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STORIA PER IL TURISMO

A.A. 2020/2021

GLI INSEDIAMENTI RUPESTRI


di Vito Bianchi

Non solo Betlemme, non solo anno zero: in una grotta si può nascere, per poi camparvi e a
volte morirvi, da sempre e ovunque. Per ogni dove e per ogni tempo, gli anfratti naturali o
artificiali hanno accolto il desiderio umano di protezione, di ritorno nel grembo della Gran
Madre Terra, in una simbiosi ancestrale e assoluta che, nei millenni, ha potuto adattarsi
alle più diverse dinamiche storiche e sociali. Così, soprattutto fra il X e il XIV secolo, delle
autentiche “criptopoli” dovettero prendere a crivellare il suolo di parecchie regioni
microasiatiche e mediterranee. Fu in quei secoli che venne perforata a ripetizione anche la
morbida calcarenite della Puglia, e fu allora che, da un’architettura “di sottrazione”,
scaturirono dei nuclei demici che con le loro abitazioni incassate nella roccia, coi laboratori
per le attività agricole e pastorali, e con le chiese, coi cimiteri, con le cisterne e i tracciati
carrabili non si configuravano come alternativi, ma apparivano integrati ed erano talora
assimilabili ai casali edificati concio su concio, in superficie.

Gravine e lame. A ridosso dell’arco ionico – nelle adiacenze di Taranto e Grottaglie, in


corrispondenza degli odierni comprensori di Massafra, Mottola, Castellaneta, Ginosa,
Palagianello, Laterza, fino a Matera –, l’habitat rupestre poté svilupparsi durante il
Medioevo nelle gravine, fratture della crosta terrestre costituite da ripidissime forre di
origine carsica, incise sino a una profondità che a volte può raggiungere anche un centinaio
di metri. L’avvallamento del terreno e il forte dislivello altimetrico consentivano di
intaccare le pareti dei canyon su più piani, ricavandovi spazi cultuali, produttivi o abitativi
coordinati mediante un efficace sistema di scalette esterne, di ponticelli lignei e di sentieri.
Sull’opposto versante adriatico, invece, a essere interessate dal fenomeno dei siti in rupe
dovettero essere le lame, solchi erosivi di origine fluviale, poco accentuati, che, a partire
dai rilievi della Murgia, attraversano la Terra di Bari e la Terra d’Otranto con un
andamento pressoché ortogonale alla linea di costa. Si tratta di alvei dotati di scarsa
profondità, dal fondo piuttosto arrotondato, che potevano contemplare l’abbinamento, in
un’unica soluzione insediativa, di strutture ipogee, ricavate sugli spalti della depressione, e
di strutture subdivali, costruite sulle spianate del sopraterra. Una tale dinamica sarebbe
propria degli insediamenti rupestri disseminati nel territorio di Fasano. In più di una
circostanza, è stato ipotizzato un uso degli ipogei di tipo prevalentemente o esclusivamente
funerario, susseguente a un’età romana e tardo-antica in cui le grotte sarebbero state
utilizzate per ospitare deposizioni multiple, con loculi e arcosoli, a mo’ di catacombe
all’aperto, in analogia con quanto rilevato per alcune aree sepolcrali del Gargano (a
Siponto, in località Capparelli, o a Canosa, a Ponte di Lama). Anche l’apparato decorativo
delle chiese rupestri, secondo alcune recenti ipotesi, denoterebbe un carattere in
prevalenza funerario, collegato al mondo ultraterreno, nel quadro d’una concezione
religiosa di segno escatologico.
Peraltro, la frequentazione e la destinazione degli ipogei rimangono talvolta
problematiche, anche a causa dei rimaneggiamenti cui sono state sottoposte nel tempo le
strutture rupestri, non di rado reimpiegate, in epoca moderna, in funzione di opifici per la
lavorazione delle olive e per la produzione di olio, oppure sfruttate come cave per
ritagliarvi blocchi litici. E se in alcune zone sono affiorate le tracce di nuclei abitativi che,
sin da età romana e tardo-antica, parrebbero giacenti sui pianori al di sopra delle lame,
nondimeno, con le ricerche archeologiche nei terreni di superficie, non è stato possibile
determinare le relazioni insediative e cronologiche con gli attigui complessi rupestri: è il
caso dell’area in cui ricade il cosiddetto Tempietto di Seppannibale (fig. 1), laddove gli
scavi hanno individuato negli ultimi anni i segni di una monumentalizzazione d’età
romana-imperiale e, ancora, le impronte di un’antropizzazione databile fra il IV-V e l’VIII-
IX secolo, il cui rapporto con gli ipogei della lama confinante risulta poco perspicuo.
Similmente, le osservazioni compiute riguardo alla chiesa rupestre di Santa Vigilia (fig. 2),
un luogo di culto dalle evidenti connotazioni funebri, non sono potute andare più in là di
una cronologia relativa delle fasi di utilizzo dell’invaso, in assenza di una documentazione
archeologica apprezzabile e di un’indagine estensiva. Per la chiesa di Lama d’Antico è stato
poi ipotizzato, col solo ricorso all’interpretazione storico-artistica degli affreschi, il ruolo di
“mausoleo dei vescovi monopolitani” (fig. 3). Ma è possibile concepire un mausoleo
isolato in piena campagna? D’altronde, e in questo le fonti ci soccorrono
abbondantemente, non si può negare che nel Medioevo le campagne fra Fasano e
Monopoli fossero abbastanza densamente popolate. Quindi è utile cercare di approfondire
proprio le dinamiche insediative del mondo rurale, per arrivare a capirne un po’ di più.

Popolamento rurale e proprietà ecclesiastica. Il popolamento rurale del territorio


in esame sembrerebbe avere origini remote, essendo connesso politicamente ed
economicamente all’antica città portuale di Egnazia e al circostante ager Ignatinus.
L’agro egnatino doveva essere contraddistinto da un’occupazione di tipo paganico o da
villae rustiche (dei prototipi delle masserie), sorte nell’ambito di un sistema di
sfruttamento territoriale abbastanza consueto nell’antichità, per cui l’agricoltura,
l’allevamento e l’industria venivano praticati in modesti villaggi che, dislocati nelle
campagne retrostanti a un capoluogo principale, gli gravitavano economicamente attorno.
Di fatto, considerato il ruolo di “città del vescovo” rivestito da Egnazia nel periodo tardo-
antico, è lecito supporre almeno l’esistenza di fondi di proprietà ecclesiastica nei dintorni
della civitas egnatina, con la conseguente necessità di innervare anche le campagne con
infrastrutture adeguate. Sin dall’epoca di papa Gregorio Magno è testimoniato in Puglia un
esteso patrimonio ecclesiastico (le massae), frutto probabilmente di cospicui lasciti
testamentari e di donazioni da parte di piccoli proprietari, desiderosi di conquistarsi, in tal
modo, un buon posto nell’al di là, non meno che esenzioni dalle tasse che gravavano sulle
proprietà fondiarie. Non alienabili in linea teorica, i beni rurali di chiese, monasteri e
uomini del clero venivano in realtà frazionati e dati in affitto in cambio di canoni e censi
annui.
Intorno al Mille sono poi ricordati i monasteri di S. Benedetto di Conversano – nel 957 –,
di S. Benedetto di Polignano a Mare – nel 992 – e di S. Nicola in portu aspero a Monopoli
– nel 1054 –, che vantavano diritti di varia natura sul territorio fasanese. Inoltre,
certamente nel XII secolo è attiva a Fasano una comunità benedettina: di una badia
dedicata a S. Giovanni de Fajano si ha infatti testimonianza nella bolla pontificia di papa
Alessandro III, datata al 19 aprile del 1179 e indirizzata a Goffredo, abate del monastero.
Queste ultime attestazioni costituiscono il sintomo di un rapporto alquanto stabile e
duraturo dell’ordine benedettino col comprensorio fasanese.

Il monastero di Santo Stefano. E a proposito di ordine benedettino, sappiamo che un


impulso certamente intenso allo sfruttamento delle risorse agro-pastorali e, dunque,
all’occupazione sistematica delle campagne derivò con l’avvento dei Normanni –
notoriamente fautori dei Benedettini e della penetrazione monastica fra le popolazioni
contadine, anche in chiave di consenso nei confronti del nuovo dominio imposto alle
contrade meridionali – e per il territorio che ci riguarda più da vicino con la fondazione,
alla fine dell’XI secolo, dell’abbazia di S. Stefano, a un paio di miglia da Monopoli (fig. 4).
Al pari della badia di S. Giovanni de Fajano, il cenobio monopolitano godrà allora di una
giurisdizione di carattere feudo-signorile estesa, in buona parte, proprio al distretto in cui
giacciono alcuni fra gli insediamenti rupestri più rilevanti del comprensorio fasanese.
L’autorità monastica perverrà ad annoverare, fra l’altro, vigne e terre in loco Anacie et
Sabelliti (corrispondenti rispettivamente a Egnazia e Savelletri), il casale di Santa Maria
de Fajano con i suoi abitanti e le sue spettanze, terre in località Tabernensis (coincidente
con l’area dell’odierna masseria Tavernese), la chiesa di Sancta Maria Putei Faceti (vale a
dire il santuario mariano di Pozzo Guacito), i fiumi Canne e Torricello (presso l’attuale
frazione di Torre Canne), il casale di Castro con le sue pertinenze, la contrada Paritanus e
Paritanellus (al confine fra Fasano e Alberobello). Grazie a una serie di libertates et
potestates elargite e più volte confermate dai signori normanni – e in seguito nuovamente
ribadite da Enrico VI Hohenstaufen sul declinare del XII secolo, oltreché dai successivi
sovrani del Regnum Siciliae –, il monastero di S. Stefano assunse un ruolo politicamente
preponderante ed ebbe la possibilità di rivestire una funzione direttiva dell’economia
rurale nei distretti di propria competenza. L’ente godette di esenzioni dai canoni di pascolo
e del diritto di dissodare terre incolte, potendo contare sull’affidatura di manodopera
agricola. Insieme, l’abbazia seppe orientare la produzione e la trasformazione dei prodotti
agro-pastorali mediante la libera costruzione e l’impiego di molini, forni, trappeti e
cisterne: tutti elementi indispensabili in un’economia fortemente legata alla produzione
agraria.
Ma altrettanto marcate erano pure le prerogative esercitabili dal potere vescovile sulle
terre fasanesi appartenenti alla diocesi di Monopoli, e sugli uomini che, in quelle terre,
vivevano e lavoravano: è quanto si deduce da una serie di bolle pontificie promulgate a
sancire e specificare l’entità dei benefici goduti dal vescovo. Si capisce, pertanto, come gli
insediamenti rurali finissero con l’essere in stretta connessione con le imposizioni di un
apparato politico-istituzionale che predisponeva – quando non obbligava – i sottoposti a
dedicarsi con intensità all’agricoltura e all’allevamento: attività che fornivano proventi per
le esazioni padronali o i prelievi fiscali. Si può perciò immaginare che nei villaggi sparsi per
il contado si vivesse di lavoro nei campi e di liturgie cristiane: ma la carenza di fonti scritte
e di sufficienti informazioni archeologiche impedisce di cogliere le sfumature del
quotidiano medievale, al di là degli sguardi, talvolta enigmatici, e sempre ieratici, lanciati
dai santi dipinti in affresco sulle pareti delle cripte. Le grotte, sia che fossero usate come
dimora dei vivi o dei defunti, sia che venissero adibite a deposito, o a ricovero per animali,
o riservate alla lavorazione delle produzioni agro-pastorali, restituiscono pochi appigli per
una ricostruzione delle vicende insediative.

Cripte e affreschi. Non possiamo ancora sapere ad esempio se, e in che misura, nella
chiesa rupestre della masseria di San Marco, l’attestazione epigrafica di Santo Stefano
(fig. 5), redatta in greco, possa essere correlata con la devozione per il protomartire
innescata dall’omonima abbazia di Monopoli. Inoltre, se la finalità sepolcrale può risultare
abbastanza leggibile per determinate cappelle funerarie ritagliate nella roccia, mi sembra
ancora prematuro estenderne il portato a qualsiasi antro che contenga un letto incavato
nelle pareti e che possegga un generico segno della croce, graffito fuori o dentro l’invaso.
Le carreggiate stradali sul fondovalle delle lame, intaccate dai solchi creati per il continuo
passaggio di carri, paiono suggerire una notevole intensità del traffico viario. E’ quanto si
rileva in prosecuzione della Lama d’Antico, lungo il percorso di lama Tammurrone, che
annovera le chiese ipogee di San Giovanni (fig. 6) e di San Lorenzo (fig. 7), incastonate
coi loro affreschi in un paesaggio rupestre che mescola spazi abitativi, cultuali e industriali.
Un ennesimo, interessante sito in rupe è poi collocato alle spalle della masseria San
Francesco (fig. 8), mentre in contrada Carbonelli si incontrano le spelonche dette di San
Basilio, dal nome di uno dei santi effigiati all’interno della chiesa. Verso le tenute di
Losciale-Garrappa si trova inoltre il sito di Lamalunga, in proprietà Donnaloia, vicino alla
chiesa di S. Angelo (fig. 9). Non distante, in località Assunta, a ridosso di masseria Rosati,
un altro insediamento rupestre si sviluppa intorno alla chiesa dei SS. Andrea e Procopio
(fig. 10): sulla facciata d’ingresso della cripta un’epigrafe in latino narra della fondazione
e della consacrazione del tempio, menzionato nella bolla pontificia di Alessandro III del
1180 (in cui si elencano i beni appartenenti all’episcopio monopolitano).
A fronte di tale e tanta antropizzazione, la rete viaria medievale permetteva ai siti rurali
di essere non soltanto collegati fra loro, ma anche di innestarsi direttamente sulle vie di
transito che, più ad ampio raggio, erano percorse dalle genti in movimento da o per la
Terrasanta. L’antica via Traiana, asse principale con cui si raccordava la viabilità più
interna dell’agro di Fasano, nel Medioevo costituiva il segmento meridionale della famosa
via Francigena, e di conseguenza favoriva i pellegrinaggi. La città marittima di Monopoli,
e ancor più Brindisi, erano porti privilegiati per l’imbarco e lo sbarco di uomini e merci in
transito per l’Outremer. La portata di simili traffici si intensificò specialmente nell’età delle
crociate, quando la Puglia divenne una sorta di “retrovia” degli Stati latini d’Oltremare,
legandosi strettamente alle vicende politico-economiche dei territori siro-libano-
palestinesi, in quanto regione di più immediato approvvigionamento delle derrate
alimentari – e dei rifornimenti in genere – da inviare nel Vicino Oriente. Non appare
quindi casuale il recente riconoscimento nella chiesa rupestre dei SS. Andrea e Procopio di
un graffito che effigia una nave a chiglia tondeggiante, con alberi: sarebbe un ex-voto per
un viaggio marittimo giunto a buon fine, o un’invocazione propiziatoria per un itinerario
da intraprendere. In un caso o nell’altro, sarebbe un’interpretazione del tutto plausibile,
per un insediamento posto sulle rotte della peregrinatio per la Terrasanta.
L’età delle crociate. Così, se nell’analisi del popolamento rurale e della civiltà rupestre
si passa da un’interpretazione localistica – e spesso eminentemente riservata agli aspetti
religiosi – a una visione globale degli eventi, non si può ignorare l’importanza che il
distretto agrario, i casali e i villaggi del comprensorio fasanese hanno rivestito in epoca
crociata, tanto per la preponderanza delle attività agricole quanto in relazione ai flussi di
pellegrini, di mercanzie e di eserciti. Nel brulicare di viatores e di milizie che partivano per
Gerusalemme o tornavano dal pellegrinaggio, nel via-vai di crucesignati che con bordone e
scarsella oppure con armi e cavalli dirigevano ai Luoghi Santi, i nuclei demici che
chiazzavano il territorio di Fasano potevano, naturalmente, costituire dei punti di
passaggio e ristoro, che andavano a sommarsi ai più canonici hospitia e xenodochia ubicati
nelle città. Le tappe del viaggio in Terrasanta erano scandite infatti sia dagli alberghi di più
o meno grandi civitates, sia dalle tante anonime tabernae e dagli ostelli che era possibile
incrociare nelle periferie ruralizzate dei principali scali portuali. Percorrendo le carraie che
seguivano il fondo delle lame, i viandanti avevano perciò la possibilità di trovare
accoglienza in locande che offrivano cibo e un qualche giaciglio per il riposo, cosicché
determinati siti rupestri in commistione con architetture subdivali – o delle loro porzioni –
potevano fungere da stazioni di sosta per i viaggiatori.
Inoltre, le immagini affrescate nelle cripte potrebbero essere lette proprio in rapporto al
fervore politico-religioso legato all’evoluzione dell’età crociata. L’anamnesi – anche quella
più recente – dei programmi iconografici raccolti nelle chiese rupestri si è difatti
concentrata quasi esclusivamente sugli spazi del bema/presbiterio, tralasciando il più delle
volte la zona antistante del naos, e proponendo una lettura in chiave puramente teologico-
religiosa delle pitture.
Vanno quindi puntualizzati alcuni aspetti. Innanzitutto, va sottolineato come la più
aggiornata critica storico-artistica abbia datato la maggior parte dei cicli pittorici del
territorio fasanese fra XII e XIV secolo: di conseguenza, non si può non tener conto del
fatto che tale cronologia coincida, in buona parte, proprio con l’epoca crociata, e con le
suggestioni legate alle vicende palestinesi. Come conferma più d’una fonte letteraria,
un’enorme impressione fu ad esempio suscitata nell’Europa cristiana dalla sconfitta
crociata di Hattin e dalla caduta di Gerusalemme in mani islamiche, nel 1187, a opera del
curdo Salah ad-Din, il “Saladino” delle cronache occidentali. Ed è stato notato, dalla
storiografia più avvertita, come la Puglia, soglia da e per la Terrasanta, più di altre regioni
fosse ricettiva e sensibile alle notizie che giungevano dall’Oltremare, specie nelle aree
vicine o comunque collegate ai bacini portuali, quale era appunto il distretto di Fasano,
contiguo a Monopoli e inserito sul tradizionale itinerario per Brindisi.
In quest’ottica, le immagini che, presso diverse grotte, effigiano santi-guerrieri a cavallo –
assimilabili ai cavalieri combattenti per la cristianità fra Siria, Libano e Palestina –,
potrebbero caricarsi di un significato tale da trascendere o integrare il valore di “protettori
per antonomasia”, rivestito dai milites divini soprattutto in ambito bizantino. I significati
iconografici tenderebbero insomma a moltiplicarsi, intrecciando vari livelli di lettura: alle
milizie cristiane che lottavano contro il monstrum – rappresentato dai musulmani – in
Terrasanta, potrebbe insomma corrispondere il San Giorgio vestito d’un manto bianco-
crociato che si batte contro il Male – rappresentato dalle spire serpentiformi di un drago –
nella cripta dei SS. Andrea e Procopio (fig. 11). Né va sottovalutata l’intitolazione
ecclesiastica allo stesso martire Procopio, che era collegato al movimento crociato e che,
nell’iconografia della Palestina, appare associato frequentemente ad altri santi militari.
Analogamente, nella chiesetta rupestre di San Lorenzo, a sinistra dell’entrata si notano le
squame di un grosso serpente, abbattuto al suolo. E nel vicino speco di San Giovanni, sulle
pareti antistanti al bema, si addensano immagini che sembrano evocare i coevi
avvenimenti del Vicino Oriente: è visibile il santo-guerriero che trapassa la bestia (figg.
12-13) e, in un simbolismo reiterato, il Sansone che abbatte il leone. Alla medesima
temperie paiono del resto rapportarsi anche i cicli pittorici di altri ipogei, compresi nel
reticolo viario generato dalla via Traiana: in agro di San Vito dei Normanni, nel composito
apparato iconografico del santuario rupestre di San Biagio (che reca in un’epigrafe la data
del 1196, un momento cioè di poco susseguente alla conquista islamica di Gerusalemme),
un San Nicola di Mira è raffigurato accanto a San Demetrio e San Giorgio che, a cavallo,
con scudi e lance, fanno trionfare il Bene (fig. 14).
Nella realtà, la perdita della Terrasanta sarà irreversibile per l’Occidente cristiano. Che,
anzi, sul declinare del Medioevo, si troverà a dover fronteggiare una più decisa offensiva
dell’islam, guidata dall’impero turco-ottomano.

Otranto 1480. In epoca aragonese, dalle sponde egee e dai Balcani si intensificò la
pressione degli Ottomani sull’Europa. In quei frangenti, il territorio pugliese subì uno choc
paragonato da alcuni studiosi all’11 settembre del 2001: nell’estate del 1480 i Turchi si
impadronirono di Otranto e, per la prima volta, crearono una base stabile nella Penisola
italica, minacciando di dirigere su Roma e di annichilire il papato, per incunearsi da lì nel
cuore del continente europeo. Nel giro di un anno, la guerra otrantina dovette comunque
concludersi: non tanto per la reazione della Corona napoletana, quanto piuttosto a causa
del dilagare della peste e della scomparsa del sultano Maometto II. La morte del sovrano
turco gettò nello scompiglio l’impero ottomano, innescando una durissima lotta per la
successione e facendo rinviare i progetti di conquista delle terre italiche. Lo scampato
pericolo fece rifiatare gli Stati occidentali: eppure, nonostante il ritiro delle truppe
ottomane, nelle campagne pugliesi ristagnò una grande paura, il timore di un ritorno degli
orribili “infedeli”. Lo spavento provocò una fioritura di castelli e fortificazioni, pubbliche e
private. Le campagne subirono imponenti trasformazioni nell’organizzazione delle attività
agro-pastorali. In parallelo, si verificò una più decisa urbanizzazione dei centri abitati e la
convergenza della popolazione rurale in un ambito cittadino fortificato, più sicuro perché
meglio protetto: emblematici sono in tal senso i casi di Fasano e Ostuni. La fase di
inurbamento si precisò e si intensificò specialmente sullo scorcio del Quattrocento: di
conseguenza, nei decenni di passaggio dal Medioevo all’età moderna – caratterizzati da
uno scontro ora latente ora palese fra l’Occidente cristiano, coagulato attorno all’impero
spagnolo, e l’Oriente mediterraneo, sempre più sottoposto all’espansionismo della Sublime
Porta di Istanbul – cambiarono decisamente le forme insediative d’ambito rurale. Molti
villaggi e casali furono abbandonati. Ai siti rupestri (che avevano accolto le comunità
contadine in un habitat che immergeva letteralmente l’uomo nella natura) si sovrapposero,
spesso fisicamente, delle unità produttive destinate a perdurare, in alcuni casi, fino ai
nostri giorni (fig. 15): e sono proprio questi i complessi architettonici corrispondenti, più
di tutti, al concetto che nell’immaginario collettivo attualmente identifica la masseria
fortificata.

Le masserie. Gli scavi archeologici compiuti presso l’insediamento rupestre di Lama


d’Antico, con lo svuotamento di cisterne per l’acqua, hanno in effetti permesso di
recuperare e riconoscere brocche e materiali anforacei di produzione tardo-medievale, tali
da far supporre un abbandono del luogo proprio alla fine del XV secolo. Dunque,
scompaiono gli insediamenti rupestri e sorgono nelle stesse aree le masserie (fig. 16).
Sul piano storico-politico, i primi secoli dell’età moderna furono segnati dalla pesante
dominazione della Corona di Spagna, che fece del Mezzogiorno d’Italia un vice-regno –
con capitale a Napoli – dell’immenso impero iberico. E lo sviluppo di Napoli quale capitale
del vice-regno, col conseguente e impetuoso incremento demografico, costituì un
fenomeno di assoluta rilevanza nel panorama europeo (in età moderna, la popolazione
napoletana sarà destinata a essere seconda, numericamente, soltanto a Parigi). La nuova
metropoli campana aveva costante bisogno di ingenti rifornimenti di cereali o altri prodotti
della terra: e a siffatte necessità non poteva più far fronte il surplus, scarso e aleatorio,
della piccola produzione contadina, per lo più limitata a – pur intense – coltivazioni di
ortaggi e di frutta, apparecchiate nella cintura campestre che circondava il capoluogo
partenopeo. Tanto meno le aziende agrarie di Terra di Lavoro, ovvero i villaggi sparpagliati
nel circondario vesuviano, erano in grado di sopperire compiutamente alle necessità
alimentari di una città che fagocitava con crescente voracità qualsivoglia mercanzia. La
“fame” di granaglie e di olio, sul mercato napoletano, era insomma enorme, cosicché
soltanto un apparato agricolo adeguatamente strutturato, e indirizzato secondo i cicli
masseriali, avrebbe potuto esaudire le pressanti richieste cittadine (fig. 17). A quel punto
dovette innescarsi una stretta connessione fra l’aumento della popolazione partenopea e il
rilievo assunto dalle masserie pugliesi, divenute sempre più essenziali e, sostanzialmente,
insostituibili per l’approvvigionamento alimentare di Napoli e della sua cittadinanza.
In continuità con la narrazione dell’habitat rupestre, quello delle masserie è un argomento
da affrontare nel segno di un’ulteriore sensibilizzazione per la bellezza di un passato che,
comunque, ritorna, e con le cui tracce bisogna sempre fare i conti, per uno sviluppo
armonico della nostra società che sappia guardare all’avvenire nel rispetto di una memoria
non da preservare in maniera rigida e ottusa, ma da valorizzare in maniera dinamica e,
comunque, attenta a non smarrire la nostra storia, la storia dei nostri luoghi e, infine, la
nostra stessa essenza (fig. 18).

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