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2 La Piana del Sele in età normanno-sveva


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Alessandro Di Muro

La Piana del Sele


in età normanno-sveva
Società, territorio e insediamenti
(ca. 1070-1262)

Prefazione di
Pietro Dalena

Mario Adda Editore


4 La Piana del Sele in età normanno-sveva

La pubblicazione del volume è stata promossa dalla


Banca di Credito Cooperativo di Battipaglia.

ISBN 88-8082-622-0

© Copyright 2005
Mario Adda Editore - via Tanzi, 59 - Bari
Tel. e Fax 080-5539502
Web: www.addaeditore.it
e-mail: addaeditore@addaeditore.it
Tutti i diritti riservati.
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Presentazione

Una Banca lavora sempre con la testa rivolta al futuro, ai progetti,


alla crescita e allo sviluppo delle attività umane. Una Cassa Rurale ed
Artigiana come la Banca di Credito Cooperativo di Battipaglia, ha dal-
la sua parte il valore aggiunto di essere espressione diretta di un territo-
rio. Ne condivide ogni suo aspetto, a partire dalla sua compagine socia-
le. Per questo non può non essere attratta dalla storia della propria
Comunità, della propria terra.
Ecco quindi il nostro camminare avanti, verso il domani, senza per-
dere di vista quel patrimonio storico del nostro passato. Gli oltre no-
vant’anni di vita del nostro sodalizio, i quasi 3000 soci che ne compon-
gono la base sociale e che sono impegnati per costruire il futuro della
propria collettività, hanno radici profonde e hanno un legame con que-
ste terre che in moltissimi casi li hanno accolti e hanno permesso loro di
costruire il proprio avvenire.
Per questo la Cassa Rurale ed Artigiana Banca di Credito Coopera-
tivo di Battipaglia, dopo aver già patrocinato altri importanti studi sulla
storia della Piana del Sele, è oggi orgogliosa di collaborare alla stampa
di questo prezioso lavoro di Alessandro Di Muro.
6 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Con il patrocinio a questo “La Piana del Sele in età normanno-sveva”,


abbiamo voluto contribuire a dare continuità ad uno studio che comple-
ta uno sguardo d’assieme complessivo su un lungo periodo della storia
della Piana del Sele non certamente ricco di analisi storiche, ma che
invece si dimostra di grande interesse sotto molteplici aspetti. Dello stesso
Alessandro Di Muro e di Barbara Visentin infatti, eravamo stati prota-
gonisti della stampa dell’altro ottimo saggio: “Attraversando la Piana -
Dinamiche insediative tra il Tusciano ed il Sele dagli Etruschi ai
Longobardi”.
La nostra Cassa Rurale è orgogliosa quindi di poter contribuire ad
aprire questa ulteriore finestra sul nostro passato certa di far cosa gra-
dita a tutti coloro che amano queste terre.
Un apprezzamento sincero va all’autore e all’editore di quest’opera
per il prezioso lavoro fatto, convinti come sempre siamo stati che la
storia è sempre stata e sempre sarà “magistra vitae”.

Battipaglia, dicembre 2005

SILVIO PETRONE
Presidente della Banca di Credito Cooperativo di Battipaglia
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Prefazione

“L’idea di una storiografia locale intesa come unica possibilità di re-


alizzare una storia generale si è affermata per lunga tradizione e sembra
ormai dominante; ma oggi si comincia a pensare che tale idea abbia
bisogno di un profondo riesame teorico e di una aperta revisione
metodologica, poiché il tentativo degli storici, di cogliere nel microcosmo
il segreto significato del macrocosmo (…) non ha dato finora i frutti che
speravamo”.
La penetrante osservazione di Cinzio Violante, fatta nella Premessa
agli Atti del Congresso tenutosi a Pisa il 9-10 dicembre 1980 su Temi,
fonti e metodi della ricerca storica locale, coglie la complessa questione
storiografica del legame tra storia locale e storia generale. Infatti, quan-
do la ricerca è condotta con metodo scientifico, la storiografia locale,
con la specifica conoscenza di fatti, luoghi, persone e ambienti partico-
lari, diventa organica alla storiografia generale.
Alla luce di queste riflessioni, la ricerca di Alessandro Di Muro ac-
quista rilievo storiografico per il rigore scientifico con cui analizza frustuli
di documentazione e ricostruisce vicende di uomini e di luoghi che inse-
risce abilmente nei circuiti degli avvenimenti generali.
Di Muro, con questo nuovo volume, riprende ed allarga le sue prece-
denti ricerche sull’ambiente, il territorio, la società, l’economia e la cul-
8 La Piana del Sele in età normanno-sveva

tura materiale della piana del Sele, focalizzando la sua indagine sull’età
normanno-sveva. Particolare attenzione dedica al territorio, indagato sotto
l’aspetto topografico e con i metodi dell’archeologo; del resto egli pos-
siede una accentuata propensione per la ricerca archeologica sostenuta
da una buona conoscenza della storiografia longobarda e normanna e
delle fonti documentarie. Questa sua formazione scientifica gli consente
di ricostruire, in un quadro ricco di informazioni e di problematiche,
l’esercizio dei poteri locali e l’attività della Chiesa particolare, di cui
rileva fratture e continuità, la geografia dei casali e la loro parabola, le
dinamiche insediative, la frequentazione dei santuari, come quelli di San
Vito del Sele e dell’Angelo a Olevano sul Tusciano, il rapporto tra città
e campagna di cui tiene in grande considerazione gli aspetti congiuntu-
rali, come le guerre e le catastrofi naturali, e le strutture economiche di
base, come le strade, i mulini e i corsi d’acqua.
Un lavoro, dunque, quello di Alessandro Di Muro, esemplare per me-
todo e fecondo di risultati, che costituisce il frutto maturo di un lungo e
diligente impegno scientifico.

PIETRO DALENA
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A Tiziana, Michele Adolfo e Francesco


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Premessa

«(Il Sele) fiume che le abbondanti acque rendono navigabile;


sulle sue sponde, protette da foreste e paludi, trovano ancoraggio
sicuro le navi da carico ed i legni da guerra»
IDRISI, p. 92

Alla metà del XII secolo, nel momento forse di massimo splendore della
vicenda normanna in Italia meridionale, il geografo arabo Idrisi, giunto nel-
la sua opera dedicata al re Ruggero a tratteggiare l’arco di costa che si esten-
de tra Salerno e Policastro, così descrive il Sele e le terre che lo lambiscono.
Si tratta di un’immagine emblematica di ciò che comunemente si ritiene
essere stata la pianura del Sele nel Medioevo, immaginata e descritta come
malsana e desolata, inaccessibile, dominata da una natura aggressiva che ne
teneva lontani gli uomini1 .
Si tratta, come si avrà modo di vedere, di un’immagine in gran parte
distorta, frutto di un errore di prospettiva storiografica, non corrispondente
alla realtà di un territorio medievale all’interno del quale si sviluppano dina-
miche economiche, di popolamento, di potere intricate e complesse.

Prima di entrare nel merito delle vicende che interessarono il territorio in


età normanno-sveva è indispensabile fare un passo indietro e osservare bre-
vemente cosa lasciavano i Longobardi in eredità a Roberto il Guiscardo e
alla sua gente. Trecento anni prima di Roberto, intorno al 774, Arechi II fece
di Salerno, ridotta ai suoi tempi a poco più di un piccolo villaggio di pesca-
tori, la sua residenza e attrasse nella città rinnovata nobili longobardi2 . Que-
12 La Piana del Sele in età normanno-sveva

sta nuova situazione determinò un interesse accentuato dei nuovi signori di


Salerno per i territori che rientravano nella circoscrizione amministrativa
della città che si estendeva grossomodo tra Cava e il Sele; in particolare le
potenzialmente fertilissime terre tra Salerno e il Sele ben si prestavano alla
sete di terre dei nobili longobardi. Altra circostanza positiva per lo sviluppo
di queste terre fu la creazione di un Principato longobardo autonomo da
Benevento con capitale Salerno sancito dall’imperatore Ludovico II nell’849.
La documentazione scritta e le recenti indagini archeologiche descrivono
fino a tutti gli anni ‘60 del IX secolo una situazione di montante crescita
economica di queste terre, grazie all’avanzante colonizzazione e alle produ-
zioni legate alla montagna, e i resti materiali giunti fino a noi propongono
riflessi davvero straordinari di questa opulenza nella chiesa di Sant’Ambro-
gio a Montecorvino Rovella, nella curtis di Santa Maria e nel santuario di
San Michele a Olevano sul Tusciano. Le produzioni del territorio si riversa-
vano sui mercati salernitani ormai internazionalizzati, grazie all’apporto dei
mercanti amalfitani, e inserivano queste terre nell’orizzonte grandi vie dei
traffici da e verso l’Oriente e il Maghreb3 . Nel corso del X secolo, dopo un
breve periodo di crisi legato anche alle incursioni saracene, un rinnovato
fremito colonizzatore percorse le terre tra Salerno e il Sele: intere famiglie
di coloni, forti di contratti vantaggiosi, dissodarono i latifondi dei grandi
possessori laici e ecclesiastici salernitani, conquistando nuovi campi per i
seminativi, impiantando vigneti e alberi da frutto, coltivando gli antichi oli-
veti, sfruttando i laghi palustri litoranei, dando una spinta vigorosa alla co-
struzione di un paesaggio agrario rinnovato. In concomitanza dell’avanzan-
te agrarizzazione si assiste al sorgere di una rete di castelli, segnacoli di
potenza e di autonomia i cui ruderi ancora oggi dominano dall’alto i territori
tra il Sele e Salerno. Tra X e XI secolo si formano e si consolidano gli ambiti
circoscrizionali di Giffoni, di Olevano e di Eboli che andranno a frantumare
l’antica unità amministrativa salernitana, ormai anacronistica a fronte della
potente crescita economica e demografica in atto4 .
La seconda metà dell’XI secolo vede la conquista di queste terre da parte
dei formidabili cavalieri Normanni di Roberto il Guiscardo. Nel 1076, al
termine di un lungo assedio, Salerno cade definitivamente e Gisulfo II, l’ul-
timo principe longobardo, prende la via dell’esilio, ma il territorio dei Pi-
centini e del Sele già da qualche anno ruotava stabilmente nell’orbita degli
Altavilla5 . Tuttavia si può affermare che al tramonto dell’esperienza longo-
barda l’immagine di desolazione che emerge dai dati archeologici nel VII
Premessa 13

secolo all’ingresso in queste terre dei Longobardi si presentava completa-


mente ribaltata. Ad un paesaggio dominato dagli spettri di quelli che furono
centri famosi nell’Antichità quali Salerno, Picentia e Paestum, se ne è sosti-
tuito un altro caratterizzato da ricchi villaggi, chiese che si ergono nelle
floride campagne intensamente abitate, santuari celebri, una città, Salerno,
centro di commerci con tutto il Mediterraneo e punto di riferimento della
cultura europea dell’epoca6 . Così i primi cavalieri Normanni, per incitare i
loro conterranei a scendere al Sud, potevano a ragione affermare che Saler-
no con il suo territorio costituiva la biblica terra della Promessa nella quale
scorre latte e miele7 .
14 La Piana del Sele in età normanno-sveva
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CAPITOLO I
Il territorio

a) Territorio e viabilità

Lo spazio geografico che costituisce l’oggetto di questo lavoro comprende


sostanzialmente la vasta area definita dalle attuali pertinenze territoriali dei
comuni di Battipaglia, Eboli e Olevano, terre che in età normanno-sveva
costituivano le pertinenze amministrative del castellum Evuli e del castrum
Olibani (Tav. 2). Il limite occidentale dell’area è segnato dal corso del fiu-
me Cornea fino alla confluenza nel Tusciano e di qui fino al mare. Confine
settentrionale del territorio sono le pendici sud-orientali dei Monti Picentini,
in particolare i Monti di Maiano e il Monte Raione. La linea di litorale tra le
foci del Tusciano e Sele definisce a Mezzogiorno l’area, mentre il Sele dal-
l’innesto del fiume Tenza nei pressi del ponte della Popilia costituisce il
limite ad Oriente. Nel territorio del Tusciano è possibile individuare una
fitta trama di percorsi viari costituita da vie antiche, pubbliche e carrare, ma
a causa dell’oblio di parte dei riferimenti toponomastici ricordati dalle fonti
per le aree della piana, non sempre è possibile indicarne la corretta colloca-
zione (Tav. 1). La parte meridionale del locus era interessata dal passaggio
della via que badit circa litore maris, una via litoranea che proveniva da
Salerno e si dirigeva verso le terre del Sele8 . Questa strada non fu proba-
16 La Piana del Sele in età normanno-sveva
Il territorio 17

bilmente praticabile lungo tutta la costa a causa della presenza dei tre grandi
laghi palustri Piczolu, Maiore e Paulino; forse in corrispondenza delle zone
impraticabili, quando possibile, l’attraversamento delle paludi avveniva tra-
mite chiatte o piccole imbarcazioni9 oppure si sceglievano itinerari alterna-
tivi come la via antiqua del Laneo10 , che, attraversata la tenuta di Campo-
longo, giungeva fino al Sele nei pressi della chiesa di Santa Cecilia11 . Altra
direttrice che attraversava orizzontalmente il territorio (o parte di esso) era
quella via cha dal guado di San Vito lungo il Tusciano si inoltrava nella
piana, non lontano dalla chiesa di San Mattia12 , nella località Fasanara13 .
Nei pressi della foce del Tusciano la via litoranea si incrociava con una
via publica che risaliva il fiume e si dirigeva verso le terre settentrionali del
locus14 . Circa due chilometri più a nord della via litoranea si svolgeva paral-
lela ad essa un’altra strada che proveniva da un ponte sul Tusciano (bia que
benit a ponte predicti fluminis)15 . Questa strada, il cui percorso è ancora
oggi rintracciabile, insieme alle vie menzionate sopra, nella località Fasana-
ra di Battipaglia, si inoltrava verso oriente allacciandosi all’altezza del lago
Maggiore alla via antiqua del Laneo, ricordata quest’ultima nel IX secolo
semplicemente come via publica16 . La strada che attraversava il Laneo pro-
veniva dalle terre al di là del Sele e continuava, oltrepassato il ponte sul
Tusciano, in direzione del Picentino e di Salerno; si tratta probabilmente del
percorso seguito dalla ambasceria bizantina che, venuta a Salerno per accor-
darsi con Arechi II, era sbarcata ad Agropoli nel 787 da dove via terra rag-
giunse nel gennaio del 788 la città tirrenica17 . Sulla riva destra del Tusciano
è testimoniata un’altra via publica che segue il fiume tra questo e il Lama18 .
Risalendo lungo il fiume, sulla sponda sinistra si rinviene in un documento
del 1035 una via publica maior: la strada si trova ad est della terra all’inter-
no della quale si eleva la chiesa di Sant’Arcangelo, nella contrada detta Star-
za nella documentazione del XVIII secolo19 , terra che ha come limite occi-
dentale le acque del Tusciano20 . La via risaliva dunque la valle e si dirigeva
verosimilmente verso il castrum Olibani, secondo il tracciato seguito anco-
ra oggi dalla strada che collega Battipaglia ad Olevano. Oltre alla via publi-
ca maior altri percorsi transitavano per il castrum Olibani, come quella via
antica che è ricordata in un documento del 1049 a Nord del vallone Valle-
monio21 ; la strada si svolge in direzione W-E verso il Tusciano e il castrum
Olibani da un lato e verso San Vito e Faiano nel senso opposto22 , seguendo
un tracciato ancora oggi percorribile. Probabilmente all’altezza di Vallemo-
nio si innesta sul tronco di questa strada un’altra via, detta ancora oggi ‘an-
18 La Piana del Sele in età normanno-sveva

tica’ che scende per la località ‘Carcarelle longobarda’ e si aggancia al per-


corso dell’odierna SS 19, chiamata nei pressi di Battipaglia via puplica ebu-
lensis23 . Quest’ultima costituiva in età normanno-sveva l’asse principale delle
comunicazioni nel territorio: oltrepassato il fiume Tusciano attraverso il Pons
Tussani dei documenti di XII e XIII secolo24 , passava sotto il castelluccio di
Battipaglia e giungeva ad Eboli. Si tratta dell’antica via Capua-Reggio, o
quanto di questo antico tracciato rimaneva nel Medioevo, riadattato forse
alle mutate esigenze e forse ridotto in alcuni tratti a pista sterrata a causa
della mancanza di manutenzione25 , nota nei documenti medievali di Eboli
anche come via pubblica che va a Salerno26 . Il tratto della via tra Eboli e il
Sele è certamente tra i meglio conosciuti27 : la strada correva ai piedi del-
l’abitato di Eboli proseguendo in direzione sud-est verso il Sele, passando
dalle odierne contrade di Campagna, Epitaffio e Verticelli; di qui seguiva
per un breve tratto il Sele per poi attraversarlo meno di un chilometro a nord
dall’attuale ponte da dove si inoltrava verso le nares Lucaniae (passo dello
Scuorzo) e il Vallo di Diano. Si tratta di un itinerario che ricalca pressappoco
il percorso tra Eboli e il Sele dell’attuale strada statale delle Calabrie. La
documentazione scritta e le sopravvivenze materiali permettono di confer-
mare questo itinerario. All’inizio del XIII secolo si menziona per la prima
volta ad Eboli una località denominata Strata28 , ricordata qualche anno più
tardi nei pressi del torrente Telegro29 , oggi attraversato, nelle vicinanze del-
la località Epitaffio dalla strada statale delle Calabrie (SS 19). Nel XIV
secolo si ricorda un oliveto in una carta di compravendita di terre nel locus
Galdo, nella zona ubi dicitur Caput strate, nei pressi della chiesa di San
Marco30 . La chiesa di San Marco si trova non lontano dalla chiesa di San
Felice31 , quest’ultima collocata nella contrada Calli32 , toponimo con il qua-
le ancora oggi si indica la zona dell’Epitaffio di Campagna, dove è localiz-
zato un quadrivio il cui asse principale è costituito dal tracciato della via
popilia, oggi SS 19, intersecato perpendicolarmente dalla strada che sale a
Campagna e si inoltra verso l’alta valle del Sele, passando per Osella. Si
comprende in tal modo il motivo per il quale la località venisse denominata
Caput strate, vero perno del sistema delle comunicazioni con la Calabria, il
Sannio e la Puglia33 . Sulle sponde del Sele si rinvengono le strutture di un
ponte romano costituito in origine da almeno tre campate, con un attracco.
La continuità di utilizzo del ponte e del porto fluviale in età medievale è
confermata da tracce materiali e da documenti scritti redatti tra XI e XIII
secolo34 . Il Sele costituiva dunque una via di penetrazione verso le vallate
Il territorio 19

appenniniche ma anche un comodo percorso per spostarsi lungo i vari at-


tracchi che segnavano il corso del fiume: non mancano infatti testimonianze
documentarie di altri approdi a cominciare dal portus maris alla foce del
Sele ricordato esplicitamente dalle fonti a partire dai primi anni del XII se-
colo35 . Poco lontano dalla foce, nel locus Mercatello è ricordato un portus et
vadu, un passaggio per trasportare uomini e merci dall’una all’altra sponda
del fiume36 , in ragione della via antiqua che da Santa Cecilia attraversava la
pianura e si spingeva in direzione di Salerno. Si tratta forse dello stesso
passaggio relativo alla strada che dalla porta settentrionale di Poseidonia-
Paestum giungeva al Sele in prossimità dell’Heraion, il cui primo impianto
risale al V secolo a. C.37 . Un altro portus fluminis Siler è menzionato nel
1128 nel testamento di Guglielmo di Principato, sicuramente diverso da quelli
finora ricordati perché donato all’abbazia della SS.ma Trinità di Cava38 in
un periodo in cui la stessa già possedeva parte della rada di Mercatello.
Risalendo verso il ponte sulla popilia si rinviene già nel 1012 un guado nei
pressi della confluenza del Calore cilentano nel Sele, attraversamento che
avveniva mediante le lintre, piccoli traghetti il cui utilizzo era necessaria-
mente collegato ad un attracco39 . L’atto che documenta tale situazione è la
conferma da parte di Guaimario III all’episcopus Cennamus del Mons au-
reus; in essa si specifica tra l’altro come i rectores della sede micaelica del
Tusciano e i loro uomini potessero entrare nel Sele dall’innesto del Calore e
risalirlo con le lintre in supra usque [in ora] de Alimenta, fino cioè alla
confluenza del rivo Alimenta circa 14 km a nord del primo punto. Nei pressi
della confluenza Calore-Sele il documento ricorda inoltre una via carraria
che si dirigeva probabilmente verso la località Maida, quadrivio nella lingua
longobarda, e di qui doveva inoltrarsi verso Capaccio. La medesima via
carraria è rammentata sulla riva destra del Sele nelle vicinanze del vallone
qui dicitur de Flocche ( oggi Fiocche), non lontano dal fiume qui Telebrum
dicitur, il Telegro, nei pressi del punto in cui le sue acque affluiscono al
Sele40 . La strada doveva dunque scorrere nelle terre di Fiocche parallela per
un tratto al corso del Sele fino, verosimilmente, alla scafa, da dove sulla
sponda opposta del fiume si inoltrava verso le terre di Dulicaria41 . Sempre
nei pressi della confluenza Telegro-Sele si incrocia una via che ducit ad
Ebuli42 , attestata per la prima volta nel 108343 . Non dovevano inoltre man-
care passaggi e risalite lungo il Sele controllate direttamente dall’autorità
pubblica, come si deduce da un documento del 1114 in cui Roberto di Eboli
concede ai monaci della Badia di Cava l’esenzione dal pagamento44 . Gli
20 La Piana del Sele in età normanno-sveva

stessi privilegi concessi alla Chiesa salernitana e al monastero-episcopio del


Mons aureus costituiscono la conferma dell’esistenza di un sistema di pas-
saggio controllato integralmente dall’autorità pubblica, presumibilmente at-
traverso l’opera di ufficiali. Un punto di attraversamento del fiume forse
controllato già da portunarii in epoca longobarda era la scafa del Sele, di cui
permane memoria toponomastica nel toponimo Ponte della scafa all’altezza
di Ponte Barizzo. Di qui ai viaggiatori del ‘700 e dell’800 si aprivano da
lontano i maestosi scenari dei templi pestani e delle paludi regno degli om-
brosi bufali dagli occhi selvaggi e iniettati di sangue. Poche centinaia di
metri più a sud è stata ipotizzata la presenza di una rada nella località San
Vito, sulla riva destra del Sele45 . Naturalmente a questi punti di passaggio
sul fiume corrispondevano percorsi che si diramavano nella piana verso est
e verso ovest, ma che risalivano anche lungo il Sele, come attesta un charta
collationis del 1041 relativa ad una chiesa del locus Mercatello in cui si
annota una via che procede iusto flubio Siler46 .
La zona nord orientale del territorio indagato, un’area caratterizzata da
monti e piccoli altopiani, appare nella documentazione medievale interessa-
ta da un articolato sistema viario che consente il collegamento tra i diversi
centri della regione47 . In particolare un documento ricognitivo del 1164 con-
sente di ricostruire le linee della viabilità in quest’area. Nella contrada Ma-
litu di Monte i ricognitori annotano come confine di una terra la via qua itur
Ebolum48 ; si tratta verosimilmente della stessa strada che tuttora, passando
per Melito, conduce da Olevano ad Eboli. Poco prima nel documento si era
menzionata una via antiqua49 , ma la scomparsa del toponimo Ursanu, con-
trada interessata dal suo passaggio, non permette di collocare meglio questa
strada. Gli ufficiali preposti alla ricognizione delle terre della Chiesa saler-
nitana ancora a Melito, nei pressi della via che conduce ad Eboli, accennano
ad una via que vadit ad Montem50 , la strada che conduce al cuore del locus
che stanno percorrendo, dove è attestato anche un castello51 . Una non me-
glio identificabile via publica e una viam veterem che attraversano il locus
costituiscono altri percorsi che concorrono a definire il reticolo viario di
Monte52 . Superata la località San Donato, nei pressi del mons Quadraginta
è menzionata una via que vadit ad Paludem53 , evidentemente un percorso
che collegava le zone montane del locus con l’altopiano di Palude. Proce-
dendo verso sud est si incontra più volte una via campanina54 , con ogni
probabilità la via che porta a Campagna. Si tratta del percorso che costitui-
sce un po’ il filo rosso seguito dai ricognitori durante la misurazione delle
Il territorio 21

terre tra il Montedoro (castellum de Sancta Teccla) e il Tenza. La via passa


nelle vicinanze di Santa Lucia, si inoltra quindi nel locus Furano, attraver-
sando il vallone de Foresta (oggi vallone del bosco) Truncito, Sant’Angelo
e la località Truppaldisi ad est di Sant’Angelo55 . Il tracciato descritto nel
documento corrisponde grossomodo alla strada che oggi mette in comuni-
cazione Santa Maria la Nova con Campagna.
Sentieri e percorsi minori erano utilizzati per raggiungere i centri a ridos-
so dei monti, attraversando le aspre aree che li separavano. Un documento
di donazione di età normanna illustra la complessità degli itinerari nelle zone
montuose tra Olevano, Campagna ed Acerno; la descrizione prende le mos-
se dal cilium montis de crypta Sancti Angeli que dicitur Montis aurei (il
santuario micaelico del Tusciano) e passando per il vallone de lo Ginillo
ascende inter fines costae caldae (oronimo ancora oggi presente a nord del
monte Raione, dove tuttora sussiste un sentiero che passa per l’angusto val-
lone r’o Ncinillo) e inter fines de Turbulo et vadit usque ad locum qui dicitur
Vadillo seguendo una viam que descendit in capite castanieto de Pedenzone
nei pressi del centro abitato di Campagna, vicino al cilium montis qui dici-
tur de Ronda et per cilium terrae quae dicitur de la Melella secus viam que
descendit ad Faitum fino a giungere verso meridione alla maculam que dici-
tur le Palelle, Chianelle ad ovest dell’abitato di Campagna scendendo di
qui fino alla crypta que dicitur Palmentara e dunque alla via campanina56 . I
sentieri ricordati nel documento come viae sono tuttora percorribili e colle-
gano, con una certa comodità se percorsi a cavallo o a dorso di un mulo,
Campagna con i colli soprastanti Eboli, con Olevano e con Acerno.
Ricapitolando la situazione viaria nel territorio esaminato, si può osser-
vare come permanesse nel Medioevo un reticolo grossomodo ortogonale,
probabilmente di impronta romana. Il ramo maggiore del sistema era sicu-
ramente il tracciato della via popilia che attraversava il territorio da nord
ovest a nord est, discendendo dalle pendici dei monti Picentini e rimontando
verso gli Alburni; su di essa si innestano una serie di vie che risalgono verso
le valli, quali la via che dal ponte si dirige a Campagna, oppure che seguono
il corso del Sele e del Tusciano verso i passi appenninici. Proprio il fiume
Sele pare caratterizzarsi come via preferenziale per l’attraversamento del
territorio in direzione nord-sud, come testimonia il gran numero di approdi e
guadi collegati da piccole imbarcazioni, le lintrae. Soprattutto la via fluviale
doveva permettere un agevole risalita verso l’alta valle del Sele, bretella
fondamentale all’interno delle comunicazioni tra le coste del Tirreno e le
22 La Piana del Sele in età normanno-sveva

terre dell’Adriatico: di qui infatti un percorso romano, diverticolo della po-


pilia, lungo la riva destra del Sele, ancora oggi ricalcato dalla viabilità loca-
le, superato lo spartiacque Sele-Ofanto all’altezza del varco appenninico
della Sella di Conza, immette nella valle dell’Ofanto dominata in quel tratto
dalla fortezza di Conza, insieme la via più comoda per raggiungere la Pu-
glia, ma anche chiave di accesso per risalire lungo l’Irpinia verso Beneven-
to57 . Dagli approdi marini risalendo il Sele era poi possibile raggiungere
facilmente quelli che in epoca tardo longobarda e poi in età normanna sareb-
bero diventati i centri amministrativi del territorio, Eboli e Campagna.
Altri percorsi fondamentali nelle comunicazioni all’interno del territorio
si svolgevano paralleli alla via popilia, come la via che da Licinianum pas-
sando per le alture a nord di Eboli si immetteva sulla via campanina, colle-
gando, attraverso il territorio del Tusciano e la sua alta valle, Eboli e Campa-
gna al cuore dei Monti Picentini.
Un sistema in definitiva che si può definire estremamente funzionale e
complessivamente equilibrato, caratterizzato da un cospicuo numero di vie
che attraversano sia la pianura che le colline e i monti, collegate tra di loro,
con numerosi punti di attraversamento lungo il Sele e il Tusciano58 .

b) Castrum Olibani e castellum Ebuli. Le due signorie di castello tra Tuscia-


no e Sele in età normanno-sveva

L’area che comprende grossomodo i territori degli odierni comuni di


Olevano sul Tusciano e Battipaglia, dai monti fino al mare, viene ricordata
dalle fonti scritte fino al X secolo come locus Tuscianus in finibus salernita-
nis, dunque tra le pertinenze amministrative dirette della capitale del Princi-
pato longobardo di Salerno. L’istituzione della signoria territoriale del ca-
strum Olibani determinò la divisone della precedente unità; in seguito a
questa disgregazione la parte meridionale del territorio conservò l’antico
appellativo (locus Tuscianus) mentre la parte settentrionale mutuò la deno-
minazione dalla fortezza (castrum Olibani, da cui Olevano)59 . La signoria
olevanese si costituì in seguito all’azione del principe longobardo di Salerno
Gisulfo I, detentore di gran parte delle terre del Tusciano, che, a partire dal
958, accordò una serie di donazioni di ampie porzioni di territorio alla Chie-
sa salernitana. In tal modo quest’ultima poté costituire in pochi anni un este-
so e compatto dominio fondiario che dapprima ebbe natura immunitaria e
Il territorio 23

poi, a partire dagli inizi dell’XI secolo, sfociò nelle forme della signoria
territoriale, con poteri giurisdizionali su tutti gli abitanti del territorio ca-
strense60 . Tale situazione rimase inalterata fino agli anni’30 del XIII secolo
quando i sopravvenuti contrasti tra Federico II e la Chiesa portarono all’ina-
sprimento dei rapporti tra l’imperatore e l’ordinario diocesano salernitano,
sfociati nella requisizione del castrum Olibani61 .

Eboli emerge dalla scarsa documentazione scritta anteriore all’XI seco-


lo in cui appare menzionata, come una landa (un locus) rientrante nelle di-
pendenze amministrative di Salerno (in finibus salernitanis)62 . Alla metà
dell’XI secolo la situazione appare però mutata: già nel 1047 Eboli è ricor-
data come un castellum, centro di un territorio definito comitatus con una
famiglia comitale che lo controlla da almeno due generazioni, la famiglia
del conte Lamberto, legata da vincoli di parentela alla famiglia principesca
di Giovanni di Lamberto regnante a Salerno63 .
All’indomani della conquista di Salerno da parte dei Normanni la fami-
glia del conte Lamberto risulta sostituita da un altro lignaggio a capo del
comitatus ebolitano, questa volta di stirpe normanna, rappresentato nei pri-
mi anni ’80 dell’XI secolo dalla comitissa domna Emma de Ala, vedova del
conte Guimondo de Mulisi e già sposa del conte Rao Trincanotte64 . Ho già
esposto altrove come si possano ricercare i motivi dell’esclusione della fa-
miglia di Lamberto dalla signoria di Eboli negli episodi che segnarono le
vicende di questa parte del territorio tra gli anni 50 e 60 dell’XI secolo65 . Lo
storico cassinense Amato narra come nel 1054 i normanni Guglielmo di
Altavilla e suo fratello Umfredo, irritati per un premio prima promesso e poi
negato dal principe Gisulfo II in cambio dei loro servigi, conquistassero le
fortezze di San Nicandro, Castelvecchio e Castel Fagosa individuati nei
pressi di Eboli e da lì partissero per compiere devastanti razzie nella parte
sudorientale del Principato di Salerno66 . A partire da questo episodio Gisul-
fo II perse completamente il controllo sulle terre del Principato al di là del
Tusciano e ben presto Guglielmo di Altavilla costituì nelle terre conquistate
una propria signoria autonoma dal principe; a poco valse la mediazione di
Roberto il Guiscardo, fratello di Guglielmo, che portò solo al riconoscimen-
to formale della dipendenza delle terre usurpate al dominio di Roberto stes-
so e alla cessazione dell’avanzante conquista di terre da parte dell’Altavil-
la67 . Qualche anno più tardi, nel 1068, lo stesso Guglielmo di Altavilla e il
suo miles Guimondo de Mulisi compaiono di fronte ad un concilio tenutosi
24 La Piana del Sele in età normanno-sveva

a Salerno, presieduto dal pontefice Alessandro II e restituiscono alla Chiesa


salernitana i beni che avevano usurpato durante le loro razzie, tra cui il ca-
strum Olibani e terre e chiese nelle pertinenze di Eboli68 . E’ verosimile sup-
porre, alla luce di questi episodi, che Guglielmo abbia ben presto conquista-
to durante le sue scorrerie, tra gli altri, anche il castello e il territorio di Eboli
e lo abbia concesso al suo fedele compagno Guimondo, il quale, accompa-
gnato dal suo dominus, restituì ad Alfano I di Salerno, come si è visto, i beni
della Chiesa salernitana ricadenti nelle terre da lui controllate.
Da questa occupazione del castello di Eboli si passò, all’indomani della
conquista completa del Principato da parte di Roberto il Guiscardo (1076),
al riconoscimento giuridico potremmo dire ufficiale del nuovo dominus di
Eboli, incardinato nella vasta Contea di Principato a capo della quale era
Guglielmo d’Altavilla. Guimondo e la sua famiglia dovettero subentrare in
maniera pressocché integrale nell’asse patrimoniale del lignaggio di Lam-
berto tanto da sostituire i vecchi conti di Eboli anche nella signoria della
chiesa privata di San Nicola di Gallucanta. A Guimondo successe probabil-
mente suo figlio Guglielmo, già morto nel 108269 . A questi subentrò Rober-
to, che aveva sposato Mabilia, figlia del conte Guido fratello del principe di
Salerno Guaimario IV70 . Si torna dunque, dopo anni di contrapposizione, ad
una politica di legami con gli antichi signori di Salerno, sancita da alleanze
matrimoniali, come era costume dei conquistatori normanni71 . Ad Eboli pro-
babilmente ciò accadde in ritardo rispetto ad altre aree, a causa della violen-
ta conquista del territorio. Mabilia diede un figlio a Roberto, Guaimario, che
morì prematuramente72 . Con la morte senza eredi diretti di Roberto intorno
al 112073 , Eboli ritornò, almeno ufficialmente, alla signoria diretta della fa-
miglia di Guglielmo d’Altavilla, che lo aveva affidato a Guimondo e dun-
que nella vasta Contea di Principato che si estendeva dalle valli del Sele e
del Tanagro al Golfo di Policastro74 . Negli anni ‘30 del XII secolo il control-
lo su Eboli appare demandato dal signore di Principato a due ufficiali, lo
stratigoto e il magister castelli Ebuli, ricordati insieme in un documento del
1132 in una concessione feudale avvenuta alla presenza di Nicola conte di
Principato75 , forse espressioni dell’ amministrazione della giustizia e del
controllo militare di Eboli da parte del conte76 . La signoria dei discendenti
di Guglielmo d’Altavilla sul territorio permase fino al 1156 quando Gugliel-
mo III di Principato, sconfitto dal re normanno Guglielmo I, cui si era ribel-
lato, scelse la via dell’esilio e la Contea di Principato passò sotto il diretto
controllo del sovrano il quale lo concesse a Enrico di Navarra, marito di
Il territorio 25

Adelasia, figlia naturale di Ruggero II. Morto quest’ultimo, resse le sorti


della Contea sua moglie Adelasia fino al 1193, quando il re Tancredi la privò
della Contea e la concesse a Riccardo di Acerra77 . La guerra tra l’imperatore
Enrico VI e i normanni, nella quale Eboli si schierò con gli svevi78 , conclu-
sasi con la vittoria dell’imperatore, portò a una ridefinizione del controllo
della Contea che fu restituita nel 1195 al figlio di Adelasia, Guglielmo, fino
al 1219 quando Federico II immette la terra e gli abitanti di Eboli nel regio
demanio79 e, dunque, sotto il controllo diretto della Corona. In questi anni si
rinvengono ad Eboli due funzionari della corona, dapprima un catapano nel
1216 e nel 122080 , poi, dal 1224, un baiulo81 . Si tratta di ufficiali che svolgo-
no le medesime funzioni: entrambi, infatti, riunita la corte, amministrano la
giustizia ad Eboli. La differenza non pare legata a funzioni diverse ricoperte
ma unicamente alla titolografia, probabilmente riflesso della nuova condi-
zione amministrativa di Eboli e, più in generale, della riorganizzazione del
Regno avviata da Federico II con le Costituzioni di Capua nel 122082 . Alla
morte di Federico II, Eboli rientra pienamente nella circoscrizione ammini-
strativa della Contea, affidata dal re Manfredi a Galvano Lancia che la man-
tenne fino alla conquista angioina del Regno. Quest’ultimo, come è stato
notato, si comportò nella Contea quasi come un sovrano, facendo riportare
nei documenti gli anni del suo comitato accanto agli anni di regno del sovra-
no e requisendo beni ecclesiastici83 .
Agli inizi del XII secolo si ha un quadro chiaro dell’estensione del di-
stretto amministrativo ebolitano; in esso rientrano le terre che spaziano dal
locus Monte al Sele, perlomeno dal tratto di fiume che va dal ponte romano
della popilia alla chiesa di San Vito fino al mare84 , mentre le terre della
piana che vanno dal Tusciano fino all’ultimo tratto del Sele appartengono
sicuramente alla giurisdizione dei conti di Eboli a partire almeno dal 1114,
anno in cui Roberto concede ai monaci di Cava la facoltà di fare legna nei
boschi tra il Tusciano e il Sele, territorio evidentemente che ricadeva sotto la
sua signoria85 . In questo periodo Roberto di Eboli risulta anche signore di
Campagna86 .
Non è possibile affermare con certezza se la delimitazione territoriale del
comitato ebolitano nella prima età normanna ricalcasse la precedente di-
strettuazione longobarda, ma è verosimile che la circoscrizione amministra-
tiva normanna non mutasse di molto rispetto alla precedente, tendendo i
Normanni, in questa prima fase del loro insediamento, di norma a non stra-
volgere l’assetto circoscrizionale longobardo nelle terre dell’antico Princi-
26 La Piana del Sele in età normanno-sveva

pato di Salerno 87 . La circostanza sembrerebbe confermata dalla scomparsa


della consueta formula in finibus salernitanis per le terre del locus Tuscia-
nus a partire dagli anni 30 dell’XI secolo. E’ possibile che negli ultimi
decenni dell’età longobarda si sia provveduto ad una riconsiderazione dei
vasti confini della circoscrizione amministrativa di Salerno, troppo ampi per
essere controllati direttamente dal centro tirrenico: di qui il sorgere dei co-
mitati di Giffoni e Eboli e della signoria territoriale dell’arcivescovo di Sa-
lerno ad Olevano88 .

c) La geografia del possesso

La Chiesa salernitana si delinea in età normanno-sveva come una delle


maggiori detentrici di possedimenti nelle terre tra il Tusciano e il Sele: in
una carta del 1080 in cui Roberto il Guiscardo conferma ad Alfano I le terre
della cattedra di San Matteo nel salernitano possiamo individuare a grandi
linee le aree che dall’età longobarda questa deteneva89 : nel territorio di Ole-
vano il castrum Olibani, il casale Liciniano, il casale di Scalcinati e il san-
tuario di San Michele; nel territorio della piana del Sele, la castelluccia di
Battipaglia, Fasanara, le terre intorno al fiume Lama, le grotte del mare nei
pressi della foce del Tusciano, il Lago Maggiore, Campolongo, un porto
lungo il Sele, le terre di San Vito al Sele con il santuario e le selve circostan-
ti, la tenuta di Persano,e altre terre coltivate e incolte lungo il Tusciano. La
situazione del dominio salenitano per tutta l’età normanno-sveva non subi-
sce grandi modificazioni, come si evince da un documento analogo redatto
dalla cancelleria di Federico II nel 122190 , se si esclude l’importante acqui-
sizione dell’abbazia di San Pietro di Eboli con le sue pertinenze: in partico-
lare nella piana le chiese di San Nicola di Mercatello, di Sant’Andrea, di
Santa Cecilia, e oltre il Sele della Santa Trinità, di San Michele e di San
Nicandro91 e la donazione delle terre di Fiocche da parte di Nicola di Princi-
pato nel 114192 .
Più complessa è l’evoluzione del dominio fondiario dell’abbazia della
Santissima Trinità di Cava, l’altro grande ente ecclesiastico possessore di
terre nella piana. La prima attestazione della presenza cavense nella piana
del Sele rimonta al 1035 quando Guaimario IV fa dono all’abate Adelferio
della chiesa di Sant’Arcangelo e di alcune terre e celle93 , ma furono senza
dubbio i Normanni a fare del cenobio cluniacense uno dei più potenti deten-
Il territorio 27

tori di beni fondiari tra il Tusciano e il Sele. Nel 1082 la contessa Emma de
Ala dona al monastero cavense la metà della chiesa di San Michele presso il
Tusciano e quattro mulini94 . Il duca Ruggero Borsa, figlio di Roberto il
Guiscardo, nel 1089 offre al cenobio l’importante chiesa di San Mattia de
Tusciano, per secoli il centro del dominio fondiario cavense in queste ter-
re95 , con le sue ricche pertinenze terriere e i suoi mulini lungo il fiume96 .
Nello stesso anno il duca provvede ad altre due donazioni; con la prima
concede tre terre nelle vicinanze della chiesa di Sant’Arcangelo97 con la
seconda dona il mulino pubblico con le sue pertinenze edificato lungo il
Tusciano, poco sopra la chiesa di San Mattia, con la facoltà di costruire altri
mulini98 . Ancora nel 1089 Emma fa dono alla Santissima Trinità di Cava
delle terre nelle quali è costruita la chiesa di Santo Stefano de Tusciano, ad
est del fiume99 . Nel 1105 Roberto signore di Eboli concede alla Badia di
Cava quattro appezzamenti di terreno nel locus Laneo, nei pressi di Campo-
longo100 , mentre nel 1109 Adelelmus normanno dona una terra nei pressi del
Laneo101 . Le donazioni pro anima continuano e nel 1109 Aloara moglie del
conte Landolfo dona una vasta proprietà in loco Tusciano ubi alle salelle
dicitur, dunque in una zona in cui insisteva un insediamenti102 .Ma gli stessi
abati cavensi sono intenti ad acquisire terre nella piana per accrescere e com-
pattare il loro dominio, in una politica fondiaria, talora assai dispendiosa,
tesa alla razionalizzazione del controllo delle fertili terre tra Tusciano e Sele:
già nel 1090 il cenobio cavense acquisisce da San Pietro di Eboli una terra
coltivata in loco Tusciano ubi Cabavari dicitur, terra confinante con altre
terre appartenenti già alla santissima Trinità103 . Nel 1095 l’abate di Cava
acquisisce per la cifra di 100 solidi aurei un cospicuo podere che in località
Capilluti104 e nel 1105 per 90 solidi un’altra ubi dicitur Ceppitu sulla spon-
da sinistra del Tusciano105 . Di un certo interesse risulta un documento del
1165 che attesta l’avvenuto acquisto della metà di una estesa tenuta in loca-
lità Calcarola, sulle colline tra Battipaglia e Eboli, di proprietà di Matteo
Guarna, fratello del celebre arcivescovo salernitano Romualdo II con terre
laboratorie, selve e grotte, per ben 170 once d’oro di tarì siciliani106 . Qual-
che anno più tardi Luca Guarna giustiziere del Regno, fratello di Matteo e di
Romualdo, cederà all’abate cavense l’altra metà della tenuta per la medesi-
ma somma107 . Le stesse dipendenze cavensi gestiscono per conto dell’abate
possedimenti complementari ai domini dell’abbazia: oltre San Mattia, an-
che la chiesa salernitana di San Nicola de Palma, ad esempio, possiede terre
nei pressi del Tusciano vicino alla chiesa di San Pietro, circondata da poderi
28 La Piana del Sele in età normanno-sveva

cavensi108 e qualche anno più tardi ne acquisisce altre nei pressi della chiesa
di S. Maria que dicitur Zita109 . Altri incameramenti di terre avvengono fino
a tutti gli anni ’80 del XII secolo, quando l’impressionante processo di ac-
quisizione fondiaria sembra ormai stabilizzato110 . I possedimenti sono ge-
stiti dal priorato di San Mattia mentre i casali di San Mattia, di Sant’Arcan-
gelo e di Tusciano costituiscono i nuclei di popolamento della piana soggetti
alla signoria immunitaria abbaziale111 . Di grande importanza nelle strategie
della gestione del patrimonio fondiario e dei prodotti da esso derivanti do-
vette essere l’acquisizione dei porti del Sele: il portus fluminis Siler e il
portus maris nel 1128 vengono donati all’abbazia della Trinità da Gugliel-
mo di Principato112 . Nel 1137 l’abbazia cavense compra la sesta parte del
porto del fiume Sele nella località Cerzagallara vicino al Mercatello, con le
terre circostanti per 150 tarì d’oro113 . Negli stessi giorni l’abbazia acquista
un’altra parte (1/12) del medesimo approdo per 67 tarì d’oro114 .
Nelle carte si ha menzione notizia della permanenza dell’abate cavense
nelle terre della piana. Già nel 1136 in una concessione di terre in località
Curbello di Eboli si specifica che i concessionari debbano costruire una
dimora (domus) nella quale potrà soggiornare l’abate quando lo vorrà115 e
nel gennaio 1175 l’abate Benincasa soggiorna presso il monastero di San
Mattia de Tusciano116 .

Altre chiese e istituti religiosi posseggono terre nella piana: di un certo


interesse risulta la testimonianza di possedimenti della chiesa di Santa Ma-
ria foris portam di Amalfi117
29

CAPITOLO II
Gli insediamenti

a) I casali

Negli ultimi anni del dominio longobardo si affaccia nella documenta-


zione scritta relativa alle terre a sud di Salerno il termine ‘casale’, nel senso
di villaggio. In un documento del 1047 il principe longobardo di Salerno
Gisulfo II conferma all’arcivescovo Amato II il casale Licinianum, il casale
sancti Victoris de Gifono e il casale de Scalcinati118 .
Nel corso dell’età normanna si assisterà ad una fioritura di casali in par-
ticolare nelle terre tra il Tusciano e il Sele. Di seguito si tenterà di individua-
re alcuni di questi insediamenti e di definirne la natura e la tipologia119 .

Nella Piana: i casali di Tuscianum, di San Clemente, di Battipaglia, di


Sant’Arcangelo, di Santa Cecilia, di San Nicola de Mercatello e di San Pie-
tro ad Columnellum

Il primo casale di cui si ha notizia per le terre della pianura di Battipaglia


è il casale Tuscianum, non lontano dalla chiesa di San Mattia. Si tratta pro-
babilmente del maggiore tra i casali delle terre tra il Tusciano e il Sele. Nel
1129 in un atto di compravendita si ricordano alcune terre poste nel casale
30 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Tusciano ubi puteus dicitur de porcilis120 , ma già qualche anno prima si


faceva riferimento nelle carte a un vico Tusciano, ossia a un villaggio rura-
le121 . Nel XII secolo il casale appare suddiviso in numerosi lotti appoderati,
coltivati per lo più122 e al suo interno si individuano numerose contrade, qua-
li Ischitella, Leborano, Li Laurelli, Fasanara, Scafassa, Battipaglia, Puteus
de Porcilis, Campitella, Brusca, San Biagio, Sant’Arcangelo, Populi Rao-
nis, Anania, Calcarola, Querceta ed altre ancora123 . Il nucleo di villaggio
principale del casale doveva trovarsi nei pressi del ponte del Tusciano, lun-
go l’antico percorso della popilia, abitato da quegli homines Pontis Tussani
che nel 1231 sono chiamati, insieme agli uomini del casale Battipalie e ad
altri a provvedere alle riparazioni della domus federiciana del Castelluc-
cio124 . La documentazione scritta ricorda numerose chiese nel casale sin
dall’età longobarda. Già Gisulfo I nel 968 aveva donato al vescovo salerni-
tano Pietro alcuni oratori rurali nella zona meridionale del Tusciano, San
Pietro, San Michele, Santo Stefano125 . Dalla documentazione posteriore è
possibile vedere come queste chiese sorgessero tra loro vicine, non lontano
dalla sponda sinistra del Tusciano: San Michele Arcangelo è detta edificata
in un fondo ultra fluvium Tuscianum che ha come confine il fiume stesso126 ,
mentre la chiesa di Santo Stefano era costruita in una terra a sud di San
Michele Arcangelo127 . La chiesa di San Pietro, ricordata come San Pietro
dei Crapettoni nel XII secolo, si trovava nei pressi di Sant’Arcangelo, sulla
riva destra del Tusciano128 . La chiesa nel 1186 per derelicta habetur129 . Non
lontano, si è detto, sorgeva la chiesa di Sant’Arcangelo,donata dal principe
Guaimario IV al monastero cavense nel 1035130 . Attorno alla chiesa in età
normanna si raccolse una comunità monastica guidata da un priore dipen-
dente sempre dalla Santa Trinità di Cava131 . Vicina a questi santuari rurali
era la chiesa di Santa Maria zita, dipendenza dell’arciepiscopio salernitano,
menzionata per la prima volta nel 1055132 , nota anche come Santa Maria ubi
pons dicitur133 , come risulta chiaramente dai documenti del XII secolo134 .
Si tratta probabilmente del ponte della Popilia che attraversava il Tusciano,
luogo nei pressi del quale sorgeva il nucleo di villaggio del casale. Poco più
a nord è ricordata nel 976 la chiesa di San Petroniano lungo la via antiqua
sopra il vallone Vallemonio, sulla riva destra del Tusciano 135 . Altra chiesa
ricordata già in età longobarda è San Biagio, menzionata in un documento
del 1055 sulla sponda sinistra del fiume Tusciano136 , non lontano da San
Mattia137 nella contrada Fasanara. La chiesa è ricordata come pertinenza
della Trinità di Cava in una conferma del pontefice Eugenio III del 1149138 .
Gli insediamenti 31

La chiesa più importante del casale in età normanno-sveva fu senza dubbio


San Mattia, fondata dal principe Guaimario IV (1027-1052)139 nei pressi del
riva sinistra del Tusciano, all’incrocio della via che dal mare conducevano a
Battipaglia con la via antiqua che proveniva da Santa Cecilia 140 . In questi
anni alla conduzione della chiesa era un abate, capo di una comunità di presbi-
teri, che provvedeva all’amministrazione dei beni di cui essa era dotata e alla
cura spirituale dei contadini che ne coltivavano le terre141 . San Mattia fu dona-
ta, insieme alle sue pertinenze, all’abate di Cava Pietro nel 1089 dal duca
Ruggiero, figlio di Roberto il Guiscardo142 . A partire dalla metà del XII secolo
San Mattia si configura come una comunità monastica a capo della quale è un
preposito, monaco della Santissima Trinità143 , mentre nel XIII secolo è un
priore a gestire il cenobio144 . Altra chiesa principesca longobarda documenta-
ta nel territorio è San Pietro appena a nord della chiesa di San Mattia, sulla
sponda sinistra del fiume, ricordata per la prima volta nel 1055 in un docu-
mento emanato dalla cancelleria di Gisulfo II come ecclesia que pertinet no-
stro sacro palatio145 , evidentemente diversa da quel San Pietro ricordato so-
pra, donata da Gisulfo I al vescovo Giovanni nel 968. La chiesa è detta in
rovina (diruta) nel documento di donazione di San Mattia del 1089146 .
Tutte le chiese ricordate si elevano nei pressi di importanti vie di comu-
nicazione (la via antiqua, la via puplica maiore, il ponte sul Tusciano), defi-
nendo una precisa tendenza a creare una serie di servizi lungo le arterie
principali dei traffici che vedremo pienamente sviluppata in età normanna,
quando dalla documentazione emergono nuovi luoghi di culto. La chiesa di
San Pietro ad columnellum, confermata nel 1089 dal pontefice Urbano II al
monastero cavense147 , costituisce un ulteriore oratorio dedicato al Principe
degli Apostoli nella Piana: la sua ubicazione è da porre non lontano dal Sele,
nelle vicinanze del casale di Santa Cecilia presso il torrente Radica o Fatula,
come si evince da un documento del 1146 in cui peraltro la chiesa, cum
cellis suis, è già ricordata diruta148 . Altra chiesa del casale Tusciano testimo-
niata in età normanna è San Clemente, menzionata per la prima volta nel
1104149 . Si tratta dell’unica parrocchia ricordata esplicitamente dalle fonti
per l’antico locus Tusciano150 . La chiesa, da cui prese nome l’omonima con-
trada ricordata come casale alla fine del XII secolo151 , si trovava lungo la
via che conduceva ad Eboli, sulla sponda sinistra del Tusciano152 .
Altre chiese ricordate nel XII secolo nel casale Tusciano sono San Feli-
ce153 , Santa Maria de Calcarola nei pressi della strada che da Battipaglia
conduce ad Eboli154 e, forse, San Magno155 .
32 La Piana del Sele in età normanno-sveva

L’esistenza di un così elevato numero di chiese, almeno sette aperte al


culto tra XII e XIII secolo, è indice di una popolazione numerosa sparsa
residente nelle contrade del casale. La stessa documentazione scritta relati-
va ai secoli XII e XIII restituisce la sensazione di un popolamento diffuso
del quale tuttavia è impossibile precisare la consistenza156 . Dalla documen-
tazione emerge l’importanza, in particolare per quanto riguarda le pertinen-
ze della Trinità di Cava, dei due monasteri di San Mattia e di Sant’Arcange-
lo; i due cenobi presentano nel XII secolo caratteri comuni: chiese private
dei principi longobardi di Salerno, donate all’abate cavense, nel XII secolo
si strutturano come comunità monastiche a capo delle quali è posto un prio-
re e un preposito. La posizione dei due monasteri ai capi opposti dell’asse
verticale dei possedimenti cavensi lungo il Tusciano, uno nei pressi della
Castelluccia l’altro non lontano dalla foce del fiume, ne favorì il ruolo di
fulcri del controllo di Cava su queste terre: i loro priori organizzarono per
conto dell’abate, a partire dal XII secolo, la gestione di pie oblazioni157 ,
monacazioni158 , affidamento di terre159 , controllo dei mulini160 , cause legate
ai diritti di proprietà161 , acquisizioni di terre162 . Si razionalizzò in tal modo
la gestione di un patrimonio molto vasto, dividendolo in competenze territo-
riali, destinate ad attirare tra XII e XIII secolo gli abitanti degli insediamenti
sparsi circostanti e formare casali autonomi dal casale Tusciano163 . Nel XIII
secolo tuttavia le competenze divise nel secolo precedente tra i due enti,
sembrano concentrarsi nelle mani del rettore di San Mattia164 , forse non a
caso insignito in questi anni del titolo di priore.
Nel casale Tusciano si rogano atti165 e le comunicazioni sono assicurate
da vie pubbliche166 . Alcuni mulini lungo il fiume Tusciano provvedono alla
macinazione del grano che abbondante si coltiva in queste terre167 . Gli abi-
tanti del casale compaiono nella documentazione scritta frequentemente come
detentori di terre. Riporto di seguito alcuni esempi. Nel 1137 Domenico
Scafasso del casale Tusciano acquista da Gemma Guaitarda una terra vacua
nello stesso casale per 80 tarì d’oro168 . Si tratta di una cifra abbastanza alta
se si considera che nel 1160 con 26 tarì si acquistavano due moggi di fru-
mento e uno d’orzo169 e nel 1178 con 80 tarì si acquistava un gregge di 40
pecore170 . Nel 1145 Umfredo di Tusciano dona al cenobio della Trinità di
Cava una terra nella località Tusciano171 . Gemma residente nel casale Tu-
sciano dona nel 1145 una terra alberata nella contrada Palese del casale172 .
Littio Madio e Urso del casale Tusciano posseggono terre nel territorio nel
1155173 . Iannone di Battipaglia vende per 42 tarì al magister Torgisio di
Gli insediamenti 33

Eboli nel 1160 una terra con alberi fruttiferi a Battipaglia174 L’anno succes-
sivo Goffredo abitante nel vicus Tusciano gravemente ammalato, dona per
la sua salvezza una terra laboratoria nella contrada Anania del casale Tu-
sciano175 . Nel 1165 Urso Cacace del vico Tusciano prende in moglie Grusa
e le dona, secondo la consuetudine longobarda, come morgengabe la quarta
parte di tutti i suoi averi mobili e immobili176 . Nel 1172 Martino Galgano
acquista tre terre laboratoriae nei pressi del fiume Tusciano per 188 tarì
salernitani177 . Nel 1173 Maraldo de Beccaro del casale Tusciano vende una
terra nel casale sant’Arcangelo per 120 tarì salernitani178 . Nel 1176 Urso e
Pietro del casale Tusciano vendono una terra laboratoria a Caro del casale
Liciniano per 200 tarì179 . Tre anni più tardi si rinviene una transazione in cui
Giovanni Brusca del casale Tusciano vende al presbitero Bartolomeo due
terre per ben 260 tarì di Salerno180 . Nel 1170 Marino del casale Tusciano
dettando il suo testamento sul letto dove giace ammalato, stabilisce che dei
suoi averi 250 tarì siano distribuiti ai poveri. Per reperire tale ingente som-
ma sarà venduta una sua terra nei pressi del Tusciano. Marino possiede inol-
tre altri terreni nel casale Tusciano e ad Eboli, che insieme ad altri beni
lascia a Maria figlia di Gionata181 . Nel 1175 Palermo del casale Tusciano
nelle sue volontà testamentarie lascia una serie di terre nel casale ai suoi due
figli naturali e altri beni mobili e fondi alla Trinità di Cava insieme a una
casa solarata in muratura che possiede in civitate Eboli182 .
Le numerose attestazioni di allodieri, detentori di terreni anche di un
certo valore e anche al di fuori del casale, come negli ultimi esempi riportati,
provano che nel casale Tusciano abitassero personaggi liberi, benestanti,
che investono anche al di fuori del casale. Non stupisce pertanto trovare nel
casale Tusciano le origini di una delle più importanti famiglie salernitane
dei secoli XIII e XIV i Silvatico o Salvatico. Già nel 1145 Umfredo del
Tusciano, figlio del fu Giovanni Silvatico, vende una terra nel vico Tusciano
alla località Scafassi183 . Altri personaggi della famiglia Silvatico si rinven-
gono nel casale fino al 1190184 . Da questa famiglia proviene Matteo Silvati-
co uno dei maggiori medici d’Europa tra la fine del XIII e gli inizi del XIV,
noto per l’ “Opus Pandectarum Medicinae”, considerato il lavoro più com-
pleto ed erudito del tempo sulle virtù terapeutiche delle erbe. Matteo, tra le
altre cose, creò nei suoi possedimenti salernitani un giardino dei semplici,
riconosciuto come il più antico orto botanico d’Europa, nel quale coltivò
numerose specie di piante tra le quali la Cantalide (Athamanta cretensis),
che si fece inviare direttamente dalla Grecia 185 .
34 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Il casale Tusciano risulta donato dall’imperatore svevo Enrico VI (+ 1197)


all’Ordine di Santa Maria dei Teutonici con gli abitanti, le terre e le pertinen-
ze186 , ma ben presto fu restituito alla Trinità di Cava, che ne deteneva il domi-
nio immunitario prima della donazione 187 . L’origine dei diritti di Cava sul
casale Tuscianum risale al 1089: nella carta con la quale Ruggiero Borsa dona
la chiesa di San Mattia e le sue terre all’abate di Cava, Pietro, il duca rimarca
come tutti gli uomini liberi che abiteranno in quelle terre non dovranno pre-
stare più al sovrano servizi di carattere pubblico o versare dazi , ma tutto ciò
che avrebbero dovuto correspondere allo Stato lo dovranno da ora all’abate.
Si tratta di una importante concessione di immunità nella quale l’abate di Cava
si configura quale dominus della terra e degli uomini, anche dei liberi188 . Nel
1127 tali diritti venivano accresciuti dal cosiddetto testamento del duca di
Salerno Guglielmo che sul letto di morte aveva donato tutte le sue proprietà tra
il Tusciano e il Sele con la giurisdizione sui suoi abitanti all’abate di Cava189 ,
atto confermato e accresciuto da Guglielmo d’Altavilla, conte di Principa-
to190 . Questa presenza signorile cavense è confermata da documenti del XII
secolo in cui si fa riferimento a viceconti del Tusciano dipendenti dal cenobio
cavense191 . Si tratta probabilmente di ufficiali, legati alla S.ma Trinità di Cava
anche attraverso concessioni di terreni, che esercitavano verosimilmente la
bassa giustizia nel territorio del casale per conto dell’abate e ne rappresentava-
no gli interessi nei casi in cui veniva chiamato in giudizio192 . Dal 1206 si
rinviene quale ufficiale della Trinità di Cava in queste terre un baiulo193 . Baiu-
li e viceconti ricevevano in concessione terre dall’abbazia in cambio di censi
poco più che simbolici: così, ad esempio, nel 1188 l’abate Benincasa concede
a Urso viceconte del monastero nel casale Tusciano ben sette appezzamenti di
terreno coltivato a cereali in cambio di dodici tarì da correspondere a Nata-
le194 , mentre nel 1208 il baiulo Giovanni riceve una terra dall’abate di Cava
impegnandosi a versare ogni anno a Natale un tarì per l’acquisto dell’incen-
so195 . Gli abitanti del casale erano soggetti, sin dai tempi di Ruggero II e dei
due Guglielmi, a corrispondere alla Santissima Trinità di Cava i diritti di fida-
gio, erbatico, pleteatico, acquatico, ripatico, portulatico e glandatico196 . Come
altrove in Italia meridionale i signori normanni favorirono l’espansione della
Santa Trinità di Cava nella piana del Sele con concessioni di immunità e dona-
zioni di terre, in particolare fino alla metà del XII secolo. La possibilità di
legarsi ad un cenobio rinomato per la santità dei suoi abati e potente per i
legami che aveva già intrecciato con i principi longobardi, garantiva prestigio
e sostegno a duchi e aristocratici normanni197 .
Gli insediamenti 35

Altro villaggio nei pressi del Tusciano è il casale di Sant’Arcangelo per-


tinente anch’esso alla badia di Cava198 . Il nucleo si polarizzò intorno all’an-
tica chiesa, ricordata, come si è visto, sin dal X secolo. Un documento del
1035 ricorda la posizione del podere all’interno del quale si elevava la chie-
sa di Sant’Arcangelo, tra il fiume Tusciano e la via publica maior,la strada
che conduceva dalle terre del locus Tusciano ad Olevano199 ; la documenta-
zione del XVIII secolo ricorda la chiesa posta nella contrada detta Starza200 ,
la Starza di Battipaglia, oggi la zona nei pressi di via Domodossola. La chie-
sa, poi monastero, era posta nei pressi di uno snodo viario importante nel
quadro delle comunicazioni del territorio: da una parte la via che risaliva,
come si è detto, verso Olevano e l’Appennino e dall’altra la strada che dal
vicino castelluccio si allacciava al percorso della popilia; non a caso nelle
vicinanze è documentata una taverna 201 . Lo stesso villaggio sorto intorno
alla chiesa di San Mattia è detto casale nel XIII secolo202 . L’aggregazione
come a Sant’Arcangelo fu favorita dal prestigio del monastero e dalla favo-
revole posizione nei pressi di un importante quadrivio. Anche qui, come
altrove, gli abitanti dei casali posseggono terre, anche lontano dal casale,
come quel Gualtierus qui dicitur Grecus habitator casalis Sancte Mathie
che nel 1258 vende quattro appezzamenti di terra a Campagna al monastero
di Santa Maria la Nova203 . Il casale per un certo periodo nel XIII secolo fu
sottratto al dominio cavense, ma nel 1266 fu restituito alla Badia204 .
Un altro casale ricordato dalle fonti è San Clemente205 già noto come
locus nell’XI secolo206 . Il casale si trovava ai piedi dei colli tra Battipaglia
ed Eboli207 , ed è attraversato da una via que pergit de Bactipalea208 . Al ca-
sale afferiva, come detto, l’omonima chiesa209 , centro spirituale degli abi-
tanti del villaggio, ricordata fino al 1223210 .
Altro abitato nella piana è il casale di Santa Cecilia211 . Nel 1231 i suoi
abitanti sono ricordati tra gli uomini addetti alla manutenzione della domus
del Castelluccio212 . La località è menzionata per la prima volta in uno stru-
mento di donazione del 1095 . In esso Ruggero Trincanotte nobile norman-
no di Eboli, concede al monastero di San Pietro di Eboli tra le altre cose una
isclam que Sancte Cecilie dicitur, che ha come confine orientale il fiume
Sele213 . Come altri casali, S. Cecilia trae la denominazione dalla chiesa
omonima ricordata a partire dal 1161 come pertinenza dell’arcivescovo di
Salerno214 . Il casale sorgeva sulla riva destra del Sele, non molto distante dal
santuario di San Vito. Una via antiqua che percorreva la piana proveniente
dal Tusciano costituiva probabilmente l’asse principale delle comunicazioni
36 La Piana del Sele in età normanno-sveva

del casale, sebbene bisogna immaginare che le condizioni di impaludamen-


to dell’area non la rendessero sempre percorribile. Meglio praticabile dove-
va risultare la risalita del Sele215 . Guadato il fiume, nelle immediate vicinan-
ze della riva, si elevava la chiesa di San Nicola de Mercatello. La chiesa fu
fondata da una famiglia comitale longobarda salernitana negli anni ’20 del-
l’XI secolo nei pressi di un porto fluviale e del porto alla foce del Sele e
conobbe una certa prosperità intorno alla metà dello stesso secolo, favorita
dalla prossimità al vicino guado sul Sele e ai porti, oltre che dalla presenza
molto probabile di un mercato nell’area216 . La chiesa compare nel 1160 tra
le pertinenze ebolitane dell’arciepiscopio salernitano217 , ma nello stesso anno
in una lite tra quest’ultimo e il cenobio cavense si stabiliscono i diritti del-
l’abbazia della Santa Trinità sul tenimento di Mercatello e sulla chiesa che
tra l’altro risulta nunc diruta218 . L’abbandono della chiesa e del nucleo di
abitato aggregatosi all’intorno219 non dovette durare molto: nel 1227 la chiesa
risulta nuovamente officiata220 e nel 1306 è attestato un casale Sancti Nico-
lai ad Mercatellum cum omnibus suis vassallis...et cum portu fluminis ipso
casali propinquo221 .
Anche Battipalea è ricordata come casale ai tempi di Federico II, nel
celebre documento in cui l’imperatore nomina i provisores dei castelli cam-
pani, tra questi ricorda la domus castelluccii Battipalie che deve essere ripa-
rata, tra gli altri dagli homines eiusdem casalis222 . Il casale fu strappato alla
Chiesa salernitana dal conte svevo Marcovaldo (+ 1202), passato poi ai Ca-
valieri Teutonici, alla morte dell’imperatore fu restituito all’arcivescovo che
ne deteneva il possesso almeno dai tempi di Roberto il Guiscardo (a. 1080)
223
. Il documento del 1251 che ci informa delle modalità della restituzione,
permette di individuare alcune delle strutture del casale: al suo interno vi
sono edifici abitativi, una cappella e terre coltivate; a controllo del casale vi
è il fortilizio224 . All’atto della restituzione del castello e del casale avvenuta
qualche giorno più tardi gli homines predicti casalis, gli abitanti del casale,
prestano giuramento di fedeltà all’arcivescovo: si tratta di 23 capofamiglia
di cui si ricordano i nomi nel documento225 , circostanza che fa valutare in
circa 100 unità questi che possiamo definire ‘protobattipagliesi’. Con il giu-
ramento di fedeltà alla Chiesa salernitana questi uomini si dichiaravano sem-
per vassalli iuris et dictionis dicti archiepiscopi et successorum eius et pre-
dicte ecclesie, et gaudeant illa libertate, qua alii vassali ipsius ecclesie
gaudere noscuntur226. I vassalli di Battipaglia dunque godranno di quella
libertas di cui godono anche gli altri vassalli della chiesa salernitana. Si
Gli insediamenti 37

tratta di un punto molto importante che fa intravedere una serie di diritti di


cui i battipagliesi erano detentori, dei quali purtroppo sappiamo ben poco.
Probabilmente si trattava degli stessi diritti di cui godevano gli abitanti del
castrum Olibani, anch’essi vassalli della Chiesa salernitana227 . Ma oltre ai
diritti, i vassalli battipagliesi erano naturalmente soggetti ad obblighi, che si
potrebbero dedurre per analogia da quanto accadeva ad Olevano228 .

Olevano: i casali Licinianum e Scalcinati

Nel già ricordato documento di Gisulfo II del 1047 compare per la pri-
ma volta il casale Licinianum229 . La località peraltro risulta già nota a partire
dal 958 quando il principe Gisulfo I di Salerno ne fa dono al vescovo saler-
nitano Pietro V230 . L’insediamento è stato individuato ad Olevano sulla col-
lina Li Cignali da Carlo Carucci negli anni ’30 dello scorso secolo231 . Si
tratta di un villaggio costituito da case sparse lungo l’antica strada che da
Ariano conduceva ad Eboli: ancora si scorgono numerosi resti di abitazioni
nella località232 . La strutturazione del casale si declina in una serie di contra-
de, Ali Pandulfi233 , a la Fontana234 , a lu Campu235 , A li Grechi236 , tuttora in
parte rintracciabili nella toponomastica olevanese. Gli abitanti del casale
trovavano un momento di aggregazione attorno alle tre chiese del luogo,
Santa Sofia, San Nicola e Santa Maria237 . Di queste ultime due si possono
ancora osservare i ruderi. La chiesa di San Nicola, che sorge lungo la strada
per Eboli, presenta una pianta a navata unica conclusa da un’abside semicir-
colare. Si tratta di un sacello di minute dimensioni che doveva soddisfare le
esigenze spirituali di una piccola comunità. E’ difficile sulla base dei pochi
elementi superstiti indicare una datazione dell’edificio, anche se la tipologia
planimetrica e l’abside sembrano orientarne una collocazione cronologica
intorno al XII-XIII secolo. Maggiori elementi per una valutazione proven-
gono da Santa Maria di Liciniano. La chiesa si eleva lungo il versante nord-
occidentale del colle, nella località Torre. Si tratta di un edificio a navata
unica concluso da una profonda abside semicircolare, sul fronte del quale
permangono i resti di un campanile addossato in una fase successiva all’edi-
ficazione. L’estradosso absidale conserva sulla sommità una decorazione a
spina di pesce realizzata in laterizi (fig.1). Si tratta di un motivo ornamentale
che conosce una certa fioritura tra XI e XII secolo e che vale ad indicare
l’ambito cronologico dell’elevazione della chiesa di Liciniano. Diverse ri-
38 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Fig. 1 - Olevano sul Tusciano, Liciniano, abside della chiesa di S. Maria


Gli insediamenti 39

sultano le coltivazioni nel casale: in particolare emerge la coltura dell’oli-


vo238 , del salice239 e della vigna, ma anche della quercia240 . Gli abitanti di
Liciniano possedevano trappeti come quella machina sive olearia di cui Gio-
vanni de Sergio vende la quarta parte all’arcivescovo Cesario di Salerno nel
1240. Lo stesso Giovanni l’aveva costruito in predicto casali Liciniani in-
sieme a Pietro de Matheo dello stesso casale241 , circostanza che illumina sui
saperi pratici di questi personaggi capaci di costruire un opificio alquanto
complicato e costoso come un frantoio. Oltre ai possedimenti della Chiesa
salernitana, emerge in età sveva la presenza del monastero amalfitano di
San Lorenzo, possessore di numerosi oliveti a Liciniano242 . Il casale è ricor-
dato dalle fonti fino al XV secolo come soggetto alla Chiesa salernitana: in
un riconoscimento del 1252 viene trascritto un documento in cui Gisulfo II
conferma all’arcivescovo di Salerno Amato (✝ prima del 1058) Liciniano ed
Olevano cum omnibus hominibus et bonis eorum habitantes et habitaturos
in ipso et pertinentis eius et cum omnibus juribus terris aquis molinis et
tenimentis suis. Si tratta della conferma di un trasferimento di prerogative
pubbliche sul territorio dal Principato alla Chiesa di Salerno. Il principe
chiarisce che tale autorità si estende su tutti gli abitanti, di ogni censo e
condizione, di quelle terre, liberi servi censiles rusticos vel stauriti e che
tutti i liberi ab omni collecta et publicis serviciis sint immunes. Inoltre si
precisa che gli abitanti di Olevano e Liciniano coram eo [l’arcivescovo] et
sui successoribus de omnes civiles questiones convenire debeant et a suo
judice judicari243 . Il giudizio su tutti gli uomini di queste terre sarà dunque
esercitato dall’arcivescovo. Anche per Licinianum dunque, come per il ca-
strum Olibani, si prospetta una signoria territoriale della Chiesa salernitana:
esentati dai publicis serviciis, ossia da quegli obblighi di carattere pubblico
che sottolineavano la dipendenza dal potere centrale, in quanto dovranno
riconoscerli all’arcivescovo, gli abitanti di Liciniano, così come quelli di
Olevano, sono giudicati dagli ufficiali e dai tribunali possiamo dire “di ban-
no” dell’arcivescovo. A differenza di Olevano la signoria dell’ordinario
salernitano su Liciniano non si proiettò simbolicamente nella presenza di un
castello: ben visibile dalle case di Licinianum, era infatti il maniero olevane-
se a ricordare la presenza del dominus. Roberto il Guiscardo nel 1080 con-
fermerà ad Alfano I accanto al castrum Olibani e al santuario di San Miche-
le del Monte aureo, Liciniano iusto titolo et vero dominio… per legitima
documenta nobis ostensa244 . Infine dieci anni più tardi Roberto conte di
Principato confermò e riconobbe i diritti dll’arcivescovo di Salerno sul ca-
40 La Piana del Sele in età normanno-sveva

sale Licinianum, richiamandosi tra l’altro al documento di Gisulfo245 . Ro-


berto chiarificò che gli abitanti di Licinianum de omni questione et placito
… semper baiulis et iudicibus predicti domni archiepiscopi … debeant libe-
re conveniri. Non facendo l’atto riferimento esclusivamente a coloro che
lavoravano o abitavano le terre di proprietà dell’arcivescovo, pare non es-
servi dubbio sul carattere pienamente territoriale della signoria246 .
La documentazione scritta, per quanto riguarda il periodo indagato, ri-
corda nel territorio di Olevano un altro casale, Scalcinati dal 1047 menzio-
nato fino al XIII secolo247 , di cui non permangono tracce neppure nella to-
ponomastica locale.

Eboli: il casale di Monte e il casale Palude

Il casale di Monte, ricordato come vico nel 1153248 , costituisce uno degli
esempi meglio documentati dell’organizzazione di un casale medievale tra
Salerno e il Sele. Un prezioso documento di ricognizione di possedimenti
della Chiesa salernitana e del santuario di San Michele di Olevano del 1164249 ,
permette di ricostruire almeno in parte le strutture del casale Montis, un
esteso villaggio tra Olevano ed Eboli, nella località ancora oggi ricordata
come Monte di Eboli. Il documento fu stilato per ordine dell’arcivescovo
salernitano Romualdo II Guarna che intese fare chiarezza sui suoi possedi-
menti tra le alte colline che si estendono tra Olevano e Campagna. A tale
scopo inviò alcuni suoi uomini a percorrere queste lande affinché compilas-
sero un registro. Nel corso della loro ricognizione, gli ufficiali della chiesa
salernitana, percorrendo le vie di Monte, annotarono con precisione i confi-
ni delle pertinenze con le coltivazioni che si attuavano e i punti di riferimen-
to meglio riconoscibili, per lo più chiese. Ne viene fuori un quadro suggesti-
vo di Monte, visto con gli occhi di uomini vissuti 900 anni fa. Il casale è
percorso da un reticolo viario che ne consente l’agevole comunicazione con
le terre di Eboli, Olevano e Campagna250 . Le sue pertinenze territoriali ap-
paiono molto estese: al suo interno si individuano una serie di contrade,
Maljtu, oggi Melito, Ad puntum, Suberitu, Bubiljanu, A la Petrisula, Marilj-
nianum, Buccapizza, Martenese, Ad Castanetum, Ad Guisonem, Ad Sorbel-
lum, A li Cariclj, A li Ferrari . All’interno del casale si elevano numerose
chiese, San Salvatore a Marilininianum251 , Sant’Adiutore nella medesima
località252 , San Donato253 . Centro del casale è un castello, diruto nel 1164,
Gli insediamenti 41

su di un colle al di sopra della chiesa di San Donato, la collina oggi detta del
Carmine, all’interno del quale vi è una chiesa dedicata alla Vergine254 . Talo-
ra i ricognitori fanno riferimento a case che si trovano negli appezzamenti
che rilevano, ma per lo più tali indicazioni avvengono quando le pareti delle
abitazioni fungono da confine dell’appezzamento255 . In ogni caso è verosi-
mile che ogni appezzamento ricordato (se ne contano circa 30256 ) contenes-
se una casa, altrimenti non si comprenderebbe la funzione delle numerose
chiese citate. Testimonianze di abitazioni a Monte, in ogni caso, si rinvengo-
no anche in altri documenti del XII secolo257 . La presenza di numerose sor-
genti permetteva un agevole approvvigionamento idrico258 . Nel casale vi
era almeno un mulino259 . Anche nella produzione Monte si segnala in epoca
normanna per una certa varietà: numerose sono le terre laboratoriae, ossia
coltivate a grano260 , oppure con l’arbusto vitato261 , la vigna262 e il querce-
to263 , orti264 , alberi di castagno265 , saliceti266 , e altri fruttiferi267 , l’ulivo268 ,
né manca la selva insieme al coltivo nel medesimo appezzamento269 . Tal-
volta si fa riferimento a chi abita e coltiva per conto della Chiesa di Salerno
le terre di Monte, Iohannis de Gualdo, Riccardus cum nepotibus suis, Ama-
tus acernensis, Cristoforus, Fornatus de Radi, Iohannes de Radi, Robertus
Pelejari, ma non mancano liberi possessores che detengono appezzamenti
di terra anche lontano dal casale270 . Tracce toponomastiche di attività pro-
duttive (locus ubi a li ferrari) concorrono a fornire ulteriori suggestioni al
quadro organizzativo del casale. La circostanza che alcune chiese, quali San
Barbato siano ormai cadenti e talune abitazioni risultino abbandonate e lo
stesso castello sia dirutum, costituisce la spia di una situazione di degrado in
evoluzione delle strutture del casale271 . La vicenda dell’abbandono di Mon-
te e delle terre circostanti fu molto lenta e in ogni caso non consumata nel
periodo qui considerato: ad esempio ancora nel 1190 Pietro, vestatario del
monastero di Cava, concedeva terre con case orti, ulivi, vigna e querceto a
Pietro Pipero, al fratello Martino e ai loro discendenti a Padule, beni che
erano appartenuti a un tale Pietro Bellazita272 . Si tratta forse di un tentativo
di ripopolamento, ma la presenza in questi stessi anni di personaggi ancora
residenti a Monte273 e l’attestazione documentaria della parrocchia di Santa
Maria nel XIII secolo274 mostra come queste terre fossero ancora abitate.
Alla metà del XIII secolo era inoltre attivo nel casale un frantoio apparte-
nente all’ordine verginiano275 . Altre carte relative a Monte concorrono a
definire la consistenza del casale in età normanno-sveva. In particolare è
possibile farsi un’idea più precisa delle produzioni agricole di Monte anche
42 La Piana del Sele in età normanno-sveva

nel lungo periodo e in particolare se ne può sottolineare la persistenza della


strutturazione policolturale276 . Le pertinenze territoriali di Monte sono pre-
cisate nella documentazione scritta a partire dall’XI secolo, ma la prima
notizia relativa all’esistenza di questo distretto territoriale risale all’821277 .
Nel 1043 i fratelli Rainaldo e Rocco abitatori de locum Tusciano in perti-
nentis Sancti Angeli Montis Aurei scambiano una loro terra del Tusciano
con il conte Adelberto ricevendone un’altra in loco Monte ubi Scabella dici-
tur278 . La contrada Scabella di Monte è già ricordata nell’atto di donazione a
favore dell’episcopio salernitano rogato dalla cancelleria di Gisulfo I nel
958 ed è detta ulter ipsum Tuscianum279 . Si tratta di Scapella, altura non
lontana dal santuario micaelico di Mons aureus nei pressi del quale abitano
Rocco e Rainaldo. Nel 1017, un certo Maraldo figlio di Maraldo calbarusi,
nel cedere una terra in locum Dossa specifica di essere abitator de loco
Monte, salernitane finibus. Il documento è redatto dal notaio Radoaldo nel-
lo stesso locus280 . Qualche anno più tardi, nel 1043, nel già ricordato atto dei
fratelli Rainaldo e Rocco, tra i testimoni dell’avvenuta transazione figura un
tale Alferio figlio di Maraldo calbarusi abitante di Monte, mentre i due fra-
telli avevano scelto come mediator un certo Amato sempre de locum Monte.
Dunque notai che rogano atti e liberi allodieri abitano in questi anni il locus
Monte, ancora nelle pertinenze amministrative di Salerno. Con la conquista
normanna il casale passò sotto la giurisdizione del comitato ebolitano281 .
L’altro casale tra le colline di Eboli era Palude o Padule, anch’esso men-
zionato nella carta del 1164 a est di Monte. Dell’abitato rimane memoria
toponomastica alle spalle del Montedoro di Eboli, nei pressi delle sorgenti
dell’Ermice. Nel 1152 si ha la prima attestazione documentaria dell’esisten-
za del casale: in una transazione si ricorda una vigna al casale Padula282 . In
esso risiedono presbiteri283 e diaconi284 , vi sono almeno due chiese, una de-
dicata a San Barbato285 l’altra a San Pietro286 . I suoi abitanti posseggono
terre, anche fuori dal casale287 . La situazione colturale ricorda quanto de-
scritto per il vicino casale Monte288 .

Alcune considerazioni sui casali e l’insediamento di Caprarizzo ad Olevano

Alla luce dei dati finora analizzati è possibile tentare di definire una
tipologia dei casali normanno-svevi nelle terre tra il Tusciano e il Sele: si
tratta di porzioni di territorio definiti i cui centri demici sono villaggi aperti
Gli insediamenti 43

(il casale vero e proprio) formati da un nucleo più o meno compatto, senza
però che si realizzi un accentramento completo, con abitazioni insistenti su
poderi confinanti, almeno in origine, gravitanti intorno a chiese. E’ questo il
tipo di villaggio numericamente predominate in età normanno-sveva nel
territorio analizzato, pressoché l’unico nella Piana, mancando qui del tutto
attestazioni certe di insediamenti murati accentrati, se si esclude un riferi-
mento relativo al muro del castelluccio di Battipaglia289 . La presenza di ca-
sali sia nelle zone medio-alto collinari sia nella pianura fa escludere un’op-
zione tipologica determinata da ragioni collegate alla morfologia del territo-
rio. La struttura organizzativa del casale permette una colonizzazione e un
controllo capillare del territorio, con la possibilità di vigilare aree anche estese,
per cui è pensabile che lo sviluppo di tale tipo insediativo sia legato ad altre
ragioni, fondamentalmente economiche. All’interno dei casali, a differenza
di quanto avviene nei borghi, l’abitazione pare spesso legata alla terra che si
coltiva, talora al bosco che si sfrutta, come a Monte. Elemento necessario
per l’insediamento è naturalmente l’acqua e la documentazione scritta ne fa
spesso riferimento nelle numerose attestazioni di fonti, come ad esempio a
Monte e a Liciniano. Il casale può variare nelle dimensioni e negli elementi
qualificanti la sua strutturazione: si va dai semplici casali quali San Clemen-
te con poche case e una chiesa, al grande e complesso casale Monte che si
sviluppa ai piedi di un castello, con almeno 4 chiese, di cui una ricordata
come parrocchia nel 1201, un nucleo principale compatto costituito da una
trentina di abitazioni insistenti ognuna su un podere, e una serie di contrade
anch’esse abitate o allo stesso casale di Battipaglia, anch’esso organizzato
intorno ad una fortezza, abitato da circa 100 uomini, oppure l’esteso casale
Tusciano, probabilmente il maggiore tra tutti quelli documentati, con alme-
no sette chiese attive nel XII secolo.Bisogna ricordare tuttavia come la defi-
nizione di casale nella documentazione scritta non risulti sempre chiara:
talora il casale nello stesso documento viene presentato anche come locus o
vicus, come nel caso di Monte o di Tusciano. In taluni casi i casali norman-
no-svevi sono villaggi già esistenti in età longobarda, come Monte o Lici-
niano, altre volte sono probabilmente il frutto di una riorganizzazione di
terre spesso colonizzate in epoca longobarda come ad esempio il casale San-
t’Arcangelo o San Clemente. L’antichità dell’insediamento probabilmente
ne determina anche la complessità strutturale. Per quanto riguarda i casali
della pianura di Battipaglia, dall’analisi compiuta sui documenti di archivio
emerge come la loro genesi sia da individuare a partire dagli anni ’20 del XII
44 La Piana del Sele in età normanno-sveva

secolo, frutto di una destrutturazione territoriale dell’antica unità del locus


Tuscianus. Fino al 1173 tutte le terre della pianura del Tusciano sono ricon-
dotte entro i limiti del casale omonimo; solo nella seconda metà del XII
secolo si originano i casali di Sant’Arcangelo e San Clemente, fino ad allora
agglomerati ricadenti nel casale o vicus Tusciano290 , riflesso di una più arti-
colata strutturazione della vita socio-economica nelle terre del Tusciano e di
una ulteriore crescita demografica291 . Talora si continuò ad intendere con
“casale Tusciano” la globalità delle terre della Piana sulla riva sinistra del
Tusciano, per lo più nei documenti redatti in terre lontane: così nel 1217 la
cancelleria di Federico II da Ulma, su istanza di Ermanno di Salza, maestro
dell’Ordine Teutonico, confermava le concessioni di terre demaniali,di uo-
mini e di beni tam in mari quam in terris fatte da Federico e da Enrico VI
all’Ordine teutonico nel casale Tusciano, compreso il castello fatto costruire
lì da Mareguardo 292 , il celebre Marquardo d’Anweiler, uno dei maggiori
collaboratori di Enrico VI e benefattore dei Cavalieri Teutonici293 , ricordato
in un documento più tardo come Marcovaldo, costruttore appunto del ca-
stelluccio di Battipaglia294 .
Gli uomini che abitano questi insediamenti hanno come nucleo ‘forte’del-
la loro vita sociale le piccole chiese sparse nella contrada che segnano i tempi
e i ritmi delle feste e dei momenti di aggregazione spirituale, oltre a costituire
talora i fulcri dell’organizzazione economica dei casali. Si è già detto a questo
proposito del ruolo, nel casale Tusciano, dei monasteri di San Mattia e San-
t’Arcangelo, ma una situazione non diversa trapela dalla documentazione re-
lativa alle chiese ‘minori’ dei casali in particolare e del territorio gravitante
intorno al castellum Eboli in generale; queste si configurano, infatti, come
detentrici e organizzatrici di beni patrimoniali, per lo più fondiari295 .
Le popolazioni delle comunità rurali godevano, come si è accennato per
il casale di Battipaglia, di consuetudini cui si aggrappavano tenacemente per
difendere la loro condizione di liberi: nel caso di Battipaglia il sovrano per
mezzo del governatore di Salerno chiarisce come l’arcivescovo debba ga-
rantire agli abitanti del casale le loro libertates, ossia i diritti che attenuava-
no in maniera efficace la possibilità di un dominio incontrastato da parte del
signore. Interessante, da questo punto di vista, un documento del 1252 in cui
i rappresentanti del casale Cusentinorum nei pressi del Sele guidati dal sin-
dicum Nicolaum Citum, actorem seu procuratorem universitatis casalis cu-
sentinorum, si oppongono al tentativo di Riccardo de Rocca, signore del
vicino castello di Sicignano, di inglobare nelle pertinenze della sua signoria
Gli insediamenti 45

il villaggio. A questo proposito Nicola mostra una charta con la quale Gisul-
fo II di Salerno aveva concesso alla Chiesa salernitana il casale Cusentino-
rum cum omnibus hominibus et pertinenciis suis... stabilendo che omnes
homines ...essent liberi et immunes ab omni collecta et publicis serviciis,
atto poi confermato nel 1090 da Roberto conte di Principato296 . E’ evidente
come la comunità del casale temesse il passaggio dalla signoria della Chiesa
di Salerno a quella del signore locale, circostanza che avrebbe di certo vani-
ficato illa libertate, qua alii vassali ipsius ecclesie gaudere noscuntur come
si disse negli stessi anni a riguardo del casale di Battipaglia297 . Da questa
circostanza si può dedurre l’origine di tali diritti in età longobarda298 e l’esi-
stenza di un archivio in cui la comunità conservava gelosamente gli stru-
menti che ne garantivano i diritti, pronti ad essere mostrati in caso di neces-
sità299 , ma anche la relativa mitezza del dominio arcivescovile salernitano
rispetto ai regimi signorili laici.
La condizione di relativo benessere di alcuni abitanti dei casali si deduce
da vari indicatori presenti nella documentazione scritta quali il possesso di
terre all’interno dei casali300 . La documentazione mostra la capacità imprendi-
toriale di alcuni abitanti dei casali, che compaiono spesso anche come deten-
tori di terreni fuori dal casale dove risiedono oltre che di opifici: ad esempio si
è visto come a Licinianum alcuni abitanti si consorziassero per l’edificazione
di un frantoio e poi ne cedessero quote-parti, circostanza che fa emergere,
oltre alla dinamicità sociale di alcuni gruppi, anche la relativa libertà evidente
in un’azione quale la costruzione di un frantoio nonostante il più volte procla-
mato diritto esclusivo della Chiesa salernitana in questo settore nel territo-
rio301 . La disponibilità talora rilevante di denaro si evince da alcune compra-
vendite che vedono come attori gli abitanti dei casali: così ad esempio nel
1176 due fratelli del casale Tusciano vendono a Caro del casale Liciniano una
terra per ben 200 tarì d’oro, una cifra davvero notevole302 .
La vicenda di Salitto del casale Tusciano che va ai bagni puteolani per
curare le sue malattie testimonia anche della mobilità orizzontale degli abi-
tanti di queste terre: nei casali esaminati si rinvengono le tracce di sposta-
menti continui di uomini303 .
Anche da un punto di vista giuridico-istituzionale i casali analizzati si
caratterizzano per una molteplicità di situazioni: Licinianum ad esempio
costituisce una signoria territoriale della Chiesa salernitana, mentre nel ter-
ritorio di Tuscianum si rinvengono aree immuni della Badia cavense e, an-
cora, Monte sembra essersi sviluppato come villaggio in qualche modo au-
46 La Piana del Sele in età normanno-sveva

tonomo da controllo signorile, nonostante la presenza di un castello. Più


difficile risulta indicare il tipo di regime signorile cui erano soggetti gli abi-
tanti degli altri casali: se per Battipaglia sembra fosse operante una signoria
territoriale304 nessuna ipotesi si può formulare per Palude e Santa Cecilia,
mentre San Nicola di Mercatello si configura come signoria immunitaria al
cenobio cavense.
I casali dunque costituiscono i fulcri del popolamento e delle attività
economiche nelle terre di Eboli e di Olevano, accanto naturalmente ai bor-
ghi murati. La consapevolezza di ciò doveva portare a delle vere e proprie
imprese di fondazioni di casali, anche se la documentazione scritta risulta
alquanto avara al proposito. Una serie di documenti di estremo interesse
redatti tra la fine del XIII secolo e gli inizi del successivo, dunque in un
periodo leggermente posteriore all’ambito cronologico qui considerato, con-
sentono di ricostruire un singolare tentativo di impiantare un casale nel cuo-
re della piana del Sele e gli esiti dell’intervento. Nel 1299 l’abate cavense
Rainaldo concede al gallicus Oliviero de Raccellis, di costituire un casale
nel tenimento di San Pietro ad Columnellum, ormai in rovina305 : Oliviero
per prima cosa dovrà ricostruire a sue spese la chiesa, le case e reimpiantare
le vigne all’interno del casale affinché possa essere riabitato306 , dopo di che
cum consensu viri nobilis Philippi de Tucciano domini Ebuli farà sì che il
casale sia separato ab Universitate eiusdem terre Ebuli in exactionibus et
collectis, dunque reso immune come gli altri casali cavensi nella piana. Oli-
viero provvederà a costruire nel casale unam tabernam sufficientem et con-
gruam nella quale potrà trovare ospitalità anche l’abate di Cava e il suo
seguito (comitive sue) per unum diem et noctem quando vorranno alloggiare
nel casale. Sarà inoltre suo compito defendere ab invasionibus, molestiis,
vexationibus gli abitanti del casale, forse elevando fortificazioni, in anni di
forte insicurezza per la guerra del Vespro che proprio in quelle terre aveva
avuto uno dei momenti di maggior asprezza307 . Altro compito di Oliviero
sarà quello di mantenere un monaco del cenobio cavense come cappellano
della chiesa restaurata, affinché la offici die noctuque sicut decet e provveda
alla cura spirituale degli abitanti. In cambio della concessione del casale
cum vassallibus, iuribus, redditis et pertinentiis omnibus ad ipsum casalem
spectantibus, ogni anni Oliviero verserà alla Santa Trinità cinque moggi di
buon frumento. Alla morte di Oliviero e della moglie, Adelina, il casale
passerà al monastero con ben 24 buoi bonos et domitos pro facienda massa-
ria in casali predicto, ossia per coltivare le terre del casale. L’anno succes-
Gli insediamenti 47

sivo il nuovo abate cavense, Roberto, conferma la concessione, accennando


alla guerra che presumibilmente aveva reso difficile la costituzione del casa-
le308 , operazione che in ogni caso era destinata a fallire, come si evince da un
documento del 1310 in cui l’abate Roberto concede a Napoleone di Catania
il tenimento di San Pietro per dieci anni309 . Il concessionario, vir nobilis,
farà costruire una solida sala, il centro dell’azienda, con calce, sabbia e pie-
tre (calce, lapidibus et arena) cum una camera in capite et una alia camera
in pede ipsius sale di cui l’abate si premura di fornire le misure310 . Napole-
one dovrà inoltre far edificare una stalla in muratura coperta, nella quale
saranno ospitati stalloni e giumente, con relative mangiatoie, cavalli del mo-
nastero che saranno portati ad pascendum nei prati della tenuta. Napoleone
e i suoi eredi infine, si impegnano a far sì che chi verrà ad abitare nel teni-
mento possa godere di franchige (franchiciam) e di libertates, ovvero di
attenuazioni dei consueti carichi servili e di libertà del tipo concesso agli
abitanti dei casali. In cambio della concessione Napoleone verserà al mona-
stero ogni anno12 moggi di grano; trascorsi i dieci anni la tenuta sarà resti-
tuita all’abate. Evidentemente il tentativo del 1299 si era risolto in un insuc-
cesso e l’abate cavense aveva pensato bene di abbandonare l’idea di creare
un villaggio esente, ripiegando su di un progetto più facilmente realizzabile
e sicuramente remunerativo.
Nonostante il fallimento dell’impresa, resta la notevole capacità pianifi-
catrice che emerge dalla concessione del 1299, con la lucida individuazione
dei punti nodali dell’organizzazione spirituale e materiale di una comunità
di villaggio: la chiesa, le case, terre da lavorare, la sicurezza da pericoli
esterni, quasi una versione planiziaria dell’incastellamento. Si tratta di un
modello che in altri tempi sarebbe risultato vincente, ma alla fine del XIII
secolo altri erano i nuclei di attrazione della Piana, in particolare Eboli311 .
Le testimonianze sui casali nel territorio indagato offrono dunque un
quadro molto dinamico e una tipologia variegata dell’insediamento e della
sua strutturazione. Anche i resti materiali ancora visibili di alcuni casali per-
mettono di delinearne la strutturazione, come ad esempio a Liciniano.
Un esempio di casale medievale giunto sino ai giorni nostri nella struttu-
razione medievale può forse considerarsi il sito di Caprarizzo individuato
nei pressi della frazione Monticelli di Olevano sul Tusciano. I resti dell’abi-
tato, privo di mura difensive, di cui non si rinvengono tracce sicure nelle
fonti scritte, si elevano lungo il versante sud orientale del colle Pampogni312 .
I ruderi delle abitazioni che costituiscono l’insediamento si dispongono lun-
48 La Piana del Sele in età normanno-sveva

go una serie di terrazze artificiali per un dislivello complessivo di ca 15 m..


Si tratta di una serie di edifici abitativi e produttivi elevati tra XII e XIII
secolo. Di particolare interesse risulta una torre che si sviluppava almeno su
quattro piani. Si tratta di un edificio a pianta quadrata che oggi si presenta
privo della parete meridionale e gran parte della parete orientale a causa di
un crollo. La funzione difensiva della struttura si deduce facilmente dalle
saettiere individuabili sulle pareti superstiti dell’edificio, almeno 4, tre sul
lato settentrionale, due al secondo e una al quarto piano, e una lungo la
parete occidentale, al secondo piano. Il piano inferiore era caratterizzato da
un ambiente voltato a crociera con arconi a sesto acuto con le ghiere realiz-
zate in laterizio. Della struttura originaria rimane un intero arcone sulla pa-
rete nord e frammenti degli arconi sulle pareti ovest e est, insieme ai pennac-
chi della volta (figg. 2-3). Il tipo di volta a crociera che trova raffronti nel-
l’edilizia campana e in ambito salernitano con analoghe realizzazioni del
XIII secolo313 , vale a collocare a quest’epoca la costruzione della torre di
Olevano. Poco più in alto si osservano i resti di un altro complesso di estre-
mo interesse. Si tratta di due edifici collegati da un ‘passetto’ poggiante su
due archi a sesto acuto314 (fig.4) la cui parte inferiore fungeva da passaggio
tra un grosso cortile delimitato da un muro e l’esterno, forse una strada del
villaggio. I due edifici appaiono contestuali, edificati in una stessa fase. Ciò
si deduce chiaramente dall’attacco delle rispettive quinte murarie settentrio-
nali con l’arco del passetto315 . Il primo edificio sembra avere le forme e la
qualificazione di un palazzo. Si tratta di un edificio a pianta rettangolare con
una torre affiancata sul lato sud, articolato su due piani, senza partizioni sul
piano terraneo (fig. 5).
L’ingresso avveniva direttamente dal cortile recintato sul lato meridio-
nale, attraverso una porta oggi tompagnata. All’estremità meridionale del-
l’edificio si eleva la torre articolata su tre livelli. La torre non sembra mo-
strare i segni di una funzionalità difensiva: sono infatti del tutto assenti saet-
tiere e caditoie. Al contrario l’accesso avveniva attraverso un’ampia porta
(oltre 2m di luce) a sesto acuto ora in parte tompagnata, e al secondo piano,
al di sopra della porta, vi era un balcone in legno, come si nota dalle buche
pontaie, cui si accedeva da un’ampia apertura archiacuta. Sul lato occiden-
tale della torre, sempre al secondo piano, vi era una seconda porta cui si
accedeva dall’esterno attraverso una scala in muratura di cui rimane l’im-
pronta sulla facciata del palazzo. Un’altra finestra conclusa da un arco a
sesto acuto in muratura con la sola chiave in laterizio si ritrova sul lato est
Gli insediamenti 49

Fig. 2 - Olevano sul Tusciano,


Caprarizzo, edificio 2 (torre)
prospetto W

Fig. 3 - Olevano sul Tusciano,


Caprarizzo, edificio 2 (torre),
volta a crociera archiacuta Fig. 5 - Olevano sul Tusciano,
Caprarizzo, palazzetto visto da S-E

Fig. 4 - Proposta ricostruttiva


del palazzetto di Caprarizzo
(dis. arch. Amintore Carucci)
50 La Piana del Sele in età normanno-sveva

della torre. Altre tre aperture di dimensioni minori caratterizzano il terzo


piano nei lati S e W. Il primo piano era coperto da una volta a botte. Si tratta
di elementi architettonici che connotano una funzione certamente non di-
fensiva della struttura. Doveva piuttosto trattarsi di un elemento simbolico,
qualificante forse la dignità del personaggio che risiedeva nel palazzo. Sem-
pre lungo il lato meridionale della costruzione, dove era posto l’ingresso
dell’edificio, al secondo piano vi era una bifora che ora risulta nell’apertura
di destra tompagnata e nell’apertura di sinistra in parte diroccata. Un’altra
ampia finestra, ora tompagnata, a tutto sesto con ghiera in laterizi, era al
secondo piano del lato est del palazzo. Il lato W della struttura era caratte-
rizzato dal passetto in muratura già ricordato che fungeva naturalmente an-
che da terrazzo come si nota dai resti della balaustra in muratura superstiti.
Ad esso si accedeva dal secondo piano dell’edificio 4 tramite un’apertura
conclusa da un arco acuto con la ghiera in laterizi.
L’edificio 5, collegato al 4 attraverso il passetto, risulta anch’esso suddi-
viso in due livelli, mentre non sembra aver avuto partizioni interne in mura-
tura. Sulle pareti superstiti non sono visibili finestre, né all’interno ci sono
quelle nicchie-armadi che caratterizzano gli altri edifici finora analizzati.
Appoggiato ad esso nella parte sudoccidentale si notano i resti di un altro
edificio. Questi elementi lasciano supporre una diversa funzione dell’edifi-
cio 5 rispetto agli altri: si trattava probabilmente di un grosso deposito dove
si ammassavano prodotti della terra quali olive e cereali, collegato al palaz-
zetto, funzionale in qualche modo alle necessità di chi vi risiedeva.
Sulla facciata N del passetto sono stati individuati 3 frammenti ceramici
cementati nella muratura: si tratta di 2 frammenti di invetriata monocroma
verde e di un fondo di una forma aperta con piede ad anello, ricoperto inter-
namente da una invetriatura policroma, in parte saltata, ma che sembra con-
servare i colori bruno, verde e rosso tipici della cosiddetta «RMR» o tricro-
ma . Se per la prima classe ceramica risulta difficile stabilire una cronologia,
il frammento di invetriata policroma dovrebbe trovare una collocazione tra
il tardo XIII e tutto il XIV secolo316 . La porzione di muratura in questione è
tuttavia un restauro praticato nell’apparecchio murario originario, dunque i
frammenti ceramici in questo caso non aiutano a stabilire la datazione, co-
stituiscono piuttosto un valido terminus ad quem. L’adozione di alcuni
elementi quali archi a tutto sesto accanto ad archi acuti e la presenza di
finestre bifore, così come la poco marcata tendenza allo sviluppo verticale
del palazzetto, elementi che sembrano richiamare l’architettura di età sveva
Gli insediamenti 51

piuttosto che le realizzazioni della successiva età angioina, lasciano ipotiz-


zare una datazione dell’edificio intorno alla metà del XIII secolo317 .
Il Caprarizzo di Olevano è un insediamento aperto sorto e sviluppatosi
in un periodo compreso tra gli inizi del XIII e il XIV secolo, i cui edifici
sembrano non aver subito sostanziali modifiche durante il periodo della loro
fruizione, fatte salve alcune tompagnature di porte e finestre. La tipologia
degli edifici abitativi appare omogenea: le case sono sempre organizzate su
due livelli e sono caratterizzate da bassi recinti che definivano probabilmen-
te degli orti-giardini. Anche alcuni elementi sintattici delle architetture, qua-
li le tipologia delle finestre, si ripetono, come pure i tipi di ingressi. Un
particolare interessante sembra essere l’assenza delle finestre nelle pareti
settentrionali, tranne, per evidenti ragioni di avvistamento, nel caso della
torre difensiva posta ai piedi del colle e nel palazzo. Le costruzioni presenti
nel villaggio di Caprarizzo, alla luce dei dati osservati sopra, sembrano cro-
nologicamente il frutto di un unico intervento (prima metà XIII sec.?), senza
particolari gerarchie nella qualità delle edificazioni, eccetto il significativo
episodio del palazzetto –deposito che spicca per dimensioni, qualità e solu-
zioni architettoniche rispetto alle altre abitazioni. Potrebbe trattarsi della re-
sidenza di un personaggio di rilievo preposto forse non esclusivamente al
controllo delle produzioni e alla riscossione dei tributi; la stessa grande sala
del palazzo sembra funzionale ad un ufficio pubblico ricoperto da chi risie-
deva nel palazzo (la sede dove si amministrava la giustizia?). Nell’ampio
cortile antistante probabilmente convenivano i contadini che dovevano pa-
gare il tributo da riversare direttamente nel deposito all’ombra dell’alta torre
che simboleggiava il suo potere, mentre forse i carri provenienti dai posse-
dimenti scaricavano i prodotti della terra nei depositi immediatamente a N
del palazzetto, depositi che forse avevano anche una funzione di trasforma-
zione dei prodotti della terra. Nel deposito collegato al palazzetto si intrave-
de ancora una vasca in muratura a pianta rettangolare addossata al muro
settentrionale con un doccione lapideo al centro su uno dei lati corti: il ma-
nufatto è tipologicamente confrontabile con alcuni palmenti vinari ancora
conservati nei casali di Salitto318 ; lo stesso edificio a pianta quadrata di cui si
intravedono i resti sulla stessa terrazza dove sorgono i due depositi, potreb-
be essere interpretato come una piccola torre posta a guardia dei depositi al
di sopra del palazzo.
Cosa era l’insediamento di Caprarizzo? Un piccolo villaggio aperto o un
articolato centro dominico di un ricco signore o, ancora, un potente simbolo
52 La Piana del Sele in età normanno-sveva

materiale elevato negli anni in cui Federico II privò la chiesa di Salerno del
dominio su Olevano (1240-1255) a due passi dal complesso palaziale di
Santa Maria a Corte, da sempre centro del potere della signoria arcivescovi-
le salernitana su quelle terre,? 319 Per ora possiamo trarre delle indicazioni
dalla strutturazione tipologico-funzionale dell’insediamento: un nucleo abi-
tativo disposto a grappolo lungo la costa meridionale del colle e una serie di
edifici identificabili come depositi, protetto in basso da una torre e, in alto la
residenza ‘signorile’ con il deposito dei prodotti e gli opifici, una struttura-
zione tripartita, in qualche modo ‘classica’, che richiama la strutturazione
degli insediamenti castrensi, con la differenza che qui la residenza palaziale
non si rinviene alla sommità del colle, quest’ultima lasciata apparentemente
del tutto priva di costruzioni320 .
La tipologia sembra ben adattarsi a quanto nelle fonti scritte coeve, si è
visto, si intendesse per casale.

b) I castelli e i borghi

I castelli costituiscono la tipologia insediativa fisicamente predominante


il paesaggio del nostro territorio in età normanno-sveva: posti sugli alti colli
a controllo della piana, con la loro presenza condizionavano l’esistenza del-
le popolazioni e ne segnavano profondamente l’immaginario. La loro fun-
zione è in parte legata alle esigenze di difesa di Salerno e dei percorsi che
dalla Calabria conducono al Nord: la catena dei castelli ancora oggi indivi-
duabile tra le alture a sud di Salerno permetteva una rapida trasmissione di
notizie e, eventualmente, una efficace azione di contrasto nel caso di un
esercito avanzante verso settentrione321 . Tuttavia, come si vedrà osservan-
do più da vicino le loro vicende, l’aspetto strategico-militare non è l’unico
motivo che ne determinò l’esistenza.

1 - Il castello di Olevano

Il Castello di Olevano, il castrum Olibani delle fonti, sorge sul monte


Castello a circa 700 m s.l.m. (fig. 6b). Il complesso è costituito da tre cinte
murarie che definiscono tre aree differenziate da un punto di vista funziona-
le (fig. 6): la prima cinta delimita un vasto pianoro, probabilmente una piaz-
za d’armi, la seconda cinge gli edifici di un borgo dislocato lungo il versante
Gli insediamenti 53

Fig. 6 - Olevano sul Tusciano - Pianta dell’area del Castello


(rilievo a cura di arch. Giovanni Montella)

Fig. 6b - Olevano sul Tusciano, il Monte Castello


54 La Piana del Sele in età normanno-sveva

meridionale del monte e la terza ne delimita la sommità, comprendendo le


strutture della parte dominicale del castello con la residenza del signore.
Così appare il castello di Olevano, ma il complesso così come lo si osserva
oggi, è il frutto di circa 600 anni di interventi.
Allo stato attuale delle conoscenze, il castello di Olevano rappresenta
l’insediamento fortificato medievale di cui si hanno le più antiche testimo-
nianze nel territorio di cui si tratta. Scavi archeologici condotti negli scorsi
anni hanno infatti mostrato una fase di occupazione del borgo risalente al-
meno al IX secolo322 . In questo periodo infatti fu edificata la chiesa del
borgo. Nel primo periodo di frequentazione (secoli IX e X) la chiesa presen-
ta una semplice pianta a navata unica conclusa da un’abside semicircolare
(fig. 7). La chiesa conobbe il suo massimo splendore tra XI e XII secolo
(fig. 8.). In questo periodo si assiste ad un radicale rinnovamento dell’edifi-
cio con la costruzione di un subsellium che correva lungo le pareti perime-
trali, un recinto presbiterale e un nuovo altare affrescato (fig. 9). Anche le
pareti furono completamente affrescate con figure di santi e ricchi elementi
decorativi policromi. La chiesa conservò questo aspetto fino all’abbandono
che i dati archeologici indicano essere avvenuto nella prima metà del XIII
secolo. Il borgo sembra essersi sviluppato tra X e XII secolo con case in
pietra e edifici produttivi. Gli scavi archeologici effettuati nel settore occi-
dentale del borgo hanno portato alla luce un ambiente fornito di una vasca
di decantazione per la produzione olearia realizzata tra X e XI secolo e ma-
cine in pietra vulcanica . L’ambiente contiguo fu edificato nel XII secolo e
in esso sono state rinvenute tracce di un atelier di un vasaio. Anche questi
ambienti, come la chiesa, risultano abbandonati nel corso della prima metà
del XIII secolo, circostanza che fa presumere l’abbandono dell’intero abita-
to avvenuto in questo periodo. Altre indicazioni cronologiche provengono
dall’osservazione di quanto rimane in elevato. La prima cinta muraria si può
datare agevolmente, in base alla tipologia delle torri scarpatre a pianta circo-
lare, ad età angioina (XIII-XIV) secolo, mentre il recinto che chiude l’area
signorile è collocabile, per la tipologia delle torri a pianta quadrata, ad età
sveva (prima metà XIII secolo)323 .
Le strutture della parte sommitale evidenziano una serie numericamente
cospicua di interventi che non saranno analizzati per ragioni di spazio in
questa sede. In sintesi possiamo osservare che una primitiva fase del sito,
cronologicamente non indicabile a causa dell’assenza di elementi datanti,
vide la presenza di un grosso torrione centrale sullo stretto e lungo pianoro
Gli insediamenti 55

Fig. 7 - Olevano sul Tusciano, castello, proposta


ricostruttiva della prima fase della chiesa (disegno
arch. Amintore Carucci)

Fig. 8 - Olevano sul Tusciano, castello, proposta ricostruttiva della terza fase della chiesa

Fig. 9 - Olevano sul Tusciano, castello, chiesa di S. Maria, area del presbiterio
56 La Piana del Sele in età normanno-sveva

tra i due spuntoni di roccia. Successivamente vi fu un primo ampliamento


dell’insediamento (in età normanna?), fino alla grande fase di riconsidera-
zione delle strutture del castello: In questo momento (che possiamo indicare
per comodità come III fase), si provvide a realizzare un grosso arco nella
parete della torre della I fase (fig. 24). Contemporaneamente si edificò una
nuova ala dell’edificio, appoggiata alla parete ovest della torre, che percor-
reva in direzione S l’intero corridoio naturale, fino allo spuntone di roccia
meridionale, altri ambienti furono realizzati anche verso la roccia settentrio-
nale fino a toccarla (fig. 25). Da questo lato fu realizzato anche l’accesso al
complesso. La nuova ala si sviluppava in altezza per almeno tre livelli (fig.
23). Uno stretto corridoio che affacciava verso la valle, collegava gli am-
bienti dislocati al secondo piano. Il piano terra conserva nel primo ambien-
te tracce di affreschi policromi; si trattava forse della cappella del palazzo.
Dall’altro lato della torre, verso la valle del Tusciano, si edificarono altri
ambienti: in particolare di grande interesse e suggestione appare un’ampia
aula rettangolare terminante in un grande fornice costruito, apparentemente
senza chiusure, sullo strapiombo, in posizione dominante sulla stretta gola
del fiume. Sulle pareti di questa aula si possono ancora osservare lacerti di
raffinati affreschi policromi che riproducono motivi floreali. Un’altra aula
più a S ad una sola navata con grandi finestre verso la valle, conclude vero-
similmente la parte residenziale signorile. Con questa nuova disposizione
dell’edificio la parete esterna dell’ala W funzionò quasi da muro di cinta,
protetto dalle alte rupi calcaree a N e a S, quasi due torri naturali, anch’esse
munite di strutture difensive, mentre la parte più qualificata architettonica-
mente era collocata sul lato del Tusciano di fronte alla Grotta di San Miche-
le. In questa fase la dimora sommitale si configura come un vero e proprio
palazzo con ampie sale e raffinati affreschi. Per alcuni elementi strutturali,
quali i larghi archi acuti ancora visibili, è possibile datare ad età sveva que-
sto intervento (prima metà XIII secolo) .
A questo punto è interessante osservare come l’età sveva segni un deci-
so momento di svolta nelle vicende del castello di Olevano: si riqualifica la
zona sommitale, si riconsiderano gli apprestamenti difensivi e, con ogni pro-
babilità, si abbandona il borgo. E’ possibile trovare un filo che colleghi que-
sti accadimenti? Forse è possibile fare un po’ di chiarezza ricorrendo alla
documentazione di archivio.
Le fonti scritte attestano, a partire dall’XI secolo, frequenti contrasti tra
la Chiesa salernitana e gli abitanti di Olevano. Le controversie riguardavano
Gli insediamenti 57

Fig. 23 - Olevano sul Tusciano, Fig. 24 - Olevano sul Tusciano,


Castello, la residenza signorile (part.) Castello, la residenza signorile (part.)

Fig. 25 - Olevano sul Tusciano, Castello, la residenza signorile


58 La Piana del Sele in età normanno-sveva

questioni legate all’esercizio di alcuni poteri signorili, in particolare la proi-


bizione per gli olevanesi di costruire mulini e trappeti, potenti simboli delle
prerogative signorili arcivescovili ad Olevano e strumenti di controllo della
produzione. La concentrazione di una parte della popolazione all’interno
del castello indubbiamente consentiva al dominus, tra le altre cose, un con-
trollo efficace sulla crescita e una pratica più comoda delle prerogative banna-
li. Intorno alla metà del XIII secolo l’antica signoria della Chiesa salernitana
su Olevano è scossa dall’intromissione di un inatteso potere divenuto con-
corrente.
Negli anni trenta del XIII secolo Federico II confisca il castrum Olibani
alla Chiesa salernitana, ne fa un castrum exemptum, ossia posto sotto diretto
controllo dell’imperatore, e lo affida ad uno dei suoi più fidati consiglieri,
Ermanno di Salza324 . La morte nel 1239 del Maestro di Santa Maria dei
Teutonici in Gerusalemme costringerà l’imperatore svevo ad affidare il ca-
strum Olibani a Roderio de Rotunda325 . Solo nel 1255 il castrum Olibani
verrà restituito all’arcivescovo di Salerno326 .
E’ possibile che l’assenza dell’antico e, talora, oppressivo signore abbia
offerto alla popolazione stanziata all’interno delle mura la possibilità di tra-
sferirsi nei casali sottostanti il castello o forse fu proprio il nuovo signore di
Olevano a favorire il trasferimento degli abitanti tra le colline: il villaggio
abbandonato di Caprarizzo non lontano dal fiume Tusciano, le cui strutture
in elevato ancora analizzabili sono assegnabili ad età sveva, potrebbe essere
stato un prodotto di tale contingenza327 .
In età sveva, come si evince dall’analisi della terza cinta muraria, si prov-
vide a costruire ex novo le fortificazioni a controllo del nucleo signorile del
castrum. Le ricognizioni effettuate nell’area del borgo e il rilievo topografi-
co hanno evidenziato l’esistenza di ambienti rasati fin quasi alle fondazioni
nella zona sottostante la terza cinta muraria, a differenza degli edifici della
parte occidentale del borgo conservati in alzato anche fino al secondo livel-
lo. Si può ipotizzare una demolizione radicale degli edifici e la conseguente
creazione di uno spazio libero da strutture murarie, avvenuta proprio in con-
comitanza con l’elevazione della cinta muraria di età sveva per motivi stra-
tegici: l’eventuale difesa della sommità del castello sarebbe stata indubbia-
mente più efficace. Venuta meno l’esigenza propriamente signorile di con-
trollare parte della popolazione tra le mura del castrum si individuò proba-
bilmente una funzione esclusivamente amministrativo-militare del castello
di Olevano. In questo modo Federico II ottenne probabilmente il duplice
Gli insediamenti 59

obbiettivo di limitare la potenza fondiario-territoriale dell’arcivescovo sa-


lernitano, privandolo del suo dominio più antico e importante, e di assicu-
rarsi il favore della popolazione locale, ponendosi così nella tradizione della
politica dei suoi predecessori normanni nei confronti delle grandi signorie
ecclesiastiche328 .
La presenza di un illustre castellano quale Ermanno di Salza, tra i consi-
glieri più ascoltati di Federico II e uno dei personaggi più eminenti nella
storia dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici, giustificherebbe anche la costru-
zione di un vero e proprio palatium quale la rinnovata residenza castellana
del XIII secolo appare sulla base dei ruderi ancora analizzabili. Ermanno
era infatti, come si è accennato, uno dei primi consiglieri dell’imperatore
Federico II, un personaggio straordinario, Gran Maestro dell’ordine di San-
ta Maria dei Teutonici, dal 1226 signore della Prussia, considerato uno dei
fondatori di quello Stato.
Le cronache narrano che Ermanno morì a Salerno la mattina di Pasqua
del 1239329 . Non è improbabile però che la morte lo abbia colto proprio ad
Olevano, nella sua residenza sul castello.
Anche dopo la morte di Ermanno, l’ordine Teutonico pare continuasse
ad esercitare il controllo sul castrum Olibani: così nel 1240 troviamo i frates
Ugone e Wilganto custodi del castello, prima che venga consegnato a Rode-
rio de Rotunda per volontà di Federico II330 e, ancora nel 1255 un Manegol-
do Theutonico, dunque un cavaliere dell’ordine, detiene il castello e a questi
l’arcivescovo di Salerno dovrà pagare ben 250 once d’oro se vorrà riscattar-
lo331 . La presenza di questi personaggi, in particolare di Ermanno, indica il
posto di rilievo che il castello di Olevano doveva occupare nelle considera-
zioni dell’imperatore. L’esiguità della documentazione scritta non permette
di dire oltre. Campagne di scavo sulla sommità del monte potranno forse
fornire nuovi dati alla discussione.

2 - Il Castellum Evuli

Di gran lunga più complessa risulta la vicenda del castello di Eboli in età
normanno-sveva.
Il centro castrense di Eboli sorge sul versante meridionale di una bassa
collina (160 mls) a controllo della Piana del Sele. Tra le cause della sua
fondazione vi dovettero essere considerazioni di carattere strategico; il bor-
60 La Piana del Sele in età normanno-sveva

go di Eboli sorge infatti su di un colle a controllo della vecchia popilia e di


percorsi che risalivano verso le valli del Tusciano, del Sele e l’agro giffone-
se da una parte e verso Capaccio e il Cilento dall’altra 332 . Del borgo norma-
no-svevo rimane ben poco: le sovrapposizioni di età angioina, le modifiche
urbanistiche cinquecentesce, e i successivi interventi di età moderna hanno
lasciato solo qualche brandello dell’insediamento normanno-svevo. Il ca-
stellum Evuli delle fonti si configura a partire dall’XI secolo come un borgo
fortificato definito da una cinta muraria con porte e case al suo interno333 . In
età normanna si ha notizia della porta de la Terra334 , lungo il tratto meridio-
nale delle mura, della porta di Sant’Elia335 , nei pressi del ponte che attraver-
sava il Telegro non lontano dalla chiesa e della porta del castello, probabil-
mente l’accesso settentrionale al borgo336 . Su uno stipite lapideo di quest’ul-
tima porta (in marmore porte olim castelli huius civitatis) era scolpito il
passus che gli ufficiali ebolitani avevano stabilito come riferimento per la
definizione delle misure nella circoscrizione ebolitana337 .
Dai primi anni del XII secolo sono documentate abitazioni in muratura.
all’interno del borgo338 . Non vi sono peraltro ancora riferimenti topografici
che valgano a collocare la posizione delle abitazioni in aree precise del ca-
stello. A partire dalla fine degli anni ’20 del XII secolo la documentazione
scritta ci offre un quadro del borgo organizzato in quartieri coincidenti con
la distrettuazione parrocchiale. Nel 1128 per indicare la posizione di una
mansionem fabricatam... infra castrum Evuli si fa riferimento alla circoscri-
zione parrocchiale di Sant’Angelo339 , appena a sud est della residenza del
castellano. La coincidenza tra il quartiere e il distretto parrocchiale risulta
ancora più chiaro in un documento del 1135 in cui si fa riferimento ad una
casa di legno intus muro de castello Evuli nel vico San Lorenzo340 , sede
dell’omonima parrocchia341 nel cuore del borgo. Negli stessi anni si trova
menzione di case nella circoscrizione parrocchiale di San Nicola dei Gre-
ci342 . Una delle parrocchie più importanti di Eboli era quella di Santa Maria
detta ad Intra, anch’essa punto di riferimento di un quartiere intramurano
attestato dal 1161 nella parte occidentale del borgo343 . Una delle prime par-
rocchie ebolitane dovette essere San Marco, chiesa ricordata dalle fonti scritte
a partire dal 1132344 , anch’essa riferimento di un quartiere di Eboli345 , così
come San Giovanni ricordata dal 1161346 . Questa disposizione urbanistica
organizzata in quartieri coincidenti con le circoscrizioni parrocchiali è giun-
ta praticamente integra fino agli inizi degli anni ’40 dello scorso secolo347 .
La tipologia delle case all’interno delle mura del borgo risulta abbastanza
Gli insediamenti 61

varia; se le case in legno sembrano scomparire dopo il 1135348 , nei quartieri


ebolitani convivono dimore terranee (su un solo livello) e solarate (ossia su
due livelli), quando nella documentazione si specifica la natura delle altri-
menti semplici casae. Questo almeno fino alla metà del XII secolo, quando
si assiste ad una evidente crescita della densità insediativa intramurana, in
particolare nei quartieri di San Lorenzo e San Nicola dove la documentazio-
ne disponibile è più abbondante, con una tendenza allo sviluppo verticale
delle abitazioni349 . Le vecchie case su un solo livello vengono innalzate:
così ad esempio nel 1191 il vestarario di Cava Pietro concede a Roberto e ai
suoi figli una casa terranea nella parrocchia di San Lorenzo che i concessio-
nari dovranno riparare, sopraelevare e coprire con tegole (bene aptant et
preparent et in solium erigant et eam de tigulis cooperiant)350 . Queste abi-
tazioni su più livelli sono provviste spesso di scale in muratura esterne e
possono avere come dotazione foveas, ossia fosse per immagazzinare e con-
servare prodotti agricoli o altro351 . Talvolta ci si imbatte in dimore che spic-
cano per la qualificazione architettonica più rimarchevole, come quel pala-
tium nel distretto di Santa Maria ad Intra che il ricco notaio Silvestro nel
1242 lascia in eredità alla moglie352 . Si trattava probabilmente di un ele-
mento di manifestazione del prestigio sociale di Silvestro, il quale accanto
alla sua residenza aveva edificato, o forse acquistato, altre due abitazioni più
modeste353 , che andavano a formare un piccolo complesso palaziale non
lontano dalla dimora dei signori di Eboli, divenuta in quegli anni domus
imperiale354 .
All’interno delle mura è testimoniato nell’XI secolo un mercato legato
forse anche alla produzione e alla vendita di panni colorati le cui decime nel
1090 Roberto conte di Principato, dona alla Chiesa salernitana insieme al-
l’esenzione per i suoi rappresentanti e per i suoi vassalli dal pagamento del
dazio per le merci esitate o acquistate nel territorio e nel castello, unitamente
alla concessione di istituire al suo interno una curia dove giudicare i propri
homines dimoranti nel distretto355 .
Fuori dalle mura del castello si formano ben presto sobborghi. In uno di
questi si insediano anche artigiani come quel Petrus magister figulorum che
prima del 1090 possedeva una casa foris murum castelli, nelle vicinanze
della porta que de la terra dicitur356 . Appena al di là delle mura del castello
la toponomastica sembrerebbe indicare il primo luogo dello stanziamento
longobardo con l’attestazione nel 1047 della contrada ubi Barbuti dicitur357 ,
memoria forse di un nucleo di guerrieri stanziatosi fuori dalla città romana,
62 La Piana del Sele in età normanno-sveva

o di ciò che di essa restava, al momento della conquista longobarda della


piana del Sele ai tempi di Arechi I (anni intorno al 630) 358 .
Nelle terre intorno al castello sono menzionate nella documentazione
scritta, chiese quali San Pietro Apostolo359 , mentre probabilmente lungo il
Telegro sorgeva la chiesa oggi scomparsa di San Nicandro, attestata per la
prima volta nel 1083360 .
Il primo sobborgo (foris muro de castello Evuli) identificato dalle carte
con una denominazione precisa è il vicus Sancti Nycolai nel 1126, ma nella
documentazione successiva se ne perdono le tracce361 . Le case sparse fuori
dalle mura ben presto si organizzano in nuclei accentrati che si identificano
con la parrocchia, come accadeva all’interno delle mura. Così già nel 1160
troviamo menzione di case in muratura foras murum de castello Evoli nelle
pertinenze plebanali della parrocchia di San Matteo362 , sotto le mura orien-
tali. In località Francavilla, nei pressi della località Pendino363 , sotto il muro
meridionale del borgo al di là del fossato (carbonarium), vi erano le case
gravitanti intorno alla parrocchia di San Bartolomeo, ricordata a partire dal
1168364 . Per questa zona abbiamo numerose attestazioni di abitazioni a par-
tire dalla fine dell’XI secolo365 . L’agglomerato appare compatto366 , svilup-
patosi probabilmente lungo il diverticolo che dalla direttrice Ponte Sele-
Battipaglia, tratto dell’antica Reggio-Capua, giungeva ad Eboli367 . La tipo-
logia delle abitazioni nella parrocchia di San Bartolomeo non differisce da
quanto già osservato per le case all’interno delle mura. Anche qui nel XII
secolo non si rinvengono attestazioni esplicite di case di legno, e accanto a
case terranee368 si rinvengono case solarate 369 . Le case del quartiere nel XII
secolo possono avere uno slargo antistante, una sorta di cortlile370 , scale in
muratura371 , oppure una vigna di pertinenza372 o, ancora, un orto retrostan-
te373 . Tra gli abitanti del sobborgo si riscontrano personaggi giunti ad Eboli
dai territori limitrofi quali Leone di Polla374 , Giovanni di Capaccio375 o i
discendenti di Giovanni del Tusciano376
Altra parrocchia fuori dalle mura era San Giorgio iusta muros Evoli377 ,
nei pressi del quartiere di San Bartolomeo. Anche qui, come altrove, l’edifi-
cio sacro, ricordato come pieve già nel 1169, diventa nucleo aggregante di
un sobborgo, tanto che quest’ultimo si identifica con la chiesa378 . Se già dal
1169 si ha notizia di abitazioni nella circoscrizione, a partire dal XIII secolo
le attestazioni si fanno molto numerose, addirittura con la menzione di un
palazzo nel 1222379 . Nel XIII secolo si ha notizia di un importante insedia-
mento Verginiano extramurano che ebbe come punto focale un ospedale380 ,
Gli insediamenti 63

oltre a proprietà del monastero salernitano di San Leonardo381 . Alcuni ele-


menti quali la presenza di orti e di abitazioni fornite di attrezzature specifi-
che per le produzioni agrarie come il palmentum per la vinificazione e il
rotilio, probabilmente una piccola ruota per azionare una macina382 , lascia-
no trasparire la connotazione ancora rurale del sito. Anche qui come nella
parrocchia di San Bartolomeo, sono attestati residenti provenienti dalle terre
circonvicine, come Marco Cortesano del Tusciano383 o Domenico di Licia-
niano384 .
S. Elia, lungo la strada che da oriente entrava ad Eboli, costituisce un
altro aggregato extramurano di Eboli385 . La via che entrava ad Eboli da que-
sta zona scavalcava il torrente Telegro attraverso un ponte detto Ponte di
Sant’Elia386 . L’insediamento si estendeva lungo un areale compreso tra le
mura orientali e le terre sulla riva sinistra del torrente Telegro, non lontano
dalla chiesa omonima fondata ai tempi dell’arcivescovo salenitano Alfano
II387 . In questo quartiere la densità insediativa doveva essere alquanto bassa:
le case ricordate infatti risultano spesso circondate da vigneti, ulivi, alberi
fruttiferi388 , elementi che forniscono l’idea di una campagna con qualche
edificio sparso tra coltivi piuttosto che di un sobborgo accentrato come S.
Bartolomeo.
Non molto diverso doveva essere l’agglomerato di case sorto intorno
alla parrocchia della Santissima Trinità, al di là del Telegro. Si tratta con
ogni probabilità dell’abitato periurbano più recente, relativamente al perio-
do qui considerato, di Eboli. La chiesa della Trinità è ricordata a partire dal
1172, ma in questi anni la zona risulta interessata esclusivamente da colti-
vazioni389 . Abitazioni sono menzionate nella circoscrizione della Santissi-
ma Trinità solo a partire dal 1221390 e alla metà del XIII secolo, accanto a
qualche abitazione, sussistono ancora rigogliosi oliveti391, segno della mar-
ginalità urbanistica dell’area.
Furono questi i quartieri in cui si insediarono uomini provenienti dalle
campagne. La documentazione scritta ricorda anche forestieri residenti ad
Eboli originari di terre lontane: nel XIII secolo si ricordano personaggi de-
nominati de Normannia; nel 1222 abita nel borgo un Bartolomeo di Nor-
mandia392 nel 1237 è menzionato un Pietro di Normandia393 e nel 1240 Ben-
venuto di Normandia acquista una vigna a Moreno di Eboli394. Altri perso-
naggi provenienti dalla Francia risiedevano a Eboli, come quel Guglielmo
che nel 1223 dona un suo servo con la famiglia all’abbazia di Cava395. Dalla
Francia doveva provenire anche Pietro di Landone che nel 1135 riceve dal-
64 La Piana del Sele in età normanno-sveva

l’abate di Cava 24 tarì in cambio di una terra a Campitella nei pressi di


Eboli: con quella cifra Pietro potrà transsalpinare e raggiungere così i suoi
parenti oltralpe, precisando che nello spazio di quattro mesi contava di ritor-
nare ad Eboli396 . Non mancavano a Eboli personaggi di provenienza oltre-
marina come quel presbitero Ruggiero di Gerusalemme che appare come
testimone in due documenti del 1241 397 e come compratore di una casa ad
Eboli nel 1250398 . Un Matteo e un Petrone de Florenza sono ricordati in due
documenti ebolitani del XIII secolo399 ., mentre un Pietro di Venezia è ricor-
dato in due documenti della metà dello stesso secolo400 .

Da quanto visto risulta evidente come la ragione principale del dilatarsi


degli spazi abitativi intorno alle mura di Eboli sia da ricercare in un accresci-
mento della popolazione che nel corso del XII secolo interessò tanto il ca-
stello quanto il territorio: un movimento di uomini dalle campagne verso il
borgo cui corrisponde un incremento del popolamento rurale, proprio in
quegli anni riorganizzato in comunità di villaggio, sottointende una crescita
demografica generalizzata non quantificabile con precisione, ma che, alla
luce dei numerosi quartieri extraurbani, dové essere molto consistente.
La cinta muraria non fu più sufficiente, già nel corso dei primi decenni
del XII secolo, a contenere crescita demografica e la popolazione che si
riversava su Eboli. La sopraelevazione delle case esistenti, ben documenta-
ta, come detto, nel XII secolo, non bastava a rispondere alle nuove esigenze
abitative. In conseguenza di ciò nel XIII secolo vi erano quartieri intramura-
ni in cui le case si affastellavano l’una accanto all’altra senza spazi o vie a
dividerle401 . La mancanza di spazi all’interno della cinta è confermata anche
dall’assenza nella documentazione di citazioni di appezzamenti di terreno
liberi. Di qui la formazione dei nuclei extraurbani, strutturati sempre attorno
ad una chiesa con funzioni plebanali, sintomo di una crescita in qualche
modo controllata e organizzata anche dal punto di vista della cura d’anime.
La vecchia cinta muraria, probabilmente elevata in età longobarda, rin-
serrò rigidamente l’abitato al suo interno: forse l’esigenza di avere un ricetto
relativamente contenuto e, dunque, meglio difendibile o le limitazioni im-
poste dalla natura del colle che non permetteva facilmente l’espansione al di
là della vecchia cinta, furono le cause che non consentirono un ampliamento
fino a tutta l’età sveva. Il borgo presentava in età normanno-sveva una strut-
turazione triangolare dell’insediamento con il vertice superiore costituito
dal castello402 (fig. 16). Alcune tracce della muratura originaria nella zona
Gli insediamenti 65

N-E del borgo si possono osservare non lontano dal castello: si tratta di
lacerti costituiti da conci calcarei locali irregolari di media e piccola dimen-
sione, con l’inserimento di qualche blocco marmoreo ben squadrato di età
romana riutilizzato e frammenti fittili di risulta legati da una malta tenace.
Dalla documentazione è possibile abbozzare una dinamica dell’insedia-
mento che possiamo definire suburbano. Il primo nucleo di insediamento sem-
bra essere, come si è visto, dislocato nei pressi della porta della Terra, il quar-
tiere di San Bartolomeo delle carte del pieno XII secolo, seguito dalla zona
contigua di San Giorgio. Questi due quartieri formano il nucleo extramurano
in cui le abitazioni si dispongono in maniera più compatta, segno di una prefe-
renza accordata a quest’area, interessata dal passaggio della via principale che
conduceva all’interno delle mura, mentre i nuclei ad est delle mura si caratte-
rizzano lungo tutto il periodo considerato per una marcata dispersione inse-
diativa. Il forte dislivello che caratterizza la zona al di sotto della Ripa (così
ricordata nella documentazione scritta403 per il forte scoscendimento) al di là
delle mura occidentali del castello, non permise la creazione di un abitato e, di
conseguenza, neppure l’istituzione di una parrocchia.
E’ interessante notare come la denominazione distrettuale si precisi nel
territorio di Eboli pressoché sincronicamente negli ambiti intramurani e ex-
tramurani, con l’indicazione di quartieri, e rurali, con l’emergere dei casali,
intorno alla metà del XII secolo. Si tratta della testimonianza di un processo
di razionalizzazione del controllo del territorio ebolitano, da poco rientrato
sotto il dominio diretto del conte di Principato dopo l’estinzione con Rober-
to di Eboli della famiglia De Mulisi-Trincanotte. La precisazione degli am-
biti circoscrizionali urbani e rurali a Eboli costituisce il riflesso di una socie-
tà che diviene sempre più complessa e di mutamenti profondi nelle strutture
di potere, laico ed ecclesiastico, che in quegli stessi anni interessavano il
Salernitano e il Mezzogiorno d’Italia. Come ben evidenziò Bruno Ruggiero,
fu l’arcivescovo Alfano I alla fine dell’XI secolo ad avviare con ogni proba-
bilità la riorganizzazione complessiva dell’arcidiocesi di Salerno attraverso
l’istituzione di un reticolo circoscrizionale plebanale coerente, con chierici
subordinati direttamente all’ordinario diocesano. Entro i primi decenni del
XII secolo l’opera di strutturazione degli ambiti circoscrizionali diocesani
appare completata, tanto che nel 1169 la Chiesa salernitana risulta ormai
saldamente articolata al suo interno in 8 archipresbyteratus da cui dipendo-
no le varie circoscrizioni parrocchiali sul territorio404 e di cui una aveva sede
proprio ad Eboli405 .
66 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Il ristabilimento di un puntuale sistema di gerarchia dei carismi nella


diocesi di Salerno, che provocò, tra l’altro, la crisi definitiva dell’istituto
della Eigenkirche (chiesa privata), ebbe come riflesso sul territorio e, in
particolare, nel castello di Eboli, l’intensa diffusione dell’istituto parroc-
chiale, con le circoscrizioni testimoniate dalle carte.
La ripartizione delle aree del borgo in funzione della cura pastorale servì
come riferimento comodo e razionale alla determinazione dei quartieri, pri-
ma anonimi. L’importanza degli edifici plebani si coglie anche nell’uso di
riunire in essi le assemblee o le corti giudicanti: in particolare nell’atrio
della chiesa di San Marco la comunitas Ebuli, come risulta da un atto del
1220406 , mentre, come si evidenzia in un documento del 1216,il catapano di
Eboli teneva corte nella chiesa di San Nicola407 e il baiulo Domenico giudi-
cava nel 1224 nella chiesa di San Matteo408 .

3 - Il castelluccio di Battipaglia

L’altro castello di cui sono riconoscibili tracce relative al periodo di cui trat-
tiamo nel territorio è il castelluccium de Battipalla, un fortilizio a controllo della
Piana e della valle del Tusciano. Le prime testimonianze scritte dell’esitenza del
castelluccio rimontano al 1080: Roberto il Guiscardo in un documento di con-
ferma alla chiesa di Salerno, tra le altre cose ricorda la castelluccia Battipalle.
Nel 1181, in una donazione di terre presso il Tusciano si fa riferimento come
confine al muro antico della terra di Castelluccio409 . Questo riferimento fa tra-
sparire la presenza di un villaggio (terra nella documentazione di età normanna)
circondato probabilmente da un muro (il muro antico della terra); si tratta del
murus qui dicitur de Battipalia ricordato in una compravendita del 1186410 . La
fortificazione è ricordata anche nell’inventario federiciano dei castelli del 1230-
31411 . Nel 1251 Bertoldo di Hohemburg, principe di Taranto e Governatore del
Principato di Salerno, stabilisce che il castelluccio e il casale di Battipaglia ven-
gano restituiti alla Chiesa salernitana. Nel documento si specifica come il ca-
strum quod castellucium nominatur, fosse stato usurpato alla Chiesa salernitana
dal conte Marcovaldo d’Anweiler che aveva provveduto ad una ricostruzione
del fortilizio412 . Nel maggio dello stesso anno Alberto di Reggio custos del ca-
stello restituisce castelluccio e casale, consegnado le chiavi del castello con lo
stesso, le torri e gli edifici, la cappella e le officine al giudice Matteo de Simone,
ufficiale della chiesa salernitana413 .
Gli insediamenti 67

Il fortilizio risulta aver subito profonde modifiche nel corso del secolo
scorso. Ciò nonostante è possibile osservare in esso parti della struttura me-
dievale.
Si può considerare il recinto murario retrostante l’attuale facciata dell’edi-
ficio, costruito nel XIII secolo: si tratta di una corte merlata difesa da una alta
torre a pianta quadrata con saettiere (figg. 10, 10b). La tipologia della torre
rimanda a esempi di fortificazioni di età sveva presenti nel territorio campa-
no: a Cancello, a Mercato San Severino, a Eboli, a Campagna e ad Olevano.
Si tratta con ogni probabilità del castello ricostruito dal conte svevo Marcoval-
do a cavallo del 1200 e restituito alla Chiesa salernitana nel 1251.
La fortezza assumeva compiti di controllo su un importante snodo via-
rio: da una parte infatti controllava la via che veniva da Eboli, un antico
percorso di età romana ripristinato nel Medioevo che metteva in comunica-
zione queste terre con Salerno414 , dall’altra sorvegliava il percorso parallelo
alla valle del Tusciano che conduceva ad Olevano e da qui verso l’Irpinia e
la Puglia. Ma la funzione del castelluccio non era esclusivamente militare. Il
fortilizio si configurava anche come centro di potere politico ed economico.
Il controllo sul circostante casale ne fa emergere l’aspetto organizzativo:
come residenza di un castellano ufficiale della Chiesa di Salerno cui gli
abitanti afferivano la sua funzione, doveva espletare anche compiti di tipo
economico, quali la raccolta di quanto dovuto dagli abitanti del casale Batti-
paglia per la coltivazione delle terre dell’arcivescovo, il controllo sulle loro
attività, la riscossione dei dazi di carattere pubblico derivanti dalla condizio-
ne di vassallaggio alla chiesa salernitana. Un organismo complesso che for-
se doveva assumere anche compiti di protezione della popolazione in caso
di pericolo.

4 - I castelli tra le colline di Eboli

Uno dei dati più impressionati che emerge dalla lettura della già menzio-
nata carta del 1164, fatta redarre dall’arcivescovo salernitano Romualdo II
per individuare con precisione i beni dell’arciepiscopio tra Monte e Campa-
gna, è indubbiamente il gran numero di castelli indicati dai ricognitori415 .
Detto già nel paragrafo relativo ai casali di Monte e del suo castello, di cui
purtroppo non sopravvivono tracce materiali, è ragionevole supporre l’ere-
zione di queste strutture, già in rovina nel 1164, in età longobarda416 . Non
68 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Fig. 10 - Battipaglia, la Castelluccia

Fig. 10b - Battipaglia,


la Castelluccia, particolare della
torre angolare del recinto
Gli insediamenti 69

distante da Monte si elevava il castellum dirutum quod dicitur de Sancta


Teccla417 , un fortilizio costruito probabilmente sul Montedoro di Eboli, col-
le detto anche Santa Tecchia fino al XIX secolo418 , distante meno di 400
metri in linea d’aria dal borgo medievale di Eboli. Procedendo verso Cam-
pagna i ricognitori del 1164 incontrano altre chiese, Santa Lucia e Sant’An-
tonino419 , poco distanti dal castellum dirutum quod de Pancia dictum est420 ,
sotto il quale c’è la chiesa in parte diruta di Sant’Agata. Giunti in loco Fura-
no, nella contrada Truncito, vicino alla chiesa di Sant’Angelo, si trova il
castellum dirutum quod de Alegjsio dicitur421 . Di qui infine i ricognitori
giungono a Campagna422 .
Castelli abbandonati insieme a chiese in gran parte dirute marcano il
paesaggio collinare tra Eboli e Campagna nel XII secolo, con ogni probabi-
lità resti di insediamenti già attivi prima della conquista normanna, come
pare si possa evincere anche dall’onomastica longobarda dei loro antichi
possessori, Rainaldo a Monte, Alegjsio a Furano. Ciò che indubbiamente
più colpisce nello scenario tracciato dal documento del 1164 è il numero
impressionante di castelli che si addensano tra Monte e Furano, almeno quat-
tro423 e tutti abbandonati nello spazio di circa 5 km.

c) I luoghi di culto: sopravvivenze normanno-sveve nelle chiese e nei san-


tuari tra il Tusciano e il Sele

1) Eboli

San Pietro Apostolo

L’abbazia di San Pietro Apostolo detta ‘Alli marmi’ sorge sul colle alle
spalle del castello di Eboli, lungo un antico percorso che da Eboli conduce-
va ad Olevano e a Campagna.
La prima notizia relativa all’esistenza del monastero di San Pietro Apo-
stolo risalirebbe al 1090. In un documento conservato presso l’archivio del-
la sant.ma Trinità di Cava si ricorda come capo della comunità abbaziale un
tale Gregorio424 . Tuttavia il documento del 1090 per alcune caratteristiche
paleografiche è da ritenersi sospetto di adulterazione425 . La prima attesta-
zione scritta che può essere presa in qualche modo in considerazione risale
al 1105426 , ma solo a partire dal 1156 si ha la certezza documentaria assoluta
70 La Piana del Sele in età normanno-sveva

dell’esistenza del cenobio; un’iscrizione posta presso l’ingresso meridiona-


le della chiesa recita infatti così: Guillelmi Regis, Antistitis et Romualdi
Temporibus, Domus haec aedificata fuit. Abbas istud opus Venerabilis ille
Joannes Fecit, laus cuius est probitate minor: muros studiosi Bartholomaei
fecit; materiam sed superavit opus MCL Sexto427 (fig. 14 bis) . Sarebbe stato
dunque l’abate Giovanni a far elevare la chiesa nel 1156 ai tempi del re
Guglielmo I e dell’arcivescovo salernitano Romualdo II Guarna. Quest’ulti-
mo nel 1160 ratifica l’elezione di Pietro ad abate di San Pietro, precisando
come il cenobio sia soggetto alla sede Salernitana, confermandone le perti-
nenze intra castellum Eboli ecclesiam sancti Iohannis, ecclesiam sancti
Leonis, ecclesiam sancti Nicolay. In territorio ebolense ecclesiam sancti
Viti senioris et Sancti Viti Iunioris ecclesiam sancti Andree, ecclesiam san-
cte Cecilie, ecclesiam sancti Nicolai ad mercatellum e altre chiese in Doli-
caria e a Campagna con i loro possedimenti428 . Da questo documento si
evince come il monastero fosse soggetto all’arcivescovo di Salerno e come
ne amministrasse almeno parte delle chiese non incardinate direttamente al
sistema plebanale del territorio ebolitano429 e i relativi patrimoni. La dipen-
denza dall’ordinario salernitano è confermata da successivi privilegi ponti-
fici e imperiali430 . Si tratta indubbiamente della maggiore dipendenza eccle-
siastica dell’arcivescovo salernitano nel territorio di Eboli. La circostanza
che l’abate di San Pietro compaia tra XII e XIII secolo nelle questioni che
vedono coinvolte la Cattedra di San Bonosio in queste terre431 , lascia traspa-
rire che questi fungesse in qualche modo da rappresentante degli interessi
del metropolita salernitano ad Eboli forse ancor più del locale arciprete.

Attualmente il complesso monastico di San Pietro Apostolo si presenta


come il risultato di una serie di interventi succedutisi nel corso di circa 800
anni. I numerosi rimaneggiamenti subiti durante la sua vicenda ne rendono
difficile una lettura diacronica puntuale432 .
L’edificio monastico di San Pietro conserva solo in parte testimonianze
materiali relative al periodo considerato. In particolare queste ultime si pos-
sono individuare nell’edificio ecclesiastico e nella piccola cappella di San
Berniero (fig. 11).
La chiesa di San Pietro presenta una pianta basilicale senza transetto
scandita da tre navate separate da una duplice serie di arcate a tutto sesto
poggianti su colonne (sei per parte). Le colonne furono reimpiegate, proba-
bilmente trasportate, almeno in parte, da un edificio tardoromano, datazione
Gli insediamenti 71

Fig. 11 - Eboli, San Pietro Apostolo,


planimetria della chiesa abbaziale e
della cappella di San Berniero

Fig. 12 - Eboli, San Pietro Apostolo, il campanile


72 La Piana del Sele in età normanno-sveva

che si deduce dalla decorazione di alcuni capitelli, forse una chiesa. Il pre-
sbiterio risulta articolato in tre vani conclusi da absidi semicircolari; L’absi-
de centrale è incastonata tra due colonne poste negli angoli. Le navate erano
preceduta da un esonartece, coperto da volte a crociera acuta.
L’edificio, escluso il nartece, è lungo 23, 30 metri ed è largo 9,20 metri.
Una scala ricavata nella navata destra, poggiante sulla parete laterale, con-
duce ad una cripta. Il soccorpo, a pianta rettangolare coperto da volte a cro-
ciera, occupa circa un terzo dell’edificio superiore e ne ripropone la termi-
nazione triabsidata.
In parte inglobato nella navata destra, un campanile a pianta quasi qua-
drata (m. 4,60 x m.4,20), articolato su 3 livelli, si eleva per 18,80 metri. La
torre è conclusa da un tamburo anulare coperto da una semicupola. Il manu-
fatto risulta scandito all’esterno da due fasce decorative, la prima, definita in
alto e in basso da una cornice di laterizi, è costituita da una semplice serie di
losanghe in tufo grigio intervallate da semilosanghe in laterizio. Relativa-
mente più complessa risulta la fascia superiore: qui la medesima tarsia mu-
raria della fascia inferiore è delimitata da un gioco di laterizi posti di taglio a
45° a formare del V affiancate. Le ghiere delle bifore al secondo livello
sono decorate con elementi in tufo grigio e mattoni alternati (fig. 12). Tarsie
analoghe si rinvengono sull’estradosso delle absidi. Il tipo di decorazione a
tarsie policrome trova confronti con le decorazioni di età normanna ad esem-
pio nel quadriportico della cattedrale di Salerno (fine XI secolo-anni ‘30 XII
secolo)433 , ma il tipo continua ad essere riproposto fino a tutto il XII secolo
e anche oltre434 . Interessante risulta anche la tipologia del campanile che
trova analogie formali con il monumentale campanile della cattedrale di
Salerno fatto erigere dall’arcivescivo Guglielmo (1137-1152)435 , in partico-
lare nell’adozione della cella campanaria finale con tamburo circolare su
vano quadrato terminante con una cupoletta, sebbene il manufatto ebolitano
si caratterizzi per una decorazione molto più semplice.
Le dodici monofore che davano luce alla basilica erano coperte da tran-
senne in stucco (fig. 13); di queste solo due possono ritenersi originarie
mentre le altre sono il frutto dei restauri del Chierici436 . L’ornato del traforo
presenta accostamenti di elementi semplici quali rosette, ogive e croci gre-
che, potenziate e di sant’Andrea mescolate in un intricato gioco in cui di
volta in volta i pieni predominano sui vuoti e viceversa formando figure
differenti a secondo del prevalere ora dell’uno ora dell’altro. Difficile trova-
re confronti nell’area campana: se un precedente generico può essere indi-
Gli insediamenti 73

Fig. 13 - Eboli, San Pietro Apostolo, finestra in stucco

Fig. 14 - Eboli, San Pietro Apostolo, chiesa abbaziale, affresco (XII sec.)
74 La Piana del Sele in età normanno-sveva

cato con le transenne di Santa Maria di Compulteria, la distanza cronologi-


ca437 e l’evidente differenza concettuale non permettono di tracciare alcuna
linea di derivazione. Probabilmente raffronti più plausibili possono istituir-
si con alcune transenne di finestra di area capuana, ad esempio la transenna
di monofora nella chiesa Di San Benedetto a Capua (XI sec.)438 , o di area
pugliese, quali la transenna di una monofora sulla fiancata settentrionale
della chiesa di San Leonardo a Siponto (seconda metà del XII secolo)439 ,
fino ad arrivare alla transenna conservata presso lo spazio museale della
Zisa a Palermo (XII sec.)440 . E’ proprio alla tradizione delle transenne nor-
manno-palermitane che gli autori delle nostre monofore sembrano essersi
ispirati, utilizzando una decorazione a piccoli trafori geometrici piuttosto
che fori circolari propri della cultura bizantina441 .
All’interno della chiesa sul muro absidale di destra si scorge un affresco
effigiante la testa di un santo (fig. 14). Lo stile richiama realizzazioni del
pieno XII secolo442 . Lo stile del lacerto e i confronti sembrerebbero indicare
una matrice bizantina nella cultura artistica del frescante, piuttosto che ‘oc-
cidentale’: chiara la differenza con coevi esempi salernitani (ad es. affreschi
nell’ipogeo di san Pietro a Corte o nello stesso Duomo), mentre, come si è
visto, le affinità più stringenti si possono individuare in realizzazioni di fre-
scanti di cultura bizantina operanti in Calabria e in Basilicata.
Della chiesa conosciamo anche l’architetto, il Bartolomeo dell’iscrizio-
ne, fatto abbastanza raro nel territorio salernitano in questi anni. Si tratta di
un nome abbastanza comune nella Eboli di XII secolo443 , ma di questo per-
sonaggio non troviamo traccia sicura nelle carte ebolitane. Sappiamo che ad
Eboli esisteva una classe numericamente abbastanza cospicua di fabricato-
res e qualche maestro di mura in età normanno-sveva444 , ma forse questo
Bartolomeo proveniva da altro luogo. La circostanza che si ricordò la sua
opera nell’epigrafe dedicatoria attesta, oltre il prestigio del magister, come
nella percezione della committenza vi fosse la consapevolezza dell’impor-
tanza dell’opera, che andava a dare lustro anche all’esecutore445 . La tipolo-
gia architettonica, lo stile delle decorazioni e l’affresco convergono nell’in-
dicare nel XII secolo la datazione della chiesa446 in accordo con la già ricor-
data iscrizione dell’abate Giovanni. Tuttavia l’iscrizione si riferisce proba-
bilmente ad una ricostruzione dell’edificio precedente447 . Tale ipotesi se non
trova agganci sicuri nella documentazione scritta può essere verificata os-
servando le relazioni tra le strutture della basilica e del campanile. Di grande
interesse in tal senso risulta l’anomalo posizionamento di quest’ultimo ri-
Gli insediamenti 75

spetto alla fabbrica dell’edificio basilicale: dalla planimetria emerge infatti


con evidenzia il differente asse di orientamento rispetto al quale furono rea-
lizzati i due edifici, circostanza che lascia trapelare due fasi costruttive di-
stinte nel complesso descritto. Fu la chiesa ad adattarsi al campanile preesi-
stente ed in parte inglobarlo: l’osservazione della relazione tra la base della
prima colonna della navata di destra, poggiante in maniera evidente sulla
muratura del campanile, così come l’esonartece e la presenza di una finestra
tompagnata sul lato est del campanile inglobato nella navata (fig. 15) non
lasciano dubbi sulla successione cronologica degli interventi. E’ probabile
che il campanile fosse funzionale ad un altro edificio forse demolito per far
posto all’attuale chiesa. Si spiegherebbe così anche l’iscrizione dedicatoria
del 1156, che in questo caso fornisce un importante termine ante quem per
l’elevazione del campanile. Del resto anche la semplicità delle decorazioni
del campanile con l’assenza, ad esempio, di elementi decorativi quali archi
intrecciati ormai diffusi nella seconda metà del XII secolo, lascerebbero
pensare ad una datazione tra fine XI e primi decenni del XII.
Nella zona immediatamente sottostante la fiancata destra della chiesa è
posta la cappella di San Berniero. Nel gennaio del 2003 a seguito di un forte
temporale si è verificato il cedimento di parte del muro di contenimento che
delimitava a sud il piazzale antistante l’ingresso meridionale alla basilica.
L’evento ha svelato il fianco sud della cappella. La fiancata è caratterizzata
da una serie di archetti ciechi a tutto sesto rialzati databili all’ XI- XII secolo.
Se la facciata della cappella risulta frutto di un recente restauro, l’interno
conserva una copertura a volte a crociera databile al XII-XIII secolo. Rima-
ne la domanda su cosa fosse in origine la cappella di San Berniero. Forse il
sacello che conteneva le reliquie del santo prima della deposizione nella
cripta della chiesa attuale448 ? Si tratta di una domanda alla quale non si può
fornire al momento risposta. La circostanza che la cappella di San Berniero
presenti un asse di orientamento differente dalla chiesa attuale, ma compati-
bile con il campanile lascia ipotizzare una realizzazione funzionale all’as-
setto potremmo dire ‘preromualdiano’ del complesso (ante 1156), forse un
sacello annesso, elemento che potrebbe corroborare l’ipotesi dell’esistenza
di una chiesa precedente all’attuale.
La chiesa ebolitana rivela, si è visto, una serie di apporti culturali diversi
che possiamo definire longobardo-cassinensi, bizantini e arabi, circostanza
che ne fa un esempio singolare nel panorama campano, in particolare per
l’adozione di un tipo di transenna del tutto estraneo alla cultura artistica
76 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Fig. 14bis - Eboli, San Pietro Apostolo, epigrafe del 1156

Fig. 15 - Eboli, San Pietro Apo-


stolo, interno dell’abbaziale ai
tempi del restauro
Gli insediamenti 77

locale. A determinare questa opzione ecclettica fu certamente la volontà del-


la committenza. In particolare ritengo che un ruolo fondamentale in questa
scelta sia da attribuire all’arcivescovo Romualdo II Guarna (1153-1180) che
compare nell’iscrizione dedicatoria accanto al re Guglierlmo I, anche se uf-
ficialmente non risulta come committente. Come è noto Romualdo fu molto
legato alla corte palermitana fin dagli inizi della sua missione pastorale449 e
doveva ben conoscere le importanti realizzazioni architettoniche che si era-
no compiute e che in quegli anni si andavano eseguendo a Palermo. In par-
ticolare la cappella palatina voluta da Ruggiero II nella sua capitale, dove
elementi bizantini ed arabi si intrecciavano dando vita ad un organismo ar-
chitettonico originale450 o la chiesa di San Giovanni degli Eremiti, doveva-
no aver colpito l’attenzione dello storiografo salernitano. E’ indubitabile
che esperienze artistiche siciliane siano operanti in alcune opere commis-
sionate da Romualdo II per il duomo di Salerno, come il celebre ambone
“Guarna”451 . Non appare così inverosimile che le suggestioni siciliane ab-
biano influenzato la realizzazione della basilica ebolitana di San Pietro. Chia-
ramente nulla di paragonabile in termini di magnificenza e di profusione di
materiali preziosi con la costruzioni sfavillanti di Ruggero II, ma ciò che
conta è l’adesione a un modello e a una corrente di gusto che, quantomeno
nell’adozione del tipo di transenne, non mi sembra avere altro referente se
non la Palermo di quegli anni452 . Il richiamo culturale a Palermo nella chiesa
di San Pietro e l’apposizione al suo interno di un’iscrizione dedicatoria dove
il sovrano compare pienamente legittimato nel suo ruolo, potrebbe essere
inteso come il rafforzamento di un ponte che l’ arcivescovo in quegli anni
andava ricostruendo tra queste terre e la dinastia palermitana, soprattutto se
si tiene conto della situazione politica da poco pacificata 453 . San Pietro apo-
stolo di Eboli dunque come manifesto del legame tra Guglielmo e Romual-
do, tra Regno e Chiesa salernitana, negli stessi anni in cui anche grazie al-
l’opera di Romualdo, il pontefice Adriano IV riconosceva Guglielmo re di
Sicilia454 . Ma anche manifesto del legame tra la Chiesa salernitana e Eboli,
la più importante circoscrizione arcipresbiterale di Romualdo, già centro
nodale dei domini di Guglielmo III di Principato, ribelle anch’egli al con-
giunto Guglielmo I.
E’ interessante notare come nell’iscrizione di San Pietro si specifichino
in maniera precisa i ruoli: se la committenza è da individuarsi nell’ambito
ecclesiastico, l’architetto, nel senso di colui che operò sia alla progettazione
che alla realizzazione (studiosus) è Bartolomeo; si tratta di un documento
78 La Piana del Sele in età normanno-sveva

importante perché testimonia in maniera evidente come i due aspetti (com-


mittenza e progettazione) dell’operazione fossero ben distinti. Tuttavia il
committente fissò perlomeno le linee programmatiche dell’opera e ne definì
alcune caratteristiche (ad es. le finestre), come pare potersi dedurre da quan-
to discusso sopra.
La planimetria, la spazialità e gli elementi sintattici dell’architettura che
definiscono la basilica ebolitana concorrono nel collocare l’edificio piena-
mente all’interno della grande corrente architettonica del romanico-deside-
riano. Il raffronto più vicino con il nostro edificio, per quanto riguarda la
spazialità, è senza dubbio con la basilica romanica dell’Annunziata a Pae-
stum datata all’XI-XII secolo455 . Anche qui l’icnografia si sviluppa su tre
navate, divise da due file di colonne libere (sei per lato), concluse da tre
absidi semicircolari. Come ad Eboli la chiesa pestana è priva di transetto e
presenta il motivo delle colonne negli angoli dell’abside centrale, con la
differenza che qui manca il nartece. Anche le dimensioni e le proporzioni
sono in parte analoghe (26,6 x 12,05); mancano qui tuttavia quegli apporti
culturali eterogenei che connotano la chiesa ebolitana.
Numerosi sono i confronti puntuali o generali che si potrebbero richia-
mare con altri edifici campani, anche ben più complessi e celebri:dal San
Michele di Sant’Angelo in Formis, alla cattedrale di San Matteo a Salerno,
dalla cattedrale di San Pietro a Sessa Aurunca, alla primitiva cattedrale di
Carinola, dal San Menna di Sant’Agata de’ Goti alla cattedrale di Caserta
Vecchia, solo a voler procedere per i vertici del romanico campano. E’ que-
sto il prodotto di una cultura multiforme che si muove sulla linea di crinale
della tradizione costruttiva longobardo-bizantina dei fabricatores e l’inno-
vazione formale stimolata dal monachesimo benedettino e dalla committen-
za normanna, declinato in un articolato e innovativo linguaggio unitario456 .

Il complesso di San Giovanni dell’Ospedale

Il complesso di San Giovanni dell’Ospedale sorgeva su di una collinetta


(oggi Costa San Giovanni) a ovest di Eboli, alla confluenza tra due delle
direttrici più importanti nel quadro delle comunicazioni delle terrre a Sud di
Salerno: la strada che proveniva dal ponte del Sele, l’antica Capua-Reggio,
e la via che da Eboli conduceva a Paestum e al Cilento e da qui alla Cala-
bria457 (fig. 16).
Gli insediamenti 79

Fig. 16 - Eboli (da PACICHELLI 1703)

Fig. 17 - Eboli, San Giovanni gerosolimitano (da CARLONE 1998)


80 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Il primo documento relativo all’edificio risale al 1216; si tratta di un


lascito testamentario in cui si fa riferimento all’ospedale di San Giovanni,
cui precettore è frate Onofrio458 , mentre nel 1252 preceptor domus hospita-
lis Sancti Iohannis de Eboli risulta Frate Matteo d’Abruzzo459 . Il comples-
so, come si evince dalla documentazione, comprendeva una struttura per
l’ospitalità dei viandanti (domus hospitalis) e la chiesa460 . Dai due docu-
menti del 1216 e del 1252 risulta che la commenda giovannita ebolitana
dipendesse dal priorato di San Giovanni di Capua.
La chiesa fu distrutta nel corso dei bombardamenti del 1943, ma fotogra-
fie dell’epoca permettono di esporre alcune considerazioni sull’aspetto ar-
chitettonico insediativo del complesso (fig. 17). La chiesa presentava una
semplice spazialità ad aula unica, conclusa da una profonda abside semicir-
colare. Sui lati della navata si aprivano quattro strette finestre archiacute
caratterizzate da una forma allungata. L’estradosso absidale, la cui ampiez-
za era quasi pari alla larghezza della navata, era decorato da eleganti nicchie
formate da lesene aggettanti terminati in archi acuti sostenuti da colonnine.
Al centro della parete sinistra dell’edificio è ben visibile un ingresso laterale
trabeato, concluso da un arco a sesto acuto.
Dalla documentazione fotografica degli anni ’30-’40 dello scorso secolo
è possibile scorgere sulla sinistra della chiesa una serie di ambienti (sem-
brerebbero tre) ridotti a rudere, edificati sulla parte terminale del declivio
dell’altura in parte contro terra (fig. 17). Si tratta probabilmente dei resti
delle strutture dell’hospitalis, ormai desuete da secoli.
L’edificio del San Giovanni di Eboli trova confronti stilistici e tipologici
con numerose chiese tardo romaniche dell’Italia meridionale461 . L’utilizzo
dell’arco a sesto acuto fa propendere per una datazione della chiesa al XIII
secolo: si tratta con ogni probabilità dell’impianto originario dell’edificio.

Abbastanza singolare risulta un confronto che è possibile stabilire con


una delle poche chiese giovannite sopravvissute nelle forme di XIII secolo
in Europa, la chiesa di San Giovanni di Gerusalemme presso Poggibonsi
(SI). Anche qui, come ad Eboli la chiesa si sviluppa lungo una sola navata
conclusa da un’abside semicircolare e l’ingresso laterale sulla sinistra appa-
re pressoché identico a quello del San Giovanni di Eboli, così come le fine-
stre della navata. Diverso appare invece il rapporto funzionale con le struttu-
re ospedaliere, ma l’interessante analogia architettonica tra le due chiese
permette di individuare forse un modello tipologico comune adottato per le
Gli insediamenti 81

piccole commende giovannite, numerose in questi anni in Italia, ma in gran


parte scomparse o rinnovate nei caratteri originari462 .

Il rimpianto per la scomparsa del complesso risulta acuito dalla circo-


stanza della rarità di tali edifici conservatisi grossomodo nella loro struttura-
zione originaria in Europa.

E’ evidente la posizione strategica del complesso, posto su una piccola


altura sovrastante l’importante snodo viario costituito dall’incrocio del trac-
ciato della vecchia Capua-Reggio con la via che conduceva a Paestum e al
Cilento.

2) Battipaglia

San Mattia

Ben poco sopravvive del complesso monastico medievale, oggi trasfor-


mato in fattoria, tanto legato, come si è visto, alle vicende dei casali della
Piana e in particolare al dominio cavense su queste terre. Le trasformazioni
del XVII e del XVIII hanno quasi del tutto obliterato le fasi costruttive me-
dievali dell’abbazia. Solo lacerti dell’attuale cappella restituiscono elementi
per ipotizzarne l’originaria concezione architettonica. La riconsiderazione
barocca ridusse la chiesa medievale ad una sola navata monoabsidata coper-
ta da una volta a botte. In precedenza la spazialità dell’edificio era scandita
da tre navate divise da pilastri raccordati da archi a tutto sesto, come si ar-
guisce dall’osservazione della parete sud del sacello. La chiesa era conclusa
da tre abisidi; di queste sopravvive la centrale, mentre della laterale sul lato
sud rimane traccia evidente in un arco tompagnato, delimitato da resti di
affresco. L’abside centrale risulta incorniciata da due colonne romane riuti-
lizzate, sormontate da capitelli a foglie d’acanto. Lacerti di affresco visibili
in diverse zone della chiesa, contestuali alle fasi medievali dell’edificio, te-
stimoniano della decorazione che doveva adornare il sacello. La spazialità
dell’edificio e alcune soluzioni decorative quali le colonne incassate ai lati
dell’abside, convergono nell’individuare tra XI e XII secolo l’epoca di co-
struzione della fase più antica della chiesa oggi osservabile. La relativa
arcaicità di alcuni elementi dell’architettura di San Mattia, quali i pilastri di
82 La Piana del Sele in età normanno-sveva

divisione delle navate, sembrerebbero far propendere una collocazione cro-


nologica più verso il pieno XI secolo che il XII, ossia in una fase che po-
tremmo definire predesideriana, quasi un annuncio di quanto realizzato a
Montecassino nel 1071463 . Ovviamente solo un’esplorazione archeologica
potremme risultare dirimente in tal senso.

3) Olevano

Anche nel territorio di Olevano sul Tusciano si individuano alcuni esem-


pi di architetture e elementi decorativi riconducibili ai secoli XI-XIII. Si è
già visto come alcuni casali del territorio offrano elementi in questo senso. Il
complesso di Santa Maria a Corte, ad esempio,conserva un palazzetto pres-
soché integro databile al XIII secolo che fu residenza dell’arcivescovo di
Salerno, signore di queste terre464 .

Santa Maria Annunziata

Nella frazione Monticelli non lontano dal fiume Tusciano si ergono i


resti della chiesa dell’Annunziata attestata dalle fonti a partire dal 1511 se-
colo465 . La chiesa presenta una spazialità caratterizzata da una navata unica
conclusa da un’ampia abside oggi inglobata in un edificio costruito recente-
mente alle spalle della chiesa, di cui rimane visibile la ghiera a tutto sesto
all’interno dell’edificio. Al di sopra di quest’ultimo sono ancora visibili i
lacerti di un grande affresco (fig. 18): al centro della scena rappresentata vi
è un clipeo all’interno del quale si scorge una figura non più interpretabile.
Alla destra e alla sinistra sono due angeli nell’atto di indicare il personaggio
all’interno del clipeo, probabilmente il Cristo. Lo stile degli affreschi richia-
ma opere databili tra XII e XIII secolo nel salernitano (ad esempio gli affre-
schi conservati nell’ambiente ipogeo della cappella di San Pietro a Corte a
Salerno). La facciata conserva un rosone circolare tompagnato e parte del-
l’ingresso sormontato da un arco ogivale. Le dimensioni dell’edificio e la
buona qualità dell’affresco ne indicano il rilievo nell’ambito olevanese sin
dal XII-XIII secolo, testimoniato in seguito dalla documentazione scritta del
XVI secolo, in particolare dal discreto patrimonio rilevabile dalle visite pa-
storali466 .
Gli insediamenti 83

Fig. 18 - Olevano sul Tusciano, chiesa dell’Annunziata, affresco (XI-XIII sec.)

Fig. 19 - Olevano sul Tusciano, Grotta di San Michele, affresco (XII-XIII sec.)
84 La Piana del Sele in età normanno-sveva

d) I poli santuariali

1) San Vito al Sele

Lungo la sponda destra del Sele, nel territorio di Eboli, sono stati nello
scorso decennio condotti degli scavi in località San Vito, nei pressi dell’omo-
nima chiesa che, secondo la tradizione, conserva le reliquie del santo eponi-
mo martirizzato sulle sponde del fiume ai tempi delle persecuzioni diocle-
zianee467 . Il saggio, limitato a due aree nei pressi dell’attuale chiesa, ha por-
tato alla luce varie fasi di vita del santuario: in particolare le strutture di una
serie di edifici datati tra la fine del V e la metà del VI secolo, con ogni
probabilità relativi al complesso originario, realizzati in laterizi, i cui am-
bienti interni erano riccamente rivestiti di lastre marmoree fissate alle pareti
con chiodi di bronzo e pavimentati con mosaici policromi a motivi geome-
trici468 . Non è possibile affermare quando sia avvenuto l’abbandono del pri-
mitivo santuario; l’attuale chiesa di San Vito, frutto di vari interventi di re-
stauro succedutisi nei secoli, mostra alcuni elementi architettonici colloca-
bili ad età tardomedievale, quali una volta a crociera archiacuta e la profon-
da abside. Le fonti scritte testimoniano nel territorio di Eboli l’esistenza di
due chiese di San Vito nel XII secolo: l’ecclesia sancti Viti seniori e l’eccle-
sia sancti Viti Iunioris affidate dall’arcivescovo salernitano Romualdo II
all’abbazia di San Pietro Apostolo nel 1160469 . Il documento non chiarisce
se si trattava di edifici che sorgevano in aree diverse o di due chiese conti-
gue. Le indagini archeologiche non aiutano a dirimere la questione, ma non
è improbabile che i due oratori siano stati attivi insieme per un periodo,
almeno alla metà del XII secolo, per la rovina parziale dell’antico santuario
che possiamo ipotizzare di lì a poco abbandonato: la documentazione scritta
da allora in avanti non distinse più due chiese di San Vito, ricordandone una
sola470 . L’insediamento a San Vito non doveva limitarsi al pur importante
santuario extraurbano; una serie di ricognizioni non sistematiche condotte
nell’area della chiesa moderna hanno individuato un’area di affioramenti
ceramici sparsa su una superficie di circa due ettari che definisce un vasto
insediamento, probabilmente un villaggio in epoca medievale, caratterizza-
to da una apparente continuità di frequentazione dal IV secolo avanti Cristo
al basso Medioevo (XIII sec.). Difficile dire di più sul villaggio che presu-
mibilmente si formò sulla riva del Sele anche per la presenza delle reliquie
di Vito, ma è verosimile supporre che una vicina rada471 e il prestigioso
Gli insediamenti 85

complesso santuariale ne favorissero lo sviluppo, senza dimenticare la posi-


zione strategica del sito all’interno dei flussi di passaggi di uomini e merci
nella regione472 .

2) San Michele di Olevano sul Tusciano

La grotta di San Michele ad Olevano sul Tusciano costituì nell’alto Me-


dioevo uno dei più importanti santuari dell’Occidente cristiano, inserito ne-
gli itinerari di pellegrinaggio internazionali e qualificato da raffinati inter-
venti edificiatori e pittorici473 (fig. 20). A partire dal X secolo il santuario fu
inglobato, insieme al territorio di Olevano, tra le pertinenze della Chiesa
salernitana. Recenti indagini archeologiche hanno permesso di definirne in
maniera precisa le fasi di occupazione e di ricostruire la raffinatezza della
cultura materiale di quanti erano preposti al suo controllo, oltre a rivelare
alcuni aspetti legati al pellegrinaggio474 . In particolare preziose informazio-
ni si sono potute ricavare dall’individuazione e dall’esplorazione della di-
scarica del santuario posta all’ingresso della cavità, funzionante dall’VIII
secolo al XII (figg. 21, 23). In quest’ultimo periodo si ricoprì la discarica e
si sopraelevò il piano di frequentazione in funzione della riconsiderazione
degli ambienti di chiusura del santuario (fig. 21). La sopraelevazione fu
realizzata precipitando dall’alto materiale ormai inutilizzabile, terra prove-
niente da altre aree della grotta, cenere, e grossi frammenti di muri intonaca-
ti appartenenti ai vani precedenti demoliti (UU SS 1022, 1041). La stessa
operazione fu eseguita dall’altro lato del muro USM 1024 (UU SS 1026,
1027, 1028) (fig. 23). L’analisi della ceramica rinvenuta permette di indica-
re non oltre la fine del XII secolo l’azione sopra descritta.
Le mura della nuova costruzione furono in parte giustapposte alle strut-
ture rasate degli ambienti precedenti (UU SS MM 1024, 1019) e in parte
poggiate sugli strati di terra riportati per innalzare le quote. In questo modo
si realizzò l’edificio su due piani ancora oggi visibile all’imboccatura della
Grotta. Sulla parete est dell’ambiente A fu realizzato un subsellium (USM
1037), mentre un semplice battuto in malta costituiva il pavimento (US 1039).
Questa fase di frequentazione fu ben presto obliterata (metà XIII sec.) da un
nuovo piano che innalzò la quota di circa 40 cm. con la realizzazione di un
pavimento in malta con un tenace vespaio formato da pietre e malta (US
1038). Il pavimento funzionò fino al XIX secolo Questo nuovo edificio si
configura come centro per l’accoglienza dei pellegrini che si recavano al
86 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Fig. 21 - Olevano sul Tusciano,


Legenda I Area dello scavo 2002 (c. d. Monastero)
Grotta di San Michele, Scavo 2002, II Area dello scavo 1992 (hospitium?)
planimetria degli ambienti A e B III Vasca
IV Area delle deposizioni
Fig. 20 - Olevano sul Tusciano, Grotta di San
Michele, Pianta generale (da Zuccaro)

Fig. 23 - Olevano sul Tusciano, Grotta di San Michele, Sezione C-D


Gli insediamenti 87

santuario475 . Tra XII e XIII secolo si assiste ad una profonda riconsiderazio-


ne di alcune strutture del santuario: detto dell’elevazione della foresteria,
all’interno della grotta, nei pressi della cappella dell’Angelo si demolì il
precedente ospizio, considerato oramai insufficiente476 ; anche il monastero
all’esterno della Grotta subì delle modificazioni riconoscibili in un nuovo
ingresso archiacuto nella parte meridionale della struttura. Il documento più
singolare relativo a questo periodo è costituito da un affresco ritornato alla
luce in seguito a recenti restauri condotti presso la cappella dell’Angelo: in
esso è raffigurato l’Arcangelo Michele nell’atto di benedire tre monaci in
abiti bianchi, forse su di un’imbarcazione (fig. 19). Epigrafi dipinte ricorda-
vano i nomi dei tre personaggi, di cui uno solo, relativo al monaco centrale,
risulta al momento chiaramente leggibile, frater Bernardus. Che non si tratti
del monaco franco Bernardo pellegrino intorno all’870 presso il santuario
micaelico olevanese si deduce dalla datazione dell’affresco, collocabile fa-
cilmente tra la metà del XII secolo e l’inizio del XIII477 : è infatti del tutto
improbabile che la comunità del Mons aureus avesse continuato a serbare
memoria della visita del monaco Bernardo per oltre 300 anni e a celebrarla
in maniera così eclatante. Difficile precisare chi fossero i tre monaci; si tratta
certamente di personaggi di rilievo, che vollero testimoniare il loro pellegri-
naggio al santuario olevanese commissionando un affresco, fatto non raro nel
Medioevo ma abbastanza inconsueto e in ogni caso riservato a personalità di
spicco nella società del tempo, come ad esempio a Monte Sant’Angelo il co-
siddetto affresco del Custos Ecclesiae alla fine del X secolo478 . La circostanza
che venisse concessa ai tre frates pellegrini buona parte della parete della cap-
pella principale del santuario ne attesta la considerazione che ne avevano la
comunità monastica del mons aureus e l’arcivescovo di Salerno e, insieme, il
prestigio che doveva conferire al luogo il loro passaggio.
Si è detto come l’unico personaggio di cui si possa decifrare chiaramente
il nome è frater Bernardus: la circostanza che nel novembre del 1137 fosse
a Salerno il grande cistercense Bernardo di Chiaravalle 479 , ospite del metro-
polita salernitano signore di Olevano e del santuario micaelico, come invia-
to del pontefice per tentare di saldare la rottura intercorsa tra Innocenzo II e
Ruggiero II dopo l’investitura regia per opera dell’antipapa Anacleto nel
1130480 , non autorizza ad indicare con sicurezza nel grande teologo il perso-
naggio raffigurato nell’antro olevanese, ma si tratta, a mio avviso, di un’ipo-
tesi da non scartare a priori. In ogni caso la raffigurazione dei monaci con il
saio bianco mi sembra un elemento che definisca con una certa chiarezza la
loro appartenenza all’ordine cistercense.
88 La Piana del Sele in età normanno-sveva
89

CAPITOLO III
Economia e società

1) La produzione agraria

1.1 La piana di Battipaglia

Le terre corrispondenti al tardo longobardo locus Tuscianus, si caratte-


rizzano lungo i primi 70 anni della dominazione normanna per la presenza
di una grande varietà di colture. Un assetto decisamente policolturale carat-
terizzava la piana di Battipaglia fin dall’età tardolongobarda: a prevalere,
accanto alla vigna481 , era il grano482 , ma non mancavano alberi fruttiferi di
vario genere483 , fichi484 , oliveti485 e anche castagni di pianura486 . La docu-
mentazione offre l’immagine di un territorio meridionale del Tusciano in-
torno alla metà dell’XI secolo caratterizzato da vaste zone ormai agrarizzate
costituite da un mosaico di fondi dispersi sul territorio, affidati in gran parte
a coltivatori attraverso contratti ad laborandum487 . Si ha l’impressione che
la spinta colonizzatrice abbia trovato il suo culmine tra la fine del X secolo
e i primi anni del successivo488 . In questo senso spinge a credere anche lo
scarso numero di contratti ad pastenandum rispetto alle traditiones ad labo-
randum489 che si rinvengono in relazione a queste terre nella prima metà
dell’XI secolo, sintomo quest’ultimo di un raggiunto equilibrio tra produtti-
vità del territorio ed esigenze dei possessores.
90 La Piana del Sele in età normanno-sveva

L’avanzata colonizzazione, e di conseguenza l’urgenza di gestire in ma-


niera più razionale e remunerativa la produzione agraria, unita forse ad un
incremento demografico, spinse già nella prima metà dell’XI secolo alla
frantumazione di considerevoli patrimoni fondiari compatti di famiglie co-
mitali longobarde salernitane, rimasti fino a quel momento indivisi nella
pianura del Tusciano490 . Già nel 1011 quattro congiunti rappresentanti del-
l’aristocrazia fondiaria longobarda salernitana dividono in tre parti le terre
che possiedono in comune lungo il torrente Vallemonio491 ; più complessa la
situazione del 1026 quando dodici longobardi, membri di otto gruppi distin-
ti, si riuniscono per dividersi l’ampio patrimonio che controllavano insieme
tra il Lama, il Tusciano, il lacu Piczolu e il mare492 . Queste terre del locus
Tuscianus sulla riva destra del fiume, appaiono interessate da significativi
interventi colonizzatori già nel X secolo; nel 980 un tale Alfano consegna
delle terre boschive ai fratelli Pietro e Nicola: i due si impegnano a dissoda-
re per sei anni le terre loro affidate493 .
Il carattere promiscuo e policolturale dell’agricoltura nelle terre del bas-
so-medio corso del Tusciano continua a segnare il paesaggio fino a tutta la
prima metà del XII secolo. Alcuni esempi possono servire a fornire un qua-
dro della situazione494 . Nel 1085 si rinvengono due terre in loco Tusciano di
cui una cum vinea arboribus et vacuo495 ; con una carta del 1089 Ruggero
Borsa dona alla Sant.ma Trinità di Cava una terra con ulive, querce e vacuo
oltre il Tusciano496 ; nel 1089 si ricordano terre con arbusto in loco Tuscia-
no497 ; ancora Ruggero nel 1089 dona tre terre nei pressi di Sant’Arcangelo
la prima con alberi e vacuo, con all’interno una taverna, la seconda arbusto,
la terza con arebusto e vacuo denominata de lo Battipalea498 ; nel 1090 è
menzionata un terra arbustata concastagneto e fruttiferi ubi Cabavari499 .
L’ormai strutturata e in qualche modo, consolidata, organizzazione fondia-
ria dei coltivi nella Piana trapela da un documento del 1104 con il quale il
signore di Eboli, Roberto, dopo aver riunito presso la sua corte Giovanni
suo stratigoto e il giudice Landolfo insieme ad altri bonis hominibus huius
nostri castelli Evoli, concede a Leone detto Ramaro la metà di una curtis e
otto fondi nei pressi del Tusciano 500 : in ognuno di questi fondi, tutti solcati
o delimitati da vie, sono impiantate attività agricole o legate all’allevamen-
to, seminativi, alberi, fruttiferi, vigne, orti, salici, querce, nè mancano edifi-
ci abitativi. Un altro esempio dell’assetto policolturale di queste terre nella
prima metà del XII secolo è dato da una carta del 1138 con la quale Alferio
miles qui dicitur de Monte Marano concede in feudo a Giovanni Mastinke
Economia e società 91

cinque petia de terra nel casale Tusciano: la prima in loco ubi sanctus Feli-
cius nuncupatur con vigneto e fruttiferi confinante con un castagneto, la
seconda, un castagneto, nello stesso luogo: anche la terza, nella medesima
contrada è un castagneto, confinante con altri castagneti; la quarta è un frut-
teto, la quinta contiene alberi da frutto e un querceto in loco ubi curia de
Giuso Pilato nuncupatur 501 . Tendenzialmente, come si evince anche dagli
esempi riportati, le coltivazioni in questi anni sembrano uniformarsi nelle
diverse contrade del locus, senza che emergano particolari aree a produzio-
ne predominante502 .
Più in generale la situazione colturale della piana di Battipaglia presenta
interessanti mutamenti nello scorrere degli anni. Un’analisi delle attestazio-
ni di coltivi divisi in tre macroperiodi di 50 anni503 mostra le variazioni del
paesaggio agrario nella piana di Battipaglia.
Nel primo periodo considerato (anni 1085-1150) emerge un sostanziale
equilibrio nell’attestazione delle coltivazioni (Tab. 1): se i fruttiferi nel com-
plesso raggiungono il 33% del totale, le colture cerealicole (terra laborato-
ria o vacua nei documenti504 ) rappresentano il 28%, mentre la vite (da sola
o associata con l’arbustum) incide per il 19%. Molto meno frequente la
citazione di oliveti (6%), forse talvolta considerati come alberi (10%) o frut-
tiferi505 . Si tratta di un sistema in cui le colture arbustive prevalgono netta-
mente sui seminativi nudi. Indubbiamente la presenza dei numerosi corsi
d’acqua che attraversavano la piana506 , opportunamente sfruttate, e il clima
mite dovevano favorire il successo delle colture arbustive. In ogni caso ap-
pare evidente come questo paesaggio della Piana sia il frutto della grande
spinta colonizzatrice prodotta tra la seconda metà del X e gli inizi dell’XI
dal lavoro di concessionari di appezzamenti attraverso lo strumento del pa-
stinato507 .
La scena muta radicalmente nella seconda metà del XII secolo. Se si
osservano i grafici relativi alle produzioni agrarie tra il 1151 e il 1200 balza
immediatamente agli occhi l’aumento impressionante delle colture cereali-
cole (in massima parte grano e orzo): da un incidenza percentuale pari al
28% sul totale delle attestazioni si passa al 58%, più del doppio, con un
sensibile incremento a partire dagli anni ’70 del XII secolo508 ; il settore che
risentì maggiormente di questo incremento furono i fruttiferi che risultano
crollare al di sotto del 10% delle attestazioni (Tab. 1, anni 1151-1200).
La documentazione mostra come questa presenza delle colture cereali-
cole fosse diffusa pressoché in tutta l’area del Tusciano: terre laboratoriae
92 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Tab. 1

Le colture nella piana di Battipaglia in età normanna (anni 1085-1150)

Attestazioni incidenza %

vigneti 13 10%
arbusto vitato 11 9%
fruttiferi 28 22%
cereali 36 28%
orti 2 2%
fichi 4 3%
oliveti 2 2%
alberi 12 10%
castagno 6 5%
salici 2 2%
noci 1 1%
selva 7 6%

Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1151-1200)

Attestazioni incidenza %

alberi 16 14%
fruttiferi 7 6%
cereali 65 57%
vigneti 16 14%
arbusto vitato 4 4%
orto 2 2%
incolto 3 3%

Le colture nella piana di Battipaglia in età sveva (anni 1201-1250)

Attestazioni incidenza %

alberi 1 2%
fruttiferi 6 12%
cereali 38 74%
querce 2 4%
orto 2 4%
incolto 2 4%
Economia e società 93

si rinvengono nel 1161 nel vico Tusciano alla località Anania509 , nel 1169
ubi a la Maura dicitur, nel casale Tusciano510 , nella località Calcarola oltre
il fiume Tusciano sui colli tra Battipaglia ed Eboli nel 1172511 , lungo il fiu-
me Tusciano nei pressi del mulino della Trinità di Cava nel 1172512 , nella
località Spenda nel 1176513 , nella contrada Arcatura, vicino al Tusciano,
non lontano da San Mattia, nel 1177514 . nella località Cerzietum nel 1179515 ,
alla Fasanara nel 1181516 , nella località San Felice517 , a San Clemente nel
1184518 , nella contrada Spatatesa nel 1187519 , nelle località Cerasa, Frabi-
tula, La Tesa e l’elenco potrebbe continuare (Tab. 3). Paradigmatico di que-
sto paesaggio oramai dominato da distese biondeggianti di grano è un docu-
mento del 1188 con il quale l’abate di Cava Benincasa concede al viceconte
Urso, sette terre nel territorio del casale Tusciano: di queste una è coltivata
ad arbusto vitato, le altre sei sono terre laboratoriae520 . Il contrasto con quanto
visto per la prima metà del XII secolo appare evidente.
La tendenza già individuata nel periodo 1151-1200 si rafforza negli anni
tra il 1201 e il 1250 (tab.1, anni 1201-1250). In quest’arco cronologico le
attestazioni delle colture cerealicole giungono al 74% del totale, mentre scom-
paiono del tutto i vigneti e gli oliveti, con i fruttiferi che si attestano al 12%
delle colture menzionate nei documenti.

1.2 Le terre di Eboli

Le terre più direttamente gravitanti intorno ad Eboli (colli immediata-


mente all’intorno, esclusi i casali di Monte e Padule, pianura sottostante)
mostrano una situazione più articolata rispetto alla Piana di Battipaglia. Già
dalla semplice osservazione della tabella relativa alle colture, emerge una
sostanziale tenuta delle coltivazioni arbustive rispetto ai seminativi nell’ar-
co dell’intero periodo considerato (anni 1090-1250) (Tab. 2). Tuttavia, a
differenza della Piana del Tusciano dove a partire dagli anni ’70 del XII
secolo la cerealicoltura appare largamente predominante dappertutto, come
si è visto, approfondendo l’analisi si nota come qui si possano individuare
aree tendenzialmente vocazionali, o, più correttamente, a predominanza col-
turale, almeno a partire dalla seconda metà del XII secolo.
Nelle terre intorno alla città la documentazione testimonia una presenza
esclusiva di orti, fruttiferi, vigne521 , in particolare orti, , circostanza comune
nel Medioevo alle aree circostanti le città522 .
94 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Tab. 2

Le colture nelle terre di Eboli in età normanna (anni 1090-1150)*

Attestazioni incidenza %
vigneti 6 18%
arbusto vitato 1 3%
fruttiferi 7 21%
cereali 8 25%
orti 1 3%
alberi 3 9%
castagno 6 18%
salici 1 3%
Le colture nelle terre di Eboli in età normanno-sveva (anni 1151-1200)*

Attestazioni incidenza %

vigneti 24 23%
ulivo 12 11%
fruttiferi 11 10%
cereali 40 38%
orti 3 3%
alberi 12 11%
quercia 3 3%
salici 1 1%

Le colture nelle terre di Eboli in età sveva (anni 1201-1250)*


Attestazioni incidenza %
alberi 4 2%
fruttiferi 23 14%
cereali 43 26%
vigneti 35 21%
orto 12 7%
ulivo 51 30%
* (escluse le terre della piana di Battipaglia e di Calli)

Le colture a Calli in età normanno-sveva (anni 1160-1200)


Attestazioni incidenza %

vigneti 2 6%
ulivo 3 10%
fruttiferi 4 13%
cereali 17 55%
alberi 2 6%
quercia 3 10%

Le colture a Calli in età sveva (anni 1201-1250)


Attestazioni incidenza %

alberi 1 2%
fruttiferi 6 15%
cereali 26 64%
vigneti 2 5%
ulivo 3 7%
querce 3 7%
Tab. 3

Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1085-1150)

Doc. anno tipo di doc. località coltura

DTC, XIV, 13 1085 Donazione Tusciano Vigna, alberi e vacuo


Economia e società

DTC, C, 17 1089 Donazione Tusciano 2 uliveti, querce, vacuo


DTC, XIV, 117 1089 Vendita Tusciano arbusto vitato (la terra è nei pressi di S. Arcangelo)
DTC, C, 19 1089 Donazione Tusciano Alberi, vacuo, arbusto
DTC,G,48 1089 Donazione Tusciano Vacua (presenza di un mulino, ischitella)
DTC, XV, 27 1092 Pastinato Tusciano alberi,vigna, pometo e saliceto (Leborano)
DTC, XVI, 81 1098 Vendita Tusciano alberi (ubi Vada de Benaturi)
DTC, XVII, 21 1101 Vendita Tusciano Vacua (vicino al Tusciano e alla chiesa di San Biagio)
DTC, XVII, 111 1104 Con. feudale Tusciano 3 vacua, querce, ortale, salici, fruttiferi (2), alberi
DTC, D, 51 1104 Donazione Tusciano 3 vacua, 2 fruttiferi, 1 selva (Laneo, chiesa San Nicola)
DTC,E, 3 1105 Donazione Tusciano Fruttiferi, alberi- vadu de S. Maria zita, a W il Tusciano
DTC,XVIII, 35 1105 Vendita Tusciano vacuo, arbusto, fruttif., pressi Tusciano, S. Maria zita
DTC,XVIII, 82 1108 Vendita Tusciano fruttiferi e infruttiferi
DTC,XVIII, 70 1109 Con. feudale Tusciano 3 vacuo, 1 fruttiferi, alberi
DTC,XVIII, 71 1109 Testamento Tusciano Vacua (a Li Laurelli)
DTC, XVIII, 95 1109 Testamento Tusciano Vacua e querce
DTC, E, 30 1115 Con. feudale Tusciano Terra selvosa (Fasanara)
DTC, XX, 74 1117 Vendita Tusciano arbusto vitato e altri alberi
DTC, XX, 88 1117 Donazione Tusciano Chiesa di San Biagio
DTC, XXI, 93 1123 Vendita Tusciano Vigna, fruttiferi, fichi e vacuo (fines Battipallee)
DTC, XXI, 32 1124 Vendita Tusciano Vigna e fruttiferi (ai piedi di un monte)
DTC, XXI, 117 1125 Vendita Tusciano Arbusto, vacuo, castagneto, selva
DTC, XXII, 22 1126 Ad Laborandum Tusciano Laboratoria (vecchio alveo Tusciano)
95
96

DTC, XXII, 10 1127 Vendita Tusciano Vigna, in vico Tusciano


DTC, XXII, 83 1129 Vendita Tusciano Fruttiferi Casale Tusciano ubi puteus de porcilis
DTC, XXII, 76 1130 Con. feudale Tusciano Vigna e fruttiferi
DTC, XXIII, 42 1132 Pastinato Tusciano arbusto, olivi, fichi, noci, viti, fruttiferi, grano
DTC, G, 10 1135 Con. feudale Tusciano Vacua (in vico Campitella)
DTC, XIII, 92 1135 Commutatio Tusciano Nei pressi dei mulini di Cava
AC, XXIV, 45 1139 Con. feudale Tusciano vigna, 2 fruttiferi, 2 castagneti, (Curia de Giuso Pilato)
AC, XXIV, 87 1139 Ad Laborandum Tusciano Vigna, alberi, frutti, fichi
AC, XXIV, 82 1140 Vendita Tusciano Arbusto, alberi e vacuo (ubi Brusca)
AC,XXV,114 1146 Ad Laborandum Tusciano Laboratoria
AC, XXVI, 48 1146 Giudicato Tusciano Terre e selve
AC, XXVI, 52 1146 Giudicato Tusciano Orzo, selve. San Pietro ad columnellum
Reg, n. 178 1148 Vendita Tusciano alberi, loc. Corte
AC, XXVI, 76 1148 Vendita Tusciano alberi
AC, H, 5 1148 Donazione Tusciano Vacua e Laboratoria (Guado di san Vito, pressi S. Mattia)

Continua
La Piana del Sele in età normanno-sveva
Tab. 3

Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1151-1193)

Doc. anno tipo di doc. Casale coltura e località

AC, XXVIII, 74 1153 Vendita Tusciano Alberi, Vico Tusciano (presso le arcature dei mulini)
Economia e società

AC,XXIX, 71 1156 Vendita Tusciano 2 alberi, vigna, macchia (loc. San Biagio del casale)
AC, XXIX, 45 1157 Vendita Tusciano Vacua, (loc. Populi Raonis Tristaini)
AC, XXIX, 71 1157 Vendita Tusciano Alberi
AC, XXX, 34 1159 Vendita Tusciano Alberi
AC, XXX, 59 1160 Vendita Tusciano Fruttiferi e vigna
AC, XXX, 51 1160 Testamento Tusciano Laboratoria (loc. Anania)
AC, XXXI, 19 1163 Giudicato Tusciano Vigna (loc. san Biagio, pressi San Mattia)
AC, XXXIII, 26 1169 Vendita Tusciano Laboratoria (ubi a La Maura)
AC, XXXIII, 52 1170 Giudicato Tusciano Alberi (pressi monastero S. Arcangelo)
AC, XXXIV, 95 1170 Vendita Tusciano Vacuo, vigna, fruttiferi (loc. San Mango)
AC, XXXIII, 59 1170 Vendita Tusciano Vacuo, vigna,alberi
AC, XXXIII, 93 1171 Testamento Tusciano Laboratoria e fruttiferi
AC, XXXIII, 83 1172 Divisione Tusciano 2 laboratoriae, 1 selva (Calcarola, chiesa santa Maria)
AC, XXXIV, 26 1172 Vendita Tusciano 3 Laboratoriae (nei pressi mulino di Cava)
AC, XXXIV, 80 1173 Vendita S. Arcangelo Vacuo, vigna e alberi
AC, XXXIV, 110 1174 Donazione Tusciano Alberi (Arcatura dei mulini)
AC, XXXV, 20 1175 Testamento Tusciano Laboratoria, orto, vigna (Campomaggiore, Lispo)
AC, XXXV, 84 1176 Vendita Tusciano Laboratoria (Spenda)
AC, XXXV, 56 1177 Vendita Tusciano Laboratoria (Arcatura)
AC, XXXV, 91 1178 Pastinato Tusciano Vigna, Fruttifreri
AC, XXXVI, 41 1178 Vendita Tusciano Vacua (Arcaturia dei mulini del monastero)
AC, XXXVI, 14 1179 Vendita Tusciano Laboratoria (Cerzietum)
AC, XXXVI, 18 1179 Conc. Feudale Tusciano Alberi
AC, XXXVII, 37 1180 Donazione Tusciano 3 Laboratoriae, 1 vigna, 1 alberi (loc. Pastino)
97
AC, XXXVII, 98 1181 Vendita Tusciano Laboratoria (Fasanara)
98
AC, XXXVIII, 9 1181 Donazione Tusciano Laboratoria (loc. Castelluccio, Arcaturia dei mulini)
AC, XXXVIII, 13 1181 Testamento Tusciano Laboratoria (Fasanara)
AC, XXXVIII, 21 1181 Donazione Tusciano Laboratoria (Arcatura)
AC, XXXVIII, 94 1182 Concessione Tusciano Laboratoria (sopra S. Maria zita)
AC, XXXIX,4 1183 Vendita Tusciano Terra con alberi
AC, XXXIX, 37 1183 Vendita Tusciano Laboratoria, alberi (loc. San Felice)
AC, XXXIX, 79 1184 Donazione Tusciano Laboratoria (San Clemente)
AC, XXXIX, 117 1185 Donazione Tusciano Laboratoria (Maura)
AC, XLI, 9 1186 Donazione Tusciano Laboratoria (Arcatura)
AC, XL, 94 1187 Vendita Tusciano Laboratoria (ubi Spatatesa)
AC, XL, 95 1187 Testamento Tusciano Laboratoria (Cerasa)
AC, XLI, 52 1187 Commutatio Tusciano Laboratoria (Querceta)
AC, XLI, 99 1188 Conc. Feudale Tusciano 6 Laborat. 1 Arb.
AC, XLI, 87 1188 Vendita Tusciano 2 laboratoriae, (Frabitula, Arcaturia)
AC, XLII, 11 1188 Donazione Tusciano 2 laboratoriae (a lu Scarpone, a la Cerzeta)
AC, XLI, 88 1189 Vendita Tusciano Laboratoria
AC, XLII, 28 1189 Commutatio Tusciano Laboratoria con alberi (loc. La Pira)
AC, XLII, 69 1190 Concessione Tusciano Vigna e fruttiferi
AC, XLII, 70 1190 Vendita Tusciano Vacua (Scafa)
AC, XLII, 74 1190 Vendita Tusciano Laboratoria con alberi (loc. Mannotullo)
AC, XLII, 76 1190 Traditio ad laborandum Tusciano Terra con pastino (loc. Molendina)
AC, XLII, 54 1191 Commutatio Tusciano Laboratoria, querce (loc. Puteo)
AC, XLII, 57 1191 Concessione Tusciano Laboratoria (Campitella )
AC, XLII, 105 1191 Vendita Tusciano Laboratoria (Arcatura)
AC, XLII, 120 1191 Vendita Tusciano Laboratoria (San Felice)
AC, XLIII, 2 1191 Traditio ad laborandum Tusciano Arbusto e Vacuo
AC,XLIII, 18 1192 Vendita Tusciano Laboratoria (pressi mulini Cava)
AC,XLIII, 25 1192 Vendita Tusciano Laboratoria (Guado Sant’Elia)
AC,XLIII, 34 1192 Vendita Tusciano Arbusto (Scafasso)
AC,XLIII, 11 1193 Commutatio Tusciano Laboratoria (pressi mulini Cava)
AC,XLIII, 12 1193 Commutatio Tusciano Laboratoria (pressi mulini Cava)
La Piana del Sele in età normanno-sveva

Continua
Tab. 3

Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1193-1250)

Doc anno tipo di doc Casale coltura e località


Economia e società

CARLONE 423 1193 Vendita Tusciano Vigna e alberi (vicino al mulino d Cava)
AC, XLIII, 69 1193 Vendita San Clemente Vigna
AC, XLIII, 91 1193 Vendita Tusciano Laboratoria (La Noce)
AC, XLIV, 85 1194 Vendita Tusciano Laboratoria
AC, XLIV, 7 1195 Vendita Tusciano Fruttiferi (Scafassa)
AC, XLIV,10 1195 Donazione Tusciano Arbusto vitato (San Felice)
AC, XLIV,8 1195 Vendita Tusciano Laboratoria (loc. Arbusto)
AC, XLIV,25 1195 Vendita San Clemente Vigna
AC, XLIV, 44 1196 Trad. ad laborandum S. Arcangelo Terra
AC, XLIV, 85 1198 Vendita Tusciano Laboratoria
AC, XLIV, 115 1202 Vendita Tusciano Arbusto (loc. Puteo)
AC, XLV, 30 1203 Vendita Tusciano Laboratoria e fruttiferi (loc. Puteo)
AC, XLV, 34 1203 Vendita Tusciano Laboratoria (S. Elia)
AC, XLV, 45 1203 Vendita Tusciano Alberi (Puteo)
AC, XLV, 116 1207 Vendita Tusciano Laboratoria e alberi (loc. Maura)
AC, XLVI, 40 1210 Vendita S. Clemente Laboratoria
AC, XLVI, 43 1211 Vendita Tusciano Laboratoria (Puteo)
PENNACCHINI, pp. 123-124 1211 Vendita S. Clemente Laboratoria
AC, XLVI, 72 1213 Testamento Tusciano Laboratoria (Escla)
AC, XLVI, 97 1216 Testamento S. Clemente Orto del Cetrangolo
AC, XLVI, 115 1217 Vendita Tusciano Laboratoria (confina ad W con il fiume)
AC, XLVII, 72 1219 Vendita Tusciano Laboratoria (pressi Vadu Sancti Helie)
AC, XLVII, 39 1220 Testamento S. Arcangelo Laboratoria
99
100

AC, XLVII, 55 1221 Commutatio Tusciano Laboratoria (pressi Vadu Sancti Helie)
AC, XLVII, 54 1222 Vendita Tusciano Laboratoria (loc. Iscla)
CARLONE 585 1222 Vendita Tusciano Laboratoria (loc. Querceta)
AC, XLVIII, 22 1224 Vendita Tusciano Laboratoria (loc. Supradisi)
AC, XLVIII, 10 1225 Testamento S. Clemente Laboratoria
AC, XLVIII, 68 1226 Vendita Tusciano Laboratoria ( Fasanara)
AC, XLVIII, 63 1226 Commutatio Tusciano Laboratoria (loc. Arcatura e Domo)
AC, XLVIII, 71 1226 Vendita Tusciano Laboratoria (Ubi S. Nicola de Palma )
AC, XLVIII, 78 1226 Vendita Tusciano 2 Laboratoriae (S. Elia e Suprandisi)
AC, XLVIII, 92 1227 Donazione Tusciano 3 Laboratoriae (confinano con l’alveo antico del fiume)
AC, XLVIII, 82 1228 Vendita Tusciano Laboratoria (Fasanara)
AC, XLVIII, 96 1227 Vendita Tusciano Vacua con selva (pressi alveo antico Tusciano)
AC, XLVIII, 108 1228 Vendita Tusciano Laboratoria
AC, IL, 6 1229 Testamento Tusciano Laboratoria e fruttiferi (loc. Puzzillo)
AC, IL, 24 1230 Vendita Tusciano Laboratoria e fruttiferi (loc. san Felice)
AC, IL, 40 1231 Donazione Tusciano 3 Laboratoriae e silva
AC, IL, 45 1231 Vendita Tusciano 3 laboratoriae, 2 querceti (loc Cerzeta)
CARLONE 652 1233 Testamento Tusciano Orto (loc. S. Stefano)
BALDUCCI, I, 94 1238 Commutatio Tusciano Laboratoria ( loc. San Felice)
AC, XLII, 47 1248 Vendita Tusciano Laboratoria e fruttiferi (loc, Molendina)
AC, XLII, 86 1249 Vendita Tusciano Laboratoria (loc. Isprando)
La Piana del Sele in età normanno-sveva
Economia e società 101

Anche sui colli intorno ad Eboli si nota una netta prevalenza di colture
arbustive. Sul colle Moreno, ad est del borgo, la coltura dominante il pae-
saggio per tutto il periodo considerato è l’olivo che raggiunge il 78% delle
attestazioni tra il 1201 e il 1250 523 , seguito dalla la vite (22% nello stesso
periodo)524 , mentre del tutto assenti risultano le colture cerealicole. Anche
nella località Sant’Andrea, colle a N-E dell’abitato di Eboli, si nota una
predominanza delle colture arbustive con una presenza marginale dei cerea-
li, ridotto nella prima metà del XIII secolo ad appena il 12% delle menzioni
documentarie. Una situazione in parte analoga si riscontra sulle basse colli-
ne immediatamente ad ovest di Eboli nella contrada di Grataglie. Qui le
prime attestazioni risalenti al XII secolo ricordano terre laboratorie accanto
a fruttiferi, ma dagli inizi del XIII secolo le terre coltivate a cereali scompa-
iono per lasciare posto a vigneti e oliveti. Un quadro analogo si può traccia-
re, si è visto, per i casali di Monte e Palude525 .
La contrada Calli, nelle terre più orientali di Eboli, al confine con il ca-
stello di Campagna restituisce negli anni che vanno dal 1130 al 1157 esclu-
sivamente la presenza di fruttiferi e vigneti526 . Nel periodo compreso tra il
1160 e il 1200 si assiste nelle terre di Calli ad una netta inversione della
tendenza con l’assoluta predominanza dei cereali: in questi anni le terre col-
tivate a cereali arrivano 52% delle attestazioni527 , mentre fruttiferi528 e uli-
vi529 ricorrono rispettivamente solo nel 12 % e la vigna è ricordata nel 9%
delle attestazioni530 (tab. 2). Si tratta di dati percentuali che ricordano molto
da vicino quanto emerso nell’antico locus Tuscianus, dato confermato dal-
l’osservazione delle occorrenze percentuali rilevate per il periodo 1201-
1250 con i cereali attestati al 64%, mentre le vigne si riducono al 5%, l’ulivo
al 7% e i fruttiferi si mantengono intorno al 15% (Tab. 2).

1.3 Alcune considerazioni

L’analisi dei contratti agrari mostra come l’età normanno-sveva si carat-


terizzi per una assenza quasi assoluta di traditiones ad pastenandum e per
un numero esiguo di affidamenti ad laborandum. E’ appena il caso di ricor-
dare la differenza tra le due tipologie contrattuali: mentre il pastinato ha
come obbiettivo l’introduzione di nuove colture in una terra solitamente
incolta, la traditio ad laborandum è tesa esclusivamente a migliorare la pro-
duzione delle colture già esistenti531. Su un totale di 138 documenti che ri-
102 La Piana del Sele in età normanno-sveva

cordano colture nelle terre del vecchio locus Tusciano tra 1085 e 1250, solo
9 si riferiscono a traditiones, di questi solo 3 specificano l’obbligo del con-
cessionario a impiantare nuove colture su terra vacua532 . E’ possibile che
l’assetto del paesaggio agrario sviluppatosi tra X e XI secolo e le conquiste
di terre di quel periodo rispondessero, ancora alla metà del XII secolo, alle
necessità di abitanti e possessori della Piana del Sele? In effetti l’età longo-
barda si afferma come periodo di grande avanzata dell’ agrarizzazione533 ,
mentre l’età normanno sveva appare attestarsi su posizioni forse più conser-
vative sotto questo aspetto, almeno nel territorio qui analizzato. Tuttavia la
crescita demografica che caratterizza il XII secolo e di cui si hanno indicato-
ri precisi nei nuovi casali della Piana e nella sviluppo di Eboli534 , dové avere
come conseguenza necessariamente un ampliarsi dei coltivi. Ma il dato
lampante dell’enorme crescita della superficie a cereali tra 1150 e 1250 apre
nuovi orizzonti per la spiegazione di questo assetto, questione che sarà ri-
presa nelle conclusioni di questo lavoro. Per il momento si può notare come
il paesaggio agrario delle terre tra il Tusciano e il Sele, dopo il variegato
mosaico colturale che ne connotò l’aspetto fino alla metà del XII secolo
pressoché da un lembo all’altro del territorio messo a coltura, tra gli anni
1150 e 1200 acquisisca una fisionomia diversa, ben definita, quasi irrigidita
in schemi pianificati e, almeno nelle intenzioni, razionalizzanti: se le terre
coltivate dell’antico locus Tuscianus e di Calli vengono ridisegnate con una
diffusione capillare dei cereali a discapito dei fruttetti e delle colture arbusti-
ve in generale, le colline di Eboli verdeggiano di olivi, vigneti e fruttiferi,
mentre tra i sobborghi del castello l’orto si diffonde tra i sempre più rari
spazi dei quartieri di San Bartolomeo e di San Giorgio. Questa netta diffe-
renziazione tra le diverse aree si fa ancora più evidente nella prima metà del
XIII secolo, segno di una situazione ormai stabilizzata.
Altro aspetto significativo è la crescente importanza della coltura del-
l’olivo nelle terre di Eboli a partire dalla seconda metà del XII secolo.Questo
interesse per l’olivicoltura si rafforza nel XIII secolo quando si rinviene una
serie di interessanti contratti attraverso i quali l’abbazia cavense e il mona-
stero di Montevergine dirigono l’impianto di uliveti nelle colline ebolitane.
Nel 1226 il priore di San Mattia de Tusciano concede per 12 anni una terra
con ulivi a Turello di Eboli ad un certo Pietro di Donnicella con l’accordo
che questi vi impianti 20 nuove piante di ulivo fornite dal priore, che Pietro
dovrà concimare almeno una volta ogni tre anni cum ovibus suis vel cum
alienis. Ogni anno il concessionario verserà al monastero 2/3 delle olive la
Economia e società 103

metà dei fichi e la sesta parte del seminato535 . Ancora Cava nello stesso anno
concede una tenuta coltivata ad ulivi e fruttiferi, con una terra vacua, nella
località Palazzo di Cava, sempre ad Eboli, a Leone fabricator che dovrà
scavare un fossato intorno alla terra vacua, piantarvi 30 nuovi ulivi, circon-
dare il giovane oliveto con una palizzata fornita di cancello con masclo et
clave. Leone per 18 anni verserà al cenobio cavense i due terzi delle olive
prodotte536 . Nel 1230 sempre Cava concede al corviserius Stefano e a suo
figlio Giovanni una terra vacua ad pastenandum per impiantarvi ancora uli-
vi e frutteti. al termine della concessione (12 anni) la terra sarà divisa tra
concedente e concessionario. Nel 1254 il curatore dei beni verginiani rica-
denti nel territorio di Eboli Giovanni di Castolio, accorda a Giovanni di
Mastlia due terre a Malito, una con un oliveto già impiantato, un’altra con
bosco e quattro ulivi: ìn quest’ultima il concessionario impianterà un oliveto
in cinque anni. Giovanni di Mastalia sarà obbligato a concimare gli ulivi con
letame di pecora o di asino o di cavallo (stercorare stercore quo voluerit
pecorino sive equino vel asinino) e portare le olive al frantoio del monastero
nella misura di due terzi del prodotto dopo il primo anno di affidamento.537
Gli oliveti impiantati non erano poi così piccoli come oggi potrebbe
apparire538 e la stessa preoccupazione dei concedenti, chiaramente emer-
gente dalle carte nella minuziosità degli accordi, che le modalità della colti-
vazione fossero estremamente accurate, insieme alla gravosità delle corre-
sponsioni richieste (2/3 delle olive) evidenzia quanto queste colture fossero
ritenute preziose, addirittura da sbarrare talvolta con una serratura (masclo).
La circostanza che in una traditio fosse un fabricator ad affittare l’oliveto fa
sospettare che, almeno in questo caso, non fosse lui a coltivare direttamente
il podere (non sappiamo quanto esteso) ma che demandasse ad altri tale
compito, forse in vista di una commercializzazione dei prodotti, nonostante
l’esosità del canone.
Si è già accennato come il controllo della terra venisse rimesso dai gran-
di possessori ecclesiastici a chiese dipendenti nel territorio, che fungevano
da poli amministrativi decentrati, oltre che da centri spirituali, quali San
Mattia de Tusciano e Sant’Arcangelo per Cava539 , ma il sistema risulta vali-
do anche per altri enti540 . Di grande interesse appaiono da questo punto di
vista le chartae collationis, ossia i documenti di affidamento di chiese a
presbiteri affinché ne garantiscano l’officiatura e la conduzione economica.
Da questo punto di vista la documentazione longobarda risulta più ricca
rispetto a quella di età normanno-sveva, per motivi legati sostanzialmente al
104 La Piana del Sele in età normanno-sveva

declino dell’istituto della Eigenkirche nel XII secolo541 . Per avere informa-
zioni più cospicue dovremo dunque tornare indietro di qualche decennio per
poi riagganciarci agli accadimenti di età normanno-sveva. La documenta-
zione più completa relativa all’affidamento di chiese nella piana del Sele
concerne la chiesa di San Nicola de Mercatello e la sua tenuta. La chiesa,
costruita illa pars et propinquo flubio Siler, sulla riva sinistra del fiume cioè,
nei pressi di un porto e della via che costeggiava il fiume542 , è ricordata per
la prima volta nel 1020 dipendente dai fratelli conti Disiu, Iaquintus e Lan-
do, eredi del conte Disigius, fondatori della stessa543 . In questo anno i tre
fratelli affidano la chiesa al presbitero Fusco affinché vi risieda, la offici o la
faccia officiare notte e giorno, sicut meruerit presbiter villanos, per le ne-
cessità degli abitanti delle terre circostanti. In cambio di ciò Fusco riceverà
la terra in cui sorge la chiesa, confinante a mezzogiorno con il litore maris e
sugli altri lati con terre dei fratelli e le altre causa pertinentem ad essa. Si
tratta, in particolare, dei libri e degli arredi sacri necessari agli uffici liturgi-
ci, assegnazioni che non appaiono diverse dalla normale dotazione di altre
ecclesiae villanae nel Salernitano544 , cui si aggiunge una notevole dotazione
di animali. Iaquintus offre una giumenta con i puledri (iummenta una polli-
trata), un cavallo provvisto di sella e briglie (caballum unum cum sella et
frenum), una vacca con i vitelli (bacca una betellata), tre scrofe con i maia-
lini (scurie tres porclate cum ana tres filios per scurie et ultres) e tre capre
filiate. Non meno generoso si rivela Lando che dona alla chiesa tre giumen-
te, tre vacche, quattro scrofe con i lattonzoli e tre capre edate. Allo stesso
modo Disiu concede una giumenta con i puledri, una vacca con i vitelli,
dieci maiali e tre capre edate. I fratelli faranno pastenare la terra della chiesa
impiantando mille viti, una cifra davvero sorprendente, su cui Fusco dovrà
vigilare. Il presbitero riceverà per quattro anni dai figli di Disigius 9 tarì
d’oro per acquistare il vino occorrente alle sue esigenze, evidentemente si
riteneva che quattro anni costituissero il tempo necessario in quelle terre
affinché il vigneto divenisse produttivo. Nei pressi della chiesa si trova il
lagum qui dicitur Paulinum, vicino al quale c’è una palude, tra il Sele e il
fiume Salsola545 .
L’area in cui sorgeva la chiesa si trova dunque nei pressi della foce del
fiume, non lontano dall’Heraion del Sele e dal porto che costituiva l’appro-
do fluviale di Poseidonia-Paestum; è anzi presumibile che il porto di Merca-
tellum ricordato dai documenti medievali fosse proprio ciò che rimaneva
della rada poseidoniate più volte congetturata, ma mai identificata, dagli
Economia e società 105

archeologi classici546 . Nella carta topografica prodotta dalla Zancani-Mon-


tuoro nella pubblicazione preliminare dello scavo dell’Heraion di Foce Sele,
la zona tra la torre costiera e Volta del Forno è indicata con il toponimo
significativo di Isca dei Conti; la circostanza che la studiosa annoti la pre-
senza di ruderi di una chiesa proprio nell’Isca dei Conti547 consente di indi-
care proprio in questa zona il dominio dei conti discendenti di Disigius e,
nelle strutture della chiesa cui rapidamente accenna la scopritrice del san-
tuario del Sele, quanto sopravviveva a metà degli anni ’30 della chiesa di
Santa Maria e San Nicola.
Nei decenni successivi alla fondazione della chiesa si coglie da parte dei
discendenti di Disigius la volontà di sfruttare in maniera sempre più efficace
il proprio dominio fondiario alla foce del Sele: così nel 1031 il conte Giaquinto
concede a Giovanni ballense un bosco da poco tagliato (terra que est cesi-
na), situato tra il fiume Sele, la spiaggia e il lago paulinum, che aveva dato
in precedenza at scampantum et seminandum ad altri due dissodatori. Gio-
vanni dovrà portare a termine la bonifica della cesina e potrà goderne per tre
anni i frutti per poi riconsegnarla a Giaquinto perché possa farla tota per-
fecta arare et magnaniare illa cum bobes548 . L’opera di miglioramento del
possesso ereditato da Disigius appare già completata nel 1041 quando si
assiste alla divisione tra i figli di Giaquinto e il conte palatino Landone:
negli otto poderi in cui si scompone l’originario dominio comune di Merca-
tellum sono ricordate sei vigne e due terre bacue in cui bisogna forse ricono-
scere la terra dissodata nel 1031 per coltivare il grano549 . Alla divisione non
partecipa la chiesa di Santa Maria e San Nicola né il lago Paulinum550 . Inol-
tre nel tenimentum viene ricordato un sedile , ubi case et redita abemus, non
menzionato nei documenti precedenti551 .
A questi marcati miglioramenti del dominio fondiario di Mercatellum
corrispondono negli stessi anni evidenti accrescimenti del patrimonio e del-
la qualità degli arredi per la chiesa di Santa Maria e San Nicola . Raffrontan-
do la charta collationis della chiesa a Fusco del 1020 con l’affidamento
della stessa al prete Stefano nel 1043, risulta come ci sia stato un modesto
accrescimento del numero di animali pertinenti alla fondazione privata: le
cinque giumente del 1020 sono diventate otto, le vacche sono rimaste cin-
que e le scrofe da sette sono passate a tredici, inoltre sono presenti due buoi,
probabilmente destinati all’aratura dei campi. Alla chiesa è stato anteposto
un porticum e si rammenta la presenza di una squilla (campana). Il cambia-
mento più sensibile riguarda però l’introduzione a Santa Maria e San Nicola
106 La Piana del Sele in età normanno-sveva

di ricche suppellettili sacre e di pregiate vesti sacerdotali: si passa dai panni


essenziali che caratterizzavano la dotazione del 1020 alle patene e ai calici
d’argento, alle due stole sacerdotali (orale) de purpuro e de seta, ai panni
serici africani, ai due manuli [manipoli, vesti sacerdotali] de siricu, alla
sindone cum sirico et auro, per citare i più sfavillanti, a cui i domini aggiun-
gono alie quattuor sindone grecesce, ossia bizantine.
Anche la biblioteca, nella quale si trovano orazionali, libri di omelie,
libri di letture sacre, dua spalteria [salteri], unum est monachile qui abet
aliqua pars de cantare et legere et de imnora, antifonari, uno de die tantum
et alium de nocte, appare notevolmente più fornita e specializzata rispetto a
quella assegnata a Fusco venti anni prima552 . Stefano avrà inoltre la possibi-
lità di istituire a Santa Maria e San Nicola una congregatio monachorum
ospitata forse nell’alipergum che affianca la chiesa553 .
Due anni più tardi Landone e i nipoti si vedranno costretti ad affidare la
chiesa ad un altro presbitero, Lazzaro, forse per la sopravvenuta morte di
Stefano. La carta mostra come ci sia stato in questi anni un aumento nel
numero degli animali della chiesa554 e ricorda anche la presenza di un ca-
ballum ad caballicandum, davvero singolare per le spese onerose che com-
portava oltre che per il valore in sé, tra le dotazioni di una chiesa. Si sottoli-
nea infine come la chiesa debba essere officiata da altri tre sacerdoti oltre
Lazzaro. Il passaggio, probabilmente nel XII secolo, alla Badia di Cava non
dovette mutare la situazione, anche se non è improbabile che prima del pas-
saggio al cenobio cavense la chiesa risultasse abbandonata555 .
Nel 1109 secolo si rinviene una charta collationis relativa alla chiesa di
San Giorgio di Eboli, di li a poco parrocchia: Giovanni abate del monastero
di San Vito di Salerno, dipendente dalla Cattedra di San Bonosio, concede la
chiesa di San Giorgio di Eboli al presbitero Pietro de Luciano ad regendum
et ad officiandum. Pietro dovrà in cambio versare ogni anno al monastero
salernitano la metà delle oblazioni fatte alla chiesa a Natale e a Pasqua (de
omnibus oblationibus que in nativitate domini et in pasca offeruntur eccle-
sie medietatem integram) e la metà delle offerte per la benedizione degli
animali e dei morti insieme alla quarta parte delle decime provenienti dalla
gestione del patrimonio fondiario della chiesa (et de decimis et primitjis de
terris et vineis dicte ecclesie…quartam partem dones)556 .
Non diversamente gli arcivescovi di Salerno Alfano II, Romualdo I e
Guglielmo I, avevano affidato in feudo la parrocchia di Sant’Elia di Eboli
tra il 1090 e il 1150 a una serie di presbiteri e diaconi affinchè l’officiassero
Economia e società 107

e ne gestissero il patrimonio557 ; lo stesso abate di San Pietro alli Marmi


sembra configurarsi come l’amministratore almeno di parte dei beni della
Chiesa salernitana ad Eboli558 .
E’ evidente come questo sistema di decentramento amministrativo di parte
dei patrimoni ecclesiastici consentisse un più efficace controllo su di essi,
eliminando, almeno in parte, la tradizionale figura del missus che da Salerno
o Cava doveva recarsi alle dipendenze ebolitane a controllare le varie fasi
dei processi di semina, raccolto, trasformazione559 . In questa maniera inol-
tre si concretizzava un maggior radicamento sul territorio attraverso la crea-
zione di una più efficace rete di legami verticali con la popolazione locale in
quanto i presbiteri-amministratori venivano scelti in genere tra gli abitanti
del posto.

2) Ambiente naturale e economia silvopastorale

Il primo altomedioevo vide la predominanza assoluta dell’incolto nella


Piana, conseguenza degli abbandoni dei secoli III e IV, con conseguente
formazione dell’immensa foresta planiziaria che dal Tusciano giungeva fino
al Sele e dei tre laghi palustri costieri tra Tusciano e Sele560 . Come si è visto
parte della pianura, in particolare a ridosso del Tusciano e ai piedi dei colli
che si elevano tra il castelluccio di Battipaglia e Eboli, fu ricolonizzata, ma
vastissime aree rimasero regno incontrastato di boschi e paludi. Dai contrat-
ti agrari e dalle compravendite di età medievale, infatti, si riesce a scorgere
in controluce un paesaggio in cui la natura continua a far sentire potente-
mente il suo respiro al di là delle siepi, ai margini dei poderi, tra le pieghe di
una documentazione attenta, sì, alla minuziosa descrizione di confini, al-
l’estensione dei campi o all’enumerazione di colture ma ugualmente sensi-
bile alla presenza dell’elemento naturale che insieme intimorisce e dona
ricchezza.
Boschi estesi, sodaglie intervallate da radure segnano in maniera marca-
ta il paesaggio tra il Tusciano e il Sele; il gualdu domnicu, un vasto bosco
costiero, ricordato a partire dal 799 fino al pieno Medioevo561 , si estendeva
fin quasi dalle acque del Tusciano alle sponde del Sele, che ancora nel XII
secolo Idrisi vedeva ricoperte di boschi, come un verde manto qua e là sfo-
racchiato a partire dall’VIII secolo da isole agrarizzate562 . Di questo grande
bosco dovevano far parte anche le vaste tenute di Campolongo563 e di Pet-
108 La Piana del Sele in età normanno-sveva

ta564 , una volta proprietà del fisco principesco poi concesse alla Chiesa sa-
lernitana565 .
La quercia costituisce sicuramente l’essenza dominante il paesaggio na-
turale medievale nella piana del Sele. Spesso ricordata nelle carte, come in
quella plaga nelle vicinanze del Sele ubi quertieto dicitur566 , se ne richiede
una cura particolare nei contratti agrari a partire dall’XI secolo567 o esplici-
tamente la salvaguardia come in una traditio nel 1035568 , chiari segnali di
un’avanzante agrarizzazione del territorio e insieme indice di un mutato at-
teggiamento nei confronti del bosco che a quel tempo iniziava a ridursi sotto
le vangate dei dissodatori e dunque bisognoso di protezione, pena il deterio-
ramento di una economia che sulla base silvopastorale poggiava in parte
non irrilevante la sua struttura569 . Accanto alla quercia le carte del tempo
ricordano altre essenze arboree quali i pioppi, nei pressi del Tusciano570 ,
mirteta571 , elemento principe della macchia mediterranea, il sambuco572 dalle
caratteristiche bacche nere, il pero selvatico573 , i castagni selvatici574 , i sor-
bi575 e le tamerici576 .
Boschi e coltivi sono solcati dai corsi di fiumi e torrenti, non più irregi-
mentati come avveniva in epoca romana, dei quali spesso non è possibile
controllare l’impeto, così dalle cronache e dai contratti agrari veniamo a
conoscenza di molina destructa, di raccolti andati a male e di ponti danneg-
giati dalla veemenza delle acque577 . Fiumi e torrenti, giunti nei presso delle
foci o nei punti di confluenza nei collettori principali, generavano ampi pan-
tani a causa della pendenza tendente a divenire via via più trascurabile ; si
formano in tal modo i vari laghi costieri tra il Tusciano e il Sele, il lacu
Piczolu tra il Tusciano e il suo affluente di destra torrente Lama o, ancora, il
lacu Maiore un vasto lago palustre ricordato a partire dall’XI secolo, che ha
infestato fino alla bonifica degli anni Trenta del secolo scorso con i suoi
miasmi malarici il territorio alla destra del Sele578 . L’altra sponda del fiume
era caratterizzata dalla presenza di vaste distese di acque, come il lacum
Paulinum e la vicina palude, alimentati dal fiume Salsola, dal pullu de aqua
de Certia Gallara579 e da ricche sorgenti d’acqua quali il pullu Maiore e il
pullu Minore che sgorgavano nella pianura tra il Sele e il Calore580 . Terreni
paludosi caratterizzavano anche le colline tra Olevano ed Eboli581 .
A nord la catena dei monti Picentini, le serris de montibus dei documenti
altomedievali, da dove principiano alcuni dei corsi d’acqua più copiosi del
Mezzogiorno quali il Sele, l’Ofanto, il Calore, il Sabato e il Tusciano, costi-
tuiva un generoso serbatoio di essenze arboree. L’ampiezza di tali foreste
Economia e società 109

colpiva l’attenzione dei viaggiatori che transitavano per queste lande; così il
monaco burdigalense Bernardo, di certo aduso alle vastità dei boschi cen-
troeuropei, in pellegrinaggio, intorno all’870, al famoso santuario rupestre
dedicato a San Michele del mons Aureus imminente sull’alto corso del Tu-
sciano, giunto al limitare della profonda cavità osservò che questa aveva
super se magnam silvam e l’annotò nel suo Itinerarium582 . Ancora oggi fitti
boschi di castagno, quercia e leccio ricoprono questi monti fino ai mille
metri circa, dove cedono il passo a impenetrabili faggete, come quella ricor-
data tra Olevano e Eboli nel XII secolo583 .
E’ difficile farsi un’idea precisa della fauna che prosperava in questa
rigogliosa natura ; fonti scritte, archeologiche e toponomastiche, insieme
alle poche tracce attualmente osservabili, inducono a credere vi fosse una
compresenza di specie diverse, oggi quasi inimmaginabile. In primo luogo
il cervo, insieme al cinghiale selvaggina per eccellenza del Medioevo euro-
peo584 : gruppi di nobili solcavano le grandi foreste, lanciati in estenuanti
cavalcate sulle tracce dell’imponente animale rincorso dai terribili molossi
tra pianure e montagne. Il loro passaggio avveniva probabilmente secondo
itinerari consolidati, di cui si ha traccia anche nella toponomastica medieva-
le, come testimonia quel Vadu de benaturi sul Tusciano ricordato in una
transazione del 1092585 . Toponimi quali Cervialto e Cervara tra i Picentini
attestano la diffusione di questo animale. Un documento di donazione dell’833
ricorda l’esistenza tra le foreste di Lioni (AV), pochi chilometri a nord dalle
fonti del Sele, di un waldu detto Cerbarezze i cui lati misuravano due miglia
per uno586 , probabilmente una riserva di caccia. Un altra importante riserva
di caccia del princeps era la cerbaricia domnica, evidentemente ricca di
cervi, che si estendeva tra le alture a Sud- Est di Salerno, come testimonia un
documento dell’837587 .
Le fonti cronachistiche, in particolare l’Anonimo salernitano del X secolo,
informano di alcuni episodi avvenuti durante battute di caccia in queste zone.
I futuri principi di Salerno Sicardo e Sicone, intorno all’830, andando ex more
a caccia si imbatterono in un cervo di proporzioni enormi (ingentem) e lo
seguirono con i loro servi fino ad una impenetrabile selva (condensa silva)
alle porte di Conza, poco a nord delle sorgenti del Sele, dove riuscirono a
catturarlo, episodio che, a detta dell’Anonimo cronista salernitano del X seco-
lo, fu all’origine di un violento conflitto tra i longobardi di Conza e quelli di
Acerenza588 . L’elemento selvatico spesso fa da sfondo a storie di violenze e di
morte o a spaventose apparizioni, e la caccia ne è sovente il filo conduttore.
110 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Narra il cronista salernitano del X secolo che nell’anno 849 Siconolfo,


principe di Salerno, «cum non paucis suis fidelibus ludus causa seu arte
venacionis in predium deveniret, ubi Cervaricia dicitur. Sed dum hac illac-
que, ut mox est alternatim discurrerent, in gentem singlarem repperiunt».
Alla vista del grande cinghiale ognuno tentava di ucciderlo, Siconolfo però
anticipò tutti e colpendolo forti yctu lo uccise . Mentre gli altri si allontana-
vano, improvvisamente il principe fu assalito da febbre e si sentì sopraffatto
da un forte calore. «Mox tuba niso quo valuit nimirum insonuit»; i suoi
compagni udita l’«insolita vox tube», immediatamente corsero da lui e lo
riportarono a Salerno dove poco dopo morì589 . Qualche anno prima il nobile
beneventano Agelmondo, uno dei protagonisti della congiura che aveva por-
tato al potere Sicardo e della quale era rimasto vittima il principe Grimoaldo
III, si trovava a caccia con il falcone lungo il fiume Sele. Mentre avanzava
alla ricerca di una preda, da solo, «ut mos est», all’improvviso gli apparve
l’ombra furente del principe Grimoaldo sul suo cavallo bianco, che, sguai-
nata la spada, gli si gettò contro. Agelmondo, terrorizzato dalla spettrale
apparizione tentò di fuggire ma, appena si voltò vide Grimoaldo alle sue
spalle che, colpitolo con un fendente, lo disarcionò. Gli amici di Agelmon-
do, richiamati dalle urla, raggiunsero lo sventurato il quale raccontò dell’ap-
parizione e poco dopo morì590 . Dagli episodi narrati dall’Anonimo salerni-
tano si possono intravedere anche le due diverse strategie utilizzate nell’arte
venatoria del tempo : mentre nella caccia al cervo o al cinghiale una schiera
di cacciatori era sulle tracce della preda, per l’uccellagione i sodales si divi-
devano una volta giunti sul ‘campo’.
Per lungo tempo ancora queste terre attrassero l’attenzione di nobili cac-
ciatori: Federico II volle una domus imperiale proprio ad Eboli591 , evidente-
mente come punto di appoggio per i suoi passatempi venatori in quelle
zone592 . Le plaghe destinate, almeno nelle intenzioni, alle cacce dell’impe-
ratore erano le difese di Eboli, aree riservate al sovrano. La difesa di Eboli è
ricordata nel 1277 nell’elenco delle defense regie fatto redigere da Carlo I
d’Angiò593 . Nel 1240 Federico II da Arezzo ordinò che si rinchiudessero in
prigione alcuni ebolitani che contra mandatum nostrum erano stati trovati a
cacciare nelle difese della corte di Eboli594 ; si trattava probabilmente di cac-
ciatori di frodo o di uomini che andavano a far legna, penetrati nella foresta
riservata e sorpresi dai guardiani595 : il castigo ordinato dall’imperatore te-
stimonia il valore che attribuiva all’inviolabilità della riserva.Ancora nel XVIII
secolo la ricchezza di selvaggina nei boschi del Sele spinse Carlo III di Bor-
Economia e società 111

bone a commissionare la costruzione di una sontuosa casina di Caccia a


Persano dove egli fu solito risiedere con la sua numerosa corte tra novembre
e dicembre596 . Tra i personaggi locali legati alla caccia, non sappiamo in
che modo, era quel Bernardo venator il cui figlio Bernardo nel 1142 offre
all’abbazia di Cava una terra nei pressi di Eboli597
Un frammento del paesaggio in cui si svolsero le attività venatorie lungo
tutto l’arco del Medioevo risulta ancora apprezzabile lungo le sponde del Sele
nell’oasi di Serre-Persano. Una estesa foresta planiziaria (ca 1500 Ha) lambi-
sce le acque del fiume: le essenze che la compongono sono leccio, farnia,
cerro, roverella , pioppi bianchi e salici e in essa ci si poteva imbattere ancora
nel secolo scorso in cervi, e fino a pochi decenni fa in caprioli, lupi, daini e
cinghiali. Lepri, volpi e ricci ancora si aggirano lungo le rive del fiume, abitate
dalla rara lontra. Nibbio reale , poiana, gheppio e nibbio bruno sorvolano
queste zone alla ricerca delle loro prede preferite, i roditori. Numerose specie
di Passeriformi e Strigiformi, quali l’allocco, la civetta e il barbagianni, popo-
lano l’oasi insieme al fagiano. Isole di bosco igrofilo (pioppi, olmi e salici)
sono popolate da usignoli, picchi rossi picchi neri e luì verde oltre ai più co-
muni merlo e cinciallegra. Le isole di fango e ghiaia che si formano lungo le
sponde del Sele ospitano, infine, nel periodo delle migrazioni gru, aironi bian-
chi maggiori, aironi rossi, aironi cinerini, spatole e i mignattai598 , prede allet-
tanti per i formidabili falconi da caccia di Federico II599 .
Cervi, daini e caprioli costituivano, oltre che lo svago preferito di una
nobiltà che nella caccia esercitava ed accresceva il proprio istinto guerriero,
il cibo dell’altro dominatore delle foreste medievali, il lupo, feroce ma indi-
spensabile regolatore della loro espansione. Pochi anni or sono un branco di
lupi ha attaccato e sbranato due bovini nell’alta valle del Tusciano : la noti-
zia ha destato grande scalpore e curiosità tra gli abitanti di Olevano ed Acer-
no; ben altra doveva essere nei secoli passati la consuetudine a tali notizie o
all’incontro dell’uomo con il lupo. La denominazione Valle del Lupo che si
rinviene tra le colline che separano i comuni di Olevano ed Eboli ricorda
forse un passaggio attraverso il quale la temuta fiera, spinta dalla fame, nei
rigidi inverni scendeva verso i villaggi e le case ai margini della boscaglia
alla ricerca di prede. Tali incursioni dovevano essere ancora molto frequenti
nel XV secolo, tanto da spingere il redattore dei Capitoli e Statuti della
Vagliva dello Levano spettante all’Arcivescovil Menza di Salerno ad offrire
ricompense in denaro a chi nelle terre di Olevano avesse abbattuto lupi600 .
La conferma di una situazione di grande espansione faunistica viene dal
112 La Piana del Sele in età normanno-sveva

ricordato Statuto di Olevano dove si ordina che “tutte le persone di detta


Università debbiano serrare e guardare la difesa intorno al castello d’ogni
Generazione di Animali forastieri”601 , quasi un assedio! Sebbene la prima
compilazione dello Statuto sia di età aragonese, non è forse improbabile
ipotizzare per l’età normanno-sveva una situazione faunistica molto diver-
sa. Neppure doveva mancare tra i Picentini l’orso ; toponimi quali Orsata
sulla Serra del Giuoco a ovest di Prepezzano (SA) o Valle dell’Orso tra gli
attuali comuni di Olevano ed Acerno o, ancora, Valle dell’Orso nei pressi di
Caposele (AV) indicano la presenza un tempo del grosso predatore tra questi
monti.
Gli animali, dobbiamo ritenere non solo domestici, trovavano ristoro
nelle radure, quei prata ricordati ad esempio nei pressi del fiume Irno appe-
na fuori da una silva602 oppure quella località Prato non lontano dal Sele603 ,
ma non di rado, si è visto, sconfinavano entro i fragili limiti dello spazio
antropizzato giungendo fino alle mura delle città, tanto che in una traditio di
una terra appena fuori porta rotese del 965 a Salerno604 , i concedenti impon-
gono al colono di terra... ex omni parte cludere, ut ibidem animalem intrare
non posset. Dobbiamo peraltro immaginare che gli incontri tra gli uomini e
gli abitanti del selvatico avvenissero con una certa frequenza; oltre che nelle
occasioni ‘canoniche’ quali le battute di caccia, ci si doveva imbattere in essi
allorquando si andava nei boschi a far legna o per la raccolta dei frutti spon-
tanei o, ancora, quando si conducevano gli animali al pascolo, senza dimen-
ticare come anche le zone conquistate ai coltivi fossero spesso soggette ad
intrusioni poco piacevoli. La prova più evidente di quanto detto si ricava
anche solo a voler dare una rapida scorsa ai contratti agrari : obbligo costan-
te e primario per il colono nelle traditiones è la clusuria del podere con siepi
o con pali, per allontanare il più possibile l’incombente minaccia di una
natura esuberante. Ben presto però a tanta invadenza l’uomo medievale ri-
spose iniziando ad elevare argini : accanto alle clusuriae si scavarono car-
bonaria e fossata, come quel fossatum antiquum manufactum menzionato
in un documento del 1073605 realizzato nelle adiacenze di una iscla, una
terra alluvionale, sulle sponde del Tusciano nel suo medio-basso corso. Questo
accenno costituisce la testimonianza di una precoce resistenza alla intempe-
ranza del fiume (antiquum manufactum) e insieme l’indice di una ripresa.
Lo sfruttamento dell’ambiente naturale costituiva peraltro una voce im-
portante nell’economia medievale e di questo ne erano ben consapevoli gli
uomini del tempo.
Economia e società 113

Gli enti ecclesiastici risultano estremamente interessati alle aree incolte,


in particolare la Chiesa salernitana che detiene il possesso del Lago Maiore
e delle terre circostanti606 e delle grandi tenute di Campolongo (circa 1800
ettari607 ) e Petta insieme alle macchie di Rotunda, di Celebrano e del torren-
te Lama e altre terre incolte del Tusciano, oltre alle selve di San Vito sulla
sponda destra del Sele608 e la grande tenuta di Persano, sulla riva sinistra del
fiume609 , anch’essa ricca di alberi e acquitrini.
Una delle principali fonti di ricchezza legata allo sfruttamento dell’in-
colto è l’allevamento610 . E’ questa un’attività decisamente rilevante nell’eco-
nomia delle terre di Eboli, anche per l’indotto, si direbbe oggi, che alimenta.
Nel 1090 Roberto di Principato concede alla Chiesa salernitana la decima su
omnibus nutrimentis animalium que nos et successores nostri habemus et
habuerint in eadem terra (Eboli) et in eius pertinentis quandocumque611 :
evidentemente il conte di Principato possedeva greggi e armenti nelle terre
di Eboli, particolarmente nella piana non agrarizzata, area che, come si ve-
drà, sembrerebbe d’elezione per la stabulazione degli animali. L’arcivesco-
vo di Salerno emerge dalla documentazione come uno dei maggiori posses-
sori di greggi; nel 1096 si ricordano dei pascua pro animalibus dell’arcive-
scovo in un documento di Roberto di Principato relativo a Rivopetroso vici-
no a casale Cosentino612 . Nel novembre del 1187 davanti al giudice Pietro,
presso la corte di Olevano, Cennamo arciprete e i preti Olevano, Pietro,
Roberto e Ursone, abitanti di Olevano, testimoniano che oltre trent’anni
addietro l’arcivescovo salernitano Romualdo II aveva ordinato di removere
omnia animalia sua de tenimemnto pectano et ducere ea ad tenimentum
campilongj et omnia animalia cenobii sancti Benedicti et cenobii sancte
Trinitatis Cave .. de ipso tenimento Campilongi foras fecit eicere613 . L’arci-
vescovo fece dunque spostare i suoi animali dal tenimento di Petta e li fece
trasferire a Campolongo, nei pressi del Lago Maggiore, facendo allontanare
le mandrie degli abati di Cava e San Benedetto di Salerno che pascolavano
illegittimamente nella tenuta arcivescovile. Possiamo farci un’idea della va-
rietà degli animali allevati dalla Chiesa salernitana in quest’area da un man-
dato di Carlo I d’Angiò al giustiziere di Principato del 1274, in cui si ordina-
va di far restituire all’arciepiscopio salernitano boves, baccas, bubalos, por-
cos, scrofas, pullos et pecudes che alcuni abitanti delle contrade circostanti
avevano trafugato ad masarias seu loca eiusdem ecclesie temerarie acce-
dentes, approfittando della morte dell’arcivescovo e della temporanea va-
canza delle sede episcopale614 . Anche la Badia di Cava possedeva greggi
114 La Piana del Sele in età normanno-sveva

nella Piana, ad esempio nel tenimento di San Nicola de Laneo dove sono
documentati pecore e maiali615 .
Anche le chiese private della piana denotano un rilevante interesse per
l’allevamento. Ad esempio già in età tardo longobarda emerge una preoccu-
pazione particolare dei domini dei domini communi della chiesa di Santa
Maria e San Nicola di Mercatellum per gli animalia di cui, non a caso, si
elencano con una singolare meticolosità le specie e il numero in ogni charta
collationis a fronte di una modesta dotazione di terra e di uno scarso interes-
se per la sua conduzione. La scrupolosità nel definire gli impegni cui è ob-
bligato il presbitero tenutario della chiesa riguardo ai greggi che gli sono
stati consegnati e agli altri animalia biba che entreranno ad ornamentum di
Santa Maria e San Nicola sono indici della preminenza che si attribuiva nel
tenimentum di Mercatello alla pastorizia616 . Il presbitero dovrà avere curam
et vigilationem per gli animali, affinché, con l’aiuto di Dio (Deo adiubante),
essi possano accrescere di numero; di quanti puledri (pollitri de iumente) e
vitelli (gengi de vacce) nasceranno in un anno, potrà goderne della terza
parte, così come dei lattonzoli delle scrofe (filii et filie de ipse scurie). Potrà
inoltre ogni anno mettere all’ingrasso un maiale della mandria per la sua
dispensa (faciamus per annum pingue pro nostra utilitate) ed eventualmen-
te macellarne altri pro manducare quando vorrà ponere opere pro servitium
vel pro lavore predicte ecclesie. Le setole (spurclatura, spelatura) delle scrofe
e quanto latte e formaggio produrranno le vacche (casu et lacte de bacce)
saranno utilizzate dal concessionario di Santa Maria e San Nicola come
meglio crede (totum mee sit potestatis, faciendum inde quod mihi placue-
rit)617 . Il sacerdote di una ecclesia billana quale San Nicola di Mercatellum
deve attendere però in primo luogo alla celebrazione dei sacramenti, per cui,
accresciuto il numero degli animali, non può più prendersi cura delle greggi
come necessita; Eigenkirchenherren e presbitero ricorrono allora a figure
professionali, pastori qui curam abent de ipsa animalia, provvedendo an-
che ai loro vestimenta618 .
Se la documentazione relativa a Mercatellum nell’XI secolo ci offre le
maggiori informazioni sull’economia pastorale lungo il Sele, non mancano
tuttavia altre notizie sul ruolo dell’allevamento nella zona. Negli atti emana-
ti dalle cancellerie delle autorità pubbliche relativi alla esenzione per alcuni
enti ecclesiastici dal pagamento dei dazi sugli attraversamenti del Sele, vie-
ne sempre sottolineata la possibilità di trasportare il bestiame; così già nel
1012 Guaimario III concede al vescovo del Mons aureus Cennamo e ai suoi
Economia e società 115

successori la facoltà cum ipso lintre (in questo caso penso sia una chiatta)
…homines et animales, omnesque illorum utilitate pro ipso flubio portare in
illa parte619 . Cento anni più tardi il signore normanno di quelle terre, Rober-
to di Eboli, concederà, un eguale privilegio alla Badia di Cava con la stessa
preoccupazione per il passaggio degli armenti620 . D’altronde le terre basse
del Sele dovevano risultare particolarmente ricche di pascoli; se ne ritrova-
no, tra il Sele e il Calore, a Persano e Ielasana 621 e, poco più ad est, a
Dulicaria622 . E’ evidente che le radure naturali non potessero bastare ad
accogliere i capi di bestiame transitanti o stabulanti nella piana. Senza dub-
bio le tenute di Campolongo, Petta, San Nicola de Laneo avevano al loro
interno dei prati adatti alla stabulazione, come si evince dalle testimonianze
rese dai presbiteri olevanesi nel 1187. La tecnica più comoda per creare
radure e pascoli nel bosco è da sempre quella del fuoco: incendiare la selva
e poi divellere gli alberi bruciati è tuttora un’abitudine funesta abbastanza
radicata tra i pastori.
Ma non solo nobili, enti ecclesiastici, oltre ad allevatori di mestiere come
si vedrà, dovevano essere forniti di mandrie consistenti di animali. Nel 1042
Giovanni e sua moglie Raita, abitatores del castellum caputaquensis, Ca-
paccio, non lontano dalla sponda sinistra del Sele, quia cotidie vedono rui-
nam et infirmitatem et periculum mortis donano per la salvezza delle loro
anime una terram cum pertinentia sua in castello caputaquensis alla chiesa
privata salernitana di Santa Sofia623 . Tra le pertinentia di questa terra sono
ricordate tres capita de bacce et unu gencu [un giovenco] et capita de capre
et pecora triginta... et capita de porci nobem che vanno ad impinguare le
mandrie di Santa Sofia.
La preminenza nell’alimentazione della carne di maiale in particolare,
attraverserà tutto il Medioevo salernitano; per verificare ciò è sufficiente ad
esempio considerare il gran numero di capitoli riservati nello Statuto della
Bagliva di Olevano al maiale 624 . La richiesta di corresponsioni di ghiande o
di salvaguardia delle querce che si rinvengono sovente nei contratti agrari
costituisce, come si è detto, una prova evidente dell’importanza rivestita da
questo settore già nell’economia d’età longobarda. Nel 1021 il potente aba-
te Maione del monastero salernitano di San Massimo, nel concedere una
terra baciba da seminare ad un certo Solmanno, si preoccupa di evidenziare
che se nella pecia che coltiverà vi fossero querce curam et vigilationem
inde aberet ; quando poi saranno mature le ghiande, se vorrà Solmanno po-
trà raccoglierle e darne metà a San Massimo, in caso contrario dovrà farlo
116 La Piana del Sele in età normanno-sveva

sapere prima affinché Maione le possa dare ad colligendum alteris625 . Più


esplicito era stato lo stesso Maione qualche anno prima allorché nel conce-
dere una terra ad laborandum ad un tale Giaquinto diacono nei pressi di
Nocera, aveva stabilito che si in ipso quertietum porcos in escam non mise-
rint, faciant inde ipse glandi colligere et tote ille ad pars predicte hecclesie
deant, tantum tertiam pars inde sibi abeant626 . Corresponsioni di prodotti
delle querce si rinvengono fino al XIII secolo627 .
La toponomastica medievale della piana conferma la cospicua presenza
di animali: nelle pertinenze del casale Tusciano: toponimi quali Pecora-
ra628 , Puteus de porcilis629 e infine, vicino alla chiesa di San Biagio, il
Boluttablo de li capilluti630 , costituiscono ulteriore testimonianza del peso
che aveva in quelle contrade l’allevamento e la pastorizia631 .
Dalla documentazione si possono distinguere due tipologie di pastori:
chi possiede un gregge e chi, categoria forse più numerosa, esercita il me-
stiere di pastore per conto di altri. Della prima categoria faceva parte Gio-
vanni Coco che nel 1201 vende 23 maiali del valore di 4 once d’oro e un
quarto a Giordano macellaio632 . Si trattava di un vero e proprio imprendito-
re, detentore di terre, come si evince dallo stesso documento. Grossomodo
allo stesso livello era il pastor Amato che nel 1193 vende insieme a Matteo,
figlio del pullario Cursore , una terra nei pressi del Tusciano per 112 tarì633 .
Altri prestavano le proprie competenze a chi ne faceva richiesta. Così la
chiesa di San Nicola di Mercatello, nei pressi della foce del Sele, poteva
contare nel 1045 su iumente duodecim et pullistri de oc anno quadtor et
bacce maiori septem, paria de bobi unum oltre a un numero imprecisato di
porci et capre che, come recita il documento, venivano affidati a pastori qui
curam abent de ipsa animalia, ai quali venivano forniti i necessari vestimen-
ta634 , quindi non censiles ma pastori professionisti.
La documentazione scritta ricorda personaggi che possiamo definire spe-
cializzati nell’allevamento di alcuni animali. La forte presenza di querce
anche nella pianura doveva favorire, si è detto, l’allevamento di maiali, quindi
numerosi dovevano essere gli addetti alla loro custodia, i porcari. La docu-
mentazione ci restituisce il ricordo di alcuni di loro: nel 1152 si rinviene tra
i fideiussori di una compravendita a Calli un Giovanni porcaro635 ;. Nel 1172
Andrea figlio di Pietro porcaro acquista una terra nella parrocchia della san-
ta Trinità di Eboli per 80 tarì636 e nel 1187 altre due terre sempre nei dintorni
di Eboli637 .
Le aree acquitrinose che, come si è visto, segnavano in particolare la
Economia e società 117

parte bassa della Piana costituivano un terreno particolarmente adatto all’al-


levamento dei bufali. Nel 1122 si incontra un Nicola bubalaro, bufalaro, che
dona alla badia di Cava una terra nei pressi del Tusciano638 . Un altro bufa-
laro è Formato ricordato come fideiussore in due transazioni nelle terre di
Eboli tra il 1170 e il 1180639 .La presenza di questi personaggi nella piana del
Sele e i bufali della Chiesa salernitana ricordati nel documento del 1278,
fanno comprendere come l’allevamento bufalino costituisse, già dal Medio-
evo, una risorsa importante in queste contrade, oggi tra le più note in Europa
per la produzione di derivati dal latte di bufala.
Giovanni iumentario è il genitore di Benenato, Domenico e Stefano, an-
ch’egli iummentario, possessori di numerosi casalini e terre nel casale Tu-
sciano nel XII secolo640 .
Si tratta, come si evince dalla documentazione, di personaggi relativa-
mente benestanti, detentori di terre e fideiussori, circostanza dalla quale si
ricava l’impressione che l’allevamento fosse nelle terre di Eboli un’attività
redditizia un po’ a tutti i livelli, dai grandi possessori di greggi ai piccoli
allevatori. Non mancavano naturalmente pastori di condizione servile, come
quel Maraldello porcaro, servo della Chiesa salernitana641
Un documento del 993 mi pare illuminante a proposito di come si pote-
va formare in quegli anni un pastore. Un certo Bisanteo rende noto di aver
ricevuto da Gagelpoto de Ulmolongum, località dell’Avellinese, amodo et
usque nobem annos ... ipso filio suo nomine Sano e che durante i nove anni
pattuiti il padre non potrà riprenderselo e dovrà iuxta legem da omnis homi-
nes defensare. Dichiara Bisanteo che per i primi tre anni non richiederà a
Sano alcun serbitium, pra quo est infans, et pro amore Dei illum nutrio sicut
filius meus. Trascorsi i tre anni, per i successivi sei Gagelpoto dovrà infan-
tulum filium suum ponere sibe at porci aut at caprei, quale ego potuero
abere, et ipsum infantulum debeat caplare [tosare] ipsa animalia et curam
bonam inde abere et de ipsa hanimalia quod inde curam abuerit, dabo inde
ei quartam partem. Bisanteo dovrà inoltre nutrirlo et dare ei bestimenta et
calciamenta sicut pastores meruerit ; infine se Sano dovesse fuggire, Bisan-
teo avrà dal padre licentiam ubi ego vel missos meos invenerimus, potesta-
tem abeamus illum prindere et disciplinare642 . Bisanteo è chiaramente un
allevatore, possessore di capre e maiali, che in questo caso ‘investe’ su di un
infantulum, un ragazzino che non ha compiuto presumibilmente i 12 anni
stabiliti dall’Editto di Rotari per raggiungere la legitima aetas643 o i 18 de-
cretati da Liutprando644 , affinché possa in futuro provvedere ad uno dei suoi
118 La Piana del Sele in età normanno-sveva

greggi in cambio di un quarto degli animali di cui avrà cura per sei anni. Da
ciò si deduce come certo Gagelpoto, figlio del chierico Amato come si espli-
cita all’inizio del memoratorium, non dovesse essere un uomo di condizione
servile e così di conseguenza Sano. Non sappiamo quali furono i motivi che
spinsero Gagelpoto ad ‘affittare’ il figlio a Bisanteo, forse l’indigenza, forse
una consuetudine prevista anche dalla legge (iuxta legem). Poteva trattarsi
anche di un modo per arricchire il proprio gregge con la parte di hanimalia
guadagnata dal figlio. Il documento, per quanto ne sappia unico nel suo
genere, trasmette al lettore un senso di angoscia per la condizione del picco-
lo Sano, acuita dal finale minaccioso relativo all’eventuale fuga dell’infan-
tulum, in particolare alla potestas che si riserva Bisanteo di illum prindere et
disciplinare, di certo non con un semplice rimprovero. Bisogna peraltro im-
maginare che tale sensibilità non sempre fosse di quegli uomini, soprattutto
se pastori, induriti da condizioni di vita che oggi definiremmo disumane645 .
Altre tracce del radicamento dell’attività pastorale nelle terre di Eboli si
ricavano dalla già ricordata charta collationis del 1109 con la quale Giovanni
capuano, rettore del monastero salernitano di San Vito, concede al presbitero
Pietro l’officiatura della chiesa ebolitana di San Giorgio: Pietro dovrà versare
ogni anno al cenobio salernitano, tra le altre cose, la quarta parte delle offerte
ricevute in occasione della benedizione degli animali (de oblatione vestia-
rum) 646 . Si tratta, come è noto, di un’antica consuetudine, in genere connessa
alla festività di Sant’Antonio abate, viva ancora ai nostri giorni647 , ma che è
indizio evidente dell’importanza dell’allevamento nella società ebolitana del
XII secolo: il numero di capi portati a benedire, e di conseguenza le offerte,
doveva essere talmente rilevante da farne singolare oggetto di richiesta di cor-
responsione648 . Ad un altro livello possiamo notare come evidentemente la
benedizione degli animali avesse un significato rituale apotropaico, legato al
timore che epidemie improvvise, una costante dolorosa nell’allevamento fino
all’età contemporanea, potessero decimare gli armenti, evenienza chiaramen-
te funesta, almeno per quella parte di società che affidava all’economia pasto-
rale un ruolo determinante per la propria sopravvivenza, parte che, come si è
visto, non doveva essere trascurabile.
La pianura del Sele è stata dalla preistoria fino ai giorni nostri importante
terminale della transumanza autunnale lungo la direttrice Appennino-Tirreno:
greggi e pastori dai pascoli montani di Laceno e dei Monti Picentini percor-
rendo le comode vie naturali del Tusciano e del Sele andavano a svernare nella
piana, così come dall’Appennino lucano, per risalire poi in estate ai pascoli
Economia e società 119

montani649 . E’ ragionevole supporre che le attività legate all’allevamento in


queste terre traessero beneficio anche nel Medioevo, oltre che dalla presenza
delle mandrie locali, come quelle ad esempio dell’arcivescovo di Salerno,
dalla vicinanza delle terre collinari e montane dell’alta valle del Sele. Qui la
pastorizia aveva assunto già in epoca romano-imperiale un ruolo importante
nella vita economica ed è pensabile che le mandrie allevate ad esempio nelle
aziende romane di cui si ha notizia nei pressi di Piano del Gaudo, sul monte
Cervialto650 scendessero durante l’inverno nella piana, mentre gli armenti al-
levati lungo il basso corso del Sele andassero all’alpeggio sugli altopiani dei
monti Picentini imminenti sull’alto corso del fiume651 . Non diversamente, nel
Medioevo, si dovevano percorrere le vie che univano le due aree alla ricerca
dei pascoli più adatti al succedersi delle stagioni. Una situazione simile dove-
va riprodursi per quanto riguarda le terre degli Alburni.
Una traccia di quanto detto, oltre alla conferma della rilevanza dei pascoli
nella pianura del Sele, si può cogliere in un documento del 1231 con il quale
l’imperatore Federico II conferma alla Santissima Trinità di Cava i privilegi
concessi dai sovrani normanni fino a Guglielmo II, tra i quali il diritto di ri-
scuotere nel casale Tusciano e nel tenimento di San Pietro ad Columnellum,
l’erbatico, il glandatico e il fidagio652 . Quest’ultima richiesta, specifica e di-
stinta dall’erbatico e dal glandatico, è da considerare tecnicamente come il
canone da versare per l’affitto dei pascoli, la fida, esazione tipicamente legata
alla presenza di bestiame transumante. Il documento è forse un falso prodotto
alla morte dell’imperatore per sostenere i diritti feudali del cenobio caven-
se653 , ma in ogni caso descrive una situazione reale: evidentemente non ci
sarebbe stata necessità di indicare il fidagio tra i diritti da riscuotere qualora
non vi fosse stato un contesto concreto di pascolo transumante.
La cospicua presenza di animali favoriva indubbiamente anche lo svi-
luppo agricolo delle terre di Eboli. Una delle cause delle basse rese e del-
l’impoverimento dei terreni nell’agricoltura medievale è notoriamente indi-
viduata nell’inadeguatezza delle concimazioni654 . Come si è visto ad Eboli
la concimazione dei terreni avveniva attraverso la stabbiatura, ricordata in
alcune richieste di letamazione655 . L’abbondanza di bestiame, sia stabulante
sia transumante, doveva determinare ad Eboli, potenzialmente, una buona
disponibilità di letame da impiegare nei campi. In quest’ottica è forse possi-
bile, per la terra di Eboli, convertire la ‘strozzatura’ efficacemente tratteg-
giata da Giovanni Cherubini656 in un ‘circolo virtuoso’ così sintetizzabile:
pascoli abbondanti = molto bestiame = molto concime = buona produttività
120 La Piana del Sele in età normanno-sveva

della terra = benessere = relativo problema della fame = territorio produtti-


vamente equilibrato nel suo insieme = pascoli abbondanti657 .

L’altro tesoro dei boschi era naturalmente la legna, indispensabile mate-


riale strategico, ma anche elemento necessario alle attività della vita quoti-
diana degli abitanti di queste terre. Le autorità protessero sempre il diritto
delle popolazioni locali a recarsi nelle selve a far legna, così nel 1067 Gisul-
fo II rimarca la facoltà degli habitatores di Olevano di recarsi nel bosco, un
tempo fiscale, ora della Chiesa, a tagliare, come consuetudine, la legna per
le loro necessità658 . Ancora una volta gli enti ecclesiastici appaiono tra i
maggiori beneficiari delle risorse naturali.In un documento pontificio Ales-
sandro III confermava alla Chiesa di Salerno le decime dei boschi del Sele,
evidentemente i redditi provenienti dall’esazione del legnatico in quelle
aree659 . Nel 1114 Roberto, signore di Eboli, aveva concesso al monastero
della S.ma Trinità di Cava, tra le altre cose, la potestatem ... in silvis que sunt
foris hac predicta civitate in loco Tusciano usque ipso Siler lignamina quanta
voluerint ... absque aliqua datione abscidere660 , chiaramente Roberto si ri-
feriva al legnatico dal cui pagamento esentava l’abate cavense. Si tratta di
aree marginali, ma che rappresentano importanti fonti di economia, come si
può ricavare già dalla citazione delle decime spettanti all’arcivescovo per i
boschi della terra di Eboli. La legna ricavata dal taglio degli alberi di queste
aree è oggetto di commercio almeno a partire dal XII secolo: nell’interes-
sante serie di documenti del novembre 1187 alcuni presbiteri olevanesi per
provare l’appartenenza della tenuta di Campolongo all’arcivescovo di Sa-
lerno, testimoniano che oltre 30 anni prima i servientes di Romualdo II ave-
vano venduto lignamina silvarum eiusdem tenimenti a mercanti amalfitani e
salernitani661 .
L’attività del taglio consentiva anche la formazione in loco di uomini
addetti a tale lavoro: un indizio si rinviene in un documento del 1252 dove
tra i testi di una redazione di una copia autentica compare un Giovanni ta-
gliabosco662 .

Altro elemento caratterizzante il paesaggio non antropizzato della piana


era costituito dai laghi costieri: in particolare il lacum maiorem, un vasto
pantano che si estendeva nel pieno Medioevo dalla foce del Tusciano alla
tenuta di Campolongo, come si è detto, interamente ricadente nei possessi
della Chiesa salernitana. Di questo grande lago palustre rimane oggi solo il
Economia e società 121

toponimo sul frequentato litorale battipagliese, ma fino alla bonifica degli


anni ’30 dello scorso secolo rappresentava probabilmente il vivaio malarico
più rovinoso della Piana. Ma non sempre nel grande lago gli uomini, in
particolare chi lo deteneva, aveva visto esclusivamente un infausto semen-
zaio di morte. Nel 1073 l’arcivescovo Alfano I concede all’atranese Gio-
vanni Boccavitello l’intero lago per due anni: l’atranese in cambio verserà
all’arciepiscopio la terza parte del pesce che egli stesso o i suoi servi riusci-
ranno a pescare ogni giorno (cotidie ipsum lacum introeant et in toto eo
piscent et piscare faciant )663 , inoltre Giovanni consentirà che l’arciepisco-
pio, qualora lo desiderasse, possa comprare il restante pescato ad un prezzo
inferiore a quello normalmente praticato ad altri acquirenti (et quotiens sor-
tes illorum ex piscibus vel ex ipsis pars ipsius archiepiscopii emere volue-
rint tociens ipse Iohannes...illas ei vendant et vendere faciantminus quam
alijs hominibus venumdari possent ut iustum fuerit) . Lo sfruttamento inten-
sivo del lago era favorito dalla nota ricchezza di pesce dei laghi salmastri e
dalla facilità della pesca in uno spazio di questo tipo664 . Giovanni potrà
migliorare le strutture produttive del lago costruendo un tugurium e infig-
gendo furcas sulle sponde per poi piazzare verosimilmente le retia a siccare
dopo una giornata passata sulla lintrem . Si può definire il lavoro di Giovan-
ni un’attività imprenditoriale rivolta, come si deduce dal documento, essen-
zialmente al mercato. Del resto doveva essere abbastanza agevole dalla foce
del Tusciano raggiungere Salerno: si legge infatti nello stesso documento
che, quando l’esattore del canone inviato dall’arcivescovo dovrà fare ritor-
no a Salerno (ovvero ogni giorno), Giovanni e i suoi figli lo accompagne-
ranno per omnes vices navigio per mare apud hanc civitatem (Salerno) cum
receptis piscis. E’ chiaro che in quell’occasione avrebbero trasportato anche
l’abbondante pescagione da vendere il mattino dopo o la stessa sera sulla
piazza salernitana. Particolarmente ricco di pesce doveva risultare anche il
lago Paulinum, alla foce del Sele, affittato nel 1018 dai conti Giaquinto,
Landone e Disiu per un anno a Giovanni atranense il quale manderà i suoi
uomini per ipso lagum piscare 665 , una situazione simile a quella riscontrata
per il non lontano lago Maiore nel locus Tuscianus. Anche il presbitero di
Santa Maria e San Nicola potrà nel 1020 in ipso lago paulinum…nassas
ponere pro pisces compreendum666 . Qualche decennio più tardi nello stesso
lagum è documentata un’attività di allevamento ittico strutturata in vere e
proprie peschiere667 . Il Sele costituiva, infine, una preziosa riserva di pesce
per la Chiesa salernitana che deteneva diritti di pesca dall’età longobarda
122 La Piana del Sele in età normanno-sveva

presso le sue acque. Un sistema di pesca utilizzato dagli uomini dell’arciepi-


scopio salernitano era quello delle cannitias668 , un metodo che si effettuava
tramite incannucciate: in prossimità della foce veniva costruita una cortina
di canne con l’alta marea; quando l’acqua si ritirava, i pesci restavano al di
qua del recinto e potevano dunque essere facilmente catturati. Più in gene-
rale è presumibile che le acque del fiume, che con i suoi affluenti ancora
oggi risulta ricco di trote, dovessero fornire utili integrazioni alla dieta degli
abitanti di quelle terre. Varietà di sistemi per la pesca dunque, in queste terre,
almeno tre, si è detto: reti, nasse, e cortine di canne, a cui si deve aggiungere
forse la lenza669 .
Ultima traccia che i documenti hanno lasciato dell’economia silvopasto-
rale in queste terre è l’allevamento delle api. E’ evidente come nel Medioe-
vo non sussistesse un tipo di allevamento analogo a quello odierno, con
arnie artificiali. Le api selvatiche venivano alloggiate in tronchi d’albero
svuotati disposti a pile, come si evince dagli Exultet del tempo670 , o gabbie
di vimini intrecciati ai margini del bosco. Un documento del 1225 ricorda
come nel tenimento cavense di San Nicola de Laneo tra le radure ai margini
del Bosco grande, vi fosse un allevamento di api671 . Naturalmente tali alle-
vamenti dovevano essere molto comuni, data l’importanza della cera per la
produzione di candele ed essendo il miele, se non l’unico, di gran lunga il
dolcificante più usato nel Medioevo. Si possono considerare questi teni-
menti come degli avamposti, dei fori che bucano qua e là il manto selvoso
che caratterizza il paesaggio del basso Sele: oltre in San Nicola de Laneo, ci
siamo già imbattuti nel tenimento-casale di San Nicola di Mercatello e in
quello di Santa Cecilia. Un’altra isola antropizzata tra le selve che lambiva-
no la riva destra del Sele era San Pietro de Toro, un santuario, probabilmente
centro di un abitato sparso, in rovina alla metà del XII secolo, non diversa-
mente da San Nicola di Mercatello e tante altre chiese nella piana672 . Si
tratta probabilmente della stessa chiesa di San Pietro nelle vicinanze del
ponte sul Sele, costruito ex lapidibus et coemento, ricordati nella vita di San
Berniero, come dallo stesso eremita costruiti.673 . In un documento del 1141
si indicano i confini delle terras cum silvis et vacuis inter quas ecclesia
sancti Petri olim constructa fuit sed nunc diruta prope fluvium Sileris ubi ad
Torum dicitur, terre donate alla Chiesa salernitana da Nicola di Principato.
La chiesa sorgeva evidentemente su un’altura (torum) nei pressi del Sele tra
questo fiume e il Telegro, non lontano dal vallone qui dicitur de Flocche
(oggi Fiocche), lungo la via que ducit ad Eboli 674 , la strada che da Eboli
Economia e società 123

menava a Capaccio. Le selve e le terre vacuae di questo esteso tenimento ne


definiscono lo stato di abbandono in cui versa, sensazione acuita da quella
via carraria che ne costituisce un confine meridionale e che per maiori
parte modo non utitur675 .
Anche il tenimento di San Vito sviluppatosi attorno al celebre santuario
che in questi anni aveva subito un drastico ridimensionamento materiale
rispetto ai fasti tardoantichi e, presumibilmente, altomedievali, doveva ri-
sultare in declino se dobbiamo giudicare dal San Vito nuovo676 . Poco distan-
te, sull’altra riva del Sele i nuclei demici cresciuti intorno alle chiesette alto-
medievali di Ponte Barizzo e San Lorenzo di Altavilla Silentina risultano
anch’essi in dissolvimento677 .

Paesaggi di rovine segnano i boschi del XII secolo tra il Tusciano e il


Sele; bisogna considerare queste macerie come desolate vestigia della scon-
fitta dell’uomo di fronte ad un ambiente naturale irriducibile dopo le effime-
re conquiste del secolo precedente o come indicatori di una diversa struttu-
razione delle politiche di controllo e sfruttamento del territorio? La risposta
per ora rimane sospesa.

3) I mercati

Idrisi nel passo riportato all’inizio di questo lavoro ricorda navi da carico
che approdano presso il porto del Sele, evidentemente per imbarcare pro-
dotti che poi andavano a commerciare sulle piazze dei centri costieri. In
effetti la conformazione morfologica del territorio offre nello spazio di po-
che decine di chilometri tre aree ecologiche complementari: una pianura
costiera a Sud segnata da corsi d’acqua e vasti laghi palustri, basse colline e
pianure interne nella parte mediana, montagne ricoperte da boschi a setten-
trione, aree, come si è visto, ben collegate tra loro. Si tratta evidentemente di
una condizione particolarmente felice, potenzialmente favorevole allo svi-
luppo di traffici commerciali, anche alla luce di quanto detto a proposito dei
prodotti della terra e dell’incolto.
Ma quale era il sistema di approvvigionamento e quali i prodotti del ter-
ritorio che i mercati richiedevano? Le fonti scritte risultano alquanto avare
in proposito, tuttavia i brandelli di documentazione disponibili dischiudono
un orizzonte stimolante, seppur percepibile solo in parte.
124 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Il Sele doveva costituire il collettore principale delle produzioni, locali e


non solo, riservate al mercato. Il fiume di per sè rappresentava, si è visto,
una via formidabile d’attraversamento del territorio. A questa via, come ad
un terminale, giungeva la fitta rete di percorsi che segnava orizzontalmente
la piana, collegata al fiume da guadi e approdi estremamente funzionali678 .
Queste strade erano percorse da mercanti di diversa provenienza : il loro
passaggio era talmente frequente e radicato che già alla fine dell’XI secolo
era fissato nella toponomastica, come in quel muricem que de negocianti
dicitur a Rivopetroso non lontano dal Sele 679 . L’importanza nodale di que-
ste terre per il transito delle merci, non solo della regione, si ricava dalla
preoccupazione espressa da Carlo I d’Angiò affinché si ponesse presto ripa-
ro ai ponti sull’Irno sul Picentino e al pontem Tossani in territorio Eboli che,
a causa dell’ impeto delle acque risultano quasi totalmente inutilizzabili,
propter quod impediuntur mercatores et alii transeuntes, con grave danno
doanarum et fundicorum di Principato e Terra di Lavoro e evidente incomo-
do di tutti680 . La circostanza che in un documento del 1277 si ricordi la
strada a Salerno usque Tussanum et usque Acernum come consueta per chi
dalla Campania si recasse in Puglia681 conferma come molti mercanti do-
vessero attraversare queste zone per raggiungere, superato lo spartiacque
appenninico, la Puglia: così forse quei mercanti amalfitani che di ritorno da
Melfi nella loro città furono aggrediti nel 1075 da Ruggero d’Altavilla, fra-
tello del Guiscardo e futuro Granconte 682 . La fitta rete dei percorsi princi-
pali e secondari che giungevano agli attracchi fluviali, in particolare le vie
carrarie, favoriva naturalmente la mobilità di uomini e merci, che, giunte
sulle sponde del fiume, velocemente raggiungevano la foce dove venivano
caricate sulle navi che avevano attirato l’attenzione di Idrisi. Una prova del
funzionamento di questo sistema si ricava da un diploma del 1269 con il
quale Carlo I concedeva ai monaci del cenobio salernitano di San Benedetto
di trasportare dalle massariis predicti monasterii di Sancti Angeli Actanari-
ci, Mannia et Lacu Pizula, il lago palustre alla foce del Tusciano683 , 400
moggi di grano de portu Silaris et maritime Salerni fino all’abbazia684 .
Se nel XII secolo vigeva un sistema pubblico di controllo e di riscossio-
ne dei dazi sui passaggi del Sele, con ogni probabilità di origine longobar-
da685 , gli snodi principali di accesso al fiume risultano posseduti da enti
ecclesiastici: sin dall’età longobarda l’approdo sottostante il ponte della via
popilia sul Sele risulta concesso alla Chiesa salernitana686 , mentre a partire
dai primi decenni del XII secolo la Badia di Cava inizia una politica di ac-
Economia e società 125

quisizione dei porti del Sele concretizzata nell’incamerameto tra i beni ab-
baziali del porto di Mercatello e, forse, del porto alla foce del Sele687 . Gli
stessi enti conseguono esenzioni sugli attraversamenti da parte dei signori
normanni688 .
L’interesse per gli approdi e i guadi del Sele è evidentemente legato ad
aspetti economici: la semplice riscossione dei dazi su un punto nevralgico
nello scacchiere delle comunicazioni tra il Sud e il Nord del Regno quale il
porto fluviale sotto il ponte della vecchia popilia sul Sele doveva garantire
notevoli introiti alla Chiesa salernitana, tanto più possedere approdi lungo il
fiume consentiva un grosso vantaggio nel trasporto delle merci al mare e di
qui alle case-madri o al mercato, come si è già visto per San Benedetto di
Salerno. In particolare questo situazione doveva risultare particolarmente
vantaggiosa per la Chiesa salernitana dal 1058 esente dal pagamento del
plateatico a Salerno e in tutto il Principato689 . Non diversamente tali privile-
gi e il possesso dei porti del Sele risultavano grandemente vantaggiosi per
gli abati di Cava che dal 1086 possedevano i porti di Vietri e Cetara690 ,
approdi dove si sarebbero potute far affluire facilmente le produzioni della
piana per poi convogliarle verso la casa madre o il vicino mercato di Saler-
no, senza contare che dagli stessi porti agli inizi del XIII secolo si caricava-
no «nucellas, castaneas, lignamina vel alia»691 . Nel 1276 in via eccezionale
Carlo D’Angiò consentì che l’abbazia di Cava trasportasse via mare 300
salme di frumento, orzo e legumi dal Sele. I regi ufficiali vigilarono, su
disposizione del sovrano, affinché le derrate non fossero trasportate in altro
luogo se non all’abbazia692 , circostanza che induce a ritenere che vi fosse il
sospetto di una produzione per il mercato, ora vietata dal re, ma che prima
era forse praticata.
I cereali della Piana dovevano essere tra i prodotti più richiesti sui mer-
cati693 . Sin dall’XI secolo si hanno indizi di una produzione cerealicola in
queste terre finalizzata anche al mercato. Nel 1073 infatti il chierico Giaquinto,
su mandato dell’arcivescovo salernitano Alfano I, concede ad laborandum
una terra in loco Tusciano, stabilendo come corresponsione annuale un mog-
gio di buon frumento (triticum bonum) secondo la misura del moggio plate-
atico di Salerno con il quale ille diebus per hanc civitatem publice venumda-
bitur iuste694 . Nel XIII secolo grano proveniente dalla piana del Sele è testi-
moniato sulla piazza di Amalfi695 .
Altro prodotto che doveva riscuotere interesse sulle piazze, forse non
solo del Regno, era sicuramente il legname, materiale strategico di primaria
126 La Piana del Sele in età normanno-sveva

importanza per la costruzione delle navi, che, come si è visto veniva acqui-
stato in queste terre da mercanti amalfitani e salernitani nel XII secolo696 .
Ma anche più a nord i boschi dei Monti Picentini dovevano costituire un
prezioso ed abbondante serbatoio di essenze arboree. Le montagne offriva-
no, infatti, sconfinate estensioni di faggete, tanto da mutuare spesso da esse
il nome già nel Medioevo, come si coglie in Faitum, rilievo dei Picentini
alle spalle di Campagna697 , essenze da cui si poteva ricavare materiale per la
costruzione delle parti immerse delle barche, per i remi, per la realizzazione
dei carri e delle zappe, oltre che per ottenerne del buon carbone. In questo
contesto appare indicativo che tra i monti Picentini sulla dorsale che costitu-
isce lo spartiacque tra l’alta valle del Tusciano e del Sele, dove domina quasi
incontrastata la faggeta, si siano conservati toponimi quali Serra della Costa
d’Amalfi e Varco delle Tavole, forse traccia di attività di taglio e lavorazio-
ne di tronchi d’albero698 . Se si considera la presenza nel Medioevo di Amal-
fitani in quelle zone699 e l’interesse che questi ultimi mostrano per la com-
mercializzazione del legname di cui riforniscono i mercati nordafricani700 ,
fa pensare ad un collegamento tra le due cose forse sin dal IX secolo, ai
tempi del Pactum Sicardi nel quale si accenna ai mercanti dei ducati costie-
ri, gli amalfitani in particolare, che attraccano con le loro imbarcazioni in
partibus Lucaniae, ossia nel territorio pestano, il cui confine occidentale era
costituito sin dalla fondazione della colonia di Poseidonia, proprio dal Sele.
E’ dunque probabile che i mercanti dei Ducati costieri alla ricerca di legno
attraccassero anche alla banchina del portus maris del Sele ricadente in
partibus Lucaniae701 . Dalle foreste montane e dai boschi costieri il prezioso
materiale strategico poteva essere comodamente fluitato lungo il Sele fino
al porto alla foce, nel luogo che, significativamente, viene ricordato nelle
fonti dagli inizi dell’XI secolo come Mercatellum, quasi a marcarne una
specificità funzionale702 . Di qui, gli Amalfitani o altri mercanti potevano
fare rotta verso i grandi mercati, anche oltremarini.
Se il commercio del legno poteva costituire un richiamo considerevole
per i mercanti che si recavano alla foce del Sele, soprattutto nell’ottica del
mercato a lunga distanza, non mancavano sulla piazza di Mercatellum altri
articoli di cui le terre della piana non dovevano difettare, quali, come si è
detto, il bestiame703 o i cereali. Tutto ciò doveva avvenire sotto la sorve-
glianza dei portunarii, il cui ufficio contemplava, come si è ricordato, anche
la riscossione dei dazi relativi al trasporto delle merci704 . Nel rafforzamento
dell’importanza di queste postazioni fluviali dovette assumere un ruolo non
Economia e società 127

marginale lo sviluppo della vicina civitas di Capaccio, sorta nel IX secolo


probabilmente per iniziativa degli abitanti della decaduta città di Paestum,
in costante crescita economica nei due secoli successivi e fino alla distruzio-
ne da parte delle truppe di Federico II nel 1246705 .
I contatti commerciali con Amalfi aventi come sorgente privilegiata le
terre di Eboli e i porti del Sele sono confermati da un prezioso documento
del 1212, un giudicato in cui la Chiesa salernitana accusa un tale mercante
ebolitano Ruggiero, che si era recato da Eboli al Sele per poi imbarcarsi e
andare a vendere olio e altre mercanzie ad Amalfi e in altre regioni senza
pagare i tributi dovuti. A nulla valse la giustificazione di Ruggiero secondo
il quale nulla era dovuto alla Chiesa salernitana in quanto le merci venivano
trasportate per mare: dopo una lunga consultazione i giudici condannarono
il malcapitato a pagare quanto richiesto alla luce dei privilegi concessi alla
Chiesa salernitana dai vari sovrani706 . Dal documento sembra emergere la
posizione privilegiata dell’olio nei commerci di Ruggiero e, in effetti, tra
XII e XIII secolo la documentazione, come si è già accennato, mostra un
accresciuto interesse per gli uliveti da parte di coltivatori e possessori, in
particolare Cava e Montevergine. Si ricordi che nel territorio di Eboli la
Chiesa salernitana deteneva il privilegio di disporre della quarta parte del-
l’olio prodotto (quartam olei)707 , probabilmente dalle terre demaniali.
Oltre Eboli, numerose sono le notizie di oliveti nei casali di Olevano
(forse uno dei luoghi di maggior produzione tra Salerno e il Sele) e di Lici-
niano, con interessamenti di enti ecclesiastici amalfitani quali San Loren-
zo708 . L’olio di queste terre doveva costituire un prodotto di primario inte-
resse sulle piazze non solo locali: così forse quel Pietro di Venezia doveva
avere interessi di commercializzazione quando acquistò nel 1255 un oliveto
sulle colline ad est di Eboli per ben 6 once d’oro709 .
Neppure il pesce proveniente da queste zone doveva costituire un pro-
dotto marginale tra quelli richiesti sul vicino mercato di Salerno: oltre al già
ricordato lago maiore, quasi un’enorme vivaio dove il pescato era in funzio-
ne del mercato710 , anche il Sele doveva costituire un notevole serbatoio di
pesce di agevole approvvigionamento711 .
Come si può cogliere dai seppur rari accenni nella documentazione scrit-
ta, il legno, i cerelai, i legumi, l’olio e il pesce dovevano costituire alcuni tra
i prodotti di queste terre più richiesti sulle piazze cittadine.
Se i mercati di Salerno e Amalfi, dovevano essere i luoghi d’elezione per
la vendita dei prodotti delle terre tra Tusciano e Sele, la documentazione
128 La Piana del Sele in età normanno-sveva

rivela la presenza di mercati locali. Indizi dell’esistenza di un mercato ad


Eboli si hanno già nel 1090 quando Roberto di Principato concede che l’ar-
civescovo di Salerno e i suoi vassalli siano liberi dal pagamento di ogni
dazio o diritto di plateatico e portatico sia sulle persone che sulle merci che
intromittent in Ebolum vel extraxereit de eadem, oltre a confermare le deci-
me su omnibus redditibus nostris platearum, plancarum, tincte , celendre
predicte terre nostre Ebol712 . Le decime derivavano dal privilegio di 10 anni
prima con il quale Roberto il Guiscardo che aveva concesso ad Alfano I le
decimas de omnibus redditibus nostris predicte civitatis nostre Salerni et
terre Eboli713 . Dunque già alla fine dell’XI secolo esisteva un movimento di
merci in entrata e in uscita dal borgo di Eboli, circostanza che testimonia la
presenza di un mercato intramurano all’inizio della dominazione normanna.
Altro punto di stoccaggio e di commercializzazione delle merci fin dall’età
longobarda doveva essere, si è visto, il Mercatellum alla foce del Sele.
L’emergere nelle terre tra il Tusciano e il Sele a partire dalla seconda
metà del XII secolo di aree vocazionali (zona Tusciano e Calli con predomi-
nanza di cereali, zona collinare periurbana a coltura arbustiva,) potrebbe
essere interpretata come tentativo di razionalizzare le grandi potenzialità
agrarie, e non solo, del territorio; dico “non solo” riferendomi all’importan-
za dei pascoli e al pregio degli estesi boschi planiziari. Nella strutturazione
di questo paesaggio tra XII e XIII secolo, mi pare possa considerarsi in
grande misura influente la domanda dei mercati, in particolare di Salerno e
Amalfi, che nelle produzioni di questo territorio trovarono senza dubbio sin
dall’alto Medioevo una fonte copiosa di approvvigionamento.
La forte produzione cerealicola è confermata dall’attestazione di una gran
quantità di mulini nel territorio. Già le carte della metà dell’XI secolo ricor-
dano mulini incamerati poi nel patrimonio della Trinità di Cava lungo il
Tusciano: un numero imprecisato nella zona dei Serroni sulla sponda destra
del Tusciano714 , ben quattro nelle vicinanze di Sant’Arcangelo715 e uno nei
pressi di San Mattia716 . Nel 1135 sono ricordati mulini di Guglielmo figlio
di Sichelmo nel casale Tusciano717 . Numerosi mulini sono menzionati an-
che nelle terre intorno ad Eboli: nel 1124 si rinviene una concessione di
terra per la costruzione di un mulino in località San Nicandro718 ; un mulino
è ricordato nella contrada Curbella nel 1140719 , un mulino è attestato in lo-
calità Acque, nei pressi di Calli, nel 1170720 . Nel 1200 sono attestati altri due
mulini nella contrada Calli uno in località Maniamero l’altro, poco distante,
a Radelmondo721 . Anche nei pressi delle mura di Eboli era edificato un mu-
Economia e società 129

lino, non lontano dalla chiesa di San Barbato722 . Ancora nel 1186 è menzio-
nato un mulino in contrada Costerolo723 mentre nel 1220 è ricordato il mu-
lino de Albiscenda della Chiesa salernitana724 , infine nel 1255 il mulino
detto Via la cui quarta parte viene venduta per 11 once d’oro725 .

4) Attività artigianali e condizione sociale

Uno degli aspetti più sfuggenti in generale dell’età normano-sveva è rap-


presentato dalla figura e dalla condizione dell’artigiano nelle terre del Re-
gno, innanzitutto a causa della natura delle fonti scritte giunte sino a noi,
sebbene questo stesso silenzio sia da considerare, come è stato messo ben in
evidenza da Raffaele Licinio, per tanti aspetti testimonianza della posizione
degli artigiani nella considerazione sociale del tempo726 .
Le carte pervenute sino a noi relative a questi anni nelle terre tra Tuscia-
no e Sele non trattano direttamente degli artigiani: la preoccupazione mag-
giore, se non unica, degli abati cavensi e degli ordinari salernitarni, dai cui
archivi proviene gran parte delle carte di questo periodo per l’area conside-
rata727 , era la terra. La scarsità delle indagini archeologiche sul territorio non
permette di sopperire al silenzio delle fonti scritte con i dati della cultura
materiale se non in minima parte. Ciò nonostante emergono da queste carte
informazioni importanti, non esclusivamente sulla variegata classificazione
delle categorie lavorative di questi ingegnosi detentori di preziosi saperi pra-
tici, ma anche sulla loro condizione e, in qualche modo, il loro ruolo nella
società del tempo.
La documentazione scritta relativa alle terre tra Tusciano e Sele ricorda
numerosi artigiani; solo a voler scorrere gli indici del lavoro di Carmine
Carlone sulle carte di Eboli emerge una notevole ricchezza di vocazioni in
tal senso: calzolai, fabbri, macellai, conciatori e addetti alla lavorazione del-
le pelli (pelliperi) e dei panni, ramieri, addetti all’edilizia (fabricatores),
vasai, pettinari, pittori, lavoratori del bronzo (erarii), armieri, tessitori, co-
struttori di carri (carrari), popolano le carte di età normanno sveva728 .
Talvolta, con una certa sorpresa, si scopre che sono donne ad essere de-
tentrici di alcuni importanti saperi pratici, come quella Alberada oliarola,
ossia addetta all’oliaria o olearia, il frantoio729 , o quella Gemma calzularia
che a Campagna nel 1174 esercitava il mestiere decisamente poco muliebre
della ciabattina 730 .
130 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Una delle attività artigianali più importanti nel territorio doveva essere
l’arte della tessitura. Già nel 1090 Roberto di Principato, confermando al-
l’arcivescovo di Salerno Alfano II le decime su alcune attività che si teneva-
no nel territorio di Eboli (decimas... predicte terre nostre Eboli), ricorda le
tincte e le celendre731 , termini con i quali si indicavano le tintorie per i panni
(tincte) e le macchine per la realizzazione di questi (celendre, i cilindri per la
follatura dei panni). Documenti posteriori confermano la continuità di que-
sta attività manifatturiera anche nei secoli successivi732 . Tali attività si svol-
gevano nel XII secolo in edifici con funzioni esclusivamente produttive,
controllate dal sovrano, come mostra un documento relativo alla tincta di
Salerno in cui il re Tancredi concede all’arcivescovo «tinctam totam et inte-
gram cum domo in quo exercetur tincta et ominbus pertinenciis eiusdem
omi et cum...appenditiis ipsius tincte»733 .
Un addetto di Eboli alla produzione dei panni era quell’Arnaldo tessitore
ricordato in un documento del 1212 come possessore di una vigna in località
Moreno734 . Altra figura incardinata al settore della manifattura tessile è quella
del parmentarius o palmentarius735 , come quel Matteo di Eboli che appare
per la prima volta in un documento del 1193 come fideiussore in una con-
cessione di terre736 . Qualche anno più tardi, nel 1202, troviamo lo stesso
Matteo costretto a vendere una casa ad Eboli per mezza oncia d’oro al cia-
battino Pietro pro intolerabili necessitate et ingenti tempore famis737 , circo-
stanza non rara in quegli anni tribolati738 . La circostanza che Matteo compa-
ia ancora come fideiussore in un documento del 1208739 , fa ritenere che la
crisi in quegli anni, almeno per lui, fosse ormai alle spalle.
E’ probabile che l’attività tessile ad Eboli fosse agevolata dalla vocazio-
ne pastorale di parte del territorio. Il facile approvvigionamento di lana nella
zona, insieme alla grande disponibilità di legna necessaria al funzionamento
degli opifici, avrà favorito questo settore produttivo.
Attività in qualche modo affine al tessile era la lavorazione delle pelli, e
qui le attestazioni risultano molto più numerose: pellipari, conciatori, cia-
battini (corviserii) fanno spesso capolino nelle carte considerate a partire dal
1098, allorquando il corviserius Palumbo compare come fideiussore in una
compravendita nel locus Tusciano740 . Anche qui, come negli altri settori
dell’artigianato, emergono disparità nella condizione socio-economica: se
nel 1153 Domenico corviserius poteva investire 45 tarì d’oro per acquistare
una terra nei pressi di Eboli741 o nel 1212 Trogisio calzolaio compariva come
fideiussore in una transazione per ben 4 once d’oro742 , nel 1212 la vedova
Economia e società 131

del calzolaio Ruggiero si vede costretta pro intolerabili famis necessitate et


corporis nuditate a vendere per circa tre once d’oro una terra con viti e ulivi
nel locus Moreno, nelle campagne ad est di Eboli743 , mentre Nicola pellipa-
rio nel 1232, alla morte della moglie, per volontà testamentaria di quest’ul-
tima, devolverà in opere pie ben 2 once d’oro per la salvezza della sua ani-
ma, indice di una condizione manifestamente agiata744 .
Nel ricordato documento del 1090 di Roberto di Principato si accenna
anche all’attività di macellazione (decimas plancarum), anch’essa favorita
dalla forte presenza di attività legate all’allevamento nel territorio. E in ef-
fetti nel territorio di Eboli si rinvengono numerosi personaggi legati alla
macellazione di animali745 . Tra questi emerge in particolare il macellaio
Giordano di Eboli che nel 1201 cede alcune sue proprietà nella località
Macchia in cambio di 23 maiali746 . Dunque Giordano, che oggi definirem-
mo un piccolo imprenditore, investe presumibilmente parte dei suoi averi
per l’acquisto di un gregge che poi evidentemente affiderà qualche pastore
traendone in seguito la carne che poi venderà nella sua planca.
Mestiere particolarmente specializzato era quello dell’armiere: si trova-
no nei documenti considerati tre costruttori di balestre, armi formidabili nel-
le mani dei guerrieri del XII e del XIII secolo. Un Alessandro balestriere
(arbalestriere) compare in un documento del 1171 come fideiussore in una
comprevendita di un mulino747 , mentre un Luca arbalestriere, esecutore te-
stamentario in una carta del 1231748 , deteneva terre laboratorie con ulivi e
fruttiferi nelle campagne di Eboli749 . Altro balestriere è Alessandro, omoni-
mo del primo, che nel 1249 vende due terre nel casale Palude di Eboli per
due once d’oro750 e compare come teste in un documento del 1262751 .
Una famiglia di costruttori di archi si rinviene nei documenti di XII e
XIII secolo. Un Anselone arcario è ricordato insieme al figlio Matteo nel
1190752 , mentre suo nipote Cristoforo arcario figlio di Matteo, anch’egli
arcaro, compare come fideiussore a Eboli nel 1230753 e nel 1233754 e come
testimone in una carta del 1242755 .
In un interessante decreto regio angioino del 1281 si ordina alle autorità
del Principato di Salerno di realizzare 40.000 quadrelle da balestra, specifi-
cando che i migliori fabbri per la produzione di punte si trovano ad Amalfi,
Avellino, Sant’Agata dei Goti e Eboli756 . Questo accenno, unito ai dati sui
costruttori di armi, permette di adombrare per Eboli un ruolo non marginale
nella produzione di armi in Italia meridionale nel XIII secolo, così come la
presenza nella documentazione di età normanno-sveva di armieri detentori
132 La Piana del Sele in età normanno-sveva

di terre e fideiussori, ovvero garanti e responsabili della transazione, ne met-


te in evidenza la condizione agiata. Ancora una volta la facilità di reperi-
mento di materie prime in loco quali il legno e, forse, il ferro, costituirono un
presupposto necessario per il fiorire di tali maestranze.
L’accenno ai fabbri di Eboli e alla loro apprezzata perizia ci spinge a
tentare di indagare il ruolo di questi ultimi nella società ebolitana del tempo.
Uno dei più facoltosi doveva essere quel Nicola detto de perfecta, forse
per la sua maestria, alla cui morte, avvenuta nel 1168, i due figli, anch’essi
fabbri, si dividono un patrimonio per nulla trascurabile costituito da due
case in muratura, una nel centrale quartiere di San Lorenzo, l’altra nel sob-
borgo extramurano di Francavilla nella parrocchia di San Bartolomeo, una
vigna e due terre laboratorie757 .
Nella Eboli del XII secolo poteva capitare che un fabbro si trasformasse
in imprenditore, come quel Rossemanno fabbro, figlio di un altro fabbro,
Giovanni, cui un tale Raone concede un sedimen in località San Nicandro
affinché vi edifichi un mulino con una plaleta (piazza). Rossemanno opere-
rà a sue spese e, dopo la costruzione, concedente e concessionario divide-
ranno le spese di gestione dell’opificio758 . Si tratta di un investimento in
denaro e in lavoro, in quanto con ogni probabilità Rossemanno avrà provve-
duto alla realizzazione degli ingranaggi di ferro, le ferraturie dei documenti,
necessari al funzionamenti del mulino. Considerando la difficoltà tecnica di
una tale impresa e l’alto costo, ci si può fare un’idea della perizia e della
condizione economica del fabbro Rossemanno759 . La relativa agiatezza eco-
nomica permette ai fabbri di Eboli di comparire come fideiussori nelle carte
del XII secolo in transazioni anche onerose760 . Una certa floridezza di alcuni
fabbri ebolitani trapela anche nella documentazione del XIII secolo in cui
compaiono come detentori di terre coltivate761 o come fideiussori per cifre
che arrivavano fino a 7 once d’oro762 .
All’interno della categoria dei fabbri un posto particolare per le compe-
tenze specializzate doveva essere riservato al bronzista, l’erarius dei docu-
menti medievali. Ad Eboli si hanno due testimonianze di questi artigiani763 .
Anche a Salerno sono documentati erari che svolgono la propria attività in
botteghe fuori dalle mura764 .
Addetti alla metallurgia erano anche i ramari, numerosi ad Eboli, tra cui
spicca quel Leone che, come si vedrà più avanti, risulta legato ai signori
normanni di Principato.
Altro mestiere abbastanza diffuso ad Eboli in questo periodo è il vasaio.
Economia e società 133

Nel 1089 si ha notizia di Petrus magister figulorum che possedeva una


casa foris murum castelli, nelle vicinanze della porta que de la terra dici-
tur765 . Probabilmente si trattava piuttosto di una bottega, come si deduce
anche dalle modeste dimensioni (circa 15 m2), nella quale il maestro vasaio
Pietro aveva il suo laboratorio di ceramiche, attività favorita dalla vicinanza
delle acque del torrente Telegro, elemento fondamentale per la depurazione
delle argille, e dalla presenza delle argille siltose rosse nei terreni ai piedi
della collina del castello, oltre che dai boschi da cui proveniva verosimil-
mente il combustibile per la cottura dei pezzi766 . Nella documentazione
ebolitana sono ricordati numerosi altri vasai: nel 1117 è menzionato un Co-
stantino lutifigulo in una transazione relativa ad una terra a Moreno767 , nel
1170 Pietro lutifigulo acquista una terra nella contrada Brista di Eboli768 , nel
1182 si ricorda il lutifigulo Roberto come venditore di due terre a Calli769 e
nel 1186 come fideiussore in una commutatio ad Eboli770 , nel 1218 il lutifi-
gulo Giovanni compare come fideiussore in una vendita di un uliveto per
mezza oncia d’oro771 infine Perretta lutifigulo appare fideiussore nel 1236
in una transazione per una terra del valore di oltre un’oncia e mezza d’oro772 .
Paolo Peduto ha delineato le competenze professionali di questi lutifigu-
li, identificandoli in cavatori e addetti alla depurazione dell’argilla destinata
a costituire la materia prima per l’arte di qualche magister figulorum773 . Qui
a Eboli tuttavia è probabile che i lutifiguli fossero addetti anche alla produ-
zione dei vasi, non essendo ricordata altrimenti nella documentazione esa-
minata la figura del vasaio774 . Si trattava peraltro di personaggi benestanti,
come si è visto, possessori di terre e chiamati come garanti in transazioni
anche di notevole valore, dunque difficilmente riducibili a semplice mano-
valanza, seppur appena specializzata.

Da quanto visto finora si può affermare che la totalità delle attività arti-
gianali fossero favorite ad Eboli dall’abbondanza delle materie prime dispo-
nibili sul territorio, in primo luogo il bestiame, ma anche la creta e probabil-
mente giacimenti ferrosi e soprattutto dalla ricchezza delle foreste da cui
proveniva il legname, necessario,come è noto, in grande quantità nei pro-
cessi di produzione ricordati. Bisogna dunque sottolineare ancora una volta
quanto fosse prezioso lo sfruttamento e, insieme, la salvaguardia dell’ele-
mento selvatico del territorio per gli equilibri e la crescita economica della
terra di Eboli.
134 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Tra i mestieri singolari che si esercitavano a Eboli vi era quello del can-
tatore e dello iocularius, del giullare, i professionisti medievali dello svago
che dovevano forse rallegrare le tavole dei notabili ebolitani o le feste che si
tenevano nel borgo, organizzando piccoli spettacoli in cui recitavano versi,
ballavano e cantavano. Un Giovanni iocularius è ricordato in un documento
del 1189775 ; un Pietro cantatore vende una metà di una terra presso Eboli per
2 once e mezza d’oro nel 1213776 mentre un Roberto cantatore acquisisce
nel 1252 una terra con ulivi alla località Grataglie di Eboli777 e nel 1255
vende un uliveto in località Moreno per ben 6 once d’oro778 . Si tratta di
uomini di spettacolo, diremmo oggi, la cui condizione economica, come si è
visto, in taluni casi non è affatto disprezzabile, ma su di essi grava da sempre
un pregiudizio: si dice che fossero personaggi spesso dalla reputazione non
cristallina, marginali, ritenuti portatori di una carica trasgressiva, sovverti-
trice dei valori stabiliti e che la storiografia corrente dipinge come oggetto
costante di vituperio, in particolare da parte delle autorità ecclesiastiche779 .
Il fatto che la figlia dello iocularius Giovanni, Oliente, sia una oblata (soror
et oblata) di uno dei più prestigiosi cenobi di quegli anni, la Santissima
Trinità di Cava, e non si vergogni del mestiere del defunto padre, tanto da
ricordarlo in una carta di concessione dello stesso monastero780 , fa riflettere
sulla pericolosità di utilizzare la bussola del luogo comune quando ci si vo-
glia orientare tra le strade insidiose del Mezzogiorno medievale.
Un altro mestiere da sempre considerato sul crinale della legalità è quello
del tabernarius, il gestore della taverna, che troviamo in diversi documenti
del casale Tusciano nei secoli XI e XII. La taverna del Tusciano, o almeno
quella cui si riferiscono i nostri documenti, si trovava non lontano dal fiume,
nei pressi della chiesa di Sant’Arcangelo, sulla via che conduceva ad Eboli.
La taverna era stata donata insieme ad alcune terre dal duca Ruggiero Borsa
all’abbazia cavense nel 1089781 . E’ difficile dai dati disponibili dedurre quale
fosse la funzione della nostra taberna, termine che, come è noto, in età
normanna e sveva assume il duplice significato di ostello e di bottega in cui
si effettuano anche piccole transazioni782 . La collocazione lungo una strada
trafficata come quella che da Battipaglia conduceva ad Eboli, via che seguiva
il tracciato dell’antica popilia783 , lascia trasparire una funzione di ospitalità
della taverna, ma una serie di transazioni del XII secolo, relative a terre del
casale Tusciano, in cui Vito e Giovanni, figli del tavernaio Andrea compaiono
quali fideiussori, fa ritenere che nella taverna si concludessero anche accordi
commerciali784 . La posizione della taverna del Tusciano nei pressi di uno
Economia e società 135

snodo viario importante785 ne faceva probabilmente un luogo di incontro di


mercanti, chierici, pellegrini, viandanti, terminale dunque di notizie
provenienti da lontano, voci che correvano lungo i canali non ufficiali della
diceria, brusio di sottofondo di un mondo più dinamico di quanto
comunemente si pensi, magari ascoltate e narrate sorseggiando un robusto
vino locale prodotto nei vigneti dell’abate cavense786 .
Si è detto come in generale si sia concordi nel ritenere che gli artigiani
ricoprissero un ruolo marginale nelle vicende politico-istituzionali del
Regnum. Questo giudizio è fondato essenzialmente sulla base dell’assenza
di questa categoria produttiva nelle fonti scritte, in primo luogo
cronachistiche787 . La nostra documentazione sostanzialmente conferma
quanto finora ritenuto, tuttavia di tanto in tanto emergono personaggi che
partecipano in qualche modo alla vita anche politica di Eboli in età normanna.
Un Osberno pelliparius è ricordato tra i boni homines, ossia personaggi di
riconosciuto prestigio sociale, chiamati a presenziare per la loro autorevolezza
ad un atto, spesso mediatori tra il popolo e il signore, del castello di Eboli,
alla presenza di Guglielmo di Principato in un documento del 1135788 .
Tra gli artigiani ricordati nelle nostre carte emerge la vicenda di Leone
ramaro figlio di Sergio e della sua famiglia. La fortuna di Leone pare legata
al suo rapporto privilegiato con il signore di Eboli, Roberto, il quale nel
1104 gli concede ben otto appezzamenti di terra nella piana, ricevendone 64
tarì d’oro789 , un censo poco più che simbolico. Due discendenti di Leone, il
miles Pagano nel 1177 e il cugino Leone, anch’egli miles, residente nel
casale Tusciano790 , nel 1178 risultano detentori di terre nel casale Tusciano791 .
Lo stesso miles Leone nel 1184 dona una terra detta Rotonda presso San
Clemente alla Santissima Trinità per la remissione dei suoi peccati792 , mentre
nel 1192 riceve da Pietro vestarario dello stesso monastero il sedio di un
mulino in cambio di una terra laboratoria793 . Nel 1192 Leone risulta agente
del cenobio cavense in una compravendita di terreni794 .
La famiglia di Leone ramaro, dunque, nel corso di due generazioni ascende
nella scala sociale ebolitana dalla posizione di artigiani ai ruoli della gerarchia
militare normanna, fondata sul servitium feudale. Altre volte i discendenti
degli artigiani intraprendono ‘carriere’ diverse, come quel Giovanni presbitero
figlio di Michele corviserio795 o quel Pietro presbitero figlio di un fabbro796 .
Si tratta di esempi di mobilità verticale di elementi della classe degli artigiani
che, per quanto rari, attestano un certo dinamismo sociale.
A partire dal XII secolo si riscontra un ambito prevalentemente urbano
136 La Piana del Sele in età normanno-sveva

della attività degli artigiani documentati797 . I motivi di questa attrazione sono


evidenti: committenza più ricca in città, maggiori occasioni di lavoro, ma
nel contempo costituiscono il riflesso di una società più complessa in cui i
ruoli vanno definendosi in modo netto, con la scomparsa della figura del
contadino-artigiano. Anche la vita sociale degli artigiani si svolge
prevalentemente in ambito cittadino; qui si stringono rapporti, si consolidano
i legami, spesso tra artigiani riconducibili ad un medesimo settore produttivo:
così, ad esempio, al capezzale dell’ebolitana Aurigemma nel giugno del 1231
troviamo accanto al marito, il pellipario Nicola, come mundoaldo Torgisio
calzolaio e come esecutori testamentari Luca balestriere e il calzolaio
(corviserio) Nicola798 .
L’investimento dei proventi delle attività artigianali è, come emerge
chiaramente dalla documentazione scritta, sulla terra, prevalentemente nelle
campagne immediatamente nei dintorni di Eboli. La terra emerge sempre
come cartina di tornasole della mobilità verticale nel Medioevo,
manifestazione materiale della rappresentazione sociale a tutti i livelli, dal
signore al parvenu. Oltre agli esempi citati sopra, si rinvengono numerosi
artigiani detentori di appezzamenti di terre tra il Tusciano e il Sele nella
documentazione di età normanno-sveva799 . Tuttavia diversamente da chi è
legato direttamente alla terra, e dunque ad una economia essenzialmente di
sussistenza, la condizione sociale e economica dell’artigiano e della sua
famiglia sembra più esposta ai colpi imponderabili della sorte per cui talvolta
questi, o chi ha improvvisamente lasciato, è spinto dalla necessità a cedere
parte di quello che per lui rappresentava forse poco più che un segno di
distinzione sociale o un bene-rifugio da far fruttare in qualche modo nel
tempo sfavorevole800 : così nel 1197 la vedova del calzolaio Guglielmo dovette
cedere una uliveto a Calli spinta dalla fame801 ,o, come si è visto, Matteo
palmentarius che nel 1202 si trovò a vendere alcuni suoi beni a causa
probabilmente delle guerre tra svevi e normanni che turbarono gli assetti di
queste terre, mentre alla morte del calzolaio Ruggiero, la vedova Avaricia,
trovandosi nell’impossibilità di nutrire se stessa e i suoi tre figli
(evidentemente minorenni e dunque non in grado di continuare l’attività
paterna), vendette una sua proprietà, tra l’altro anche di un certo valore,
circa tre once d’oro, circostanza che fa ritenere come prima della morte di
Ruggiero, forse improvvisa, la famiglia potesse condurre un’esistenza
relativamente agiata802 .
Economia e società 137

5) Frammenti di vita quotidiana nelle terre tra il Tusciano e il Sele

Numerosi spiragli si aprono tra le pieghe della documentazione sulla vita


quotidiana degli abitanti delle terre tra Tusciano e Sele e sulle fasi più inten-
se che la scandivano.
Un’occasione di festa doveva essere il matrimonio, ma anche questo,
come è noto, era regolato da una serie di adempimenti legali e spesso frutto
di interessi certamente non riconducibili alla sfera sentimentale. Non sap-
piamo se anche in queste terre avvenisse quello che rivela un ecclesiastico
siciliano in una celebre lettera a Pier delle Vigne: alla metà del XIII secolo le
ragazze siciliane erano talmente pudiche che gli accordi matrimoniali avve-
nivano esclusivamente per tramite di accordi tra genitori, direttamente o per
mezzo di ruffiani803 . Di certo i contatti prematrimoniali dovevano essere
alquanto rari anche da queste parti. Nel maggio del 1165 ad esempio Urso
Cacace del casale Tusciano si impegna per iscritto a prendere in moglie
Grusa alla presenza del fratello di lei Salerno, ma lei è assente, come con-
suetudine. Il documento viene redatto il giorno stesso delle nozze804 . Il gior-
no dopo, presenti amici e parenti a festeggiare l’evento, Urso, secondo l’uso
longobardo, concede alla moglie il morgengabe, letteralmente il dono della
mattina, ossia la quarta parte di tutto quanto possiede805 . La condizione
subalterna della donna in questi anni ne doveva fare in certe circostanze
oggetto di violenza da parte del marito; per evitare che ciò si verificasse il
padre della nubenda, preoccupato di questa possibilità, rimarcava talvolta
nell’atto che sanciva l’accordo matrimoniale l’obbligo dello sposo a trattar-
la degnamente: così in un documento del 1125 Pietro di Acerno, nel ricorda-
re al futuro marito della figlia Sica, Stasio, i termini del matrimonio, sottoli-
nea come quest’ultimo debba vivere tranquillamente e in modo pacifico con
lei, trattandola con ogni riguardo, come facevano i suoi parenti con le loro
mogli, senza usarle ingiustizie806 .
Usanza che si perde nella notte dei tempi è la dote della sposa, capitale
integrativo importante per il futuro della famiglia che andava a formare,
attraverso il quale la donna è immessa a pieno titolo e con un deciso ‘potere
contrattuale’ nella struttura patriarcale nella quale in genere si inseriva il
nuovo nucleo familiare. La dote si compone di beni immobili (terre, case) e
mobili. A volte dai documenti si ricavano elenchi dettagliati; nel 1235 Mar-
tino assegna la dote alla figlia Margherita secondo le consuetudini di Eboli:
la metà di una casa , la metà di un oliveto, un letto, il rame (ossia le pentole),
138 La Piana del Sele in età normanno-sveva

l’apparato (probabilmente ciò che oggi comunemente si definisce bianche-


ria) e mezza oncia d’oro807 . Di certo Martino non se la passava male se
poteva permettersi una dote del genere per la figlia, ma siamo informati di
doti anche più cospicue, come quella che l’ebolitana Benincasa aveva rice-
vuto il giorno del matrimonio e che ora, prossima alla morte, con il consenso
del marito il magister Gionata, si appresta a trasmettere alle tre figlie ancora
minorenni: una terra laboratoria con alberi fruttiferi, due oliveti, un orto
con alberi fruttiferi, l’apparato ed il bronzo (forse le pentole)808 . Se i matri-
moni risultavano spesso combinati, l’amore forse lo si poteva trovare altro-
ve, ed ecco spuntare figli illegittimi, che però si considerano come se fosse-
ro legittimi e si avviano agli studi809 o si fanno partecipi dei propri averi,
consapevole la consorte legittima il cui stato d’animo possiamo provare solo
ad immaginare810 .
Rarissime le separazioni e, in genere causate da motivi gravi. La docu-
mentazione esaminata ricorda la vicenda di Bellemma di Altavilla e Palme-
rio di Tommaso che nel 1221, divorziati e separati, accompagnati dal priore
dell’Ospedale di San Giovanni di Eboli, Onofrio, si accordano alla presenza
del giudice Guglielmo sui beni dotali di Bellemma: quest’ultima riceve 1/3
di oncia d’oro rinunciando a qualsiasi altra pretesa811 .
Accanto ai momenti di gioia, non sapremo mai fino a qual punto sincera
nel caso di un matrimonio in questi anni, tra le righe della documentazione
scritta serpeggiano gli spettri che hanno agitato ciclicamente i sonni di una
parte considerevole degli abitanti del Mezzogiorno, e non solo, fino all’età
contemporanea, primo fra tutti la Fame. La Fame sembra materializzarsi in
unione con l’altro fantasma che si aggira per il Medioevo, la Guerra. Così le
carte tracciano un arco cronologico preciso nel quale la fame fa la sua com-
parsa tra il Tusciano e il Sele, gli anni che vanno dal 1194 al 1212: negli anni
precedenti e in quelli successivi questo termine è significativamente assen-
te dalla documentazione scritta, se si esclude un documento del 1157 in cui
Gemma e Arcontissa abitanti di Eboli sono costrette a vendere un terreno
pro famis necessitate vel gravi pondere debitorum, poiché i mariti sono
morti812 , forse in seguito al conflitto che in quegli anni aveva visto contrap-
posto Nicola di Principato al re Guglielmo I (1155-1156). Non che prima e
dopo queste date la fame fosse assente in queste terre, ma la registrazione di
queste realtà nella documentazione scritta fa pensare che in questi periodi la
necessità travalicasse i limiti consueti. Fu il conflitto normanno svevo per la
successione al trono di Guglielmo II alla fine del XII secolo, particolarmen-
Economia e società 139

te cruento nelle terre del Salernitano principalmente per l’azione dello sve-
vo Dipoldo di Vohburg 813 , a determinare l’aggravarsi di insicurezza e peri-
coli per gli abitanti di queste terre. In genere è la condizione di vedovanza a
creare i disagi più gravi: si è già accennato ad alcuni casi814 a questi aggiun-
go la vicenda della vedova Maria e dei figli Abioso, Agnese e Giovanni che
pro famis necessitate et pondere debiti si vedono costretti a vendere una
casa nel quartiere della parrocchia di San Giorgio nel 1194815 . La fame è
naturalmente effetto della povertà, una povertà talmente forte da non per-
mettere neppure la possibilità del cibarsi per sopravvivere. I poveri nella
nostra documentazione emergono quasi esclusivamente come soggetto pas-
sivo, e questo fatto non suscita sorpresa. Ciò che forse sorprende un po’ di
più è che i poveri compaiano nei documenti esaminati solo a partire dalla
metà del XII secolo, ma anche questo, come si vedrà, non è forse un caso.
Solo a partire dal 1151 infatti si fa specifica menzione nelle carte di donazio-
ne a distribuzione di beni ai poveri, segno forse che in quegli anni la presen-
za di quest’ultimi andava facendosi più vistosa816 . Altro sintomo del timore
di un’incipiente indigenza diffusa nelle terre ebolitane nella seconda metà
del XII secolo, si coglie nei documenti in cui intere famiglie offrono se stes-
si e i propri beni agli istituti monastici ricevendone in cambio la sicurezza di
un sostentamento vitalizio. Così ad esempio nel 1152 Giovanni Caputalvus
e la moglie Trotta offrono alla Santissima Trinità di Cava tutti i loro beni
mobili ( ben tre case nel quartiere ebolitano di San Lorenzo e due terre nei
dintorni del castello) per la salvezza delle loro anime, ma se ne riservano
l’usufrutto vita natural durante, obbligando il monastero ad intervenire nel
caso tali rendite non si fossero rivelate bastevoli al loro sostentamento817 .
Il caso di questi due coniugi fa comprendere come l’angoscia di ritrovar-
si improvvisamente poveri fosse avvertita come una possibilità non remota
in questi anni anche da personaggi che si possono ritenere benestanti, segno
di una situazione generalizzata di incertezza818 . Numerose sono le testimo-
nianze documentarie in questi anni di pie oblazioni testamentarie in favore
dei poveri a Eboli e nel territorio della Piana. Così ad esempio nel 1156
Teodoro del casale Tusciano in punto di morte stabilisce che venga venduto
un terreno di sua proprietà del valore di 92 tarì e che metà del ricavato venga
distribuita ai poveri per la salvezza della sua anima819 .
Più in generale si può notare, come si è accennato, che questi segnali
emergano alla metà del XII secolo, ovvero in coincidenza con la crescita
insediativa nel castellum Ebuli e con l’espansione extramurana, segno evi-
140 La Piana del Sele in età normanno-sveva

dente di una pressione demografica. Il passaggio di molti abitanti delle cam-


pagne circostanti attratti nell’orbita urbana ebolitana dalla condizione di
contadini a qualcosa di diverso (di artigiani, per lo più) se, da un lato, apriva
orizzonti teoricamente più allettanti di una vita agiata, dall’altro, come si è
detto, spalancava rischi concreti di ritrovarsi sul baratro della fame: se prima
infatti il legame diretto con la terra garantiva quantomeno il necessario per
la sopravvivenza con i frutti che se ne ricavavano, ora le attività legate ad un
ambito urbano di produzione espongono più decisamente ai rischi della mi-
seria, massimamente nei momenti di crisi politica: così al tempo della ribel-
lione di Nicola di Principato a Guglielmo I (1155-1156), così negli anni del
conflitto normanno-svevo. Ci si può trovare da un giorno all’altro indigenti
e questa condizione rappresenta molte volte un punto di non ritorno. Non è
forse un caso che in questi anni fioriscano istituti di accoglienza, gli hospita-
les, nelle terre di Eboli, lungo le vie di maggiore percorrenza, probabilmente
con una missione duplice: accogliere i poveri e ospitare i pellegrini820 ; si
trovano così documentati nei primi anni del XIII secolo l’Ospedale di San
Giovanni821 lungo il tracciato della vecchia popilia, l’Ospedale dei poveri di
Montevergine a Pendino, anch’esso nei pressi della strada che da Eboli me-
nava a Salerno 822 noto anche come l’ospedale de Gausente823 , forse anche
un ospedale di Santa Maria dei Teutonici824 . A queste strutture di ospitalità
bisogna aggiungere le sedi di accoglienza delle abbazie locali quali le infer-
merie dell’abbazia di San Pietro Apostolo825 , di Santa Maria la Nova826 e
forse l’ospedale di San Giacomo827 . A questi enti spesso vengono devolute
pie oblazioni da parte di donatori: ad esempio nel 1239 il giudice Luca e la
sua consorte donano all’abbazia di Santa Maria la Nova tutti i loro averi, con
l’obbligo per il monastero di utilizzare i prodotti di quelle terre per le neces-
sità dei poveri ospitati nel complesso (in usum pauperum in ipsa ecclesia
hospitancium) , secondo la consuetudine dei frati828 , oppure nel 1243 quan-
do Petrone diacono lascia all’ospedale dei poveri di Pendino 6 once d’oro e
mezza per acquistare letti e per le altre attività della struttura829 . Quando nel
1210 due coniugi, forse ebolitani, donarono pro anima all’abbazia di Mon-
tevergine ben 100 once d’oro, l’abate Donato stabilì che tutti i proventi de-
rivanti dai beni posseduti dal monastero a Eboli fossero destinati ad acqui-
stare pane e fave da distribuire ai poveri il Giovedì Santo830 .
In anni difficili come quelli tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII, in
cui la minore età di Federico lasciò le terre del Mezzogiorno in una sostanziale
anarchia, poteva capitare che le truppe si dessero a razzie e saccheggi, provo-
Economia e società 141

cando angoscia e insicurezza tra la popolazione. Così accadeva che qualcuno


subisse la triste esperienza del rapimento proprio da parte di chi doveva essere
preposto a garantirne la protezione: fu questo il caso del fabbro di Eboli Nico-
la che nel 1201 fu preso dai soldati svevi che chiesero un riscatto alla moglie
Grima per liberarlo: costei si vide costretta a vendere un fondo nei pressi del
Tusciano pro redimendo viro suo a manibus Teutonicorum831 .
Il pensiero della morte e del Giudizio particolare doveva condurre spesso
l’uomo di questi secoli alla riflessione su cosa gli sarebbe accaduto dopo:
avrebbe partecipato della beatitudine eterna nella Gerusalemme celeste o avreb-
be conosciuto la condanna alle fiamme della Gehenna? In un mondo in cui si
riteneva che l’ideale di perfezione cristiana si potesse raggiungere più agevol-
mente che altrove tra le mura di un monastero, chi avesse voluto assicurarsi la
vita eterna doveva quasi necessariamente scegliere il chiostro832 . Numerosi
sono i casi in cui gli abitanti delle terre tra Tusciano e Sele indossano l’abito
monastico rinunciando alla vita del mondo. Tuttavia la stessa tensione verso
questi ideali risultava talvolta poco sincera e non priva di dubbi. Tre documen-
ti redatti tra il 1176 e il 1178 tratteggiano la singolare vicenda di Salitto, abi-
tante del casale Tusciano. Questi nel 1176 aveva offerto i suoi possedimenti e
sé stesso all’abbazia della Trinità di Cava833 , ma nei mesi successivi, tentato a
suo dire dal Nemico (oste maligno), aveva abbandonato il monastero ed era
ritornato alla vita di prima834 ; ora, nella chiesa di San Mattia, in ginocchio
davanti all’abate Benincasa di Cava, supplica di essere riammesso nell’ordi-
ne, poiché ha sperimentato la fragilità dei beni terreni. L’abate magnanima-
mente accoglie la sua supplica e Salitto offre altri doni. Qualche giorno dopo
Salitto si rivolge a Pietro, vestarario del monastero cavense perchè è molto
malato e chiede di potersi recare ai valnea de Puzzoleo, ai Bagni di Pozzuoli,
sperando di potere guarire 835 . Salitto, gravemente malato, temendo per la sua
salute spirituale probabilmente cercava un’assicurazione per la vita eterna e
per questo motivo ritornò alla vita monastica; d’altro canto non disdegnò la
possibilità di garantirsi ancora per qualche tempo la permanenza in questo
mondo e ritenne che fosse conveniente sottoporsi, diremmo oggi ad una cura
balneoterapica, in tempi in cui le cure termo-minerali costituivano un naturale
e sovrano rimedio per combattere qualsiasi genere di dolore, presso i Balnea
puteolana. Qui, nei Campi Flegrei tra Pozzuoli e Baia, erano le numerose
fonti idrotermali note fin dall’antichità per le miracolose virtù terapeutiche,
cantate circa cinquant’anni più tardi proprio da un famoso conterraneo di Sa-
litto, Pietro da Eboli836 .
142 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Ancor più sospetto può apparire il caso in cui il donatore si riserva l’usu-
frutto della pia oblazione vita natural durante, come nel caso di Giacomo
che possiede numerosi beni al casale Monte e a Eboli e offre questi e se
stesso a Dio e al monastero di Cava nel 1225 riservandosi l’usufrutto fino
alla morte e la facoltà di vendere parte dei beni se ne avesse avuto necessità.
Giacomo era sposo di Sibilia, dalla quale, con ogni probabilità, non aveva
avuto figli, ma nella donazione non se ne dimentica, precisando che la sposa
potrà risiedere nella loro casa di Eboli vita natural durante oltre a continuare
a godere del suo morgengabe. La sua condizione di oblato gli permetteva di
continuare a vivere ad Eboli e portare avanti i suoi affari, ma quando avesse
voluto avrebbe potuto varcare la soglia del chiostro, accolto dai confratelli
che lo avrebbero rifornito delle vesti appropriate. Se disgraziatamente fosse
morto senza aver potuto indossare l’agognata veste dell’obbedienza clunia-
cense, allora i monaci lo avrebbero fatto seppellire con tutti gli onori e avreb-
bero provveduto a far distribuire mezza oncia d’oro per la salvezza della sua
anima837 . Quante clausole e quante precisazioni! Come nei matrimoni an-
che con il Signore bisogna stabilire nei particolari ogni cosa.
A volte però può essere sufficiente una donazione sul letto di morte per
conseguire la speranza della Salvezza. Così, ad esempio, nel 1145 Umfredo
di Tusciano per la remissione dei suoi peccati fa dono al cenobio cavense di
alcune terre per ricevere a presenti et usque in perpetuum...fidelem oratio-
nem suprascripti monasterii fratrum838 . Molto particolareggiato è il testa-
mento di un ricco abitante del casale Tusciano, Marino che nel marzo del
1171, gravemente malato ormai prossimo alla morte, stabilisce di donare
200 tarì d’oro al monastero della Santissima Trinità di Cava e di destinare 50
tarì d’oro in parte per il trasporto del suo cadavere al predetto cenobio e in
parte ai poveri e ai sacerdoti. Il resto del suo patrimonio sarà ereditato da una
tale Maria che se dovesse morire senza figli, donerà la sua eredità al mona-
stero di Cava839 . Altre volte ci si trova di fronte a un lascito più articolato:
Domenico del casale Tusciano lascia tutti i suoi averi nel 1181 al fratello
Mauro, obbligandolo però a dare due once d’oro che serviranno ai sacerdoti
di Eboli e del Castelluccio di Battipaglia per i suoi funerali e per cantare
messe in suo suffragio. Inoltre lascia una terra laboratoria per la salvezza
della sua anima al cenobio cavense840 . Probabilmente Domenico, lasciando
pii donativi a diverse istituzioni ecclesiastiche, riteneva che la sua anima
avrebbe tratto maggior giovamento a ragione della più continua preghiera
che avrebbe ricevuto. Nel 1232 la vedova Menzania, morta senza eredi di-
Economia e società 143

retti, aveva lasciato al monastero di Montevergine una casa ad Eboli, con


tutto l’arredo, costituito da un materasso, un lenzuolo, un cofanetto, una
sedia e una cesta, oltre a un pezzo di cera per il giorno della sua sepoltura:
Menzania sarà seppellita a Montevergine nel celebre monastero.841
Altro rimedio per ottenere il perdono dei peccati è naturalmente il pelle-
grinaggio. Esistevano come si è visto santuari locali anche prestigiosi e im-
messi nei circuiti internazionali di pellegrinaggio, ma talvolta ci si recava
ben più lontano. Molto interessante risulta da questo punto di vista un docu-
mento del 1225 in cui Cataldo di Sicilia e la moglie Reccolica, abitanti del
casale Tusciano, donano per la salvezza delle loro anime e delle anime dei
congiunti, tre terre nel casale Tusciano, ricevendo in cambio mezza oncia
d’oro che servirà loro per recarsi in pellegrinaggio alla città santa di Gerusa-
lemme842 : Giungere fin sotto le mura di Gerusalemme e visitare i luoghi
della vita e della passione di Cristo costituiva indubbiamente una via sco-
moda e pericolosa, ma rappresentava il cammino di riconciliazione più ago-
gnato per un pellegrino del XIII secolo843 . Pellegrini in paesi anche lontani
gli uomini di queste terre: come quel Simeone de Bessilleta abitante di Cam-
pagna che nel 1209 volendo recarsi in Galizia presso il celebre santuario di
San Giacomo di Compostela, la meta di pellegrinaggio più prestigiosa insie-
me a Gerusalemme, Roma e il Gargano in quegli anni, e temendo di non
poter far ritorno per i pericoli del viaggio (timens ne prout habet humana
fragilitas vitam suam aliquo casu in ipso itinere finiret), fece dono al mona-
stero di San Giacomo degli Eremiti sulle colline tra Eboli e Campagna, di
due terre per la salvezza della sua anima e di quelle dei suoi genitori 844 .
144 La Piana del Sele in età normanno-sveva
145

CAPITOLO IV
Alcune considerazioni conclusive:
le terre tra Tusciano e il Sele
nel Medioevo, tra continuità e fratture
«Est prope dulce solum, nobis satis utile semper,
Ebolus, aspirans,quod petit urbis honor»
Liber ad honorem Augusti, vv. 404-405.

«Haveva questa nobilissima Terra [di Eboli] sotto di se da trenta casali, i quali
per la calamità de’ tempi sono rovinati e la gente si ridusse in un gran corpo
principale di mura cinto con bellissimi, alti e grandi edificij, e con un castello
ampio, e molto commodo.»
BACCO 1629, p.191.

Enrico Bacco, storico napoletano del XVII secolo, raccontava di una terra
di Eboli un tempo pullulante di numerosi casali, 30 si diceva, forse esagerando,
ai suoi giorni ormai scomparsi. Cos’era divenuta la pianura del Tusciano-Sele
ai tempi di Bacco? è lo stesso storico ad informarci:«Questa pianura è
abbondantissima di grani, ogli, vini et altri buonissimi e bellissimi frutti di
diverse maniere. Quivi si fa bellissima cacciagione di diversi animali...; [Questa
pianura è] ornata anche d’ombrosi boschi e di verdeggianti pascoli con chiare
e buonissime acque per le greggi et armenti di capre, pecore, bufale, vacche e
buoi et altri animali de’ quali tutta è piena la campagna; quivi parimente è un
bellissimo e gran lago, ove si fa pescagione di diversi e buonissimi pesci per
entrarvi il mare»845 . Riconosciamo i luoghi, ma di uomini neppure l’ombra!
Brutta faccenda per lo storico che, come argutamente rilevava Marc Bloch, è
un po’ come l’orco delle fiabe, per natura attratto dall’odore degli uomini. In
effetti, se confrontiamo il vociare incessante dei secoli XII e XIII con il cupo
silenzio che avvolge la piana acquitrinosa e i Monti di Eboli nel XVII, rotto
solo dal passaggio di qualche pastore o dalle attività di masserie isolate, c’è da
restare perplessi. Ancora più inquietante appare il quadro tratteggiato nella
celebre descrizione del Galanti circa un secolo dopo: viaggiando tra Salerno
ed Eboli non incontrò neppure un villaggio846 .
146 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Ma cosa era accaduto, quale era stata la causa della scomparsa di villaggi,
di chiese, di mulini, di strade percorse nel Medioevo da cavalieri, religiosi,
mercanti, artigiani, contadini, allevatori, insomma da un’umanità affaccendata
e dinamica? Troppo semplicistica appare una spiegazione che riconduca la
radice di questo collasso a cause esterne quali la guerra del Vespro o i conflitti
degli inizi del XVI secolo che pure videro queste terre razziate da eserciti di
mercenari847 . Una serie di motivazioni più complesse e più profonde dovettero
determinare quella che appare come una catastrofe insediativa, con pochi
precedenti nella lunga vicenda di queste terre.Ad osservare le cose in prospettiva
si ha come l’impressione che un terremoto sociale, economico, politico abbia
scardinato dalle fondamenta il paesaggio antropico delle terre tra il Tusciano e
il Sele ad un certo punto della sua vicenda. Si tratta tuttavia di impressioni e
chi voglia indagare il passato non può accontentarsi di queste. Certo, per
comprendere appieno bisognerebbe analizzare la vicenda di queste terre fino a
tutta l’età moderna, tenendo conto della generale crisi demografica del XIV
secolo e della congiuntura economica negativa che condizionò le vicende del
Mezzogiorno sino al XVI secolo848 . Limitandoci al Medioevo normanno-svevo
si può tentare di fornire alcune prime risposte, individuare dove possibile le
radici, il resto è una storia che attende ancora di essere narrata.

Uno svolgimento insediativo complesso modella, disarticola e ricostituisce


il paesaggio antropizzato delle terre tra il Tusciano e il Sele tra XI e XIII
secolo. Per comprendere i mutamenti che caratterizzano il paesaggio della
piana è utile richiamare brevemente l’assetto del popolamento al tramonto
dell’età longobarda: in generale l’area antropizzata nella parte di pianura
che corre tra Tusciano e Sele si caratterizza in questo periodo per una forte
frantumazione dell’habitat, con una serie di ‘cellule’ colonizzatrici disperse
su ampi lembi del territorio che nei primi decenni dell’XI secolo tendono a
polarizzarsi intorno a numerose chiese rurali sparse nella piana, di qui la
sensazione di una capillarità insediativa in particolare nelle basse terre del
Tusciano849 . Al limite opposto del territorio affiora con forza la tendenza in
età longobarda ad un infittirsi della densità insediativa nei pressi del Sele, in
particolare nelle vicinanze dei guadi, e, in secondo luogo, lungo le vie
principali. Il tipo di habitat nel basso corso del Sele pare caratterizzato da
una polverizzazione degli insediamenti in zone diverse del territorio ma
collegati da un utile reticolo viario facilmente fruibile, allacciato in maniera
funzionale alla rapida via fluviale. Gli elementi che più degli altri spiccano
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 147

in questo paesaggio che l’uomo costruisce con grande sforzo abbattendo


foreste e lottando contro gli elementi di una natura forse eccessivamente
rigogliosa, sono anche qui le chiese, che appaiono nella documentazione
quasi come componenti indispensabili per gli interventi di colonizzazione
attuati nella zona, nuclei attrattivi per gli abitanti delle curtes e dei tenimenta
che contribuiscono a fare di una popolazione dispersa tra i coltivi una
comunità che si riconosce e forse rappresenta se stessa come tale nella
celebrazione eucaristica o nella festa del martire decapitato sulle sponde di
quel fiume da cui traggono sostentamento850 .
La scena del territorio analizzato risulta, si è detto, in continua evoluzione
tra XI e XIII secolo, caratterizzata da abbandoni di siti, riprese, occupazioni
ex novo, lente dismissioni, crescite. Paradigmatica in questo senso è la
vicenda, nelle zone collinari, dei casali Monte e Palude, popolati sin dal IX
secolo, ubicati lungo uno snodo viario, strategico nella trama delle
comunicazioni altomedievali, quando gran parte della viabilità antica nella
pianura risultava dismessa851 . L’abbandono dell’area inizia nel XII secolo e
appare progressiva: persistono, infatti, perlomeno fino al XIV secolo, terre
coltivate, abitati aperti, chiese funzionanti ma nel XVI secolo il luogo dove
sorgeva il castello di Monte era detto Evoli vecchio e l’area circostante
risultava abbandonata852 . Ciò che emerge in maniera netta dallo studio dei
casali sui monti a Nord di Eboli è l’impressionante fenomeno di deca-
stellamento già compiuto nella seconda metà del XII secolo. Difficile stabilire
cosa fossero il castello di Monte, il castello di Santa Teccla, il castilluzzu, il
castello de Pancia e il vicino castello de Alegjso nei pressi di Calli:
probabilmente luoghi di piccoli accentramenti come il castello di Monte o il
castello de Alegjsio o punti di controllo lungo le vie che conducevano a
Olevano e Campagna, come il castilluzzu. Già altrove si è sottolineato come
la creazione della circoscrizione amministrativa di Eboli abbia avuto come
conseguenza, forse già in età tardolongobarda, sicuramente in età normanna,
il ripensamento delle strutture di controllo del territorio853 . E’ evidente come,
alla luce del nuovo centro, si dovesse procedere verso un riassetto più
razionale del nuovo ambito territoriale. In questo senso i castelli dei loca
altocollinari di Eboli non avevano più ragione di esistere; altri erano i percorsi
da controllare, altra la sede amministrativa, altro il luogo dove indirizzare il
popolamento: di qui gli abbandoni e il paesaggio di manieri in rovina che si
presentava a chi percorreva le poche miglia di strada che separavano Monte
da Calli nel XII secolo. In età moderna e fino ai giorni nostri queste contrade
148 La Piana del Sele in età normanno-sveva

risulteranno deserte: solo qualche santuario isolato tra boschi e campagne,


quale San Donato a Monte, sarà ancora frequentato in occasione della festa
del santo eponimo.
Anche nella Piana si assiste, negli stessi anni, al progressivo abbandono
di alcuni siti, la cui spia più evidente è la desolazione delle chiese, cardini
del popolamento rurale, che non vengono riparate: San Pietro ad columnellum,
San Pietro sulla riva destra del Tusciano, San Pietro de Toro, San Nicola di
Mercatello o chiese che scompaiono dalla documentazione dopo la metà
del XII secolo come San Biagio, Santo Stefano e San Michele854 . A questi
abbandoni corrisponde un sostanziale rallentamento della messa a coltura
della terra, emersa in particolare dall’analisi dei contratti agrari, rispetto
all’avanzante colonizzazione dei secoli X e XI855 .
Nel delineare un quadro che possa fornire spiegazioni ragionevoli di questi
fenomeni bisogna valutare aspetti che potremmo definire congiunturali e
strutturali.
Una delle cause che in genere si richiamano con più sollecitudine per
spiegare gli abbandoni, si è detto, è la guerra. Non rare furono le operazioni
belliche che interessarono la zona partendo dagli anni delle razzie di
Guglielmo di Altavilla passando poi ai tempi del duca Guglielmo, ancora ai
tempi di Ruggiero II e Guglielmo I, fino al conflitto normanno-svevo con le
numerose scorrerie di Diopoldo di Vohburg e Marquardo d’Anweiler856 .
Questi eventi, per quanto tragici, tuttavia non dovettero condizionare più di
tanto l’abbandono dei siti che, come detto, risulta graduale e dunque legato
a mutamenti strutturali più profondi. Accanto all’evidenza di abbandoni si
deve sottolineare, di contro, l’emergere nella Piana di alcuni nuovi
insediamenti, ignoti alla documentazione di XI secolo, rilevati dalla comparsa
di nuove chiese, Santa Cecilia, San Clemente, Santa Maria de Calcarola,
San Felice o la ripresa di frequentazione dell’abitato sorto intorno alla chiesa
di San Nicola nel XIV secolo. La stessa ‘gemmazione’ di casali quali
Sant’Arcangelo e Battipaglia dall’originario casale Tusciano nella seconda
metà del XII secolo, sta ad indicare una dinamica di disgregazione e
ricomposizione di gruppi demici, con spostamenti di sedi in atto in questi
anni, oltre a un aumento della popolazione. E’ evidente come la scomparsa
dell’insediamento sparso nella piana corrisponda all’emergere di una stabile
rete di casali857 . Si potrebbe pensare che tale fenomeno sia stato diretto in
qualche modo da esigenze della strutturazione signorile, e dunque di controllo
degli uomini, da parte dei due maggiori enti possessori nella Piana, la Chiesa
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 149

salernitana e la Santissima Trinità di Cava, ma il persistere di larghi strati di


popolazione libera detentrice di terre nei casali, in particolare nel casale
Tusciano, lascia intendere che vi fossero ragioni di convenienza. Dalla
documentazione scritta emerge tuttavia il dato del sostanziale arresto della
colonizzazione nella Piana tra XII e XIII secolo rispetto alla conquista di
nuove terre agli inizi dell’XI, o meglio di un arretramento delle colture
arbustive, in apparente contraddizione con la crescita demografica in atto in
questi anni858 . Questo stato di cose si riflette anche sulle dinamiche insediative.
In particolare dalla documentazione esaminata risulta come, a partire dalla
metà del XII secolo, l’agricoltura arbustiva (vigneti, frutteti), che aveva
caratterizzato in maniera equilibrata insieme alla cerealicoltura il paesaggio
agrario della piana di Battipaglia a partire dalla seconda metà del X secolo,
ceda il posto allo sfruttamento delle terre a seminativi nudi: gli appezzamenti
ricordati come terre laboratoriae si moltiplicano sino a raggiungere da soli,
si è visto, tra il 1151 e il 1200 percentuali pari quasi al 60% delle coltivazioni
totali attestate e ben il 74% negli anni tra il 1201 e il 1250, contro il 28%
della prima metà del XII secolo (tab. 1). Si tratta di un dato impressionante,
che segna una radicale rottura con la strutturazione agraria precedente859 . La
già evidenziata assenza di documenti dai quali si possa dedurre un deciso
incremento della colonizzazione a danno dell’incolto lascia trasparire, tra
l’altro, una massiccia riconversione alla cerealicoltura di molti dei poderi
prima destinati alle colture promiscue e, in particolare, agli alberi da frutto.
Per quanto riguarda le terre soggette alla Santissima Trinità di Cava, il
maggiore detentore di coltivi nell’area, tale riconversione avvenne per lo
più attraverso l’utilizzo di servi, che dobbiamo ritenere il cenobio possedesse
numerosi, risultando davvero rari, per il periodo normanno-svevo, i documenti
di affidamento di terre a liberi coloni conservati nel ricco archivio
dell’abbazia.
La medesima situazione di avanzamento della cerealicoltura si riscontra
in alcune delle terre ad est di Eboli, come a Calli (tab 2). L’attestarsi del
seminativo nudo nella piana come largamente predominante accanto allo
sfruttamento, come si è visto, di vasti areali incolti per l’allevamento o
l’approvvigionamento di legna, può essere spiegato come una strategia di
politica agraria legata alle esigenze del mercato internazionale nel XII secolo,
caratterizzato da una forte domanda di grano860 , prodotto che aveva nella
vicina Salerno, la città più importante del Mezzogiorno continentale nel XII
secolo861 , uno dei maggiori centri di commercializzazione in quegli anni862 .
150 La Piana del Sele in età normanno-sveva

La forte avanzata della cerealicoltura potrebbe costituire un riflesso


dell’unificazione commerciale dell’Italia meridionale, conseguenza della
creazione del Regno, condizione che avrebbe favorito la specializzazione
delle produzioni agrarie in alcune aree del Mezzogiorno863 . Una spinta decisa
alla riconversione cerealicola della piana di Battipaglia dovette provenire
dagli abati cavensi che in questi anni amministravano gran parte di queste
terre e potevano sfruttare, come si è visto, l’importante approdo di
Mercatellum e il porto di foce Sele: esentati dal plateaticum e da altri dazi
connessi agli attraversamenti864 , i monaci della Santissima Trinità potevano
facilmente riversare le loro abbondanti produzioni cerealicole sui vicini
mercati salernitano e amalfitano, dove le fonti del XIII secolo ricordano la
presenza di grano proveniente dalla piana del Sele865 . Tuttavia, oltre
all’abbazia cavense, anche piccoli e medi proprietari terrieri riconvertirono
le loro terre a cereali866 , segnale di una domanda di mercato che travalicava
gli interessi di politica agraria esclusivi dei grandi possessori: evidentemente
molti intravidero nella possibilità di esitare anche relativamente piccole
quantità di grano un’occasione di profitto maggiore rispetto ai proventi delle
altre colture e coltivarono a grano i loro appezzamenti. Tale attrazione dové
essere tanto forte da spingere i piccoli proprietari a privarsi di quella varietà
colturale che fino ad allora aveva costituito la base della propria sussistenza.
La dinamica di riconversione analoga riscontrata nelle terre di Calli, dove
l’abbazia metelliana non ha interessi fondiari e gli appezzamenti ricordati
nella documentazione tra gli anni 1160 e 1200 appartengono esclusivamente
a piccoli e medi allodieri867 , costituisce un ulteriore indizio in questo senso.
Si può affermare che nella piana tra il Tusciano e il Sele, durante la seconda
metà del XII secolo, si realizzi il passaggio deciso da un’economia agraria
basata in gran parte sulla soddisfazione dei bisogni di chi coltivava
direttamente le terre ad una economia in cui il mercato determina, almeno in
parte, scelte e costruisce il paesaggio agrario con le forme di insediamento
ad esso più funzionali868 . Lo strutturarsi più articolato tra 1150 e 1200 dei
casali forse comportò una più diffusa presenza di orti nelle aree dei villaggi,
cosicché gli abitanti potessero trovare, in questi spazi riservati
all’autoconsumo, quanto necessitava all’integrazione delle loro esigenze
alimentari869 .
Il passaggio di vasti areali della piana da una agricoltura prevalentemente
promiscua, in particolare frutteti e vigneti, alla cerealicoltura determinò una
situazione in cui una presenza relativamente costante di uomini in quelle
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 151

zone diventava evidentemente superflua. Fu questa, con ogni probabilità, la


causa principale dell’abbandono delle sedi sparse testimoniato dalle fonti870 ,
fattore che ingenerò, insieme al venir meno di un sistema grossomodo regolare
di controllo delle acque, nel lungo periodo probabilmente l’espandersi della
selva, come ad esempio nel caso del tenimento di San Pietro de Toro, e un
incremento delle aree impaludate, anche queste, d’altronde, estremamente
preziose nell’economia del tempo, in particolare delle terre vicine al litorale871 .
Da qui la polarizzazione di una parte degli abitanti della Piana nei nuclei
demici dei casali, da dove anche i liberi detentori di terre potevano facilmente
gestire i vicini campi coltivati a cereali e godere di tutti i benefici che
indubbiamente comporta risiedere in una comunità di villaggio rispetto alla
dimora in un fondo più o meno isolato.
L’altro fattore che influì nell’abbandono delle sedi di pianura fu l’attrazione
esercitata da Eboli.
L’elemento nuovo che appare nodale nello svolgimento della vicenda
non solo insediativa di queste terre è indubbiamente il riaffiorare quasi
improvviso di Eboli, a partire dall’XI secolo, quale centro amministrativo
dopo 700 anni di silenzio, seppur probabilmente in un luogo diverso
dall’antico municipium.
Il borgo di Eboli tra XII e XIII secolo, si è visto, appare in forte sviluppo
e si connota di alcuni attributi materiali e simbolici propriamente urbani:
sobborghi, mercati, palazzi, luoghi in cui si amministra la giustizia, la sede
di un arcipretura, numerosi monasteri extraurbani, la presenza di un centro
manifatturiero, una classe media molto dinamica con un artigianato prospero,
vi risiedono forestieri provenienti da lontano, ha dato i natali a un personaggio,
il magister Pietro, di valore assoluto nella cultura del tempo, è centro di un
ricco territorio, attraversato da importanti direttrici commerciali, strutturato
in numerosi casali dipendenti e all’interno del quale sorge un santuario che
conservava il corpo di un santo, Vito, venerato in tutta la cristianità
occidentale. L’assenza di un potere locale residente dopo la morte del conte
Roberto e, soprattutto, l’assenza di una sede episcopale, ne pregiudicò per
tutto il Medioevo la piena dignità urbana. Fu tuttavia probabilmente proprio
l’assenza di un dominus e di un ceto aristocratico forte all’interno del castello
a facilitare lo sviluppo della classe media, tanto cosciente del proprio ruolo
da potere esprimere talvolta la propria condizione, come appare nel caso del
notaio Silvestro, attraverso elementi di manifestazione sociale propri della
nobiltà quale il possesso di un piccolo complesso palaziale. Gli scavi condotti
152 La Piana del Sele in età normanno-sveva

nel centro storico di Eboli da Giovanna Scarano confermano la condizione


di benessere di cui godeva parte della popolazione ebolitana nel XIII secolo:
oggetti pregiati quali brocche bronzee di produzione islamica, ceramica
protomaiolica policroma e raffinati calici vitrei rappresentano in qualche
modo l’aspetto materiale più indicativo della ricchezza degli abitanti di Eboli
in questi anni872 .
La grande crescita di Eboli al termine del periodo considerato è attestata
dalla cedola redatta per l’esazione della tassa suoi fuochi nel 1271 dalla
cancelleria di Carlo d’Angiò, dalla quale la città risulta tassabile per 343
nuclei familiari, secondo centro dopo Salerno nel Principato Citra873 .
In ogni caso la consapevolezza di poter aspirare legittimamente alla
condizione di città, se non proprio di detenerla di fatto, emerge nell’uso
della classe notarile locale di designare, a partire dalla metà del XII secolo,
spesso Eboli come civitas874 . Gli elementi indicati possono far definire Eboli
in questi anni una quasi-città: a ragione, dunque, il suo figlio più illustre, il
magister Petrus, al tramonto del XII secolo affermava la legittima aspirazione
di Eboli all’honor urbis875 . La convocazione per ordine di Federico II di due
rappresentanti della città fedele di Eboli all’assise generale di Foggia tenutasi
il giorno delle Palme del 1240, insieme ai rappresentati delle città più
importanti del Regno tra le quali Napoli, Capua, Taranto, Messina, Siracusa,
«affinché vedessero il volto sereno dell’imperatore e riferissero ai loro
cittadini la sua volontà»876 , costituisce un indicatore concreto dell’importanza
di Eboli in età federiciana e il riconoscimento di fatto dello status urbano877 .
L’impressionante crescita dell’insediamento suburbano di Eboli
individuato nel XII secolo costituisce, insieme ad un incremento demografico,
una prova del potere di attrazione esercitato dal borgo, potere tanto forte che
gli spazi intramurani non risultavano più idonei, a poco più di 100 anni dalla
prima notizia documentata dell’esistenza del castellum, a soddisfare le
richieste di quanti desideravano risiedere nel centro della piana del Sele878 .
Si trattava probabilmente, come emerge da alcuni documenti879 , per lo più
di coltivatori che nelle campagne praticavano l’artigianato o piccoli allodieri
che forse scorgevano la possibilità di trovare nel commercio una modalità di
ascesa economica più agevole. Senza dubbio all’ombra delle mura di cinta
si avevano maggiori occasioni di lavoro alternativo a quello dei campi.
L’attestazione di numerosi artigiani anche benestanti nelle carte del XII e
XIII secolo, dimostra come ad Eboli non fosse poi così difficile fare fortuna880 .
Questa circostanza determinò che il legame con la terra risultasse ben presto
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 153

per i nuovi ebolitani poco più che rappresentativo di un’ascesa economica881 .


Lo sviluppo di Eboli condizionò anche la vicenda di Olevano, destinato
nel tardo Medioevo ad un declino della propria fortuna dopo la prosperità
altomedievale, sebbene la ricchezza dei suoi campi e delle sue colline, il
prestigio del santuario micaelico, peraltro anch’esso declinante, la presenza
dell’arcivescovo di Salerno e il passaggio di una via che conduceva verso
l’Appennino e l’Adriatico, evitarono ai casali olevanesi una sorte drammatica
come quella di Monte e Palude882 . Appare infatti significativo come nel
momento di massima opulenza di Olevano e Monte (IX-XI sec.), Eboli
praticamente non esistesse se non come locus: la riconquista alle coltivazioni
della piana del Sele tra X e XI secolo e, di conseguenza, dei suoi percorsi, in
primo luogo del tratto della direttrice Capua-Reggio tra il Tusciano e il Sele,
da un lato ingenerò la decadenza di alcuni siti prima crocevia dei traffici
lungo percorsi alternativi in età romana, dall’altro favorì la rinascita di Eboli.
Gli stessi casali di Tusciano, Sant’Arcangelo, di San Clemente e forse
Battipaglia sorgono, tra XI e XIII secolo, lungo snodi viari importanti, in
parte dismessi nell’alto Medioevo e ora recuperati alla fruizione in
conseguenza dell’avanzata colonizzatrice di età longobarda.
Si può affermare in definitiva che in questi anni, paradossalmente, ma
solo in apparenza, prosperi e stabilizzati, si possa rinvenire la radice di alcuni
fenomeni di disarticolazione dell’assetto territoriale legati essenzialmente
alla riconversione cerealicola di gran parte della piana, alla risorsa allevamento
e all’attrazione esercitata da Eboli sugli abitanti dei casali circostanti,
fenomeni che sfoceranno, in età moderna, nell’abbandono sempre più
consistente di sedi insediative extraurbane, sempre meno funzionali ad un
paesaggio agrario dove la monocoltura cerealicola era divenuta realtà
consolidata e ormai in contrasto con le esigenze dell’allevamento, la cui
conseguenza più vistosa fu l’impaludamento della piana e l’impraticabilità
di fatto di tanta parte di essa. Lo stesso fallimento della costituzione del
casale di San Pietro ad columnellum alla fine del XIII secolo può considerarsi
un caso paradigmatico della difficoltà di ricolonizzare e ripopolare un’area
ormai divenuta inesorabilmente marginale: gli abati cavensi furono costretti
a prenderne atto provando, come si è visto, ad impiantare sulle ceneri di quel
tentativo, peraltro razionalmente pianificato, una grande azienda incentrata
su un’efficiente scuderia. Ma anche qui la difficoltà maggiore doveva
consistere nel richiamare uomini che rendessero produttiva l’azienda: di qui
la premura dell’abate affinché il concessionario accordasse, come si è visto,
154 La Piana del Sele in età normanno-sveva

franchigie e libertates a quanti fossero venuti ad abitare nel tenimentum883 :


molto più comoda e sicura doveva risultare la dimora preso le mura della
non lontana civitas.
Al tramonto della dominazione sveva castelli, borghi fortificati, villaggi
aperti, monasteri, santuari rurali convivono nella piana e sui colli circostanti.
Si tratta dell’evoluzione di tipi insediativi alacremente sperimentati sin dall’età
longobarda, le cui prime testimonianze materiali rimontano in queste terre
ai secoli VII-VIII 884 , con la vistosa eccezione della scomparsa
dell’insediamento sparso. Le chiese rurali diventano sempre più i punti di
aggregazione per eccellenza dell’insediamento nella piana; i casali si
strutturano chiaramente nella forma di villaggi aperti, talvolta collegati ad
un castello, segno di un potere signorile in qualche modo concorrente rispetto
all’ambito amministrativo in cui il casale ricade885 , mentre i borghi incastellati
‘vincenti’ si definiscono in forme strutturate in maniera via via più complessa.
Uno dei fenomeni che si manifesta con maggior vigore nel distretto
ebolitano a partire dalla metà del XII secolo, è la tendenza generalizzata alla
razionalizzazione delle strutture e delle risorse; da questo punto di vista si
può assumere proprio questo periodo come spartiacque nelle vicende del
territorio. Sintetizzando quanto discusso finora relativamente a questo aspetto
si può affermare che:
1) il borgo, da ammasso di case quasi indistinto, almeno nella percezione
dei contemporanei desumibile dalla documentazione scritta, si viene
articolando in quartieri coincidenti con le ridefinite pertinenze
amministrative parrocchiali;
2) il suburbio da aggregato indeterminato risulta ordinato allo stesso modo
del borgo
3) allo stesso tempo si assiste al formarsi di quella che possiamo definire
una classe media strutturata perlomeno su due livelli, anche se tra loro
molto distanti: il primo composto da una forte classe notarile e
intellettuale886 , il secondo da artigiani specializzati che investono anche
sulla terra ma che fondano l’aspettativa di elevazione, almeno economica,
sul mestiere che esercitano, sul sapere pratico che detengono.
4) il paesaggio agrario muta radicalmente la precedente strutturazione
policolturale indifferenziata e si organizza in aree produttive diversificate
e compatte, integrate da ampie porzioni di territorio lasciate incolte,
ugualmente vitali per la prosperità dell’area
5) nelle campagne si attua una polarizzazione del popolamento in comunità
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 155

di villaggio, i casali, provvisti presto di libertates, con l’abbandono


intenzionale di alcuni siti considerati ormai non più funzionali al nuovo
assetto agrario.

Si tratta di aspetti strettamente interconnessi, frutto, come si è avuto modo


di osservare, di complesse dinamiche comprensibili in una logica
organicamente strutturata di trasformazioni sociali ed economiche, legate
alla produttività del territorio e alla direzione di gruppi di potere, alla spinta
dell’economia di mercato e alla crescita demografica, in genere difficilmente
riconducibili a una chiara dialettica del tipo causa-effetto, anche se si potrebbe
indicare una radice nell’indubbia esigenza ordinatrice di fondo che emerge
da quanto visto, in un’iniziale crescita demografica nel X secolo, incrementata
nei secoli successivi. L’istituzione del Regno con Ruggero II condizionò
indubbiamente le vicende di queste terre, sia da un punto di vista politico
che economico887 .
Il prodotto forse più lampante di quanto detto è la costruzione del
paesaggio ebolitano che agli inizi del XIII secolo appare ormai stabilito in
un modello definibile ‘a cerchi concentrici’ il cui centro è Eboli con i suoi
quartieri e sobborghi, avvolto da una cintura di orti e frutteti; a corona di
questa, le colline caratterizzate dalla preponderante presenza di oliveti e
vigneti, con qualche frutteto. Le ampie aree periferiche occidentali della
piana risultano quasi del tutto coltivate a cereali, così come i lembi orientali
del territorio ebolitano (Calli), solcati da corsi d’acqua punteggiati da mulini,
in particolare ad occidente il Tusciano. Nel settore meridionale del territorio,
la fascia litoranea appare ormai in gran parte inselvatichita, priva ormai di
strade e insediamenti, con i laghi palustri costieri che ne caratterizzano sempre
più il paesaggio. Tra le due aree periferiche, una distesa di pascoli e bosco,
dal mare fino alle acque del Sele, ormai quasi del tutto riservati ai sollazzi
dell’imperatore e agli armenti degli enti ecclesistici. In questo quadro i casali
della piana, tutti dislocati lungo le arterie principali che attraversano il
territorio, appaiono come isole policolturali tra campi di grano e la natura
dominante percorsa da nobili cacciatori e greggi di animali888 . Possiamo
ritenere che se un viaggiatore fosse partito da quelle zone alla metà del XII
secolo e vi avesse fatto poi ritorno agli inizi del Duecento, avrebbe stentato
a riconoscere i luoghi.
Bisogna ammettere che si tratta di un paesaggio non così diverso da quello
rappresentato nel celebre affresco senese di Ambrogio Lorenzetti sugli effetti
156 La Piana del Sele in età normanno-sveva

del Buon Governo! In particolare ciò che colpisce è l’equilibrio raggiunto e


l’interdipendenza istituitasi tra i diversi settori produttivi della società
ebolitana; si pensi ai meccanismi produttivi che la vasta parte di piana non
agrarizzata favoriva: con i suoi pascoli e il clima mite richiamava il bestiame,
circostanza che doveva risultare importantissima, come si è visto, per lo
sviluppo dell’agricoltura, così come per l’artigianato, insieme alla
disponibilità di legna, produzioni che andavano poi ad alimentare il mercato.
Ma l’ombra del dubbio si stende sugli effetti che, nel lungo periodo,
generò questa nuova strutturazione del paesaggio, in particolare sulla piana.
Si trattò di un equilibrio effimero e delicatissimo, e alcuni segnali di crisi già
si colgono tra XII e XIII secolo oltre che nella distribuzione dell’insediamento,
in alcuni episodi quali le invasioni delle difese imperiali e la fame di pascoli
nella pianura che portò, come si è visto, a contese tra gli enti ecclesiastici
possessori di mandrie, sintomi che forse, anche a causa della crescita
demografica, che non si saprebbe peraltro meglio valutare, il selvatico non
era più bastevole, ridotto anche a causa dell’avanzare, seppur presumibilmente
frenato dallo sfruttamento dell’incolto, delle aree messe a coltura. Si
comprende facilmente come un incremento dell’allevamento e, dunque, di
una necessità di ampliare gli spazi dedicati agli armenti, in una situzione
‘bloccata’ di questo tipo avrebbe potuto avere ripercussioni sul popolamento
stesso della Piana.
In definitiva alla metà del XIII secolo il sistema che aveva prodotto il
paesaggio ebolitano comincia ad evidenziare problemi di tenuta e lo spettro
della recessione appare dietro l’angolo: la stessa presenza di sacche di povertà
nella società ebolitana, testimoniate dall’istituzione di numerosi ospizi,
sembra confermare questo argomento. E’ evidente come in una situazione
caratterizzata da policoltura diffusa, in un ambiente naturale in gran parte
integro e a tutti accessibile, quale quella della Piana del Sele fino alla metà
del XII secolo, si aveva a disposizione una gamma di prodotti, dalla carne al
pesce, dagli ortaggi alla frutta, ai frutti selvatici, dal latte al formaggio, su
cui si poteva fare affidamento nel caso di una carestia; non così in uno scenario
produttivo dominato dalla cerealicoltura e dalla chiusura di molti spazi incolti
all’uso collettivo889 , tanto più in una situazione di pressione demografica
come quella nelle terre di Eboli del XIII secolo.

Passando ora all’aspetto istituzionale, l’età federiciana segna una decisa


rottura nella strutturazione del potere nel territorio: in questi anni il castello
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 157

di Olevano e il castelluccio di Battipaglia sono espropriati alla Chiesa


salernitana mentre i casali di San Mattia e di Tusciano vengono sottratti,
almeno in parte, al dominio cavense. Due documenti federiciani del 1219 e
del 1221 relativi ad Eboli forniscono elementi importanti per tentare di
penetrare le ragioni di questo mutamento. Nel 1219 l’imperatore,
considerando la fedeltà degli abitanti di Eboli verso la sua Casa e i dampna
plurima ...que pro nostra fidelitate conservanda multipliciter passi estis,
riferimento evidente agli accadimenti del conflitto normanno-svevo, li riceve
con le terre e le pertinenze nel suo demanio et sub speciali protectione
maiestatis nostre890 , dunque liberi da qualsiasi signoria. Nel 1221 Federico
riconferma i privilegi ricordati nel 1219, sottolineando come nessun estraneo
in ipsa terra Ebuli teneat homines vel in casalibus eius, nisi secundum fuit
temporis regis Guillelmi. Stabilisce infine che tutti gli abitanti del territorio
sint communes in omni communitate terre ipsius et in nostris serviciis, cum
expedierit, faciendis891 . Avocando a sé con questi atti il controllo totale del
territorio e degli uomini, lo Svevo di fatto tentava di esautorare nelle terre di
Eboli le precedenti strutturazioni signorili: come è chiarito nel documento
del 1221, gli abitanti non saranno più costretti a fornire pubblici servizi ad
alcuno che non fosse l’imperatore, anche perché, con l’atto del 1219 tam
universos quam singulos et heredes vestros et terram ipsam Eboli, cum
ominibus iustis tenimentis et pertinentiis suis in demanium nostrum
recepimus, non escludendo nessuno dal privilegio. In questo modo si cercava
di eradicare le basi degli ambiti di dominio signorile preesistenti. Si trattava
dell’applicazione della costituzione de resignandis privilegis emanata a Capua
nel 1220 con la quale si stabiliva la revisione di ogni concessione feudale
ottenuta a partire dalla morte di Guglielmo II (1189)892 . La circostanza che
un anno prima delle promulgazione delle sanctiones nella Curia generale
capuana, ad Eboli venisse applicato un provvedimento che di fatto colpiva
le aspirazioni di gestione del potere della classe feudale locale, appare di
notevole interesse893 . Ma la politica federiciana di recupero dei demani statali
nelle terre del Tusciano, se non proprio direttamente alle casse regie
perlomeno a chi era particolarmente vicino agli Hohenstaufen, aveva già dei
precedenti. Nel 1206 Federico, allora minorenne, concedeva all’ordine di
Santa Maria dei Teutonici tutto ciò che era pertinenza del suo demanio nel
casale Tusciano (uomini, terre e case), già possesso cavense, conferendone
la signoria ai cavalieri Teutonici894 incrementando forse concessioni fatte
dal padre EnricoVI895 . Anche il Pontefice Innocenzo III nel 1214 confermava
158 La Piana del Sele in età normanno-sveva

agli uomini di Ermanno il casale Tusciano con la Castelluccia, tutte le sue


pertinenze e i suoi abitanti 896 . Nel 1217 lo stesso Federico riconfermava i
beni del Tusciano ai cavalieri Teutonici897 , contestualmente al riconoscimento
definitivo della presenza dell’Ordine nel Regno di Sicilia all’indomani
dell’accordo con Ermanno di Salza 898 .
In generale per questo aspetto della politica federiciana in queste terre si
possono distinguere con nettezza due fasi. Nei primi anni Federico II, ancora
in buoni rapporti con la sede pontificia, agì, o fu costretto ad agire, con
grande cautela; un segnale di tale tendenza si può indicare nella nomina
dell’arcivescovo di Salerno a giustiziere delle terre possedute, con il diritto
di giudicarne gli abitanti899 . Così nello stesso anno, i giudici Luca e Giovanni,
convocata la communitas ad exequenda servicia regia di Eboli, ovvero
l’assemblea dei cittadini, convenuta nell’atrio della chiesa di San Marco di
Eboli, fanno redigere, su richiesta dell’arcivescovo, una copia della lettera
con la quale Federico II riconosceva, in particolare, diritti sulla città di Eboli
della Chiesa salernitana900 . Per quanto riguarda la sponda cavense, nel 1221,
post curiam Capuae celebratam, Federico II confermava alla Santissima
Trinità, cui l’imperatore in questi anni risulta particolarmente legato,901 tutti
i beni che deteneva, tra cui il casale Tuscianum, che abbiamo visto in
precedenza affidato all’Ordine Teutonico, per quanto di pertinenza del
demanio, e gli altri possedimenti nella Piana902 .
La svolta radicale, con l’usurpazione di gran parte di quanto aveva
confermato ai due maggiori detentori di beni della zona negli anni ’20, si
ebbe nel corso del decennio successivo. Negli anni ’30 si assiste alla
requisizione del castrum Olibani, «per la malizia dei tempi», come sottolinea
lo stesso Federico in un diploma del 1248903 . Grossomodo negli stessi anni
si ebbero anche le occupazioni dei casali cavensi di San Mattia e di
Sant’Arcangelo904 . Come ha lucidamente sottolineato Pietro Dalena nel suo
saggio sui rapporti tra Federico II e gli ordini monastici «l’instabilità delle
relazioni tra lo Svevo e le istituzioni monastiche del regno...non è dovuta ad
una causa fortuita ed improvvisa, ma ad una serie di intricate ragioni tra cui
è prevalente la scomparsa di alcuni monaci molto legati al sovrano, dotati di
particolare carisma e capaci di legare le prospettive spirituali delle comunità
locali agli interessi dello Stato, durante una stagione politica precaria in cui
l’equilibrio tra papato ed impero divenne sempre più difficile fino a rompersi
e coinvolgere in maniera diretta e specifica tutte le istituzioni monastiche
del regno»905 . Nell’ambito territoriale di quest’analisi, fu la morte dell’abate
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 159

cavense Balsamo nel 1232 a segnare il mutamento negli atteggiamenti verso


la Santissima Trinità, sebbene già in precedenza, come si è detto, Federico II
avesse fatto valere i diritti della corona sulle terre del Tusciano. L’impatto
sconvolgente che la politica federiciana di questi anni ebbe sulla geografia
del potere nella pianura del Tusciano-Sele si coglie nella considerevole
produzione di documenti falsi del XIII secolo, in particolare nello scriptorium
cavense, la cui ragione è da ricercare nel tentativo di legittimare presunti o
reali diritti degli enti ecclesiastici su uomini e cose di queste terre906 . In
realtà l’abbazia cavense poteva davvero vantare diritti immunitari sulle terre
di sua pertinenza del Tusciano, ma non, ovviamente, sulle terre del demanio
(la terra domnica di molti documenti)907 . Si comprende così come nel casale
Tusciano nel corso del XII secolo siano documentati un vicecomes regio908
ma, come si è visto, anche un vicecomes della Santissima Trinità909 . Del
resto le competenze giurisdizionali dell’abate di Cava sui suoi domini
risultavano pur sempre limitate all’azione civile. Il grosso equivoco sulla
distinzione tra le terre del demanio e quelle appartenenti agli enti ecclesiastici,
pervenute per lo più attraverso donazioni dei signori longobardi e normanni
di Salerno e Eboli, si creò nel lungo periodo di vuoto istituzionale tra la
morte di Enrico VI e l’ascesa al trono imperiale di Federico II. L’assenza di
controlli aveva presumibilmente consentito alla Santissima Trinità in quegli
anni di allargare i suoi domini a spese del demanio nelle terre del Tusciano,
dove già da molti anni aveva iniziato una politica di acquisizione fondiaria.
Di qui la necessità da parte di Federico II di chiarificare le pertinenze
demaniali precedenti la morte di suo padre e ristabilirle. Tale vicenda si
inserisce nel quadro più generale della situazione che il giovane imperatore
si trovò ad affrontare, con uno Stato in pieno sfacelo sotto la spinta disgregante
delle forze particolaristiche del Regno910 . Gli anni che vanno dalla morte di
Costanza d’Altavilla (1198) all’incoronazione imperiale di Federico II (1220)
segnano il depauperamento estremo del demanio sotto la spinta di poteri
signorili, ormai di fatto autonomi, sviluppatisi in quegli anni911 . Ripristinare
la strutturazione amministrativa normanna divenne l’obiettivo principale del
sovrano e, dunque, anche nel documento del 1221 relativo ad Eboli, si trova
l’accenno alla situazione del tempo di re Guglielmo II (+ 1189) come punto
discriminante di riferimento912 .
A partire dagli anni immediatamente successivi alla sua investitura
imperiale, Federico II punterà ad un ampliamento delle pertinenze e dei
diritti del demanio regio attraverso la soppressione di molte contee, confische
160 La Piana del Sele in età normanno-sveva

di beni e le Costituzioni di Melfi (1231)913 . In tal modo il sovrano ottenne un


riconsolidamento delle pertinenze demaniali, vero pilastro sul quale poté
edificare la stabilità del suo potere. Attribuendosi il controllo diretto su Eboli,
sede poi di una domus imperiale914 , e affidando Olevano, castrum exemptum,
il castelluccio e i territori demaniali dei casali di Battipaglia ai Cavalieri
Teutonici 915 , cui va aggiunta l’importante abbazia di San Cataldo a
Campagna916 , Federico II confermava, anche nelle terre tra il Tusciano e il
Sele, quella politica di ripristino del controllo dello Stato che ne caratterizzò
l’azione politica917 e il forte legame con l’Ordine Teutonico che, in virtù
delle concessioni federiciane, costituì in queste terre, se non proprio una
sorta di enclave, indubbiamente la parte di gran lunga più rilevante dei suoi
interessi sulla sponda tirrenica del Regno. Grazie a queste concessioni i
cavalieri di Ermanno divennero l’elemento nuovo nella geografia del possesso
nella piana, sconvolgendo il sostanziale duopolio costituito dalla Badia di
Cava e dalla Chiesa salernitana. La presenza degli ampi possedimenti dei
cavalieri teutonici sul territorio poneva un ostacolo pressoché insormontabile
alle ambizioni di creare una signoria ecclesiastica compatta da parte della
Santissima Trinità di Cava, proposito evidente nella produzione successiva
di falsi diplomi.
In ogni caso l’azione del sovrano andò ben oltre i limiti del ripristino
della situazione ante quem che si era proposto riferendosi agli anni del regno
di Guglielmo II nei primi anni del suo governo. Le usurpazioni di terre alla
Chiesa salernitana e, in parte, alla Santissima Trinità di Cava costituiscono
un dato di fatto e lo stesso imperatore ne era ben consapevole, come si evince
anche dal suo testamento. In questo senso non si può essere pienamente
d’accordo con Kantorowicz, il quale, commentando le vicende che videro
Federico II impegnato sul fronte del ripristino dei diritti dello Stato, scrisse
che l’imperatore agì «non come un conquistatore, ma come restauratore della
legalità»918 . Nel XIII secolo si assiste in definitiva ad un forte conflitto tra
poteri concorrenti nella Piana di Battipaglia: da una parte il sovrano, con la
sua urgenza di riappropriarsi della base imprescindibile del suo potere, la
terra, dall’altra le istituzioni ecclesiastiche che rivendicavano diritti talora
antichissimi su ampie porzioni di quella stessa terra. Finché fu in vita Federico
II la questione si risolse a favore dello Stato. Lo stesso sovrano tuttavia
aveva espresso più volte la speranza di una pacificazione con la Chiesa919 ,
circostanza che avrebbe comportato necessariamente un ritorno alla situazione
precedente. Come si è detto alla morte di Federico si giunse a questa
Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 161

riconciliazione. Ciò comportò, tra l’altro, la scomparsa in queste terre degli


interessi dell’Ordine teutonico, cui Federico II aveva affidato quelli che
riteneva i punti nodali del controllo del territorio920 .

Altro elemento che caratterizza in maniera incisiva l’età normanno-sveva


nelle terre tra Tusciano e il Sele è costituito dall’emergere di una solida
strutturazione nell’amministrazione della cura delle anime. Si è visto come
la riorganizzazione della gerarchia dei carismi nel XII secolo prevedesse
nel territorio ebolitano un collegio di parroci tra i quali vi era un arciprete cui
facevano capo. Era consuetudine che le chiese di Eboli versassero
all’ordinario salernitano la quarta parte delle decime921 . Si trattava
verosimilmente di un’imposizione che andava a pesare non poco sui bilanci
parrocchiali, tanto che nel 1218 i presbiteri ebolitani si rifiutarono in massa
di versare quanto dovuto all’arcivescovo. Intervenne allora il pontefice Onorio
III che nel dicembre del 1218 conferì il compito di dirimere la controversia
all’arcivescovo Giovanni di Amalfi e al vescovo di Sarno922 . I presbiteri e i
chierici di Eboli furono invitati ad Amalfi a sostenere le loro ragioni, ma non
si presentarono, comunicando di aver riconosciuto alla presenza, tra gli altri,
di Gualtiero abate di San Pietro di Eboli, di essere tenuti a versare la quarta
delle decime. La contesa si risolse con una deliberazione dell’arcivescovo di
Amalfi nella quale si imponeva al clero ebolitano di versare quanto dovuto
alla Chiesa salernitana923 . Sebbene la questione fosse risolta, rimane la
sensazione di un malumore diffuso in tutto il clero ebolitano che, strutturato
in un ambito circoscrizionale ampio (11 parrocchie tra castello e sobborghi
e almeno altre 2 nei casali924 ), vedeva forse la dipendenza dall’ordinario
salernitano e la presenza forte dell’abate di San Pietro, il cui ruolo di fiduciario
dell’arcivescovo dai tempi di Romualdo II superava forse anche la stessa
figura dell’arciprete, come una limitazione alla propria libertà. Ciò forse
nasceva anche dalla consapevolezza di operare in una quasi-città come Eboli.
In ogni caso si può affermare che l’episodio costituisca il primo atto
documentato di una ricerca di indipendenza che si concretizzerà circa 300
anni più tardi, nel 1531 con l’elevazione della chiesa extraurbana di Santa
Maria della Pietà a Collegiata. Con la bolla pontificia di Clemente VII tutte
le parrocchie di Eboli venivano infatti affidate direttamente al Capitolo di
Santa Maria, che provvedeva alla scelta e alla nomina dei cappellani. In tal
modo, come è stato notato, «la giurisdizione del primicerio si
configurava...allo stesso livello di una giurisdizione vescovile», esautorando
162 La Piana del Sele in età normanno-sveva

di fatto, trecento anni dopo la clamorosa ribellione prontamente sedata,


l’ordinario salernitano dalle questioni relative alla cura pastorale di Eboli925 .

NOTE
1
Si veda ad es. il recentissimo PINTO 2005, p. 6, in cui lo studioso accosta le aree pianeg-
gianti della valle del Sele nel Medioevo alle pianure di Sibari e Metaponto definendole «in
gran parte incolte, paludose e malsane».
2
DELOGU 1977; PEDUTO 1990.
3
DI MURO 2001; Per le fonti archeologiche DI MURO et alii 2003; DI MURO-LA MANNA
2004.
4
DI MURO 2001.
5
CARUCCI 1922.
6
DI MURO 2001.
7
L’invito con i quali i primi normanni stanziati a Salerno avrebbero invitato i loro conna-
zionali ad unirsi a loro in Amato di Montecassino, si veda ad es. DELOGU 1977.
8
CDC, II, pp. 209-210, DI MURO 1993, p. 65. Tutti i diplomi che si riferiscono alle terre di
Eboli e Battipaglia redatti tra il 799 e il 1264 sono regestati in C ARLONE 1998. Per evitare di
appesantire ulteriormente l’apparato delle note ho preferito in genere non citare l’utilissima
opera del Carlone quando ho potuto leggere l’originale o consultare le precedenti edizioni
complete o parziali dei documenti.
9
Ad esempio sulle sponde del lago detto Maggiore, lungo il litorale, era possibile trovare
delle lintre, si veda il documento del 1073 edito in P ENNACCHINI pp. 39-42.
10
La via è ricordata con questo nome a partire dal 1105, DTC, D, 51; dal documento si
evince che la strada transitava nei pressi della chiesa di San Nicola, ricordata nel XIII secolo
come San Nicola de Lagno a Campolongo. Per la posizione di San Nicola de Lagno, TELESE
1991, p. 35. e infra.
11
La via antiqua che giunge a Santa Cecilia è ricordata in un documento del 1146, ed.
BERGAMO, pp. 132.
12
DTC, H, 5, a. 1148, DTC, XXV, 114, a. 1145.
13
E’ probabile che la denominazione ‘guado di san Vito’ dipendesse dal fatto che la via che
da qui si originava conducesse al celebre santuario sulla riva del Sele per il quale si veda infra.
14
CDC, II, p. 209, a. 976; DI MURO 1993, p. 65.
15
CDC, II, p. 210, a. 976; DI MURO 1993, p. 65.
16
CDC, I, p. 14, a. 823.
17
Per il viaggio degli ambasciatori bizantini B ERTOLINI 1968, I, p. 176.
18
CDC, V, pp. 122-123, a. 1026.
19
VENEREO, III, p. 78.
20
CDC, VI; p. 37-38, a. 1035.
21
CDC, VII, pp. 100-101.
22
Il percorso è definito in un documento del 976, CDC, VIII, pp. 52-55, ins., in cui trattan-
do di beni che si trovano nei pressi del Lama, si accenna ad una via antiqua que venit usque
Note 163

ecclesiam sancti Petroniani et trabersat rivus de Lama et pergit erga ecclesiam Santi Quirini,
la chiesa di San Cirino e Quingesio a Faiano.
23
AC, XLII, n. 37, a. 1189. Per il reticolo viario del Tusciano cfr. anche DI MURO 1993, pp.
61-65.
24
Si tratta del ponte nei pressi di Santa Maria Zita DTC, XLI, 34, a. 1186; CDS, p 159. a.
1231. Nei pressi di questo ponte si sviluppò il casale principale del territorio, si veda infra il
paragrafo sui casali.
25
Per la via Capua-Reggio nel Medioevo D ALENA 2003 b.
26
CARLONE 1998, n. 427, a. 1193.
27
ID. si veda anche BRACCO1974.
28
Per strata si intende una via lastricata, verosimilmente una strada romana.
29
CARLONE 1981, p. 98, n. 211, a. 1216; ID, p. 143, n. 307, a. 1249.
30
ID., p. 261, n. 519, a. 1393.
31
Così si deduce da un documento di compravendita I D., p. 195, n. 407, a. 1273.
32
ID., p. 61, n. 127, a. 1193.
33
E’ noto come l’alta valle del Sele costituisse un vero è proprio raccordo che metteva in
comunicazione le aree del Tirreno con Conza e quindi da un lato la valle dell’Ofanto e la
Puglia e dall’altro l’alta Irpinia e Benevento. Cfr da ultimo F ILIPPONE 1993, pp. 21-25. Vedi
infra. Le comunicazioni con la Calabria avvenivano in età longobarda percorrendo ancora la
popilia come dimostra la tappa fatta a Capaccio da Ottone II nel corso della sua avanzata verso
Crotone; per il doc. si veda PAESANO 1846, I, pp. 78-79. Sulla viabilità in Italia meridionale nel
Medioevo si rimanda al fondamentale DALENA 2003b.
34
DI MURO 1994; DI MURO 2000.
35
Il portus maris del fiume Sele è ricordato per la prima volta nel testamento di Guglielmo
di Principato i favore della abbazia cavense nel 1128, DTC, F, 44: Anche Idrisi lo ricorda nella
sua opera , IDRISI, p. 93.
36
DTC, XVIII, 17, a. 1105 ma il porto è sicuramente precedente, si veda più avanti il
capitolo sugli insediamenti.
37
Per la strada antica Poseidonia-Sele si vedano G RECO 1987, p. 495 e D. GASPARRI 1989,
p. 262.
38
DTC, F, 44, offerto insieme al portus maris.
39
PAESANO, I, pp. 96-97, n. 2.
40
ID, II, p. 116, a. 1141.
41
Ancora nella seconda metà del XVIII secolo esistevano due scafe lungo il basso corso
del Sele, una che attraversava il fiume in corrispondenza della località Fiocche (oggi ponte
Fiocche), l’altra che consentiva il transito sul fiume in località Ponte Barizzo. I due attraversa-
menti erano funzionali alla strada detta del Cornito che partendo da San Giovanni di Eboli si
inoltrava verso Fiocche e il Sele, percorsa dai vari Winckelmann, Canova, Goethe, Lady Bles-
sington, Lenormant sulle loro carrozze per raggiungere le rovine pestane (C ESTARO 1984, pp.
7-8), ricalcando in pratica il tragitto della nostra via carraria.
42
IBID.
43
Nel documento si fa riferimento ad una via che dal castello di Eboli va alla chiesa di San
Nicandro. DTC, B, 30, a. 1083, chiesa che si elevava nei pressi del Telegro, come si evince da
una compravendita del XII secolo, CARLONE 1981, n. 143, p. 69, a. 1195.
44
DTC, E, 35. Si ricorda che le situazioni esposte in precedenza erano riferite a concessio-
164 La Piana del Sele in età normanno-sveva

ni di diritti di passaggio, non semplici esenzioni come in questo caso, a enti ecclesiastici che
avrebbero potuto quindi chiedere dazi per l’attraversamento dei guadi loro concessi dall’auto-
rità pubblica.
45
PEDUTO 1984, pp. 73-74.
46
CDC, VI, pp. 148-149.
47
Si veda anche DI MURO 2000.
48
PENNACCHINI, p. 75, a. 1164.
49
ID., p. 73.
50
ID. p. 76.
51
Si veda infra il capitolo sugli insediamenti.
52
PENNACCHINI 1941, p. 79, a. 1164.
53
ID., p. 85.
54
ID. p. 87.
55
ID, pp. 91-99.
56
Il documento oggi perduto è del 1168; Si tratta di una ricognizione ordinata dal conte
normanno Enrico di Principato ed è riportato in RIVELLI, p. 97 e da GIBBONE, pp. 120-122, n. 1;
si veda anche CARLONE 1981, pp. XV-XVI, n. 23.
57
Per la viabilità nell’alta valle del Sele cfr. FILIPPONE 1993, pp. 21-25, 33.
58
Nella documentazione si rinvengono oltre quelle ricordate FILIPPONE 1993, pp. 21-25,
33.
58
Nella documentazione si rinvengono oltre quelle altre attestazioni di attraversamenti
sul Tusciano, , quali il vadu de benaturi DTC, XVI, 81, a. 1098 e il guado di Sant’Elia DTC,
XLIII, 25 a. 1192.
59
DI MURO 1993.
60
Si veda a tal proposito DI MURO 2004 in c.d.s.
61
Si veda infra la parte relativa al castello di Olevano.
62
Si veda DI MURO 2000.
63
CDC, VII, pp. 30-31. DI MURO 2000.
64
Per Rao Trincanotte, Guimondo de Mulisi e Emma si veda M ENAGER 1973, p. 354, n. 1.
Per i problemi legati alla falsificazione dei diplomi ebolitani che trattano di Emma si veda
CARLONE 1998, pp. 16-17 n. 1.
65
DI MURO 2000.
66
AMATO di MONTECASSINO, I, pp. 161-162. Si veda anche CARLONE-MOTTOLA 1984.
67
Per le intricate vicende che videro protagonisti Gisulfo II, Guglielmo d’Altavilla e Ro-
berto il Guiscardo si rimanda a SCHIPA pp. 216-220; per l’estensione del principato di Salerno
negli anni 60 dell’XI secolo si veda anche CARUCCI1922, pp. 277-278, 382-383.
68
PAESANO pp. 122-123.
69
DTC, B, 21 e 30.
70
DTC, D, 51, a. 1105.
71
Si pensi ad esempio al caso famoso di Roberto il Guiscardo che sposò i seconde nozze
una figlia di Guaimario IV, Sichelgaita.
72
DTC, D, n. 51, a. 1105; DTC, E, n. 35, a. 1114.
73
DTC, XXI, 21, a. 1119.
74
Cfr. ad es. CARUCCI 1922, pp. 382-383.
75
DTC, XXIII 44.
Note 165

76
Anche a Salerno alla fine dell’XI secolo sono attestati insieme uno stratigoto e un
vicecomes, CARUCCI 1922, p. 396, n. 2. E’ probabile che lo stratigoto amministrasse in questi
anni senza alcuna restrizione ogni sorta di giustizia. La divisione tra amministrazione della
giurisdizione bassa e della giurisdizione alta avverrà come è noto solo qualche anno più tardi
con l’istituzone dei giustizieri (a. 1136) si veda a tal proposito CASPAR 1999, pp. 284 ss.
77
Per queste ultime vicende si vedano il classico C HALANDON 1905-1909, II, pp. 199-235,
e CARLONE 1998, pp. VIII-IX.
78
La fedeltà di Eboli all’imperatrice Costanza d’Altavilla è esplicitamente enunciata nel
Liber ad honorem Augusti, p. 148, vv. 615-618. Pietro fa esprimere così l’imperatrice assediata
dai salernitani in castel terracena: « Huius ad exemplum, cives, concurrite gentis, que sit in
Ebolea discite gente fides. Ebole, ni peream, memore tibi lance rependam, pectoris affectus,
que meruere boni».
79
CDS, I, pp. 135-136. CARLONE 1998, IX.
80
CARLONE 1998, n. 551, Ibid. n. 571.
81
Baiuli nella terra di Eboli Ibid. 598 a. 1224, Ibid. 621, a. 1229.
82
Per le costituzioni di Capua si veda ad es. K ANTOROWICZ, pp. 100 ss. Per le ripercussioni
sul territorio di Eboli si rimanda infra al capitolo conclusivo.
83
CARLONE 1998, X.
84
Ciò si deduce chiaramente dal documento del 1090 in cui Roberto di Eboli conferma e
riconosce i diritti della archidiocesi salernitana nel territorio a lui soggetto, PENNACCHINI, pp.
51-54 Per la definizione territoriale del comitato di Eboli si veda anche CARLONE 1998, p. VIII.
85
DTC, E, 35. Del resto la nonna di Roberto, la contessa Emma de Ala, già possedeva
negli anni 80 dell’XI secolo, un gran numero di terre e chiese lungo il basso corso del Tuscia-
no, si veda a. e, DTC, B, 22 a. 1082, ivi, C, 20, a. 1089.
86
CARLONE 1984, p. 28, n. 126. Probabilmente però tale signoria si protrasse per un perio-
do limitato e forse terminò con la morte di Roberto,. Da allora si hano notizie di forti contrasti
tra i due centri, contrasti si coglie un riflesso nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli:
«Est prope Campanie castrum, specus immo latronum, Quod gravat Eboleam sepe latenter
humum», p. 128, vv. 406-407.
87
A questo proposito si veda CILENTO 1966, p. 9.
88
Per queste vicende DI MURO 2001.
89
PAESANO 1847, I, pp. 136-137.
90
CDS, I, pp. 132-133. Oltre quanto già confermato da Roberto si aggiunga la chiesa di San
Pietro de Toro con i suoi benefici presso il Sele, donata da Nicola di Principato nel 1141 insieme
ad altre terre e selve tra il Telegro e il Sele, nei pressi di Fiocche, PAESANO II, pp. 115-117.
91
PAESANO II, pp. 147-149.
92
PAESANO II, pp. 115-117.
93
CDC, VI, p. 37-38. Si tratta però probabilmente di un falso.
94
DTC, B, 22.
95
Si veda infra.
96
DTC, C, 17.
97
DTC,C, 19.
98
DTC, G, 48.
99
DTC. C, 20. Il documento è ritenuto dal Carlone una falsificazione del XII secolo,CARLONE
1998, p. 22, num. 43.
166 La Piana del Sele in età normanno-sveva

100
DTC, D. 51. Nei pressi vi è una chiesa di San Nicola.
101
DTC, XVIII, 71.
102
DTC, XVIII, 85.
103
DTC, XIV, 19.
104
DTC, XV, 113.
105
DTC, XVIII, 20.
106
DTC, XXXII, 8. Come è noto un’oncia corrispondeva a 30 tarì.
107
DTC, XLII, 37, a. 1189. Nella tenuta era anche la chiesa di Santa Maria de Calcarola,
DTC, XLII, 35.
108
DTC, XVIII, p. 106, a. 1109.
109
DTC, XIX, 30, a. 1112.
110
Si veda a tal proposito BERGAMO 1946
111
Cfr infra capitolo sui casali.
112
DTC, F, 44, offerto insieme al portus maris.
113
DTC, XXIV, 24.
114
DTC, XXIV, 27.
115
DTC, XXIIII, 118.
116
DTC, XXXV, 6. Anche nel 1266 l’abate Giacomo risiede a San Mattia AC, LV, 68.
117
Archivio vescovile di Minori, p.96-99, a. 1213.
118
PENNACCHINI 1942, p. 153.
119
Per i casali in Italia meridionale DALENA in c.d.s.
120
DTC, XXIV, 23.
121
DTC, XXII, 10, a. 1127.
122
DTC, XXIV, 23 a. 1137, 45a. 1138, 87 a. 1139. Si veda tab. 3.
123
Per un elenco si veda tab. 3 sotto la voce coltura e località.
124
WINKELMANN n. 764; CDS, p. 159.
125
ADS, Arca V, n. 282. Nel documento Gisulfo fa riferimento anche ad altre chiese che
però rimangono di sua pertinenza e di cui tralascia di ricordare la dedicazione.
126
CDC, VI, p. 37, a. 1035.
127
Si ricorda in un documento di donazione del 1082 che San Michele Arcangelo con-
structa est prope fluvio Tusciano … a super et prope ecclesiam Sancti Stefani, DTC, B, 22; per
la localizzazione della chiesa si veda anche DTC, C, 20, 1089. Di queste chiese si perde memo-
ria nel XII secolo.
128
DTC, XLV, 90, a. 1185. In questo documento si specifica che la chiesa di San Pietro, non
lontana da Sant’Arcangelo, apparteneva all’arcivescovo di Salerno, circostanza che induce ad
identificarla con il San Pietro donato da Gisulfo I a Pietro. Per Sant’Arcangelo si veda infra.
129
DTC, XLI, 34.
130
CDC, VI, pp. 37-38.
131
Ad es. DTC, XXXI, 113, a. 1165. DTC, XXXI, 106, a. 1166, DTC, XXXII, 69, a. 1166.
Sant’Arcangelo ricordato come monastero DTC, XXXIII, n. 45, a. 1169; DTC, XXXIII, 52, n.
52, a. 1170. Si veda anche infra.
132
Santa Maria qui dicitur Zita (CDC, VIII, pp. 263-264, a. 1055.
133
In una concessione di una terra ad laborandum in loco Tusciano del 1073 si specifica
che questa si trova sotto la chiesa di Santa Maria ubi pons dicitur; PENNACCHINI 1941, pp. 79 ss.
134
In un documento del 1182 si ricorda una terra oltre il Tusciano sopra la chiesa di Santa
Note 167

Maria zita, DTC XXXVIII, 94, e nel 1186 si menziona un podere sito a lu Ponte di santa Maria
zita DTC, XLI, 34. In questo documento Santa Maria Zita, dipertinenza della Chiesa salernita-
na, è posta nelle vicinanze di San Pietro dei Caprettoni. Santa Maria de Ponte è ricordata anche
in un documento del 1235, BALDUCCI, I, p. 93.
135
CDC, VIII, pp. 51-59, a. 1057. Si tratta di un giudicato che riporta una serie di inserti tra
cui quello relativo alla chiesa di San Petroniano. Nell’XI secolo, accanto alle chiese ricordate
nel 968, sono documentati altri oratori rurali nella piana non sempre collocabili topografica-
mente quale Sanctum Sterum, non lontana da un secondo San Pietro del Tusciano (CDC, VII,
pp. 295-296, a. 1055. Per San Pietro vedi infra.
136
DTC, XV, 113 (ins.).
137
DTC, XXXI, 19, a. 1163.
138
DTC, H, 7.
139
CDC, II, p. 203, a. 1053.
140
Per queste strade si veda supra paragrafo sulla viabilità, si veda anche DI MURO 1993;
ID. 1994.
141
DI MURO 2001.
142
DTC, C, 17. Per una sintesi delle vicende di San Mattia fino al XVIII secolo B ERGAMO
1946, pp. 57 ss.
143
Primo documento in cui si ricorda un prepositodi San Mattia DTC, XXV, 22, a. 1141.
Monastero ad es. DTC, XXXVI, 20, a. 1178.
144
DTC, XLVI, 78, a. 1222; DTC.XLVII, 117, a. 1223.
145
CDC, VII, pp. 295-296, ins. Questa chiesa di San Pietro si trovava poco a N della
chiesa di San Mattia DTC, C, 17, a. 1089
146
DTC, C, 17 ed. BERGAMO 1946, pp. 121-123; questa edizione risulta peraltro incompleta.
147
DTC, C, 21.
148
La chiesa è ricordata in loco Tusciano ubi a li Capuani dicitur ; nei pressi della tenuta
all’interno della quale sorge la chiesa vi è la antiquam viam usque ad Campum Sancte Cecilie
e la via puplica, que dessensit ad Sancta Maria de Fatua. Per la chiesa di San Pietro ad colum-
nellum si vedano anche BERGAMO 1946, pp. 131-133; LONGOBARDI 1998, III, pp. 230-231.
149
DTC, XVII, 111.
150
DTC, XLIII, 23, a. 1192.
151
Infra.
152
DTC, XXXIII, 94, a. 1168.
153
DTC,XXV, 24 a. 1142.
154
DTC, XXXIII, 83, a. 1172 La chiesa viene donata all’abbazia cavense da Luca Guarna
regio giustiziere e fratello dell’arcivescovo Romualdo II. per la localizzazione C RISCI-CAMPA-
GNA, p. 242.
155
DTC, XXXIV, 95, a. 1170.
156
Abitanti del casale Tusciano risultano da numerosi documenti quali donatori , possesso-
ri di terre, artigiani. Si veda passim.
157
Ad esempio per Sant’Arcangelo, DTC, XXXI, 113, a. 1165; DTC, XXXI; 106, a. 1166;
Per San Mattia DTC, XXV, 22, a. 1141; DTC, XXV, 24, a. 1141.
158
DTC, XXXIII, 45, a. 1169 (ordinazione a Sant’Arcangelo); DTC, XXXV, 6, a. 1176
(monacazione a San Mattia).
159
DTC, XXIII; 104, a. 1137 (Sant’Arcangelo); DTC, XLVIII, 46, a. 1225 (San Mattia).
168 La Piana del Sele in età normanno-sveva

160
DTC, XXX, 34, a. 1159, sebbene non tutti i mulini del casale Tusciano appartenessero
all’abate cavense, si veda infra.
161
Ad es. DTC, XXXIII, 52 a. 1170 (Sant’Arcangelo); DTC, XXX, 51, a. 1161 (San Mat-
tia); DTC, XXXI, 19, a. 1163.
162
DTC, 202, a. 1158 (San Mattia); DTC, XLVII, 117, a. 1223.
163
Si veda infra.
164
Il priore di San Mattia allarga le sue competenze gestionali anche su possedimenti
cavensi a Eboli (es. DTC, XLVIII, 79, a. 1226), nelle terre del Laneo (DTC, XLVIII, 46, a.
1225) Monte (DTC, XLVIII, 52, a. 1225) , Santa Cecilia (DTC, XLVIII; 8, a. 1223) e un po’
dappertutto nel casale Tusciano (DTC, XLVII, 114, a. 1223 San Clemente; DTC, XLVII, 117,
a. 1223,diverse contrade di Tusciano) mentre del priorato di Sant’Arcangelo non si fa più
menzione. Un documento del 1216 conferma quanto detto: in una controversia per il possesso
di alcune terre ad Eboli il giudice Andrea della Monaca accusa il priore di San Mattia e delle
dipendenze di Eboli e del Tusciano di avergli invaso ingiustamente una terra, DTC, XLVI, 98.
165
Si vedano ad es. Ad es.DTC, XV, 27, a. 1092 notaio Guidone; DTC XXIV, 23, a. 1137,
Madio presbitero e notaio; DTC, XXIV, 45, a. 1138, Alfanum notarium.DTC, XXIV, a. 1139,
lo stesso Alfano; DTC, XXIV, 107, a. 1140 ancora Alfano; DTC, XXIV, 23 a. 1137, 45a.
1138, 87 a. 1139 (Sant’Arcangelo).
166
DTC, XXIV, 23.
167
Per i mulini lungo i Tusciano vedi infra, capitolo sull’economia.
168
DTC, XXIV, 23.
169
CARLONE 1998, 208, a. 1160.
170
DTC, XXXVI; 33.
171
DTC, XXV, 92.
172
DTC, XXVI, 2.
173
DTC, XXIX, 32.
174
DTC, XXX, 59.
175
DTC, XXX, 51.
176
DTC, XXXII, 15.
177
DTC, XXXIV, 26.
178
DTC, XXXIV, 80.
179
DTC, XXXV, 84.
180
DTC, XXXVI, 14. La famiglia Brusca doveva essere tra le più ricche del casale tanto che
una contrada mutuò da loro la denominazione Ubi a Li Brusca dicitur DTC, XL, 44, a. 1185.
181
DTC, XXXIII, 93.
182
DTC, XXXV, 20. Altri esempi di possessori di terre del casale Tusciano DTC, XXXIV,
94, a. 1168; DTC, XXX, 26, a. 1169; DTC, XXXIII, 45, a. 1169; DTC, XXXIII, 71, a. 1170;
DTC, XXXII, 72, a. 1170 ; DTC, XXXIV, 10, a. 1174; DTC, XXXV, 6, a. 1176; DTC, XXXV,
60, a. 1176; DTC, XXXV, 70, a. 1176; DTC, XXXV, 48, a. 1177. DTC, XXXV, 50, a. 1177;
DTC, XXXVI, 41, a. 1178; DTC, XXXVI, 47, a. 1178; DTC, XXXVII, 37, a. 1180; DTC,
XXXVII; 98, a. 1181; DTC, XXXVII, 64, a. 1182; DTC, XXXVIII, 113, a. 1184; DTC,
XXXIX, 82, a. 1184; DTc, XL, 94, a. 1187; TC, XL, 95, a. 1187; DTC, XLI, 87, a. 1188; DTC,
XLI, 88, a. 1188; DTC,XLI; 72, a. 1190; DTC. XLII; 74, a. 1190. Tutti i documenti citati si
riferiscono a personaggi diversi.
183
DTC, XXV, 92.
Note 169

184
Ad es. Asclettino, figlio di Giovanni Silvatico DTC, XXXV, 6, a. 1176; DTC, XLII,
69. a. 1190.
185
Il giardino di Matteo è stato riconosciuto da Luciano Mauro dell’Università di Salerno
nell’attuale giardino della Minerva a Salerno. MAURO 1999, p. 57-237.
186
HUILLARD-BREHOLLES, I, p. 299
187
AC, M, N. 16 , a. 1221. HUILLARD-BREHOLLES, II, 1, pp. 118-122. Per le ragioni di questo
passaggio si veda infra, il paragrafo dedicato alla vicenda complessiva del comitato di Eboli.
188
Il duca sottolinea come i liberi cui si riferisce siano uomini che non abbiano rem
stabilem nel principato salernitano. Riporto per esteso l’importante parte del documento Et
omnes liberi homines qui in ipsis terris habitaverint nullum servitium aut angariam aut pen-
sionem nobis aut reipublice faciant aut persolvent, sed quidqui nobis aut reipublice facere et
persolvere debuerint tibi tuisque successoribus faciant et persolveant remota omni contradi-
tione nostra et omnium exactorum reipublice. De illis vero liberis hominibus dicimus qui rem
stabilem intra salernitanum principatum non habuerint quanto in prephatis terris ad habitan-
dum intraverint. AC, C, n. 17.
189
DTC, F, 40. Dell’autenticità del documento dubita Carlone (C ARLONE 1998, p. 51, num.
108, 1) ma la circostanza che tale donazione venga sostanzialmente confermata in un docu-
mento del 1128 (vedi nota successiva) a mio parere rende sostanzialmente verosimile il conte-
nuto dell’atto.
190
Cum omnibus hominibus in eodem loco Tusciano habitantibus, quos videlicet homines
ipse quoque dominus guiglielmus princeps et dux similiter temporis suis dominii teneri et
dominari visus est, DTC, F, 44, a. 1128; DTC, F, 45, a. 1128
191
Ad es. DTC, XXXI, 13, a. 1165; AC, XLIII, 54, a. 1192; DTC, XXIII, 104 a. 1137 (si
tratta però di una falsificazione in forma di originale redatta nella seconda metà del XII) sec.
CARLONE 1998, p. 67. Un primo vicecomes de Tusciano è ricordato nel 1085, DTC, XIV, 13.
192
Così ad es. in AC XLII, 54, a. 1192 in cui Giovanni de Golia, viceconte della Trinità nel
casale Tusciano, rappresenta l’abate in una controversia per la cessione dei beni del defunto
marito di una nubenda.
193
Matteo Nocerino nel 1206, CARLONE 1998, 497; Giovanni a partire dal 1208, ID. 498.
194
AC, XLI, 99.
195
CARLONE 1998., 501, a. 1208.
196
HUILLARD-BREHOLLES, III, pp. 259-262 a. 1231. Regesto in CARLONE 1998, p. 280.
197
Per i legami tra normanni e Trinità si veda ad es. VITOLO 1985, da ultimo LORE’ 2002.
L’ente che segnò più in profondità le vicende della piana di Battipaglia dall’età qui consi-
derata fino all’età moderna fu senza dubbio la Trinità di Cava, che nel XII secolo diventa, si è
detto, insieme alla Chiesa salernitana, il maggior detentore di terre della parte meridionale
dell’antico locus Tuscianus. Si è visto come da subito la politica di gestione fondiaria degli
abati cavensi nelle terre del Tusciano fu rivolta a una razionalizzazione dei beni, attraverso
permute e acquisizioni volte al compattamento del dominio fondiario. Un modello gestionale
che si organizza con modalità del tutto analoghe alla strutturazione della cattedra di San Mat-
teo, con i punti focali dell’organizzazione materiale nei casali e nelle chiese che ne rappresen-
tano i fulcri. Evidente differenza con la Chiesa salernitana è l’assenza nel patrimonio cavense
di un luogo materiale e simbolico che ne manifesti il ruolo: se infatti il castelluccio di Battipa-
glia, visibile da ogni punto della piana era il segnale forte del potere, anche coercitivo, dell’ar-
civescovo, la Badia non si dotò di strutture militari che andassero a soddisfare questa esigenza.
170 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Ciò è legato sostanzialmente alla natura del potere signorile di Cava su queste terre, che non
andò mai al di là della detenzione di diritti immunitari sulle proprie terre, a differenza della
signoria territoriale dell’ordinario salernitano su Olevano e sul casale-castello di Battipaglia,
circostanza che conferiva anche prerogative militari e, dunque, possesso di fortezze. Forse San
Mattia, residenza dell’abate cavense durante i suoi soggiorni nella zona, poteva costituire il
momento simbolico di rappresentazione materiale del dominio della Santissima Trinità su que-
ste terre.
198
Il primo documento che attesti Sant’Arcangelo come casale distinto dal casale Tuscia-
no è del 1173, AC, XXXIV; 80; si veda anche AC, XLIV, n. 44 a. 1196; regesto CARLONE 1998,
p. 206, n. 451.
199
CDC, VI, pp. 37-38. Il documento è con ogni probabilità un falso, ma ciò non toglie che
si possa utilizzare al fine della precisazione topografica del sito.
200
VENEREO, III, p. 78.
201
La taverna è menzionata nei pressi della via che viene dalla chiesa di Sant’Arcangelo
DTC, XIV, 117, a. 1089. Vedi anche DI MURO 1994, p. 86.
202
AC, Reg. III, Mayneri car. 15.
203
CARLONE-MOTTOLA, p. 311.
204
AC, LV, 68, a. 1266. Per queste vicende si veda infra capitolo conclusivo.
205
AC, XLIII, 75, a. 1193; PENNACCHINI1942, p. 122 a. 1208.
206
DTC, XVII, 111.
207
Il confine a settentrione è un monte DTC XVII; 70.
208
DTC, XVII, 111. Si tratta del tratto della popilia tra Battipaglia e Eboli, si veda supra il
paragrafo sulla viabilità.
209
Ricordata esplicitamente per la prima volta nel 1129 Index Perg. Caven. 22, 76, a. 1129.
210
CRISCI-CAMPAGNA, p. 329.
211
Prima attestazione DTC, XLVIII, 8, a. 1223.
212
WILKELMANN, 764. CDS, I, p. 159.
213
DTC, XVI, 36. Si tratta con ogni probabilità di un falso C ARLONE 1998, p. 29.
214
PAESANO, II, pp. 148-149. La prima citazione sicura della chiesa di santa Cecilia risale al
1146, BERGAMO, pp. 131-133.
215
Per la viabilità si veda supra.
216
Per la vicenda di San Nicola in epoca longobarda si rimanda a DI MURO 2000, si veda
anche infra la parte relativa all’agricoltura. In generale BERGAMO 1946, pp. 45-49.
217
PAESANO, pp. 148-149.
218
DTC, XXX, 31.
219
Un nucleo insediativo trapela già nelle carte dell’XI secolo, infra la parte relativa al-
l’agricoltura.
220
DTC, M, 12.
221
BERGAMO 1946, pp. 45-49. Su queste vicende anche CDC, IX, pp. 389-391.
222
WINKELMANN, 764. CDS, I, p. 159.
223
Si tratta però di una conferma; ciò fa ritenere plausibile che il casale esistesse già dal-
l’età longobarda. Si veda infra il paragrafo dedicato ai castelli.
224
CDS, I, pp. 244-247.
225
CDS, I, pp. 248-249.
226
CDS,I, p. 247.
Note 171

227
CARUCCI 1937.
228
Il testo del documento del 1251 in cui si fa riferimento alle consuetudini degli altri
vassalli della chiesa permette una tale analogia. I vassalli Olevanesi dovevano macinare le
loro olive al frantoio del signore, né potevano costruire frantoi senza l’assenso dell’arcivesco-
vo; lo stesso avviene per i mulini per il grano. Nessun forestiero poteva acquistare terre nelle
terre soggette all’arcivescovo. Gli abitanti sono soggetti infine ad una serie di prestazioni d’opera
sulle terre di possesso dell’arcivescovo. IANNONE 1988, pp. 55-59.
229
PENNACCHINI 1942, p. 153.
230
ID. p .112.
231
CARUCCI 1936 p. 23.
232
cfr. supra capitolo sulla viabilità. Oltre ai resti materiali, le case sono ricordate nella
documentazione scritta, ad es. Codice Perris, II, p. 380, a. 1195. Codice Perris, II, p. 632-633,
a. 1261.
233
Codice Perris, II, p. 380, a. 1195.
234
Codice Perris, II, p. 384, a. 1196.
235
Codice Perris, II, p. 557, a. 1249.
236
Codice Perris, II, pp. 682-683, a. 1270.
237
Le chiese sono ricordate fino al XVII secolo, sebbene ormai abbandonate I ANNONE
1988 pp. 223-225.
238
Codice Perris, II, p. 556, a. 1249; Codice Perris, II, p. 604-605, a. 1256; Codice Perris,
II, p. 632-633, a. 1261.
239
Codice Perris, II, p. 384, a. 1196.
240
Codice Perris, II, p. 556, a. 1249.
241
CDS, I, p. 202-203.
242
Codice Perris, II, p. 604-605, a. 1256; Codice Perris, II, p. 616-618, a. 1257; Codice
Perris, II, p. 632-633, a. 1261; Codice Perris, II, p. 682, a. 1270.
243
PENNACCHINI, pp. 151-154.
244
Documento riportato in PAESANO 1847, I, pp. 136-137.
245
PENNACCHINI, pp. 50-54, a. 1090.
246
In generale per signoria territoriale si intende un sistema in cui la giurisdizione sugli
uomini da parte del signore include tutti gli abitanti di un determinato territorio, sia che le terre
appartengano o meno a questi, mentre la signoria immunitaria si applica solo su coloro che
abitano e coltivano le terre del signore Sulla differenza tra signoria territoriale e signoria im-
munitaria si veda a. e. VIOLANTE 1991; ID. 1997.
247
CDS, I, p. 133, a. 1221.
248
DTC, XXVIII, 74.
249
PENNACCHINI 1942, pp. 73-110 ss. In particolare la parte relativa a Monte pp. 74-85.
250
Si veda supra capitolo sula viabilità.
251
PENNACCHINI1942, p. 78.
252
Ibid.
253
ID. p. 85.
254
Per la posizione del colle ID. p. 85. Si tratta della chiesa di Santa Maria ricordata anche
in documenti successivi ad es. AC, IL, 85, a. 1233. Sul colle oggi si scorgono i ruderi del
complesso di santa Maria del Carmine elevato alla metà del XVI secolo quando il sito era detto
Evoli Vecchio, cfr. infra. Fino a qualche decennio addietro era ancora possibile osservare sul
172 La Piana del Sele in età normanno-sveva

colle i resti di alcune abitazioni del casale medievale, si vedano le foto in L ONGOBARDI1998, III,
p. 193.
255
PENNACCHINI 1942, p. 73, 79.
256
Si può supporre che ogni abitazione ospitasse una famiglia composta mediamente di
5 membri, per cui si può ipotizzare che nel casale Monte abitassero almeno 150 individui.
257
Ad es. CARLONE-MOTTOLA 1981, p. 54, n. 111, a. 1192.
258
Fonte de Raymundo PENNACCHINI 1942. p. 82; fonte de sancto Donato, p. 84; fonte qui
ficu mansole dicitur, fonte qui fuscara dicitur p. 85.
259
ACC, 48, reg. CARLONE 1982, n. 47.
260
ID. pp. 73-78.
261
Associazione della vigna con l’alto fusto. PENNACCHINI 1942, p. 78.
262
ID. p. 79, 81, 82.
263
ID. p. 79, 81.
264
CARLONE-MOTTOLA 1981, p. 69, n. 144, a. 1195.
265
PENNACCHINI 1942, p. 80.
266
ID. p. 82, 84.
267
ID. p. 82, 84.
268
ad es. AC, LII, 33, a. 1246.
269
ID. p. 76, 81.
270
ad es. CARLONE-MOTTOLA 1981, p. 54, n. 111, a. 1192; p. 69, n. 144, a. 1195; p. 98, n.
209, a. 1215.
271
DI MURO 2000; cfr. infra Capitolo Conclusioni.
272
DTC, XLII, 60.
273
AC XLII, 57, a. 1191; CARLONE-MOTTOLA 1982, 111, a. 1192 ; AC, LII, 33, a. 1246; AC,
LII, 86, a. 1249.
274
AC, XLVIII, 52, a. 1225.Si tratta probabilmente della chiesa di S. Maria de Labarola
ricordata in un doc. del 1246, , AC, LII, 33.
275
CARLONE 1998, 751, a. 1254.
276
Coltivazioni di ulivi, vigneti, fruttiferi, orti sono attestate a Monte nel XIII secolo, ad es.
AC, XLVI, 63, a. 1214, CARLONE 541; ID, 558, a. 1218; ID., 650, a. 1233; ID. 723, a. 1249.
277
CDC, I, p. 10.
278
CDC, VI, p. 224.
279
La carta è edita in PENNACCHINI, pp. 110-111.
280
CDC, IV, pp. 270-271.
281
Si veda il documento di Roberto di Eboli del 1090. PENNACCHINI 1941 pp. 50-53.
282
DTC, XXVIII, 42.
283
DTC, XXX, 57, a. 1160, presbitero Giovanni; CARLONE 1998, 268, a. 1174, presbitero
Pietro.
284
AC, XLI, 102, a. 1188.
285
PENNACCHINI 1943, A. 1164, p. 83.
286
AC, XXXVI, 115, a. 1181.
287
Si vedano ad es. CARLONE 1998, 268, a. 1174; ID, 276, a. 1176; CDV, VII, pp. 114-116;
AC, XLI, 102, a. 1188.
288
Anche qui infatti si rinviene una decisa varietà di attestazioni colturali nell’intero peri-
odo considerato, con uliveti, vigneti, frutteti, orti, campi di grano, si veda ad es. DTC, XXX,
Note 173

57, a. 1160; PENNACCHINI 1943, a. 1164, pp. 82 ss.; AC, XLI, 102, a. 1188; AC, XLI, 106, a.
1188; AC, XLI, 108, a. 1188; CARLONE 1998, 557, a. 1218; ID, 694, a. 1240.
289
Si veda infra il paragrafo relativo al castelluccio di Battipaglia.
290
Si veda supra.
291
Si veda a tal proposito infra li capitolo sull’economia e il capitolo conclusivo.
292
cum castro quod Mareguardus construxit in eisdem tenimentis et pertinentiis HUIL-
LARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 917-920.
293
Su Marquardo e la politica di Enrico VI in Italia meridionale in gen. KAMP 1996, pp.
141 ss.; si veda anche TOOMASPOEG 2004 pp. 138 ss.
294
CDS, I, pp. 247-248, a. 1251, Vedi infra. Da ciò si deduce come il castello del casale
Tusciano fosse la castelluccia.
295
Terre di Santa Maria Zita (DTC, XLI, 34, a. 1186), terre di San Silvestro di Monte, terre
di.
296
CDS, I, pp. 258-262.
297
CDS, I, p. 247.
298
Situazione analoga anche per il castrum Olibani. Nel 1057 Gisulfo II, richiesto dagli
olevanesi, fece redarre una carta nella quale venne abbozzato per la prima volta l’usus locale,
alcune consuetudini che precisavano i poteri che il dominus poteva effettivamente esercitare
senza prevaricare i diritti degli homines castri, in gran parte liberi. ADS I, si veda anche DI
MURO 2004 in c.d.s.
299
Qualche anno più tardi sorse un contrasto tra l’arcivescovo di Salerno e gli abitanti di
Olevano sul diritto di questi ultimi a costruire machinas ad oleum faciendum (PENNACCHINI pp.
172-177, a. 1290). Nonostante il sindaco Matteo Carabello cercasse di far valere le ragioni
degli olevanesi, forse mostrando anche il documento di Gisulfo II del 1057, la sentenza fu
favorevole all’arcivescovo.
300
Si veda supra.
301
IANNONE 1988, CARUCCI 1937. Mulino e frantoio costituiscono in generale uno degli
aspetti materiali e simbolici più forti del potere signorile medievale ed in genere il possesso è
esclusivo appannaggio del dominus.
302
AC; XXXV, 56.
303
cfr. infra, La vita quotidiana.
304
Così pare dedursi dal giuramento cui tutti gli abitanti dovettero sottoporsi dopo la
restituzione alla Chiesa; si veda supra.
305
Documento edito in BERGAMO 1946, pp. 140-142. Originale conservato presso l’archi-
vio di Cava AC, LXI, 32. Per San Pietro ad Columnellum si veda supra. Il tenimento è ricorda-
to come casale a partire proprio dal documento del 1299.
306
Così il passo del documento Sic tamen quod infra primum biennium casale ipsum
preparabimus et rehabitari faciemus domos, et vineas ...reparari.... Ad hoc autem memoran-
dum est quod nos (Oliviero e la moglie Adelina) ecclesiam ipsam et domos expensis nostri
propiis reparare facere tenemur...
307
Per la guerra del Vespro nelle zone di Eboli CARUCCI 1937, ID., Prefazione in CDS, III.
308
AC LXI, 57, a. 1300, BERGAMO 1946, pp. 142-144. Nel documento quando si riporta
l’azione di ricostruzione che dovrà compiere Oliviero si sottolinea che questa sarebbe avvenu-
ta impedimento videlicet guerre penitus inde remoto.
309
AC, LXIV, 106, a. 1310, ediz. BERGAMO 1946, pp. 145-148.
174 La Piana del Sele in età normanno-sveva

310
La sala sarà lunga sei canne (circa 12 metri), larga tre (circa tre metri) e alta venti palmi
(oltre quattro metri), ciascuna camera dovrà essere lunga tre canne (circa sei metri), larga due
(circa quattro metri) e alta quanto la sala.
311
A tale riguardo si veda infra, in part. il capitolo conclusivo.
312
Si veda a tal proposito DI MURO 2004.
313
Si pensi ad esempio ad alcuni ambienti del complesso di castel Vernieri a Salerno o alla
vicina stanza voltata a crociera nel complesso di Santa Maria a Corte.
314
Dei due archi ne rimane uno a nord, dell’altro, sulla parte opposta, si nota l’attacco
della curvatura.
315
Per l’edificio 4 quanto detto è ben visibile in elevato, per l’edificio 5 la relazione di
contemporaneità si osserva solo nella parte bassa del muro, l’unica superstite su questo lato.
316
Per la Puglia si veda ad es. PATITUCCI UGGERI 1983, pp. 114 ss. Per Salerno DE CRESCEN-
ZO, 1991, pp. 63 ss.
317
Per i caratteri dell’architettura di età sveva in generale si veda il classico H ASELOFF
1992.
318
Ad esempio nelle cantine del palazzo De Rosa, databile al XVI secolo, nel casale Valle
si può ancora osservarne un esemplare abbastanza integro.
319
Per il palazzo di Santa Maria a Corte residenza dell’arcivescovo di Salerno almeno a
partire dal XII secolo cfr. CARUCCI1937, pp. 51-52 e infra.
320
Il rinvenimento di scorie di lavorazione del ferro durante ricognizioni nei pressi di
edificio 10 testimonia la presenza di un fabbro e dunque ulteriormente la complessità dell’in-
sediamento.
321
CARUCCI 1937.
322
Per gli scavi al castello di Olevano DI MURO-LA MANNA 2004 in c.d.s.
323
Per la datazione delle torri si veda ID.
324
CDS I p. 242
325
CDS, I, p. 172. La morte di Ermanno di Salza avvenne il 18 marzo 1239, domenica di
Pasqua. Il castello sembra rimanere in custodia ai cavalieri teutonici fino al 1255. Teutonicum
è infatti anche l’ultimo custos del castello, Manegoldo, CDS I p. 242.
326
CDS I p. 242.
327
Per Caprarizzo si veda DI MURO 2004; si veda anche supra capitolo sui Casali.
328
Per questo argomento si veda ad es. TOUBERT 1979, pp. 70-71. Per la politica di Federico
II tendente a limitare la potenza dei baroni del Regnum cfr. ad. es. TRAMONTANA 1983, pp. 665-
667; SANTORO 1993 pp. 115-117. In generale si veda anche DI MURO-LA MANNA 2004.
329
KANTOROWITZ 1981.
330
CDS, I, p. 199. Di parere diverso Kristjan Toomaspoeg che indica proprio nella sottra-
zione del castrum Olibani da parte di Federico II all’ordine Teutonico alla morte di Ermanno il
segno tangibile della fine della collaborazione tra imperatore e cavalieri Teutonici, TOOMASPO-
EG 2004, p. 143. Per la continuità della presenza teutonica presso il castrum Olibani DALENA
2004 p. 168.
331
CDS, I, p.277; IANNONE 1988.
332
Si veda supra il capitolo sulla rete stradale.
333
Si veda ad esempio DTC, XV, 10, a. 1090. Nel documento domna Emma contessa di Eboli,
fa dono a San Nicola de Gallucanta di una casa foris murum castelli nostri Evuli, subtus porta que
de la terra dicitur, dove con terra si intende naturalmente l’insediamento accentrato fortificato.
Note 175

334
Nota precedente.
335
CDS I, pp. 142-143, a. 1223.
336
CARLONE 1998, 313, a. 1181.
337
IBID. Si fa riferimento a una terra iusto passu mensurata a nobis (il venditore) iudicibus
comuniter constituto et designato in marmore porte olim castelli huius civitatis. L’esposizione
dell’unità metrica stabilità nella distrettuazione di una città è fenomeno comune nel Medio-
evo: in genere questa avveniva nei pressi dei luoghi più frequentati quali le porte della città,
come ad Eboli, o la cattedrale, come testimoniato a Salerno a partire dal X secolo CARUCCI
1927 p. 67.
338
Ad es. DTC, XVIII, 113, a. 1110.
339
DTC, XXII, 51. Dubbi sull’autenticità dell’atto in CARLONE 1998, 108, n.2.
340
DTC, XXIII, 97.
341
Per la parrocchia di San Lorenzo.CRISCI-CAMPAGNA, 236-237.
342
DTC XIII 118, a. 1136. Per la chiesa CRISCI-CAMPAGNA pp. 238-239.
343
Il documento è riportato in un riconoscimento del XIII sec. si veda CARLONE 1998, 211.
344
DTC, XXIII, 93. La chiesa è ancora oggi aperta al culto, C RISCI-CAMPAGNA p. 242;
LONGOBARDI, 179-186.
345
CARLONE 1998, 532, a. 1214.
346
PAESANO, II, pp. 148-149. Quartiere coincidente con la parrocchia CARLONE 1998 , 659,
a. 1234.
347
CESTARO 1984, p. 117 che però fa risalire tale suddivisione ad età moderna.
348
Ultima attestazione diuna casa il legno DTC. XXIII, 97, a. 1135.
349
Case solarate nel quartiere San Lorenzo appaiono dopo il 1140: CARLONE 504, 534,
537, 538, 664, 739; San NIcola ID. 343, 738La stessa situazione si rinviene nei quartieri San
Barbato (ID. 406) e San Giovanni (ID. 659, 683).
350
Il documento è conservato presso l’archivio abbaziale cavense, reg. CARLONE 1998, 401.
351
A.e. 664 711.
352
Reg. in CARLONE 1998, 702.
353
IBID.
354
La vicenda di Silvestro, un rappresentante della classe medio-alta, certamente non un
nobile, che possiede un complesso che, per quanto se ne possa dedurre dalla fonte, si modella
sulle forme simboliche di rappresentazione proprie della nobiltà, lascia intravedere la vivacità
e la forte consapevolezza del proprio ruolo della classe media tra XII e XIII secolo ad Eboli,
testimoniata, certo ad un livello più basso, in qualche modo anche dalla condizione degli
artigiani e di alcuni mercanti, si veda infra. Per l’elenco di una parte dei numerosi possedimen-
ti di Silvestro, CARLONE 1998, 702.
355
Roberto concede decimas de omnibus redditibus nostris platearum plancarum tincte
calendre predicte terre nostre Eboli…liberi et exempti ab omni datione et ab omni iure dirittu-
re plateatici et portatici tam in personis quam in mercibus et in rebus suis quas intromittent in
Ebolum vel extraxerint de eodem. Il documento in PENNACCHINI, pp. 51-54.
356
DTC, XV, 10, a. 1090; nel documento risulta che Pietro a quella data è già morto.
357
CDC, VII, p. 30.
358
Anche a Salerno esiste un quartiere dei Barbuti nell’area del palatium arechiano e il
toponimo è stato messo in collegamento con la fase della conquista e del primo stanziamento
longobardo in città; si veda PEDUTO 1988, pp. 9 e ss.
176 La Piana del Sele in età normanno-sveva

359
DTC, C, 24. Vedi infra
360
DTC, B, 30.
361
DTC, XXII 15, in questo documento si ricorda una casalina all’interno del vico.
362
DTC, XXX, 57. Per la parrocchia si veda CRISCI-CAMPAGNA, pp. 234-235.
363
Pendino nella parrocchia di San Bartolomeo CARLONE 1998, 308.
364
CDV, V, pp. 298-301. Per la chiesa distrutta in seguito ai bombardamenti del 1943 si veda
CRISCI-CAMPAGNA, p. 234. L’area è ricordata nei documenti precedenti il 1168 come Francavilla
seu Carbonarium Domnicum CARLONE 180, a. 1151. Quest’ultima denominazione si spiega con
la presenza del fossato del castello sotto il muro meridionale. In un altro documento Francavilla
è infatti ricordata come foris muro de Terra Ebuli, CARLONE 1998, 188, a. 1154.
365
Quest’area doveva coincidere con le terre immediatamente al di là della porta della
Terra di Eboli in cui sono ricordate case a partire dal 1090, DTC, XV, 10, a. 1090
366
Tale impressione si deduce dalle numerose attestazioni di case nella parrocchia e nella
rarità della menzione di spazi liberi tra esse. Si vedano tra XII e XIII secolo CARLONE 1998,
232; ID., 299, ID. 406, ID. 416, ID. 475, ID. 568, ID. 675.
367
Si trattava della via più importante del castellum Evuli, Si veda ancora nel XVIII secolo
quetso percorso che entrava in Eboli attraverso la Porta della Terra in PACICHELLI (fig.)
368
CARLONE 1998 624 a. 1229; CARLONE 1998 675, a. 1238.
369
ID. 286, a. 1178; ID. 406 a. 1192.
370
Platea, ID. 371, a. 1189.
371
ID. 286, A. 1178.
372
ID. 371 a. 1189.
373
ID. 624 a. 1229.
374
ID. 299, a. 1179.
375
ID. 475, a. 1202.
376
ID. 624, a. 1229.
377
Prima attestazione in un documento conservato presso l’archivio diocesano salernitano
edito in PENNACCHINI pp. 55-56, a. 1109.
378
Si veda ad es. doc. del 1169 in CARLONE 1998, 236.
379
CARLONE 1998, 583. Il palazzo fu costruito dall’abbazia di Montevergine.
380
Per l’Ospedale di Montevergine ad Eboli infra.. Altre case appartenenti al monastero
irpino fondato da San Guglielmo da Vercelli CARLONE 1998, 583 a. 1222; ID. 601, a. 1225; ID.
626, a. 1230
381
CARLONE 1998, 583 a. 1222; ID. 626, a. 1230.
382
CARLONE 1998, 565, a 1219.
383
CARLONE 1998, 236, a. 1169.
384
ID. 583, a. 1222.
385
Ponte di S. Elia, CARLONE 1998, n144 a. 1138; porta di S. Elia, reg. CARLONE 1998, a.
1223.
386
BALDUCCI, I, 28, a. 1138.
387
La fondazione avvenne alla fine dell’XI secolo. La notizia si ricava da un documento
del 1163, reg. BALDUCCI, I, n. 24.
388
CARLONE 1998, 383, a. 1189; 425, a. 1193.
389
Reg. CARLONE 257 a. 1172.
390
ID. 580.
Note 177

391
CARLONE 1998, 701, a. 1242.
392
BALDUCCI, I, 91.
393
CARLONE 1998 672.
394
CARLONE 1998, 692. Benvenuto è ricordato anche in una carta del 1239 come fideiusso-
re in una donazione CARLONE 1998, 682.
395
DTC, XLVIII, 8.
396
DTC, XXIII, 93.
397
CARLONE 1998, 699, 700 (a. 1241)
398
CARLONE1998, 726.
399
CARLONE 1998, 674, a. 1237; ID. 781, a. 1264. Risulta difficile stabilire se si tratti di
Firenze o di Forenza in Lucania.
400
Nel 1255 come fideiussore in un affidamento di un oliveto CARLONE 1998, 752 e nello
stesso anno come compratore di un oliveto per ben sei once d’oro, I D. 757.
401
Così ad es. nel quartiere San Lorenzo, CARLONE 1998, 739, a. 1255
402
La relativa estensione del borgo per l’età considerata si deduce anche dal fatto che
talune chiese, oggi all’interno del centro storico, erano ancora al di là delle mura nel XIII
secolo: così ad esempio San Biagio, CARLONE 658, a. 1234, ricordata sulla collina di S. Andrea
o San Matteo.
403
Ad es. CARLONE 1998, 671, a. 1236.
404
RUGGIERO 1977, pp. 65-66.
405
Documento del pontefice Alessandro II PAESANO II, 176-179, a. 1169 che però non
ricorda l’arcipretura ebolitana. Si veda l’edizione completa del documento in N ATELLA 1984.
Prima attestazione di un arciprete ad Eboli nel 1164, CARLONE 1998, 218. L’arciprete Cennamo
risulta già morto in quest’anno.
406
CDS, I, pp. 130-131.
407
DTC, XLVI, 98.
408
DTC, XLVIII, 28
409
AC, XXXVIII, 9.
410
AC, XLI, 9. L’antichità del muro in questi anni fa forse ritenere la presenza di un
villaggio accentrato già in età longobarda. In ogni caso nessuna traccia del muro è giunta fino
ai nostri giorni.
411
CDS, I, p. 159.
412
CDS, I, pp. 244-246
413
CDS, I, pp. 247-248.
414
Si veda il paragrafo sulla viabilità. Per la via che da Eboli va a Battipaglia (via puplica
ebulensis) DTC, XLII, n. 37, a. 1189. Il percorso è noto nel XII secolo anche come via que
pergit de Bactipalea DTC, XVII, 111.
415
A questo proposito rimando al mio DI MURO 2000
416
Un indice dell’antichità di questi insediamenti potrebbe essere individuato nel fatto che
il castello di Monte fu donato alla Chiesa salernitana da un certo Rainaldo, già morto nel 1164,
PENNACCHINI, p. 84.
417
ID., p. 90.
418
SEFILIPPO, p. 14.
419
PENNACCHINI, p. 91, a. 1164. Di Santa Lucia rimane traccia toponomastica non lontano
dalla chiesa di Santa Maria la Nova a Furano, tra Eboli e Campagna che da essa mutua il nome.
178 La Piana del Sele in età normanno-sveva

420
ID. p. 95.
421
ID. p. 98.
422
ID., pp. 99-108.
423
Dico almeno quattro perché nel documento si fa riferimento ad un altro castilluzzu
dirutum tra Sancta Teccla e Pancia (PENNACCHINI, p. 91), ma in maniera non chiara per cui
potrebbe trattarsi dello stesso castello di Sancta Teccla. Nonostante alcuni sopralluoghi non
sistematici non ho ancora individuato nel territorio le tracce di questi insediamenti, ma penso
di avere dei risultati dalle ricognizioni che ho progettato di effettuare nel territorio durante i
mesi estivi.
424
La chiesa è detta monasterium sancti Petri Apostoli quod situm est foris et prope castel-
lum Evoli., DTC, XV, 19. Si veda BERGAMO pp. 87 ss.
425
Dovrebbe trattarsi di una falsificazione del XII secolo, CARLONE1998, p. 25, num.49, n. 2.
426
DTC, E, 3. Si nutrono tuttavia sospetti anche su questo documento sulla base di un
errore di computo dell’indizione CARLONE1998, p. 34, num. 69, nota 2.
427
Il primo a riportare il testo PESANO II, p. 147.
428
PAESANO II, p. 147-149. Nell’edizione del Paesano manca la menzione di San Vito
minore riportata da CARLONE 1998, 209.
429
Tuttavia la chiesa di San Giovanni è ricordata come parrocchia, si veda supra.
430
Si veda ad es. il privilegio di papa Alessandro III ID., p. 177.
431
CDS, I, pp. 114-117, a. 1219.
432
In generale ALBANO-AMATRUDA 1995.
433
Per le tarsie del duomo di Salerno KALBY 1971.
434
Si veda ad es. la cattedrale di Caserta Vecchia.
435
Per il campanile del Duomo di Salerno ad es. S CHIAVO 1966; CARUCCI-PECORARO 1977.
D’ONOFRIO-PACE 1981.
436
Sull’argomento ALBANO-AMATRUDA 1995, pp. 34-35.
437
Le transenne di Compulteria dovrebbero datarsi all’VIII-IX secolo. si veda ad es. I
Longobardi 1992.
438
Si veda DELL’ACQUA2002.
439
Su questa chiesa da ultimo BELLI D’ELIA 2003, pp. 61-69.
440
DELL’ACQUA 2002, p. 33.
441
Per la tradizione palermitana si rimanda ancora una volta a D ELL’ACQUA 2002, pp. 22-
25. Mentre mi accingevo a consegnare alla stampa questo lavoro ho ricevuto da Francesca
Dell’Acqua le bozze di un suo articolo dove, tra le altre cose, si sottolinea il legame delle
transenne ebolitane con la cultura araba. DELL’ACQUA 2004 in c.d.s. Approfitto per ringraziare
l’Autrice della cortese segnalazione.
442
Ad esempio con gli affreschi oggi in gran parte perduti di Sant’Angelo a San Chirico
Raparo (PZ) per cui si veda BERTAUX 1903 pp. 122-124. In particolare le affinità si colgono con
i Padri della Chiesa raffigurati nella zona absidale. La datazione della seconda fase degli affre-
schi di Sant’Angelo alla metà del XII sec. in BERTELLI 1994 pp. 451 ss. Altri confronti si posso-
no istituire con gli affreschi del XII secolo nella chiesa della Panaghia a Rossano Calabro.
443
Si veda a tal proposito l’Indice in CARLONE 1998.
444
Si veda infra il paragrafo sui mestieri.
445
Sulle epigrafi che ricordano gli architetti in età medievale veda ad es. F RANCHETTI
PARDO 1991, pp. 193 ss.
Note 179

446
Per i confronti architettonici si veda infra.
447
Di questa opinione anche PAESANO 1846, II, p. 147, BERGAMO 1946 p. 88 e più di
recente ALBANO-AMATRUDA 1995, p. 30 che però fondano la loro opinione su malsicure fonti
scritte o interpretando erroneamente alcuni documenti come in ALBANO-AMATRUDA1995, p. 31
quando si fa riferimento ad una carta del 1089 DTC, C, 8, in cui si parla di una chiesa di san
Pietro que nunc diruta est riferendola al San Pietro di Eboli quando invece si tratta, come
specifica il documento, della chiesa di San Pietro presso il Tusciano.
448
San Berniero, monaco spagnolo vissuto tra X e XI secolo, dopo un pellegrinaggio a
Roma, si fermò nel territorio di Eboli conducendo vita di eremita nei pressi del fiume Sele,
dove costruì anche una chiesa. La sua fama di santità e di esorcista ne fece oggetto di venera-
zione già in vita. Sulla vita di San Berniero si veda AA SS, Octobris VII, 15-16, pp. 1184-1189.
Per la chiesa costruita da san Berniero nei pressi del ponte della popilia si veda infra, il paragra-
fo sull’ambiente naturale.
449
Già nel 1155 compare come rappresentante di Guglielmo a Benevento, insieme all’ar-
civescovo di Palermo, l’abate di Cava e Maione di Bari per la stipula del famoso trattato che
andò a regolare i rapporti tra la Santa sede e il Regno dopo le ribellioni seguite all’elevazione
al trono di Guglielmo ROMUALDO p. 428; si veda CARUCCI 1922, p. 325.
450
si veda ad es. KITZINGER 1983 pp. 167-70, in partic. p. 169.
451
Ad esempio PACEin D’ONOFRIO-PACE 1981, p. 247.
452
Per le transenne a ‘giorno’ a Palermo e in Sicilia si veda DELL’ACQUA 2002.
453
In generale si veda CHALANDON II, pp. 232 ss.
454
Tra le altre cose Adriano IV riconobbe Guglielmo signore di Salerno, CHALANDON, II, p. 235.
455
PEDUTO1984. pp. 70 ss.
456
Si veda in generale D’ONOFRIO-PACE 1981.
457
Per il percorso di queste due importanti strade nel Medioevo si veda D ALENA 2003 b.
Quest’ultima strada era nota nel XVIII secolo come via di Capaccio.
458
CARLONE1998, n. 550.
459
ID., n. 743, p. 331.
460
Per l’ordine degli ospitalieri o giovanniti si rimanda infra al capitolo conclusivo.
461
Un parallelo tipologico valido per alcuni aspetti può considerarsi l’impianto della
cattedrale di Caserta Vecchia D’ONOFRIO-PACE 1981.
462
La chiesa di Poggiboinsi costituiva fino ad oggi pressoché l’unica testimonianza nota
di un complesso ospedaliero giovannita in Italia del XIII secolo. Secondo l’opinione dei più
accreditati studiosi di storia dell’architettura medievale sarebbe stato da escludere un modello
comune di architettura sacra giovannita, adattandosi i vari edifici alle locali culture costruttive.
L’esempio di Eboli sembra smentire questa tesi. (MORETTI 1997).Per una prima mappatura dei
possedimenti degli Ospedalieri in Italia meridionale B RESC BAUTIER 1975, p. 37, fig. 5.
463
Si veda DI MURO 1994, pp. 81-83.
464
PEDUTO 1990, DI MURO 1994
465
IANNONE 1988, p. 211.
466
Ibid.
467
Per il testo agiografico relativo alla vicenda di Vito e i suoi compagni e per l’individua-
zione del sito cfr. MELLO 1988, pp. 12-23. Il Santo ebbe nella zona un culto notevole come
dimostrano gli episodi della Grotta dell’Angelo e la cappella principesca di Montecorvino
Pugliano, si veda a tal proposito DI MURO 1993, pp. 63 ss.
180 La Piana del Sele in età normanno-sveva

468
DE ROSSI 1995, in part. pp. 137-143. La fase descritta sopra è l’unica datata in maniera
convincente mentre per le altre gli scavatori si sono basati esclusivamente sui rapporti tra le
strutture murarie.
469
PAESANO 1867, II, pp. 148-149. Una lettura più corretta in C ARLONE1998, 209.
470
Così già nel 1169 il pontefice Alessandro III ricordava tra le pertinenze della Chiesa
salernitana San Pietro Apostolo e una sola chiesa di San Vito, NATELLA 1984, pp. 26-27.
471
Il Peduto ipotizza che il villaggio di San Vito fosse collegato ad un approdo fluviale
insabbiato dalle frequenti inondazioni del Sele, PEDUTO 1984, pp. 73-74; di questo porto peraltro
non sussistono tracce nella documentazione scritta. Per il sito di San Vito si veda anche infra.
472
San Vito si trova nelle immediate vicinanze di Mercatellum, cfr. infra.
473
ZUCCARO 1977; DI MURO 1993.
474
DI MURO et alii 2003.
475
Ibid.
476
Ibid.
477
Che si tratti del monaco burdigalense è stato sostenuto ad es. da Paolo Peduto nel
giugno del 2004 nel corso della presentazione del CD rom sui Longobardi a Salerno prodotto
dalla Soprintendenza ai BAPSAAD di Saleno e Avellino.
478
D’ANGELA 1994 pp. 247-261.
479
FALCONE BENEVENTANO pp. 202-204.
480
Per il privilegio concesso da Anacleto II a Ruggero si veda ad es. HOUBEN 1999, pp. 68 ss.
481
CDC, II, p. 212, a. 977 (terre tra il Tusciano e il Laneo); GALANTE 1984, pp. 5-9 (oltre il
Tusciano), a. 1020; CDC, V, p. 244, a. 1033 (sulla sponda sinistra del fiume); CDC, VI, pp. 37-
38, a. 1035 (vicino Sant’Arcangelo); CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano);
CDC, VII, p. 96, a. 1049 (nei pressi di Vallemonio); CDC, VII, pp. 203-205, a. 1053 (vicino
San Mattia); CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 (ad est del Tusciano).
482
CDC, II, pp. 138-139, a. 980 (al di qua del Tusciano, vicino al fiume); CDC, III, p. 86,
a. 998; CDC, IV, pp. 9-10, a. 1002 (in loco Pinu); GALANTE 1984, pp. 5-9 (oltre il Tusciano) a.
1020; CDC, V, pp. 65-66, a. 1023 (ad est del Tusciano); CDC, VII, pp. 111-113, a. 1039 (sulla
riva sinistra del fiume); CDC, VII, pp. 203-205, a. 1053 (vicino San Mattia); PENNACCHINI, pp.
48-50, a. 1081 (Vallemonium).
483
Poma, GALANTE 1984, pp. 5-9, a. 1020; CDC, V, p. 244, a. 1033 (sulla sponda sinistra
del fiume); CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano); CDC, VII, pp. 203-205, a.
1053 (vicino San Mattia).
484
CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (riva sinistra del Tusciano).
485
CDC, VII, P. 96, pp. 100-101, a. 1049 (tra Vallemonio e Tusciano), due terra cum
olibeto distinte.
486
GALANTE 1984, pp. 5-9, a. 1020; CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano);
CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 (ad est del Tusciano).
487
Si veda ad es. CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 in cui si fa riferimento a ben 6 fondi tra
loro confinanti affidate a 5 concessionari diversi.
488
L’ultimo documento in cui si parla esplicitamente di dissodare una terra (roncare) è una
traditio ‘mista’ in cui, accanto al compito di seminare un campo, si domanda al concessionario
di dissodare una selva ista parte et erga ipso flubio Tusciano, CDC, II, pp. 138-139, a. 980.
489
Tra il 998 e il 1054 sono attestati 5 contratti ad laborandum (CDC, III, p. 86, a. 998;
CDC, IV, pp. 9-10, a. 1002; CDC, V, pp. 65-66, a. 1023; CDC, VI, pp. 111-113 [due terre
Note 181

concesse ad laborandum ed una ad pastenandum]; CDC, VII, pp. 203-205 [una parte della terra
andrà pastenata]; C’è infine la già ricordata donazione del 1054 in cui si ricordano 6 fondi
contermini concessi ad laborandum, CDC, VII, pp. 258-259.) a fronte di due ad pastenan-
dum,. (CDC, V, pp. 244-245, a. 1033; CDC, VI, pp. 111-113 [due terre concesse ad laboran-
dum ed una ad pastenandum]).
490
Probabilmente fu anche l’allentamento di alcuni vincoli familiari a provocare lo sfalda-
mento di alcuni dominii comuni, la cui origine va forse collegata alle concessioni di terre
fiscali dei duchi e dei principi longobardi a loro fideles capostipiti delle famiglie comitali.
491
Si tratta di Grimoaldo gastaldo figlio di Roffrit, Pietro gastaldo figlio di Pietro e Lande-
nolfo figlio di Landenolfo, zio e nipoti, CDC, IV, pp. 176-177.
492
CDC, V, pp. 122-123, a. 1026; I convenuti sono: Giaquinto conte figlio di Gaudone
giudice, Giovanni conte figlio di Pietro, i fratelli Landolfo e Landemario figli di Maraldo,
Truppoaldo figlio di Gaidone, i conti Giaquinto, Landone e Disigio figli del conte Disidio,
Guaiferio e Giaquinto figli di Potefrid, Pietro conte figlio di Arechi e Dauferio figlio di Ado.
Come si vede sono quasi tutti insigniti del titolo comitale e i loro genitori tutti defunti, fatto
quest’ultimo che forse favorì la divisione.
493
CDC, II, pp. 138-139.
494
Oltre agli esempi riportati si veda in generale la Tab I.
495
DTC, XIV, 13.
496
DTC, C, 17.
497
DTC, XIV, 117.
498
DTC, C, 19.
499
DTC, E, 3.
500
DTC, XVII, 111.
501
DTC, XXIV, 45, a. 1138.
502
Forse nella contrada San Felice era una predominanza del castagneto, ma i documenti
sono numericamente troppo esigui per affermare con sicurezza ciò.
503
Solo per il primo periodo si è scelto un intervallo di 65 anni, per lo scarso numero di
documenti redatti tra il 1085 e il 1099.
504
E’ noto che laboratoria derivi da labor, grano; che con questo aggettivo si intendesse
terra coltivataa cereali si deduce anche da alcuni documenti in cui in uno stesso documento si
fa riferimento a terre diverse coltibìvate ad es. a vigna, a orto e laboratoria (DTC XXXV, 20 a.
1175; altri esempi, DTC, XLI, 99 a. 1188; DTC XLII, 74, a. 1190), o nei contratti agrari dove
il concedente in cambio dell’affidamento di terra laboratoria richiede il terratico, ovvero una
parte della produzione di grano (es. DTC XXII, 22 a. 1126)
505
Ad esempio in una concessione nel locus Tuscianus del 1132 un tale Glorioso affida al
chierico Amato una terra con arbusto, vacuo e alberi affinché vi pianti viti ed alberi fruttiferi; il
concessionario dovrà versare annualmente come corresponsione parte delle colture impiantate
ossia grano, fichi, noci olive e altri frutti dopo averli essiccati (DTC, XXXII, 42). Da questo
documento si evince dunque come nei fruttiferi rientrassero spesso anche gli alberi di ulivo.
506
Per un quadro della situazione idrografica medievale nella piana tra il Tusciano e il Sele
DI MURO 1993, ID 2001.
507
DI MURO 2001; si veda anche infra il paragrafo Considerazioni.
508
Se si considera il periodo 1175-1200 le attestazioni di terre coltivate a cereali raggiun-
gono il 70% delle attestazioni totali.
182 La Piana del Sele in età normanno-sveva

509
DTC, XXX, 51.
510
DTC, XXXIII, 26
511
DTC, XXXIII, 83.
512
DTC, XXXIV, 26.
513
DTC, XXXV, 84
514
DTC, XXXV, 56.
515
DTC, XXXVI, 14.
516
DTC, XXXVIII, 9.
517
DTC XXXIX, 37.
518
DTC, XXXIX, 79.
519
DTC, XL, 94.
520
DTC, XLI, 99.
521
Si veda ad es. DTC,XV, 10 (orto fuori dalla porta della Terra); CARLONE 1998, 257, a.
1172 (orto nel sobborgo Santa Trinità); ID., 308, a. 1181, (orto e fruttiferi nella località Pendi-
no); ID. 371 a. 1189 (vigna nel quartiere di San Bartolomeo, loc. Francavilla).
522
Per il Mezzogiorno ad es. VITOLO 1987 con bibliografia.
523
Si vedano i documenti CDV, VI, pp. 197-199, a. 1173; CARLONE 1998, 374, a. 1189: ID.,
407, a. 1192; ID., 454, 1196; ID., 483, a. 1203; ID., 518, a. 1212; ID., 520, a. 1212; ID., 521, a.
1212; ID., 523, a. 1212.
524
CARLONE 1998., 407, a. 1192; ID., 429, a. 1193; ID., 486, a. 1203; ID., 507, a. 1210; ID.,
520, a. 1212. ID., 523, a. 1212.
525
Si veda supra.
526
CARLONE 1998, , 112, a. 1129; ID., 159, a. 1143; ID., 184, a. 1153; ID., 192, a. 1156; ID.,
198, a. 1157.
527
CARLONE 1998, 216, a. 1163, ID., 218, a. 1164: ID, 226, a. 1166: ID., 227, a. 1166; ID.,
229, a. 1167; ID., 276, a. 1176; ID.n 312, a. 1181; ID., 323, a. 1182; ID., 328, a. 1182; ID., 339, a.
1184; ID., 352, a. 1186; ID. 403, a. 1192; ID., 429, a. 1193; ID., 434, a. 1195; ID., 437, a. 1195;
ID., 453, a. 1196; ID., 457, a. 1197.
528
CARLONE 1998, 216, a. 1163; ID., 227, a. 1166; ID., 434, a. 1195; ID., 453, a. 1196.
529
CARLONE 1998, 424, a. 1193 (2 uliveti); ID., 453, a. 1196; ID., 455, a. 1196.
530
CARLONE 1998, 424, a. 1193; ID., 429, a. 1193; ID., 438, a. 1195.
531
Si veda a tal proposito PIVANO 1904, pp. 283-302; LIZIER 1907, pp. 80-86; DEL TREPPO
1977, pp. 24-25.
532
Cfr. tab. 3. Si tenga conto che per vacua sembra intendersi sia la terra vuota di ogni
coltura sia la terra a seminativo nudo al momento vuota di piante.
533
Per le terre a S-E di Salerno DI MURO 2001.
534
Supra, capitolo su Eboli.
535
DTC, XLVIII, 55.
536
DTC, XLVIII, 79.
537
CARLONE 1999, n. 751, a. 1254. Altro impianti di oliveto da parte dell’abbazia di Mon-
tevergine ad Eboli (ID., 678, a. 1238)
538
E’ noto come gli oliveti delle fonti di quest’epoca fossero in genere delle coltivazioni
ridottissime, utilizzati fore più per il frutto da consumare che per produrre olio. Anche nei
nostri documenti si rinvengono oliveti di questo tipo ad. es, nel 1214 si ricorda un oliveto
Note 183

costituito da tre piante di ulivo nei pressi di Eboli (CARLONE 1999, n. 542, a. 1214). o nel 1230
una terra ancora con tre olivi nella località Pezza di Eboli (I D., n. 636, a. 1232)
539
Supra parte relativa ai casali.
540
Le parrocchie in particolare. Si veda, ad esempio, la parrocchia di sant’Elia di Eboli il
cui rettore Nicola nel 1157 concede un pezzo di terra per 32 tarì DTC, XXIX, 101. Per altri
esempi si veda infra.
541
Sulla questione FONSECA 1982; RUGGIERO 1973, ID., 1991. Non mancano tuttavia atte-
stazioni di chiese private nel territorio considerato fino a tutto il XII secolo, si veda ad es. supra
la chiesa di Santa Maria de Calcarola appartenente alla famiglia Guarna nel casale Tusciano.
542
Si veda il capitolo sulla ricostruzione viaria, parte relativa a Mercatellum.
543
CDC, V, pp. 171-172. Per la dinastia del conte Disigio si veda D I MURO 2000.
544
Solo due manule de siricum impreziosiscono l’elenco delle vesti liturgiche.
545
CDC, V, pp. 4-5. La palude è ricordata a nord del lago in CDC, V, p. 207, a. 1031.
546
Cfr. supra capitolo sul territorio nel periodo tardo antico.
547
La studiosa insieme a Zanotti Bianco, nei giorni precedenti all’individuazione del sito
dell’Heraion provvide a scavare una parte della chiesa nella speranza di trovare al di sotto i
resti del celebre santuario magno-greco, ma dei materiali che presumibilmente furono portati
alla luce non si fa alcun accenno nella pubblicazione, ZANCANI MONTUORO- ZANOTTI BIANCO,
pp. 214-215.
548
CDC, V, pp. 207-208.
549
CDC, VI, pp. 148-150.
550
La comunione nel possesso della chiesa, del lago, dei guadi sul fiume e sulle peschiere
è esplicitato alla fine del documento di divisione, ivi, p. 150. Nelle carte di collazione del 1043
e del 1045 compaiono come domini communi della chiesa Landone e i figli di Giaquinto,
CDC,VI, pp. 225-226, a. 1043; ivi, pp. 282-283, a. 1045.
551
Ivi, p. 150.
552
In quest’ultima trovavano posto un salterio, due antifonari e un libro contenente le
letture per tutto l’anno liturgico, CDC, V, p. 171.
553
CDC, VI, pp. 225-226.
554
Si ricordano 12 giumente, 4 puledri de oc anno, 7 vacche maiori , un paio di buoi. Non
si dà infine il numero delle capre e dei porci pur presenti nelle stalle della chiesa. CDC, VI, pp.
283-284, a. 1045.
555
Così ad es. LEONE-VITOLO 1986, p. 390. Secondo gli Autori l’acquisizione da parte della
badia di Cava consentì la ripresa della chiesa che risulta diruta nel 1160 e poi di nuovo attiva
nei decenni successivi Ibid.
556
PENNACCHINI 1942, pp. 55-56.
557
BALDUCCI, I, 24, a. 1164.
558
Si veda supra, paragrafo relativo a San Pietro alli Marmi.
559
Sul missus in età longobarda ad es. ANDREOLLI 1988.
560
DI MURO 2004 in c.d.s.
561
La prima menzione del bosco si ha in una compravendita del 799, CDC, I, p. 3 ed è
ancora ricordato in un documento emanato dal duca Ruggero Borsa nel 1089, conservato negli
archivi della Badia di Cava a trascritto in DTC, C, 17, in cui il figlio del Guiscardo dona
all’abbazia cavense tra le altre cose il cenobio di san Mattia. Proprio ad oriente della tenuta
nella quale sorge l’edificio sacro il duca ricorda la silva nostra.
184 La Piana del Sele in età normanno-sveva

562
Per la colonizzazione della Piana vedi supra, più in generale per l’età longobarda D I
MURO 2001.
563
Usata anche come bosco per legna nel XII secolo. vedi infra
564
Selve nel tenimento di Petta sono ricordate nella conferma di Roberto di Principato alla
Chiesa salernitana del 1090 PENNACCHINI 1942, pp. 51-54.
565
Ibid.
566
DTC, XXIV, 84, a. 1137. Quercieto è anche una contrada del casale Tusciano (vedi
supra). Querce si rinvengono con una relativa frequenza nelle transazioni, segno del valore che
era loro assegnato particolarmente per il nutrimento dei maiali .
567
CDC, V, p. 53, a. 1022.
568
CDC, VI, p. 52.
569
Sui dissodoamnti altomedievali della pianura tra Salerno e il Sele D I MURO 2001.
570
Contrada Populi Raonis DTC, XXIX, 45, a. 1157.
571
Mortitum, CDC, V, p. 32, a. 1020.
572
Sabuci, CDC, V, p. 200, a. 1029.
573
Piru, CDC,VIII, p. 203, a. 1010 (inserto)
574
Per essi si rimanda al capitolo sui prodotti della terra.
575
Sorbum, CDC, V, p. 33, a. 972 (ins.)
576
CDC, VI, p. 149, a. 1041, in pantano de tammarici nei pressi della foce del Sele.
577
Per i molina destructa CDC, VII, p. 51, a. 1047; per i ponti sul Picentino e sul Tusciano
CDS, II, p. 32, a. 1302.
578
Per questi laghi costieri si rimanda a DI MURO 2001.
579
DTC, XXI, 119, a. 1125.
580
DI MURO 2000.
581
Significativamente una contrada tra queste colline era chiamata Padule, PENNACCHINI,
p. 92, a. 1163.
582
L’Itinerarium Bernardi è stato edito in T. TOBLER - A. MOLINER, Itinera hierosolymitana
et descriptiones Terrae Sanctae bellis sacris anteriora et latina lingua exarata, I, 2, Genevae
1880, p. 318.
583
Faitum Documento del 1158 in RIVELLI, p. 97
584
Si veda a tal proposito ad esempio FUMAGALLI 1978, pp. 73-75.
585
DTC, XVI, 81.
586
DI MEO, a. 833, n. 6.
587
Il documento è riportato in GALANTE 1980, p. 159.
588
L’episodio è narrato in Chron. Sal., c. 43, pp. 44-45.
589
Chron. Sal. c. 92, pp. 92-93.
590
Chron. Sal. c. 56, p. 57.
591
Supra.
592
Non si hanno tuttavia notizie certe di soggiorni di Federico II a Eboli.
593
CORRAO 1989, p. 149, n.41. Per la natura delle difese si veda Ibid. passim.
594
HUILLARD-BREHOLLES, V/2, pp. 669-670.
595
Per la natura della defensa di età federiciana e in particolare di questa come luogo
riservato esclusivamente alla caccia dell’imperatore si veda WILLEMSEN 1989, pp. 266-267
596
GIULIANI 1984, pp. 99 ss.
597
DTC, XXV, 6
Note 185

598
Per l’oasi naturalistica di Serre-Persano si veda M. K ALBY 1984, pp. 134-143.
599
E’ noto che l’imperatore ordinò di procurare gru vive per addestrare i suoi falconi nelle
sue domus, cfr. WILLEMSEN 1987, p. 269.
600
Lo Statuto di età vicereale è riportato in CARUCCI 1937 in appendice alla sua opera pp.
125 e ss. In particolare per i lupi si veda p. 141.
601
Ibid., p. 126.
602
CASSESE, p. 26, a. 987 ; CDC, VIII, p. 275, a. 1065.
603
CARLONE 1998, 639, a. 1232.
604
CDC, II, p. 26.
605
PENNACCHINI, p. 44.
606
PAESANO, I, 123, a. 1067.
607
Per l’estensione della tenuta di Campolongo ABBINENTE 2002.
608
Conferma di Roberto Guiscardo del 1080, ed. P AESANO I, p. 136-137.
609
PENNACCHINI, p. 153, documento di concessione di Gisulfo II di Salerno a. 1062.
610
Nel XVII secolo l’allevamento risultava l’attività preponderante nella pianura tra Tu-
sciano e Sele, BACCO 1629, p. 191.
611
ID., p. 58.
612
PAESANO, II, p. 54.
613
PENNACCHINI pp.119-122.
614
Gli uomini coinvolti nella vicenda provengono dai casali di santa Cecilia, di Sant’Ar-
cangelo e di Olevano, CDS, I, p. 436.
615
DTC, XLVIII, n. 46, a. 1225.
616
Recita la charta collationis del 1020 che si ibidem intraberit animalia biba, aut tale
causa que ad ornamentum fuerit de ipsa ecclesia, semper siant ad potestate de ipsa ecclesia
…et de ipsi animaliis et de filiis filiabus quod fecerit, cotidie cura et bigilatione ipse presbiter
abere, et faciant abere, ut proficiant, CDC, V, pp. 171-172.
617
CDC, VI, p. 227, a. 1043, ma le medesime clausole valgono nel 1045 (ivi, p. 283) e nel
1049, CDC, VII, p. 45.
618
CDC, VI, 283, a. 1045.
619
PAESANO, I, p. 91.
620
Esenzione ai monaci di Cava da aliquam dationem …in transeundo vel redeundo flu-
men quod Siler dicitur pro se vel pro servientibus sis seu pro animalibus vel aliis rebus, LEONE,
E, 35, a. 1114.
621
CDC, I, pp. 185, a. 926. Tra le donazioni che riceve San Massimo ci sono anche pa-
scuis.
622
CDC, VII, p. 163, a. 1051. Santa Sofia concede ai coloni di alcune sue terre la facoltà di
utilizzare i suoi pascuis animalis eorum ad passendum.
623
CDC, VI, p. 203.
624
Di seguito si citano alcuni titoli dei capitoli Da non far massaria de porci dentro li
casali; Contene de carne de porco et de castrato; Carne de scrofa; Contene de carne de porco
et de scrofa; Carne de porco et de scrofa a cantàro; Capo e pedi de carne de porco et de scrofa;
Delli porci mandarini; ed. CARUCCI, pp. 130, 113, 134, 136, 138.
625
CDC, V, p. 47.
626
CDC, IV, p. 181, a. 1011.
627
DTC, XLVIII, n. 46 nella misura della decima parte della produzione annua complessiva.
186 La Piana del Sele in età normanno-sveva

628
a. 1104 DTC, XVII; 111.
629
AC, XXII, 83, a. 1129.
630
CDC, VIII, p. 51 a. 976 (inserto) propriamente il brago dove i maiali usano crogiolarsi
,anche se in questo caso mi pare debba trattarsi di animali dai lunghi peli (capilluti),
631
Un altro toponimo legato all’allevamento è forse Bubuliano da bubulus = bufalo, men-
zionalo nei pressi del casale Padule di Eboli nel 1164 (PENNACCHINI, p. 90). Attestazioni di
allevamento nella piana Buoi DTC, D, 50, a. 1104, maiali DTC, XXIII, dtc, xxxv, 57.
632
CARLONE 1998, 470. Negli stessi anni con un oncia d’oro si poteva acquistare una terra
vineata nei pressi di Eboli CARLONE 1998,469 a. 1201 e con mezza oncia d’oro una casa con
clibano nella parrocchia di San Lorenzo ad Eboli (C ARLONE 480, a. 1202).
633
CARLONE 1998, 423.
634
CDC, VI,. p. 283
635
CARLONE 1998, 184.
636
ID., 257.
637
CARLONE 1998, 356-357.
638
DTC, XXI, 73. Il documento è sospetto di adulterazione C ARLONE 1998, 92, n. 1.
639
CARLONE 1998, 237 a. 1170; CDV, VI, pp. 299-301 a. 1181.
640
DTC, XXXI, 19, a. 1163; DTC, XXXVII, 19, a. 1181, DTC, XLIII, 25, a. 1192.
641
BALDUCCI, I, pp. 40-41, a. 1223.
642
CDC, III, p. 1.
643
Rot., rubrica 155.
644
Liut., Leggi de anno nono, 19.
645
Vito Fumagalli ha ben tratteggiato i profili umani di questa gente la cui vita si svolgeva
tra le foreste e le stalle, talora avvezza più alle bestie che agli uomini, come dimostrano alcuni
soprannomi ricordati nella documentazione medievale quali ‘cane’ o ‘pazzo’, FUMAGALLI 1976,
pp. 27-28.
646
PENNACCHINI p. 56. Questo il significato attribuito alla frase anche dall’editore: infatti la
locuzione si inserisce in un contesto di richieste legate alle offerte ricevute in occasione delle
festività più sentite e, si può presumenre, remunerative per le casse della chiesa (immediata-
mente prima si era fatto riferimento alle oblazioni ricevute nel tempo di Pasqua e Natale).
647
In questo giorno convengono davanti alle chiese gli animali domestici per ricevere la
benedizione. Ancora oggi ad Eboli sul sagrato della chiesa di Santa Maria ad intra il 17 gennaio
si impartisce la benedizione degli animali. Anche la festa di San Vito è legata in qualche modo
alle celebrazione delle attività di allevamento: fino al dopoguerra infatti presso il santuario del
Sele si recavano numerosi allevatori con buoi e altri animali adorni di fiocchi e paramenti
policromi. In molti paesi della Sicilia, regione d’origine di Vito, ancora oggi si assiste alla
benedizione degli animali nel giorno della festa di San Vito.
648
Non conosco nella documentazione salernitana richieste analoghe.
649
FILIPPONE 1993, p. 18.
650
Le ville del Cervialto, localizzate nei pressi di Caposele (AV) in GIARDINA 1981, p. 92.
Nell’epigrafe di Caposele datata al I secolo d. C., in un contesto di donazioni di fondi montani
dotati di ville per il culto del dio Silvano e dell’imperatore Domiziano, si ricorda anche la
concessione di una fonte per l’abbeveraggio di animali allevati in un azienda posta sulle terre
donate. L’epigrafe in BRACCO, p. 8. Vedi anche FILIPPONE 1993, p. 18.
Note 187

651
Per la piana del Sele come meta tradizionale della transumanza dall’alta valle del Sele
cfr. FILIPPONE, p. 18.
652
HUILLARD-BREHOLLES, III, PP. 259-262.
653
Così CARLONE 1998, 634, n. 1.
654
Si veda ad es. CHERUBINI 1996, p. 28.
655
Cfr. supra paragrafo relativo all’Agricoltura.
656
CHERUBINI 1996 p.30. Riporto per esteso il famoso schema del Cherubini: poco forag-
gio = poco bestiame = poco concime = poca produttività della terra = molto lavoro umano =
molte bocche da sfamare = molte terre a grano= poca produzione di foraggi.
657
Per la distribuzione e lo sfruttamento razionale delle risorse agro-silvo-pastorali nella
terra di Eboli si rimanda alle Conclusioni (infra).
658
ADS, I, n. 15.
659
PAESANO II, p. 177. Il privilegio sulle decime dei boschi del Sele derivava evidentemen-
te dalla concessione delle decime sui beni fiscali nella terra di Eboli accordata da Roberto il
Guiscardo nel 1080, documento edito in PAESANO I, p. 136.
660
DTC, E, 35.
661
PENNACCHINI pp.119-122.
662
BALDUCCI I, p. 21.
663
PENNACCHINI pp. 40-42.
664
Ancora agli inizi nel XVII così si esprimeva nel descrivere la piana di Battipaglia Enri-
co Bacco «quivi parimente è un bellissimo e gran lago, ove si fa pescagione di diversi e
buonissimi pesci per entrarvi il mare: vi sono anche magazeni e carricatori per trasportar le
robbe, mercantiando altrove» BACCO 1629, p. 192.
665
CDC, V, pp. 4-5. La palude è ricordata a nord del lago in CDC, V, p. 207, a. 1031.
666
CDC, V, p. 115, a. 1020.
667
Piscatorie CDC, VI, p. 150, a. 1041.
668
Già Gisulfo II (1052-1076) aveva confermato le piscationes ipsius fluminis [il Sele] alla
cattedra di San Bonosio, PENNACCHINI, p. 153(documento in cui si fa riferimento alle canni-
tias). Altre conferme verranno da Roberto il Guiscardo, PAESANO, I, p. 137, a. 1080 e Roberto
di Eboli, PENNACCHINI, p. 54, a. 1090.
669
Non è improbabile sui laghi si effettuasse anche questo tipo di pesca allorquando si
andavano a tirare le reti.
670
NASO 1989, p. 217.
671
DTC, XLVIII, 46. Il concessionario del tenimento dovrà versare ogni anno la decima
parte della produzione degli alveari.
672
La prima notizia su San Pietro de Toro in PAESANO, pp. 122-123, a. 1067. Nel documen-
to la chiesa è detta contigua al fiume Sele. Il conte di Eboli, Roberto, nel 1090 in un’altra
conferma alla Chiesa salernitana, procedendo da nord verso sud (parte infatti da Licinianum e
conclude con San Vito del Sele) ricorda San Pietro de toro immediatamente prima del porto di
Persano (il porto dell’Annia), PENNACCHINI, pp. 51-53. Per la localizzazione di san Pietro de
toro in località Fiocche si veda BERGAMO pp. 51-52.
673
AA SS, Octobris VII, 15-16, pp. 1184-1189.
674
Così nel documento PAESANO; II, pp. 115-117.
675
ID., p. 119.
676
Si veda supra il paragrafo dedicato al santuario di san Vito al Sele.
188 La Piana del Sele in età normanno-sveva

677
PEDUTO 1984 pp. 63 ss.
678
Per la questione si veda supra, la viabilità; anche DI MURO 2000.
679
Documento di Roberto di Principato relativo alle pertinenze della chiesa salernitana al
casale Cusentinorum PAESANO, II, p. 54.
680
A causa dell’urgenza improcrastinabile dei lavori di riparazione, il sovrano ordina che
le spese per le riparazioni siano anticipate dalle comunità locali. CDS, I, pp. 370-372.
681
Registri Angioini XIII, 184.
682
MALATERRA, I, 26. Si veda anche CUOZZO 1969, p. 714.
683
Si veda supra, il paragrafo relativo all’ambiente naturale.
684
CDS, pp. 354-355. I cereali sarebbero stati trasportati libere cum vasis.
685
In un privilegio del 1114 Roberto di Eboli concede che nessun monaco cavense in
transeundo vel redeundo flumen quod Siler dicitur pro se vel pro servientis suis seu pro ani-
malibus vel aliis rebus eiusdem monasterii, portunariis eiusdem fluminis quolivet tempore
aliquam dationem deant..., set omni tempore ipsi portunarii ipsos monachos et servientes eo-
rum et animalia et alias res eiusdem monasterii per ipsum flumen ab una parte in alia unde
aptus fuerit absque aliqua datione ducant et reducant. DTC,E, 35. Di grande interesse è il
ricordo dei portunarii ufficiali pubblici che in età longobarda erano addetti alla sorveglianza
dei guadi, dei porti, degli attraversamenti e svolgevano anche funzione di guardie confinarie.
Lungo il sele la loro funzione si completa dell’ufficio destinato nella legislazione longobarda
ai riparii, ossia riscossione dei dazi sul trasporto di mercanzie. (per i compiti dei portunarii in
età longobarda FASOLI 1958, p. 139). E’ evidente che questi portunarii fossero disposti lungo i
guadi e gli attracchi del fiume ancora ricadenti sotto il controllo pubblico.
686
Si veda a tal proposito DI MURO 1994, p. 65; DI MURO 2000 pp. 21-22.
687
Cfr. supra il paragrafo sui possedimenti cavensi nella Piana.
688
Roberto Guiscardo nel 1080 conferma alla Chiesa salernitana il passaggio sul Sele,
PAESANO I, p. 136. Roberto di Eboli nel 1114 esenta dal pagamento di dazi i monaci di Cava o
i servi del monastero che dovranno attraversare il fiume, da soli, o con animali o con qualsiasi
altra cosa (alias res eiusdem monasterii). DTC, E, 35.
689
In quell’anno infatti Gisulfo II concede ad Alfano I di poter tenere in ipsa platea
plancas, et secus eas ponere faciatis, et habere quantas volueritis, et in ea ligamina rigere et
habere, et super eas edificia qualiter volueritis, ...., et carnes, et alia mercimonia in eis merci-
moniare et vendere et emere ....; neque portaticum, seu plateaticum in hac nostra civitate et
foris per totum nostrum Principatum Salerni homines vestri dent. Sed omne tributum et cen-
sum et servitium, portaticum et plateaticum et pensionem, quod per annum pars ipsius nostri
Sagri Palatii illi, qui in eis, ut dictum est, mercimoniaverint, et vendiderint et emerint, facere et
persolvere debuerint, tibi tuisque successoribus faciant et persolvant., MURATORI 1738, I, XIX
690
Si veda ad es. CARUCCI 1922, pp. 390-391.
691
VITOLO 1974 pp. 114 ss., DEL TREPPO 1977, p. 43.
692
CDS, I, pp 466-467.
693
A questo proposito si veda infra capitolo conclusivo.
694
PENNACCHINI pp. 43-45.
695
DEL TREPPO 1977 pp. 41.
696
Si veda supra ambiente naturale.
697
Documento edito in RIVELLI, p. 97, a. 1168.
698
L’ipotesi in FILIPPONE 1993, p. 58
Note 189

699
Si veda in questo lavoro passim.
700
Il ruolo degli Amalfitani nel reperimento e nella fornitura di legno per imbarcazioni e
non solo alla Tunisia e all’Egitto fin dall’alto Medioevo è stato ben messo in rilievo da CITA-
RELLA 1993, p. 263, 266.
701
Per le terre del Sele in età longobarda e per il commercio del legno degli amalfitani D I
MURO 2000.
702
Lo stesso porto del fiume Sele a Mercatellum doveva assumere forti connotazioni di
carattere commerciale se ad esempio nell’atto con il quale nel 1105 Giovanni iudex e i suoi
consortes fittano a un tale Mauro le res illorum del Sele si evidenzia la presenza in esse del
portus e del guado senza indicare altro. La presenza di tali strutture giustifica l’alto censo
corrisposto annualiter dal concessionario (80 tarì d’oro più un maiale di otto tarì a Natale e
Pasqua) che avrà la facoltà di tollere et habere…omne censum et dationes proveniente dall’uso
del porto e del guado. DTC, XVIII, 17.
703
Il presbitero di Santa Maria e San Nicola di Mercatellum ha la facoltà nell’XI secolo di
vendere un terzo dei puledri, dei vitelli e dei lattonzoli delle scrofe che nasceranno ogni anno
tra le mandrie della chiesa CDC,VII, p. 112. E’ verosimile che il bestiame venisse esitato
proprio nei luoghi dove sorgeva la chiesa.
704
Cfr. supra.
705
Per Capaccio si veda Caputaquis medievale 1976.
706
Reg. CARLONE 1998, 519, 638.
707
Conferma del pontefice Alessandro III a. 1169, PAESANO, II, p. 178; Si veda anche il
privilegio di papa Lucio III, a. 1183 ed. PAESANO, II; p. 231.
708
Per Olevano si rimanda a CARUCCI 1937; per Liciniano si veda supra il paragrafo rela-
tivo ai casali. Nel 1292 Carlo II d’Angiò concesse alle monache di San Lorenzo l’esenzione
dei dazi per l’ingresso dell’olio ad Amalfi proveniente dalle loro proprietà olevanesi, CARUCCI
1946, doc. CXVI, p. 145.
709
Pietro di Venezia in CARLONE 1998, 757.
710
Cfr., supra il paragrafo relativo all’ambiente naturale.
711
L’interesse per la pesca lungo il Sele si ricava anche da un documento di Gisulfo II alla
Chiesa salernitana in cui si concede, tra l’altro, piscationes ipsius fluminis (il Sele) PENNACCHI-
NI, p. 153.
712
PENNACCHINI, pp.52-53.
713
PAESANO I, p. 137, a. 1080.
714
Molina, CDC, VII, p. 96, a. 1049.
715
Quattro mulini, DTC, B, 22, a. 1082. AC, XL, 90 a. 1185.
716
CDC, VII,, p. 204, a. 1053. Si tratta del mulino donato nel 1089 da Ruggiero Borsa alla
badia di Cava DTC, G, 48
717
DTC, XXIII, 92.
718
DTC, XXI, 106.
719
DTC XXIV, 107; una parte del mulino viene venduta nel 1171 per un’oncia di tarì
BALDUCCI, I; 89.
720
CARLONE 1998, 240.
721
ID. 462.
722
ID. 248, a 1171.
190 La Piana del Sele in età normanno-sveva

723
ID. 351. Il mulino viene affittato a un mugnaio per 112 tarì l’anno. Nel 1245 il mulino
appartine alla Badia di Cava, CARLONE 1998, 711.
724
ID. 569.
725
ID. 756
726
In generale LICINIO 1991, pp. 153-185.
727
A tal proposito si rimanda ancora una volta al prezioso lavoro di Carmine Carlone,
CARLONE 1998.
728
Per una panoramica si vedano gli indici di CARLONE 1998.
729
CDV, II, pp. 130-132, a. 1117.
730
Ediz. CARLONE-MOTTOLA 1982 pp. 287-289.
731
Il documento è conservato presso l’archivio diocesano salernitano ed. PENNACCHINI 1942,
pp. 51-54.
732
CDS, I, pp. 107-109, a. 1216; CDS, I, pp. 130-131, a. 1220.
733
Il doc. in PAESANO II, p. 240; Si veda anche CARUCCI 1922, pp. 454-455.
734
Reg. CARLONE 1998, 520.
735
Si veda a tal proposito LICINIO 1991, p. 158.
736
DTC, XLIII, 69.
737
CARLONE 1998, 480.
738
Si veda infra.
739
CARLONE 503.
740
DTC, XVI, 81
741
DTC, XXVIII, 83.
742
Reg, CARLONE 1998, 517.
743
reg. CARLONE 1998, 523
744
Reg. CARLONE 1998, 632.
745
Vedi infra.
746
Il valore dei maiali è stabilito pari a 4 once d’oro, Reg. CARLONE 1998, 470.
747
BALDUCCI, I; p. 89 (reg.).
748
Reg. CARLONE 1998, 632.
749
Reg. ID. 684, a. 1239.
750
reg. ID. 722.
751
Reg. CARLONE 1998, 778.
752
Reg. CARLONE 1998, 434.
753
AC IL 24.
754
AC IL, 85.
755
Reg. CARLONE 1998, 702.
756
AMATUCCIO 1995, p. 96.
757
CDV,V, pp.298-301.
758
DTC, XXI, 106.
759
Si veda a tal proposito il paragrafo relativo ai mulini.
760
Così ad es. nel 1154 Daniele ferrario figlio di Guido ferrario in una compravendita di
una casa per 134 tarì d’oro reg. CARLONE 1998, 188 o nel 1133 Marco ferrario DTC, XXIII, 23
e in un documento del 1135 DTC XXIII, 97.
761
Ad es. CARLONE 1988, 704, a. 1242;
762
Reg. CARLONE 1998 , 709, a. 1245.
Note 191

763
DTC, XXVIII, 46, a. 1152.DTC, XLV, 12, a. 1202.
764
CDC, IX, p. 65, a. 1066; si tratta di una potega de lignamina quam olim Martinus faber
erarius conduceva. La potega si trovava in un lotto di terreno di piccole dimensioni, circa 16
metri quadrati, lungo la strada che conduce a porta rotese. Martino era un fabbro specializzato
nella lavorazione del bronzo, materiale certo di uso non comune. Anche da questa traccia si
può riconoscere l’ormai avanzata evoluzione della società salernitana nella seconda metà del-
l’XI secolo verso forme sempre più raffinate e l’importanza assunta dalle zone immediatamen-
te fuori dalle mura come aree di produzione e mercato. Quest’ultima considerazione deriva
anche dal prezzo esorbitante pagato per l’acquisto del minuscolo lotto, ben 104 tarì d’oro, una
valutazione che scaturì evidentemente dalla presenza del laboratorio.
765
DTC, XV, 10, a. 1090; nel documento risulta che Pietro a quella data è già morto.
766
Per la natura dei terreni di Eboli si veda la Carta geologica d’Italia, Eboli, f. 198, scala
1:100000.
767
CDV, II, pp. 130-132. Si tratta però forse di una falsificazione CARLONE 1998, 85, n. 1.
768
CARLONE 1998, 237.
769
CARLONE 1998, 328.
770
DTC, XLVI, 28.
771
CARLONE 1998, 556.
772
ID., 666.
773
PEDUTO 1993, pp. 46 ss.
774
Non si comprenderebbe altrimenti tale assenza nelle transazioni esaminate, poiché il
vasaio doveva essere economicamente più elevato del semplice cavatore d’argilla.
775
In quest’anno lo iocularius è gia morto. DTC, XLII, 23, a. 1089.
776
CARLONE 1998, 528.
777
ID., 743.
778
ID. 757. L’uliveto è acquistato da Pietro di Venezia.
779
si veda ad es. LE GOFF 1993
780
DTC, XLII, 23, a. 1089.
781
DTC,C, 19.a. 1089.
782
Si veda ad es. LICINIO 1995, p. 308.
783
Vedi supra viabilità.
784
E’ interessante notare come spesso figuri attore della compravendita o della concessione
il vestarario del monastero cavense, possessore della taverna, DTC, XXXV, 84, a. 1176; DTC,
XXXVIII, 94, a. 1182; DTC, XXXVIII, 113 a. 1184; reg. CARLONE 1998, 371, a. 1189; DTC,
XLII, 106, a. 1191.
785
La taverna era posta nelle vicinanze della via che conduceva ad Olevano e di qui ai
valichi appenninici verso la Puglia e della via che scendeva dal castelluccio di Battipaglia
verso San Mattia seguendo il Tusciano e di qui alla via litoranea che conduceva ai porti del
Sele e a Paestum(vedi supra viabilità).
786
Per le taverne come punto di discussione e trasmissione di notizie si veda ad es. LICINIO
1995, pp. 313 ss. Sul ruolo in generale della cultura orale nel Medioevo OLDONI 1998, in part.
pp. 422-431.
787
LICINIO 1993, pp. 156-158.
788
DTC, G, 10.
192 La Piana del Sele in età normanno-sveva

789
DTC, XVII, 111. Esiste anche un secondo documento di concessione del 1109 ma
giustamente Carlone lo ritiene sospetto di falsificazione, si veda CARLONE 1998, 73, n. 2.
790
DTC, XL, 44.
791
DTC, XXXV, 56 a. 1177; DTC, XXXVI, 41, a. 1178.
792
DTC, XXXIX, 79.
793
DTC, XLIII 23.
794
DTC, XLIII; 29.
795
Reg. BALDUCCI, I, p. 38, a. 1219.
796
Reg. CARLONE 1998, 467, a. 1201.
797
Non mancavano tuttavia artigiani anche nei casali, ad es. il calzolaio Gualtiero nel vico
Tusciano, DTC, XXXI, 113, a. 1165.
798
CARLONE 1998, 632. Il mestiere di Trogisio figlio del fu Giovanni di Troiano è precisato
in altri documenti del XIII sec. ad es. CARLONE 1998, 502, 517.
799
Alcuni esempi: calzolai (i figli del calzolaio Cioffo vendono una terra ereditata dal
padre nel 1143 a Calli, reg.CARLONE 159; Corrado corviserio vende terre nei pressi di Eboli nel
1230, CARLONE, 627; Benedetto corviserio, terre a Eboli, reg. CARLONE 663, a. 1235); settore
del pellame (Maria f. di Domenico de Concia aveva ereditato una terra nel casale Tusciano
DTC XL, 54, a. 1187): macellai (Dionisio macellaio vende una terra con oliveto e casalino a
Turelloper 2 once d’oro e mezza, reg. CARLONE, 701, a. 1242).
800
Diversamente la terra avrebbe dato di che vivere a chi fu costretto privarsene come nei
casi di seguito rammentati.
801
Reg. CARLONE 1998, 455.
802
Per Matteo e Avaricia si veda supra.
803
HUILLARD-BREHOLLES 1864, p. 432, Si veda anche PATRONE NADA 1993, p. 110.
804
DTC, XXXII, 15.
805
DTC, XXXII, 15.
806
DTC, XXII, 1.
807
CARLONE 1998, 661.
808
CARLONE 1998, 652, a. 1233.
809
Così il notaio Giovanni figlio naturale del presbitero Silvio DTC, XLIII, 81 a. 1193.
810
E’ il caso dei figli illegittimi di Palermo del casale Tusciano, ricco possidente della
contrada, che sul letto di morte alla presenza della moglie Magdala e della madre Grima, dona
ai figli naturali Guglielmo e Giordana parte dei suoi averi, a condizione che questi, ora mino-
renni, siano in dominio della Trinità di Cava, DTC, XXXV, 20, a. 1175.
811
CARLONE 1998, 577.
812
DTC, XXIX, 45.
813
Si veda ad es. CARUCCI 1922, CARLONE 1998 p. IX.
814
Si veda supra il paragrafo sui mestieri.
815
CDV, X, pp. 123-125.
816
Regesto in CARLONE 1998, 180. Si tratta del testamento di una certa Truda di Eboli, nel
quale si afferma la volonà di distribuire 32 tarì.
817
DTC, XXVII, 45.
818
Si veda anche un documento del 1186 in CARLONE 1998, 349.
819
DTC, XXIX, 71; altri lasciti ai poveri pro anima DTC, XXXIII, 93, a. 1171; DTC,
XXXIV, 32, a. 1172; ibid., 54, a. 1174; XXXV, 60, a. 1176; Carlone 1998, 340, A. 1184.
Note 193

820
Per i centri di ricovero e di assistenza nel Medioevo meridionale DALENA 2003 b, pp.
141-167. Per la viabilità in relazione ai centri di pellegrinaggio I D. 2003 a.
821
Per l’ospedale di San Giovanni si veda supra paragrafo sulle chiese. In generale sulla
presenza giovvanita in Italia meridionale SALERNO 2001.
822
CARLONE 1998, 572, a. 1220.
823
CARLONE 1998, n. 578, a. 1221; altri documenti CRISCI CAMPAGNA, p. 500.
824
Ospedale di Santa Maria dei Teutonici, CARLONE MOTTOLA 1981, 367, a. 1259, CARLONE
1998, 768, p. 343. Potrebbe trattarsi però di un riferimento all’Ordine piuttosto che ad una
struttura nel territorio.
825
CARLONE 1998, 702, a. 1242.
826
CARLONE-MOTTOLA 1981, 341, a. 1251.
827
Di un certo interesse risulta la notizia riportata da Enrico Bacco nella sua opera sul
Regno di Napoli che attesta la presenza ad Eboli di un ospedale «detto santo Iacopo ...per li
pellegrini che vanno e vengono da santo Iacopo di Galitia», BACCO 1629 p. 192. L’ospedale
già esisteva nel XIV, CARLONE 1986, doc. 96.
828
CARLONE 1998, 682.
829
ID. 706, a. 1243.
830
Il documento è edito in TROPEANO 1973, pp. 230-233.E’ possibile che tra i motivi che
spingessero a elargizioni in denaro e in cibo vi fossero, accanto alla volontà di seguire il dettato
evangelico, cause legate alle strutture profonde dell’immaginario collettivo. Infatti la figura
del povero è nel folclore collegata ai culti dei morti: ancora fino a qualche decennio fa i poveri
in molte aree del Mezzogiorno costituivano in qualche modo i vicari dei morti i quali, come gli
indigenti appunto, soffrono la fame e la sete non potendosi più servire dei loro corpi. A questo
proposito è interessante notare come le fave, espressamente ricordate nel documento del 1210,
rappresentino sin dall’età romana un cibo per eccellenza legato al culto dei defunti. Si veda
RAFFAELLI 1990.
831
Reg. CARLONE 1998, 467.
832
Sullo sviluppo del monachesimo in età normanna in Italia meridionale si veda ad es.
FONSECA 1983, pp. 15-35 e VITOLO 1988.
833
AC, XXXV, 45.
834
AC, XXXV, 57, a. 1178.
835
AC, XXXVI, 20.
836
Per il poema illustrato da eleganti miniature si veda ad es. Petrus de Ebulo, Nomina.
837
DTC XLVIII, 52, reg. CARLONE 1998, 602.
838
DTC, XXV, 92. Altri esempi DTC, XVIII; 71, a. 1109; DTC, XX, 88, a. 1117; DTC,
XXV, 5, a. 1142; DTC, XXV, 6, a. 1142; DTC, XXX, 51, a. 1161.
839
DTC, XXXIII, 93.
840
DTC, XXXVIII, 9.
841
CARLONE 1998, 648.
842
DTC, XLVIII, 53.
843
Si veda ad es. CARDINI 1995
844
CARLONE MOTTOLA 1981, pp. 295-296. Qualche giorno prima lo stesso Simeone aveva
venduto alcune terre per un’oncia d’oro, con il diritto di poterle riscattare in capo a tre anni,
presumibilmente per procurarsi il necessario per affrontare il lungo viaggio fino in Galizia. Il
194 La Piana del Sele in età normanno-sveva

monastero di San Giacomo degli Eremiti fu fondato alla fine del XII secolo e nel corso della
prima metà del XIII accrebbe i propri possedimenti nella painura di Calli. per poi divenire,
intorno alla metà dello stesso secolo, dipendenza di S. Maria la Nova, CARLONE-MOTTOLA 1981,
pp. XIV-XIX. Per possibili elementi di relazione tra il monastero ebolitano e il pellegrinaggio
a Compostela si veda supra, capitolo Economia e società, par. Frammenti di vita quotidiana
nelle terre tra il Tusciano e il Sele.
845
BACCO 1629, p. 192.
846
GALANTI 1790, IV, p. 226.
847
DI GERARDO-MANZIONE 1998 pp. 97 ss. E’ pur vero che la Guerra del Vespro in particolare
dové avere conseguenze gravi sul popolamento della Piana, si consideri ad esempio il documento
del 1296 in cui si attesta che la popolazione di Eboli dai 1500 abitanti degli anni ’80 del XIII
secolo era ridotta a circa 800 (CDS, II, pp. 517-518).
848
Questa situazione di crisi in generale comportò un cedimento della rete insediativa nei
siti di pianura, con una concentrazioe della popolazione nei borghi GALASSO 1992, pp. 806 ss,
secondo il quale nel corso del XV secolo «la popolazione dell’Italia meridionale dové scendere
, con ogni probabilità, al di sotto di un milione e mezzo di abitanti, registrando una perdita di
forse più del 40% rispetto alle punte massime dell’espansione toccata nei due secoli precedenti»,
Ibid. p. 808, anche se la situazione del Principato Citra non fu così catastrofica, Ibid. p. 809.
849
DI MURO 1994; ID. 2001.
850
DI MURO 2000 pp. 83 ss.
851
DI MURO 2000 pp. 74 ss.
852
Nel 1547 si iniziò la costruzione del complesso di Santa Maria del Carmine, sul sito di
una chiesa ormai diruta sull’altura della collina detta in seguito del Carmine (LONGOBARDI
1998, pp. 190-199).La collina del Carmine è da identificare, come detto, con il colle su quale
sorgeva il castello di Monte (supra) e la chiesa in rovina è probabilmente la chiesa di santa
Maria del castello.
853
DI MURO 2001.
854
Fino alla fine dell’XI secolo sono ricordate come funzionanti nella piana del Sele le
seguenti chiese: San Michele, Santo Stefano, Sant’Arcangelo, Santa Maria de Ponte, San Pietro
ad columnellum, San Pietro del Tusciano, San Mattia, San Biagio,San Nicola di Mercatello,
San Nicola de Laneo, si veda supra.
855
Si deve però tener conto della possibilità che altre fossero le vie di conquista della terra
in questi anni, vedi infra.
856
In generale si veda CARUCCI 1922. Preziosa fonte per quanto riguarda gli accadimenti in
quest’area durante il conflitto normanno-svevo è il Liber ad honorem Augusti.
857
Supra capitolo relativo ai casali.
858
E’ ragionevole supporre che l’aumento indubitabile della popolazione nell’area,
testimoniato anche dalla crescita di Eboli e degli insediamenti accentrati nella piana di
Battipaglia per tutto il periodo considerato, abbia portato ad un qualche accrescimento della
superficie coltivata, anche se non esistono prove documentarie certe, si veda supra il capitolo
sull’economia agraria.
859
Il dato emergente dalla piana del Sele sembra contrastare con il quadro proposto anche
di recente di un Mezzogiorno medievale dove la predominante produzione cerealicola
rappresenterebbe un elemento di forte continuità con l’età antica (si veda ad es. MONTANARI
1989, 89-97). In realtà in questa area la cerealicoltura diventa elemento dominante, come si è
Note 195

detto, solo a partire dalla seconda metà del XII secolo. Più in generale la vicenda delle terre a
Est di Salerno dal III secolo al XIII mostrano una serie davvero numerosa di abbandoni,
riprese, riconversioni. Mi permetto di rimandare a tal proposito ai miei D I MURO 2001; DI
MURO 2004 c.
860
Ad es. TRAMONTANA 1983 p. 586. La scelta cerealicola, almeno nella piana del Sele,
accomuna i grandi possessori (in particolare la Badia di Cava) e i piccoli e medi proprietari
vedi infra.
861
FIGLIUOLO 1993 pp. 195-224, HOUBEN 1999, p. 209.
862
A tal proposito IDRISI, p. 91. Si veda anche DI MURO 2001. Tra le merci che si potevano
acquistare sul mercato di Salerno a partire almeno dalla metà del X secolo vi era il grano: in un
documento del 959 si fa riferimento ad una terra in locum Correganu salernitane finibus,
Corgiano a nord di Fratte, in cui si semina una certa quantità di triticum che viene misurata
cupellum ad cupellum de mercatum venalicium della città CDC, I, p. 259.
863
Si veda ad es. DEL TREPPO 1977 pp. 48 ss.; VITOLO 1987. Si ricordi che a Salerno ,come
si è visto, è documentato un mercato del grano già nel X secolo e che in età tardo longobarda
questo mercato emerge sempre più cospicuo (DI MURO 2001). In questo senso si può forse
affermare che, almeno per quel che riguarda questo aspetto nel salernitano, l’unificazione del
Regno e la creazione di una solida rete internazionale di scambi accelerò e radicalizzò processi
economici innescati almeno due secoli prima.
864
Si veda supra il capitolo dedicato al commercio.
865
Si veda DEL TREPPO 1977 pp. 41, 196.
866
Riporto alcuni esempi di terre coltivate a cereali di proprietà di liberi allodieri: AC, H,
5, a. 1148; AC, XXX, 51, a. 1160; AC, XXXIII, 26, a. 1166; AC XXXIII, 93, a. 1171; AC
XXXIV, 26, a. 1172; AC XXXV, 20, a. 1175; AC XXXV, 84, a. 1176; AC XXXV, 76, a. 1177.
Si veda anche supra il capitolo relativo alle colture.
867
Si veda Tabella 2.
868
Non va peraltro dimenticata l’equazione pane = cibo sempre attuale nel Medioevo
meridionale Così ad esempio MONTANARI 1989.
869
Ad esempio in un testamento del 1175 è menzionato un ortale nei pressi di una casa nel
casale Tusciano DTC, XXXV, 20. In generale per gli orti nei pressi degli abitati della piana
Tab. I, II, III. Il fatto che non si rinvengano numerose attestazioni di orti in questo periodo non
compromette l’ipotesi avanzata in quanto notoriamente l’orto, per la sua natura di spazio che
racchiude colture estremamente intensive e riservate al consumo strettamente personale del
possessore, raramente risulta citato nelle transazioni o negli affidamenti. Si veda a tal proposito
ad es. ANDREOLLI 1990, pp. 183-197.
870
Dalla geografia degli abbandoni sembra che questi abbiano interessato le aree più
marginali del territorio, come quelle litoranee e del medio corso del Sele, più difficilmente
raggiungibili e lontane dalle arterie principali dei traffici.
871
Segnali evidenti dell’abbandono della parte bassa della piana e del suo progressivo
impaludamento sono la scomparsa della via litoranea ricordata nei documenti dei secoli X e XI
secolo, la notizia della distruzione del ponte del Tusciano a causa delle piene agli inizi del XIV
secolo (CDS, II, p. 32, a. 1302) e il ricordo nei documenti del XIII secolo di edifici diruti nei
pressi della foce del Tusciano (si veda ad es. la conferma di Federico II alla Chiesa salernitana
del 1221 PAESANO II, pp. 316-320. Il documento è probabilmente una falsificazione in forma di
originale della seconda metà del XIII secolo prodotto per provare i diritti della Chiesa salernitana
196 La Piana del Sele in età normanno-sveva

alla morte di Federico II, ma la presenza di edifici abbandonati sul litorale deve essere ritenuta
evidentemente verace, diversamente il documento sarebbe apparso senza dubbio sospetto ai
contemporanei). Il maggior grado di impaludamento delle aree litoranee è evidentemente legato
alla minor pendenza che facilita l’accumulazione delle acque, si veda supra paragrafo relativo
al paesaggio naturale.
872
SCARANO INDICE 2001, pp. 129-136.
873
CDS, I, pp. 400-401. Cava insieme al casale di Sant’Adiutore contava 362 fuochi ma i
due centri risultavano separati, Ibid. p. 401, n. 2. Il dato è sostanzioalmente confermato dal già
ricordato documento del 1296 in cui si afferma che Eboli avanti la Guerra del Vespro contava
1500 abitanti, CDS II, pp. 517-518. Il numero di abitanti di Eboli alla metà del XIII secolo
sopravanza, in ogni caso, di gran lunga la consistenza demografica media dei centri dell’Italia
meridionale, escluse le città maggiori del Regno, ipotizzata da Giuseppe Galasso (900-1000
abitanti, compresi i casali ricadenti nei territori di pertinenza) GALASSO 1992 pp. 807-808. E’
probabile che il numero di abitanti si riferisse esclusivanmente al centro cittadino e ai sobborghi,
in quanto i maggiori casali rurali dovevano risultare esenti per il loro legame con la Badia di
Cava (San Mattia, Tusciano e Sant’Arcangelo) e con la Chiesa salernitana (Castelluccio di
Battipaglia che, come si è visto, nel XIII secolo contava circa 100 abitanti).
874
Attestazioni di Eboli come civitas, BALDUCCI, I, 28, a. 1139; CARLONE-MOTTOLA 1984, p. 53,
XII, a. 1161; DTC, XXXV, 20, a. 1175, DTC, XXXV, 91, a. 1178; DTC, XXXVI, 32, a. 1178;
DTC, XXXVI, 81, a. 1179; CARLONE 1998, 519, a. 1212 (rogato a Salerno) ID. 696, a. 1241.
875
Liber ad honorem Augusti, p. 128, v. 405.
876
HUILLARD-BREHOLLES,V, 2, pp. 796-798.
877
In questo senso si può accomunare la vicenda di Eboli a quella di centri minori dell’Italia
centrale quali Prato o San Miniato, che pur privi di sede diocesana riuscirono a ritagliarsi un
seppur limitato territorio dipendente, cfr. PINTO 2005, pp. 8-9. Bisogna però rilevare come, a
differenza di questi centri, ad Eboli non sembra emergere fino a tutto il XIII secolo una piena e
totale giurisdizione sulle campagne da parte del centro cittadino, con la direzione delle politiche
economiche, anche a causa dei forti poteri concorrenti operanti nel territorio. Per i legami tra
Federico II e Eboli si veda infra. La stessa presenza di un oratorio francescano ad Eboli dal
1233 costituisce un ulteriore elemento che ne connota il carattere urbano, sebbene in origine
l’ordine avesse una predilezione per i siti nei pressi delle strade di grande comunicazione. Per
l’insediamento francescano ad Eboli VITOLO 1986 pp. IX-XXIV.
878
Si veda supra il paragrafo relativo al castellum Evuli. La menzione di abitanti delle
campagne ormai residenti nei sobborghi ebolitani a partire dalla seconda metà del XII secolo
lascia intravedere una dinamica di trasferimento dai casali rurali al centro del distretto, quanto
cospicuo non si riesce a determinare a causa della relativa esiguità dei documenti. Si rimarca
ancora una volta la sostanziale contemporaneità degli abbandoni di Monte e Palude rispetto
all’attestazione dei quartieri extramurani di Eboli.
879
Vedi supra il paragrafo su Eboli.
880
I legami di solidarietà tra artigiani di uno stesso settore che di tanto in tanto emergono
dai documenti di archivio, come nel caso di alcune carte testamentarie o compravendite per
sopperire a necessità, lasciano trasparire tra XII e XIII secolo l’esistenza di vincoli corporativi,
ma si tratta solo di impressioni non supportate da una documentazione più precisa.
881
Si veda supra.
882
Per Olevano nell’alto medioevo DI MURO 1993; ID 2001; ID. 2004 c. con bibliografia.
Note 197

Per la vicenda di Olevano nel tardo Medioevo e in età moderna si rimanda a IANNONE 1988 e a
CARUCCI 1938.
883
Sulla vicenda del casale di San Pietro ad columnellum si veda supra il capitolo sui
casali.
884
Si veda DI MURO 2004 c (in c.d.s.)
885
Così ad esempio il Castelluccio di Battipaglia e il casale dipendente supra; Caso opposto
il casale Monte, dove l’immissione nel distretto ebolitano provoca l’abbandono del castello.
886
Sui notai ebolitani e sulle caratteristiche dei documenti da questi redatti si veda CARLONE
1991, ID. 1999; Oltre al celebre Pietro da Eboli la documentazione ricorda un tale Matteo
dictator, , ricordato come già morto nel 1189 (il figlio è il notaio Abele) DTC, XLII, 41,
probabilmente un maestro di retorica epistolare, l’ars dictandi che ebbe tanta parte nella
cancelleria imperiale al tempo di Federico II . Per l’ars dictandi si veda.in gen. SCHALLER 1980,
coll. 1034-39. ID., 1990, pp. 119-27.
887
Per la razionalizzazione del sistema statale nel Mezzogiorno con Ruggero II si veda ad
es. HOUBEN 1999 pp. 196 ss.
888
Si è veda ad es. il casale di Santa Cecilia sulla riva destra del Sele (supra cap. relativo ai
casali), ma anche le poche case del tenimento di San Nicola de Laneo non lontano da
Campolongo erano immediatamente circondate da orti, frutteti, vigne, terre laboratorie e querce,
in modo che chi vi abitava potesse trovare almeno il necessario per la propria sussistenza DTC,
XLVIII, 46.
889
Si veda a tal proposito MONTANARI 1985, pp.198 ss.
890
WINKELMANN, n. 169; CDS, I, pp.122-123.
891
WINKELMANN n. 215; CDS, I, pp. 135-136.
892
Si veda atal proposito ad es. TRAMONTANA 1983, pp. 666-668.
893
L’incameramento del territorio di Eboli nel demanio della Corona non si configurò, con
ogni probabilità, come atto privo di fondamento: infatti nel 1156, come si è visto, la Contea di
Principato era passata sotto il controllo diretto del sovrano e la successiva ricostituzione con la
concessione ad Enrico di Navarra nel 1166 escluse probabilmente Eboli dai domini del nuovo
conte di Principato. Per il sostanziale ridimensionamento delle competenze feudali delle contee
del Regno in questo periodo, rispetto alle compatte signorie precedenti, si veda C HALANDON, II,
pp. 2365 ss.
894
HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 911-913.
895
Le prime concessioni demaniali del Tusciano erano state fatte probabilmente a Santa
Maria dei Teutonici da Enrico VI come sembra potersi dedurre da un atto del 1217, H UILLARD-
BREOLLES, I, 2, pp. 917-920, a. 1217
896
HUILLARD-BREHOLLES, I/1, p. 299. In generale appare di garnde interesse la comparsa
degli Ordini cavallereschi nel territorio di Eboli e Olevano alla fine del XII secolo. Qui si
rinvengono, come si è detto, ampi possedimenti di Ospedalieri e Teutonici. I Teutonici furono
particolarmente e precocemente beneficiati da Enrico VI e da Federico II che concessero loro,
tra l’altro, la custodia del castrum Olibani oltre a numerosi terreni, il casale Tusciano e il
castelluccio di Battipaglia (si veda infra e supra). Lo stesso Ermanno di Salza, come si è detto,
si occupò del castello di Olevano e probabilmente vi risiedette. Il posizionamneto strategico
del castello di Olevano e del castelluccium Baptipallae a controllo di vie commeciali e di
pellegrinaggio verso la Puglia e la Calabria, conferma da un lato la vocazione dell’ordine
all’assistenza dei viandanti e dall’altro la fiducia che in particolare Federico riponeva in Ermanno
198 La Piana del Sele in età normanno-sveva

e i suoi (A proposito del posizionamento dei possedimenti e delle commende teutoniche lungo
importanti arterie dell’Italia meridionale si veda D ALENA 2004). Discorso analogo vale per la
commenda giovannita di Eboli.
897
HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 917-920, a. 1217; Vedi supra paragrafo sui casali.
898
Per questo accordo si veda TOOMASPOEG 2004 pp. 140-141.
899
HUILLARD-BREHOLLES, I, p. 789, a. 1220; CDS, I, pp. 124-125. In precedenza uguale
diritto aveva concesso alla Badia di Cava, HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, p. 152, a. 1216.
900
CDS, I, pp. 130-131.
901
DALENA 1997, pp. 138-140.
902
AC, M, N. 16, a. 1221. HUILLARD-BREHOLLES, II, 1, pp. 118-122. Non è improbabile che
il documento sia un falso prodotto per avvalorare i diritti della Badia su queste terre negli anni
intorno al 1266, vedi infra, in evidente contrasto con gli atti dello Svevo riguardanti Eboli;
Altra falsificazione in forma di originale prodotta dallo scriptorium cavense per lo stesso scopo
è con ogni probabilità il documento del 1231 con il quale Federico II conferma all’abate Balsamo
privilegi e diritti nel casale Tusciano, AC,M, 29, CARLONE 1998, 634, n. 1.
903
HUILLARD-BREHOLLES, II, 2, p. 638. CDS, I, pp. 232-234.
904
I casali, con i diritti signorili sugli abitanti, saranno restituiti solo in età angioina alla
Badia di Cava. AC, LV, 68 a. 1266.
905
DALENA 1997, p. 141.
906
In particolare, oltre alla probabile falsificazione di atti federiciani già rilevati, i documenti
relativi a presunte donazioni della famiglia di Guglielmo conte di Principato, in cui si
concedevano all’abbazia cavense tutte le terre di pertinenza del conte tra il Tusciano e il Sele
insieme ai diritti signorili connessi DTC, F, 40 a. 1127; DTC, G, 6, a. 1131; DTC,G, 16, a.
1135; Si veda anche AC, XXXIII, 100, a. 1171. Anche la Chiesa salernitana produsse
falsificazioni in questi anni ad es. PAESANO, II, pp. 316-320; HUILLARD-BREHOLLES, II/1, 111-
115. a. 1221. Sulla questione CARLONE 1998, p. X e note relative ai documenti citati.
907
Si veda supra il paragrafo relativo al casale Tusciano, in particolare il documento di
Ruggiero Borsa del 1089 con nota relativa.
908
DTC, XXIII, 104 a. 1137 (falso?).
909
Vedi supra capitolo sui casali.
910
Si veda a tal proposito ad es.TRAMONTANA 1983, pp. 660-676.
911
MARTIN 1995, pp. 6 ss.
912
L’età di Guglielmo II come punto di riferimento per regolare i rapporti tra Federico II e
signori locali fu stabilito nelle Costituzioni di Capua del 1220, cfr. TRAMONTANA 1983, p. 669.
913
MARTIN 1995, pp. 6-7.
914
Domus imperiale di Eboli in STHAMER 1914, p. 110, a. 1231.
915
Vedi supra il paragrafo relativo al castrum Olibani e il paragrafo relativo al casale
Tusciano.
916
CDS, I, p. 151, a. 1228
917
Si veda ad es. il classico MORGHEN, Gli svevi in Italia, pp. 109-111.
918
KANTOROWICZ 1981, p. 102.
919
Per il castrum Olibani IANNONE 1988
920
Si sottolinea ancora una volta come la presenza di interessi teutonici nella piana del
Sele sia forse da ricondurre ai tempi di Enrico VI (cfr. HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 917-920,
a. 1217) e, dunque, al nucleo originario dei possedimenti dell’Ordine nel Regno di Sicilia,
Note 199

accanto ai già noti possessi di Brindisi, Messina, Barletta, Palermo e, forse Mesagne (per
questi ultimi si veda TOOMASPOEG 2004, pp. 137-138). Il ruolo nodale dei percorsi che
attraversavano le terre tra Tusciano e Sele, in particolare nello scacchiere delle comunicazioni
terrestri tra Campania meridionale e Puglia, unita alla forte produttività del territorio, furono
probabilmente tra le ragioni della intensa presenza teutonica, pressoché esclusiva in Campania,la
cui missione principale nel Mezzogiorno era legata al rifornimento di uomini e merci alla
Terrasanta (si veda ad es. TOOMASPOEG 2004, p. 146), compito favorito dai privilegi concessi
da Enrico VI con i quali Teutonici erano tra l’altro esonerati dal pagamento di dazi commerciali
HOUBEN 1997, p. 28.
921
Tale consuetudine è testimoniata dal 1109 per la chiesa di San Giorgio, PENNACCHINI
1942, pp. 55-6.
922
PENNACCHINI 1942, p. 151.
923
CDS, I, pp. 114-117.
924
CARLONE 1998, X. Tra XII e XIII secolo sono ricordate nella documentazione le seguenti
parrocchie ad Eboli: Santa Maria ad Intra, Sant’Angelo, San Marco, San Matteo, San Giovanni,
San Nicola, San Lorenzo, San Bartolomeo, San Giorgio, Santa Trinità, Sant’Elia. A queste si
aggiunga Santa Maria di Monte e San Clemente del Tusciano. Per le parrocchie ebolitane nel
basso Medioevo VITOLO 1986.
925
CESTARO 1984, pp. 117-118.
200 La Piana del Sele in età normanno-sveva
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1698), Salerno.
GALANTE 1984 = M. GALANTE, Nuove pergamene del monastero femminile di San
Giorgio in Salerno(993-1256), Altavilla Silentina 1984.
HUILLARD-BREOLLES J. A. 1861-1869 = Friderici secundi historia diplomatica voll. 6,
Paris
LEONE S.-VITOLO G. 1986 (a c. di) = Codex Diplomaticus Cavensis, IX, Cava dei
Tirreni.
PENNACCHINI L. 1941 = Pergamene salernitane, Salerno, Tipografia Beraglia.
WINKELMANN E. 1880 = Acta imperii inedita saeculi XIII et XIV, Innsbruck.

Archivi
AC = Archivio della Sant.ma Trinità di Cava dei Tirreni.
ADS = Archivio doiocesano salernitano.

Regesti
CARLONE C. - MOTTOLA F. 1981 =, I regesti delle pergamene dell’abbazia di S. Maria
Nova di Calli, Salerno.
CARLONE C. 1986 (a c.d.) = I regesti delle pergamene di San Francesco di Eboli,
Salerno.
CARLONE C. 1998 = Documenti per la storia di Eboli, I (799-1264), Salerno.
MONGELLI G. = Abbazia di Montevergine, Regesto delle Pergamene, voll. I-III, Roma
1956-1957.
210 La Piana del Sele in età normanno-sveva
211

Indice

Presentazione pag. 5
Prefazione » 7
Premessa » 11

CAPITOLO I
IL TERRITORIO
Territorio e viabilità » 15
Castrum Olibani e castellum Ebuli. Le due signorie
di castello tra Tusciano e Sele in età normanno-sveva » 22
La geografia del possesso » 26

CAPITOLO II
GLI INSEDIAMENTI
I casali » 29
I castelli e i borghi » 52
I luoghi di culto » 69
I poli santuariali » 84

CAPITOLO III
ECONOMIA E SOCIETÀ
La produzione agraria » 89
Ambiente naturale ed economia silvopastorale » 107
I mercati » 123
Attività artigianali e condizione sociale » 129
Frammenti di vita quotidiana nelle terre tra il Tusciano e il Sele » 137

CAPITOLO IV
Alcune considerazioni conclusive » 145

Note » 162
Bibliografia » 201
212 La Piana del Sele in età normanno-sveva

Finito di stampare nel mese di novembre 2005


da Edizioni Pugliesi - Martina Franca (TA)
per conto di Mario Adda Editore - Bari

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