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Giovanni Saitto

L’ANAGRAFE TERRANOVESE
DALLE ORIGINI AL 1816

Trascrizione degli atti che si conservano


nelle chiese della SS. Annunziata di Lesina,
dei SS. Martino e Lucia di Apricena
e
di San Placido in Poggio Imperiale

«Felice colui che ricorda con piacere i suoi antepassati;


che conversa con estranei su di essi,
sulle loro azioni, sulla loro grandezza
e che sente una segreta soddisfazione
nel vedersi come l’ultimo anello di una bella catena.»
Joahnn Wolfgang Von Goethe
PREFAZIONE

Quando partecipiamo ad una gita turistica, i luoghi che maggiormente visitiamo sono le chiese.
Esse richiamano l’attenzione del turista sia per l’interesse storico che rivestono, sia per le
innumerevoli opere d’arte che il visitatore può ammirare: icone, sculture, dipinti, ori e molt’altro
che testimoniano le vestigia del passato. Ma le chiese, oltre alle tante «ricchezze visive» proposte
all’occhio dell’accorto osservatore, sono depositarie di altri tesori che, nel silenzio degli armadi,
conservano gelosamente la storia dell’uomo: i libri parrocchiali.
In pochi hanno aperto e consultato questi volumi, scrigni ricolmi della nostra storia, nelle cui
pagine, ingiallite dal tempo, sono annotati secoli di generazioni.
Centinaia di nomi di antenati, foglio dopo foglio, scorrono sotto gli occhi dello studioso in una
girandola di cognomi che si intrecciano in nuove ed inattese parentele.
La loro istituzione fu stabilita nella XXIVª sessione del Concilio di Trento (1545-1563), tenutasi
l’11 novembre 1563, nel corso della quale si decretò di annotare la registrazione dell’avvenuto
matrimonio - «il cui consenso matrimoniale degli sposi debba essere scambiato dinanzi al parroco
competente e a due o tre testimoni» - in un apposito registro da istituirsi in ogni parrocchia.
Al decreto matrimoniale si collegò e si approvò, nella medesima sessione del Concilio, anche
l’istituzione del registro dei battesimi: «in esso, oltre al nome del battezzato e dei genitori, deve comparire
anche il nome dei padrini, poiché dall’adempimento di tale funzione nasce l’impedimento matrimoniale di
“cognazione spirituale”1».
L’obbligo imposto ai parroci di incidere nel tempo le tappe salienti della vita dell’uomo, poneva
di diritto la parrocchia come struttura portante non solo della Chiesa, ma anche della società
stessa.
La conseguenza di dover annotare sui registri la partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei
sacramenti, comportò la nascita dell’anagrafe, la cui materia ottenne una sistemazione più organica
con il Rituale Romanum del 1614, con il quale papa Paolo V, oltre a riaffermare l’obbligo imposto ai
parroci dal Concilio tridentino, introdusse la registrazione anche per le sepolture e per gli stati
delle anime, ovvero elenchi nominativi degli abitanti di una parrocchia raggruppati per nuclei
familiari.
I registri parrocchiali sono una fonte preziosa per lo studio della genealogia. Seppur
frammentari, essi hanno svolto la funzione di vera e propria anagrafe civile almeno fino al 1809,
quando re Giuseppe Bonaparte, con Real Decreto del Codice Napoleonico del 29 ottobre 1808,
disponeva che tutte le Università2 (gli attuali Comuni) regnicole provvedessero alle registrazioni
anagrafiche su appositi registri: nacque lo stato civile, quel complesso dell’organizzazione pubblica
che svolge il servizio di registrare e certificare la situazione giuridica (nascita, cittadinanza,
posizione familiare e morte) di ogni singola persona. Fu stabilito, inoltre, che ogni registro doveva
essere, e lo è tutt’ora, redatto in duplice copia: una conservata presso l’archivio del Comune, l’altra,
alla fine di ogni anno, trasmessa al Tribunale competente per territorio, che dopo cento anni la
passa all’Archivio di Stato provinciale, dove si può consultare liberamente e gratuitamente.
Fu il Comune di Lesina, quindi, fin dall’istituzione dello stato civile, ad annotare tutti i
movimenti anagrafici dei terranovesi, che dovevano recarsi nella vicina cittadina per dichiarare la
nascita di un figlio o consegnare il certificato del sacerdote per comunicare l’avvenuto matrimonio.
Comunque, anche dopo la riforma napoleonica, le parrocchie continuarono a redigere e ad
aggiornare i libri parrocchiali, veri e propri monumenti della storia che, oggi, costituiscono una
fonte di fondamentale importanza - e in alcuni casi l’unica disponibile - per lo studio della
demografia di ieri. Essendo stati battezzati praticamente tutti i neonati e l’aver conferito l’estrema
unzione a quasi tutti i moribondi, i registri parrocchiali consentono di studiare la struttura della

1 Vincolo di parentela spirituale che il battesimo, validamente conferito, fa sorgere tra il padrino e il
battezzato.
2
Il termine Universitas ebbe origine nel medioevo ed indicava l’organizzazione giuridica nella società civile del
Comune, alla quale si era pervenuti per trasformazione interna all’antico municipio.
popolazione, la sua composizione, il suo movimento naturale e il flusso migratorio.
Pertanto fu la Chiesa, fin dal XVI secolo, a redigere tutti i movimenti anagrafici della
popolazione italiana. E fu il parroco della chiesa dell’Annunziata di Lesina a registrare le nascite e
battezzare i figli dei primi abitanti di Poggio Imperiale a causa della mancanza di un fonte
battesimale nella chiesa di San Placido. Il fatto di recarsi nella vicina Lesina rappresentò un
problema non di poco conto per i neo terranovesi, problema che venne risolto definitivamente nel
maggio del 1815, epoca in cui l’Intendente di Capitanata «ordinava minacciosamente» all’economo
curato, don Donato Morelli, di erigere il fonte battesimale nella chiesa di San Placido, con la
conseguente istituzione del registro dei battezzati. Il fonte battesimale fu poi «benignamente
approvato» dall’arcivescovo di Benevento, don Domenico Spinucci3, il quale ordinò al sacerdote di
Poggio Imperiale di inviare, ogni fine mese, l’elenco dei battezzati all’arciprete di Lesina, dove fu
inoltre disposto che venisse conservato il registro. Ma don Donato, «attese le critiche circostanze dei
tempi presenti», «per maggior cautela», ritenne opportuno redigere gli atti in duplice copia,
conservando in questo modo anche nella chiesa di Poggio Imperiale una copia del libro dei
battesimi.
Gli atti di morte, invece, furono redatti dall’economo curato della chiesa di San Placido, nella
cui cripta trovarono riposo eterno i primi abitanti del villaggio, sui libri parrocchiali custoditi nella
nostra chiesa fin dal 1764, anno in cui a Poggio Imperiale giunsero i coloni dal Principato Ultra del
Regno di Napoli.
L’arrivo di un sacerdote nel nuovo villaggio comportò l’istituzione anche di un libro dei
matrimoni, seppur pochi mesi prima tre coppie di Poggio Imperiale celebrarono il sacro vincolo
dell’unione nella chiesa di Lesina.
Finalmente nel 1816, anno in cui a Poggio Imperiale il decurionato (l’attuale amministrazione
comunale) intraprese l’attività amministrativa, essendo divenuto Comune indipendente da Lesina,
venne istituito ufficialmente lo stato civile.
Il presente lavoro si propone due scopi: il primo è quello di recuperare tutti i dati anagrafici
relativi ai primi terranovesi - i nostri padri - trascritti nei libri parrocchiali ed aggregarli a quelli
esistenti presso l’archivio del nostro Comune. Il secondo, di spronare coloro interessati a conoscere
le radici della propria famiglia e, di conseguenza, disegnare il suo albero genealogico.
Auguro anche a voi di essere colpiti dal fascino della genealogia e, dopo la consultazione di
questo libro, vi immagino a trascorrere molte ore nell’archivio comunale alla scoperta di coloro che
vi hanno preceduto. Durante il percorso incontrerete i vostri bisavoli, trisavoli, quadrisavoli,
quintisavoli, esavoli, eptavoli, ottavoli ecc… Scoprirete inoltre, il luogo di provenienza della vostra
famiglia e altre curiosità, tipo eventuali trasformazioni del cognome (come ad esempio i cognomi:
Zangari trasformato nell’attuale Zangardi e l’odierno D’Aloiso derivato dall’originario Luisi) e
lontane ed inattese parentele.
Buon viaggio, dunque, nel più lontano passato che vi appartiene, un viaggio che, con la
presente pubblicazione, è notevolmente agevolato.

3 Don Domenico Spinucci nacque a Fermo il 2 marzo 1739, secondo figlio del conte Giuseppe Spinucci e di
Beatrice Vecchi-Buratti. A soli dodici anni, nel 1751, conseguì la Laurea in utroque iure (locuzione latina
utilizzata nelle prime università europee per indicare i dottori laureati in diritto civile e in diritto canonico)
presso l’Università di Fermo. Il 25 febbraio 1778 fu nominato vescovo assistente al soglio pontificio da
Clemente XIV. Dal 12 maggio 1777 fu vescovo di Macerata e Tolentino e poi trasferito arcivescovo alla
Chiesa beneventana il 27 giugno 1796. Papa Pio VII lo elevò al rango di cardinale nel concistoro dell’8
marzo 1816. Morì a Benevento il 21 dicembre 1823 all’età di 84 anni.
LA RICERCA GENEALOGICA

«Parlare degli antenati è conoscere qualcosa della loro vita e prima ancora è sapere chi furono».

La genealogia è la scienza che studia i legami di parentela tra le persone e si occupa di


ricostruirli basandosi su fonti attestate. La parola genealogia deriva dal greco gheneà (gente, razza)
e loghìa (trattato, discorso) e il suo significato è trattato sulla gente, cioè lo studio delle generazioni
riguardanti una famiglia, la scienza che indaga l’ascendenza dei singoli individui nel tempo.
La passione per la genealogia nasce dal bisogno di dare una risposta alle domande più
ricorrenti che molti si pongono sulle proprie origini: da dove provenivano? Chi erano i nostri avi?
A scuola abbiamo appreso le conquiste di Roma, il Rinascimento, il Risorgimento e le vicende di
Cavour, Mazzini, Garibaldi. Abbiamo anche studiato la storia locale.
E la genealogia? No. È un argomento che interessa a pochi, forse perché è molto… complicato!
Eppure è una materia che si dovrebbe coltivare!
La maggior parte di noi riesce a completare il proprio albero genealogico risalendo ad un
numero di tre, massimo quattro generazioni. Questo accade perché spesso si è latenti in
informazioni, ma anche perché si è convinti che le tracce del proprio passato siano andate
irrimediabilmente perse. In realtà è possibile rintracciare molti indizi, lungo il filo che ci lega alla
storia, addentrandoci negli archivi, dove sono depositati i documenti che custodiscono i legami
con i nostri predecessori.
Mettersi alla ricerca delle proprie radici non consente solo di ricostruire nomi e date dei nostri
antenati, ma rappresenta un viaggio a ritroso nei ricordi della memoria familiare che il tempo cerca
prepotentemente di cancellare. Una volta la conoscenza del passato era il modo che aiutava gli
uomini e le donne a stare dentro al loro presente. Ora la ricerca della propria identità passa
soprattutto dallo specchiarsi in se stessi e dalla voglia di scoprire realmente a chi apparteniamo.
Basta provare a volgere lo sguardo alle proprie spalle, indietro nel tempo, e immaginare quante
persone ci hanno preceduto e che si sono passate il «testimone» nella grande staffetta della vita.
Non si tratta di pensare ai nostri avi solo come parte del patrimonio genetico che portiamo dentro
di noi, ma anche chi, con le sue scelte ed il suo modo di interpretare la vita, ha condizionato in
qualche misura la nostra esistenza.
Pertanto, la ricerca genealogica è un percorso di ricostruzione dei legami tra le diverse
generazioni, un’indagine storica alla portata di tutti e che può essere condotta in modo autonomo,
seguendo necessariamente un filo logico: l’individuazione dei propri ascendenti. Non è un
compito facile, ma neppure tanto difficile; occorrono solo tanta passione per la storia e tanta
pazienza per effettuare ricerche che possono portare a risultati anche solo dopo mesi o anni di
lavoro.
Lo studio andrà svolto in due luoghi: l’archivio comunale per i dati che riguardano gli anni dal
1816 ai giorni nostri; la presente pubblicazione per la ricerca dei dati che interessano la
ricostruzione dell’albero genealogico, disegnato sotto forma di caselle, per gli anni inseriti nella
forbice 1760-1816.
Presso il Comune non è solitamente consentito accedere ai registri dello stato civile, ma con
autorizzazioni ottenute dal sindaco o dall’assessore preposto si può ovviare al problema. In
alternativa, come riportato in prefazione, si possono consultare liberamente i registri conservati
presso l’archivio di Stato di Lucera per gli anni che vanno dal 1816 al 1919.
Come iniziare la ricerca. Primo elemento fondamentale è conoscere la data di nascita, o di
morte, del proprio ascendente; prendiamo il nonno paterno (come esempio riporto i dati relativi a
mio nonno Nazario, nato il 18 agosto 1910).
Sappiamo l’anno di nascita del nonno (1910) e prendiamo il registro di quell’anno; dopo aver
trovato nell’indice il numero progressivo dell’atto, lo leggiamo e scopriamo chi erano i suoi
genitori e quanti anni avevano nel 1910 (il mio bisavolo si chiamava Primiano e aveva
cinquantacinque anni). Facendo gli appositi calcoli (alcune volte gli anni d’età sono errati e bisogna
proseguire in eccesso o in difetto di uno-due anni e talvolta anche di tre) andremo a conoscere
l’anno di nascita del nostro bisavolo (o bisnonno): sottraendo 55 anni al 1910 risaliamo al 1855.
Consultando il registro di quell’anno rileviamo chi erano i genitori del bisnonno e quanti anni
avevano nel 1855 (Primiano era figlio di Antonio, che aveva quarantaquattro anni). Andando a
ritroso ci troviamo nel 1811. Sappiamo che lo stato civile a Poggio Imperiale ha inizio nel 1816,
quindi la ricerca ora si sposta sul libro dei battesimi della presente pubblicazione (attenzione, la
data cui si riferisce il documento indica il giorno in cui l’infante è stato battezzato e non quello
della nascita, che invece è riportato nell’atto).
Prendiamo l’anno che ci riguarda e ricerchiamo il giorno del battesimo del nostro trisavolo: una
volta individuato l’atto, lo leggiamo e scopriamo a chi era figlio e il giorno della nascita (Antonio
era figlio di Primiano ed era nato il 31 dicembre 1811). Ora la ricerca si complica, poiché negli atti
di battesimo il sacerdote della chiesa di Lesina non riportava l’età dei genitori, ma non c’è da
disperare. Bisogna allora calcolare approssimativamente l’età dei genitori, da 20 a 40/45 anni, e
ricercare dal 1791 al 1771/1766. È da tener presente che la popolazione di Poggio Imperiale, come
ovviamente di altri paesi, era di gran lunga inferiore di quella attuale, quindi in brevissimo tempo
otterremo il risultato che ci interessa. Una volta trovato l’atto di battesimo del quadrisavolo e
scoperto il nome dei genitori (Primiano è nato nel 1767 ed era figlio di Carmine Antonio)
potremmo affermare di essere arrivati… «a destinazione», in quanto siamo giunti alle origini di
Poggio Imperiale e tutti i bambini nati negli anni che vanno dal 1760 al 1780/1785 sono tutti figli di
persone immigrate a Poggio Imperiale da altri paesi.
A questo punto, dopo aver annotato in un notes i nomi e le date di nascite dei nostri avi paterni,
non ci resta che completare i dati riferiti a queste persone col ricercare la data della morte. E qui lo
studio richiederà molta, ma davvero molta pazienza, poiché bisognerà ricercare negli indici
(attenzione, molti indici sono strutturati per nome, non per cognome), anno per anno, il nome del
nostro ascendente e l’atto in cui è riportata la sua data di decesso.
È la ricerca più difficile da realizzare, questa, perché, a parte le situazioni di epidemia o di
guerra, la morte di una persona non risponde ad alcuna logica prestabilita.
Dopo aver completato anche questa fase, bisognerà rifare le stesse operazioni anche per le mogli
dei nostri antenati maschili, dopodiché potremmo dire di aver concluso la nostra indagine.
Ma per avere una ricerca genealogica completa bisognerebbe condurre lo stesso metodo di
studio anche per via femminile, cioè da parte della madre. Non farlo potrebbe essere irriguardoso
nei confronti degli avi materni; d’altronde ognuno di noi nasce da due genitori, perché obliare gli
avi materni? Solo perché non portiamo il loro cognome?
Dobbiamo tener presente che una goccia del loro sangue, anelli del loro DNA sono presenti in
noi.
Una ricerca genealogica completa, quindi, è quella che riguarda entrambi i nostri genitori. Così
facendo potremmo affermare che per arrivare all’undicesimo grado di ascendenza (decavoli)
abbiamo da ricercare la bellezza di quattromilanovantasei nomi. Un bel numero, non vi pare!?
La ricerca genealogica, pertanto, avendo come scopo fondamentale il ritrovamento dei dati
relativi ai propri antenati, si svolgerà principalmente all’interno degli archivi, alla ricerca delle
fonti disponibili. Il genealogista deve procedere con deduzioni logiche per cercare di individuare
l’evento successivo di cui cerca la fonte.
Se dovessimo classificare gli atti in ordine d’importanza rispetto alle informazioni che
contengono, potremmo adottare questa sequenza: 1. Matrimonio - 2. Battesimo - 3. Morte.
Per un genealogista al debutto il modo migliore di procedere per trovare la traccia dei suoi
antenati è fondato sulla consultazione di questi documenti.
PARENTELA E AFFINITÀ

Ritengo utile riportare qui di seguito una specifica dei rapporti di parentela tra persone
indicando i criteri che il codice civile detta per il calcolo dei gradi di parentela e affinità.
La parentela è il vincolo che intercorre tra persone che discendono da uno stesso stipite e quindi
legate da un vincolo di consanguineità (art. 74). Questo vincolo è costituito da legami biologici,
sociali, culturali e giuridici.
Sono parenti in linea retta le persone che discendono l’una dall’altra (genitore-figlio), sono
parenti in linea collaterale coloro che, pur avendo uno stipite comune (ad esempio il padre o il
nonno), non discendono l’una dall’altra (fratelli o cugini) (art. 75).
Nella linea retta il grado di parentela si calcola contando le persone sino allo stipite comune,
senza calcolare il capostipite. Nella linea collaterale i gradi si computano dalle generazioni, salendo
da uno dei parenti sino allo stipite comune (da escludere) e da questo discendendo all’altro
parente (art. 76).
La legge non riconosce il vincolo di parentela oltre il sesto grado, salvo che per alcuni effetti
specialmente determinati (art. 77).
La parentela si dice diretta o in linea retta quando le persone discendono l’una dall’altra (ad
esempio padre e figlio), si dice indiretta o in linea collaterale quando le persone non discendono
l’una dall’altra, pur avendo un antenato in comune (ad esempio fratelli o cugini).
L’affinità è, invece, il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge. Nella linea e nel grado
in cui taluno è parente d’uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge. L’affinità non cessa per la
morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente
determinati. Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo (art. 78).

GRADI DI PARENTELA
1° grado: genitori e figli;
2° grado: nonni, fratelli, sorelle, nipoti;
3° grado: bisnonni, zii, nipoti di cui il titolare è zio, pronipoti;
4° grado: primi cugini, figli di nipoti;
5° grado: figli di pro zii, secondi cugini, figli di cugini.

GRADI DI AFFINITÀ
1° grado: suoceri;
2° grado: nonni del coniuge, cognati (fratelli e sorelle del coniuge);
3° grado: zii del coniuge, nipoti (di cui il coniuge è zio), bisnonni del coniuge;
4° grado: figli di nipoti, cugini del coniuge, prozii del coniuge
5° grado: figli di cugini, figli di prozii del coniuge.

RICORDIAMO CHE I CONIUGI (LEGATI DA RAPPORTO DI CONIUGIO) NON SONO NÉ PARENTI, NÉ


AFFINI.
Presupposto della parentela è la procreazione

(a cura di Clemente Suardi)

In caso di più figli si distingue tra primogenito e ultrageniti (o ultrogeniti); in passato si


contavano solo i maschi in quanto le femmine nate prime non avevano alcun privilegio. La civiltà
patriarcale attibuiva alla primogenitura le prerogative maggiori; per questo esisteva una linea
primogenitale maschile che contemplava tutti i discendenti in base alla primogenitura maschile.
Se un individuo aveva figli da diverse mogli questi si distinguevano in «figli di primo letto», «di
secondo letto» a seconda che erano nati dalla prima o dalla seconda moglie.
I figli nati dalla stessa coppia si dicono bilaterali o germani (dal latino germen germoglio). I
fratelli che hanno in comune un solo genitore sono detti unilaterali oppure nel linguaggio comune
fratellastri e sorellastre. Se hanno in comune solo il padre si dicono fratelli consanguinei in quanto
derivano dalla stessa stirpe e portano lo stesso cognome. Se hanno in comune la madre si dicono
fratelli uterini.
I figli di un vedovo sono per il nuovo coniuge figli d’acquisto o figliastri e per essi lui è il
patrigno (o la matrigna).
I figli nati da una relazione extraconiugale si dicono adulterini o solo naturali; se venivano
riconosciuti dal padre si dicevano legittimati. Tutti i figli nati nel matrimonio oltre che naturali
sono anche legittimi.

IL COGNOME
(a cura di Clemente Suardi)

Per cognome s’intende il nome di famiglia alla quale un individuo appartiene e che si tramanda
per via patrilineare ovvero di padre in figlio.
L’uso del cognome cominciarono a farlo i Romani negli ultimi secoli della Repubblica, quando
al nome unico dei cittadini aggiunsero altri elementi e passarono alla formula dei tre nomi, i
cosiddetti triaa nomina.
Il prenomen è paragonabile al nostro nome di battesimo;
Il nomen indicava la gens, era uguale per tutti gli appartenenti della famiglia e veniva trasmesso
di padre in figlio (il nostro attuale cognome). La gens è il clan, cioè l’insieme di tutti quanti che
discendono da una stessa origine comune.
Il cognomen precisava il ramo della gens cui la persona apparteneva. Una sorta di identificativo
di famiglia, per orientarsi fra ceppi diversi
Per diversificare ancor meglio una persona dall’altra, in qualche caso, si aggiungeva anche una
sorta di soprannome, l’agnomen, che faceva riferimento a caratteristiche fisiche oppure a fatti che
avevano caratterizzato la loro vita: l’aver partecipato a campagne militari vittoriose o anche al loro
luogo di provenienza e così via. Con la caduta dell’Impero romano (476 d. C.) tutto ciò andò in
disuso: le famiglie si ritrovarono a non aver nessun appellativo che le distinguesse e si tornò ad
identificare le persone da un solo nome .
I primi cognomi appaiono in Italia nel IX secolo, poi man mano il fenomeno si diffonde sempre
più, fino ad arrivare, in epoca rinascimentale, ad essere utilizzato dalla popolazione. La diffusione
del cognome tra gli anni 1000 e 1200, è dovuta in particolare modo alla forte crescita demografica e
all’accentramento urbano caratteristico di questo periodo, che resero indispensabile un sistema di
denominazione fondato non più solo sul nome individuale.
A sorreggere e potenziare questa tendenza contribuisce anzitutto il patrimonio, immobiliare e
mobiliare, teso a regolare la vita dei singoli nella collettività e a dare prestigio politico ed
economico alla discendenza.
Un buon contributo all’uso del cognome lo dettero anche i notai che, preoccupati di evitare ogni
possibile confusione sulla identità delle persone chiamate in causa, tesero a ufficializzare i vari
soprannomi e a moltiplicare i riferimenti alla discendenza paterna.
Il periodo di massimo sviluppo per la formazione dei cognomi va dal XIII al XV secolo mentre
prima e dopo, lo sviluppo fu estremamente variabile. La trasmissione del cognome per via paterna
divenne obbligatoria in Italia solo dopo il Concilio di Trento (1545-1563).
In teoria possiamo incominciare a parlare di cognomi stabili e fissati, così come li conosciamo
oggi, soltanto dopo l’Unità d’Italia, con la creazione delle anagrafi comunali, e l’affermazione di
istituzioni e procedure amministrative che ne hanno comportato e sancito per legge l’obbligo.
Nel XVII-XVIII secolo, inoltre, non solo cessò la tendenza alla neo formazione di altri cognomi
ma anzi iniziò la tendenza contraria, che diverrà sempre più forte specie quando le leggi degli Stati
fissarono in modo pressochè immutabile il cognome delle persone, segnandone così l’estinzione
per tutte le famiglie senza discendenza maschile.

IL COGNOME NELLE RICERCHE GENEALOGICHE


(a cura di Clemente Suardi)

La ricerca negli archivi porta ben presto a scoprire che il proprio cognome nel tempo ha subito
numerose variazioni. Nel corso dei secoli, i cognomi sono stati condizionati dalla lingua parlata e
non riuscivano a mantenere una grafia stabile, fino a circa il XVIII secolo quando si iniziò ad
assistere ad un loro assestamento. In precedenza alla stregua degli aggettivi poteva capitare ad
esempio che i cognomi fossero declinati secondo il genere.
Altri fenomeni ricorrenti erano: la sdoppiatura o il raddoppiamento delle consonanti; lo
scambio di vocali all’interno del cognome; le aferesi (eliminazione di un suono o di una sillaba
iniziale) o apocopi (eliminazione di un suono o di una sillaba finale); il cambiamento di consonanti.
Fino al ‘700 i parroci avevano l’abitudine di latinizzare i cognomi.
Un altro aspetto è legato all’uso della preposizione «Di» o «De» che precede il cognome e lo
integra; in alcuni casi è scomparso ed è stato abbandonato, in altri è rimasto.
Spesso nei registri parrocchiali si assiste ad un uso alternato del cognome o del soprannome di
famiglia che tende ad assumere un riconoscimento pubblico.
IL MATRIMONIO

IL SIGNIFICATO DEL MATRIMONIO4

Il matrimonio esiste fin dall’antichità, almeno da 4.500 anni, in diverse forme, riflettendo i
costumi e i valori di una società. La parola «matrimonio» deriva dal latino matrimonium e ha per
radice matertris, che significa appunto madre. In passato il matrimonio serviva al marito per prendere
possesso della moglie, quasi a schiavizzarla! Solo con il Diritto Romano si ebbe un concetto diverso
del matrimonio e diventò un accordo libero fra due persone. L’unica civiltà antica che permetteva la
parità fra uomini e donne dopo il matrimonio era quella egiziana.
In passato gli elementi degni di considerazione per unirsi in matrimonio erano l’appartenenza a
una stessa religione, a una stessa razza, a una stessa classe sociale e naturalmente la posizione
economica dei contraenti. Non vi era spazio alcuno per l’amore. Solo con il Cristianesimo il
matrimonio assunse il valore di sacramento e come tale era sacro e indissolubile, con l’unico fine
della procreazione.
Ma andiamo con ordine partendo dal Medioevo.
Il Medioevo fu un periodo molto cupo per il matrimonio, che si scisse dall’amore. Infatti l’amore
ebbe una natura esclusivamente spirituale, mentre il matrimonio ebbe solo un puro legame di
interesse.
Nel Rinascimento è sempre l’uomo ad essere predominante, la donna è sempre messa da parte e i
matrimoni sono sempre più un espediente per unire terreni e ricchezze. Molto diffusi gli incontri
omosessuali fra uomini facoltosi e letterati, o l’abitudine di avere un’amante, piuttosto che essere
fedeli alla moglie.
Nel Seicento c’è il trionfo dell’assolutismo monarchico. L’amore e la fedeltà sono concetti molto
astratti, vi è molto libertinaggio, al punto che i re sostenevano che fosse sciocco essere fedeli alla
moglie: meglio avere un’amante.
Nel Settecento finalmente il matrimonio comincia ad avere un significato diverso. Con le
rivoluzioni americana e francese, i popoli cercano di porre fine in modo definitivo all’arroganza
dell’aristocrazia e ci si comincia a sposare per amore.
N e l l ’ O t t o ce n t o , con il romanticismo, il matrimonio cambiò volto. Da adesso ci si sposa solo
per amore. Non sposarsi significava andare incontro a dispiaceri e lutti. È proprio nell’800 che nasce
una buona parte delle tradizioni che ancor oggi conserviamo, quali l’abito bianco e lungo, i guanti, la
torta nuziale, il ricevimento.
Oggi in Italia come nell’800 esistono ancora molte di queste usanze, come l’abito bianco, i
guanti ecc… e ci si sposa per amore anche se alcuni fattori come le condizioni socio-economiche, le
differenze sociali, religiose o politiche presenti, influenzano ancora le scelte delle persone.
Si preferisce sposarsi più maturi spesso dopo un periodo di convivenza, si fanno meno figli, sia
per un fattore economico che per una mancanza di tempo, infatti le donne sono più indipendenti,
lavorano fuori casa ed hanno molto meno tempo da dedicare ai figli. Tali compiti adesso sono divisi
con il marito.
Nonostante molte coppie decidano di non sposarsi e di convivere, il matrimonio rimane per la
maggior parte delle persone il giorno più bello della propria vita.
I fautori della convivenza sostengono che convivere è meglio che sposarsi perché ci sono un
sacco di problemi in meno. Se un rapporto non va, si scioglie. Senza troppi rimpianti.
Il tema è profondo ed il rischio è quello di banalizzare. Ma se per un attimo pensiamo alla persona
che amiamo è impossibile non pensare che possa essere «per sempre».
E la convivenza in questo senso mette dentro tutta l’incertezza del pensare di poter dire: «Ok,
avevo scherzato». L’uscita di sicurezza a portata di mano.

4 Articolo tratto dalla rivista «Adesso sposami Magazine 2013», p. 26.


Se una convivenza fosse infatti la più bella e soddisfacente che ci potessimo immaginare e se
durasse tutta la vita, non sarebbe di fatto un matrimonio mancato? Il matrimonio, nonostante i
profondi cambiamenti che ci sono stati nella vita sociale, con il conseguente abbandono di molte
convenzioni e tradizioni, mantiene ancora oggi la sua forza e il suo fascino.
Perché? La risposta più ovvia sarebbe: «Perché ci amiamo!»
Ma non solo! La Costituzione Italiana sancisce, con l’articolo 29, che «La Repubblica riconosce i
diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
Il matrimonio è quindi la decisione di fondare una famiglia, e la famiglia è e rimane l’unico
punto fermo in un mondo in cui, persi tanti valori, si fa fatica a trovarne altri che li sostituiscano.
INTRODUZIONE
«Il matrimonio è l’incontro tra due anime simili che si riconoscono e si scambiano
una promessa che durerà per sempre...!»

«In ogni tempo e in ogni cultura, il matrimonio è uno degli eventi più importanti nella vita di un uomo
perché esso favorisce, per il principio dell’unione coniugale, la maturazione e lo sviluppo d’innumerevoli e
diversissime relazioni umane che sono alla base della vita sociale»5.
Originariamente lo scopo del matrimonio era quello della procreazione, al fine di perpetuare la
famiglia, possibilmente nella sola linea maschile, «attraverso la donna, genitrice della discendenza»6.
Questo è confermato dallo stesso significato etimologico del termine latino matrimonium, composto
dal sostantivo mater (madre, genitrice) e dal suffisso monium (compito, dovere) da cui scaturisce il
«dovere della madre a generare».
La celebrazione cristiana del matrimonio è stata influenzata, fin dalle origini, da varie usanze,
tradizioni familiari ed etnografiche. In esse, in epoca imprecisata, si inserì la Chiesa, per affermare
la dignità sacramentale dell’unione tra i coniugi ed invocare su di essi la benedizione di Dio.
L’elemento essenziale del rito matrimoniale era la manifestazione del consenso davanti alla
Chiesa, in faciem ecclesiae, e la successiva benedizione7.
Con la XXIVª sessione del Concilio di Trento, svoltasi l’11 novembre 1563 e dedicata
interamente alla dottrina del matrimonio (decreto Tametsi8), il vincolo dell’unione fra uomo e
donna fu dichiarato solennemente perpetuo e indissolubile: «Questo, ora, è osso delle mie ossa e carne
della mia carne. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla propria moglie e i due saranno un
solo corpo e un solo spirito.» (Genesi 2:23-24; Matteo 19:5; Efesini 5:31)
Che questo vincolo dovesse unire e congiungere due persone soltanto, Gesù Cristo lo insegnò
più apertamente, quando, riferendo quelle ultime parole come pronunciate da Dio, disse: «Quindi,
ormai non sono più due, ma una sola carne» e immediatamente confermò la stabilità di quel vincolo,
affermata da Adamo tanto tempo prima, con queste parole: «L’uomo, quindi, non separi quello che Dio
ha congiunto.» (Matteo 19:6; Marco 10:8-9)
Con la riforma tridentina, la celebrazione del matrimonio poteva svolgersi durante la messa.
Furono stilati, infatti, dei Canoni il primo dei quali stabiliva che in avvenire, prima che si contraesse
il matrimonio, per tre volte, in tre giorni festivi consecutivi, il parroco dichiarasse pubblicamente in
chiesa, durante la santa messa, la volontà dei due futuri sposi. Fatte le pubblicazioni, se non fosse
emerso alcun legittimo canonico impedimento, si procedeva alla celebrazione del matrimonio in
chiesa. Dopo aver accolto solennemente gli sposi sul sagrato, il sacerdote, nel corso della
celebrazione, interrogava l’uomo e la donna (vis et volo) ed inteso «il di loro mutuo consenso»,
recitava la seguente frase: «Io vi congiungo in matrimonio nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo.» Seguiva lo scambio degli anelli: oggetti importanti che, scambiati nel momento dei voti che
uniscono gli sposi per sempre, rendono indimenticabile la cerimonia.
Sempre nella medesima sessione del Concilio, fu stabilito, infine, che il matrimonio fosse
celebrato alla presenza di almeno due o tre testimoni e che il parroco «abbia un registro, in cui scriva
accuratamente i nomi dei coniugi e dei testimoni, il giorno e il luogo in cui fu contratto il matrimonio, e lo
conservi diligentemente presso di sé.»

5 V. D’AURELIO, Dote, matrimonio e famiglia. Approfondimenti a margine di una carta dotale uggianese di fine ‘700,
Autorinediti, Napoli 2010, p. 15.
6 Ibidem. Nel linguaggio comune si usa ancora dire «mettere su famiglia» per indicare il matrimonio e questo

testimonia come nel senso comune matrimonio e famiglia siano istituiti immediatamente associati alla
procreazione.
7 Grande Enciclopedia De Agostini, Novara 1992, lemma «matrimonio», Vol. 14, p. 300.
8 Il decreto Tametsi costituisce il primo capitolo del decreto De reformatione matrimonii, composto di dieci capitoli

ed emanato durante la XXIV sessione del Concilio Tridentino (1563). Con il Tametsi venne risolta la questione
del matrimonio clandestino, del quale si dichiarò l’invalidità, stabilendo che la celebrazione del matrimonio
fosse preceduta da regolari pubblicazioni; che fosse celebrato dinnanzi al parroco personale dei nubendi e alla
presenza di almeno due testimoni, e che fosse debitamente trascritto nel registro parrocchiale.
Solitamente i testimoni erano i sagrestani o persone vicine al sacerdote.
Inizialmente, e fino alla fine del ‘700, l’atto era redatto in latino, in seguito si adoperò la lingua
italiana.
Generalmente in ogni atto si riportavano: il luogo e la data della celebrazione; il nome e il
cognome degli sposi; lo stato civile dei due (se celibi, nubili o vedovi); la provenienza; il nome dei
testimoni; il nome del sacerdote celebrante.
Inoltre il sacerdote compilava i «processetti matrimoniali», chiamati anche «promesse di
matrimonio», che, oltre alla reciproca promessa di unirsi, riunivano tutti i dati noti riguardanti gli
sposi, i loro genitori e, nel caso in cui potevano sorgere dubbi di parentela tra i due «promessi», la
dispensa della diocesi.
Trascriviamo, di seguito, gli atti dei matrimoni celebrati nelle chiese della Santissima
Annunziata di Lesina, dei Santi Martino e Lucia di Apricena e di San Placido in Poggio Imperiale,
nella quale il 2 febbraio 1761 il sacerdote albanese don Simone Uladagni unì in matrimonio Simone
Bubici e Veneranda Colezzi, vedova Sterbini, suoi compatrioti. Di questo matrimonio non risulta
alcun atto, ma viene citato dal vescovo di Lucera, Giuseppe Maria Foschi, nella relazione della sua
visita pastorale del 17619.

9 Cfr. di chi scrive, La rivoluzione agraria di Placido Imperiale e la fondazione di Poggio Imperiale, Natan edizioni,
Benevento 2012, p. 130.
LIBRO DEI MATRIMONI

ATTI DI MATRIMONIO

Sub Pontificatus SS.mi Domini nri Clementis Divina Providentia Papam XIII
anno eius septimo.
Et sub secondo anno Presulates I.llmi et R.mi Dom.ni Fratris
Johannis Batt. Colombini Archiepiscopi Beneventani
eiusq
Vicarij Elis D. Johannis Jacobi Onorati
Per me infrascriptum
Economum Curatum huius Ecclesia S. Placidi oppiduli Podij Imperialis,
incepta fuit annotatio matrimonios
Ordina quo segnatar

[Lesina] A di 20 di Gennaro 1764


Fatte le tre solite pubblicazioni tra la solennità della Messa Parrocchiale, come dagli atti in tre di festivi di
precetto Populo ad Divina Congregato, sopra lo stato libero delli ziti Vincenzo Pappadà, e Serafina Dragone
abitatori di Poggio Imperiale, giurisdizione di questa Città, non si è scoverto alcun canonico impedimento e
stante il di loro mutuo consenso, con licenza della Reverendissima Curia di Benevento, li ho pubblicamente
congiunti in matrimonio in faccia della Chiesa, secondo la forma prescritta nel Sagro Concilio di Trento, e
Rituale Romano; presentibus testimonj Lazzaro Mancino, Andrea Florio ed altri; e per consacrare la donna
zita, l’ho data la benedizione nel Messale Romano ordinata; in fede Felice Arciprete di Lullo
LIBRO DEI BATTESIMI

INTRODUZIONE

Il corso della vita umana è scandito da varie fasi che la religione cristiana associa a riti che
accompagnano l’uomo negli eventi della sua esistenza: dalla nascita al matrimonio fino ad arrivare
alla morte.
Il sacramento dell’iniziazione cristiana collegato alla nascita è il battesimo. Mediante il
battesimo, che in greco significa «tuffare», «immergere», siamo liberati dal peccato e rigenerati come
figli di Dio, incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione: «Il Battesimo può definirsi il
sacramento della rigenerazione cristiana mediante l’acqua e la parola»1.
Il primo battezzante fu Giovanni, detto perciò il Battista. La storia di questo santo è nota a tutti.
Figlio di Zaccaria ed Elisabetta, ancora giovane si ritirò per alcuni anni nel deserto, nutrendosi di
locuste e miele selvatico. Nell’anno 29 d. C. riapparve sul Giordano predicando un battesimo di
conversione per il perdono dei peccati e annunziando l’arrivo del Messia.
Anche Gesù si fece battezzare da Giovanni Battista. Secondo il racconto dei vangeli, Gesù,
nell’uscire dalle acque del Giordano, «vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di
lui» (Matteo 3:16) udendo una voce che gli diceva: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono
compiaciuto» (Matteo 3:17; Marco 1:11; Luca 3:21).
Dopo aver ricevuto il battesimo, Gesù diede inizio alla sua vita pubblica e, dopo la sua
risurrezione, affidò agli apostoli questa missione: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che
vi ho comandato» (Matteo 28:19-20).
Negli Atti degli apostoli sono riportate le prime conversioni al cristianesimo da parte di ebrei e
pagani successive alla prima predicazione apostolica dopo la Pentecoste e tremila persone
«accolsero di cuore la sua parola» e «furono battezzate» (Marco 8:18-20). Il battesimo veniva infatti
conferito solo a coloro che seguivano gli insegnamenti degli apostoli e accettavano
consapevolmente di diventare discepoli.
Se alcune testimonianze affermano che nel IV secolo era pratica diffusa, nella veglia di Pasqua,
battezzare i catecumeni, cioè coloro che si preparavano al battesimo, a partire dal secolo successivo
cominciò a diffondersi l’usanza di battezzare anche gli infanti.
Pertanto, per la sua fondamentale importanza, perché ritenuto «la porta di tutti i sacramenti», la
Chiesa ritenne necessario che dell’amministrazione del battesimo venisse redatta una corretta e
puntuale documentazione.
Le prime disposizioni sui libri parrocchiali dei battezzati risalgono alla penultima sessione del
Concilio di Trento, la XXIVª, dell’11 novembre 1563, come abbiamo già visto in precedenza. Il
Concilio, indetto da Paolo III nel 1545 e conclusosi, dopo diverse traslazioni e interruzioni, nel
1563, si basò su due punti: la tutela del dogma e la riforma - spirituale, morale e disciplinare - della
Chiesa.
Di grande rilievo, anche dal punto di vista storico, fu l’istituzione obbligatoria delle anagrafi
parrocchiali, veri e propri status animarum, ancora oggi di importanza fondamentale, tra cui un libro
dove registrare regolarmente i battesimi: «Parochus […] in libro eorum nomina (baptizati et
patrinorum) describat.»2
Per quanto corcerne le vicende nostrane, possiamo affermare che dal 1760, anno in cui si
registrarono le prime nascite a Poggio Imperiale, il sacramento del battesimo veniva celebrato nella
chiesa dell’Annnuziata di Lesina e gli atti venivano redatti dal sacerdote in lingua italiana
sostituita, con una breve parentesi, da quella latina.
Il contenuto dell’atto di battesimo è generalmente il seguente: dopo aver indicato nell’incipit il
luogo e la data del sacramento, il sacerdote riportava la data di nascita dell’infante, il nome e

1 Cfr. Catechismo Romano 2, 2, 5: ed. P. Rodríguez, Città del Vaticano-Pamplona 1989, p. 179.
2 «Il Parroco (…) scriva nel libro i loro nomi (battezzati e padrini)».
cognome dei genitori (e loro luogo di residenza o di provenienza), il nome (o i nomi) del
battezzato; nome e cognome del padrino e della madrina e loro luogo di residenza.
I libri parrocchiali sono necessariamente divisi in diversi volumi, comprendenti più anni e
vengono versati periodicamente alle Diocesi. Con infinito rammarico, annotiamo la mancanza
degli atti di battesimo degli anni che vanno dall’aprile 1771 al dicembre del 1780, il cui registro è
andato sicuramente distrutto da un incendio che ha interessato la chiesa lesinese.
PARROCCHIA DELLA SS. ANNUNZIATA – LESINA

LIBRO DEI BATTEZZATI


TOMI III E IV
FATTO DA DON VITO TROJANO
ARCIPRETE DI DETTA CITTÀ NELL’ANNO 1742
ADSIS PRINCIPIIS VIRGO BEATA MEIS3

3 Letteralmente, «Vergine Beata, assistimi (o sii presente) nel mio inizio». Invocazione alla Madonna che notai e
sacerdoti usavano inserire solitamente sui frontespizi dei registri o all’inizio di atti pubblici.
ATTI DI BATTESIMO

ANNO 1760

Lesina A 18 maggio 1760


Io D. Felice di Lullo, Arciprete di questa Città di Lesina, ho battezzato un infante nato ieri l’altro, venerdì
ad ore 17, figlio di Ambrosio Garappa e Rosa Reti di Francavilla di Lecce4, commoranti al presente in Poggio
Imperiale, al quale si è posto nome Lonardo Primiano Emmanuele. Li Padrini sono stati Giuseppe di Napoli,
figlio delli quondam5 Potito e Mattea Scorda di Sannicandro; e Soleria di Natale, figlia del quondam Felice e
Grazia Solimando di detta Terra; ed in fede Felice Arcip. di Lullo

4 Oggi Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi.


5 Avverbio latino che significa «un tempo, una volta». Termine che, usato davanti al nome di un defunto, ha
il significato di «fu».
LIBRO DEI DEFUNTI

INTRODUZIONE

«Rivivano i tuoi morti! Risorgano i miei cadaveri! Svegliatevi ed esultate, o voi che abitate nella polvere!
Poiché la tua rugiada è come la rugiada di luce, e la terrà ridarà alla vita le ombre.» Isaia 26:19

La morte è presente nella nostra vita e ne diventa parte sin dal momento del concepimento.
Viaggia con noi attraverso l’esistenza, senza mai lasciare il nostro fianco. È lì, e l’unico aspetto
positivo è che nessuno sa quando ci presenterà il suo biglietto da visita.
Quando poi si giunge all’epilogo, quando il destino avrà concluso il suo iter, l’anima della
persona abbandona definitivamente il corpo e, con esso, la vita terrena, per ricongiungersi a Dio.
«Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza [...] prima che ritorni la polvere alla terra,
com’era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato» (Qoèlet 12:1-7).
«Mentre il corpo abbandonato dall’anima doveva tornare alla natura, l’anima andava a raggiungere un
destino imprevedibile e irrevocabile, posto al di fuori di ogni possibilità umana di intervento e affidato al solo
giudizio di Dio. Vivi e morti separavano le loro strade. Con la morte l’individuo scioglieva definitivamente il
legame con la società»1.
Le prime registrazioni dei decessi risalgono a circa cinque secoli fa e furono adottate per usi
prettamente ecclesiastici. L’usanza di tenere per ogni parrocchia un libro dove si annotassero i
trapassi dei fedeli, risulta essere una tradizione di antica data, anche se ristretta e lasciata
all’iniziativa personale dei parroci, dal momento che mancavano precise indicazioni al riguardo.
L’istituzione del libro parrocchiale dei defunti, il liber mortuorum, si ebbe per opera di papa
Paolo V nel 1614 con il Rituale Romanum2, con il quale fu imposto ai parroci l’obbligo di
compilazione dei registri delle sepolture.
Dal Concilio di Trento e fino all’istituzione dello stato civile, solo i parroci avevano l’obbligo di
provvedere alla registrazione dei decessi, perciò gli atti parrocchiali, oltre che documenti pubblici
ecclesiastici, furono considerati veri registri di stato civile e rimangono fondamentali sia per la loro
specificità sia per la continuità temporale.
Il primo registro degli atti di morte della parrocchia di San Placido di Poggio Imperiale fu
iniziato il 2 giugno 1764 dall’economo curato don Giovan Pietro Caruso in occasione della morte di
Carmelo D’Agostino, figlio di Giuseppe e Brigida Guglielmucci, coniugi da poco giunti in
Capitanata da Circello (BN), il cui corpo venne sepolto nella cripta della piccola chiesa rurale del
nuovo casale.
Per gli anni che interessano il presente lavoro abbiamo preso in esame i primi tre volumi, che
contengono i decessi avvenuti dal 2 giugno 1764 al 23 dicembre 1825.
Dopo una parentesi in lingua latina (2 giugno 1764 - 5 gennaio 1768), da noi tradotta, gli atti
sono trascritti nella forma italiana dell’epoca. In ogni atto è riportato il nome del defunto, l’età, il
nome del coniuge, la località di provenienza e a volte la causa della morte. Per i bambini si
indicavano anche i nomi dei genitori.
Quello dei morti è il registro più ricco di informazioni e di curiosità, anche perché i vari curati,
per poter stabilire se il defunto avesse ricevuto i sacramenti ed era morto «in grembo di Santa Madre
Chiesa», erano soliti descrivere le circostanze della morte e il luogo della sepoltura.
Nei casi di morte repentina, come accaduto ad esempio a Simone Dentato di Reino il 5 giugno
del 1764, o in caso di disgrazie, come nel caso di Andrea Bubici, «colpito da una pietra e morto

1 A. PROSPERI, Il volto della Gorgone. Studi e ricerche sul senso della morte e sulla disciplina delle sepolture tra
Medioevo ed Età moderna, in: F. SALVESTRINI, G. M. VARANINI, A. ZANGARINI (a cura di), La morte e i suoi riti in
Italia tra Medioevo e prima Età moderna, Firenze University Press 2007 , p. 7.
2 Il Rituale è un testo per la celebrazione che accompagna la vita del singolo fedele - nelle diverse circostanze

che lo vedono presente dalla nascita alla morte, dal battesimo alle esequie - come pure dell’intera comunità
cristiana.
improvvisamente» il 14 maggio 1766, per ottenere una cristiana sepoltura, occorreva che il trapassato
avesse assolto alla prescrizione di comunicarsi almeno una volta all’anno, cioè a Pasqua.
Scorrendo gli atti leggiamo decessi avvenuti per incidenti, come quello occorso il 2 luglio 1793 a
Francesco Cicchetti, «della Città di S. Angelo [dei Lombardi], al quale non si è amministrato altro
Sacramento che quello della Confessione, poiché repentinamente ucciso da un calcio del di lui cavallo», o
sopravvenuti sul luogo del lavoro, «è morto soffocato sotto la paglia in campagna Antonio Cristino, in
età di anni 17 in circa, perché aveva adempiuto al Precetto Pasquale è stato seppellito in questa Chiesa di San
Placido Martire».
Non mancano, infine, i morti per omicidio, avvenuti perlopiù in zone periferiche del villaggio, i
cui atti sono molto scarni d’informazioni, o decessi di persone che si trovavano di passaggio da
Poggio Imperiale, come nel caso del frate Giovanni Gallo di Fossacesia, romito della SS.a Trinità di
Stignano, morto il 27 dicembre 1796 nella taverna del paese; del quarantaduenne Vittore Brugnier,
brigadiere della Gendarmeria Reale francese, appartenente alla Brigata di stanza a San Paolo di
Civitate, deceduto il 19 gennaio 1812 «perché appena sorpreso da febbre maligna ha perduto i sensi».
Oppure del «pitoccante»3 Marco Varrata, giovane diciottenne morto in un pagliaio il 27 settembre
1816.
Come si è accennato, prima della costruzione del cimitero comunale, la tumulazione dei defunti
a Poggio Imperiale avveniva nella cripta della chiesa di San Placido. Di essa ne fa cenno il vescovo
di Lucera, Giuseppe Maria Foschi, negli atti della sua visita pastorale del 1761: «evvi in mezzo della
chiesa una sepoltura con lapide rozzamente lavorata, la porta è di pietra, qui chiamata gradinata, larga palmi
sei, ed alta palma undeci»4.
Quella di seppellire i morti nelle chiese era un’espressione «della cura delle anime» della
Chiesa, in quanto chi era morto in Dio doveva rimanere vicino a coloro che erano in vita, perché
questi ultimi, quotidianamente, avessero il loro «memento» per i propri cari trapassati.
Questa pratica venne dismessa con l’editto del 5 settembre 1806, emanato da Napoleone
Bonaparte da Saint Cloud, con il quale si dispose che i cadaveri dei defunti dovevano essere
inumati in determinati luoghi, destinati al riposo eterno, costruiti al di fuori delle città e comunque
lontano da ogni zona abitata, in aeree adatte, arieggiate, soleggiate e adornate da alberi
sempreverdi. Inoltre fu stabilito che il cadavere del defunto andava trasportato al cimitero coperto
da un velo funebre entro venti ore dal decesso o quarantotto nei casi in cui questo fosse stato
improvviso.
Anche Poggio Imperiale si adeguò alle nuove norme, seppur molto lentamente, disponendo,
alcuni decenni dopo la promulgazione dell’editto di Saint Cloud, la costruzione del cimitero
lontano dalle abitazioni, con un graduale e salutare abbandono della sepoltura della chiesa.
Il nuovo camposanto venne inaugurato al mesto uso durante l’epidemia di colera del 1837, che
causò a Poggio Imperiale trentasette vittime.

3 Mendicante.
4 Crf. di chi scrive, La rivoluzione agraria di Placido Imperiale… cit., p. 130.
PARROCCHIA DI S. PLACIDO - POGGIO IMPERIALE

I. M. I. 5

Die prima mensis Junij anni millesimi septingentesimi sexagesimi quarti


Sub
Pontificatu SS. Domini nostri Clementis divina providentia Pape XIII,
anno eius septimo.
Et sub primo Presulatus anno Ill.mi, Prev.mi domini fratris
Johannis Baptiste Colombini
Archiepiscopi Beneventani
Eiusque
Vicarij Ilis D. Johannis Jacobi Onorati.
Per me infrascriptu
æcononomum curatum huius Ecclesia S. Placidi
oppiduli Podij Imperialis incepta fuit annotatio
omnium mortuorum, ordine, quo sequitur.

(Il primo giorno del mese di Giugno del 1764 nell’anno settimo del
Pontificato del santissimo signore nostro per divina provvidenza
Papa Clemente XIII e nel primo anno di Presulato dell’illustrissimo
e reverendissimo signore fra Giovanni Battista Colombini,
Arcivescovo di Benevento, e del suo Vicario illustre Don Giovanni
Giacomo Onorati. Da me sottoscritto Economo Curato di questa
Chiesa di S. Placido della cittadina di Poggio Imperiale è stata
iniziata l’annotazione di tutti i defunti, nell’ordine che segue.)

5 La formula è un’abbreviazione per Iesus, Maria, Ioseph, «Gesù, Maria, Giuseppe». Solitamente veniva
apposto a devozione dal sacerdote come incipit di lettere o sui frontespizi dei registri.
ATTI DEI DEFUNTI

Poggio Imperiale 2 giugno 1764


È morto Carmelo, figlio di Giuseppe d’Agostino e Brigida Guglielmucci, coniugi oriundi di Circello,
munito dei Sacramenti della Confessione e Comunione e il suo corpo è stato sepolto in questa Chiesa di
San Placido; ed in fede D. Gianpietro Caruso, Economo Curato

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