, svaniscono le certezze che avevano fatto di Roma la capitale del
mondo occidentale e l’impero dovette affrontare una cristallizzazione delle classi sociali,
soprattutto nell’ Urbs , con la conseguente diffusa sfiducia nella possibilità dell’individuo
di essere faber fortunae suae . Venuta meno la funzione aggregatrice della famiglia,
svaniti in gran parte gli antichi valori su cui la società romana si era retta fin dalle sue
origini, fu fatale un notevole aumento della criminalità spesso unico sbocco della lotta
dell’uomo per la sopravvivenza. Lo stretto legame tra miseria estrema e criminalità non
sfuggiva certo alla classe dirigente che, in modi diversi, cercherà nell’eterogenee regioni
dell’impero di intervenire sui due fronti, opponendosi alla criminalità cercando però, al
contempo, di offrire un qualche sollievo alle situazioni di più grave sofferenza.
Noi ora esamineremo gli atteggiamenti presenti nella società, nello stato e nella chiesa,
che con i primi sono naturalmente in relazione dialettica. La povertà è considerata una
delle tante cause dei reati contro la proprietà, quali il furto e la rapina, ma in generale
non una causa necessaria, che esima dalla responsabilità individuale. Quintiliano nella
Institutio Oratoria aveva affermato che, quando nei processi per furto la difesa
argomenta spiegando che l’azione criminosa è stata motivata e perpetrata spinti dalla
paupertas (non dunque dall’estrema indigenza), l’accusa poteva prontamente
controbattere con l’argomento al quale si presupponeva che i giudici fossero
particolarmente sensibili, che personaggi della tradizione romana, come Fabrizio, pur
essendo pauperes, non per questo si erano dimostrati inclini al furto.
Tuttavia si iniziò a sentire pressante l’esigenza di capire le cause che riducevano un uomo
a commettere atti così odiosi e destabilizzanti per la comunità tutta. E allo stesso tempo
non si poteva certo condannare il legislatore che tentava con la sua opera di porre un
freno a reati che fatichiamo noi stessi a definire minori, proprio perché sono compiuti
contro il frutto del lavoro umano. Nonostante, anche in ambito pagano, ci fossero
persone disposte a vedere con occhio meno intransigente il ladro, nondimeno la
repressione penale del furto inevitabilmente si inasprì almeno a partire dalla
giurisprudenza di età Severiana. Vennero infatti identificate una serie di fattispecie di
furto contro le quali si sarebbe proceduto esclusivamente per via penale e alle quali
veniva irrogata, nei casi più gravi, la pena di morte o comunque la condanna ai lavori
forzati, temporanea o vitalizia.
La guarnigione romana del luogo tentò di opporsi a questo continuo latrocinio ma
vanamente perché quei briganti – così li chiama Ammiano – agivano seguendo le regole
della guerriglia e cioè le loro azioni erano rapidissime, efficaci e, dopo aver depredato,
scappavano precipitosamente rifugiandosi nei loro nascondigli situati in montibus
impeditis et arduis , zone inaccessibili per un esercito regolare. Ciò spiega come mai
bande di irregolari potessero stabilirsi in quei luoghi che, non solo offrivano un sicuro
riparo dalla milizia romana, ma consentivano loro di esercitare un certo potere sulla
scarsa ma presente popolazione. Quelle regioni dell’Anatolia sud orientale, della Cilicia e
delle zone montuose dell’Isauria per la morfologia del terreno risultavano di difficile
accesso e di fatto poco avvertivano il peso dell’autorità statale.
Guida allo studio della lezione 3
Per approfondire lo studio sulla società romana della tarda antichità si legga di
J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma , Bari 1967. In particolare si vedano le
pagine inerenti la povertà.
Lezione 4

Le classi agiate
Verso il secolo III mutò in minima parte la composizione etnica dell’ordo senatorius. Il
numero dei senatori di origine provinciale continuava ad aumentare mentre diminuiva
quello degli Italici. Tra i provinciali, poi, crescevano esponenzialmente i rappresentanti
dell’aristocrazia africana e delle province orientali. Ad ogni modo ancora nel secolo III
almeno un terzo dei senatori era di origine italica. La ricchezza e l’alto prestigio sociale
della classe senatoria rimasero intatti, nonostante le difficoltà che attraversò l’impero tra i
secolo III e V. Come nei secoli passati - e come sarebbe stato nei secoli a venire- la
principale fonte di ricchezza delle famiglie senatorie era la grande proprietà terriera. La
Historia Augusta narra come i Gordiani, per esempio, avessero nelle province un numero
di proprietà non paragonabili a quelle di nessun altro. Dal momento in cui l’economia
agraria venne colpita anch’essa dalla crisi economica che gravò sull’Impero tutto, le basi
della ricchezza dei senatori non solo non vennero minimamente scosse, ma anzi vennero
vieppiù accresciute.
Come sempre avviene in questi casi, i piccoli e medi proprietari, duramente colpiti dalle
conseguenze delle guerre, da investimenti non fruttuosi e da catastrofi naturali furono
costretti a cedere le loro terre ai grandi latifondisti. Dal punto di vista meramente politico
l’importanza del senato venne sempre meno a partire dalla morte di Commodo. Rari
furono i casi in cui il senato poté assumere iniziative politiche, come nel caso della
nomina a imperatore di Pertinace, o come quando esso dichiarò guerra a Massimino il
Trace proponendo quali candidati al trono Pupieno e Balbino, e ancora nel 275 quando,
dopo l’improvvisa morte di Aureliano, fu scelto un «imperatore del senato» nella persona
di Tacito. Ma a parte queste poche eccezioni i senatori vennero via via rimossi dalle loro
cariche più importanti.
Ancora nel secolo III molti erano i cavalieri che dovevano l’appartenenza all’ ordo
equester proprio al tanto vituperato patrimonio minimo richiesto, garantito dalla proprietà
di terre. In buona sostanza in uno dei secoli più critici della storia romana si ebbe una
sorta di bipartizione dell’ordine equestre che vide acuire la differenza tra quei cavalieri
impegnati politicamente o militarmente da quelli che diremmo noi ordinari. Mentre un
numero numericamente ristretto di cavalieri si sviluppò nel più potente strato sociale
superiore dello stato romano, i cavalieri ordinari condivisero la sorte degli ordini dei
decurioni e, con questi, precipitarono al livello di uno stato sociale che, seppur era
privilegiato e ancora relativamente benestante, spesso veniva oppresso dallo stato fino
all’estremo.
Queste avvisaglie di ciò che sarebbe avvenuto due secoli dopo fu inquietante per chi
abitava le zone interessate ma anche per Roma stessa. Esse certificavano che l’impero
non fosse più sicuro. D’altronde lo stesso esercito romano si stava rivelando, per i criteri
di reclutamento adottati, uno dei principali veicoli di affluenza di barbari nel mondo
romano. Inoltre, come dicemmo, esso stesso era la causa principale di tale instabilità. Era
necessario che la pars Occidentis trovasse una persona capace di ridestare nuovi
entusiasmi e, in ultima analisi, capace di ribaltare una situazione che si stava facendo
critica. Se le classi rurali meno agiate iniziarono a sentire i morsi della fame e a temere di
non poter più sfamare i propri figli, i domini stavano vedendo diminuire le rendite delle
proprie villae , alcune delle quali erano addirittura in rovina. Erano quei signori di
campagna che non potevano accettare tassazioni così pesanti per non avere indietro
nemmeno la difesa dei propri possessi.
Approfondimenti sulla lezione 4

Le classi agiate
Tra i decurioni vi erano persone particolarmente benestanti, ma erano una minima parte
di essi. Dal momento che molti decurioni traevano profitto non solo dalla proprietà
terriera ma anche dall’artigianato e dal commercio, il declino di quei settori produttivi fu
per loro un colpo particolarmente duro. Il genere di decurione più diffuso era il
proprietario terriero, inserito nel territorio cittadino. Molti di essi avevano preferito ritirarsi
dalle città a cavallo del secolo III, al punto che sorsero molte villae soprattutto nelle
province settentrionali dell’impero. Successivamente alle frequenti invasioni barbariche
che hanno caratterizzato quel periodo, la mancanza di forza lavoro e le devastazioni
produssero effetti gravi sulla produzione agricola delle proprietà municipali. Nel Norico,
ad esempio, le ville che vennero distrutte intorno alla metà del secolo III non furono
ricostruite. In Gallia, inoltre, nella seconda metà del medesimo secolo, ampie porzioni di
terra rimasero incolte.
Il peso crescente dello stato fu peggiore per i decurioni che per i grandi proprietari
terrieri dell’ordine senatorio e dei gruppi equestri dirigenti: costoro, per motivi di
opportunità polita, godevano di ampi privilegi economici ed erano trattati con molto
riguardo dagli imperatori. La classe dei decurioni, a partire dall’impero di Settimio Severo,
si vide costretta ad assumere oneri notevoli, un’assunzione non più dettata da libera
scelta, bensì da decisioni dello stato nella persona dei governatori delle province, secondo
regole stabilite. Era pertanto la fine dell’iniziativa privata, che nella prima età imperiale
aveva giocato un ruolo non secondario nello sviluppo economico delle città. Adesso i
doveri non potevano essere rifiutati e chi avesse avuto la ricchezza minima necessaria per
assumersi tali oneri sarebbe entrato a far parte della classe dei decurioni. Addirittura il
rango di decurione fu elevato a rango ereditario in misura crescente rispetto al passato: il
figlio di un decurione doveva essere inquadrato per forza in tale ordo.
Guida allo studio
Per approfondire lo studio sulla società romana della tarda antichità rimando sempre al
testo fondamentale (e ancora attuale) di J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma , Bari
1967. In particolare si vedano le pagine inerenti la povertà.
Lezione 5

Nascita dell’imperium Galliarum


Le Gallie, nella seconda metà del secolo III, da tempo erano in subbuglio e anelavano ad
un cambiamento radicale di una situazione ormai tormentata. Non si trattava però
soltanto di quelle province definitivamente conquistate da Cesare, ma anche della
Britannia e della Hispania che erano state conquistate in periodi e modalità differenti, ma
che avevano punti di contatto tra loro. La Hispania e la Britannia durante il secolo III
erano divenute terre meno centrali rispetto alla Germania, all’Italia e all’Oriente. In realtà
la Britannia mai era stata centrale per quanto concerne la politica imperiale, ma, almeno
sino a Settimio Severo, aveva svolto un ruolo di un qualche peso.
Le minacce per l’impero avevano fatto accrescere l’attenzione verso un Limes
che appariva fragile, non tanto per la pressione barbara, bensì per le enormi
incertezze politiche di quel secolo. D’altronde, almeno per quanto concerne la
Britannia, essa era continuamente minacciata da «montanari scozzesi, Picti e
Scoti , oltre che dai Sassoni, che si erano installati nel Nord della foce del Reno
e che avevano appreso molto bene l’arte della navigazione per poter condurre
azioni di pirateria contro la grande isola». I prodromi del cambiamento, cui
testé facemmo cenno, vanno indagati nel secolo e mezzo che precede e
dunque a partire dall’epopea dell’imperium Galliarum
Come facemmo cenno, dopo un periodo di grave instabilità politica in tutta la
Pars occidentis dell’impero, Postumo venne riconosciuto, imperatore in Gallia,
Hispania e Britannia. Tale riconoscimento fu fatto in tempi rapidi; di qui si
evince l’urgenza che venissero approvati determinati provvedimenti nel
tentativo di risolvere una situazione estremamente critica per quelle province. Il
generale di Gallieno riuscì con ogni evidenza a far leva anche sui «mai cessati
sentimenti nazionali indigeni», riuscendo a costituire un governo secessionista
che aveva come fulcro le città di Treviri e Colonia. Non si può del tutto
escludere che l’ imperium Galliarum , almeno in un primo momento, possa aver
avuto l’avallo di Roma. Le fonti tacciono in proposito.
Approfondimenti sulla lezione 5
In proposito non si può soprassedere sul fatto che il neo imperatore avesse
sotto di sé almeno 10 legioni. Il che avrebbe reso per lo meno ardua una
‘riconquista’ delle province che si erano allontanate dall’Urbe. Ad ogni modo il
nuovo imperium non era particolarmente sicuro se è vero che Postumo regnava
e dominava solo dove soggiornava (il che diverrà nel corso del medioevo
prerogativa dei sovrani germanici) ma poi il vero potere restava ai maggiorenti
locali o, comunque, ad altri comandanti militari.
Va poi osservato come la nuova compagine imperiale non si discostasse
dal modello politico e culturale romano. E’ plausibile che i maggiorenti
di quelle province, plaudissero la salita al potere di un generale che
aveva dimostrato di saper fronteggiare con successo il nemico, sia esso
forestiero, sia esso interno allo stato romano. Avranno pensato che il
neo imperatore avrebbe potuto portare fuori da un guado assai
pericoloso parte dell’impero, garantendo stabilità politica con
conseguente miglioramento della situazione economica.
C’è da ricordare come Roma apparisse loro del tutto avulsa da un contesto,
ormai difficile da gestire, e, forse, inadatta a gestirlo. Essi non vedevano,
inoltre, di buon occhio che il frutto delle imposte pagate, fosse utilizzato quasi
interamente per l’Urbe e si lamentavano altresì dell’esosità dell’erario romano.
Essi volevano ufficiali in grado di risolvere il problema, assai grave, dei Picti e
degli Scoti che portavano una costante pressione lungo il fronte settentrionale
della Britannia; volevano un comandante in grado di proteggere le ricche
campagne galliche dalle incursioni e devastazioni germaniche.
Guida allo studio della lezione 5
Sull’imperium Galliarum e tutte le sue vicende riporto allo studio di L.
Montecchio, I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico e alto
medioevo, Roma 2012.
Si consideri anche L. Montecchio (a cura di), Tensioni sociali nella tarda
antichità nelle province occidentali dell’impero romano, Perugia 2015.
Lezione 6

Ancora sull’imperium galliarum


Ricordiamo che le province dell’impero romano non avevano tutte il medesimo status e
questo, in un momento di crisi, come senz’altro si visse nel corso dell’ultimo scorcio del
secolo III, fu uno dei motivi che indussero alcune di esse ad abbandonare l’Urbe.
Le Gallie, province ricche, avevano da subito goduto di uno status non comune. Adesso
non era più così. L’usurpatore Postumo aveva, con la sua azione, garantito un ritorno ad
un passato senz’altro più ricco e più sicuro, rispetto a un presente incerto. Già presso la
corte di Gallieno, il generale Postumo, esempio tipico di valente comandante militare che
non proveniva dai ranghi senatori, veniva tenuto in grande considerazione
Egli, agli occhi dei gallo romani, aveva dimostrato, negli anni immediatamente precedenti
alla sua elevazione al trono, di saper reggere il limes germanico, adesso troppo spesso
minacciato da tribù germaniche. La Historia Augusta , a questo riguardo, può confondere
le acque perché cita Postumo quale dux ripae o dux limitis . Simili titoli sono, come
ricorda acutamente Drinkwater, propri del secolo IV e non già di quello precedente.
Nondimeno, pur con la dovuta prudenza, si evince che egli avesse ricoperto con
successo, essendo Gallieno imperatore, un incarico di alta responsabilità e desse certezze
laddove, per lungo tempo, erano svanite. Sempre Drinkwater osserva come quel
comandante accettò i desiderata delle truppe e quindi di prendere la porpora imperiale,
avendo giudicato che «la frontiera orientale sarebbe stata meno danneggiata da una
piccola guerra civile» che avrebbe permesso di liquidare il ‘pericolo’ di Salonino, figlio di
Gallieno, e del prefetto del pretorio, Silvano.
Solonino e Silvano infatti avrebbero tramato perché il bottino conquistato dai militari di
Postumo, capaci di debellare alcuni Alemanni, che si erano spinti al di là della riva sinistra
del Reno, andasse nelle loro mani. Evidentemente l’inesperto figlio di Gallieno, mal
consigliato dal prefetto del pretorio, aveva sottovalutato la reazione dei fedelissimi di
Postumo. Di qui la rivolta. Essa fu pertanto un atto dovuto verso i propri legionari che si
erano visti defraudati di qualcosa conquistato sul campo. La scintilla che diede inizio
all’avventura dell’ imperium Galliarum scaturì, pertanto, proprio dall’esempio concreto di
ingiustizia che quei militari credevano provenire direttamente da Roma. Insomma nella
Historia Augusta si cita esplicitamente l’imperatore in carica e i suoi ‘vizi’ come causa
della separazione dall’Urbe.
Una volta preso il potere, Postumo governò con saggezza tanto che mai tentò di
minacciare l’Italia. Era pienamente consapevole del suo compito di risollevare la Gallia da
decenni di disastri. Inoltre, appena presa la porpora, dovette affrontare i pirati che
minacciavano le coste settentrionali della Gallia. Se le parole della Historia Augusta
possono suscitare alcune perplessità, quegli stessi concetti, approfonditi da Orosio sono
senz’altro da prendere nella dovuta considerazione. Ma di ciò ce ne occuperemo nella
lezione seguente dove, in modo precipuo, osserveremo cosa i contemporanei pensassero
di Postumo, l’usurpatore.
Approfondimenti sulla lezione 6
La fondazione dell’imperium Galliarum, o meglio, la separazione da Roma di
alcune province, Gallie, Britannia e Hispania, segnarono una frattura con il
recente passato. Essa fu un rifiuto del disordine di quel periodo e un tentativo
di tornare al tempo che fu, quando l’Urbe dominava e, ci si illudeva, era più
giusta con i suoi cives. Di seguito una carta dei territori dell’imperium
Galliarum, alcune monete coniate da Postumo e uno dei passi che univano le
Gallie all’Italia.
Guida allo studio della lezione 6
Sull’imperium Galliarum e tutte le sue vicende riporto allo studio di L.
Montecchio, I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico e alto
medioevo, Roma 2012.
Si consideri anche L. Montecchio (a cura di), Tensioni sociali nella tarda
antichità nelle province occidentali dell’impero romano, Perugia 2015.
Lezione 7

Postumo
Una volta preso il potere, Postumo governò con saggezza tanto che mai tentò di
minacciare l’Italia. Era pienamente consapevole del suo compito di risollevare la Gallia da
decenni di disastri. Inoltre, appena presa la porpora, dovette affrontare i pirati che
minacciavano le coste settentrionali della Gallia. Se le parole della Historia Augusta
possono suscitare alcune perplessità, quegli stessi concetti, approfonditi da Orosio sono
senz’altro da prendere nella dovuta considerazione. La pristina facies cui fa riferimento
Orosio è certamente un passato idealizzato: l’idea della possibilità di una vita migliore,
almeno per una parte della popolazione, cioè per i ceti medio alti, esisteva.
Per il cronista che scrive due secoli dopo i fatti di cui parla, sembrava invero
lontano quel passato in cui Roma aveva dimostrato di poter amministrare con
maggiore equità le province. Nel secolo V il solo tentativo di riproporre lo status
del passato, poteva senz’altro apparire velleitario. Era il desiderio di una
persona che, immersa in una realtà radicalmente diversa, ricordava tempi
lontani ( e per questo motivo ‘migliori’) che mai aveva vissuto. Negli anni in cui
Orosio scrive, però, il nome e la leggenda di Roma, impressionavano ancora.
Quella città, non più sede del potere imperiale, era pur sempre caput mundi ,
cioè il riferimento per chi ambiva a quella particolare civiltà.
Orosio si sentiva profondamente civis romanus. Non aveva dubbio alcuno in
proposito. Non si sentiva un provinciale. Egli, dunque, aveva e viveva nel mito
di Roma. Nella sua mente, pertanto, Postumo era una sorta di Giuliano ante
litteram . Forse per lui una fantasticheria,ma una realtà per i gallo romani coevi
al generale. L’usurpazione venne vista dal ceto medio alto delle città e dal ceto
alto delle campagne come una fortuna, mentre non fu affatto considerata,
come è naturale, da chi non aveva voce in capitolo nella vita della res publica .
Eutropio, dunque, ha buon gioco nell’osservare come quel generale di
umilissime origini riuscì a donare nuovo vigore alle Gallie.
Ad ogni buon conto un sostanziale miglioramento delle condizioni sotto
Postumo, al contrario di ciò che era avvenuto sotto Roma, fu interpretato in
modo significativo dai gallo romani se, dopo due secoli, quando ormai le
vicende dell’ imperium galliarum erano diventate storia, Orosio le ricorda con
giudizi netti e sostanzialmente positivi. Già stando al racconto di Cesare si può
capire come quella popolazione non fosse troppo avvezza ai sacrifici e adesso
Roma non garantiva più né benessere né la sua stessa sopravvivenza. Postumo
regnò pochi anni ma la sua azione rimase nelle menti dei suoi sudditi. Con lui
essi avevano trovato qualcuno in grado di risollevare le sorti di province
depresse economicamente e moralmente al punto che quel periodo non venne
dimenticato. Egli, inoltre, anche per la sua debolezza intrinseca di usurpatore di
solo una parte dell’impero, aveva potuto garantire quella sostanziale libertà cui
i nobiles aspiravano.
Senza incorrere in idealizzazioni fallaci e cioè senza immaginare i gallo romani,
gli ispano romani o i britanno romani protesi verso gli ideali romani, si deve, in
modo prosaico, considerare certamente una loro maggiore serenità dovuta alla
sicurezza di cui potevano godere; inoltre essi videro il loro sforzo fiscale meglio
indirizzato e godettero del potere maggiore delle classi agiate. Come
suggerisce il Lewuillon «la societé gauloise doit être comparée plutôt avec une
société médiévale, qu’avec une société antique classique». I potentati locali
infatti erano determinanti per il destino delle regioni sotto la loro giurisdizione.
Questo contava e questo perseguivano.
Approfondimenti sulla lezione 7
La figura di Postumo può risultare affascinante per come si pose e per come
tentò di ricostituire, lontano da Roma, una parvenza di imperium. Fu anche un
imperium personale, esattamente come quello dei trenta tiranni, ma di quel
periodo godettero i benefici i cives romani, non solo lui. Riuscì nell’impresa di
costituire un’entità imperiale scissa dal vero impero per l’afflato che aveva
dimostrato e dimostrava nei confronti dei sudditi. Ed essi gliene furono grati.
Guida allo studio della lezione 7
Su Postumo e tutte le sue vicende riporto allo studio di L.
Montecchio, I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico e
alto medioevo, Roma 2012.
Si consideri anche L. Montecchio (a cura di), Tensioni
sociali nella tarda antichità nelle province occidentali
dell’impero romano, Perugia 2015.
Lezione 8

Proculo e Bonoso
All’epoca di Probo (276-282) sembrò si potessero seppellire gli eventi infausti degli anni
precedenti. Quand’ecco, forse non totalmente inaspettata, la rivolta di Proculo e Bonoso.
Stando alla Historia Augusta ma anche ad Aurelio Vittore e ad Eutropio, Proculo e Bonoso
furono spinti alla ribellione contro Probo dai cittadini di Lione, esasperati dalle scorrerie
germaniche e dalla conseguente rovina economica. Il tutto mentre l’imperatore sembrava
disinteressarsi della loro sorte. In realtà – è noto – Probo doveva destreggiarsi su più
fronti. Approfittando delle assenze imperiali i due ribelli, che avevano una non
disprezzabile esperienza militare, addestrarono i loro contadini e chiunque fosse disposto
a lottare per la loro causa (presumibilmente anche briganti e disperati di ogni genere),
tanto da poter affrontare un esercito imperiale se e quando si fosse presentata
l’occasione.
Ci sembra opportuno osservare come l’ Historia Augusta parli di Proculo. Per tale fonte,
mai completamente attendibile, Proculo era nativo di Albingauni (l’attuale Albenga), nelle
Alpi Marittime. Era un nobile nella sua patria, ma i suoi antenati erano stati briganti. Parte
della sua ricchezza, bestiame e schiavi, era pertanto frutto dei furti perpetrati dai suoi avi.
Quando fu proclamato imperatore poteva contare su un esercito personale di duemila
schiavi. Sarebbe stata sua moglie a spingerlo all’ atto di follia di ribellarsi al legittimo
imperatore. A quell’uomo, sebbene avvezzo al brigantaggio, venivano comunque
riconosciute doti militari che lo indussero a compiere anche gesta coraggiose.
Di Bonoso la Historia Augusta afferma fosse britanno di origine, sebbene avesse sede in
Hispania e di madre Gallica. Di discreta cultura (suo padre si narra fosse stato un retore e
anche la madre aveva una non disprezzabile cultura), pare abbia avuto esperienze militari
tali da bene integrarsi con Proculo. Una volta scoppiata la rivolta di Proculo e Bonoso,
Probo, seppur con qualche difficoltà, dovette intervenire per sedarla ma questa rivolta
può definirsi come un prodromo di ciò che accadde pochi anni dopo. Su Proculo e Bonoso
Orosio è particolarmente laconico e non offre alcuno spunto: Combatté poi due guerre
civili ... una in Oriente ... un’altra nella quale vinse in grandi battaglie Procolo e Bonoso
ad Agrippina e li uccise .
Pur non considerando totalmente affidabili la Historia Augusta, Eutropio e Aurelio Vittore,
si può dedurre che i due rivoltosi impegnarono non poco Probo se questi fu costretto a
magnis proeliis per aver ragione dei ribelli. D’altronde non ne siamo stupiti. Se le
premesse di tale vicenda sono che i due avevano una buona esperienza militare e un così
grande numero di schiavi, è inevitabile concludere che le legioni romane dovessero aver
faticato non poco per venire a capo dei sediziosi. La loro rivolta, a nostro giudizio, può
equipararsi alle sedizioni dei bacaudae , di cui subito tratteremo, perché ha tutte le loro
caratteristiche. Signori di campagna con milizie proprie, guarda caso dediti al
brigantaggio (senza che si specifichi una motivazione), desiderosi di avere una qualche
indipendenza dallo stato centrale. Essi, anche comandanti militari, furono capaci di
resistere a soldati di professione perché impiegarono le proprie milizie in zone a loro
consone come quelle delle campagne ben conosciute.
Approfondimenti sulla lezione 8
Nello studiare le due figure di Proculo e Bonoso si deve osservare quanto furono lapidarie
le parole di Orosio sulla Historiarum adversos paganos libri VII . Egli, lo leggemmo,
scrisse: Combatté (Probo) poi due guerre civili ... una in Oriente ... un’altra nella quale
vinse in grandi battaglie Procolo e Bonoso ad Agrippina e li uccise . Eppure qualcosa in
più si può evincere. Contro i due rivoltosi Probo fu costretto ad ingaggiare ‘grandi
battaglie’. Non si trattò, quindi, di semplici scaramucce. L’imperatore in persona dovette
intervenire e sedare la rivolta. Incidentalmente Orosio che, lo vedemmo, è un fiero
cittadino romano, è costretto a riconoscere la grandezza di quella rivolta e la sua
pericolosità.
Guida allo studio della lezione 8
Su Proculo e Bonoso e tutte le loro vicende riporto allo studio di L. Montecchio, I
bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico e alto medioevo, Roma 2012.
Si consideri anche L. Montecchio (a cura di), Tensioni sociali nella tarda antichità nelle
province occidentali dell’impero romano, Perugia 2015.
Lezione 9

Aureliano
Nel 273, dopo aver pacificato le province orientali, l'imperatore romano Aureliano iniziò la
sua campagna contro l’impero delle Gallie, allo scopo di riportare le province
secessioniste all'interno dell'impero. Rimaneva in effetti quello che sarebbe stato l’ultimo
imperatore dell’imperium Galliarum, ancora in auge. Tetrico si scontrò contro Aureliano
nella Battaglia di Chalons (febbraio o marzo 274), nei pressi di Châlons-sur-Marne, nella
quale fu sconfitto e catturato assieme al figlio. Dopo essere stato pubblicamente esposto,
assieme a Zenobia (la combattiva regina di Palmira che era riuscita, seppur in modo
effimero, a conquistare persino la ricchissima provincia egiziana prima che i suoi generali
venissero travolti dalle armate di Aureliano), nel trionfo celebrato da Aureliano a Roma,
sia Tetrico che il figlio furono risparmiati; il primo, anzi, mantenne il proprio rango,
ricevendo il titolo di corrector Lucaniae et Bruttiorum ; morirà alcuni anni dopo.
Secondo alcune fonti, Tetrico avrebbe contattato Aureliano prima della battaglia decisiva,
citando Virgilio e promettendogli di arrendersi in cambio della vita; l'esercito di Tetrico,
abbandonato dal proprio comandante, pur lottando eroicamente, fu sconfitto, ma gli
storici moderni ritengono che questa sia la versione della propaganda di Aureliano, in
realtà Tetrico non avrebbe tradito i propri uomini e la sua nomina a corrector sarebbe
piuttosto dovuta alla necessità di Aureliano di disporre di amministratori capaci, oltre che
alla volontà di ingraziarsi l'aristocrazia senatoriale mostrandosi clemente con un suo
rappresentante.
Aureliano, originario delle regioni danubiane a lungo terra di reclutamento militare delle
legioni dell’impero, fu probabilmente arruolato intorno ai venti anni. Nel 242 aveva preso
parte al comando di una coorte ai combattimenti contro i Sarmati che avevano invaso
l’Illiria e qualche anno dopo, tribuno della cosiddetta Legio VI Gallicana , combatté i
Franchi a Magonza. Il nome di quella legione è solo indicato dalla Historia Augusta : si
trattava verosimilmente di una legione proveniente dalla Britannia. Di Aureliano si parla
ancora nel 256, quando viene raggiunto da Gallieno in Gallia. Un anno o due dopo,
avrebbe assunto, in assenza del comandante Ulpio Crinito, la responsabilità della difesa
del Basso Danubio, e sconfisse i Goti invasori.
Approfondimenti sulla lezione 9
L’imperatore Aureliano, colui che riconquistò la parte chiamata imperium Galliarum, fu
anche la persone che ritenne opportuno la costruzione di una cinta muraria intorno alle
città italiche fra cui Roma. Infatti, anche a seguito dei disordini del secolo III, iniziavano a
penetrare persino nella penisola italiana orde di barbari pronte a devastare le ricche città
italiche. Roma non si sarebbe certo potuta permettere di venire sottoposta ad un assedio
perché da tempo immemore non aveva mura.
Guida allo studio della lezione 9
Per uno sguardo di insieme su Aureliano riportiamo sempre a L. MONTECCHIO,
I bacaudae .Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo , Roma 2012. Si
studino le pp. 79-83.
Lezione 10

I bacaudae
Tra il 282 e il 285 si racconta ci siano state le prime rivolte bacaudiche. Certamente
scoppiarono in zone rurali. Alcuni dubbi sono sollevati dall’origine del nome di tali
rivoltosi. Il nome bacauda, infatti, potrebbe essere di origine celitca ma, a tal proposito,
numerosi studiosi hanno indicato un’origine celtica di quel nome, altri, invece,
propendono per un’origine marcatamente gallica e uno solo è convinto che abbia
un’origine gotica. Quel che appare certo è che, stando alle fonti, i bacaudae fecero
scoppiare alcune ribellioni che videro protagonisti rusticani , nobiles , latrones e servi .
Come si evince dai troppi sostantivi indicanti tali ribelli parrebbe che coloro che sono stati
loro contemporanei, o che comunque abbiano vissuto in tempi più vicini ai movimenti
bacaudici, non siano stati in grado di definire con una qualche precisione né l’origine, né
le finalità dei bacaudae e nemmeno quale ceto sociale svolse un ruolo preminente in
quelle occasioni.
Troppe classi sociali insieme. Troppa confusione nel cercare di descrivere personaggi che
risultano a dir poco misteriosi. Troppi, d’altronde, i motivi che spinsero costoro ad
un’azione militare contro Roma. I briganti infatti a che pro avrebbero lottato e si
sarebbero dovuti porre contro uno stato che allora mostrava difficoltà, soprattutto nel
mantenere serene le zone rurali? Rivolte servili invece già vi erano state ed erano tutte
state stroncate nel sangue. Nessuna delle precedenti rivolte, fossero di gladiatori, o
comunque di schiavi, si era mai posto come obiettivo quello di abbattere la res publica
romana. Semmai, soprattutto per quanto concerne le prime due ribellioni servili (135-132
a.C.; 102-98 a.C.) si trattò di un rifiuto a condizioni disumane o, per quanto concerne la
rivolta di Spartaco, essa fu un tentativo di fuga per andare a rifugiarsi oltre le Alpi.
Questo il piano di Spartaco che poi, come è noto, fu costretto ad affrontare legioni
repubblicane ben organizzate per trovarvi la morte. Di quei fatti si ricorda una certa
disorganizzazione, nessun pensiero di buttar giù la res publica e certamente nessuna idea
di ‘creare’ una nuova entità politica.
Per Eutropio e Orosio sono semplici rusticani , contadini quindi; per Aurelio Vittore
briganti; la Chronica gallica parla, appunto, di schiavi; infine nei Panegyrici Latini si parla
di come‘allorché contadini ignari della tecnica bellica vollero vestire abiti militari, quando
colui che lavora l’aratro imitò il fante, il pastore il cavaliere, quando il campagnolo,
devastatore dei campi coltivati dove lavorava, imitò il nemico barbaro’. Certo è che questi
misteriosi bacaudae avessero colpito la fantasia di cristiani, pagani, uomini di chiesa o
uomini di governo. Appare chiaro che gli ignari agricolae fossero guidati da qualcuno
avvezzo alle cose militari e non da sempliciotti che protestavano per l’iniquità della
tassazione.
Ecco che prima che si potesse sedare la rivolta passò diverso tempo. Tali ingaggi
repentini e fulminee ritirate sono da Eutropio considerate levia . Il che permise ai rivoltosi
di resistere per mesi mettendo a dura prova la pazienza imperiale e anzi esasperando chi
avrebbe dovuto sconfiggerli rapidamente. Se invece fossero stati così incauti da
affrontare le legioni di Roma in una battaglia campale, sarebbero stati sconfitti e spazzati
via in una sola battaglia. Massimiano, da parte sua, costretto per alcuni mesi dai
bacaudae che agivano con pazienza, accortezza ed estrema attenzione, cercò a sua volta
di snervare l’avversario per poi affondare il colpo. Il nuovo cesare si dimostrò
comandante davvero capace. Egli infatti agì seguendo la massima prudenza per evitare
trappole simili a quella in cui incappò Varo nella foresta di Teutoburgo. La situazione era
certamente diversa ma affrontare la guerriglia impone azioni ben ponderate, frutto di
attento studio della regione. Va inoltre osservato che se le fonti sorvolano sulla vittoria
che Massimiano infine ottenne contro la bacauda, ciò fu dovuto al momento difficile in cui
versava l’impero.
Approfondimenti sulla lezione 10
Gli autori coevi alle guerre bacaudiche lasciano intuire uno scenario molto particolare.
Aurelio Vittore, ad esempio, si limita a dire che la vittoria fu rapida (considerando che nel
giugno del 286 il nuovo cesare si trovava a Mogontiacum ), si deve supporre che
contemporaneamente abbia condotto operazioni militari sia sul fronte bacaudico sia su
quello germanico. Ad ogni buon conto sono trascorsi lunghi mesi durante i quali quei
rusticani hanno tenuto in scacco le armate imperiali. Appare davvero paradossale, per
non dire ingenuo, immaginare contadini vaganti per le colline dell’Armorica o di altre zone
delle Gallie, quasi come moderni partigiani, colpire e poi rintanarsi in attesa di tempi
migliori.
Da Orosio (vissuto molto dopo le vicende bacaudiche del secolo III) abbiamo la cronaca,
partigiana, della campagna militare di Massimiano, inviato contro i rivoltosi. Per il
presbitero i Romani avrebbero ottenuto un agevole successo contro quelle schiere di
bacaudae ritenute malamente organizzate e peggio ancora armate. In realtà i rivoltosi
che, nella loro disperazione, erano pronti anche ad assediare città come Autun,
resistettero strenuamente all’esercito romano per mesi, il che significava che Amando e
Eliano, i due capi bacaudici di cui si ha notizia, erano in qualche modo riusciti a
disciplinare un’accozzaglia di uomini affamati e disperati in un vero e proprio esercito.
Guida allo studio della lezione 10
Per approfondire il tema dei bacaudae si tenga presenta il testo di L.
MONTECCHIO, I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico a alto
medioevo , Roma 2012. In particolare si studino le pagine 131-142.
Lezione 11

Ancora sui bacaudae


Nella lezione precedente facemmo cenno a quanto colpisca lo storico che le legioni
romane faticarono non poco a frenare le rivolte della bacauda. Se i bacaudae possono
fermare o evitare abilmente le legioni imperiali devono essere stati addestrati. Tale
addestramento ci induce a pensare che Amando ed Eliano, avessero una sicura
preparazione militare e sapessero anche ben trasmettere ciò che avevano appreso.
Insomma erano dei veri e propri comandanti che sapevano come gestire le proprie forze.
Erano personaggi che probabilmente avevano combattuto nelle legioni romane e
conoscevano i limiti e i pregi dell’esercito che sarebbero andati ad affrontare. Ecco
dunque che si torna, con il pensiero, alle vicende di Proculo e Bonoso. Alcuni Romani cioè
si scagliarono con violenza contro la capitale dell’impero.
A nostro giudizio erano certamente appoggiati dai nobiles rurali perché, in caso contrario,
non si sarebbero potuti muovere agilmente e senza apparenti danni, in territorio a loro
ostile o loro indifferente. Non si tratta dunque di una mera ipotesi quella di ‘bande’
bacaudiche guidate dalla nobiltà di campagna delle Gallie. Se gli autori che sono le nostre
fonti tacciono la cosa fa gioco al nostro pensiero. In tempi perigliosi affermare che buona
parte dei domini preferiva mantenere e accrescere, quando possibile, il proprio potere e
sfruttarlo contro un impero in gravi difficoltà non sarebbe stato ben accetto. Quegli autori
non poterono tacere sull’ imperium Galliarum ma adesso possono evitare di approfondire
la quaestio bacaudica per non dover indagare sulle cause della stessa; cause che vanno
ricercate, probabilmente nella struttura stessa di un impero enorme.
Roma non era più in grado di mettere sui campi di battaglia di Oriente e Occidente unità
militari simili a quelle che avevano dominato il Mediterraneo. Ormai «i migliori tra i
giovani cercavano di sfuggire a un mestiere sempre più pericoloso e sempre meno
pagato». Se il reclutamento è forzato e se, quindi, «i figli dei militari, giovani reclutati
vicino ai luoghi dove sorgevano gli accampamenti ..., fossero più o meno obbligati a
seguire il mestiere paterno» è evidente che non si perseguiva la ricerca del giovane
migliore bensì di quello ‘disponibile’ a fare simile lavoro pur di mangiare. Comunque si
trattava di uomini che sapevano combattere meglio di altre compagini armate della Tarda
antichità.
Approfondimenti sulla lezione 11
Abbiamo citato alcuni autori antichi che trattano l’argomento delle rivolte bacaudiche.
Alcuni di essi, tra cui il presbitero di Marsiglia, Salviano, ci svela qualcosa di importante.
Se, infatti, nel caso dei bacaudae si può senz’altro parlare di partecipazione di servi, non
si può ammettere che furono loro a ribellarsi, né loro a guidare la sedizione. La bacauda,
quindi, non può essere equiparata alle ribellioni di epoca tardo repubblicana. Illuminante
ci sembra il discorso inerente i nobiles di cui parla Salviano. Egli parla esplicitamente di
nobiles esasperati da una tassazione iniqua, aggiungendo ad essi i loro sottoposti,
disperati per il medesimo motivo. Ora si sa che i domini delle zone rurali possedevano,
come già dicemmo, milizie proprie, cioè una servitù addestrata anche al combattimento.
Basti pensare ai succitati Proculo e Bonoso.
Quando poi Orosio parla di ribellioni contro le ingiustizie che sovente i magistrati
esercitavano nei confronti degli ispano-romani, non vede, comunque, in ciò un tentativo
di raggiungere l’indipendenza dall’impero. Per lui si sarebbe dovuto soltanto limitare sino
ad alleviare in toto tali iniquità ma senza affidarsi ad avventure dagli esiti incerti. Senza,
pertanto, cercare di separarsi da Roma e creare un entità statale indipendente. D’altronde
nella patria di Vercingetorige gli abitanti di ceto più elevato delle campagne avevano
ormai raggiunto un notevole grado di integrazione con Roma. Erano Romani di nome e di
fatto e con ogni probabilità si sarebbero sentiti poco in sintonia con Burgundi, Alani, Goti
e varie tribù stanziate sulla riva destra del Reno da dove partivano le violenti scorrerie
che avevano iniziato a danneggiare i territori della Gallia nel corso del III secolo,
contribuendo non poco alla rovina della sua economia.
Quindi si può evincere che coloro che capeggiano quelle insurrezioni
fossero senza meno nobiles che non avevano alcun interesse ad
avvicinarsi al mondo dei barbari. Già si fosse trattato solo e soltanto del
contado allora le cose sarebbero state diverse perché, lo dicemmo, i
contadini non erano stati romanizzati. Essi, dunque, non avrebbero
avvertito differenze di sorta nel passare dalla civiltà latina al mondo
germanico.
Guida allo studio della lezione 11
Per uno sguardo di insieme sui bacaudae riportiamo
sempre a L. MONTECCHIO, I bacaudae. Tensioni sociali tra
tardo antico a alto medioevo , Roma 2012. Si studino le pp.
140-141.
Approfondimenti sulla lezione 11
Abbiamo citato alcuni autori antichi che trattano l’argomento delle rivolte bacaudiche.
Alcuni di essi, tra cui il presbitero di Marsiglia, Salviano, ci svela qualcosa di importante.
Se, infatti, nel caso dei bacaudae si può senz’altro parlare di partecipazione di servi, non
si può ammettere che furono loro a ribellarsi, né loro a guidare la sedizione. La bacauda,
quindi, non può essere equiparata alle ribellioni di epoca tardo repubblicana. Illuminante
ci sembra il discorso inerente i nobiles di cui parla Salviano. Egli parla esplicitamente di
nobiles esasperati da una tassazione iniqua, aggiungendo ad essi i loro sottoposti,
disperati per il medesimo motivo. Ora si sa che i domini delle zone rurali possedevano,
come già dicemmo, milizie proprie, cioè una servitù addestrata anche al combattimento.
Basti pensare ai succitati Proculo e Bonoso.
Quando poi Orosio parla di ribellioni contro le ingiustizie che sovente i magistrati
esercitavano nei confronti degli ispano-romani, non vede, comunque, in ciò un tentativo
di raggiungere l’indipendenza dall’impero. Per lui si sarebbe dovuto soltanto limitare sino
ad alleviare in toto tali iniquità ma senza affidarsi ad avventure dagli esiti incerti. Senza,
pertanto, cercare di separarsi da Roma e creare un entità statale indipendente. D’altronde
nella patria di Vercingetorige gli abitanti di ceto più elevato delle campagne avevano
ormai raggiunto un notevole grado di integrazione con Roma. Erano Romani di nome e di
fatto e con ogni probabilità si sarebbero sentiti poco in sintonia con Burgundi, Alani, Goti
e varie tribù stanziate sulla riva destra del Reno da dove partivano le violenti scorrerie
che avevano iniziato a danneggiare i territori della Gallia nel corso del III secolo,
contribuendo non poco alla rovina della sua economia.
Quindi si può evincere che coloro che capeggiano quelle insurrezioni
fossero senza meno nobiles che non avevano alcun interesse ad
avvicinarsi al mondo dei barbari. Già si fosse trattato solo e soltanto del
contado allora le cose sarebbero state diverse perché, lo dicemmo, i
contadini non erano stati romanizzati. Essi, dunque, non avrebbero
avvertito differenze di sorta nel passare dalla civiltà latina al mondo
germanico.
Lezione 12

Carausio in Britannia
Si impone ora un approfondimento sulla questione inerente Carausio perché anche lui fu
protagonista di una ribellione che, per alcuni aspetti, si potrebbe equiparare a quelle
bacaudiche che egli stesso si trovò a fronteggiare. Quel generale, nominato da
Massimiano, fu preposto parandae classi ac propulsandis Germanis maria infestantibus e
si trovò a combattere anche i bacaudae lungo un’area molto ampia. Carausio attraversò
buona parte della Gallia, sia all’inseguimento dei rivoltosi, sia nel tentativo di frenare
Burgundi, Alamanni, Franchi, Caiboni ed Eruli che stavano calando nel territorio romano
senza che fosse possibile frenarli.
A proposito di Carausio, Aurelio Vittore e Eutropio fanno una grave affermazione. Essi
dicono che, pur avendo ottenuto un certo numero di vittorie sui pirati che pure combatté,
si sparse la voce che fosse in collusione con quegli stessi pirati per trattenere parte del
bottino recuperato. In effetti qualcosa dové accadere se è vero che nel 286, condannato
a morte dal suo mentore Massimiano, con un’azione fulminea si impadronì della Britannia
proclamandosi imperatore. In buona sostanza per Eutropio, ma anche per Orosio, quel
comandante non avrebbe avuto alcuna scelta se non quella di farsi imperatore.
Sicuramente Carausio aveva fatto i suoi calcoli e la sua azione, in apparenza
disperata, in realtà fu frutto di ragionamento. Egli, infatti, era consapevole che
Massimiano avrebbe avuto i suoi problemi nel proseguire l’azione anti
bacaudica e, sedata quella rivolta, non avrebbe potuto affrontare con
superficialità uno sbarco in Britannia. L’usurpatore, stando a quanto riportato
dalla Kerneis, non godeva di una grande reputazione tra gli amici e nemmeno
tra gli avversari che sembravano rispettarlo poco; si dice venisse chiamato
addirittura ‘arcipirata’ dai suoi nemici.
Approfondimenti sulla lezione 12
Il punto focale della ribellione del generale Carausio non è l’atto in sé. Ci sembra infatti
bel altro ad essere rilevante sul finire del secolo III, dopo decenni di situazioni devastanti
per la pars Occidentis dell’impero romano. Per quel generale sembrò quasi seducente
tentare di separare una regione dell’impero da esso pur mantenendo le istituzioni statali.
In proposito ci paiono illuminanti le parole dello Snyder che sottolinea come «questo
episodio, avvenuto solo sedici anni dopo la fine dell’ Imperium Galliarum , prova come
l’indipendenza da Roma fosse di nuovo diventata un ‘ricordo attraente’ per le truppe
britanniche che sostenevano il regime di Carausio.
Alcune zone dell’impero de facto erano quasi in secondo piano rispetto ad altre. Ciò è
inevitabile ma esse ambivano a non venir più considerate ‘periferiche’ bensì fondamentali.
Snyder, così come altri storici, pensa che quel generale così capace, per ambizione
personale, fosse riuscito a ottenere il pieno sostegno dei Britanno romani facendo leva sul
loro desiderio di tornare all’epoca di quell’ imperium Galliarum che li aveva visti al centro
di un progetto statale e non in periferia. Egli, quindi, sulle sue monete porpose se stesso
come il Restitutor Britanniae che «riceve il benvenuto dal Genius Britanniae , lo spirito
tutelare dell’isola».
Guida allo studio sulla lezione 12
Per uno sguardo di insieme sull’avventura di Carausio riportiamo
sempre a L. MONTECCHIO, I bacaudae . Tensioni sociali tra tardo
antico a alto medioevo , Roma 2012. Si studino le pp. 142-146.
Inoltre si studino, del volume di L. Montecchio, Tensioni sociali nella
tarda antichità nelle province occidentali dell’impero romano, le pp. 75-
78.
Lezione 13

La fine di Carausio
L’usurpatore Carausio governò per sette anni la Britannia può essere accomunato ai
bacaudae ? La risposta a nostro giudizio è positiva proprio per le premesse che abbiamo
posto. D’altronde i rapporti tra le Gallie e la Britannia avevano antichissime origini e già
questo basterebbe ad inculcare il sospetto che anche nella grande isola ci potessero
essere focolai bacaudici. I britannoromani, diversamente dai galloromani, non avevano
ancora vissuto le prime invasioni barbariche, né la lunghissima teoria di usurpazioni che
insanguinò la pars Occidentis dell’impero.
Non potevano nemmeno ricordare l’ammutinamento del lontano 185 contro il
prefetto del Pretorio Perennio. Essi però – lo dicemmo – volevano che la
Britannia fosse maggiormente centrale nell’impero. Cosa che fu solo durante il
periodo dell’ imperium Galliarum . Dunque non stupisce che un Carausio abbia
trovato terreno fertile per coltivare le sue ambizioni. Per difendersi dai romani e
quindi per resistere loro, approfittò di quei Sassoni che aveva arruolato proprio
per contrastare, in precedenza, la pirateria franca e sassone. Egli, in tal modo,
si trovò tra le sue fila esperti marinai e combattenti coraggiosi.
La reazione imperiale, seppur fulminea, dové trovare non poche difficoltà per la
bacauda nelle Gallie che, lo vedemmo, non era semplice sedare, e per il fatto
che i porti della Britannia non avrebbero permesso a Massimiano di attraccare
se non a caro prezzo. Nei primi mesi del 287 tutta la Britannia e vari porti della
Gallia sulla Manica si staccarono dall’Occidente. Era un atto di separatismo
all’uso che ormai – l’abbiamo visto - invaleva da un secolo: le forze di Carausio,
d’altra parte, erano tutt’altro che disprezzabili, potendo egli contare sulla
situazione della Britannia che era florida, sulla flotta mercantile e militare, sulle
basi che possedeva nel continente, e su vari alleati germanici, come i Franchi,
che premevano sul confine del basso Reno. Inoltre quel comandante poteva
sperare che i ribelli bacaudae gli offrissero involontariamente un aiuto,
impegnando Massimiano.
La presenza di Massimiano Augustus sul fronte renano arginò le defezioni e
salvò, infine, la situazione. Nel 288 egli condusse una campagna contro la
frazione dei Franchi che sosteneva Carausio, privando quindi il ribelle
dell’appoggio sul fronte renano, mentre preparava una flotta lungo i grandi fiumi
delle province galliche per assalire direttamente l’avversario. Ma la secessione
di Carausio doveva protrarsi ancora a lungo. La flotta di Massimiano infatti non
ebbe fortuna: l’Oceano non fu clemente e una tempesta terribile sorprese e
disperse le navi nel 288. Carausio opportunamente rimase nei due anni
successivi e mantenne un’invidiabile sangue freddo e, addirittura, si proclamò
«fratello» dei due Augusti legittimi.
Questi s’incontrarono a Milano nel gennaio 291 ma soltanto due anni dopo
giudicarono si potesse procedere ad armare una nuova flotta. Fu Costanzo
Cloro che nella primavera del 293 assalì improvvisamente e conquistò
Gerosiacum (Boulogne-sur-Mer), tenuta dalle navi di Carausio. In estate assalì
Camavi e Frisoni, stanziati fra la Schelda e il Reno, alleati di Carausio. In pochi
mesi riuscì dunque a eliminare tutte le forze secessioniste che operavano sul
continente, provocando ripercussioni talmente gravi in Britannia che Allectus ,
tesoriere dei secessionisti, venne indotto a assassinare Carausio (autunno
293) per proclamarsi imperator . Probabilmente il tentativo di Alletto fu quello di
indurre a più miti consigli il battagliero Cesare .
Approfondimenti sulla lezione 13
Una volta ripreso tutto il continente, al contrario, Costanzo Cloro preparò una
spedizione (nel corso del 294 e del 295) e solo nel 296, in primavera, riuscì
nell’intento di invadere la Britannia, grazie a due corpi di spedizione, l’uno da
Gerosiacum che puntò su Londinium comandato dal cesare stesso, l’altro
salpato da Le Havre al comando di Asclepiodoto. Contro quest’ultimo andò lo
stesso Allectus, che però fu vinto ed ucciso. Così i due corpi di spedizione
poterono riunirsi vittoriosi a Londinium, ove Costanzo Cloro attendeva
vincitoresui resti dei ribelli.
La secessione era durata ben 10 anni, nei primi 7 voluta e diretta da Carausio,
negli ultimi 3 da Allectus . La durata di essa, i lunghi preparativi per eliminarla
e le grandi difficoltà incontrate dallo stato centrale, mostrano come la Britannia
aveva cercato, appoggiando de facto Carausio, di separarsi da Roma. Anche la
Britannia, pertanto, aveva vissuto la sua ribellione bacaudica; cioè di
maggiorenti che, sullo sfondo, guidano soldati, in questo caso, contro una
madre patria dimentica di loro.
Guida allo studio della lezione 13
Per uno sguardo di insieme sulla fine dell’avventura di
Carausio riportiamo sempre a L. MONTECCHIO, I bacaudae
. Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo , Roma
2012. Si studino le pp.144-147.
Inoltre si studino, del volume di L. Montecchio, Tensioni
sociali nella tarda antichità nelle province occidentali
dell’impero romano, le pp. 75-78.
Lezione 14

Diocleziano
Rimasto unico sovrano, Diocleziano si convinse dell’impossibilità per un’unica
persona di governare un territorio tanto vasto e minacciato su così tanti fronti.
Istituì, quindi, la tetrarchia, un sistema di governo a quattro teste che divideva
l'impero in due metà, una occidentale e l'altra orientale. Tale sistema, nelle
intenzioni, avrebbe permesso una difesa più energica della compagine
imperiale e, soprattutto, una successione certa ai due augusti. Infatti ci
sarebbero stati due imperatori, col titolo, appunto, di Augusto sarebbero stati a
capo dei due territori, coadiuvati da due successori (i Cesari) di loro scelta.
Essi, alla morte degli augusto, avrebbero dovuto prendere il loro posto.
Diocleziano sperava così di aver creato i presupposti per una successione al
trono ope legis . Nel nuovo sistema di governo, Diocleziano fu l’ Augusto
dell'Oriente, con capitale Nicomedia, e nominò Massimiano Augusto
dell'Occidente, con capitale Mediolanum .
Da tempo Roma, pur continuando ad ospitare il senato, non era più la sede
imperiale ordinaria, Diocleziano non fece che istituzionalizzare questo dato di
fatto. Roma restò comunque il riferimento ideale dell'Impero, anche se le sue
istituzioni erano ormai un anacronismo, in quanto il potere veniva gestito
altrove, dove cioè si trovava l’imperatore. Nel 292, come vedremo in seguito,
Diocleziano nominerà Cesare Galerio e Massimiano fece lo stesso con Costanzo
Cloro. Tutto il territorio dell'impero venne ripartito in dodici diocesi ognuna delle
quali era costituita da più province. Le varie diocesi furono a loro volta
raggruppate in quattro regioni più ampie, ciascuna governata da un
personaggio di dignità imperiale.
La crisi dell'Impero nel precedente mezzo secolo, aveva comportato pesanti
conseguenze economiche e sociali. Diocleziano impostò una radicale opera di
riforma amministrativa e fiscale, eliminando antichi privilegi ed esenzioni. La
grande novità fu l’introduzione della capitatio – iugatio . Com’è noto mentre la
iugatio colpiva le rendite fondiarie, la capitatio colpiva le persone fisiche. Come
ricorda Ostrogorsky nel computo del dovuto allo stato «gli iuga e i capita
vengono conteggiati separatamente» Secondo tale metodologia il complesso
delle terre coltivabili veniva suddiviso, nelle varie regioni, in base al tipo di
coltura e al loro rendimento, in unità fiscali dette iuga , mentre la popolazione
veniva invece suddivisa in unità fiscali dette capita . Il valore assegnato a iuga
e capita non era fisso, ma variava in base alle singole province e alle necessità
del bilancio statale.
Proprio per razionalizzare in un insieme organico la massa delle imposte,
Diocleziano impose la fusione di tutte le imposte dirette, fondiarie e personali,
in un'unica imposta, appunto la iugatio - capitatio , prelevata sull'insieme dei
fattori produttivi: uomini, bestie, terre, dopo avere stabilito l'imponibile sulla
base di un gigantesco catasto della ricchezza dell'intero Impero. La iugatio -
capitatio finì inevitabilmente con il legare il contadino alla terra, contribuendo
alla formazione dei servi della gleba: infatti, così come una terra senza
contadino non può essere sottoposta a imposta, vale lo stesso per un
contadino senza terra. Così il governo romano vincolò una grande massa di
contadini alla terra. Simile provvedimento era stato preso in Egitto quando fu
introdotto un sistema con il quale, già dai tempi dei Tolomei, alcuni proprietari
terrieri privati venivano costretti a coltivare appezzamenti di terra statale
incolta, nonché a pagare le tasse corrispondenti.
Approfondimenti sulla lezione 14
Con l’avvento di Diocleziano al potere ci furono cambiamenti in seno all’esercito
imperiale. Ci dovrebbe essere stato anche un aumento del numero delle legioni
e dei reparti scelti (ali e coorti), stando almeno alla Notitia dignitatum dove
appaiono appellativi come Iovius e Erculeus che fanno senz’altro riferimento a
Diocleziano e Massimiano. All’uopo va poi ricordato che, rispetto ai primi secoli
dell’impero, queste unità contavano molti effettivi in meno (fra gli studiosi c’è
addirittura chi parla di legioni composte da appena mille uomini, affermazione
da noi ritenuta verosimile se però si considerano i soli “combattenti”), come
d’altronde sarebbe dimostrato dalle dimensioni ridotte delle nuove fortezze.
Le fonti non ci dicono quanti fossero gli effettivi dell’esercito romano a cavallo
del IV secolo; gli unici documenti a disposizione dello storico sono i
ritrovamenti archeologici da cui si deduce, appunto, la ridotta dimensione delle
nuove difese. Per fronteggiare gli attacchi improvvisi e disordinati dei germani
bastavano reparti anche modesti nel numero, ma fittamente disposti lungo
tutto il confine in modo da evitare di lasciare spazi scoperti. Ma soprattutto
erano necessari reparti che potessero muoversi repentinamente lungo il limes .
In buona sostanza si privilegiò, gioco forza, la qualità rispetto alla quantità di
truppe.
Guida allo studio della lezione 14
Sul periodo dioclezianeo si consideri sempre L.
MONTECCHIO, I bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico
a alto medioevo , Roma 2012, pp. 90-97.
Lezione 15

Il cristianesimo
Nello scorcio finale del secolo III non può essere trascurata l’azione della
Chiesa che via via acquisiva sempre maggiore prestigio nella società romana e
che penetrava sempre più in profondità negli strati della popolazione. Subito
dopo la prima metà del secolo III il cristianesimo venne fatto oggetto di nuove
persecuzioni ma si trattava del colpo di coda di un paganesimo morente.
Nondimeno con Valeriano i cristiani che dapprima erano stati per lo meno
sopportati, ora vengono temuti perché si paventava la «cristianizzazione»
dell’impero nelle classi dirigenti. Sconfitto e fatto prigioniero dai Parti Valeriano,
Gallieno, rimasto l’unico imperatore, giudicò opportuna l’emanazione di un
editto particolarmente favorevole ai seguaci del Cristo; con esso infatti, ipso
facto, vennero abrogate le vecchie leggi anti cristiane. Ma, cosa ancor più
significativa, con la restituzione delle proprietà ecclesiastiche confiscate,
Galllieno concesse un riconoscimento ufficiale alla religione cristiana.
Nei quarant’anni che intercorsero tra l’editto di Gallieno e l’inizio delle
persecuzioni di Diocleziano la Chiesa poté godere di un periodo tranquillo,
durante il quale consolidò la sua presenza nella vita pubblica e continuò l’opera
missionaria già intrapresa sin dalla sua fondazione. Coloro che erano potenti e
ricchi dominavano senz’altro la società romana ed erano figure di primo piano
sia nelle città, sia nelle campagne. Ma la parte restante delle varie comunità
era – come dicemmo – composta da persone che si ritenevano bisognose e
quindi chiedevano venisse loro concessa l’attenzione che la Chiesa soleva dare
ai meno abbienti. Pertanto questi bisognosi che de facto appartenevano
soprattutto ad un ceto medio ormai impoveritosi si stringevano attorno al
vescovo, a colui cioè che avrebbe potuto dare conforto a chi non aveva.
D’altronde, dall’editto di Gallieno, non erano pochi gli alti prelati che erano
originari di famiglie ricche e dunque potevano anche far leva sul potere
derivato dall’appartenenza a strati superiori della società locale.
Al contrario i loro sacerdoti sovente provenivano dai ceti inferiori e
condividevano proprio con coloro che avrebbero dovuto aiutare la costante e
spesso amara lotta per la sopravvivenza o, se possibile, per elevarsi di quel
tanto per distinguersi da quei poveri che versavano nella miseria più nera.
Malgrado le devastazioni che caratterizzarono parte del secolo III, nelle città gli
abitanti continuavano a trovarsi in una condizione migliore rispetto a coloro che
abitavano le campagne, se non altro perché i centri cittadini erano più sicuri e
gli abitanti, anche i più poveri, godevano di una «rete di protezione costruita
con cura nel tempo» mentre le campagne venivano attraversate da barbari in
armi, pronti a tutto pur di trarre profitto dalle loro scorrerie, senza che esercito
alcuno potesse frenare il loro impeto. Là dilagò la grande povertà.
Un esempio di tale inusitata miseria ci viene fornito da Martino di Tours che
illustrò ai suoi discepoli la figura archetipa della permanente miseria umana che
aveva incontrato attraverso le campagne della Gallia settentrionale: «Egli vide
un guardiano di porci che tremava per il freddo e quasi nudo nei suoi vestiti di
pelli. “Guardate Adamo – disse – nel suo abito di pelli, scacciato giù dal
Paradiso, che fa la guardia ai porci”». Proprio Martino di Tours nel secolo IV,
come già era avvenuto negli ultimi decenni del secolo precedente, cercò di far
sedimentare gli insegnamenti di Cristo anche nelle campagne, laddove cioè
maggiore era la resistenza del paganesimo. Spesso il modus operandi degli
ecclesiastici nelle zone rurali era assai deciso ed intollerante. Va’ rilevato infatti
come al posto di un luogo di culto pagano, dopo averlo distrutto, con
l’abbattimento o l’incendio delle statue o degli oggetti costituenti la sacralità,
veniva innalzata una chiesa.
Approfondimenti sulla lezione 15
Il Mazzarino parla di due economie, la statale e l’ecclesiastica che vennero tra
loro in concorrenza. Se le entrate del fisco servivano al mantenimento della
burocrazia e dell’esercito, quelle della Chiesa venivano impiegate nell’aiutare i
più bisognosi e anche – aggiungiamo noi – a sostenere in modo concreto la
Chiesa intesa come una vera e propria «città nella città». «In linea di massima,
si può dire che la nuova economia ecclesiastica ha incoraggiato la migrazione
verso le grandi città, le quali avevano, naturalmente, delle comunità cristiane
più ricche» rispetto alle campagne e facilitò in tal modo anche l’attività del
piccolo artigianato in gravi difficoltà per l’alto tasso di inflazione.
Secondo Brown la Chiesa, malgrado privilegi ufficiali e l’abilità innata nel
reclutare come vescovi persone appartenenti alle classi superiori, «si collocava
esattamente nel mezzo della società romana…occupava l’estesa zona mediana
fra quanti erano molto ricchi e quanti erano molto poveri». Tra di essi
spiccavano i liberti imperiali, la cui presenza nelle file cristiane rappresentava
una protezione politica non indifferente; non trascurabile poi il numero di quegli
uomini di affari che continuavano nelle loro imprese commerciali, assicurando
alla chiesa romana un’agiatezza economica inusuale.
Guida allo studio della lezione 15
Per uno sguardo di insieme sul cristianesimo nella tarda antichità
riportiamo sempre a L. MONTECCHIO, I bacaudae . Tensioni sociali tra
tardo antico a alto medioevo , Roma 2012. Si studino le pp. 113-121.
Lezione 16

La legione tebea
Gli ultimi decenni del secolo III, come abbiamo avuto modo di vedere, furono
particolarmente tragici per la gente di campagna, in Gallia. Ma stroncato nel
sangue il movimento bacaudico la situazione non parve migliorata per un
impero secolare ormai avviato al declino. Per garantire sia i confini dalle
continue scorrerie delle molte popolazioni barbare, sia l’ordine all’interno stesso
dell’Impero, si era soliti –lo vedemmo- ricorrere a legioni composte anch’esse
per lo più da barbari. Nel secolo IV vi erano, pertanto, alcune legioni di tebani
d’Egitto arruolate nei ranghi dell’esercito romano. Quei soldati erano quasi tutti
di religione cristiana e, nonostante si fosse in un periodo particolarmente
pericoloso per i seguaci del Cristo, la presenza di quei militari era considerata
necessaria per la difesa del limes . Inoltre, dai tempi del principato adottivo,
non vi era più la volontà politica di perseguitare i cristiani soprattutto se essi
mostravano, nei fatti, di essere buoni cittadini.
Ciò non significa però che in talune occasioni non venissero ancora mandati a
morirei soldati che si rifiutavano di adorare gli idoli pagani. Non intendiamo qui
affrontare il tema delle feroci persecuzioni cristiane che ci furono dalla fine del
secolo III sino all’avvento di Costantino; ora ci preme piuttosto di raccontare la
tragica fine che fece una legione di tebani che si erano rifiutati di partecipare a
sacrifici in onore delle divinità pagane perché si inserisce nel contesto delle
lotte bacaudiche. Principale fonte di tali avvenimenti è la lettera che il vescovo
Eucherio di Lione indirizzò al vescovo del Vallese (attuale Svizzera) Salvio.
Eucherio redasse tale missiva intorno alla metà del secolo V e riferisce la
tradizione orale trasmessa dal vescovo di Ginevra, Isacco, il quale l’avrebbe
raccolta dalla bocca di san Teodoro di Ottoduro.
Come si può vedere in poco più di un secolo le tragiche vicende vennero
riprese e raccontate da più persone e bisogna aggiungere che il resoconto
scritto di Eucherio di Lione non rimase opera isolata. L’imperatore Diocleziano,
informato dell’insurrezione, mandò da Nicomedia il cesare Massimiano il quale,
giunto nel luogo di operazioni, in pochi mesi, grazie alla disciplina e
all’organizzazione delle sue truppe, sbaragliò i ribelli. Tra le truppe di
Massimiano troviamo anche la legione tebea radunata a Octodurum (oggi
Martigny, nel Vallese della Svizzera). Quella legione si trovava accampata a
Agaunum (oggi Saint-Maurice, sempre nel Vallese).
Oltre quella Passio abbiamo altre indicazioni di possibili azioni anticristiane
compiute dai Romani. Un’altra versione degli stessi fatti l’abbiamo grazie a una
“Passione” anonima scritta nel secolo VII. Dove si legge che tra il 285 e il 286
nella Gallia scoppiò una violenta insurrezione antiromana a causa della
desolazione estrema in cui quella regione versava. Cioè lo scritto testé citato
riporta alle fonti da noi utilizzate nello studio della rivolta bacaudica. In buona
sostanza si tratta di una fonte tarda, rispetto alla narrazione che si rifà ad una
fonte incerta.
Approfondimenti sulla lezione 16
Di seguito indicheremo alcuni passi significativi della Passio di Eucherio:
‘…Sotto Massimiano, che resse con il collega Diocleziano il comando dello Stato
romano, grandi quantità (moltitudini) di martiri furono straziati o massacrati
generalmente in diverse provincie… Se allora alcuni osavano professare
pubblicamente il culto del vero Dio, essendo sparsi ovunque squadroni di
soldati, (essi) erano trascinati con violenza alla tortura e alla morte; e avendo
concesso una tregua ai popoli barbari, aveva mosso le armi direttamente
contro la religione. In quello stesso tempo vi era nell’esercito una legione di
soldati che venivano chiamati Tebei…’.
‘…Non immemori del precetto Evangelico persino in guerra, davano a Dio le
cose che erano di Dio, rendevano a Cesare ciò che era di Cesare. Pertanto
essendo questi, come altri soldati, stati destinati ad annientare la moltitudine
dei Cristiani, solamente essi osarono rifiutare (questo) esercizio di crudeltà e in
tal modo dissero che non avrebbero obbedito agli ordini. Massimiano non era
lontano; infatti, stanco per il viaggio, si tratteneva presso Octoduro. Non
appena gli fu riferito dai messaggeri che questa legione si era opposta ribelle
nei confronti degli ordini regi, nello stretto luogo di Agauno, (Massimiano) si
infiammò per il furore a causa dell’eccitamento provocato dallo sdegno’.
‘…Allora, come abbiamo detto sopra, Massimiano, avendo conosciuta la
risposta dei Tebei, ribollente di ira funesta a causa degli ordini non rispettati,
comandò che chiunque fosse decimo in quella stessa legione fosse ucciso con
la spada; affinché gli altri, atterriti dalla paura, si sottomettessero più
facilmente agli ordini regi e, rinnovati i comandi, stabilì che i (soldati) rimanenti
fossero obbligati a perseguitare i Cristiani… Rammentando continuamente gli
esempi dei Martiri commilitoni, persuadeva tutti a morire, se così fosse stato
necessario, per il sacramento di Cristo, per le Leggi divine; ammoniva a seguire
quei compagni e i loro compagni di tenda che già erano andati al Cielo…’.
Guida allo studio della lezione 16
Per un approfondimento del sacrificio della legione tebea riportiamo
ancora a L. MONTECCHIO, I bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico
a alto medioevo , Roma 2012. Si studino le pp. 148-159.
Lezione 17

Costantino
Alla morte del padre a Eburacum (l’attuale York), Costantino, nel 306, fu
proclamato augusto dall'esercito. Solo Lattanzio sosteneva fosse stato
designato augusto dal padre sul letto di morte, ma la notizia è tutt’altro che
certa. Per una decina d'anni la sede della sua corte fu Treviri. La sua elezione
era avvenuta secondo un principio dinastico, invece del sistema di successione
per cooptazione che aveva cercato di instaurare Diocleziano; pertanto già ab
origine c’erano le premesse per quella che sarebbe stata una vera e propria
guerra civile tra coloro che si contendevano il potere imperiale. Tralasciamo gli
altri pretendenti mentre osserviamo il vero e inevitabile redde rationem tra
Costantino e l’usurpatore Massenzio. Ciascun imperatore superstite a questa
vera e propria guerra civile che però, nonostante la gravità della situazione,
lungi dall’essere paragonabile ai torbidi del secolo precedente, cercava di
rafforzare le rispettive posizioni all’interno dei territori da essi controllati.
Il dado era tratto e Costantino, riunito un grande esercito formato anche da
barbari catturati in guerra, oltre a Germani, popolazioni celtiche e provenienti
dalla Britannia, mosse alla volta dell'Italia e attraversò le Alpi forte di un
poderoso esercito. Lungo la strada lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le
porte, mentre Massenzio assediò e distrusse quante si opposero alla sua
avanzata. Il che, naturalmente, gli inimicò la popolazione che vedeva in lui una
sorta di aguzzino. Il figlio di Costanzo Cloro, dopo aver battuto due volte
Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona, riuscì a sconfiggerlo
definitivamente nella battaglia di Ponte Milvio, presso i Saxa Rubra sulla via
Flaminia, alle porte di Roma, nel 312. La battaglia di ponte Milvio venne
presentata dalle fonti cristiane come l’episodio principe di una sorta di guerra di
religione tra Costantino, ispirato dal vero ed unico Dio, e Massenzio,
considerato come sostenitore del paganesimo.
Per Massenzio l’ideologia pagana, cui certamente si ispirava, era funzionale a
scelte politiche contingenti piuttosto che a motivazioni di mero carattere
religioso. Come è noto la nascita del Costantino cristiano è strettamente legata
proprio alla presunta conversione alla vigilia di quella battaglia. Le fonti, però,
non sono del tutto concordi. In realtà Costantino, esattamente come
Massenzio, aveva fatto i suoi calcoli politici e non si era certo convertito al
cristianesimo. Azione questa ancora del tutto inopportuna, nonostante la
grande diffusione della religione del Cristo.
Sconfitto e ucciso Massenzio, rimanevano solo Costantino e Licinio. I due
tentarono di costruire una qualche rapporto che soddisfacesse le ambizioni di
entrambi. Nonostante il legame che si era instaurato, entrarono una prima
volta in conflitto nel 314, (in seguito alla riappacificazione l’Illirico passò a
Costantino) e di nuovo nel 323. In seguito alla sconfitta di Licinio, che si arrese
dopo la battaglia di Crisopoli nel 324 e venne successivamente ucciso,
Costantino rimase l'unico augusto al potere.
Approfondimenti sulla lezione 17
A proposito di ciò che avvenne prima della battaglia di Ponte Milvio tra
Costantino e Massenzio si hanno le testimonianze di due uomini di chiesa.
Lattanzio, ad esempio, che scrive poco tempo dopo, si esprime in questi
termini: Nel sonno Costantino fu esortato a far contrassegnare gli scudi dei suoi
soldati con i segni celesti di Dio e a iniziare quindi la battaglia . Egli fece così e,
girando e piegando su se stessa la punta superiore della lettera [greca] X,
scrisse in forma abbreviata «Cristo» sugli scudi . Lattanzio esprime chiaramente
il suo pensiero e si capisce che voglia far apparire Costantino già schierato per
la religione del Cristo; in realtà è plausibile che egli volesse semplicemente che
le sue truppe si distinguessero da quelle di Massenzio.
Secondo Eusebio di Cesarea Costantino avrebbe invece visto in cielo un segno
prodigioso e cioè una croce di luce che recava la scritta «in questo segno
vincerai». La notte successiva Gesù sarebbe apparso in sogno al futuro
imperatore e gli avrebbe ordinato di aggiungere quel segno alle sue insegne.
Costantino obbedì prontamente dando così origine al labarum , termine di
origine gallica con il quale veniva designato lo stendardo imperiale decorato
con il monogramma di Cristo e cioè il X sormontato da una R. Lo storico dovrà
in proposito manifestare non pochi dubbi sulla versione di Eusebio perché
Lattanzio che, a differenza di Eusebio, scrive pochi anni dopo i fatti, nulla dice
del labarum e della sua origine. La prima attestazione certa del labarum si ha
in una moneta bronzea emessa a Costantinopoli 15 anni dopo gli avvenimenti
succitati. Verosimilmente il labarum fu introdotto successivamente, forse in
occasione dello scontro finale con Licinio. Pertanto le parole di Eusebio
sembrano essere solo dovute a intenzioni propagandistiche che nulla hanno a
che vedere con la veridicità dei fatti.
Guida allo studio della lezione 17
Per uno sguardo di insieme su Costantino e il suo rapporto
con il cristianesimo si consideri L. MONTECCHIO, I
bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo
, Roma 2012. Si studino le pp.161-175.
Lezione 18

Costantinopoli
Nel novembre del 324 Costantino aveva deciso di trasformare la vecchia
Bisanzio, ormai ridotta ad un villaggio, nella “nuova Roma”, nella città di
Costantino. Improvvisamente quel centro sorto quasi un millennio prima venne
stravolto dalla costruzione di chiese, templi pagani, palazzi magnifici. Quella
città era destinata ad avere, in quanto “nuova Roma”, le medesime attribuzioni
dell’antica e cioè, fra l’altro, un senato di viri clari , che sarebbero in seguito
divenuti clarissimi ; le gratifiche di pane, l’ annona civilis , la plebe di
Costantinopoli sarebbe stata equiparata ai cives Romani domo Roma .
Sembravano ben lontani i tempi in cui i cristiani avevano goduto della rovina di
Bisanzio nella guerra civile tra Settimio Severo e Nigro; l’imperatore cristiano,
infatti, risiedeva ora nella grande città e nel Foro di essa era raffigurato come
Helios. Il sole però che, non più inteso come un dio, era per lui soltanto
l’immagine fisica della potenza imperiale.
I grandiosi lavori di costruzione cominciarono pertanto nel novembre del 324,
subito dopo la vittoria su Licinio, e già nel maggio del 330 la nuova capitale
venne solennemente inaugurata. Ben poche fondazioni di città ebbero una tale
portata storica. Geniale la scelta del luogo. Al confine tra due continenti,
bagnata ad est dal Bosforo, a nord dal Corno d’oro, a sud dal Mar di Marmara e
accessibile da un solo lato per via di terra, la nuova capitale si trovava in una
posizione strategica eccezionale. Controllava il commercio tra l’Europa e l’Asia e
il transito marittimo dal Mar Egeo al Mar Nero, e divenne ben presto il più
importante centro commerciale marittimo di tutto il mondo allora conosciuto.
Per un millennio Costantinopoli fu la capitale politica, economica e militare
dell’impero bizantino, il suo centro spirituale e religioso; ed esercitò
un’influenza determinante sullo scacchiere politico internazionale e sullo
sviluppo culturale dell’umanità tutta.
A partire dal 330 Costantinopoli divenne, come abbiamo testé detto,
ufficialmente capitale dell’Impero romano d’oriente e in tempi invero rapidi la
nuova Roma sembrò oscurare l’antica Roma. Costantino, in seguito, decise di
ampliare ulteriormente la vecchia città, ponendo dove c'era un’antica porta un
foro circolare e spostando le sue mura più ad occidente di 15 stadi e tagliando
così l’stmo da una parte all'altra dal mare. E proprio qui, una volta battezzato in
punto di morte, il suo corpo fu trasferito e seppellito nella chiesa dei Santi
Apostoli. Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica dioclezianea,
l'Impero venne suddiviso in quattro prefetture (d’Oriente, d’Illiria, d’Italia e di
Gallia), all'interno delle quali mantenne rigidamente separati il potere civile e
politico da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria era affidata ad un
prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi ed i governatori
delle province.
Approfondimenti sulla lezione 18
Per quanto concerne la magnificenza dell’antica Bisanzio, con Costantino,
Costantinopoli, si vedano alcune immagini significative. Intanto le mura che
difesero quella città per mille anni e che solo i cannoni turchi poterono
squarciare. Poi la cisterna romana. La civiltà romana penetrò in Costantinopoli
al punto che, una volta caduta Roma, essa davvero era divenuta una seconda
Roma. Lo fu in tutto, dal punto di vista architettonico, culturale, religioso.
Guida allo studio della lezione 18
Su Costantinopoli ci si basi sempre sul testo di L. MONTECCHIO,
I bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo , Roma
2012. Si studino le pp. 169-170.
Lezione 19

Giuliano Cesare
L’imperatore Costanzo, impegnato com’era sul limes orientale decise di
associarsi al trono Giuliano. Nel dicembre del 355, Giuliano, con una scorta di
360 soldati, partiva alla volta della Gallia per quella che sarebbe stata la sua
prima campagna militare. Come Giulio Cesare esordiva come comandante delle
Gallie che ora subivano offese al contempo dalle tribù germaniche in subbuglio
e dai bacaudae ancora presenti in quella provincia. Non aveva avuto una
specifica preparazione militare: cercò di acquisire almeno un'esperienza teorica
attraverso la lettura dei Commentarii di Cesare e delle Vite parallele di Plutarco.
I suoi poteri erano stranamente limitati: il magister militum era Marcello,
mentre alla prefettura andava Florenzio e la questura era esercitata da Salustio,
i quali avrebbero dovuto rispondere del loro operato unicamente a Costanzo.
Nonostante ciò la personalità del giovane Cesare era spiccata e presto emerse.
Superato un rigido inverno, nel giugno del 356 si mise in marcia verso Autun,
poi giunse ad Auxerre e a Troyes, dove ebbe il suo battesimo del fuoco quale
Cesare. Egli disperse un gruppo di barbari e si ricongiunse a Reims con
l'esercito del magister militum Marcello. L’impresa di maggior valenza militare,
nonché politica, fu la riconquista di Colonia dove, nell’autunno dello stesso
anno, ricevette le richieste di pace di alcuni capi germanici. Essendo
sopraggiunto l'inverno, si ritirò nel campo invernale di Sens, dove dovette
sopportare un pesante assedio da parte di milizie barbare senza che Marcello
gli portasse aiuto. Denunciato il comportamento di quel magister militum
all'imperatore, Marcello venne rimosso dall'incarico e sostituito con Severo, un
buon soldato leale.
Gli Alamanni, comandati da Chonodomario, cercarono di sfruttare il momento
favorevole attaccando Giuliano vicino a Strasburgo. Il giovane cesare, pur
disponendo di un esiguo corpo d’armata di circa 15000 uomini, nondimeno,
temerariamente, accettò lo scontro campale. Durante la pugna, così come ci
viene riportato da Ammiano, Giuliano in persona riorganizzò e riportò in
battaglia la cavalleria pesante romana in rotta. Gli Alamanni, superiori in
numero, cercarono di sfondare il centro dello schieramento romano che riuscì a
resistere, seppur con difficoltà. Infine, la disciplinata fanteria romana si riprese
e vinse la battaglia, mettendo in fuga gli Alamanni oltre il Reno. Il comandante
Chonodomario stesso, fatto prigioniero, fu inviato alla corte imperiale come
trofeo di guerra: morirà pochi anni dopo, prigioniero a Roma, in una casa
imperiale sul colle Celio.
Finalmente il comando di tutto l'esercito di Gallia passò nelle mani di Giuliano.
Durante quel periodo in cui Giuliano rischiò di venire travolto dai nemici, egli si
distinse per essere un comandante che non voleva vessare con pesanti tributi
popolazioni galliche che già erano costrette a subire le devastazioni di un
nemico sempre più agguerrito e sempre più deciso a cogliere ogni occasione
per penetrare all’interno del limes . Giuliano sfruttò pienamente la vittoria di
Strasburgo: superò il Reno e devastò il territorio nemico, fino a rioccupare gli
antichi presidi romani che erano caduti, ormai da anni, in mano al nemico. Poi
concluse una tregua che, se da un lato gli permise di ottennere la restituzione
dei prigionieri, dall’altro si ritorse contro quelle tribù dei Franchi che nel
frattempo razziavano i territori del nord della Gallia. Esse furono costrette alla
resa dopo un lungo assedio nei pressi della Mosa. Finalmente, i romani
potevano ritirarsi, a inverno inoltrato, negli accampamenti stabiliti a Lutetia
Parisiorum , l'attuale Parigi.
Approfondimenti sulla lezione 19
Così la città attraversata dalla Senna veniva descritta dallo stesso Giuliano: «
[...] la mia cara Lutezia.I Celti chiamano così la cittadina dei Parisii . È un'isola
non grande, posta sul fiume, e un muro la cinge tutta intorno, ponti di legno
permettono il passaggio da entrambi i lati, e raramente il fiume cala o
s'ingrossa, in generale rimane uguale d'estate e d'inverno, offrendo un'acqua
dolcissima e purissima a chi vuole vederla o berla. Proprio perché è un'isola, di
lì soprattutto gli abitanti devono attingere l'acqua [...] presso di loro cresce una
buona vite, vi sono inoltre alcuni fichi che hanno disposto proteggendoli
d'inverno [...]». Mentre sulla riva destra si estendeva una foresta, oltre
all'isolotto sulla Senna, anche la riva sinistra del fiume era abitata e vi
sorgevano case, un anfiteatro e l'accampamento delle truppe.
Nel 359 il Cesare, per continuare l'opera di difesa di un
limes
ormai davvero precario, decise di superare per la terza volta il Reno e ottenne
la sottomissione delle ultime tribù alemanne riottose a sottostare al giogo
romano: Ammiano Marcellino, per quanto ammirava Giuliano, scrive che «dopo
che ebbe lasciato le provincie occidentali e per tutto il tempo che rimase in
vita, tutti i popoli si mantennero quieti, quasi fossero stati pacificati dal caduceo
di Mercurio».
Guida allo studio della lezione 19
Su Giuliano Cesare si consideri I. Tantillo, L’imperatore
Giuliano, Roma-Bari 2001. In particolare si studino le pp.
45-62.
Lezione 20

Giuliano l’Apostata
Una volta acclamato imperatore dalle sue truppe, Giuliano chiese a Costanzo
che gli venisse riconosciuta, per lo meno, piena autonomia nel governo della
Gallia. Poco tempo dopo però il giovane cesare avrebbe scritto una seconda
missiva all’ imperatore nella quale il tono era del tutto diverso dalla prima. In
essa infatti accusava, per la prima volta, apertamente l’imperatore di essere il
responsabile di gravi misfatti e forse anche della strage dei suoi parenti.
Costanzo, a questo punto, si vide costretto a respingere ogni accordo,
ordinandogli di non andare oltre le sue prerogative e, nello stesso tempo, incitò
Vadomario, re degli Alemanni, a invadere la Gallia. Il giovane cesare, molto
turbato per tale iniziativa, considerata degna del peggior tradimento, affermerà
che Costanzo «ci solleva contro i barbari; mi proclama presso di loro suo aperto
nemico; sborsa denari perché la nazione gallica sia distrutta; scrivendo ai suoi
in Italia ordina di guardarsi contro chi viene dalla Gallia; alle frontiere, in varie
città, fa raccogliere tre milioni di medimmi di frumento [...] mi manda un certo
Epitteto, un vescovo gallo, a darmi assicurazioni sulla mia personale
incolumità».
Giuliano però non si perse d’animo, nonostante fosse ormai consapevole che la
sua situazione era de facto senza via di scampo. Sebbene dovesse superare un
momento molto critico il giovane cesare aveva la consapevolezza che non si
trattava del più critico della sua ancor breve esistenza. Dopo aver condotto un
attacco a sorpresa contro i Franchi Attuari allo scopo di rendere più sicura le
frontiera renana, risalì il fiume fino a Basilea e si stabilì a Vienne. Emesso, nel
frattempo, un editto di tolleranza per tutti i culti, Giuliano continuò a mantenere
ancora un’apparente devozione per la confessione cristiana. Egli d’altronde
sapeva che non era il momento per lui di crearsi nuovi nemici, ma anzi avrebbe
dovuto far buon viso a cattivo gioco.
Costanzo, come riporta il biografo di Giuliano, morì e il nuovo imperatore si
fece acclamare anche a Costantinopoli. Gli enormi problemi in cui versava
l’impero andavano affrontati in modo celere. Giuliano continuò a perseguire gli
obiettivi che erano stati il suo leit motiv nelle Gallie. Tentò, quindi, di
combattere la corruzione e di abbreviare l' iter giudiziario dei processi, la cui
lunghezza era spesso condizione di compromessi illeciti mentre, abrogando la
possibilità di ottenere continui rinvii e decentrando lo stesso apparato
giudiziario, tentò di favorire una giustizia più certa e pertanto soddisfacente.
Parallelamente agli interventi strutturali nei confronti dello stato, il giovane
imperatore iniziò a esplicitare la sua fobia nei confronti dei seguaci di Cristo al
punto da licenziare un editto nel 362 con cui veniva stabilita la fondamentale
incompatibilità tra la professione di fede cristiana e l’insegnamento nelle scuole
pubbliche. Giuliano era infatti convinto che gli insegnanti pubblici dovessero
distinguersi innanzi tutto per moralità e poi per capacità professionale. Il
cristianesimo era per lui amorale perché non rispettava i principi su cui si
fondava la grandezza di Roma. Il meccanismo che avrebbe dovuto garantire la
suddetta moralità passava attraverso i consigli municipali che avrebbero dovuto
produrre un attestato dei requisiti dei candidati. Tale attestato avrebbe dovuto,
eventualmente, poi essere ratificato dall’imperatore.
Approfondimenti sulla lezione 20
Di seguito la lettera di Giuliano imperatore con cui veniva proibito agli
insegnanti di credo cristiano di esercitare la loro professione. «È necessario che
tutti gli insegnanti abbiano una buona condotta e non professino in pubblico
opinioni diverse da quelle intimamente osservate. In particolare, tali dovranno
essere coloro che istruiscono i giovani e hanno il compito di interpretare le
opere degli antichi, siano essi retori, grammatici e ancor più sofisti, poiché
questi ultimi, più degli altri, intendono essere maestri non di sola eloquenza ma
anche di morale, e sostengono che a loro spetta l'insegnamento della filosofia
civile. [...] Io li lodo perché aspirano a elevati insegnamenti, ma li loderei di più
se non si contraddicessero e non si condannassero da soli, pensando una cosa
e insegnandone un'altra. Ma come? Per Omero, Esiodo, Demostene, Erodono,
Tucidide, Isocrate e Lisia, gli dèi sono guida e norma dell'educazione: forse che
costoro non si reputavano devoti, chi a Hermes, chi alle Muse? Trovo assurdo
che coloro che spiegano i loro scritti disprezzino gli dèi che quelli onoravano.
Ma, anche se a me pare assurdo, non dico con questo che essi debbano
dissimulare le loro opinioni di fronte ai giovani.
«Io li lascio liberi di non insegnare ciò che non credono buono ma, se invece
vogliono insegnare, insegnino prima con l'esempio [...] Finora, si avevano
molte ragioni per non frequentare i templi e la paura, ovunque avvertita,
giustificava la dissimulazione delle vere opinioni sugli dèi. Ora, poiché questi dei
ci hanno reso la libertà, mi sembra assurdo che si insegni ciò che non si crede
giusto. Se i maestri cristiani considerano saggi coloro di cui sono interpreti e di
cui si dicono, per così dire, profeti, cerchino prima di rivolgere la loro pietà
verso gli dèi. Se invece credono che questi autori si siano sbagliati circa le
entità da venerare, vadano allora nelle chiese dei Galilei a spiegare Matteo e
Luca. Voi affermate che bisogna rifiutare le offerte dei sacrifici? Bene, anch'io
voglio che le vostre orecchie e la vostra parola, come dite voi, si purifichino
astenendosi da tutto ciò a cui io ho sempre desiderato partecipare insieme con
coloro che pensano e fanno quello che io amo».
Guida allo studio della lezione 20
Per approfondire la figura di Giuliano l’Apostata si veda L.
MONTECCHIO, I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico a alto
medioevo , Roma 2012. Si studino le pp. 188-196.
Lezione 21

Teodosio
Alla morte di Valentiniano, nel 392, Teodosio rimase signore di tutto l'impero, fu
l’ultima volta che un prinipe ebbe nelle sue mani tutta la compagine imperiale.
Permaneva, però, il problema delle Gallie. Arbogaste, infatti, generale franco
tutore di Valentiniano, era de facto diventato padrone delle Gallie al punto che
da alcuni venne ritenuto coinvolto nella morte dello stesso Valentiniano. Egli
d’altra parte non fece nulla per mettere a tacere certe illazioni, anzi fece
nominare augustus dalle legioni di Gallia Flavio Eugenio il quale godé del placet
del senato imperiale che vide in lui la possibilità di opporsi al crescente potere
della chiesa cattolica. Flavio Eugenio venne però sconfitto da Teodosio nella
battaglia del Frigido del 394, e l'impero ebbe nuovamente un unico padrone.
All'inizio del suo regno, nel 380, Teodosio aveva promulgato l'editto di
Tessalonica, con il quale la fede di credo niceno diveniva religione di stato. Tale
decisione non giunse inaspettata ma fu gravida di conseguenze forse, queste
sì, inaspettate, anche in campo strettamente economico. La nuova legge
riconosceva esplicitamente il primato delle sedi episcopali di Roma e di
Alessandria in materia di teologia; grande influenza avevano inoltre i teologi di
Costantinopoli, i quali, essendo sotto la diretta giurisdizione dell'imperatore,
erano a volte destituiti e reintegrati in base al loro maggiore o minore grado di
acquiescenza ai voleri imperiali.
Altri provvedimenti nel 381 ribadirono la proibizione di tutti i riti pagani e
stabilirono che coloro che da cristiani fossero ritornati alla religione pagana
perdessero il diritto di fare testamento legale. Nel 382 si sanciva, tuttavia, la
conservazione degli oggetti pagani che avessero valore artistico. Il divieto dei
sacrifici cruenti e delle pratiche divinatorie ad essi collegate venne poi ribadito
nel 385. Teodosio morì nel gennaio del 395, lasciando il generale Stilicone
come protettore dei figli Arcadio e Onorio. Di fatto l’impero di Occidente e
quello di Oriente rimasero per sempre divisi.
Approfondimenti sulla lezione 21
Dopo l'episodio della ribellione di Tessalonica e della strage fatta perpetrare contro i
cittadini ribelli da Teodosio, il vescovo di Milano, Ambrogio, comminò una dura penitenza
all’imperatore. Da quel momento la politica religiosa imperiale subì un irrigidimento
notevolmente che colpì coloro che non erano cristiani. Tra il 391 e il 392 furono emanati
una serie di decreti che permettevano la piena attuazione dell’editto di Tessalonica. Venne
interdetto l'accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di qualsiasi forma di culto,
compresa l'adorazione delle statue; furono inoltre inasprite le pene amministrative per i
cristiani che si riconvertissero nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392
da Costantinopoli, l'immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere
erano equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.
In un clima del genere non stupisca che i templi pagani divenissero oggetto di
sistematica distruzione violenta da parte di fanatici cristiani e monaci appoggiati dai
vescovi locali (in molti casi con il placet dell'esercito e delle locali autorità imperiali) che si
ritennero autorizzati dalle nuove leggi: si veda, per esempio, la distruzione del tempio di
Giove ad Apamea, a cui collaborò il prefetto del pretorio per l'oriente, Materno Cinegio.
Guida allo studio della lezione 21
Per uno sguardo di insieme sulla figura di Teodosio riportiamo sempre a L.
MONTECCHIO, I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo ,
Roma 2012. Si studino le pp. 201-208.
Lezione 22

Seconda fase della bacauda


Nelle Gallie anche la presenza della Chiesa, che ora cominciava a diffondersi nel paese,
non fu in grado, tranne in pochi casi eccezionali sopraricordati, di offrire ai miserabili un
grande aiuto. Non a caso i Bacaudae riappaiono sotto l’usurpazione di Costantino III e
proseguono in un tempo di precario controllo del territorio gallico da parte delle autorità
romane nella prima metà del V secolo. I Bacaudae del V secolo possono aver ripreso il
nome e gli ideali politici e militari di un movimento che evidentemente non era stato
dimenticato. I breviari del IV secolo di Eutropio e di Aurelio Vittore, insistono sul carattere
rurale del movimento della fine del III secolo. Il contemporaneo retore gallico Mamertino
definisce i bacaudae monstra biformia , contadini e pastori ed insieme fanti e cavalieri,
che imitano i barbari nel devastare i loro stessi campi ( cum hostem barbarum suorum
cultorum rusticus vastator imitatus est ), un’espressione che, presa alla lettera ( suorum
cultorum vastator ) potrebbe essere interpretata come una coloritura in registro
paradossale, in una descrizione totalmente negativa da parte del panegirista dei nemici di
Massimiano, di una tecnica di terra bruciata, all’interno dell’impiego di tecniche di
guerriglia contro gli invasori germanici.
Come vedemmo però non si trattò di semplici rivolte contadine, di jacqueries: basterebbe
ricordare che contro i bacaudi si dovette mobilitare alla fine del III secolo lo stesso
Massimiano Erculio, cioè il Cesare della pars Occidentis . Nel 407 essi arrivarono a
bloccare sulle Alpi Marittime l’esercito romano comandato da Saro (che era di ritorno
dalla Gallia dove aveva combattuto vanamente contro l’usurpatore Costantino III). In
quell’occasione, narra Zosimo, il generale romano fu costretto a consegnare l’intero
bottino di guerra, e solo a tal prezzo i suoi soldati riuscirono ad attraversare senza danni i
valichi alpini. Anche quest’episodio prova che i bacaudi costituivano forze ben organizzate
che probabilmente fruivano dell’appoggio della popolazione e che erano guidati da
comandanti degni di questo nome. Anche nel secolo V, quindi, le milizie contadine o,
comunque, di disperati, venivano sottoposte a qualcuno in alto che sembrava avere la
consapevolezza di come fronteggiare le ormai deboli, ma sempre ben organizzate, legioni
di Roma.
Successivamente ancora in Gallia - siamo negli ultimi anni in cui viene
riconosciuta l’autorità imperiale - si registrarono movimenti di rivoltosi che, con
ogni evidenza, testimoniano come gli interventi armati dell’impero ben poco
potevano contro la disperazione delle campagne affamate istigata
sapientemente da chi conosceva perfettamente tale situazione. E così nei primi
anni del secolo V zone rurali e le città di una Gallia ormai in preda alle scorrerie
sempre più frequenti delle popolazioni germaniche, non sentendosi più protette
da Roma ma solo vessate dal governi centrale, cacciarono le autorità romane e
preferirono sottomettersi all’autorità dei barbari invasori. Le rivolte della Gallia
nei primi anni del V secolo, dovute anche – come denuncia Salviano di
Marsiglia – alla disaffezione dei gallo romani dei ceti più abbienti nei confronti
dell’impero, potrebbe non essere stata del tutto condannata dal clero locale, di
cui lo stesso Salviano era un autorevole esponente.
Approfondimenti sulla lezione 22
Di seguito riportiamo le parole di Salviano che stigmatizza aspramente il comportamento
dei Romani insensibili,a suo dire, verso chi aveva bisogno di aiuto: “Per ciò che riguarda i
nostri rapporti coi Goti e coi Vandali, in che cosa ci possiamo ritenere superiori o anche
paragonarci a loro? In primo luogo, riferendoci all’amore e alla carità […], quasi tutti i
barbari, almeno quelli che appartengono ad una stessa gente e hanno lo stesso re, si
amano vicendevolmente, mentre quasi tutti i romani si perseguitano tra loro […]. Ora in
molti si esprime una nuova e impensabile deviazione del senso morale: per qualcuno è
poco essere felice; è necessario che siano infelici gli altri. Da quest’empia mentalità
discende ancora una crudeltà ignota ai barbari e invece familiare ai romani: l’esazione
delle imposte permette loro di rovinarsi reciprocamente. Per meglio dire, non
reciprocamente: la cosa sarebbe più tollerabile se ciascuno dovesse sopportare quanto
avesse fatto soffrire agli altri. Ciò che è più grave, è che molti sono colpiti da pochi, per i
quali la riscossione delle imposte è divenuta una rapina e che trasformano i titoli del
debito fiscale in una fonte di profitto privato.
E non sono soltanto i funzionari più elevati, ma anche gli impiegati dei gradi più bassi;
non solo i giudici, ma anche i loro sottoposti. In quali città, anzi in quali municipi e in
quali villaggi i curiali non sono altrettanti tiranni? D’altra parte si fanno vanto di questa
qualifica, perché essa sembra sinonimo di potenza e di onore. È infatti proprio di tutti i
briganti di strada rallegrarsi e inorgoglirsi se vengono considerati più crudeli di quanto
non siano in realtà. Quale è dunque il luogo, come dissi, dove i capi delle città non
divorino i beni delle vedove e degli orfani e quelli di tutti gli uomini di chiesa? Infatti
questi ultimi vengono considerati come orfani e vedove, perché non vogliono difendersi
per rispettare i loro voti, o non possono farlo per la loro umiltà e per la loro innocenza.
Nessuno di costoro è dunque sicuro e nessuno, eccetto i più potenti, è immune dalla
devastazione del latrocinio, se non quelli che sono della stessa stoffa dei briganti.
Guida allo studio della lezione 22
Sulla seconda fase delle rivolte bacaudiche si veda L.
MONTECCHIO, I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico
a alto medioevo , Roma 2012. Si studino le pp. 209-225.
Lezione 23

Seconda fase della bacauda in Hispania


Anche in Hispania, quasi 40 anni dopo questi avvenimenti, combatterono contro i
bacaudae generali di primo piano, come il dux utriusque militiae Asturius, nel 442, ed il
suo successore Merobaudo, l’anno seguente. Mobilitazioni così massicce ed organizzate
non potevano certo verificarsi in Gallia senza la compiacenza dei grandi proprietari e delle
loro clientele. Un movimento di tipo “bacaudico” potrebbe essere stato anche quello
ricordato dall’Historia Augusta e avvenuto sotto il regno di Probo, nel III secolo, quando
l’usurpatore Proculo riuscì ad armare 2.000 tra servi e clienti per condurre contro gli
Alemanni un’attività di guerriglia. I bacaudae però, ancora nel secolo V, non sembrano
avere un’organizzazione centralizzata, ma appaiono sempre divisi in piccoli gruppi guidati
da leaders locali, principes, che, di volta in volta, a seconda delle circostanze, potevano
unirsi in formazioni più ampie guidate da un leader di particolare prestigio, secondo le
tradizioni celtiche.
Questo avvenne, per esempio, nell’Armorica (sita nel nord ovest delle Gallie) nel 435 in
cui il leader dei bacaudae Tibatto aveva sotto di sé altri principes che, pur dotati di una
relativa autonomia, riconoscevano la sua autorità. In quei principes, ancora una volta,
non possiamo non vedere alcuni domini, proprietari terrieri, riuniti contro gli ormai deboli
tentativi di Roma di mantenere il controllo su quelle regioni.
Risparmiate quasi completamente dalle ripercussioni delle lotte per il potere e, dopo il
258, dalle invasioni nemiche, le province spagnole fino al 380 avevano goduto, assai più
di altre, dei benefici della pax romana . Città come Braga, Cartagena, Cordova, Merida,
Tarragona, Toledo o Saragozza testimoniavano una romanizzazione assai avanzata e, al
contempo, una fiorente cultura. Alla fine del IV secolo, però, anche la penisola iberica
cominciò a sentire i contraccolpi della crisi economica che aveva investito l’impero con il
graduale impoverimento delle classi benestanti e la caduta in miseria degli altri. In
Hispania , come d’altronde in tutto l’impero, tale decadimento fu più sensibile nelle
campagne dove, accanto ai grandi proprietari terrieri, coi loro immensi latifondi che
raggiungevano spesso l’estensione pari a quella dei successivi feudi medievali e con una
massa di schiavi e di servi tale da consentire loro di allestire veri e propri eserciti privati,
c’erano i piccoli proprietari che, come nella confinante Gallia, non in grado di
sopravvivere, sotto il peso delle tasse introdotte dalla riforma di Diocleziano.
Intorno alla prima metà del secolo V, quando la bacauda si ridestò dal torpore nelle
province galliche, anche la valle dell’Ebro fu teatro di medesime violenze. Le azioni di uno
dei figli del succitato Costantino III, Costante, inducono a pensare che non si tratti di idee
peregrine ma che hanno un qualche fondamento. Costante, con il generale brètone
Geronzio, valicò i Pirenei per affrontare la rivolta di due ricchi fratelli, Didymo e Veriniano.
Questi, facoltosi proprietari terrieri nella Palencia e forse in Lusitania, erano imparentati
con la casata regnante degli iberici Teodosii e, pertanto, risultavano essere un grave
pericolo per Costantino III avendo organizzato un esercito con i loro servi e i contadini
locali, esattamente sulla falsariga dei bacaudae del secolo III.
Contemporaneamente, dunque, le forze romane si trovarono costrette ad affrontare la
bacauda anche nella penisola iberica dove nella Tarraconese anche Basilio, leader
indiscusso dei bacaudae locali, si era rifugiato nella città di Tyriasso, mentre altri bacaudi
impegnarono il generale romano Merobaudo ad Aracelli. Il movimento o forse, a questo
punto, si potrebbe parlare di movimenti bacaudici però attirarono da tutta la Gallia schiavi
e pauperes liberi, nonché piccoli proprietari oppressi dal fisco che tentavano di
conservare il proprio dai proprietari maggiori. La Chronica Gallica ricorda che quasi tutti
gli schiavi gallici (paene omnia Galliarum servitia) si unirono ai bacaudae e, in certe
regioni, come l’Armorica, si poteva dire anzi che quasi tutto il popolo partecipasse alla
ribellione bagaudica. In buona sostanza si ha, ora, una frammentazione della ribellione e
la cosa rese ben più difficile la repressione perché, oltre al fatto di impiegare forze militari
nel difficile campo di una guerriglia, si dové guerreggiare affrontando più attacchi che
andavano dalla penisola iberica settentrionale alle Gallie e sempre dello stesso tenore.
Approfondimenti sulla lezione 23
Ecco quindi che anche in Spagna si hanno i primi movimenti della bacauda, proprio a
seguito della crisi economica ormai esplosa e, dalle invasioni successive al 409, quando
cioè le truppe romane dislocate a protezione dei valichi pirenaici allentarono la
sorveglianza permettendo ai Vandali asdingi e silingi, agli svevi e ai non germanici Alani di
cogliere il momento propizio per attraversare la catena montuosa. Per almeno due anni i
quattro popoli si aggirarono nelle fiorenti campagne iberiche, devastando soprattutto le
province occidentali e meridionali senza nemmeno tentare di dar vita ad un insediamento
stabile, almeno stando al racconto di Isidoro di Siviglia. In base ad un accordo raggiunto
nel 411, l’imperatore di Occidente assegnò loro le terre nelle quali si insediarono come
foederati, cioè sudditi dell’impero tenuti a difendere la Spagna da eventuali attacchi
esterni ma, nella sostanza, quell’accordo serviva a frenare gli impeti di quei barbari.
Comunque gli asdingi e gli Svevi ebbero la Galizia, i silingi la Baetica e gli Alani la
Lusitania.
Idazio, oltre ad Orosio, come testé detto, è l’altra importante fonte a disposizione dello storico che
voglia approfondire lo studio sulle rivolte popolari della Spagna del secolo V anche perché, come
sottolinea acutamente il Sánchez León, proprio Idazio è l’unico che parla esplicitamente di azioni
violente dei rivoltosi contro vescovi spagnoli così come fecero gli Alani. Egli ci informa infatti come nel
secolo V i bacaudae avessero superato i Pirenei e fossero penetrati nel nord della penisola iberica,
mentre nei secoli precedenti ed in particolare nel secolo III si parla di presenza bacauda solo intorno
alle Alpi. Da Idazio si potrebbe supporre che il fenomeno bacaudico non fosse proprio dell’ Hispania o
comunque che non sia sorto colà, ma che, a causa di circostanze simili a quelle che fecero dilagare la
violenze nelle province galliche, gli ispano-romani accolsero e rielaborarono le idee provenienti al di là
dei Pirenei. Tra il 441 e il 443 ci furono almeno due episodi di rivolta di matrice bacauda in terra
iberica in concomitanza alla conquista spagnola da parte dei Vandali e degli Svevi. Nel 449 la
recrudescenza della rivolta bacauda nella valle dell’Ebro fu favorita dalla presenza di un capo
carismatico chiamato Basilio; nel mentre Svevi e Vandali impegnavano le ormai deboli forze romane
con pericolose scorrerie nel nord della Spagna, egli riunì gruppi di ispano-romani, abitanti delle
campagne, e organizzò a sua volta una lotta contro Roma.
Guida allo studio della lezione 23
Lo studio della seconda fase dei moti bacaudici in terra iberica lo si approfondisca su L.
MONTECCHIO, I bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo , Roma
2012. Si studino le pp. 230-245.
Lezione 24

Conseguenze del movimento bacaudico


I cambiamenti socio-economici, che avevano portato le Gallie e la penisola iberica ai
movimenti della bacauda negli ultimi anni del secolo III, vennero a caratterizzare la
società del Tardo impero e, subito dopo, quella dei regno romano barbarici fondati colà Il
sostanziale abbandono di Roma delle campagne, una pressione fiscale ritenuta iniqua, le
prime scorrerie dei popoli germanici che travolsero le Gallie e arrivarono sino alla penisola
iberica, spinsero i signori di campagna a ribellarsi a Roma. Essi non volevano cadere in
mano ai barbari ma desideravano una maggiore libertà di azione e il controllo di quelli
che noi si chiamerebbe gli investimenti fatti con le entrate fiscali raccolte nelle suddette
regioni. Entrate fiscali invece che, è noto, venivano utilizzate, soprattutto in quel periodo,
per rinforzare l’esercito e mantenere l’Urbe in uno stato di benessere.
Per quanto concerne il potere nelle campagne dei proprietari terrieri va detto che era non
indifferente, proprio per la sostanziale assenza del potere imperiale in quelle zone. Ma,
considerata la grave emergenza in cui versava lo stato nel secolo III, era inevitabile che a
pagare fossero le zone rurali e, conseguentemente, il contado che già da qualche
decennio era ridotto in una situazione di deplorevole miseria mentre, al contempo, le città
potevano in qualche modo sopportare meglio gli effetti della crisi economica e degli
attacchi delle popolazioni barbariche che, per motivi facilmente comprensibili, si
concentravano proprio nelle campagne dove potevano scorazzare indisturbati.
Si diceva dei contadini per i quali, vessati sia dai signori, sia dallo stato centrale, era
diventata impossibile la stessa sopravvivenza. Per salvare se stessi e le loro famiglie si
dimostrarono pronti a tutto e per questo motivo divennero, ben presto, un aiuto per i
briganti colà rifugiatisi e per coloro che avessero voluto intraprendere azioni di rivolta
contro l’impero. Quando trovarono persone capaci di far loro da guida furono indotti a
reagire alla situazione contingente. Diciamo che furono indotti a reagire perché la storia
insegna che troppo spesso i popoli o parti di essi si rivoltano, anche alle situazioni più
pesanti, solo se guidate o comunque se manovrate da altri che, più in alto nella scala
sociale rispetto al popolino, hanno meno interesse a porsi in prima fila durante una
rivoluzione ma sono pronti a cercare di guidare coloro che, in buona sostanza, possono
essere sacrificati.
Con ogni probabilità questo fu ciò che avvenne durante la rivolta dei bacaudae del secolo
III e durante la seconda fase di tale rivolta, un secolo e mezzo dopo. Lo storico nota che
sia la prima fase della bacauda, sia la seconda fase, ebbero una durata non minima,
considerando che contro i rivoltosi fu inviato un esercito romano che, soprattutto nel
secolo III, era ancora temibile. Ebbene, nonostante un tale organizzatissimo avversario, i
bacaudae riuscirono a resistere a lungo. Ciò induce a pensare che fossero protetti dai
proprietari terrieri locali che, lo dicemmo, avevano un loro disegno in mente.
Approfondimenti sulla lezione 24
Come ricorda Orosio, anche nella penisola iberica, come nelle Gallie, c’erano ribellioni
contro le ingiustizie che sovente i magistrati esercitavano nei confronti degli
ispanoromani, ma lui non vede in tali ribellioni un tentativo di raggiungere l’indipendenza
dall’impero. Conseguenze che, invece, determinarono, a detta di alcuni storici, uno
spostamento massiccio di Burgundi che si sistemarono nella Gallia centrale, chiamati dalla
nobiltà gallo-romana che preferì loro, dei barbari, rispetto a Roma. Quelle popolazioni
così vessate arrivavano a preferire un’emigrazione in terre lontane e dominate dai barbari
piuttosto che vivere da schiavi sotto una libertà solo apparente.
In proposito, come esempio, si consideri la vicissitudine di Paolino di Pella che, rovinato
economicamente dall’invasione della Gallia meridionale da parte dei Visigoti, fu costretto
ad abbandonare Bordeaux, la sua città nativa, per riparare altrove. Ebbene, in età ormai
avanzata, sentendo l’esigenza di un conforto dei parenti, avendo lui già perso in tempi
invero rapidi suocera, madre, moglie, dovette subire anche l’abbandono dei figli che,
proprio perché assetati di libertà, preferirono tornare a Bordeaux, occupata dai Goti, e
quindi optarono per dividere le loro terre con i Goti invasori pur di non dover sottostare
alle angherie dello stato romano, ormai destinato a crollare di lì a poco.
Guida allo studio della lezione 24
Per uno sguardo di insieme sulla situazione sociale immediatamente
dopo la fine dei moti bacaudici riportiamo sempre a L. MONTECCHIO, I
bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo , Roma
2012. In particolare si leggano le pp. 247-254.
Lezione 25

Franchi, Burgundi e regno di Siagrio


La partita con i Burgundi venne persa, in tempi invero rapidi, per i Romani e gli
ecclesiastici del lionese. Essi, giocoforza dovettero esercitare per lunghi anni l’arte
diplomatica atta ad una convivenza il più possibile serena con il regime burgundo. Un
chierico della zona, Paziente, era diventato un commensale ben introdotto nella corte
burgunda e la regina ne apprezzava le virtù ascetiche. Sidonio Apollinare, dal canto suo,
pur costretto ad accettare i nuovi venuti, non rinuncerà al «piacere» di esprimere il suo
pensiero sui barbari, barbaros vitas , quia mali putentur : ego, etiamsi boni . Quelle
parole non riflettono uno spirito pienamente cristiano ma certamente sono di una
persona che non sopporta i nuovi arrivati.
Quando Clodoveo salì al trono, succedendo al padre Childerico intorno al 481, i Franchi
salii erano ormai arrivati sino alla Somme. La zona venne occupata da quelle che, in
fondo, non erano forze preponderanti, ma erano forse armate. I Romani sembrava
avessero perso totalmente la capacità di contrastare militarmente i nuovi arrivati. Fra la
Somme e la Loira permaneva una sorta di sovranità imperiale per la protezione che le
città gallo-romane della regione godevano grazie a un ufficiale romano, Siagrio, chiamato
da Gregorio di Tours rex romanorum . Questi, da funzionario romano che era, assunse le
caratteristiche di re barbaro, libero pertanto da ogni vincolo di fedeltà ad un’autorità che
non esisteva più.
Il cosiddetto regno di Siagrio ebbe vita breve. Dopo la battaglia di Soissons, nel 486,
anche l’ultimo comandante romano fu sconfitto e cercò rifugio a Tolosa presso da Alarico
II, re dei Visigoti. Questi, temendo l’ira di Clodoveo, giudicò opportuno fare prigioniero il
rifugiato per consegnarlo al re dei Franchi da cui fu ucciso. Ottenuta questa brillante
vittoria il giovane re dei Franchi occupò Soissons che divenne una delle capitali del regno.
Intorno ad essa, infatti, sorgevano le principali villae dei sovrani merovingi. Poi, in rapida
successione, estese il suo domino sulle città della Belgica secunda , tra cui Reims che
diventerà una delle più importanti nel corso di tutto l’alto medioevo, quindi si impossessò
di altre città della Gallia settentrionale, tra cui Parigi, estendendo i suoi domini sino alle
rive della Loira.
Nelle nuove terre i Franchi attuarono una politica particolare. Essi lasciarono pressocché
indisturbata la popolazione gallo-romana e, anzi, sembrarono ben lieti di mescolarsi ad
essa. Fu mantenuta l’antica lingua e i gallo-romani conservarono le loro proprietà senza
essere costretti a dividerle con i nuovi arrivati come era avvenuto con i Visigoti e i
Burgundi. Pur essendo pagano, Clodoveo non solo non disturbò i cristiani ma anzi
dimostrò una straordinaria deferenza nei confronti dei vescovi i quali nutrivano la
speranza di poterlo convertire un giorno non troppo lontano.
Approfondimenti sulla lezione 25
Nel clima di incertezza più totale che i gallo-romani stavano vivendo,
contemporaneamente allo stabilirsi dell’elemento burgundo nella Gallia Centrale, di quello
visigoto nella Gallia meridionale e di quello franco nelle regioni settentrionali del
quadrilatero, iniziava una lenta ma inesorabile azione di alcuni elementi ecclesiastici che,
de facto , tentarono di stabilire una sorta di egemonia in zone ormai abbandonate da
Roma. A tal proposito basti ricordare la consolazione spirituale apportata da Costanzo, il
già citato biografo di San Germano, a Clermont «devastata negli animi e nelle mura».
Non bisogna sottovalutare l’invio di derrate alimentari alla popolazione di Clermont da
parte della Chiesa romana di Gallia attuato da Paziente, vescovo di Lione. Quei gallo
romani così prostrati dalle privazioni, fatalmente si avvicinarono vieppiù alla Chiesa.
Nondimeno, in questo caso, ci preme sottolineare come faccia parte dei doveri della
Chiesa quello di aiutare i bisognosi e le popolazioni in gravi difficoltà, quindi
escluderemmo chissà quali disegni particolari del mondo ecclesiastico cosa di cui, invece,
è convinto il Christensen.
Concordo pertanto con le conclusioni del Miele (M. Miele, La vita Germani di Costanzo di
Lione: realtà storica e prospettive storiografiche nella Gallia del quinto secolo, Roma
1996) che parla invece di «responsabilità sociali e politiche assunte in proprio
dall’aristocrazia religiosa a favore delle comunità cittadine, nella transizione del regime
imperiale ai regni romano-barbarici». Come già facemmo notare, gli spazi lasciati aperti
dalle debolezze del potere centrale, le invasioni dei barbari che, come un fiume in piena,
si riversavano sul fu impero d’Occidente, offrirono all’aristocrazia civile il destro per
riproporre, seppur in ambito religioso, sperimentate abilità nell’esercizio del potere, de
saeculari professione ad clericatum . D’altronde il vescovo Sidonio Apollinare si era
proposto, in tale situazione di confusione generale, quale intermediario tra i Visigoti e i
gallo-romani, per cercare di conservare ai «Romani» Clermont.
Guida allo studio della lezione 25
Per uno sguardo di insieme sulla situazione delle Gallie, caduta Roma,
si consideri sempre sempre a L. MONTECCHIO, I bacaudae . Tensioni
sociali tra tardo antico a alto medioevo , Roma 2012. In particolare si
leggano le pp. 254-256.
Lezione 26

La chiesa tardo antica


La chiesa tardoantica, che aveva assunto, riconosciuto dallo stato, il patrocinio
dei poveri, penò non poco nel tentativo di affermare uno spirito di tolleranza,
soprattutto nei confronti dei furti commessi per reali necessità materiali, anche
se non giunse mai a giustificare il misfatto. Se Gregorio Magno definì
tenuissima pravitas questo genere di criminalità, che le sofferenze stesse della
povertà servivano in qualche modo a purgare; i Padri, come Agostino, non
espressero nessuna critica a proposito della durezza della repressione statale
contro le forme più aggressive e professionali di furto, come l’effractura.
Anzi in generale tendevano a considerare il furto come un peccato mortale,
che, se non espiato con una adeguata penitenza, avrebbe potuto anche
trascinare nel fuoco eterno, sulla base questo del solo luogo scritturale in cui
viene considerato il furto (si consideri la prima già citata lettera ai Corinzi di
Paolo). Segue il salmo 49 (50). In questo modo la chiesa si trovava ad
esercitare una forma importante di controllo delle tendenze criminose dei ceti
inferiori dei quali esercitava il patrocinio. Alla netta condanna si accompagnava
però da parte della chiesa un’azione di intercessione presso le autorità e le
vittime dei furti che venivano esortati a rinunciare all’azione penale per
giungere ad una composizione fraterna sotto la garanzia episcopale, che poteva
sollevare l’irritazione dei funzionari statali.
Un esempio interessante di questo atteggiamento è l’epistola 153 di Agostino
con la quale il vescovo di Ippona risponde ad una insinuazione insidiosa del
proconsole d’Africa Macedonio, che nelle sue intercessiones per reati contro la
proprietà si poteva vedere non solo la sua approvazione ma addirittura una
qualche complicità con le azioni criminose. Come d’altronde scrive Macedonio, i
vescovi tutti intercedevano in favore dei rei. Agostino naturalmente non nega
questo, ma spiega che essi intercedevano, nei limiti delle loro possibilità, in
presenza di una sincera volontà di redenzione e di accettazione della pena; a
tale condizione la colpa poteva essere perdonata.
Chiarisce quindi che il perdono cristiano non comporta il rifiuto della giusta
punizione dettata dalle leggi vigenti. Anche perché, dice Agostino, qualsivoglia
furbizia umana non potrà certo nascondere a Dio la verità su di noi e prosegue
dicendo che amare gli empi non significa certo associarsi a loro. Anzi i colpevoli
di qualche reato anche se non fossero puniti dalle leggi terrene sono dalla
Chiesa allontanati dal sacramento della comunione. L’allontanamento del reo
dalla partecipazione al sacramento più alto mostra la decisione con cui Agostino
e insieme a lui gli altri Padri riconoscevano la gravità del reato.
Approfondimenti sulla lezione 26
L’atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti di chi commetteva un reato non
entrava quindi in conflitto con la severità della legge, anzi, sembrerebbe addirittura più
punitivo rispetto ad una legge umana che, ad ogni buon conto, si limitava a richiedere
l’espiazione della colpa su questa terra. L’impossibilità di entrare in comunione con Dio
era qualcosa che puniva il desiderio di trascendenza di ogni credente e acuiva vieppiù gli
effetti della colpa commessa, incutendo, per altro, una sorta di timore superstizioso che
poteva diventare in determinate circostanze un efficace deterrente contro alcuni crimini.
Un vero cristiano poi, quando si fosse sentito colpevole e, soprattutto, si fosse pentito
della propria colpa, avrebbe certo voluto essere punito per quanto commesso.
Perché con la colpa non si offende solo lo stato o la vittima, bensì Dio stesso. Naturalmente il dovere
di cristiano comportava perdonare anche il recidivo non privandolo della speranza di una vita futura,
certamente sempre dopo aver pagato il fio della colpa sulla terra. La punizione, anche se molto
severa, avrebbe dovuto lasciare la speranza di poter dimostrare di essere degni di appartenere alla
famiglia umana. Viene poi sottolineata la responsabilità enorme che gravava sugli stessi giudici che si
dovevano porre, nei confronti del reo; consapevoli che anch’essi avrebbero, un giorno, dovuto
affrontare il giudizio divino.
Essi dovevano quindi essere mossi solo da sete di giustizia e non dal desiderio di
vendetta. Insomma si deve giudicare secondo la legge nella consapevolezza del fatto che
nessuno è senza peccato e quindi usando la giusta moderazione che è poi sinonimo di
vera giustizia. In buona sostanza il peccato, quindi il delitto, va sempre condannato,
conviene però essere indulgenti con i peccatori. Si rende necessario, per un cristiano,
capire bene gli insegnamenti del Cristo che ha sempre fermamente condannato il peccato
ma si è sempre mostrato pietoso verso il peccatore. In ultima analisi fondamentali
apparivano ad Agostino le istituzioni della giustizia umana perché aiutavano a tenere a
freno i malvagi e permettevano ai buoni di vivere anche in mezzo ai delinquenti. Il Santo
si spingeva fino a sottolineare che non si deve evitare di commettere il delitto solo per il
timore di una giusta punizione, bensì per amore di giustizia.
Guida allo studio della lezione 26
Per uno sguardo di insieme sulla chiesa nella antichità tarda si consideri L.
MONTECCHIO, I bacaudae . Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo ,
Roma 2012. Si studino le pp.5-19.
Lezione 27

Onorio
Torniamo per poco alla situazione imperiale alla morte di Teodosio e concentriamoci sulla
pars Occidentis dove regnava Onorio. Come dicemmo nella realtà dei fatti, almeno sino
alla maggiore età dell’imperatore, fu il generale di origine barbara Stilicone a regnare. La
situazione andava peggiorando di giorno in giorno perché, ormai, le tribù barbariche si
erano rese conto dell’impotenza di Roma nei loro confronti. Intanto era ancora in atto la
rivolta dell'usurpatore Costantino III che in Gallia riuscì, stando a Zosimo, a riportare una
parvenza di normalità. In aiuto di Onorio venne l’ulteriore ribellione, nel 409, di Geronzio,
generale di Costantino, che proclamò un proprio imperatore, Massimo, in Hispania , e
assediò Costantino ad Arles; qui i due ribelli furono raggiunti dal generale romano Flavio
Costanzo ( futuro imperatore con il nome di Costanzo III), il quale sconfisse in rapida
successione Geronzio, Massimo e infine Costantino (411).
La situazione in Gallia sembrava ben lontana dal potersi definire stabilizzata. Proprio da lì
giungevano continui pericoli per il potere di Onorio: subito dopo che le truppe di
Costanzo erano tornate in Italia, Giovino si ribellò nella Gallia settentrionale, col sostegno
di Alani, Burgundi e della nobiltà gallo-romana. Giovino cercò l'alleanza con i Goti di
Ataulfo ma si inimicò il re barbaro proclamando augusto il proprio fratello Sebastiano:
Ataulfo cercò di accordarsi con Onorio, il quale lasciò che il sovrano goto risolvesse il
problema dell'usurpatore, sconfitto e ucciso nel 413. In quello stesso anno Costanzo sedò
un'altra rivolta, quella di Eracliano in Africa. Nel 414 Costanzo attaccò Ataulfo, che rimise
sul trono nuovamente Prisco Attalo e sposò Galla Placidia. Costanzo forzò Ataulfo a
ripiegare in Hispania e Attalo, avendo perso il sostegno dei Visigoti fu catturato e
deposto. Malgrado questo successo, la situazione in Gallia non migliorò: la zona nord-
orientale della regione subì ancor di più l'influenza dei Franchi, mentre un trattato
stipulato nel 418 garantì ai Visigoti il possesso dell’Aquitania. Infine, nel 420-422 un certo
Massimo, forse da identificarsi con il candidato di Geronzio, sorse e tramontò in Hispania.
Onorio, spesso in contrasto con il fratello imperatore d'Oriente, cercò l’alleanza con la Chiesa cattolica
eliminando anche le ultime vestigia del paganesimo come, ad esempio, i giochi gladiatorii. Per
rinforzarsi politicamente, Onorio si avvicinò al generale Costanzo, il quale prima sposò la Galla Placidia
già andata in sposa al visigoto Ataulfo, sorella dell'imperatore, poi fu associato al trono nel 421. Si
rende necessario un excursus su Galla Placidia. Ella, fatta prigioniera dai Visigoti a seguito del sacco di
Roma del 410, sposò – innamorata – Ataulfo e soltanto in un secondo momento rientrò nell’alveo
romano. Lo stratagemma di Onorio fu reso vano dalla morte improvvisa di Costanzo avvenuto durante
il medesimo anno, così che l'imperatore, sentendosi fondamentalmente inadeguato nell'affrontare la
profonda ed irreversibile crisi contingente, ritenne opportuno ritirarsi a Ravenna, dove morì nell'anno
423. Non avendo lasciato eredi, il suo trono fu dapprima usurpato dall'alto funzionario Primicerio, poi
recuperato da Valentiniano III, figlio di Galla Placidia.
In realtà le decisioni in vece di Valentiniano furono prese da Galla Placidia e,
successivamente, da Aezio, ultimo grande generale romano che cercò, con la sua abilità,
di preservare ciò che restava del fu dominio romano dal crollo ormai imminente. Con la
perdita di gran parte delle province Africane e la conseguente diminuzione della base
imponibile, lo stato romano venne costretto ad aumentare la pressione fiscale con il
risultato che la lealtà delle province al governo centrale venne messa a dura prova come
già accadde con le rivolte bacaudiche nel secolo III.
Approfondimenti sulla lezione 27
Del periodo di Onorio e della storia di Galla Placidia con il visigoto Ataulfo si può parlarne anche grazie
alle immagini. Va aggiunto soltanto che Galla Placidia stava vivendo con Ataulfo una vera storia di
amore quando il marito morì. I matrimoni successivi furono fatti per la ragion di stato ma nel suo
cuore rimase sempre il primo marito. Ataulfo l’aveva trattata con sommo rispetto e se n’era invaghito
appena i Visigoti l’avevano presa in ostaggio.
Guida allo studio della lezione 27
Sulla figura di Onorio e sulla vicende inerente Galla Placidia si consideri L. MONTECCHIO,
I bacaudae. Tensioni sociali tra tardo antico a alto medioevo , Roma 2012. Si studino le
pp.205-208.
Lezione 28

Clotilde
Dalla fine del secolo IV ai primi secoli dell’alto medioevo numerose figure femminili hanno
conquistato un posto di rilievo nella storia. Si trattava di principesse che, in taluni casi,
non avevano nobili origini ma che seppero imporre le loro grandi personalità ai rispettivi
consorti e, di conseguenza, ai popoli che governavano. Tra queste principesse emerse
Clotilde, regina dei Franchi, che andò in sposa a Clodoveo.
Figlia del re dei Burgundi, Chilperico II, alla morte di questo, ucciso nel 486 dal fratello
Gundobado, venne, ancora molto giovane, inviata in esilio presso uno zio a Ginevra. Fu in
questo periodo che Clotilde e la sorella si convertirono al credo niceno. Sempre in questo
periodo il re dei Franchi, Clodoveo I, dopo che una delegazione di Franchi aveva visto la
giovane Clotilde ed aveva riferito la buona impressione al proprio re, chiese di avere in
moglie Clotilde. Gundobado, non pensò nemmeno di opporre un rifiuto (con ogni
evidenza voleva evitare controversie contro il potente vicino) e anzi consegnò tosto,
all'inviato del re dei Franchi, la figlia Clotilde.
Clotilde, una volta sposatasi con il sovrano dei Franchi, si dedicò fin da subito alla
conversione del marito pagano. Clodoveo si dimostrò riottoso ad abbracciare il nuovo
credo anche perché il suo popolo era nella totalità pagano mentre cristiani erano i
galloromani, ormai soggiogati. Insomma abbracciare il credo niceno avrebbe potuto
significare, di fronte al suo popolo, un’accettazione della religione dei vinti. Tale topos
risulta essere molto diffuso nell’Europa romano barbarica che andava costruendosi e i
sovrani erano molto attenti a non incrinare la fiducia dei loro popoli.
Nondimeno Clodoveo, pur non convertendosi, permise alla moglie di battezzare i figli. La
regina si mostrò molto decisa nei confronti del marito pagano e, dopo la nascita del
primogenito, apertis verbis gli disse che sarebbe stato doveroso consacrarlo all’unico Dio,
visto che le divinità pagane non erano nulla al suo confronto. Clodoveo non era
pienamente convinto che il Dio della moglie fosse un Dio così potente, così influente
anche, visto poi che aveva appena perso il suo primogenito che era stato battezzato in
nome del Dio della moglie.
Clodoveo però era uomo pratico che pensava al governo del suo regno piuttosto che a
contenziosi religiosi di cui, in un primo momento, pensava fossero solo una perdita di
tempo. Nondimeno nella mente del sovrano qualcosa si stava insinuando, una qualche
idea inerente il trascendente si stava facendo strada. Comunque, grazie all’azione
incessante della moglie, Clodoveo, dopo la guerra contro gli Alemanni abiurò la fede dei
suoi antenati e, il 24 dicembre 496, onorò una promessa, fatta prima della battaglia
decisiva - secondo Gregorio (Gregorio di Tours, nel suo Historia Francorum , racconta che
Clodoveo si convertì per un voto fatto prima della battaglia di Tolbiacum contro gli
Alemanni, ma si tratta, come si evince facilmente, di un evento che ricalca
pedissequamente quella dell'imperatore Costantino, poco prima di Ponte Milvio) facendosi
battezzare a Reims dal vescovo Remigio, assieme alle sorelle, Landechilde e Alboflede.
Approfondimenti sulla lezione 28
Di seguito il racconto di Gregorio di Tours sul battesimo del figlio primogenito di Clodoveo
e, poi, sulla decisione di battezzare il secondogenito. «Ebbe dalla regina Clotilde il figlio
primogenito. Ella, volendolo consacrare con il battesimo, soleva dire con assiduità a suo
marito ‘Sono inutili gli dei che vengono venerati. Non servono a nessuno, né a te né agli
altri. Essi infatti sono soltanto scolpiti nel marmo, nel legno o nel metallo. Che dire dei
nomi che sono stati loro assegnati dagli uomini?’ ...Frattanto la regina prepara il figlio per
il battesimo, ordina di adornare la chiesa con veli e con drappi, in modo venga spinto a
credere più facilmente a questo mistero chi non poteva essere persuaso con la sola
predicazione. Il fanciulla battezzato, che veniva chiamato Ingomero, morì negli stessi
abiti bianchi in cui era stato rigenerato.
Per quel motivo il re commosso e fortemente irritato, imprecava con veemenza contro la
regina dicendo ‘Se il fanciullo fosse stato indirizzato verso i miei dei sarebbe
sopravvissuto, ora invece poiché è stato battezzato nel nome del tuo dio per certo non ha
potuto vivere’. Di rimando la regina disse ‘A Dio onnipotente creatore di tutte le cose
rendo grazie per non avermi giudicato totalmente indegna di accogliere nel suo regno il
frutto del mio ventre. Il mio animo non è toccato dal dolore di questa tragedia perché so
che, nelle sue vesti bianche, è stato chiamato da questo mondo a Dio per nutrirsi della
Sua visione’ Dopo questa tragedia generò un altro figlio che venne battezzato con il nome
di Clodomero. Avendo il re appreso ciò con sofferenza diceva ‘’Non si può altro se non
che tocchi la medesima sorte del fratello perché, battezzato in nome del vostro Cristo,
morirà subito’. Ma grazie alle preghiere della madre, a Dio piacendo, il fanciullo
sopravvisse».
Guida allo studio della lezione 28
Sulla regina dei Franchi Clotilde riportiamo a L. MONTECCHIO, Ingundi
, Bologna 2015. Si studi il capitolo I.
Lezione 29

Giustiniano
Caduta la pars Occidentis dell’impero, poté resistere solo la pars Orientis, cioé
l’organismo più sano, più forte e più densamente popolata. La riconquista di Roma,
partendo da tali presupposti, era quindi una missione sacra, un dovere che spettava al
sovrano della pars orientalis dell’impero. Con Giustiniano (527-565) tale idea di
riconquista divenne realtà. Figlio di un contadino proveniente da una provincia dei
Balcani, divenne ben presto lo spirito più raffinato e colto del secolo VI; il che sta a
dimostrare quanto fosse forte la forza civilizzatrice di Bisanzio.
La grandissima personalità di quest’uomo sono comprovate dal respiro universale delle
sue mete politiche e dalla straordinaria versatilità dei suoi interessi e della sua opera. Non
fu lui materialmente a condurre le grandi guerre di conquista bensì i generali Belisario e
Narsete; fu Triboniano a dirigere la grande codificazione giuridica; il prefetto del pretorio
Giovanni di Cappadocia prese le più importanti misure amministrative. Ma fu Giustiniano
l’ispiratore di tutte le grandi imprese della sua epoca; fu lui a realizzare la grande
aspirazione dei bizantini di restaurare l’impero romano universale, conquista priva di
alcuna stabilità e destinata a crollare in tempi invero brevi.
Quando nel 533 Belisario sbarcò in Africa alla testa di un piccolo esercito di diciottomila
uomini la potenza vandalica che, sotto Genserico, si era abbattuta come una tempesta su
Roma, si era assai affievolita. Belisario infatti in meno di un anno sconfisse il re Gelimero
e tornò da trionfatore in patria. Ben più ostico si rivelò il suo compito contro gli Ostrogoti.
Napoli e Roma caddero in tempi relativamente brevi ma subito dopo iniziò una lotta
difficilissima per la strenua resistenza dei Goti che giammai volevano piegarsi ai Bizantini.
Sotto l’abile guida di Totila gli Ostrogoti inflissero non poche sconfitte a Belisario al punto
che Giustiniano fu costretto a sostituirlo con Narsete il quale, dopo un conflitto di
vent’anni durante i quali le armate greche tentarono vanamente di sopraffare l’orgogliosa
e mai doma popolazione germanica, la penisola italiana, nel 555 cadde ai piedi di
Giustiniano. Anche parte della Spagna venne riconquistata dopo aver sconfitto i Visigoti.
Insomma l’antico impero sembrava risorto anche se le Gallie, buona parte della penisola
iberica e la Britannia ne restavano fuori.
L’opera più grande, duratura e incisiva dell’epoca di Giustiniano fu senza dubbio alcuno la
codificazione del diritto romano. Sotto la direzione di Triboniano prima venne fatta una raccolta di tutti
gli editti imperiali in vigore, a partire dai tempi di Adriano, sulla base del Codex Theodosianus , delle
raccolte private dai tempi di Diocleziano, del Codex Gregorianus e del Codex Hermogenianus . Questa
raccolta, pubblicata nel 529 col titolo di Codex Justinianus , venne ampliata cinque anni più tardi. Ma
ancora più importante è il Digesto ( Pandette ), pubblicato nel 533. Si trattava di una raccolta degli
scritti dei giuristi classici romani che, accanto agli editti imperiali, rappresentavano il secondo gruppo
delle leggi vigenti. Infine abbiamo le Institutiones , concepite come un manuale per lo studio del
diritto, che contengono estratti dalle due opere principali. Le Novellae , leggi cioè promulgate dopo la
pubblicazione del Codex , completano il Corpus iuris civilis . In esso molto forte è l’accentuazione
dell’assolutismo imperiale e la sua influenza varcherà le mura di Bisanzio per abbracciare l’intera
Europa. Quando dal secolo XII si tornerà al diritto romano, il Corpus iuris civilis assumerà
un’importanza decisiva nell’elaborazione delle concezioni politiche e giuridiche dell’Occidente. Da
allora in poi il diritto romano, nella forma datagli dalla codificazione giustinianea, diventò un fattore
fondamentale nello sviluppo del diritto in tutta Europa, fino ai giorni nostri.
Approfondimenti sulla lezione 29
Va sottolineato come Giustiniano si sentì un imperatore cristiano, benché fosse
consapevole dell’origine divina della sua autorità imperiale. Nondimeno la sua aspirazione
universalistica non era soltanto “romana” bensì anche “cristiana”. Il concetto di imperium
romano era per lui identico a quello di ecumene cristiana e quindi la vittoria definitiva
della religione cristiana rivestiva fatalmente un ruolo decisivo nella sua politica. Da
Teodosio I nessun altro imperatore si era battuto con tanto vigore per la cristianizzazione
dell’impero e per la conseguente sconfitta del paganesimo. Sebbene il numero dei pagani
si fosse notevolmente assottigliato, la loro influenza nella vita culturale e
nell’insegnamento restava forte. Giustiniano pertanto si risolse ad interdire ai pagani
l’insegnamento e nel 529 chiuse l’Accademia di Atene, culla del neoplatonismo pagano.
Gli insegnanti cacciati si rifugiarono presso la più accogliente corte persiana e portarono
in Persia i frutti della cultura greca. La Chiesa cristiana ebbe in Giustiniano non solo un
protettore ma anche un capo perché, da romano, gli era del tutto estranea l’idea di
un’autonomia della sfera religiosa: papi e patriarchi erano considerati suoi servi. Nel
quadro della storia dei rapporti tra Stato e Chiesa l’epoca giustianianea rappresentò il
momento della massima influenza del potere imperiale sulla vita ecclesiastica, e nessuna
altro imperatore, né prima né dopo di lui, ebbe un’autorità altrettanto illimitata sulla
Chiesa. Quell’imperatore aveva rinverdito i fasti dell’antica Roma al punto da illudere molti
ispano romani, italici, ma anche gallo romani, di un ritorno all’antico. I tempi però erano
totalmente cambiati.
Guida allo studio della lezione 29
Per affrontare lo studio della figura di Giustiniano riportiamo all’opera di G. Ostrogorsky,
Storia dell’impero bizantino, Torino 1993. In particolare si studino le pagine 64-71.
Lezione 30

Teodora
Intorno al 520 Giustiniano rimase folgorato dalla visione di colei che sarebbe divenuta sua
moglie. Si trattava della figlia di uno degli allevatori di orsi dell’ippodromo. Fu educata da
una madre per lo meno indulgente immersa nella società che frequentava i quartieri del
circo. Era bella,intelligente e brillante e amava scandalizzare. Procopio di Cesarea, lo
vedremo, ne parla come donna risoluta, pronta a tutto pur di ottenere qualcosa e
dispostissima a calpestare la morale comune dell’epoca. Giustiniano se ne innamorò
follemente al punto da diventare una sorta di suo umile servitore, pronto a soddisfare
qualsivoglia desiderio della donna.
Procopio di Cesarea non può senz’altro essere tacciato di condiscendenza
rispetto a Teodora. «Teodora non aveva ancora l’età per accoppiarsi
sessualmente con un uomo come una donna fatta; tuttavia aveva commerci di
tipo maschile con uomini indegni, precisamente schiavi che, seguendo i padroni
a teatro, ritagliavano dall’opportunità di cui godevano quest’attività esiziale:
così si intratteneva a lungo nel bordello in tali commerci carnali contro natura.»
e ancora: «Non era persona da aver ritegni né la si vide mai vergognarsi;anzi
non esitava punto a concedersi a spudorati servigi…».
Eppure egli, capace di esprimere parole durissime per quanto concerneva la morale dell’
imperatrice, fu il primo a riconoscere, seppur a denti stretti, che il suo ruolo nel
superamento della gravissima crisi che coinvolse il marito, durante la rivolta di Nika, fu
decisivo.
Nel 523 ella divenne ufficialmente moglie di Giustiniano e da allora iniziarono le fortune
del marito. Questi infatti nel 527 venne associato all’impero e Teodora poté condividere
con lui non solo la promozione ma anche il trionfo del consorte. Da parte sua Giustiniano
si consultò sempre con la moglie prima di prendere una decisione importante. Pertanto la
donna si inserì perfettamente nell’azione di corte e ebbe modo di conoscere i segreti più
reconditi del governo. Nondimeno fu qualche anno dopo l’assunzione della porpora che
tutti coloro che gravitavano a corte ebbero modo di conoscere davvero il carattere di
quella donna.
Si era nel 532, l’11 gennaio di quell’anno, quando una folla inferocita iniziò a fischiare
Giustiniano nel circo.
La causa principale del malcontento fu l’esosità dei dignitari di corte – e quindi del
governo – che venne ritenuta eccessiva. Ben presto i disordini dilagarono oltre
l’ippodromo in tutta la città e i Verdi fecero causa comune con gli Azzurri contro
l’imperatore.
Il marito di Teodora, atterrito, si asserragliò nel palazzo imperiale. Egli stava
organizzando la fuga che inevitabilmente avrebbe segnato la fine del suo potere ma che,
probabilmente, gli avrebbe salvata la vita. Era già iniziato il carico del tesoro imperiale
sulle navi quando, davanti a quell’uomo, terrorizzato di fronte alla rabbia dei rivoltosi che
minacciava di spazzare via il suo imperium si presentò sua moglie, Teodora, che con
dolce fermezza indicò al marito la via da seguire per resistere agli insorti. Ella disse al
marito parole che rimasero nella storia: «Quand’anche l’unica salvezza stesse nella fuga,
pure io non fuggirò. Chi ha portato la corona non deve sopravviverle. Non vorrò mai
vivere abbastanza da vedere il giorno in cui non sarò più salutata imperatrice». Quindi
rivolto a Giustiniano, comprensibilmente stupefatto, continuò: «Fuggi, se lo desideri,
cesare; hai denaro, le navi ti attendono, il mare è libero. Quanto a me, resterò. Terrò
fede all’antico detto per il quale la porpora è un buon sudario».
Simili parole risvegliarono il sopito coraggio nell’imperatore e lo indussero a resistere sino
a che non fosse giunto in suo soccorso Belisario. Si trattava solo di mantenere la calma e
in breve tutto sarebbe finito con la vittoria del generale. Giustiniano che, anni prima si era
innamorato di quella donna, non soltanto per la sua avvenenza, ebbe la certezza di aver
scelto ‘la persona’ con cui avrebbe davvero condiviso la sua vita. Sua moglie sarebbe
stata il suo faro anche dopo la morte di lei.
E’ stata certamente una donna ambiziosa e possedeva quelle grandi qualità che
giustificarono simile ambizione. Senz’altro sarà anche stata una persona che «curava il
corpo oltre il necessario, ma sempre meno di quanto avrebbe voluto», nondimeno
Il suo ingegno audace e duttile era sempre in grado di escogitare qualche sorprendente
vendetta anche quando, a causa di circostanze non favorevoli, era costretta a cedere. La
sua ambizione, coniugata con la sua vivacità intellettuale, riusciva sempre a far sì che
avesse l’ultima parola sulle decisioni del marito.
Approfondimenti sulla lezione 30
Di seguito, a proposito della rivolta di Nika, riportiamo in traduzione un racconto di quei momenti di
massima tensione per le sorti dell’impero stesso. Le parole del cronista danno un ritmo sostenuto alla
vicenda e fanno emergere l’estremo pericolo in cui versava Giustiniano e, con lui, Teodora:
« Molti popolani acclamarono: ‘Augusto Giustiniano, vinci!’ Ma altri gridarono: ‘Giuri il falso, asino! ‘.
L’imperatore smise di. parlare e se ne andò dall’ippodromo. Diede quindi congedo al personale di
Palazzo dicendo ai senatori: ‘Andate, ognuno custodirà la propria casa’. Quando uscirono il popolo
andò incontro al patrizio Ipazio e al patrizio Pompeo’ gridando: ‘Ipazio augusto, vinci!’ I popolani
presero quindi Ipazio e lo portarono a braccia nel foro di Costantino, con indosso un mantello bianco,
fino ai gradini della colonna che regge la statua dell’imperatore Costantino. Prelevarono dal palazzo di
Placillianae le insegne imperiali che vi si trovavano e decorarono il suo capo ponendogli inoltre un
collare d’oro intorno al collo. Quando l’imperatore lo seppe, il palazzo venne chiuso. La moltitudine dei
popolani, tenendo con sé Ipazio, il patrizio Pompeo e Giuliano l’ex prefetto del pretorio, condusse
Ipazio sul Kathisma imperiale con l’intenzione di portar fuori da Palazzo la porpora sovrana e il
diadema e incoronarlo imperatore. Tutto il popolo raccolto all’ippodromo gridava al suo indirizzo:
‘Augusto Ipazio, vinci!’
Ipazio, prevedendo che l’indole della plebe è mutevole e che di nuovo l’imperatore avrebbe prevalso,
inviò di nascosto da Giustiniano il candidatus Efraimios, nel quale aveva fiducia, per riferirgli: ‘Ecco
che tutti i tuoi nemici si sono raccolti nell’ippodromo: fa’ ciò che ordini’. Efraimios si recò a Palazzo per
andare a riferire l’ambasceria all’imperatore. Ma gli si fece incontro un certo a secretis Tommaso,
medico del sovrano e a questo assai caro, che gli disse: ‘Dove vai? dentro non c’è nessuno.
L’imperatore, infatti, è fuggito’. Efraimios tornò indietro e disse a Ipazio: ‘Signore, Dio vuole che sia tu
a regnare piuttosto che lui: Giustiniano infatti è fuggito e a Palazzo non c’è nessuno’. Udito ciò, Ipazio
parve stare con maggiore tranquillità nella tribuna imperiale dell’ippodromo e ascoltare le
acclamazioni del popolo a lui rivolte e le voci ostili verso Giustiniano e l’augusta Teodora. Arrivarono
inoltre dal quartiere di Constantianae giovani armati di corazza appartenenti alla fazione dei Verdi, in
numero di duecentocinquanta. Questi giovani vennero in armi ritenendo di poter forzare l’accesso del
palazzo per introdurvelo. Quando il divinissimo imperatore Giustiniano seppe quanto avevano osato i
popolani assieme a Ipazio e Pompeo, raggiunse immediatamente attraverso la scala a chiocciola il sito
chiamato Pulpita, dietro alla tribuna dell’ippodromo, e di qui arrivò alla sala con le porte di bronzo che
al momento erano chiuse. Con lui si trovavano Mundo, Costanziolo, Basilide, Belisario e alcuni altri
senatori.
Aveva poi anche la guardia armata di Palazzo con i suoi spatari e cubiculari.
Mentre accadevano queste cose, Narsete cubiculario e spatario uscì di nascosto e, ricorrendo al
denaro, si conciliò personalmente o tramite emissari alcuni membri della fazione degli Azzurri. Coloro
che avevano cambiato partito iniziarono a gridare: ‘Augusto Giustiniano, vinci! O Signore, salva
Giustiniano e Teodora!’ Tutto il popolo presente all’ippodromo mandò alte grida e alcuni rivoltosi della
fazione dei Verdi li aggredirono con il lancio di pietre. Alla fine gli assediati a Palazzo si decisero e
radunarono le forze militari che si trovavano all’interno all’insaputa degli excubitores e degli scho1ares
che erano passati dalla parte del popolo. Entrarono nell’ippodromo ognuno con i propri uomini,
Narsete dalle porte, il figlio di Mundo attraverso la sphendone, altri attraverso la porta a un unico
battente del Kathisma imperiale raggiungendo l’arena, altri ancora passando dalla porta di Antioco e
da quella chiamata Nekra. Cominciarono a uccidere i popolani come capitava e nessuno fra i cittadini
o gli stranieri che si trovavano all’ippodromo ebbe scampo.»
Guida allo studio della lezione 30
Sulla principessa Teodora riportiamo, ancora, a L. MONTECCHIO, Ingundi , Bologna 2015.
Si studi il capitolo I
Lezione 31

Prima fase del regno di Tolosa


Prima fase del regno di Tolosa

Dopo il primo sacco di Roma del 410, mentre grande era la confusione nella penisola
italiana ormai allo sbando, i Visigoti, protagonisti di uno degli eventi più traumatici della
storia dell’Urbe, si trovarono ben presto senza guida a causa dell’improvvisa scomparsa di
Alarico. Questi, come è noto, subito dopo i tre giorni di saccheggio di Roma, aveva in
mente di procedere rapidamente alla conquista della ricca provincia d’Africa, per rientrare
poi in Italia e impadronirsi durevolmente di tutta la penisola. Il suo grandioso progetto
non poté realizzarsi per tutta una serie di contrattempi e, infine, per la sua morte. Gli
successe il cognato Ataulfo il quale, forse intimorito dalle forze soverchianti di Eracliano,
generale di Onorio, abbandonò l’idea della conquista dell’Africa e preferì dirigersi a nord
verso la Gallia dove, nel 412, iniziò una vera e propria guerra contro i Romani dopo
essersi accordato con l’anti-imperatore Giovino che aveva usurpato il titolo nel 411;
l’accordo fra i due durò però poco per l’aspirazione di Giovino a governare l’intera Gallia
senza interferenze da parte di chicchessia.
Prima fase del regno di Tolosa

Ataulfo, allora, con un audace voltafaccia, si rivolse all’imperatore Onorio, promettendogli


la testa dell’usurpatore nonché la riconsegna della sorella Galla Placidia, dianzi caduta
prigioniera dei Visigoti in occasione del sacco di Roma, in cambio di rifornimenti di grano
e dell’assegnazione di terra. Onorio, dapprima accettò, ma poi non onorò la promessa
fatta tanto che Ataulfo si vide costretto a riprendere le ostilità contro l’impero. Nel 413 i
Visigoti riuscirono ad occupare in rapida successione Narbona, Tolosa e Bordeaux, e agli
inizi del 414 Ataulfo, sposata in seconde nozze Galla Placidia, mutò radicalmente il suo
atteggiamento che, da bellicoso, divenne pacifico. Da allora in avanti il re goto
abbandonò l’idea di trasformare l’impero romano in un dominio goto, impegnandosi
invece con tutte le sue forze a favorire la totale integrazione della sua gente nello stato
romano. Il suo programma politico, come si vede, era per alcuni versi simile a quello che
sarebbe stato, anni dopo, il progetto del re ostrogoto Teodorico nel fondare il regno
italico.
Prima fase del regno di Tolosa
La guerra divenne presto inevitabile e, dopo alterne vicende, fattasi disperata la
situazione dei goti, Ataulfo fu costretto a cercare scampo in Spagna dove occupò nel 415
la provincia Tarraconense, morendovi di lì a poco. Questi sono gli avvenimenti che
portarono all’incontro e al successivo stabile consolidamento dei Visigoti nella penisola
iberica; essi vi giunsero, se non casualmente, certo non guidati da un disegno di
conquista programmata. E anche il successivo stanziamento in terra spagnola si attuò
fortunosamente e con non poche difficoltà. Tra i Visigoti infatti, oltre al defunto sovrano,
solo un’esigua minoranza aspirava ad una reale integrazione con i romani e, alla sua
morte, prevalsero all’interno di quel popolo le mai sopite tendenze contrarie; non stupisce
pertanto che l’immediato successore di Ataulfo, Sigerico, figlio di un principe goto fatto
uccidere a suo tempo dallo stesso Ataulfo, sfogasse il suo rancore contro Galla Placidia,
infliggendole il più umiliante dei trattamenti.
Prima fase del regno di
Tolosa

Fortunatamente per la sorella di Onorio, dopo una sola settimana Sigerico venne fatto
trucidare da Wallia, il quale riservò a Galla Placidia un trattamento molto più umano.
Wallia aveva l’intenzione di ampliare i domini spagnoli, ma i Romani del generale
Costanzo frustrarono le sue velleità costringendolo a scendere a patti: in cambio di
600000 misure di grano, Wallia si impegnò a restituire Galla Placidia e a liberare la
Spagna dai Vandali, dagli Alani e dagli Svevi. A garanzia del rispetto dei patti furono
consegnati al generale romano degli ostaggi. Wallia mantenne i suoi impegni e tra il 416
e il 418 i Vandali silingi e gli Alani furono sconfitti, ma prima che potesse marciare contro
i Vandali asdingi e contro gli Svevi Costanzo, temendo che i Visigoti diventassero troppo
potenti e quindi difficilmente controllabili, lo fermò assegnandogli come ricompensa per i
servigi prestati notevoli estensioni di terra nella provincia dell’Aquitanica Secunda e in
alcuni distretti limitrofi. In quello stesso anno Wallia morì.
Prima fase del regno di Tolosa

I rapporti fra Romani e Visigoti non furono senza difficoltà anche perché i Visigoti non
sembravano prendere con la dovuta serietà il valore del foedus che li legava all’impero.
Basti pensare a ciò che avvenne nel 422, quando i Romani, che si erano schierati contro i
Vandali contando sull’intervento di truppe gote, ebbero la sgradevole sorpresa di essere
attaccati alle spalle proprio dai loro “alleati” i quali colsero l’occasione per tentare di
liberarsi dal giogo imperiale. A questo punto non si può fare a meno di rilevare che
l’impero era evidentemente troppo debole se dei barbari poterono permettersi un così
basso tradimento senza venire prontamente e duramente puniti! In un primo momento i
Goti parvero giovarsi del loro tradimento tanto che poterono giungere sino ad Arles, ma
poi dovettero precipitosamente battere in ritirata all’avvicinarsi di un esercito comandato
dal valoroso generale Ezio. Ormai però il prestigio imperiale era stato gravemente leso. I
Visigoti, infatti, si videro riconosciuta la piena sovranità sulle provincie che originariamente
erano state loro solo assegnate (l’Aquitanica Secunda e l’angolo nord-ovest della
Narbonense Prima), in cambio, dovettero restituire all’impero i territori conquistati sino al
426.
Prima fase del regno di
Tolosa
Il re visigoto Teodorico, seriamente preoccupato per l’estrema fragilità del suo regno
evidenziata anche dagli ultimi avvenimenti militari, avrebbe quindi avuto modo e tempo
di riparare i danni subiti. Ma tutti i suoi tentativi di rafforzare ulteriormente lo stato furono
frustrati dalla perenne instabilità in seno alla sua corte, instabilità che-come avremo
modo di approfondire in seguito-caratterizzerà tutta la vicenda dei Visigoti sino alla loro
definitiva sconfitta ad opera degli Arabi. Solo due anni dopo infatti, nel 466, Teodorico
cadeva vittima di una congiura di palazzo capeggiata dal fratello Eurico, il quale faceva
parte del partito antiromano e non vedeva di buon occhio i continui rinnovi di un foedus
goto-romano i cui presupposti riteneva forse ormai superati. Egli, fin dai primi tempi del
suo regno, cominciò a mettere in pratica quella che sarà l’idea conduttrice della sua
politica e cioè il rifiuto della sovranità anche solo formale dell’impero romano.
Approfondimenti sulla lezione 31
Approfondimenti sulla
lezione 31
La prima fase del regno dei Visigoti nelle Gallie non può prescindere da due
figure essenziali per quel popolo: Alarico, il conquistatore di Roma, e Ataulfo,
colui che sposò Galla Placidia, sorella degli imperatori Arcadio e Onorio. Quel
matrimonio, in particolar modo, fu essenziale per tentare di mitigare la
posizione dei Goti dell’ Ovest invisi ai Gallo romani.
Approfondimenti sulla lezione 31
Approfondimenti sulla lezione 31
Guida allo studio della lezione 31
Guida allo studio della
lezione 31
Per approfondire il periodo dell’insediamento dei Visigoti in Gallia
riportiamo a L. Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo
VII, Perugia 2006. In particolar modo si legga il capitolo I.
Lezione 32

Caduta del regno di Tolosa


Caduta del regno di Tolosa

In Gallia i Visigoti, pur avendo la meglio sui Britanni schierati dall’imperatore di occidente
a difesa della città di Bourges, non riuscirono in un primo tempo a spingersi a nord al di
là della Loira per la fiera resistenza opposta dal comes Paolo con l’aiuto di ausiliari
franchi, che costrinse Eurico a concentrare il grosso dell’esercito contro l’Aquitanica
Prima, la bassa valle del Rodano e, naturalmente, Arles. Ma, nel 470 o 471 (la data è
incerta), un esercito inviato dall’imperatore di occidente Antemio venne sconfitto, gran
parte della Provenza cadde in mano dei visigoti e, una dopo l’altra, si arresero anche le
città dell’Aquitanica Prima. Va ricordato come soltanto Clermont, la capitale dell’Alvernia,
riuscì a resistere agli insistenti attacchi dei barbari ancora per anni, grazie al valore del
figlio del defunto imperatore Avito, Ecdicio, e del poeta Sidonio Apollinare, vescovo di
quella città dal 470.
Caduta del regno di Tolosa

L’impero d’occidente si dimostrò del tutto impotente di fronte alla furia distruttrice dei barbari e non poté fare nulla
per gli assediati a Clermont. Quando infine nel 475, grazie anche alla mediazione del vescovo di Pavia Epifanio, si
arrivò a una pace tra l’imperatore Nepote e Eurico, a quest’ultimo venne riconosciuta la sovranità sull’intera regione
compresa tra la Loira, il Rodano, i Pirenei e i due mari; e in tal modo anche l’Alvernia, nonostante la sua coraggiosa
resistenza, passò ai Goti. Nel frattempo anche la penisola iberica, l’altra zona ove i Visigoti avevano indirizzato le loro
mire, era stata conquistata grazie alle vittorie delle due armate che Eurico aveva inviato nel 472 al di là dei Pirenei.
In rapida successione Pamplona, Saragozza e Tarragona erano infatti cadute in mano alle truppe guidate dal dux
Hispaniarum Vincenzo, lo stesso che, vale la pena ricordarlo, appena dieci anni prima aveva comandato le stesse
armate in qualità, però, di dux romano. Solo gli Svevi riuscirono a mantenere la regione nord-orientale e un anno
dopo, nel 473, i Visigoti ottennero da Roma il riconoscimento della loro sovranità sulla parte di penisola iberica
appena conquistata che si andò così ad aggiungere ai territori della Gallia.
Caduta del regno di Tolosa

L’impero di occidente era ormai destinato a durare ancora pochi mesi e, quando Odoacre
depose l’imbelle Romolo Augustolo nel 476, Eurico, ritenendo, non senza ragione,
decaduto il trattato con l’impero, colse l’occasione per riprendere le ostilità e fece muovere
le sue truppe verso sud-est. Il re visigoto riuscì così a conquistare la Provenza e il territorio
delle Alpi Marittime, incluse le città di Arles e Marsiglia, ma non poté realizzare il sogno di
conquistare l’Italia per l’ostinata e valorosa resistenza degli ufficiali di Odoacre. L’anno
successivo, comunque, in cambio del suo impegno solenne a non intraprendere più atti
ostili nei confronti della penisola italiana, Eurico ottenne dall’imperatore d’Oriente, Zenone,
il riconoscimento ufficiale delle sue conquiste in Gallia.
Caduta del regno di Tolosa

Successore di Eurico fu il figlio, Alarico II, che, di carattere debole e indolente anche se non privo di
attitudini guerresche, era diversissimo dal padre, tanto è vero che, due anni dopo la sua ascesa al
trono, nel 486, di fronte alle minacce di guerra del re dei Franchi, non esitò a consegnare loro il
fuggiasco Siagrio al quale, dopo la battaglia di Soissons (486), aveva concesso asilo. Ma se un simile
gesto di arrendevolezza servì sul momento a frenare le velleità conquistatrici dei Franchi, non le
eliminò, tanto è vero che nel 494 ebbe inizio una guerra che si protrasse, con alterne vicende, per
molti anni. Durante quel lasso di tempo l’immigrazione gota verso le terre spagnole divenne sempre
più intensa, in concomitanza con l’avanzare inesorabile dei Franchi, i quali, un po’ alla volta, superata
la Loira, penetrarono vieppiù nella Gallia visigota, arrivando ad occupare Bordeaux dove fecero
addirittura prigioniero il dux goto; soltanto nel 502 si giunse alla stipula di un trattato di pace grazie
all’intervento del grande Teoderico, re degli Ostrogoti, che, divenuto frattanto suocero di Alarico II, si
impegnò affinché il regno di Tolosa, ormai pericolosamente vacillante, sopravvivesse. Gli eventi però
stavano volgendo contro i Visigoti soprattutto dopo che il 25 dicembre 496 il re dei Franchi Clodoveo
si convertì al cattolicesimo.
Caduta del regno di Tolosa

Il re visigoto pertanto cercò di mantenere un atteggiamento il più possibile conciliante verso i suoi
sudditi cattolici nonostante le loro continue cospirazioni determinate dalla speranza che se al posto dei
Visigoti fossero subentrati i Franchi, questi si sarebbero rivelati, dopo la recente conversione,
senz’altro più malleabili nei loro confronti. D’altra parte è indubitabile che una presa di posizione
troppo rigida di Tolosa contro i Romani e il clero avrebbe, con ogni probabilità, anticipato la caduta del
regno visigoto Alarico permise addirittura l’insediamento di cattolici nelle sedi vescovili rimaste vacanti
dai tempi del padre, accettò che si tenesse a Agde un concilio presieduto da vescovi della Gallia. Poco
importa poi che tale apertura avvenisse, supremo esempio di ipocrisia, con la recita di una preghiera
per la prosperità del regno visigoto. Estremo atto di conciliazione fu infine la promulgazione il 2
febbraio 506 di un codice destinato alla popolazione romana residente nel regno di Tolosa, la Lex
Romana Visigothorum , detta anche Breviarium Alarici . Questo corpus di norme estratte da fonti
romane e corredate dalle relative interpretazioni, fu opera di una commissione di giuristi di cui fecero
parte anche personalità estranee al mondo del diritto e perfino degli ecclesiastici e venne approvato
da un’assemblea di vescovi e di eminenti laici gallo-romani. Tutti questi gesti non furono interpretati
dai sudditi di Alarico come segno di magnanimità ma giudicati per quello che veramente erano: dei
puri e semplici segni di debolezza.
Caduta del regno di Tolosa

La fine del regno di Tolosa appariva quindi ormai segnata, ciononostante Clodoveo, nel
507, non volendo fare troppo affidamento sulla presunta debolezza dei Visigoti, organizzò
un imponente esercito e, alleatosi con i Burgundi che dovevano attaccare i Goti da oriente,
marciò risolutamente contro i Visigoti (il re franco voleva eliminare una volta per tutte il
problema prima che potesse rappresentare di nuovo una minaccia per il suo popolo).
Alarico II, attestatosi al Campus Vocladensis (nei. Il combattimento fu breve e intenso e i
Goti, costretti a ripiegare, e si diedero ben presto alla fuga; il loro sovrano cadde durante il
successivo inseguimento colpito, forse, dallo stesso Clodoveo. Con la sconfitta patita a
Vouillé termina definitivamente il dominio dei Visigoti in Gallia, dominio che proseguirà a
lungo nella penisola iberica ove essi riuscirono, come vedremo, a esercitare un ruolo di non
poco conto dal punto di vista sia religioso, sia politico e culturale.
Approfondimenti sulla lezione 32
Approfondimenti sulla lezione 32

Per quanto riguarda l’amministrazione dei territori delle Gallie dobbiamo osservare che
per la popolazione, almeno in apparenza, nulla cambiò visto che sia nell’Aquitania I, sia
della penisola iberica rimasero al governo gli antichi comandanti romani, passati ora al
servizio dei Goti. Di Vincenzo si è già detto, ma deve anche essere ricordata la figura del
dux Vittorio la cui azione fu decisiva per giungere, nonostante la strenua resistenza, alla
conquista di Clermont. Il passaggio del romano e cattolico Vittorio da un campo all’altro
fu facilitato dal fatto che egli, come sottolinea il Wolfram, già prima non era mai stato
troppo amato dai suoi compatrioti; lo stesso Sidonio Apollinare, arresasi Clermont,
sembra non abbia avuta nessuna remora a collaborare, almeno sino alla sua caduta, con
il dux et comes Vittorio; probabilmente si rendeva conto di quanto inutile, nonché
dannosa per la popolazione sarebbe stata una sua presa di posizione contro il vincitore
anche perché alla fin fine si sarebbe trattato di difendere programmi politici ormai
superati dagli eventi.
Approfondimenti sulla lezione 32
Guida allo studio della lezione 32
Guida allo studio della lezione 32

Per approfondire il periodo della caduta del regno di Tolosa


riportiamo a L. Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale
del secolo VII, Perugia 2006. In particolar modo si legga il
capitolo I.
Lezione 33

I Visigoti in Hispania
I Visigoti in Hispania

Dopo la morte in battaglia di Alarico II, i nobili visigoti scelsero come loro sovrano, invece
di Amalarico erede legittimo ma ancora minorenne, il figlio illegittimo Gisalico. In tal
modo l’aristocrazia gota voleva imporre la propria autorità e sottolineare la sua forza nei
confronti della monarchia. La comparsa però di un nuovo, temibilissimo avversario, la
costrinse ben presto a rivedere le sue precedenti posizioni e i suoi programmi, almeno
per il momento. Infatti il re degli Ostrogoti Teoderico intervenne, non solo in difesa del
nipote, ma anche per evitare l’affermazione di un pericoloso precedente che avrebbe
indebolito in modo definitivo l’istituzione monarchica.
I Visigoti in Hispania

Egli, manu militari , riuscì a far prevalere il diritto di successione salvando così il regno dei
Visigoti dalla pressocché certa distruzione. Nel frattempo in Aquitania, dove rimanevano
alcune sacche di resistenza gote, l’usurpatore Gisalico, a detta di Isidoro di Siviglia,
malvagio e codardo, veniva sconfitto nei pressi di Narbona dai Burgundi che, come in
precedenza detto, erano alleati dei Franchi. Egli fuggì allora precipitosamente in Spagna
cercando rifugio a Barcellona dove però venne respinto da un esercito teodoriciano.
Vistosi perso, cercò aiuto dapprima presso i Vandali, in Africa, e, infine, presso l’antico
nemico Clodoveo, in Gallia, dove però trovò la morte.
I Visigoti in Hispania

Frattanto l’esercito ostrogoto al comando del generale Ibbas aveva sconfitto ad Arles
truppe burgunde e franche e si era spinto sino a Carcassonne, riconquistando le terre
perdute dai Visigoti dopo il 507. In questo modo, oltre alla Gallia meridionale, anche la
Spagna passò sotto il diretto controllo di Teodorico. Il sovrano degli Ostrogoti tuttavia
esercitò il potere in Spagna soltanto in veste di tutore del nipote Amalarico in attesa del
riconoscimento della sua maggiore età. Ciò non toglie che per quindici anni l’effettivo re
della Gallia, della Spagna, oltreché della penisola italiana, fosse Teodorico; il quale cercò,
saggiamente, di non far pesare sulla popolazione visigota questo stato di cose, tanto è
vero che mantenne il sistema e le consuetudini del tempo di Alarico, confermandone
anche i privilegi: abolì le tasse nelle regioni maggiormente impoverite dalla guerra, rifornì
Arles di denaro e merci e, affinché le sue truppe non costituissero un peso troppo
gravoso per gli abitanti, fece pervenire loro grano e denaro direttamente dall’Italia.
I Visigoti in Hispania

Non appena il nuovo re dei Visigoti si insediò sul trono, si ripresentò minaccioso il
pericolo franco, nelle persone dei figli di Clodoveo che volevano conquistare le terre della
Gallia ancora sotto la dominazione visigota. Dapprima Amalarico tentò di scongiurare lo
scontro sposando la figlia di Clodoveo, Clotilde. Essa era però cattolica e, quando il
marito la spinse a convertirsi all’arianesimo, non solo si rifiutò ma chiese aiuto al fratello
Childeberto il quale colse l’occasione per dichiarare guerra ai Visigoti, perseguendo il
piano già ideato di cacciare definitivamente i Goti dalla Gallia: Amalarico venne sconfitto
presso Narbona nel 531 e i Visigoti, non potendo più contare, come nel recente passato,
sull’aiuto di Teoderico e non essendo più in grado di sostenere la spinta di un agguerrito
popolo guerriero quale era quello franco, persero l’Aquitania.
I Visigoti in Hispania

Subito dopo la sconfitta, Amalarico fu trucidato dagli stessi soldati e, come suo
successore, si insediò l’ostrogoto Teudi che, come già detto, era stato in precedenza
governatore della Spagna. Questi, fortunatamente per i Visigoti, si dimostrò all’altezza
della situazione in un momento di grave pericolo e, nel corso del 531 e cioè subito la
sconfitta subita ad opera dei Franchi, fu in grado di riorganizzare l’esercito e prepararlo
alla controffensiva resasi necessaria dal momento che Childeberto, insieme al fratello
Clotario I, era penetrato in Cantabria, invaso la Navarra, occupando Pamplona e e si
apprestava ad assediare Saragozza. L’eroica resistenza degli abitanti di Saragozza lasciò il
tempo ai Visigoti di inviare in loro soccorso due armate, una comandata dallo stesso
Teudi e l’altra dal generale Teudegesilo. Alla vista di tali forze i Franchi abbandonarono
l’assedio cercando di ripiegare verso i Pirenei; furono però, raggiunti da Teudi e subirono
una grave sconfitta. Solo il tradimento dell’altro comandante, Teudegesilo, corrotto dai
Franchi, permise al nemico di fuggire portandosi dietro tutto il ricchissimo bottino di
guerra senza essere costretto ad affrontare altri scontri armati.
I Visigoti in Hispania

Comunque il pericolo franco era, almeno per il momento, scongiurato e Teudi poté
impegnare l’esercito su un altro fronte. All’epoca era infatti già iniziata quella tragica
guerra greco-gotica che avrebbe segnato la fine degli Ostrogoti in Italia e i Vandali
avevano chiesto aiuto ai Visigoti per contrastare i Bizantini. I numerosi scontri dei Visigoti
contro i Bizantini tra il 544 e il 548 ebbero per lo più l’aspetto di scaramucce che di fatto
non indebolirono il loro potere nella penisola iberica. La sconfitta degli Ostrogoti nella
penisola italiana dipese piuttosto dalla totale mancanza di volontà di aiutarsi
reciprocamente tra Goti d’Italia e Goti di Spagna. Tale sconfitta comportò naturalmente
anche un ridimensionamento della potenza visigota in Spagna. Nel giro di pochi mesi, tra
il 548 e il 549, sia Teudi, sia il corrotto Teudegesilo, suo successore, trovarono la morte a
Siviglia. Il primo ad opera di un pazzo e il secondo vittima di una congiura di palazzo.
I Visigoti in Hispania

Il nuovo sovrano, Agila, cercò, senza successo, di estendere il suo potere a tutta la
Betica, l’impresa si rendeva necessaria perché, se è vero che Siviglia era governata dai
Visigoti, le terre circostanti erano ancora saldamente in mano alla nobiltà ispano-romana,
tanto saldamente che in tale occasione essa inflisse una grave sconfitta al re goto,
uccidendone il figlio e impadronendosi anche del tesoro reale. Le antiche cronache ci
informano che Agila non godeva di buona reputazione presso la popolazione della Betica
non solo per il suo comportamento tirannico ma anche per l’ostilità dimostrata nei
confronti dei cattolici, che costituivano il nucleo fondamentale di quella gente. Di questa
situazione approfittò un altro aspirante alla corona, il nobile Atanagildo, visigoto già
convertitosi segretamente al cattolicesimo. Egli, appoggiandosi alla popolazione andalusa,
con il consistente aiuto offertogli da Giustiniano, intraprese una campagna contro Agila
che si concluse vittoriosamente nel 554 permettendogli di diventare re.
I Visigoti in Hispania
Atanagildo spostò la capitale a Toledo che godeva di un’ottima posizione strategica,
riorganizzò le proprie forze, cercando nel contempo di accattivarsi le simpatie dei
cattolici con una politica più tollerante. Durante questa guerra che si protrasse per
tredici lunghi anni, il regno goto dovette anche difendersi dagli attacchi dei Franchi e
dei Baschi che lo insediavano da nord; ciò nonostante la corte di Toledo acquisì
un’importanza sempre maggiore, al punto che il suo crescente splendore destò
l’interesse di due re Franchi, Sigeberto di Austrasia e Chilperico di Neustria. Costoro,
mutato radicalmente il loro atteggiamento, cercarono di allearsi con i Visigoti e
l’alleanza fu ratificata dalle nozze di Sigeberto e Chilperico con due figlie di Atanagildo,
Brunichilde e Galsvinda. Di queste, particolarmente nota per il temperamento forte e la
risolutezza spinta sino alla crudeltà, era la prima divenuta moglie di Sigeberto. Dopo
soltanto pochi mesi, nel 567, Atanagildo morì a Toledo. Con lui si spense un sovrano
che, pur non esitando a prendere le armi se necessario, aveva dimostrato di saper
usare le arti diplomatiche per sciogliere i nodi più intricati di una situazione politica non
facile.
Approfondimenti sulla lezione 33
Approfondimenti sulla lezione 33

La Spagna trasse enorme giovamento dalla sagace e vigorosa politica di Teodorico che così
buoni frutti aveva già dato in Italia e che, considerata l’immoralità e l’anarchia diffusesi nel
regno visigoto durante la decadenza dell’impero, si dimostrò decisiva per risollevarne le
sorti. Teodorico non solo restituì alla corona il fondamentale ed esclusivo diritto di coniare
moneta, diritto spesso usurpato dai privati con grave danno per lo stato, ma riuscì anche a
porre termine alle estorsioni che venivano puntualmente commesse dagli esattori fiscali e
dagli amministratori del patrimonio reale a detrimento del patrimonio pubblico.
Approfondimenti sulla lezione 33

In un primo tempo nominò suo rappresentante per la penisola iberica Ampelio,


per la Gallia Liberio, successivamente troviamo come unico funzionario, Teudi.
E’ probabile che la loro attività riguardasse tutti i settori dell’amministrazione
statale. Il passaggio dal governo controllato da Teoderico a un’amministrazione
totalmente indipendente dall’Italia non fu traumatico. Morto nel 526 Teoderico,
infatti, Amalarico, ormai maggiorenne, assunse il pieno potere sovrano sui
Visigoti.
Approfondimenti sulla lezione 33
Guida allo studio della lezione 33
Guida allo studio della lezione 33

Per approfondire il periodo dell’insediamento dei Visigoti in Hispania


riportiamo a L. Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo
VII, Perugia 2006. In particolar modo si legga il capitolo II da p. 29 a
p. 32.
Lezione 34

Liuva e Leovigildo
Liuva e Leovigildo

Ignoriamo i motivi per cui dopo la morte di Atanagildo il trono sia rimasto vacante per
diversi mesi fino alla primavera del 578, quando venne incoronato re uno dei suoi fratelli,
Liuva. Questi, volendo probabilmente assicurare la continuità della dinastia, dopo soli due
anni di regno, si preoccupò di indicare come suo successore il fratello Leovigildo con il
quale fin da subito volle dividere il governo del paese, affidandogli la Spagna e riservando
per sé la parte della Gallia ancora visigota.
Liuva e Leovigildo

Il fatto che il cronista Giovanni Biclarodica scriva esplicitamente che Leovigildo, alla morte
del fratello, entrò in possesso della sola Hispania Citerior sembrerebbe confermare che,
fin dai tempi di Atanagildo, la HispaniaUlterior, o per lo meno la maggior parte di quei
distretti, fosse nelle mani dei Bizantini o, in ogni caso, non sotto il dominio dei Visigoti.
Anche i risultati delle guerre di Leovigildo, come vedremo in seguito, sembrerebbero
avvalorare tale ipotesi. Insomma il regno, ora in mano all’erede di Liuva, è ancora debole
e circondato da nemici agguerriti da affrontare.
Liuva e Leovigildo

Nel 569, Leovigildo iniziò pertanto una campagna militare contro gli Svevi e le popolazioni
indipendenti del nord-ovest. Alcuni centri come Palencia, Zamora e León caddero
facilmente, anche se altri, come Astorga, resistettero fieramente. Imbaldanzito da questi
primi successi il sovrano visigoto abbandonò presto ogni prudenza e, rinnegando il
precedente patto di sottomissione all’impero, nel 570 attaccò e sconfisse i Bizantini nel
distretto di Bastania di Malaga e, tra il 571 e il 572, riuscì ad occupare in rapida
successione Medina Sidonia (Asidona) e Cordova, con i territori adiacenti.
Liuva e Leovigildo
Gregorio di Tours ci dice che Leovigildo era andato ben al di là del suo potere quando
aveva di fatto diviso il regno tra i suoi figli e crede che questo fosse il motivo
dell’insurrezione nobiliare; ma potrebbe darsi che causa dei disordini fosse l’abitudine del
re di svilire non solo l’autorità della nobiltà visigota ma anche di quella ispano-romana.
Sta di fatto che, proprio mentre Svevi e Bizantini si preparavano a contrattaccare, prima
la popolazione dei Cantabri, poi quella di Cordova e delle Asturie e, infine, quella di
Toledo ed Evora si ribellarono all’autorità regia. Grazie anche al decisivo aiuto del figlio
Recaredo, Leovigildo fu tuttavia in grado di ribattere colpo su colpo, soffocando nel
sangue le rivolte dei ribelli. Caddero così prima Ammaia, la capitale dei Cantabri, fu
presa, poi Saldania, roccaforte delle Asturie, e infine furono domati gli insorti di Toledo ed
Evora contro i quali l’ira del sovrano si sfogò, nel 574, con terribili punizioni.
Approfondimenti sulla lezione 34
Approfondimenti sulla
lezione 34
Leovigildo iniziò subito una politica tesa ad assicurargli il completo dominio sulla penisola
iberica. Come prima cosa trasformò la vita di corte dove introdusse le usanze fastose e il
lusso che riteneva consoni al prestigio di un sovrano adottando anche il complesso
cerimoniale degli imperatori. La monarchia gota raggiunse così uno splendore mai avuto
prima. Tutto ciò venne fatto senza trascurare i rapporti con i propri sudditi; egli infatti
voleva evitare di trovarsi nella condizione di Atanagildo e cioè di dover combattere nemici
interni al regno, oltre ai numerosi nemici esterni. Infine riprese l’antica consuetudine di
mantenere i rapporti con l’imperatore di Bisanzio. Comunicò infatti a Giustino II la notizia
della propria ascesa al trono, riconoscendone così formalmente l’autorità imperiale. Ciò gli
consentì di stipulare una tregua con Bisanzio a cui seguì un’alleanza in base alla quale
egli ottenne, capolavoro di diplomazia, di poter utilizzare l’esercito bizantino che si
trovava ancora nella penisola iberica nella sua lotta contro gli Svevi.
Approfondimenti sulla lezione 34
Approfondimenti sulla lezione 34
Guida allo studio della lezione 34
Guida allo studio della lezione 34

Per approfondire il periodo sul regno di Liuva e Leovigildo, si veda di L.


Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo VII, Perugia
2006. In particolar modo si legga il capitolo II da p. 32-34.
Lezione 35

Ingundi
Ingundi

Prima di procedere con la storia del regno di Toledo, si impone una parentesi di una
qualche importanza, sulla figura della principessa franca Ingundi che andrà in sposa al
figlio di Leovigildo, Ermenegildo, suo primogenito. Quando Ingundi la raggiunse l’età di
12 anni, Brunechilde ritenne opportuno che la sua primogenita contraesse matrimonio.
All’uopo, avendo analizzato le possibili scelte, considerò che fosse politicamente saggio
farla unire con Ermenegildo, primogenito del re dei Visigoti, Leovigildo. Con l’ascesa della
figura di Leovigildo i Visigoti avevano trovato un puntello carismatico per imporsi nella
Hispania . Il nuovo re era carismatico e si dimostrò capace di guidare quel popolo, in
modo definitivo, oltre la sconfitta di Vouillé, sconfitta che ancora pesava sull’animo goto.
Ingundi

Ormai il rapporto tra i Goti dell’Ovest ed i Franchi di Austrasia si era andato via via
consolidando, pertanto quel giovane principe sembrò senz’altro la scelta adatta. Inoltre
Brunechilde conosceva bene la corte di Toledo essendo ella stessa visigota e preferiva
senza meno organizzare un matrimonio che unisse vieppiù le due casate regnanti di
Austrasia e di Toledo, piuttosto che inseguire soluzioni diverse che potevano apparirle, in
prospettiva, dannose se non altro perché la giovane figliola avrebbe dovuto affrontare
situazioni del tutto sconosciute. Brunechilde era persona che voleva avere il pieno
controllo su ciò che stava vivendo, perché era ben consapevole di essere una donna al
timone di un regno e la qual cosa poteva non essere ben vista dalla nobiltà d’Austrasia.
Ingundi

Trovandosi costretta a contrarre matrimonio con una persona mai vista, come ogni
nobildonna dell’epoca, accettò, fors’anche a malincuore, gli oneri del suo rango e
intraprese il viaggio verso Toledo. Possiamo supporre che la madre l’avesse anche edotta
circa la eventualità che i Visigoti avrebbero voluto che lei abiurasse il credo niceno in
favore di quello ariano. D’altronde come abbiamo avuto modo di dire, anche Brunechilde
aveva compiuto un percorso simile in nome della ragion di stato.
Ingundi

Il matrimonio tra Ingundi e Ermenegildo sarebbe stato importante soprattutto perché,


come abbiamo avuto modo di dire, rappresentava un’occasione per rinsaldare vieppiù i
legami mai troppo stretti tra i Franchi e i Visigoti che d’altronde, essendo popoli
confinanti, sovente erano portati a farsi la guerra piuttosto che al conseguimento della
pace. Entrambi i popoli però non erano riusciti nei decenni precedenti a prevalere l’uno
sull’altro in modo definitivo perché erano entrambi deboli e, in un certo qual senso,
sopravvivevano giorno dopo giorno ad uno stato di precarietà. I regni romano barbarici in
quanto tali e cioè in quanto sostanzialmente germanici, erano destinati continuamente a
sopravvivere a se stessi e infatti nessuno di quei regnami riuscì ad inglobarne un altro. Al
più vincevano, ora gli uni, ora gli altri, piccole guerre, o addirittura battaglie isolate, mai
decisive però.
Approfondimenti sulla lezione 35
Approfondimenti sulla lezione 35

La funzione del matrimonio era ormai diventata come quella dell’adozione nei secoli IV e V:
trovare un accordo economico o politico tra due famiglie o tra due popoli. Insomma un
modo di contrarre alleanze. Al contempo, soprattutto fra i Visigoti, la filiazione per via
femminile, attribuiva un grande potere alle donne appartenenti alle classi più elevate. Si
ricordi che Ingundi era di origine visigota e quindi la madre Brunechilde avrà certamente
inculcato nella figlia quei valori che erano stati assorbiti dalla cultura gota e che
prevedevano che le buone relazioni fra i clan fossero riposte nelle mani delle fanciulle. In
proposito ci preme sottolineare l’influenza enorme che una madre, vedova, ebbe su una
fanciulla come Ingundi.
Approfondimenti sulla lezione 35

S’intende evidentemente l’influenza caratteriale che certamente subì la ragazza tanto che,
quando si trattò di dimostrare di poter reggere le pressioni di una situazione
pesantissima, ella sconcertò il marito stesso per la forza che naturalmente sembrava
fluire dal suo essere e che coinvolse anche Ermenegildo. Dicevamo del matrimonio. La
giovane Ingundi ebbe certamente avuto il privilegio di assistere ad una festa animata da
canti nuziali ed impreziosita da un ricco e gustoso banchetto a base di prelibatezze
gastronomiche, quali la carne d’oca e la cacciagione, il tutto innaffiato da enormi quantità
di birra e di idromele. Sia la birra che l’idromele erano nettari che non potevano mancare
ad una festa di personaggi di alto lignaggio, figurarsi quindi nel caso del matrimonio tra il
principe dei Visigoti e la sua bella.
Guida allo studio della lezione 35
Guida allo studio della lezione 35

Per approfondire la figura di Ingundi si consideri di L. Montecchio,


Ingundi, Bologna 2015. Si legga il capitolo sul matrimonio con
Ermenegildo.
Lezione 36

Resistenze di Ingundi
Resistenze di Ingundi

Bisogna premettere che Ingundi, una volta giunta a Toledo, per sposare un ariano
avrebbe dovuto rispettare la regola non scritta dell’abiura del proprio credo. In realtà
sarebbe anche potuta rimanere del suo credo perché il marito non fece alcuna pressione
su di lei. L’aveva accettata di buon grado a prescindere da altre considerazioni. Il
problema fu che a corte vi era la matrigna di Ermenegildo che, a suo tempo, aveva
professato apostasia e accettato il credo ariano pur di inserirsi senza particolari problemi
a Toledo. Non ci è dato sapere se il primogenito di Leovigildo avesse convinzioni religiose
profonde. Crediamo che, sposatosi, non aveva punto considerato la questione se non
marginalmente o forse non era così convinto della sua fede ariana da imporla a Ingundi.
Resistenze di Ingundi

Da parte sua, la principessa parve affrontare con insolita serenità quella che ben presto diventò una
vera e propria prova di forza con la nonna Gosvinta. La nonna forse credeva di avere a che fare con
una donna priva di grande personalità e dunque blandis coepit sermonibus inlecere tentò subito, con
le buone maniere, di convincerla ad abbandonare il cattolicesimo. In fondo sarebbe diventata, un
domani, regina del più solido e importante regno dell’Europa occidentale. I modi fintamente gentili di
Gosvinta, invece freddissima nel perseguire i suoi scopi, non convinsero Ingundi che, seppur con tutto
il rispetto che doveva avere nei confronti dell’anziana donna, viriliter reluctans e manteneva il punto.
La giovinetta aveva, con ogni probabilità, avuto sentore che la nonna fosse subdola. In fondo la
madre e il padre l’avranno edotta sul carattere di Gosvinta. Da parte sua, Ingundi lei, proprio perché
era giovane, faticava vieppiù a sopportare la doppiezza. Non stupisca pertanto il suo ulteriore irrigidirsi
di fronte all’incessante azione dell’anziana donna, che tutte le provò per far abbracciare l’arianesimo
alla nipote.
Resistenze di Ingundi

Chi, al contrario, cercò fin da subito di portare la giovane principessa ad abbracciare il


credo ariano fu la nonna, Gosvinta. Ella era forse preoccupata delle tensioni che si
manifestavano a Toledo. In fondo era franca anche lei e, se non avesse tentato di
convertire la nipote, poteva essere accusata di tradimento. Gosvinta aveva ottime ragioni
per tentare la conversione della fanciulla appena arrivata in Hispania e per riportare la
pace a corte cercò di convertire all’arianesimo la nipote, prima con dolce fermezza, poi
ricorrendo anche alle minacce, e la situazione precipitò.
Approfondimenti sulla lezione 36
Approfondimenti sulla lezione 36

Dobbiamo sottolineare l’ostilità della corte per la fede religiosa di Ingundi. Non si trattava
di un problema di importanza minima. I Visigoti, benché conquistatori, si sentivano
‘circondati’ da sudditi cattolici, mentre loro volevano conservare e proteggere il credo che
li aveva visti trionfare sulle armate romane. In fondo l’arianesimo, almeno sui campi di
battaglia, aveva avuto la meglio, nella Hispania , sul credo di Nicea. Eppure solo pochi
decenni prima, Vouillé aveva visto il trionfo di armate consacrate al credo niceno.
Insomma i Goti dell’Ovest avvertivano un’insidia nemmeno troppo latente che avrebbe
potuto segnare la fine del loro regno.
Approfondimenti sulla lezione 36

Ermenegildo, da parte sua, sembrava curarsi poco di queste voci curtensi, forse perché
disinteressato, forse perché ritenute prive di fondamento, forse per superficialità.
Riteniamo che egli fosse tutt’altro che poco profondo, ma che si stesse davvero legando
ad una persona che dimostrava, giorno dopo giorno, una forza d’animo incredibile. Entrare
in un nuovo ambiente, del tutto sconosciuto, percepire ostilità, seppur mai dimostrata
apertamente, e procedere con serenità dimostrava un coraggio non comune. Anche per
questo il primogenito di Leovigildo, evitò qualsivoglia pressione sulla moglie per portarla
verso una confessione che, molto probabilmente, non soddisfaceva appieno nemmeno lui.
Guida allo studio della lezione 36
Guida allo studio della lezione 36

Per approfondire la questione delle pressioni di Gosvinta


su Ingundi si consideri di L. Montecchio, Ingundi,
Bologna 2015. Si legga il capitolo III.
Approfondimenti sulla lezione 37
Approfondimenti sulla lezione 37

Va’ osservato che Gosvinta sin da quando era moglie di Atanagildo, aveva un
suo ruolo nelle stanze del potere, almeno stando a Venanzio Fortunato che
ricorda come « Post causas quas regna gerunt , ubi maesta reclinem ». Il che
vuole significare che godeva della fiducia del marito anche per questioni
prettamente politiche. D’altronde Atanagildo, nel corso del suo regno, sovente
fu impegnato in campagne di guerra e doveva lasciare Toledo priva del suo
comandante.
Approfondimenti sulla lezione 37

La regina pertanto doveva esercitare un ruolo attivo non solo per quanto
riguardava l’educazione delle sue due figlie, Brunechilde e Galesvinta. Di
entrambe già facemmo cenno, ma ci sembra opportuno rilevare come fosse
plausibile che la regina dei Visigoti considerasse Brunechilde molto simile a sé.
Dunque ella colse l’occasione della richiesta del maestro di palazzo di Austrasia
di combinare un matrimonio tra Brunechilde e Sigeberto, per spingere
Atanagildo ad accettare pur di allontanare dalla corte iberica la figlia. La Godoy
appare convinta di ciò e noi siamo convinti dalla sua teoria.
Approfondimenti sulla lezione 37

Gosvinta, morta una figlia, tenne il dolore della perdita per sé. Ella dovette
affrontare subito dopo un’impresa assai più ardua. Atanagildo era morto di
morte naturale nel 568 e lei doveva sopravvivere, «morto in Spagna il re
Atanagildo, prese il regno Leuva, con suo fratello Leovigildo. Poi quando Liuva
morì, suo fratello Leovigildo s’impadronì di tutto il regno». Il periodo di
interregno immediatemente successivo alla dipartita di Atanagildo fu durissimo
e in tale circostanza la regina mostrò di che pasta era fatta. Dové infatti agire
con prudenza e decisione di fronte alle fazioni aristocratiche che miravano al
trono. Riuscì a raggiungere un accordo con Leovigildo che sposò, mantenendo
così il trono e la vita.
Approfondimenti sulla lezione 37
Approfondimenti sulla lezione 37

Va’ osservato che Gosvinta sin da quando era moglie di Atanagildo, aveva un
suo ruolo nelle stanze del potere, almeno stando a Venanzio Fortunato che
ricorda come « Post causas quas regna gerunt , ubi maesta reclinem ». Il che
vuole significare che godeva della fiducia del marito anche per questioni
prettamente politiche. D’altronde Atanagildo, nel corso del suo regno, sovente
fu impegnato in campagne di guerra e doveva lasciare Toledo priva del suo
comandante.
Approfondimenti sulla lezione 37

La regina pertanto doveva esercitare un ruolo attivo non solo per quanto
riguardava l’educazione delle sue due figlie, Brunechilde e Galesvinta. Di
entrambe già facemmo cenno, ma ci sembra opportuno rilevare come fosse
plausibile che la regina dei Visigoti considerasse Brunechilde molto simile a sé.
Dunque ella colse l’occasione della richiesta del maestro di palazzo di Austrasia
di combinare un matrimonio tra Brunechilde e Sigeberto, per spingere
Atanagildo ad accettare pur di allontanare dalla corte iberica la figlia. La Godoy
appare convinta di ciò e noi siamo convinti dalla sua teoria.
Approfondimenti sulla lezione 37

Gosvinta, morta una figlia, tenne il dolore della perdita per sé. Ella dovette
affrontare subito dopo un’impresa assai più ardua. Atanagildo era morto di
morte naturale nel 568 e lei doveva sopravvivere, «morto in Spagna il re
Atanagildo, prese il regno Leuva, con suo fratello Leovigildo. Poi quando Liuva
morì, suo fratello Leovigildo s’impadronì di tutto il regno». Il periodo di
interregno immediatemente successivo alla dipartita di Atanagildo fu durissimo
e in tale circostanza la regina mostrò di che pasta era fatta. Dové infatti agire
con prudenza e decisione di fronte alle fazioni aristocratiche che miravano al
trono. Riuscì a raggiungere un accordo con Leovigildo che sposò, mantenendo
così il trono e la vita.
Guida allo studio della lezione 37

Approfondimenti sulla lezione 37


Guida allo studio della lezione 37

Per approfondire la questione delle angherie subite da Ingundi si


consideri di L. Montecchio, Ingundi, Bologna 2015. Si legga il capitolo
III.
Lezione 38

Verso la guerra civile


Verso la guerra civile

Visto la tensione crescente in seno alla corte toletana, il sovrano dei Visigoti decise di
allontanare il figlio e la nuora e li inviò a Siviglia. Non sappiamo come Ingundi prese il
trasferimento da Toledo nella Baetica . Certamente fu visto come un dovere di futura
regina e quindi da assolvere senz’altro. Il problema fu però l’ambiente andaluso. Là, forse
più che altrove, si respirava romanità. Là si respirava un’atmosfera pregna di
cattolicesimo. In realtà la scelta di Leovigildo di inviare colà il figlio e la sposa desta
sorpresa proprio per questo. Un ambiente ove era prevalente il credo niceno non avrebbe
certo aiutato Ingundi a passare all’arianesimo.
Verso la guerra civile

Evidentemente Ermenegildo godeva della piena fiducia paterna e dunque fu mandato nel
meridione del regno dei Visigoti per far sentire la forza, la potenza di un sovrano che
stava tentando di unificare sotto una corona sola tutta la penisola iberica. Il figlio del
sovrano visigoto aveva dimostrato le sue capacità belliche e avrebbe avuto modo di
indurre a più miti consigli quegli ispano romani andalusi che ancora tramavano con
Bisanzio. Conquistare la penisola iberica si era rivelata un’impresa ardua. Durante tutto il
suo imperium , Leovigildo dovette affrontare Baschi, Bizantini, Franchi, Suebi . Pochi
erano stati gli anni di vera pace e adesso che la situazione sembrava poter essere più
tranquilla ecco la vicenda di Ingundi.
Verso la guerra civile

Chi meglio dell’erede alla corona della Hispania avrebbe potuto sostenere le difficoltà
nella Baetica ? Comunque i due coniugi sarebbero stati allontanati dalla corte e le voci su
come Gosvinta si era comportata con Ingundi sarebbero state fatte tacere per evitare
scontri inopportuni con i Franchi. A nord, ad ogni buon conto, vigilava Recaredo forse
vera speranza per Leovigildo. Non a caso proprio al secondogenito il sovrano aveva
intitolato una città. L’erede però rimaneva Ermenegildo il quale non aveva preso le
distanze dalla consorte durante le vessazioni subite da Gosvinta. Si può addirittura
ipotizzare che tale comportamento filiale avesse inorgoglito il padre perché comprovava
un carattere solido e una lealtà rara del figlio nei confronti della consorte. Due qualità che
gli sarebbero state necessarie per governare un regno.
Verso la guerra civile

In quel momento però prioritario era allontanare suoi figlio e la moglie da una Gosvinta
frustrata per i suoi vani tentativi di far abiurare il credo niceno ad Ingundi. Il re dei
Visigoti voleva ad ogni costo evitare lo scoppio di una guerra contro i Franchi per
questioni religiose. Egli, pertanto, decise che i due coniugi andassero nella Baetica per
allontanarli vieppiù sia da Toledo, sia dalla frontiera franca. Ma sottovalutare la presenza
di un vescovo di credo niceno, quale era Leandro di Siviglia, fu una leggerezza che
Leovigildo dovette pagare caro.
Approfondimenti sulla lezione 38
Approfondimenti sulla lezione 38

Gli ispano-romani, infatti, più per calcolo che per convinzione, vollero mantenere le
distanze dal popolo goto e rimasero cristiani secondo il credo niceno. La qual cosa
dimostrò di essere un serio problema perché i dominatori erano soltanto il 2% della
popolazione ed erano ariani. La nobiltà della Baetica , la regione maggiormente
controllata dagli ispano-romani, attendeva soltanto il momento propizio per mettersi
contro la monarchia gota certa di ottenere all’uopo anche l’aiuto di Bisanzio. Già a metà
del secolo VI, essi avevano appoggiato l’usurpatore Atanagildo contro Agila, sovrano
legittimo.
Approfondimenti sulla lezione 38

All’epoca i romani dell’impero orientale, sullo slancio della riconquista dell’Africa vandalica
prima, e della penisola italica poi, intervennero nella Baetica con il proposito di
impadronirsi anche di quella regione. L’azione dell’esercito di Bisanzio, ne abbiamo già
fatto cenno, fu facilitata dal favore con cui era visto un eventuale passaggio sotto
Giustiniano, da tutto l’elemento ispano-romano della Baetica e della provincia di
Cartagena. La qual cosa avrebbe rappresentato la continuazione di quell’impero del quale
gli ispanici avevano fatto parte fino all’arrivo dei Goti ma, soprattutto, avrebbe significato
una sostanziale indipendenza della nobiltà rispetto ad un potere centrale molto lontano.
Approfondimenti sulla lezione 38

Dunque per alcuni anni Bisanzio riuscì a governare quella provincia finché il re Leovigildo
non la liberò de facto , riuscendo ad ottenere addirittura l’appoggio proprio del nemico
greco. Comunicò infatti a Giustino II la notizia della propria ascesa al trono,
riconoscendone così formalmente l’autorità imperiale. Ciò gli consentì di stipulare una
tregua con Bisanzio a cui seguì un’alleanza in base alla quale egli ottenne, capolavoro di
diplomazia, di poter utilizzare l’esercito bizantino che si trovava ancora nella penisola
iberica nella sua lotta contro i Suebi.
Guida allo studio della lezione 38
Guida allo studio della lezione 38

Sui prodromi guerra civile nella penisola iberica ai tempi di Leovigildo si


legga il capitolo ad essa dedicato sul libro di L. Montecchio, Ingundi,
Bologna 2015.
Lezione 39

Leandro di Siviglia
Leandro di Siviglia

La città di Siviglia era dominata dalla figura del vescovo di credo niceno,
Leandro. La giovane principessa conobbe subito tale personaggio e ne rimase
colpita. Soprattutto ella vide in lui qualcuno che poteva addirittura rafforzare il
suo credo e la sua posizione. Leandro, fratello maggiore del futuro vescovo di
Siviglia, Isidoro, era di famiglia ispano romana, di Cartagena. Morto
prematuramente il padre Saveriano, egli, figlio maggiore di cinque, si assunse la
gravosa responsabilità dell’educazione e della crescita dei quattro fratelli. Fu
uomo di fede e di grande cultura.
Leandro di Siviglia

Quando Ingundi entrò in relazione con siffatto uomo ne rimase senz’altro


affascinata, così come succederà al futuro pontefice romano Gregorio I.
Certamente la fede della giovane, se possibile, trovò alimento dagli
insegnamenti di Leandro, vescovo di Siviglia, il quale voleva andare oltre. Suo
compito era quello di tentare di avvicinare al credo niceno i sovrani della
Hispania dei Visigoti. La frequentazione con il vescovo sivigliano divenne fitta e
Ingundi ebbe modo di parlare ed approfondire i temi religiosi che le stavano a
cuore. Probabilmente Leandro giocava una partita doppia.
Leandro di Siviglia

Se da un lato era rimasto impressionato dalla fede della moglie di Ermenegildo,


dall’altro fu subito in allerta per poter cogliere una qualche falla nella fede
ariana del principe. Probabilmente il fratello di Isidoro di Siviglia aveva notato
come Ermenegildo non fosse pienamente convinto dalla fede paterna mentre
quella di Ingundi lo stava seducendo vieppiù. Ella dunque, non solo non abiurò
il suo credo ma, con il suo carattere fermo, riuscì a fare breccia nel marito il
quale, giorno dopo giorno dové rimanere colpito dalla tenacia di Ingundi,
arrivando presumibilmente a sospettare che fosse proprio il cattolicesimo la
causa capace di generare tanta forza nello spirito umano. Non va poi
dimenticato come Ermenegildo e la moglie si trovassero, nella Baetica ,
immersi in un ambiente profondamente cattolico.
Leandro di Siviglia

Gli ispano-romani, in genere e, a maggior ragione quelli che abitavano la regione


meridionale dell’ Hispania , vedevano proprio nel credo niceno la discriminante che
poteva distinguerli dal barbaro e perciò cercavano in ogni modo di resistere ai tentativi
della corte di Toledo di far cambiare loro idea in campo religioso. A Siviglia Ermenegildo si
trovava a respirare, in ultima analisi, un’aria piuttosto pericolosa per chi, come lui, era
poco convinto del proprio credo. Non stupisca quindi che cedette alle lusinghe cattoliche,
vinto dalle insistenze della moglie (considerata da lui un solidissimo appoggio in
un’eventuale conflitto contro il padre) e del vescovo Leandro. Questi, monaco
benedettino originario di un’antica famiglia romana di Cartagena, aveva fatto della sua
vita una missione per la conversione degli ariani nella penisola iberica. Incontrati i coniugi
reali nella sua diocesi, divenne loro amico e confessore di Ingundi.
Approfondimenti sulla lezione 39
Approfondimenti sulla lezione 39

Leandro, come altri, fu favorevolmente impressionato dalla forza d’animo dimostrata dalla
moglie di Ermenegildo e, come sovente accadeva in epoca tardoantica / medievale, poté
far leva sulla fede di Ingundi per contribuire fattivamente alla conversione del marito il
quale, ad ogni buon conto, non doveva essere particolarmente riluttante nel compiere
tale passo. Bastò dunque l’esempio della sposa, senza quindi procedere con inutili
pressioni, e il principe finì con l’abiurare l’arianesimo per il cattolicesimo. La notizia della
conversione di Ermenegildo colse di sorpresa Leovigildo il quale cominciò ad avere
pessimi presagi perché intuì di aver fatto un errore grossolano nell’inviare il suo
primogenito proprio nella provincia abitata da un gran numero di ispano-romani di
confessione cattolica e dove esercitava uno dei vescovi di credo niceno di maggior spicco.
Inoltre aveva sottovalutato l’influsso della nuora sul figlio.
Approfondimenti sulla lezione 39

Il sovrano, con ogni probabilità, non aveva ben valutato il fallimento di Gosvinta che in
ogni modo aveva tentato di farle abbracciare la confessione dei Visigoti. Il problema
diventava giorno dopo giorno di soluzione sempre più difficile perché ad osservare con
crescente interesse la tragedia che si stava profilando in seno alla monarchia visigota, vi
erano anche i loro nemici storici: i Bizantini e gli Suebi . Inoltre i Franchi sia d’Austrasia e
anche di altre zone, erano pronti ad intervenire in Hispania con la scusa della
preoccupazione per la sorte di Ingundi. Insomma un matrimonio che avrebbe dovuto
sancire un qualche periodo di tranquillità fra due famiglie regnanti, stava per scatenare,
per mere questioni religiose, delle tensioni che avrebbero potuto annientare il regno
ispanico e mettere a dura prova l’Austrasia. La nobiltà ispano-romana della Baetica
adesso non poteva più disinteressarsi delle vicende di Ermenegildo. Anzi, subodorando
un’ottima occasione da cogliere, iniziò a rialzare la testa.
Approfondimenti sulla lezione 39

L’orgoglio di discendere dal fu impero romano la indirizzò ad appoggiare senza meno il principe. Da
persone avvezze a muoversi con abilità in contesti politici estremamente delicati, quei personaggi,
spesso di famiglia senatoria, sapevano che la loro volontà di riprendersi la libertà strappatagli dai
Visigoti, da sola, avrebbe potuto ben poco alla realizzazione del loro sogno. Mentre diverso sarebbe
stato il discorso se alle loro spalle ci fosse stato l’impero bizantino. Quegli ispanici, comunque,
consideravano Bisanzio solo un mezzo per tornare a gestire la provincia dell’ Hispania e, sicuramente,
non avrebbero voluto che la penisola iberica rimanesse coinvolta in un evento disastroso quale era
stata la tragica guerra greco-gotica di pochi decenni prima. Quel conflitto aveva sì riportato la penisola
italica in ambito imperiale, ma aveva ridotto in miseria gran parte della popolazione locale, anche
quelli che, in precedenza, erano stati ricchi proprietari terrieri. Gli italici, in buona sostanza, avevano
soltanto avvertito il cambio di padrone e non certo il ritorno ai fasti imperiali. Si temeva che nelle terre
ispaniche potesse accadere qualcosa di simile che avrebbe coinvolto nel caos soprattutto i proprietari
terrieri di antica famiglia latina, coloro cioè che avevano qualcosa di importante da perdere.
Guida allo studio della lezione 39
Guida allo studio della lezione 39

Su Leandro di Siviglia e la sua azione nella Baetica si legga


di L. Montecchio, Ingundi, Bologna 2015. In particolare si
studi il paragrafo a lui dedicato del capitolo III.
Lezione 40

La guerra civile
La guerra civile

Il co-reggente Ermenegildo, da parte sua, non crediamo volesse usurpare il trono


paterno, cosa di cui venne accusato da Giovanni Biclaro e da Isidoro di Siviglia; essi
senza mezzi termini lo accusarono di voler appropriarsi della corona. Egli era il
primogenito e sarebbe spettato a lui succedere a Leovigildo, nonostante le buone prove
di sé che, dal punto di vista militare, stava fornendo il fratello Recaredo. Fino ad allora
nulla ci dice che il re avesse in mente di escluderlo dalla successione, quindi al marito di
Ingundi sarebbe bastato solo attendere il momento.
La guerra civile

Leovigildo, da parte sua, aveva fatto e si comportava come una persona che non
desiderava certo esacerbare gli animi, tanto è vero che di proposito − come dicemmo −
aveva allontanato il suo erede da Toledo. Non siamo quindi persuasi delle parole delle
fonti cui dobbiamo ricorrere per raccontare queste vicende. Esse non spiegano il motivo
che avrebbe indotto il figlio a ribellarsi al padre. Piuttosto ci sarebbe da osservare come,
per motivi diversi, era inevitabile che Giovanni Biclaro e Isidoro avrebbero criticato
Ermenegildo.
La guerra civile

L’abate biclarense, dovendo allontanare da sé l’accusa di essere filobizantino se non


addirittura spia di Bisanzio (per questo fu costretto in prigione a lungo e non − come
invece ricorda lo stesso vescovo di Girona − perché cattolico), è plausibile scrivesse male
di chi, nei fatti, aveva destabilizzato il regno di Toledo. Infine Isidoro. Egli era fratello di
quel Leandro che risultò essere importante per la conversione di Ermenegildo. Anche
Isidoro − ed è umanamente comprensibile − volle condannare la figura di chi avrebbe
potuto minare le sue aspirazioni non propriamente religiose. Isidoro, però, sarà molto
sintetico nel raccontare la triste vicenda che si era consumata nel meridione della
penisola iberica, quasi non volesse entrare vieppiù nel merito per tema di far emergere la
fede incrollabile che nutriva nel credo niceno.
La guerra civile

Diciamo comunque che concorsero una serie di concause a far convergere de facto
Ermenegildo verso la nobiltà ispano-romana e, pertanto, a farlo mettere in
contrapposizione al genitore. Il dado era tratto e al “ribelle” non restava altro che
asserragliarsi con Ingundi entro le mura di Siviglia dove, con l’aiuto della maggior parte
degli ispanici e di pochi nobili visigoti, rimase in attesa della reazione del genitore. La
serenità della consorte gli permise di affrontare la situazione senza cedere ai nervi.
Ingundi, da parte sua, aveva appena terminato di resistere alle pressioni psicologiche e
fisiche di Gosvinta di cui dicemmo, pertanto dover stare vicino al marito sarebbe stato un
compito molto più agevole oltreché doveroso. Si apprestava a diventare una sorta di
Teodora di Occidente.
La guerra civile

Leovigildo, invece di passare subito all’azione militare come il figlio si aspettava,


tergiversò. Si sarebbe infatti trattato di combattere l’amato figlio e, da politico accorto, si
rendeva conto che una guerra civile avrebbe indebolito una monarchia che ora, dopo
tante lotte intestine, poteva rappresentare il trait d’union tra il suo popolo e gli ispano
romani ad essa assoggettati. Dapprima tentò dunque tutte le strade possibili per
convincere il figlio a ritornare sulla sua decisione. Dal modo in cui agì, si deduce
facilmente che quel sovrano stesse vivendo un conflitto interiore squassante alla sola idea
di essere costretto a giungere alle estreme conseguenze contro il proprio figlio; d’altra
parte la ragion di stato imponeva senz’altro al re una qualche azione e allora inviò
ambasciatori ad Ermenegildo per indurlo a sottomettersi, mentre nello stesso tempo
ingiunse ai propri generali di non intervenire se non per difesa e prese energiche misure
onde impedire che il clero cattolico parteggiasse per Ermenegildo.
La guerra civile

Durante una tregua conciliare, Ermenegildo aveva avuto modo di rafforzare la sua
posizione, ottenendo il favore degli importanti centri di Mérida e Cáceres, riuscendo a
sconfiggere per ben due volte il duca Aion inviato dal padre. Considerata l’avventura
senza ritorno che dové affrontare, non ci sentiamo di far nostra l’osservazione del
Magnani per cui il principe si fosse convertito al cattolicesimo «insoddisfatto della
condivisione del potere con il fratello [Recaredo] … contando sull’appoggio della maggior
parte della popolazione». Vero è che, una volta intrapresa la strada della ribellione,
introdusse la concezione di un potere derivante direttamente da Dio, come si evince dalle
sue monete, dove si può leggere: Regi a Deo vita ; tuttavia siamo convinti che la sua
azione fosse soprattutto dettata dall’esempio della giovane moglie che aveva saputo
resistere alla suocera con enorme dignità, sorretta − crediamo pleonastica tale
considerazione − dalla sua grande fede.
La guerra civile

L’assedio di Siviglia si protrasse per due anni. Durante i quali gli assediati tentarono di resistere
strenuamente nella speranza che Bisanzio intervenisse. I ribelli avevano fatto male i loro conti. I
Bizantini infatti, già da qualche tempo e ancora per lunghi anni, furono impegnati in una sfibrante
guerra contro i Persiani ad Est, ma non vollero rinunziare a tutti i loro interessi occidentali.
L’imperatore Maurizio, come osserva Ostrogorsky, nonostante l’impegno militare contro i persiani, non
volle indebolire gli esarcati di Ravenna e Cartagine. Anzi, con una rigorosa e ben strutturata
organizzazione militare, cercò di renderli ancor più in grado di difendersi da soli. Per quanto concerne
i possedimenti nordafricani e quelli di Ravenna «vennero organizzati come luogotenenze militari e
l’amministrazione sia militare che politica fu affidata agli esarchi». La penisola iberica venne sacrificata
de facto in nome della difesa di territori più difendibili. In tale contesto vanno letti i successi militari di
Leovigildo e la disperazione degli ispano romani che vivevano una situazione nuova. Bisanzio adesso
nulla avrebbe potuto fare per loro. Ermenegildo, che non si trovava nella città assediata, dopo vani e
ripetuti tentativi di trovare aiuto presso le ultime roccaforti Bizantine site nella Hispania , si rifugiò a
Cordova, disperato. Quella città che già nel 572 era caduta in mani visigotiche, adesso era in procinto
di cadere definitivamente davanti a Leovigildo.
La guerra civile

Sigisberto, confinato il prigioniero in una segreta, si impegnò a lungo nel tentativo di


fargli abiurare il cattolicesimo secondo il desiderio del padre. A tali esortazioni
Ermenegildo rispose con un ostinato rifiuto e Sigisberto, il 13 aprile 585, lo uccise. Le
cronache al riguardo sono ambigue; non ci dicono infatti se Sigisberto abbia agito di
propria iniziativa o a seguito di un preciso ordine del sovrano. Personalmente
propendiamo per la prima ipotesi perché, in caso contrario, pensiamo che Leovigildo
sarebbe ricorso a un modo più discreto. Dopo la scomparsa del figlio, a Leovigildo si
presentò l’occasione di estendere ulteriormente il suo dominio nella penisola iberica in
occasione della disputa per la successione al trono suebo .
Approfondimenti sulla lezione 40
Approfondimenti sulla lezione 40

Le fonti coeve non spiegano il motivo che avrebbe indotto il figlio a ribellarsi al padre.
Piuttosto ci sarebbe da osservare come, per motivi diversi, era inevitabile che Giovanni
Biclaro e Isidoro avrebbero criticato Ermenegildo. Per il biclarense ‘ la pace del regno di
Leovigildo venne turbata da una guerra civile’. Per il futuro abate biclarense l’erede del
sovrano è senz’altro un rebellis filius e, dunque, è giustificato pienamente il genitore
quando gli si schiera contro al punto da assediare la Baetica ribelle nunc fame, nunc
ferro.
Approfondimenti sulla lezione 40

Gregorio di Tours, vescovo franco, sembra inserirsi tra i primi due e Gregorio Magno (il
quale, come vedremo, terrà in alta considerazione il figlio di Leovigldo), avendo forse
visto, nel principe visigoto, la causa incidentale della prematura morte di Ingundi. Se
infatti fosse stato evitato il conflitto contro Leovigildo, la giovane sposa non sarebbe
morta di stenti forse nel tentativo di raggiungere Bisanzio. Così però non fu e il colpevole
di tutto doveva essere Ermenegildo e il suo orgoglio. Nondimeno il vescovo di Tours
risulterà molto meno duro degli altri critici del principe.
Approfondimenti sulla lezione 40

Gregorio Magno, infine, diversamente della fonti iberiche, vede in Ermenegildo un fiero
paladino del cattolicesimo. Il principe «… constantissime responderet nunquam se veram
fidem posse relinquere … ». Il giovane erede del sovrano dei Visigoti venne, pertanto,
considerato da papa Gregorio, convinto della sua scelta di fede, prescindendo da mere
questioni dinastiche. Il pontefice, all’epoca dei fatti, era un diacono inviato da papa
Pelagio II a Costantinopoli presso l’imperatore Maurizio I. Successivamente, rimembrando
le vicende visigotiche, oltre ad esaltare il coraggio di Ermenegildo, sottolineerà anche
l’azione di Leandro di Siviglia, quale protagonista della conversione di Recaredo. Un
Recaredo convinto, per il pontefice, dal frater martyris che pro veritate mortuus .
Guida allo studio della lezione 40
Guida allo studio della lezione 40

Sulla guerra civile nella penisola iberica ai tempi di Leovigildo si legga il


capitolo ad essa dedicato sul libro di L. Montecchio, Ingundi, Bologna
2015.
Lezione 41

La situazione del culto cristiano prima


del 589 in Hispania
La situazione del culto cristiano prima del
589 in Hispania

La principessa franca Ingundi era di sicura fede cattolica, proprio cioè quella fede tanto
osteggiata dalla nobiltà visigota che vedeva in essa la religione degli Ispano-romani, ossia
di coloro che erano stati sconfitti un secolo prima e che ora, giocoforza, si dovevano
piegare non più a Roma bensì ad un popolo germanico. Quei nobili, pur ostentando una
notevole sicurezza, erano in realtà timorosi che bastasse anche solo la presenza di una
giovanissima principessa di fede cattolica per riaccendere discussioni e conflitti mai del
tutto sopiti tra ariani e fedeli al credo niceno. La penisola iberica della fine del secolo VI
viveva una situazione molto particolare perché, se da una parte i vescovi ariani avevano
l’appoggio delle istituzioni, per le ragioni di cui abbiamo testé detto, dall’altra non
avevano la forza morale e culturale per contrapporsi a un clero cattolico ben più radicato
tra la popolazione e, de facto , più preparato per la missione evangelizzatrice.
La situazione del culto cristiano prima
del 589 in Hispania

Consapevoli di quanto fosse fragile il loro retroterra culturale, gli ariani, sia nobili, sia
appartenenti all’alto clero, temevano molto, pertanto, la venuta di Ingundi. I Visigoti,
fatto da non trascurare, si sentivano comunque in territorio nemico, non fosse altro
perché erano una sparuta minoranza rispetto alla totalità della popolazione iberica ed
anche perché l’intera penisola iberica non era ancora stata da loro conquistata; i Baschi a
Nord-Est, i Bizantini a Sud non erano minacce da sottovalutare e anzi con le loro azioni
mai casuali minavano il morale del popolo dei Goti dell’Ovest che pensava di poter essere
maggiormente accettato nell’ Hispania , considerando che mai si dimostrarono
particolarmente duri con la popolazione indigena.
La situazione del culto cristiano prima
del 589 in Hispania

Pur essendosi dimostrati nella sostanza tolleranti verso chi professava altri culti, volevano
con ogni energia preservare ciò che li identificava come popolo. Inoltre, accanto alla
maggioranza cattolica, presente in modo particolare nelle città, nelle zone rurali non
irrilevante era la presenza di pagani sia fra i Romani che fra i Goti. Infine significativa era
la minoranza di fede ebraica, sebbene gli ebrei non godessero della protezione legale di
cui, al contrario, godevano gli Ispano romani. Leovigildo, che appariva fermamente
convinto della sua confessione ariana, dové piegarsi giocoforza alla real politik per
allargare la base di consenso fondamentale per garantire l’unità di un regno in
formazione.
La situazione del culto cristiano
prima del 589 in Hispania

Nel meridione, nella cosiddetta Vandalusia, i cattolici godevano di una libertà notevole da
parte di Leovigildo che permetteva loro addirittura di edificare nuove chiese oltre che di
restaurare quelle più antiche. Atteggiamento che contrastava con la proibizione per gli
ebrei di fare altrettanto con le sinagoghe che potevano essere restaurate ma non
costruite ex novo . L’ariano Leovigildo da abilissimo politico quale era, per ingraziarsi i
cattolici profughi dall’Africa da poco riconquistata dai Bizantini, senza indugio alcuno
assegnò loro terre e aiutò l’abate Donato a fondare il monastero di Servitanum , di cui
però si ignora l’esatta ubicazione: Donato si stabilì colà con settanta monaci e una
biblioteca, per l’epoca, di notevole valore.
Approfondimenti sulla lezione 41
Già dal 527, presso la corte iberica, c’era stato un risveglio di interessi culturali, non tanto
per un improvviso amore delle lettere latine da parte dei sovrani Visigoti, bensì per la
necessità di creare una burocrazia capace tanto di trattare con quella imperiale bizantina,
quanto di amministrare uno stato di recentissima fondazione. Furono proprio i rapporti
meno tesi tra ariani e cattolici che permisero la fondazione e la diffusione di importanti
scuole vescovili capaci di garantire un’istruzione di buon livello ai giovani destinati a
ricoprire cariche pubbliche, e a quelli destinati, invece, alla vita ecclesiastica. Tali scuole
erano tenute dal clero niceno che notoriamente era più preparato di quello ariano e forse
anche per questo inviso agli stessi ariani. Esse, resesi necessarie, come testé detto, per
provvedere in modo organico all’istruzione e alla formazione dei futuri religiosi, erano
aperte anche ai laici. Prima della nascita di tali scuole, la strada di chi aspirava alla vita
religiosa era solo approssimativamente delineata.
Guida allo studio della lezione 41
Guida allo studio della lezione 41

Per lo studio della situazione del culto nella Hispania dei visigoti
riportiamo al già citato libro di L. Montecchio, I Visigoti e la rinascita
culturale del secolo VII, Perugia 2006, pp. 29-38.
Lezione 42

Recaredo
Alla notizia della morte del padre Recaredo, al momento impegnato contro i Franchi che,
con il pretesto di vendicare l’uccisione del cattolico Ermenegildo marito della principessa
franca Ingundi, avevano invaso la Gallia Narbonense, rientrò immediatamente in Spagna
per essere incoronato re. Egli ottenne il riconoscimento unanime dell’aristocrazia che
aveva avuto modo di apprezzarne in varie occasioni le spiccate virtù militari. Il nuovo
sovrano apparve subito molto diverso dal padre. Mentre, per tutta la durata del suo
regno Leovigildo, pronto a cogliere ogni occasione propizia, fu impegnato in campagne
militari di conquista, il successore combatté sì valorosamente contro i Franchi e i Baschi,
ma soltanto per la necessità di difendersi, mentre nei confronti di Bisanzio il suo
atteggiamento fu conciliante, tanto che, per concludere rapidamente la pace non esitò a
riconoscerne la sovranità su alcuni territori.
A spingere Recaredo ad abbandonare la politica di conquista di Leovigildo oltre alla sua
indole avrà contribuito anche l’esperienza degli avvenimenti degli ultimi anni che avevano
mostrato con tutta evidenza come il pericolo maggiore per i Visigoti fossero le divisioni
interne tra l’elemento goto e quello ispano-romano. Il nuovo sovrano individuò dunque
nell’unificazione religiosa il mezzo più efficace per giungere alla fusione delle diverse etnie
in un unico popolo e garantire così la pace del suo regno. Da qui la conversione al
cattolicesimo sua e di tutti i Visigoti, conversione intorno alla quale sono state formulate
le più svariate ipotesi. Gregorio di Tours, ad esempio, afferma addirittura che essa era
stata preceduta dalla conversione del padre sul letto di morte.
Gregorio Magno, invece, nei Dialogi, sostiene che Leovigildo aveva incaricato il vescovo di
Siviglia Leandro di convertire il figlio. Un’altra supposizione, non suffragata da alcun
documento coevo, parla di un Recaredo convertitosi di nascosto prima della morte del
padre. L’ipotesi avanzata da Gregorio di Tours poco si adatta al carattere dimostrato dal
sovrano durante tutta la sua vita; la seconda ipotesi ci sembra una forzatura, considerato
soprattutto l’impegno di Leovigildo contro il cattolico Ermenegildo; circa la terza ipotesi, il
fatto stesso che non ci siano documenti a comprovarla, la svaluta non poco. A nostro
parere la conversione del re dei Visigoti fu, in primo luogo, frutto di un calcolo politico,
nato dal suo atteggiamento pragmatico di fronte alla realtà di un regno costituito da una
maggioranza di ispano-romani cattolici che, oltre ad essere più numerosi dei Visigoti,
costituivano la parte più ricca della popolazione.
Non si deve poi dimenticare che costoro godevano dell’appoggio dei Bizantini. Ciò non
esclude che nel re potesse essere maturato, dopo la sua ascesa al trono, un
cambiamento di quelle convinzioni religiose in cui era stato cresciuto ed educato dietro
sollecitazione, magari, delle prediche di Leandro e per effetto dell’esempio del fratello
Ermenegildo che, anche a costo della vita, non aveva abiurato il cattolicesimo. Stando
alla cronaca di Giovanni Biclaro Recaredo provvide a far giustiziare Sigisberto, esecutore
dell’assassinio del fratello. Subito dopo, nel 587, avvenuta la solenne conversione al
cattolicesimo sua e della sua famiglia, pose fine con un decreto alla persecuzione dei
cattolici. La fine della persecuzione contro i cattolici permise a Recaredo di sollecitare i
vescovi spagnoli delle due confessioni a riunirsi in concilio, a Toledo, per discutere e
approfondire le rispettive posizioni dogmatiche. Ciò nella speranza che l’abilità dialettica
dei cattolici, nelle cui file si trovavano notevoli personalità, riuscisse ad avere la meglio
sugli ariani. Solo quando il concilio si stava avviando alla sua conclusione, nel maggio del
589, il sovrano prese la parola e comunicò all’assemblea la propria decisione di farsi
cattolico.
Approfondimenti sulla lezione 42
La fede di un popolo e i vari interessi maturati all’ombra di un’antica e radicata religione
nazionale, non potessero essere spazzati via ipso facto da un ordine reale. Era fatale che,
a quel concilio, seguissero complotti e ribellioni di quella parte di vescovi, nobili, e popolo,
più legati al credo tradizionale. Giovanni Biclaro ricorda, fra questi, la stessa regina madre
Gosvinda, il vescovo di Mérida, Sunna, il vescovo di Narbona, Ateloco, il vescovo Uldila, i
conti Segga e Vitterico, il duca Argilondo e altri personaggi di un certo prestigio che
complottarono contro Recaredo, pronti a prendere le armi e a chiedere l’aiuto del re
franco Gontrano. Ma questi, intervenuto in Settimania, venne inesorabilmente sconfitto
da un Recaredo “baciato dalla Grazia divina”.
Tra i ribelli, alcuni vennero condannati a morte, altri a pene severissime, perché il sovrano
non poteva correre il rischio che, anche in futuro, si verificassero simili episodi di
destabilizzazione del regno. Nondimeno la questione religiosa continuerà ad aleggiare
come una nube minacciosa sulle teste di tutti i re visigoti che seguiranno, sino
all’invasione araba. Nello stesso periodo i Visigoti dovettero resistere a un nuovo attacco
dei mai domi Baschi che, confinati da Leovigildo all’estremità dei Pirenei, tentavano ora,
senza successo, di riconquistare i loro antichi territori.
Guida allo studio della lezione 42
Per quanto concerne la conversione di Recaredo si consideri di L.
Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo VII, Perugia
2006. In particolare si studino le pp. 38-39.
Lezione 43

Da Liuva II a Sisebuto
L’immediato successore di Recaredo, il figlio Liuva II, deciso a continuare la politica
paterna favorevole ai cattolici poté regnare soltanto due anni: nel 608, infatti, cadde
vittima di un’insurrezione capeggiata dal conte Vitterico, profondamente impregnato della
tradizione gota che , fattosi re, avrebbe voluto restaurare l’antica religione; ma gliene
mancò il tempo perché nel 610, a seguito di violenti scontri con la parte cattolica,
l’usurpatore perse, a sua volta, la corona e la vita. Dal 610 al 612, poi, il potere passò al
nobile Gundemaro, il quale, durante il suo brevissimo regno, fu costretto a ingaggiare
ben due guerre, contro i Baschi e contro i Bizantini, senza poterne portare a termine
nessuna. Entrambi i conflitti vennero portati a termine dal suo successore, Sisebuto che,
domata prima l’insurrezione basca, poté concentrare tutte le sue forze contro i Bizantini e
sconfiggere il generale Asario in due battaglie consecutive.
Quelle vittorie permisero a Sisebuto di impadronirsi delle province orientali rimaste sino
ad allora in mano di Costantinopoli che comprendevano il territorio tra Gibilterra e il Sucro
(Jucar). L’imperatore Eraclio giudicò a questo punto opportuno concludere un trattato di
pace per il quale Bisanzio rinunciava a gran parte dei suoi possessi iberici, mantenendo
solo la zona occidentale, sino alla regione dell’Algarve. L’evento che maggiormente
caratterizzò il regno di Sisebuto fu la persecuzione degli Ebrei che, sin dall’epoca
imperiale, in gran numero vivevano in Spagna protetti da apposite leggi. Nel secolo V,
con la lex Romana Visigothorum , Alarico II aveva recepito la legislazione romana nei loro
riguardi introducendo solo alcune restrizioni quali il mantenimento della separazione tra le
razze conseguita equiparando il matrimonio tra cattolici ed ebrei all’adulterio, e il divieto
per gli ebrei di possedere schiavi cristiani e di occupare pubblici uffici.
Comunque veniva confermata la libertà di culto, la validità della legge ebraica e la
giurisdizione dei loro giudici. Nondimeno la consuetudine si era mostrata più forte della
legge e, così come si continuarono a celebrare matrimoni misti, così avvenne che spesso
cariche pubbliche fossero affidate a personalità ebraiche così come non pochi furono gli
ebrei che avendo schiavi cristiani li facessero circoncidere. Con il terzo sinodo di Toledo,
Recaredo aveva già modificato la legge di Alarico II, rendendo obbligatorio il battesimo
per i figli di matrimoni misti; Sisebuto andò oltre e ordinò che tutti gli ebrei venissero
battezzati, pena l’esilio e la confisca dei beni.
Non conosciamo le motivazioni che indussero il sovrano a quella che può
essere definita una vera e propria persecuzione degli ebrei. E’ possibile tuttavia
avanzare alcune ipotesi. In primo luogo non va trascurata l’influenza che forse
ebbe in tal senso il clero cattolico su quel devoto sovrano. Non si deve
dimenticare infatti che, anni dopo, i padri del quarto concilio di Toledo, ispirato
e presieduto da Isidoro di Siviglia, volendo difendere il cattolicesimo,
dedicarono ben dieci canoni alla questione ebraica. E’ vero, d’altra parte, che
Sisebuto prese quei provvedimenti di condanna verso gli ebrei senza consultare
alcun concilio, quindi tali misure vanno attribuite solo alla sua volontà di
sovrano profondamente cattolico.
Va poi anche considerata la possibilità che la persecuzione antigiudaica
nascesse dal semplice desiderio di arricchirsi mediante la confisca dei beni e la
vendita delle dispense. Inverosimile ci appare invece l’ipotesi avanzata dal
Biclaro che vede nella persecuzione di Sisebuto, la vendetta per l’aiuto a suo
tempo dato dai Giudei ai Persiani e agli Arabi nella loro guerra contro i cristiani
d’Oriente, e ciò in quanto tra Bizantini e Visigoti da sempre non scorreva buon
sangue e non si capisce pertanto perché un sovrano goto avrebbe dovuto
vendicare un’azione ostile a Costantinopoli.
Approfondimenti sulla lezione 43
La maggior parte degli ebrei, non avendo la forza di resistere, preferì
battezzarsi e furono solo poche migliaia quelli che cercarono rifugio nella vicina
Gallia, dove i Franchi si mostrarono più tolleranti anche nella speranza di
sfruttare a loro vantaggio, in futuro, il prevedibile desiderio di rivalsa dei
transfughi contro i Visigoti. Sisebuto fu un sovrano di notevole levatura che non
si distinse solo nelle vittoriose campagne militari e nella difesa del
cattolicesimo. Egli fu anche uomo di lettere e, come vedremo in seguito, ebbe
un ruolo non marginale nella rinascita della cultura in terra spagnola.
Guida allo studio della lezione 43
Per quanto concerne la successione a Recaredo si consideri di L.
Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo VII, Perugia
2006. In particolare si studino le pp. 39-41.
Lezione 44

Da Recaredo II a Vamba
A Sisebuto, morto nel 621, succedette il figlio Recaredo II, il quale a causa della morte
prematura poté regnare solo per pochissimi giorni. Dopo di lui ascese al trono il duca
Swinthila che già si era distinto come valoroso generale sotto Sisebuto. Questi proseguì e
portò a termine le imprese militari dei predecessori, riuscendo a conquistare nel 629
anche l’Algarve, ultimo avamposto bizantino in terra spagnola. I Visigoti ormai avevano
così unificato tutta la penisola iberica salvo le zone montuose della Biscaglia, e
dell’Aragona, che continuarono a mantenere la loro indipendenza. Swinthila sconfisse
anche i Baschi che, mai rassegnati al dominio straniero, continuavano a intervalli più o
meno regolari, ad attaccare i Goti subendo per lo più gravi sconfitte. Anche in
quell’occasione la fiera popolazione basca, che cercava di impadronirsi della provincia di
Tarragona, venne respinta e dovette ritirarsi.
Swinthila, aspramente contestato, nel 631 dovette difendersi dal nobile Sisenado che, con
l’aiuto militare dei Franchi, si era mosso contro Saragozza. Il re fu sconfitto e, pur
rimanendo in vita e libero, almeno stando a un canone del concilio toletano testé citato,
dovette rinunziare alla corona. Nulla sappiamo circa il momento della sua fine che resta
coperta da un velo di mistero. Del successore di Swinthila, Sisenado, si ignorano fatti
significativi se non l’atto conclusivo del IV concilio di Toledo, presieduto da Isidoro di
Siviglia, nel corso del quale vennero prese quelle decisioni significative sugli ebrei di cui
dicemmo, e ci si pronunciò sull’ormai annoso problema della successione al trono che
comunque era destinato a restare insoluto essendo falliti, nel corso dei secoli, tutti i
tentativi dei vari sovrani di renderla ereditaria.
Quando nel 640 Chintila morì, il figlio Tulga, nel rispetto delle decisioni conciliari
(intendiamo quelle assunte dai concili toletani V e VI), accettò formalmente di apparire
eletto dalla nobiltà, la quale però non tardò a manifestare il suo malcontento, sentendosi
turlupinata da un’elezione che mal celava il ripristino, di fatto, della successione. Così si
spiegano i numerosi complotti e le insurrezioni volte a rovesciare il sovrano, che
caratterizzarono il breve regno di Tulga, finché, nel maggio del 642, il nobile
Chindasvindo, usurpato il trono, relegò Tulga in convento. Il nuovo sovrano, la cui
energia ricordava quella di Leovigildo, si mostrò ben presto determinato a evitare la sorte
del predecessore; a tal fine la sua persecuzione nei confronti della nobiltà più ambiziosa
fu implacabile: ben settecento persone furono uccise o ridotte in schiavitù. Dopo di che
Chindasvindo poté godere, durante il suo regno (642653), di un lungo periodo di
tranquillità e ciò a riprova che spesso basta la minaccia per tenere a bada eventuali
nemici.
Quanto alla politica interna, il sovrano si appoggiò al clero cattolico, sempre
pronto a preferire la successione ereditaria a quella elettiva, allorquando, nel
649, volle dividere la responsabilità del governo con il figlio Recesvindo; il quale
da quel momento, di fatto, diventò re tanto che, nel 653, alla morte del padre,
gli successe, senza ricorrere alla elezione anche solo formale da parte dei
nobili. In tal modo vennero tacitamente superate le disposizioni del canone 75
del IV concilio di Toledo proprio per volontà di un rappresentante di quella
nobiltà che tanto aveva fatto per limitare il potere regio.
Per quasi un ventennio, le cronache di cui disponiamo tacciono sui Visigoti; ci dicono solo
che nel 672, dopo un regno durato ventitré anni, Recesvindo morì e sul trono dei Visigoti
ascese Vamba. Il regno di Vamba fu funestato da una lunga serie di guerre. Egli infatti
dovette affrontare dapprima i Baschi; poi la ribellione del generale Paolo che con a
Randsindo duca di Tarracona, Childerico conte di Nîmes, e Argebaldo vescovo di Narbona,
aveva sobillato tutta la Settimania e buona parte della Tarracona; e infine i musulmani. La
guerra contro i musulmani si risolse positivamente con la sconfitta dell’esercito arabo e la
distruzione dell’intera flotta. Gli Arabi che dalle coste nord africane erano passati in
Spagna, occupando la città di Algesiras preoccupavano moltissimo la corte visigotica che
vedeva in loro una minaccia ben superiore a quella rappresentata dalla lontana Bisanzio.
Tanto che, nonostante la momentanea vittoria, Vamba comprese perfettamente che era
necessario rafforzare urgentemente l’organizzazione militare dello stato, nonché ridestare
nel popolo l’antico spirito guerriero, ormai sopito. Egli pertanto pretese che venisse
severamente applicata la legge che rendeva obbligatorio il servizio militare per la nobiltà
e una parte del clero. Nel 673, introdusse poi una legge che stabiliva la perdita dei diritti
civili per chiunque si fosse rifiutato di prestare servizio nell’esercito.
Approfondimenti sulla lezione 44
Nonostante la feroce repressione di Sisebuto, la questione ebraica non era però
risolta anche perché esisteva il fenomeno dell’abiura del cattolicesimo e del
ritorno alla religione originaria degli ebrei che si erano convertiti solo per paura.
Nel IV concilio toletano emerse la volontà dei padri di attenuare i
provvedimenti troppo drastici presi da Sisebuto. Ma secondo le direttive di
Isidoro, se da un lato si censurò l’eccessiva violenza delle punizioni per
costringere gli ebrei a cambiare religione (canone 57), dall’altro si accettarono
e sanzionarono le conversioni coatte già verificatesi, contrariamente a quanto
previsto dalla costituzione di Onorio e Teodosio del 416, che permetteva agli
ebrei fattisi cristiani per forza e non per convinzione di tornare alla vecchia
religione.
Circa la successione al trono, il canone 75 stabilì il principio della libera elezione
da parte di un’assemblea di nobili e di vescovi; legando così sempre più il
destino del sovrano alla Chiesa spagnola. D’altra parte, sin dai tempi di
Recaredo la monarchia, grazie alla quale il cattolicesimo si era potuto imporre
come confessione ufficiale, rappresentava il punto di riferimento per i cattolici
e, pertanto, non stupisce che essi, non solo tentassero di influenzare i vari
sovrani che si succedettero dalla fine del secolo VI, ma si impegnassero a
puntellare, a volte con successo, un’istituzione spesso traballante quale era la
monarchia visogota. In base al principio espresso da quel canone, nel 636,
morto Sisenado, venne eletto re Chintila, che regnò quattro anni durante i quali
gli unici avvenimenti di rilievo furono la convocazione del quinto e del sesto
concilio di Toledo.
Guida allo studio della lezione 44
Per quanto concerne la successione il regno dei Visigoti sino all’ultimo
trentennio si consideri di L. Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale
del secolo VII, Perugia 2006. In particolare si studino le pp. 41-45.
Lezione 45

La caduta del regno di Toledo


Divenuto re, Egica si affrettò a ripudiare la moglie, togliendo ai familiari di Ervige i
privilegi di cui godevano. I nobili che avevano partecipato alla cospirazione contro Vamba
furono puniti e tornarono in auge i seguaci di Vamba, già perseguitati da Ervige.
Insomma con Egica si assiste a un totale ribaltamento della situazione impensabile fino a
pochi mesi prima, cosa che scontentò buona parte della nobiltà. Un nuovo complotto
organizzato con l’appoggio del vescovo di Toledo Siseberto fu scoperto nel 692 e il
metropolita, privato della sua diocesi, fu scomunicato, condannato all’esilio perpetuo e i
suoi beni vennero confiscati. Se dobbiamo prestar fede a una denuncia fatta dallo stesso
Egica durante il diciassettesimo concilio di Toledo, gli ebrei visigoti avrebbero tramato con
le popolazioni arabe della costa africana, nel tentativo di cacciare dalla penisola iberica i
Visigoti cristiani. Intorno ai motivi che avrebbero spinto gli ebrei a una tale alleanza
possiamo azzardare solo delle ipotesi.
Nemmeno nel momento di più grave pericolo ci fu qualcuna tra la nobiltà visigota
disposto a rinunciare ai propri particolari interessi a vantaggio del bene comune. Achila,
alla morte di Vitiza, poté regnare solo per pochi mesi; fu detronizzato, alla fine della
primavera del 710, dalla solita congiura di palazzo che pose al suo posto Roderigo, duca
della Baetica . Nello scontro che seguì tra questi e Achila quest’ultimo ebbe la peggio e,
sconfitto, riparò, con tutta la famiglia, in Africa. Il regno di Roderigo è avvolto nel mistero
per la quasi totale mancanza di fonti; quello che si sa con certezza è che nel 711 un
numeroso esercito musulmano al comando di Ta’riq, luogotenente di Musa, governatore
della Mauritania, riuscì ad occupare, in rapida successione, la rocca di Gibilterra e le
vicine città di Carteya e Algesiras, dirigendosi poi su Cordova, dove la sua marcia fu
momentaneamente arrestata dall’ostinata resistenza di un cugino di Roderigo, Bencio, il
quale, seppur sconfitto, riuscì a rallentare l’avanzata nemica.
Il 19 luglio del 711, presso il lago Janda, gli Arabi riportarono un’importante
vittoria sull’esercito visigoto guidato dal re in persona. Anche in questa
occasione la sconfitta gota fu favorita dal prevalere di faide interne; i partigiani
di Achila non esitarono, infatti, ad abbandonare la loro parte per unirsi agli
Arabi. Ormai nulla sembrava poter frenare i musulmani che avanzavano verso
Siviglia; essi assediarono Cordova e, infine, entrarono in Toledo.
Nel primo anno l’insediamento arabo nella penisola iberica incontrò grandi
difficoltà a causa delle sacche di resistenza visigota da essi incontrate. Roderigo
ebbe quindi la possibilità di riorganizzare le sue forze per un ultimo e disperato
tentativo di difesa. Presso Segovia, però, nel 713 l’ultimo re dei Visigoti subì la
sconfitta decisiva, trovando, probabilmente, anche la morte in battaglia. Con la
sfortunata battaglia di Segovia si consuma l’ultimo atto del dominio dei Visigoti
sulla penisola iberica che da quel momento resterà ininterrottamente nelle
mani degli Arabi per ben sette secoli.
Approfondimenti sulla lezione 45
Le leggi di Egica circa gli ebrei erano vantaggiose per i giudei convertiti,
risultavano invece gravose nei confronti di quelli che rifiutavano il battesimo e
volevano osservare scrupolosamente la legge giudaica. Infatti, i primi, non solo
erano esentati dalla particolare imposizione fiscale prevista nel regno goto per
gli ebrei, ma era loro consentito di possedere schiavi cristiani e di praticare i
commerci. Mentre i secondi, oltre a pagare la tassa di loro pertinenza, erano
gravati anche della parte da cui erano esonerati i convertiti. I giudei, quindi,
potevano essere mossi dalla speranza che gli Arabi sarebbero stati meno esosi.
Il concilio si convinse della veridicità della denunzia di Egica e condannò alla
confisca dei beni e alla schiavitù gli ebrei della penisola. Era previsto anche che
i padroni di questi schiavi provvedessero all’educazione cristiana dei loro figli i
quali, divenuti adulti, avrebbero così potuto sposare dei Cattolici.
Questa legge restò limitata alla penisola iberica mentre non trovò applicazione
nella Gallia visigota. Negli ultimi tempi del suo regno Egica consentì al figlio
Vitiza di partecipare al governo e gli affidò la zona nordoccidentale del paese la
cui capitale era Tuy. In tal modo Vitiza, nel 701, poté succedere al padre senza
incontrare opposizione alcuna. Le scarse e incerte notizie che abbiamo di
questo sovrano riguardano un’amnistia per i nobili condannati da Egica,
nonché, sulle orme del padre, l’associazione al trono da parte sua del figlio
Agila o Achila, cui assegnò le province di Narbona e Tarracona. Inoltre si
accenna anche a scontri contro i Bizantini che, fin dagli ultimi anni di Egica,
stavano tentando di rioccupare parte delle città della Spagna meridionale; e
contro gli Arabi che, tra il 707 e il 709, cercarono di invadere la costa spagnola.
Anche questa volta il sovrano visigoto riuscì a respingerli, ma solo con grande
difficoltà; d’altra parte ormai la spinta dei musulmani si stava facendo vieppiù
incontenibile.
Guida allo studio della lezione 45
Sugli ultimi anni del regno di Toledo, poi travolto dagli Arabi si veda di
L. Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo VII, Perugia
2006. In particolare si studino le pp. 45-50.
Lezione 46

Le scuole episcopali
Quella che può essere definita la rinascita culturale della Spagna del secolo VI fu resa
possibile, in primo luogo, dalla fondazione delle scuole episcopali. Esse, resesi necessarie
per provvedere in modo organico all’istruzione e alla formazione dei futuri religiosi, erano
però aperte anche ai laici. Prima della nascita di tali scuole, la strada di chi aspirava alla
vita religiosa era solo approssimativamente delineata. Il giovane aspirante si appoggiava
al clero del luogo natale per poi, eventualmente, passare altrove. In questo suo percorso
riceveva un’educazione religiosa, ma non una formazione culturale, a questa provvedeva
sempre la scuola antica, quando esisteva, o la famiglia a cui era affidata anche la
formazione morale.
Quindi, per quanto precoce, l’ingresso nel mondo religioso non garantiva un’istruzione
adeguata e, pertanto, soltanto chi aveva la buona sorte di esser nato in una famiglia ove
già fosse un ecclesiastico poteva avere una formazione sufficiente. E’ il caso, ad esempio,
di Epifanio, parente del vescovo Crispino, che poté avere il privilegio di vivere accanto a
un uomo di grande cultura religiosa nonché lettore dei classici; si trattava però, come è
facile intendere, di eccezioni, la norma era ben diversa. Va poi detto che, inerzia
intellettuale a parte, anche dal punto di vista spirituale le cose non andavano molto
meglio, essendo la formazione morale-come detto-lasciata soprattutto all’iniziativa delle
famiglie, per non parlare delle numerose e pericolose tentazioni della vita secolare, alle
quali il giovane si trovava esposto.
Il primo gradino dell’aspirante prete era quello di lettore, poi via via diventava esorcista,
suddiacono, diacono e, infine, prete. Se, durante questo percorso, si pentiva della scelta
fatta e intendeva sposarsi, poteva farlo, almeno sino al livello di suddiacono, dato che
sino al suddiaconato, all’infuori dai servizi che doveva rendere, viveva da laico e tale era a
tutti gli effetti. Alla luce di tale situazione la Chiesa iberica sentì l’urgenza di intervenire
per garantire ai futuri religiosi una preparazione adeguata e omogenea. Dell’argomento si
discusse nei concili di Tarragona (516), Gerona (517), Lérida, Valencia (ambedue del
524), e Toledo (527).
In quest’ultimo concilio si approvò l’istituzione di una scuola episcopale in grado
di accogliere tutti i giovani che aspiravano alla vita religiosa. I giovani che
entravano nella domus ecclesiae erano istruiti da un maestro ( a preposito sibi
debeant erudiri ), sotto la supervisione del vescovo. Fino al compimento del
diciottesimo anno, la scelta dei ragazzi, spesso imposta dalle famiglie, non era
considerata definitiva. A quell’età potevano ancora decidere se vivere da laici e
sposarsi o decidere di proseguire il loro percorso sino ai voti definitivi. Solo in
tal caso essi rimanevano legati alla chiesa che si occupava della loro successiva
educazione.
Approfondimenti sulla lezione 46
Subito dopo il concilio di Toledo del 527 che decise l’istituzione delle scuole
episcopali, ebbe inizio la riflessione sui programmi scolastici. Come prima cosa
si stabilì che i chierici dovessero abbandonare qualunque attività secolare per
dedicarsi interamente allo studio. Abbiamo già detto che spesso erano le
famiglie ad indirizzare i ragazzi alla vita religiosa fin dalla più tenera età;
favorendo con ciò il compito formativo della scuola che si trovava a disporre di
coscienze più duttili e quindi più facilmente plasmabili. Si cominciava subito
infatti ad inculcare nel puer un modello di vita diverso da quello mondano,
fermo restando la possibilità di eventuali futuri ripensamenti da parte del
ragazzo, una volta giunto in età più matura. Il primo insegnamento impartito
riguardava le preghiere con cui gli alunni venivano accolti nella comunità
ecclesiale. Tali preghiere ci sono state tramandate dal Liber Ordinum e rivelano
da parte della Chiesa grande attenzione e avrebbero dovuto sentirsi sempre
libere di intraprendere una strada diversa da quella scelta per loro dai genitori.
Per quei fanciulli che diventavano chierici giovanissimi, prima di saper leggere e
scrivere, era designato un prepositus che, con occhio vigile, li seguisse durante
la loro partecipazione ai servizi liturgici. La particepazione attiva ai riti liturgici
non riguardava naturalmente tutti; mentre tutti dovevano acquisire in tempi
ristretti un primo elementare livello di istruzione che consentisse di poter
iniziare il vero e proprio percorso formativo. Gli allievi, divisi in piccoli gruppi,
erano affidati a prepositi che li seguivano nelle varie attività di studio. Durante
l’adolescenza, età particolarmente critica, i controlli sui ragazzi si accentuavano.
Essi, affidati alla responsabilità degli studenti più anziani, onde evitare la
nascita di legami particolari, vivevano tutti insieme in uno stesso luogo, così
come disposto dal IV Concilio di Toledo del 633.
Abbiamo visto che per i piccoli allievi l’istruzione cominciava con
l’apprendimento di alcune preghiere. Subito dopo ogni cura era dedicata
all’insegnamento della grammatica. Infatti, se la conoscenza delle preghiere è
necessaria per ogni buon cristiano, non è sufficiente per l’uomo di chiesa, che
deve essere in grado di leggere e meditare la parola di Dio, per poi poterla
predicare. Naturalmente ci si esercitava a leggere sui testi sacri. A riguardo
Isidoro di Siviglia raccomandava che la lettura intesa come riconoscimento delle
parole non andasse disgiunta dall’esatta comprensione del testo, dato che solo
in tal caso essa risulta efficace. Non dobbiamo infatti dimenticare che i ragazzi
leggevano a voce alta, rivolti ai compagni. Pertanto il lettore-dice Isidoro-deve
avere una voce chiara, bene impostata, accompagnata da gesti sobri, per
meglio far risaltare i contenuti degli argomenti trattati, in modo da colpire con
maggiore efficacia il cuore e le orecchie dell’interlocutore.
Guida allo studio della lezione 46
Per approfondire ulteriormente la struttura delle scuole
episcopali, il loro scopo e i loro risultati, si veda di L.
Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo VII,
Perugia 2006. In particolare le pp. 75-79.
Lezione 47

Le scuole monastiche
Quando si parla del monachesimo iberico non bisogna mai dimenticare
l’influsso su di esso esercitato da quello orientale, tanto è vero che i monaci
spagnoli erano per lo più soliti vivere come gli asceti del deserto. Anche se,
soprattutto nei monasteri situati in prossimità dei grandi centri urbani, al rigore
ascetico si accompagnava spesso un forte impegno nello studio, considerato un
mezzo altrettanto valido di elevazione spirituale. Ciò spiega l’interesse con cui
viene seguita la preparazione culturale dei giovani monaci. Nella Regola che il
vescovo di Siviglia Leandro, grande studioso della Bibbia, scrisse per il
monastero della sorella Fiorentina, si consiglia alle giovani monache di dividere
il loro tempo tra la preghiera e la lettura dei testi sacri.
Al contrario del fratello Leandro, Isidoro di Siviglia ci dà notizie più puntuali
sull’educazione intellettuale dei monaci; da lui apprendiamo che la vita in monastero
trascorreva tra la preghiera, la lettura e le discussioni. Nella Regola per la scuola del
monastero di Siviglia, scuola fondata dal fratello Leandro, erano previste tre ore di lettura
al giorno, oltre ad alcuni momenti da dedicare alla meditazione o alla discussione di temi
inerenti i Testi sacri, i cui passaggi più complicati potevano essere spiegati, su richiesta
dei monaci, dall’abate. I monaci potevano prendere in prestito i codici tutti i giorni, dalle
prime luci dell’alba, e dovevano restituirli subito dopo i vespri; chi avesse fatto cattivo uso
di quei codici, sarebbe incorso in severe punizioni; nulla ci dice però Isidoro intorno ai
metodi di insegnamento e alle materie studiate, limitandosi a sottolineare che nella sua
scuola non era apprezzato lo scherzo, e che ci si impegnava a render difficile la vita ai
pigri, considerati un peso morto e quindi meritevoli di punizioni. Il materiale di lettura non
era costituito solo da testi sacri, ma anche da pere profane, sia contemporanee che
antiche.
Isidoro, sconsiglia per lo più la lettura di opere moderne di argomento profano,
così come quelle scritte da eretici, incoraggia invece lo studio dei classici, la cui
conoscenza era ritenuta, anche da lui, fondamentale complemento nella
preparazione di un monaco colto. Comunque, anche per quanto riguarda le
opere sconsigliate, si deve supporre che il caveat di Isidoro non riguardasse
tutti, ma solo quei monaci che agli occhi dell’abate apparissero spiritualmente
fragili perché più sensibili a certe lusinghe. L’ipotesi appare confermata dalle
parole che si potevano leggere sulla porta della biblioteca di Isidoro. L’iscrizione
esortava coloro che si sentivano scandalizzati dai versi dei poeti pagani a girarsi
da un’altra parte, o meglio a limitarsi a leggere poeti cristiani quali Avito e
Sedulio. Quanto a lui, non riteneva in nessun modo di dover rinunciare alla
lettura dei suoi grandi classici, Virgilio in primo luogo.
A nostro parere, confortati in ciò dal Riché (P. RICHÉ, Le scuole e
l’insegnamento nell’Occidente cristiano dalla fine del V secolo alla metà dell’XI
secolo, Città di Castello, Jouvence, 1984), la Regula isidoriana contro le opere
profane riguardava sì, sia i monaci giovanissimi, sia gli adulti, ma di questi
ultimi non tutti, bensì solo i simpliciores. Perché quelli intellettualmente più
maturi, non solo potevano affrontare senza remore i testi classici, ma anzi tali
letture erano considerate un mezzo per meglio intendere le verità religiose.
Isidoro si occupò anche dei grammatici. Infatti essi, seppure pagani, con i loro
studi offrivano gli strumenti per migliorare la comprensione anche degli autori
cristiani; non discostandosi in ciò dalle idee di papa Gregorio Magno, il quale
considerava lo studio della letteratura classica pagana non fine a se stesso ma
necessario per un approfondimento delle Scritture e quindi per l’innalzamento
spirituale del cristiano.
Introduzione al corso
OBIETTIVI DEL CORSO
1 fornire gli elementi utili per comprendere la criminologia;
2 fornire le nozioni per comprendere la criminalistica,
sempre più indispensabile per affrontare il mestiere del
criminologo;
3 permettere allo studente di conoscere i vari aspetti
criminologici e di potersi districare tra tutte le molteplici
sfaccettature di tale disciplina;
4 fornire allo studente la base per iniziare un approccio
peritale;
5 far comprendere l’approccio metodologico di come si
affronta un caso anche con numerose ricostruzioni di casi
scuola.
Testi di riferimento

Il testo base: Compendio di Criminologia di G.Ponti e I. Marzagora


Betsos Raffaello Cortina Editore

Testi facoltativi: Un mostro chiamato Girolimoni, di F. Sanvitale e A.


Palmegiani e Omicidio a piazza Bologna di F. Sanvitale e A.
Palmegiani entrambi della Sovera Editore

La lezione principale è composta da slides del docente seguono poi


delle sessioni di studio, articoli e scritti (alcuni anche in lingua
inglese), che non hanno la struttura delle slides, l’esame finale non
verterà su queste parti.
Guida allo studio della lezione 47
Per approfondire ulteriormente il discorso sulle scuole monastiche, il
loro scopo e i loro risultati, si veda di L. Montecchio, I Visigoti e la
rinascita culturale del secolo VII, Perugia 2006. In particolare le pp. 79-
84.
Lezione 48

La legislazione visigotica
Come per gli altri popoli germanici, anche per i Visigoti avrebbe dovuto valere il principio
della personalità del diritto , in base al quale ogni uomo libero era tenuto ad osservare,
nei rapporti interpersonali, le norme fissate dall’ordinamento della propria natio . Usiamo
il condizionale perché, in mancanza di sicure e incontrovertibili testimonianze, i pareri
degli storici sono, al riguardo, oltremodo contrastanti. Alcuni credono di potere affermare
che il principio della personalità del diritto, pervenuto in Occidente al seguito delle
invasioni barbariche, sia rimasto anche nella legislazione che regolava i rapporti tra
Visigoti e Gallo-Romani o Ispano-Romani, altri, invece, affermano che tale legislazione si
basava solo sul principio di territorialità.
Dove tutti concordano è comunque nel riconoscere che il diritto visigoto subì
notevolmente l’influsso di quello romano, tanto che si mutarono tradizioni
anche molto antiche. D’altra parte abbiamo visto che, già alla stesura del
cosiddetto Codex Euricianus che il re Eurico avrebbe sottoposto all’assemblea
popolare nel 475 parteciparono giuristi Gallo-Romani; senza contare che la
necessità stessa di tradurre in latino termini giuridici germanici avrà
indubbiamente contribuito ad accentuare le analogie con le istituzioni romane.
L’altra testimonianza a nostra disposizione è una raccolta di norme valida per la
sola componente romana della popolazione nel regno visigoto, la cui capitale
era allora ancora Tolosa. Si tratta della Lex Romana Visigothorum , che fu
approvata appunto a Tolosa il 2 febbraio 506, durante il regno di Alarico II, e
per questo è detta anche Breviarum Alarici o Alaricianum (nonché Breviarum
Aniani , dal nome del funzionario che preparò e autenticò le copie da inviare
nelle varie regioni del regno), basata sul Codice teodosiano del 438. Va subito
precisato che non tutti sono d’accordo sulla datazione del Codex Euricianus , la
cui redazione alcuni fanno risalire ad epoca più tarda.
Fra questi si ricordano particolarmente il Wolfram e il D’Ors.Il primo sostiene l’ipotesi che
il Breviarum Alarici e il Codex Euricianus siano coevi, che cioé anche quest’ultimo,
nonostante il nome, sia stato in realtà redatto all’epoca di Alarico II. Egli si chiede infatti
perché mai Alarico, data l’esistenza del codice di Eurico che secondo Sidonio Apollinare,
unico testimone coevo, ebbe un’applicazione territoriale, avrebbe dovuto dedicare tempo
ed energie alla redazione di una legge esclusiva per la popolazione romana. Inoltre,
accettando la data del 475, altre domande resterebbero senza risposta: come mai i
Visigoti avrebbero lasciato trascorrere alcuni decenni prima di esercitare la loro potestas
sui Romani? e perché questi avrebbero supinamente accettato di sottostare ad una
legislazione ormai superata nella realtà quotidiana? Per non parlare poi del fatto che, nel
breve lasso di tempo di circa trent’anni, si sarebbe verificato un mutamento sostanziale
col ritorno dal diritto territoriale a quello personale, insomma un vero e proprio passo
indietro.
Approfondimenti sulla lezione 48
Il D’Ors riconosce che, almeno all’inizio, i Goti vincitori godettero dal punto di
vista legale di una posizione di privilegio rispetto ai Romani. Nel già menzionato
Codex Euricianus , ad esempio, si legge che se in un contenzioso contro un
Goto si trovano in concorrenza un Romano e un Goto, quest’ultimo va
senz’altro favorito e che, l’eventuale indennizzo che un Visigoto deve pagare, è
sempre inferiore a quello che per lo stesso motivo deve pagare un Romano.
D’altronde, dal punto di vista sociale, si può senz’altro affermare come ci fosse
una certa distinzione tra i vinti Romani e i Visigoti vincitori che detenevano il
potere; non può essere inoltre dimenticata la differenza di confessione
religiosa, cattolici i primi e ariani i secondi.
Si deve desumere che il divieto dei matrimoni misti anche quand’era in vigore
poteva però essere aggirato abbastanza agevolmente, come testimonia
d’altronde la presenza nella Spagna visigota di lapidi sepolcrali su cui appaiono
i nomi di Goti sposati a Romane e viceversa. Sempre a proposito di matrimoni
misti, si deve considerare che i Visigoti conquistatori erano in numero inferiore
rispetto ai Romani, non si capisce quindi perché avrebbero dovuto frapporre
ostacoli all’unione con i vinti. Circa le ipotesi di alcuni autori germanici secondo
cui negli invasori ci sarebbe stata una qualche volontà di mantenere la purezza
del sangue, esse ci sembrano decisamente balsane e vanno viste solo come un
frutto non commestibile dell’epoca in cui furono predette. Tutt’al più si potrebbe
pensare che, la loro esitazione a fondersi con i Romani, nascesse solo dal
timore di smarrire la propria identità.
Guida allo studio della lezione 48
Per approfondire ulteriormente il tema del diritto visigotico si veda di L.
Montecchio, I Visigoti e la rinascita culturale del secolo VII, Perugia
2006. In particolare le pp. 99-107. Là si troveranno altresì puntuali
riferimenti bibliografici sugli autori sovracitati.
Lezione 49

Teodolinda
Teodolinda, è noto, fu regina dei Longobardi e, conseguentemente, regina d’Italia per un
lungo periodo, dal 589 al 616. Era figlia di Garibaldo, primo duca dei Bavari - di stirpe
franca - e di Valdrada, figlia di Vacone, re dei Longobardi tra il 510 e il 540. La stirpe cui
apparteneva la madre di Teodolinda era quella dei Letingi, la fara longobarda regale più
nobile, avvolta da una grande aura di rispetto e venerazione presso il popolo dei
Longobardi. Aveva una sorella maggiore, il cui nome è ignoto, che nel 576 sposò Ewin,
duca di Trento, e un fratello, Gundoaldo. Di Teodolinda non si conoscono con certezza
due dati importanti: la data e il luogo di nascita. Con qualche approssimazione si pensa
che la principessa sia nata intorno al 570 o qualche anno dopo, ipotizzando che avesse
circa vent'anni o poco meno al momento delle sue prime nozze, avvenute nel 589.
Quanto al luogo forse fu Ratisbona, il principale insediamento del Ducato di Baviera e
luogo dove sorgeva il palatium dei sovrani bavari.
Nel 588, dopo che era sfumato un precedente fidanzamento con una sorella del re dei
Franchi, Childeberto II, il re dei Longobardi, Autari concluse il fidanzamento con
Teodolinda. La scelta, come è comprensibile, aveva una precisa finalità politica: fallito
ogni tentativo di arrivare ad una pacificazione con i Franchi (argomento che avremmo
modo di trattare nel proseguio dell’opera), Autari aveva optato per lo scontro aperto.
Pertanto fece in modo che si potesse giungere all’organizzazione di un’unione
matrimoniale con i Bavari, anch’essi, come i Longobardi, minacciati dai Franchi. Il
matrimonio fu celebrato a Verona il 15 maggio 589, presso il campo di Sardi; il fratello di
Teodolinda, Gundoaldo, fu nominato duca di Asti.
Autari morì improvvisamente (forse avvelenato) dopo poco più di un anno dal
matrimonio, il 5 settembre 590. Secondo il racconto di Paolo Diacono, commovente
anche se di dubbia veridicità, in quei mesi la regina letingia avrebbe a tal punto
conquistato i Longobardi da far sì che il popolo, spontaneamente, le offrisse la possibilità
di scegliersi un nuovo marito e re. La scelta sarebbe allora caduta sul duca di Torino,
Agilulfo. Più verosimilmente quel matrimonio, celebrato nello stesso autunno del 590, era
stato orchestrato dallo stesso Agilulfo, che nel maggio del 591, a Milano, avrebbe poi
ricevuto l'investitura ufficiale a re in un'assemblea del popolo. La prassi della trasmissione
del potere per via femminile, attraverso il secondo matrimonio della regina vedova, era
comunque accolta serenamente dalla società longobarda.
Teodolinda ebbe un notevole influsso sulle scelte politiche del marito. Cattolica (a
differenza del marito e di gran parte del popolo longobardo, che era ariano e pagano),
dopo un iniziale sostegno allo scisma (con ogni probabilità fino al 612 anno della morte
del suo consigliere, Secondo di Non) dialogò con la Chiesa di papa Gregorio Magno
(590604), con il quale intratteneva uno scambio epistolare. Tale scambio riguardò
soprattutto la funzione di mediatrice che la regina esercitò per assicurare periodi di
tregua nella guerra in corso fra longobardi e romani. Per il possibile influsso di
Teodolinda, furono inoltre restituiti beni alla Chiesa, reinsediati vescovi e avviati sforzi per
comporre lo Scisma tricapitolino che divideva il papa di Roma al patriarca di Aquileia. In
quegli anni il monaco Secondo di Non, tricapitolino, fu primo consigliere alla corte
longobarda. Il figlio di Agilulfo e Teodolinda ed erede al trono, Adaloaldo, fu battezzato
con rito cattolico nel 603, mentre l'aperto incoraggiamento dato dalla coppia regale alla
riforma monastica di san Colombano approdò, nel 614, alla fondazione del monastero di
Bobbio. Quel «monastero, protetto da privilegi papali, era presto divenuto un centro di
evangelizzazione cattolica ortodossa per l’Italia nordoccidentale», pertanto quella vasta
area comprendeva il regno longobardo che, in un certo senso, si fece conquistare dal
credo niceno.
Torniamo al battesimo del figlio di Teodolinda. L’assunzione di quel sacramento
significava di certo un notevole avvicinamento della coppia reale alla religione
cattolica. Il che non indusse Agilulfo alla conversione se non altro per una mera
questione di opportunità. Anche Agilulfo, come prima aveva fatto Clodoveo nel
regno franco, temeva che un simile passo facesse sorgere una qualche
resistenza tra i maggiorenti del suo popolo. «Nondimeno, come osserva Jarnut,
egli diede il proprio appoggio a Colombano. Il missionario che si era già
impegnato nella riforma di alcuni monasteri ed era noto in tutta l’Europa di
allora: nel 612 costui poteva fondare nell’Appennino nordoccidentale il
monastero cattolico di Bobbio, cui erano affidati compiti di evangelizzazione».
Di Bobbio già facemmo cenno ma la cosa, a nostro giudizio, fondamentale, fu il
consolidamento del potere del sovrano al punto che Adaloaldo venne elevato al
trono, come vennero avvicinati alla corte personaggi di sicura fede quali
Secondo di Non e il suo ministro, Paolo. Agilulfo morì nel maggio del 616
lasciando il titolo al figlio Adaloaldo ancora minorenne. Teodolinda divenne la
reggente. Una possibile insidia per la successione sarebbe potuta essere
rappresentata dal fratello di Teodolinda, il popolare Gundoaldo duca di Asti, se
non fosse che, poco prima, questi era stato assassinato. Probabile la longa
manus della stessa coppia reale che voleva salvare l’erede. Teodolinda rimase
al vertice del potere accanto al figlio, esercitando una reggenza e ricevendo il
grande sostegno del duca Sundrarit, già comandante militare e uomo di fiducia
di Agilulfo.
Come reggente, Teodolinda aveva intensificato il suo appoggio alla Chiesa cattolica,
anche per l'influsso esercitato dal consigliere latino Pietro, subentrato a Secondo.
Dapprima papa Gregorio Magno, conscio di una eventualità più unica che rara, colse ogni
pretesto per inviare alla regina i suoi scritti: «In quei giorni il sapientissimo e beatissimo
Gregorio, papa della città di Roma e autore di molti altri scritti ad utilità della santa
Chiesa, finì anche i quattro libri di vite di santi che intitolò Libro del Dialogo, cioè
colloquio a due, dato che lo aveva composto in forma di conversazione con il suo diacono
Pietro. Poi il volume venne inviato alla regina Teodolinda che papa Gregorio conosceva
devota nella fede di Cristo e attiva nelle opere buone». Come ricorda Paolo Diacono, «Per
questa regina la Chiesa di Dio conseguì molti vantaggi. Infatti i Longobardi, mentre
vivevano ancora nell’errore della religione pagana, avevano confiscato quasi tutti i beni
della Chiesa. Ma dopo che il re, mosso dalle salutari insistenze di Teodolinda, si fu
convertito alla fede cattolica, donò molti possedimenti alla Chiesa di Cristo e restituì
all’onore della loro carica i vescovi in cattività e in avvilizione».
Non ci furono attacchi ai Bizantini, che pure in quegli anni erano in gravi difficoltà a causa
della contemporanea pressione di Avari e Persiani, e anzi la diplomazia longobarda si
impegnò nella ricerca di un accordo definitivo con l'imperatore. Lo scontento della
maggior parte dei duchi si condensò intorno alla figura emergente di Arioaldo, duca di
Torino e cognato di Adaloaldo (era marito di sua sorella Gundeperga). Nel 624, quando
ormai Adaloaldo era maggiorenne ma non per questo Teodolinda aveva perso il suo
influsso sulla politica, esplose il conflitto interno tra i ribelli e il re, sostenuto dal papa e
dall'esarca di Ravenna. Infine Adaloaldo venne detronizzato, nel 626. Teodolinda morì un
anno dopo e fu sepolta, accanto al marito, all'interno del Duomo di Monza, da lei voluto.
Approfondimenti sulla lezione 49
Di seguito riportiamo le parole di Paolo Diacono inerenti il battesimo del
rampollo della casa regnante: «…Allora fu anche battezzato Adoaldo, figlio di
Agilulfo, nella chiesa di San Giovanni in Monza, ricevendolo al fonte battesimale
quel Secondo, servo di Dio di cui abbiamo spesso parlato. La Pasqua, in
quell’anno, cadde il sette aprile». Le parole di Paolo Diacono, di fatto,
sottolineano l’enorme influenza che ebbe la regina dei Longobardi a corte.
Senza la sua azione, infatti, il popolo longobardo avrebbe avuto difficoltà
ancora maggiori nel suo insediamento in terra italica. Come è noto il papato,
sentitosi da subito minacciato dalla presenza longobarda nel nord Italia, nel
centro (il ducato di Spoleto) e a sud (il ducato di Benevento), tentò in ogni
modo di affrancare la Penis