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Sigfrido E.F.

Hobel

LA BIBLIOTECA
DELL’ABATE
Linguaggio simbolico e tradizione ermetica
nella Biblioteca dell'Abbazia di S. Michele
Arcangelo a Montescaglioso
CENNI STORICI SULL'ABBAZIA DI S.MICHELE A MONTESCAGLIOSO

Fondata dall'imperatore Alessandro Severo, l'antica Civitas Severiana (detta anche Città Vetere dal
Monte Vetere che la sovrasta) assunse nell'Alto Medio Evo il nome di Mons Caveosus, da cui
deriva l'attuale nome di Montescaglioso 1).
Si riteneva che la città fosse stata edificata dalle rovine di Metaponto 2) ed in effetti nell'antico
nucleo romano risultano già presenti insediamenti italici e greci mentre le rovine dell'antica
Metaponto sorgono a sud dei territori che facevano parte del feudo di Montescaglioso.
Nella località detta Mesole o Mensole (dove attualmente si trova l'Antiquarium della zona
archeologica) si ergono le cosiddette Tavole Platine (dette, nel Medio Evo, anche Mensae
Imperatoris), ovvero quindici colonne doriche che facevano parte di un tempio esastilo
probabilmente dedicato ad Hera, presso il quale, secondo una tradizione locale, sarebbe stata ubicata
la Scuola di Pitagora (1).
Nel 1043, conquistata dai Normanni, Montescaglioso divenne capocontea di un feudo che fu
assegnato alla famiglia Maccabeo: l'epoca normanna segnò un momento di crescita e di splendore
per Montescaglioso e per la sua Abbazia, nei confronti della quale i conti normanni furono
estremamente munifici.
Durante il regno angioino la contea fu affidata a vari esponenti della nobiltà del Regno, per passare,
all'epoca della Regina Giovanna I, alla famiglia del Balzo che ne restò proprietaria fino alla fine del
XV secolo.
In epoca vicereale la contea venne divisa e la città di Montescaglioso fu affidata a vari esponenti
dell'aristocrazia fra cui i d'Avalos e gli Orsini, finchè fu acquistata, nel 1612, da una famiglia di
origine genovese, i Grillo, da cui passò ai Marchesi Cattaneo, che ne restarono in possesso fino al
1806, quando, sotto il regno di Gioacchino Murat, venne abolita la signoria feudale.

Dal punto di vista della vita artistica e culturale (2), ricordiamo che Montescaglioso dette i natali
allo scultore e architetto Altobello Persio, che nel 1501 si trasferì, ancor giovane, a Matera, dove
venne raggiunto dal fratello Aurelio, anch'egli scultore; fra i figli di Altobello va ricordato Antonio
che, legatosi alla famiglia degli Orsini, viaggiò a lungo per l'Italia entrando in contatto con gli
ambienti più illuminati e progressisti dell'epoca: fu seguace del Telesio e amico del Campanella, col
quale mantenne contatti anche durante la sua prigionia; entrò quindi a far parte dell'Accademia dei
Licei e conobbe il Galilei, divenendo un sostenitore delle sue teorie.

1)
Cfr. G. Gattini: Severiana seu Caveosana, Napoli, 1886
2)
Cfr. R. Nigro: Montescaglioso in un'anonima descrizione settecentesca nel Bollettino della Biblioteca provinciale di
Matera, anno IV, n. 6, 1983. Il testo riportato è contenuto nel terzo volume dell'opera inedita di Eustachio Caracciolo:
Dictionarium Universale totius Regni Neapolitani (mss. 435-438 della Bibilioteca Nazionale di Napoli, fondo della
Biblioteca di S.Martino). Nell'anonima descrizione viene fatto riferimento alle note della Cronica Cassinese n.1643
dell'abate D.Angelo della Noce.
1
) Il filosofo insegnò infatti a Metaponto a partire dal 510 a.C. e la sua scuola vi sopravvisse per almeno due secoli. Cfr.
Giamblico: Vita pitagorica, 170, 249; Diogene Laerzio: Vite dei Filosofi, VIII,40
2
) R. Nigro, op. cit., pag.79 ss. Vedi anche G. Caserta: Appunti per una storia della letteratura e della cultura lucana
nel Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera, anno IV, n.7, 1983, pag.56 ss.
Di Montescaglioso è anche il poeta Antonio Antodari, membro dell'Accademia degli Incogniti di
Bari, mentre nella seconda metà del XVI secolo si trovava nell'Abbazia di S.Michele il dotto
benedettino Angelo Grillo, che poi, trasferitosi a Roma, sarà amico del Tasso, del Marino e del
Guarini.
Vanno anche citati l'Abate Gennaro Agostino Veniero di Cava dei Tirreni, che nel 1616 riordinò
l'archivio dell'Abbazia, l'umanista Andrea Cappellano, il grammatico, retore e poeta Cristoforo
Ruizio e frate Angelo di Montescaglioso, cui si devono gli intagli lignei della Cattedrale di
Bernalda.
Altri intellettuali del periodo furono Giuseppe Gavano, che fornì preziose notizie su Montescaglioso
all'Abate Della Noce, Giovanni Tommaso Rotundi e il sacerdote Giovan Girolamo Antodaro, alcuni
versi dei quali sono inseriti nelle opere del poeta Vincenzo Persio.
Infine va citata l'opera di Alessandro Tansi, fatto Abate di S.Michele di Montescaglioso nel 1682
col nome di Severino da Matera, cui si deve l'Historia cronologica Monasterii S.Micheli Montis
Caveosi, pubblicata a Napoli nel 1746.

La presenza benedettina si sviluppa nella zona soprattutto dopo la conquista normanna, anche se la
tradizione locale vuole che una comunità di monaci basiliani abbracciasse la Regola di S.Benedetto
fin dal 537, in occasione del passaggio di S.Placido, seguace di S.Benedetto (3).
Le origini e la data di fondazione dell'Abbazia di S.Michele a Montescaglioso non sono note (4) e le
prime notizie documentate risalgono al 1065, quando il Vescovo di Matera consacrò la chiesa di
S.Maria in Platea donata ai Benedettini di Montescaglioso dal conte normanno Rodolfo Macabeo.
I documenti riportati dal Tansi (5) mostrano un susseguirsi di donazioni da parte dei Conti
Normanni ai monaci benedettini. Nel 1175 Alessandro III, con una Bolla pontificia, pone il
Monastero sotto la protezione della S.Sede. Diversi altri documenti, fra cui uno di Ruggero nel 1146
e uno di Federico II nel 1222, sanciscono e confermano i possedimenti e i privilegi dell'Abbazia (6).

La fondazione dell'Abbazia di S.Michele Arcangelo, uno fra i più grandiosi monumenti monastici
dell'Italia Meridionale, risale all'XI secolo: la sua costruzione fu iniziata nel 1078 dall'Abate Simone
e nel 1099, sotto l'Abate Crescenzio, verrà consacrata la chiesa. Sorta al di fuori delle mura urbane,
in occasione del rifacimento delle opere di fortificazione intrapreso dai conti normanni, l'Abbazia

3
) F. Caputo, L. Bubbico: Insediamenti benedettini nell'area metapontina, Montescaglioso 1983, pag.9.
4
) Vedi T. Leccisotti: Il monastero benedettino di S.Michele di Montescaglioso in due descrizioni dei sec. XVII e XVIII,
in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, anno XXV, 1956: in una relazione anonima del 1650 dell'Archivio di
Montecassino si sostiene che i documenti relativi alla fondazione dell'Abbazia di Montescaglioso sarebbero andati persi
a causa delle rovine provocate dalle incursioni dei Saraceni, precedentemente alla conquista normanna.
5
) Cfr. S. Tansi, op.cit. p.127-156
6
) S.Tansi, op. cit. pag. 156 ss. Sull'autenticità del documento del 1233 in cui Federico II confermava i privilegi
dell'Abbazia furono avanzate riserve in occasione delle liti giuridiche sulle proprietà del monastero e l'argomento fu
oggetto di una accanita disputa nel 1771 e negli anni seguenti:
- F.Peccheneda e N.Miglionico: Relazione per la ricognizione di una pergamena presentata dai RR.PP. di S.Michele
Arcangelo di Montescaglioso nella causa che si agita coll'ill. Marchese, Napoli 1771;
- L.Russo: Sentimenti di falsità di due Periti diplomatici sopra uno strumento del 1233 che racchiude un ordine
dell'Imperatore Federico II del 1232 a favore del Monastero di S.Michele dei monaci Cassinesi di Montescaglioso,
Napoli 1771;
- De Sarno: Critiche annotazioni su un istrumento in pergamena del dì XXXI gennaio MCCXXXIII in cui è inserito
ordine dell'Imperatore Federico II a favore del Monastero di S.Michele Arcangelo di Montescaglioso, Napoli 1771.
venne inglobata all'interno della nuova cinta muraria.
Le testimonianze rimaste della costruzione normanna sono ben poche, in quanto il complesso, già
restaurato nel 1323, fu radicalmente rimaneggiato nel XVI e XVII secolo: dell'antica costruzione
sono attualmente ancora visibili due bifore adiacenti la sala capitolare, un capitello nell'atrio della
chiesa, le modanature del basamento della torre campanaria decorate con teste reggimensola e
alcuni tratti del muro perimetrale fra Porta S.Angelo e il rione di S.Giovanni Lovento (7).
La crisi che investe, intorno al XIII secolo, gli antichi Ordini monastici non risparmiò l'Abbazia di
Montescaglioso che iniziò a decadere, trovandosi ben presto ad affrontare notevoli problemi e
difficoltà amministrative, come risulta dai numerosi documenti (8) riguardanti cessioni, vendite, liti
e contenziosi sui possedimenti e sui confini; verso la metà del XV secolo il patrimonio dell'Abbazia,
da tempo affidato in commenda ad amministratori laici, risultava in buona parte alienato.
Nel 1484 Pirro del Balzo, Duca d'Andria e Conte di Montescaglioso, nonchè Abate commendatario
del monastero, dopo aver ricevuto l'assenso di Papa Sisto IV, ottenne l'annessione dell'Abbazia alla
Congregazione di S.Giustina di Padova (9) vincendo la riluttanza della Congregazione benedettina
di Padova ad assumersi l'onere di una struttura architettonica fatiscente e di una comunità il cui
patrimonio risultava per buona parte dilapidato dalle precedenti cattive amministrazioni.
Venne nominato Abate il fiorentino Luca Antonio Romoli, che ricostituì in pochi anni la comunità
monastica e intraprese i lavori di restauro del complesso architettonico dell'Abbazia e delle sue
dipendenze.
Nel 1531 venne portata a termine la ricostruzione del chiostro orientale e nel decennio successivo
venne completato il nuovo chiostro occidentale. Due epigrafi commemorano la costruzione del
chiostro occidentale: la prima (Super Muros Istos Angelo. u. Custodia MCCCCCXXXIII) si trova
presso la rampa d'accesso all'ex-municipio; l'altra, posta su una colonna del lato nord, recita Custos
Etulto MDXLI.
I capitelli di entrambi i chiostri presentano una ricca decorazione scultorea d'ispirazione tardo
medievale, ascrivibile a maestranze locali. Il particolare interesse iconografico e simbolico dei temi
figurativi e ornamentali richiederebbe un'analisi attenta e approfondita per la varietà e l'originalità
delle invenzioni e per il carattere enigmatico che molte di esse presentano.
Nell'ornamentazione delle finestre e dei portali si può invece rilevare l'influsso del gusto
rinascimentale fiorentino (10).
Nel chiostro orientale si trova un pozzo monolitico in pietra, le cui facce, scolpite in uno stile che
richiama quello dei capitelli, recano le raffigurazioni di S. Michele e di un Genio solare; la fontana
di porfido a due vasche che si trova nel chiostro occidentale era collocata originariamente nella
chiesa, vicino alla sacrestia.
7
) F.Caputo, L.Bubbico, op. cit. pag.13. Cfr. C.Valente L'Abbazia normanna di Montescaglioso in Basilicata nel
mondo, anno III, n.2, 1926
8
) S. Tansi, op. cit. pag.89 ss.
9
) Cfr. la relazione redatta da Timoteo Riccio, Abate di S.Angelo di Gaeta, riportata dal Tansi (op. cit. pag.123) sullo
stato di abbandono e di rovina del complesso monastico.
Si veda anche la nota redatta nel 1675 dall'Abate A. Tornamira Istoria dell'origine e progressi della Congregazione
Cassinese altrimenti detta di S. Giustina di Padova in F.Caputo, L. Bubbico, op. cit. pag. 23.
Sulla Congregazione di S.Giustina vedi G.Penco Il Quattrocento e la Congregazione di S.Giustina in Storia del
Monachesimo, Roma, 1961, pag. 324-361
10
) G. B. Guarini: Un monumento obliato: l'Abbazia normanna di S. Angelo a Montescaglioso, Trani 1904. G. Lipparini
Monumenti in Basilicata: il convento di S.Angelo (Montescaglioso) in: Vita d'Arte II, 1908.
La ricostruzione della chiesa venne intrapresa verso la fine del XVI secolo, sostituendo le navate
minori con quattro cappelle per ogni lato e aggiungendo la sacrestia e una nona cappella adiacente
l'atrio (11). Nel 1632 vennero portate a termine le costruzioni disposte lungo il perimetro nord-
occidentale del monastero (alloggi, depositi, stalle). Nel 1650 venne completata la cupola della
chiesa, mentre nel XVIII secolo furono decorate con stucchi le volte e nel secolo successivo gli
altari marmorei delle cappelle furono sostituiti da altari in tufo (12).

La decorazione a fresco che ornava la chiesa e i locali del monastero fu eseguita presumibilmente
fra la fine del XVI secolo e gli inizi del secolo successivo. La paternità di parte degli affreschi è
stata attribuita al pittore Girolamo Todisco (13), attivo nell'Abbazia negli stessi anni in cui vi si
trovava il dotto Abate Angelo Grillo, membro della famiglia dei signori di Montescaglioso.
Citiamo le testimonianze attualmente visibili di tale decorazione:
- Decorazione della Biblioteca (14), che presenta un interessantissimo repertorio iconografico con
immagini di Filosofi, Santi e figure allegoriche.
- Affreschi della residenza dell'Abate (attuale Biblioteca Comunale).
- Affreschi dell'ingresso ai dormitori dei novizi (presso le gradinate d'accesso ai piani superiori):
S.Placido, Madonna col Bambino, Scene della Passione.
- Tracce di affreschi nei corridoi.
- Quattro affreschi negli angoli dei chiostri (datati 1632) raffiguranti S. Michele, Tobiolo e l'Angelo,
S. Benedetto, S. Scolastica.
- Tracce di affreschi sulla scalinata di accesso all'ex-Municipio.
- Affreschi della Sala Capitolare: Crocifissione; Abati e benefattori del monastero; Stemma
dell'Abbazia (sulla volta).
- Affreschi del Refettorio dell'Osservanza: Madonna e Ultima Cena (distrutto).
- Tracce di affreschi nella cucina del monastero.
- Affresco della Madonna col Bambino nell'atrio della chiesa (coperto dalla calce).
- Affreschi delle cappelle laterali della chiesa: restano delle tracce di un'Annunciazione e una
Crocifissione nell'ultima cappella a sinistra.

Dal XVII secolo alla prima metà del XVIII la comunità monastica di Montescaglioso conobbe
dunque un periodo di rinnovato splendore malgrado i frequenti conflitti d'interesse che la

11
) L'impianto originale di epoca normanna è ancora riconoscibile nel transetto e nell'abside quadrato.
12
) Sullo stato dell'Abbazia e dei suoi possedimenti nei secoli XVII e XVIII, si vedano:
- la relazione estratta dallo Status monasterium Congregationis Casinensis anno 1650 pubblicata da F. Leccisotti (cfr.
nota 6),
- la nota dell'Abate Tornamira del 1675 (cfr. nota 11),
- la relazione del 1677 sull'Apprezzo della terra di Montescaglioso conservata nell'Archivio dell'Ufficio Tecnico del
Comune di Montescaglioso,
- l'opera di G. B. Pachichelli: Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703, pag. 292-293,
- la relazione anonima riportata nel testo di Eustachio Caracciolo (cfr. nota 2),
- l'Historia Cronologica dell'Abate S.Tansi (cfr. nota 7),
- l'opera di S. Gattini (vedi nota 1).
13
) A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata, Milano 1981, pag.109
14
) Vedi la descrizione della biblioteca e dei suoi volumi in T. Leccisotti, op.cit. XXV 1956 pag.263 e XXVI 1957
pag.170
contrapponevano ai signori feudali e alle Università di Montescaglioso e Pomarico (15).
Nel 1784, tuttavia, i Benedettini, stanchi di queste interminabili liti, decisero di trasferirsi a Lecce,
dove avevano acquistato il Collegio della Azienda di Educazione, ponendo così termine alla loro
secolare presenza a Montescaglioso.
I ricchi arredi della chiesa andarono in gran parte dispersi con la partenza dei Benedettini: il
grandioso coro ligneo intagliato in noce che si trovava nell'abside venne trasferito a Lecce, nella
chiesa del Gesù annessa al nuovo monastero acquisito dai monaci dell'Abbazia. Una grande statua
lignea seicentesca di S.Michele venne trasferita, insieme alle reliquie della chiesa, nel vicino
convento dell'Immacolata Concezione, mentre è invece rimasta sul portale della chiesa la statua
marmorea dell'Arcangelo che abbatte il demonio.
I beni dell'Abbazia, secolarizzati in seguito alla soppressione degli Ordini religiosi ad opera del
governo murattiano, furono incamerati dal Demanio dello Stato nel 1807. Nel 1818, col ritorno dei
Borboni, il monastero venne affidato ai Conventuali di S.Lorenzo Maggiore di Napoli, che ne
restarono in possesso fino al 1861, quando l'edificio monastico venne definitivamente secolarizzato
diventando di proprietà pubblica, mentre le residue proprietà del monastero furono alienate a
privati.

GLI AFFRESCHI DELLA BIBLIOTECA DELL'ABBAZIA DI S.MICHELE A


MONTESCAGLIOSO

La paternità degli affreschi della Biblioteca dell'Abbazia di Montescaglioso è stata attribuita a


Girolamo Todisco (16): si ritiene infatti che nel 1632 abbia dipinto i lunettoni dei due chiostri e che
pertanto sia l'autore, insieme alla sua bottega, di buona parte della decorazione pittorica del
complesso abbaziale.
Formatosi nella bottega di Giovanni Todisco (17), Girolamo ne trae il gusto descrittivo e gli intenti
didascalici e simbolici, esprimendosi tuttavia con sensibilità più moderna ed utilizzando i repertori
iconografici e le allegorie proprie della cultura rinascimentale e manierista.
Se consideriamo, per esempio, gli affreschi del braccio settentrionale del chiostro del Convento di
S.Antonio a Rivello, assegnati a Girolamo (18), possiamo notare nelle volte una decorazione ricca
di figurazioni allegoriche fra le quali spiccano le immagini delle Sibille. La presenza di Sibille
insieme a Profeti (19) è alquanto significativa, dal momento che, ispirandosi alla concezione che
15
) Cfr. F. Caputo, L. Bubbico, op. cit. pag. 97 ss., in cui sono elencati i documenti relativi ai processi fra i Benedettini
dell'abbazia di S.Michele e le Università e i feudatari di Montescaglioso, Pomarico e Ginosa
16
) A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata, Milano 1981, pag.109. Cfr. AA.VV. I beni artistici e storici di Montescaglioso
(Catalogo della Mostra), Montescaglioso 1983, p.21.
17
) Giovanni Todisco da Abriola (doc. 1545-66), senz'altro il più importante pittore della regione intorno alla metà del
Cinquecento, è autore di numerosi cicli affrescati in cui, pur conservando un gusto tardo-gotico di stampo nordico,
mostra una certa adesione ai modi rinascimentali, influenzato in tal senso da Simone da Firenze e da Giovanni Luce (cfr.
Grelle, op.cit. p.83). Su Giovanni e Girolamo Todisco vedi anche: L.Kalby: Classicismo e maniera nell'officina
meridionale, Cercola 1975, p.58-59; AA.VV. Insediamenti francescani in Basilicata (Catalogo della Mostra,
Lagopesole 1988), Matera 1988, vol.II, p.158-160 e 198-206.
18
) Insediamenti francescani, p.201-206
19
) Si pensi ad illustri esempi come quelli del Duomo di Siena o della Sistina e si vedano, in tal senso, i 10 medaglioni
con Sibille e Profeti affrescati nella Cappella del Presepe del Duomo di Matera, verosimilmente in occasione della
sistemazione della Cappella ad opera di Altobello Persio nel 1534 e riscoperti durante i lavori di restauro del 1989.
vedeva in esse le profetesse pagane dell'avvento di Cristo, sosteneva di fatto, all'interno dei cicli
decorativi, il principio della non-contraddizione fra la tradizione classica e pagana e quella biblica.
Inoltre, la presenza, fra gli intrecci decorativi, di figure enigmatiche e animali fantastici, mitici ed
apocalittici ci riporta, da un lato, all'inesauribile repertorio dei bestiari medievali e, dall'altro, alla
loro evoluzione nella fantasiosa composizione delle grottesche rinascimentali, dandoci un'immagine
evidente dei riferimenti culturali dell'autore degli affreschi.

L'artista che ha lavorato nella Biblioteca di Montescaglioso, sia esso Girolamo Todisco o un altro
pittore formatosi nello stesso clima culturale tardo-rinascimentale, deve aver aderito con entusiasmo
alle istruzioni del suo committente, che si rivela un profondo conoscitore del linguaggio simbolico
ed allegorico.
L'argomento meriterebbe di essere approfondito indagando sulla personalità degli abati che ressero,
in quegli anni, le sorti dell'Abbazia di Montescaglioso e sui loro contatti con gli ambienti
intellettuali dell'epoca (20).
Infatti, nell'elaborazione del programma iconografico della Biblioteca possiamo riconoscere i
riflessi del particolare clima culturale sviluppatosi verso la fine del XVI secolo, in cui il persistente
culto dell'antichità classica, dei suoi miti e della sua filosofia e l'adesione, sempre viva, alla
tradizione ermetica e ai suoi simboli si intrecciavano a profonde istanze di rinnovamento etico,
culturale e scientifico, quali potevano scaturire dall'intensa e fertile attività delle Accademie, ma
anche dalle strutture conventuali, anch'esse fervide fucine di idee, in cui si erano pur formate
personalità come quelle di Bruno e Campanella.

Nel silenzio della Biblioteca monastica il rumore del secolo si attutisce, ma il senso più profondo di
una cultura tesa alla rigenerazione spirituale trova forse l'ambiente più congeniale per esprimersi in
forma lucida e pacata, tale da sollecitare la mente ed ispirare l'anima.

Il dio del Silenzio

La parete meridionale della Biblioteca dell'Abbazia di Montescaglioso presenta una sintetica


galleria di Filosofi in cui, accanto alle raffigurazioni di Platone, Aristotele e Diogene, troviamo
quelle di Pitagora e Arpocrate: a questi due "ritratti" sono stati assegnati, in un certo senso, i posti
d'onore; l'artista ha voluto infatti evidenziarli, racchiudendoli in cornici ovali e collocandoli nei due
maggiori tratti di parete, fra le due finestre che si aprono verso l'esterno.
La posizione di rilievo attribuita a Pitagora non desta alcuna meraviglia: infatti questa leggendaria
figura di sapiente può a buon diritto presiedere l'assemblea dei filosofi dal momento che fu proprio
lui per primo a dare il nome di Filosofia all'aspirazione alla conoscenza (21) e dal momento che ai
suoi insegnamenti si ispirò buona parte della filosofia classica.
Al contrario, l'immagine di Arpocrate, raffigurato come un vecchio saggio che esorta al silenzio
ponendosi un dito sulle labbra, potrebbe sembrare estranea a tale filosofico contesto in quanto non
20
) Si pensi, per esempio, al dotto benedettino Angelo Grillo o all'Abate Gennaro Agostino Veniero di Cava dei Tirreni.
Saremmo inoltre anche tentati di vedere nell'interessantissima figura di Antonio Persio un possibile elemento di
collegamento con gli ambienti più illuminati della cultura contemporanea.
21
) Giamblico: Vita pitagorica, XXIX, 159 (ed. it. Bari 1984, p.81)
raffigura un filosofo e neanche un personaggio storico, anzi, neanche un essere umano nel senso
stretto della parola dal momento che si tratta di una divinità del pantheon egiziano, ovvero del
giovane figlio di Iside ed Osiride: inoltre, l'immagine tradizionale di Arpocrate non assomiglia
neanche a quella di Montescaglioso in quanto il dio era raffigurato come un fanciullo o giovanetto il
cui unico tratto comune con il vecchio saggio della Bibilioteca è il gesto che esorta al silenzio.

Per meglio comprendere il ruolo assegnato alla figura di Arpocrate all'interno del programma
decorativo della Biblioteca di Montescaglioso sarà dunque necessario esaminare i significati
simbolici attribuiti a questa divinità, accennando alle principali interpretazioni iconografiche della
sua immagine.

L'immagine del giovane dio aveva incontrato particolare favore nel mondo antico, travalicando i
confini della nativa terra d'Egitto, come attestano le frequenti citazioni degli autori classici e le
numerose testimonianze artistiche (22), in quanto Arpocrate era diventato, insieme a Iside e
Serapide, una delle divinità più popolari fra quelle che si ispiravano agli antichi culti egiziani
dall'età alessandrina, imperniati soprattutto sui Misteri isiaci e sul mito di Osiride (23).
La figura di Arpocrate, spesso confusa con quella di Horus bambino (24), va tuttavia distinta da
quest'ultima, avendo una propria specifica connotazione sia dal punto di vista iconografico che in
rapporto alla funzione che gli era stata attribuita di dio del Silenzio e custode dei sacri Misteri (25).
Plutarco (26), cui dobbiamo le più esaurienti delucidazioni sulla storia e sul simbolismo di
Arpocrate, precisa infatti che Arueris o Horos il Vecchio era nato precedentemente, in quanto Iside e
Osiride, prima ancora della loro stessa nascita, si erano uniti nell'oscurità del grembo materno e da
tale unione era nato Horus, divinità luminosa, identificata col sole nascente, e protagonista del
combattimento contro le forze delle tenebre personificate dal malvagio Seth.

Rispetto alla successiva nascita di Arpocrate, Plutarco si esprime come segue: "Iside si unì ad
Osiride anche dopo la sua morte e partorì un figlio prematuro e rachitico negli arti inferiori,
Arpocrate" (27).
Apprendiamo quindi che "Iside, accortasi di essere incinta, si mise al collo un amuleto, il sesto

22
) Ricordiamo le numerose sculture in cui Arpocrate è raffigurato come un fanciullo seduto e con un dito teso sulle
labbra in atto di imporre silenzio conservate al Louvre, nel Museo Nazionale di Napoli, nei Musei Vaticani, ecc.;
esistono anche altre immagini, per lo più di epoca ellenistica, in cui il dio si trova in posizione eretta, anche se spesso in
posa alquanto abbandonata, fra cui citiamo una statua in marmo dei Musei Capitolini che mostra Arpocrate come un
giovanetto in piedi, nel consueto gesto del silenzio, con un fiore di loto sul capo ed un corno nella sinistra.
23
) Cfr. Plinio: Naturalis Historia, XXXIII, 41 sulla diffusione delle immagini di Arpocrate incise su pietre. Sul
sincretismo religioso della civiltà alessandrina vedi Testi religiosi egizi (a cura di S.Donadoni), Milano 1988, p.399;
H.C.Puech: Storia delle religioni, vol.IV, Bari 1977, p.60 ss.
24
) Harpocrates, trascrizione di Her-pa-herd (Horus il bambino) era rappresentato col dito sulla bocca, come un neonato
uscente dal loto, immagine che equivaleva al termine usato per indicare il sorgere del sole dal mare (Cfr. R.A.Schwaller
de Lubicz: Le roi de la théocratie pharaonique, Paris 1982, p.124.
25
) Ovidio (Metamorfosi, XI,693) lo indica come "Colui che spegne la voce e col dito invita al silenzio" (Quique premit
vocem digitoque silentia suadet). Cfr. Apuleio: Metamorfosi XI,8 ss.
26
) Plutarco: Iside e Osiride (12, 54, 61), ed. Adelphi, Milano 1985, p.69, 116,124
27
) Iside e Osiride (19), ed.cit. p.76. Secondo il Bachofen, la malformazione delle gambe di Arpocrate (Il simbolismo
funerario degli antichi, Basilea 1856, ed.it. Napoli 1989, p. 565 ss.) dimostrerebbe il carattere tellurico del giovane dio,
prematuro ed incompiuto nei suoi arti inferiori e quindi immobilizzato e legato alla materia.
giorno del mese di Faofi (cioè all'inizio di ottobre) e partorì Arpocrate all'epoca del solstizio
invernale, dandolo alla luce ancora imperfetto e immaturo, in mezzo ai primi fiori e ai primi frutti
spuntati in anticipo sulla stagione"; ed è per questo motivo che gli Egiziani gli offrivano i frutti
novelli delle lenticchie e festeggiavano i suoi natali dopo l'equinozio di primavera (28).

A proposito della malformazione delle gambe di Arpocrate, ricordiamo che secondo le spiegazioni
di Orapollo (29), l'immagine geroglifica dei piedi congiunti indicava l'arrestarsi del corso del sole nel
Solstizio d'Inverno, il che conferma la narrazione plutarchea che, come abbiamo già visto, collocava
la nascita del dio in tale periodo, sottolineandone implicitamente il simbolismo solare e alludendo,
in senso più ampio, al significato della figura di Arpocrate come simbolo della luce spirituale
sorgente dalle tenebre.
Nell'iconografia egiziana l'immagine di Arpocrate come bambino seduto su un loto riproponeva, del
resto, un tema già sviluppato dalla cosmogonia ermopolitana in cui il bambino divino, Ra o
Nofertum, simbolo della luce solare, era rappresentato sorgente dal loto al centro di Nun, l'ambiente
fangoso primordiale (30). Il fango delle paludi, misto di terra ed acqua, veniva infatti considerato
l'ambiente naturale di ogni generazione, mentre il loto rappresentava l'espressione di tale attività
generatrice (31).
Giamblico sottolinea il significato spirituale di tale immagine affermando che "il fatto di star seduto
su un loto simboleggia una superiorità sul fango che esclude qualsiasi contatto con questo e
significa una supremazia intellettuale ed empirea", e precisando quindi che la forma del loto si
collega alla forma ed al movimento circolare, che sono congeneri all'attività dell'intelletto (32).

Plutarco, le cui spiegazioni sono sempre estremamente illuminanti, aveva del resto già detto che
"Arpocrate non va considerato come un dio incompiuto, infante, nè tanto meno un qualsiasi dio dei
legumi: egli è invece il patrono e precettore dell'umana attività di comprensione del divino, che è
imperfetta e immatura e inarticolata. Ecco perchè il dio tiene il dito sulla bocca, come simbolo, cioè,
della prudenza e del silenzio" (33).
In tali affermazioni, il significato che gli antichi avevano attribuito alla figura del dio fanciullo nella
sua funzione di Dio del Silenzio e custode dei sacri Misteri viene sintetizzato in modo limpido ed
inequivocabile.

28
) Iside e Osiride (65), ed.cit. p.128
29
) Orapollo Niloo è il nome col quale è conosciuto un autore alessandrino vissuto fra il II e il IV secolo d.C., il cui
manoscritto venne portato in Italia nel 1419 dal fiorentino Cristoforo Buondelmonti; nel suo testo, l'autore sostiene che i
geroglifici egizi sono dei criptogrammi utilizzati per nascondere sotto veli simbolici verità di tipo esoterico. Cfr.
Horapollinis Niloi Hieroglyphica, 2, 3. (I ed. Aldo Manuzio, Venezia 1505) cfr. ed. Amsterdam 1835, p.64. Vedi anche
G.Pierio Valeriano, ed. cit. p.459
30
) Cfr. Giamblico: De Mysteriis Aegyptiorum VII, 250-252 (ed.it. Milano 1983, p.205-206 e nota 113 p.350. Vedi
anche L.Lamy: Misteri egizi, Milano 1982, p.10
31
) J.Lindsay: Le origini dell'Alchimia nell'Egitto greco-romano, Roma 1984, p.83. Dom Pernety, nel suo Trattato
dell'opera ermetica del 1758 (ed.it.Genova 1979) precisa che il fango costituisce la materia che assiste qualunque
generazione. Cfr. anche C.G.Jung: Psychologie und Alchemie, Freiburg 1975, p.134.
32
) De Mysteriis Aegyptiorum VII, 252, ed.cit. p.206. Un interessante parallelo si può stabilire col simbolismo del loto
presente anche nelle tradizioni orientali, in cui i chakras o centri sottili del corpo umano sono raffigurati appunto come
fiori di loto (cfr. A.Avalon: Il potere del serpente, Roma 1968)
33
) Iside e Osiride (68), ed.cit. p.131
Il significato del Silenzio di Arpocrate può essere ulteriormente chiarito da altri due passi. Nel
primo brano (34) Plutarco spiega che l'amuleto che Iside cinge al collo quando si accorge di essere
incinta viene interpretato come "Voce vera", il che indica che fin dal suo concepimento Arpocrate
assume una valenza simbolica connessa alla parola, anzi alla potenza creatrice e magica della voce,
in armonia con la convinzione degli antichi Egizi sul valore magico ed evocativo dei nomi e delle
formule pronunciate con la giusta intonazione di voce (35).

Il secondo brano (36) recita come segue: "Tra le piante che crescono in Egitto, dicono che a questo
dio sia particolarmente sacra le persea (37), perchè il suo frutto (simile alla pera) è a forma di cuore e
la foglia a forma di lingua. Di tutte le cose che la natura umana ha in sè, certo nessuna è più divina
della parola, soprattutto della parola che cerca di comprendere la divinità: e niente ha più efficacia
nella conquista della felicità. Per questo noi esortiamo chi scenda qui all'oracolo a pensare con
devozione e a parlare con rispetto".
Il collegamento fra il cuore, sede della volontà, e la lingua, strumento della sua realizzazione, nel
sottolineare il valore creativo della parola, ripropone un'altra concezione egiziana secondo cui "il
cuore pensa e la lingua comanda" (38): ciò significa che la parola è la diretta espressione della
volontà e pertanto, come espressione di un pensiero rettamente concepito, è il mezzo più efficace
per conquistare la felicità, ovvero per una compiuta realizzazione dell'essere.

L'apparente conflitto fra il valore attribuito alla parola pronunciata ed il gesto del silenzio di
Arpocrate trova la sua spiegazione nell'ammonimento alla prudenza ed al silenzio, che il saggio
deve osservare nella consapevolezza che la parola determina il destino, anzi si identifica con esso in
quanto espressione del valore trascendente e divino cui allude la formula glossa tukè, glossa
daimon, ovvero "La lingua è destino, la lingua è demone" (39), che accompagnava l'offerta dei
legumi (40) al dio.

Va detto ancora che il significato più comunemente attribuito al gesto del silenzio di Arpocrate era
quello di un ammonimento rivolto a quanti fossero iniziati ai sacri Misteri, di non divulgare i segreti
connessi ai riti iniziatici.
Tale convinzione, diffusa nell'antichità, viene riportata, nel XVI secolo, dal Cartari (41) quando
afferma, nel suo trattato sulle immagini degli antichi dei, che l'opportunità di tacere delle cose che
riguardano gli dei è stata personificata nell'immagine di specifiche divinità del silenzio quali la Diva

34
) Iside e Osiride (68), ed.cit. p.131
35
) E.A.Wallis Budge: Magia egizia, Roma 1980, p.14. Cfr. J.Zandee: Das Schöpferwort im alten Aegypten, in: Verbum,
Studia Theologica Rheno-Traiectina, VI 1964. Vedi anche M.Schneider: Il significato della musica, Milano 1979,
p.173. Cfr. Testi religiosi egizi, ed. cit. p. 25, 89, 115, 211
36
) Iside e Osiride (68), ed.cit. p.131: Plutarco si riferisce in questo passo all'oracolo di Apollo a Delfi, di cui era
sacerdote (cfr. nota 371, p.214)
37
) Sulla Persea vedi Plinio: Naturalis Historia, XIII, 17.
38
) Cfr. il testo della stele di S'abaka riportato in: Testi religiosi egizi, ed. cit. p. 93; vedi anche p.135
39
) Iside e Osiride (68), ed.cit. p.131
40
) Per il significato in genere dei legumi si veda Plinio: Naturalis Historia, XVIII,30-33. Per le lenticchie, in
particolare, vedi il capitolo 31. Per quanto riguarda le fave, ricordiamo che Pitagora vietava che si mangiassero
41
) Cartari, ed.cit. p.196.
Angerona (42) presso i Romani, Arpocrate presso gli Egizi e Sigalione presso i Greci.
Nella sua descrizione dell'immagine di Arpocrate il Cartari riferisce anche l'opinione secondo cui la
sua statua era posta nei templi del Bue Api o di Serapide "per avvertire le persone che tacessero, nè
osassero dire, che Api o Serapi fosse unqua stato huomo" (43).
Questa interpretazione sul significato delle figure mitiche si fondava sulla teoria esposta da
Evemero secondo cui il culto delle antiche divinità traeva origine dalla divinizzazione di uomini che
avevano promosso il progresso dell'umanità con la loro opera di regnanti, legislatori, inventori ed
eroi (44).
Plutarco, contestando con estrema decisione tali concezioni razionalistiche, le definisce delle
imposture ed accusa Evemero di aver diffuso nel mondo ogni specie di ateismo (45); ribadisce
quindi che il mito è il riflesso di una realtà trascendente (46) e afferma che "la tensione verso il vero,
e soprattutto il vero riguardo agli dei, è desiderio di divinità" (47).
Illustrando inoltre come gli dei possano rappresentare le personificazioni di princìpi naturali (48) e
come possano essere considerati in rapporto alle costellazioni (49), ai moti celesti e ai loro influssi,
Plutarco mostra la possibilità di interpretare i miti utilizzando molteplici chiavi di lettura in modo
da collegare in un unico sistema analogico i princìpi trascendenti, le vicende cosmiche, gli eventi
naturali e la natura umana.

Da quanto precede si può comprendere come il gesto del silenzioso Arpocrate, invitando a serbare il
segreto sulle conoscenze iniziatiche, costituisca anche un invito alla concentrazione ed alla
riflessione sui molteplici significati celati nelle antiche storie sacre.
In tal modo Arpocrate, posto a guardia dei sacri Misteri, ne diventa in un certo senso l'immagine
emblematica ed il gesto del silenzio diventa esso stesso il simbolo di una via di conoscenza fondata
sul raggiungimento del silenzio interiore (50) e sulla consapevolezza del potere della parola.

In epoca rinascimentale, il rinnovato interesse per il mondo antico e i suoi Misteri, unito al gusto per
l'allegoria erudita a sfondo morale, non poteva certo trascurare una figura suggestiva e ricca di
riferimenti simbolici come quella di Arpocrate, di cui il Cartari fornirà nel 1556 un'accurata
descrizione, arricchita da citazioni classiche e dalla riproduzione di alcune antiche immagini (51),
42
) Ricordiamo, a tal proposito, che la festa di Angerona era celebrata a Roma in occasione del solstizio d'inverno,
ovvero nello stesso periodo in cui si colloca la nascita di Arpocrate: cfr Macrobio: I Saturnali, trad.it. Torino 1987,
p.173. G.Dumézil: La religione romana arcaica, ed.it, Milano 1977, p.297
43
) Cartari, ed.cit. p.39-39: il Cartari riferisce, citando Erodoto, Varrone e S.Agostino, che "Api fu un re de gli Argivi il
quale andò in Egitto e fu così caro a quelle genti che dopo morte l'adorarono e lo tennero per suo Dio principale,
chiamandolo Serapi". Cfr. S.Agostino: De Civitate Dei, I,18
44
) Evemero di Messene, vissuto fra il IV e il III secolo a.C. aveva esposto la sua teoria in un'opera intitolata Ierà
Anagrafè (Scrittura sacra) che ebbe grande successo nel mondo antico
45
) Iside e Osiride (23), ed.cit. p.80
46
) Iside e Osiride (20), ed.cit. p.77
47
) Iside e Osiride (2), ed.cit. p.58
48
) Iside e Osiride (32 ss.), ed.cit. p.89 ss.: Osiride, per esempio, viene identificato con la natura umida, mentre Iside
rappresenta la terra fertile
49
) L'anima di Horus rappresenta infatti la costellazione di Orione, mentre quella di Tifone rappresenta l'Orsa e quella di
Iside la stella Sirio (Sothis) della costellazione del Cane: cfr. Iside e Osiride (21, 61), ed.cit. p.79, 124
50
) Sul Silenzio vedi Proclo: Filosofia caldaica (4), in I Manuali, Milano 1985, p.248 ss.
51
) V.Cartari: Imagini delli Dei de gl'antichi (Venezia 1556) ed. Venezia 1647, p.197-98 e 379. La descrizione del
Cartari viene ripresa nella lettera in cui Annibal Caro espone a Taddeo Zuccari (1562) il programma decorativo per la
mentre Pierio Valeriano, nel suo libro sugli Hieroglyphica, ribadisce il concetto che il dito posto
sulle labbra indica il Silenzio simboleggiato dalla figura di Arpocrate (52).

Riferendoci ora alle personificazioni allegoriche del concetto di Silenzio, troviamo che nel 1531
l'Alciati (53) aveva descritto il Silentium con l'immagine di un maturo studioso che, levando il capo
dai suoi libri, si volge verso l'osservatore portando il dito sulle labbra. Alcuni versi accompagnano
l'immagine:

Cum tacet quicquam differt sapientibus amens:


Stultiziae est index linguaque voxque suae.
Ergo premet labia, digitoque silentia signet,
Et sese Pharium vertat in Harpocratem

L'Alciati, affermando che l'uomo stolto (amens) non differisce dal sapiente finchè tace, ma che sono
le sue parole a rivelarne il carattere, sottolinea con diversi esempi il valore attribuito al silenzio
dall'uomo saggio e prudente, capace di trasformare se stesso nell'egizio (Pharium) Dio del Silenzio.

In modo analogo il Ripa, nella sua Iconologia pubblicata nel 1593, descrive il Silentio come
"Huomo vecchio, il quale si tenga un dito alle labbra della bocca e appresso vi sarà un'oca con un
sasso in bocca" (54), precisando che "l'età senile persuade facilmente il silentio come quella che
confida più ne' meriti, e nella fama acquistata, che nelle parole".

Giungiamo così all'immagine di Arpocrate affrescata verso l'inizio del XVII secolo nella Biblioteca
dell'Abbazia di Montescaglioso: in essa le concezioni sul Silenzio esposte dall'Alciati e dal Ripa
hanno sostituito i tradizionali modelli iconografici di Arpocrate fanciullo o giovinetto: nel "ritratto"
di Montescaglioso il Dio del Silenzio appare infatti come un anziano filosofo dalla lunga barba che
porta l'indice della destra alle labbra nel consueto gesto di intimare il silenzio, mentre con l'indice
della sinistra sembra indicare la parola Silentium che compare nella cornice ovale che circonda
l'immagine; nella scritta che si sviluppa in tale cornice si raccomanda infatti di aver caro il silenzio
per evitare che in futuro il tacere non debba essere amaro (Silentium sit vobis charum ut utinam
non sit amarum).
Concepita in tal modo, l'immagine non appare più come la dotta evocazione di una figura
mitologica, ma costituisce piuttosto una figura allegorica in cui il mitico nome di Arpocrate viene
utilizzato per esprimere un messaggio concettuale.
L'aspetto ieratico, facendo di Arpocrate un vecchio e saggio filosofo, allude alle doti di prudenza
tipiche della vecchiaia, ma, contemporaneamente, tale immagine veneranda può ben riferirsi anche
all'antichità ed al prestigio della tradizione sapienziale che il nome di Arpocrate evocava. Possiamo

camera da letto del cardinale Alessandro Farnese: cfr J.Seznec: La sopravvivenza degli antichi dei, Torino 1981, p.352
ss.
52
) G.Pierio Valeriano: Ieroglifici, (Basilea 1556) ed.Venezia 1625, p.467
53
) A.Alciati: Emblematum Liber (I ed. Augusta 1531) ed. Lugano 1600: Emblema XI, p.63
54
) C.Ripa: Iconologia (I ed. Roma 1593); ed. Torino 1986 (condotta sulla Nuova iconologia, edita a Padova nel 1618),
p.170
quindi ritenere che non a caso Pitagora, la cui immagine è stata dipinta nel successivo tratto di
parete, sia stato raffigurato imberbe e più giovane, in quanto in tal modo viene sottolineato il
rapporto di discendenza e di successione della tradizione pitagorica dalla più antica scienza egiziana
rappresentata dal mitico Arpocrate (55).

Nella seconda metà del XV secolo, in seguito alla riscoperta ed alla traduzione del Corpus
Hermeticum (56), si era infatti diffusa negli ambienti intellettuali la convinzione che la fonte
originale di ogni conoscenza dovesse essere cercata nell'antica sapienza egiziana ed il prestigio della
tradizione ermetica, ritenuta espressione di tali conoscenze, svolse un ruolo di grande importanza
nel quadro della generale rivalutazione del mondo antico, collegandosi a tradizioni, come quella
alchemica e quella astrologica, già vive nel Medioevo ed affini per spirito, princìpi e riferimenti agli
scritti ermetici. Pertanto la definizione di tradizione ermetica ha finito col riferirsi, oltre che agli
scritti del Corpus Hermeticum, a tutta una serie di opere antiche e meno antiche ispirate ai Misteri
antichi ed alle concezioni magiche, astrologiche e, soprattutto, alchemiche.
In un'incisione del 1555 (57) possiamo trovare un interessante collegamento fra la figura di
Arpocrate e la tradizione ermetica: vediamo infatti lo stesso Hermes, raffigurato come un giovanetto
con un candeliere a sette lumi nella mano sinistra, mentre, come Arpocrate, porta il dito alle labbra
per intimare il silenzio.

L'Arpocrate di Montescaglioso, immagine emblematica dell'antica scienza sacra, col suo gesto del
silenzio ne simboleggia l'aspetto occulto fondato sull'uso di un linguaggio incomprensibile ai
profani, ammonendo gli iniziati a non divulgare i segreti di tale simbolico linguaggio ed a parlare
delle cose sacre solo in forma velata.
La sua presenza nella Biblioteca di Montescaglioso, nel rivolgere ai pazienti e dotti monaci
dell'Abbazia il consueto invito alla prudenza ed al silenzio, ci avverte infine che sotto il velo dei
simboli e delle allegorie potremo scoprire le tracce dell'antica tradizione ermetica.

Il teorema di Pitagora

Se, come abbiamo già visto, la figura di Arpocrate rappresenta il simbolo dell'antica tradizione
sapienziale risalente agli Egiziani, l'immagine di Pitagora costituisce un esplicito riferimento alla
tradizione filosofica del mondo classico ed all'apporto fondamentale che al nascere di questa
tradizione dette la scuola pitagorica.

Mentre Arpocrate, intimando il silenzio, sottolineava l'aspetto segreto di una scienza la cui

55
) Fin dai primi secoli dell'Era cristiana era diffusa la convinzione che "l'Egitto fosse la fonte originaria di ogni scienza
e che i maggiori filosofi greci vi si fossero recati e avessero conversato coi sacerdoti del luogo": cfr. F.A.Yates:
Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969, p.17
56
) Il Corpus Hermeticum è un insieme di 15 trattati in forma di dialogo attribuiti ad un leggendario Ermete Trismegisto,
che già autori cristiani come S.Agostino e Lattanzio avevano ritenuto un personaggio storico molto più antico di
Pitagora e di Platone. Un manoscritto greco del Corpus Hermeticum fu portato a Firenze verso il 1460 e Cosimo de'
Medici ne ordinò la traduzione in latino a Marsilio Ficino (cfr. Yates, op. cit. p.25)
57
) A.Bocchi: Symbolicarum quaestionum...libri quinque, Bologna 1555. Cfr. F.A.Yates: L'arte della memoria, Torino
1972, fig.1
comprensione era riservata agli iniziati, Pitagora, raffigurato mentre traccia un diagramma
geometrico, sembra alludere piuttosto alla esposizione della stessa dottrina, occultata sotto il velo
simbolico del linguaggio matematico (58).
Il vincolo del segreto indicato dal gesto di Arpocrate aveva infatti per i Pitagorici un'importanza non
minore di quanto non avesse per la casta sacerdotale egizia o per gli iniziati ai Misteri isiaci o
eleusini. Pertanto, il metodo d'insegnamento della scuola pitagorica era fondato sull'antico uso di
simboli (59), per cui i Pitagorei, "conformemente all'obbligo del silenzio prescritto da Pitagora sui
misteri divini, usavano modi d'espressione incomprensibili ai non iniziati e nascondevano sotto i
simboli il senso delle loro discussioni o dei loro scritti".

Coloro che aspiravano a divenire discepoli di Pitagora venivano selezionati con estrema cura ed i
loro comportamenti erano esaminati per diversi anni prima che si decidesse di ammetterli alla
scuola; successivamente era loro imposto un periodo di silenzio di cinque anni in modo che
imparassero a "tenere a freno la lingua, come ci viene insegnato anche dai fondatori dei Misteri"
(60). Solo dopo aver superato positivamente tale prova i discepoli erano ritenuti degni di essere
ammessi alla presenza del Maestro e diventavano esoterici, in quanto "ascoltavano Pitagora dentro
la tenda e potevano anche vederlo" (61).
La vita delle comunità pitagoriche era organizzata in modo da promuovere la purificazione
dell'anima (catarsi) e l'educazione alla virtù, viste come condizioni indispensabili per accedere ai
beni della sapienza. Pitagora vietava rigorosamente la divulgazione delle sue dottrine in quanto solo
chi era stato educato in rettitudine e purezza poteva essere istruito: si narra che il pitagorico Ipparco
venne ripreso severamente perchè filosofeggiava in pubblico con i primi venuti e che un altro
pitagorico indiscreto, Ippaso, avendo rivelato per iscritto il segreto della sfera circoscritta al
pentagono-dodecaedro, morì in mare essendosi reso colpevole di sacrilegio (62).

Il grande prestigio che la scuola pitagorica ebbe nell'antichità e la curiosità che destava erano dovuti,
da un lato, alla fama acquisita per la virtù e la saggezza dei suoi componenti e per la loro capacità di
proporre modelli etici e politici volti a migliorare l'uomo e ad amministrare secondo giustizia la
società; dall'altro lato, però, l'interesse suscitato dalla dottrina pitagorea si fondava soprattutto sulla
convinzione che in essa fossero celati i segreti del cosmo, della natura e dell'anima umana.
Pitagora stesso appariva come un essere semi-divino che si diceva figlio di Hermes e che taluni
identificavano con Apollo Iperboreo (63) e si riteneva che sapesse percepire ed interpretare le
armonie dell'universo e che fosse dotato di poteri straordinari quali la bilocazione, la capacità di fare
miracoli, di ricordare le sue vite precedenti e di comprendere il linguaggio degli animali (64).
58
) Cfr. Proclo, In primum Euclidis Elementorum librum commentarii, 22,9: "Platone si servì di figure matematiche per
insegnarci molte cose meravigliose sugli dei; e i filosofi pitagorici si servirono di questi veli per dissimulare l'iniziazione
alla conoscenza dei dogmi sacri" cfr. la raccolta antologica: I Presocratici, Bari 1986, p.472
59
) Giamblico, Vita Pitagorica, 103, ed.it. Bari 1984 p.54: i simboli utilizzati nell'insegnamento pitagorico, sotto forma
di detti (227) o di segni grafici (238) assomigliavano a enigmi e indovinelli (247) o a fiabe (105)
60
) Vita Pitagorica, 72, ed.cit. p.37
61
) loc.cit., p.38
62
) Vita Pitagorica, 88-89, ed.cit. p.46
63
) Vita Pitagorica, 31, ed.cit. p.15. Giamblico riferisce pure che i seguaci di Pitagora dicevano che ci sono tre generi di
esseri viventi; esistono: gli dei, gli uomini e gli esseri come Pitagora
64
) Cfr. Presocratici, ed.cit. p.118-119; Vita Pitagorica, 60-62, ed.cit. p.29-30
Ma l'aspetto più affascinante della dottrina pitagorica va ricercato nel fatto che in essa sembravano
confluire tutte le forme di sapienza del mondo antico. Diogene Laerzio narra infatti che Pitagora
"giovane e avido di conoscenza, abbandonò la sua patria e fu iniziato a tutti i riti misterici, sia greci
sia barbari" (65); si recò presso i Caldei e i Magi apprendendo la loro scienza; andò in Fenicia e a
Creta dove penetrò nell'antro del Monte Ida; ma la tappa principale dei suoi viaggi d'istruzione fu in
Egitto dove "entrò nei santuari ed apprese gli arcani della teologia egiziana" (66).
Giamblico racconta poi che Pitagora, dopo essere stato in Egitto e a Babilonia, ritornò nella nativa
Samo all'età di 56 anni, ma se ne allontanò ben presto di nuovo e giunse in Italia nell'anno della 62a
Olimpiade (67). Stabilitosi a Crotone, vi fondò la sua scuola acquistando uno straordinario prestigio
al punto che i crotoniati affidarono ai suoi seguaci l'amministrazione della città. Pitagora divenne
pertanto, come dice Diogene Laerzio (68), il "fondatore della filosofia italica" influenzando in modo
decisivo la società contemporanea e i successivi sviluppi del pensiero filosofico.

A Pitagora ed alla sua dottrina si attribuisce infatti l'origine di diverse concezioni e conoscenze:
oltre ad essere stato il primo a dare il nome alla Filosofia (69), Pitagora "fu il primo a rivelare che
l'anima, secondo un ciclo di necessità, si lega ora ad un essere vivente, ora ad un altro; fu il primo
pure ad introdurre in Grecia misure e pesi, come dice Aristosseno il Musico, e il primo ad
identificare Venere con Lucifero, come dice Parmenide ... Fu anche il primo a chiamare il cielo
cosmo e la terra sfera" (70); fu inoltre lui che introdusse lo studio delle proporzioni, per primo trattò
dell'irrazionale e trovò la struttura geometrica dei corpi celesti (71).
A Pitagora venne anche attribuita (72) la scoperta dell'armonia musicale, intesa come riflesso delle
armonie cosmiche fondate su rapporti numerici e proporzionali: Pitagora tradusse tali rapporti
armonici nelle diverse tensioni delle corde del tetracordo e utilizzò la musica, concepita in tal modo,
a scopo terapeutico e come mezzo per la purificazione dell'anima.
L'austerità e il rigore dei Pitagorici non potevano non suscitare, insieme all'ammirazione, anche
sentimenti di avversione o di odio: un certo Cilone, eminente cittadino crotoniate che i Pitagorici
non avevano ammesso nella loro scuola, sollevò contro di loro parte della cittadinanza e durante un
soggiorno di Pitagora a Delo fu appiccato il fuoco alla casa in cui i Pitagorici si erano riuniti. In
seguito a questo episodio, che causò la morte di numerosi seguaci di Pitagora, i superstiti si

65
) Diogene Laerzio VIII, 2, ed.cit.p.321; successivamente Diogene Laerzio riporta l'affermazione di Aristosseno
secondo cui Pitagora avrebbe tratto la maggior parte delle sue dottrine etiche da Temistoclea, sacerdotessa di Delfi (8,
ed.cit.p.323)
66
) Diogene Laerzio VIII, 3, ed.cit.p.322. Cfr. Presocratici, ed.cit. p.116. Giamblico (Vita Pitagorica, 18-19, ed.cit.
p.10) narra che restò nei templi egiziani per 22 anni e "fu iniziato a tutti i misteri degli dei" e che di lì, fatto prigioniero
dai soldati di Cambise, passò in Babilonia dove fu istruito dai Magi in particolare nelle scienze dell'aritmetica e della
musica. Presso i Caldei, riferisce Hippolytus (Refutatio contra omnes haereses) avrebbe conosciuto lo stesso Zarathustra
(cfr. Presocratici, ed.cit. p.123)
67
) Vita Pitagorica 19 e 35, ed.cit. p.11 e 18: l'anno della 62a Olimpiade corrisponde al 532 a.C. Diogene Laerzio
VIII,45 (ed.cit. p.335) riferisce che la scuola di Pitagora fiorì nella 60a Olimpiade (540-37 a.C.)
68
) Diogene Laerzio, VIII,1, ed.cit.p.321
69
) Vita Pitagorica, 159, ed.cit. p.81
70
) Diogene Laerzio, VIII,14 e 48, ed.cit.p.325 e 336. Cfr. la citazione di Aëtius in Presocratici, ed.cit. p.131: "Pitagora
fu il primo a chiamare cosmo la sfera delle cose tutte, per l'ordine che esiste in essa"
71
) Proclo, op.cit. (65), 11 e 15Presocratici ed.cit. p.118 e 509
72
) Giamblico (115-21), ed.cit.p.60-63
dispersero conducendo, per lo più, vita solitaria (73). Lo stesso Pitagora, abbandonata Crotone, si
stabilì a Metaponto dove morì in tarda età e dove i Metapontini onorarono la sua memoria
consacrando la sua casa a Demetra e l'angiporto alle Muse (74).
Ancora oggi permane il ricordo dell'antico Maestro: secondo una tradizione locale, la Scuola di
Pitagora a Metaponto sarebbe stata ubicata nel territorio di Montescaglioso, nella località detta
Mesole, dove si ergono le cosiddette Tavole Platine, ovvero un gruppo di colonne doriche che
facevano parte di un tempio esastilo probabilmente dedicato ad Hera.

La scuola pitagorica sopravvisse al suo Maestro durando per nove o dieci generazioni (75) e, "perchè
il nome della Filosofia non scomparisse del tutto fra gli uomini" (76), alcuni dei Pitagorici
sopravvissuti all'incendio della casa di Milone e alle successive persecuzioni si risolsero a mettere
per iscritto le dottrine del loro Maestro, avendo però cura di non far cadere le loro opere in mano ad
estranei. Demetrio, negli Omonimi, riferisce che Filolao, pitagorico di Crotone, fu il primo a
pubblicare i testi pitagorici sulla natura: fu infatti da lui o dai suoi parenti che Platone potè
acquistare i tre famosi libri che utilizzò nella stesura del Timeo (77), dedicato, appunto,
all'esposizione delle dottrine pitagoriche sulla natura e di cui ricordiamo, oltre al brano
sull'Atlantide, la descrizione dei quattro elementi in rapporto ai solidi geometrici primari (78).
D'altronde, è proprio grazie a siffatte violazioni del segreto iniziatico che siamo venuti a conoscenza
di diversi aspetti della dottrina pitagorica, tramandatici da antichi cronisti e filosofi. Diogene
Laerzio cita un brano tratto dall'opera sulle Successioni dei Filosofi di Alessandro Poliistore che
riporta diversi insegnamenti tratti da Memorie pitagoriche (79), fra cui possiamo ricordare il
concetto della monade come principio di tutte le cose, l'esposizione della teoria dei quattro elementi
e la distinzione dell'anima umana in tre parti: intelletto (nous), mente (phrénas) e animo (thumòn).

La posizione di rilievo attribuita all'immagine di Pitagora all'interno del ciclo decorativo della nostra
Biblioteca è dunque da attribuire alla straordinaria importanza che la dottrina pitagorica ebbe sia
riguardo all'indagine filosofica ed alla definizioni di leggi ed armonie cosmiche, sia per il suo
aspetto educativo e per la cura rivolta alla purificazione dell'animo umano, al punto che, a distanza
di secoli, il nome di Pitagora costituiva ancora un preciso riferimento per quanti si volessero
collegare al patrimonio delle antiche conoscenze e tradizioni (80).

73
) Vita Pitagorica, 248 ss. ed.cit. p.121 ss. Diogene Lerzio, 39-40, ed. cit. p.333. Cfr. Presocratici, ed.cit.p.127;
Plutarco: Il Demone di Socrate, 583, ed.it. Milano 1982, p.83
74
) Vita Pitagorica, 170, ed.cit. p.88
75
) Diogene Laerzio (45), ed. cit. p.335. Giamblico (Vita Pitagorica, 265-267, ed.cit. p.129 ss.) enumera i Pitagorici noti
contando 218 uomini e 17 donne.
76
) Vita Pitagorica, 253, ed.cit. p.123
77
) Vita Pitagorica, 199, ed.cit. p.99. Cfr. Diogene Laerzio: Vite dei Filosofi VIII,7 trad.it.Bari 1987 p.349.
78
) I quattro corpi primari sono il cubo, attribuito all'elemento terra, l'icosaedro all'acqua, l'ottaedro all'aria e il tetraedro
al fuoco
79
) Diogene Laerzio, VIII, 24 ss., ed.cit. p.328 ss.
80
) La Y che si trova nello stemma del quartiere napoletano di Forcella viene ritenuta un simbolo pitagorico legato al
persistere della scuola pitagorica a Napoli; di Arnaldo da Villanova, medico e alchimista del XIII secolo, si diceva che
appartenesse ad una setta pitagorica ancora diffusa in Italia (cfr. F.Jollivet-Castellot: Storia della scienza alchimica,
Roma 1981, p. 60) e Colantonio Stigliola, matematico napoletano del XVI secolo, amava definirsi filosofo pitagorico
(cfr. G.G.Origlia: Istoria dello Studio di Napoli, Napoli 1754, vol.II p.411). Del resto, a Pitagora sono fatte risalire,
secondo diversi antichi manoscritti e testi, le stesse origini leggendarie della Massoneria (cfr. Atti del Convegno
Pitagora 2000, Roma 1985, p.125)
Entrambe le tematiche citate, e soprattutto la seconda, appaiono ampiamente sviluppate all'interno
del ciclo decorativo con un metodo simbologico che si collega tanto ai simboli pitagorici quanto al
concetto del silenzio arpocrateo.

L'iconografia di Pitagora ci mostra spesso il maestro mentre suona uno strumento a corda, come
negli stalli della Cattedrale di Ulm. Nell'immagine di Montescaglioso Pitagora è raffigurato invece
mentre traccia un disegno geometrico, sottolineando il concetto che proprio gli insegnamenti
matematici e geometrici costituivano il fondamento più profondo della dottrina pitagorica, di cui
l'armonia musicale rappresentava piuttosto un'applicazione.
Il grafico tracciato dal Pitagora di Montescaglioso descrive la dimostrazione del primo Teorema di
Euclide ma potrebbe anche riferirsi alla dimostrazione, a noi ignota, che i Pitagorici davano del
Teorema di Pitagora, dimostrazione di cui parla Proclo (81), e che doveva essere diversa e più
semplice e naturale rispetto a quella euclidea.
La particolare importanza attribuita dai Pitagorici al triangolo rettangolo ed alle sue implicazioni
filosofiche riecheggia nelle pagine di Platone che, nel Timeo, parla del triangolo perfetto (il
triangolo rettangolo la cui ipotenusa è il doppio del cateto minore), figura generatrice, insieme a
quello isoscele, delle forme geometriche relative ai quattro elementi (82); inoltre, nella Repubblica,
possiamo trovare un'allusione al rapporto 3:4:5 del triangolo pitagorico inteso come base di una
delle armonie che governano le generazioni umane (83). Va notato a tal proposito che nella figura di
Montescaglioso, mentre il triangolo ABC sembra avvicinarsi al rapporto 1:2 fra cateto e ipotenusa,
il rapporto 3:4:5 può riconoscersi nel triangolo AKF, intorno al quale sembra che il compasso retto
da Pitagora stia per tracciare una circonferenza.
Lasciando che altri, con maggiore competenza, vogliano approfondire tale geometrico discorso, ci
limiteremo, per concludere, a ricordare che gli Egiziani, per tracciare angoli retti e triangoli
rettangoli sul terreno, si servivano di una corda a 12 nodi (che veniva piegata secondo il rapporto 3-
4-5, determinando angoli retti e proporzioni) in modo da dividere le superfici e tracciare, secondo
misure e proporzioni sapientemente calcolate, la pianta dei loro templi.

Il sacro e l'allegoria

Al centro della parete meridionale della Biblioteca, di fronte ad Arpocrate e a Pitagora, troviamo
l'Arcangelo Michele, titolare dell'Abbazia, mentre minaccia con la sua spada il diavolo che si
contorce sotto i suoi piedi.
Intorno alla figura centrale di S.Michele si sviluppa la seconda parte del programma iconografico
della Biblioteca, contrapponendo, o meglio, facendo succedere ai Filosofi dell'antichità pagana, i
Santi e le immagini allegoriche della tradizione cristiana e delineando un unico percorso logico in
cui entrambe le tradizioni concorrono alla salvezza dell'uomo mediante la saggezza e la pratica delle
virtù.

81
) Proclo: Commento sul Primo Libro di Euclide. Cfr. A.Reghini: La tradizione pitagorica massonica, Genova 1988,
p.156. Un grafico simile a quello di Montescaglioso era usato anche dagli Arabi per la dimostrazione del Teorema di
Pitagora, come si può vedere in un manoscritto del IX secolo degli Elementi di Euclide
82
) Timeo (20), ed.it. Torino 1970, p.460-63
83
) Repubblica (546), ed.it. Milano 1981, p.282-84. Vedi anche R.Guenon: La Grande Triade, Roma 1971, p.131-32
Lo stesso simbolismo di S.Michele si presta, del resto, ad una interpretazione che va al di là della
semplice e generica formulazione di un concetto morale: nell'Arcangelo che sconfigge il male in
forma di demonio o di drago (84) riconosciamo infatti il tradizionale schema mitologico della lotta
che dei o eroi, simboli del bene e del principio luminoso, conducono contro le forze oscure del
male, siano esse rappresentate da mostri, da draghi, serpenti o diavoli (85).
Volendo meglio intendere cosa tali draghi e serpenti vogliano significare, non dobbiamo stupirci di
riconoscere loro immagine in cielo sotto forma di costellazioni (86); nella stessa Apocalisse (12, 3),
del resto, il simbolismo stellare del drago che minaccia la Vergine è esplicitamente espresso.
L'azione di S.Michele che precipita il drago sulla terra sembra quindi esprimere un concetto ben
preciso, cioè la proiezione sulla terra di una forza cosmica, che, dominando il mondo della materia
ed il ciclico avvicendarsi delle nascite e delle morti, prosegue la sua azione a danno della Donna e
della sua discendenza (87).
Al contrario, la presenza di S.Michele con la sua bilancia nelle scene del Giudizio Finale, indica che
all'Arcangelo è affidato anche il compito di sovrintendere al giudizio, ovvero alla pesatura delle
anime per consentire o meno il loro accesso al Cielo (88).
Diventa in tal modo evidente il doppio significato del simbolismo di S.Michele che, in quanto
principio luminoso e solare, ma sarebbe più esatto dire polare (89), domina da un lato le correnti
cosmiche nella loro discesa sulla terra, mentre, dall'altro, rende possibile l'ascesa delle anime e,
quindi, il moto verso l'alto dello spirito che, liberatosi dalla materia, ritorna al Cielo.

Ed è appunto a tale possibilità di elevazione che si riferisce, in modo evidente, l'intero programma
iconografico della Biblioteca di Montescaglioso, volendo significare che la via della salvezza, già
indicata dai sapienti dell'antichità, e quindi dai Santi, dai mistici e dai dottori della chiesa, consiste
nella progressiva liberazione dello spirito dai vincoli della materia: le emblematiche immagini
contenute negli otto riquadri che si alternano, lungo tre delle quattro pareti, ai personaggi sacri ed
alle raffigurazioni delle Virtù, completano il ciclo degli affreschi, illustrando, in chiave ermetica, le
tappe del processo di sublimazione della materia prima e, quindi, di esaltazione della componente
spirituale dell'uomo.

Prima di passare ad esaminare i messaggi di questa preziosa testimonianza di un linguaggio

84
) Apocalisse, 12, 7 ss.
85
) Citiamo, fra gli innumerevoli esempi che la mitologia offre, le lotte di Zeus contro Tifone, di Horus e Seth, del dio
babilonese Marduk contro il mostro Tiamat, di Apollo contro il serpente Pitone, di Giasone, Cadmo o Sigfrido contro il
drago, fino a giungere S.Giorgio ed ai Santi vincitori di draghi.
86
) Ci riferiamo, in particolare, alla costellazione circumpolare detta, appunto, del Drago
87
) Apoc. 12, 13-18. L'immagine del serpente avvolto intorno al globo terrestre può simboleggiare anche il drago lunare,
ovvero il moto della luna intorno alla terra e la conseguente suddivisione del tempo in cicli lunari
88
) In tal senso il simbolismo di S.Michele è analoga a quello della dea egizia Maat (personificazione della giustizia e
della verità) che sovrintende alla pesatura delle anime (psicosatasia) coadiuvata da Thot e Anubi. Il greco Hermes
svolge, come guida delle anime, una funzione simile: per questo talvolta all'angelo Mikaël viene attribuito un significato
mercuriale in luogo di quello, più consueto, di angelo solare (cfr. R.Guenon: Forme tradizionali e cicli cosmici, Roma
1974, p.112.
89
) R.Guenon (Il Re del Mondo, Roma 1971, p.26) precisa che Mikaël rappresenta la faccia luminosa di Metatron,
concepito dai cabalisti come principio divino, paredro della Shekina (ovvero della manifestazione di Dio sulla terra) e
simbolo del polo celeste. In tal senso S.Michele rappresenta una diretta emanazione del principio divino, il che spiega il
senso della formula Quis ut Deus incisa sul suo scudo.
simbolico troppo spesso trascurato o ignorato, ci sia consentito di soffermarci brevemente sulle altre
immagini, più consuete, ma non meno significative, che ornano le pareti della nostra Biblioteca, e
che contribuiscono a costituire, nella sapiente logica del discorso simbolico, un vero e proprio teatro
della memoria in grado di rivelare, agli occhi ed alla mente di un osservatore attento, il percorso
tracciato dai pazienti e saggi monaci per seguire la via dello studio, della meditazione e della pratica
della virtù.

Nel frammento dell'Incoronazione della Vergine, dipinta al centro della parete orientale, possiamo
riconoscere il punto d'arrivo del discorso simbolico in quanto tale scena rappresenta appunto
l'avvenuta purificazione del corpo ed il suo ricongiungimento con lo Spirito divino (90).
Il riquadro centrale è affiancato dai Santi Domenico e Francesco che, come fondatori dei rispettivi
Ordini, indicano due possibili vie da seguire, l'una prevalentemente mistica, l'altra attiva, basata
sullo studio, la predicazione e la lotta contro l'eresia.
Agli angoli della parete sono dipinti gli stemmi della Congregazione benedettina e dell'Abbazia di
Montescaglioso retti da coppie di angioletti: il primo reca la scritta PAX che si innalza su un monte
a tre cime dal quale si erge, attraversando la A, una croce cardinalizia a due bracci orizzontali. Il
secondo stemma mostra invece gli attributi di S.Michele: la spada, con la punta rivolta verso l'alto e
la bilancia.
In entrambi gli stemmi notiamo la presenza di un asse centrale rappresentato dalla croce o dalla
spada coincidenti con gli spigoli della parete. Inoltre, lo stesso collegamento dei simboli della
Giustizia (la spada e la bilancia di S.Michele) con la parola PAX indica l'unione dei due concetti di
Giustizia e Pace, che ritroviamo nella duplice funzione reale e sacerdotale attribuita al personaggio
biblico di Melchisedec, rappresentante sulla terra del potere divino espresso nelle sfere superiori da
Metatron e da Mikaël e quindi proiezione terrestre del Polo celeste e della sua luce spirituale (91).
Sulla parete di fronte, al centro, sono raffigurati S.Benedetto e S.Scolastica, fondatori dell'Ordine
Benedettino, fra i quali appare la colomba dello Spirito Santo. Negli angoli della stessa parete
appaiono un Santo Vescovo che regge un libro aperto poggiando il piede su una pietra cubica e,
nell'angolo opposto, S.Girolamo in abiti cardinalizi col suo leone: nel primo possiamo vedere
un'allusione al lavoro spirituale come pratica, in analogia allo sgrossamento delle pietre da
costruzione ed alla edificazione del tempio di Dio, mentre nel secondo troviamo un invito alla
meditazione sulle Sacre Scritture di cui S.Girolamo fu il dotto traduttore. Non ci sembra a tal
proposito casuale il fatto che l'immagine di S.Girolamo, il cui attaccamento alle lettere classiche è
ben noto, sia stata dipinta nell'angolo contiguo alla parete su cui sono raffigurati proprio quegli
antichi filosofi da lui tanto amati.

Le raffigurazioni allegoriche delle Virtù Cardinali e Teologali che si succedono lungo le pareti
meridionale e occidentale suggeriscono, secondo i consueti significati di tali allegorie, il modo per
raggiungere uno stato di perfetto equilibrio etico e comportamentale.
La Giustizia, raffigurata armata e con la bilancia, apre la serie ricordando all'uomo il rispetto del
90
) Nell'interpretazione data dagli alchimisti tale scena rappresenta la sublimazione della Materia prima corporea: cfr.
C.G.Jung, op. cit. p. 479-80 e 488-90
91
) Melchisedeq (Genesi, 14,18) era re e sacerdote a Salem (che significa Pace), mentre il suo nome (Melqui-Tsedeq)
significa Signore di Giustizia. Cfr. R.Guenon: Il Re del Mondo, ed.cit. p.45 ss.
diritto naturale e della legge (92); segue la Speranza, coperta da un mantello verde, che reca un
canestro con delle uova dalle quali nascono dei pulcini, mentre dopo la figura di S.Michele
troviamo la Fede che alza il Calice con l'Ostia.
L'allegoria successiva mostra una figura con le mani giunte e priva di attributi: potrebbe raffigurare
la Carità, ma tale virtù potrebbe essere meglio espressa nell'immagine della Virgo lactans del
riquadro seguente; riteniamo pertanto che la figura orante possa piuttosto riferirsi alla Virtù della
Prudenza (93), l'unica che altrimenti verrebbe a mancare nella serie canonica delle sette Virtù, dal
momento che le ultime due, la Forza (con la colonna spezzata) e la Temperanza (coi suoi due vasi)
sono raffigurate sulla parete occidentale, ai due lati del riquadro di S.Benedetto e S.Scolastica.

Il segreto degli emblemi

Le nostre osservazioni sulla Biblioteca di Montescaglioso si concludono con la serie di immagini


emblematiche che si snoda lungo tre delle pareti ed ognuna delle quali occupa il centro di un
riquadro ornato da eleganti grottesche.
Riteniamo che si possa vedere in queste immagini la parte più segreta degli insegnamenti della
Biblioteca: nella serie degli otto emblemi possiamo infatti riconoscere l'allusione alle principali
tappe di un percorso di realizzazione spirituale, descritte nel linguaggio simbolico proprio della
tradizione alchemica. Nè deve destar meraviglia la presenza di alchemiche simbologie in una
biblioteca monastica dal momento che, fino al XVIII secolo, la cultura ermetica ebbe straordinaria
diffusione e godette di grande considerazione, cosa di cui troviamo nell'arte e nella decorazione di
ambienti sia sacri che profani numerose e illustri testimonianze (94).
L'inventore di questa serie di enigmatiche immagini e dell'intero ciclo di affreschi dovette dunque
appartenere a quella schiera di intellettuali sensibili al fascino delle antiche tradizioni ed esperti
nell'uso delle allegorie e dei simboli, che spesso in quei secoli, dettando le loro istruzioni agli artisti,
tradussero in un programma iconografico le loro conoscenze.
Il fatto che all'interno dell'Abbazia di Montescaglioso vi fossero un'erboristeria ed un lambicco, cioè
un laboratorio attrezzato per operazioni chimiche quali soluzioni, distillazioni, sublimazioni, ecc., ci
consente di ipotizzare che gli insegnamenti simbolici di un'alchimia intesa come pratica spirituale
potessero trovare un preciso ed affascinante punto di riferimento nelle chimiche esperienze dei
monaci all'opera presso forni ed alambicchi.

Gli emblemi utilizzati nella Biblioteca di Montescaglioso (95) rientrano in un particolare genere
espressivo, che ebbe grande diffusione nel Rinascimento e che si serviva di un'immagine

92
) Cicerone, De Officiis II, 11,40
93
) Sulla Prudenza e le sue parti (fra le quali va notata la Memoria), vedi Cicerone: De Inventione II 53,160, Alberto
Magno: Trattato sulla natura del bene, IV, ed.it. Milano 1987, p.477 ss.
94
) Sulla diffusione del simbolismo alchemico, si vedano, fra gli altri: M.Calvesi: Arte e alchimia in: Art dossier n.4,
1986; G.Lensi Orlandi: Cosimo e Francesco de'Medici alchimisti, Firenze 1978; A.Schwarz: L'immaginazione
alchemica, Milano 1979; AA.VV. Giorgione e la Cultura Veneta tre '400 e '500 (Atti del Convegno di Studi), Roma
1981
95
) Il termine Emblemata era adoperato anticamente per indicare delle figurazioni decorative a mosaico o anche gli
ornamenti di vasi, abiti e altri manufatti; con lo stesso termine venivano anche designate le incisioni dei sigilli o le
insegne delle botteghe. Cfr. R.Alleau: La scienza dei simboli, Firenze 1983, p.138-139
accompagnata da una frase o da versi che ne spiegassero e ne sottolineassero il significato, per
comunicare, in forma più o meno velata, concezioni etiche, idee filosofiche o nozioni universali:
l'arte degli emblemi si fondava infatti sulla convinzione, già espressa da Marsilio Ficino, che gli
antichi sacerdoti egizi avessero utilizzate immagini in luogo di caratteri scritti "quando volevano
significare i misteri divini" (96). Ricordiamo, nell'ambito di tale genere letterario-artistico, la bella
raccolta degli Emblemata composti dall'Alciati e quella, di soggetto alchemico, di Michael Mayer,
illustrata da splendide incisioni accompagnate da epigrammi e fughe musicali (97).
Carattere simile a quello degli emblemi avevano le imprese, che, derivando dalle Divise delle Armi
gentilizie, rappresentavano anch'esse un tipo di messaggio visivo costituito da un'immagine (corpo)
e da una sintetica frase, ridotta a volte ad una sola parola (anima o motto) ed avevano generalmente
lo scopo di manifestare i nobili intenti, gli ideali o le concezioni etiche di una persona, di una
famiglia o di un gruppo (98).
La distinzione fra emblema e impresa è quanto mai sottile; pertanto, le otto figurazioni della nostra
Biblioteca potrebbero essere considerate delle imprese per la costruzione sintetica dei corpi e delle
anime o nell'ipotesi che si tratti di imprese personali. Tuttavia, per la coerenza del discorso ermetico
che si può leggere in esse, riteniamo che si debbano considerare soprattutto come degli emblemi
composti per illustrare, in chiave impersonale e filosofica, le principali fasi dell'opera alchemica
definendo, per analogia, una via di realizzazione spirituale.

Dobbiamo a questo punto fare anche alcune riflessioni sulle grottesche che circondano i nostri
emblemi, rispetto alle quali dovremmo dire, citando Gombrich, che esse sono "il prodotto di
un'immaginazione irresponsabile lasciata libera a se stessa" (99).
Tuttavia, se questo può essere senz'altro vero nel caso in cui all'artista si richiedeva di decorare in
modo elegante e veloce degli spazi ampi ma poco rappresentativi, come vani di passaggio, corridoi
o logge, lo stesso principio può non essere valido in un ambiente limitato come la nostra Biblioteca,
in cui invece tutte le componenti del programma decorativo sembrano rispondere ad un disegno
unitario quanto mai preciso e coerente.
Se, da un punto di vista formale, le grottesche della Biblioteca rientrano senz'altro nella consueta,
bizzarra tipologia di questo genere di decorazione, dal punto di vista dei riferimenti simbolici i
rapporti fra tali fantastiche figurazioni e i soggetti rappresentati negli emblemi centrali ci sembrano
alquanto evidenti.

96
) Cfr. E.H.Gombrich: Immagini simboliche, Torino 1978, p.226
97
) La prima edizione degli Emblemata Andreae Alciati è quella parigina del 1534, cui hanno fatto seguito numerose
altre edizioni in latino ed in italiano. Il titolo dell'opera di Michael Maier, medico dell'Imperatore Rodolfo II, è: Atalanta
fugiens, hoc est Emblemata nova de secretis naturae chymica; la prima edizione, ornata da 50 splendide incisioni di
carattere ermetico, fu stampata da J.Theodor de Bry nel 1618
98
) Le regole della composizione delle Imprese furono dettate da Mons. Paolo Giovio, Vescovo di Nocera nel 1529, che
raccomandò, fra l'altro, che l'Impresa "non sia oscura, nè tanto chiara che ogni plebeo l'intenda". Cfr. P.Guelfi Camaiani:
Dizionario araldico, Milano 1940, p.312. J.Gelli: Divise-motti e Imprese di famiglie e personaggi italiani, Milano 1928,
p.4
99
) Gombrich, op.cit. p.31. La decorazione a grottesche, ispirandosi agli antichi partiti ornamentali romani, si fondava
sul disegno di aeree e fantasiose strutture vegetali o vagamente architettoniche, popolate da una moltitudine di figurine
tratte dai repertori mitologici o dai bestiari e generalmente composte secondo schemi simmetrici ai lati o intorno a delle
figurazioni centrali.
Iniziamo il nostro percorso dalla parete orientale, alla destra della scena dell'Incoronazione della
Vergine, che, come abbiamo già avuto modo di considerare, costituisce il culmine dell'intero ciclo
iconografico.
Il primo emblema presenta una scritta in caratteri ebraici sormontata da un filatterio in cui si
leggono le parole ...DEI VENER... La scritta risulta essere una citazione del primo Salmo di Davide:

Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi,


non indugia nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli stolti;
ma si compiace della Legge del Signore
e la sua Legge medita giorno e notte.

In questi versetti si riflette, in modo mirabile, il senso dato al ciclo decorativo della Biblioteca che,
proponendo modelli di saggezza, di santità e di virtù, sembra raccomandare appunto di seguire la
Via del Signore, meditando giorno e notte la sua Legge, in modo da operare per la salvezza e la
rinascita dello Spirito, evitando la via degli empi e dei peccatori, perchè non reggeranno gli empi
nel giudizio, nè i peccatori nell'assemblea dei giusti.
La decorazione a grottesche che circonda questo primo emblema è quasi uguale a quella che orna
l'altro riquadro posto sulla stessa parete ed in essa si può riconoscere una sintesi simbolica riferita
sia agli elementi iniziali che alla fase finale dell'Opera alchemica, al cui senso di via spirituale
alludono invece le parole del Salmo.

Nel primo riquadro della parete meridionale troviamo un'immagine che potremmo definire
l'Impresa del Corvo e del Sole in quanto mostra, all'interno di una cornice rettangolare, un corvo dal
cui becco parte un filatterio su cui si legge SIDUS DEI ES...Nella parte superiore vediamo una fascia
circolare che rappresenta il percorso del sole durante il ciclo annuale, e nella quale si legge:
NONDUM IN AUGE.
Il simbolismo del corvo si presta a molteplici interpretazioni: se da un lato, in rapporto al suo
allontanarsi dall'Arca di Noè, il corvo è stato paragonato al peccatore che indulge alle delizie terrene
e rinvia al domani la sua conversione, dall'altro, recando nutrimento al profeta Elia o agli eremiti
Antonio e Paolo, è stato considerato come simbolo del soccorso divino; al corvo è inoltre attribuita
intelligenza e acutezza d'ingegno (100) e la funzione di rivelatore di segreti: il dio germanico Odino
era infatti accompagnato da due corvi, Hugin e Munin, i cui nomi indicavano il pensiero e la
memoria, mentre di S.Benedetto si racconta che venne salvato da un corvo che gli rivelò la presenza
del veleno nel cibo (101).
Nella letteratura e nell'iconografia alchemica l'immagine del corvo assume straordinaria importanza
in quanto col suo scuro piumaggio indica la Nigredo o Opera al nero e la fase della Putrefazione,
durante la quale la materia preparata dall'alchimista si decompone permettendo l'estrazione dei suoi
princìpi: infatti, "se la materia non si è putrefatta e mortificata, non potete estrarre i nostri princìpi
ed i nostri elementi ... Questa fermentazione è molto lunga e bisogna avere molta pazienza, perchè

100
) Diz. arald. p.210
101
) J.da Voragine: Legenda aurea, ed.Paris 1967, p.239
essa si compie per mezzo del nostro fuoco segreto che è il solo agente che può aprire, sublimare e
putrefare" (102).
Definito da Fulcanelli "sigillo canonico dell'opera", il corvo, indicando la prima manifestazione
della dissoluzione della materia, è anche il segno della futura generazione dello zolfo metallico,
prima acquisizione del principio attivo e purificato dell'Opera (103).
Il senso di questo simbolico linguaggio è che, come la morte e la corruzione del corpo sono
condizioni necessarie per la liberazione dell'anima e così come nei riti iniziatici la fase della
mortificazione prelude alla futura rigenerazione, allo stesso modo la putrefazione del compost
alchemico è indispensabile per estrarne e purificarne i princìpi attivi.
Il sole che sovrasta il corvo, dichiarando di non essere ancora giunto al culmine del suo percorso,
sottolinea la necessità di una paziente attesa fino al compimento di questa oscura fase, quando la sua
luce acquisterà un nuovo e più puro splendore.
Le grottesche che circondano l'Impresa del Corvo sembrano invece alludere alla natura del compost
la cui putrefazione costituisce il soggetto dell'impresa esaminata e la cui composizione è indicata
dai due grifoni che si dipartono dal volto centrale, simboli dell'unione del principio volatile e
mercuriale, paragonabile al pensiero o all'anima, con quello fisso e sulfureo del corpo. Le rondini
che, scioltesi dai lacci che le trattenevano, volano verso l'alto, indicano la liberazione delle parti
volatili e, quindi, l'elevarsi del pensiero.

Il successivo emblema mostra una torre sui cui merli poggiano tre aquile sormontate dalla scritta:
VIGILANS DUCET; una quarta aquila si leva in volo al di sopra della torre, recando con sè il giovane
Ganimede e su di essa un filatterio recita: UT FUGA IN COELUM.
Il riquadro è sormontato da un'ultima aquila che, ad ali spiegate, sintetizza il senso complessivo
della figura come immagine della Sublimazione filosofica: far volare l'aquila significa infatti,
secondo l'espressione ermetica, "far uscire la luce dalla tomba e portarla alla superficie" (104). Come
il corvo, anche l'aquila è uno degli animali più rappresentativi del bestiario ermetico, simbolo delle
parti volatili della materia e delle sublimazioni necessarie a liberare il Mercurio, ovvero l'anima o il
pensiero, dalle sue parti grossolane e terrestri e dalla umidità superflua.
In tal senso, Ganimede rappresenta la parte fissa della materia che, rapita dall'aquila, si eleva fino
alla sommità del vaso filosofico, in modo da purificarsi per poi successivamente ridiscendere sotto
forma di pioggia e fissarsi nella materia solida da cui si ricaverà la Pietra filosofale (105).
Mentre la torre indica il forno alchemico o Athanòr, il numero delle aquile si riferisce alla necessità
di ripetere più volte la stessa operazione, finchè le parti volatili della materia non saranno riuscite a
divorare il leone o a sciogliere l'oro, cioè a disciogliere, assorbire ed assimilare la parte fissa del
corpo, paragonabile, come abbiamo visto, agli aspetti più materiali della personalità umana.

102
) Bernardo il Trevisano: La Parole delaissée, Paris 1618, p.39, cit. in Fulcanelli: Il Mistero delle Cattedrali, Roma
1972, p. 84
103
) Cfr. Il Mistero delle Cattedrali, ed.cit. p. 82. Vedi anche, sempre di Fulcanelli: Le Dimore Filosofali, Roma 1973,
vol.I p.185
104
) Cfr. Il Mistero delle Cattedrali, ed.cit. p. 93
105
) Dom Pernety: Dictionnaire mytho-hermetique, Paris 1787 (ried. Denoël, Paris 1972), p.147. Sul simbolismo di
Ganimede come "l'anima che si eleva per l'amore di Dio" vedi anche R.Piccininni: Il mito di Ganimede in ambiente
veneto fra '400 e '500, in: AA.VV. Giorgione e la Cultura Veneta tre '400 e '500 (Atti del Convegno di Studi), Roma
1981
Il riquadro centrale è sorretto da una specie di Sirena alata, in cui possiamo riconoscere l'emblema
del Mercurio filosofico (106), oltre che l'allusione ad un particolare tipico di recipiente chimico,
simile alla storta (107).
Il parallelo con l'esigenza di elevare i propri pensieri è fin troppo evidente perchè convenga
soffermarcisi ulteriormente, mentre dal testo del primo filatterio ricaviamo un utile ammonimento
sulla vigilanza necessaria per condurre a buon esito le operazioni intraprese.
Molto interessanti sono poi le due figure che fiancheggiano il riquadro centrale, un'orsa al di sopra
della quale si legge la scritta TEMPUS ET HORA ed una scimmia, entrambe muniti di clessidra ad
indicare il controllo che va esercitato sul tempo nel corso dei lavori. Va notato che questa stessa
bizzarra coppia di animali, l'uno tipico delle terre settentrionali e l'altro di quelle meridionali, si
ritrova al seguito della dea Iside, nel corteo descritto da Apuleio (108), in cui l'orsa è abbigliata come
una matrona, mentre della scimmia viene detto che porta una coppa come Ganimede (109). I sette
uccelli svolazzanti si ricollegano al concetto della materia volatile, mentre i due uccelli in gabbia
alludono, al contrario, a quella che viene definita la fissazione del volatile.

Il riquadro che segue presenta, nella decorazione a grottesche, alcuni punti in comune con quello
appena esaminato: sono rimasti gli uccelli in gabbia ed anche la sirena che sorregge il quadro
centrale, simboli, entrambi, del Mercurio filosofico; mancano invece gli uccelli svolazzanti, in
modo da confermare che il volatile è stato ormai fissato; inoltre, l'orso e la scimmia sono stati
sostituiti da un leone ed un'altra fiera dalla pelle maculata, che continuano a reggere delle clessidre,
conservando un significato legato all'esigenza di osservare dei tempi ben stabiliti.
L'emblema centrale, sormontato dall'immagine del pellicano, ha conservato la torre-athanòr, ma le
aquile sono scomparse, mentre la porta dell'alchemico fornello sembra dischiudersi. ULTRO LESUS
AMAT recita l'iscrizione del sovrastante filatterio, avvertendo che, come il pellicano, squarciandosi il
petto, nutre i piccoli col suo sangue, allo stesso modo il Mercurio filosofico, purificato e sottoposto
a nuove cotture, è in grado di moltiplicare il suo potere, trasmettendo la sua energia luminosa e
vitale. Il che corrisponde, del resto, al significato attribuito al pellicano nella simbologia cristiana in
rapporto al potere rivivificatore del Sangue di Cristo (110).
In termini di pratica operativa, il pellicano simboleggia il procedimento della coobazione, che
consiste nel ridistillare un liquido sulle stesse materie da cui era stato ottenuto come primo prodotto
della distillazione: l'apparecchio di cui gli alchimisti si servivano per compiere questa operazione
era detto, appunto, pellicano e consisteva in un alambicco dal cui capitello partivano due tubi che

106
) Col termine di Mercurio filosofico gli alchimisti indicavano il risultato delle ripetute sublimazioni, in seguito alle
quali il corpo è stato spiritualizzato e l'anima ne ha acquistato un altro di maggior valore: cfr. Dimore Filosofali, vol.I
p.226 ss.
107
) Vedi G.Testi: Dizionario di alchimia e di chimica antiquaria, Roma 1960, p.170
108
) Apuleio: Metamorfosi, 12, 8
109
) Ritroviamo ancora una situazione analoga fra le decorazioni ermetiche (realizzate nella seconda metà del XV
secolo) che ornano il castello di Plessis-Bourré, in cui un'orsa reca sul dorso due scimmie, l'una che suona una tromba ed
è attaccata ad una pesante catena, l'altra con un'asta da equilibrista ed una corda al collo. Cfr. E.Caseliet: Deux Logis
Alchimiques, Paris 1979, p.192 ss.
110
) L.Charbonneau-Lassay: Le Bestiaire du Christ, ried. Archè 1974, p.559. Cfr. Stolcius de Stolcenberg: Viridarium
Chymicum (Frankfurt 1624, stampata da Lucas Jennis) ed.it. Firenze 1983, p.170: la scena del pellicano viene collegata
alla rivivificazione del Sole e della Luna alchemici.
rientravano nella parte inferiore del vaso (111).

Meno usuale è, invece, l'immagine dell'emblema seguente che mostra una branca leonina che regge
un sacchetto ed è attraversata da uno scaglione (112); oltre il filatterio in cui si leggono le parole
LUMEN e COELUM, tre stelle brillano sul fondo azzurro.
Troviamo, in una tavola del Viridarium Chymicum (113), la nota immagine alchemica del leone
verde che divora il sole: il corpo del leone vi appare cosparso di stelle, rivelando, in tal modo, la
natura astrale del solvente universale di cui è il simbolo.
La branca artigliata del nostro emblema allude al carattere violento della prima soluzione il cui
scopo è la fabbricazione del primo Mercurio, che è insieme il vaso ermetico ed il solvente
universale che renderà possibile l'estrazione del fuoco segreto, spirito vivente e luminoso, dal corpo
minerale grezzo (114).
In tale operazione, che viene anche detta rincrudimento (115), in quanto si afferma che ringiovanisce
i metalli estraendone lo zolfo, "uccidendo il vivo e vivificando il morto", si manifesta il
combattimento fra le due nature, sulfurea e mercuriale, simboleggiata dal combattimento del
cavaliere col drago o dalla contrapposizione dei due draghi che vediamo raffigurati alla base del
nostro riquadro. Al contrario, le cicogne che troviamo lateralmente, in alto, sono simboli del
Mercurio la cui doppia natura è indicata dai colori nero e bianco che ritroviamo nel nome greco
(pelargòs) e nel piumaggio del suo uccello.
La natura di questo Mercurio solvente, che può essere raffigurato anche come oca, cigno o gallo e
che viene indicato con numerosi altri nomi come acqua viva, acqua che non bagna e fuoco che non
brucia, o come Latte della Vergine (concetto che ritroviamo espresso nella contigua immagine della
Virgo lactans), costituisce uno dei segreti più gelosamente custoditi dagli alchimisti, la cui
conoscenza è definita un Dono di Dio.
Ricordiamo tuttavia che l'espressione Latte della Vergine, se da un lato indica la Via Lattea, fonte
dell'energia cosmica e stellare, dall'altro è sinonimo di lingua degli uccelli e designa il gergo
cabalistico, noto ai soli iniziati, su cui si fonda il linguaggio simbolico della tradizione ermetica.

Le tre stelle che sormontano le tre S nell'emblema successivo confermano quanto abbiamo detto: il
concetto della triplice santità in cui si riflette la triplicità stellare ci rinvia alla triplice grandezza di
Ermete Trismegisto (116), alla triplice ripetizione delle operazioni alchemiche, alla triplice struttura
dell'uomo costituito di spirito, anima e corpo in analogia alle tre componenti della materia
filosofica, zolfo, mercurio e sale.
I cani, i serpenti e gli uccelli che circondano l'emblema sono altrettanti simboli mercuriali.
111
) Cfr. Diz.Alch.p.137; E.J.Holmyard: Storia dell'Alchimia, Firenze 1972, p.49. Vedi anche C.G.Jung: Psychologie
und Alchemie, Freiburg 1975, p.154
112
) Pezza araldica a forma di squadra con lo spigolo rivolto verso l'alto ad indicare, forse, l'ambizione ad elevarsi. Cfr.
Diz. Arald. p.471
113
) Viridarium Chymicum, ed.cit. p.174. La figura è tratta dalla Philosophia reformata di J.D.Mylius, pubblicata nel
1622 presso lo stesso Lucas Jennis
114
) Cfr. Dimore Filosofali, ed.cit. vol.II p.195
115
) Cfr. Dimore Filosofali, ed.cit. vol.II p.103
116
) L'espressione si trova nella Tavola di Smeraldo, uno dei testi fondamentali della tradizione ermetica, già citato in un
testo arabo dell'VIII secolo e la cui paternità era attribuita ad Apollonio di Tiana: cfr. J.Ruska: Tabula Smaragdina,
Heidelberg 1926; J.Lindsay: Le origini dell'alchimia nell'Egitto greco-romano, Roma 1970, p.193
I genietti che suonano la tromba ricurva sembrano invece alludere ad un'altra definizione data al
linguaggio alchemico come Arte della musica (117), mentre il volto bafomettico (118) che ne regge il
peso esprime efficacemente il concetto della forza creatrice della parola.

L'emblema che segue raffigura un toro nero, animale consacrato ad Osiride e simbolo, per gli
alchimisti, della materia della Grande Opera e delle sue qualità calde e solari e quindi dello Zolfo,
considerato come principio maschile e padre della pietra (119). L'immagine, circondata da una
decorazione simile alla precedente, può anche essere messa in relazione con il segno zodiacale del
Toro, corrispondente al periodo dell'anno, compreso appunto fra l'Ariete e il Toro, in cui gli influssi
cosmici sono favorevoli all'inizio dell'Opera alchemica (120).

Concludiamo il nostro percorso giungendo di nuovo alla parete orientale dove, nel primo riquadro,
posto a sinistra della scena dell'Incoronazione della Vergine, è stato raffigurato un tempietto a
propilei al cui centro, all'interno di una cornice ovale, si intravede, sul fondo azzurro, un sole rosso e
raggiante sormontato dalla scritta: tuis videris soli.
Il sole raggiante, che si può collegare alla contigua figura di S.Domenico, costituisce, in termini
ermetici, l'emblema dello Splendor Solis (121), risultato della definitiva coagulazione delle parti fisse
e volatili che compongono la Materia dell'Opera alchemica, laddove per parte fissa si intende il Sole
dei Saggi, simbolo della luce spirituale presente nell'uomo, definito anche fuoco innato e padre
della pietra dei saggi; al contrario, l'aspetto volatile della Materia, simboleggiato dalla Luna, indica
le parti soggette al divenire ed alle trasformazioni della vita materiale (122).
A questi due aspetti, fisso e volatile, si riferisce Nicola Flamel, alchimista del XIV secolo,
descrivendo la scena di due draghi che si combattono (123), e che ci ricordano quelli che, nelle
grottesche che circondano il nostro emblema, sono accovacciati, finalmente pacificati, sull'arco del
tempietto; fra i propilei troviamo inoltre dipinte due erme con attributi femminili, che sembrano
alludere al Mercurio come parte volatile, doppia e femminile dell'Opera e che sono sormontate da
due pietre grezze, a indicare la materia prima allo stato iniziale.
Al di sotto del nostro emblema, una stella a otto bracci è il segno geroglifico del sale ammoniacale,
detto anche sale d'Ammone o sale armoniaco perchè ritenuto il mediatore per eccellenza fra il cielo
e la terra, lo spirito e il corpo, il volatile e il fisso, in grado di realizzare il difficile accordo fra
l'acqua e il fuoco (124).

117
) Cfr. Dimore Filosofali, ed.cit. vol.I p.183. Ricorre spesso, nelle opere ermetiche, la raffigurazione di strumenti
musicali in rapporto al lavoro alchemico: ricordiamo, in particolare, la bella incisione dell'Amphitheatrum Sapientiae
aeternae di H.Khunrath (Hanau 1609) che descrive il laboratorio dell'alchimista mostrando, in primo piano, una serie di
strumenti musicali a corda
118
) Abbiamo definito in tal modo il mascherone raffigurato sotto l'emblema, in riferimento al volto satiresco del
leggendario e misterioso idolo attribuito ai Templari
119
) Dictionnaire mytho-hermetique, ed.cit. p.346; cfr. Mistero delle Cattedrali, ed.cit. p.99
120
) Vedi le tavole III, IV, IX e XII del Mutus Liber, pubblicato a La Rochelle nel 1677, in cui viene raffigurata la scena
della raccolta della rugiada celeste fra i due animali zodiacali.
121
) Tale è il titolo di un'opera alchemica contenuta in un testo intitolato Aureum Vellus oder GÜldin Schatz und
Kunstkammer, pubblicata in Germania, a Rorschach, nel 1598 e nel 1612 a Parigi, col titolo La Toyson d'Or; la figura
XXII, l'ultima dell'opera, mostra appunto "il sole invernale della coagulazione" (cfr. ed. Retz, Paris 1975, p.214).
122
) Cfr. Dictionnaire mytho-hermetique, ed.cit. p.336
123
) N.Flamel: Oeuvres, Paris 1973, p.66
124
) Cfr. Dimore Filosofali, ed.cit. vol.I p.205
Lateralmente, due grandi pietre rosse a punta di diamante, in cui possiamo vedere due rubini (125),
alludono invece alla fase finale del magistero alchemico, detta rubedo, corrispondente al colore
rosso assunto dalla Pietra filosofale giunta alla sua perfezione.
Il tema centrale del nostro emblema trova una definitiva conferma nella Fenice, il mitico uccello che
rinasce dalle sue ceneri, raffigurato nella lunetta del tempietto come segno inequivocabile della
perfezione raggiunta dalla Pietra in seguito all'opera purificatrice del fuoco e simbolo, pertanto,
della resurrezione e della rigenerazione spirituale ottenuta dal saggio alchimista grazie all'azione del
Fuoco Filosofico.

Con la visione della Fenice ermetica si conclude il nostro viaggio attraverso i simboli della
Biblioteca di Montescaglioso, il cui segreto messaggio abbiamo cercato di interpretare utilizzando
come punti di riferimento le enigmatiche immagini che nei testi ermetici vengono collegate alle
componenti dell'Opera alchemica ed alle sue varie fasi, caratterizzate tutte dalla costante azione del
Fuoco Filosofico, di quel fuoco cioè che "soltanto per mezzo della profonda riflessione si riesce a
trovare" (126).

Sigfrido E.F. Höbel

125
) Ritroviamo la definizione di rubino attribuita alla Pietra Filosofale in un’opera scritta nel XVII secolo dell'alchimista
noto come Ireneo Filalete e che si intitola, appunto, Preparazione del rubino celeste. Cit. in F.Jollivet-Castellot: Storia
della scienza alchimica, Roma 1981, p. 110; cfr. J.Manget: Bibliotheca chemica curiosa, Ginevra 1702.
126
) Cfr. la Lettera di Giovanni Pontano sul "Fuoco Filosofico" (ed. Atanòr, Roma s.d. p.47), in cui è riportato il testo
tratto da un manoscritto del XVI secolo conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi e attribuito al Pontano.

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