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SAN CONO: UN LUOGO SACRO NEL TERRITORIO DI CAMEROTA

Ecco due foto regalato a noi da Salvatore Calicchio di un luogo "sacro" nel
Comune di Camerota che ancora aspetta il ripristino del suo ruolo nella storia
locale. Un posto pregevole come questo ha sempre bisogno di un "salvatore" o
almeno un custode responsabile. Nelle due prime foto sue, si vede la parte vicina
la cappella che ritiene frammenti degli affreschi bizantini e che è vicina la liquirizia
medicinale che l'acqua sotterranea la permette di crescere ancora. La terza foto
da un atlante storico del mezzogiorno nell'anno mille, fa vedere la vicina frontiera
tra Camerota nel Principato longobardo di Salerno e l'Impero Romano-Bizantino
nel Golfo di Policastro. Nella quarta foto mia si vede l'apside della cappella con
frammenti degli affreschi.
Cinque anni dopo la caduta di Costantinopoli ai Turchi nel 1453 si trovava ancora
nel monastero un codice greco miniato dei Quattro Vangeli “valde pulchrim”
(bellissima) che era regalato a Matteo, cittadino di Camerota, per essere ben
conservato. Il solo monaco presente era un prete canonico augustiniano
(premostratense?) Roberto, probabilmente legato al Monastero San Pietro alla
vicina Licusati. Molti libri greci del monastero erano distrutti, secondo il
testimonio giurato nel 1458 di Don Domenico De Assalto.
Le fuorvianti notizie che circolano ancora in molti scritti contemporanee, che San
Cono sarebbe fondato in 968 sull’ordine dell’imperatore a Costantinopoli sono da
ignorare, perché derivano dalle molto copiate e scorrette notizie della famigerata
storia pubblicata in 1831 dal Vescovo Laudisio di Policastro. La recente edizione
critica di questa pubblicazione capricciosa spiega che ampiamente contiene
affermazioni le più improbabile copiate dagli eruditi locali del Settecento.
SAN CONO E IL SACRO NEL TERRITORIO DI CAMEROTA
Nel periodo pagano, prima del ripopolamento del territorio nel medioevo e prima
delle nuove usi e costumi per occupare e sfruttare la campagna, si trovavano
numerosi luoghi sacri dedicati a numinosi spiriti capricciosi della natura disegnati
di invocare la loro incerta protezione e favore. E nelle case delle abitazioni stabile
del vicino municipio di Buxentum (Policastro B.) ogni famiglia aveva una modesta
altare fornita di effigie delle loro divinità protettrici. Si badava di non arrabbiarli. I
dei della casa avrebbero anche serviti i genitori per disciplinare i figli rissosi.
Potevano dirgli al momento opportuno, “stai attento o il nostro dio X si
arrabbierà”.
Oggi il luogo di San Cono o, con più precisione, San Conone, è “sacro” per altri
motivi e in uno senso diverso. Appartiene come componente del patrimonio
civico, storico e paesaggistico identitaria dei paesi di origine medioevale che
fanno parte del comune di Camerota contemporaneo e la regione Cilentana. Era
un centro monastico, modesto ma fiorente, di un gruppo di frati italo-bizantino
siciliani e calabresi che emigravano in questo territorio policastrense del
altrettanto fiorente Principato longobardo di Salerno. Venivano dai loro paesi di
nascita nelle vicine provincie in sud Italia che ancora facevano parte del Cristiano
Impero Romano governato da Costantinopoli che non era fratturata in
rivaleggiando regni franchi-tedeschi-visigoti e anglosassone come nella Francia,
Germania, Spagna e le Isole Britannica.
La graziosa collina di San Cono al sud del Mingardo che guarda al mare era
diventata pressoché disabitata al contrario del territorio più vicino a Salerno, la
costa Amalfitana e Nocera, che già prima dell'arrivo qui dei colonizzatori
Calabresi, era in una nuova fase di urbanizzazione, crescita demografica e
pianificato sfruttamento e dissodamento della campagna. La collina di San Cono si
trova sulla antica linea di faglia dell’Esarcato bizantino di Ravenna che scendeva
via Roma e Napoli a Siracusa-Taormina. In quel senso non emigravano in terra
completamente straniera e avevano, comunque buoni rapporti con i principi
longobardi. Da verso l'anno mille troviamo documentata, per la prima volta, la
formazione di una fitta rete di simili monasteri di rito greco in questa parte del
Cilento, Val Diano, e oltre al nord. Per alcuni monasteri abbiamo documentati
esempi del permesso contrattuale per i nuovi abati (egumeni) italo-greci emesso
dal “sacro palazzo” longobardo, che permettevano loro di colonizzare e creare
villaggi nei loro tenimenti: il permesso di invitare gente “ad habitandum” e “ad
laborandum”. Dopo la integrazione del Salernitano, in 1077, nelle signorie
territoriali coordinati dalla famiglia Altavilla di origine normanna, lo sviluppo
demografico e economico sembra di aver intensificato sensibilmente, nel nostro
territorio.
La congiuntura socio-economica favoriva il contadino grazie alla scarsa
manodopera e una forte domanda nei centri urbani e commerciali per i prodotti e
materie prima della campagna. Il locatore doveva competere con altri di attirare
conduttori con offerti vantaggiosi. Dal conto loro l'economo dei monaci poteva far
stendere contratti molto vantaggiosi per il contadino “a pastinatio” di diversi tipi
che in effetto, dopo alcuni anni, concedeva una parte del terreno al contadino
come proprietà o diritti ereditaria, fondando così una economia di piccoli
proprietari contadini e artigiani, molto diverso dal sistema di latifondi greco-
romani del antichità.
Nel caso di Camerota la crescente popolazione sarebbe stata molto cosmopolita,
comprendo gente da diverse regioni, dalla Sicilia al nord salernitano
probabilmente consistendo, con tempo, di una forte presenza di amalfitani che
soffriva da una scarsità di disponibile retroterra in un periodo di crescita
demografica (vedi la cupola della chiesa madre di Lentiscosa). Il senso di condivisa
identità comunitaria della gente originalmente da diverse regioni si esprimeva
allora sempre di più, come oggi, nella invocazione e celebrazioni dei loro santi
protettori nelle diverse assemblee ecclesiastiche (ecclesia) attorno al tavolo
eucaristica nei diversi luoghi del territorio. Sul livello spirituale si conoscevano se
stessi in termine di condivisi valori del gruppo e un forte senso di appartenenza ai
“fedeli-protetti” dai santi, facendo insieme una condivisa pellegrinaggio sulla terra
verso l'eternità. I santi protettori non erano intesi come i capricciosi numinosi
spiriti della natura dei pagani a cui nei secoli precedenti si invocava una incerta
protezione e favore, ma come esigenti disciplinari che richiedevano venerazione.
Per quanto riguardava il bisogno di mettere il pane e vino sul tavolo per i figli,
avevano i loro “sacri” diritti contrattuali e obblighi, custoditi gelosamente nelle
loro tradizioni profane e civili.
Ogni nuovo paese aveva i suoi specificamente articolati contratti che erano le
“consuetudini” del paese, ossia le usanze tradizioni locali che proteggevano i
conduttori dagli abusi dei signori e che determinavano le sentenze nella corte in
caso di liti. Queste usanze e tradizioni, civile e profane, in uno senso, erano
decisamente “sacri” nel senso che consegnavano alla collettività la capacità di
garantire e realizzare i loro comuni progetti di vivere nella giustizia sociale con
dignità senza essere soggetti alla capricciosa benevolenza dei tiranni. Ancora
durante i Moti di 1828 il senso della sacralità di questa consuetudine era
sostanzialmente presente.
Nel corso della storia sulla collina di San Cono, durante il duecento, la congiuntura
demografica e politica cambiò e la protezione reale che poteva continuare ad
offrire il giudiziario normanna al popolo del territorio svanì ma non del tutto.
Sempre di più le tradizioni religiosi di invocare la assistenza sopranaturale dal
cielo o anche una semplice rassegnarsi al destino sembrava a volte la sola opzione
rimasta. Le tradizioni profani assumevano una nuova carattere.
Oggi, il senso della sacralità degli usanze e le tradizioni rimane, anche ora quando
la loro sostanza è ridotta per lo più allo stato di folclore e sagre che non servano
più al pieno il loro scopo vivificante originario. Si sente ancora in loro uno senso
arcano da non trascurare, un valore inafferrabile da conservare. Diventano
patrimonio e beni culturali da tutelare e recuperare. Ci aiutano di riprendere il
vecchio cammino collettivo e orientarci nel presente, cercando di manifestare la
sostanza del loro valore identitaria in forme adeguati al mondo contemporaneo in
cui ci troviamo. Anche adesso gli impegni reciproche, che toccano a ogni membro
della collettività, rimangono la “sacra” base del bene comune. Non è questo
consenso pubblico di impegno a norme e ideali che definisce la identità collettiva?
C'è senz'altro un diffuso amore, anche appassionata, per ogni pietra della sua
bella natura, e una forte nostalgia per la gioventù cresciuta sul suo seno, ma
sembra che, a volte, per tanta gente non c'è molto nella sua travagliata storia
collettiva di cui essere orgoglioso.
Forse queste parole recenti di Papa Francesco siano utile, nonostante il fatto che
erano indirizzati a un associazione molto orgoglioso del suo passato:
“Avere una bella storia alle spalle non serve però per camminare con gli occhi
all’indietro, non serve per guardarsi allo specchio, non serve per mettersi comodi
in poltrona! Non dimenticare questo: non camminare con gli occhi all’indietro,
farete uno schianto! Non guardarsi allo specchio! In tanti siamo brutti, meglio non
guardarsi! E non mettersi comodi in poltrona, questo ingrassa e fa male al
colesterolo! Fare memoria di un lungo itinerario di vita aiuta a rendersi
consapevoli di essere popolo che cammina prendendosi cura di tutti, aiutando
ognuno a crescere umanamente...".

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