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In tempi recenti sono stati numerosi gli studi dedicati alla vita e alla morte
nella società rinascimentale. Staccandoci da una realtà come quella romana,
alla quale è stata riservata particolare attenzione, ci si è rivolti ad una società
periferica, quella di Genazzano, cittadina 50 km a sud di Roma, importante
feudo del ramo principale dei Colonna, patria di papa Martino V (Oddone
Colonna) e di Marcantonio, detto il Trionfante, eroe della battaglia di Lepan-
to, di Giovanni Bracalone de Carlonibus detto Brancaleone, uno dei tredici
cavalieri della disfida di Barletta e dell’agostiniano Mariano Mastrangeli (Ma-
riano da Genazzano), teologo e grande predicatore nemico di Savonarola. 1
Dopo aver studiato i matrimoni abbiamo esaminato i testamenti presenti
nella documentazione conservata nell’archivio del santuario di S. Maria del
Buon Consiglio: due cartelle di pergamene (Archivio Storico A e B) e un re-
gistro (ms. 1), 2 mutilo dell’inizio e della fine, scritto dal notaio genazzanese
Giovanni Iacopo de Pusanis o filius notari Sancti Pusani fra il 24 gennaio 1466
e il 1° febbraio 1500, 3 alcuni fogli del quale sono nell’Archivio di Stato di
Roma, Archivio notarile di Genazzano, vol. 10, con atti fra il 26 novembre 1500
1
Paola Piacentini, Genazzano, il castello Colonna e l’occupazione borgiana, in La fortuna
dei Borgia. Atti del convegno Bologna, 29-31 ottobre 2000, a cura di Ovidio Capitani – Miriam
Chiabò – Maria Consiglia De Matteis – Anna Maria Oliva, Roma 2005, pagine totali articolo,
nota 30; Un registro della famiglia di Giovanni “Brancaleone”. I Bracaloni de Carlonibus, a cura
di Rocco Ronzani – Emanuele Atzori, Genazzano - Roma 2014, nota 13.
2
Da ora citati come A seguito da un numero (i documenti di B non sono numerati) e la
sola indicazione della carta secondo la numerazione moderna per il ms. 1. Trattandosi di do-
cumentazione inedita, la bibliografia riportata in nota sarà ridotta all’essenziale; mi permetto
anche di citare alcune mie pubblicazioni in cui mi sono occupata di Genazzano. Inevitabil-
mente le stesse persone saranno citate più volte in diverse circostanze a seconda dell’argomen-
to trattato e per chiarire meglio tali argomenti (e per evitare troppi rinvii) saranno ripetute
alcune delle cose già segnalate.
3
Paola Piacentini, Il matrimonio a Genazzano (da un registro notarile dell’Archivio del
Convento di S. Maria del Buon Consiglio), in Roma donne libri tra medioevo e rinascimento. In
ricordo di Pino Lombardi, Roma 2004, pp. 145-148.
e l’8 maggio 1501 e frammenti del 1504-1505. Gli atti presi in esame sono 114
(61 delle donne, 30 delle quali vedove, 53 degli uomini di cui 36 sposati): 4 non
è molto per avere un quadro completo delle usanze vigenti in un centro della
provincia di Roma, ma può essere un inizio.
4
Per le donne è indicato se sono mogli o vedove, non per gli uomini: il loro “stato civile”
si può desumere dal fatto che nel testamento siano o no citate le mogli. A volte sembra che
si parli di seconde nozze, ma anche in questo caso è possibile ipotizzarlo dalle disposizioni
testamentarie.
5
Le precedenti convenzioni (1277) erano fra i Colonna e i nobili loro vassalli: Francesco
Tomassetti in Statuti della Provincia romana, a cura di Francesco Tomassetti – Vincenzo Fe-
derici – Pietro Egidi, Roma 1910, pp. 126-134, 360-372; anche Andreas R ehberg, Uomini di fi-
ducia e collaboratori di Martino V provenienti da Genazzano e dintorni: le origini socio-culturali
del papa Colonna e i loro effetti sul suo pontificato, in Martino V. Genazzano, il pontefice, le
idealità. Studi in onore di Walter Brandmüller, a cura di Pierantonio Piatti – Rocco Ronzani,
Roma 2009, p. 66 e segg.
6
Alfio Cortonesi, Terre e signori nel Lazio medioevale.Un’economia rurale nei secoli XIII-
XIV, Napoli 1988, pp. 29-104, 112 nota 38, 185-190 e passim.
(prope muros Terre; canapina cum orto; terrenum sive ortum cum curia). Molte
le cese, aree disboscate di estensione variabile (cesa sive terrenum; vineam cum
cesa; medium pratum cum cesa; olivetum sive terrenum cum cesa; cesa seminis
rublarum ij), meno frequenti gli oliveti, mentre non dovevano mancare la ce-
realicoltura e la coltura delle piante tessili, in particolare della canapa (cana-
pina; canapina vel vigna), testimoniata dalle pezze di tessuto e dalla biancheria
menzionate nei testamenti e nelle doti spesso insieme con il letto, il materasso
e le lenzuola, sottolineata dagli attrezzi inseriti fra i beni mobili e “stabili” in
un elenco dotale del 1486 in cui, oltre al letto, alla biancheria e a oggetti per la
casa sono ricordati «Item de filato bologninos X / Item certa cannapa in livoli
... / Item VI pectini pro pannis ... / Item lo orditore et la caiola» (c. 195r). In-
fine la presenza di arnie (cupelli) rivela l’esistenza dell’apicoltura, importante
in quanto il miele era il dolcificante più diffuso e la cera veniva ampiamente
utilizzata per l’illuminazione e la fabbricazione di candele, oggetto di lasciti
pro anima.
Poche parole sulle chiese di Genazzano, quasi sempre nominate nei testa-
menti per i lasciti o per le sepolture: le tre parrocchie già presenti nelle con-
venzioni del 1277 S. Paolo Apostolo, S. Maria del Buon Consiglio, la chiesa
castellana S. Nicola di Bari, a cui si aggiunge S. Giovanni, sicuramente esisten-
te nel 1356 quando fra i testimoni di un atto è il prete di S. Giovanni; spesso è
anche ricordata la chiesa extraurbana di S. Maria in Campo, successivamente
dedicata a s. Pio papa, all’estremità settentrionale del parco del castello, oggi
purtroppo in stato di abbandono. 7
Le persone che esprimono le ultime volontà davanti al notaio dovevano ap-
partenere in linea di massima ad una classe sociale media in quanto proprie-
tari o affittuari di immobili, di appezzamenti di terreno e di bestiame, anche
se non è possibile quantificare la consistenza patrimoniale del testatore sulla
base dei soli lasciti testamentari, forse mirati a favorire determinate persone o
istituzioni, mentre il resto dei beni, cioè l’intero patrimonio del morente, rien-
trava nella porzione legittima dell’eredità. Alcuni più abbienti possono dotare
cappelle di loro proprietà, hanno servitù alla quale fanno piccoli lasciti; uno
è indicato come nobilis vir, altri come magistri, forse piccoli commercianti o
artigiani, proprietari o gestori di botteghe affacciate sulle piazze come Nardo
di Antonio Nardi che fa testamento nel 1489.
L’inventario post mortem dei beni appartenuti a Valentino di Iacopo Cap-
pellutie e consegnati alla vedova perché li custodisca per i figli (redatto in
volgare) può dare un’idea, in linea di massima, di quanto possedeva un abi-
tante del paese: piatti di varie misure, sei pezzi di rame e un concolino, diversi
oggetti da cucina come una conca, una schiumarola, una scodella, pignatte,
7
Pio Francesco Pistilli, La rifondazione di Genazzano ai tempi di Martino V, in Martino
V. Genazzano, pp. 132-133.
mortaio, taglieri ecc., un letto, sei lenzuola, due camicie da donna e due da
uomo, biancheria varia personale e di casa, alcune branche di filato, un cas-
sone, tre arche, un’accetta, un serrecchio, una zappitella, mezza coppa di sale,
due quarti di grano nel tino, tre galline, tre pollastre, due canestri e un mani-
cuto, uno pilliccio, una scodella de preta (f. 232rv). 8
Non sono stati riscontrati testamenti di milites (che usavano dettare le loro
volontà prima di partire per la guerra) o di ebrei, che pure sappiamo presenti
nella comunità genazzanese. 9 Altri sono discendenti da dalmati trasferitisi in
Italia (forse, secondo una leggenda, al seguito della miracolosa Madonna del
Buon Consiglio) 10 ma di famiglia ormai stanziata a Genazzano; nel testamen-
to di Mariano Cefrelic, come in altri, la moglie è nominata usufruttuaria se
rimane vedova, esecutore e tutore dei figli minorenni – ed eredi – è un nobile
e notaio, Pandolfo di Francesco Salvati, uno dei testimoni è Giorgio Petri al-
banensis. Troviamo poi un solo religioso, il venerabilis vir dominus Antonio de
Mancinis da Olevano, 11 cappellano della cappella di S. Angelo a Genazzano e
arciprete di S. Nicola, che nel 1489 detta le ultime volontà in casa di un certo
Giovanni Mande al quale, con donazione inter vivos, lascia tutti i suoi beni, 12
8
Un altro inventario (sempre in volgare) è allegato al testamento di Perna vedova di Giu-
liano Tuccioli: anche in questo caso oggetti e biancheria per la casa, attrezzi da lavoro, e inoltre
beni immobili forse parte della dote.
9
Un sintetico riepilogo in Piero Scatizzi, I Colonna signori di Genazzano, in Il castello Co-
lonna a Genazzano. Ricerche e restauri, a cura di Agostino Bureca, Roma 2000, pp. 17-20; per
gli ebrei, Piacentini, Il matrimonio a Genazzano, pp. 164-165; Bice Migliau – Micaela Procac-
cia, Lazio. Itinerari ebraici. I luoghi, la storia, l’arte, Venezia – Roma 2001, pp. 61-62; R ehberg,
Uomini di fiducia, pp. 75-76; anche Anna Esposito, Una descriptio relativa alla presenza ebraica
nel Lazio meridionale nel tardo Quattrocento, in «Latium», 2 (1985), pp. 151-158.
10
Sulla leggendaria apparizione della immagine della Madonna v. per es. Orsetta Baron-
celli, Arte, storia e religione (Paola P iacentini – Orsetta Baroncelli, Devozione a Genazzano
nel XV secolo. I), in Andrea Bregno e la committenza agostiniana, Atti del Convegno di studi 28
aprile 2007, a cura di Cesare Panepuccia, Roma 2008, pagine totali articolo, p. 44 e passim;
Paola Piacentini – Piero Scatizzi, Le pergamene dell’Archivio del Convento di S. Maria del
Buon Consiglio di Genazzano (1317-1431), in «Analecta Augustiniana», 71 (2008), pagine totali
articolo, p. 212 nota 27 e bibliografia ivi citata.
11
F. 190rv (16 genn. 1486), f. 192r (13 apr. 1486). La cappella di S. Angelo doveva essere una
delle cappelle della chiesa di S. Nicola, dove venivano sepolti i Colonna, posta all’estremità
della navata centrale e demolita agli inizi del Seicento per rettificare la strada fra il castello e
il borgo: Michela Lucci, La chiesa di S. Nicola di Bari a Genazzano, in «Latium», 24 (2007), pp.
137-138, 143-146 e passim.
12
Un’altra donazione inter vivos è quella di Suffia figlia del fu magister Pietro e moglie di
Giuliano di Iacopo Cappellutie, indicato come vir suus, che nomina erede universale la figlia
Caterina, forse figlia di un primo matrimonio (cc. 79 v-80r). Nel 1477 Suffia «donavit et titulo
donationis dedit ... ea donatione que inrevocabiliter dicitur inter vivos» al marito Giuliano
una vigna o sodo «videlicet a rasis antiquis usque ad superius dicti terreni sive vinea» in loc.
la Valle; l’anno seguente, nel testamento, assegna a Giuliano «duas rasas vinee antique» alla
Valle, di proprietà del fu magister Pietro, e il ricavato della vigna per un anno, la stalla e la sala
di mezzo della casa di Pietro per un anno dopo la sua morte a patto che Giuliano restituisca
la sua dote e i lasciti.
indica i normali lasciti pro anima, vuole essere sepolto in S. Nicola, lascia sei
ducati pro reparatione alla chiesa di S. Agapito e 200 canales (tegole?) al Buon
Consiglio. 13
Questo Giovanni Mande abitava nella parrocchia di S. Nicola ma non è
stato possibile stabilire se i due erano parenti o vicini. Il tentativo di rico-
struire i nuclei famigliari dei testatori è infatti reso difficile dalla mancanza
dei cognomi nel senso odierno del termine e dall’uso dei soprannomi, dal
ripetersi dello stesso nome di battesimo fra cugini e discendenti, anche se fra
i testimoni degli atti, i tutori di minorenni, gli esecutori testamentari si pos-
sono trovare persone con lo stesso ‘cognome’, membri del gruppo familiare
(diretti o acquisiti), persone di fiducia alle quali era usanza rivolgersi in caso
di necessità. In genere i capifamiglia sono indicati col nome di battesimo e il
patronimico ai quali talvolta si aggiunge il soprannome e, per gli uomini – ma
non sempre – il “cognome”, formatosi sul luogo di provenienza, sul mestiere
o anche sul soprannome, mentre per le donne è usato il nome proprio seguito
da “figlia di” o “moglie/vedova di”. Del resto il cognome dello stesso notaio
potrebbe derivare da Pusano, un borgo fortificato oggi diroccato a valle di
Olevano, che faceva parte dei possedimenti dei Colonna.
13
Forse la chiesa di Palestrina dove era venerato s. Agapito martire. I lasciti destinati
alle riparazioni degli edifici sacri o di opere pubbliche erano abbastanza frequenti e facevano
parte dei legati pro anima.
14
Per lo più sono uomini, raramente donne. Le donne scelgono il figlio o il marito o il
fratello, a volte il genero (Maria vedova di Spirito) o un religioso (Santa vedova di Angelino).
Anche gli uomini sembrano privilegiare il figlio o il fratello, raramente la moglie o un altro
congiunto: il cognato, il nipote, la madre, il genero (Salvato di Antonio Viatricis); Giuliano
Fasoli si affida ad un frate, Andrea. Qualcuno nomina esecutore anche lo stesso notaio Pusani
(Cecco Bello) o un altro notaio genazzanese, Lorenzo fu Nicola Amati (Antonio fu Nicola
magistri Angeli: Piacentini – Scatizzi, Le pergamene, pp. 223-224, nr. 12).
15
Cioè trenta messe da celebrare in giorni consecutivi: Isa Lori Sanfilippo, Morire a
Roma, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), Atti del Convegno, Roma,
2-5 marzo 1992, a cura di Miriam Chiabò, Giusi D’Alessandro, Paola Piacentini, Concetta
Ranieri, Roma 1992, p. 609; Maria Luisa Lombardo – Mirella Morelli, Donne e testamenti a
Roma nel Quattrocento, in Donne a Roma tra Medioevo e Età moderna («Archivi e cultura»,
25-26 (1992-1993), p. 89).
16
L’attuale chiesa di S. Paolo, ingrandita e modificata nel Cinque e nel Settecento, non
presenta portici e forse non ne aveva neanche in antico; potrebbe trattarsi di una struttura
vicina alla chiesa. Aleksandar Kamerer, La Chiesa Collegiale di S. Paolo Apostolo in Genazzano
(Roma), Genazzano 2015.
17
Statuti della provincia, paragrafo XXI; il morente può disporre liberamente dei suoi
beni che però passano alla curia se non le vengono assegnati i dieci soldi previsti.
(pro deo et anima), per le singole chiese, per celebrare messe di suffragio, pro
unctione et accomendatione, pro tummatico, 18 pro untione, vigiliis et viatico, per
i sacerdoti e i chierici che celebravano la messa durante la permanenza della
salma in chiesa (dum corpus suum manet super terram) o che provvedevano alla
sepoltura, per opere pie o enti religiosi, 19 per l’ottavario e l’anniversario della
morte dopo un anno, per l’acquisto di cera – la cui quantità, regolata a Roma
dalle leggi suntuarie, era variabile e non sempre precisata (quantum sufficit) –
da utilizzare per doppieri, torce e candele che dovevano essere suddivisi fra le
chiese scelte dal testatore o da distribuire ut moris est ad sepeliendum ai preti,
ai chierici e alle confraternite pro funere/ quod faciant sibi honorem; sono poi
elencati i lasciti per i parenti più o meno prossimi, in alcuni casi per i vicini e
gli amici. Il documento si conclude con l’actum con i nomi dei testimoni, per
lo più sette, in genere laici. Troviamo un’eccezione nel testamento di Cecco
Bello: nella prima stesura dettata in casa sua i testimoni sono laici, mentre in
un codicillo dettato sette anni dopo nel convento del Buon Consiglio solo due
sono laici mentre gli altri cinque sono frati, presumibilmente agostiniani del
convento.
In un caso abbiamo trovato l’indicazione di una donazione mortis causa:
Nunzia di Angelo Gualderi da Sant’Anatolia ma abitante a Genazzano, dopo
un lascito alla figlia, probabilmente a integrazione di una dote già ricevu-
ta (cinque soldi iure institutionis), destina al nipote Stefano figlio del figlio
Tomasso defunto, nominato erede universale, una vigna con torculare «pro
donatione causa mortis»; l’atto è dettato in casa di Tomasso nella parrocchia
di S. Paolo e non è nominato il marito di Nunzia. Talvolta è anche indicato un
lascito pro malis ablatis – non è detto quali –, per esempio nel testamento di
Giovanni di Antonio Santolini da Nocera, fattore e procuratore del convento
di S. Maria del Buon Consiglio (la piccola somma di un fiorino) 20 o in quello
di Vanna vedova di Caruccio.
18
L’espressione è solo nei testamenti di Cecca moglie di Cola Mattei che vuole essere se-
polta in S. Paolo e lascia dodici soldi pro tummatico (sepoltura?); di Nardo di Matteo Arcangeli
che dispone «quod fiat pulcram cappellam supra tummatico in ecclesia sancti Iohannis».
19
Rientrano nella categoria dei legati pro anima anche i lasciti per le cappelle (v. oltre).
Spesso il lascito è legato alla richiesta di messe, ma in caso di inadempienza del destinatario
la donazione veniva revocata o trasferita ad altri: Mattiuccia fu Mario Frazzoli lascia dieci lire
alla confraternita della Beata Vergine Maria affinchè «faciant sibi honorem et si non faciunt
quod non reliquit dictas X libras»; Giuliano di Iacopo di Buzio detto Inciollo lascia ai frati del
Buon Consiglio parte di tre vigne in cambio di due messe annuali e in caso di inadempienza
le vigne vanno alle altre chiese di Genazzano.
20
Piacentini – Scatizzi, Le pergamene, pp. 211-213, 229-230, n. 22. La moglie Petruccia
sostenne la ricostruzione della chiesa del Buon Consiglio in cui sarebbe apparsa l’immagine
miracolosa proveniente da Scutari; anche nota 10 supra.
21
Sulla vita delle donne e la solidarietà fra loro, per esempio, Lombardo – Morelli, Don-
ne e testamenti, pp. 111 e segg.
22
Per es. Giuliano detto Inciollo nomina eredi universali un figlio e la moglie, ma desti-
na solo la legittima all’altro figlio disobbediente e dissipatore «et propter ... penas quas pro
delictis per eum commissis».
cenzio di Giuliano Sfrizze (forse un parente al quale nel 1467 con donazione
inter vivos aveva assegnato tutti i suoi beni mobili ed immobili riservandosene
l’usufrutto, ff. 17r-18r), 23 e un secondo nel 1492 in cui gli eredi sono i figli di
Nocenzio, nel frattempo defunto come dimostra l’actum di un elenco di beni
dotali del 1486 stilato «in domo heredibus Nocentii Sfrizze videlicet in domo
Palotie Rascini» (f. 195v).
Cecco Bello detta il suo testamento nel 1468 indicando i lasciti usuali pro
anima e due decenas di cera per cinque doppieri, due dei quali dedicati alla
chiesa di S. Giovanni de Urbe e all’ospedale del Salvatore de Urbe; alla figlia
lascia terreni, soldi ai nipoti. Cecco Bello è ancora vivo nel 1475 e nel frattem-
po ha aggiunto o revocato alcune sue decisioni: con un primo codicillo – mo-
dificato l’anno successivo – lascia alla cappella della Vergine Maria del Buon
Consiglio un calice del valore di dieci ducati e la sua cirbinaria situata sotto
la casa di Cecca di Petruccio 24 a patto che i frati o i procuratori addetti alla
cappella non la vendano, altrimenti decadono (decadant) e stabilisce che suo
nipote Pietro di Giovanni di Cecco Bello e i suoi figli elargiscano annualmen-
te venti soldi; lascia alla sua cappella dedicata ai SS. Pietro e Paolo in ecclesia
supradicta un orto e la quarta parte di un altro orto; alla figlia altri terreni e
oggetti; altri lasciti in denaro pro opera sono destinati a S. Paolo, S. Maria in
Campo e alla chiesa di S. Spirito de Urbe.
In genere i testamenti sono abbastanza dettagliati ma se ne possono anche
trovare di estremamente succinti, con poche scarne indicazioni e una serie di
eccetera, con riferimento allo ius institutionis. Si possono anche trovare testa-
menti “laici” in cui non sono registrati lasciti pro anima e non è fatta richiesta
di messe di suffragio a meno che non siano sottintesi nei numerosi “eccetera”
usati dal notaio. Brevissimi sono per esempio i testamenti di Benedetto di
Bartolomeo Pafutii e di Cristoforo detto Facchino; ambedue accennano rapi-
damente ai lasciti pro anima, ma il primo si preoccupa soprattutto della moglie
Perna incinta dichiarando che se il nascituro sarà una femmina dovrà avere di
che sposarsi «secundum possibilitate domus», il secondo lascia cinque lire alla
figlia (probabilmente già dotata) e tutto il resto – non specificato – ai cinque
figli maschi. Andrea di Pietro Alteri indica solo un lascito pro funeralia per
poi assegnare alla moglie la casa e una vigna come restituzione della dote e
designare erede la figlia ma senza nominare gli esecutori. Damiana moglie di
Iacopo Vicentie indica numerosi lasciti pro anima e vuole essere sepolta in S.
23
Alla morte di Palozia era previsto che Nocenzio facesse una donazione di cinquanta
lire di denari del Senato pro deo et anima di Palozia, somma che Nocenzio paga immediata-
mente «in eadem hora et coram dictis testibus» e di cui non c’è traccia nel testamento.
24
La Cecca di Petruccio del codicillo potrebbe essere la Cecca uxor Petrutii alia dicto Cec-
ca Cecco Bello che detta le sue concise volontà nel 1482 chiedendo di essere tumulata (iacere)
nella chiesa di S. Paolo. La cirbinaria e la terrata erano una grotta o cantina, comunque un
locale rustico non pavimentato.
Maria del Buon Consiglio ma non chiede – e non si può dire se è una omissio-
ne del notaio – che siano celebrati gli anniversari. Santa vedova di Angelino si
limita a chiedere ad ognuno dei suoi figli di spendere 10 carlini per comprare
cinque «duppleria et candelas obsequia untione et vatico ut moris est» (ma
non sono nominate le chiese o le confraternite e non sono registrati i cinque
soldi per il vescovo di Palestrina), per poi indicare i lasciti, di panni e di ogget-
ti di casa, ai parenti; infine «de residuum dictis relictis reliquit pro campana
Sancti Nicolai pro anima sua». 25
Luogo di sepoltura
25
Anche Antonella di Bastiano aveva lasciato venti fiorini alla chiesa di S. Nicola pro
campanario e Giovanni da Nocera, pur volendo essere sepolto in S. Nicola, aveva destinato
sessanta fiorini per una campana per S. Maria del Buon Consiglio.
26
In genere per le sepolture erano utilizzate le cripte delle chiese (sotto la navata centrale
della chiesa del Buon Consiglio di Genazzano sono stati rinvenuti alcuni sepolcri e ossari).
A Genazzano sembra comunque che esistessero anche cimiteri: un atto di vendita del 1499 è
stipulato «in cimiterio Sancti Nicolai» (c. 350r), forse annesso alla chiesa di S. Nicola prima
che la zona venisse modificata dagli interventi di Filippo Colonna nel Seicento. Un cimi-
tero era presso la chiesa di S. Croce (mai nominata nei nostri testamenti), posta fuori delle
mura quattrocentesche presso la porta meridionale del Borgo: Orsetta Baroncelli – Fran-
cesca Conticello, La chiesa di S. Croce a Genazzano: architettura, arte e storia, in «Latium»,
25 (2008), pp. 57-74: p. 60; Francesca Conticello, La chiesa di S. Croce a Genazzano: analisi
storico-architettonica, in Martino V. Genazzano, p. 152.
27
Purtroppo non è possibile identificare nelle chiese di oggi le cappelle indicate nei te-
stamenti perché le successive ristrutturazioni hanno alterato la situazione originaria; Lori
Sanfilippo, Morire a Roma, pp. 606 nota 14, 608, 620: il desiderio di una cappella costituiva
l’«affermazione della propria casata e ... aspirazione ad avere un luogo “privato” ... dove la ce-
lebrazione ... dei riti di suffragio sembra offrire maggiori probabilità di salvezza per la propria
anima»; anche Lombardo – Morelli, Donne e testamenti, p. 80.
28
Benedetta vedova di Giuliano Manentis sembra accennare – unico esempio del nostro
dossier – ad un pellegrinaggio: «dixit habere votum ad Ecclesia sancte Marie de Loreto [forse
a Roma] et similiter ad Ecclesiam sancti Iohannis Laterani sine calciamentis».
29
La pictura del testamento potrebbe essere il quadro della Madonna con Bambino attri-
buito ad Antoniazzo Romano e bottega oggi a S. Patrizio a Roma: Adriana Capriotti in An-
toniazzo Romano Pictor Urbis 1435/1440-1508, a cura di Anna Cavallaro – Stefano Petrocchi,
Cinisello Balsamo 2013, pp. 106-107.
30
Forse la cappella era nella chiesa del Buon Consiglio: Cesare Panepuccia, Il santuario
della Madonna del Buon Consiglio in Genazzano. Storia, architettura e opere artistiche, in La Ma-
donna del Buon Consiglio di Genazzano Portata da mano angelica, a cura di Franca Fedeli Ber-
nardini, Roma s. d., pagine totali articolo, p. 37 (ma l’autore non cita la fonte della notizia).
31
Gli eredi sono Giovanni Battista e Veradino figli di Francesco di Stefano Frazzoli che
ricevono da Iacobella parte di una casa e una cirbinaria già di proprietà di sua figlia Caterina;
Lasciti
devono offrire il calice se nel giro di tre anni entrano in possesso dei due immobili – altrimenti
non sono tenuti alla donazione – in cambio dei quali «debeant nutrire et gubernare dictam
Iacobellam toto tempore vite sue»; in caso contrario il lascito passa al dominus Francesco di
Bartolomeo Sclavi che deve a sua volta occuparsi di Iacobella.
32
Piacentini – Scatizzi, Le pergamene, p. 228, nr. 20.
33
Il testamento di Gemma è del 1475 e quello di Bartolomea del 1497; il figlio ed erede di
Gemma è Giuliano di Pietro Fasoli, un Giuliano Fasoli (manca il patronimico) è erede univer-
sale di Bartolomea; un Giuliano Fasoli (lo stesso?) detta il testamento nel 1498.
34
Secondo Ivana Ait (I costi della morte: uno specchio della società cittadina bassomedie-
vale, in La morte e i suoi riti in Italia tra medioevo e prima età moderna, a cura di Francesco
Salvestrini – Gian Maria Varanini – Anna Zangarini, Firenze 2007, p. 284) i lasciti per gli
ospedali possono dimostrare una preoccupazione per le frequenti epidemie. L’ospedale del S.
Salvatore ad Sancta Sanctorum era uno dei principali ospedali romani. S. Maria delle Grazie è
probabilmente l’ospedale al Foro Romano: Anna Esposito, Le confraternite e gli ospedali di S.
Maria in Portico, S. Maria delle Grazie e S. Maria della Consolazione a Roma (sec. XV-XVI), in
«Ricerche di storia sociale e religiosa», 17-18 (1981), pp. 145-156.
35
Francesco Mambrino è figlio di primo letto di Caterina sposata in prime nozze con
Angelo di Cristoforo Benedicti detto Mostarda e in seconde nozze con Giuliano di Martino:
Piacentini, La popolazione, pp. 60, 66 nota 44.
36
È possibile che Cecca non avesse fiducia nel marito poiché i suoi legati sono per la
sorella e per il padre Filippone al quale restituisce una vigna avuta in dote se le figlie eredi
muoiono minorenni. Un Francesco Mataluni (manca il patronimico: forse un nipote viste le
date; seconde nozze?) è marito di Maddalena che detta il testamento nel 1497, nominando
eredi due figlie; il 7 dicembre 1499 un Francesco Mataluni è anche esecutore testamentario di
Pietro di Giovanni Mataluni.
37
Alcuni esempi: Nicola detto Cola Feroci lascia l’usufrutto alla moglie Stefania finché
vedova; se vuole risposarsi riabbia la dote più 20 lire «Et quod fiet supradicta Stefania domina
domina cum Antonio patre suo et fratribus dicte Stefanie». Nicola Perella dichiara che nes-
suno dei suoi figli può “contrariare” la madre Tomassa e se vuole risposarsi oltre alla dote le
assegna quindici lire. Bartolomeo di Cola Cicchini dichiara che se la moglie non può convivere
col figlio può avere due terrate. Nardo Mattie lascia alla moglie mezza casa che tornerà agli
eredi alla sua morte. Nicola di Pietro Iannotti lascia l’usufrutto alla moglie Trifolina e nomina
erede il figlio Altobello che deve ubbidire alla madre altrimenti «dicta Trifolina possit ipsum
expellere de omnibus bonis suis dum vixerit».
Benedetta aveva portato una ricca dote in terreni e beni mobili (f. 5rv) ed è poi
il figlio Antonio che restituisce i suoi beni alla madre (f. 118v).
In conclusione, i testamenti possono essere considerati una «fonte della
storia religiosa e sociale», 38 e per completare il quadro si possono confrontare
i testamenti di due coniugi (quattro casi) che dimostrano come non sempre
marito e moglie siano concordi nel distribuire i loro lasciti. Il discretus vir Giu-
liano di Pietro Iannotti e la moglie Maria, ambedue in buona salute e senza
figli, fanno testamento nel 1494, stesso giorno e stessa ora, nel loro podere (te-
nimento) nominandosi a vicenda eredi universali; ambedue nominano esecu-
tori Antonio di Bartolomeo, fratello di Maria, e il dominus Fabrizio; ambedue
destinano un lascito per la famula Giuliana: 39 Giuliano lascia cento fiorini che
comprendono – ma non è chiaro – una casa, una vigna con il canneto, una
caldaia di una salma; Maria le lascia un filo di coralli. Giuliano è proprietario
terriero e assegna i suoi beni a diverse persone fra cui un parente prossimo,
il nipote Altobello; numerosi lasciti sono destinati a enti religiosi. Maria la-
scia venti soldi per i vicini ma i suoi lasciti per il fratello Antonio e i nipoti
sono essenzialmente di beni mobili, biancheria, oggetti per la casa; anche lei
dispone alcuni lasciti per istituzioni religiose e preferisce dotare l’ospedale di
Genazzano di un letto con le lenzuola. 40
Anche Bartolomeo Sclavi, infirmus, 41 e la moglie Rita Bartholomei Sclavi
testano insieme (eadem hora): fanno gli stessi lasciti pro anima e indicano gli
stessi esecutori, i figli dominus Francesco e Menico. Bartolomeo destina alle
figlie femmine piccole somme, Rita dei panni; hanno sei figli maschi Filippo,
Antonio, Bastiano, Francesco, Menico, Cristofano: il marito assegna ai primi
quattro terreni e bestiame vaccino, nomina Rita usufruttuaria ed eredi i figli;
anche Rita nomina eredi i primi quattro figli lasciando a Menico e Cristofano
38
Nolens intestatus decedere. Il testamento come fonte della storia religiosa e sociale. Atti
dell’in-contro di studio (Perugia, 3 maggio 1983), Perugia 1985.
39
Questa famula Giuliana è detta figlia di Menico Cofani, ricordato nel testamento dei
due coniugi, che nel 1496 la promette a Silvestro di Antonio di Pietro Lippi e alla quale Giu-
liano Iannotti assegna una dote di duecento lire (ff. 286r-286v). Giuliana potrebbe essere una
figlia illegittima dello Iannotti: così si spiegherebbero il nome e i ricchi doni.
40
Il testamento di Maria è del 1494, quindi deve trattarsi dell’ospedale nuovo, fondato
per volere di Antonio Colonna (testamento 1470) presso la chiesa di S. Croce e non dell’ospe-
dale vecchio, documentato nelle convenzioni del 1370: Scatizzi, I Colonna signori di Genazza-
no, p. 18; Baroncello – Conticelli, La chiesa di S. Croce, p. 69 e segg.
41
La famiglia Sclavi sembra molto attiva nella comunità genazzanese, a cominciare da
un Bartolomeo de Sclavis conestabile nel 1277. Il nostro Bartolomeo, più volte testimone,
confinante, esecutore di Iacobella di Menico Floderici è morto prima del febbraio 1479 (f.
104v: eredi Bartholomey Sclavi); il più presente dei figli è il dominus Francesco: testimone,
destinatario di donazioni e lasciti (per es. Iacobella Floderici), esecutore (vendita di una terrata
per Pasquale Azelami, f. 231r); come esecutore del padre con il consenso del fratello Bastiano
vende una cesa per la sua anima (f. 185r). Secondo la leggenda i de Sclavis e i Giorgi avevano
accompagnato l’immagine della Madonna dall’Albania a Genazzano.
solo cinque lire di legittima. Non possiamo sapere perché, ma due dei figli
sembrano discriminati rispetto agli altri.
Salvato di Antonio Viatricis e la moglie Perna testano a pochi giorni di
distanza: Salvato detta il testamento nella sua casa sulla piazza, Perna davanti
alla casa del marito; Salvato lascia dieci ducati alla figlia (che evidentemente
aveva già avuto la sua dote), non si cura della moglie e nomina esecutori il fi-
glio (che è anche erede) e il genero. Perna nomina Salvato esecutore e usufrut-
tuario e i figli Antonio e Contadina eredi, con piccoli lasciti in panni e terreni
alle nipoti figlie di Contadina e otto lire pro anima matris sue.
Nicola Rascini e la moglie Bartolomea testano a tre anni di distanza; am-
bedue nominano il figlio Bartolomeo erede universale ed esecutore; analoghi
sono i lasciti per l’anima e per gli anniversari; Nicola lascia un ducato per
messe gregoriane per l’anima sua e dei suoi morti, cinque carlini per dipingere
un’immagine della Madonna di Loreto in S. Maria in Campo, incarica Barto-
lomeo di comprare un calice per S. Paolo, riserva una giovenca per il pranzo
dell’ottavario e assegna una vitella (asseccaticcia) di due anni a Giuliano Pon-
celli, fratello di Bartolomea, esecutore e tutore della nipote Veradina, figlia del
figlio Pietro; Nicola si preoccupa anche della sua dote assegnandole duecen-
tocinquanta lire comprensive di una casa, un oliveto, un orto, una vigna, un
terreno e una vacca, e chiede a Bartolomeo di fornirle cibo e vesti finché non
si sposa; Bartolomea le lascia quindici lire di legittima che passeranno allo zio
se Veradina dovesse morire senza figli legittimi.