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CENNO STORICO SU GRAZZANO BADOGLIO

ALESSANDRO ALLEMANO

IL TOPONIMO
La tipica desinenza in “–ano” riporta al prediale romano (fundus) Gratianus, (praedium) Gratianum, derivante a
sua volta dal personale Gratius. Così concordano le opinioni degli studiosi,1 lasciando peraltro aperta la
possibilità che il toponimo derivi direttamente dal personale Gratianus, attestato in area lombarda. Analoghe
derivazioni accomunano Grazzano Badoglio con altre località, quali Grazzano Visconti (frazione di
Vigolzone, PC), Grazzano (frazione di Ossago, MI), un altro Grazzano frazione di Brusasco, TO),
Grazzanello (frazione di Mairago, MI), Gressan (Aosta), Grazzanise (Caserta), probabilmente Grassano
(Matera), il borgo Grazzano presso Udine e quello pure detto Grazzano, un tempo compreso nella cerchia
muraria di Carrara. Anche il nome della città francese di Grenoble avrebbe analogie con il toponimo
monferrino, derivando dall’antica Gratianopolis, città dedicata all’imperatore Graziano.

LE ORIGINI ROMANE
Sulla figura del leggendario Gratius che avrebbe dato il nome al paese nulla, come è ovvio, si può sapere.
Possiamo soltanto ipotizzare, senza allontanarci troppo dal vero, che egli fosse un legionario romano, parte
di quelle compagini militari che penetrarono per prime in queste terre monferrine al seguito del console
Marco Fulvio Flacco, tra il 125 e il 123 a.C. Dopo la sconfitta delle locali popolazioni celtiche a opera di
Caio Mario (battaglia dei Campi Raudii, anno 101), nel 49 a.C. venne promulgata la lex Roscia che estendeva i
diritti della cittadinanza romana alle popolazioni transpadane appena sottomesse. Da questo momento in
poi le popolazioni locali, grazie ai mezzi finanziari messi a disposizione dall’impero romano, costruirono
villae, pagi, vici, borghi, collegati tra loro da efficienti vie di comunicazione. Il legionario Gratius fu
probabilmente tra quei legionari che l’imperatore, prima di giubilarli, aveva ricompensato concedendo loro
una gratifica nelle terre appena romanizzate: la proprietà di un appezzamento di terra, un fundus, che
appunto avrebbe preso da lui il nome di Gratianus, il podere di Gratius, origine del centro demico di
Grazzano.2
A conferma delle radici romane del luogo e della sua colonizzazione in epoca imperiale vi è, conservata
nella vecchia casa parrocchiale, una bella stele funeraria che, secondo una tradizione non avvalorata, sarebbe
stata ritrovata in un terreno presso la cascina Orto di Gueiso, nella vallata tra Grazzano e Santa Maria.
La lapide è stata studiata fin dal XVI secolo e pubblicata in varie lezioni.3 Il Sangiorgio la dice
proveniente dalla tomba di Aleramo, mentre le fonti successive la dicono infissa «nel muro esterno di
facciata della chiesa parrocchiale a destra di chi entra».4 Datata al II secolo d.C., riporta le disposizioni
testamentarie del profumiere (seplasiarius) Titus Vettius Hermes, liberto di Tito, il quale legava il reddito di
certi suoi horti posseduti in territorio dell’antica Grazzano allo spargimento di petali di rosa – ogni anno e
per sempre – sulla sua tomba nel giorno del compleanno. L’epigrafe è spesso citata come esempio di
significativa clausola di diritto privato romano.

LE INVASIONI BARBARICHE

1 D. OLIVIERI, Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia, Paideia, 1965, p. 181; id., Dizionario di toponomastica
lombarda, Milano, Lampi di stampa, 2001, p. 280; E. PAPA, ad vocem Grazzano Badoglio in Dizionario di
toponomastica, Torino, UTET, 1985, p. 316; O. MUSSO, La sfinge di Mesomede alla luce di un mosaico del Monferrato,
in «Zeitschrift für Papirologie und Epigraphik», Band 120 (1998), pp. 35-38.
2 Cfr. A. DI RICALDONE, Monferrato tra Po e Tanaro, Asti-Cavallermaggiore, Gribaudo-Se.Di.Co., 1998, vol. I, p.
667 e ss.
3 Il Mommsen la inserì in CIL, V, 7454.
4 Le due descrizioni non sarebbero in contraddizione: fino al XVI secolo la tomba di Aleramo era dislocata
all’esterno della chiesa, nel peristylium che si ritiene antistante l’edificio. Solo nel 1581 le ossa vennero
ricomposte in una cappella della restaurata chiesa abbaziale.
Con la decadenza dell’impero romano, anche la zona monferrina fu teatro di scorribande da parte di
popolazioni barbariche scese da settentrione e da oriente: Goti, Visigoti, Longobardi, Franchi, più tardi
Ungari e infine Saraceni devastarono le campagne colonizzate nel periodo imperiale, costringendo i loro
abitanti ad abbandonare le case di fondovalle per cercare rifugio in località più elevate e sicure. Nasce così la
tipica conformazione del centro storico di Grazzano, raccolto nel ricetto attorno al suo castrum, poi abbazia,
con una serie di porte che si potevano chiudere in caso di pericolo.
Rinvenimenti di tombe barbariche in un campo dell’avvocato Minoglio in località Santo Stefano, tra i
territori di Santa Maria, Grazzano e Grana,5 testimoniano del passaggio in zona di queste popolazioni
guerriere, meno interessate alla salvaguardia delle coltivazioni agricole che al mestiere delle armi.
Dei cosiddetti “secoli bui” resta traccia anche nella toponomastica grazzanese, con località quali Braida,
Godio, Quarino, Guaito, Gueiso, Guarnero, Famergato. Due insediamenti ormai scomparsi avevano chiara
denominazione germanica: Assalengo presso la Cascina San Pietro e Guango presso la chiesa di San
Martino.

ALERAMO FONDA L’ABBAZIA


La fortuna e la fama della Grazzano medievale iniziano con la donazione fatta dal marchese Aleramo
(anno 961) di cospicui beni all’abbazia da lui stesso fondata pochi anni prima sulla sommità della collina ove
presumibilmente si trovava l’antico castrum.
Molto si è discusso sulla figura e le gesta di Aleramo, in parte appartenenti alla leggenda e in parte alla
storia.6 Sta di fatto che questo nobile, figlio di quel marchese Guglielmo, franco di nascita ma di ascendenze
sassoni, sceso in Italia verso l’888 in aiuto di Guido da Spoleto in lotta contro Berengario I, già nel 933
riceveva un donativo dai re Ugo e Lotario, poi accresciuto nel 935. Creato marchese per intercessione della
sua futura sposa Gerberga, figlia di Berengario II, nell’agosto 961, con la moglie e i due figli Oddone e
Anselmo, donava ufficialmente al monastero che – recita l’atto – «ante hos dies aedificavimus in propriis
rebus nostris in loco et fundo Grazani infra castrum ipsius loci», tre curtes e dieci massaricia sparsi per buona
parte del Monferrato casalese. Il monastero, affidato alle cure dei Benedettini e intitolato al Santo Salvatore,
alla Madonna, a san Pietro e a santa Cristina, era sottratto alla giurisdizione del vescovo di Vercelli e
sottoposto a quella della chiesa torinese: l’abate veniva eletto dai monaci e consacrato dal vescovo di Torino
e ogni anno, nel giorno di San Giovanni patrono di quella città, dovevano essere offerte due candele.7
A parte le finalità spirituali dell’atto (suffragio e memoria del defunto figlio Guglielmo), Aleramo fondando
l’abbazia di Grazzano cercava di espandere la sua influenza politica verso occidente oltre che verso il sud del
Piemonte. Inoltre veniva a formarsi un avamposto contro le temute scorrerie dei pirati Saraceni, che in quel
X secolo si sarebbero spinti fino a Ottiglio. Indubbia era anche la funzione socio-economica del nuovo
cenobio aleramico: i monaci di san Benedetto, come è noto, furono formidabili fautori della rinascita
dell’agricoltura dopo la parentesi basso-medievale. Curarono il disboscamento delle colline ormai ridotte a
fitte foreste, reintrodussero la coltura della vite e del frumento, la canalizzazione delle acque, procurando in
ogni modo di promuovere razionalmente quell’agricoltura sconvolta dalle invasioni barbariche.
Con atto rogato 23 marzo 967, Aleramo veniva investito dall’imperatore Ottone I di un vasto territorio di
16 curtes situate tra i fiumi Tanaro e Orba e fino al Mar Ligure e decedeva poco dopo (comunque prima del
991) e secondo la tradizione veniva sepolto nell’abbazia di Grazzano, probabilmente sotto al porticato
antistante l’antica chiesa.

I FASTI DELL’ABBAZIA DI GRAZZANO

5 Cfr. «Notizie dagli scavi», Accademia dei Lincei, 1899 e A. ALLEMANO, Come da memorie antiche, Santa Maria
di Moncalvo, Circolo Bersano, 1998, pp. 1-3.
6 Cfr., tra le opere più serie, R. MERLONE, Gli Aleramici, Torino, Deputazione subalpina di Storia patria, 1995,
e, per notizie più agili e divulgative, A. ALLEMANO, Aleramo tra storia e leggenda, 2007, due articoli pubblicati sul
sito <www.monferrini.com> alla sezione “Pagine monferrine”.
7 Le edizioni degli atti di donazione sono quelle ormai classiche di Benvenuto Sangiorgio, riprese per gran
parte anche dal Durando nel suo Cartario dei monasteri di Grazzano, Vezzolano, Crea e Pontestura, Pinerolo, 1908.
Nell’agosto 1017 il monastero venne arricchito da una donazione del marchese Anselmo, nipote del
fondatore, mentre nell’ottobre 1027 il conte Guglielmo con la moglie Aychisa gli cedeva un mulino ad acqua
e altri beni e redditi. In quest’epoca l’abbazia risultava intitolata ai santi Salvatore, Vittore e Corona, questi
ultimi destinati a diventare i patroni di Grazzano e il cui culto pare provenire dall’Oriente, portato in
Monferrato forse dagli Aleramici.
Il marchese Guglielmo e la moglie Giulita (4 maggio 1156) concedevano ai monaci l’intero affitto delle
cantine del castello di Lu e la decima parte dei proventi del porto fluviale di Felizzano, da distribuirsi in
favore dei poveri e degli infermi. Inoltre si dava facoltà all’abate di amministrare la giustizia, almeno nei casi
di delitti non troppo gravi.
Il potere dell’abate di Grazzano incominciò a crescere, fino ad assumere i caratteri di vera e propria
signoria feudale: l’abate pro tempore difatti aveva titolo di “signore di Grazzano” ed era dotato di grande
prestigio, tanto che nel 1245 Papa Innocenzo IV conferiva all’abate il compito di ridurre all’obbedienza
l’abate di San Genuario eletto vescovo di Torino. Frequenti erano pure i contrasti politici con altri signori
delle zone circostanti: nello stesso 1245 l’abate Guglielmo entrava in questione con il rettore della chiesa di
San Giulio di Altavilla e con i signori Chiavandani e della Porta, tanto da dover ricorrere al giudizio di
Corrado arciprete di Grana. Al monastero grazzanese non mancò però mai il favore dei marchesi di
Monferrato e dei loro protettori: nel 1246 il legato imperiale Enzo ne confermò tutti i privilegi. La
situazione non mutò quando agli Aleramici succedettero i Paleologi: donazioni e privilegi furono accordati
da Giovanni II (1351), Bonifacio (1488) e Anna d’Alençon (1537).
Nel 1408 i Benedettini di Grazzano aderivano alla riforma cassinese, detta anche “di Santa Giustina”, con
cui l’Ordine benedettino cercava di tornare a un rigore spirituale più consono alla regola del fondatore, in
particolare dimostrandosi contrari all’istituto dell’abate commendatario: così facendo venivano a godere dei
privilegi concessi dal papa Eugenio IV, soprattutto quello dell’indipendenza da ogni giurisdizione vescovile
e la soggezione immediata alla Santa Sede.
All’inizio del XVI secolo però i Benedettini, «forse pel disordine che, come in altri luoghi, pur dominava
fra i Monaci di Grazzano»,8 lasciarono l’abbazia, che venne affidata a un abate commendatario perpetuo.
Costui, nominato dai Gonzaga prima e dai Savoia poi, era esponente di famiglie particolarmente fedeli verso
la Casa regnante, non risiedeva in paese, dove era rappresentato per la parte spirituale da un suo vicario
abbaziale e per la giurisdizione civile da un vicarius o giusdicente, e incassava volentieri le ricche prebende
abbaziali.

LA COMUNITÀ CIVILE
Non vi sono notizie certe sulla nascita della comunità di Grazzano, certamente influenzata dalla presenza
dell’abbazia che fu il primo nucleo di potere civile.
Nel 1251 un Vuilielmus de Grazano compare come testimone di un atto di donazione al monastero di San
Bartolomeo di Azzano, ma è l’abate che mantiene l’assoluta preminenza: nel 1305 l’abate Bartolomeo
intervenne al parlamento dei feudatari monferrini convocato da Manfredo di Saluzzo e quattro anni più
tardi ebbe un ruolo fondamentale nei negoziati tra il marchese di Saluzzo e Teodoro di Monferrato.
Nel 1321 certi Olinus e Vuaralda rappresentarono Grazzano a un parlamento convocato a Chivasso in cui
si stabilì il contributo che le comunità monferrine avrebbero dovuto fornire al marchese: l’impegno di
Grazzano sarebbe stato di un soldato. In un atto del 1419 veniva menzionata esplicitamente la comunità di
Grazzano come prevalentemente agricola, mentre un certo grazzanese Giovanni Francesco de Regibus
risultò essere podestà di Casale nell’anno 1533.
Grande lustro al paese fu dato da Raimondello Bava, notaio imperiale e cancelliere del marchese Teodoro;
stessa carica ricopriva a metà del secolo XIV Guglielmo Bava de Grazzano, detto Bogerius della Sala,
capostipite di una potente e prolifica famiglia, i Della Sala.
In seguito a una parziale devoluzione del potere civile da parte dell’abbazia si è formata la comunità civile
intesa in senso moderno, e ciò, presumibilmente, a partire dai primi anni del XVI secolo. Nei primi
convocati di Consiglio conservati presso l’Archivio storico comunale e risalenti al 1591 si leggono i nomi
delle famiglie più cospicue del paese, cui erano affidate le varie cariche: Pivano, Imarisio, de Verasi, Vasallo,

8 G. NICCOLINI, A zonzo per il Circondario di Casale Monferrato, Loescher, 1877, p. 280.


del Forno, de Plano, Redoglia, Dioglio, Badoglio (Badolo). L’autorità costituita era rappresentata da un
vicario e giusdicente, nominato dall’abate, nella persona di Giovanni Battista Parlasco, che aveva come suo
luogotenente (Hieronimo della Porta); due consoli, rappresentanti del potere popolare, erano eletti per sei
mesi tra i consiglieri scelti tra gli esponenti dei casati facoltosi. Il segretario e notaio era Giovanni Domenico
Maraviglia. Gli amministratori si obbligavano a bene esercitare il potere civico sotto pena di esecuzione
personale: emblematico è il caso del consigliere e chiavaro (esattore) Michele Badolo, la cui gestione risultò
deficitaria. Egli fu imprigionato nelle segrete dell’abbazia e tenutovi finché la sua famiglia non avesse
provveduto a sanare il debito. Solo dopo essergli stata pignorata una casa in contrada Borghetto l’uomo
poté riacquistare la libertà.
La comunità civile era anche tenuta a risarcire eventuali danni (da incendi specialmente, ma anche da
razzie) subiti dalle proprietà dell’abbazia. Così avveniva nel 1578 per un grave incendio alla cascina delle
Peschiere, per risarcire il quale la Comunità di Moncalvo nel cui territorio ricadeva il bene dovette sborsare
38 scudi;9 così avveniva pure nel 1623, allorché l’abate Scipione Ferragatta lamentava un grave danno per la
paglia andata in cenere durante un altro incendio, richiedendone l’indennizzo alla Comunità grazzanese.
Nel XVI secolo si distinse nell’esercizio e nell’insegnamento delle belle lettere il grazzanese Anselmo
Morra, «poeta non ordinario»,10 autore di epigrammi latini e versi in volgare raccolti in un volume degli
Accademici Illustrati di Casale, oltre che di diverse «poesie toscane sparsamente stampate».

UN TRAVAGLIATO SEICENTO
Per venire incontro alla necessità dell’accresciuta popolazione, nell’ultimo quarto del XVI secolo la chiesa
abbaziale venne profondamente rimaneggiata rispetto alle sue forme originali e notevolmente ampliata. Si
eliminò il porticato antistante, trasferendo all’interno della chiesa, nella seconda cappella di destra, le
presunte spoglie di Aleramo. I lavori vennero compiuti quand’era abate commendatario il nobile Stefano
Rolla dei consignori di Sala e la traslazione dei resti del marchese è ricordata da un’iscrizione datata alle idi di
ottobre del 1581.11 Sulla tomba venne posto un frammento di mosaico bicromo di argomento fantastico-
mitologico che la maggior parte degli studi studi attestano risalire all’XI-XII secolo, sebbene altri lo
retrodatino all’epoca imperiale romana.12
Agli inizi del secolo Grazzano conta 989 anime (bocche) suddivise in 205 famiglie (fuochi) e la sua milizia
locale è composta di 130 uomini.13 La prima metà del Seicento lo vede, come tutto il Monferrato, coinvolto
suo malgrado nelle lunghe e devastanti guerre per la successione al Ducato di Mantova. Catastrofica fu
l’epidemia di peste scoppiata negli anni 1628-1630: non essendo più sufficienti le sepolture comuni in
chiesa, com’era d’abitudine, i grazzanesi furono autorizzati a inumare i cadaveri direttamente nelle loro
proprietà. Secondo la leggenda, molte sepolture furono fatte presso la chiesa campestre di San Martino. «Si
dice che intorno al cocuzzolo tutto il terreno era occupato dal cimitero, ma forse troppo sbrigliata è stata la
fantasia popolare».14
Gravosissimo fu anche il tributo che Grazzano, al pari delle altre comunità, dovette pagare in termini di
alloggiamenti, vettovaglie e taglie straordinarie verso gli eserciti che periodicamente ne attraversavano il
territorio. La pazienza della popolazione venne messa a così dura prova che nel 1625 si premiò con dieci
scudi un tale che aveva dato un’indicazione sbagliata al duca di Ferry, non facendolo passare con la sua
soldataglia per Grazzano, bensì per la valle delle Peschiere.

9 Cfr. A. ALLEMANO, Come da memorie antiche, cit., pp. 9-13.


10 G. MORANO, Catalogo degli illustri scrittori di Casale e di tutto il Ducato di Monferrato, Asti, 1771, p. 70.
11 «Montisferrati Aledramus Marchio primus hic iacet et merito nunc super astra viget. Cuius ossa Stephanus
Rolla Commendatarius perpetuus Abbatiae Sanctorum Salvatoris, Victoris et Coronae, alias Coronatae in hoc
Divae Virginis sacellum e perystilio ecclesiae veteris destructo trasportavit. MDLXXXXI Idibus Octobris».
12 Cfr. O. MUSSO, La sfinge di Mesomede .. , cit.
13 E. BARONINO, Descrizione di tutte le città, terre e castelli del Monferrato, pubblicato da G. Giorcelli, Alessandria,
1904.
14 I. GRIGNOLIO – L. ANGELINO, I tesori delle chiese del Monferrato, v. 2, Casale Monferrato, Editrice Monferrato,
1994, pp. 56-57. Pare comunque che nella pestilenza siano morte più di cento persone e la maggior parte dei
“capi di casa”, cioè dei capifamiglia.
L’episodio più drammatico accadde però nella primavera 1642, quando il governatore di Pontestura, il
portoghese Gregorio Britto, che aveva imposto tributi anche all’abbazia di Grazzano tradizionalmente
immune, aveva inviato in paese un contingente di soldati per esigere una taglia straordinaria. Poiché i
grazzanesi, ridotti allo stremo da una guerra devastante, non volevano pagare e anzi uccisero alcuni militari,
rimandando indietro a mani vuote gli altri, il governatore «giurò vendetta e tosto che fu fatto governatore di
Trino, la pose in esecuzione».15 Con un contingente di 400 fanti e 300 cavalli si diresse alla volta di
Grazzano. Qui «gli abitanti che vegliavano, furono alle armi. Ma riconosciuta quindi la superiorità delle
forze nemiche e la loro debolezza, e quella del luogo, presero il più sicuro partito di rifuggirsi nei boschi.
Colà arrivato il Britto, lo trovò vuoto di abitanti; e deluso nella sua aspettativa, fece mettere il fuoco a
moltissime case».16 Poi l’orrido personaggio si rivolse verso Casorzo, dove, non trovando uomini validi in
paese, appiccò il fuoco al campanile della parrocchiale, nel quale avevano trovato rifugio vecchi, donne e
bambini, facendone orribile strage.17 Pare, tra l’altro, che la spedizione punitiva fosse stata guidata dalle
indicazioni di un tale Giovanni Battista Berruto, trinese ma sposato a Grazzano, che condusse le truppe in
Vallescura: di qui la fanteria si portò a Grazzano, la cavalleria proseguì per Casorzo.
Pochi anni dopo, nel luglio 1647, il paese scampò dalle incursioni del commissario generale spagnolo don
Diego Salavedia, le cui soldataglie si accontentarono di razziare tutto il bestiame trovato; un’altra
scorribanda con seguito di ruberie generalizzate e violazione dell’abbazia fu compiuta il 27 giugno 1653,
questa volta a opera di francesi e savoiardi.
Il secolo XVII, nonostante le guerre, le carestie e le condizioni economiche disastrose, fu l’epoca del
massimo impegno dei grazzanesi per difendere e migliorare i loro sacri templi, esempio significativo di come
i precetti della Controriforma si siano innestati sull’albero della fede tradizionale, magari commista di un po’
di superstizione ma tanto sentita nelle nostre popolazioni di un tempo.
La chiesa abbaziale, appena rinnovata, fu affidata al pennello di Guglielmo Caccia, che ne dipinse due
tele, mentre per quella della Confraternita dello Spirito Santo il pittore monferrino creò una stupenda
quanto misconosciuta Pentecoste. Ogni rione del paese, ogni gruppo di cascine aveva la propria cappella
campestre: San Martino, San Salvatore, San Rocco, San Sebastiano, San Pietro, San Bernardo, San Biagio,
San Giacomo, Sant’Anna e poi il santuario della Madonna dei Monti, risalente almeno al XII secolo e da
sempre causa di furiosi contrasti con gli ottigliesi.
Tra le famiglie emergenti in questi tempi travagliati si segnalano i Della Chiesa, che per matrimonio con
una Morra assunsero il doppio cognome Della Chiesa Morra, poi i Plano e i Plebano, entrambi casati
signorili della piccola feudalità monferrina, e ancora i Piccinino, i Capretto, i Badoglio e i Redoglia, senza
dimenticare i Lusona, tradizionalmente dediti alle arti sanitarie. La fortuna di costoro, tutte enfiteuti
dell’abbazia e proprietari in proprio, perdurerà – rafforzandosi – per tutto il secolo successivo.

NEL SETTECENTO
Se il Seicento si chiude con le rovinose scorrerie delle truppe imperiali del principe Eugenio di Carignano
che non risparmiano neppure Grazzano (il paese, tra l’altro, fu minacciato di incendio se gli amministratori
non fossero stati più che puntuali nel pagare il quartiere d’inverno degli alemanni acquartierati presso
Moncalvo), il nuovo secolo si apre con una “rivoluzione” politica. Ferdinando Carlo Gonzaga, sconfitto
nella guerra tra Austria e Francia, viene deposto per fellonia e il Monferrato è attribuito al duca di Savoia.
L’abate commendatario sarebbe stato d’ora in poi uomo di stretta osservanza sabauda. Se ne andava
Giovanni Antonio Gonzaga, cui va il merito di avere istituito nella chiesa abbaziale la cappella cosiddetta
“dei Gesuiti” adornata da una tela del fr. Andrea Pozzo e il demerito di essersi portato a Mantova l’archivio
dell’abbazia, e arrivava Giovanni Giacomo Millo d’Altare, poi cardinale di S.R.C., seguito da Enrichetto
Natta d’Alfiano anch’egli cardinale e da Carlo Derossi.
L’abbazia restava potentissima in zona, tanto che l’agente dell’abate, il medico Mario Plebano, poteva
permettersi di chiudere le porte del palazzo abbaziale e della chiesa in faccia al vescovo Pietro Secondo
Radicati giunto in visita pastorale nel 1725, quasi che l’abbazia aleramica fosse soggetta all’ordinario

15 V. DECONTI, Notizie storiche della città di Casale e del Monferrato, v. 8, Casale, Tip. Casuccio e Bagna, 1841, p. 15.
16 Ibid.
17 Cfr. A.M. MUSSO, Casorzo: la sua gente, la sua storia nei documenti e nei ricordi, 2001, pp. 39-56.
diocesano e non alla sola Sede Apostolica. Il presule, più uomo d’arme che di chiesa, ordinò di abbattere le
porte sprangate e di estrarre tanto grano servisse per le spese della visita.
In questo periodo l’abbazia dei Santi Vittore e Corona, retta ancora dal Gonzaga, possedeva in paese un
palazzo (la sede dell’abate e del suo vicario), due botteghe, una casa e un mulino a cavalli, due orti o giardini
e tre cascine: una di 108 moggia in contrada Sant’Anna, un’altra detta “la Cassinazza” e una terza detta “la
Domicella”. Possedeva un’altra cascina in territorio di Penango (la cosiddetta “Badia”, a Santa Maria di
Moncalvo) e molti beni sparsi in territorio di Ottiglio, Castellino e Serralunga. All’abate spettava la nomina
del curato, al quale corrispondeva un onorario di circa 233 lire, del giudice, del segretario della comunità e
degli ufficiali di giustizia. Verso il 1730 tutti i redditi dell’abbazia erano affittati per 3600 lire annue.18
Il territorio comunale si estendeva per 2345 moggia, 174 dei quali composti di beni feudali e 157 di beni
ecclesiastici immuni. Molti dei 1017 abitanti del paese, per gran parte mezzadri dell’abbazia, faticavano a
sopravvivere ed erano costretti ad emigrare stagionalmente nell’Oltrepo per la raccolta del riso e dei cereali.
La comunità si trovava fortemente indebitata e riusciva a malapena a fronteggiare i tributi camerali ordinali.
In zona erano numerose le cave di pietra da cantone, che veniva usata come principale materiale da
costruzione per le abitazioni locali e in parte esportata nei paesi vicini: particolarmente pregiata era la pietra
cavata in regione Cenchio, da cui si estrasse anche il pietrame adoperato per formare il fondo delle strade
costruite o rifatte a Grazzano nell’Ottocento, in particolare quella nuova verso Moncalvo. Un’interessante
attività complementare dell’agricoltura, sempre utile per arrotondare i magri bilanci famigliari, era la
plasmatura di stoviglie da cucina fatta con una speciale argilla casualmente trovata verso la Vallescura: con il
tempo pare che la produzione si sia evoluta, rivolgendosi anche alla produzione di semplici giocattoli che,
muniti di un foro, emettevano un fischio (“subiet”). Tale produzione, curiosa e tradizionalmente attribuita
ad alcuni contadini di Patro, sarebbe invece sorta in territorio di Grazzano.19
Le due opere più significative realizzate nella seconda metà del Settecento sono la casa comunale,
ricostruita e ampliata in adiacenza alla chiesa di Santo Spirito, proprio dove si trova tuttora, e il cimitero
pubblico. Abolite per decreto del re di Sardegna le tradizionali sepolture sotto il pavimento delle chiese, i
grazzanesi scelsero nel 1778 un camposanto poco discosto dall’abitato, in località Ronco Gennaro, e tale
cimitero sarebbe rimasto attivo anche dopo il più rigoroso editto di Saint Cloud. Spesa ingente, generatrice
di debiti estinti solo dopo molto tempo, comportò la rifusione delle tre campane della parrocchiale,
intrapresa anch’essa nel 1778: dieci anni più tardi i grazzanesi dovevano ancora pagare 1600 lire, rimaste
inesatte nonostante l’imposizione di una taglia straordinaria sul registro locale e ripetuti solleciti da parte
dell’esattore.
Al 1781 risale anche la compilazione del nuovo catasto geometrico particellare, in ottemperanza all’editto
di perequazione emanato da Vittorio Amedeo II. Il territorio comunale appariva ora diviso razionalmente in
particelle uniformi distinte per proprietario e massa di coltura, dislocate in 69 regioni catastali.
I venti rivoluzionari che soffiavano Oltralpe sul finire del secolo si fecero sentire anche a Grazzano: qui
arrivarono varie famiglie savoiarde preoccupate della situazione creatasi in Francia (i Levet e i Blanc, in
modo particolare). Grazie all’ospitalità offerta dall’abate Nicolas di Saint Marcel, savoiardo anch’egli, giunse
nel 1797 una comunità di monaci del soppresso monastero benedettino trappista di Tamiè: guidati da dom
Antoine Gabet, si stabilirono nella chiesa della Madonna dei Monti, officiando il santuario dedicato alla
Vergine del Carmelo e coltivando i terreni di sua pertinenza (40 moggia) secondo la regola del Fondatore.

L’OTTOCENTO
Il XIX secolo si apre con un atto di fondamentale importanza per la comunità grazzanese: la soppressione,
dopo nove secoli, dell’abbazia a seguito del decreto napoleonico del 1802.
L’abate di Saint Marcel, uomo di perfetta obbedienza sabauda, rimase in paese ed ebbe il titolo di parroco;
tutti i beni posseduti dall’abbazia furono incamerati dal demanio nazionale e venduti all’asta. Di tale
liquidazione approfittarono alcune delle famiglie più intraprendenti di Grazzano, che sino ad allora erano

18 I canoni venivano pagati parte in denaro, parte in granaglie e altri frutti della terra: pollame, pepe, zafferano,
aglio, mandorle, fascine di salici, cera e anche un’allodola.
19 Cfr. A. ALLEMANO, È Grazzano la vera patria dei “subiët ‘d Patro”, 2008, articolo in quattro parti pubblicato sul
sito <www.monferrini.com> alla sezione “Pagine monferrine”.
stati affittuari dell’abbazia, se non semplici mezzadri: nacque così la fortuna dei Badoglio e dei Cotti
(inizialmente Cotto), si accrebbe quella dei Plebano, dei Lusona, dei Chiesa Morra, dei Piccinino e dei
Capretto. La svendita dei beni abbaziali portò in territorio di Grazzano anche parecchi proprietari forensi, a
cominciare da Giovanni Battista Minoglio da Santa Maria, poi il medico Ignazio Bava da Cereseto,
l’avvocato moncalvese Antonio Maria Tadini, i Rubini anch’essi da Moncalvo, Giacinto Verdun, Giuseppe
Mezzena da Montemagno.
Nasceva così, dalle ceneri dell’abbazia aleramica, il nuovo ceto emergente di proprietari borghesi destinato
a costituire la classe dirigente del paese per oltre un secolo. Attorno a loro figurava una miriade di
piccolissimi particolari, finora semplici sottoposti dell’abate, che riuscivano finalmente ad acquistare – vera
conquista sociale! –un campicello, una vigna di sia pur poco valore, un piccolo seminativo con prato e
canneto. La grande proprietà agraria dei secoli feudali cedeva il passo al frazionamento dei beni, esasperato
poi da ulteriori suddivisioni successorie.
Di scarso rilievo è stata la partecipazione dei grazzanesi al movimento giacobino. Se è vero che nel
dicembre 1798, durante la prima ondata rivoluzionaria, si era piantato l’albero della libertà «avanti l’Albo
pretorio e Tribunale e pubblica piazza»,20 se il 6 gennaio 1799 venivano destituiti i consiglieri Giovanni
Antonio e Carlo Plano, Baldassarre Badoglio e Giovanni Battista Redoglia ed eletta la nuova Municipalità
presieduta da Ignazio Grosso, è anche vero che le redini del potere civico continuarono a tenerle le famiglie
“importanti” del paese: i Plebano, i Badoglio, i Lusona, i Plano. Venivano aboliti i titoli nobiliari, ognuno era
egalitariamente e democraticamente appellato “cittadino” – anche il Saint Marcel era diventato il “cittadino
Abate” – ma la sostanza del potere non cambiava: anzi, motivo di particolare astio contro i Francesi era la
coscrizione obbligatoria che portò tanti giovani grazzanesi a seguire l’Armée imperiale in giro per l’Europa,
con morti e dispersi su tutti i campi di battaglia.
Amministrativamente, Grazzano era compresa nella 27ª Divisione Militare, Département di Marengo,
Arondissement di Casale, Canton di Montemagno. La lingua ufficiale anche in Piemonte diventava il francese e
si introdusse negli atti ufficiali il macchinoso calendario rivoluzionario, le ore si contavano adesso a partire
dalla mezzanotte invece che dal tramonto del sole e in luogo dell’antico sistema di misura piemontese si
tentava di introdurre quello decimale.
Prima del declino dell’astro napoleonico, Grazzano venne scelto tra le comunità in cui si sarebbe
sperimentato il nuovo catasto (appunto il catasto napoleonico). Dopo soli trent’anni dalla redazione della
mappa sabauda, il territorio comunale nel 1810-1811 fu sottoposto a nuova misurazione, si compilò una
nuova mappa suddivisa in 9 fogli, di più agevole consultazione, e venne di conseguenza anche ripartito il
registro, cioè la base imponibile su cui esigere le imposte.21
Negli anni della restaurazione sabauda Grazzano, che ora faceva parte del Mandamento di Moncalvo,22 si
vide costretto alla lunga e dispendiosa lite che contrappose monsignor Mossi di Morano e molte comunità
monferrine circa pretesi antichissimi diritti di bannalità feudale sul moleggio di Pontestura. La causa si
concluse solo nel 1855 con il pagamento di un indennizzo complessivo di 30.000 lire, di cui 2410 imputate
alle già precarie finanze comunali grazzanesi.
Un celebre dizionario del tempo ricorda che in questi anni Grazzano contava ben 1360 anime e i
grazzanesi erano «per lo più robusti, solerti e pacifici».23 I prodotti della terra consistevano in grano,
granoturco, foraggi e «molto vino che riesce di buona qualità».
Nella seconda metà del secolo ebbe grande impulso lo sviluppo viario, promosso per favorire lo scambio
commerciale con la vicina Moncalvo, sede di importanti mercati, e lo smercio dei prodotti agricoli.

20 Secondo l’ordinato conservato in archivio, l’impresa venne compiuta a mezzogiorno in punto del 22
dicembre da Francesco Monte (Monti), Giovanni Rapellino (Rappellino) e dal messo comunale Giuseppe
Pattarino.
21 Il catasto napoleonico suddivideva il territorio comunale in 3 sezioni: Molavezzo, capoluogo e Capretti.
Rimase la base di riferimento per tutte le operazioni catastali comunali fino alla riforma generale compiuta
negli anni ’20 del Novecento.
22 Il Mandamento era composto anche da Ponzano e Salabue. A sua volta era inserito nell’antica provincia di
Casale. Dal 1859 Casale sarà declassata a capoluogo di Circondario nella più vasta provincia di Alessandria.
23 G. CASALIS, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, v. VIII, Torino,
1841, pp. 240-243.
Innanzitutto si raccordò la vecchia e malandata strada di San Giacomo - Giarette con quella che portava a
Moncalvo (attuale provinciale 31); poi, impegnando ingenti risorse finanziarie, il Comune fece progettare
una nuova via di comunicazione che unisse l’abitato direttamente con la strada per Moncalvo. Nasceva così
il Borgo nuovo, destinato in breve a trasformarsi in popoloso insediamento residenziale: lo si sarebbe
chiamato via Principe di Piemonte, poi via Dante. L’impresa non fu priva di problemi: un’annosa e, al solito,
dispendiosa causa civile contrappose l’amministrazione comunale guidata da Giuseppe Cotti all’appaltatore
Pietro Zaccone circa la qualità della pietra impiegata nei lavori.
Nel 1871 entrava in funzione la linea ferroviaria Asti-Casale e, sempre per favorire il commercio locale, il
Municipio diveniva membro di un consorzio per l’apertura di una strada di diretta comunicazione con la
stazione di Moncalvo, passando per Vallescura.
Altra opera pubblica di fondamentale importanza per la riqualificazione del paese fu il nuovo cimitero,
costruito, secondo le più moderne norme igieniche, lontano dall’abitato. Anche in questo caso l’esposizione
finanziaria del Comune non fu di lieve entità, solo in parte mitigata dai proventi della vendita delle piazze
private.
In paese le famiglie emergenti rimasero sostanzialmente le stesse di inizio Ottocento: particolarmente
significativo è il casato dei Cotti, che illustrò il paese con Pietro, avvocato e magistrato della Corte dei Conti,
poi senatore del Regno, e con il fratello Giuseppe Giacomo, ufficiale dei Granatieri, aiutante di campo del
duca d’Aosta, che rimase disperso sul campo di battagli di Custoza il 24 giugno 1866 e al quale venne
conferita l’unica medaglia d’oro di terra della III guerra di Indipendenza.
Un terzo fratello Cotti, Tullio, medico e ricco proprietario terriero, fu a lungo amministratore pubblico di
Grazzano e promosse la costruzione dell’edificio scolastico e l’erezione del muraglione di sostegno che
costeggia la piazza. Il passatempo più popolare in paese era il gioco della palla a bracciale e il medico Cotti
aveva voluto favorire i suoi concittadini, che si servivano del muro come sponda per le loro partite.
La parrocchia, dopo il ritorno in patria dell’ex abate di Saint Marcel, era stata affidata a un vicario
temporaneo finché nel 1843, riconosciuta l’impossibilità di ripristinare l’abbazia, Casa Savoia, che ne
deteneva ancora il patronato, nominò un vicario perpetuo nella persona di don Salvatore Bonasso da
Montiglio. Tra le molte iniziative intraprese per restaurare la chiesa dei Santi Vittore e Corona va segnalato il
rifacimento della facciata nelle forme tutt’oggi visibili.
Il secolo terminava sull’onda di una diffusa preoccupazione per l’integrità dei vigneti locali: anche a
Grazzano era comparsa la temuta fillossera, che, in aggiunta alla grandine e alle crittogame, metteva a
durissima prova la stessa sussistenza di tante famiglie di piccoli proprietari, fittavoli, mezzadri e schiavandai.
L’unica speranza di salvezza per molti era l’emigrazione: sia nella vicina Francia (specialmente a Marsiglia),
sia oltremare nelle lontane Americhe. Se al censimento del 1901 in paese si contavano 1877 abitanti,
vent’anni dopo il numero era sceso a 1773 e a 1676 nella rilevazione del 1931.

IL NOVECENTO
La precaria situazione socio-economica dei grazzanesi, comune del resto a tutti i monferrini, si traduceva in
una sofferta gestione finanziaria pubblica aggravata da inevitabili prelievi fiscali e nell’instabilità politica, con
frequenti commissariamenti del Comune.
Per di più, nella notte del 30 settembre 1907 il millenario campanile della parrocchiale era parzialmente
crollato, minacciando con la sua mole la stabilità dell’intera chiesa e delle abitazioni circostanti. Per quasi due
anni si dovette ricorrere a un precario puntellamento, poi si decise di intervenire con un restauro vero e
proprio. Tra sofferenze, contrasti e burocrazia, alla fine il Municipio sborsò la bella somma di
venticinquemila lire. Tra le buone notizie, l’istituzione, grazie anche a un lascito del medico Cotti, di un asilo
infantile. Fu installato in contrada Serra nella villa già proprietà dei Gotta-Pogliani, ricchi possidenti
imparentati con i Della Chiesa Morra e proprietari di una conceria in regione Bollo. A gestirlo furono
chiamate – grazie ai buoni uffici del vicario don Edoardo Coggiola – le suore di Nevers, fuggiasche dalla
Francia a seguito delle leggi anticlericali emanate da quel governo. L’asilo funzionerà fino al 1927.
Alla guerra combattuta dall’Italia contro l’Impero ottomano e alla successiva spedizione militare in Libia
prese parte, distinguendosi, un grazzanese destinato a segnalare il nome di Grazzano nel mondo: il capitano
Pietro Badoglio.24 Nella stessa impresa trovava la morte un più umile soldato anch’egli del paese, il caporale
Egidio Alasio. La fama di Badoglio, figlio e nipote di due proprietari che erano stati sindaci di Grazzano
nella seconda metà dell’Ottocento, crebbe a dismisura nel successivo conflitto contro gli Imperi Centrali:
entrato in guerra con il grado di tenente colonnello, al termine era generale d’esercito e sottocapo di stato
maggiore. Il suo ritorno a Grazzano nel dicembre 1918 fu un trionfo, seguito dopo meno di un anno
dall’inaugurazione del monumento ai caduti, uno dei primi eretti in Italia, a ricordo del gravoso tributo
pagato dai grazzanesi nella guerra da poco conclusa. L’affetto del generale per il paese natio non verrà mai
meno, fino alla morte: quando, nel giugno 1921, un violento incendio scoppiò in via Capretto distruggendo
completamente diverse abitazioni, Badoglio aprì la sottoscrizione pubblica con un sostanzioso contributo
personale.
Il sistema amministrativo fascista imponeva frattanto la sostituzione del sindaco con il podestà: Giovanni
Coppo, già sindaco, fu il primo podestà di Grazzano, seguito da Luigi Maraviglia e Massimiliano Degiovanni
che, caso alquanto raro, diverrà anche sindaco nel dopoguerra. Il Consiglio comunale cedeva il posto a
un’incolore e pressoché inutile Consulta: in realtà le deliberazioni importanti erano assunte dal podestà con
il fondamentale assenso del segretario comunale Giuseppe “Pinin” Coppo.
Nell’aprile 1935 Grazzano – dal 1868 Grazzano Monferrato – passava alla nuova provincia di Asti, la cui
costituzione fu caldeggiata in alto loco con successo da Pietro Badoglio. Un momento glorioso per il paese,
che continuava a vivere in una dignitosa povertà segnata dall’incipiente crisi agricola, giunse nell’autunno
1935, quando Badoglio, che dal 1926 era Maresciallo d’Italia, il grado più alto della gerarchia militare italiana,
fu chiamato a comandare le truppe italiane impegnate nella campagna in Africa Orientale. In meno di sei
mesi riuscì a terminare la conquista dell’Abissinia, culminata con l’entrata nella capitale Addis Abeba il 5
maggio 1936.
La nascita di quell’impero per la verità molto effimero portava Grazzano alla ribalta nazionale. Nel 1937 la
casa natale del maresciallo venne donata all’illustre concittadino, che la convertì in asilo infantile intitolato
alla madre Antonietta Pittarelli. Pochi anni dopo Badoglio, sempre attento alla promozione sociale del suo
paese natale, fondò ex novo un istituto destinato ad accogliere gratuitamente i grazzanesi anziani e privi di
mezzi finanziari, dedicandolo alla consorte Sofia.25
Il progresso portò a Grazzano prima l’acquedotto, poi la luce elettrica, infine il collegamento telefonico.
Diverse opere pubbliche si compirono nei cosiddetti “anni del consenso”: il sistema di fognature
(sovvenzionato dal Maresciallo), l’ampliamento e il miglioramento della viabilità, la costruzione della Casa
del Fascio sulla piazza principale.26 Sempre grazie all’illustre compaesano, i fedeli grazzanesi, guidati dal
vicario don Coggiola, ebbero in questi stessi anni la loro parrocchiale profondamente restaurata.
In segno di sommo rispetto per il suo figlio più illustre, Grazzano Monferrato cambiava ufficialmente
denominazione, diventando Grazzano Badoglio (RD 27 febbraio 1939, n. 537).
Gli anni che seguirono furono quelli di una guerra lunga, dolorosa e devastante per tutti: soldati al fronte,
famiglie, istituzioni locali, economia. Se stavolta il tributo in vite umane dei grazzanesi fu meno significativo
in termini numerici, molto più sentito fu il conflitto in termini umani e psicologici. La nomina di Badoglio
alla guida di un governo “democratico” dopo oltre vent’anni di dittatura accese di giusto orgoglio il paese e
di illusoria speranza l’intera nazione. Gli anni più drammatici furono quelli successivi all’armistizio del
settembre 1943: seicento giorni in cui la Repubblica sociale, effimera istituzione nelle mani dei tedeschi,
scatenò una violenta campagna d’odio verso il vecchio Maresciallo che portò anche a sopprimere –
provvisoriamente – il determinativo “Badoglio” dal nome del Comune.
Attiva in paese e nelle zone limitrofe fu la resistenza contro i nazifascisti, specialmente a opera delle bande
Tom e Lenti e di formazioni “Matteotti” e autonome (i cosiddetti “badogliani). Il bilancio di sangue di

24 Sulla biografia di Badoglio e sui suoi legami con Grazzano si vedano A. ALLEMANO, Pietro Badoglio. Biografia
per immagini, Cavallermaggiore, Gribaudo, 2002 e R. PROSIO, Pietro Badoglio soldato e uomo politico, Foggia,
Bastogi, 1998, oltre alle due opere di Vanna Vailati Badoglio racconta (1955) e Badoglio risponde (1958).
25 Sulle vicende che portarono alla costituzione della Fondazione Badoglio e sulla sua storia, vedasi A.
ALLEMANO, Bambini di Grazzano entrate con letizia, Grazzano Badoglio, 2000.
26 L’edificio, in tipico stile razionalista, fu eretto sul sedime dell’antica chiesetta dedicata a sant’Anna; con il
consenso delle autorità e sempre auspice Badoglio, alla stessa santa venne dedicata la cappella interna alla
nuova Casa di riposo, nel 1939.
questi venti mesi fu pesantissimo: dal rastrellamento dei ragazzi della Lenti alla Madonna dei Monti, alla
cattura della banda Tom presso Casorzo, alla morte in uno scontro a fuoco del partigiano Luigi Lusona, ma
senza dimenticare il milite fascista ucciso e sepolto in una vigna, l’ausiliaria repubblicana fucilata contro il
muro del cimitero la sera del 24 aprile 1945 e i due piloti morti nel rogo del loro aereo schiantatosi fuori
paese il 26 ottobre 1943.
Negli anni successivi al conflitto Grazzano tentò, sebbene a fatica, di ritornare alla sua vita normale. Giorni
memorabili furono quelli della morte, avvenuta nella casa natale, del maresciallo Badoglio, e dei successivi
funerali (novembre 1956), poi quelli del fervore commemorativo dell’illustre Grazzanese, che portò, nel
settembre 1964, all’inaugurazione della stele sul colle della Madonna dei Monti e all’apertura della strada
panoramica, opere entrambe volute e sovvenzionate da Pininfarina.
A preoccupare era soprattutto l’abbandono delle campagne da parte delle famiglie, attratte da prospettive
di migliori condizioni di vita nelle grandi città. Emblematica era, a tale proposito, la relazione fatta al
Consiglio comunale nel 1957 dal sindaco Degiovanni: dai 1467 abitanti del 1936 Grazzano era passato ai
1383 del 1951, per scendere ancora ai 1340 a fine ’56. «Nonostante l’afflusso di lavoratori della terra veneti o
di altre regioni, la popolazione diminuisce; a famiglie abbienti del paese che emigrano in città si
sostituiscono famiglie bisognose immigrate che purtroppo alle cattive condizioni economiche accomunano
sovente l’inesperienza nella coltivazione della vite con conseguenze sul reddito dell’intero paese facilmente
documentabili».27
Anche la classe dirigente locale si era rinnovata. Estinte poco gloriosamente oppure trasferitesi altrove le
famiglie cospicue del paese (Plebano, Plano, Cotti, Badoglio, Lusona, Della Chiesa Morra), il potere civico
passava nelle mani di piccoli e medi proprietari diretti coltivatori, commercianti, impiegati.
Sebbene le contingenze non fossero troppo favorevoli, il settore primario continuava ad essere importante
nell’economia grazzanese. Per un paese che nei secoli passati aveva legato il proprio nome alla qualità delle
uve locali, tanto che il più antico verbale di Consiglio pervenutoci (3 novembre 1591) riporta la cessione alla
Camera Ducale dei Gonzaga di due bottalli di vino, la riqualificazione degli antichi vigneti e le nuove
tecniche di coltivazione e trasformazione unite a innovativi sistemi di associazione (cantine sociali di
Moncalvo e di Casorzo) permettevano una continuità nel segno della sempre migliore qualità del prodotto.
L’ultimo scorcio di secolo vede in Grazzano una fioritura di iniziative tese sia all’aggregazione sociale che
alla promozione culturale: Fondazione Badoglio, Pro Loco, Centro culturale Pietro Badoglio (costituitosi nel
1991), Museo storico badogliano, Compagnia amatoriale “I Viavai”, Biblioteca comunale, Parrocchia, e,
ultimamente, il centro diurno per anziani costituiscono un punto di forza assai qualificante per un paese che,
con soli 650 abitanti, prosegue, all’alba del terzo millennio, la sua bimillenaria tradizione di storia e civiltà.

27 Registro delle deliberazioni del Consiglio comunale 1954-1957, b. 2, UA 7 (ora al n. progressivo 329 )

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