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IL TERRITORIO DELL’ALPE D’OTRO IN ALTA VALSESIA:

DA ALPEGGIO MONASTICO A INSEDIAMENTO WALSER (SECOLI XI-XV)

Le informazioni di cui ancora oggi disponiamo sull’evoluzione della pre-


senza umana e sul popolamento dei territori dell’alta Valsesia durante l’anti-
chità e l’alto Medioevo sono scarsissime o quasi del tutto assenti (1). Sull’epoca
remota in cui in quelle terre si videro le prime presenze di cacciatori e di pastori
con i loro armenti possiamo soltanto avanzare vaghe ipotesi; così come incerte
sono le nostre conoscenze riguardo alla fase in cui si diffuse con accresciuto
vigore lo sfruttamento stagionale delle risorse boschive e dei pascoli dell’alta
valle, dapprima in forma episodica e marginale, poi con sempre maggiore
intensità fino alla creazione dei primi insediamenti stabili, che si ritiene pos-
sano risalire ai secoli centrali del Medioevo. Tali insediamenti – resi possibili
anche dalla favorevole congiuntura climatica del cosiddetto optimum climatico
medievale dei secoli X-XIII – erano però, ancora nei primi decenni del
Duecento, limitati alle aree di fondovalle e non superavano i mille metri di
altitudine. Al di sopra di tale quota esistevano soltanto insediamenti tempo-
ranei e alpeggi, spesso soltanto piccole radure strappate a prezzo di dure fati-
che alla foresta, dove sorgevano i provvisori ripari per i pastori, e superfici di
pascolo in cui il bestiame poteva essere condotto soltanto per poche settimane
ogni anno nel pieno dell’estate: tra questi – non lontano dalle nevi del Monte
Rosa, alla testata della val Grande, in alta Valsesia, e a ridosso del crinale che
la separa dalla valle del Lys – l’alpe d’Otro.
L’alpeggio della valle d’Otro all’inizio dell’XI secolo era in possesso di un
certo Riccardo, figlio di Ildeprando e marito di Waldrada, appartenente alla
famiglia dei conti del Seprio. Con il diploma imperiale del 10 giugno 1025
Corrado II detto il Salico donò alla Chiesa novarese i comitati di Pombia e
dell’Ossola, con tutti i beni situati in Valsesia, tra i quali l’alpe d’Otro, i diritti

(1) G. BALOSSO, Considerazioni sulla antropizzazione della Valsesia, in «Novarien.», 22


(1992), pp. 49-70.
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di transito sul ponte di Varallo e il centro abitato di Rocca, confiscati allo stesso
Riccardo e al fratello Uberto.
«Concedimus itaque comitatum de Plumbia et alium de Oxula cum sua
integritate [...], et corticellam de Cavalli regis, quam tenet Richardus, cum
alpe de Otro, simul etiam cum ponte de Uarade, et Roccam Huberti de valle
Sesedana et omnia predia que ipse retinet in predicta valle et in Seticiano
[...]» (2).

Questi beni situati in Valsesia, anche se non citati espressamente, erano


probabilmente gli stessi che qualche anno prima, nel 1014, erano stati oggetto
di un analogo ordine di espropriazione, questa volta però a favore della Chiesa
vercellese, quando Enrico II aveva ordinato a scopo punitivo la confisca dei
beni dei sostenitori di Arduino d’Ivrea, tra i quali era annoverato lo stesso
Riccardo:

«[...] damus insuper Bornade musterolum et totam abbatiam de Coliade cum


castello Grignasco et totam terram vallis Sisidine et omnia predia in Italia que Richardus
et uxor eius Uualdrada habuerunt et tenuerunt [...]» (3).

Riccardo, membro della famiglia dei conti di Pombia (4) e detentore,


insieme alla moglie, di un cospicuo patrimonio distribuito nei territori dell’intero
Nord Italia (5), faceva parte, come spiega chiaramente Giuseppe Sergi, di
quella
«nuova aristocrazia che si andava potenziando economicamente e poli-
ticamente all’interno della marca d’Ivrea nella seconda metà del secolo X e
che individuò nella lotta di Arduino contro i vescovi ed Enrico II la possi-

(2) Monumenta Germaniae Historica (MGH), Diplomatum Regum et Imperatorum Germaniae,


vol. IV, doc. 38, p. 42; donazione confermata tre anni dopo nel 1028 (ivi, doc. 118, p. 164). I
diplomi sono stati pubblicati anche in Carte valsesiane fino al secolo XV, a cura di C. G. Mor,
Torino, Ghirardi, 1933 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, 124), doc. IV, pp. 7-9; doc.
V, pp. 9-11).
(3) MGH, Diplomatum Regum et Imperatorum Germaniae, vol. III, doc. 322, p. 406.
(4) G. ANDENNA, Grandi patrimoni, funzioni pubbliche e famiglie su di un territorio: il
“comitatus Plumbiensis” e i suoi conti dal IX all’XI secolo, in Formazione e strutture dei ceti
dominanti nel Medioevo: marchesi, conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII), Atti del primo
convegno di Pisa, 10-11 maggio 1983, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1988 (Nuovi
studi storici, 1), pp. 215-216
(5) Oltre ai diplomi già citati in precedenza: Codex Diplomaticus Langobardiae, col. 1654,
doc. 940; L. A. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, vol. III, Mediolani, ex Typographia
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bilità di accentuare la qualificazione signorile delle proprie presenze patri-


moniali [...]. Questa nuova aristocrazia, con le sue presenze incastellate,
riuscì in molti casi a essere interprete dei nuovi poteri signorili locali: ma
nell’immediato non toccò a essa il tentativo di ricomposizione del territorio
disgregato dalla crisi definitiva dell’ordinamento carolingio, bensì ai vescovi
e ai centri cittadini da cui muoveva il loro potere» (6).

Le confische del 1014 e del 1025 – come pure quella successiva del 13
aprile 1060, con la quale Enrico IV confermava nuovamente la donazione alla
Chiesa novarese dei beni detenuti a quel tempo da Riccardino, figlio ed erede
di Riccardo e di Waldrada (7) – non ebbero tuttavia alcun seguito e l’alpe
d’Otro, così come tutti gli altri beni in Valsesia elencati nei diplomi prece-
dentemente citati, rimase saldamente nelle mani della potente famiglia dei ric-
cardini-ubertini, ovvero dei conti di Pombia.
Con lascito testamentario del 6 marzo 1083 il conte Guido di Pombia, in
punto di morte nel suo castello di Olengo, presso Novara, donò l’alpe d’Otro,
insieme a molti altri beni da lui posseduti in Valsesia, all’abbazia di Cluny:

«Ideoque, ego, qui supra Wido comes, dono et offero, a presenti die,
in eodem monasterio, pro anime mee mercede, id sunt, aliquantis rebus
juris mei, que subter nominavero: mee portiones de ecclesia una que nomi-
nantur Sancti Dionixii, que est constructa in Val que dicitur Sesedana, et
mansoras sedecim, et alpes duas, et silvis buscaleis, et mee portiones de monte
uno [...]. Prima Alpe esse videtur in ipsa Val Sesedana, nomina Lavozoso;
secunda in jam dicta Val, nomina Oltro [...]» (8).

Societatis Palatinæ in Regia Curia, 1740, col. 741 (998 gennaio 15). MGH, Diplomatum Regum
et Imperatorum Germaniae, vol. II, doc. 414, pp. 848-849 (1001 novembre 21); vol. III, doc.
299, p. 370 (1014 maggio 7). Le carte di Biandrate dell’archivio capitolare di S. Maria di Novara,
I, a cura di M. G. Virgili, in «Bollettino Storico per la Provincia di Novara», LV (1964), doc.
134, p. 223 (1013 marzo 15), doc. 140, p. 235. Cfr. anche C. BASCAPÈ, Novaria seu de Ecclesia
novariensi. Libri Duo: Primus de Locis, Alter de Episcopis. Carolo ep. novariensi Auctore, Novariæ,
apud Hieronymum Sessallum, 1612, pp. 318-319.
(6) G. SERGI, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino, Einaudi,
1995, p. 186.
(7) MGH, Diplomatum Regum et Imperatorum Germaniae, vol. VI, parte 1, doc. 63, pp.
82-84; Carte valsesiane, cit., doc. VI, pp. 11-13.
(8) I beni donati, a eccezione dell’alpe d’Otro, di alcuni mansi nel biellese e delle pro-
prietà nel luogo e fondo di Stode Garda (da identificare con una località oggi scomparsa situata
nei pressi di Vespolate), sembrano essere concentrati nel territorio della media Valsesia: una
parte della chiesa di S. Dionigi a Locarno, il monte di Parone (monte uno qui dicitur Paruno),
le selve di Doccio (Duze), Solivo (Facia Soliva), Lagaredo e Biscognago, un mulino situato a Varallo
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La donazione, convalidata da un secondo atto dell’11 gennaio 1087 (9)


con il quale alcuni membri della famiglia dei conti di Pombia rinunciarono
definitivamente, di fronte a un inviato dell’abate di Cluny, a ogni diritto sui
beni donati dal conte Guido, fu in seguito confermata da papa Urbano II nel
1095 (10).
Questa donazione non aveva però soltanto le caratteristiche di un sem-
plice lascito testamentario pro remedio animae, destinato a soddisfare esclusi-
vamente esigenze di tipo devozionale e personale dell’offerente, ma si confi-
gurava come

«una complessa operazione volta a costituire un nuovo e più saldo


assetto patrimoniale ai beni aviti del potente gruppo familiare dei conti di
Pombia, proprio nel momento in cui al suo interno si stavano enucleando
le distinte linee dinastiche dei conti di Biandrate, dei conti da Castello e dei

(molandino uno cum alveis et riva, et cum omni utilitatem ad eum pertinentibus, quod est con-
structo in loco ubi dicitur Varale), sedici mansi, quattro dei quali situati nel luogo di Castellito
(l’attuale Castelletto Cervo in territorio biellese) e quattro in quello di Casa Nova, condotti da
uomini di Varallo, Locarno, Foresto, Rocca, luogo quest’ultimo da cui proveniva anche il servo
Mauro da Rocca che venne donato, con la moglie, i figli e le figlie, insieme alla mandria di cui
era il custode (Mauro de la Roca et conjux eius cum omnibus filiis et filiabus eorum et gregio
uno de vaccis cum vitulis et tauris in integrum, que esse videtur in ipsa Val); qualche dubbio
persiste invece sull’individuazione dell’altro alpeggio citato nell’atto (prima Alpe esse videtur in
ipsa Val Sesedana, nomina Lavozoso), che secondo alcuni sarebbe da identificare con l’alpe Lavazei
sopra Rima, mentre secondo altri corrisponderebbe all’alpe Lavazzosa, sui monti a ovest di Rocca
Pietra. A. BRUEL, Recueil des chartes de l’Abbaye de Cluny formé par Auguste Bernard, complété,
révisé et publié par Alexandre Bruel, Paris, Imprimerie nationale, 1888, vol. IV, doc. 3600, pp.
757-758; Carte valsesiane, cit., doc. VIII, pp. 14-17; D. SANT’AMBROGIO, Donazione al mona-
stero di Cluny nel 1083 della chiesa di S. Dionigi e di beni diversi in Val Sesia, in «Rivista di
storia, arte e archeologia di Alessandria», 16 (1907), pp. 327-337. Sull’identificazione del luogo
di Stodegarda (associato a Ponello e alle corti di Vespolate e Carpenedo in un atto del 22 aprile
1053 edito in Le carte del Museo Civico di Novara (881-1346), a cura di G. B. Morandi,
Pinerolo, s. e., 1913 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, 77/2), doc. XX, pp. 33-35),
cfr. G. ANDENNA, Per un censimento dei castelli, in Novara e la sua terra nei secoli XI e XII.
Storia, documenti, architettura, Milano, Silvana Editoriale, 1980, p. 318; ID., Alcune osservazioni
a proposito delle fondazioni cluniacensi in Piemonte (sec. XI-XIII), in L’Italia nel quadro dell’e-
spansione europea del monachesimo cluniacense. Atti del convegno di Pescia (26-28 novembre 1981),
Cesena, s. e., 1985, p. 48 nota 14; L. CROCE, Le pievi vercellesi sulla sinistra della Sesia: terri-
torio, istituzioni, insediamenti, in «Bollettino Storico Vercellese», 50 (1998), pp. 5-8.
(9) A. BRUEL, Recueil des chartes, cit., vol. IV, doc. 3616, pp. 777-778; Le carte dell’archi-
vio capitolare di S. Maria di Novara, a cura di F. Gabotto, G. Basso, A. Leone, G. B. Morandi,
O. Scarzello, vol. II, Novara, Parzini, 1915 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, 79), pp.
127-129; Carte valsesiane, cit., doc. IX, pp. 17-19.
(10) Patrologiae cursus completus, Series Latina, a cura di J. P. Migne, vol. 151, col. 411.
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conti del Canavese; un’operazione che, al contempo, con l’istituzione di un


vero e proprio monastero privato (Eigenkloster), il priorato cluniacense di
San Pietro di Castelletto Cervo, mettesse quei beni al sicuro dai reiterati
diplomi imperiali di confisca, costituendoli come nucleo centrale del patri-
monio di un ente ecclesiastico esente» (11).

L’alpe d’Otro continuò a fare parte del patrimonio del priorato clunia-
cense dei Santi Pietro e Paolo di Castelletto Cervo per oltre un secolo; essa
compariva ancora nella bolla del 7 settembre 1184 (12) con la quale papa Lucio
III riceveva sotto la protezione della Sede Apostolica il monastero, confer-
mandone tutti i possessi.
Soltanto pochi anni più tardi però il possesso sulla valle d’Otro del prio-
rato cluniacense di Castelletto Cervo fu contestato dal monastero femminile
di S. Pietro di Cavaglietto (13), che sosteneva di potere vantare dei diritti sulla
proprietà. In un documento del giugno 1192 contenente gli atti del processo,
vengono definiti i termini della lite tra il cenobio di Cavaglietto, rappresen-
tato dalla badessa Agnese, e il priorato di Castelletto
«per l’attribuzione della proprietà dell’alpe di Otro in Valsesia, ove i
cluniacensi facevano confluire i loro armenti, secondo l’uso della transumanza.
Infatti Guglielmo, priore di Castelletto, aveva fatto pignorare l’alpeggio, con-

(11) R. BELLOSTA, Le trasformazioni di un insediamento alpino: la val d’Otro tra Medioevo


e nuovo Millennio, in Di legno e di pietra. La casa nella montagna valsesiana. Atti del Secondo
Convegno di Studi (Carcoforo, 27-28 settembre 2008), Carcoforo, Gruppo walser Carcoforo,
2008, p. 50. Sulla politica di fondazione di enti ecclesiastici svolta dai conti di Pombia cfr. G.
ANDENNA, Alcune osservazioni a proposito delle fondazioni cluniacensi in Piemonte (sec. XI-XIII),
in L’Italia nel quadro dell’espansione europea, cit., p. 51; sul priorato di S. Pietro di Castelletto
come monastero privato cfr. C. SERENO, Monasteri aristocratici subalpini: fondazioni funziona-
riali e signorili, modelli di protezione e di sfruttamento (secoli X-XII), parte prima, in «Bollettino
storico-bibliografico subalpino», XCVI (1998), fasc. II, pp. 425-426.
(12) Carte valsesiane, cit., doc. XVII, pp. 32-36; un regesto di questo documento si trova
anche in P. F. KEHR, Italia Pontificia sive Repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis
Pontificibus ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis, monasteriis, civitatibus singulisque per-
sonis concessorum, vol. VI, parte II (Pedemontium - Liguria Maritima), Berolini, apud Weidmannos,
1914, p. 36.
(13) Sul monastero femminile di Cavaglietto: L. MAGGIOTTI, Notizie di Cavaglietto e dei paesi
circonvicini, Novara, Rizzotti e Merati, 1885, pp. 55-56; G. DEAMBROGIO, Monasteri cluniacensi
nei territori dei conti di Biandrate. I cenobi di Cavaglietto, in «Bollettino Storico per la Provincia
di Novara», LII (1971), pp. 87-94; G. ANDENNA, Le clarisse nel novarese (1252-1300), in
«Archivum Franciscanum Historicum», 67 (1974), pp. 185-267; ID., Nobiltà e clero tra XI e
XIII secolo in una pieve della diocesi di Novara: Suno, in «Novarien.», 7 (1975-1976), pp. 361-
430; A. TEMPORELLI, Un monastero cluniacense da rivedere e salvare: Cascina Monastero in
Cavaglietto, in «Antiquarium Medionovarese», II (2007), pp. 195-207.
588 Interpretazioni e rassegne

testando ad Agnese il possesso. Le due parti si rivolsero al giudice legittimo,


il conte Uberto di Biandrate, che sulla piazza del castello di Casaleggio, dopo
aver ascoltato le deposizioni dei testimoni e aver chiesto il parere di nume-
rosi giurisperiti, non avendo elementi per decidere la causa, impose il duello
giudiziario con la specificazione che il campione che avesse abbandonato il
campo avrebbe perso il possesso dell’alpeggio (ordinavit prelium ita ut qui
cessaverit a prelio cesset a possessione). La vittoria arrise alle monache che si
videro aggiudicare l’alpe valsesiana» (14).

Il monastero femminile cluniacense di Cavaglietto – località vicina a


Cavaglio, coincidente con la già citata corticella de Cavalli regis appartenuta
a Riccardo di Ildeprando – era nato come dipendenza del priorato di Castelletto
Cervo: la chiesa di S. Pietro attorno alla quale sorgeva era stata infatti donata
al priorato negli anni 1092-1093 (15) dai suoi proprietari, insieme con l’intero
castello, «con tutta la sua area di 24 pertiche e le opere difensive, compreso
il tonimen, o palizzata, e il fossato», che sorgeva in quel luogo. Proprio in con-
seguenza di questo rapporto di subordinazione si verificò probabilmente il pas-
saggio di possesso dell’alpe d’Otro dall’uno all’altro ente ecclesiastico; un fatto
che era avvertito inevitabilmente dall’amministrazione del priorato come un
abuso da parte di una sua dipendenza, anche se le circostanze che condus-

(14) G. ANDENNA, Sanctimoniales Cluniacenses. Studi sui monasteri femminili di Cluny e sulla
loro legislazione in Lombardia (XI-XV secolo), Münster, LIT Verlag, 2005 (Vita Regularis.
Ordnungen und Deutungen religiösen Lebens im Mittelalter, 20), p. 85; cfr. anche L. MAGGIOTTI,
Notizie di Cavaglietto, cit., pp. 73, 133; G. ANDENNA, I priorati cluniacensi in Italia in età comu-
nale (secoli XI-XIII), in Die Cluniazenser in ihrem politisch-sozialen Umfeld, a cura di G.
Constable, G. Melville, J. Oberste, Münster, LIT Verlag, 1998 (Vita Regularis. Ordnungen und
Deutungen religiösen Lebens im Mittelalter, 7), p. 507.
(15) Nel 1092 i fratelli Ottone e Allone, del fu Azzone, con le loro consorti, Operto di
Aldo e Drogo, figlio di Ugo, entrambi professanti legge longobarda donarono la chiesa e una
porzione del castello: «Offerimus in eadem ecclesia Sancti Petri de Castelleto a presenti die
pro animarum nostrarum mercede idest ecclesia una edificata in fundo Cavalgni Mediano in
Honore Sancti Petri iuxta ecclesiam Sancti Victoris et nostra porcione de senioria cum omni
iure et pertinencia in eadem ecclesia fundo Cavalgni Mediano vel in eius territorio omnia et
ex omnibus ad ipsam ecclesiam pertinentibus in integrum. Que autem suprascripta ecclesia Sancti
Petri subiuta monasterio item Sancti Petri de Castelleto [...]». Copia della pergamena di fon-
dazione è conservata presso l’Archivio di Stato di Milano, Museo Diplomatico, pergamena c.
22, 682 / 989, 1092 luglio 18; un’altra copia cartacea si trova invece in Archivio Storico
Diocesano di Novara, Fondo Frasconi, Armadio Frasconi, ms. II, C, anno 1092 luglio 18. L’anno
successivo gli stessi donatori, insieme ad altri 33 comproprietari donarono l’intero castello
all’abbazia di Cluny: G. ANDENNA, Sanctimoniales Cluniacenses, cit., p. 62. L’atto di donazione
è conservato presso l’Archivio di Stato di Torino (ASTo), Materie ecclesiastiche, Monache
diverse, Cavaglio, Monache di S. Pietro, pergamena n. 1, 1093 luglio 10.
Interpretazioni e rassegne 589

sero il giudice Multicio a ricorrere al duello giudiziario, in mancanza di ele-


menti per risolvere per via testimoniale la questione (16), lasciano intendere
che le ragioni delle due parti fossero perfettamente equilibrate.
Sebbene in mancanza di indicazioni esplicite, possiamo ragionevolmente
ritenere che il possesso dell’alpe d’Otro sia rimasto al cenobio di Cavaglietto
durante i primi decenni del Duecento, un periodo caratterizzato da una buona
situazione economica dell’ente ecclesiastico guidato in quegli anni da due
badesse di notevoli capacità amministrative: Agnese, protagonista degli eventi
del 1192, e Matelda, figlia del cittadino novarese Anselmo da Incino.
La situazione cambiò radicalmente nel maggio 1230, con la nomina al ver-
tice del monastero di Benvenuta, appartenente alla famiglia capitaneale mila-
nese dei da Rho (de Raude): la nuova badessa attribuì,

«con il consenso di due consorelle e dei conversi, a suo padre [Giacomo


del fu Ramboto da Rho] la carica di procuratore generale per amministrare
tutti i beni del monastero, incarico che fu subito esercitato da Giacomo nel
febbraio 1231 con la richiesta, rivolta a tutti gli affittuari, di consegnare i
beni del priorato. Molto probabilmente la sua amministrazione fu fraudo-
lenta e tutta rivolta a favorire gli interessi della sua famiglia, giacché in docu-
menti posteriori si affermava che era stato occupato da laici e che era col-
lapsum in temporalibus» (17).

Proprio durante questi anni di cattiva amministrazione l’alpe d’Otro risulta


essere tornata a fare parte del patrimonio dei suoi antichi proprietari, i conti
di Biandrate, uno dei rami in cui si era frammentato il casato dei conti di
Pombia. Essa figura infatti tra i beni suddivisi tra i fratelli Guglielmo, Ruffino,
Oddone e Gotofredo, figli del conte Gozio di Biandrate, elencati in un docu-
mento del 1241 (18). In mancanza di indicazioni dirette possiamo presumere
che i Biandrate avessero cercato di approfittare della difficile situazione del
cenobio di Cavaglietto per riappropriarsi dell’alpeggio; l’operazione però non
ebbe successo, in parte a causa dell’indebolimento della famiglia, che non era
più in grado di esercitare i poteri di un tempo, in parte per l’inevitabile resi-

(16) G. ANDENNA, Le clarisse nel novarese, cit., p. 191 nota.


(17) ID., I priorati cluniacensi in Italia durante l’età comunale (secoli XI-XIII), in Papato e
monachesimo “esente” nei secoli centrali del Medioevo, a cura di N. D’Acunto, Firenze, University
Press, 2003, pp. 29-30.
(18) Archives de l’Etat du Valais, Sion (AEVs), Fonds Archives Valaisannes 63, pergamena
1, Vanzone, 1241 gennaio 22.
590 Interpretazioni e rassegne

stenza dell’ente ecclesiastico alla spogliazione dei suoi beni, per quanto pro-
fonda potesse essere la crisi in cui versava.
Nel 1277 l’alpe d’Otro risultava ancora contesa tra il priorato di Castelletto
e le monache di Cavaglietto (19), alle quali i monaci di Castelletto, per potervi
condurre le proprie mandrie, erano tenuti a corrispondere un fitto.
Il periodo tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento segnò la
crisi delle istituzioni ecclesiastiche cluniacensi: il monastero femminile di
Cavaglietto, al termine di un periodo molto travagliato, fu soppresso e divenne
poi un convento di clarisse; anche il priorato di Castelletto era ormai in con-
dizioni economiche critiche; a causa della cattiva amministrazione del priore
Filippo l’ente era ormai quasi in rovina, tanto che il vicario della provincia
cluniacense di Lombardia Beraldo ordinò la sospensione del priore e dei
monaci dall’amministrazione del patrimonio fondiario del priorato, proibendo
agli affittuari il versamento dei censi annuali ai religiosi.
Anche i rapporti tra i due enti non migliorarono affatto, anzi le crescenti
tensioni culminarono nel grave episodio del 1308, quando il priore e i monaci
di Castelletto

«accompagnati da un gran numero di armati penetrarono con violenza


nel monastero di Cavaglio ormai appartenente alle clarisse e sottrassero tutti
i beni mobili esistenti».

Questo triste episodio rappresenta il culmine e l’epilogo di un lungo pro-


cesso di logoramento e di indebolimento di una istituzione ecclesiastica inca-
pace, nonostante tutto, di difendere con efficacia i propri diritti. È il risultato
della frustrazione derivante dal fallimento:

«un episodio di violenta ricerca della giustizia con le proprie mani ad


opera di un cenobio che aveva subito per cinquant’anni una sistematica
negazione delle proprie antiche e legittime ragioni» (20).

Nel corso dei secoli XIV e XV, la Chiesa novarese, beneficiaria delle con-
cessioni imperiali del 1025 e del 1060, non sembrò rassegnarsi a rinunciare ai
propri diritti sulla valle, e per ben tre volte, su istanza del vescovo di Novara
Uguccione dei Borromei, si fece nuovamente confermare la donazione di

(19) E. LOMAGLIO, La Valle d’Otro, in «de Valle Sicida», II (1991), pp. 27-28.
(20) G. ANDENNA, Le clarisse nel novarese, cit., pp. 54-55.
Interpretazioni e rassegne 591

Corrado II dall’imperatore Enrico VII, con diplomi datati 18 febbraio, 3 e 16


aprile 1311; mentre la concessione di Enrico IV del 1060 fu rinnovata nel 1395
dall’imperatore Venceslao (21). La proprietà dell’antico alpeggio rimase però
in qualche modo nelle mani del priorato di Castelletto Cervo, o comunque
nell’orbita della rete di fondazioni di origine cluniacense derivate da esso. Nel
Cinquecento infatti Otro apparteneva al priorato di Carpignano Sesia (22), antica
dipendenza di quello di San Pietro di Castelletto: nel 1517 è documentato un
passaggio di proprietà di alcuni beni situati in Otro con la loro parte di rata
dell’affitto perpetuo al priore di Carpignano (23); nel 1565 il notaio Gaspare
di Pietro de Gaspo vendeva ad Antonio di Milano de Gaspo la metà di un
erbatico nel territorio di Otro, in partibus illorum de la Scarpia, con la sua
parte di rata dell’estimo e dell’affitto perpetuo dovuto a quelli di Carpignano (24).
Ormai però, come ben si comprende dal contenuto dei due documenti cin-
quecenteschi citati, il vincolo di possesso sulla terra da parte dell’ente eccle-
siastico si era irrimediabilmente allentato e i conduttori dei fondi possedevano
quei beni quasi come fossero di loro piena proprietà: a ricordare gli antichi
diritti di possesso rimaneva soltanto il formale versamento di un canone di
affitto perpetuo, la cui entità, svalutata nel tempo, aveva a quel punto perso
la sua reale valenza economica mantenendo un significato quasi esclusiva-
mente simbolico.
L’alpe d’Otro, così come molti altri alpeggi d’alta quota, integrata dap-
prima entro un importante patrimonio signorile e in seguito tra i possessi di
alcuni enti ecclesiastici appartenenti alla vasta e potente congregazione clu-
niacense, non deve essere affatto considerata come sede di attività economi-
che marginali: anzi, al contrario, essa era considerata una importante risorsa
dai suoi proprietari. Innanzi tutto i suoi pascoli, cosa non così frequente in
quel periodo in area alpina, erano utilizzati per l’allevamento di bestiame
bovino: un prodotto di pregio, per un’attività di particolare interesse com-
merciale, soprattutto per i mercati cittadini delle aree di pianura (25). Inoltre,

(21) E. LOMAGLIO, La Valle d’Otro, cit., pp. 27-28.


(22) M. L. GAVAZZOLI TOMEA, Edifici di culto dell’XI e XII secolo. La pianura e la città, in
Novara e la sua terra, cit., p. 94.
(23) E. RIZZI, Sulla fondazione di Alagna, in «Bollettino Storico per la Provincia di Novara»,
LXXIV (1983), fasc. 2, p. 364, doc. 88.
(24) Ivi, p. 366, doc. 99.
(25) P. GUGLIELMOTTI, Unità e divisione del territorio della Valsesia fino al secolo XIV, in
«Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCVI (1998), p. 122.
592 Interpretazioni e rassegne

a testimonianza del rilievo economico che rivestivano in quel tempo, gli alpeggi
facevano parte della cosiddetta pars dominica all’interno dei grandi patrimoni:
essi erano cioè gestiti direttamente dai detentori dei diritti di proprietà sulla
terra, tramite l’utilizzo di manodopera servile. Servi come quel Mauro de la
Rocca, ricordato nella donazione del 1083 (26), che con la moglie e i figli con-
duceva la mandria di bovini del conte Guido agli alpeggi di Otro e Lavozoso,
e che fu ‘ceduto’ all’abbazia di Cluny insieme al bestiame che accudiva e ai
pascoli che sfruttava.
Non disponiamo di indicazioni precise sulla struttura degli insediamenti
e sulle caratteristiche degli edifici rurali in questa epoca così remota, sappiamo
però che gli alpeggi erano già allora articolati in differenti zone situate a quote
crescenti, così da consentire lo spostamento stagionale delle mandrie dalle quote
più basse a quelle più alte e viceversa.

«A ciascuno di questi alpi corrispondeva sul fondovalle una striscia di


terra sulla sponda della Sesia, utilizzata per il pascolo delle mandrie nella
mezza stagione (giugno o settembre): il maggengo o monte o mayensass,
com’è chiamato qua e là nelle Alpi. In Valsesia questi pascoli al limite infe-
riore degli alpeggi erano detti ‘Pé’ o ‘piedi d’alpe’ (Pé di Mud, Pé d’Alagna,
Pé d’Otro); donde partivano le strade dirette ai pascoli alti» (27).

In Valsesia sono numerosi gli esempi di località che ancora oggi conser-
vano nei loro toponimi traccia della presenza di antichi insediamenti struttu-
rati in alpeggi e piedi d’alpeggio. I nomi delle località che furono un tempo
piedi d’alpeggio sono spesso preceduti dal termine Pè o Pede: in val Grande,
l’alpe di Mud e Pedemonte (Pede Moyt, Pè de Motis), l’alpe Alagna (Olen) e
Pedelegno (Pè d’Alagna), l’alpe Alzarella e Pè d’Alzarella, l’alpe Meggiana e
Piedimeggiana; in val Sermenza, l’alpe Fagiolo e Piè di Fagiolo. Talvolta viene
invece utilizzato il termine Campo: in val Grande, l’alpe Artogna e Campertogno;
in val d’Egua, l’alpe Ragozzi e Campo Ragozzi.
Per il piede d’alpeggio di Otro, situato nel comune di Alagna Valsesia non
lontano dal luogo dove sorge l’attuale frazione Resiga, sono attestate entrambe
le forme. Nella scarsa documentazione superstite risalente al Trecento com-

(26) A. BRUEL, Recueil des chartes, cit., vol. IV, doc. 3600, pp. 757-758.
(27) E. RIZZI, Storia dei Walser dell’Ovest. Vallese, Piemonte, Cantone Ticino, Valle d’Aosta,
Savoia, Oberland Bernese, Anzola d’Ossola, Fondazione Enrico Monti, 2004 (Atlante delle Alpi
Walser, II), p. 106.
Interpretazioni e rassegne 593

pare esclusivamente la forma Campo d’Otro (28). Soltanto nel Quattrocento


inizia ad apparire invece la forma Pè d’Otro: inizialmente come apud Oltrum
o apud Olterum (29); poi, a partire dagli ultimi decenni del Quattrocento,
nella forma Pedis Oltri (30).
La presenza di coloni walser nel territorio dell’alta val Grande è docu-
mentata per la prima volta tra la fine del XIII e i primi anni del XIV secolo.
Il più antico insediamento walser fu probabilmente quello di Pedemonte, fon-
dato da coloni provenienti da Macugnaga. Alla fine del Duecento, quando i
coloni walser si insediarono in alta val Grande sulle terre di proprietà del
priorato di Castelletto Cervo e dell’abbazia di San Nazzaro Sesia, i piedi d’al-
peggio di Pedemonte e Pedelegno divennero dunque insediamenti permanenti
(31). L’alpe d’Otro invece ebbe uno sviluppo un poco differenziato, perché
in questo caso tanto il piede d’alpeggio (Pé d’Otro) quanto l’alpeggio vero e
proprio si trasformarono in insediamenti umani permanenti. A testimonianza
di questo fatto le numerose attestazioni nella documentazione di uomini che
affermano di risiedere stabilmente in valle d’Otro fin dai primi anni del
Trecento.
I primi insediamenti, sebbene già abbastanza articolati sul territorio, ave-
vano caratteristiche di compattezza e relativa concentrazione degli edifici che
li componevano; non tanto per esigenze difensive nei confronti di attacchi
esterni, come accadeva in altri luoghi, ma piuttosto per difendersi dalle asprezze
di un territorio ancora selvaggio e solo parzialmente antropizzato. Soltanto in
seguito si avvertì l’esigenza di una più capillare presenza sul territorio per favo-

(28) Si trovano ad esempio citati: Giovanni fu Guiglino de Campo Oltri nel 1344; Enrigeto
e Pietro fu Alberto de Campo Oltri nel 1347 (ID., Sulla fondazione di Alagna, cit., p. 356, docc.
18 e 20).
(29) I nominativi che compaiono nella documentazione sono: Antonio fu Zanni de apud
Olterum nel 1417; Giovanni fu Pietro de apud Oltrum nel 1429; Milano fu Janni Petarelli de
apud Oltrum nel 1438; Giovanni Caligarius fu Pietro de aput Oltrum nel 1463; i fratelli Giovanni
e Pietro fu Milano de Petarello de aput Olterum e Antonio fu Martino de Prato de apud Oltrum
nel 1465; Giacomo di Pietro de Bige de apud Oltrum nel 1468; Antonio fu Giovanni Comolo
Burro de apud Oltrum e Giovanni fu Milano de Peterro de apud Oltrum nel 1472; Giacomo de
Bye de apud Oltrum nel 1474; Pietro fu Milano de Peterello de apud Oltrum nel 1491 (Ivi, p.
359, docc. 39, 41, 46; p. 360, docc. 53-55; p. 361, docc. 58 e 60; p. 363, doc. 74).
(30) I nomi citati: Antonio de Peterro Pedis Oltri nel 1489; Giovanni fu Giacomo de Bij
Pedis Oltri nel 1535; Antonio fu Milano de Bigii Pedis Oltri e i fratelli Antonio e Pietro fu
Giovanni de Sordano Pedis Oltri nel 1540 (Ivi, p. 362, doc. 71; p. 365, docc. 95 e 97).
(31) E. RIZZI, Storia dei Walser dell’Ovest, cit., p. 106.
594 Interpretazioni e rassegne

rire e incrementare lo sfruttamento delle risorse. Come osserva in termini


generali Paola Guglielmotti:

«Se lo sfruttamento dei pascoli e [...] dei boschi rappresenta una delle
attività economiche principali, non sorprende che esso sia reso più agevole
con insediamenti diffusi per il territorio. Si avverte infatti un’ininterrotta ten-
sione a denominare, oltre ai villaggi, le singole località, senza preoccupazione
della loro misura, quasi a fissarne il possesso e in molti casi, attraverso que-
sto, l’identità di coloro che lo detengono. La documentazione che reca prove
in questo senso risale ai secoli XIII e XIV e riflette sicuramente anche il
progresso nel popolamento vallivo» (32).

Ma non si trattava soltanto di motivazioni correlate a un più razionale sfrut-


tamento delle risorse:

«In realtà la casa, e la sua aggregazione, come unità abitativa e produttiva,


in complessi come la fattoria, la masseria, il villaggio, la fattoria fortificata,
e via di seguito, è il risultato di ben più fattori che la semplice disponibi-
lità, in loco, di materiali per edificare [...]. Bisogna quindi prendere in con-
siderazione altri fattori oltre l’architettura, l’ingegneria e la tecnologia dei mate-
riali, e questi fattori sono la storia, cioè l’origine dei popoli, le abitudini sociali,
i rapporti con la terra [...], il livello di stanzialità» (33).

Si trattava di motivazioni più complesse che investivano la natura stessa


dell’aggregato sociale delle popolazioni germaniche, di cui i walser facevano
parte. Tali popolazioni prediligevano infatti le abitazioni indipendenti, «cia-
scuna delle quali svolgeva autarchicamente la propria funzione, cioè forniva
non solo un riparo alle intemperie, ma trasformava i prodotti e i materiali del
lavoro agricolo e della silvicoltura in modo del tutto autonomo» (34). E ciò
avveniva in risposta a una profonda esigenza di individualità e di libertà insita
nell’animo delle popolazioni di stirpe germanica, che le induceva non soltanto
ad adottare un tipo di insediamento diffuso e mai accentrato, ma che le spin-
geva anche a un atteggiamento di provvisorietà della stanzialità che ne spiega
sia l’attitudine alla migrazione alla ricerca di nuovi territori in cui insediarsi,

(32) P. GUGLIELMOTTI, Unità e divisione del territorio della Valsesia, cit., pp. 123-124.
(33) S. M. GILARDINO, La casa nella civiltà germanica, in Di legno e di pietra, cit, p. 68.
(34) Ivi, p. 69.
Interpretazioni e rassegne 595

sia la predilezione per l’utilizzo del legno come materiale di costruzione delle
proprie case.

«I Walser erano gli eredi di popolazioni scandinavo-germaniche che


della guerra avevano fatto una norma di vita e del movimento nello spazio
una soluzione esistenziale. Nel momento in cui i Walser, pacifici e cristiani,
decidono per la stanzialità cercano le terre da dove viene la luce, le terre in
alto: non perché è facile viverci, ma perché i “wole”, gli abitanti delle basse
vallate, perché i “wailschu”, gli altri, non li possono minacciare nel loro spa-
zio vitale. È da qui che deve cominciare la ricerca della spiegazione “di pie-
tra e di legno”: nella comprensione della storia, della lingua e della civiltà
di un popolo che della libertà a tutti i costi ha fatto sempre una condizione
di vita. La casa di legno non ha fatto altro che perpetuarla nel tempo» (35).

Durante gli ultimi decenni una lunga e feconda stagione di studi (36) ha
permesso di chiarire molti aspetti delle migrazioni di popolazioni walser attra-
verso le Alpi, collocando finalmente questo fenomeno nel contesto del grande
impulso ai dissodamenti, alle bonifiche e alla colonizzazione di terre margi-
nali dei secoli XI-XIII. Tuttavia numerosi sono ancora gli aspetti che atten-
dono di essere studiati e chiariti; troppi i dubbi e troppo deboli i presuppo-
sti alla base di molte ipotesi e generalizzazioni. Il tempo della sintesi è ancora
lontano, è indispensabile affrontare analiticamente i molti nodi ancora irrisolti,
tra i quali, appunto, quello del ruolo della grande proprietà, laica ed eccle-
siastica, nell’attrarre, condizionare e gestire i flussi migratori dall’area dell’alto
Vallese.
La trasformazione degli alpeggi, sfruttati economicamente soltanto durante
la breve stagione estiva, in insediamenti permanenti rispondeva all’esigenza da
parte dei proprietari delle terre di incrementare il valore economico dei pro-
pri beni e di aumentare di conseguenza l’entità dei canoni riscossi dai con-
duttori dei fondi. Tale trasformazione è stata spesso descritta – in contributi
storiografici anche recenti sulle popolazioni walser e sulla loro storia (37) –

(35) Ivi, p. 72.


(36) Un contributo determinante in questo senso è dovuto all’impegno della Fondazione
Enrico Monti di Anzola d’Ossola e in particolare agli studi di Enrico Rizzi e Luigi Zanzi (cfr.
nota seguente).
(37) La questione Walser. Atti della prima giornata internazionale di studio (Orta, 4 giugno
1983), a cura di E. Rizzi, Anzola d’Ossola, Fondazione Enrico Monti, 1984; L’opera dei mona-
steri nella colonizzazione alpina - Das Werk der Klöster bei der Besiedlung der Alpen. Atti
596 Interpretazioni e rassegne

come qualcosa di cercato e di volutamente perseguito: una vera e propria stra-


tegia volta a rimpiazzare i vecchi conduttori autoctoni, non interessati o forse
incapaci di fare il salto di qualità richiesto dai proprietari, con nuovi affittuari
in grado di rispondere alle loro aspettative. Una volontà e una strategia però
che gli enti ecclesiastici che si contendevano il possesso dell’antico alpeggio
della valle d’Otro, travolti – come si è cercato di documentare in queste
pagine –, proprio in quegli stessi anni da una crisi gravissima, non sembrano
essere stati in grado né di progettare né di esercitare concretamente.

ROBERTO BELLOSTA
Università degli Studi di Milano

dell’VIII Convegno internazionale di studi Walser (Briga, Naters e Sempione, 14-15 settembre 1990),
a cura di E. Rizzi, Anzola d’Ossola, Fondazione Enrico Monti, 1992; L. ZANZI, E. RIZZI, I Walser
nella storia delle alpi: un modello di civilizzazione e i suoi problemi metodologici, Milano, Jaca
Book, 1988; E. RIZZI, I Walser, Atlante delle Alpi Walser, vol. I, Anzola d’Ossola, Fondazione
Enrico Monti, 2003; ID., Storia dei Walser dell’ovest: Vallese, Piemonte, Cantone Ticino, Valle
d’Aosta, Savoia, Oberland Bernese, Atlante delle Alpi Walser, vol. II, Anzola d’Ossola, Fondazione
Enrico Monti, 2004.

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