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Giovanni Saitto

La rivoluzione agraria
di Placido Imperiale
e
la fondazione di Poggio Imperiale

Prefazione di Francesco Barra

Edizioni del Poggio


SOMMARIO

SOMMARIO.......................................................................................................................................................3
PENSIERO.........................................................................................................................................................4
PREMESSA........................................................................................................................................................5
CAPITOLO I......................................................................................................................................................5
L’arrivo in Capitanata di Placido Imperiale..............................................................................................................5
Lesina nel Settecento.....................................................................................................................................................5
Lesina, feudo di Placido Imperiale.............................................................................................................................5
CAPITOLO II.....................................................................................................................................................5
La rivoluzione agraria di Placido Imperiale..............................................................................................................5
Placido Imperiale, latifondista e allevatore...............................................................................................................5
CAPITOLO III....................................................................................................................................................5
La fondazione di Poggio Imperiale.............................................................................................................................5
La chiesa di San Placido................................................................................................................................................5
CAPITOLO IV...................................................................................................................................................5
L’avvento degli albanesi...............................................................................................................................................5
Da Scutari verso la terra promessa.............................................................................................................................5
L’arrivo a Poggio Imperiale.........................................................................................................................................5
Arrivo di una seconda colonia albanese....................................................................................................................5
La palazzina....................................................................................................................................................................5
Accoglienza degli albanesi e loro ripartenza per Napoli.........................................................................................5
Gli arbereshe di Poggio Imperiale...............................................................................................................................5
CAPITOLO V.....................................................................................................................................................5
La visita ad limina del vescovo Foschi.......................................................................................................................5
CAPITOLO VI...................................................................................................................................................5
L’arrivo dei coloni dal Principato Ultra.....................................................................................................................5
L’ambiente che trovarono.............................................................................................................................................5
CAPITOLO VII..................................................................................................................................................5
Verso il progresso..........................................................................................................................................................5
La Repubblica Partenopea............................................................................................................................................5
L’Ottocento e l’indipendenza comunale....................................................................................................................5
CAPITOLO VIII.................................................................................................................................................5
Imperiale olim Tartaro..................................................................................................................................................5
Placido Imperiale, principe di Sant’Angelo...............................................................................................................5
APPENDICE......................................................................................................................................................5
Scutari e la sua diocesi intorno al 1750.......................................................................................................................5
Il più succinto racconto della partenza e venuta delle famiglie albanesi nello Stato di Castro, e dello stato
in cui si ritrovano, di passaggio, toccandosi semplicemente le cose più sostanziali...........................................5
Bibliografia.....................................................................................................................................................5
PENSIERO
«Felice chi abita un paese nel quale regna la pace e vi son sacre le proprietà. In qualunque altro luogo si
possiede senza godere, si coltiva con timore, si raccoglie con inquietudine e si lavora senza progetto.»

RINGRAZIAMENTI
Michele Vespasiano; dottoressa Simonetta Fortini dell’Archivio di Stato di Viterbo; Marco
Torinello, responsabile della biblioteca del seminario vescovile di Lucera; Michele D’Aloiso; Nicola
D’Atena; Paolo Magni; Antonio Lombardi;
PREMESSA
Un paese senza storia è come un albero senza radici. È destinato a morire.
Ma tutti i paesi hanno una storia e, talvolta, studiosi che si interessano ad essa; a qualche paese,
però, tocca pure qualcuno che tenta di stravolgere il corso della sua storia, alterando fatti, date e
circostanze. Fortunatamente poi i documenti provvedono a correggere quanto è stato più o meno
volutamente travisato.
E proprio da un oltraggio alla storia di Poggio Imperiale trae spunto questa indagine, che si
fonda più su inoppugnabili fonti documentarie che su una bibliografia non sempre attendibile.
«Ancora un libro su Poggio Imperiale? Ma no, ora basta! Cos’altro c’è da dire di più?»
Potrebbe essere questo il commento del lettore «terranovese» alla notizia di questa nuova
pubblicazione, appunto, su Poggio Imperiale.
Eppure, caro lettore, questo nuovo lavoro occorreva, e come che occorreva!
E la ragione deriva dal fatto che sono almeno tre gli argomenti da chiarire, poiché deviano e
offendono la verità storica sulle origini del nostro paese e vanificano anni di studi condotti più
negli archivi che nelle biblioteche.
Partiamo dal primo punto: il 18 gennaio 2011 l’Amministrazione Comunale ha organizzato una
fittizia manifestazione per celebrare il 250° anniversario di fondazione di Poggio Imperiale.
Una ricorrenza quanto mai improbabile, poiché chi ha organizzato quel futile evento sapeva
molto bene che quella del 18 gennaio 1761 non è la data di nascita di Poggio Imperiale, ma più
realisticamente il giorno in cui furono concordate e sottoscritte delle concessioni che Placido
Imperiale, principe di Sant’Angelo, accordava ai patres familias albanenses e ai loro congiunti per
popolare ed accrescere un casale la cui edificazione era avvenuta già alcuni anni prima.
Come si spiegherebbero, altrimenti, le tre nascite avvenute a Poggio Imperiale nel 1760?
Quindi, se il 18 gennaio 2011 c’era un evento da festeggiare, non era certamente la data di
nascita del paese, bensì la ferma volontà di Placido Imperiale di dare un convinto impulso allo
sviluppo agro-demografico del sito.
Passiamo al secondo punto: è comune convinzione, tra coloro che si dilettano a redigere la
cronaca dell’origine del paese, che Poggio Imperiale sia stato fondato da una colonia di albanesi.
Nulla di più sbagliato!
È risaputo, infatti, che il popolo del «paese delle aquile», fin dalle prime migrazioni in Italia,
non ha mai fondato alcunché. Tutti gli albanesi giunti in Italia, specialmente nel Mezzogiorno,
sono stati indirizzati verso casali e borghi disabitati con il solo ed esclusivo scopo di ripopolarli.
Ciò che avvenne anche per il nostro paese. La colonia shqiptara 1 arrivata nel 1761 a Poggio
Imperiale può essere paragonata ad una meteora: giunta nel casale nell’ultima decade di gennaio,
il 23 marzo risulta di nuovo rientrata a Pianiano, nello Stato Pontificio, luogo da dove era partita.
Fecero eccezione quei pochi nuclei familiari che decisero di restare a Poggio Imperiale e che,
inseritisi integralmente nel contesto sociale locale, abbandonarono tutto ciò che fosse albanese.
A memoria d’uomo non c’è alcuna traccia, né scritta né orale, di tradizioni e cultura shqiptare
conservate a Poggio Imperiale; né tantomeno il dialetto terranovese annovera fra i suoi lemmi
parole derivanti dalla lingua albanese. Assolutamente no!
Occorre dare a Cesare quello che è di Cesare! Lo dobbiamo dire, anzi… scrivere!
E siamo al terzo ed ultimo punto: nell’ormai lontano 1984 il «sindaco vecchio», Alfonso De Palma
(così lo chiamavamo noi «ragazzi» del ’60), concedeva alle stampe le sue «Noterelle paesane» che, a
detta dello stesso Autore, non avevano le pretese di una ricerca storica, ma «una presentazione di
fatti passati e presenti».
Quelle poche note storiche riportate nelle sue memorie furono riprese dal De Palma dal «Teatro
storico poetico della Capitanata» di Matteo Fraccacreta, il quale alcune informazioni le tramanda in
maniera inesatta, costringendo all’errore chi, posteriormente, le riporta nei propri studi.
Non potendo condurre un’indagine scientifica per via dell’avanzata età, il De Palma cedeva il
testimone ai più giovani, invitandoli «a spendere del loro meglio» per indagare e approfondire la
conoscenza storica di Poggio Imperiale e del suo fondatore.
1
Da Shqipëria, altro nome dell’Albania, ossia «paese delle aquile».
C’ero anch’io tra il numeroso pubblico che affollava la palestra della scuola elementare «De
Amicis» per la presentazione del libro del vecchio sindaco e rimasi favorevolmente colpito nel
conoscere la storia del mio paese e la provenienza di tante famiglie, tra cui la mia, da varie località
dell’ex Regno di Napoli.
Nel 1990, dopo la nascita del mio primogenito, spinto da un vivo interesse scaturito da un
colloquio intercorso con mio nonno paterno, iniziai le indagini genealogiche sulla mia famiglia.
Durante le ricerche mi sono imbattuto in tanti documenti inerenti le vicende primordiali di Poggio
Imperiale, per cui decisi di invertire lo studio rivolgendolo alla storia patria piuttosto che limitarlo
a quello certamente più ristretto del mio casato, che comunque completai dopo alcuni anni.
Iniziai a girare l’italica penisola: Genova, Avellino, Napoli, Foggia, Lucera e Sant’Angelo dei
Lombardi segnarono le tappe di questo screening, molte delle volte accompagnato dagli amici
Michele Zangardi e Placido D’Aloiso, anche loro spinti da amor patrio, i quali mi hanno assicurato
un considerevole contribuito sia in termini di ricerca dei documenti, sia dal punto di vista delle
opinioni.
L’indagine storica portò, nel 1993, alla pubblicazione del libro «Poggio Imperiale. Cento anni della
storia: dalle origini all’unità d’Italia», la mia opera prima, che chiariva molte delle primordiali
vicende della fondazione del paese.
Quattro anni dopo un nuovo lavoro integrava il precedente, andato rapidamente a ruba:
«Poggio Imperiale. Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata». Il volume, pubblicato e curato in
una elegante veste grafica dalle «Edizioni del Rosone» del compianto prof. Franco Marasca, dava
l’avvio ad una nuova collana della casa editrice foggiana, «Città e paesi di Puglia», ed è un
composito di notizie che spaziano dalla storia alle tradizioni, dal dialetto all’economia, dai
monumenti alle odi dedicate al paese.
Sempre nel 1997, anno fiorente per la cultura locale, altri saggi arricchirono la letteratura storica
su Poggio Imperiale. Gli autori, cercando «di andare alle radici degli eventi mediante la consultazione
delle fonti reperibili più antiche», si proponevano «di chiarire e correggere certi luoghi comuni». Ma
hanno sviluppato, però, le loro ricerche più su fonti bibliografiche che su quelle archivistiche e,
anziché correggere, hanno arricchito i propri lavori con una serie di marchiane sviste storiche. In
una di queste pubblicazioni, inoltre, l’autore pone finanche in discussione le decisioni, a favore di
Poggio Imperiale, di Biase Zurlo, Regio Commissiario Ripartitore per i Demani [evidenziando con
un punto interrogativo l’operato del «tanto grande (?) Biase Zurlo»], salvo poi redimerle, forse per
dei repentini mutamenti di giudizio, in opere successive.
È sempre meritorio quando si interviene su precedenti ricerche storiche per apportarvi
miglioramenti o precisazioni; la condizione, però, è che i riscontri siano rivestiti più dalla polvere
degli archivi piuttosto che da quella della biblioteca o da informazioni assunte da internet e non
citate, come accaduto, per esempio, in un opuscolo del 2006.
Deformando le testimonianze storiche si possono produrre errori che difficilmente potranno
essere rimossi in seguito.
Con questo lavoro si intende definitivamente datare la fondazione di Poggio Imperiale, sfatare
finalmente il detto che vede gli albanesi del 1761 fondatori del paese e correggere le molte
disinformazioni sulle origini di Poggio Imperiale fornite con altri testi.
Ritorno, infine, nuovamente sull’irreale manifestazione del 18 gennaio 2011.
A corredo dell’evento è stato distribuito nelle scuole un opuscolo, a firma dell’Assessorato alla
Cultura, contenente la copia originale dell’atto del 18 gennaio 1761 e relative note storiche. Cosa
lodevole se queste ultime non fossero intrise di macroscopici errori che sconfessano laboriose
ricerche, deviano il corso della storia e mistificano la sua reale conoscenza.
Per rendere meglio l’idea dei danni storico-culturali che questo opuscoletto potrebbe causare
nei giovani studenti e nei lettori meno avveduti riporto alcuni spropositi, almeno quelli più
macroscopici.
Il fascicolo si apre con la seguente frase: «Dopo aver ereditato un vasto feudo in Provincia di
Capitanata, acquistato dal padre Giulio, il nobile Placido Imperiale… ecc.»
Chi ha scritto quelle distorte note storiche intendeva fare senz’altro riferimento al feudo di San
Paolo di Civitate; ebbene, lo Stato di San Paolo venne acquistato nel 1748 da Cornelia Pallavicini,
vedova di Giulio Imperiale e madre di Placido, e donato in quello stesso anno al figlio. Quando ciò
avvenne, Giulio Imperiale era già deceduto da dieci anni!
Secondo strafalcione. In riferimento alla chiesa, l’autore scrive: «Nel 1760 fece edificare una prima
cappella dedicata al culto di San Placido Martire e al culto di San Michele». Una frase, due errori! Infatti,
l’edificazione della chiesa risale al 1759 e non al 1760, che invece è l’anno in cui venne consacrata
da don Felice di Lullo, arciprete di Lesina, e dedicata al solo culto di San Placido (la venerazione
per l’Arcangelo Michele arriverà qualche anno più tardi).
Poi l’incauto autore si dà la zappa sui piedi quando sostiene che nel 1759 Placido Imperiale,
«dopo aver fatto disboscare la collina Coppa di Montorio, vi fece costruire una Palazzina e alcuni alloggi per
l’insediamento di un primo nucleo di famiglie impiegate nella notevole opera di edificazione».
A parte il fatto che la costruzione della Palazzina reca la data del 1761, scusate, ma se si ritiene
che si festeggino i 250 anni di fondazione di Poggio Imperiale, allora dovremmo fare bene i conti
poiché, stando a quanto scritto sull’opuscolo, gli anni sarebbero 252! O no? Proseguendo: le prime
quindici famiglie regnicole giunte nel 1759 non sono state «impiegate nella notevole opera di
edificazione», ma in una notevole opera di «colonizzazione». Infatti i primi coloni giunti nel poggio si
impegnarono a bonificare i terreni, non a costruire abitazioni.
Il paradosso dell’avventato autore è dimostrato quando afferma, riferito al patto tra il
Sant’Angelo e gli scutarini, «che Placido Imperiale pone le condizioni ed esprime chiaramente la volontà di
voler ampliare quell’insediamento».
Esatto, ampliare e non fondare. Quindi gli albanesi, al loro arrivo nel feudo di Lesina, trovarono
un poggio già costituito e che abitarono seppur per poche settimane.
Preferisco sorvolare sulle incongruenze che compaiono nel prosieguo del testo del fascicoletto,
particolarmente là dove si invitano i cittadini a festeggiare i «250 anni è [sic!] più della nascita di
Poggio Imperiale».
Incredibile! Mi fermo qui.
Mi piace chiudere con un detto latino che pare calzi a pennello per l’occasione:
«Legere enim et non intellegere neglegere est!» Vale a dire: «Leggere e non capire è come non leggere!»
CAPITOLO I

L’ARRIVO IN CAPITANATA DI PLACIDO IMPERIALE


La fondazione di Poggio Imperiale è strettamente legata alle vicende feudali di altri due paesi
della Capitanata: San Paolo di Civitate e Lesina, feudi divenuti entrambi di proprietà della famiglia
genovese degli Imperiale, Signori dello Stato di Sant’Angelo dei Lombardi, nel Principato Ultra.
Nel 1748, infatti, Maria Cornelia Pallavicini, vedova di Giulio I Imperiale, principe di
Sant’Angelo, acquistava dai Guastalla lo Stato di San Paolo 2, mentre tre anni dopo suo figlio
Placido, per ampliare i propri domini e dare uno sbocco a mare delle terre pugliesi, faceva suo il
feudo di Lesina, nel cui territorio, nel 1759, darà l’avvio alla creazione di un nuovo borgo: Poggio
Imperiale.
Tutto questo avveniva nella seconda metà del XVIII secolo, epoca che ha visto nel Regno di
Napoli una significativa crescita demografica3, scaturita dalla nuova realtà socio-economico-
culturale venutasi a creare in seguito alle scelte riformatrici intraprese da re Carlo III di Borbone
dopo la sua ascesa al trono di Napoli, avvenuta il 10 maggio 1734.
Il calo della mortalità, la diminuzione delle carestie e l’aumento della natalità, dovuto ad una
maggiore fertilità delle coppie che si sposavano in giovane età, furono tra gli artefici principali di
questo evento.
L’aumento della popolazione, pertanto, influì positivamente anche sull’agricoltura,
procurandole una considerevole trasformazione. La sempre più pressante richiesta di alimenti,
conseguenza di questa evoluzione, costrinse i latifondisti ad aumentare la produzione cerealicola,
in modo da soddisfare il fabbisogno della gente.
Nel reame borbonico la maggior parte degli abitanti era dedita ai lavori di campagna e il
reddito derivava principalmente dai proventi delle coltivazioni. Grazie all’involuzione del settore
si cominciò a praticare l’agricoltura estensiva, si ampliarono le aree coltivabili, bonificando o
disboscando i terreni fino ad allora tenuti incolti, mentre in altri casi si ricorse alla colonizzazione
di spazi disabitati. Ridurre a coltivazione queste zone si rivelò essenzialmente positivo, in quanto
consentì l’aumento sia della produzione che del prezzo dei prodotti agricoli, primi fra tutti i
cereali.
Parallelamente cresceva anche il costo dei terreni e, quindi, delle rendite che percepivano i
proprietari terrieri dagli affittuari, che materialmente li coltivavano.
Anche il territorio della Capitanata, il Tavoliere principalmente, registrò in questo periodo un
momento particolarmente ricco di trasformazioni sociali ed economiche, ricolmo di apporti
decisamente innovativi. La sua plurisecolare economia pastorale, imposta dalla Dogana delle
pecore4 a causa di calamità naturali e provvedimenti legislativi, nel ‘700 cedette il passo a quella
agricola. Scrive a tal proposito Francesco Longano:

2
La contea di San Paolo venne acquistata da don Andrea Gonzaga nel 1626 dal padre Ferrante II, duca di
Guastalla. Passò al figlio Vincenzo e successivamente al nipote Giuseppe Maria alla cui morte, avvenuta il 16
agosto 1746, divenne di proprietà della famiglia Imperiale.
3
Nel 1734 il Regno di Napoli contava 3.004.562 di abitanti, di cui 270.000 nella capitale, passati a 442.000 nel
1798 rispetto ai complessivi 3.953.098 del 1798.
4
La Dogana delle pecore di Foggia, o Dohana menae pecudum Apuliae, fu istituita da Alfonso I d’Aragona con
privilegio del 1° agosto 1447 indirizzato al catalano Francesco Montluber. Con esso il sovrano spagnolo
imponeva a tutti i pastori del Regno di condurre le proprie greggi a pascolare nei territori fiscali del
Tavoliere di Puglia, garantendo loro transiti sicuri, erbaggi a sufficienza e difesa contro eventuali soprusi. A
loro volta i pastori, definiti locati, furono tenuti a pagare una tassa sui pascoli, detta fida, che variava a
seconda della quantità di ovini che i pastori denunciavano. Il Tavoliere venne ripartito in ventitre locazioni,
suddivise, a loro volta, in poste, che rappresentavano le terre salde. Esse venivano situate in luoghi riparati
dai venti ed in leggero declivio onde facilitare il deflusso delle acque piovane e dei liquami degli animali.
Comprendevano una parte piana (quadrone), un luogo dove trovavano ricovero gli armenti (jazzo) ed un
ambiente destinato alla raccolta e alla lavorazione dei prodotti della pastorizia (aia). 
«Ma due cagioni concorsero a minarla [l’economia pastorale]. La mortalità del
‘45, e via più la carestia del vitto nell’anno ‘64, la quale introdusse tale e tanta
coltura, de’ terreni, che mancò il pascolo ai bestiami» 5.
La trasformazione agraria ed economica della pianura foggiana è confermata anche da Pietro
Colletta il quale, in riferimento al Tavoliere, asseriva che in quel tempo
«si coprivano di spighe quelle terre poco innanzi selvagge apportando più che
sperate ricchezze»6.
Non mancarono di dare il proprio apporto intellettuale altri due illustri pensatori, Antonio
Genovesi e Ludovico Bianchini. Il primo sosteneva che
«dove le terre sono con minore disugualità divise, si può meglio coltivare e avere
più abbondanza, sentire meno spesso le carestie, esservi più gran quantità di
popolo, i grandi più ricchi, più potente il sovrano»7.
Il secondo, invece, affermava di
«non poter avere la Puglia alberi ed abitatori per la qualità del suo terreno; essere il
Tavoliere necessario alla sussistenza degli Abruzzesi; formar esso il solo mezzo di
tenere in buono stato la pastorizia»8.
Siamo nel secolo dell’illuminismo e gli economisti napoletani avevano intuito che uno tra i
problemi principali che influiva negativamente sull’economia del Regno riguardava proprio
l’agricoltura e il suo miglioramento. Il primo a prendere posizioni a tal riguardo, proponendo la
trasformazione del Tavoliere, fu l’economista Ferdinando Galiani, detto l’abate 9, che in questo
modo esprimeva il suo pensiero:
«Io conto tra le maggiori cause di danno il sistema della dogana di Foggia: sistema,
che al volgo sembra sacro e prezioso, perché rende quattrocentomila ducati al Re: al
saggio sembra assurdo appunto perché vede raccogliersi solo quattrocentomila
ducati da una estensione di suolo, che ne potrebbe dar due milioni; abitarsi da
centomila persone una provincia, che ne potrebbe alimentare, e far ricche e felici
trecentomila; preferirsi le terre inculte alle culte; l’alimento delle bestie a quello
dell’uomo; la vita errante alla fissa; le pagliaje alle case; le ingiurie delle stagioni al
coperto delle stalle, e tenersi infine un genere d’industria campestre, che non ha
esempio d’altro somigliante alla culta Europa, ne ha solo nella deserta Africa, e
nella barbara Tartaria»10.
Criticando il vecchio sistema della Dogana e paragonando la piana foggiana ad un deserto
africano o ad una steppa russa, il filosofo abruzzese aveva colto nel segno e lanciato, nel contempo,
un nuovo illuminante messaggio: ridurre la pastorizia e incrementare l’agricoltura.
Questo concetto venne prontamente accolto e fatto suo da un giovane nobile, seppur nato a
Napoli, ma dalle chiare origini genovesi11: Placido Imperiale12.

5
F. LONGANO, Viaggio per la Capitanata, Edizioni digitali del CISVA, 2007, p. 58.
6
P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli, dal 1734 al 1825, Tomo II, Tipografia e Libreria Elvetica, Capolago
(Canton Ticino) 1864, p. 308.
7
Cfr. G. GALASSO, Storia del Regno di Napoli, Vol. IV, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2008, p. 418.
8
L. BIANCHINI, Della storia delle finanze del Regno di Napoli, Libro IV, II edizione, Stamperia Francesco Lao,
Palermo 1839, p. 417.
9
Il Galiani era così soprannominato in quanto era un abate laico e non un vero e proprio abate religioso.
10
F. GALIANI, Della moneta, Libro cinque, Seconda edizione, Stamperia Simoniana, Napoli 1780, p. 414.
11
Seppur nato a Napoli, Placido Imperiale non rinnegò le proprie origini genovesi. Nel 1749, infatti, nella
transazione diplomatica del valimento preferì versare all’erario il valore del quarto dei suoi beni ed essere
ascritto tra la nobiltà genovese che accettare la cittadinanza napoletana per evitare di pagare la tassa. Inoltre
non gradì neppure di essere iscritto ad uno dei «Sedili» della capitale del regno borbonico, che comportava
l’automatica acquisizione della cittadinanza, preferendo annoverrarsi, con i figli, tra i nobili di Genova.
12
Vedi la scheda biografica a p. ??????
L’Imperiale accettò fin da subito i nuovi dettami enunciati dagli economisti suoi contemporanei,
avviando nei suoi possedimenti
«un imponente processo di sviluppo dell’agricoltura e di colonizzazione interna,
che passava essenzialmente attraverso la chiusura, la privatizzazione e la messa a
coltura degli immensi demani feudali, sino ad allora prevalentemente adibiti a
bosco e pascolo»13.
Terzogenito di Giulio I Imperiale, principe di Sant’Angelo dei Lombardi, e Maria Cornelia
Pallavicini14, Placido nasce a Napoli il 13 aprile del 1727 nell’imponente palazzo di famiglia in via
dei Carrozzieri a Monteoliveto, a pochi passi da Santa Chiara e dal Palazzo Reale, un tempo fulcro
delle attività sociali, culturali ed economiche della città partenopea.
In seguito alla morte del padre, appena undicenne fu dichiarato dal Governo della Vicaria erede
universale sia dei beni feudali e burgensatici, che costituivano lo Stato di Sant’Angelo, sia del titolo
nobiliare. In considerazione della sua minore età, la madre ottenne dal re la nomina di tutrice e con
questa la responsabilità nella conduzione del feudo, nella quale venne affiancata da don Agostino
Saluzzo, duca di Corigliano.
La mesta notizia della scomparsa dell’illustre genitore, venne appresa dal ragazzo nel Collegio
Nazareno dei Padri Scolopi a Roma, uno tra i pochi collegi dove si insegnavano anche le cosiddette
«scienze maggiori», dove era stato condotto per istruirsi e dove i tutori chiesero ed ottennero che
restasse oltre il quindicesimo anno di età, in quanto non era legittimo fargli interrompere gli studi.
Placido subentrò al padre in vigore dell’atto rogato in Napoli il 19 giugno 1731 dal notaio
Domenico De Paolo, con il quale Giulio I Imperiale aveva istituito in maggiorasco e primogenitura
in linea maschile la successione nel principato.
Conclusi gli studi romani e rientrato a Napoli, Placido si dedicò con cura sapiente ed illuminata
alla gestione del feudo irpino, al quale aggiunse lo Stato di San Paolo in Capitanata, acquistato
dalla madre Cornelia con atto del 23 marzo 1748 15 ed alienato al suo unico figlio maschio «acciò
possa con maggior felicità e comodo conchiudere ed effettuare il matrimonio che il principe sta trattando
coll’illustre Donna Anna d’Acquaviva, figlia legittima e naturale dell’Illustre Conte di Conversano, ò altro
matrimonio con altra dama»16.
Le trattative nuziali condotte da Placido si conclusero positivamente e il matrimonio, tra il
principe di Sant’Angelo e la figlia del conte di Conversano, venne celebrato il 16 settembre 1748 17
nella chiesa di Sant’Anna di Palazzo di Napoli alla presenza di monsignor Ludovico Gualtieri 18,

13
F. BARRA, Tra accumulazione borghese e latifondo contadino: la disgregazione dei patrimoni feudali, in «Quaderni
Irpini», Anno II - N° 3, Gesualdo (AV) 1989, p. 68.
14
Figlia del marchese Nicolò, patrizio e senatore della Repubblica di Genova, e di Argentina Brigida
Imperiali dei principi di Francavilla, Maria Cornelia Pallavicini nasce a Genova il 2 ottobre 1694. Donna di
elevata estrazione sociale e dal carattere sontuoso ed aristocratico, la marchesa Cornelia Pallavicini
Imperiale, durante un convegno di dame tenutosi in casa Durazzo Pallavicini a Genova, così è descritta da
uno storico coevo: «Fiera e bellissima la marchesa Cornelia Pallavicini, sposa di Giulio Imperiale, è venuta dal
meraviglioso palazzo di San Fruttuoso, già villa Cattaneo. Ella è tutta una festa per gli occhi e porta al convegno un
grande profumo di nobiltà, di inefabile grazia, di leggiadra gaiezza; parla con Paolina [Brignole-Sale] di cose passate,
di imprese storiche, di atti audaci della Repubblica. Il giro dei secoli, segnati dal succedersi - nel dogato - dei loro avi, si
svolge così alitato dalla loro fresca femminilità». Cornelia Pallavicini morirà a Napoli il 24 marzo 1784.
15
ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (d’ora in poi sarà ASN), Cedolari di Capitanata, Vol. 35, Anni 1732-1766, f. 182.
16
Ibidem, f. 183.
17
ARCHIVIO PARROCCHIA SANT’ANNA DI PALAZZO DI NAPOLI, Libro dei Matrimoni N° 15, f. 91.
18
Arcivescovo titolare di Mira (l’odierna Myra, in Turchia), Inquisitore dell’Ordine di San Giovanni di Malta,
Nunzio Apostolico a Napoli dal 1744 al 1754 e poi in Francia dal 1754 al 1759, Ludovico Gualtieri (1706-1761)
fu creato cardinale da papa Clemente XIII il 24 settembre 1759.
Arcivescovo di Mira, e dei testimoni don Tommaso Francesco Spinelli 19, don Antonio Carafa20 e
don Gregorio Carluccio21.
Dopo aver ottenuto il Regio Assenso all’acquisto dello Stato di San Paolo il 17 agosto 1750, il
principe decise di conoscere di persona i nuovi territori.
Il viaggio, affrontato in carrozza e con la scorta degli armigeri, durava alcuni giorni. Si partiva
dal palazzo napoletano alla volta del castello di San’Angelo dei Lombardi, dove la carovana
sostava per trascorrere la notte e far riposare i cavalli. Si ripartiva il mattino seguente: di buon’ora
si prendeva la direzione di Ariano e, dopo aver varcato le montagne di Greci e Savignano ed
attraversato il Valico di Bovino, si raggiungeva la Capitanata e finalmente San Paolo, nel cui
«principal palazzo» Placido stabiliva la propria residenza.
Ma il nuovo feudo, oltre ad offrire aria salubre e terreni fertili, già preposti alla coltivazione
cerealicola, richiedeva per l’Imperiale una
«buona strada che dia agio al padrone di andarvi spesso e faciliti lo smercio delle
derrate diminuendo in un tempo le spese di trasporto»22.
Occorreva, infatti, all’Imperiale uno sbocco a mare e un porto dove far approdare le navi su cui
caricare grano e legumi prodotti in Capitanata e farli trasportare a Napoli per permettere di
commercializzarli sui mercati, italiani ed esteri. E per ovviare a questa mancanza si pose rimedio
proprio in quello stesso anno; epoca in cui Placido decise di acquistare il confinante feudo di
Lesina, di proprietà della Santa Casa dell’Annunziata di Napoli23, ma ceduto ai suoi creditori che lo
posero in vendita.
Il feudo si cedeva
«con l’intero stato, et riguanter con Banco di giustizia, giurisdizione di prime e
seconde cause civili, criminali e miste, mero e misto impero, facoltà di aggrazione e
commutare le pene corporali premiarie […] e per l’esercizio di detta giurisdizione
creare il governatore annuale, mastro d’atti, attitante e subalterno, con famiglia
armata, giuste le leggi del Regno, tenere carceri col peso dell’Università di pagare
annui ducati diciotto […] e colla giurisdizione della Bagliva 24 con percezione della
Fida e Diffida, così per li cittadini, come per li forestieri e col jus della zecca, di
peso e di misura, quale giurisdizione si estende anco nel mare e in tutto il territorio
posseduto dalla Badia di Ripalta e con il jus di esercitare ivi la giurisdizione ed
19
Don Tommaso Francesco III Spinelli (1689-1768), 7° marchese di Fuscaldo, 3° principe di Sant’Arcangelo,
3° duca di Caivano, 3° duca di Marianella, Signore di Paola, San Marco e Guardia, Gran Giustiziere del
Regno di Napoli dal 1696, Patrizio napoletano. Sposò il 12 settembre 1708 donna Carlotta Spinelli Savelli dei
principi di Cariati.
20
Don Antonio Carafa (1721-1781), 2° duca di Traetto e Montenegro, conte di Cerro, Signore di Castelforte,
Fratte, Coreno, Spiano-Sujo, Castellonorato, Moranola, Forlì, Conna, Castelnuovo Paterno, Sasso, Rocca
Veralla, Riporci e Malacocchiara dal 1765. Patrizio Napoletano, Gentiluomo di Camera con esercizio del Re
di Napoli. Sposò nel 1748 donna Ippolita Cattaneo della Volta, figlia di don Domenico 3° principe di San
Nicandro e di donna Giulia di Capua duchessa di Termoli.
21
Sacerdote coadiutore della chiesa di Sant’Anna di Palazzo.
22
L. GRANATA, Economia rustica per lo Regno di Napoli, II edizione, Tipografia del Tasso, Napoli 1835, p. 20.
23
La Casa dell’Annunziata si vuole eretta nella prima metà del XIV secolo ad opera di Nicolò e Giacomo
Scordito per sciogliere un ex voto alla Vergine Maria per la riacquistata libertà dopo un lungo periodo di
prigionia. Indi si istituì una confraternita di «battenti repentiti», così detti perché si flagellavano a sangue il
giovedì santo, che fondò un ospedale per gli infermi indigenti. La storiografia attribuisce ai confratelli il
ritrovamento, in una notte del 1322, di una neonata in fasce su cui era scritto «buttarsi per povertà». Fu
l’incipit che diede l’avvio all’istituzione di un brefotrofio che ospitasse i bambini abbandonati. La regina
Sancia, moglie di Roberto d’Angiò, nel 1343, eresse a sue spese una nuova chiesa con un grande ospizio che,
con il tempo e l’accrescersi delle ricchezze, moltiplicò le opere di beneficenza, tanto da costituirsi, nel 1587,
una banca di prestiti su pegni.
24
La Bagliva svolgeva compiti di polizia urbana e rurale, riscuoteva diritti e gabelle, elevava multe ai
proprietari di animali che avessero arrecato danni ai fondi altrui o da quanti avessero fatto uso di falsi pesi e
misure. Si occupava, inoltre, anche delle cause criminali di lieve importanza come quelle per offese,
bestemmie e piccoli furti.
andare a tener corte il giorno dell’Assunzione della Santissima Vergine» 25.
In aggiunta si vendeva pure la mastrodattia26 con tutte le ragioni ad essa inerenti, quali:
«ius di presentare l’Arciprete di Lesina, la panetteria, il molino, il forno, ius di
vendere pane, piazza, fida di mare, passo e gabelle del tumulaggio del Fortore, ius
della spiga, decima del grano, orzo, fave, caccia, pesca ecc.» 27
Conviene però fare un passo indietro e vedere le alterne vicende che portarono l’illustre ceto,
così era definito il gruppo dei creditori del Banco dell’Annunziata, ad alienare l’antico
possedimento lesinese.
La vicenda prende avvio nel 1702 anno del fallimento del Banco della Santa Casa
dell’Annunziata il cui consistente patrimonio, compreso il feudo di Lesina 28, con rogito di notar
Vincenzo Collocola di Napoli, nel 1717 passò al ceto dei creditori29.
Pensando di disfarsi in breve tempo del feudo pugliese, nel maggio del 1729 si diede incarico al
tavolario napoletano Donato Gallarano di eseguirne la stima. Il regio ingegnere, dopo oltre un
anno di lavoro, consegnò l’apprezzo il 4 ottobre dell’anno successivo valutando l’intera proprietà
in 94.349 ducati.
Alcuni anni dopo i creditori ricevettero alcune proposte da parte di possibili compratori, ma ne
restarono delusi perché ad esse «non seguì la sperata vendita». Nel 1746 essi pensarono bene di
offrire Lesina al principe di San Nicandro, in quanto confinante, al prezzo di 70.000 ducati, ma
questi, «fattisi bene i suoi conti», nonostante l’offerta fosse inferiore alla valutazione del Gallarano,
ricusò l’affare.
Le speranze di cedere il dominio pugliese, stando a quanto scriverà più tardi l’avvocato
Giuseppe Mauri, legale di Placido Imperiale, si ravvivarono due anni dopo con l’offerta del
principe di Sant’Angelo il quale, dopo esser venuto in possesso dello Stato di San Paolo, memore
di avere sangue genovese nelle vene, «conobbe necessario il far acquisto del feudo di Lesina», derivante
dal fatto di estendere fin sulle rive dell’Adriatico la sua nuova proprietà, tra l’altro con esso
confinante. Tramite un suo procuratore, don Filippo Sabatino d’Anfora, il giovane patrizio
genovese offrì 80.000 ducati30 per la compera. La proposta, seppur inferiore alla valutazione che il
tavolario napoletano Donato Gallarano stabilì nella sua perizia, venne accettata dal gruppo dei
creditori dell’AGP, i quali disposero di emanare i bandi e affiggere gli avvisi nei soliti luoghi della
capitale.
L’Imperiale, quindi, dispose di avviare le pratiche per l’acquisto ed essendo stato assicurato dai
creditori, tra i quali vi erano alcuni congiunti del principe di San Nicandro, che costui non avesse
pretese sul feudo, «ne fu intrapreso il trattato che, per la gravezza dell’affare, durò per lo spazio di quasi
due anni».
In questo stato di cose comparve un secondo acquirente, don Michele Nanni che, per conto di
Domenico Cattaneo31, principe di San Nicandro, tornato inaspettatamente alla carica, offrì 500

25
M. MAGNO, op. cit., p. 17.
26
Nel Regno di Napoli, il mastrodatti era il funzionario addetto alla redazione e custodia degli atti ed ebbe,
in seguito, funzioni giudiziarie come supplente dei giudici. Spesso, inoltre, compiva anche l’istruttoria per i
procedimenti penali.
27
M. MAGNO, op. cit., p. 18.
28
Con Privilegio del 23 novembre 1409 re Ladislao di Durazzo concedeva a sua madre Margherita di donare
la città e feudo di Lesina all’ospedale e chiesa della Santa Casa dell’Annunziata di Napoli, detta pure Ave
Gratia Plena (AGP), per suggellare un ex voto per la recuperata salute e la remissione dei peccati. Un
dissesto finanziario ammontante a circa quattro milioni di ducati, dovuto ad un aumento delle spese e ad
una cattiva amministrazione, determinò nel 1702 il suo fallimento.
29
Cfr. A. F. LOMBARDI, Apprezzo di Lesina, Malatesta Editrice, Apricena 2011, p. 28
30
Moneta corrente del Regno di Napoli che si divideva in tarì, carlini, grana (o grani), tornesi e cavalli. Un
ducato equivaleva a 5 tarì, un tarì a 2 carlini. Un carlino a 10 grana, un grano a 2 tornesi ed un tornese a 6
cavalli. Quindi un ducato era pari a 5 tarì, a 10 carlini, a 100 grana, a 200 tornesi ed a 1.200 cavalli. Con Regio
Decreto del 17 luglio 1861 il valore del ducato fu fissato a 4,25 lire italiane. Nel 1990, il valore (calcolato) era
di circa 25.000 lire italiane.
ducati in più della proposta Imperiale. Appresa la notizia, si ripresentò il d’Anfora che rilanciò
l’offerta con altri 5.000 ducati e l’intera cifra era pronto a pagarla in contanti in qualsiasi momento.
L’astuta mossa del d’Anfora, spiazzò il Nanni, il quale chiese una momentanea sospensione
della licitazione, in modo da poter interpellare il proprio mandante; richiesta che gli venne
inizialmente concessa, ma subito dopo negata in quanto il ceto capì che egli era alle dipendenze del
principe di San Nicandro «e che per poter parlare con lui bastava recarsi a Stella 32», dove risiedeva.
Entrambi i pretendenti all’acquisto del feudo di Lesina erano determinati nei propri propositi,
non vi era possibilità di accordo tra le parti; c’era da far svolgere un’asta per alienare il feudo,
asta33 che, controllata dal Sacro Regio Consiglio, si tenne l’8 marzo 1751 a Napoli alla presenza di
moltissima gente. Ad essa parteciparono: per il San Nicandro, don Michele Nanni assistito
dall’avvocato Andrea Vignes, mentre per il Sant’Angelo intervennero l’avvocato Giuseppe Mauri,
don Filippo Sabatino d’Anfora e don Oronzo Notargiacomo.
La disputa fra i contendenti si rivelò fin dal principio molto accesa, le offerte superarono, infatti,
dapprima i 90.000 ducati e subito dopo i 100.000. Ad un certo punto della contesa, il rilancio del
Notargiacomo, consistente in 104.201 ducati, costrinse l’avversaro a non replicare. Accesa la
candela, la stessa si estinse su quest’ultima offerta e il dottor Oronzo Notargiacomo, per persona
da nominare, risultò essere l’aggiudicatario dell’asta.
La nomina del feudo di Lesina, quindi, venne fatta a favore dell’illustre principe di Sant’Angelo
dei Lombardi, don Placido Imperiale, al quale tanto l’università di detta città quanto tutti i cittadini
e gli abitanti in quella città e suo territorio riconoscessero il detto illustre principe di Sant’Angelo,
don Placido Imperiale, Signore e Patrono, a beneficio del quale prestassero la solita obbedienza
come barone della detta città, di quel feudo e di quel lago34.
L’11 marzo 1751 al titolato genovese venne dato il possesso della città di Lesina con il lago e i
suoi corpi, giurisdizioni dell’intero suo stato, privilegi preminenti, diritti, prerogative, onori, lucri
ed emolumenti compresi e descritti nella valutazione del Gallarano.
Il 15 febbraio 1753, presso il notaio Raimondo Collocola di Napoli, alla presenza dei deputati
del ceto dei creditori del fallito Banco dell’Annunziata da una parte e il principe di Sant’Angelo dei
Lombardi dall’altra parte, venne stipulato l’atto di vendita definitivo del feudo dell’AGP.

31
Domenico Cattaneo (1698-1782) fu principe di San Nicandro, Grande di Spagna di 1ª Classe, Cavaliere
dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro e dell’Ordine del Toson d’Oro, nonché Maggiordomo Maggiore
della Real Casa Borbone, Reggente della Gran Corte della Vicaria e Gentiluomo di Camera di Re Carlo III,
che nel 1740 lo inviò come Ambasciatore in Spagna. Nel 1759 re Carlo lasciò il Regno di Napoli per tornare
sul trono di Spagna, non prima di aver affidato l’istruzione di suo figlio Ferdinando di otto anni al San
Nicandro che ne venne nominato aio. Il governo del Regno fu affidato ad un Consiglio di Reggenza, i cui
membri di spicco furono lo stesso Domenico e il marchese Bernardo Tanucci. Durante il periodo della
reggenza ed in quello successivo, fu principalmente il Tanucci ad avere in mano le redini del Regno ed a
continuare le riforme iniziate in età carolina. Invece Domenico svolse principalmente il suo ruolo di
precettore di Ferdinando, anche se il suo prevalere sulla formazione del ragazzo determinò un’educazione
triviale, poco attenta alle cose di Stato e molto incline al divertimento. Difatti pare che Domenico curasse
poco la preparazione politica e civile del re, preferendo insegnargli più la caccia e la pesca che l’etichetta e
favorendone i comportamenti rustici e volgari. Raggiunta la maggiore età del re, il Consiglio di Reggenza fu
sciolto e fu istituito un Consiglio di Stato, fra i cui membri vi fu anche Domenico. Carlo III lo incaricò anche
di assistere Domenico Cirillo nella compilazione del Codice Carolino.
Domenico Cattaneo fu anche uomo amante delle arti, amico di artisti come Francesco Solimena che, con una
serie di ritratti, tracciò l’apoteosi della famiglia Cattaneo. Domenico sposò Giulia de Capua, principessa di
Roccaromana, duchessa di Termoli, marchesa di Guglionesi e di Torrefrancolise, contessa di Montagano, di
Anversa, di Villalago, di Campo di Giove e di Canzano.
32
«Stella», quartiere di Napoli dov’era ubicato il palazzo del principe di San Nicandro. È uno dei più antichi
della città e comprende il famoso rione Sanità.
33
L’asta si tenne con il metodo della candela, consistente nell’accensione di una candela vergine a richiesta
dell’ultimo offerente. Se durante il tempo che essa si consumava non avvenivano migliori offerte, con
l’estinzione della candela l’oblatore risultava essere l’aggiudicatore dell’asta.
34
M. DE PARDO, op. cit., Vol. I, p. 94.
Dalla stesura del documento si evince che il prezzo finale dell’acquisto fu di ducati 108.256 e
grana35 25, in quanto ai precedenti 104.201 ducati occorsi al Notargiacomo per aggiudicarsi l’asta,
si aggiunsero 800 ducati per beni immobili che il Gallarano non aveva calcolato nella sua stima ed
altri 3.255 ducati e 25 grana per il prezzo di numerosi capi di bovini, anch’essi non valutati.
L’Imperiale dispose di liquidare prontamente il pagamento dell’intero importo, ma non trovò
dello stesso parere i venditori, in quanto gli stessi si sarebbero trovati prontamente in possesso di
una rilevante somma di danaro e, non sapendo come gestirla, proposero, di contro, al principe
Sant’Angelo di effettuare il pagamento in dilazioni annuali per un periodo di dodici anni. Don
Placido, accettando la gravosa proposta, versò in acconto 34.500 ducati, 20.000 il 15 novembre 1751
tramite il Banco della Pietà e altri 14.500 trenta giorni dopo per mezzo del Banco del Salvatore,
mentre per i restanti 73.756,25 ducati, dispose di impegnarsi a corrispondere 2.950,25 ducati ogni
semestre in misura del 4% di interessi annui36.
Il 3 aprile 1753 la vendita a favore Imperiale ottenne il Real Assenso da Carlo III di Borbone, re
di Napoli37.

LESINA NEL SETTECENTO


Antica sede vescovile e anche importante contea normanna, Lesina, il cui governo economico
era retto da un sindaco, due eletti ed un cancelliere, nella prima metà del XVIII secolo era una
cittadina mal ridotta, decaduta dai vecchi fasti di un tempo e abitata da quasi cinquecento persone
suddivise in centinaio di famiglie, tra cui una decina benestanti.
La città, che si stava gradatamente riprendendo dal violento sisma che l’aveva sconvolta nel
162738, racchiusa in un’area territoriale perimetrale di circa 40 miglia, era «intorno circondata da un
recinto di muraglie toccate dall’acque del lago» 39 e vi si accedeva mediante una porta; all’interno vi era
la chiesa dedicata a San Primiano e, poco distante da questa, i resti dell’antica chiesa vescovile; la
casa dominicale detta il palazzotto; una torre, il carcere, una taverna con stalla, la panetteria con
mulino, la casa della tratta per uso dei pescatori e un buon numero di abitazioni.
Dalle parti del palazzotto era situato un pozzo pubblico di acqua sorgente, ma non di buona
qualità essendo salmastra e per ovviare all’esigenza idrica i cittadini di Lesina si rifornivano dagli
ambulanti che la trasportavano dai paesi limitrofi. Come anche per il vino che, prodotto crudo e di
buona qualità, non soddisfaceva ai loro fabbisogni e pertanto ricorrevano ai vettorini (carrettieri)
che esaudivano tutte le loro richieste. Essendo degli ottimi bevitori, sia giovani che anziani,
avevano un buon colorito «gli altri che si astengono di bere il vino, se ne vedono scoloriti, smorticci e
deboli»40.
Gli antichi abitanti della cittadina lagunare non erano dei grossi consumatori di carne in quanto
l’abbondanza sia di pesce (anguilla pantanina e capitoni), sia di selvaggina (folaghe, tordi e anatre)
cacciata durante l’inverno nel lago e conservata sotto sale gli «… è bastevole ed avanzante. Li predetti
abitatori maschi per lo più vestono di colori diversi, con casacca, calzone e cappa alla paesana o con velata,
coverti per lo più di cappello, e pochi con coppola, e calzati di calzette, e scarpe, a riserva d’alcuni pochi
forastieri venuti da poco tempo con scarpini. Le donne vestono parimente per lo più alla pugliese, alcune con
gonne cusite alli corpetti, ed altre con corpetti divisi dalle gonne, con panni al collo, e testa, ma tutte calzate
di scarpe, e molte di esse con abbellimenti d’oro, di fioccaglietti 41, anelli e qualche fettucciella d’argento.
Hanno qualche cosarella di utensili di casa bastevoli all’uso, non estendendosi a maggiore, non tanto per
indigenza, ma per non averne l’uso di cose migliore. Tengono bensì quasi tutti commodo di letto sopra
35
Sotto il regno di Carlo III di Borbone il grana o grano era una moneta d’argento del peso di un grammo.
Fino al 1814 si divideva in 12 cavalli o 2 tornesi; con la legge del 14 agosto 1814 fu introdotta la divisione in 10
cavalli.
36
ASN, Cedolari, Vol. 35, F. 370.
37
ASN, Cedolari, Vol. 35, F. 364.
38
Cfr. A. LUCCHINO, Memorie della città di San Severo e suoi avvenimenti per quanto si rileva negli anni prima del
1629, Felice Miranda Editore, Foggia 1994, p. 74.
39
ARCHIVIO DI STATO DI LUCERA (d’ora in poi sarà ASL), Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci,
Prot. 2816, Anno 1751, f. 25.
40
A. F. LOMBARDI, op. cit., p. 309.
41
Orecchini da donna.
matarazzi di lana, ed altri di penne, per la grande abbondanza di uccellami, che vi sono, e quelli, che non
sono benestanti di detti abitatori, non sono in infima povertà, perché hanno modo di vivere, e tengono di peso
o niente, o pochissimo, e qualche cosa, che vi è di pezzenteria è dei transeunti, e forastieri nuovamente
sopravvenuti, quali colle loro donne fintanto che si riducono colle loro fatiche stanno, e vestono in miseria.
Mangiano poi tutti buono pane del paese, che lo fanno in casa, o lo pigliano dal forno, ed a mercato prezzo,
perché de’ grani ve n’è in abbondanza. Non vi sono né preti del paese, né monache di casa; non vi è speziaria,
né fondaco di pannine42, ma la bottega lorda, nella quale dal bottegaro ancora si tengono alcune cosarelle di
pannamenti, e diverse merci di filamenti, e sete per lo pronto uso di quella gente, e nel tempo dell’accesso
[1729] si trovò una sola bottega di scarparo forastiero, che dissero sopravenuto ad abitare da circa anni due.
Vi sono due mal prattici fabricatori, due mandesi 43 forastieri, un barbiere o tonsore, due levatrici; e per tutte
l’altre arti medici, medicine, vestimenti, ed altro bisognevole al mantenimento umano, o vanno, o mandano
nella città di Foggia, San Severo, o in Lucera, o nelle Terre convicine, a quali vi è sempre pronta, e facile
comodità di mandare o di venire genti per lo ricapito che richiedono»44.
Il territorio del feudo era inserito nel contesto della Locazione di Lesina, istituita con la creazione
della «Dogana delle pecore», la quale era suddivisa nelle seguenti poste: Focicchia, Jaccio dell’olive,
Trevalli, Santo Spirito, San Samuele e Cammarata. In queste poste, la presenza di tanti capi di
pecore, bufali e mucche, permetteva anche un’elevata produzione di latticini che, per il basso
costo, venivano commercializzati nell’intera provincia.
Tra tante note positive una stonata: la presenza del lago rendeva l’aria irrespirabile e quindi era
poco consigliabile trascorrere il periodo estivo a respirare i cattivi odori emanati dalla putrefazione
delle sue acque stagnanti. Ma, a detta di quei cittadini, che consideravano l’aria di mediocre
qualità, il problema della «difficoltà dell’aria l’incontrano coloro che bevono acqua, avvenga che gli altri,
che bevono vino, o in tutto e nella maggior parte ne sono esenti, e che fra essi ve ne sono di vecchi dell’uno e
dell’altro sesso settuagenarii, ed ottuagenarii»45.
La maggior parte dei cittadini di Lesina «si ritrovano pescatori» in quanto, per la facilità del
sannalare, per la bassa profondità del lago e per la scarsezza del pericolo, «hanno pronta e facile
comodità di vivere». Essendo un popolo particolarmente incline alla pesca e nonostante avessero a
disposizione infinite versure di terreno da coltivare, erano, di conseguenza, poco portati
all’industria agraria. Quei pochi che si dedicavano ai lavori agricoli non vivevano nella miseria,
aiutati anche dalle loro donne, che lasciavano i lavori di casa, coltivavano vigne - fra i cui filari vi
avevano piantato alberi da frutta come il fico, il pruno, il pero e il ciliegio - orti e giardini.
Pertanto, i terreni, per la scarsezza di terrazzani, erano incolti ed inselvatichiti, «sarebbe di molto
vantaggio del Padrone, e per lo politico, e per l’economico, che accrescerebbe il numero dell’abitatori, che
molto desiderano dai contorni venirci ad abitare, si aumenterebbe l’esercizio della giurisdizione, anco con
utile, e molto grande di questo per la coltura, che si potrebbe fare in gran parte dei territori»46.

LESINA, FEUDO DI PLACIDO IMPERIALE


Un feudo non proprio messo male, stando a quanto ci riferisce il Gallarano nel suo «Apprezzo»,
quello acquistato da Placido Imperiale nell’avvincente asta dell’8 marzo 1751; feudo che, giovedì
11 marzo di quello stesso anno, veniva consegnato nelle mani di don Baldassarre Stabile,
governatore generale degli Stati di proprietà del principe di Sant’Angelo.
Giunto a Lesina per prendere possesso, in nome e per conto del suo illustre padrone, di tutti i
beni appartenenti al feudo dell’AGP, il governatore, in vigore di mandato di procura per pubblico
atto stipulato dal notaio Giovanni Maria Cretari, redatto due giorni prima a Napoli, veniva accolto,
«nella porta che unica custodisce questa predetta città per le vie che portano a Torremaggiore e Apricena»,
dal Supremo Presidente magistrato del commercio don Francesco Ventura, delegato del Ceto dei
Creditori della Santa Casa AGP, dal sindaco, Gaetano Aucelli, dai due eletti, Primiano di Lullo e
Michele Latella, dal notaio Nicandro Scorza e da molti cittadini di Lesina tra cui Paolantonio di

42
Negozio di stoffe e panni.
43
Carradori, costruttori di carri.
44
A. F. LOMBARDI, op. cit., pp. 311/315.
45
Ibidem, p. 373.
46
Ibidem, p. 309.
Napoli, Domenico Ferrucci, Giuseppe di Lullo, Michele Trojano, Michele Aucelli, Matteo di Lullo,
Callisto di Lullo, Nicolantonio Galasso, Marco Coluccio, Paolo Pizzicola, Domenico Antonio
Taddeo, Filippo Aucelli, Lonardantonio Rosa, Saverio Ventura, Giovanni Carretta, Giuseppe
Antonio Pannunzio, Michele di Palma, Cristofano di Palma, Gennaro Pannunzio, Matteo Paglione,
Giovanni Fioritto, Giovanni Paglione, Domenico Antonio Colozzi, Filippo La Pietra, Nicola
Pannunzio, Matteo Schiavone, Giovanni Preziuso, Nicola Casella, Felice di Gioantonio, Antonio
Aucelli, Giovanni Orlando, Nicola di Rito e Nicola Trojani.
«Con sommo giubilo, allegro volto e di tutto piacere, le chiavi di detta porta, avendo quelle accomodate
dentro di una guantiera pittata alla chinese, ornate e complite di alcune fittuccie, seu zagarelle»,
venivano consegnate nelle «dignitosissime mani» di don Baldassarre Stabile dal delegato del Ceto
dei Creditori, il quale, in tal modo, era immesso nel «pacifico, reale e corporal possesso di questa
predetta Città, Lago e Feodi». E come in tutte «le solennità solite, e ricercate in simili atti, niuno affatto
contradicente, mà in tutto ed in vero essi medesimi Governatori, che detti cittadini consensienti, assistenti, e
permittenti con sommo applauso, e in contrasegno di giubilo non solo hà fatto seguire sparo di molti
schioppi, e mortaletti, suono di campanelle, allegrezza, corno di caccia, timbano, e altri instromenti di fiato,
che di vero ossequio essi medesimi Governatori divennero à complimentare detto Governatore Generale e
procuratore di Sua Eccellenza Imperiale con diversi atti d’ossequio, e ubidienza sino al bacio rispettivo della
mano, non essendosi per anche mancato dalla gente ornata far comparire affisso nella detta porta due elogij
in lode di Sua Eccellenza Imperiale, il di cui tenore si legge dall’inserte copie, sotto de quali vi appariscono le
firme del reverendo don Vito Trojano Arciprete, e don Felice di Lullo Sacerdote».
Successivamente don Baldassarre, accompagnato dai medesimi amministratori e dal delegato
Ventura, si recava «sopra alla Casa detta della Corte, in dove suole abitare il Governatore per
l’amministrazione della giustizia de vassalli di questa predetta città» e, stando ivi presente il
Governatore Antonio Lommano, dopo che «postosi a sedere in una sedia solita à sedersi l’ufficiale
Governatore per l’amministrazione della giustizia e tenendo in mano la verga della giustizia, venne messo
nel possesso del gladio e Banca della giustizia, colla potestà di comutare le pene, e alla giurisdizione di tutte
le prime e seconde cause, si civili, come criminali, e miste».
Dopo aver conferito la carica di erario a Nicolò Trojano, «al quale si è ordinata la cura dell’esazione
delle rendite, proventi, e di ogn’altra spettante all’Eccellentissimo Signor Principe Imperiale», il gruppo si
portava nelle carceri, «dove gionti, è stato detto signor Governatore immesso nel reale, e corporale non
meno, che legittimo possesso, con aprire, e serrare le porti di dette carceri». In una cella furono ritrovati
«due carcerati, uno chiamato Lonardo Aucelli e l’altro Primiano di Gio: Antonio inquisiti di delitti
criminali», i quali presentarono a don Baldassarre Stabile domanda di grazia che lo stesso,
esercitando i nuovi poteri, accettava e pertanto furono «disinquisiti e scarcerati, e liberati con piena
soddisfazione dell’astanti, e delle parti offese».
Il giorno dopo, venerdì, il Governatore degli Stati di Placido Imperiale, accompagnato da don
Nicolò Pirro, delegato dal Ventura, e da molti testimoni, prendeva possesso «della casa detta la
panetteria e forno sita avanti il Baronal Palazzo», gestita da Paolo Cavallo, «di due mulini macinanti» e
della taverna, condotta da Nicola di Rita, imponendo ai proprietari «l’ordine che dal dì 9 passato del
corrente mese di marzo e anno 175uno in poi, paghino e corrispondino l’affitto annuale del jus della piazza
all’Eccellentissimo Signor Principe Imperiale, ò ad altro suo legittimo ministro. E questi con altri del popolo
con sommo giubilo, e piacimento di avere per loro Signore e Padrone Sua Eccellenza Imperiale, spargendo
per i luoghi di questa Città diversi dolci, e affissi encomj latini».
Successivamente toccava alla palazzina baronale e alla «casa della torre», edificata «di vicino e al
confronto di detto palazzo», la quale venne trovata mancante di porte e finestre.
Sabato 13 marzo don Baldassarre Stabile veniva accompagnato «alla casa detta la tratta,
immediatamente attaccata alla confine e letto del lago, che viene in faccia al recinto delle muraglie, che
custodisce la parte di dentro della Città», dove erano ad attenderlo don Francesco Ventura, don Nicolò
Pirro, i signori governatori della città e «numeroso popolo».
Dopo «esservi posto dentro un sandalo di legno, di cui i pescatori si servono per solcare le acque del lago
per la pesca», aver navigato per breve tratto e fatto ritorno alla casa della tratta, il Governatore
veniva posto in padronanza di essa e del lago. Subito dopo, salito su di un altro sandalo, scortato da
altre nove imbarcazioni colme di persone, si diresse «alla via della foce e dei fiumi Apri e Lauro». Ivi
giunti e sbarcati, «si entrò diunitamente nella cappella sita à detta foce per uso della messa delli fatigatori
addetti al servizio della pesca della medesima, e ritrovatosi colà il Reverendo Signor don Vito Trojano
Arciprete di questa predetta Città, dal quale detto illustrissimo Procuratore è stato ricevuto colla benedizione
dell’acqua santa, che poi postosi inginocchiato avanti l’altare di detta cappella, in cui si vede scolpita l’effigie
della SS.ma Nunziata, da detto Signor Arciprete, presenti tutti l’astanti, s’è intonato Te Deum Laudamus
coll’orazione per gratiam actione col suono della campana, e sparo di molti archibugi».
Terminata la breve funzione religiosa, «intraprendendo il cammino per il lago col sandalo, arrivati
all’Isola col suo comprensorio, pascolo, alberi, fida, e con altri juss, e ragioni coll’intiero stato, con tutta
l’estenzione di carra47 sessantasette, e versure undeci incirca per il solo boscoso, oltre all’arenoso, e pantanoso
in cui è stato detto Illustrissimo Signor Procuratore immesso nel possesso reale, e formale, con aver rotto
alcuni alberi nelli rami, per quello camminando, l’erba estirpando, e altre cose faciendo inducenti atti di
legittimo possesso, e padronanza. E continuando il cammino verso il mare, e dove essendovi il jus della fida
della pesca nella marina di Lesina, vi è stato per anche posto, e immesso nel possesso, e in segno di esso hà
proceduto alla fida di detta pesca fatta à Paolo Pizzicolo naturale di questa predetta Città».
Proseguendo nell’itinerario, si giunse «alla calcara della calce, e fornace per cuocere mattoni, imbreci,
e altro attenente al materiale», e quindi «al pagliaro detto della macchia, sito in detta Isola, e da esso si è
presa la via detta di Scorzafuso, per cui si è condotto nell’epitaffio del passo tomolaggio di Fortore, e gabella,
quale essendo marmoreo, e in un picciolo muro alzato, si legge ascritto ciò che siegue = A. G. P. Carolus Dei
Grautrinis sui Piz Rex = Pandetta seu tariffa degli deritti del passo di Fortore, che si esigge nella Città di
Lesina dalla Santa Annunziata di Napoli, quale si deve esiggere nel luogo solito, e consueto, e preposto dove
stà scolpita la tariffa de deritti, che si devono esigere per detto passo da tutti quei passaggieri, che passano
per quello con loro some di robbe, mercanzie, e altro senz’alterazione alcuna = Exactio prq.da fiat hoc modo
VE = Per qualsiasi carro carico di qualsiasi robba di mercanzia, tanto nell’uscire, quanto nell’entrare dal
porto di Fortore grana dieci, per ogni carretta delle medesime grana cinque, per ogni soma di robba di
qualsiasi mercanzia grana due. Mentre non si esigge cos’alcuna da quelli che portano in collo, ne quelli che
portano robbe per uso proprio, per uso di casa, famiglia, e possessione. Intr. Neapoliex Regia Camera
Summaria die 7 8bry 1691».
Intanto che si disbrigavano le pratiche per il passaggio dei beni, due vetturini di Rodi, tali
Giuseppe Sciarra e Michelangelo Felici, si trovarono a transitare dal passo con un mulo e furono
dallo Stabile invitati a pagare 2 grana di tassa, inoltre «si è loro ordinato che per l’avvenire per vero
Signore e Padrone di detto passo e deritto riconoscono l’Eccellentissimo Signor Principe Imperiale, e suoi
ministri».
Fatto rientro a Lesina, la delegazione si portò verso la chiesa arcipretale, «per il jus che l’attuale
Padrone di questa predetta Città rappresenta nella nomina, e presentazione dell’Arciprete, Cappellano, e
creazione del sagrestano», dov’era ad attenderla l’arciprete don Vito Trojano, «vestito di cotta e piviale,
e altri preti anche di cotta ornati», dai quali don Baldassarre Stabile «fu onorevolmente davanti l’atrio
ricevuto». Dopo aver intonato il Te Deum, l’arciprete recitò «un sermone al popolo ivi radunato, con
esso diverse lodi fece all’Eccellentissimo Padrone, eccitando lo stesso all’amore verso detto Signore, tanto che
tutti compunti ad alta voce divennero nel dire all’espressiva della sorte avuta di essere vassalli di si clemente,
e benigno Padrone».
Ed esercitando il jus di patronato della chiesa, il Governatore elesse il sacerdote don Felice di
Lullo cappellano della chiesa dell’Annunziata.
Dopo aver preso possesso di tutti i corpi e beni inseriti nelle mura di Lesina, il giorno
successivo, domenica 14 marzo, il delegato di Placido Imperiale, prendeva possesso del territorio
spettante alla nuova proprietà consistente in 63 carra ed 11 versure, inserito nella Locazione di
Lesina della Regia Dogana delle pecore. Accompagnato da don Nicolò Pirro, don Francesco
Ventura, dai governatori della città e da una ventina di «cittadini a cavallo e altri a piedi», veniva
prima condotto alla posta di San Samuele, di 5 carra; poi alla posta di Santo Spirito, estesa per 13 carra;
indi alla posta di Cammarata, anch’essa della misura di 5 carra. Successivamente il gruppo si portava
nella posta di Trevalle; nel Jaccio dell’olive, «e ivi essendovi altro territorio di carra 27: delle carra 63 e

47
Il carro o carra pugliese era equivalente a 20 versure, una versura era composta da 60 passi, un passo da 7
palmi.
versure 11, e corde di lavorazione, e altre carra 21: di mezzana alborata, che circondano detti carra 27:», e
nelle poste di Fucicchia e Pontonicchio, dall’estensione di 13 carra.
«E conferiti finalmente nel luogo communemente chiamato Caldola, che principia da sotto il fiume Apri, e
S. Nazzario adjacente al lago, dove essendovi il territorio pantanoso, e paduloso perché contiene tutta
l’estinzione di essi [don Baldassare Stabile] è stato immesso nel possesso reale e corporale tanto del
territorio pantanoso, quanto di quello paduloso, che comingia dalla confine dell’Isola attaccato â detto lago, e
tira sino aldisotto del molino di Lauro».
Espletate tutte le pratiche per il passaggio dell’intero feudo dell’Ave Gratia Plena, ed essendo
giorno festivo, «il Governatore di Sua Eccellenza portarsi dovea in chiesa non solo per udire la Santa
Messa, che per ivi anche nuovamente far solennizzare il canto del Te Deum in rendicontazione di grazia
all’Altissimo per il felice possesso di questa Città, lago, e feodi, che ne giorni di giovedì, venerdì, e sabbato era
seguito con pace, applauso, e quiete».
Nel frattempo si era radunata molta gente, giunta per assistere alla messa, ma la maggior parte
di essa restò sul sagrato, in quanto la chiesa era incapace di contenerla. Dopo la santa messa,
durante la quale don Baldassarre venne celebrato e riverito dall’arciprete a dai governatori della
città, il ministro di Placido Imperiale venne «ricondotto nella casa di sua abitazione, e ivi di mano in
mano prima da detti medesimi Governatori, e gente civile, e poi dall’intiera cittadinanza ossequiato e
annunziato il vivere Sua eccellenza per secoli d’anni con fecondità di prole, e di ogn’altro buon evento, che
proprio degno, e dovuto si rende ad un Signore, e Padrone di singolar merito, e di precisa bontà, di tutto
zelo, amore, e carità. Non si mancò in atto di tali complimenti, e officij dal signor Nicolò Trojano erario
destinato da Sua Eccellenza fare le parti del suo dovere in segno di esser stato non meno eletto nella carica
dell’Erariato che per esser uno delli più sinceri, e fideli vassalli di Sua Eccellenza praticare con tutti coloro,
che con detto Illustrissimo Signor Governatore generale, e Procuratore di Sua Eccellenza aveano tali atti
conferiti, loro dispensando delle varie confezioni, secondo la diversità delli Ceti, se ne licenziarono, ripetendo
sempre viva, via Sua Eccellenza Padrone. Non cessando solamente con quanto di sopra si è descritto l’amore,
e obbedienza del pubblico di questa predetta Città, in cui infervorati non si mancò il giorno con altri
applausi, ed eccellenti fatti, divenuta l’ora venti si viddero j medesimi Governatori tutti riuniti nella
medesima casa d’abitazione in dove lo stesso Illustrissimo Signor Governatore generale, e Procuratore di Sua
Eccellenza stava collocato, con maggior seguito, e compagnia dell’intiero pubblico, ripigliandosi lo stesso, lo
condussero per tutte le strade principali, e maestre del lago, fatte prima di lor ordine polizzare, in ciascuna
delle quali fu detto Illustrissimo Signor Governatore generale, e Procuratore ridetto onorato, e corrisposto
dalle case, e finestre di tutti li cittadini, e abitatori, di varie, e moltissime confezioni. Lo stesso in
corrispondenza dell’affettuosa dimostrazione, si servì in ogni luogo buttar monete d’argento, non mancando
intando il sparo de schioppi, ne il timpano, ne il corno di caccia, ne altri istrumenti da fiato, e campane tutte
di detta chiesa, e così con sommo, ed universal giubilo, festa, e allegrezza fù restituito al medesimo luogo ove
fu pigliato, ma non ebbe tempo, che sopra si fosse ritirato, per farlo partecipe di maggior attenzione, e dovere;
fatti ivi preventivamente allestare venti cavalli di superbo aspetto, bene insellati con selle, e briglie, ne quali
rispettivamente montati, se ne fece pubblica gala, e dimostrazione per tutte le strade maestre di questa Città,
passandosi per la porta della medesima, quale divisa in due parti in ciascuna d’esse si trovarono affissi due
Encomj in lode di Sua Eccellenza, da dove indirizzarono il cammino verso la Difesa Urbe distante circa un
miglio, e girati per altri luoghi di campagna verso le ore ventidue furono in questa Città di ritorno.Ma che
creder si voglia, che terminassero fin qui le espressate brame di essi medesimi Governatori, e pubblico, tutti
di amore accesi nell’occasione di recitarsi nella chiesa le preghe in onore del Patriarca San Giuseppe, e per la
predica la mattina non fatta per non aver avuto tempo, non mancarono di condurre detto Illustrissimo
Signor Governatore di Sua Eccellenza in detta chiesa con maggior giubilo, ed allegrezza, in dove fatte le
preghe, e intesa la predica, assiso nel medesimo posto della mattina, fù finalmente ricondotto in casa, e quali,
e quante fossero state le voci dell’astanti affollate insieme nel dire, viva, viva Sua Eccellenza, sua signora
Famiglia, e ministri, non hanno potuto numerarsi. Dopo altri numerosi atti di complimenti, e espressioni
furono per l’ora tardi della sera gentilmente licenziati. Difetto sarebbe il tralasciarsi le funzioni prima, e
propriamente in tutti li giorni, che durò il possesso, fatte dalla universal Cittadinanza in tutte le sere, in
segno di un sincero, e vivo amore, e in festa, e giubilo dell’acquisto fatto di Sua Eccellenza Procuratore, con
avere accesi per avanti le loro case, e finestre, fuochi, e lumi, anche nelli balconi, e finestre, che facevano
risplendere la Città in modo assai dilettevole, e meraviglioso, oltre il continuo sparo; eccessi veramente di
vero, e sincero vassallaggio, e dovuto alla somma bontà, e gentilezza di un si gran Signore e Padrone, che
sarà per mirarli con occhi di amoroso Padre»48.
Accoglienza di tutto rispetto, come abbiamo potuto vedere, quella riservata al governatore di
Placido Imperiale dai suoi nuovi vassalli, il quale, dopo aver trascorso quattro intense giornate,
avrà senz’altro stilato un completo ed esaudiente rapporto sullo stato economico e sociale di
Lesina, che avrà poi sottoposto certamente all’attenzione del suo signore.

CAPITOLO II

LA RIVOLUZIONE AGRARIA DI PLACIDO IMPERIALE


L’arrivo in Capitanata di un grande ed illuminato latifondista comportò un cambiamento
innovativo nella gestione dei terreni nei suoi nuovi feudi; se quello di San Paolo era già in parte
preposto alla coltura,
«ha oliveti e vigneti bastanti. Scarseggia di frutti. Il suo territorio è feracissimo in
grano, fave, orzo, avena e legumi»49,
ci informa il Longano nel corso della sua visita in Capitanata, del tutto inverso, invece, era il
discorso per quello di Lesina, poiché completamente abbandonato a sé stesso, come riportato
sempre dallo stesso viaggiatore:
«La sua terra è salata e di cattivo odore. Onde è di pessima qualità. Ha pochi
vigneti ed uliveti. La sua industria anche agraria è ristretta, mentre non ha, che
versure 295. di terreno. Non conosce altre arti, oltre la pastorale, ed agricoltura
scarsa, se non che le pure necessarie»50.
Il degrado dei terreni dell’ex feudo dell’AGP veniva posto in risalto anche nelle dichiarazioni
rilasciate da alcuni patrizi lesinesi il 4 marzo 1752 in una procuratio, nella quale evidenziavano le
disastrose condizioni e le conseguenti basse entrate fiscali del feudo in quanto «i corpi di rendita, che
di presente si trovano di pessimo stato, come amministrati da secoli dagli affittatari, e i territorij per incuria
rimasti inutili»51.
Certamente le leggi della Dogana delle pecore comportavano determinate imposizioni; la
pastorizia transumante aveva la meglio sulla cerealicoltura; fra statonico e vernotico52 i terreni del
Tavoliere erano pasture per migliaia di ovini; la coltivazione segnava il passo; è da notare come nel
1716 nella piana foggiana i terreni seminativi superavano di poco le 500 carra. Occorreva un
cambio di tendenza, una riorganizzazione radicale dell’uso delle terre: trasformare in realtà le
teorie che gli economisti enunciavano da Napoli.
E Placido, convinto seguace della «scuola fisiocratica»53, cioè di quella corrente di pensiero
economico che sosteneva che la principale fonte di ricchezza era l’agricoltura, finalizzava i principi
dei filosofi napoletani attuando un esperimento di rivoluzione agraria nei suoi feudi pugliesi
subito dopo aver ottenuto il Regio Assenso all’acquisto di Lesina.
Nel 1753, anno della prima indizione54, il principe di Sant’Angelo, in collaborazione dei suoi
«ministri», analizzò e studiò le zone, già precedentemente individuate, idonee per il suo scopo, che
dovevano essere colonizzate.
L’ambizioso progetto, che seguiva quello già riuscitogli positivamente nel bosco di Oppido,
veniva avviato concretamente dall’Imperiale dapprima nel feudo di San Paolo e, successivamente,

48
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2816, Anno 1751, ff. 25 e successivi.
49
F. LONGANO, op. cit., p. 27.
50
Ibidem.
51
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2817, Anno 1752, f. 14.
52
Terreni su cui le greggi potevano pascolare nel periodo estivo, statonico, e nel periodo invernale, vernotico.
53
Dottrina economica che si affermò in Francia verso il 1750 e si diffuse ben presto in Europa. Il termine
deriva dal greco phsis (natura) e kratêin (dominare).
54
Periodo di quindici anni che si usava inserire con ordine progressivo nei contratti, nelle bolle e in ogni atto
pubblico. Una volta terminato il computo dei quindici anni, si ricominciava daccapo.
in quello di Lesina. In quello stesso anno il patrizio ordinava ai suoi governatori ed erari, operanti
nei feudi pugliesi, di dare il via al suo piano di trasformazione agraria del territorio di San Paolo.
Il 21 ottobre, infatti, l’erario Salvatore Rabasco concedeva in affitto al patrizio di San Severo don
Nicolò Faralla, la mezzana55 detta di Radicosa, dell’estensione di carra 4 per complessive 80
versure. L’accordo era definito per un «decorso di tempo continuo, e forzoso di nove anni per l’annuo
estaglio56 di tomoli57 cento ottanta di grano sempre in pieno à ragione di tomoli due, e misure sei per
ciascuna versura, così anticipatamente convenuti ed accordati con spezial ordine e intesa di detto
Eccellentissimo Signor Principe, come ravvisasi dall’esibita lettera di detto Eccellentissimo Signor Principe,
che conferma detto magnifico Erario, e da me riconosciuta».
Dal canto suo, il Faralla si obbligava a consegnare, ogni 22 luglio di ciascun anno, al principe o
ad altro suo ministro pro tempore, «sopra le fosse del medesimo qui in San Paolo, e col mezz’etto e rasola
solita, ch’esigge detto Eccellentissimo Signor Principe da altri cittadini terraggieri, e a colazzo di carro, e de
migliori grani che perverranno da detta mezzana di Radicosa, e farne di essi tomala cento ottanta di grano,
misura e qualità suddetta. La prima consegna il dì 22 luglio dell’anno entrante 1754 qui in San Paolo, e così
continuare per tutto detto novennio, di sorte che per li 22 luglio dell’anno 1762 deve essere interamente
introitato e consegnato a esso Eccellentissimo Signor Principe. L’ultimo e intiero annuo estaglio di dette
tomoli cento ottanta di grano saranno consegnati davanti allo stesso in ciascun anno di detto novennio, e
dalle dette rispettive consegne, e ciascuno di esse nelli tempi descritti non mancare, mà farle in pace»58.
L’intesa fra le parti prevedeva altri cinque patti:
1. che essendo la Mezzana «parte coltivata e parte macchiosa», l’affittuario Nicola Faralla si
obbligava «parte del suddetto macchioso ridurre per anco à coltura à sue spese propriamente nel
detto novennio che dura l’affitto, e parte del suddetto restante macchioso restando costì senza
moverlo sù la giusta considerazione di dover servire per pascolo e mantenimento dell’animali
addetti alla coltura, per l’aspetto de pagliari, e ricetti per uso di essi e per li pignoni delle gregne 59,
che per necessità si devono ivi radunare per la pisa, ò pure interamente ricacciare detto macchioso
lacché resta à libero arbitrio, e piacimento di esso don Nicola, pel novennio e lasso, debba detto
beneficio di ricacciamento restare a beneficio di detto Eccellentissimo Signor Principe, senza
pretendere dallo stesso pagamento alcuno di spesa, che consumerà esso don Nicola per ridurre la
parte del macchioso a coltivo, essendosi così specialmente convenuti»;
2. «che non si debba, ne si possa affatto per detto don Nicola Faralla affittare, pretendere, ne
demandare a scomputo per detto affitto per qualsiasi disgratia, caso fortuito, divino, umano, raro,
infelice, e inquinato che possa accadere, Dio non voglia, non pagare intieramente l’annuo estaglio di
tomoli 180 grano, in ciascun anno di detto novennio, e quello durante, à qual effetto hà rinunziato
con fede rinunzia al detto escomputo, e con giuramento si obliga di non domandarlo, per essersi così
per special patto espressamente convenuti»;
3. «che detto Signor don Nicola Faralla per abeverare j suoi animali addetti alla coltura possa far uso
del pozzo di detto Eccellentissimo Signor Principe, sito in Radicosella, dal quale forsi mancando
l’acqua per qualche siccità, ò per altro evento, che mai può avvenire, e possa darsi, allora possa detto
don Nicola andare ad abeverare nelli pozzacchi di detto Eccellentissimo Signor Principe alle fornaci
li soli animali addetti alla coltura, restando bensì detto Eccellentissimo Signor Principe tenuto
accomodare, e annettare detto pozzo à sue spese nel caso di bisogno, essendosi costì convenuti»;
4. «che le spiche caderanno dalli seminati di detta Mezzana in ciascuno anno, durante detto novennio,
si possano interamente quelle vendere da detto Eccellentissimo Signor Principe per uso di qualsiasi
sorte d’animali, e appropriare a sé il prezzo di esse, ben inteso però non doversi discacciare gli
55
Le mezzane erano i terreni non messi a coltura, dove stazionava il bestiame.
56
«L’estaglio in natura» era la quota di affitto, sul prodotto lordo, che doveva esser pagata dal conduttore di
un fondo rustico al suo proprietario. La sua quantità era fissata in un determinato quantitativo di grano di
prima qualità che variava a seconda delle possibilità degli affittuari e dalla collocazione dei terreni in aree
poco fertile o viceversa. I conduttori del fondo erano anche obbligati, a proprie spese, al trasporto del grano
nelle fosse o nei magazzini del proprietario. Questo tipo di canone si applicava a quei coloni che non erano
in grado di pagare l’affitto in danaro.
57
Il tomolo era una misura di capacità che equivale a circa 48 kg.
58
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2818, Anno 1753, f. 59.
59
Fascio di biade secche.
animali di esso don Nicola addetti alla coltura di detta Mezzana nel pascolo di dette spiche, e
animali per uso de quali saranno quelle vendute non debbano affatto abeverare, ne servirsi di acqua
del detto pozzo di Radicosella, quale resta assolutamente per l’assoluto uso dell’animali di esso don
Nicola Faralla, mà debba detto Eccellentissimo Signor Principe dare quelli altro pozzo per abeverare
gli animali che si dovranno pascere dette spiche per fino alli quindeci del mese di agosto di ciascuno
anno, così convenuti»;
5. «che debba detto Eccellentissimo Signor Principe accordare al pattezzato Signor don Nicola Faralla
il permesso del taglio de legnami selvaggi per uso di ricetto, pagliaro, e altro comodo per la sola
Mezzana affittata da detto Eccellentissimo Signor Principe coll’intelligenza dell’Erario, e in fine del
novennio detto legname lasciarlo a beneficio del medesimo, tale quale si ritroverà, per essersi così
convenuti».
Anche se l’11 giugno 1752 venne ceduta in affitto per uso di coltura a Donato Giuva, Antonio del
Buono, Muzio Rocca, Pasquale Bastullo, Giuseppe Giudillo, Michele Lucchese, Nicola Caraffa,
Giambatta Gildone, Ludovico Petrillo, Michele Venditto, Donato Pennacchio e Michele Giudillo,
tutti di San Paolo, «la masseria de Casaleni, e propriamente quei territorj affittati per il passato al Signor
don Francesco Mosti, di carra sedeci e mezzo colla mezzana detta di Galluccio di carra sei, amendue a
mensura e non al corpus, per il convenuto prezzo di tomoli due e mezzo la versura nella portata, e di tomoli
due di grano a versura per la mezzana»60, i cui terreni erano già preposti alla semina, è dall’atto
stipulato con don Nicolò Faralla che traspare la volontà di Placido Imperiale di dar via alla
trasformazione del territorio, concedendo all’affittuario di turno anche terreni macchiosi o boscosi da
ridurre a seminativi.
È importante rivedere passi di questo documento in quanto da esso possiamo dedurre le
condizioni economiche degli abitanti dei due feudi della Casa di Sant’Angelo: non avevano denaro
a sufficienza per poter locare i terreni e quindi il canone si tramutava «in estaglio in natura»61; la
concessione gratuita, da parte dell’Imperiale, dei pozzi e del diritto di legnare; insomma tante
agevolazioni seppur associate a tante obbligazioni.
Nella primavera dell’anno seguente Placido faceva ritorno in Puglia; nell’attraversare in
carrozza i suoi possedimenti, guardava estasiato i campi seminati a grano, che gli apparivano
rigogliosi al riverbero del sole: l’annata prometteva bene. Non conosciamo quante carra di
territorio sanpaolese fossero destinati alla semina, sta di fatto però che nel settembre del 1754 un
bastimento giunto da Napoli era ancorato nel porto di Fortore «per caricare li tomoli62 3.600 di grano
ivi approntato, per asportarlo nella Capitale di questo Regno»63.
E il principe di Sant’Angelo, esimio instauratore dell’agricoltura, confortato dalla feracità dei suoi
territori, in quello stesso anno perfezionava e portava a compimento il suo intento, cedendo ai
coloni di San Paolo, San Severo e Serracapriola i territori fino ad allora rimasti incolti.
Dal mese di aprile partono a raffica le concessioni. Primo ad essere ceduto, giovedì 11, fu
l’intero corpo feudale della Difesa di San Marzano, costituito da 760 versure per complessivi 38
carra, in parte boscoso e in parte frattoso, «confinante colla Difesa di Gavigliano delli Padri Celestini di

60
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2817, Anno 1752, f. 44.
61
Le masserie di portata venivano affittate per un periodo di tempo che variava da non meno di sei a non più
di nove anni. L’affitto poteva essere pagato in denaro o in estaglio. Nel primo caso una versura di terreno
poteva essere ceduta da un minino di 8 ducati a un massimo di 12; nel secondo caso, invece, il conduttore
cedeva al locatario un quantitativo di grano, indipendentemente dalla produzione, che variava da 4 a 6
tomoli a versura. Per i terreni da poco dissodati il prezzo d’affitto poteva essere portato a 15 ducati a
versura, mentre per l’estaglio si potevano raggiungere fino a 40 tomoli di grano a versura. Cfr. C. DE CESARE,
Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre province di Puglia, presso Tommaso Guerrero e
C., Napoli 1859, p. 67.
62
Considerato che il tomolo aveva una capacità di circa 48 kg, in base a queste importanti informazioni,
potremmo affermare che la produzione agraria del 1754 nel feudo di San Paolo ebbe una resa alquanto
elevata, se consideriamo i 1.728 quintali che furono trasportati a Napoli, ai quali bisognava aggiungere quelli
che vennero raccolti nei magazzini di San Paolo, necessari per l’alimentazione e per la semina dell’anno
seguente. E l’Imperiale non ancora aveva dato avvio alla rivoluzione agraria!
63
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2819, Anno 1754, f. 125.
Ripalda, Difensola, e coll’intiero feodo di San Paolo», per essere interamente trasformato, a spese dei
conduttori, a coltura da campo64.
I terreni venivano concessi «per lo spazio e continuo tempo forzoso di nove anni»; il primo anno,
considerate le spese cui erano sottoposti i coloni per la trasformazione, «era franco e senz’avere
estaglio e pagamento d’esso»; per il secondo anno era previsto un «estaglio di tomoli 3 di grano a
versura» che aumentava a 4 tomoli per il terzo. Per i restanti sei anni era previsto un estaglio di 5
tomoli di grano a versura.
Ogni 15 di agosto i coloni erano obbligati a consegnare il grano «che dovrà essere di buona qualità e
de migliori, nelle fosse dell’Eccellentissima Casa in San Paolo à colazzo di carro, e col mezzetto, e rasola
solita ad esigersi il terraggio». Essi erano garantiti e protetti nell’affitto e, inoltre, «detti coloni siano
tenuti restare ventiquattro albori in ciascuna versura in distanza uguale, e delli migliori, e più dritti, e
infocandosi questi dal fuoco, che sarà posto alle ristoppie, non intercedendo colpa e mancanza di essi coloni,
non restano, non siano tenuti pagare l’ammenda del danno di detti albori».
Il nobile locatore si impegnava a fornire l’acqua e a concedere l’erba per gli animali addetti alla
coltura e a fornire il legname utile alla costruzione di «aratri, scaraiazzi, ricetti e pagliari», il cui taglio
doveva avvenire in presenza di un soldato65.
Il 26 aprile 1754 è Placido Imperiale in persona, «come vero Signore e Padrone», a stipulare l’atto di
affitto a don Matteo Fania di San Severo dell’intero feudo di Difensola, dall’estensione di 28 carra e
6 versure, «confinante colla Difesa di San Marzano, e colle poste di Faugno e Cerro, San Marzano, Difesa
di Galluccio, dalle quali se ne deducano versure dieci dall’anima affittata a massari di San Paolo per uso
d’erba, e altre versure dodeci della pezza detta il sterparello affittata à Giombatta Gildone per uso di
coltura»66.
La cessione ai coloni di quei territori incolti del feudo di San Paolo veniva completata il 7
giugno 1754; nello spazio di circa due mesi si possono contare ben ventotto atti notarili, tramite i
quali furono concessi in locazione la Difesa di San Marzano, il feudo di Difensola di 566 versure, la
Difesa di Ferrante, le 100 versure della pezza detta «dei tre titoli» e il Demanio del Feudo di San
Paolo, per un’estensione complessiva di ben 3.443 versure da trasformare da boscoso o macchioso a
terreno coltivabile.
Qualche decennio dopo, il nuovo modo di fare agricoltura di Placido Imperiale destò la
meraviglia dell’abate Francesco Longano che, attraversando il territorio di San Paolo per recarsi a
Serracapriola, annotò sul suo diario di viaggio:
«essendomi il dopo pranzo da colà portato nella Serracapriola, allorché mi trovai in
faccia alla terra di San Paolo al mio fianco sinistro osservai, che in una campagna
si stavano scaricando quattro traini di rapillo 67, e moltissima quantità ne vidi in
tutta la estensione del territorio già scompartita in tanti mucchietti, nel modo
stesso che si fa col concimolo. Allora tra meco stesso dissi: questo è quel mezzo che
rettifica il terreno, ne minora la tenacità, lo disnatura, lo fertilizza? Olà l’unica
scuola capace a causare in tutta la Provincia una rivoluzione agraria! Per me vale
assai più questa unica vista, che mille Cattedre di Agricoltura reggentate da
maestri, i quali senza mai aver veduto le campagne, altro non fanno, che dettare a
pochissimi uditori qualche pezzo di Du-hamel infelicemente tralatato. Vale per me
assai più quest’unica vista, che la lettura anche ben fatta di tutti gli antichi, e
novelli libri di Agricoltura. Ma dall’altra parte intesi gran molestia, quando
osservai, che le popolazioni vicine non ancora ne hanno profittato»68.
Il colto viaggiatore aveva notato la preparazione dei terreni effettuata in modo diverso rispetto
alle altre terre del Tavoliere, destando in esso un inusitato stupore che «mille cattedre di agricoltura»
non avrebbero mai potuto suscitare.
64
Ibidem, f. 3.
65
Ibidem, f. 6.
66
Ibidem, f. 27.
67
Qualità di sabbia detta anche «polvere di fazzuolo» che si trovava in grande quantità nei campi intorno al
Vesuvio. Mescolata con la calce, veniva adoperata per la costruzione degli edifici.
68
F. LONGANO, op. cit., p. 42.
Questa innovazione agraria stava per essere messa a punto anche nell’ex feudo dell’AGP.
Terminata la prima fase con la concessione delle terre di San Paolo, bisognava intraprendere la
stessa azione nel feudo di Lesina.
Dopo aver preso un attimo di respiro e realizzato un piano preventivo, le operazioni di cessione
dei territori di Lesina furono avviate il 22 luglio 1754, giorno in cui nella cittadina lagunare l’erario
della famiglia Imperiale, don Antonio Lommano, concedeva ai sanseveresi Francesco Tricarico e
Rocco Ciocio 50 versure di terreno «nella mezzana detta della Valle di San Severo per doversi ridurre da
boscoso a coltura», con gli stessi accordi convenuti con i coloni di San Paolo. Ma, a differenza di
questi ultimi, i colonizzatori dei territori appartenuti alla Santa Casa dell’Annunziata dovevano
consegnare il quantitativo di grano convenuto per l’estaglio ogni 15 di agosto «nei magazzini di
detto Eccellentissimo Signor Principe qui in Lesina e colla solita misura che si fa l’esazione dell’altri
terraggieri nell’altra sua Terra, e feodo di San Paolo»69.
Per tutto il secondo semestre del 1754 e per il primo del 1755 furono stipulati ben cinquantatre
atti notarili, tramite i quali vennero affidate 340 versure della mezzana della Valle di San Severo,
che in seguito sarà chiamata Mezzana Feudale, in maggior parte alberate, «che frà le altre detto
Eccellentissimo Signor Principe possiede da vero Signore e Padrone con giusto titolo e bona fede »70, tutte
concesse a coloni di San Severo; 190 versure, in parte macchiose e in parte boscose, della Difesa di
Pontonicchio a coloni di San Severo, San Marco in Lamis e a Michele Aucelli di Lesina; 110 versure
in parte boscose e in parte macchiose del Quadrone di Trevalle a Vincenzo Alfarano, Domenico
Pezzugglia, Carmine Solimeo, Giambatta Nitto, Giovanni Filamone e Simone di Sanno tutti di San
Severo; 170 versure del quadrone feudale denominato della Focicchia tutte cedute a coloni di San
Severo; 20 versure ad Antonio Panunzio di Lesina, che si impegnava a «ridurre da macchioso a
coltura di campo»71 una zona del quadrone feudale della posta di Santo Spirito e altre 160 sempre a
cittadini senseveresi. Infine, 310 versure macchiose del quadrone feudale denominato Jaccio
dell’oliva a coloni di San Severo, San Marco in Lamis e a Carmine Vegeri e Serio della Gioia della
Terra di Pescoci [Peschici].
Complessivamente furono 1.300 le versure destinate alla trasformazione.
Dall’analisi di questi dati emerge un dettaglio molto importante: gli appezzamenti di terreni più
consistenti, concesse in affitto per la colonizzazione, riguardano la mezzana della Valle di San
Severo [potrebbe trattarsi dell’odierno Vallone degli elci], in un’amena collina della quale,
«volgarmente chiamata Coppa di Montorio» 72, Placido Imperiale coronerà la sua opulenta impresa
agro-demografica con la costruzione di una masseria da campo, detta anche poggio, che può
considerarsi all’origine del nuovo casale di Poggio Imperiale.

PLACIDO IMPERIALE, LATIFONDISTA E ALLEVATORE


Grazie a questa imponente opera di bonifica aumentarono le terre arabili e, per la verginità dei
terreni da poco riconvertiti a coltura, le seminagioni furono portate fino a nove anni consecutivi,
come risulta dagli atti stipulati dai «ministri» di Placido Imperiale con i vari coloni che abbiamo
visto nel precedente paragrafo. Questo nuovo modello produttivistico, se così si può definire, che
portò il Sant’Angelo ad essere uno dei primi protagonisti della trasformazione delle terre del
Tavoliere, venne glorificato ed elevato a mo’ di esempio da Luigi Targioni nei suoi Saggi fisici,
politici ed economici. Ecco come l’economista napoletano ci trasmette gli effetti della rivoluzione
agraria attuata dal giovane nobile genovese:
«Il Principe di S. Angelo Imperiali, facendo uso dell’acutezza dei propri talenti, e
dell’ereditarie dovizie insieme, ha mutati diversi suoi Feudi, che possiede nel
Principato Ultra e nella Capitanata, dal tristo aspetto al più favorevole, che
immaginar si possa; vedendosi il tutto posto a profitto, o a maggior aumento, a

69
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2819, Anno 1754, f. 90.
70
Ibidem, f. 118.
71
Ibidem, f. 172.
72
ARCHIVIO DIOCESANO DI LUCERA (d’ora in poi sarà ADL), Sante Visite Pastorali, BB. nn. 6 N° 41, Atti della
santa Visita di monsignor Giuseppe Maria Foschi, Poggio Imperiale, cc. 99, Anno 1761, f. 1.
segno che, siccome la loro ereditata rendita era di annui ducati 15. mila, oggi
giugno a ducati 60. mila.
Della terra fa ammirare il lodato principe, utili e leggiadri i piani, le valli, i monti,
e fino alle nude arene del mare; poiché le vaste campagne in generale, da nocivi
spinesi, e da sterili macchie e cespugli, ingombrando il suolo agreste le fiere, e i
velenosi animali; da campagne paludose e pantanose, veggonsi oggidì tutte
sboscate, svelte le radici di quelli, e sviscerata la terra per estirparne ogni nociva
barba amica.
Trovansi esiccate da quelle campagne le perniciose acque per mezzo di fossi e
canali, non che mercè le macchine idrauliche, assai più da se stesso escogitate, che
dall’arte insegnate per disporne, e regolar di quelle il necessario pendio.
Ridotte in sì feconda disposizione, ed attitudine le campagne, le valli, e i monti,
ecco tutte con perizie ripartite: altre a lieti campi di biade, qualunque sieno: altre a
praterie naturali ed artifiziali di piante vivaci 73 col favore delle diverse semenze 74
procacciate in Francia, in Pisa ed altrove per pascolo, e foraggio delle ricche sue
greggi, ed armenti, che eccedono il numero di 30. mila ogni specie; ricavando il
gran profitto dei loro naturali prodotti di circolazione 75 coll’ingrasso dei campi,
ch’è il più importante.
Altre campagne trovansi addette alle piantagioni di ogni sorta di alberi fruttiferi, o
da taglio colla interessante cura di piantarsene 10. mila l’anno, mercé i vari
semenzai, e i successivi vivai, a norma delle accurate diligenze, e sperimentate
regole de’ più accorti periti.
Le nude arene, e la squallida spiaggia del mare, pur queste ha res’egli ridenti, e
fertili, colla semina dei lupini, e soprattutto del saraceno; per natura; fecondi
generi dei sterili lidi, e della terra, ov’è avara e meschina.
Fissatasi il savio patrizio, sagace ed industre la bella idea di far comparire i suoi
Feudi all’occhio dei riguardanti per lo spettacolo aggradevole, e adorni di poderi
urbani, e rustici insieme; egli ha fatte edificare infinite case, e casamenti nei luoghi
opportuni; oltre per comodo dei coloni e contadini: altre per uso del bestiame; e così
accrescere, e perpetuare insieme l’aumento dei suoi speciosi fondi.
Le acque in generale, pur così utilissime le ha rese; sieno quelle dei fiumi perenni
(Calore ed Ofanto) che vi scorrono, sieno dei rivoletti più esili, che vi serpeggiano;
sia finalmente del famoso lago di Lesina, che vi ha un gran seno.
Col favor dei primi, veggonsi costrutti molini ad acqua (per l’addietro nel Feudo di
S. Paolo ignoti): veggonsi altrove delle cartiere, delle gualchiere e tintiere, fornite
di convenevoli e grandi edifizi, opportuni agli anzidetti rispettivi mestieri.
Veggonsi indi disposte le stesse acque, anche con le arcate di fabbrica, e con le
macchine idrauliche ad irrigare le campagne aride e sitibonde; onde ed erbe e
virgulti, e piante germogliano, fioriscono, e rendono in gran copia il ricco frutto.
Vedesi pur disposta col favor delle stesse acque una gran fonderia di rame, non che
di ottone, e di ferri filati, che come fabbrica di cose nuove tra noi, viene maneggiata
da pistoiesi i più esperti ed intendenti di tali mestieri.
E quindi risultano i gran forni per fare dei ferri filati, depurata, e raddolcitane pria
la massa. Perizia, anche fino a questo punto, fra noi ignota.
Il lago di Lesina col favor delle acque, non meno proprie, che del Mare Adriatico,
che vi s’imbocca: e coll’opera dei più esperti di Sicilia, e di Comacchio; stante i vari
ordegni, le nuove regole, e loro perizia insieme; trovasi quella pesca in sì favorevol

73
Si riferisce al trifoglio ed altre piante che, seminate una volta, durano molti anni.
74
L’orobo [ovvero l’ervo], il fiengreco [conosciuto dall’antichità per la proprietà di stimolazione delle
ghiandole mammarie alla produzione di latte nelle puerpere], le rape, la foraggine ordacea ed avenacea ed altre
simili.
75
Come sono per le pecore i latticini, e castrati, le pelli, la maggior parte materie prime di ricchi mestieri; e così del pari
per gli altri animali.
grado di aspettativa, che promette, ed assicura maggior rendita di quanta gliene
sanno recar di presente tutt’i suoi Feudi uniti»76.
Personaggio ingegnoso il principe Placido, stando a quanto afferma il Targioni, avendo
progettato egli stesso le macchine idrauliche occorrenti per innaffiare i campi, e al tempo stesso
progressista, non solo dal punto di vista della trasformazione agraria attuata, ma anche per le
innovative colture apportate nei suoi feudi, tra cui i legumi e il mais, detto volgarmente grano
d’India, le cui semenze le importava da altri luoghi d’Italia o addirittura anche dall’estero.
Inoltre, oltre a rendere produttive vaste zone dei suoi possedimenti, l’Imperiale presciveva, «nei
luoghi opportuni», l’edificazione di masserie77 costituite «da case e casamenti per comodo» dei coloni e
per gli animali in modo da «accrescere e perpetuare l’aumento dei suoi speciosi fondi»78.
Pertanto, le mezzane e i quadroni, divenuti ormai terreni seminatori, «che in Puglia si chiamano
“portate”79 perché la metà si seminano, e dell’altra metà parte si fanno le maggesi 80, e parte resta l’erba per
pascolo di pecore. Queste Portate sono al numero di cinque, la prima si chiama il Quadrone della Focicchia
di versure 327. La seconda del Jaccio dell’oliva di versure 308. La terza il Quadrone di Trevalle di versure
240. La quarta portata è il Quadrone di Santo Spirito di versure 270. La quinta è il Quadrone di Cammerata
di versure 130. Si sono però le medesime Portate per maggior comodo divise nelle seguenti quattro masserie
di campo; la prima denominata delli Pontoni. Essa sta situata sopra la Difesa del Pontinicchio di San
Lorenzo, ed in confine del suddetto quadrone della Focicchia. Vi si sono fabricate quattro case, o siano camere
per uso d’abitazione, e di magazzini, un gran stallone di fabrica capace più di 1200 animali grossi, un altro
stallone più grande o sia scaraiazzo 81 anche di fabrica più di 2000 animali piccoli, cioè pecore e capre, e vi si è
fatto anche un buon pozzo di acqua sorgente. Vi è la provista della paglia, e qualche quantità di fieno, e 120
versure di maggesi e 1200 versure di restoppie e di maggesi, oltre di tutti gli altri comodi di masseria.
La seconda masseria, che si chiama la Masseria Vecchia, è situata sopra la Difesa della Valle di S. Severo
in confine del Quadrone del Jaccio dell’oliva. Vi è lo scaraiazzo di fabrica per le pecore e capre della stessa
maniera che quello de’ Pontoni, e così il pozzo e le proviste di paglia e fieno, e ogni altro comodo.
La terza masseria si chiama di Poggio Imperiale ed è situata dall’altra parte di detta Difesa della Valle di
S. Severo. Vi è un gran stallone di fabrica capace più di 400 animali grossi in maniera che serve anche per
quelli della suddetta Masseria Vecchia. Vi è uno scaraiazzo di pecore e capre nella stessa maniera che gli
altri, e così la provista della paglia; ma vi è di più la meta di fabrica per essa paglia che fa risparmiare
l’annua spesa per le fascine. Vi sono in questa masseria più di 120 versure di maggesi, che tra essa e l’altra
della Masseria Vecchia vi sono anche più di 300 versure di restoppie e di maggesi. Queste due masserie per
la loro vicinanza si possono chiamare una sola.
La quarta masseria è quella di S. Spirito ed è appoggiata nel quadrone di tal nome. Vi và però unito
l’altro quadrone di Camerata. In essa vi sono l’istessi comodi per gli animali grandi e piccoli che si sono
accennati nelle altre. Le maggesi saranno più di 130 versure e più di 170 versure di restoppie di maggesi.
Essendosi seminate per conto proprio tutte le suddette terre non se ne può ragguagliare la rendita sopra gli

76
L. TARGIONI, Saggi fisici, politici ed economici, Stamperia Donato Campo, Napoli 1786, p. 152 e seg., nota
12.
77
Il termine masseria indica una struttura rurale legata alla coltivazione dei campi e all’allevamento degli
animali. In genere possono essere distinte in masserie da campo, articolate per attività colturee dei cereali, e
masserie da pecore, organizzate prevalentemente per l’attività zootecnica.
78
L. TARGIONI, op. cit., p. 156.
79
A differenza delle terre salde, destinate al solo pascolo, le portate erano i terreni preposti alla semina.
80
Trattamento agricolo in base al quale un terreno o un campo viene lasciato per qualche tempo a pascolo o a
riposo senza essere seminato, pur essendo lavorato con una certa frequenza, affinché torni fertile.
81
L’elemento caratterizzante dell’industria pastorale è la presenza di ovili all’aperto detti iazzi, destinato alla
custodia degli ovini nei mesi temperati. Posteriormente allo iazzo può essere presente lo scariazzo, questi è
un ovile coperto delimitato da muri a secco e coperto da volte in pietra, ma più spesso da un tavolato e
comunicante con porticine allo iazzo. Lo scariazzo ospitava gli ovini nella stagione invernale. Un pagliaio a
pianta circolare o rettangolare era situato nelle adiacenze degli iazzi, con funzione di lavorazione del latte
(gualanìa). Un’altra struttura di servizio era il mungituro con la caratteristica forma a otto ed al centro un
pagliaro per le operazioni di mungitura. Lo iazzo sorgeva sempre su un declivio che favoriva il deflusso dei
liquami prodotti dagli ovini mantenendolo sempre asciutto.
affitti; ed essendo terreni tutti nuovi, e da poco in qua con immense spese smacchiati; e ridotti a coltura; se
ne deve sperare in avvenire vantaggio in grandissimo»82.
La masseria da campo, definita anche poggio nella Daunia di fine ‘700, era l’insieme delle
costruzioni (fabbriche) destinate alla residenza dei coloni, alla conservazione e trasformazione dei
prodotti e al ricovero del bestiame. In ognuna di essa vi era «una correa chiamata lo scariazzo de li
cafuni» per l’alloggio degli operai; una camera nella quale il dispensiere, ossia il capobuttero, teneva
riposti gli arnesi rurali e il vitto per gli operai; nei pressi dello scariazzo, o sopraelevato ad esso, era
posto l’appartamento del proprietario; le stalle per gli animali; la meta della paglia, consistente in
«un muro alto circa otto palmi 83 in forma quadrangolare parallelogramma, nel vuoto del quale si mette la
paglia, la quale sopra tal base si erge di poi a guisa di alta piramide; la loggia dei carra, la quale non è che un
tetto volante» sotto il quale trovavano alloggio i carri, gli aratri e ogni arnese di legno; un pozzo per
l’abbeveraggio degli armenti colonici e le fosse, dove venivano conservati il frumento e le biade.
Inoltre in quei poggi distanti più di quattro miglia dai centri abitati, il proprietario disponeva
l’edificazione di una cappella, «nella quale fan celebrare la messa nei soli dì del maggior bisogno che si
abbia degli operai»84.
Il poggio generalmente occupava una superficie di circa un moggio 85 ed era capace di ospitare
fino a trecento abitanti: una comunità in grado di soddisfare egregiamente tutti i lavori agro-
pastorali dell’azienda.
Alle masserie da campo, preposte perlopiù all’attività agricola, si aggregavano le capoposte, cioè
l’insieme delle greggi e degli edifici rurali (abitazioni in muratura o pagliai) situati nelle poste delle
Locazioni, «ossia distretti capaci a contenere una comoda quantità di pecore». In ogni capoposta
svolgevano il proprio lavoro un massaro, che era a capo dell’azienda, un capo buttero, un buttero e
diversi pastori.
La capoposta del feudo di San Paolo era destinata quella «in tenimento del Riposo di Camarata», a
cui facevano capo altre quattro subalterne e cioè: la posticchia della Radicosa di Camarata, la posta
di Ferrante, la posta dell’Inverse e la posta della mezzana dell’Imporchia.
Da un inventario stilato il 18 dicembre 1756 dal dottor don Nicolò Nigro di Castelnuovo 86,
agente generale di Placido Imperiale negli stati di San Paolo e Lesina, ed affidato al massaro 87
Michele Mauriello di Santandrea (l’attuale Sant’Andrea di Conza) in provincia di Montefusco, il
Sant’Angelo risultava proprietario di 2.204 pecore, 1.370 agnelli, 395 ciavarri, 241 montoni, 27 fra
cavalli e giumente, 3 somari e 21 cani. Tutti questi animali erano governati oltre che dal massaro,
poc’anzi nominato, da un capobuttero (Domenico Conza di Nusco), quattro butteri (Sebastiano
Ranoli di Pescopagano, Amato Lenza e Amato Chielfi entrambi di Nusco, Stefano Mauriello di
Santandrea) , 1 giumentaio (Sebastiano Ranoli), 13 pecorai e quattro butteracchi (Andrea Mauriello
di Santandrea, Benedetto Napolillo, Giuseppe e Vincenzo Chielsi, tutti di Nusco) 88.
Dalla capoposta di Camarata dipendeva anche la posta dell’Isola, destinata all’allevamento delle
capre che, nell’inventario del 21 dicembre 1756, ammontavano a 505 capi governati dai butteri
Amato Moncelluzzo di Nusco, Michele Rozzillo di San Paolo, Vito Scolamiero di Santandrea, dal
butteracchio Vito Paladino di Carbonara e dai caprai Guglielmo Prudente di Nusco, Antonio
Paladino di Carbonara e Giuseppe Mazzilli di Caggiano89.

82
ASN, Carte della Società Storica Napoletana, busta 1, fascicolo 8, foglio 162.
83
Unità di misura della lunghezza in vigore nel Regno di Napoli equivalente a 26 cm.
84
M. MANICONE, La fisica appula, Tipografia Domenico Sangiacomo, Napoli 1806, Tomo II, p. 142.
85
Unità di misura agraria diffusa nel Regno di Napoli che corrispondeva a 3.364,86 mq.
86
Il dottor Nicolò Nigro, della «Terra di Castelnuovo», fu investito nella carica di governatore generale dei
feudi di San Paolo e Lesina da Placido Imperiale il 16 febbraio 1756.
87
Il massaro era a capo dell’intera azienda; alla sua figura facevano capo il capobuttero, il buttero e tutti i
pastori.
88
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Gabriele Quadrini, Prot. 4053, Anno 1756, f. 75 e seg.
89
Ibidem.
Con questo nuovo modo di fare agricoltura, «sorella troppo amorosa della pastorizia» 90, Placido
Imperiale delineò la sua economia immettendo sul mercato la produzione variegata dei feudi
pugliesi, che trovò nel mercato di Napoli uno tra i primi referenti essenziali.

CAPITOLO III
ORIGINE E FONDAZIONE DI POGGIO IMPERIALE

IL POGGIO O MASSERIA DA CAMPO DI POGGIO IMPERIALE


Se le masserie del feudo di San Paolo erano preposte all’allevamento degli ovini e caprini,
quelle di Lesina erano destinate anche al pascolo dei bovini, i cosiddetti animali grossi, come
abbiamo visto nel documento sopra riportato, nel quale viene citata la presenza di stalloni «capaci
di animali grossi» nelle masserie di Pontoni e Poggio Imperiale.
Dopo aver enumerato i capi di ovini e caprini presenti nelle masserie di San Paolo e della posta
dell’Isola, il 10 novembre 1757 il dottor Nicolò Nigro si recava nella masseria dell’Isola per stilare
la conta dei bufali, mentre il giorno seguente l’agente feudale di Casa Imperiale si trasferiva «nella
massaria di campo nel luogo detto la Valle di San Severo» per compilare l’inventario dei bovini ricettati
in quello stallone91.
È estremamente importante ai fini della storia di Poggio Imperiale questo passaggio contenuto
nell’atto notarile, perché associato al cospetto del documento dell’Archivio di Stato di Napoli
esposto nel precedente paragrafo, ci fa dedurre che la «masseria di campo nel luogo detto la Valle
di San Severo» e «la masseria che si chiama di Poggio Imperiale, situata dall’altra parte della
Difesa della Valle di San Severo» sono la stessa casa colonica. Pertanto, pur definendola con nomi
diversi, i due documenti fanno riferimento alla medesima masseria da campo di Poggio Imperiale:
siamo nel 1757.
A sostegno di questa opinione riportiamo un ulteriore passo del documento dell’Archivio di
Stato di Napoli nel quale è riportato: «in mezzo poi a tutto il suddetto vasto tenimento del Feudo di
Lesina vi è un’altra Difesa di carra ventidue e mezzo, chiamata Mezzana della Valle di S. Severo, anch’essa
da pochi anni smacchiata ed ottima così per la semina, che per pascolo di pecore. Le grandi fabriche del nuovo
Casale di Poggio Imperiale ivi edificato, e tante altre per comodo delli animali anche in essa fatte si
descriveranno in appresso».
La parte intermedia del documento ci ricorda l’opera di bonifica intrapresa da Placido Imperiale
tra il 1754 e il 1755 con la cessione in affitto dei terreni macchiosi o boscosi della mezzana della Valle
di San Severo ai coloni di quella città e ci conferma la tesi secondo la quale, in un’amena collina di
essa, il nobile genovese, fra la fine del 1756 e gli inizi del 1757 darà l’avvio all’edificazione dei
primi casamenti92 che, due anni dopo, saranno inglobati nel contesto del nuovo casale.
A conferma di tanto ci supportano tre atti notarili, commissionati dallo stesso agente feudale
Nicola Nigro, nei quali si attesta che su Coppa di Montorio nel 1757 vi fossero in atto lavori di
edilizia urbana relativi alla costruzione della nuova masseria da campo.
Con il primo, redatto il 18 febbraio, incaricava Domenico Caposiena, Giovanni Petruccelli e
Felice Russo, «mastri pozzari» di San Severo, di costruire un pozzo 93 «per uso di abbeverare l’animali
bovini addetti alla grossa masseria di campo, che fà detta Eccellentissima Casa nej territorj della Città di
Lesina, e propriamente nella mezzana detta della Valle di San Severo» 94.
Questo periodo chiarisce il dilemma sull’anno di costruzione dei primi casamenti su Coppa di
Montorio: i pozzari dovevano costruire il pozzo nella masseria che il principe Imperiale quell’anno
stava edificando [sottileo quel «che fà», «sta facendo», che indica i lavori in fase di esecuzione].

90
F. N. DE DOMINICIS, Lo stato politico ed economico della Dogana della mena delle pecore di Puglia esposto alla
Maestà di Ferdinando IV, vol. I, Napoli 1781, p. 58.
91
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Gabriele Quadrini, Prot. 4053, Anno 1757, f. 40 e seg.
92
Due stalloni ed otto «caselle» ad uso di abitazioni e magazzini.
93
Il pozzo «dev’essere di un fosso di palmi sedeci, acciò resta in frutto di palmi dodeci, e fabbricato da sotto con
materiale à sicco, e di quella profondità che sarà stimata capace, per aversi dodeci palmi d’acqua nel tempo di siccità, e di
maggiore quantità j tempi d’inverno.»
94
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2822, Anno 1757, f. 1.
Il 5 maggio, circa tre mesi dopo, a scavo avvenuto, dava mandato a Francesco e Domenico De
Angelis, «scarpentieri della Terra dell’Apricena», di realizzare le «sotto pietre per uso del pozzo che detto
Eccellentissimo Signor Principe tiene fatto nella sua masseria della Città di Lesina» 95.
Il terzo, infine, del 25 settembre, certifica l’acquisto, dal «calcaloro» Giuseppe Pinto di Canzano,
di duecento carra di calce bianca e ben cotta «per uso delle fabbriche di detto Eccellentissimo Signor
Principe»96.
Tutti e tre i documenti fanno riferimento, senz’alcuna ombra di dubbio, a quella grossa masseria
da campo che era in fase di costruzione e che, pochi anni dopo, sarà denominata di Poggio
Imperiale.
Pertanto, seppure non si può fissare la data di origine di Poggio Imperiale all’anno 1757 e, di
conseguenza, imporre in quello stesso anno la denominazione definitiva al poggio di Coppa
Montorio, un fatto è certo: che agli inizi del 1757 sul luogo dove oggi sorge Poggio Imperiale vi era
gente, seppur non ancora residente. La presenza di persone sarà attestata a fine anno quando, a
lavori ultimati, nella masseria presero alloggio cinque pastori addetti a governare gli animali grossi
di don Placido.
Tra l’altro anche l’esposizione di come fosse strutturato il poggio dauno, fornitaci dal frate
Manicone, è perfettamente confacente alla descrizione della masseria chiamata «della Valle di San
Severo» o «di Poggio Imperiale» in cui vi troviamo edificati: abitazioni per massaro e butteri; uno
stallone capace di contenere fino a quattrocento animali grossi, compresi quella della «Masseria
Vecchia»; la meta della paglia ed il pozzo; non la chiesa, la cui edificazione avverrà qualche anno
dopo.
Comunque l’idea di trasformare l’azienda agricola in una borgata era già tra le priorità di
Placido Imperiale che, l’8 settembre 1757, ancora per tramite di don Nicolò Nigro, ordinava a
mastro Zaccaria Rendina di San Marco in Lamis, «trecento aratri e trecento gioghi, che debbano essere
di carpino nero e bianco, e tagliati di mancanza» 97.
A cosa e a chi dovevano servire questi attrezzi? Certamente anche a coloro che avrebbero
dovuto colonizzare i terreni, oramai già smacchiati e disboscati, della Valle di San Severo dove far
sorgere il nuovo casale.
Peraltro anche il Gallarano nel suo «Apprezzo» consigliava il feudatario di Lesina ad «edificarci
altro casino nella parte superiore verso mezzogiorno per abitazione estiva, che distarebbe più miglia dal lago,
e sarebbe in suo territorio, in grande parte canzarebbe la difficoltà della cattiva aria dell’està» 98,
mettendo in risalto, durante il periodo estivo, l’aria insalubre di Lesina causata dalle pestifere
esalazioni delle alghe in decomposizione. Consiglio che Placido Imperiale accettò e pose in pratica.
Dopo queste doverose e, spero, esaustive puntualizzazioni, torniamo all’inventario: nell’Isola si
contarono 150 bufali, 59 giovenchi e 3 tori bufalini per un totale di 212 capi, mentre nella masseria
della Valle di San Severo, o che dir si voglia di Poggio Imperiale, si annotarono 108 mucche, 29
giovenchi, 4 ciavarri e 3 tori per complessivi 144 capi di bestiame. A governare questi ultimi
animali erano addetti il massaro Michele Paganella di San Paolo e i butteri Michele Consiglio,
Michele Venditto, compaesani del Paganella, Pasquale Caputo e Giambattista Fiore, entrambi di
Castelnuovo99.
Sorta inizialmente come armentizia, la masseria da campo della Valle di San Severo, grazie ai
terreni della sua mezzana, considerati ottimi per la semina, si troverà a svolgere qualche anno dopo
anche la funzione di cascinale rurale, ospitando al suo interno i primi abitanti che daranno il via
alla costituzione di una nuova comunità.

LA FONDAZIONE DI POGGIO IMPERIALE


Nell’aprile del 1759, Placido Imperiale, ritornato nuovamente nei possedimenti di Capitanata 100,
decideva di visitare le contrade del feudo di Lesina. Il 15 aprile, infatti, dall’imperial palazzo di San

95
Ibidem, f. 19.
96
Ibidem, f. 45.
97
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Gabriele Quadrini, Prot. 4053, Anno 1757, f. 9.
98
A. F. LOMBARDI, op. cit., pp. 372/373.
99
Ibidem.
Paolo, dove fissava la propria residenza durante il suo soggiorno in terra dauna, con il proprio
seguito mosse in carrozza alla volta della cittadina lagunare e da lì nelle aziende sparse nel
territorio, trovando la masseria di Coppa di Montorio in alacre progresso.
Potrebbe essere stato questo il motivo che lo spinse, il 12 maggio di quello stesso anno 1759, a
commissionare l’edificazione di trenta nuove abitazioni per i futuri villici e di una chiesa 101. Chiara
ed evidente volontà di dare l’avvio concreto alla costituzione di una nuova comunità agricola.
E qui mi sia consentito precisare cosa s’intende per fondazione e cosa per casale.
Il termine fondazione, coniato nel XVI secolo, deriva da fondare, dal latino fundāre, in senso
estensivo: porre i primi elementi costruttivi per erigere una colonia, una città ecc.; in senso
figurato, porre le basi di qualcosa destinata a svilupparsi nel tempo.
«Interpretando» questa definizione, vien fuori che l’origine di un borgo ha inizio nel momento
in cui si erigono le fondamenta per cominciare a costruire i primi edifici e non quando questi
ultimi vengono occupati dai primi abitanti.
A conforto di questa tesi è il modo in cui gli storici stabiliscono la data di fondazione di Roma.
Narra la leggenda che Romolo, favorito dalla fortuna nei confronti del fratello, prese un aratro e
tracciò un solco per segnare le mura di cinta di una nuova città che da lui fu chiamata Roma. Era il
giorno 21 del mese di aprile dell’anno 753: il Natale di Roma. E non c’era nemmeno una capanna!
Il significato di casale, invece, corrisponde ad un piccolo insediamento gravitante attorno ad un
edificio civile o religioso e dotato in genere di un tenimento di terre; esso orbita all’interno di un
territorio molto vasto, dipendente dal più vicino centro amministrativo. Con il termine casale
durante il feudalesimo si indicava un agglomerato rurale edificato nel tenimento delle Università,
gli attuali Comuni, abitato da coloni o servi del feudatario, con lo scopo di mettere a coltura i
terreni loro circostanti.
Sinonimo di casale è il termine villaggio, che deriva da villa; dalla Crusca è definito un mucchio
di case in campagna senza muro di cinta. Da queste definizioni derivano anche i nomi di coloro
che vi abitano: da villa o villaggio deriva villico, che indica gli abitatori delle ville o casali senza
riguardo alle loro professioni.
Queste precisazioni sono doverose in quanto nella stesura degli atti storici, al nome del paese,
Poggio Imperiale, l’estensore anteponeva il titolo di casale o villa.
Stando all’analisi quindi dei due concetti, potremmo concludere ed affermare che la fondazione
di un paese ha inizio nel momento in cui si gettano le basi per erigere un borgo destinato a
svilupparsi nel tempo, e non quando esso viene popolato dai primi abitanti.
Pressappoco quello che è accaduto a Poggio Imperiale: il 12 maggio 1759 Placido Imperiale
commissiona la costruzione di trenta «caselle» e di una chiesa; pone, quindi, le basi per fondare un
casale destinato ad accrescersi nel tempo. Da quest’atto notarile emerge la chiara ed espressa
volontà del principe di Sant’Angelo di edificare un nuovo borgo ampliando una già esistente
masseria da campo o, per meglio dire, un poggio.
Per chiudere il discorso potremmo con certezza documentata fissare la data di origine di Poggio
Imperiale al giorno 12 del mese di maggio dell’anno 1759.
Quel giorno, infatti, don Salvatore Rabasco «vice agente, ed amministratore delle rendite, ed
industrie dell’Eccellentissimo Signor Principe di S. Angelo Imperiali», con atto notarile rogato in Lesina,
dava incarico a Saverio Romito, «capomastro fabbricatore della Città di Foggia», che l’anno prima
aveva realizzato nel Bosco Isola i due muri che dovevano delimitare la zona di caccia
dell’Imperiale, di costruire trenta nuove «caselle», «le quali trenta suddette caselle debbano essere tutte
unite, e di una tirata frà loro, formando due linee di quindeci caselle l’una, che debbano essere di ogni bontà,
e perfezione».
Ogni alloggio, che doveva essere pavimentato con mattoni, doveva avere una lunghezza di
venti palmi102, venti di larghezza e un’altezza di dieci; il muro della facciata esterna doveva

100
Cfr. di scrive, Poggio Imperiale. Cento anni della sua storia: dalle origini all’unità d’Italia, Felice Miranda
Editore, Foggia 1993, p. 56.
101
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2824, Anno 1759, f. 25 e seg.
102
Unità di misura della lunghezza in uso prima dell’adozione del sistema metrico decimale e avente valore
variabile a seconda dei luoghi e dei tempi: il palmo napoletano valeva 26,33 cm. che, con legge del 6 aprile
misurare due palmi, la stessa misura era prevista anche per il muro divisorio centrale, mentre il
muro che separava le abitazioni doveva essere di un palmo.
«In ciascuna casella di esse suddette vi debba venire nelle mura delle facciate la porta di altezza di palmi
sette, e di larghezza palmi quattro, di una finestrella di palmi quattro, e larga palmi due e mezzo per lume
ingrediente, e una ciminiera per cadauna casella in luogo stimato dall’arte più propenso e necessario al
comodo delli abitatori di esse, e nel muro grosso dirimpetto all’altro all’affacciato uno stipo alto palmi cinque,
e largo palmi due e mezzo, per uso di tener piatti, pignate, e altro necessario. Le quali suddette trenta caselle
così descritte con i loro rispettivi commodi di porte, finestrelle, stipi, e ciminiere debban essere fabricate, e
costrutte co materiali di tufi, e calce, e pezzami di tufi qual materiale debba detto mastro Francesco Saverio
aver seco pronto, e amannito sopra il luogo delle fabriche con acqua, arena, cati, funi, e altro necessario
ardegno per la fabrica a tutte spese di detto Ecc.mo Signor Principe, così anche della cavatura delle
pedamenta di palmi tre e mezzo in circa, e secondo porterà il solo della terra per sostenere dette fabriche al
meglio fortezza, e affinché non si possano in progresso di tempo lesionare».
Per la costruzione delle fabbriche, il mastro foggiano era invitato, a sue spese, ad assumere altra
maestranza a proporzione del materiale e «da dette fatiche non mancare, mà stare sempre pronto ad ogni
richiesta di altro legittimo ministro di detto Eccellentissimo Signor Principe».
Inoltre mastro Francesco Saverio Romito si impegnava ad «edificare una chiesa in luogo isolato, e
in distanza di dette caselle, in dove sarà destinato da detto don Rabasco, ò da esso Eccellentissimo Signor
Principe, ò da altro suo legittimo ministro, la quale debba essere di lunghezza palmi cinquanta, di larghezza
palmi venticinque, e di altezza palmi ventiquattro, formata di dieci pilastri, cioè cinque da una parte, e
cinque dall’altra, compresi li quattro alle cantonate, e ogni pilastro piantato da sola terra di palmi due e
mezzo in quadro, e tutte le altre mura della grossezza di un palmo» 103.
Il prezzo concordato venne stabilito in «ragione di canna104 di fabrica de tufi a grana trenta la canna,
e de pezzami di tufi a grana quaranta così pattezzato e come preventivamente con sua Eccellenza, qual
convenzione al presente da esse parti, esplicitamente da esso mastro Francesco Saverio si accetta, e da par
vera come fatta di suo gusto e piacimento, rimanendo per anche convenuta e pattezzate le ciminiere che in
ciascuna di esse suddette 30: caselle dovranno farsi colli loro rispettivi mantelli di sopra, a ragione di carlini
cinque per ogni ciminiera consistente nella sua cappa e mantello di sopra».
Al mastro foggiano, il Rabasco consegnò una caparra di trenta ducati in moneta d’argento
corrente del Regno con l’accordo che ogni sabato le maestranze venissero retribuite a seconda
dell’avanzamento dei lavori, mentre il saldo era previsto a lavori ultimati.
Venne stabilito, inoltre, che le due opere, una volta completate, fossero giudicate «da due esperti
concordemente eligendi», nominati uno per parte, e che bisognava assolutamente sottostare al loro
insindacabile giudizio.
Un’altra clausola del contratto prevedeva l’assicurazione per cinque anni delle costruzioni «e se
mai infra questo spazio di tempo di anni cinque patissero qualche lesione, quod absit, e sua colpa e difetto, da
rivedersi da due esperti concordemente eligendi, uno per uno, da quali venisse giudicata esser derivata la
lesione per sua colpa e difetto, lo stesso mastro Francesco Saverio sia tenuto, siccome si obliga rifarle ò in
tutto ò in parte, secondo accaderà la lesione à sue spese, danni, e interessi così specialmente convenuti, de
quali da ora per allora se ne costituisce chiaro, eligendo debitore, e starsene debba à semplice fede di essi periti
concordemente eligendi, perché senza tal patto speciale non si sarebbe divenuto alla suddetta presente
convenzione».
Inoltre Placido Imperiale, «per sua gratitudine», metteva a disposizione dei mastri muratori «nel
venire essi mastri da Foggia, e portarsi nel luogo delle fabriche, un traino per comodo si delle persone, come

1840, venne portato a cm. 26,45.


103
Queste stesse misure sono confermate negli atti della visita pastorale del vescovo di Lucera, Giuseppe
Maria Foschi, quando descrive la chiesa di San Placido.
104
Misura di lunghezza utilizzata prima dell’introduzione del sistema metrico decimale. In base all’editto del
6 aprile 1480, emanato da Ferdinando I d’Aragona, veniva utilizzata la canna composta di 8 palmi avente
valore di 2,109360 metri. Questa canna era utilizzata nel commercio al minuto dei tessuti e nelle misurazioni
inerenti a costruzione di fabbricati; nella pratica era pari a 2,12 metri (considerando ogni palmo di 26,5
centimetri). La legge del 6 aprile 1840, emanata da Ferdinando II, stabilì che doveva utilizzarsi la canna
lineare composta da 10 palmi avente valore di 2,65 metri.
per il trasporto de ferri, e così nel riportarsi in Foggia, quando averanno terminata l’opera, ò pure quando
non vi sarà materiale per fabricare, che sarà di necessità spostarsi dalla continuazione di dette fabriche».
I muratori foggiani si posero subito all’opera e in pochi mesi sia le abitazioni sia la chiesa furono
innalzate, tant’è che l’11 ottobre di quello stesso anno l’erario di don Placido convocava, questa
volta nel principal palazzo di Casa Imperiale in San Paolo, «Stefano Grasso mastro d’ascia, e esperto
nelle fabriche della Terra di Torremaggiore», al quale ordinava la realizzazione di «tutte le copertine,
porte, finestre, finestrelle e ogn’altro necessario attenente alla fatica di mastro d’ascia, porre l’architravi
giusta alle porte, finestre, e finestrelle, e fatte quagliarle, porvi le mascature e altri finimenti, e coprirli
coll’imbreccia colli materiali tutti di detto Ecc.mo Signor Principe, e colla sola fatica di detto mastro Stefano ,
che debbano essere della qualità secondo si sono fatte le altre copertine, porte, e finestre nelle
caselle di Poggio Imperiali, senza mancarvi cosa alcuna tanto per l’arte di mastro d’ascia, che di
fabbricatore»105.
E già, mastro Salvatore doveva coprire le nuove abitazioni con delle copertine in legno simili a
quelle che già costituivano i tetti della altre «caselle» precedentemente edificate nel poggio, come
pure porte e finestre dovevano essere della stessa qualità di quelle che già erano affisse nelle stesse
costruzioni.
Estremamente importante questo passo del documento che parla delle coperture e degli infissi
che il Grasso doveva realizzare, identiche a quelle delle case già preesistenti, molto verosimilmente
quelle fatte costruire nel 1757, per cui potremmo confermare l’ipotesi, già avanzata
precedentemente, che il sito dove oggi sorge Poggio Imperiale, prima del 1759 ospitava degli
edifici. Abitazioni che in quello stesso anno accoglieranno le prime quindici famiglie italiane, la
maggior parte delle quali giunte dalla vicina San Marco in Lamis, che avranno da assolvere al
duplice compito di agro-allevatori e di popolare il nuovo casale di Placido Imperiale.
Nel frattempo, ciò che stava accadendo nel territorio circostante Lesina ormai era di dominio
pubblico; la voce che il sagace principe di Sant’Angelo chiedeva manodopera ed offriva ospitalità
era sulla bocca di tutti e si era, intanto, estesa in tutto il circondario, raggiungendo ben presto città
e paesi oltre i confini della Capitanata.
E come Noè diede ricovero agli animali sull’arca, il novello profeta nel 1759 accoglieva nel suo
poggio, al quale aggiungerà il cognome della sua illustre Casata chiamando ufficialmente la sua
creatura Poggio Imperiale106, i coloni desiderosi di trovare lavoro e un tetto sicuro: dalla vicina
Apricena si trasferì Nicola Caroppi; da San Marco in Lamis giunsero Giovanni Brancaccio, Matteo
Cristino, Angelo Antonio di Chiaro, Michele e Nunzio Nardella, Matteo di Niso, Domenico Vocale;
Giuseppe Belmonte di Atessa giunse con la moglie Alessandra Pignoli, originaria di Portocannone;
Vincenzo Chiaromonte giunse da Foggia; Nicola, Pasquale e Vitantonio Maglione da Carbonara di
Bari, Ambrosio Garappa da Francavilla di Lecce 107, Giovanni Palermo da Cerignola ed un’altra
famiglia, non meglio identificata, da Bonefro108.

105
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2824, Anno 1759, ff. 92 e seg.
106
Fino ad ora si è sempre sostenuto che il toponimo Poggio sia dovuto al fatto che Poggio Imperiale sorga su
di una piccola altura, sinonimo appunto di poggio. Ma analizzando ciò che scrive Michelangelo Manicone
nella sua Fisica Appula, in riferimento alla masseria da campo, che nel ‘700 era detta poggio, potrebbe essere
più che una ipotesi che il toponimo si rifaccia, molto probabilmente, a questa seconda teoria. Anche Matteo
Fraccacreta, nella parafrase 54 della rapsodia VI del suo Teatro, afferma testualmente «Poggio Imperiale detto
perch’era ‘Poggio’ di gran masseria del principe don Placido…». In origine, in effetti, Poggio Imperiale era il
toponimo dato ad una masseria da campo che successivamente Placido Imperiale ampliò trasformandola
dapprima in un casale abitato da coloni regnicoli e poi in un vero e proprio villaggio quando accolse l’arrivo
degli albanesi prima e dei coloni del Principato Ultra poi. Potrebbero essere considerati validi entrambi i
concetti, anche se il secondo si avvicina più alla verità!
107
Oggi Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi.
108
Chiamata anticamente anche Bonifero, come riportato dal Foschi negli atti della sua visita pastorale. I
nomi dei primi coloni giunti a Poggio Imperiale nel 1759 sono stati ricavati da un laborioso studio condotto
sui libri parrocchiali di battesimo e di morte, custoditi negli archivi della Parrocchia della SS. Annunziata di
Lesina il primo e nella Parrocchia di San Placido in Poggio Imperiale il secondo, e nell’Archivio di Stato di
Foggia, seguendo le indicazioni desunte dagli stessi atti del vescovo Foschi del 1761.
Questi primi coloni, accolti amorevolmente dal principe che li fornì di abitazioni e di qualsiasi
forma di vettovagliamento, apprezzarono le virtù di don Placido e la fertilità dei terreni circostanti,
per cui elessero Poggio Imperiale come il loro nuovo luogo di residenza e vi stabilirono
definitivamente la propria dimora. Addirittura alcuni di loro, che erano possessori di beni
immobili in altri paesi, decisero di alienare i loro averi per stabilirsi nella nuova terra.
Lo conferma un atto notarile del 4 settembre 1782, mediante il quale Matteo Cristino e Maria
Cursio, «coniugi commoranti in Poggio Imperiale», ma originari di San Marco in Lamis, vendevano,
per ducati 30 e grana 75, a tal Matteo Ciavarrella, della cittadina garganica, «una metà di sottano di
casa dotale di detta Maria nel luogo detto “lo casale”, dovendo li medesimi fare domicilio, come lo fanno,
nella suddetta “terra nuova”109 di Poggio Imperiale»110.
Questi nostri antesignani vennero dotati di attrezzi agricoli, animali 111 e le portate della Mezzana
Feudale, di Trevalle, Jaccio dell’oliva e Santo Spirito dove poter pascere gli animali ed esercitare gli
usi essenziali ed utili. Inoltre, con le numerose varietà di piante spontanee che crescevano sui
terreni incolti di queste portate, essi arricchivano la propria tavola e vi traevano il loro
sostentamento: le dolci e tenerissime cicorie, i sivoni, gli amarognoli ma gustosi lampascioni, la
ruchetta, le spine di sepe, il lentisco e il suo olio, i funghi di fergola, da cui le loro donne
ottenevano il cibo quotidiano per la famiglia, rappresentavano i piatti essenziali della cucina
contadina dell’epoca112.
Osservando, infine, il comandamento divino con il quale Dio esortò Noè e i suoi figli ad
accrescersi e moltiplicarsi dopo essere scesi dall’arca, i primi poggio imperialesi iniziarono la
procreazione nel 1760, anno in cui videro la luce tre bambini, due maschietti ed una femminuccia: i
primi indigeni di una nuova comunità. Il primo lieto evento reca la data del 16 maggio, giorno in
cui a Poggio Imperiale si udirono i vagiti di Leonardo Primiano Emanuele, figlio di Ambrosio
Garappa e Rosa Reti; il 2 novembre, nasceva Francesca Libera Santa Vocale, figlia di Domenico e
Nunzia Franchiera, mentre il 14 dello stesso mese l’arrivo di Liberantonio Belmonte rallegrava la
modesta dimora di Giuseppe e di sua moglie Alessandrina Pignoli113.
Non avendo la comunità un sacerdote ed essendo sprovvista la nuova chiesa di un fonte
battesimale, tutti e tre gli infanti vennero battezzati nella chiesa della SS. Annunziata di Lesina, che
aveva giurisdizione ecclesiastica sul casale e il suo parroco la cura delle anime dei nuovi coloni.

LA CHIESA DI SAN PLACIDO


Giunti nella nuova azienda di Casa Imperiale, i coloni trovarono qualsiasi forma di sussistenza,
ma non la chiesa, che era in costruzione, e per poter partecipare e adempiere alle festività religiose,
«andavano a sentirsi la Messa chi in Lesina, e chi in Apricena» 114.
Commissionata nel maggio del 1759 dall’erario di Placido Imperiale, don Salvatore Rabasco, al
mastro fabbricatore foggiano Saverio Romito, l’edificazione della chiesetta rurale del nascente
casale di Poggio Imperiale venne ultimata e contemporaneamente consacrata nel mese di marzo
del 1760 dall’arciprete della chiesa della SS. Annunziata di Lesina don Felice di Lullo, dietro
licenza dell’Arcivescovil Curia di Benevento115, alla cui diocesi apparteneva la chiesa lesinese, e
dedicata al culto di San Placido, al quale il principe era molto devoto116.

109
In più atti notarili Poggio Imperiale viene definito «Terra nuova», appunto perchè paese (sinonimo del
sostantivo Terra) di nuova costituzione. Da qui l’origine dell’appellativo, tutt’ora in vigore, Terranova
(Tarranove nell’idioma locale), con il quale è anche conosciuto Poggio Imperiale nel circondario.
110
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuliano Villani, Prot. 3786, Anno 1782, f. 181.
111
Gli animali impiegati nei lavori agricoli erano: i buoi utilizzati per arare e trasferire i covoni; le giumente
per trebbiare; i cavalli, i muli e gli asini per il trasporto dei traini, per il rifornimento degli attrezzi occorrenti
al contadino, per trasportare il letame e quant’altro necessario alle operazioni delle masserie. Cfr. C. DE
CESARE, op. cit, p. 73.
112
C. DE CESARE, op. cit., p. 19.
113
ARCHIVIO PARROCCHIA SS. ANNUNZIATA DI LESINA, Libro dei Battezzati, Tomi III e IV, Anni 1742-1771.
114
ADL, Sante Visite Pastorali, BB. nn. 6 N° 41, Atti della santa Visita di monsignor Giuseppe Maria Foschi, Poggio
Imperiale, cc. 99, Anno 1761, f. 2.
115
Ibidem.
La chiesa, edificata in forma rettangolare «in luogo isolato e in distanza» dalle abitazioni dei villici,
«era situata colla porta a settentrione; è coverta a tetto, non avendo né volta, né suffitta; le toniche delle
pareti sono rozzi ed ondeggianti, tiene una finestra sopra della porta, un’altra dal lato dell’epistola e tre dal
lato del Vangelo. Il pavimento è di mattoni rustici e mal composti; evvi in mezzo della chiesa una sepoltura
con lapide rozzamente lavorata, la porta è di pietra, qui chiamata “gradinata”, larga palmi sei ed alta palmi
undici.
L’altare è posto di contro alla porta, formato di rozzissima fabrica, tiene un gradino e la predella di legno;
la pietra sagra in cambio di risaltare dal piano della Mensa, tanto che possa conoscersi dal tatto, è al piano
suddetto sottoposta più di due dita.
Nel quadro dell’altare vi è dipinta l’immagine di Maria Santissima Vergine col Bambino in braccia, e di
San Placido Martire117.
Sopra il muro del corno del Vangelo 118 stà costruito un piccolo campanile con una campanella di circa
rotoli119 cinquanta, che da dentro la chiesa vien suonata. Nel corno dell’epistola vi è situato un mezzo
confessionile, senza che dalla parte del penitente vi sia l’immagine del Santissimo Crocefisso e dalla parte del
confessore, le tabelle de’ casi riserbati alla Santa Sede ed all’Ordinario» 120.
L’umile e modesto oratorio di campagna, dove il sacerdote dell’Annunziata si recava a
celebrare la messa tutte le domeniche, nelle solennità religiose e in occasione di eventi luttuosi, era
sprovvisto della sagrestia, di un armadio dove conservare i paramenti sacri e del fonte battesimale,
la cui mancanza faceva patire i vassalli di don Placido, «per cui devono, in ogni stagione, portare i loro
bambini a battezzare nella suddetta convicina città di Lesina, con sommo pericolo di morire per la strada» 121.
Vi era invece, al centro del pavimento in mattoni della chiesa, l’apertura della cripta, chiusa da
una lastra di pietra «rozzamente lavorata», dove venivano inumate le spoglie mortali dei primi
abitanti di Poggio Imperiale122.

CAPITOLO IV

L’AVVENTO DEGLI ALBANESI


La trasformazione del territorio che circondava la nuova azienda agricola, fino a pochi anni
prima ricoperto da una folta vegetazione di arbusti ed alberi, ora offre estesi e fertili raccolti di
grano, orzo e avena, la cui mietitura imponeva ulteriore manodopera e richiedeva, di conseguenza,
l’utilizzo di lavoratori forestieri, i cosiddetti «mietitori», che giungevano in Capitanata dalle
province limitrofe.
116
La devozione di Placido Imperiale verso il discepolo di San Benedetto è attestata in un’epigrafe posta nel
piedritto dell’altare sepolcrale della Famiglia Imperiale nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi in Napoli,
riportata a p. ?????
117
Il quadro venne commissionato da Placido Imperiale al pittore napoletano Francesco de Mura (1696-1782),
allievo di Francesco Solimena e artista tra i più affermati nella Napoli del 1700.
118
Così sono chiamate le due estremità dell’altare, rispettivamente corno dell’epistola (cornu epistulæ) a destra
di chi guarda verso l’altare, e corno del vangelo (cornu evangelii) a sinistra: espressioni che dipendono dal fatto
che nell’antica liturgia della messa il messale doveva essere poggiato alla destra del celebrante (che volgeva
le spalle all’assemblea) fino alla lettura dell’epistola, mentre dalla lettura del vangelo in poi veniva spostato
alla sua sinistra. Per estensione, si utilizzano le medesime denominazioni anche in riferimento all’intero
spazio del presbiterio o della cappella dove l’altare ha sede (nel caso della nostra chiesa, per esempio, il
piccolo campanile era in cornu evangelii, cioè alla sinistra dell’altare, mentre il confessionale era in cornu
epistulæ, cioè a destra).
119
Antica unità di misura del peso; un rotolo equivale a 890 grammi.
120
ADL, Sante Visite Pastorali, BB. nn. 6 N° 41, Atti della santa Visita di monsignor Giuseppe Maria Foschi, Poggio
Imperiale, cc. 99, Anno 1761, f. 9/10.
121
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1419, Anno 1799, f. 67.
122
In mancanza di un Libro Parrocchiale dei Defunti, che verrà iniziato nel 1764 dall’economo curato don
Giampietro Caruso, ricaviamo i nomi dei primi defunti, inumati nella cripta della chiesa di San Placido, dagli
atti del vescovo Foschi. Nel mese di febbraio del 1761 vennero tumulati i resti mortali di Maria Pietri,
albanese, il 21; Marco Villani (Marco Milani), anche lui albanese, due giorni dopo; Alessandra Vocale il 24;
Antonio Capassi (Cabasci), albanese, il 29. In aprile furono sepolti nella cripta Domenico Vocale, di San
Marco in Lamis, il 4 e gli albanesi Domenico Jacu l’11 e Veneranda Pali il 16.
Per la raccolta del 1760 fu dato incarico ad una compagnia di settanta mietitori di San’Elia a
Pianisi, «che debbano essere tutti atti e abili al mietere, non principianti e vecchi», che, dopo aver
stipulato il 16 marzo un atto notarile con gli incaricati di Casa Imperiale, si impegnavano «a mietere
i seminati delle masserie di campo di Lesina e San Paolo dal principio alla fine del raccolto, detto
comunemente a campo finito».
Pertanto questi lavoratori, ai quali era previsto un estaglio di dodici carlini per ogni versura di
grano, di orzo e di avena oltre a sedici caraffe di vino ogni versura mietuta, una fetta di cacioricotta
o una provola il giovedì e la domenica, una sarda a testa il mercoledì, venerdì e sabato, «e in ogni
giorno agli, cipolle, insalata e ogn’altro solito a darsi nelle masserie di Puglia»123, fin dalla primavera
partivano dal vicino Contado del Molise per recarsi nelle masserie prestabilite «per poter adempiere
al loro mestiere».
Il raccolto si prospettava copioso e, di conseguenza, anche il progetto procedeva in modo
alquanto positivo: don Placido poteva ritenersi soddisfatto, anche se il suo intento era quello di
utilizzare i suoi coloni non solo per la preparazione dei campi e la semina, bensì anche per la
mietitura, evitando così manovalanza forestiera. Ma per finalizzare questa sua idea c’era bisogno
di incrementare, con altre famiglie, il nuovo casale. L’occasione propizia si presentò nel gennaio
dell’anno seguente, mese in cui il Sant’Angelo, esortato anche da Bernardo Tanucci, reggente del
piccolo Ferdinando re di Napoli, accolse le invocazioni di una colonia di profughi albanesi
originari di Scutari124 e di villaggi appartenenti al suo distretto125.
Questi, giunti a Napoli dal castello di Pianiano 126, nello Stato Pontificio, coll’espressa volontà di
stabilirsi nel regno borbonico, dopo aver «fatto varie diligenze per ritrovarlo» 127, interpellarono il
principe di Sant’Angelo invocandolo di alloggiarli in un luogo dei suoi vasti feudi. Il nobile,
pertanto, determinato fermamente ad investire sul territorio, invitò gli scutarini a recarsi nel feudo
di Lesina, in Capitanata. Questi accettarono l’allettante proposta e, prima di partire verso la loro
nuova destinazione, il 18 gennaio 1761 in Napoli, presso lo studio del notaio Gaspare Maria
Martucci, alla presenza del notaio Domenico d’Aveta, Regio Giudice a contratti, e dei testimoni
don Nicola Mida, Giovanni Piatti e Vincenzo Daniele, tutti di Napoli, il secondo principe di
Sant’Angelo stipulava con i patres familias albanenses le convenzioni a cui si dovevano attenere per
assicurare la loro permanenza nel casale di Poggio Imperiale:
«Costituiti nella nostra presenza l’Ecc.mo Sig. don Placido Imperiali Principe di S.
Angelo, il quale agge, ed interviene alle cose infrascritte per se, e per li suoi eredi, e
successori da una parte.
E Venerando Colezzi con tutta la sua famiglia consistente in undeci persone;
Giovanni Colezzi con tutta la sua famiglia consistente in dieci persone;
Nicola Sterbini con tutta la sua famiglia consistente in nove persone;
Nicola Calmetti con trè persone di famiglia;
Stefano Natale con sua moglie;
Antonio Cabascio con sette persone di famiglia;
Giovanni Cabascio con cinque persone di famiglia;
Gio: Batta Cabascio con cinque persone di famiglia;
123
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2825, Anno 1760, f. 15.
124
Shkodër o Shkodra in albanese. Considerata da sempre la capitale cattolica del paese delle aquile, Scutari è
una città dell’Albania settentrionale di oltre centomila abitanti, situata sulla sponda sud-orientale del lago
omonimo presso la confluenza fra il Drin e la Boiana. Capoluogo di distretto, è un importante mercato
agricolo e zootecnico e un attivo centro commerciale e industriale, con impianti alimentari, tessili, per la
lavorazione del legno, della carta, del tabacco e del cemento. Fu abitata in origine da popolazioni di stirpe
tracia e a metà del III secolo a. C. divenne capitale del regno illirico. Passò ai romani e, dopo diverse
dominazioni, nel 1479 agli ottomani. Obiettivo del nazionalismo serbo-montenegrino, fu occupata dagli
austriaci nel 1916 e due anni dopo dalle truppe dell’Intesa. Dal 1920 seguì le vicende politiche nazionali.
125
La colonia era composta da famiglie di Scutari, Bria, Pistuli, San Giorgio alla Boiana, Mida, Pentari, Pali,
Calmet, Alessio e Zadrima, località tutte appartenenti alla diocesi di Scutari.
126
Piccolo borgo e frazione del comune di Cellere, in provincia di Viterbo, appartenuto alla famiglia Farnese.
127
ARCHIVIO NOTARILE DI NAPOLI (d’ora in poi sarà ANN), notaio Gaspare Maria Martucci, Vol. 10, Anno 1761,
f. 9.
Simone Giona128 con sei persone di famiglia;
Giovanni Pietro129 con quattro persone di famiglia;
Pavolo Pali con tutta la sua famiglia consistente in sette persone;
Giovanni Kalà con quattro persone di famiglia;
Andrea Kalà con quattro persone di famiglia;
Giacomo Kalà con un suo nipote;
Remo Cola con cinque persone di famiglia;
Giorgio Lindi solo;
Giacomo Natale con sua madre:
Antonio Zadrima130 con sua sorella131;
E Maria Rubicci tutti d’Albania, al presente qui in Napoli di passaggio, li quali
Capi di famiglia Albanesi agono, ed intervengono alle cose infrascritte per essi, e
ciascuno di essi, e li loro, e di ciascuno di loro insolidum eredi, e successori
dall’altra parte.
Detti capi di famiglia albanesi insolidum spontaneamente con giuramento avanti
di noi, e di detto Eccellentissimo Signor Principe don Placido hanno asserito
qualmente essendo giunti in questa Capitale provenientino dall’Albania con dette
loro famiglie, e desiderando soggiornare in un luogo di questo Regno han fatto
varie diligenze per ritrovarlo, alla fine né hanno dato le loro suppliche al detto
Eccellentissimo Signor Principe don Placido, acciò compiaciuto se fosse darli un
luogo nè suoi vastissimi stati, che possiede in questo Regno di Napoli, alle quali
suppliche compassionando detto Eccellentissimo Signor Principe lo stato di dette
famiglie senza ricovero alcuno, si è compiaciuto benignamente concederli un luogo
nel Territorio di Lesina, e propriamente quello detto Poggio Imperiale, in provincia
di Capitanata colle seguenti capitolazioni, cioè:
Primieramente detto Eccellentissimo Signor Principe don Placido promette di dare
alle suddette famiglie albanesi tomola trenta grano per ciascun mese del peso, e
misura di Puglia dal giorno, che arriveranno in detto luogo di Poggio Imperiale, e
sino alla raccolta dell’anno 1762;
Di più promette detto Eccellentissimo Signor Principe darli paia sette di bovi;
Terre per orti per anni quattro senza pagare;
Che possino portare armi non proibite dalle Regie Prammatiche;
Che li sbirri non li diano molestia;
Case franche per anni cinque;
Territorij franchi per anni trè;
Le legne franche sempre alla riserva delle difese proibite;
Il pascolo franco sempre nelli territorij dell’Università;
Il cappellano mantenuto da detto Eccellentissimo Signor Principe, e sarà parroco li
spetterà la congrua assegnata dal Concilio, cioè ducati cento l’anno, da nominarsi
da esso Eccellentissimo Signor Principe, e da approvarsi dall’Ordinario del luogo;
Per ogni famiglia s’assegnano due pecore, e due capri, e sei somari in commune per
tutte la famiglie, e dette pecore, capri, e somari ce li concede detto Eccellentissimo
Signor Principe gratis, e senza pagamento alcuno;
Il medico franco per anni quindeci.
Ed all’incontro detti Capi di famiglia albanesi insolidum promettono, e s’obligano
il grano di sopra mentovato, che prenderanno per soccorso d’essi, e delle loro
famiglie, e le sopradette paia sette di bovi, ed ogni altra spesa, che facesse per essi
detto Eccellentissimo Signor Principe pagarlo al medesimo Eccellentissimo Signor
Principe frà anni quattro da questo suddetto dì in avanti per la rata d’ogni anno.

128
Simone Bubici, erroneamente indicato nell’atto col cognome Giona, dall’albanese Joni.
129
Giovanni Bubici, indicato, molto verosimilmente, come Simone, col nome del padre Pietro.
130
Proveniente dalla regione di Zadrima, nel distretto di Scutari.
131
Maria, che sposerà Giovanni Spenza, suo connazionale, figlio di Francesco.
E terminati detti anni di franchiggia delle case, e territorij debbano detti Capi di
famiglia albanesi insolidum pagarne l’affitto nella maniera, che pagheranno gl’altri
cittadini, e vassalli di esso Eccellentissimo Signor Principe.
Tutto il grano che avanzerà a dette famiglie dal debito, che si dovrà pagare al detto
Eccellentissimo Signor Principe sia à loro libero arbitrio di venderlo a chi li
piacerà.
E finalmente si è convenuto per patto espresso, e speciale, che se mai dette famiglie
albanesi non volessero commorare in detto luogo concedutoli dal detto
Eccellentissimo Signor Principe, e se nè volessero da quello andare, in tal caso
debbano detti Capi di famiglia albanesi, siccome li medesimi insolidum promettono,
e s’obligano di pagare al detto Eccellentissimo Signor Principe tutto ciò che
averanno ricevuto, ed anche quelli animali, franchigie, ed affitti di case, affitti di
territorij, di pascolo, e di qualunque altra cosa che avessero ricevuto in dono da
esso Eccellentissimo Signor Principe sino al giorno della partenza, che vorranno
fare da detto luogo di Poggio Imperiale, non intendendo esso Eccellentissimo
Signor Principe nel caso presente d’averli donato cosa alcuna, ma che tutto
debbano pagarcelo senza replica, né eccezione alcuna, anche di liquida prevenzione
alla quale con giuramento avanti di noi hanno rinunciato, e rinunciano, e non
altrimenti e non d’altro modo.
E per ultimo si è convenuto, che giungendo altre famiglie albanesi, che volessero
andare à commorare in detto luogo di Poggio Imperiale, in tal caso debbano godere
in tutto, e per tutto quanto nel presente Instrumento si è espressato»132.
Rileggendo il capitolato, si può evincere come Placido Imperiale facilitò notevolmente
l’insediamento degli albanesi a Poggio Imperiale con la concessione «gratis e senza pagamento
alcuno» di case, boschi e terreni dove esercitare gli usi civici ed essenziali, di animali, grano, del
medico e la garanzia di non essere perseguitati dalla legge. Nei patti, però, vi era anche una
clausola che prevedeva il rimborso di tutte le spese, sostenute dal principe, nel caso gli scutarini
avessero deciso di abbandonare il luogo. Don Placido, infine, assicurava le stesse garanzie ad altre
famiglie albanesi nell’eventualità che queste si fossero trasferite nel casale, cosa che effettivamente
avvenne dopo poche settimane.

DA SCUTARI VERSO LA TERRA PROMESSA


«Terra straniera non sorride a popolo straniero e chi lontano dagli aviti focolari si
abbandona agli eventi della sorte, benché possa chiamarsi cittadino della terra e
fratello dell’uomo, fuori del proprio cielo ci si vede solo, abbandonato, figlio della
sventura, sopra una riva che non è sua, che non ha salutato coi primi vagiti
dell’infanzia, che non racchiude le ossa venerande degli avi suoi, riva di un altro
popolo che parla un altro linguaggio e vive di altri affetti e costumi» 133.
Dopo la morte del principe Giorgio Castriota Scanderbeg (1405-1468) l’Albania passò sotto il
dominio della Turchia, seguendo per molti secoli la politica e le vicende di quel governo, che
costringeva, anche con l’uso della forza, gli abitanti del paese delle aquile ad abbracciare la
religione musulmana.
«La fede maomettana poggiata su lo spavento delle armi, anziché su la parola,
infieriva da per tutto come nembo infernale che desola ed estermina le genti»134.
Gli albanesi, molto legati alla fede cattolica, ricusarono questa imposizione e, molti di essi,
decisero di abbandonare il patrio suolo, dando avvio alle numerose migrazioni del popolo
shqiptaro soprattutto verso le sponde dell’Italia meridionale. Molta di questa gente venne
destinata a ripopolare paesi disabitati, abbandonati per la malaria o in seguito a terremoti - tra cui
132
ANN, notaio Gaspare Maria Martucci, Vol. 10, Anno 1761, ff. 9/12.
133
V. DORSA, Su gli Albanesi. Ricerche e pensieri, Tipografia Trani, Napoli 1847, p. 80.
134
Ibidem, p. 60.
Campomarino, Portocannone, Santa Croce di Magliano e Ururi in Molise, Casalvecchio di Puglia e
Chieuti in Capitanata, dove ancora oggi sono presenti comunità italo-albanesi che hanno serbato la
lingua e le tradizioni dei loro avi - mentre altra rifondava nuovi paesi.
Anche gli albanesi di Pianiano decisero di lasciare la propria patria e trovare rifugio nello Stato
Pontificio per sfuggire alla recrudescenza di fanatismo religioso da parte del pascià di Scutari.
Nel 1753 governavano con tirannia la città i «Ciausci», discendenti del terribile Mehemed, bey
(signore) di Buschati, che, assurto al potere con la forza e l’inganno, consentiva ai suoi sgherri di
attuare atti di violenza inaudita contro i cristiani, molti dei quali venivano ammazzati e lasciati
senza sepoltura, altri bruciati vivi, altri ancora furono dati in pasto ai cani.
Nei villaggi posti sulle rive della Boiana135, molti dei quali furono saccheggiati e distrutti dai
turchi, si viveva nel terrore; la situazione sorta in seguito a questi atroci eventi era delle più
difficili. Bisognava escogitare un espediente per cercare di venire a capo di essa. Dopo una serie di
riflessioni, gli abitanti prospettarono tre soluzioni: ammazzare qualcuno di questi despoti con le
terribili conseguenze che ne derivavano; rinnegare la fede cattolica; abbandonare il paese e trovare
asilo in altri regni. Si decise di optare per la terza ipotesi e per porla in atto una delegazione
composta da una decina di capi di queste famiglie chiese ed ottenne un incontro all’Arcivescovo di
Antivari, monsignor Lazzaro Uladagni136.
Al prelato venne esposta la triste condizione in cui si dibatteva la comunità cristiana di Scutari e
la volontà di questi derelitti di abbandonare l’Albania, sia per non accettare la religione
maomettana, sia per non incappare in gesti sconsiderati, che avrebbero potuto procurare danni
irreparabili alle proprie famiglie.
Monsignor Uladagni ascoltò sconcertato il racconto dei capifamiglia, restandone
profondamente addolorato, per cui consigliò loro di trovare ospitalità presso la Corte Pontificia.
Lui stesso si sarebbe interessato per far ottenere loro l’assenso del Santo Padre: avrebbe incaricato
per questo un suo nipote, Antonio Remani.
Nella comunità cristiana di Scutari aveva un posto di preminenza la famiglia di tal Andrea
Remani. Anch’egli ardente fedele della Chiesa di Roma, Andrea era molto stimato nella sua città.
Era un mercante e intratteneva i suoi traffici con le città del Regno di Napoli e dello Stato
Pontificio. Nel suo lavoro era aiutato dai figli Antonio, Nicolò e Stefano - che poi diverrà sacerdote
- e metteva volentieri il prestigio della sua posizione al servizio della gente oppressa.
Mensilmente Andrea si recava nella Marca Anconetana, per commerciare e partecipare, a
Senigallia, alla rinomata Fiera della Maddalena e in questi viaggi, molto spesso, era accompagnato
dal figlio Antonio, giovane animoso e intraprendente che, come il genitore, «si prodigava a lenire le
sofferenze della gente perseguitata. Naturale, quindi, che da parte di quegli infelici arrivassero a lui sempre
più pressanti preghiere e lettere dei suoi concittadini, perché li aiutasse a toglierli da quell’inferno, per il
vagheggiato paradiso italiano. Antonio Remani, quindi, investito del compito dal monsignore suo zio, prese
a cuore le invocazione di quei miseri, ne fece parola al cavalier Corrado Ferretti, console della Nazione
Levantina dimorante in Ancona, e questi fece arrivare quell’ardente desiderio fino al Papa Benedetto XIV»137.
Il Pontefice, tramite il console, convocò il Remani a Roma presso la Corte Pontificia, per
concordare le modalità di come trarre in salvo quella gente. Inoltre, la Santa Sede assicurò che la

135
Bunë in albanese. Fiume dell’Albania settentrionale lungo 40 km, emissario del Lago di Scutari, che scorre
con andamento tortuoso in direzione Sud, sfociando nell’Adriatico presso Pulaj. Nell’ultimo tratto del suo
corso, poco a valle di Dajç, segna il confine tra l’Albania e il Montenegro.
136
Monsignor Uladagni nacque a Scutari nel 1706. Il 9 marzo 1746 fu nominato vescovo della diocesi
albanese di Sapë, mentre il 21 luglio 1749 fu designato Arcivescovo di Antivari, l’odierna Bar, in
Montenegro. Morì il 4 febbraio 1786 all’età di 80 anni.
137
Le notizie sulla fuga degli albanesi da Scutari sono tratte da G. RIBECA, Una colonia albanese a Pianiano
(Territorio dello Stato Pontificio - 1756), Tesi di laurea, relatore prof. Pietro Silva, Anno Accademico 1947-48.
Cfr. inoltre B. BLASI, Gli albanesi a Corneto e nel patrimonio di S. Pietro in Tuscia, in «Bollettino della Società
Tarquiniense di Arte e di Storia», Anno 1988, pp. 35/54. Al termine del lavoro, l’autore riporta un
manoscritto di anonimo, che si propone in appendice al presente lavoro, conservato nell’Archivio della
Curia Vescovile di Acquapendente, dal seguente titolo: «Il più succinto racconto della partenza e venuta delle
Famiglie Albanesi nello Stato di Castro, e dello stato in cui si ritrovano, di passaggio, toccandosi semplicemente le cose
più sostanziali» che tratta le vicende della colonia albanese fin dal suo arrivo in Italia.
Reverenda Camera Apostolica (R.C.A.)138 avrebbe ricompensato e risarcito la famiglia Remani
degli eventuali danni che un’azione del genere avrebbe potuto arrecare.
Antonio, dopo aver ricevuto anche del denaro da parte del Tesoriere generale monsignor Nicola
Perelli, tornò ad Ancona con molto entusiasmo, s’imbarcò sulla prima nave che faceva rotta per
l’Albania e, «giunto fra i suoi con la lieta novella, si pose subito a organizzare il piano della fuga, che già
vagheggiava».
Ma sorse subito una gravissima difficoltà: «trattandosi di una fuga, certamente malvista e osteggiata
dal Pascià, nessun armatore si sentiva di esporre se stesso e la nave alla rappresaglia, alla distruzione e alla
morte. Per quanto vantaggiosi fossero i noli, non si trovò chi volesse tentare il rischio. Non si scoraggiò il
vecchio Andrea Remani. Perché il figlio potesse riuscire nel nobilissimo intento, rinunciò al suo aiuto nei
negozi della mercatura, lui stesso sospese i suoi traffici e mandò Antonio in Puglia a trovare il necessario
imbarco. Antonio, infatti, contratta nella Puglia una grossa partita di sale e noleggia due velieri per
trasportarlo in Albania. Il superficiale osservatore non poteva capire lo strano affare di quel mercante
albanese: il sale in Albania si poteva avere ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello comprato nel Reame
e trasportato per via mare. Ma nella mente di Antonio quei velieri, al ritorno, dovevano servire per il carico
dei fuggitivi. Tutto pareva sorridere all’ideale dell’ardimentoso Remani; sennonché una fiera burrasca
travolgeva e affondava in mare i due velieri ed il loro carico di sale. La generosa famiglia risentì il grave colpo
finanziario; ma non si diede per vinta. Con una tenacia che ha dell’incredibile, Andrea raggranellò altro
denaro, vendendo le sue possessioni terriere. Tre anni durarono le ricerche, i tentativi, le spese, lavorando
sempre in segreto, per sfuggire alle persecuzioni dei Turchi. Finalmente nella notte del 2 febbraio 1756,
trovato un armatore benevolo ed una nave che pareva sicura, si iniziò a Dulcigno l’imbarco delle famiglie
Albanesi da trasportare in Italia».
Ma ad un certo punto il capitano della marsiliana 139 ebbe un’intuizione e, pur non avendo preso
a bordo tutte le persone, ordinò di levare l’àncora e salpare, lasciando sulla spiaggia Antonio con
una parte dei fuggitivi. L’ufficiale aveva fiutato il pericolo, ben presto, infatti, arrivarono i turchi,
che arrestarono tutti «e li tennero sotto custodia, finché il Remani non poté dare per sé e per gli altri una
forte somma di riscatto».
Una volta liberi, gli albanesi poterono raggiungere la nave a Ragusa 140, dove nel frattempo era
approdata dopo la precipitosa partenza. Completato l’imbarco, il vascello, sette giorni dopo, poté
finalmente prendere il largo verso l’Italia.
Viaggiando «con molta tardanza e cautela nel cuor dell’inverno, quel piccolo regno navigante, al
governo della famiglia Remani, poté alfine salutare con gioia il sicuro suolo della Santa Madre Chiesa. Si
partì questa colonia perché temeva che finalmente, o loro o la sua posterità, non rinnegassero la Santa Fede
Cattolica, giacché vedevano che gli altri loro parenti, amici e paesani non potendo più tollerare li soliti
insopportabili tributi e calunnie dell’ingordi e buggiardi Ottomani, andavano giornalmente abbracciando la
setta maomettana, in modochè, siccome prima erano colà tutti cristiani, al presente son quasi tutti divenuti
turchi»141.

138
Uno dei più importanti dicasteri della Curia Romana con a capo il cardinale camerario (o camerlengo) di
Santa Romana Chiesa. Curava i diritti e gli interessi temporali del papato, ne amministrava i beni ed
espletava inoltre funzioni politiche, amministrative e giudiziarie a Roma e nello Stato Pontificio. La Camera
Apostolica, il cui nome gli fu imposto nel 1073 da papa Gregorio VII, in collaborazione del collegio dei
diaconi, amministrava il patrimonio della Chiesa. Nel periodo di sede vacante spettano ad essa la cura e
l’amministrazione dei beni e diritti temporali della Sede Apostolica.

139
Veliero mercantile del XV secolo, precursore della galeazza.
140
Ragusa o Dubrovnik, città della Croazia situata su una piccola penisola rocciosa della costa dalmata.
141
ADL, Sante Visite Pastorali, BB. nn. 6 N° 41, Atti della santa Visita di monsignor Giuseppe Maria Foschi, Poggio
Imperiale, cc. 99, Anno 1761, f. 2.
Sbarcati nell’aprile successivo ad Ancona142 dopo un tormentato e lungo viaggio143, irto di
«pericoli e strapazzi», gli scutarini, un gruppo di circa duecentodiciotto persone (tra cui un
sacerdote144) concentrate in una quarantina di famiglie, vennero accolti dal marchese Francesco
Trionfi, incaricato della Santa Sede, il quale fornì loro la prima assistenza 145. Gli albanesi non
avevano nulla con sé, tranne che il solo ricavato della frettolosa vendita dei loro beni a Scutari,
soldi che consegnarono ad Antonio Remani «per ridurli in romani, che non più li viddero».
Nella città marchigiana gli esuli trovarono ospitalità nel lazzaretto 146, dove furono ricoverati in
osservazione per circa quaranta giorni, in attesa che la Santa Sede avesse comunicato loro il luogo
della definitiva dimora.
«Arrivò alfine la notizia tanto aspettata: si andava verso Roma, dal Papa, nella
Tomba dei Santi Apostoli».
All’alba del 24 maggio 1756, la colonia, a spese della R. C. A., si avviò alla volta di Roma, ma
lasciata Ancona ed imboccata la via Flaminia, i profughi ebbero una grande delusione, perché
dopo Terni, anziché proseguire per la città santa, svoltarono in direzione di Viterbo giungendo, il 6
giugno 1756, in Tuscia. Provvisoriamente presero alloggio a Canino 147, una cittadina sperduta nella
campagna romana: quella era la loro nuova dimora stabilita dal Sommo Pontefice.
I poveri coloni albanesi, donne, vecchi e bambini compresi, giunsero a Canino «stanchi al
maggior segno e molto assetati» per aver percorso a piedi l’intero percorso, oltre duecento chilometri,
avendo a disposizione soltanto «un misero calesse per gli ammalati e i fardelli»148.
In Maremma gli scutarini furono accolti dal conte Niccolò Soderini, affittuario generale degli
Stati di Castro e Ronciglione, che, in ottemperanza alle disposizione ricevute da Roma, destinò i
profughi presso il castello di Pianiano, ormai deserto dal 1734, e gli concesse «una certa quantità
delli terreni» di proprietà della R. C. A. 149 in tre zone di Pianiano, «uno in vocabolo la Bannitella,
confine da una parte da capo, con altra tenuta camerale in vocabolo il Cerqueto dall’altra parte da piedi colla
tenuta di Chioana; l’altro in vocabolo le Sterpaglie» 150.
Inoltre essi furono provvisti di «bovi aratorj, vacche da razze, aratri, zappe, accette, e di altri attrezzi
necessari per dicioccare, sterpare e coltivare li detti terreni, affinchè le dette Famiglie possino colla di loro
industria procacciarsi il vitto»151.
Dalla Santa Sede, frattanto, ebbero il primo aiuto pecuniario, A quelli che erano superiori ai
dodici anni di età, veniva dato un paolo 152 giornaliero (10 soldi); mezzo paolo percepivano quelli
sotto i dodici anni; per i sacerdoti la diaria era di un paolo e mezzo.
Verso la fine dell’anno si aggregò alla colonia il sacerdote don Stefano Remani, che si trovava
nella città eterna a trattare alcuni affari presso la Curia Romana per incarico del suo vescovo , già
parroco in una parrocchia di Scutari. Il suo arrivo fu salutato come una benedizione. Gli albanesi
erano davvero in condizioni pietose: la scarsezza di acqua, la mancanza di pulizia e di un decente
alloggio, poiché vivevano in tuguri, fece manifestare tra i coloni qualche caso di tigna. A questi
problemi si aggiunse anche la malaria - che agli inizi del 1700 causò molti morti nella zona, tanto
da indurre gli abitanti di Pianiano, nel 1729, a trasferirsi a Cellere - a causa della quale nel 1758

142
ARCHIVIO DI STATO DI VITERBO (d’ora in poi sarà ASV), Archivio camerale dello Stato di Castro (d’ora in
poi sarà ACSC), Atto del notaio Giovanni Filippo Boncompagni del 29 novembre 1757, B. 162, fasc. 6, f. 1.
143
Negli atti della sua visita pastorale, il vescovo Foschi riferisce che il viaggio, tra soste e cattivo tempo, ebbe
la durata di trentatre giorni. Stando però a quanto scritto dal notaio Boncompagni potrebbe essere stati molti
di più
144
Si tratta molto probabilmente di don Marco Micheli.
145
B. BLASI, op. cit., p. 44.
146
Ospedale designato all’isolamento e alla cura delle persone affette da malattie contagiose.
147
ASV, ACSC, Atto del notaio Giovanni Filippo Boncompagni del 29 novembre 1757, B. 162, fasc. 6, f. 2.
148
I. SARRO, Pianiano, un insediamento albanese nello Stato Pontificio, Sed Editore, Viterbo 2004, p. 21.
149
ASV, ACSC, Atto del notaio Giovanni Filippo Boncompagni del 29 novembre 1757, B. 162, fasc. 6, f. 2.
150
Ibidem, f. 3.
151
Ibidem, f. 2.
152
Unità monetaria del Vaticano introdotta da papa Paolo III (1534-49).
persero la vita sette capifamiglia albanesi e negli anni seguenti alcune famiglie furono decimate dal
ferale morbo.
La morte dei compagni e le difficoltà ambientali, che diventavano ormai sempre più crescenti,
costrinsero gli scutarini a chiedere il permesso al Santo Padre di trasferirsi in luoghi più ospitali e il
26 maggio 1759, papa Clemente XIII, che era succeduto a Benedetto XIV, per tramite del conte
Soderini, autorizzava gli albanesi a lasciare lo Stato Pontificio.
La partenza da Pianiano avvenne il 28 novembre 1760. Tutti i profughi, ad eccezione della
famiglia di Giovanni Sterbini, che preferì rimanere nello Stato di Ronciglione, si imbarcarono nel
porto di Civitavecchia su di una tartana napoletana diretta a Napoli, invogliati anche dal tenente
colonnello del «Reggimento Real Macedone»153 Nicolò Mida, «soldato da Napoli», che infervorò
l’animo dei più ardimentosi a trasferirsi nel reame borbonico.
Nei cinquanta giorni di permanenza a Napoli, gli scutarini, non trovando alcun ricetto,
abbattuti, avviliti e ridotti a mendicare, si divisero in due gruppi. Il primo con il proposito di
partire per la Sicilia, dove avevano già trovato insediamento, secoli prima, altri loro connazionali;
il secondo, invece, rivolse le proprie suppliche al principe di Sant’Angelo, Placido Imperiale, che
offrì loro di recarsi in Capitanata per popolare il nascente villaggio di Poggio Imperiale.

L’ARRIVO A POGGIO IMPERIALE


Subito dopo aver conchiuso il concordato con Placido Imperiale, gli albanesi si avviarono alla
volta di Poggio Imperiale, che raggiunsero dopo alcuni giorni di cammino. La colonia, composta
da diciannove famiglie per un totale di novanta persone tra uomini, donne e bambini, aveva come
guida spirituale il sacerdote don Simone Uladagni, che in passato aveva amministrato una
parrocchia di Scutari, il quale dal 1755 si trovava a Roma, convocato dalle autorità ecclesiastiche,
per chiarire il suo comportamento poco corretto nei confronti del vescovo di quella diocesi 154.
Giunti nel villaggio, gli albanesi presero alloggio nelle abitazioni, con «due scalini nel piede,
lastico sfossato, copertura di una quinta di tetto, finestrino a lume verso la strada colla banderola ad un
pezzo, comodo di focolaio colla cappa e vano sporgente all’altro sottano nel sito opposto» 155, da poco fatte
edificare da don Placido con lo scopo appunto di accrescere il suo poggio. A loro disposizione
vennero messi animali, strumenti agricoli e i terreni da trasformare in orti e vigne, insomma tutto
ciò che era previsto nelle capitolazioni.
Negli atti della sua visita, il vescovo Foschi traccia un breve profilo del carattere e le condizioni
sociali degli scutarini, descrivendo, inoltre, anche il modo di vivere le funzioni religiose.
Il prelato scrive che gli uomini di «questa nazione» sono «di natura robusta ed industriosa», molto
umili e, per assicurare il cibo quotidiano alla famiglia, inclini al lavoro; non amanti dei giochi e
neppure preferivano trascorrere il proprio tempo libero nella taverna.
Di buona morale, non bestemmiavano e non erano dediti al furto, ma soprattutto non
accettavano che qualcuno molestasse le proprie donne, poiché, seppur docili e obbedienti, erano
molto risoluti, reagendo in modo violento, finanche a vendicare nel sangue, chi avesse procurato
loro un danno o pur’anche una minima offesa, per cui giravano per il villaggio «armati alla turca»,
cioè con coltelli, spade e «schioppi assai lunghi», indossando inoltre, una cartucciera sempre ben
fornita di munizioni.
153
Reggimento mercenario costituito nel 1739 per volontà di Carlo III di Borbone, detto anche dei
«Camiciotti», per la foggia del vestiario e per il camicione che portavano al di sopra dei pantaloni a guisa di
gonnellino, come d’uso del loro costume nazionale. Il reggimento venne sciolto con decreto del 17 gennaio
1818.
154
Riguardo ai sacerdoti e alla loro fede religiosa, ancora oggi le notizie appaiono discordanti. Coloro che si
sono interessati delle vicende storiche di Poggio Imperiale, attingendo le fonti dal Teatro storico poetico della
Capitanata di Matteo Fraccacreta, hanno sempre affermato che separatamente agli albanesi sopraggiunsero
anche due sacerdoti dal rito greco: Simone Bubici e Stefano Teodoro, entrambi sposati con prole. Il vescovo
Foschi, invece, nella sua relazione parla, molto verosimilmente, di due preti cattolici, don Simone Uladagni e
don Marco Micheli. Tra l’altro i profughi albanesi giunti a Poggio Imperiale erano di fede cattolica e non
ortodossa. Comunque, in mancanza di documenti che attestino la veridicità della prima affermazione, che
difficilmente faranno la loro comparsa, noi riteniamo più attendibile quanto riportato dal prelato.
155
AA. VV., Apprezzo dei beni ereditari del fu Principe Don Giulio Imperiale, Tip. A. Trani, Napoli 1822, p. 319.
Nonostante fossero ben armati e disponessero solo di pochi oggetti rusticani, erano però
estremamente poveri, perché per fuggire da Scutari erano stati costretti a vendere tutto ciò che
possedevano: case, terreni, animali e quant’altro di loro proprietà.
Anche le donne erano molto modeste e timorate; indossavano vesti che le coprivano tutte e,
fuori di casa, portavano sempre lo testa abbassata e, quando incontravano un uomo, non gli
volgevano mai lo sguardo né gli rivolgevano alcuna parola.
Dal punto di vista religioso, erano molto inclini alla fede e alla pietà, partecipavano alle sacre
funzioni, celebrate dal sacerdote don Simone Uladagni parte in latino e parte in albanese, «con
somma venerazione ed edificazione e, non possedendo le coroncine, recitavano il santo rosario chi
su le dita, chi su li bottoni».
Poche le tradizioni che caratterizzavano le loro celebrazioni; durante la messa di matrimonio,
dopo che l’officiante riceveva l’assicurazione dei fidanzati di voler contrarre liberamente il
matrimonio, li benediceva e «quando il prete proferisce le parole “Ego coniungo vos in matrimonium”,
lega colla stola le mani di entrambi gli sposi», stando ad indicare la totale ed esclusiva fedeltà assoluta
e perenne tra di loro.
Nel funerale, invece, dopo aver intonato i tre «Kyrie eleison» e aver recitato il Padre nostro in
lingua albanese, il prete, rivolto al popolo, l’esortava a pregare Dio per l’anima di quel defunto
che, «godendo con tutti li Santi la bellezza di Dio, possa pregare per essi».
Civilmente non accettarono le regole italiane e vivevano con le proprie leggi albanesi, tanto che
le cause, sia civili che criminali, «senza formar processo, dar difese ed udire giudiziarie giustificazioni»,
venivano decise in presenza del loro prete e di tre anziani, definiti Pleck, eletti da ciascun casato. La
causa terminava quando uno de litiganti, giurando sul Vangelo tenuto in mano dal sacerdote,
implorava la penitenza.
Un quadro consono a quanto riportato dalla letteratura del paese delle aquile, che vuole
l’albanese dal carattere possente, fiducioso della propria forza, generoso ed ospitale, un po’ rozzo,
ma, nello stesso tempo, intrepido, feroce e alquanto risoluto.
«Ei coltiva la campagna, pascola l’armento, maneggia il fucile, sempre tranquillo.
L’avvenire gli sta chiuso come un mondo a cui l’occhio suo non giunge. Non spera
e non teme. La moglie è la compagna indivisibile delle sue fatiche, a lui sempre
soggetta, ma regina della famiglia, alle cure interne della quale è destinata» 156.

ARRIVO DI UNA SECONDA COLONIA ALBANESE


A questo primo gruppo di shqiptari si aggregarono, poche settimane dopo il loro arrivo nel
casale, altre trentuno famiglie di connazionali, per un totale di settantasette persone.
Anche questi, come i primi, «dopo molti trattati e diligenze fatte con vari Signori di questo Regno e di
quelli di Sicilia (con il principe di Camporeale157, in modo particolare) riusciti inutili, pregarono»158
don Placido di alloggiarli in uno dei suoi vasti feudi.
Il Sant’Angelo, dopo averli informati che in un suo feudo di Capitanata avevano trovato ricetto
le famiglie che erano con loro a Pianano, propose anche ad essi di trasferirsi nel medesimo luogo.
Questi accettarono e, prima di partire verso la loro nuova destinazione, inviarono «due loro
compagni de più periti a vedere detti Feudi, e specialmente quello di Lesina col suo nuovo Casale di Poggio

156
V. DORSA, op. cit., p. 137.
157
Don Giuseppe Beccadelli di Bologna (1726-1813), 6° Principe di Camporeale, 3° Duca d’Adragna, 7°
Marchese d’Altavilla, 5° Marchese della Sambuca; Grande di Spagna di prima classe; Patrizio Napoletano
iscritto al Seggio di Nido; Consigliere di Stato e Primo Segretario di Stato, di Casa Reale, Affari esteri e siti
reali; Cavaliere dell’Ordine di Malta; Sopraintendente Generale delle Regie Poste di Sicilia; Cavaliere
dell’Insigne Ordine di San Gennaro; Gran Croce dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio; Gentiluomo di
Camera con esercizio del Re di Napoli e Sicilia; Colonnello di fanteria; Ambasciatore ordinario a Vienna.
Sposa nel 1749 a Palermo donna Stefania Montaperto, figlia di don Bernardo Principe di Raffadali, dama di
Corte e dama di Gran Croce di Devozione dell’Ordine di Malta.
158
ANN, notaio Gaspare Maria Martucci, Vol. 10, Anno 1761, f. 24.
Imperiale, ed essendoli molto piaciuto quei luoghi condiscese detto Eccellentissimo Signor Principe don
Placido à riceverli nel suo Feudo con molte grazie, patti, e convenzioni» 159.
Il 4 febbraio 1761, alla presenza del principe Imperiale, il notaio Gaspare Maria Martucci ebbe il
compito di trascrive le stesse capitolazioni contenute nell’atto del 18 gennaio, accettate anche da
questi albanesi.
E a Poggio Imperiale, guidati dai due loro compagni che precedentemente avevano già visitato
la zona, arrivarono:
«Antonio Remani con quattro persone di famiglia; Stefano Mida con tutta la sua
famiglia consistente in quattro persone; Andrea Mida con quattro persone di
famiglia; Marco Micheli con otto persone di famiglia; Stefano Micheli con quattro
persone di famiglia; Giacomo Micheli con una persona di famiglia; Andrea Carucci
con cinque persone di famiglia; Simone Godelli con tre persone di famiglia; Andrea
Locorezzi con cinque persone di famiglia; Marco Locorezzi con quattro persone di
famiglia; Giacinto Locorezzi con tre persone di famiglia; Giovan Pietro Prenca con
sette persone di famiglia; Marco Cola con tre persone di famiglia; Simone Cola con
sei persone di famiglia; Andrea Ghega con due persone di famiglia; Marco Milano
con due persone di famiglia; Paolo Gioca con tre persone di famiglia; Antonio Cola
con due persone di famiglia; Angiolo Zanco con cinque persone di famiglia; Marco
Gioli con tre persone di famiglia e Venerando Nicoli con tre persone di famiglia» 160.
Rileggendo i nomi dei componenti la colonia, risaltano, importanti, quelli del commerciante
Antonio Remani, nipote di monsignor Lazzaro Uladagni e organizzatore della fuga delle famiglie
da Scutari; di Stefano ed Andrea Mida, germani di Nicolò, l’ufficiale dell’esercito borbonico che
invogliò i profughi a lasciare Pianiano e trasferirsi a Napoli, e di don Marco Micheli, originario di
Bria, direttore spirituale di questi arbereshe161.
L’arrivo del secondo gruppo di famiglie, provocò dei disagi logistici agli agenti di Casa
Imperiale per via della scarsezza di alloggi, ma il problema venne prontamente risolto trasferendo
gli animali in un’altra casa colonica e trasformando i trenta vani precedentemente adibiti a stalla in
altrettante abitazioni162.

LA PALAZZINA
La presenza di un considerevole numero di famiglie fece mutare radicalmente il volto del
casale, che ospitava ora ben duecentocinquanta persone, tra italiani e albanesi.
Gli animali grossi, i primi indiscussi abitatori di Coppa di Montorio, avevano lasciato il posto a
chi ora aveva il compito di bonificare e rendere agricolo il territorio circostante la grossa masseria da
campo di Poggio Imperiale.
L’obiettivo di Placido Imperiale si poteva considerare raggiunto, anche se mancava ancora
qualche tassello per completare l’operazione che si era prefissa.
Divenuta una folta comunità, di conseguenza erano aumentati anche i bisogni della gente, per
cui vi era la necessità che un agente di Casa Imperiale vi si stabilisse in loco per curare da vicino e
risolvere le varie problematiche che potessero sollevare i coloni.
Ma mancava un punto di appoggio. Tutte le abitazioni erano state occupate; addirittura, per
alloggiare gli ultimi albanesi, furono convertiti in abitazioni i trenta vani originariamente adibiti a
stalloni. Occorreva costruire un edificio che, oltre ad essere considerato luogo di residenza del
principe e del suo agente feudale, rappresentasse il simbolo dell’aristocrazia e del progresso. Un
edificio elegante nelle forme e fornito di tutte le comodità e gli agi, che invogliasse il proprietario a
visitare frequentemente il casale e a sostarvi volentieri. Esso doveva essere dotato di tutte le
strutture indispensabili a svolgere in modo efficiente l’attività agricola: alloggi per gli

159
Ibidem.
160
Ibidem, ff. 16/17.
161
Così sono definiti gli albanesi residenti in Italia.
162
Cfr. AA VV., Apprezzo dei beni ereditari del fu Principe Don Giulio Imperiale, p. 319.
amministratori, magazzini per le derrate, stalle per i cavalli e cantine dove conservare vino ed
altro.
L’appalto per la costruzione della principal palazzina reca la data del 24 febbraio 1761163. A
sottoscrivere l’atto, redatto nell’Imperial Palazzo di San Paolo dal solito notaio Giuseppe Nicola
Ricci, Francesco Giudilli, erario di Casa Imperiale nei feudi di San Paolo e Lesina.
Il Giudilli diede mandato a Nicola di Lallo, «capomastro fabbricatore» di Pescopennataro,
cittadina molisana oggi in provincia di Isernia, di costruire «di fabbriche nuove trentadue caselle, cioè
sedici sottani di palmi venti in quadro l’una, e sedici soprani della stessa fattezza, otto in una fila e otto in
un’altra parte opposta, tutte unite e di una tirata fra loro. Le mura esteriori larghe palmi tre e mezzo, il muro
divisorio di mezzo largo palmi tre e le mura divisorie di palmi due. Le pedamenta di palmi cinque, più o
meno secondo si troverà il sodo della terra, e di grossezza di palmi quattro, secondo richiede l’arte per
sostenere le camere superiori, larga ciascuna camera di palmi venti in quadro. Li sottani alti a misura delle
case vecchie, e li sottani alti palmi dieci alla parte delle mura esteriori. Le porte e finestre delle case sottane a
misura di quelle delle case vecchie, e le porte delle case soprane alte palmi otto e larghe palmi 4, e le finestre
alte cinque o sei e larghe in corrispondenza colli vani per uso delli stipetti, si nelli soprani, come nelli sottani.
In oltre fare li balconi o sia passatori dall’una e l’altra parte delle case per questi contengono le lunghezze
dell’istesse case sopra pilastri, che corrispondono, ed attaccano alle mura divisorie composti di travi e tavole
ad astrico o mattonate di sopra di larghezza palmi sei e fare li astrichi si nelli soprani, come nelli sottani delle
dette case con quell’astrico a cielo in uno, o due stalloni, che dovrà farsi tra dette case e panetteria. E questo
per ragione di canna rispetto alle pedamenta, che dovrà empirsi de pezzi de tufi, a grana trentacinque la
canna, e le fabriche de tufi e pezzi di essi a grana quaranta la canna, si per li sottani, come per li soprani di
dette case, per l’astrichi a grana trenta la canna, anche delli balconi o sia passatori, andandoci compreso
quell’astrico che dovrà farsi sopra delli suddetti due stalloni, purché si facciano da esso mastro Nicola, il
quale resta tenuto, volendo detto Eccellentissimo Signor Principe che si facciano. E ciò in riguardo alla sola
fatica di mastranza, e col materiale tutto di detto Eccellentissimo Signor Principe, che deve a sue spese
assolutamente far sempre amannire sopra il luogo dove dovrà fabbricarsi, senza punto farlo mancare, perché
in ogni caso di mancanza, rimanendo j mastri senza fatica in una o più giornate, soffrendo esso mastro
Nicola la spesa eccessiva per li medesimise ne fosse debitamente presente stare, e andare le giornate suddette
in danno di detto Eccellentissimo Signor Principe, così anche dovrà correre per conto e peso del medesimo di
munirsi di ceste, cati, funi, tavole e altro necessario per la vita e le fabriche. A riguardo delle ciminiere che
dovrà farsi in dette caselle, per uso e comodo dell’abitanti, si nelli sottani, come nej soprani che dovrà essere
da sotto sino al tetto del soprano, positura de travi, delle piangate, o sia pesolari che vengono a coprire il
sottano e per li tetti, rimangono a convenirsi direttamente con Sua Eccellenza nel suo felicissimo arrivo farà
in questi suoi amenissimi Feodi. Rimanendo confermato il rilascio gratis e senza pagamento per le quagliate
delle porte, finestre, e stipi, si de sottani, come de soprani, che secondo l’altre dovrà caderci» 164.
Mastro Nicola si impegnava ad iniziare i lavori fin da subito con otto e più operai e consegnare
«l’intiera opera terminata e nella sua perfezzione» entro la fine di giugno di quello stesso anno.
Garantiva, altresì, che nei successivi quattro anni, «da numerarsi dal giorno della terminazione sino a
che si compisse il tempo di quattro anni», la palazzina avesse subito delle lesioni strutturali, mastro
Nicola si obbligava a risarcire il principe del danno, che un perito, «alla cui fede ambe esse parti, da
ora per allora, si rimettono», avrebbe quantificato.
Il dottor Nicola Nigro, agente cassiere di Placido Imperiale, dal canto suo, consegnava al
muratore cinquanta ducati di caparra, impegnandosi, inoltre, a corrispondere ogni quindici giorni,
fino al termine dei lavori, il vitto necessario per tutti gli operai impiegati nella costruzione.
Volendo infine far cosa gradita al mastro fabbricatore molisano, l’erario «si è compiaciuto dare per
esso, stanza e letto in Poggio Imperiale, e per gli altri i paglicci senza pagamento» 165.
Mastro Antonio di Lallo rispettò gli impegni assunti con l’erario di Casa Imperiale per la
realizzazione dello stabile e, come previsto da contratto, ai primi giugno i terranovesi potevano
ammirare e fare vanto della nuova residenza del loro principe.

163
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2826, Anno 1761, f. 12.
164
Ibidem, ff. 13/14.
165
Ibidem, f. 15.
Bisognava ora completare l’abitazione con gli infissi e la copertura del tetto, incarico che, il 4
giugno di quello stesso anno 1761, venne affidato ai fratelli Michele e Paolo La Serpa e a Francesco
Altieri, «mastri d’ascia» di San Paolo166.
I suddetti artigiani promettevano e si obbligavano «fare nelle case nuove di Poggio Imperiale, nelli
soprani di esse copertine numero sedici, sfilate coll’ascia e menate al piano, e secondo stan fatte le copertine
nell’altre caselle».
La commissione prevedeva la realizzazione e la messa in posa di sedici copertine al prezzo di
un ducato l’una, di sedici assorate allo stesso prezzo, sedici porte per i sottani, «come quelle dell’altre
caselle», e sedici «porte o sia bussole foderate» per i soprani a grana cinquanta l’una, e di trentadue
finestre, tra soprani e sottani, al costo di grana quindici ad infisso.
La spesa complessiva era prevista in sessantatre ducati e quarantotto grana.
Il cassiere di don Placido versò in acconto sette ducati, da «escomputarsi nella fine dell’opera», e si
obbligava a corrispondere ai falegnami, ogni otto giorni, la somma di tre ducati e grana sessanta
oltre a quindici grana per le spese di vitto167.
Con la costruzione della palazzina baronale si può considerare terminata la fase concernente
l’impegno nel settore dell’edilizia urbana, intrapresa da Placido Imperiale nel 1757. In quattro anni
di intensa attività, il Sant’Angelo aveva realizzato un casale composto da quattro caseggiati per
complessive ottantadue abitazioni, una chiesa, il pozzo, il mulino, la panetteria con forno, tre fosse
granarie, un capace stallone e la «sua nuova palazzina».
Aveva dato, in poche parole, l’avvio fondato alla realizzazione di una futura cittadina che,
molto probabilmente, era già da tempo nei suoi propositi.
E l’arrivo di tante famiglie, regnicole e albanesi, faceva ben sperare!

ACCOGLIENZA DEGLI ALBANESI E LORO RIPARTENZA PER NAPOLI


Ma al loro arrivo a Poggio Imperiale come vennero accolti gli albanesi dai coloni del casale?
All’inizio certamente con giustificata diffidenza, ma forse anche con curiosità e rispetto. Di sicuro
non dovette essere per loro facile integrarsi in un contesto socio-culturale del tutto inedito.
A Pianiano, un casale malmesso e disabitato dal 1734, che gli scutarini avevano ristrutturato e
ripopolato, non ebbero contatti con persone di altre etnie. Avevano creato, in poche parole,
un’isola albanese nello Stato Pontificio. Infatti, chi intratteneva i rapporti tra i profughi e il conte
Soderini, affittuario dell’ex Ducato di Castro, era solo ed esclusivamente il sacerdote don Stefano
Remani, l’unico che parlasse la lingua italiana168.
L’arrivo a Poggio Imperiale e il doversi accomunare con la gente del luogo, per gli shqiptari di
Scutari rappresentò una realtà totalmente nuova. Il fatto stesso che girassero nel casale armati di
tutto punto, come ci tramanda il vescovo Foschi, costringeva gli italiani ad adottare un
atteggiamento di prudenza, di circospezione che li portava ad essere guardinghi nei loro confronti.
Non per niente il detto che circolava in quel periodo nel meridione d’Italia recitava: «Se vedi un
lupo e un albanese, spara prima all’albanese e poi al lupo».
Era ovvio che la diffidenza nei riguardi degli albanesi ben presto potesse degenerare in ostilità;
cosa che realmente avvenne, a fine febbraio 1761, con l’uccisione di un albanese 169, forse Antonio
Cabascio. Ma fortunatamente fu un caso isolato, anche se la vicenda potrebbe essere stata tra i
motivi che costrinse il grosso della colonia a lasciare il villaggio e far ritorno a Pianiano.
Se a questo tragico evento aggiungiamo la differenza del linguaggio e il loro ostentato
atteggiamento guerresco, possiamo capire quali furono le possibili cause che generarono la
diffidenza creatasi tra i coloni terranovesi e gli «ospiti» albanesi, «montanari fieri e un po’ selvaggi,
tutt’altro che disposti a rinunciare alla loro identità, etnica e culturale», e causarono la loro successiva
partenza.
L’approccio negativo e la mancata coesione con una etnia diversa dalla loro contribuirono
ulteriormente a scoraggiarli. Fu così che agli inizi di marzo di quel medesimo anno tutte le famiglie

166
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2826, Anno 1761, f. 30.
167
Ibidem.
168
ASV, ACSC, Atto del notaio Giovanni Filippo Boncompagni del 29 novembre 1757, B. 162, fasc. 6, f. 13.
169
Cfr. I. SARRO, op. cit., p. 36.
albanesi, «per alcune giuste cause e per loro giusti e riguardevoli fini, le loro menti moventino vollero
partirsene»170 alla volta di Napoli, abbandonando definitivamente Poggio Imperiale.
Fecero eccezione i nuclei familiari di Simone Bubici, Giovanni Bubici, Giuseppe Teodoro e
Remo Cola, che decisero di restare in Capitanata. Preferì rimanere nel casale anche don Simone
Uladagni, mentre l’altro sacerdote, don Marco Micheli, «perché l’aere di Lesina gli era alla salute
nociva»171, scelse di seguire il grosso della colonia e far ritorno a Pianiano.
Il 17 marzo gli scutarini erano di nuovo nella capitale partenopea e, in presenza del notaio
Gaspare Martucci, chiesero ed ottennero da Placido Imperiale «di rendere casso, irrito e nullo» l’atto
del 4 febbraio, nonché l’autorizzazione a ritornare nello «Stato di Castro, dove vi hanno dimorato per
lo spazio di anni quattro, e proseguire la coltura in quei terreni»172.
Alla stipula erano presenti quasi tutti i capi famiglia albanesi del secondo gruppo e cioè:
Antonio Remani, Stefano Mida, Andrea Mida, Stefano e Giacomo Micheli, Andrea Carucci, Simone
Codelli, Marco e Giacinto Locorezzi, Giovan Pietro Prenga, Marco e Simone Cola, Andrea Gheca,
Paolo Gioca, Antonio Cola, Angiolo Zanco, Marco Gioli e Venerando Nicoli.
Essi rappresentavano, inoltre, la famiglia Colezzi, la famiglia Logorezzi, la famiglia Cabascio,
compresi i figli di Antonio, morto a Poggio Imperiale, Nicola Sterbini, Nicola Calmetti, Veneranda
Milani, vedova di Marco, anch’egli deceduto nel casale, Stefano Natale, Paolo Pali, la famiglia Kalà
e Giacomo Natale.
Dopo aver tenuto fede alla clausola che prevedeva il rimborso delle spese sostenute dal principe
di Sant’Angelo nell’eventualità di un loro abbandono del luogo, gli albanesi, restituiti «ducati
ventiquattro delli ducati cinquanta» che don Placido consegnò il 10 marzo ad Antonio Remani e
Stefano Mida, che a loro volta divisero tra le restanti persone, fecero ritorno nello Stato Pontificio.
Il 23 marzo 1761 la colonia risulta interamente riunita a Pianiano173.
Quei pochi shqiptari rimasti a Poggio Imperiale, a cui si aggregarono le famiglie Spenzer e
Maurichi174, a causa dell’arbitrio manifestato dai villici nei loro riguardi e anche per non abiurare le
proprie origini, circoscrissero il loro humus, conservando, al loro interno, la lingua e le tradizioni
della loro patria.
La conferma di queste osservazioni ci giunge dallo studio effettuato sui libri parrocchiali. I vari
atti, di battesimo e di matrimonio in particolar modo, ci confermano l’iniziale mancata coesione tra
i due gruppi etnici che, per quei primi anni, scrive Giuseppe Galanti,
«avevano orrore a contrarre matrimoni con gli italiani, e la bassa gente e le donne
non intendevano in niuna guisa il nostro linguaggio».
In fondo questi derelitti, una volta benestanti e non di estrazione contadina, non avevano
nell’animo la fierezza del combattente, ma la frustrazione della gente profuga, mista ad un mero
spirito di vendetta nei riguardi dell’oppressore turco, che li aveva costretti ad abbandonare, non
senza rimpianti, il patrio suolo per sfuggire ad una islamizzazione forzata.
Col passare degli anni questa forma di «guerra fredda» andò via via smorzandosi fino a
scomparire del tutto. Questo passaggio fu agevolato soprattutto dal fatto che le famiglie arbereshe
rimaste nel casale erano poche e che furono quasi costrette a perdere, anche se non interamente, la
loro identità etnica e ad amalgamarsi nel contesto sociale del luogo, agevolate in questo anche dai
privilegi che Placido Imperiale accordò loro nel 1761.
A conferma di tanto sono le dichiarazione rese da Giuseppe Teodoro diversi anni dopo in un
atto notarile, secondo il quale «dalla venuta che fecero d’Albania, colle loro fatighe ed industrie hanno
acquistati varj beni di fortuna in questa villa, che pacificamente ce l’hanno goduti insieme fino al presente
giorno»175.
Solo il 21 febbraio 1770 si celebrò il primo matrimonio tra un albanese di Poggio Imperiale e una
italiana: ebbe così inizio, per gli ex abitanti del paese delle aquile, il processo d’integrazione con la
170
ANN, notaio Gaspare Maria Martucci, Vol. 10, Anno 1761, f. 24.
171
È quanto afferma il vescovo Foschi negli atti della sua Visita.
172
ANN, notaio Gaspare Maria Martucci, Vol. 10, Anno 1761, f. 24.
173
Cfr. I. SARRO, op. cit., p. 36.
174
Stando a quando scrive Matteo Fraccacreta a p. 88 dell’op. cit.
175
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1411, Anno 1790, f. 107.
gente autoctona che fece cadere definitivamente quel muro di diffidenza, durato ben nove anni che
fece apparire gli albanesi dei soggetti «facinorosi» e «indisciplinati», come li descrive il Galanti.
Ora, quei pochi shqiptari rimasti nel poggio dell’Imperiale erano diventati umili, utili ed
industriosi coloni di un nuovo costituendo villaggio.

GLI ARBERESHE DI POGGIO IMPERIALE


Non abbiamo a disposizione documenti ufficiali che ci attestino i motivi che indussero Simone
Bubici, Giovanni Bubici, Giuseppe Teodoro e Remo Cola a non seguire, nel marzo del 1761, i loro
compagni a far ritorno nello Stato di Castro. Certamente potremmo ipotizzare che, oltre ai
vantaggi ricevuti da Placido Imperiale e il fatto di abitare in una casa, seppur modesta, e non in un
tugurio o in una capanna, come gli era capitato a Pianiano, gli albanesi abbiano scelto di restare nel
villaggio anche per porre fine alle varie peregrinazioni e ai pericoli a cui dal 1756 erano esposti.
È da notare, inoltre, che i quattro nuclei stanziatisi definitivamente a Poggio Imperiale potevano
avere tra di loro possibili intrecci di parentela (Simone, Giovanni e Domenica, moglie di Giuseppe
Teodoro, portavano il cognome Bubici, e lo stesso Simone aveva sposato, appena il mese prima,
Veneranda Cola, forse figlia o sorella di Remo), motivo che, molto probabilmente, cementò la loro
decisione.
Da un documento conservato nell’Archivio di Stato di Foggia, redatto a Poggio Imperiale il 25
settembre del 1810 dall’abate Giambattista Giaquinto, agente ripartitore dei demani incaricato dal
Regio Commissario Biase Zurlo, ricaviamo i nomi degli shqiptari giunti e stanziatisi nel villaggio
fatto sorgere, mezzo secolo prima, dal principe di Sant’Angelo.
Dal vilajet di Scutari giunsero i seguenti casati: Bubici 176, Teodoro177, Cola178 (dall’albanese Kola),
Spenza179 (dall’albanese Spenzer), Zadrima180, Natale, Maurichi o Maurizio181 (dall’albanese
Maurići), Ghina182 (dall’albanese Zina), Angina183, di Michele, Corviello184 e Fanica185.
Nella stesura del documento il Giaquinto dichiara, inoltre, che le famiglie Bubici, Teodoro,
Spenza e Maurichi furono le sole a propagarsi, mentre «delle altre esistere al presente in Poggio
Imperiale alcune femmine», sposate con italiani.
Finora «storici» e giornalisti, locali e non, hanno scritto fiumi di inchiostro sulla venuta della
gente shqiptara a Poggio Imperiale, enfatizzando esageratamente il loro insediamento nel casale.
Addirittura si vuole far credere che siano stati gli albanesi a fondare il paese.
Niente di più assurdo ed errato.
Come abbiamo appena visto, la comunità albanese stanziatasi a Poggio Imperiale, dove già
risiedevano una quindicina di famiglie del Regno di Napoli, fu molto contenuta e, col passare del
tempo, si innestò appieno nel tessuto sociale e culturale del villaggio, abbandonando addirittura
ogni qualsivoglia tradizione della loro patria lontana. Le due etnie, vivendo e lavorando a stretto
contatto, fecero prevalere sulla diffidenza lo spirito di collaborazione e di abnegazione, trovando
così il modo di fraternizzare.
I loro discendenti, da allora, non si considerarono più albanesi, ma italiani, seppur figli e nipoti
di coloro che, perduta ogni speranza di vivere liberamente la loro fede nel patrio suolo, non
esitarono ad intraprendere la via dell’esilio, rimanendo sempre uniti e fedeli alle tradizioni avite.
Per ognuno che discende da queste famiglie, oppure che ha semplici gocce di sangue arbereshe
nelle vene (come chi scrive), potrebbe sembrare assurdo e fuori luogo parlare al giorno d’oggi
d’identità, delle proprie radici. Ma mi sembra saggio e opportuno rimarcare ed esaltare le gesta e

176
Simone e Giovanni.
177
Antonio e Giuseppe.
178
Remo e Veneranda Cola, moglie di Simone Bubici.
179
Francesco.
180
Maria Zadrima, sorella di Antonio e moglie di Giovanni Teodoro.
181
Gregorio.
182
Paola Ghina (dall’albanese Gjini o Zina) prima moglie di Simone Bubici.
183
Francesca Angina moglie di Giovanni Bubici.
184
Anna Maria Corviello, moglie di Antonio Bubici figlio di Simone.
185
Lucia Fanica o Janica, moglie di Pietro Bubici e madre di Giovanni.
la conoscenza dei propri avi, per non dimenticare e anche per inculcare nei figli chi siamo e da chi
veniamo.
La storia, oltre ad essere maestra di vita, è un patrimonio culturale che non deve essere mai
cancellato dalla mente umana e, per non scordarlo, rievochiamo, seppur a grandi linee, le vicende
genealogiche di queste quattro famiglie albanesi che, nel 1761, hanno deciso di stabilire
definitivamente il proprio domicilio a Poggio Imperiale.

BUBICI
L’unico dei quattro casati albanesi presente in modo consistente ancora oggi a Poggio Imperiale
e nel circondario. Due i rami di questa famiglia propagatisi fino a noi: il primo che fa capo a
Simone, il secondo a Giovanni, entrambi giunti da Pianiano con il primo gruppo di coloni scutarini.
Partiamo dal primo. Simone, originario di Scutari o di un villaggio dei dintorni, giunse a Poggio
Imperiale insieme ai figli Antonio (deceduto nel 1768), Giacinto (1744-1804), Nicola (1747-1817),
Andrea (morto celibe nel 1766) ed Angelo (1758-1798). Nell’atto delle concessioni fatte da Placido
Imperiale agli albanesi il 18 gennaio 1761, troviamo citato Simone con il cognome, o meglio con il
soprannome, Giona (Joni) «per errore nato dal perché veniva chiamato per distinzione Simone Jon, ossia
Giovanni, ch’era il nome del di lui padre»186.
Rimasto vedovo di Paola Ghina (Zina), forse deceduta a Pianiano, il 2 febbraio 1761, nella
piccola chiesa di San Placido il sacerdote albanese don Simone Uladagni celebrò il matrimonio di
Simone, cognomizzato ancora Joni, con Veneranda Cola (passata a miglior vita il 15 aprile 1786
all’età di 80 anni circa), sua connazionale. Da questa unione nasceranno Maddalena (1763-1764) e
Maria (1765-1770); entrambe saranno dichiarate al fonte battesimale con il cognome Bubici che, dal
1763, sostituirà e soppianterà definitivamente il soprannome Giona o Joni.
Simone Bubici morì il 24 aprile del 1771 e la sua linea venne proseguita dai figli Nicola, Antonio
ed Angelo e dai nipoti Vincenzo, figlio di Nicola, e Primiano, figlio di Antonio.
Sempre a proposito di Simone, Matteo Fraccacreta, nel suo «Teatro storico poetico della
Capitanata», scrive che
«vennero intanto quegli albanesi in Poggio Imperiale con due loro greci sacerdoti,
Simone Bubici e Stefano Teodoro, ma n’emigrarono dopo un anno».
Documenti che attestino e confermino quanto riportato dal Fraccacreta non ne sono stati trovati.
Forse uno scambio di persona, oppure delle dimenticanze nel rimettere insieme le notizie assunte
in loco diversi decenni dopo, hanno condotto all’errore lo storico di San Severo e chi ne ha
riportato in seguito l’inesatta informazione. Noi riteniamo attendibile ciò che scrive il vescovo
Foschi nei suoi atti quando afferma che «delli due sacerdoti con questa gente venuti uno il meno culto
chiamato don Marco Micheli, l’altro alquanto più culto chiamato don Simone Uladagni».
È un documento coevo e quindi degno di fede.
In definitiva, nessun abito talare per Simone Bubici, ma il solo e semplice abbigliamento del
colono.
Analogo discorso per Giovanni Bubici che, molto verosimilmente, viene citato nell’atto del 18
gennaio 1761 col cognome Pietro, che era il nome del padre187. Giovanni, anch’egli nativo del vilajet
di Scutari, arrivò a Poggio Imperiale con la madre Lucia Fanica o Janica (morirà il 14 dicembre
1779 all’età di 70 circa), la moglie Francesca Ghina (lascerà la vita terrena il 28 febbraio 1817 all’età
di quasi 90 anni) e il figlio Marco (1758-1803).
Un accorto studio dei libri parrocchiali non ci permette di stabilire se tra Simone e Giovanni ci
fosse parentela, ma esaminando i vari atti e notando la partecipazione alle celebrazioni
eucaristiche, in qualità di testimoni, di persone appartenenti ai due rami della famiglia Bubici, si
può supporre che tra i due ci fosse consanguineità. Tra l’altro, rileggendo l’atto del 18 gennaio
1761, il notaio Martucci elenca i due capifamiglia in modo sequenziale: prima cita Simone e poi
Giovanni, come se stesse a confermare che tra loro ci fosse frequentazione e collaborazione.

186
ASF, Atti Demaniali, B. 95, f. 33.
187
Cfr. ARCHIVIO PARROCCHIA DELLA SS. ANNUNZIATA DI LESINA, Libro dei Battezzati Tomi III e IV, Atto del 12
dicembre 1781.
Comunque, nel poggio dell’Imperiale la famiglia di Giovanni Bubici si ampliò con la nascita di
Nazario (1765-1770), Ignazio (1768-1829), Maria (1770-1835) e Rosa (1771-1825). Marco, coniugato
con Elisabetta Supino, e Ignazio, sposato a Caterina Lentinio, saranno coloro che assicureranno la
posterità alla linea di Giovanni, deceduto il 9 gennaio 1784 all’età di circa 50 anni.
Oggi la famiglia Bubici è presente in trentasette comuni italiani, la maggior parte di questi
nuclei hanno le proprie radici che li riportano ai capostipiti dei due rami arbereshe di Poggio
Imperiale.

MAURIZIO OLIM MAURICHI (dall’albanese MAURIĆI)188


È l’altro casato giunto fino ai giorni nostri. Matteo Fraccacreta, nell’opera citata, scrive che la
famiglia Maurichi189, già presente nel 1670 a Faggiano, nel tarantino, e a Portocannone, in Molise,
nella variante Mauricchio, giunse a Poggio Imperiale proveniente da Barletta, e che Gregorio
Maurizio, morto il 3 gennaio 1832 all’età di 60 anni, lasciò il figlio Michele e tre femmine.
Confrontando gli atti dei libri parrocchiali con quanto affermato dallo storico di San Severo,
effettivamente attestiamo la presenza a Poggio Imperiale nella prima metà dell’800 di Michele
(1817-1866) e delle sorelle Maria, Antonia e Maria Michela, germani di Gregorio Maurizio, figlio a
sua volta di Nicola e Maria Fusco, albanesi.
Non sappiamo con certezza scientifica quando questa famiglia fece il suo arrivo a Poggio
Imperiale; la sua presenza è, comunque, certificata per la prima volta in documenti ufficiali il 3
giugno 1796, giorno in cui, nella chiesa dell’Annunziata di Lesina, Gregorio Maurichi contrasse
matrimonio con la terranovese Lucia Angiolella (1773-1826), figlia di Salvatore e Teresa Carrera,
coniugi oriundi di Giuliano di Lecce.
Gregorio era originario di Pintari, l’attuale Pentari, villaggio situato nel distretto di Scutari sulle
rive del fiume Boiana, oggi frazione del comune di Dajç, all’epoca abitato prevalentemente da
cattolici. Pentar sorge a pochi chilometri dal porto di Ulcigno da dove, nel 1756, gli albanesi si
imbarcarono per raggiungere le sponde italiane.
Inoltre, dall’analisi del libro dei battezzati della chiesa di Lesina, troviamo un Antonio
Maurichi, anch’egli originario dell’odierna Pentari, che compare in un atto di battesimo del 21
novembre 1797, epoca in cui l’arciprete della chiesa dell’Annunziata di Lesina, don Rocco de
Marco, somministrò il sacramento ai suoi due gemelli Nicola Felice (che morirà celibe il 4 febbraio
1820) e Maria Giuseppa (deceduta il 4 febbraio 1798), nati dall’unione con la sua seconda moglie
Angela Papagna o Iurapapagno, anch’essa di origine albanese. Antonio, che ebbe come prima
moglie Maria Mida, morirà a Poggio Imperiale l’8 ottobre 1798 all’età di 70 anni circa.
L’indagine genealogica, condotta sui libri parrocchiali delle chiese di Poggio Imperiale e Lesina
e nell’archivio comunale di Poggio Imperiale, non chiarisce se tra Antonio e Gregorio Maurichi ci
fossero vincoli di parentela. O anche, vista la differenza di età, se Gregorio fosse nipote di Antonio.
Resta il fatto che entrambi portavano il cognome Maurichi ed entrambi erano albanesi originari
dell’antica Pintari.
Nel 1802 il cognome Maurichi venne trasformato in Maurizio, anche se fino al 1814 gli
appartenenti a questa famiglia verranno distinti con entrambe le varianti.
Il 16 ottobre 1879, Gregorio Maurizio (1858-1904), sesto ed unico vivente dei sette figli del
predetto Michele ed Emidia Mazzarella, sposò a Lesina Anna Maria Alfieri, dando avvio al ramo
lesinese dei Maurizio ex Maurichi con la nascita di Alfonso (1883-1939), Matteo (1886-1960), Maria
Libera (1893-1971) e Leonardo (1901-1983) che, seppur coniugato con Anna Antonia D’Apote, non
ha avuto discendenza.
Molto fiorente, al giorno d’oggi nella cittadina lagunare, il ramo terranovese della famiglia
Maurizio, proseguito nelle linee di Alfonso e Matteo.

188
Ringrazio l’amico Antonio Maurizio per la fattiva collaborazione.
189
Un sacerdote, don Giorgio Maurichi, nel 1671, era parroco della chiesa di Santa Eufemia della villa di
Calameti, diocesi di Alessio. «È difettoso, e trascurato nel non insegnare la Dottrina Christiana alli Parrocchiani. È
stato per il passato di vita licenziosa con una donna già morta. Adesso si è rimesso, na da buon’esempio, legge
aliqualiter [non a modo], e non intende, non ha amicitia con Turchi.» Cfr. P. BARTL, Albania Sacra, Geistliche
Visitationsberichte aus Albanien, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2007, Vol. 1, p. 114.
Oggi alcuni posteri di Gregorio, seppur lesinesi, ma dalle chiare origini arbereshe-terranovesi,
sono presenti a Poggio Imperiale: Anna, coniugata con Pasquale Pagliarella, e Lucia, che ha
sposato Giacomo Caruso, figlie di Gregorio (1915-1984); Anna Maria, moglie di Giuseppe Nista, e
Grazia, figlie di Michele (1920-2010).
La famiglia Maurizio o Maurichi si estinse a Poggio Imperiale con Maria, figlia di Michele ed
Emidia Mazzarella, morta il 26 settembre 1868 all’età di diciotto anni.

SPENZA OLIM SPENSER (dall’albanese SPENZER)


Famiglia originaria di Ulqini, oggi Dulcigno in Montenegro, da dove Francesco Spenser, come lo
chiama il Fraccacreta nel suo Teatro, giunse a Poggio Imperiale prima del 1766 con i figli Giovanni,
Margherita e Leonarda. Italianizzato fin da subito il cognome, gli Spenza si sono innestati ben
presto nel tessuto sociale di Poggio Imperiale; dato confermato dai matrimoni contratti dalle donne
con due terranovesi: Margherita (1747-1817) diventò la moglie di Tommaso Focarete, mentre la
sorella Leonarda (1761-1824) sposò Angelo Antonio Simeone. Giovanni (1745-1780), invece,
restando fedele alle proprie origini, combinò le nozze con Maria Zadrima (1748-1813), sua
connazionale di Scutari, giunta a Poggio Imperiale nel 1761 con la prima colonia albanese insieme
al fratello Antonio.
Dopo la morte del capostipite Francesco, avvenuta il 16 marzo 1772, di Giovanni e del figlio di
questi Francesco, deceduto il 7 settembre 1808 senza prole, la presenza degli Spenza a Poggio
Imperiale si è conservata grazie a Domenico, altro figlio di Giovanni, la cui moglie Rosaria
Nardella diede alla luce, il 23 marzo 1798, Giovanni, morto celibe nel 1817, e Pasquale il 24 maggio
1801 (morto il 24 dicembre 1828 all’età di 27 anni). Quest’ultimo sposò Antonia Malerba, dalla cui
unione nacque Concetta, con la scomparsa della quale, avvenuta il 14 giugno 1894, si estingue il
ramo terranovese della famiglia Spenza.

TEODORO
Quarta ed ultima famiglia albanese del vilajet di Scutari che ha avuto ramificazione tra Poggio
Imperiale e Lesina.
Giuseppe Teodoro arrivò a Poggio Imperiale con la moglie Domenica Bubici (1702-1802) e i figli
Nicola (1743-1803), Pietro (1748-1781), Andrea (1759-1803) e tre femmine.
La ricerca fin qui condotta non ci ha consentito di individuare l’anno esatto del loro arrivo. Ci
soccorre il Fraccacreta, che annota come tal Stefano Teodoro, sacerdote greco, giunse con il primo
gruppo di shqiptari nel 1761.
Fermo restando il discorso fatto per Simone Bubici sui nomi dei due preti giunti nel poggio, non
sono state rinvenute tracce della presenza, o del passaggio, a Poggio Imperiale di Stefano, anche se
i Teodoro decisero di piantare le tende nel costituendo villaggio.
Ma un dato di fatto bisogna riconoscere ai Teodoro d’Albania: furono la prima famiglia a
celebrare un matrimonio con una italiana, aprendo una breccia in quel muro di ostinazione che
separava scutarini e terranovesi.
La fatidica data che diede l’avvio all’avvicinamento delle due etnie è il 21 febbraio 1770. Quel
giorno il poco più che ventenne Pietro Teodoro sposò, nella chiesa di Lesina, Fortunata Florio
(1753-1793) con la quale generò Stefano, morto fanciullo il 13 settembre 1772, e Domenica,
deceduta il 9 giugno 1834 all’età di 54 anni, coniugata in prime nozze con Nicola Vito Colella e,
rimasta vedova, con Nicola Berardi.
Il 20 aprile 1781 morì Pietro, che svolgeva l’incarico di curatore dei beni del lesinese Paolantonio
di Napoli, lasciando la moglie incinta al terzo mese di gravidanza. Al termine della gestazione la
donna, il 31 ottobre, partorì un maschietto a cui pose lo stesso nome del padre, Pietro.
Singolare la vicenda di Fortunata Florio che, rimasta vedova e con quattro figli da crescere,
viene «consolata» in maniera alquanto morbosa dal cognato Nicola. I due, vivendo sotto lo stesso
tetto, instaurano un rapporto che va al di là della parentela, dal quale il 30 aprile 1784 nacque
Caterina Veneranda.
Per mitigare le ire in casa Teodoro arrivò il matrimonio riparatore, celebrato nella chiesa di San
Placido pochi mesi dopo la nascita della bambina, esattamente l’11 agosto.
Ufficializzata l’unione, la coppia generò altri quattro figli: Maddalena (1786-1804), che sarà la
moglie di Francesco Braccia; Felice (1788); Anna (1791-1795) e Ferdinando, la cui nascita, avvenuta
il primo novembre 1793, causerà gravi conseguenze di post parto alla puerpera, tanto da condurla
alla morte, avvenuta il 6 dello stesso mese. Due giorni dopo si spense anche il piccolo Ferdinando.
Nicola abbandonò la vita terrena il 9 gennaio 1803 all’età di 60 anni e la sua linea genealogica fu
proseguita da Felice che, dopo aver sposato a Lesina Angela Maria Caranese, si trasferì in riva al
lago principiando il ramo lesinese dei Teodoro.
Anche l’ultimo dei maschi di Giuseppe, Andrea, sposò una lesinese, Maria Florio, cugina di
Fortunata, dalla quale ebbe sette figli, tra cui Carmine Pietro (1785-1816) e Giuseppe (1789), che
hanno continuato la linea del genitore; il primo a Poggio Imperiale, il secondo a Lesina.
Ai due fratelli figli di Giuseppe è collegato un singolare aneddoto che spinse il genitore a
dividere i propri beni in quanto «è insorta discordia fra Andrea e Nicola Teodoro per mezzo delle
rispettive loro mogli, per cui non si può tirare avanti l’unione» 190.
Alla famiglia Teodoro è anche legato uno spiacevole episodio; un omicidio perpetrato ai danni
proprio di Pietro, figlio di Andrea. Ma vediamo cosa accadde.
La sera del 26 aprile 1816 a casa di Luigi Impagliatella fu organizzata una cena cui
parteciparono Domenico Di Maria, Giuseppe Vietri, lo stesso Pietro Teodoro e Venanzio
Savocchia, pastore originario di Campo di Giove al servizio del cavalier Ricciardi.
Al termine della cena, nel far rientro a casa in via Palazzina, il Teodoro venne colpito alle spalle
da una schioppettata esplosa inaspettatamente dall’Impagliatella. Siccome erano tempi in cui nel
paese si andava «tutti provveduti di schioppo», la vittima, nonostante il colpo ricevuto, reagì, ferendo
ad un braccio il Vietri. A quel punto sparò anche il Di Maria, che scaricò il suo schioppo su Pietro
Teodoro provocandogli una ferita mortale causata da un proiettile che, conficcatosi «tre dita
discosto dalla spina», fuoriuscì «passando per la cavità dell’addome nella parte anteriore, a destra della
regione ombelicale»191.
L’atto di morte, redatto dall’economo curato della chiesa di San Placido, attesta che
«è morto di morte violenta Pietro Teodoro d’anni ventisette ad ore dieci marito di
Santa Barone. Gli sono stati somministrati tutt’i Sagramenti, ad eccezione della
Comunione a cagione del continuato vomito; ed è stato assistito al ben morire da
me qui sottoscritto e si è seppellito in questa Chiesa di San Placido martire in
presenza di Luca Lentinio, e Placido d’Agostino. In fede Donato Morelli economo
curato».
Due furono i moventi dell’omicidio su cui indagarono gli inquirenti: il primo supponeva che il
Teodoro insidiasse l’onore dalla moglie dell’Impagliatella192, con il quale pare fossero «compari»; il
secondo, invece, ipotizzava che la vittima fosse stata l’autore dell’uccisione di Antonio Di Maria,
fratello di Domenico, «ritrovato ucciso in campagna» il 28 gennaio 1809, il cui assassino non fu mai
scoperto. Stando alle indiscrezioni che circolavano in paese, sembra che i tre avevano concertato di
uccidere l’oriundo albanese per una sopravvenuta «inimicizia tra loro».
Altre voci, invece, accusavano del delitto del Teodoro, «Giuseppe di Paolo193, Nicola Lentinio194 e
Pietro Calzone, i quali erano celebri assassini che poi l’uno dopo l’altro morirono uccisi» 195.
Le indagini per l’omicidio di Pietro Teodoro portarono all’arresto e alla successiva condanna di
Giuseppe Vietri e Domenico Di Maria, mentre Luigi Impagliatella si rese latitante.
Oggi la famiglia Teodoro è estinta sia a Poggio Imperiale che a Lesina

190
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1411, Anno 1790, f. 107.
191
ASL, Gran Corte Criminale di Capitanata, B. 20, F. 377.
192
Ibidem.
193
Marito di Tommasina Calzone, «morto ammazzato» il 2 agosto 1809 all’età di 30 anni circa.
194
«Morto ucciso, e propriamente trovato in campagna» il 19 marzo 1812 all’età di 32 anni. Era marito di Maria
Michela Caroppi.
195
ASL, Gran Corte Criminale di Capitanata, B. 20, F. 377.
CAPITOLO V

LA VISITA AD LIMINA DEL VESCOVO FOSCHI


Domenica 22 marzo dell’anno 1761. È giorno di Pasqua. Il sacerdote don Simone Uladagni
celebra nella chiesa di San Placido il rito che rinnova la Resurrezione di Nostro Signore.
Il piccolo oratorio riesce a contenere nel suo interno quasi tutti gli abitanti del villaggio che, ora,
conta appena una ventina, o poco più, di famiglie.
La Santa Messa è celebrata in un misto di latino, italiano e albanese, anche se di fedeli del paese
delle aquile ve ne sono pochi; don Simone è poliglotta, parla abbastanza bene l’italiano per averlo
studiato nel Collegio Illirico di Loreto. Lui lo fa per questione di campanilismo, per essere vicino ai
suoi connazionali. Non si sarebbe mai aspettato che il grosso della colonia, intrisa all’inizio di
entusiasmo e nonostante i cospicui aiuti concessi da Placido Imperiale, avrebbe lasciato il casale
dopo appena un mese dal suo arrivo.
Ma ormai il fatto è compiuto, bisogna andare avanti e fare in modo che la gente shqiptara si
integri con quella italiana; un processo dai risvolti complicati, culminati con l’omicidio di uno
scutarino, ma non impossibili.
Alcune settimane dopo le festività pasquali di quell’anno un avvenimento ravviva l’austera vita
del piccolo villaggio: una carrozza, proveniente dalla strada che conduce ad Apricena, «trainata da
pacifiche mule», giunge a Poggio Imperiale.
La vettura è occupata da alcuni religiosi tra cui un personaggio importante: è il vescovo di
Lucera, Giuseppe Maria Foschi, in visita pastorale nei paesi della sua diocesi.
Sono trascorsi già due anni da quando l’ex Vicario generale della diocesi di Benevento è stato
nominato titolare della cattedra vescovile della città dauna e, venuto a conoscenza di ciò che
Placido Imperiale sta realizzando a poche miglia da Apricena, dove il prelato ama fermarsi più a
lungo per l’amenità del luogo e la salubrità dell’aria, spinto anche dalla curiosità, decise di recarsi
nel nuovo villaggio, seppur non appartenente alla sua giurisdizione ecclesiastica, ma a quella di
Benevento, per rendersi conto de visu dell’opera che il principe di Sant’Angelo sta portando a
compimento.
Il vescovo, accompagnato da un «honesto e necessario comitatu»196, ha così «l’onore e la sorte di fare
la prima Santa Visita in questo nascente paese di Poggio Imperiale e in questa nuova chiesa di San Placido
Martire» e ritiene opportuno, «per futura memoria, brevemente accennare l’origine e la costruzione del
paese e della chiesa e la venuta qui delle famiglie italiane et albanesi, accadendo sovente che le notizie in
alcuni tempi trascurate, siano poi in altri tempi avidamente ricercate» 197.
Anche se «qualcuno» non li prende in debita considerazione, gli atti redatti dal segretario del
vescovo Foschi rappresentano una preziosa testimonianza sulle origini di Poggio Imperiale e sul
suo successivo popolamento.
L’eccezionale documento198, fondamentale per gli studiosi di storia patria, è suddiviso in quattro
parti: nella prima è descritta la fondazione del paese; la seconda, invece, è una relazione attenta
dello stato della chiesa di San Placido, completa di «catalogo della suppellettile altaristica e messale»;
nella terza sono riportate le ordinanze emanate dal prelato per il completamento dell’oratorio; la
196
G. ROCERETO, Monsignor Giuseppe Maria Foschi, caiatino, Vescovo di Lucera (1759-1776), Edizioni «Il Centro»,
Lucera (FG) 1991, p. 50.
197
ADL, Sante Visite Pastorali, BB. nn. 6 N° 41, Atti della santa Visita di monsignor Giuseppe Maria Foschi, Poggio
Imperiale, cc. 99, Anno 1761, f. 1.
198
Conservato nell’Archivio della Diocesi di Lucera, il fascicoletto, rilegato sul dorso, si compone di diciotto
fogli, per complessive quindici facciate, non numerati, ma che noi numereremo per una più rapida
individuazione delle fonti. Sul primo foglio sono scritti il titolo (Visita di Poggio Imperiale) e il sottotitolo
(Giuseppe Mª Foschi per la grazia di Dio, e della S. Sede Apostolica Vescovo di Lucera, e Visitat.[or] e). Dopo una
breve premessa iniziale, il manoscritto prosegue con la cronaca dell’Origine di Poggio Imperiale, e venuta
dell’Italiani, ed Albanesi (f. 1), la descrizione della Chiesa di S. Placido Martire (f. 9), del Catalogo Della
Suppellettile Altaristica, e Messale (f. 10), i Decreti (f. 12) e la Visita personale (f. 15). Il corpo del testo, redatto in
corsivo, appare chiaro, leggibile e ben giustificato. Sui fogli 15 e 16 si notano delle correzioni e delle aggiunte
apportate dallo stesso estensore. Su più fogli compaiono delle minute macchie di umidità scolorite che non
intaccano minimamente la lettura del testo, integro in ogni sua parte.
quarta ed ultima parte contiene le impressioni ricavate dal Foschi nella sua «visita personale», le
quali non sono altro che delle prescrizioni impartite nei confronti del sacerdote don Simone
Uladagni.
Ma analizziamo, nella sua integrità, ciò che ci tramanda il pastore lucerino.
Nella parte relativa alla fondazione del paese egli scrive:
«Volendo l’Eccellentissimo Signor don Placido Imperiale, principe della città di S.
Angiolo Lombardi ed utile Signore della città di Lesina, edificare un novello paese e
denominarlo col nome della di lui famiglia, elesse una boscosa collina dalla parte di
mezzo giorno, volgarmente chiamata Coppa di Montorio, circa miglia due distante
da Lesina e quattro d’Apricena, ed avendola prima ridotta a coltura ed indi
edificate piccole case, ma con buona situazione e semetria, nel mese di maggio poi
dell’anno 1759, ad esempio de’ fondatori dell’antiche città, v’invitò chiunque
volesse venirci ad abitare promettendogli abitazione franca per tre anni, ed allora
cominciò a chiamarsi Poggio Imperiale; ed infatti vi concorsero prima da circa
quindeci famiglie di diversi paesi, cioè di San Marco in Lamis, di Bonifaro
[Bonefro], di Portocannone, di Foggia, di Bari e di Francavilla, e perché sul
principio non vi era chiesa, andavano a sentirsi la Messa chi in Lesina e chi in
Apricena, la quale poi fu benanche edificata e, colla licenza dell’Arcivescovil Curia
di Benevento, fu benedetta nel mese di marzo dell’anno 1760.
Nel mese di Gennaro poi dell’anno 1761 venne ad abitarci una colonia di circa
novanta albanesi tra uomini, donne, e ragazzi, partita da Scutari nell’Albania
Turca, la quale insieme colla città di Antibari, Dulcigno, Durazzo, Tristi, Alessio,
ed altre ritrovansi dal 1571 sotto il miserabile giogo della potenza Ottomana, come
espone il senatore Giacomo Diedo nella sua Storia della Repubblica di Venezia al
tomo 2. libro 7. riferito da Benedetto XIV Boll. Tom. 3. fol. 452; e si partì questa
colonia, perché temeva che finalmente, o loro, o la sua posterità non rinnegassero la
Santa Fede Cattolica, giacché vedevano che gli altri loro parenti, amici e paesani,
non potendo più tolerare li soliti insopportabili tributi e calunnie dell’ingordi e
buggiardi Ottomani, andavano giornalmente abbracciando la Setta Musulmana, in
modochè, siccome prima erano colà tutti cristiani, al presente son quasi tutti
divenuti turchi.
In una notte dunque del mese di gennaro 1757 imbarcatisi detta colonia dentro di
una marsigliana in Aravia, piccolo villaggio due miglia da Antibari lontano, e
navigando l’Atriatico a vento contrario, tra il fatigoso spazio di trentatrè giorni,
giunsero al Porto di Ancona, nel di cui lazzaretto fecero la quarantana, avendo il
Sommo Pontefice Benedetto XIV somministrato a tutti gli alimenti e le vesti; ed
usciti dal lazzaretto, si trattennero circa altri venticinque giorni in Ancona, e
finalmente col Pontificio permesso passarono ad abitare nel castello di Pianiano,
Diocesi di Acquapendente, in cui dalla Pontificia munificenza furono impiegati a
coltivare quel terreno, dando loro bovi, vacche, strumenti rusticani, massarizie di
casa, ed un Paolo al giorno per ciascuno fusse grande, o piccolo, fusse maschio, o
femina, col semplice peso però di corrispondere mezzo tomolo di grano per ogni
rubio di terreno che seminavano.
Ma perché l’aere di Pianiano non fu loro molto salubre, per essere troppo vicino al
mare, et in notabile bassezza tutto scoverto dalla banda di mezzo giorno al mare
stesso, e perché doveano bere acqua poco buona, si ammalarono quasi tutti, che tra
breve tempo ne morirono settantasei; ond’è, che nel mese di novembre dell’anno
1760, col permesso del regnante Sommo Pontefice Clemente XIII, ne partirono
imbarcandosi nel porto di Civitavecchia in una tartana napoletana, e giunti nella
città di Napoli, vi si trattennero circa cinquanta giorni, ove furono dall’anzidetto
Signor Principe Imperiale invitati a dimorare nel cominciato paese di Poggio
Imperiale, e per allettarveli, promise loro…».
Fin qui la rendicontazione, molto chiara e preziosa ai fini storici, del vescovo Foschi, che non
riporta, forse involontariamente o perché il documento è mancante di una pagina o di un allegato,
le capitolazioni fatte da Placido Imperiale agli scutarini il 18 gennaio 1761.
La testimonianza del prelato caiatino prosegue con la descrizione del carattere e del contesto
sociale della gente albanese:
«Questa nazione è di natura robusta ed industriosa, atta e dedita alla fatiga per
procacciarsi il vitto; è di buon costume, fuggendo li giuoghi, e le bettole; è inclinata
alla pietà, spesso frequentando i Sagramenti della Penitenza ed Eucarestia,
assistendo con somma venerazione, et edificazione alla Chiesa, alla Messa, alla
Predica, ed ad altre Ecclesiastiche funzioni. Le donne sono molto modeste, niente
conversando colli uomini, mai alzando gli occhi dalla terra, e portando vesti che le
copriscono tutte: non regna nella medesima nazione il vizio del furto, della
bestemmia, e soprattutto dell’incontinenza, che sarebbe irremisibilmente dalli
parenti della donna vendicato col sangue, per essere gente, quantunque docile, et
obbediente, sommamente però vendicativa contro chiunque facesse loro menoma
offesa o danno, per il di cui effetto son tutti ben armati alla turca di stili, di spade,
di spadoni, e di schioppi assai lunghi, seco sempre portando una padroncina a
fianco con ottanta, e novanta cartocci.
Sono però estremamente poveri, poiché a riserba delle menzionate armi, e di pochi
stromenti rusticani, molti neppure aveano le corone, recitandosi il SS.mo Rosario
chi su le dita, e chi su li bottoni, giacché nel fuggirsene da Scutari furono costretti
abbandonare quanto aveano case, vigne, bovi, vacche, pecore, giumenti, ed altro.
Vivono col Rito Latino, servendosi del Messale, Breviario e Rituale Romano;
solamente il sacerdote celebrando la Messa dopo letto il Vangelo Latino, l’espone in
lingua albanese al popolo, cosa peraltro che Lodovico Muratori con encomio
riferisce di avere anche osservato in alcuni paesi della Germania, e quando nella
Messa dispensa la S. Eucarestia, l’Ecce Agnus Dei e’l Domine non sum dignus lo
proferisce nella medesima loro favella: amministrando poi li Sagramenti del
Battesimo, e del Matrimonio le sole orazioni le dice in latino, il Pater noster, l’Ave
Maria, il Credo e tutte l’interrogazioni le dice in albanese. Nel Matrimonio vi è
dippiù il rito, che quando il prete proferisce le parole “Ego coniugo vos in
matrimonium”, liga colla stola le mani di entrambi li sposi. E finalmente
nell’esequie de’ morti dopo cantato ciascuno de’ tre “Kyrie eleison”, e detto sempre
il Pater noster in lingua albanese, rivolto il prete al popolo, l’esorta che preghino
Dio per l’anima di quel defonto, dicendo un Pater, ed un Ave, acciò l’abbia in
paradiso, la quale godendo con tutti li Santi la bellezza di Dio, possa anche pregare
per essi.
Vogliono anche vivere alla foggia delle vere antiche colonie, cioè colle proprie leggi
albanesi, pretendendo di non riconoscere, né governatori, né mastro d’atti, né
sbirri; ond’è, che le loro cause si civili, come criminali senza formar processo, dar
difese, ed udire giudiziarie giustificazioni, vengono a similitudini delli primi secoli
della Chiesa decise avanti del loro prete, e di tre vecchioni, che in loro lingua
diconsi “Pleck” eligendi da ciascuno casato: e quando uno de litiganti giura in
mano del prete sopra l’evangelo, è terminata la causa.
Delli due sacerdoti con questa gente venuti, uno il meno culto, chiamato don
Marco Micheli della villa di Bria Diocesi di Scutari, perché l’aere di Lesina gli era
alla salute nociva, insieme con una partita di albanesi se ne andarono nel mese di
febraro di questo anno 1761 ed è rimasto l’altro alquanto più culto, chiamato don
Simone Uladagni, nato nella città di Scutari d’anni circa 37, il quale in età d’anni
14 fu condotto nel Collegio Illirico di Loreto, ove fu istruito nelle scienze, siccome
rilevasi da un rescritto della Sacra Congregazione di Propaganda sotto li 20
settembre 1760, indi ritornò in sua padria a fare le Sacre Missioni, e fu nell’anno
1750 promosso al presbiterato: porta questo prete li Testimoniali de Vita et
Moribus di Monsignor Uladagni Arcivescovo di Antibari sotto li 7 luglio 1755, di
Monsignor d’Alessio Vescovo di Alessio sotto li 4 giugno 1757, di Monsignor
Padovani Arcivescovo di Durazzo sotto li 10 giugno 1757, e finalmente
dell’Eminentissimo Signor Cardinale Spinelli Prefetto della Sacra Congregazione
di Propaganda sotto li 10 settembre 1760».
Con i nomi dei due sacerdoti giunti con gli scutarini nel casale, le cui vicende abbiamo già
trattato nei precedenti paragrafi, termina la prima parte del documento; nella seconda l’estensore
descrive la chiesa di San Placido:
«Questa chiesa è situata colla porta a settentrione, la di cui lunghezza è di palmi
cinquanta e mezzo, la larghezza di palmi venticinque e l’altezza di palmi venti; è
coverta a tetto, non avendo né volta, né suffitta; le toniche delle pareti sono rozzi ed
ondeggianti, tiene una fenestra sopra della porta, un’altra dal lato dell’epistola e tre
dal lato del Vangelo: il pavimento è di mattoni rustici e mal composti; evvi in
mezzo della chiesa una sepoltura con lapide rozzamente lavorata, la porta è di
pietra, qui chiamata “gradinata”, larga palmi sei ed alta palmi undici.
Fu edificata nel’anno 1759 a spese dell’Eccellentissimo Signor Principe don
Placido Imperiale, utile Signore di Lesina, e nel mese di marzo dell’anno 1760 per
commissione della Reverendissima Curia Beneventana fu benedetta da don Felice
arciprete [di] Lullo, e perché non ancora l’è stata assignata la propria dote è tenuto
perciò il suddetto Signor Principe a contribuire in tutte le spese per la riparazione
o fabrica e per le Sagri Suppellettili.
L’altare è posto di contro alla porta, formato di rozzissima fabrica, tiene un gradino
e la predella di legno; la pietra sagra, in cambio di risaldare dal piano della Mensa,
tanto che possa conoscersi dal tatto, è al piano suddetto sottoposta più di due dita.
Nel quadro dell’altare vi è dipinta l’immagine di Maria Santissima Vergine col
Bambino in braccio, e di San Placido Martire, la cui festività celebrasi a 5 ottobre,
il qual quadro, per essere perfettamente quadro, cioè palmi sei largo, e palmi sei alto
è perciò senza proporzioni.
Sopra il muro del corno del Vangelo stà costruito un piccolo campanile con una
campanella di circa rotoli cinquanta, che da dentro la chiesa vien sonata.
Nel corno dell’Epistola vi è situato un mezzo confessionile, senza che dalla parte
del penitente vi sia l’imagine del Santissimo Crocefisso, e dalla parte del confessore
le tabelle de’ casi riserbati alla Santa Sede ed all’Ordinario.
Non ha questa chiesa né sagrestia, né armario, possiede bensì la seguente sagra
suppellettile altaristica e messale da Noi approvata».
Omettiamo di riportare il catalogo delle suppellettili e i decreti che imponevano al principe, «fra
‘l termine di sei mesi», di completare i sacri arredi per la chiesa.
Passiamo alla quarta ed ultima parte del documento. Nella «visita personale» monsignor Foschi
esamina l’operato di don Simone Uladagni nei tre mesi di attività parrocchiale ed emette nei
confronti del prete albanese delle drastiche disposizioni con le quali gli vieta praticamente di
svolgere tutte le funzioni religiose. Ecco le disposizioni del prelato:
«Essendo con somma ammirazione pervenuto a nostra notizia, che l’anzidetto
prete Simone Uladagni di Scutari nell’Albania Turca cappellano della suddetta
Chiesa di San Placido Martire in Poggio Imperiale francamente eserciti tutti li
Jussi, e le Funzioni Parrocchiali tanto in Chiesa e nel paese, quanto nelle persone
di nazione italiana, et albanese, amministrando il Sagramento della Penitenza,
assistendo a Matrimoni, portando il SS.mo Viatico, e l’Estrema Unzione
all’infermi, dando sepoltura a morti, facendo pubbliche processioni, ed altre
impertinenti funzioni: quindi per opportunamente ovviare a sì gravi disordini,
abbiamo stimato di ordinare:
che non possa per l’avvenire detto prete Simone Uladagni ascoltare le confessioni
in Poggio Imperiale, né altrove, senza l’espressa licenza dell’Ordinario, essendo
così stato determinato dal Concilio Tridentino nella Sessione 23 al Canone 15;
mossi però da dura necessità, gli accordiamo per mesi sei la facoltà di confessare li
soli albanesi, come quelli, che o poco, o niente intendono l’italiana favella, e che tra
mentre debba con ogni studio apparecchiarsi all’esame, avendolo ritrovato molto
scarso nella morale.
Né tampoco più ardisca detto prete Uladagni congiungere alcuno in matrimonio,
poiché dal Sacro Concilio Tridentino tutti li matrimoni che si fanno da fedeli senza
la presenza del Parroco, o d’altro sacerdote è abbia da esso, o dall’Ordinario la
licenza di assistere al matrimonio, e di due o tre altri testimonj, sono nulli et
invalidi: noto è a tutti il Cap. 17 della Sessione 24 de Refor. Matrim et il Rituale
Romano de Sacram. Matrim. Praesertim vero: ed abbenchè il matrimonio in cui
egli intervenne a 2 febraro di quest’anno 1761 fusse tra due albanesi, e cioè tra
Simone Joni, e Veneranda Coleja, pure in tal caso per proprio Parroco deve
intendersi quello nella cui Parrocchia il matrimonio si celebra, che in Poggio
Imperiale è l’Arciprete di Lesina.
Ordinandosi nel Cap.to Nullus de Parochis, che debbano tutti li parrocchiani
ricevere li Sagramenti dal proprio curato, il che oggi, secondo l’universale
consuetudine della Chiesa, riducesi all’Eucarestia nella Pasca, al Viatico in morte,
ed all’Estrema Unzione, ed avendo detto prete Uladagni nella passata Pasca fatto,
non solamente agli albanesi, ma benanche all’italiani dimoranti in Poggio
Imperiale, adempiere il Precetto dell’annua Communione in detta Chiesa di San
Placido, ed avendo altresì amministrato il Sagramento dell’Estrema Unzione a
diversi moribondi, ordiniamo perciò, che per l’avvenire si astenghi da tali attentati
sotto quelle pene, che meglio sembreranno all’Illustrissimo, e Reverendissimo
Monsignor Arcivescovo di Benevento, e sua Reverendissima Curia.
Consegni immediatamente detto sacerdote Uladagni il vase dell’Olio dell’Infermi
alla Chiesa Arcipretale di Lesina, ove decentemente deve conservarsi, siccome vien
disposto da San Carlo Borromeo nel Concilio III Provinciale di Milano; ed il
Vescovo Resta nel cap. 13 de Directione Visitatoris è di parere che li Sagri Olei
debbano conservarsi presso l’Altare del Santissimo Sagramento, acciocchè quella
stessa lampana, che rende culto al Santissimo, lo renda anche a Sagri Olei; e Noi
abbiamo colli propri occhi veduti, ch’el suddetto prete Uladagni tenga dett’Olio in
una stanza terrena, in cui egli dorme, e cucina, e lo pone fra li stigli di cucina, e frà
altre vili massarizie di casa.
Avendo il Sommo Pontefice Leone X nel Concilio Lateranense Const. 22 Dum
intra 13 ordinato, che a soli parrochi, e non ad altri spettasse dare sepoltura a
propri parrocchiani, al che corrispondono l’universale consuetudine della Chiesa, e
li replicati Decreti delle Sagre Congregazioni de’ Vescovi, e Regolari, e de’ Sagri
Riti; ed avendo detto prete Uladagni a 21 febraro 1761 data sepoltura a Maria
Pietri albanese, a 23 detto a Marco Villani albanese, a 24 detto ad Alessandra
Vocale italiana, a 29 detto ad Antonio Capassi albanese, a 4 aprile a Domenico
Vocale italiano, a 11 detto a Domenico Jacu albanese, a 16 detto a Veneranda Pali
albanese, vogliamo perciò che per l’avvenire si astenghi di levare qualsivoglia
defonto senza l’intervento dell’Arciprete di Lesina, nel ristretto della di cui
Parrocchia è sito il novello paese di Poggio Imperiale.
Si astenghi per l’avvenire detto sacerdote Uladagni di far pubbliche processioni,
senza averne prima impetrata la necessaria licenza dell’Illustrissimo, e
Reverendissimo Monsignor Arcivescovo di Benevento, e della sua Reverendissima
Curia; la quale, quando averà ottenuta, le facci colla dovuta decenza, e non già
siccome ha pratticato per il passato, essendo egli andato nelle processioni senza li
necessari segni di religione, senza croce astata, senza cotta, senza veruno altro
ecclesiastico, e senza nemmeno il chierico parrocchiale».
Non c’è alcun bisogno di commentarli questi durissimi provvedimenti, molto chiari nella loro
esposizione, impartiti dal vescovo di Lucera al cappellano albanese della piccola chiesa di Poggio
Imperiale, in base ai quali quest’ultimo non poteva assolvere più ad alcuna funzione religiosa.
Pertanto, vedendosi vietato di poter svolgere normalmente il suo ministero, forse perché non
autorizzato dall’arciprete di Lesina, don Simone Uladagni, molto probabilmente ritenne lasciare
Poggio Imperiale, facendo ritorno a Roma e da lì, successivamente, in Albania, facendo perdere
per noi ogni sua traccia.

CAPITOLO VI

L’ARRIVO DEI COLONI DAL PRINCIPATO ULTRA


L’imprevista partenza degli scutarini sembrò addensare di tetre nubi il futuro del villaggio e
porre seri dubbi sul raggiungimento dell’obiettivo prefissatosi da Placido Imperiale che, sempre
più deciso a proseguire e portare a compimento l’ambizioso disegno, per ripopolare il suo imperial
poggio «invitò gli abitanti di molti paesi con pubblici bandi, promettendogli le stesse franchigie concesse agli
albanesi»199.
Le condizioni offerte dal principe di Sant’Angelo, questa volta indirizzate a gente della nazione
napoletana, erano interessanti e molti coloni, dalle più svariate parti del Regno di Napoli,
accettarono l’invito decidendo di partire, soli o seguiti dal proprio nucleo familiare, alla volta della
Capitanata.
«Vi accorsero da ogni banda, la popolazione divenne un misto di regnicoli ed albanesi, e tutti goderono le
concessione espressate»200 nell’atto del 18 gennaio 1761.
Seppur gli arrivi furono all’inizio pochi e scaglionati, tra il 1761 e il 1763 si stabilirono a Poggio
Imperiale, provenienti dalla Calabria, i fratelli Vincenzo e Pietro Pappadà da Castroregio, paesino
popolato da arbereshe, Francesco Rizzi da Rombiolo e Giuseppe Ianico da Rocca Imperiale, è nella
primavera del 1764 che si segnala l’immigrazione più consistente che ha dato la svolta decisiva alla
crescita demografica del casale, consentendogli di diventare, nel giro di mezzo secolo, una vera e
propria comunità amministrativa.
Molti coloni del Principato Ultra, la provincia del regno borbonico a cavallo tra Sannio e Irpinia
che ha subìto questa emorragia demografica, raggiunsero il casale fatto sorgere da Placido
Imperiale con la speranza di trovare un futuro e una vita migliore per essi e i loro familiari.
Ma quale fu il vero motivo di questo esodo? La carestia.
Potrà sembrerà strano e controverso, ma proprio da una simile tragedia Poggio Imperiale
ricaverà i suoi… benefici, seppur solo se demografici! Vediamo il perché!
La causa che originò il periodo di miseria in tutto il meridione d’Italia fu la mancanza delle
piogge, che rese asciutto l’inverno del 1762 e distinse la primavera del 1763. Il raccolto di
quell’anno, purtroppo, si prevedeva scarso, anche se l’abbondanza dell’annata precedente aveva
consentito agli agenti feudali di Casa Imperiale di approvvigionarsi di un elevato quantitativo di
scorte proprio nell’eventualità di fronteggiare, anche se non in un immediato futuro, una minor
produzione di frumento.
L’estate trascorse lunga e torrida; alla campagna, resa arida dalla mancanza di acqua, non
furono di nessun sollievo i rari ed inconsistenti scrosci di pioggia che caratterizzarono la stagione
autunnale. I pascoli erano ormai appassiti e l’impossibilità di costituire riserve di foraggio per la
stagione fredda impose l’abbattimento di numerosi capi di bestiame.
L’inverno sopraggiunse rigido e secco, facendo crescere in tutto il reame il numero degli
indigenti.
Inoltre, in quasi tutti i paesi del Principato Ulteriore non giunsero gli aiuti promessi da Napoli,
anche perché le riserve di frumento accantonate nella capitale risultarono insufficienti e mal
distribuite su tutto il territorio del Regno. Gli inventari relativi ai magazzini annonari si
dimostrarono approssimativi tanto che, in alcuni casi, se ne constatò addirittura l’inesistenza.

199
ASF, Atti demaniali, B. 95, f. 42.
200
Ibidem, f. 38.
Si esaurirono presto le inadeguate provviste di tante famiglie e la carestia, sin dai primi mesi del
1764, espresse in tutta pienezza i suoi devastanti effetti.
«La gente invocava l’aiuto dei Santi; si innalzavano suppliche in tutte le chiese; si
ricorreva a lunghe ed estenuanti processioni e si sperava nelle piogge
dell’incombente primavera, ma la siccità perdurava e gli organismi provati,
debilitati dalla fame e dagli stenti, si mostravano sempre più incapaci di reagire
agli attacchi virali particolarmente attivi nella stagione fredda»,
è quanto scritto da un parroco in un libro parrocchiale per tramandare ai posteri il terribile
periodo.
Anche la tanto attesa stagione primaverile deluse le aspettative: mancarono, infatti, le piogge e
la terra, arida e screpolata, non consentì ai semi di germogliare.
La carestia influenzò anche i mercati: il grano riuscì a raggiungere il prezzo di sei ducati al
tomolo, cosa mai accaduta prima; il mais, l’orzo e i legumi toccarono i quattro e anche i cinque
ducati. Il vino costava tre grana la caraffa, l’olio tre carlini lo staio; il lardo dodici carlini, le galline
due carlini l’una, i pollastri dieci grana l’uno e le uova una grana.
Uno scrittore coevo annotò nelle sue memorie che
«fu totale la scarsezza di pesci, di frutta e di ghiande ed anche di neve, la verdura
non comparve sulla terra, neppure la campestre e quel che non mangiano i bruti,
furono cibi desiderati dagli uomini. Si mangiano carni più abominevoli e che non
sono in uso, dei cani, dei gatti, asini e più anche serpi».
Fu uno dei periodi più critici per il Regno di Napoli. La miseria raggiunse livelli estremi di
squallore. La morte per fame causò, nei paesi da cui molte famiglie partirono alla volta di Poggio
Imperiale, circa tremila vittime.
Per sfuggire a morte certa, una moltitudine di contadini decise di abbandonare le natie terre e
trasferirsi nel casale, che prometteva migliori condizioni di vivibilità. Molte di queste famiglie,
ancora oggi presenti a Poggio Imperiale, rimasero legate ai loro luoghi d’origine, da dove
trasportarono, oltre all’idioma, usanze e tradizioni che ci hanno lasciato e che, alcune, attualmente,
sono vive nel folclore paesano.
Poggio Imperiale accolse, questa volta con estrema solidarietà, le famiglie di: Antonio Basile;
Angelo e Melchiorre Caggiano; Giuseppe Calzone; Bartolomeo e Domenico Campolieto; Giorgio
Capone; Nicola Cocca; Simone Dentato; Pasquale di Conna; Filippo e Nicola Di Nunzio; Filippo
Fava; Arcangelo Mastronunzio; Marcantonio Perciasepe; Antonio Quarantiello; Pietro Supino e
Giovanni Tozzi da Reino.
Da San Marco dei Cavoti arrivarono Domenico Barricelli; Francesco Bonante; Lorenzo Cocca;
Geronimo de Angelis; Pietro Paolo di Michele; Salvatore Penna; Domenicantonio Piteo; Luca
Pomarico; Crescenzo Ricci e Carmine Antonio Saitto.
Da Pontelandolfo partirono Lorenzo Borrelli; Domenico Mastropietro; Giacomo Santopietro e
Donato Longo. Onofrio Simeone giunse da Fragneto Monforte, mentre da Campolattaro vennero
Felice Caggiano, Saverio Focarete e Vincenzo Mancini. Dalli Cameni, oggi Sant’Elena Sannita
arrivò a Poggio Imperiale Carmine Pettograsso; da Castelpagano, Francesco Nista e Alessandro
Barone; da Circello, Pietro Cerrone, Giuseppe D’Agostino, Raffaele Fiscarelli, Pietro e Gregorio
Iacobacci. Da Nusco giunse Nicola Papa; Amato Lentinio da Lioni; Marco Bendella da Castelvetere
in Val Fortore; Giovanni Tatiani da Ariano Irpino; Pasquale Castellano, Antonio Covino e
Giuseppe Braccia da Morra de Sanctis; Pietro Dentato arrivò dal casale di Vitulano; Giuseppe di
Salvo dalla Terra di Andretta; Giovanni de Maria da Santa Croce di Morcone, oggi Santa Croce del
Sannio.
Anche dal territorio pugliese si segnalarono degli arrivi, da Roseto Valfortore raggiunse il casale
Giulio Piteo; da Troia venne Giuseppe Lobisco, Gioacchino Berardi da Bari, Giovanbattista
Pazienza, detto mastro Titta, da San Severo, Giuseppe Moretti e Michele Perrone dalla vicina
Apricena.
Molta di questa gente arrivò a Poggio Imperiale già disabilitata nel fisico e minata nella salute a
causa della malnutrizione, tanto che dal loro arrivo e fino alla fine del 1764 si contarono trenta
decessi, tra cui nessun terranovese, proprio ad attestare che, dagli abitanti del casale, la carestia
non fu neppure avvertita. Dato confermato dal Targioni, che a tal proposito scrive:
«uomini, femmine, ragazzi vivono in allegria e in feste, tantoché furono al coverto
delle tristi sciagure del 1764 a differenza degli altri popoli confinanti» 201.
Diciassette bambini, otto donne e cinque uomini, tutti provenienti dai vari paesi campani,
furono gli infelici che non riuscirono a superare i problemi generati da una scarsa e pessima
nutrizione.
Nel frattempo mutarono le condizioni meteorologiche. In estate si ebbero le prime piogge;
rinverdirono i pascoli e gli orti tornarono ad essere copiosi di legumi e verdure. Rinvigorirono
pure vigneti e frutteti e si intuì che l’incubo stava per finire. La situazione climatica sembrava
sensibilmente migliorata, i raccolti autunnali si prospettarono abbondanti e lo spettro della carestia
si andò sempre più allontanando. Il casale e i suoi abitanti potevano sperare in un avvenire
migliore.

L’AMBIENTE CHE TROVARONO


Giunti sull’amena collina della «Difesa chiamata la Mezzana della Valle di San Severo», dalla
«perfettissima aria», i numerosi coloni campani trovarono edificato un casale dall’ambiente umile e
sano, in un puro contesto rurale. La carestia del 1764 non aveva fatto sentire i suoi funesti rigori,
anche se il triste periodo della siccità aveva causato un calo nella produzione agraria di quegli
anni.
«Vi si è fatta la chiesa, un comprensorio di fabriche per uso dei molini,
panetteria, forno con tutti i comodi di stalla, magazzino ed abitazione per gli
affittatori di detta panetteria»202.
Con il loro arrivo, il poggio aveva cambiato profondamente aspetto; superata senza conseguenze
la fase negativa dovuta alla ristrettezza alimentare, ora si era trasformato in un vero e proprio
villaggio. Poteva certamente ergersi a centro direzionale dove potevano far capo tutte le masserie
delle varie poste, in quanto era capace di provvedere alla produzione dei prodotti agricoli e
all’assistenza del bestiame; aspetti fondamentali per il mantenimento della piccola comunità che in
esso risiedeva.
La vita che trascorrevano i coloni nel casale era quella tipica del vivere in campagna. La
stragrande maggioranza di essi era dedita all’agricoltura, che si basava prevalentemente sulla
produzione dei cereali: frumento, orzo, avena e mais, prodotti in elevata quantità tanto che, oltre a
soddisfare i bisogni delle famiglie, venivano commercializzati nel mercato di San Severo 203.
Placido Imperiale favorì anche la coltivazione orticola, dalla quale si ottenevano soprattutto le
fave, i piselli e i ceci, e quella della vite per la produzione dei vini che, a parità delle acque, «erano
potabili e sufficienti».
Di fondamentale importanza, per il colono terranovese, era la coltura del lentisco, dai cui frutti
ricavava l’olio vegetale che la massaia impiegava nell’alimentazione. La piantagione dell’ulivo
arriverà solo qualche anno più tardi.
Anche l’allevamento del bestiame rappresentava un aspetto essenziale per il casale. Come
abbiamo visto in precedenza, l’Imperiale era possessore di una notevole quantità di animali grossi;
i buoi, utilizzati nei lavori agricoli, e i bufali, per la produzione casearia, erano le specie che il
colono addetto agli animali governava. Inoltre c’erano da accudire anche le pecore e le capre per la
produzione della lana e del latte, e i somari, che il principe concesse «gratis e senza pagamento
alcuno».
Potremmo rappresentare l’attività del colono terranovese, in quei primi anni di vita del
villaggio, interamente associata al lavoro, nelle varie stagioni e nelle più svariate esigenze: arava,
seminava, potava gli alberi, falciava o batteva il grano nel periodo della mietitura; pigiava l’uva nei

201
L. TARGIONI, op. cit., p. 160.
202
ASN, Carte della Società Storica Napoletana, B. 1, F. 8, f. 162.
203
Cfr. M. FRACCACRETA, op. cit., p. 110.
tini durante la vendemmia; oppure si recava nel bosco dell’Isola per tagliare la legna da utilizzare
sia per la cucina che per il riscaldamento dell’abitazione. Durante i mesi freddi, poi, dopo aver
ucciso il maiale, quando la neve faceva capolino sul piccolo paese, lo immaginiamo riposarsi nella
modesta abitazione, concessagli dal principe Placido, accanto al fuoco, mentre le donne di casa
filano la lana o accudiscono i bambini.
La cucina del colono della Poggio Imperiale di metà ‘700 era quella classica della tradizione
contadina, sfruttava infatti ciò che egli stesso produceva. I cereali, le cui varietà di farina venivano
impiegate per la panificazione e per la preparazione di zuppe e minestre; la vasta scelta delle carni:
selvaggina, pollame, lepri, conigli o anche ovine e bovine, che consumava stufate o arrostite.
Anche la carne di maiale era presente nella sua alimentazione, ma questa veniva consumata sotto
forma di insaccati, curata sotto sale o affumicata.
Non compariva invece la carne equina, per l’importanza sociale ed economica che rivestiva il
cavallo.
Faceva largo uso di uova, in quanto allevava, praticamente allo stato brado, un buon numero di
galline. Potremmo ipotizzare che anche il pesce fosse una pietanza gradita al suo palato,
considerata la vicinanza con Lesina, e la fragranza della grigliata di cefali, anguille e capitoni
certamente doveva inebriare la salubre aria del casale.
Il latte, che si doveva produrre in abbondanza, visto l’alto numero di animali che si allevavano
nelle vicine poste, oltre ad essere utilizzato come bevanda, veniva impiegato soprattutto per la
preparazione di latticini e formaggi. Per condire i piatti delle loro tavole i contadini utilizzavano
condimenti come il lardo e lo strutto.
Si consumava poca frutta a causa delle difficoltà di conservazione; si faceva invece molto più
uso di frutta secca, che non aveva problemi a tenersi nel tempo.
Per tutte le altre esigenze, non avendo il casale un fondachetto204, i coloni terranovesi si
rifornivano dai commercianti di San Severo che, di passaggio per recarsi a Lesina per vendere la
loro mercanzia, occasionalmente trovavano il tempo per fare tappa a Poggio Imperiale205.
Nell’economia del casale facevano la loro parte anche le donne che, oltre ad emulare gli uomini
nei «travagli rurali, cogli animali domestici, colla spola ed il fuso» soddisfacevano egregiamente ai
fabbisogni del focolare o alle commesse di terzi.
L’abbigliamento indossato dal terranovese del XVIII secolo era quello tipico dei contadini
meridionali. Era, infatti, costituito da una camicia, una tunica che copriva i fianchi, calzoni
trattenuti da una cintura in vita e scarpe legate sopra la caviglia. Nei mesi invernali, per ripararsi
dal freddo, si ricorreva ad un mantello, spesso fornito di un cappuccio. I vestiti erano di colore
anonimo, grigio o scuro.
Le donne vestivano in maniera simile: portavano una camicia oppure un guarnello (veste
scollata e senza maniche), una gonnella (una veste semplice che veniva portata sopra la camicia),
mantello, velo o altro copricapo, calze e scarpe, alcune volte sostituite da zoccoli in legno.
Di solito i contadini possedevano un abito da lavoro e uno da festa. Molto spesso la stessa veste
veniva disfatta, ritagliata e ricucita più volte, per ricavarne abiti per i bambini.
Anche le case erano molto semplici. Seppur edificate da poco erano pur sempre abitazioni di
campagna, costruite con un misto di tufi e pietre e le volte chiuse da un tetto ad una pendenza
realizzato con copertine di legno ricoperte di paglia206. Ognuna di esse aveva una piccola finestra
che forniva aria e luce ed era munita di caminetto che aveva da assolvere alla duplice funzione di
cucina e, in inverno, da riscaldamento.
Sotto lo stesso tetto, soprattutto nel periodo invernale, vivevano persone e animali. Vivere a
stretto contatto con gli animali, favoriva il proliferare di molte malattie, per cui il grado di
mortalità era molto elevato.
Ma oltre alla promiscuità, l’alto numero di decessi era dovuto anche alle scarse condizioni
igieniche, che nel casale non erano delle migliori.

204
Diminutivo di fondaco, locale o bottega destinato allo smercio di panni e vettovagliamento per la casa.
205
Cfr. M. FRACCACRETA, op. cit., p. 111.
206
Ibidem, p. 106.
Le quattro strade e il grande spiazzo per l’aia, dove il principe aveva fatto scavare le fosse
granarie, non erano lastricate né mattonate, ma in terra battuta e, dopo le piogge, si trasformavano
in contenitori di «tristumi di paglia» ed escrementi lasciati dagli animali. Non avendo scoli per
l’acqua piovana, diventavano «fetenti pantani» di fango e di pattume, ed esalavano un fetido tanfo
che poteva essere «pernicioso alla salute dei contadini e delle bestie» 207.
I servizi igienici erano completamente sconosciuti, tanto che gli abitanti, per liberarsi dei bisogni
corporali, di giorno erano costretti a recarsi fuori dell’abitato 208, mentre la notte utilizzavano degli
appositi vasi che provvedevano a svuotare nelle zone periferiche di prima mattina.
Anche l’igiene intima lasciava a desiderare. Nel Settecento era in voga l’idea, caldeggiata anche
dalla medicina, che l’umidità dell’acqua dilatasse i pori e, di conseguenza, favorisse l’ingresso di
infezioni dall’esterno. In questo contesto il colono adoperava l’acqua solo per sciacquarsi il volto e
le mani, oltre che per dissetarsi.
Anche per i neonati l’acqua era bandita. Il loro corpo, ricoperto da polveri che ostruissero i pori
della pelle, veniva stretto in fasce, unte con oli profumati, che le mamme cambiavano due o tre
volte al giorno: in questo modo, si credeva, il piccolo poteva essere meno esposto a contrarre
malattie.
Tra le donne, invece, circolava la convinzione che il lungo contatto con l’acqua rendesse il
sangue denso e quindi era sconsigliato per loro lavarsi nel periodo del flusso mestruale.
Pertanto l’igiene del corpo era affidata alla «pulizia secca», cioè al cambio dei vestiti: indossare
un abito pulito indicava segno di lindezza. Col passare del tempo, però, le cose cambiarono e nelle
«caselle» fecero la loro comparsa catini e tinozze che, riempite generalmente con l’acqua attinta dal
pozzo del casale, venivano adoperate per lavarsi e consentire di conseguenza una corretta pulizia
personale.
Ma tutto sommato non ci si poteva lamentare, erano tempi di magra, ai coloni bastava avere un
tetto ed una forma di sostentamento per assicurare sicurezza e continuità al proprio nucleo
familiare. E Poggio Imperiale disponeva di questi requisiti.

CAPITOLO VII

VERSO IL PROGRESSO
Il 1765 può essere considerato l’anno che segna il decollo definitivo dello sviluppo demografico
ed economico della nuova realtà fortemente voluta da Placido Imperiale.
Poteva ritenersi ampiamente soddisfatto, il principe di Sant’Angelo, nell’ammirare la sua
creatura, divenuta adulta nel giro di un lustro. Erano passati appena sei anni dalla sua fondazione
e, considerate le circostanze offerte dal sito, il nascente paese, passato indenne un triennio alquanto
difficile, prometteva vantaggi e progresso.
Gli abitanti erano aumentati; nel 1765, da giugno a dicembre, si registrarono tredici nascite,
tante quante quelle del quinquennio 1760/1764. La volontà del principe, «che non impose agli uomini
e agli animali il voto di castità»209, fu rispettata.
Le circa sessanta famiglie residenti nel villaggio alloggiavano in piccole, ma comode abitazioni.
Tutte le premure che il «nume tutelare» aveva concesso ai coloni, gli venivano ricompensate con
zelo e operosità. Per la sua «laudabile condotta», i vassalli erano fieri di avere «un rettore così intento»
al loro benessere, che gratificavano recandosi al lavoro nei campi con «savio e amorevole» impegno.
Il lavoratore non lesinava la fatica e le campagne erano divenute «uno spettacolo aggradevole agli
occhi»210.
Infatti, il contado appariva ridente in quanto il principe Placido sosteneva i suoi vassalli
concedendo loro i fondi circostanti il nuovo paese, dove potevano trarre benefici e sostentamento
per le famiglie.

207
M. MANICONE, op. cit., tomo II, p. 144.
208
Ibidem.
209
ASF, Affari Demaniali, B. 95, f. 36.
210
Cfr. L. TARGIONI, op. cit., p. 159.
I terreni delle cinque poste, trascorsi i nove anni di locazione concessi ai primi conduttori, furono
divisi in tante piccole massariole, ognuna delle quali affidate ai nuovi abitanti del villaggio.
Il 22 aprile 1765, presso il principal palazzo di Casa Imperiale in San Paolo, con atto rogato dal
solito notaio Giuseppe Nicola Ricci, l’agente feudale Antonio Lommano cedeva in affitto «una
massariola sopra al Jaccio dell’olive» a Giorgio Capone e Nicola Cocca, «sogro e genero della Terra di
Reino commoranti in Poggio Imperiali», e «propriamente la quinta confinante con la parte di sopra con la 4ª
massariola data in affitto a Pietro Pappadà, e da sotto con la sesta affittata a Vito e Nicola Maglione» 211.
L’estensione complessiva della massariola era di ventisette versure per compasso, due per uso di
mezzanella cedute «franche senza pagamento» e venticinque per uso di coltura e semina, e veniva
concessa per dodici anni, sei continui e forzosi e sei volontari, alla ragione di 3 tomoli di grano alla
versura, compresa la mezza decima spettante al principe. L’appezzamento più grande doveva
essere frazionato in quattro pezze uguali e nell’eventualità che il raccolto del 1766 fosse abbondante
cadeva «il terraggio di tomola 18 e mezzetto 18» per pezza.
I conduttori si obbligavano a corrispondere «i primi e migliori grani che perverranno da detta
massariola» il 22 luglio di ogni anno «sopra le fosse di detto Eccellentissimo Signor Principe in Poggio
Imperiale, a colazzo di carro, mezzetto napolitano, e rasola tonna», la solita misura adottata nei
possedimenti di Casa Imperiale.
Anche gli scutarini, sebbene ancora «mal prattici dell’italiana favella», ma ormai inseriti nel
contesto agricolo del villaggio, furono fra gli assegnatari dei terreni da coltivare. Il 28 aprile di
quello stesso anno, infatti, Antonio Ruggieri, altro agente feudale di Placido Imperiale, concedeva
in affitto a Simone Bubici e suo figlio Antonio, a Francesco e Giovanni Spenza, a Nicola Cola e
Giovanni Bubici, «albanesi commoranti in Poggio Imperiali, quattro masseriole, ciascuna delle quali è di
versure trenta l’una, che cominciano dalla masseria vecchia al pozzo novo in tenimento di Lesina, dal canale
e tirano sino a Poggio Imperiali»212.
I terreni venivano affidati «per il tempo continuo e forzoso di anni sei, da cominciare per uso delle
maggesi in gennaio 176sei e terminare detto seennio forzoso per tutto agosto 177uno» . Due di queste
versure dovevano essere lasciate «a mezzanella per uso del pascolo dell’animali aratorj solamente», su di
esse non gravava alcun affitto, mentre per le rimanenti ventotto versure il contratto prevedeva un
canone di «tre tomoli di grano a versura compresa la decima».
Gli arbereshe, soddisfatti della concessione, accrebbero ulteriormente la fiducia verso la figura
del nobile genovese e, sfatando il detto che vedeva gli albanesi come un popolo nomade e violento,
tramite l’economo della chiesa di San Placido, don Gianpietro Caruso, inoltrarono una richiesta a
Placido Imperiale del seguente tenore: «Eccellentissimo Signore, Simone e Giovanni Bubici, e Pietro
Cola di nazione albanese del Casale di Poggio Imperiale umilissimi schiavi e vassalli dell’E. S. con suppliche
riverenti l’espongono come sono nella ferma risoluzione di piantare una vigna per ciascheduno in detto
Casale, e ridurle col tempo puranche alborate, a fine di situarsi perpetuamente nel Casale suddetto, e godere
la protezzione dell’E. S. anche per i loro eredi, e successori, e di esserle sempre ed in perpetuo fedeli vassalli,
come per tali si sono fin dal principio dichiarati. Ricorrono perciò all’E. S. e la supplicano degnarsi loro
concedere un versura di territorio per ciascuno di essi supplicanti in detto Casale, e proprio nella Pezza di
Montorio, luogo così denominato, accanto alli pioppi, sotto all’altro territorio conceduto a Francesco Rizzi,
dove essi supplicanti possino piantare, e pastinare dette vigne, con altra frutta, essendo pronti, ed animati i
supplicanti di stare a ciò che sarà per disporre l’E. S.; e l’avranno a gratia ut deus»213.
Placido Imperiale, il principe nato per il genere del genere umano, non smentì la propria indole
di benefattore e non tardò ad esaudire la supplica di coloro che, fuggiti da un tiranno violento e
crudele, chiedevano protezione ed assicuravano fedeltà.
Il 13 giugno 1765 Placido Imperiale, per tramite del suo agente feudale, faceva recapitare al
cappellano della chiesa di Poggio Imperiale, che svolgeva la funzione di vice amministratore dei
beni di Casa Imperiale nel nuovo villaggio, la seguente missiva di risposta, scritta e firmata di suo
pugno: «Il Reverendo don Giovan Pietro Caruso faccia assegnare ai Supplicanti l’enunciate versure a
tomola tre di grano la versura in perpetuo per poterci fare le vigne, ed altri beneficj che ânno esposto. San

211
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2830, Anno 1765, f. 48.
212
Ibidem, f. 50.
213
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2830, Anno 1765, foglio allegato.
Paolo 13 giugno 1765. Dia ad Antonio Bubici un’altra casa accosto a quella dove abitano suo padre e fratelli,
e quello che vi abita lo passerete ad altra casa. Il Principe di S. Angelo».
Il giorno 28 agosto 1765 in Poggio Imperiale, nella nuova principal palazzina, alla presenza di
don Carlo Picucci, Regio Giudice a contratti, e dei testimoni Matteo D’Apote, don Giuseppe
Troiano e Callisto di Lullo, tutti di Lesina, il notaio Giuseppe Nicola Ricci rogava l’atto con il quale
Antonio Ruggieri, «per effetto di convenzione e in adempimento di rescritto spedito da Sua Eccellenza ai
supplicanti», concedeva in affitto a «Simone Bubici, Pietro Cola, e Giovanni Bubici, Albanesi al presente
abitanti qui in Poggio Imperiali» una versura a testa «nel luogo detto Montorio, in tenimento di Poggio
Imperiale, confinante da sopra col territorio dato a Francesco Rizzi, via di Lesina, mezzanola di San
Nicandro, e da sotto col territorio dell’Eccellentissima Casa rimasto per li Bracciali di Poggio Imperiali» 214.
L’«annuo canone, rendita, seu censo enfiteutico perpetuo, ed inaffrancabile» fu fissato in tre tomoli di
grano a versura, come disposto da don Placido. Gli albanesi, loro eredi e successori, dal canto loro,
promettevano e si obbligavano a migliorare quei terreni e a piantarvi vigne, olivi e frutta con altri
alberi. Gli stessi si impegnavano altresì a consegnare, ogni fine d’agosto, ai ministri del principe
«l’annuo canone qui in Poggio Imperiali» e non cedere in subaffitto ad altri le tenute.
Il contratto prevedeva l’annullamento del canone enfiteutico «tanto per causa di peste, guerra o
altro superavvenimento in questo Regno, quanto per qualsiasi altro impedimento, o caso fortuito, divino, seu
umano contingente, raro, insolito e inopinato».
Inoltre era prevista la restituzione dei terreni al proprietario nel caso che i conduttori si
astenessero dal versare il canone per tre anni consecutivi o anche se non vi fossero state apportate
le migliorie sopra esposte.
Ma gli scutarini non tradirono le aspettative di Placido Imperiale e dei suoi collaboratori, come
non furono da meno anche gli altri abitanti regnicoli di Poggio Imperiale, contadini legati al loro
nuovo paese e al lavoro campestre, aiutati anche dalle donne, che «coltivano la terra più degli
uomini». Questa propensione alla coltura della terra «li rende più comodi di quelli di Lesina, a che
vivono mediocremente, e trovano nel di loro bisogno il credito per la loro puntualità» 215.
A testimonianza di tanto, vi è una chiara ed evidente affermazione rilasciata in risposta a chi li
chiedeva se non gli interessasse pescare nel lago di Lesina: «L’abbiano i lesinari. A noi piace la terra
che coltiviamo. Dateci una risorsa pel pascolo, dateci un orto, una vigna, non desideriamo altro» 216.
Ma oltre ad attendere allo sviluppo agricolo, l’agente feudale doveva curare anche l’aspetto
commerciale del nuovo casale.
Con l’avvento di altra gente, il villaggio si era sviluppato e, quindi, doveva essere in grado di
soddisfare tutte le esigenze di chi vi risiedeva. Placido Imperiale, uomo sagace e lungimirante, lo
aveva fornito di forno, panetteria e di una taverna, luogo di sosta per mercanti o semplici
avventori che erano di passaggio da Poggio Imperiale diretti a Foggia o in qualche altro paese
della regione garganica217.
La gestione di queste attività commerciali doveva essere cosa ambita dai terranovesi di
quell’epoca, tant’è che, nell’agosto di quello stesso anno, all’erario di Casa Imperiale pervenne più
di una richiesta tanto da indurlo ad indire un’asta ed accendere la candela. La stessa si spense
sull’offerta presentata da Pietro Pappadà e Michele Nardelli i quali si aggiudicarono la concessione
della «piazza, taverna, mulino e forno colle cammere sistenti nella vecchia panetteria di Poggio Imperiali per
lo spazio di tempo continuo e forzoso di tre anni» 218 a cominciare dall’8 settembre 1765 a tutto il 7 dello
stesso mese dell’anno 1768 «e non ultra».
Il canone complessivo per l’intero triennio fu stabilito in novantanove ducati, «alla ragione di
trentatre ducati annui» da versare «in ogni mese di agosto di ciascuno anno di detto triennio».

214
Ibidem, f. 74.
215
ASF, Affari Demaniali, B. 95, f. 4.
216
Ibidem, f. 5.
217
Il 27 dicembre 1796 morì in questa taverna frà Giovanni Gallo di Fossacesia, romito della SS.a Trinità di
Stignano, che rientrava al convento in agro di San Marco in Lamis.
218
ASL, Fondo notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2830, Anno 1765, f. 84.
L’atto di affitto, rogato il 1° settembre 1765 dal notaio Giuseppe Ricci nel palazzo Imperiale di
San Paolo, prevedeva, inoltre quattro «patti» le cui condizione dovevano essere rispettate da ambo
le parti.
Nel primo punto si stabiliva che l’Eccellentissima Casa si impegnava a sue spese ad
«accomodare» per la prima volta il mulino per renderlo macinante; in caso di riparazioni successive
le spese che non superavano i 5 carlini erano a carico di «essi affittatori», se invece erano superiori
spettavano a «detta Eccellentissima Casa». Per quanto concerne eventuali accomodi del forno e della
taverna, ai locatori spettava di sostenere una spesa non superiore ai trenta grana.
Il secondo punto prevedeva che nel caso i locatori dovevano panificare per gli operai addetti
all’industria di Casa Imperiale, essa era obbligata anticipatamente a fornire i fornai della quantità
di grano occorrente per la panificazione.
Nel terzo si concordava che «volendo l’abitatori di Poggio Imperiali cuocere il lor pane nel forno di
detta Casa Eccellentissima possano farlo con mettere la legna propria. Loro e persone in detta cocitura gratis
e senza pagamento, e ciò per grazia alli medesimi affittatori accordata da Sua Eccellenza in questo solo
triennio e non ultra. Ma non volendo poi detti abitatori non porre né legna e fatica, in tal caso detti
affittatori devono metter legna e fatica, e esigere per ogni tomola di grano, o di altro genere che si cuocerà,
rotola due per ogni tomolo, che cade per ogni mezzetto rotolo uno».
Con il quarto ed ultimo punto il locatore imponeva ai conduttori che i costi «per la taverna e
piazza» dovevano essere uguali a quelli di Lesina, «luogo qui viciniore», nonché di tutto il feudo
«senza niuna innovazione». I prezzi dovevano essere scritti in una «pandetta»219 e la stessa esposta ed
osservata «secondo il tenore del suo contenuto».
La qualità della vita, l’abbondanza delle derrate, l’aria salubre e l’arrivo di altri coloni, ai quali
oltre ai terreni si concedeva anche una «casella» per dimora220, giovarono alla successiva crescita,
non solo di Poggio Imperiale, ma anche dei suoi abitanti i quali, figli di un magnanimo genitore,
riuscivano ad ottenere da don Placido tutto quanto da essi desiderato.
Le assegnazioni delle massariole continuavano in modo regolare: chi chiedeva veniva
soddisfatto. Come nel caso di Vincenzo Mancini di Campolattaro che ottenne, il 17 marzo 1766, 13
versure e mezzo per uso di coltura e semina di campo della zona detta «Monte di Lama» nel Jaccio
dell’oliva, prima gestite dall’abruzzese Giuseppe Belmonte 221; e di Matteo Cristino e Pietro
Pappadà, ai quali spettarono 27 versure ripartite fra la Difesa di Poggio Imperiale e il Jaccio
dell’oliva222.
Ma oltre all’aspetto agricolo, gli amministratori di Casa Imperiale dovevavo ottemperare alla
cura anche di quello urbano e soprattutto religioso. L’avvento di un elevato numero di coloni
provenienti dalle terre del Principato Ultra, oltre a soddisfare la necessità di manovalanza, portò il
culto per l’Arcangelo Michele, in onore del quale, nel 1771, fu costruito un nuovo altare nella
piccola chiesa del villaggio. Accanto al sacello, realizzato dal principe con la contribuzione dei
terranovesi, l’agente feudale Rocco Capozzi fece apporre la seguente epigrafe:
ELEMOSYNA INCOLARUM HUJUS OPPIDI PODII IMPERIALIS ET
PRINCIPIS S. ANGELI LOMBARDORUM AC DOMINI CIVITATIS
LESINAE DOM PLACIDI IMPERIALIS SACELLUM  NOVUM MICHAELI
ARCANGELI DICATUM IN HAC ECCLESIA S. PLACIDI MARTIRIS
CONSTRUCTUM IVIT. VIR ROCHUS CAPOZZI EXCELENTISSIMI
DOMINI MINISTER MONUMENTUM HOC AD FUTUR REI
MEMORIAM PONENDAM CURAVIT DIE XX MENSIS AUGUSTI
MDCCLXXI223.

219
Listino prezzi.
220
È quello che accadde a Michele Romano di Apricena, che nel 1766, oltre ad avere in concessione 30 versure
da coltivare nella Difesa di Poggio Imperiale, gli spettò anche una «casella» del villaggio. Cfr. ASL, Fondo
notarile, 1ª Serie, notaio Giuseppe Nicola Ricci, Prot. 2831, Anno 1766, f. 26.
221
Ibidem, f. 22.
222
Ibidem, f. 24.
223
«Con le offerte degli abitanti di Poggio Imperiale e del principe di Sant’Angelo dei Lombardi e Signore di Lesina, don
Placido Imperiale, è stato eretto in questa chiesa di San Placido Marire un nuovo altare dedicato all’Arcangelo Michele.
Da quell’anno Poggio Imperiale venne affidato alla protezione del principe delle celesti milizie, la
cui devozione andò ad affiancarsi a quella del Patrono San Placido.
Ma oltre ai due compatroni «celesti», i terranovesi elevavano le loro preghiere anche ad un
terzo «santo», questa volta terreno: Placido Imperiale. Nell’aprile del 1782, infatti, al principe di
Sant’Angelo giungeva una missiva da parte di Saverio Simeone contenente la seguente supplica:
«Eccellenza. Saverio Simeone abitante nella villa di Poggio Imperiale umilmente
supplica l’Eccellenza Vostra, come ritrovandosi da più tempo in detta villa
dimorante in qualità di colono, e perché pensa farvi qualche possessione censuale,
affinché da altri non gli venga tolta, e propriamente una mezza versura circa di
quel territorio, che sta quasi prossimo alla panetteria di detta villa, con pagarne
l’annuo censo, come gl’altri, in ragione di tomoli tre grano a versura, così supplica
l’Eccellenza Vostra volersi benignamente compiacere di accordargli una tal grazia,
e l’avrà ut Deus»224.
Il 14 aprile Placido Imperiale richiedeva il parere di don Carmine Palmieri 225, originario di Lioni,
vige agente feudale ed economo curato di Poggio Imperiale, che il giorno dopo così assicurava il
Sant’Angelo:
«Potrebbe Vostra Eccellenza accordare al supplicante la richiesta grazia, affinché
s’anima di fare nel nominato territorio delli beneficij, con pagarne però tomoli tre e
misure dodici a versura, purché l’Eccellenza Vostra voglia compiacersi. Villa
Imperiale, 15 aprile 1782 = don Carmine Palmieri cappuccino».
Il principe non tardò a rispondere positivamente all’opinione del suo amministratore e nello
stesso giorno fece recapitare a Poggio Imperiale le sue disposizioni:
«Ci uniformiano alla soprascritta relazione, e ci si mandi copia autentica
dell’obbligo da stipolarsi. San Paolo 15 aprile 1782. Il Principe di Sant’Angelo».
Il 7 maggio 1782 nella principal palazzina di Poggio Imperiale si stipulava «l’obbligo» con cui don
Carmine Palmieri, per conto del principe di Sant’Angelo, concedeva a Saverio Simeone, il quale
«giorni addietro, con supplica, è ricorso ai piedi del suo Principale», il censo perpetuo in enfiteusi di
«passi trenta territorio seminatoriale, sistente nei tenimenti di detta villa, nel
luogo detto la Mezzana Feudale, confinante colla strada pubblica che conduce in
Apricena e Sansevero; e dalla parte opposta colla portata delle Terre di Corte di
Trevalli ed altri confini»226.
Il censo veniva stabilito nei soliti tre tomoli e misure dodici di grano a versura e il conduttore si
impegnava ad arricchire il terreno con «inpiantar alberi, pastinar vigne, edificare edificij, e fare ogni
migliorazione che vorrà e piacerà»227.
La costanza profusa in agricoltura era alla base del carattere del colono terranovese che, oltre ad
essere un infaticabile lavoratore, era anche un fervido timorato di Dio e sentiva il dovere di
onorare le festività santificandole col recarsi in chiesa per partecipare alle funzioni religiose. Ma il
solo don Carmine Palmieri, per i molteplici impegni a cui era chiamato, non riusciva a soddisfare
le cristiane esigenze dei fedeli i quali, nel 1784, decisero di chiamare, a proprie spese, un secondo
prete in quanto il «più delle volte non possono adempire al precetto di sentir la messa per mancanza di
sacerdoti, che non v’è che un solo».
Venne convocato don Primiano de Rosa, cappellano della Santissima Annunziata di Lesina, che
accettò l’incarico. I terranovesi si impegnarono a corrispondere al sacerdote, per sei anni continui,
l’alloggio, la cera «per il sagrificio della messa» e uno stipendio annuale di sessantacinque ducati in

Rocco Capozzi, ministro dell’eccellentissimo Signore, questo monumento a futura memoria pose il giorno 20 del mese di
agosto 1771».
224
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1404, Anno 1782, foglio allegato.
225
Economo curato della chiesa di San Placido dal 1779 al 1797.
226
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1404, Anno 1782, f. 48.
227
Ibidem, f. 52.
moneta d’argento corrente da versare in tre rate quadrimestrali ognuna di ventuno ducati,
sessantasei grana e otto cavalli.
L’accordo tra don Primiano de Rosa e i cittadini di Poggio Imperiale venne solennizzato in un
pubblico atto, rogato nella villa dal notaio Felice Fraccacreta il 12 giugno 1782.
Essendo un documento inedito, e anche per l’importanza che riveste, lo si riporta integralmente:
«Die duo decimo mensis junii millesimo septingentesimo octuagesimo quarto, ville
Podii Imperialis. Luminibus accensis, cum ascet palsata salutatio angelica, pro
observandis solemnitatibus ajure requisitis.
Personalmente costituiti si sono nella nostra presenza, Nicola e Angiolo Bubici,
Francesco Rizzi, Nicola Capozzo, Michele Nardella, Tomaso Focarete, Saverio
Simeone, Pasquale Castellano, Filippo Calzone e Giuseppe Teodoro di questa villa
di Poggio Imperiale e commoranti in essa; li quali aggono ed intervengono alle cose
tutte infrascritte, per loro stessi insolidum, loro insolidum eredi e successori in
futuram, da una parte.
E dall’altra il reverendo sacerdote don Primiano de Rosa della convicina città di
Lesina, nel presente atto in questa suddetta villa di Poggio Imperiale; il quale
parimente agge, ed interviene alle medesime cose infrascritte, per se stesso, suoi
eredi, e successori etiam in futurum.
Li suddetti costituti Bubici e compagni spontaneamente asseriscono avanti di noi, e
del reverendo don Primiano, presente; che coabitando essi in questa prefata villa,
più delle volte non possono adempire al precetto di sentir la messa, per mancanza
di sacerdoti, che non ve n’è che un solo; per cui hanno tra di loro convenuto a
proprie di loro spese, ed interessi aggiungere un altro sacerdote, che possa celebrare
la messa, e fare le altre funzioni ecclesiastiche per utile e beneficio de’ medesimi, e
delle loro famiglie. Avendo su di ciò tenuto colloquio col detto don Primiano, chè
ha voluto aderire li loro desiderj, colli seguenti patti, e condizioni, che sieguono.
Primo: essi costituti insolidum si obbligano per la durata di anni sei continui, di
dare, e pagare in monete di argento corrente al detto signor don Primiano, qui
presente, annui docati sessantacinque, terziatamente, che vale a dire in ogni
quattro mesi pagarli puntualmente docati ventuno, grana sessantasei, e cavalli
otto; facendo la paga della prima terza da domani tredeci del corrente mese, e così
continuare per tutta la durata delli anni sei, e non altrimenti.
Secondo: si obbligano, per la durata di detto tempo, darle la casa franca, e tutta la
cera per il sagrificio della messa, che esso don Primiano la deve celebrare a
commodo di essi asserenti, e nell’altare di San Michele; che nelli giorni di
domenica, ed altri di precetto, deve applicarsi pro populo; nelli giorni feriali poi, la
può applicare ad libitum, con pretendere, se la vogliano, la limosina. Più, che nelli
giorni di festa tantum, deve istruire li fanciulli nella dottrina cristiana.
E mancandosi da essi nomati costituti a quanto di sopra han promessi, e si sono
obbligati, cioè degli annui docati sessantacinque per un seennio intiero,
incominciando da oggi sudetto giorno, della casa franca, e cera bisognevole per il
sagrificio della messa, come sopra, si possa contro di loro insolidum, come si
obbligano, per detto don Primiano incusare, rescindere e liquidare il presente
Istrumento, ed abbia incontinente la pronta parata, ed espedita esecuzione reale, e
personale, via Ritus Magna Curie Vicarie, e si possa contro li medesimi insolidum,
loro eredi, eseguire a forma delle pigioni delle case di Napoli, ed obbligante liquide
di essa Gran Corte; perché così.
All’incontro esso don Primiano de Rosa, accettando tutto e quanto di sopra si è
detto, e stabilito, ha promesso, come avanti di noi si obliga, di puntualmente
adempire, e non mancare, che mancando, sia in libertà di quelli, loro eredi, da
chiamare in suo luogo altro sacerdote per l’adempimento di sopra, e ciò a suo
danno, spese, ed interesse. Ben’inteso però, che se la mancanza succede data sua
opera; ma se in caso d’infermità, allora non è a veruna cosa tenutò; perché così.
Ed hanno promessi, e convenuti esse Parti, procet teneantur, che le cose contenute
nel presente Istrumento, sempre avere, e far avere per rate, grate, e ferme, e non
controvenire per qualunque causa, o pretesto; perché così.
Pro quibus omnibus et successores, bona omnia, ad penam, et sub pena dupli,
medietate cum potestate capiendi. Costituzione precarii, renunciaverunt, et
juraverunt tactis scriptaris informa.
Presenti per testimoni: magnifico Giuseppantonio de Nictis Regio Giudice a
contratti; Nunzio Cristino, Emanuele Caroppo, e Nicola Vito Colello, di Poggio
Imperiale»228.
Dalla rilettura dell’atto emergono tre aspetti significativi che fanno comprendere il contesto
sociale della Poggio Imperiale di fine Settecento: il rispetto del terzo Comandamento nel santificare
il dies Domini, il credo cristiano da insegnare ai propri fanciulli e l’ormai avvenuta coesione tra
regnicoli e albanesi, accomunati ora oltre che nel vivere sociale, anche nello stesso credo cattolico.
Don Primiano de Rosa, però, mantenne l’impegno solo per due anni in quanto nel 1786 fu
costretto a rientrare a Lesina per occupare la cattedra ecclesiastica di quella cittadina. Al suo posto
venne chiamato don Anastasio Cappellucci229, di Fragneto Monforte, che si trasferì a Poggio
Imperiale con il fratello Vincenzo.
Ma il destino a volte sa essere crudele e gioca brutti scherzi. Mentre il villaggio era in pieno
fermento e stava vivendo la sua parabola ascendente - nel primo Stato delle Anime, effettuato da
don Carmine nel 1786, furono annotati 444 abitanti raggruppati in ottantotto famiglie 230 - a fine
anno da Napoli, come un fulmine a ciel sereno, arrivò la mesta nuova dell’inattesa e fulminea
morte del principe Placido.
Un decesso improvviso, forse causato da un infarto, ebbe ragione della forte fibra del principe
di Sant’Angelo il quale, all’età di 59 anni, era ancora in pieno vigore fisico, tanto da non aver
sentito il bisogno di lasciare un testamento. Probabilmente l’aveva programmato, ma lo avrebbe
fatto più in là!
Poggio Imperiale il 10 dicembre 1786 perse il padre, il suo nume tutelare!
Fu un grande dolore per l’intera comunità. La scomparsa di don Placido lasciava un enorme
vuoto e poneva seri ed infiniti interrogativi sul futuro del villaggio. Chi avrebbe sostituito
quell’uomo virtuoso e diretto amministratori e vassalli con la capacità e la rettitudine che
contraddistinsero il secondo principe di Sant’Angelo?
L’oneroso incarico di gestire i feudi di Casa Imperiale fu affidato a Giulio, primogenito di
Placido, il quale fu dichiarato erede dei beni paterni con decreto di preambolo del 15 dicembre
1786.
A differenza dell’illuminato genitore, Giulio non curò da vicino e personalmente le sorti dei
suoi feudi e della «terra nuova» creata dal padre, alle quali preferì le frequentazioni
dell’aristocratico salotto della marchesa Caterina de’ Medici, e né tantomeno questa ha avuto
l’onore di essere visitata da colui che, essendo nella corte borbonica tra «i nobili più in vista per
dovizia di mezzi e fasto del tenore di vita», invitò Ferdinando IV di Borbone per una battuta di caccia
nel suo feudo di Lesina il 18 maggio del 1797231.
Seppur non presente in prima persona, il nuovo «padrone», però, non impedì che il villaggio
proseguisse il proprio cammino, orientato al progresso sociale, economico e demografico.
Il casale, infatti, grazie alla forte determinazione dei suoi abitanti, si era evoluto anche dal punto
di vista economico, dato che si rileva da due atti notarili dell’epoca; il primo contenente i capitoli
matrimoniali di due sposi, il secondo riguardante un testamento. Analizziamoli.

228
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1406, Anno 1784, ff. 206/210.
229
Economo curato della chiesa di San Placido dal 1788 al 20 ottobre 1806, giorno della sua morte. Fu sepolto
in un angolo della chiesa essendo, questa, sprovvista di sepolture per sacerdoti.
230
Cfr. M. FRACCACRETA, op. cit., p. 92.
231
Cfr. di chi scrive, Poggio Imperiale. Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone,
Foggia 1997, p. 54.
Il primo atto, rogato l’8 dicembre 1786, stabilisce la dote che Saverio Simeone, «della terra di
Fragneto di Monteforto», concede alla figlia Maria Vincenza, «vergine in capillis»232, per il matrimonio
da contrarre, «coll’aiuto di Dio», con Michele Castellano «della terra di Morra».
Il «dotante» si impegnava a consegnare alla coppia, nel giorno dello «sponsalizio», la seguente
dote, «acciò Michele Castellano, futuro sposo, possa più comodamente sopportare il peso di quello»:
«una faccia di matarazzo nuovo con carlini venti contanti per comprarsi le penne
per detto matarazzo; una faccia di saccone nuovo di tela di casa; due intornaletti
nuovi, uno di orletta con pezzelli, e l’altro di tela di casa; quattro cuscini pieni di
penne colle rispettive sopraveste, e quattro faccie nuove di orletta con pezzelli; una
coverta di manta cardatata nuova di docati sei; quattro tovaglie nuove da faccia,
una de’ quali di orletta con pezzelli; quattro salvietti nuovi d’interlice, ed un
mensale simile; quattro trapisi d’oro; un paio di fioccagli d’oro di carlini trentasei;
una caldaja di rame nuova di carlini ventisette; una cocchiara di rame per
maccaroni di carlini tre; una cascia nuova di faja; una gonnella nuova di saja, ed
un’altra di cammellotto nuovo; un corpetto di canoverto fiorato nuovo; due
faccioletti nuovi per la testa, uno di seta, e l’altro di mistolino; due altri per le
spalle, cioè uno di seta, e l’altro di orletta con pezzelli; e detta Maria Vincenza
calzata e vestita, come si ritrova giornalmente» 233.
Un corredo povero, ma di tutto rispetto per una famiglia di contadini, che variava
dall’abbigliamento ai panni; dagli utensili da cucina ai materassi e ai cuscini. Ma dall’elenco del
necessario occorrente al quotidiano vivere dei neo sposi risalta una curiosità, che desta una
genuina ilarità: il Simeone «consegnava» allo sposo la figlia Maria Vincenza «calzata e vestita»,
come giornalmente viveva in casa dei genitori.
L’altro atto contiene il testamento di Gioacchino Berardi, alias Messina, che, giacente a letto
«con infermità di corpo ma per la grazia di Dio di mente, con perfetta memoria e loquelo [loquace]», l’8
febbraio 1790, «considerando lo stato fragile e caduco dell’umana natura e di non esserci cosa più certa
della morte» ed essendo «incertissima l’ora sua, dobitando perciò passare da questa a miglior vita senza
disponere de’ suoi beni temporali», rilasciò in presenza di notaio le sue ultime volontà234.
Il testante, «di sua propria bocca istituisce, ordina e fa suoi eredi universali» la moglie Angela Colella
e i «suoi cari figli» Primiano, Placido e Nicola Messina, «procreati in costanza di matrimonio con detta
sua moglie», dei propri beni, mobili ed immobili, consistenti in
«una casa di tre membra sottani coverti a tetto, sita in questa sudetta villa,
dirimpetto a questa venerabile chiesa, ed alla strada che conduce in Lesina; tre bovi
aratorj; due cavalli; un traino ferrato con tutto l’ordigna; grano tomola sessanta;
orzo tomola duecento; fave tomola sessanta; legumi tomola diciotto; contanti docati
trecento; seminato in tutto versure dieci sette; e tutti li mobili, ed utensili di
casa»235.
Inoltre imponeva ai suoi eredi che, subito dopo la sua morte, dovevano acquistare un paio di
orecchino d’oro del valore di sei ducati e consegnarlo a Maria Rosa, altra figlia del testatore non
inserita nelle sue ultime volontà, in quanto aveva già ricevuto duecento ducati in contanti, come
previsto nei capitoli matrimoniali stabiliti per il suo matrimonio contratto con Donato Vitale di
Apricena.
Il grado di benessere raggiunto dai Berardi rispecchiava quello delle altre famiglie della
borgata, albanesi compresi, che avevano intrapreso il cammino verso una stabilità economica
accettabile.
232
Caratteristica usanza che imponeva alle ragazze non maritate di portare i capelli sciolti, affinché si
distinguessero da quelle che avevano contratto matrimonio, alle quali si intimava di portare i capelli
intrecciati.
233
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1408, Anno 1786, ff. 162/166.
234
Gioacchino Berardi, altrimenti detto «Messina», originario di Bari, morì il 26 luglio 1790 all’età di 56 anni
circa.
235
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1411, Anno 1790, ff. 21/24.
Seppur gli agenti feudali, ora non più controllati strettamente dal principe don Giulio, potevano
gestire a proprio libero arbitrio l’amministrazione e le entrate fiscali del villaggio, egli permetteva
agli abitanti di Poggio Imperiale, o almeno a coloro che avessero le possibilità, di costruire
abitazioni private sul territorio del nuovo paese concedendogli gratuitamente i suoli edificatori 236.
Eppure, nonostante quest’ultima agevolazione, la condizione sociale dei coloni stava iniziando
a mutare, ma in negativo.

LA REPUBBLICA PARTENOPEA
Il contesto politico delineatosi nel Regno di Napoli nell’ultimo decennio del ‘700 coinvolse
anche la nuova borgata. L’arrivo dei francesi, l’instaurazione della Repubblica Partenopea e le
contrastanti notizie che, diffusamente, arrivavano dalla capitale, che volevano Ferdinando in fuga
da Napoli, destabilizzarono la quotidianità del villaggio, esortato da Giulio Imperiale a
«democratizzarsi» e ad aderire alle nuove idee repubblicane proposte dai transalpini.
Tutto questo accadde nel mese di febbraio del 1799, allorquando le truppe francesi, comandate
dal generale Guglielmo Filiberto Duhesme237, occuparono San Severo mettendola a ferro e fuoco.
In difesa della convicina San Severo, «a semplice invito di quella città», da Poggio Imperiale
accorsero dodici volontari bene armati e uno di essi, Antonio Gianquitto, fu ucciso durante le fasi
dei combattimenti. Era il 25 febbraio del 1799.
Dopo le rovine, i flagelli e le morti che arrecarono a San Severo, i francesi minacciarono di
adottare gli stessi comportamenti a tutti i paesi limitrofi che si schierarono contro di loro.
Per aver partecipato alle operazioni militari in difesa della città, fu imposto al villaggio il
pagamento di una tassa pari a duecentodieci ducati.
Nel timore che il casale sarebbe stato preso di mira e distrutto dall’esercito di Napoleone, i
cittadini di Poggio Imperiale delegarono Nicola Teodoro e Tommaso Focarete a recarsi a San
Severo per intavolare una trattativa con gli ufficiali francesi che scongiurasse eventuali attacchi
militari e concordasse le modalità di pagamento dell’oneroso tributo.
La negoziazione portò ad un accordo che prevedeva un versamento di cento ducati in contanti e
la consegna di due cavalli, il cui valore doveva ammontare a centodieci ducati.
Alla contribuzione l’agente feudale di Casa Imperiale versò, dopo «tanto strepito e clamore della
popolazione», l’esiguo importo di venticinque ducati, mentre la rimanente cifra venne raccolta
grazie alla generosità di quelle poche famiglie facoltose e ai modesti averi delle altre.
Il giorno dopo una rappresentanza di villici, composta da Vincenzo Cappellucci, Tommaso
Focarete e suo figlio GianCamillo, Nicola Teodoro, Raffaele Fiscarelli, Nicola Berardi, Michele
Castellano, Giovanni Braccia e Francesco Morrone, si recò a San Severo per onorare l’impegno
assunto con i francesi. Oltre a soddisfare il debito, saldato con il versamento di cento ducati in
contanti, la consegna dei due cavalli, acquistati al prezzo di centodieci ducati, «oltre la perdita di
trentaquattro schioppi ed altra sorta di armatura», i terranovesi regalarono dieci galline al generale, il
quale incaricò Tommaso Focarete e Nicola Berardi, che accettò malvolentieri, di costituire la
municipalità a Poggio Imperiale, nominando, inoltre, Vincenzo Cappellucci, fratello di don
Anastasio, economo curato della chiesa di San Placido, «tenente d’armi», carica che detenne per
tutto il periodo della Repubblica.
Addossati da cotanta responsabilità, i municipalisti fecero nel villaggio il bello e cattivo tempo.
Per convincere la popolazione ad accettare il nuovo sistema assoldarono addirittura gente armata
dai paesi limitrofi e, per ridurre all’obbedienza coloro che reagivano, imposero agli sgherri di
usare le maniere violenti.
Anche il sacerdote don Anastasio, dal pulpito della chiesa di San Placido, partecipava a
fomentare il clima di tensione con le sue prediche, nel corso delle quali incuteva timore ai fedeli
invitandoli ad aderire al nuovo ordine di cose; in caso contrario «vi era la pena della fucilazione». Lo
stesso prete era convinto che il re non poteva ritornare nel Regno, «avendolo subissato», poiché era

ASF, Atti demaniali, B. 95, f. 4.


236

Guillaume Philibert conte di Duhesme, nacque il 7 luglio 1766 a Mercurey, in Borgogna. Morì il 20 giugno
237

1815 durante la battaglia di Waterloo.


scappato con trentadue milioni di ducati, perciò professava di stare meglio sotto il potere della
Repubblica e non sotto quello monarchico «perché oggi siamo tutti re».
Noncuranti di tutte le minacce e le possibili ritorsioni che potevano subire, i terranovesi
rimasero comunque fedeli al sovrano napoletano, del quale auspicavano un pronto ed immediato
ritorno sul trono. Ma uno dei municipalisti, Tommaso Focarete, ogni qualvolta ascoltava i suoi
paesani esprimersi in favore del sovrano napoletano rispondeva con scherno: «Mo, mo, viene nostro
accatta pannucci», indicando con la mano la tasca di dietro dei pantaloni facendo intendere che il re
non sarebbe più tornato a Napoli e soggiungeva dicendo: «Lascia firnia la giustizia, ca po vedite sto
parlà che facite, a favore del Re».
Persino l’apricenese Antonia Corigliano, moglie di Vincenzo Cappellucci, mostrava il suo
giacobinismo ai suoi ospiti ai quali diceva che il re era agli arresti in un castello della Sicilia e nelle
sue invettive regali, inoltre, rivolgeva frasi ingiuriose nei riguardi della regina con parole
oltraggiose, insensate e irripetibili.
I quattro mesi della municipalità furono vissuti dai poggio imperialesi all’insegna del terrore.
Questo stato di cose permase a Poggio Imperiale circa quattro mesi, in quanto il 13 giugno 1799
le forze sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo scacciarono i francesi ed entrarono in Napoli
permettendo, il 10 luglio successivo, il ritorno di Ferdinando IV sul trono del Regno.
Rientrato a Napoli, il sovrano istituì una Giunta di governo che, per ristabilire il precedente
ordine amministrativo nelle province, nominò quattro visitatori generali il cui incarico, scriverà
Pietro Colletta, era quello di «purgare il Regno da’ nemici del trono e dell’altare».
Ma questi commissari, oltre a scovare i giacobini, avevano anche il compito di segnalare le
persone che erano rimaste fedeli alla corona nel periodo della Repubblica. Per ottenere eventuali
ricompense o gratificazioni dal parte del re, ma anche per i fondati timori che incuteva l’opera dei
visitatori, molti sudditi si recarono dai notai per redigere un atto pubblico dove si dimostrasse la
propria lealtà nei riguardi del sovrano borbonico.
Non furono da meno i cittadini di Poggio Imperiale i quali, giunto nel villaggio il notaio
sanseverese Felice Fraccacreta, decisero di rendere di «pubblica testimonianza» la propria
partecipazione alla difesa di San Severo, la fedeltà dimostrata al re negli anni precedenti con
arruolamenti di volontari nelle truppe reali e le disagiate condizioni in cui ora si dibattevano.
Nei tre atti stesi dal notaio Fraccacreta, due il 7 luglio ed uno il 17 agosto del 1799, si delinea a
chiare lettere il cambio di tendenza assunto nei riguardi dei terranovesi da parte
dell’amministrazione di Casa Imperiale, ma anche l’indole che li teneva legati al sovrano
napoletano.
L’esposto è un evidente attacco ai ministri «dell’Illustre Possessore», dai quali erano caricati di
pesi, affitto di casa, terratico 238, erbatico239 ed altre tasse che puntualmente onoravano. Si
lamentavano inoltre di non aver un’amministrazione propria, in quanto sottoposti malvolentieri
«al Governo di Lesina e perciò ad ogni ordine di questo l’abitanti di detta villa hanno ubbidito» , e la
mancanza di un fonte battesimale, «per cui devono, in ogni stagione, portare i loro bambini a battezzare
nella suddetta convicina città di Lesina, con sommo pericolo di morire per la strada».
Ma il caso più sconcertante riguardava il comportamento poco ortodosso del sacerdote don
Anastasio Cappellucci. Chiamato e retribuito fin dal 1786 dai cittadini di Poggio Imperiale con un
compenso di sessantacinque ducati all’anno più le messe ed altre regalia, come abbiamo potuto
leggere dall’atto nel precedente paragrafo, don Anastasio giunse per affiancare don Carmine
Palmieri, stipendiato dal principe per il quale svolgeva anche l’incarico di vice agente feudale,
nella cura delle seicento anime del villaggio.
Dopo la morte di don Carmine, avvenuta nel 1797, don Anastasio fece di tutto per far ottenere
al fratello Vincenzo l’incarico di vice amministratore feudale dei beni dei Sant’Angelo a Poggio
Imperiale, carica che ottenne, ma che Vincenzo non espletò mai, in quanto il mandato venne
interamente gestito dal fratello prete che, con lo scopo di incamerare il doppio stipendio, chiese ed
ottenne dall’erario di Casa Imperiale la mancata nomina di un secondo sacerdote, «con non poco
discapito di detta popolazione, la quale languisce per la somministrazione de’ Sagramenti e messe».

238
Canone in natura che si pagava per l’affitto di un piccolo appezzamento di terreno
239
Censo dovuto al proprietario di un terreno per il diritto di far pascolare il bestiame.
Pertanto i terranovesi, dopo aver incriminato la famiglia Cappellucci per le idee filo francesi e i
soprusi a cui furono sottoposti durante il periodo della Repubblica, erano fermamente decisi a
presentare le loro suppliche, «attinenti al Governo di detta villa», direttamente a Napoli alla presenza
del re o del suo vicario.
La determinazione di avere un governo indipendente da quello di Lesina era ormai penetrata
nella mente del popolo, convinto assertore della propria libertà feudale ed amministrativa, ormai
maturo di affrontare il futuro consapevole delle proprie potenzialità.
Ma vediamo nella loro integrità i tre documenti redatti a Poggio Imperiale dal notaio Felice
Fraccacreta.
«Giorno 7 del mese di luglio 1799, nella villa di Poggio Imperiale.
In pubblica testimonianza personalmente costituiti nella presenza nostra Ignazio
Bubici, Giovanni Chiaromonte, Lorenzo Picone, Antonio Cagiano, Andrea
Chiaromonte, Angelo Bonante, Nicola Pettograsso, Michele e Nicola Caroppoli,
Michelantonio Gaudino, Filippo Calzone, Nicola Berardo, Andrea Vetere, Antonio
Covino, Marco Bubici, Nicola Teodoro, Giacinto Bubici, Francesco di Michele,
Tomaso Focarete, Nicola di Carlo, Antonio Castellano, Luca Racano, Francesco
dall’Aquila, Matteo Vincitorio, Nazario Malerba, Gaetano Mastropietro, Placido
Iacobacci, Amato di Agostino, Giuseppe Tortorella, Donato Grasso, Giuseppe di
Paola, Pietro Pettograsso, Primiano Saitto, Giovanni Braccia, Placido Belardo
[Berardi], Andrea Focarete, Nicola Bubici, Antonio Ciampa, Sebastiano Stoico e
Francesco Morrone, di questa villa di Poggio Imperiale; li quali non per forza, o
dolo alcuno, né minaccia o timore, ma per ogni miglior via e con giuramento,
spontaneamente asseriscono avanti di noi, qualmente da moltissimi anni si trovano
ad abitare in detta villa, la quale ha circa quanrant’uno anni, che trovasi edificata,
che sta sita in Provincia di Lucera, distante circa duo miglia dalla città di Lesina,
di ragione dell’illustre Principe di Sant’Angelo Imperiale, che oggi compone circa
seicento anime, non stando, non sottoposta al Governo di Lesina, perché non
hanno avuto, come non hanno Governo proprio; e perciò ad ogni ordine di questo
l’abitanti di detta villa, hanno ubbidito. Ed infatti nella reclutazione de’ Cacciatori
nell’anno mille settecento novanta duo, i volontari si annotarono quarantacinque
individui. Nella nuova leva dell’anno mille settecento novantaquattro, contribuì
trenta miliziotti240. E negli anni seguenti mandò al campo otto volontari tutti
armati. Nelli duo di settembre prossimo passato anno mille settecento novant’otto,
anche somministrò altri quattro, in servizio della Maestà del Nostro Sovrano, che
Iddio sempre feliciti, oltre poi alla contribuzione di un carro ferrato, con un bove,
un cavallo, e la rata della paglia, trasportata in San Severo, per le Truppe Regali.
Sta pagato, come ogni altra Università la tassa, sopra il possedibile, fatta da quella
di Lesina, senza che detto Illustre Possessore avesse contribuito cos’alcuna;
quandoché doveva lui solo pagare, perché l’abitanti di detta villa, non possedono
beni alcuni; infuori di tre o quattro famiglie: li rimanenti vivono colle proprie
fatighe, e carichi di pesi di quell’Illustre Possessore.
Alla notizia, che li Francesi venivano in Sansevero, a semplice invito di quella
città, da detta villa, andarono dodeci persone bene armate, in soccorso: e
nell’attacco, che seguì a venticinque febraro corrente anno, uno di essi fu
ammazzato. Ed avutasi la notizia, che quelli cittadini erano perditori, andiedero
altri quattro individuj per aiuto, che giunsero fino ad Apricena, che poi dovettero
ritornarsi, avendo inteso la disfatta de’ nostri.
Entrati li maledetti Francesi in detta città di Sansevero, furono gli abitanti di detta
villa sottoposti da quelli alla tassa, come gli altri paesani, che tassarono loro, e
pagarono docati duecento e dieci, cioè docati cento contanti; e docati cento e dieci in
prezzo di duo cavalli, oltre la perdita di trentaquattro schioppi, ed altra sorta di
Soldati appartenenti alle cosiddette milizie provinciali, corpi militari che in tempo di pace svolgevano
240

compiti di polizia, mentre in tempo di guerra venivano impiegati come formazioni combattenti.


armatura. A queste contribuzioni, non ha pagato niente l’Illustre Possessore, se
non docati venticinque con tanto strepito e clamori della popolazione; quandoché lo
stesso doveva soccumbere a questi interessi, che nella medesima tutto possiede, e gli
abitanti niente, come sopra.
Soggiungono finalmente, che sono da detto Illustre Possessore, e suoi Ministri
caricati di pesi, affitto di casa, terratico, erbagio, ed altro, che puntualmente
pagano; ma niente have abbadato alla cura delle anime, non tenendoci il Parroco;
ed il Sacerdote che esiste, viene dalla popolazione pagato, la quale languisce, per la
somministrazione de’ Sagramenti, e messe. Più poi, patisce per la mancanza del
Fonte Battesimale, per cui devono, in ogni stagione, portare i loro bambini a
battezzare nella suddetta convicina città di Lesina, con sommo pericolo di morire
per la strada. E tutto ciò lo depongono con giuramento.
Presenti per testimoni: magnifico Giuseppantonio De Nictis Regio Giudice a
contratti d’Apricena, Matteo di Michele Centonza di Lesina, Michele Castellano e
Primiano Bubici di Poggio Imperiale»241.

«Giorno 7 del mese di luglio 1799, nella villa di Poggio Imperiale.


Personalmente costituiti nella presenza nostra Ignazio Bubici, Giovanni
Chiaromonte, Lorenzo Picone, Antonio Cagiano, Andrea Chiaromonte, Angelo
Bonante, Nicola Pettograsso, Michele e Nicola Caroppoli, Michelantonio Gaudino,
Filippo Calzone, Nicola Berardo, Andrea Vetere, Antonio Covino, Marco Bubici,
Nicola Teodoro, Giacinto Bubici, Francesco di Michele, Tomaso Focarete, Nicola di
Carlo, Antonio Castellano, Luca Racano, Francesco dall’Aquila, Matteo
Vincitorio, Nazario Malerba, Gaetano Mastropietro, Placido Iacobacci, Amato di
Agostino, Giuseppe Tortorella, Donato Rizzo, Giuseppe di Paola, Pietro
Pettograsso, Primiano Saitto, Giovanni Braccia, Placido Belardo [Berardi],
Andrea Focarete, Nicola Bubici, Antonio del Ciampo, Sebastiano Stoico e
Francesco Morrone, di questa villa di Poggio Imperiale; li quali non per forza, o
dolo alcuno, ma per ogni miglior via e con giuramento, spontaneamente
asseriscono avanti di noi, che non potendo stare tutti nella città di Napoli, alle cose
infrascritte, perché impediti di altri affari; perciò fidati alla bontà ed integrità di
Ignazio Bubici e Nicola Garoppoli di detta villa, li quali possono e vogliono
portarsi in detta città di Napoli ha presentare, presso la Maestà del Sovrano, che
Iddio feliciti, o al suo vicario, supplica in loro nome, per li loro affari, attinenti al
Governo di detta villa, per alcune providenze, come dall’atto pubblico formato per
mano mia, al quale colla facoltà su di ciò, di potere costituire altri Procuratori,
dandole a tal effetto ogni potestà, con avere il tutto per rato, grato e fermo.
Presenti per testimoni: magnifico Giuseppantonio De Nictis Regio Giudice a
contratti d’Apricena, Matteo di Michele Centonza di Lesina, Michele Castellano e
Primiano Bubici di Poggio Imperiale»242.

«Giorno 17 del mese di agosto 1799, Apricena243.


Personalmente costituiti nella presenza nostra, Ignazio Bubici, Primiano Saitto,
Michele Garoppoli, Placido Belardi [Berardi], Primiano Braccia, Leonardo Vetere,
Giuseppe Tortorella, Francesco dell’Aquila, Cristoforo Castellano, Marco Bubici,
Antonio Castellano, Pietro Calzone, Gaetano Mastropietro, Antonio Covino,
Nazario Malerba, Domenico Nista, Berardino del Campo, Pietro Pettograsso,
241
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1419, Anno 1799, ff. 63/68.
242
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1419, Anno 1799, ff. 68/70.
243
Anche quest’atto, come i due precedenti, potrebbe essere stato rogato a Poggio Imperiale, nonostante il
notaio nell’intestazione indichi Apricena. All’inizio dello stesso, infatti, il Fraccacreta, dopo aver elencato i
nomi dei deponenti, scrive che essi sono «tutti di questa villa di Poggio Imperiale». Anche la dichiarazione di
Domenico Supino induce a confermare tale l’ipotesi, poiché denuncia «che avendo servito moltissimi anni il
Barone di questa villa in qualità di guardiano». Quindi…
Primiano Nista, Nicola Teodoro, Nicola di Santo, Primiano Bubici, Filippo
Calzone, Francesco Morrone, Giovanni Gianquitto, Nicola Belardi [Berardi],
Domenico Nista e Giovanni Barone, tutti di questa villa di Poggio Imperiale, li
quali non per forza, o dolo alcuno, né minaccia o timore, ma per ogni miglior via, e
con giuramento, factis scriptoris, spontaneamente asseriscono avanti di noi,
qualmente da più anni addietro, coabitando in questa suddetta villa di Poggio
Imperiale, chè distante da Lesina circa duo miglia, il Barone della medesima teneva
in quella, per commodo, e per amministrazione de’ Santi Sagramenti, un Sacerdote
da lui salariato, che esercitava ancora da viceaggente; e perché la popolazione si era
accresciuta, come lo è in numero di circa seicento anime, pose a sue spese un altro
sacerdote, nomato don Anastasio Cappellucci di Frigneto, coll’annua pensione di
docati sessantacinque, oltre le messe ed altre regalie. Essendo poi circa duo anni
addietro, morto il Sacerdote don Carmine Palmieri, che faceva da viceaggente,
come sopra, in suo luogo, fu surrogato in tal carica, il magnifico Vincenzo
Cappellucci, fratello del nomato Sacerdote don Anastasio, che in detta carica ha
prestato il solo nome, ma il tutto si esercitava dal detto don Anastasio, che per
procacciare del doppio pagamento è dal Barone, e dalla popolazione, dalla morte del
riferito don Carmine Palmieri non fece mettere altro Sacerdote, con non poco
discapito di detta popolazione.
Soggiungono essi costituti, che essendo nelli venticinque di febraro corrente anno,
entrati nella convicina città di San Severo, li Francesi, ed avendo inteso da’ loro
paesani, che erano stati a quello attacco, per cui uno di essi, nomato Antonio
Gianquitto, era stato ucciso, quanta rovina, flagelli e morte avevano detti Francesi
apportato a quella città, e che minacciavano lo stesso a tutta la provincia, si
portarono in quella, per convenire con quel Generale Francese, come l’altre
popolazioni, Nicola Teodoro e Tomaso Focarete, destinati a ciò da questo popolo, e
prima di giungere in detta città, furono sopraggiunti da detto magnifico Vincenzo
Cappellucci, che insieme co’ medesimi si portò da detto Generale, che convennero
collo stesso la transazione in docati cento contanti, e duo cavalli, che furono
comprati per docati cento e dieci, che uniti, il giorno seguente li portarono a
consignare all’anzidetto Generale, che anche ci andiede il divisato Signor Vincenzo
Cappellucci; il quale portò a detto Generale, per regalia, otto galline e duo ne portò
Giancamillo Focarete, figlio di Tomaso, che se li diedero, essendo presenti il detto
Nicola Teodoro, Raffaele Fiscarelli, Nicola Belardi, Michele Castellano, Giovanni
Braccia e Francesco Morrone; e ciò lo depongono per averlo inteso dire da detti
testimoni presenti, come sopra; come anche di avere detto Generale in quel giorno,
che portarono la transazione di sopra, e le galline, destinati municipalisti di questa
villa, Tomaso Focarete, e Nicola Belardi, che accettò l’ultimo di malavoglia. E
volendo esso Generale destinare anche il Tenente d’armi, domandò alle persone di
sopra, chi volevano in detta carica, senzaché alcuno di essi avesse risposto, si fece
d’avanti esso Vincenzo Cappellucci, offerendosi volontariamente voler lui
esercitarla, come seguì, e l’ave esercitata tutto il tempo della Repubblica.
Primiano Bubici, Filippo e Pietro Capone trovandosi un giorno a discorso con il
sacerdote don Anastasio Cappellucci, e ciò in tempo della Repubblica, lo stesso
disse, presente anche Nicola Vito Colella, che lui da quattro anni addietro sapeva
che il Re doveva essere ucciso, o pure fuggire; e conchiuse, non poteva tornare più
in Regno, avendolo subissato, con portarsi più di trentaduo milioni, che
negoziandoseli, non aveva di bisogno ritornare; e perciò stiamo meglio in potere
della Repubblica, che del Re, mentre oggi siamo tutti Re.
Di vantagio asseriscono, che detto don Anastasio un giorno da sopra il pulpito di
questa chiesa ha letto e pubblicato l’infami proclami Francesi, con aria e zelo,
incutendo timore a tutti, che in caso d’inosservanza, vi era la pena della
fucilazione.
E Tomaso Focarete uno de’ municipalisti, in ogni qualvolta si parlava che il Re
doveva ritornare, rispondeva con scherno: “mo, mo, viene nostro accatta pannucci”
accompagnando con segno di mano, al di dietro la tasca, volendo intendere che non
veniva il Re, e soggiungeva dicendo: “lascia firnia la giustizia, ca po vedite sto
parlà che facite, a favore del Re”. E tutto ciò essi costituti lo depongono, parte per
averlo inteso dire dallo stesso Focarete, e parte da chi furono presenti al parlare di
sopra.
Parimenti asseriscono, che il più volte nomato don Anastasio Cappellucci avendo
inteso l’entrata de’ Moscoviti in Foggia, disse, che lui non credeva essere venuto il
Re, perché il cuore non ce lo prediceva. E venuti furono l’armi del Re, perché li
naturali di questa villa non pagavano al Barone, lui più volte disse: “Ecco ch’è
venuto il vostro Re, perché ora non pagate?” Esercitando insieme con detto
magnifico Vincenzo Cappellucci la carica di viceaggente, come sopra, ha fatto
trapazzare questa popolazione, con fare venire varie volte gente armata dà
convicini paesi, volendo a forza esiggere, senz’ordine superiore, facendoli battere e
spiare le case; ed in tempo della Repubblica teneva per spione Angelantonio
Simeone, che sempre diceva che il re non veniva più.
Primiano Braccia asserisce, che stando sopra la casa di esso Cappellucci, in un
giorno, che non si ricorda il positivo, intese d’Antonia Corigliano, moglie di detto
magnifico Vincenzo Cappellucci, dire che il Re stava in castello in Sicilia arrestato
con guardie; e che però non poteva venire più, ed ave ingiuriata la nostra Sovrana,
Iddio guardi, con parole che non si permette ponerle in carta.
Domenico Supino dice, che avendo servito moltissimi anni il Barone di questa villa
in qualità di guardiano, ed essendo fatto vecchio, li fu da quello assegnato la piazza
morta, che il suddetto don Anastasio in tempo della Repubblica, non l’ha voluto
più pagare, come non ce la paga presentamente, riducendolo andare limosinando.
Tutto ciò essi costituti lo depongono e fanno, chi per averli inteso colle proprie
orecchie, e chi per averceli detto, chi stava presente. Ed è la verità.
Presenti per testimoni: magnifico Giuseppantonio de Nictis Regio Giudice a
contratti, Nicola Vito Colella, Giuseppe di Domenico, di detta villa, e Domenico di
Simone di Apricena»244.

L’OTTOCENTO E L’INDIPENDENZA COMUNALE


Con l’avvento del nuovo secolo si erano accentuati i dissapori e le dispute che i terranovesi
sostenevano con gli amministratori del principe Giulio. Problemi sorti dopo la morte di Placido
Imperiale e denunciati negli esposti rilasciati al notaio Fraccacreta nell’estate del 1799.
Il villaggio, a quarant’anni dalla sua fondazione, necessitava di una fase di ammodernamento
amministrativa ed ecclesiastica. Gli abitanti, prima eterogenei, ora apparivano tutti conformi e
solidali, appartenenti ad un’unica casta e accomunati dalla stessa idea di affrancamento feudale.
Il progresso aveva rappresentato una trasformazione qualitativa e quantitativa significativa del
loro modo di vivere, della loro capacità di pensare e di agire.
Quella tanto sospirata volontà di progresso li portò, nel 1810, ad «implorare» il Ministro
dell’Interno Giuseppe Zurlo a migliorare la loro sorte245.

giunto ad ospitare oltre 789 anime246, aveva raggiunto un eccellente grado di prosperità,

244
ASL, Fondo notarile, 2ª Serie, notaio Felice Fraccacreta, Prot. 1419, Anno 1799, ff. 110/117.
245
ASF, Affari demaniali, B. 95, f. 1.
246
«Stato delle Anime» effettuato don Donato Morelli, economo curato della chiesa di San Placido, e
comunicato all’abate Giambattista Giaquinto, agente per la divisione dei demani, il 26 luglio 1813. Il
dispaccio è in ASF, Affari demaniali, B. 95, f. 50.
CAPITOLO VIII

PLACIDO IMPERIALE, PRINCIPE DI SANT’ANGELO DEI LOMBARDI,


«HUMANI GENERIS BONO NATUS»
Questo lavoro di ricerca storica si conclude dedicando un doveroso spazio a colui che è stato il
protagonista indiscusso delle vicende primordiali di Poggio Imperiale: Placido Imperiale, il
principe di Sant’Angelo «humani generis bono natus», nato per il bene del genere umano, come
egli stesso amava definirsi.
Una scheda, realizzata in collaborazione con Michele Vespasiano di Sant’Angelo dei Lombardi,
illustrerà la figura di questo personaggio dal fascino misterioso, cercando di chiarire i dubbi che
aleggiano intorno alla figura: era un Signore munifico o, come afferma qualcuno, un autocrate?
Dopo aver fatto un breve excursus storico sulla sua illustre Casata, di cui era superbamente un
esponente di spicco, dalla venuta a Genova all’acquisizione del feudo napoletano di Sant’Angelo
dei Lombardi, ci siamo inoltrati nell’epoca sociale e politica di don Placido: la realtà della Napoli
spensierata e baldanzosa del 1700.
E nel ricostruire questa opulenta realtà ci si è imbattuti in tanti episodi del tutto inediti tramite i
quali, gradatamente, si è venuta a delineare la forte personalità e l’imperturbabile indole del
principe di Sant’Angelo. Episodi che porteranno la notevole figura di don Placido alla sua giusta
collocazione nella élite dei nobili che componevano la corte di Carlo III di Borbone prima e di suo
figlio Ferdinando poi.

IMPERIALE OLIM TARTARO


Nel XII secolo, Giovanni «il Tartaro», avvalendosi dei commerci esercitati dai genovesi nelle
loro colonie di Caffa (oggi Feodosija) e Tana, città poste sulle rive del Mar Nero, si era trasferito da
quei luoghi a Genova, dando avvio al casato dei «TARTARO».
Già nel XIII secolo, segnato nella città ligure da profonde discordie civili, i diretti discendenti di
Giovanni furono chiamati a far parte degli «Otto Nobili», massima autorità dell’epoca della locale
Repubblica, affermandosi alle più alte cariche e sottolineando in essa la loro personalità ed il loro
elevato senso di dignità.
Le cronache riferiscono che nel 1188 Ospinello Tartaro, figlio di Oberto e nipote di Giovanni,
con altri compatrioti, firmò la pace alla conclusione delle ostilità sorte tra Genova e Pisa per il
predominio sulla Sardegna; mentre suo fratello Opicino o Opizzino, console della Repubblica di
Genova nel 1202 e nel 1225, fu ambasciatore ad Asti per condurre una trattativa commerciale con
Tommaso I conte di Savoia247.
Nel 1270 Lanfranco Tartaro fu «sindaco» per l’osservanza della tregua tra Genova, Firenze e
Pisa a nome di Guglielmo Pusterla, podestà di Genova; nel 1294 fu armatore della flotta di Filippo
IV il Bello, re di Francia, per la guerra contro gli inglesi e, nel 1301, ammiraglio di una crociata in
Terra Santa promossa da Bonifacio VIII e dalle nobili dame genovesi.
Nel 1298 Gavino Tartaro, figlio di Simone, prese parte alla vittoriosa battaglia contro i
veneziani, spingendosi arditamente con sei galee genovesi fin sotto Venezia. Fu, inoltre, Vicario
della Repubblica di Genova a Costantinopoli e nei paesi litoranei del Mar Nero nel 1300, autore
degli statuti di Pera, componente degli «Otto Sapienti» del Comune di Genova nel 1302 e Podestà
di Albenga nel 1303. E proprio a Gavino si fa derivare il mutamento del cognome del casato,
dovuto ad un privilegio dell’imperatore di Costantinopoli Andronico Paleologo II, il quale
concesse ai «Tartaro» di  denominarsi «Imperiale» premiando il contributo profuso da Gavino
Tartaro Imperiale, considerato un navigatore risoluto, nella promozione dei traffici commerciali
fra Genova e l’Oriente, nonché della conseguente prosperità economica del suo impero 248.

247
G. D. OLTRONA VISCONTI, Per la genealogia della famiglia Tartaro poi Imperiale (secc. XIII-XV), in «Bollettino
Ligustico» XXVIII 7/4, Genova 1976, p. 3.
248
Ibidem, p. 9.
Nel 1528 la Casa Imperiale fu una delle ventotto famiglie che in Genova costituirono gli
«Alberghi»249, nei quali venne ristretta ogni autorità di governo. Nel «Capo Albergo Tartaro-
Imperiale» confluirono, tra le altre, anche le famiglie de Vineis, Fassa, Ioardi, Mangiavacche,
Passio, Pignataro e Terrile.
Nel 1378 la famiglia Imperiale tenne la Signoria dell’isola di Corsica; godette di nobiltà a
Milano, Vicenza e Napoli, dove il 4 gennaio 1743 fu ascritta al libro d’oro del Seggio di Capuana 250.
Vestì l’abito di Malta dal 1608 e venne insignita del Toson d’Oro 251, del Real Ordine di San
Gennaro252 e del Grandato di Spagna di 1ª classe 253. Venne, inoltre, fregiata dei titoli di principe di
Francavilla nel 1639, di principe di Sant’Angelo dei Lombardi nel 1718, di marchese di Oria nel
1575 e di marchese di Latiano nel 1668. Occupò, inoltre, i maggiori uffici nella Real Corte
Borbonica: di Maggiordomo Maggiore dal 1753 al 1759, di Capitano delle Reali Guardie del Corpo
dal 1775 al 1782 e di Cavallerizzo Maggiore dal 1855 al 1860254. 
Oltre a partecipare alle imprese politiche ed economiche della Repubblica di Genova, la
famiglia Imperiale fece sentire la sua presenza anche in campo ecclesiastico, in quanto alcuni dei
suoi membri indossarono l’abito talare: nel 1439 troviamo Giacomo, abate del monastero di Santo
Stefano in Genova e Arcivescovo della città ligure; Michele, figlio di Giovan Carlo, fu vescovo di
Aleria, in Corsica nel 1653. Lorenzo (1612-1673), figlio del marchese di Oria e Signore di
Francavilla; Michele, creato cardinale di Santa Romana Chiesa il 19 febbraio 1652.
Molti gli incarichi ricoperti dal cardinal Lorenzo Imperiale: Tesoriere Generale della Camera
Apostolica, Vice Legato di Bologna, Membro del Sant’Uffizio, Governatore della Marca di Ancona
e Governatore di Roma nel 1653. Nel 1648, su ordine di papa Innocenzo, si recò a Fermo per
dirigere il processo relativo all’assassinio del Governatore, monsignor Uberto Visconti, seguito a
disordini causati dalla carestia, al termine del quale egli decretò la condanna a morte dei priori
della città, di dodici nobili e di sei popolani.
Un alto porporato fu Giuseppe Renato (1651-1737), eletto al soglio cardinalizio il 13 febbraio
1690, al quale, nel conclave apertosi dopo la morte di Innocenzo XI nel marzo del 1730, che elesse
Clemente XII, gli mancò un solo voto per sedere sul trono pontificio. Pesò sulla mancata elezione a
papa dell’Imperiale il veto della Spagna. Infine Cosimo (1685-1764), figlio di Ambrogio, eletto
cardinale il 26 novembre 1753. Fu Legato delle Marche nel 1739; due anni dopo venne chiamato a
Roma e nominato chierico della Camera Apostolica da papa Benedetto XIV e nel 1747 fu
Governatore di Roma.  
Oltre alle dignità religiose, vari componenti la famiglia Imperiale hanno ricoperto la carica di
Doge della Repubblica di Genova: Gian Giacomo (1550-1622), figlio di Vincenzo e Franceschetta

249
«L’albergo dei nobili» fu una tipica istituzione medioevale genovese, consistente in una aggregazione di
più famiglie che abbandonavano il proprio cognome assumendone uno comune, quello della Casata più
importante. Voluto dal doge Andrea Doria, sia per realizzare l’unione della nobiltà che per ostacolare lo
sviluppo della democrazia cittadina. Venne abolito nel 1576.
250
Istituzione fondata nel 1453 nei pressi di Porta Capuana, da cui il nome. Ai suoi uffizi erano addette le
famiglie più nobili, avendo il voto nei pubblici affari e nell’elezione di coloro che, col titolo di Eletti,
governavano l’annona.
251
Ordine cavalleresco, istituito nel 1429 dal duca di Borgogna, Filippo il Buono, concesso unicamente a
sovrani e ad esponenti dell’alta nobiltà e destinato ad assicurare la diffusione ed il prestigio della fede
cattolica.
252
Ordine istituito il 3 luglio 1738 da re Carlo III di Borbone in occasione del suo matrimonio con Maria
Amalia Walburga, che si autonominò Capo e Gran Maestro.
253
Alta dignità nobiliare del Regno di Spagna concessa a chi deteneva il titolo di principe. Era divisa in tre
classi: Grandi di Spagna di 1ª classe, di 2ª e di 3ª classe, le prime due erano ereditarie e passavano anche alle
donne primogenite, la terza era personale. Nel cerimoniale spagnolo i «Grandi di 1ª classe», durante la
cerimonia dell’investitura si coprivano il capo prima di rivolgere la parola al Sovrano: quelli della 2ª
parlavano a capo scoperto ma poi dovevano coprirsi per udirne la risposta, quelli della 3ª aspettavano prima
di coprirsi il capo un segnale del Re, dopo aver risposto. Anche le consorti ed i figli primogeniti avevano gli
stessi onori del capofamiglia. Questa carica venne abolita dalla Consulta Araldica del Regno d’Italia con
«Massima» del 26 marzo 1926.
254
Cfr. V. SPRETI, Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana, A. Forni Editore, Sala Bolognese 1969, Vol. III, p. 677.
Spinola, dal 1617 al 1619; Francesco Maria (che per eredità portava anche il cognome Lercari) 255 dal
1683 al 1685; Francesco Maria II di Sant’Angelo nel biennio 1711-1713 e infine Ambrogio (1649-
1730), figlio di Federico e Genova Argentina Lomellini, dal 1719 al 1721256.
Il ramo degli Imperiale di Sant’Angelo ebbe origine il 4 aprile del 1631 quando il dottor
Giuseppe Battimello, per persona da nominare, acquistò per 108.750 ducati lo «Stato di
Sant’Angelo» nel Principato Ultra del Regno di Napoli257.
Il Battimello fece questa compera ad «istanza e contemplazione» di Gian Vincenzo Imperiale di
Genova, il quale si indusse ad acquistare le città di Sant’Angelo e Nusco e le terre di Lioni,
Andretta e Carbonara (oggi Aquilonia) in quanto «il permutar mobili in stabili non gli pareva contrario
alla regola economica»258.
Primo ed unico maschio degli otto figli del doge Gian Giacomo e di Bianca Spinola, Gian
Vincenzo nacque a Sampierdarena sul finir della primavera del 1582. Esperto studioso di lettere
italiane e latine, viaggiò molto descrivendo undici viaggi. Fu ambasciatore presso Filippo III di
Spagna, la Corte Pontificia e il Viceré di Napoli, senatore di Genova e commissario d’armi.
Divenuto proprietario di un possedimento su cui gravavano liti e crediti ipotecari,
l’amministrazione del feudo fu curata dal dottor Landolfo De Aquino che, alla sua morte, ne
trasmise il possesso al figlio Luigi, il quale, nel 1665, procedette alla liquidazione del relevio259.
La morte di Gian Vincenzo, spentosi dopo una lunga malattia il 21 giugno 1648, provocò delle
liti in famiglia, in quanto «egli aveva prescritto con un suo biglietto autografo di riconoscere per
successore nello stato di Sant’Angelo il figlio secondogenito Giovan Battista»260, ma il testamento venne
impugnato dal figlio maggiore Francesco Maria, perché contrario alle leggi feudali di Napoli, che
prevedevano la successione in via primogenita. Dopo una transazione fra le parti, la questione si
definì a favore di Francesco Maria «giovane ambizioso ed arrivista, poco incline agli amori fraterni e al
rispetto dell’autorità paterna»261.
Deceduto questi il 1° agosto 1678 ed avendo avuto il primogenito Gian Giacomo premorto, la
successione del feudo di Sant’Angelo si aprì a favore del figlio di costui, che portava lo stesso
nome del nonno, Francesco Maria. Per curare la buona missione della proprietà e per fronteggiare
il dilagare del brigantaggio, il nuovo feudatario inviò a Sant’Angelo il fratello Enrico. Ma a causa
dei rilevanti incarichi politici ricoperti a Genova (fu infatti senatore perpetuo e, come abbiamo già
visto, Doge dal 17 settembre 1711 al 22 settembre 1713), Francesco Maria II fu costretto ad
assegnare il dominio napoletano al figlio Giulio.
Giulio nacque a Genova il 5 giugno del 1680 dal matrimonio tra Francesco Maria II Imperiale e
Livia Centurione. Indirizzato dal padre alla vita ecclesiale, dopo gli studi religiosi fu inviato a
Ferrara, dove ricoprì l’incarico di Monsignore Protonotario Apostolico dal 1705 al 1718.
Perché appartenente ad una delle famiglie più in vista della Repubblica, il 22 luglio del 1705
venne ascritto alla Nobiltà di Genova. Nel 1708, il Legato pontificio della città estense, cardinal
Lorenzo Casoni262, tenendolo in alta considerazione perché «sul fiore dell'età e perché franco all’ultimo
255
Altro ramo, estinto, degli Imperiale. Da non confondere con i due Francesco Maria della linea dei
Sant’Angelo. Doge in carica, dopo il bombardamento subito da Genova nel 1684, dovette recarsi in missione
a Versailles dal Re di Francia, il quale pretendeva che la Repubblica di Genova restasse neutrale, si
congedasse dalla città il presidio spagnolo e che la Repubblica contribuisse al restauro degli edifici religiosi
rimasti danneggiati durante il bombardamento.
256
G. D. OLTRONA VISCONTI, Imperialis Familia, Piacenza 1999, pp. 41/44, 55/56, 59/60.
257
Cfr. C. NARDI, Gian Vincenzo Imperiale e il suo soggiorno napoletano. Un genovese a Napoli nel ‘600, in
«Bollettino Ligustico» N° 3, Genova 1969, p. 130.
258
Ibidem, p. 131.
259
Tassa che l’erede del defunto feudatario, al quale era concesso l’utile dominio a vita, pagava al fisco per
rinnovare l’investitura feudale (ad relevandum feudum) e quindi continuare il possesso dei domini.
260
Cfr. C. NARDI, op. cit., p. 132.
261
R. MARTINONI, Gian Vincenzo Imperiale. Politico, letterato e collezionista genovese del Seicento, Editrice
Antenore, Padova 1983, p. 78.
262
Il cardinale Lorenzo Casoni nacque a Sarzana (La Spezia) nel 1643. Creato cardinale di Santa Romana
Chiesa il 17 maggio del 1706 da papa Clemente XI, fu nominato nel 1713 Legato a latere di Bologna,
successivamente fu Arcivescovo di Cesarea e, dal 21 gennaio del 1715, di San Pietro in Vincoli, dove fu
sepolto dopo la sua morte, avvenuta a Roma il 19 novembre 1720.
segno animoso», lo nominò vice Legato papale e, in quello stesso anno, gli fu affidato il comando delle
truppe pontificie costituite da papa Clemente XI per riconquistare Comacchio, occupata
dall’esercito austriaco dell’imperatore Giuseppe I.
Nel 1711, con la carica di segretario della Congregazione Pontificia di Ferrara, organizzò a
Milano l’incontro fra il Legato a latere della città estense, cardinal Giuseppe Renato Imperiale, suo
parente - uno tra i cardinali più influenti della Chiesa nel Settecento - e l’imperatore austriaco
Carlo VI, in visita nella città lombarda.
Nel 1717, Giulio abbandonò l’abito talare per subentrare al padre nel possesso del feudo irpino
di Sant’Angelo, dopo aver ottenuto la refuta dal fratello maggiore Gian Giacomo 263 l’8 aprile dello
stesso anno.
A differenza degli avi, suoi predecessori, Giulio si trasferì definitivamente a Napoli, curando
personalmente la gestione della sua nuova proprietà, accrescendone sia l’aspetto demografico che
quello economico, grazie anche all’energica azione intrapresa contro il brigantaggio che
imperversava nella zona del Principato Ulteriore, fenomeno fronteggiato negli anni precedenti
anche dallo zio Enrico. Riconoscendo queste indubbie qualità, lo stesso imperatore Carlo VI, con
Diploma sottoscritto a Vienna il 19 ottobre 1718, convalidato dal regio exequator di Napoli del 20
marzo 1734, conferiva a Giulio Imperiale il titolo di principe di Sant’Angelo dei Lombardi.
Riportiamone il testo:
«Carolus Sexius Divina Javenteelementia electus Romanorum Imperator simper
Augustus etc. – Spectabili egregio magnifico nobili fideli nobis dilecto D. Julio
Imperiale gratiam nostram Caesaream Regiam ac bonam voluntatem. Dum nostras
erga sublitos, qui tum mirabilibus ascenlentium gestis tum propriis egregiis eorum
servitiis de nobis undequaque fiunt benemeriti munifice largitatis incumbimus usu
eadem methodo qua dignam meritis retributionem deliberamus, paterni amoris
simul et justitiae exerceamus. Hinc tua totiusque familiae tuae in no set
augustissimam domum nostram merita juxta allegatam cum supplicibus precibus
tuis vetustorum factorum seriem celeberrimi set fide dignis authoribus robboratam
serio excogitantes, ea certe invenimus, quae velut gratitudine nostra digna
praecipuam et singularem remunerationem exposcunt. Guidus nempe Imperialis
Comes de Ventimiglia vinculo sanguinis cum Alphonso nono Rege Hispaniarum
stricti coniunctus simul cum codem adversus Saracenos strenue pugnavit. Ipsius
familiare Imperialis descendentes sex decim costruxere triremes  Romanorum
Imperatoris dicatas servitio, cujus’e triumphorum in remunerationem Aquila
nigra aureo cum capite coronata fuit merito hiisdem ab Imperatore concessa
Hocceque cum signo semper in Italia partes Imperii fuerunt sequti: Reipublicae
Genuensi plurimos ad Reges Curiam Romanam statumque Venetum praebuit haec
familia praeclaros pressantesque Nuncios, ut Angelus Imperiale, qui ad Robertum
Regem Neapolis missum pacem inter Ghibellinos et Guelphos stabilivit. Ipse
Pontificiam in Aula pacem paulo antea cum Rege Aragonum super Sardiniae
Regni negotia conclusam religiose juravit. Imperialis familiae Ascendentes
Regnum Corsicae in feudum a Januense Republica acceperunt, inter quos quidam
Pelegro cognominatus prudentissimi Gubernij memoriam posteris suis in aevum
reliquit. Bartholomeus Imperiale cum Lugdovico Rege Hungariae confederationem
adversus Venetos perfuit. Celebres suarum Trirerium et Navium milites ubique
fuere Imperiales praecipueque Bellorum maritimorum Reipublicae tempore inter
quos numerantur Roggierone, Batirone, Thomas, Marius Imperiale, plurimique
alii post ipsos. Marius ex parte Reipublicae cum Carolo quarto Imperatore
concordiam inivit. Paulus ad Eugenium quartum Ponteficem Maximum missus,

Gian Giacomo (Genova 4 aprile 1679 – 7 aprile 1744) fu costretto alla rinuncia del feudo dal genitore,
263

perché incapace di assicurare una discendenza al casato. Per via della sua impotenza, nel 1716 venne sciolto,
da papa Clemente XI, persino il suo matrimonio contratto con Annetta Pallavicini. Ascritto alla nobiltà di
Genova il 1° febbraio del 1700, fu Consigliere Maggiore della Repubblica di Genova dal 1725 al 1735 e
Senatore nel 1733.
qui nuncius Comes Palatinus a beo fuit declaratus. Idemque ab Hercuria lunc
potentissima Republica tres triremes arripuit Gubernataque postea in cassa
Genuensi Polonia unionem Armeniorum ad Ecclesiam Latinam ad finem per luxit
cujus rei in praemium Romae Senator ab eodem Pontifice fuit declaratus. David
suis cum triremibus Don Joanni Austriae celeberrimo in illo militari de Lepanto
conflictu strenue inservivit. Vincentius post Pontificiam perfectam legationem a
sua Republica Generalis Maritimus et Terrestris fuit electus. Federicus Austriacae
Nostrae Domus in servitio Mediolani et Flandriae egregie se gessit. Nicolaus
Caesarea adscriptus servitio memorando (vulgo de Tiumville) in conflictu strenue
pugnavit. Demumque Michael Imperiale tumultuantem semel civitatem de Lecce
Regii sui Presidis cum occisione Caesaream ad obedientiam mille Pedestris ordini
set tercentum Equestris cum militibus ex suis Terris sollicite collectis protinus
reduxit. Eidemque civitate Galicae Clavis in adventum promptum omni
victualium genere praebuit auxilium, expensisque suis septingentos pedestris
ordinis et tercentos equestris milites Neapolim misit; Annoque millesimo
sexcentesimo quarto Generali Brancaccio adversus Galicam classem non parvo
numero gentis suis sumptibus factae et soluta fuit Auxiliator inique ut maris
litura defenderet solus permansit. Hisce progenitorum tuorum praeclarissimis
gestis, et pervenusti perillustrisque generis tui circumstantiis cum accedant
diuturna quamplurima specialia utilia et profigua servitia a te nobis undique
fidelissime impensa, Auditis merito a Nobis precibus supplicibus tuis ut te
totamque prolem et posteritatem tuam illustrare dignarerum: Titulo et dignitate
Principis super feudum Sancti Angeli de Lombardis, quod justis et legitimis titulis
(ut asserit) in nostro Citerioris Siciliae Regno possides te modo quo infra
decorandum duximus. Quare tenore praesentium ex certa scientia Regiaque
authoritate nostra deliberate et consulto gratia speciali maturaque Sacri nostri
Hispaniarum Supremi Consilii accedente deliberatione te supra nominatum Don
Julium Imperiale tuosque utriusque sexus haeredes et successores legitimos ordine
successivo sexus et primogeniturae praerogativa servatis Principem et Principes 
praedicti feudi Sancti Angeli de Lombardis facimus, constituimus et perpetuo
creamus, feudumque prae expressum Sancti Angeli de Lombardis atque illius
membra, districtum, et territorium in Principatus titulum, et honorem erigimus et
extollimus, teque dictum D. Julium Imperiale tuosque utriusque sexus haeredes et
successores legitimos praefato ordine successivo servato Principem, et Principes
ejusdem feudi Sancti Angeli de Lombardis dicimus et nominamus»264.
Anno fondamentale, il 1718, per Giulio Imperiale che, dopo aver ottenuto il titolo principesco e
la nomina di Grande di Spagna di 1ª Classe, il giorno di Natale sposò Maria Cornelia Pallavicini,
sua lontana parente in quanto figlia del marchese Niccolò, patrizio e senatore della Repubblica di
Genova, e Argentina Brigida Imperiali, appartenente all’altro ramo degli Imperiale, i Francavilla.
All’indomani della conquista del Regno di Napoli da parte di Carlo III di Borbone, la scelta
politica del principe Imperiale fu di pronta e netta adesione al nuovo regime, sebbene dovesse agli
austriaci il titolo nobiliare. Pertanto il nobile genovese si trovò vicino ai nuovi dirigenti del re
Borbone, impegnandosi in prima persona a stabilire regolari relazioni diplomatiche tra Napoli e
Genova, venendo inoltre chiamato dal primo consigliere di Stato, il conte di Santo Stefano, a
partecipare ai lavori di una speciale «giunta», preposta a rinnovare le vecchie e lente strutture del
Regno. Grazie alle sue notevoli doti la Repubblica di Genova, con lettera creditizia del 24 aprile
1736, gli affidò l’incarico di «inviato straordinario» a Napoli, dove morì, in piena vigoria fisica all’età
di cinquantotto anni, il 7 dicembre 1738.

264
E. RICCA, La Nobiltà delle Due Sicilie, A. Forni Editore, Sala Bolognese 1979, Copia anastatica dell’edizione
di Napoli del 1859-1879, Vol. IV, pp. 338/340.
A Giulio successe il figlio Placido, al quale il 17 dicembre successivo venne «spedita significatoria
per il relevio e sua informazione per le entrate feudali dello stato di Sant’Angelo»265 ed il pagamento fu
eseguito due anni dopo dai suoi tutori, la madre e don Agostino Saluzzo, duca di Corigliano.
Dopo circa mezzo secolo di illuminato governo, a Placido, spentosi improvvisamente il 10
dicembre 1786,  subentrò il primogenito Giulio II, il quale venne dichiarato erede dei beni paterni il
15 dicembre 1786266 e subito dopo  dovette affrontare una difficile e complessa vertenza con i
fratelli  Domenico, Gaetano e Giuseppe per la divisione dei beni burgensatici del padre, morto
senza aver fatto testamento. La questione fu risolta grazie alla mediazione del presidente del Sacro
Regio Consiglio, il marchese Cito, delegato da Ferdinando IV di Borbone e l’intesa fra i quattro fu
consacrata in un atto del 19 febbraio 1798267.
Don Giulio, terzo principe di Sant’Angelo dei Lombardi, Grande di Spagna di 1ª Classe, Signore
di Nusco, Lioni, Oppido, Carbonara, Monticchio, Andretta, San Paolo in Capitanata e dell’Isola e
del Lago di Lesina, Patrizio Genovese, Ciambellano dei Re di Napoli Giuseppe Bonaparte e
Gioacchino Murat, Ministro Plenipotenziario del Regno di Napoli in Austria nel 1812, fu
battezzato a Napoli, nella chiesa di Sant’Anna di Palazzo il 27 marzo 1752.
Gentiluomo di camera «con esercizio» di Ferdinando IV di Borbone, il principe di Sant’Angelo
fu tra i nobili più in vista per dovizia di mezzi e fasto del tenore di vita.
Il 19 luglio 1767 prese in moglie Maria Francesca Albertini 268, principessa di Faggiano e
duchessa di Carosino, che gli portò in dote una discreta rendita che le veniva dai feudi tarantini.
A parte l’unico figlio maschio, Ferdinando, mortogli in tenerissima età, dal matrimonio
nacquero altre quattro figlie: la primogenita Maria Giulia, maritata al marchese di Salza Francesco
Maria Berio; Teresa, che aveva sposato nel 1796 il principe Giovannantonio Capece Zurlo;
Maddalena, maritata con Francesco Macedonio duca di Grottolella, e Placida, maritata con Ettore
Carafa principe della Valle.
Uomo di non comune cultura, anche se fortemente contraddittorio e opportunista, Giulio
Imperiale non fu inizialmente attratto alle nuove idee giacobine che a Napoli arrivavano come eco
della Rivoluzione francese. Al contrario, egli si distinse per il suo zelo controrivoluzionario, tant’è
che nel giugno 1796 il sovrano gli concesse il grado onorario di capitano per essersi distinto nel
promuovere la leva e per avere a sue spese armato, pagato e fornito d’uniforme «volontari» per
l’esercito.
Ad evidenziare la qualità del rapporto che il Signore di Sant’Angelo dei Lombardi ebbe con il
re, basta il ricordo di una battuta di caccia con il sovrano borbonico e il principe ereditario
Francesco che l’Imperiale ospitò nel suo feudo di Lesina nel maggio del 1797 e che lo stesso
Ferdinando IV così descrive nel suo «Diario segreto»:
«Giovedì 18 [maggio]. Alzatomi alle due e mezza, vestitomi, intesa la Santa Messa
ed alle tre e mezza partito con Francesco ed i miei per Lesina. Alla seconda posta
sbagliata la strada; poco, per altro, di cammino abbiamo perduto. Dopo di aver
traversato le sue belle campagne e luoghi, amenissimi, arrivati alle sette a Lesina,
paese piccolo situato sul lago così chiamato, grande di 32 miglia di giro.
Imbarcatici in una barca del principe di Sant’Angelo, padrone del luogo,
camminato per due ore. Arrivati alla riva dalla parte di levante, dove ci era una
pesca preparata alla sboccatura di un fiumarello; pescato, posto piede a terra e fatto
colazione in una casetta de’ pescatori. Rimessici in barca, traversato il lago e
smontati dalla parte opposta, dove vi è un superbo bosco tra il lago e il mare. Dato
mena ma infruttuosamente, perché essendovi in quel bosco molta caccia, non
essendo prattici, per volerla forzare ad andare in un isola, né l’aveano
antecedentemente cacciata. Terminata la mena, alle due rimessici in lancia, andati
265
F. SCANDONE, L’Alta Valle dell’Ofanto, Tipografia Pergola, Avellino 1957, Vol. I, p. 337, doc. 673.
266
Ibidem, p. 77.
267
Cfr. F. BARRA, Gli Imperiale di Sant’Angelo tra riforme e rivoluzioni (1718 - 1818), in «Civiltà Altirpina», Anno
III, luglio-agosto 1978, fasc. N° 4, p. 25.
268
Figlia di don Fabio II Albertini, 6° Principe di Faggiano e 2° Duca di Carosino, e di Porzia Filomarino.
Morì a Napoli il 25 novembre 1831.
a sbarcare in un altro luogo, dove vi è un comodo casino di legno, dove abbiamo
avuto un sontuoso pranzo di 30 coverti, ma noi non eravamo che sette. Il casino
resta giusto dirimpetto all’isola di Tremiti, distante miglia sedici. Terminato il
pranzo, alle cinque montati in carrozza, partiti per ritornarcene, traversando tutto
il bosco per una strada ben angusta per cui ruppimo il timone, che accomodammo
subito. Al calar del sole arrivati alla Badia di Riposto ed a mezzanotte felicemente
in Foggia, dove sono stato ben ricevuto da mia moglie. Data la buonanotte a tutti e
coricatomi. La giornata è stata buona, ma molto calda» 269.
La battuta di caccia si tenne nel bosco dell’Isola di Lesina, alla foce di Sant’Andrea, mentre il
seguito reale si trovava a Foggia ad attendere la principessa Clementina d’Austria, promessa sposa
di Francesco I, la quale da Mestre doveva sbarcare a Manfredonia. Con i reali borbonici e il
principe di Sant’Angelo intervennero pure il duca di San Nicola, il conte Gaetano ed altri baroni.
Per agevolare il cammino, il principe Imperiale fece approntare un’apposita strada, che venne
denominata «Via del Re». Essa parte da Radicosa, tra la via San Severo, attraversa la mezzana e la
parte di Sant’Antonio, del Belvedere, Scardozzo nel luogo detto «Scivolaturo» e nel Jaccio d’oliva
mezzo miglio ad ovest di Poggio Imperiale fino al lago. Dista circa 900 passi dalla croce di Lesina,
che in quel viaggio non fu visitata. Attraverso un ponte di legno, i reali di Napoli attraversarono il
lago fino al bosco. Qui vi era costruita un’altra via fino al mare ed un’altra che tagliava il bosco da
un punto all’altro. Grandi festeggiamenti si fecero e molti marinai e pescatori accolsero gli ospiti
con frenetiche acclamazioni. Nella casupola presso Ravaglione sostarono di più e su appositi
palchi di legno si assistette alla gran caccia di cinghiali e capri. Poi si pescò nel fiume. Dopo il
pranzo consumato nella casupola, gli ospiti, ripartiti lo stesso giorno, passarono per Ripalta. La
sera, con la luce delle torce, ritornarono a Foggia per la stessa strada.
A prima vista appare del tutto inattesa la posizione filofrancese assunta dall’Imperiale, cosicché
è facile ritenere che gli ideali politici nutriti dal principe di Sant’Angelo fossero già prima del 1799
assai diversi da quelli ufficialmente professati e che la pubblica «adesione realista» fosse frutto solo
di un opportunista e cinico conformismo di facciata, maturato probabilmente nelle frequentazioni
che Giulio Imperiale aveva con Caterina Medici d’Ottaiano, allo stesso tempo favorita della Regina
e musa giacobina, di cui frequentava il salotto. Se è provato che il principe non restò pienamente
coinvolto nell’attivismo dei giacobini napoletani, e di conseguenza nelle persecuzioni scatenate
contro di questi tra il 1793 e il 98, la prova della partecipazione di Giulio II all’instaurazione della
Repubblica Napoletana la si ritrova in una significativa lettera che Giuseppe Poerio gli indirizzò
subito dopo l’entrata a Napoli dell’esercitò francese, il 24 gennaio 1799:
 
«Libertà - Uguaglianza
Anno I giorno 3°
Mio caro e generoso Cittadino.
Io ambisco egualmente che voi il momento
di darvi un abbraccio Repubblicano.
Voi lo desiderate, e ne siete degno
perché vi siete efficacemente cooperato al gran fine.
Verrei personalmente, ma il travaglio immenso
che ho fatto mi ha donato una febre non indifferente.
Se domani alle dodici siete in casa attendetemi:
quello è l’unico momento di cui posso disporre liberamente.
Devo e  voglio parlarvi. Addio.
Fischetti vi saluta
Il cittadino Giuseppe Poerio»270.
   
269
U. CALDORA, Ferdinando IV di Borbone, diario segreto, Edizione Scientifiche Italiane, Napoli 1965, p. 57, nota
1.
270
F. BARRA, Gli Imperiale di Sant’Angelo tra riforme e rivoluzioni (1718 - 1818), in «Civiltà Altirpina», Anno III,
luglio-agosto 1978, fasc. N° 4, p. 26.
Ma se, prima del 1799, resta abbastanza oscura l’azione politica di Giulio Imperiale, è invece
sufficientemente documentato il ruolo svolto nelle vicende della Repubblica Napoletana. In
maniera alquanto evidente chiese ed ottenne l’iscrizione alla milizia civica, e allo stesso modo si
mise in mostra quando inviò fervorose missive alle città dei suoi feudi, con cui esortava le
popolazioni a democratizzarsi e ad aderire al nuovo ordine di cose. Ordinatorie che, per la verità,
non trovarono terreno fertile, stante la secolare diffidenza del popolo minuto cui non piace trovarsi
coinvolto nello scontro tra potenti.
Passione e calcolo portarono i giacobini a dividersi su tutto, fuorché nel cercare di guadagnare
una poltrona nel Governo Provvisorio che andò a costituirsi. Un tentativo in questa direzione lo fece
anche il principe Imperiale che, con una congeniale dose di rampantismo, diede vita con alcuni
suoi amici al partito cosiddetto degli «aristocratici», che badava bene a non cancellare del tutto i
privilegi dei nobili, ai quali si sarebbe pur dovuto riconoscere il primato nella guida degli affari di
governo. In netta contrapposizione c’erano i «despoti», giacobini puri guidati da Carlo Lauberg,
capo provvisorio della proclamata Repubblica; a fare da cuscinetto tra le due fazioni si
adoperarono i «buoni repubblicani» di Mario Pagano, preoccupati di non disperdere con posizioni
estremistiche gli ideali e i valori della lotta giacobina e attenti alle spinte spregiudicate che
volevano l’Imperiale e i suoi colleghi orientati a costituire con il Lauberg un Direttorio che
sostituisse il Governo Provvisorio.
Dopo la riforma della rappresentanza governativa operata dal commissario francese Abrial, il
principe Imperiale fu estromesso dall’esecutivo, e vani furono i tentativi che pure fece per tornare
in auge:
«Molti si agitano per occupare le sedi vuote e per essere nella nuova
rappresentanza nazionale. Medici, Colombrano e Sant’Angelo Imperiale non
tralasciano veruno sforzo per essere in carica. Voi conoscete troppo bene si fatti
individui, per non aver bisogno di stimolo a farne il carattere ben conoscere a chi
l’ignora»271.
Giulio Imperiale, che si era alienato le simpatie dei molti a causa della smodata ambizione, pagò
il prezzo della sua smania venendo radiato dalla Milizia civica. Molto probabilmente furono
proprio i contrasti che ebbe con le varie fazioni giacobine e il suo conseguente allontanamento dai
vertici del direttorio rivoluzionario che gli salvarono la vita quando, ritornato sul trono il re
Borbone, fu costretto all’esilio evitando di salire sul patibolo come era successo agli altri.
Quando, alla fine di maggio, le truppe a massa del cardinale Ruffo arrivarono nelle province
napoletane, i feudi dell’Imperiale furono occupati dal distaccamento del luogotenente Antonio
Greco. Dopo il 13 giugno vennero saccheggiati il palazzo in Napoli in via dei Carrozzieri ed il
«casino» di Portici. Da questo, un tal Giuseppe Tufari, capitano di truppe a massa, fece trasportare
alla sua terra nativa, Rossano Calabro, varie casse, contenenti
«il rame di cucina; porcellane di Sassonia; tappezzerie di disegni diversi; due
pianete [della cappella domestica]; un orologio in forma di gabbia con un finto
canarino dentro; un altro, orologio collocato sopra un tavolino di mogano, e molti
cristalli fini inglesi».
Il furto fu scoperto dal giudice di polizia Pasquale Bosco, originario di Montella, ma gli oggetti
non furono restituiti, essendo sorto il dubbio se avesse dovuto procedere lo stesso delegato di
polizia, oppure Gaetano Sambuto, uno dei giudici della Suprema Giunta di Stato.
La Giunta di Stato, con sentenza del 15 gennaio 1800, approvata con risoluzione regia del 25
marzo, lo condannò al bando, ponendogli sotto sequestro tutti i suoi beni. Anche nell’esilio,
comunque, Giulio Imperiale, che prima della fuga si era fornito di capitali liquidi, continuò a
godere del suo patrimonio posto fuori del Regno e particolarmente a Genova e a Madrid.
Nel periodo di soggiorno nella città ligure, l’Imperiale organizzò nella sua villa di Campi di
Polcevera un memorabile banchetto per l’alta nobiltà genovese e per gli ufficiali e diplomatici

271
Lettera di P. Abbamonti e S. Azzia a F. Ciaia dell’8-9 aprile 1799. Il documento è in B. CROCE, La
Rivoluzione Napoletana del 1799, Laterza, Bari 1961, pp. 310/311.
stranieri, al quale parteciparono anche Vincenzo Monti, Ugo Foscolo e ottocento poveri contadini,
evento che gli valse la qualifica di «uomo grande, benefico e repubblicano»272.
Nonostante la «Pace di Firenze» (28 marzo 1801) avesse prescritto l’indulto completo verso i rei
di Stato, il principe di Sant’Angelo preferì restare lontano da Napoli ancora per qualche tempo. Per
due anni consecutivi chiese ed ottenne dal governo borbonico il permesso di restare all’estero,
stabilendosi a Lione, in Francia, dove il 7 maggio 1800 redasse il suo testamento col quale
nominava erede universale la primogenita Giulia.
Stando a quanto riferiva un informatore della polizia francese nel 1801, Giulio faceva molto per
i patrioti deportati, per cui non si poteva che elogiarlo. In Francia occupava un posto di spicco
nell’ambiente dell’emigrazione politica meridionale.
Benedetto Croce, trattando degli esuli napoletani in Francia, riporta una relazione della polizia
francese di quel periodo dove si legge che Giulio Imperiale, di illustre famiglia, era nemico della
corte di Napoli oltre che molto ricco, e che era capace di grandi sacrifici pur di conseguire titoli e
onori; inoltre aveva beneficato numerosi esuli privi di risorse e che di conseguenza la sua condotta
era lodevole sotto ogni riguardo273.
Ma anche su questo periodo le ombre dell’opportunismo si allungano in notevole misura.
Giulio, infatti, trovò il modo di fare il doppio gioco facendo l’informatore per la corte borbonica,
alla quale faceva giungere notizie sugli esuli in terra francese mediante l’ambasciatore napoletano
a Parigi, marchese del Gallo, col quale intratteneva rapporti confidenziali.
Dopo una sosta a Genova, dove nel dicembre 1806 divise il patrimonio esistente in Liguria col
fratello secondogenito Domenico, finalmente il principe Giulio si decise a rientrare a Napoli. Erano
i primi del mesi del 1807 e nel frattempo si era consolidato il nuovo regime napoleonico. Ma non
godé a lungo del riacquisto dei feudi, poiché nel frattempo Giuseppe Bonaparte, che aveva avuto
da Napoleone la reggenza del Regno di Napoli, aveva promulgato la legge eversiva della feudalità.
Fu costretto, allora a fare appello ancora una volta alle sue capacità di esperto «navigatore» nelle
acque infide della politica.
Tra i pochi ad essere ammessi alla corte del fratello di Napoleone, fu da questi nominato
commendatore dell’Ordine delle Due Sicilie e, nell’autunno di quello stesso anno, incaricato dal
marchese del Gallo, divenuto Ministro degli Esteri, di una missione diplomatica ad Amsterdam
quale inviato straordinario e ministro plenipotenziario. La sede olandese era di indubbio prestigio
e l’Imperiale seppe districarsi bene nel nuovo incarico che durò poco più di un anno. Lasciata la
corte olandese su sua sollecitazione e per motivi di salute, il principe di Sant’Angelo fece ritorno a
Napoli. Qui Murat lo nominò «Ciambellano Comandante dell’Ordine Reale delle Due Sicilie» e
continuò ad utilizzarlo sia a corte che nella diplomazia. Nel 1811, infatti, il principe di Sant’Angelo
dei Lombardi approdò a Vienna come ministro plenipotenziario, compito che assolse fino al 1813.
Ritornati nel 1815 i Borbone sul trono napoletano, l’Imperiale ritenne di essere troppo
compromesso agli occhi del sovrano, pertanto si rifugiò a Roma, dove il 12 gennaio 1817 approntò
un nuovo testamento in favore della figlia secondogenita Teresa.
Il principe Giulio si spense a Procida il 2 maggio del 1818 «col ricordo dell’anima per don Francesco
card. Ferace e don Antonio Spinelli274» e dopo tre giorni fu sepolto nella venerabile chiesa di San
Giorgio degli Spagnoli in Napoli275.
Con la moglie, Maria Francesca Albertini, non sempre i rapporti furono sereni. A seguito delle
bizzarrie politiche del consorte, la principessa di Faggiano patì non poche mortificazioni
272
G. D. OLTRONA VISCONTI, Imperialis Familia, p. 45.
273
Cfr. B. CROCE, Esuli napoletani in Francia in conseguenza dei casi del 1799, in «Archivio Storico per le Province
Napoletane», Anno XVII (1932), p. 367.
274
Figlio di Francesco Spinelli dei principi di Scalea e Maria Giuseppa Caterina Ungaretti, don Antonio
nacque a Capua il 23 marzo del 1795 e morì a Napoli il 9 aprile del 1884. Patrizio napoletano e influente
uomo politico, fu più volte ministro del governo borbonico e Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno
delle Due Sicilie da giugno a settembre del 1860. Nel 1818 sposò donna Luisa Marulli, pronipote di Giulio II
Imperiale, figlia di don Troiano III 5° duca di Ascoli e donna Maria Gratimola Filomarino dei principi di
Torre a Mare.
275
ARCHIVIO PARROCCHIA ABBAZIALE SAN MICHELE ARCANGELO DI PROCIDA, Registro dei Defunti, Vol. XII, p.
158, N° 10.
soprattutto a seguito del sequestro dei beni di Giulio, dichiarato «reo di Stato» e costretto all’esilio.
Avendo il principe ritardato nel pagamento alla moglie dell’assegnamento dei 2.800 ducati, i mariti
delle figlie le fecero sequestrare i beni, costringendo a sua volta la principessa a citare il marito, che
giustificò la sua omissione attestando una presunta «depauperazione del suo patrimonio».
Sugli eccessi di prodigalità dell’Imperiale ci fu chi scrisse:
«Mentre viveva, il Principe di Santangiolo voleva tutto, e tutto era insufficiente ai
suoi bisogni.»
Pure da morto Giulio Imperiale procurò difficoltà e imbarazzi ai familiari. Mentre, infatti, col
testamento olografo del 7 maggio 1800 aveva nominato sua erede la primogenita Maria Giulia, con
il successivo atto istituì erede e legataria universale nella disponibile la secondogenita. Questa alla
morte del padre avanzò richiesta della metà disponibile unita alla successione legittima, entrando
così in aperta lite sia con le sorelle e con la madre.
Con Giulio può praticamente dirsi estinta sia la signoria feudale sulle città e sulle terre in Irpinia
e di Capitanata, sia il titolo di principe di Sant’Angelo che, in mancanza di figli maschi, fu
assegnato, attraverso la linea femminile, alla figlia primogenita e, priva pure essa di figli maschi,
successivamente a Carolina Berio che andò in sposa a Sebastiano Marulli, duca d’Ascoli 276.
Ferdinando II il 18 febbraio 1843 decretò che il titolo di principe di Sant’Angelo andasse poi al
primogenito Troiano Marulli, i cui eredi negli anni a seguire si videro riconoscere anche il titolo di
barone di Nusco, Andretta, Lioni, Carbonara, Monticchio e Oppido che veniva dagli Imperiale,
nonché quello di barone di Montemarano, Volturara e Parolise che era dei Berio. Le Università di
Lesina e Poggio Imperiale, invece, riuscirono ad affrancarsi dal loro ex feudatario ereditando terra
e diritti.
Il nome degli Imperiale di Sant’Angelo venne continuato nel ramo cadetto dal marchese
Domenico, fratello minore di Giulio, e da suo figlio Giuseppe, nato a Genova il 27 febbraio 1806
che, educato dal padre alle idee liberali, occupò, grazie alla fraterna amicizia con Giuseppe
Mazzini, posizioni di rilievo nelle vicende del Risorgimento Italiano. Caduta la dinastia borbonica,
Giuseppe venne eletto senatore del Regno d’Italia. È ricordato da Giovanni  Ruffini nel suo
«Lorenzo Benoni» con il nome di principe di Urbino.

PLACIDO IMPERIALE, PRINCIPE DI SANT’ANGELO


Alla morte di Giulio Imperiale sia il titolo che i cospicui beni del primo principe di Sant’Angelo
passarono al figlio Placido, il quale ben conosceva il suo destino ereditario in quanto il padre, con
un atto rogato presso il notaio napoletano Domenico De Paolo, aveva istituito fin dal 19 giugno
1731 il principato in maggiorascato e primogenitura in linea maschile. Un provvedimento che
sottrasse i privilegi del titolo alle sorelle maggiori Argenta e Silvia, che pure ebbero beni dotali
assolutamente rilevanti e tali da consentire loro di accasarsi con i più cospicui esponenti della
nobiltà genovese277.
Una figura finora poco investigata, quella di Placido Imperiale, secondo principe di Sant’Angelo
dei Lombardi e fondatore di Poggio Imperiale, in Capitanata, un personaggio la cui presenza ha
segnato indiscutibilmente le terre irpine e quelle pugliesi, del quale si cercherà di ricordare la
tappe salienti della sua dignitosa stagione feudale.
Ma per questo conviene andare con ordine.
«Un tal Francesco Maria Carafa, a 25 giugno 1636, vendè lo Stato di S. Angelo a
Gianvincenzo Imperiale di origine genovese, della cui discendenza nello scorcio
dell’or passato secolo notavasi il principe Placido, non perché spoglio di vizii

E. RICCA, op. cit., p. 342.


276

Entrambe si sposarono a Genova; la prima con il marchese Niccolò Pallavicini, la seconda con il marchese
277

Ambrogio Negrone, anche lui patrizio genovese, oltre che senatore della Repubblica di Genova. Nella scala
dinastica seguirono Placido il marchese Giulio Nicola (1730-1785) ed altri fratelli, peraltro morti giovani
senza discendenza.
baronali, meno la consueta balorderia, ma perché insigne si era nelle imprese
industriali di ogni sorta e massime nell’agraria che eminentemente professava» 278.
Prescindendo dalla semplicistica sintesi della nascita del Principato di Sant’Angelo dei
Lombardi in mano agli Imperiale di Genova, ecco come il notaio santangiolese Michele Ferrara
tracciava un breve e convincente ritratto del più attivo e fattivo tra i feudatari che hanno governato
la città e il feudo di Sant’Angelo dei Lombardi.
Placido, che era nato a Napoli il 13 aprile 1727 279 da Giulio I Imperiale e donna Maria Cornelia
Pallavicini, fu un uomo illuminato e lungimirante, tanto avvezzo all’opulenta e pigra corte
borbonica quanto disposto a mettere in gioco il notevole prestigio che gli veniva da una storia
familiare carica di gloria e di cospicue rendite.
Ecco, allora, che poche note biografiche serviranno ad inquadrare il personaggio e a calarlo nel
contesto sociale e politico nel quale si trovò a vivere.
Cominciamo col dire che fu il padre, secondogenito di Francesco Maria Imperiale e pronipote di
Gian Vincenzo, ad ottenere dall’imperatore austriaco e re di Napoli Carlo VI il prestigioso titolo
nobiliare, dando così origine al ramo dei principi di Sant’Angelo.
Placido aveva appena undici anni quando fu dichiarato dalla Vicaria erede universale e
particolare ex testamento dei beni feudali e burgensatici che formavano lo Stato di Sant’Angelo e con
essi del titolo nobiliare.
In considerazione della minore età dell’infante, la madre ottenne da Carlo di Borbone la nomina
di tutrice dell’erede e, conseguentemente, la responsabilità nella conduzione del feudo. Per
l’assolvimento di questo gravoso compito il sovrano napoletano affiancò alla principessa madre il
principe di Santo Mauro don Agostino Saluzzo, duca di Corigliano e Consigliere del Supremo
Tribunale di Commercio a Napoli, il quale già da qualche anno esercitava nel feudo irpino le
funzioni di rappresentante del principe Giulio 280. A conclusione del trasferimento dell’eredità, i
tutori del giovane Placido il 6 febbraio 1740 convennero con la Camera della Sommaria il
pagamento di 633,22 ducati per il «relevio» del feudo; pagamento che avvenne per il tramite del
Banco del Sacro Monte della Pietà281.
Nel contempo il giovanissimo erede si trovava a studiare nel Collegio Nazareno dei Padri
Scolopi a Roma, uno tra i pochi collegi dove si insegnavano anche le cosiddette «scienze
maggiori», dove avrebbe dovuto trattenersi almeno fino al quindicesimo anno di età. Tanto era
nelle intenzioni dei genitori, che per questo si erano assoggettati al pagamento del prescritto
«valimento», ossia della tassa dovuta all’erario reale dai feudatari forestieri o non residenti nel
Regno282.
Giulio I, bene introdotto nella corte borbonica come negli esclusivi salotti genovesi donde si
riverberavano le linee di politica economica in molti stati nazionali, avrebbe voluto che il giovane
rampollo fosse bene educato alle lettere e agli studi di storia e di finanza. La morte del genitore
non pose termine a questo disegno poiché i tutori, rispettosi del disegno paterno, il 24 ottobre del
1742 ottennero che il giovane erede al compimento del quindicesimo anno potesse continuare il
suo soggiorno di studio a Roma, in quanto «non era ragionevole fargli interrompere gli studi»283.
Durante gli anni della tutela sul figlio minore, donna Cornelia, da abile donna d’affari qual era,
pronta a mettere da parte ogni scrupolo quando si trattava di investire in danaro, approfittò di una
particolare congiuntura che lei stessa aveva contribuito a generare per riuscire nell’intento di
allargare i confini dei possedimenti di Casa Imperiale. La principessa madre, il 23 marzo 1748
acquisì definitivamente al patrimonio familiare il feudo di San Paolo in Capitanata, che già lo

278
M. FERRARA, Sant’ Angelo dei Lombardi, in l’«Eco dell’Ofanto», anno I n. 31, 8 settembre 1872.
279
Così com’era consuetudine tra i «nobili nati», al battesimo fu imposta al Principe una lunga teoria di nomi
e precisamente quelli di Placido, Francesco, Maria, Nicola, Giuseppe, Renato, Giovanni, Giacomo,
Domenico, Gaetano, Antonio, Pasquale, Ignazio.
280
F. SCANDONE, L’Alta Valle dell’Ofanto, Tipografia Pergola, Avellino 1957, Vol I, doc. 670.
281
Cfr. ARCHIVIO DI STATO DI AVELLINO (d’ora in poi sarà ASA), Atti demaniali, B. 19, f. 105.
282
F. SCANDONE, op. cit., doc. 674. Essendo intervenuta da parte del sovrano la soppressione della tassa,
donna Cornelia Pallavicini chiese ed ottenne la restituzione delle somme versate in anticipo.
283
F. SCANDONE, op. cit., doc. 677.
deteneva in pegno di un suo credito di 186.409 ducati, messo all’asta dal Regio Fisco alla morte
senza eredi del principe di Guastalla, Giuseppe Maria Gonzaga. Il trasferimento fu poi
perfezionato nel 1754, a fronte di un pagamento transattivo di 35.000 ducati 284.
La determinazione degli Imperiale di attestare lo stemma di famiglia nelle terre di Capitanata
trovò conferma qualche anno dopo, quando, esattamente il 15 febbraio 1753, con un atto rogato dal
notaio Raimondo Collocola di Napoli, il giovane Placido rilevò da Nicola Maria Caracciolo,
marchese di Grumo e duca di San Vito, le difese feudali dell’isola e del lago di Lesina, col diritto di
caccia riservata e «cum omnibus eius bonis juribus, actionibus burgensaticis ac feudalibus pretis
ducatorum centum quattuor milium biscentum quinquaginta sex et assium vigenti quinte». L’acquisto,
però, fu contrastato dal principe di San Nicandro che intendeva esercitare sul feudo di Lesina il
diritto di prelazione poiché «praedictum feudum considerari debet ut hereditarium simplex». La
controversia sfociò in una impegnativa disputa giuridica che si chiuse con un’interessante sentenza
della Camera della Sommaria, che il 4 aprile del medesimo anno legittimò il possesso di Placido
Imperiale dichiarando «civitatem Alexinam esse feudum hereditarium mixtum»285.
Completati gli studi e riacquistato in virtù della raggiunta maggiore età il pieno possesso dei
beni feudali, il giovane rampollo degli Imperiale potette finalmente rientrare a Napoli dove, il 16
settembre 1748, nella Chiesa di Sant’Anna de Palacio, impalmò donna Anna Teresa Michela
Acquaviva d’Aragona286, discendente dell’illustre e nobilissimo casato dei conti di Conversano,
dalla quale ebbe ben 15 figli287.
Assunte, dunque, le responsabilità che il titolo gli imponeva, Placido Imperiale cominciò a dare
prova che i suoi studi erano stati seri ed efficaci, soprattutto per quanto concerneva la tenuta del
feudo; tant’è che subito manifestò la ferma volontà di apportare significative innovazioni nella
tradizionale gestione delle rendite agrarie.
Prima di tutto questo, però, avvertì la necessità di porre fine ad alcune vertenze che lo vedevano
contrapposto per la titolarità di specifici diritti ad alcune significative realtà presenti nel suo feudo.
Tra queste la lite più impegnativa, sia economicamente che per il lasso di tempo in cui si sviluppò,
fu certamente quella accesa con il monastero del Goleto, avviata addirittura da Giovan Vincenzo
Imperiale all’indomani dell’acquisto dello Stato di Sant’Angelo e sostenuta tenacemente anche da
Giulio I. Il nodo del contendere era dato dalla pretesa giurisdizione avanzata dagli Imperiale sui
territori detenuti dal monastero verginiano, e di conseguenza sull’esercizio del diritto di fida e
diffida che i signori di Sant’Angelo accampavano a loro beneficio per l’attività di pascolo 288. Un lodo
non di poco conto, per il quale si spesero migliaia di ducati da ambo le parti, impegnando i
migliori maestri del diritto che al più riuscirono ad ottenere dalla Regia Camera solo sentenze
284
F. SCANDONE, op. cit., docc. 680, 682, 684.
285
Sullo svolgimento della controversia tra l’Imperiale e il Sannicandro, cfr. G. SORGE, Enucleationes casuum
forensium sive additamenta ad opus eiusdem impressum jurisprudentiae forensis, Paolo e Nicola De Simone, Napoli
1756-1758, passim.
286
Donna Anna Teresa Michela, figlia di don Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona, 24° Conte di Conversano
e Vicario in Terra di Bari, e di donna Maria Spinelli, dei Principi di Tarsia.
287
Questi, in ordine di nascita, i figli di Placido Imperiale: Maria Cornelia (1749-1753); Maria Celeste (1750-
1820, sposa Luca d’Oria dei principi di Angri, conte di Capaccio); Giulio (1752-1818, 3° principe di
Sant’Angelo); Silvia Argentina (1753-1820, monaca); Gian Giacomo (1754-1757); Argentina (1755-1831, sposa
Petraccone Caracciolo, 12° duca di Martina e conte di Buccino); Placida Anna (1756-1758); Vincenzo (1758-
1759); Beatrice (1760-?, sposa il marchese Francesco Maria Mosca-Barzi, nobile di Pesaro); Gaetano Ciriaco
(1761-1797, sposa Maria Teresa Spinelli dei principi di San Giorgio, marchesa del S.R.I.); Domenico (1762-
1829, sposa Maria di Salvo); Maria Maddalena (1764-1830, monaca in San Giovanni Battista); Teresa Felicia
(1765-1821, monaca in San Giovanni Battista); Vittoria (1768-1818, sposa il duca Giuseppe Ruffo, 5° principe
della Floresta); Giuseppe Anselmo (1769-1818, sposa Lucrezia Verde).
288
Gli Imperiale sostenevano che essendo stata l’Abbazia costruita su un territorio appartenente al feudo di
Monticchio, divenuto nel XV sec. parte dello Stato di Sant’Angelo che era stato comprato dalla nobile
famiglia genovese, se ne doveva dedurre che l’area su cui sorgeva il monastero dovesse essere considerata
come un bene di loro proprietà. Una vicenda analoga nel 1757 impegnò inutilmente il Principe contro i PP.
Celestini della Badia di Ripalta di Lesina, sulla quale Placido pensava di poter esercitare il diritto di
patronato nella nomina del Priore; una pretesa negata dal Tribunale di Lucera che riconobbe ai religiosi il
loro pieno diritto giurisdizionale.
interlocutorie, incapaci di sciogliere i nodi che puntualmente si ripresentavano ogni qualvolta un
pastore o un contadino della zona veniva sorpreso a pascere o a raccogliere legna.
La vertenza, restata inutilmente giacente durante il periodo di tutorato, ebbe una decisa e
determinante spinta alla soluzione solo quando Placido si convinse ad incoraggiare la strada del
compromesso. A dirimere il lodo arbitrale, il 28 marzo 1746, furono scelti Carlo Franchi come
patrocinatore del principe e Orazio Biscione da parte dell’abbazia goletana.
Raggiunto e perfezionato il compromesso, il 17 giugno di quell’anno Placido si affrettò a fornire
le necessarie istruzioni al suo agente erariale a Sant’Angelo, il notaio Donato D’Amelio, al quale
partecipò come tutti i territori posti nel tenimento del Goleto fossero stati assegnati in beneficio del
monastero,
«… eccettuato però il ius di fida e di diffida per quel tempo che possono essere
pascolati, con farsi però solamente nella prossima raccolta dei frutti la divisione per
metà tra detto venerabile monastero e la principal Camera, con che però il
medesimo venerabile monastero mi pagasse una certa somma, il prezzo dei
medesimi territorii, qual laudo è stato da me e da detto venerabile monastero
accettato, e già ne sono state stipolate le opportune pubbliche cautele. Per tanto,
salvo sempre il ius di fida e diffida, e la divisione che si dovrà fare per metà dei
frutti della prossima nuova raccolta del corrente anno 1746, darete il possesso al
detto venerabile monastero dei suddetti territorii, perché così si è convenuto e
stabilito, e nostro Signore vi feliciti»289.
Un’altra controversia che in quegli anni fece molto rumore in Alta Irpinia vide l’Imperiale
contrapposto al principe di Morra che lo portò davanti ai magistrati del Sacro Regio Consiglio. Le
ragioni della lite erano frutto di un’antica ruggine che contrapponeva le due nobili famiglie per
questioni legate ai diritti sulle acque che scorrevano nel vallone che segnava il confine tra i due
feudi. Goffredo Morra accusava Placido di spostare artatamente le «parate» che governavano le
acque dei torrenti che alimentavano i mulini della zona. La qual cosa danneggiava non poco
l’attività molitoria del Signore di Morra, indignato dal vedere i suoi vassalli correre alle macine
dell’Imperiale che, evidentemente, offrivano un miglior servizio. La questione non poteva essere
sottovalutata in quanto in gioco c’era l’esercizio dei diritti feudali, con la conseguente imposizione
di tasse e balzelli. Per far valere le proprie ragioni, il principe di Morra si affidò a Michelangelo
Cianciulli, tra i più valenti giuristi che esercitavano la professione nel tribunale borbonico. Nella
memoria290 che il 22 giugno 1766 presentò al tribunale, l’avvocato montellese scrisse che «nacque
nel Principe di Sant’Angelo un impegno improvviso di renderli [i mulini] inerti alla macina, per offendere
negli interessi il suo vicino Principe di Morra» e che l’Imperiale si era «framischiato cogl’istessi vassalli di
Morra nelle cause che essi sostengono contro al proprio Barone», arrivando finanche a istigarli a
macinare nei propri mulini. La vicenda giudiziaria non fu breve, poiché si trascinò ancora per
molti anni a seguire in quanto non fu affatto facile dirimere la controversia.
Non meno rilevante, sul piano giuridico e su quello del prestigio, fu il giudizio che Placido
Imperiale istituì nel 1754 nel Sacro Consiglio contro il duca di Massanova, don Giuseppe Maria
Doria, per vedersi riconosciuti i suoi diritti sulla Baronia di Tacina in Calabria Ultra. Una disputa
che fece sfiorare addirittura una clamorosa rottura diplomatica tra il regno borbonico e la
Repubblica di Genova. Queste, in estrema sintesi, le ragioni del contendere: don Agostino Doria
aveva fondato nel 1604 un fedecommesso «mascolino primogeniale» sul feudo calabrese, che era
stato comprato per 104 mila ducati, metà dei quali erano di Giambattista e Gianstefano Doria, di
cui Placido era divenuto erede. In ragione di ciò il Principe di Sant’Angelo adì il tribunale

289
Cfr. G. MONGELLI, Storia del Goleto dalle origini ai nostri giorni, 2a ed., Ediz. Abbazia di Montevergine e
Badia del Goleto 1983, p. 228. Lo storico verginiano, sulla scorta della documentazione conservata
nell’Archivio del Monastero di Montevergine, ricostruisce con estrema puntualità le varie tappe dell’accesa
controversia tra gli Imperiale e l’Abbazia goletana.
290
M. CIANCULLI, Per il principe di Morra contro il principe di Sant’Angiolo Imperiale, scrivano Ignazio Sant’Elia,
Napoli 1766. Sulla complicata vicenda giuridica che, in nome della libertà di scelta nell’esercizio dei diritti
civici, vide contrapposti i cittadini di Morra contro il loro feudatario cfr. pure M. CIANCIULLI, Per l’illustre
principe di Morra colla Università della medesima terra, scrivano Gennaro Buonocore, Napoli 1767.
napoletano perché imponesse al Doria di pagargli la metà del prezzo della baronia 291. Dopo questa
prima istanza, poi, pensò bene di incalzare il recalcitrante feudatario arrivando a chiedere che gli
fosse rilasciato per intero il feudo di Tacina, «come a sé spettante per legge di investitura, qual
discendente della linea primogeniale dell’acquirente Agostino Doria». Ragioni che portò davanti ai
giudici del Sacro Consiglio, con larghe speranze di vedersele riconosciute. La risposta del suo
antagonista, tuttavia, fu decisamente dirompente. Don Giuseppe Maria Doria, appartenente ad
una delle più titolate famiglie liguri, assai potente presso il consiglio dogale, chiese ai magistrati
genovesi di perseguire l’Imperiale in quanto patrizio di quella città. Il tribunale della Serenissima
impose a Placido di desistere dal chiamare in giudizio il duca di Massanova in nome di una legge
della Repubblica che vietava a qualunque cittadino genovese di trarre in giudizio un suo
concittadino fuori di quel Dominio, a pena di essere privato di ogni privilegio e immunità, di
essere dichiarato ribelle, di vedersi confiscati i beni e inibito a qualunque tipo di commercio. Fosse
arrivata questa condanna per il principe Imperiale avrebbe comportato una perdita economica
senza misura, oltre che vedere appannato il prestigio di un nome che a Genova significava molto.
Questa volta, a luglio del 1783, fu Placido che chiamò il Cianciulli a difendere le sue ragioni. Il
brillante giurista montellese, coadiuvato da Francesco Saverio Pepe di Nusco, invocò il deciso
intervento del Re sul governo genovese sostenendo che in gioco non c’era solo la difesa dei diritti
dell’Imperiale ma addirittura la sovranità del Regno di Napoli:
«Per qualunque verso adunque si rimiri l’affare, o per la lesione de’ privati diritti
del Signor Principe di S. Angiolo, ovvero per serbare intatta la legge territoriale
del nostro Stato, non merita ascolto la rappresentanza di quella Serenissima
Repubblica; e dee questa Real Camera consigliare al Re che debbia con effetto
interporre la sua sovrana autorità presso la rivoca dell’intimazione fatta al Signor
Principe di S.Angiolo»292.
Lo scontro, così com’era prevedibile, non fu portato alle estreme conseguenze, cosicché la
controversia fu possibile risolverla quando i due contendenti convennero di «progettare un
amichevole trattato di accomodo» che rimise ordine nella titolarità dei diritti sulla baronia
calabrese, restata poi in mano ai Doria fino al primi anni dell’Ottocento.
***
Prima di andare oltre conviene dire che il Principe di Sant’Angelo era un giovane gaudente e
borioso, non meno di quanto lo fossero i suoi pari che alla corte borbonica e nei salotti più accorsati
della capitale offrivano miglior prova di sé dando sfoggio di lusso e di ricchezza.
«A Napoli, i grandi feudatari abitavano in quello che era un po’ il loro rione, ove
sorgevano i “magni palaci” degli Acquaviva d’Aragona, dei d’Avalos prìncipi di
Montesarchio, dei Sanseverino, dei Bisignano, dei Del Vasto, dei Guevara, dei
Carafa duchi di Maddaloni, non lungi dalla “più diritta e longa strada” di Napoli,
detta la “strada di Capuana”, e sfoggiavano ogni lusso e sfarzo, tutti occupati nello
sport dell’epoca, i duelli e gli esercizi d’arme, o a gareggiare fra di loro in
soverchierie, attorniati sempre da un numeroso stuolo di servitori, arroganti
quanto e più dei loro signori, oppure nei fastosi e pantagruelici banchetti e negli
amori delle cortigiane»293.
Questo il quadro che fa di quel ceto uno storico attento alle problematiche del periodo
borbonico. Un quadro a cui non dovette essere estraneo Placido Imperiale se è veritiero il ritratto
che ci ha lasciato un appassionato studioso santangiolese:

291
Cfr. S. PATRIZI, Per l’illustre Principe di Sant’Angelo dei Lombardi Placido Imperiale, che la baronia di Tacina si
abbia a dichiarare feudo ereditario misto, s.t., Napoli 1757.
292
M. CIANCIULLI, F. S. PEPE, Memoria per l’illustre principe di Sant’Angiolo Lombardi Placido Imperiale in risposta
alla rappresentanza della Serenissima Repubblica di Genova per la causa coll’illustre duca di Massanova Giuseppe
Maria Doria, s. t., Napoli 1783, p. 21.
293
M. VITERBO, Da Masaniello alla carboneria - Gente del sud, Ed. Laterza, Bari 1962; cit. in F. VALSECCHI, L’Italia
nel Seicento e nel Settecento, Utet, Torino 1967, p. 198.
«Fra gli accorsi alla capitale, troviamo il principe di S. Angelo. Ivi, sì lui che la
boriosa consorte, a gara, buttarono somme ingenti nella voragine del giuoco.
Ostentando con gli altri nobili le loro immense ricchezze, il Principe si millantava
di poter coprire con scudi d’argento quanto essa è lunga la strada che intercede da
Sant’Angelo a Napoli; piacevagli di possedere di 999 in 999 gli equini e i bovini; e
così gli altri armenti»294.
A confermare l’idea di un signore al limite della dissolutezza c’è un episodio per niente
edificante, legato, manco a dirlo, alla dissennata passione del principe per il gioco 295: una sera dei
primi mesi dell’anno 1765, il nostro, ormai trentottenne, aveva ospiti a casa alcuni nobili amici con
i quali si misurava a «biribisso», un gioco d’azzardo296 assolutamente vietato dalla legge297.
Durante una di queste interminabili partite al tavolo di gioco scoppiò una lite furibonda tra don
Andrea Pagano e l’iracondo abate Positano, che in un momento alquanto teso della giocata scagliò
un candeliere in faccia all’avversario, reo di avergli tirato a sua volta i bussolotti sul viso. Fu
difficile tenere segreto l’incidente, cosicché la notizia fece il giro dei salotti napoletani fino ad
arrivare a corte. I giocatori furono tutti incriminati per dispregio alle prammatiche e
conseguentemente la scure del Consiglio di Reggenza, dopo gran contrasto, cadde anche sul principe
Imperiale, colpevole «di uno scandalosissimo delitto, qual era quello di tener nella sua casa un gioco tanto
pubblico, e tanto sfacciato». La pena, comminata il 9 aprile 1765, impose: «…si mandi ai feudi la casa di
S. Angelo, si mandi Pagano a Siracusa e si sfratti Positano dal Regno.» Una punizione che Placido non
riuscì ad evitare, nonostante i suoi amici più influenti avessero brigato per farla trasformare in
un’ammenda di mille ducati.
Poiché a niente valse implorare la magnanimità della Reggenza, il 3 settembre 1765 il principe si
vide costretto ad imboccare la strada per l’Irpinia, non arrendendosi all’idea di dover passare i suoi
giorni nel castello di Sant’Angelo dei Lombardi, che fortunatamente aveva rimesso a nuovo solo
qualche anno prima, trasformandolo in un elegante e confortevole palazzo signorile.
Nonostante non fossero poche le cose di cui occuparsi nel feudo irpino, la mancanza della vita
salottiera e forse più di questa l’impossibilità di concludere affari non lo faceva dormire. Cosicché,
nel tentativo di riuscire ad ottenere il condono della pena, l’Imperiale cominciò a tempestare di
messaggi accorati gli amici più autorevoli che aveva a corte. Un pressing che sortì il risultato
sperato solo l’11 marzo dell’anno successivo, quando i ferventi patrocinatori della sua causa,
l’illustre principe di Jaci, ambasciatore alla corte di Madrid, il generale d’armata e balì del Sovrano
Ordine di Malta, don Michele Reggio, e don Giuseppe Pappacoda, principe di Centola, questi
ultimi membri del Consiglio, comunicarono all’Imperiale la notizia del provvedimento di grazia

294
F. MIGNONE, L’Alta Valle dell’Ofanto, Stab. Tip. Meschini, Tivoli 1929, pp. 106/7. Lo storico santangiolese
non fa riferimento alle fonti documentarie da cui trae le sue informazioni.
295
La passione per il gioco è stato un vizio comune a molti esponenti della famiglia Imperiale, tant’è che a
Genova gira ancora una leggenda, detta dell’albero d’oro, dove si fa riferimento ad una pianta di melograno
che fino al 1929 si poteva ammirare sul poggiolo di un palazzo proprietà degli Imperiale a Campetto. Si
racconta, infatti, di un esponente della cospicua famiglia genovese, accanito giocatore di “goffo” (un gioco
d’azzardo simile alla primiera), che un giorno gioca e perde, continua a giocare e continua a perdere. In
breve manda in fumo l’intero patrimonio compreso il palazzo del melograno, ad eccezione, però, della
pianta da lui ritenuta un portafortuna. In pratica, allo sfortunato giocatore rimangono solo l’albero e i vestiti
che indossa. Ecco, allora, che l’Imperiale decide di fare un’ultima, disperata puntata che vede come posta
proprio il melograno. La fortuna che fino ad allora gli aveva voltato le spalle sembra essere diventata ora più
benevola cosicché il nobile genovese cominciò a vincere; e vinse tanto da recuperare tutto il patrimonio perso
e anche qualcosa di più.
296
Antesignano della moderna roulette, il biribisso si giocava tra un banchiere e un numero illimitato di
giocatori. Questi puntavano una somma di danaro su una casella figurata e numerata di uno scacchiere che
ne contava 36 (in Francia 70); il banchiere estraeva allora un numero da un sacchetto e i giocatori che
avevano puntato sul numero estratto vincevano trentadue volte (altrove anche di più) la propria posta,
mentre il banchiere incamerava le altre puntate.
297
Una perentoria prammatica del 1753 proibiva in tutto il Regno il gioco d’azzardo.
che, superando la ferrea resistenza di Tanucci e accogliendo le suppliche dei cospicui
rappresentanti della nobiltà napoletana, la Reggenza aveva acconsentito a firmare 298.
***
L’antico feudo di Sant’Angelo dei Lombardi non era né più piccolo né meno importante di tante
altre terre feudali. Aveva una storia che affondava le radici nella presenza in Irpinia di Roberto il
Guiscardo. Era passato poi di mano in mano dai Balvano ai Gianvilla, dai Caracciolo ai Carafa, fin
quando Giovan Vincenzo Imperiale299, ammiraglio e uomo politico genovese, prima ancora che
apprezzato poeta e letterato, non acquistò la contea di Sant’Angelo dei Lombardi, con la città di
Nusco, le terre di Lioni, Andretta e Carbonara (l’odierna Aquilonia), per un totale di oltre
sedicimila abitanti, e i feudi disabitati di Oppido e Monticchio dei Lombardi300.
«Lo “Stato” degli Imperiale costituiva, con i suoi cinque feudi (Sant’Angelo,
Nusco, Lioni, Andretta, Carbonara), tra cui due sedi vescovili, un complesso vasto,
omogeneo e compatto, collocato nel cuore stesso dell’Alta Irpinia, e che, con i suoi
245,62 kmq costituiva il 29% della superficie territoriale di quell’area. Esso
contava, a fine ‘700, 20.607 abitanti, pari al 34,52% della popolazione dell’Alta
Irpina ed al 5,58% dell’intera provincia»301.

298
Per la ricostruzione delle varie fasi della vicenda, cfr. R. MINCUZZI (regesti a cura), Lettere di Bernardo
Tanucci a Carlo III di Borbone: 1759-1776, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1969. Quasi
tutti i Consiglieri di Reggenza avevano appoggiato la richiesta di poter rimpatriare presentata dal Principe di
Sant’Angelo, «…disterrato ai suoi feudi per aver tenuto in casa sua pubblica conversazione per giochi proibiti» .
Nonostante l’opposizione di Tanucci e prima di conoscere l’esito positivo della domanda di grazia,
l’Imperiale riuscì ad ottenere dalla Reggenza una licenza per poter stare a Napoli per quaranta giorni, «…
poiché in tal tempo si potrebbe sapere l’approvazione, o la disapprovazione per la grazia completa». Perché si
giungesse rapidamente ad una conclusione della vicenda, il Gran Ministro sollecitò il sovrano: «Vostra
Maestà si degna di dire sulla grazia che tutti li reggenti, nessuno eccettuato, vorrebbon fare al principe di S. Angelo».
Tra le ragioni addotte dagli amici del Principe quella prevalente era data dalla circostanza che a Napoli era
disattesa ovunque la prammatica che vietava il gioco, praticato «arditamente e sfacciatamente dalla nobiltà, e dai
militari principalmente, e da altri arditi sul mal’esempio». Dopo vari solleciti al Re, non senza che Tanucci avesse
evidenziato al Sovrano come, rispetto agli altri protagonisti della vicenda, «l’impegni di don Michele Reggio, e
di altri, fecero la distinzione tra S. Angelo, e quei due più terreni», la grazia arrivò «…coll’ordine al reggente della
Vicaria della seria riprensione a tenore dei sovrani comandi». Per completezza di informazione c’è da dire che il
Re, mesi dopo, graziò anche Pagano e l’abate Positano, e questo nonostante che don Andrea si fosse reso
uccel di bosco prima di essere arrestato in quel di Roma.
299
Giovan Vincenzo Imperiale (Sampierdarena 1580 - Genova 1645) è anche l’autore di un puntuale diario
del viaggio che nei primi mesi del 1633 lo portò da Napoli nel suo feudo altirpino, che tra l’altro viene
minuziosamente descritto (G. V. IMPERIALE, Giornali). Per questo cfr.: C. NARDI, Gian Vincenzo Imperiale e il
suo soggiorno napoletano, Quaderni Ligustici 111, estratto da Bollettino Ligustico n. 3-4 (1961), e G. CHIUSANO,
Gian Vincenzo Imperiale - Signore di Sant’Angelo dei Lombardi, in Economia Irpinia, nn. 1-6, Avellino 1972. A
sollecitare questo viaggio fu l’Università santangiolese che nel 1632 fece pervenire al nobile genovese un
quadro che illustrava lo Stato di Sant’Angelo. Ricorda F. ALIZERI, nella sua Guida artistica per la città di
Genova, vol. II p. II, Ed. Grondona, Genova 1847, p. 584-85, che al bordo del «vastissimo» dipinto, «nella parte
inferiore è per distesa la descrizione de’ luoghi in una lettera diretta al Marchese, che finisce così: “Or che V. S. sa le
strade, venga a prendere il possesso delle terre ove tutti la desideriamo con quell’affetto che dovemo. Da Sant’Angelo li
28 agosto 1632 – Il Sindaco della città di Sant’Angelo”». La tela, che nel palazzo di Sampierdarena finì
nell’importante quadreria dell’Imperiale, tra i Van Dyck e i Brueghel, i Tiziano e i Veronese, facendo
pendant con una Veduta di Genova, non dovette essere di buona fattura se lo stesso Alizeri così commenta il
dono dell’università santangiolese: «Questo fatto crebbe lustro alla Famiglia; ma il palazzo non poté se non
discapitarne».
300
Dai registri parrocchiali che gli furono mostrati, il nobile feudatario genovese ricavò che la città di
Sant’Angelo aveva 3500 abitanti, Nusco 4000, Lioni 2000, Andretta 2500 e Carbonara 4000. Cfr. G.V.
IMPERIALE, op. cit., p. 675.
301
F. BARRA, Tra accumulazione borghese e latifondo contadino: la disgregazione dei patrimoni feudali, in A.
COGLIANO (a cura), Proprietà borghese e latifondo contadino in Irpinia nell’800, Edizioni Quaderni Irpini,
Gesualdo (Av), anno II n. 3, nov. 1989, p. 67.
Non meno che altrove, dalla lettura del Catasto Onciario di Carbonara, redatto nel 1753, si può
avere l’idea di quale fosse la consistenza dei beni feudali e di quelli burgensatici del principe
Placido. Dalla stessa utilissima fonte documentaria si ricava anche la portata dei diritti di
baronaggio esercitati dal feudatario.
Tra i «forastieri laici bonatenenti non abitanti» è incluso, ai fogli 218-219, il «Principe di S. Angelo
Lombardi, Padrone di questa Terra, Eccellentissimo Signor D. Placido Imperiale, abitante e nativo della città
di Napoli». Per lui dichiarò il Mag. Dott. Antonino di Domenico, erario del principe, che alla voce
beni feudali fa iscrivere:

«In primis il jusso della zecca, pesi e misure. Esigge da questa Magnifica
Università annui ducati 57 e grana 25. Una casa detta d’Adorisia allo casale
confina Nicola Vito di Vito. Altra casa detta della corte di un membro confina casa
di questa Magnifica Università di tre membri due sottani per uso de carceri ed uno
soprano per commodo del governatore. Il jusso della bagliva e Piazza, forno,
proventi della fida dell’erbaggio demaniale, quella del legnare e mannare, quello
della caccia e per la trasportazione dell’armi non proibite e quello della diffida nella
contravenzione nel taglio dell’alberi nelle sue Difese; si è annuerato e discusso che
nel forno e molino non vi è jus proibendi, anzi ogni cittadino si può fare il forno e
molino per uso proprio e sua fameglia, sicome attualmente li cittadini di questa
terra ne stanno nel pacifico possesso in vigore de’ decreti del Regio Consiglio, in
questo come nell’altri jussi. E rispetto alla fida dell’erbaggio demaniale, si è
discusso che ogni cittadino può pararsi in detto demanio il fieno senza pagamento
alcuno, nelle quali parate non vi può pascere veruna sorta d’animale, se prima non
saranno raccolti li fieni, nel quale demanio ogni cittadino tienne il jusso pascolandi
con ogni sorte d’animali sicome attualmente stanno nel pacifico possesso di pascere
con li diloro animali e circa l’altri jussi enunciati da detto Mag. Erario, tanto su di
questo, quanto sopra ogn’altro jusso e pretenzione pro e contra sint salva jura,
tanto di essa Cam. Principale, quanto ad essa mag. università e particulari
cittadini possessori di territorj situati in detto Demanio. E nel Demanio seu feudo
di S. Vito, sint salva jura, tanto a detta Cam. Principale, come a questo Rev.
Collegio possessore del detto feudo e a possessori cittadini de’ territorj situati in
esso feudo. E riguardo alla fida del legnare, sint salva jura, tanto di detta Camera
Principale, come di questa Magnifica Università e, circa il jusso della caccia e
licenze dell’armi, si rimettono alli decreti di detto Regio Consiglio ed altri ordini
reali. Il jusso d’esiggere la mezza semenza in tutto il territorio demaniale quando si
seminano di ogni genere di vittovaglie, si è discusso che, rispetto all’esazione delle
vittuvaglie, si rimettono alli decreti del Reg. Cons. Di più possiede la Difesa di
Pietrapalomba confina territorio di Monteverde; si è annuerato che, in ordine al
taglio in tutte le Difese dell’alberi, si rimettono anco alli decreti dei Reg. Cons.
restando annuerata la fida della manna. Altra Difesa di Sassano e Pesco di Rago
confina fiume Ofanto e quello di Castiglione, territorj di particulari cittadini di
questa terra essendosi in esse difese annuerata la fida di sopra enunciata e, rispetto
alle dette Difese di Pietrapalomba e Sassano e Pesco di Rago, ogni cittadino si è
annuerato e discusso avenusi il jusso, sicome stando nel pacifico possesso di
legnare e trasportare con li loro animali, raccoglier foglie ed ogn’altra sorte de
frutti, come pure di farci travi, tavole, ghiattole, servata in omnibus li decreti dei
Reg. Conseglio. Possiede la difesa detta la Mattina e Terzo di Seroto confina Difesa
del conte di Calitro, si è discusso che j cittadini vi hando il jus di percepirci e
potervi pascere con j diloro animali aratorj e con la vacca gualanella anco col figlio
appresso in ogni tempo e poi, dal primo di novembre per fino all’otto di marzo,
detta Difesa si scommette e si può scommettere da ogni cittadino con farvi pascere
ogni sorte d’animale avendovi in essa il jusso ogni cittadino di potervi legnare ad
ogni sorte d’albore con raccogliervi frutti e foglia ad ogni suo piacere ed arbitrio. E
circa il Terzo Demaniale di Seroto ove sono tutti territorj appatronati de cittadini
di questa terra, si è discusso che tutti li medesimi cittadini vi hando il jusso dì
potere detti territorj fittare, coltivare per uso proprio, come pure di farsi e mietersi
l’erba, nel quale Terzo Demaniale detta Cam. Principale vi ha il jus dell’esazione
della mezze semenza, sicome terraggia nell’altri territorj Demaniali a tenore delli
decreti del Regio Consiglio. Finalmente tiene il jus eligendi et confirmandi le
persone di Sindaco ed Eletti di questo Pubblico, si è annuerato averci solamente
quello del confirmandi e non altrimente.»

Mentre per i beni burgensatici l’analitica descrizione è la seguente:


«Possiede un capitale di ducati 134 ipotegato sopra li beni di Gennaro Tartaglia,
esigge annui ducati 10 e grana 72. Altro di ducati 95 e mezzo ipotegato sopra li
beni di Tommaso di Dom. Paia, esigge annui ducati sette e grana 74. Altro di
ducati 55 ipotegato sopra li beni dell’eredi di Vito d’Angelo Tetto, esigge annui
carlini 38 e mezzo. Altro di ducati 20 ipotegato sopra li beni dell’eredi di Rocco
Tartaglia, esige annui carlini 16: le once cinque delli carlini 16 si deducono atteso
vengono cagionate dalla vendita del luogo feudale attaccato al castello diruto della
Camera Principale. Altro di ducati 550 ipotegato sopra li beni di Eggidio e Fabio
d’Elia, esige annui ducati 44. Esige da questa Mag. Università in ogni anno per
legato cedutoli dalli signori d’Elia ducati 10. Una casa allo Mondezzaro dello
Portiello, giusta li beni dell’eredi del dott. Fabio Tedesco d’Elisa ed altri per uso de
proprij magazini»302.

***
Al tempo del primo esponente della ricca famiglia genovese, titolare per storia e per ricchezza
di uno dei ventotto alberghi che raggruppavano l’aristocrazia nobiliare nel capoluogo ligure, il
castello di Sant’Angelo dei Lombardi doveva essere alquanto malmesso. Ciononostante il nobile
Gian Vincenzo Imperiale, certamente più aduso a sontuose residenze e ad altro sfarzo, ritenne di
non doversene rammaricare più di tanto quando, il 3 aprile 1633, finalmente vi mise piede di
persona. Arrivando da Nusco «seduto in comoda cadrega, al men male sostenuto» dai terrazzani
nuscani, il castello gli apparve «superiore al suo mansueto colle»; poi, dopo averlo visitato, così lo
descrive:
«…sebbene in alcuna parte bisognoso di ristoro, dimostra in tutto la magnificenza
unita alla comodità. Ha vasto cortile; innumerevoli intorno ad esso le stanze. Ha
corte e larghe le scale; sono di marmo gli scalini e gli ornamenti. Ha spaziosa sala;
più di sedici sono al piano di essa le camere. I balconi di lei signoreggiano con
un’occhiata quasi tutte quelle terre, che stanno al padrone - ancora che fra di loro
lontane - unitamente sottoposte»303.
Insomma, a quel tempo il vecchio maniero mostrava ancora le tracce di un passato più che
dignitoso. Poi, più che l’incuria del tempo, a causare nel prosieguo un lento e inesorabile
disfacimento del complesso castrense intervenne la colpevole disattenzione dei vari gabellotti e
governatori che per conto degli Imperiale avrebbero dovuto avere in cura il feudo, ma che invece
ebbero massimo riguardo solo per il loro arricchimento.
Di altra qualità, invece, e si dirà quale, fu l’esercizio di delega che l’Imperiale assegnò nel 1744
al dottore in legge don Giacomo Giurazzi di Carbonara, a cui successe nel governatorato il figlio
don Domenico, anch’egli dottore in legge304.
Tra quanti negli anni ebbero la delega a rappresentare il Principe, uno dei governatori dello
Stato di Sant’Angelo fu don Giovanni Tomaso Paglia, di cui è nota la patente di nomina:
302
I dati dell’onciario sono in P. MELE, Aquilonia antica (Carbonara), sulle tracce della città itinerante, in corso di
pubblicazione nella Collana «Quaderni del Museo», edita dal Museo Etnografico di Aquilonia, che
ringraziamo per la cortesia.
303
G.V. IMPERIALE, op. cit., p. 655; pure in F. SCANDONE, op. cit., p. 66.
304
G. GIURAZZI, Aquilonia - Profilo storico, Tipolitografia Irpinia, Lioni 1966, p. 22. L’Autore ricorda che i
brevetti di nomina sono conservati dai discendenti dei Giurazzi.
«Don Placido Imperiali, Grande di Spagna di p.ma classe, Principe della Città di
Sant’Angelo dei Lombardi, Signore di Nusco, e di Lesina, e delle Terre di Lioni,
Andretta, Carbonara, e San Paolo, non meno che dei Feudi inabitati di Monticchio
ed Oppido, e dei Casali di San Bartolomeo, San Guglielmo e Pontelomiti, ed altri
annessi e adiacenti alle sudette Città e Feudi. Convenendo alla retta
amministrazione della Giustizia e buon governo dei detti feudi di Sant’Angelo,
Nusco, ecc., ecc., di appoggiare la carica a persona in cui si unisca, probbità,
dottrina e fedeltà. E concorrendo tutte queste qualità al Signor don Giovanni
Tomaso Paglia della Città di Sant’Angelo l’abbiamo eletto creato e deputato per
Governatore del sud.o Stato, deferendogli l’obbligo di Esigere dai debitori,
rimunerare li meritevoli, tener mira di amministrare retta giustizia a tutti, con
eguale Bilancia, rimovendo sempre ogni rispetto e passione determinando le cause e
le liti. Con questo però che possiamo avocare qualsiasi causa che a parerà e quella
delegare a cui sarà più espediente e non altrimenti; con condizioni ancora di non
procedere a far transazioni contro gli inquisiti a pena di morte, stroppio,
mutilazione di membri e di qualsivoglia altra pena corporale o pecuniaria senza
nostro espresso ordine scritto»305.

Restando sulle condizioni del castello di Sant’Angelo dei Lombardi, è necessario ricordare che
un determinante contributo allo sfacelo lo diede la lunghissima e terribile sequenza di terremoti
che dal 1680 al 1733 mandarono in rovina i paesi dell’Alta Irpinia 306. Particolarmente devastante fu
il sisma del X grado Mercalli che si registrò l’8 settembre del 1694 e che, pur in mancanza di dati
certi, fece a Sant’Angelo dei Lombardi molte centinaia di morti, oltre a rovinare il centro abitato.
Lo stesso successe con la scossa tellurica, di analoga intensità, che il 29 novembre 1732 annullò gli
sforzi di ricostruzione che ancora si andavano facendo nei territori già colpiti così duramente. Una
reiterata sciagura che la credulità popolare non poté fare a meno di imputare all’ira divina307.
A questi lavori, messi in cantiere dai feudatari che nel frattempo avevano ereditato il titolo da
Gio. Vincenzo Imperiale, fanno riferimento i dati raccolti da Rotili:
«Nel XVIII secolo gli Imperiale dovettero porre riparo ai danni provocati dai
terremoti del 1694 e 1732. I lavori “delle Fabriche del Principal Castello di questa

305
F. MIGNONE, op. cit., p. 112. Nel 1767 il principe nominò suo governatore a Sant’Angelo il dottore utriusque
juris Vincenzo Natale di Nusco. Ricorda F. SCANDONE, op. cit., doc. 690: A questi, il 17 maggio 1767 fu concessa
la dispensa da un duplice impedimento di prammatica: la distanza di 6 miglia tra la sua città e quella di S Angelo,
mentre doveva essere di 12, e la parentela con persone della residenza, avendo il Natale una sorella ivi maritata.
306
Una puntuale descrizione degli eventi tellurici in quest’area si ritrova in G. PASSARO, I terremoti in Irpinia:
cenni storici, in Civiltà Altirpina, numero speciale che raccoglie Anno V, sett.-ott. 1980 fasc. 5-6, e Anno VI,
gen.-ott. 1981 fasc. 1-5. Per la dimensione dei danni del 1732 è utile, altresì, riportare quanto si legge in Enzo
BOSCHI ed altri, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1990, SGA - Istituto Nazionale di Geofisica,
Bologna 1995: Il terremoto colpì principalmente l’Irpinia, causando danni in un’area compresa tra Salerno, Avellino,
Napoli e Melfi. Nell’area degli effetti di danneggiamento sono compresi, allo stato attuale delle conoscenze, 67 paesi di
cui oltre 20 furono distrutti quasi completamente o subirono danni gravissimi estesi alla maggior parte del patrimonio
edilizio. Notevoli danni agli edifici religiosi sono attestati anche a Napoli, Benevento e Melfi. La scossa su sentita a
Bisceglie, Salerno, Matera e Capua. È difficile desumere una cifra esatta dei morti dalle fonti, perché allo stato attuale
delle conoscenze si rilevano discordanze notevoli; alcuni testimoni ne ricordano 4.000. Le comunità colpite furono
assistite dai governi dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli solo con esenzioni fiscali e sporadici aiuti finanziari.
Le suppliche da parte delle comunità colpite alle rispettive amministrazioni continuarono anche negli anni successivi,
evidenziando una situazione di grave disagio. Gli sforzi maggiori furono destinati alla ricostruzione degli edifici
religiosi, scelta che divenne causa di conflitto tra le comunità locali e i vescovi.
307
Nelle pagine di una relazione anonima sul terremoto del 1732, così si motivano le ragioni del sisma:
Vedendo Iddio Signor Nostro Clementissimo crescere ogni giorno più la perversità degli Uomini, quali non curandosi
di Lui s’immergono in ogni sorte di peccati. Perciò di tanto in tanto si fa sentire con flagelli alla mano, acciò gli
medesimi suoi Figliuoli, abbandonato il peccato, qual provoca l’ira sua, tornino a Lui Padre delle Misericordie,
mediante una salutevole Penitenza. In tal modo si è portato con noi nell’accaduto spaventoso Terremoto, quale serve
d’esempio, e di spavento a tutto il mondo, succeduto ultimamente a Napoli, come in appresso si narra (cfr. Centro di
Documentazione del Servizio Sismico Nazionale, Roma).
Città di S. Angelo” furono appaltati il 16 agosto 1737 per conto del principe Giulio
Imperiale a “Giosef. Foschetto mastro Fabricatore”, indicato nell’atto rogato da
notar Giovanbattista Serio (ASA, notai S.A., fascio 2196, ff. 184r-189v) anche
come “Mastro muratore”; lo strumento indica fra l’altro che l’Imperiale voleva
“rifare il suo Principal Palazzo di questa Città e proprio il quarto verso
Tramontana, e Ponente […] secondo il disegno, e Pianta fatta dal regio Ingegnere
Signore Filippo Buoncore”. I rifacimenti riferibili in base all’analisi archeologica al
XVIII secolo sono stati realmente molto incisivi sui lati N e W ove la qualità delle
murature realizzate riflette la cura posta dal committente nell’assicurarsi una
prestazione di buon livello: non a caso nel rogito il Foschetto “s’obliga, siccome s’è
obligato darli, ed apprestarli tutto il materiale adattato, ed in tempo nel luogo delle
Fabriche al Piano terreno sotto il luogo dove […] si fabrica; consistente in calce
pura senza essere manipulata mentre la manipulazione deve farsi a conto di detto
mastro Giosef. acqua, arena, pietre, mattoni, intagli, ferro per Catene, piombo ed
altro, com’ancora ad irsi, e passarvi ed essere a carico di detto mastro Giosef., funi,
cavi, cofani e tutt’altri utensili per la costruzione intiera di detta fabrica”» 308.
I lavori, completati solo nel 1758, servirono a Placido per trasformare il vecchio maniero in un
elegante palazzo signorile. Nel corso di questa radicale trasformazione il principe di Sant’Angelo,
però, si guardò bene dall’eliminare le carceri309 che il castello conservava ab antiquo e che, locate alla
Corte della Sommaria, gli consentivano di imporre a chi usciva per fine pena l’esoso balzello detto
«del portello».
Di questi imponenti lavori di ristrutturazione il principe volle lasciare memoria in un’epigrafe
che fece apporre di fianco al portone d’ingresso al palazzo e il cui testo si ritrova nelle opere degli
storici che si sono occupati della città di Sant’Angelo dei Lombardi. Fortunatamente, occorre dire,
poiché il marmo che lo riportava è andato disperso a causa del devastante terremoto del 23
novembre 1980:
PLACIDUS IMPERIALE - IULII MAX. GESTIS MAGISTRAT. CL. V. F. - FRAN. MARIAE
TERTII EX FAMILIA DUCIS GENUAE N. - PELLEGRI CORSICAE - ET GUIDONIS
FINARII VENTIMILLI AEQUE PN PUMPRON - SPLENDIDUS EQUES – SANCTI ANGELI
LONGOBARDORUM PRINCEPS - HISPANIARUM PRIMAE CLASSIS MAGNAS -
DYNASTES URBIS NUSCI LEONUM ANDRECTAE - CARBONARIAE MONTICULI
ATQUE OPPIDI - PAGORUMQUE S. BARTHOLOMAEI - SANCTI GUILIELMI DE
GULETO ET PONTISLOMITI - ACQUISITOR EGREGIUS IN APULIA - TERRAE SANCTI
PAULI ET CIVITATIS LESINAE - IN QUA PAGUM PODII IMPERIALIS FUNDAVIT -
MIRAS ATQUE PLURIMAS EX LACU AD MARE - FAUCES APERUIT - INNUMERORUM
EMPTOR LATIFUNDORUM - TAM IN SUIS DITIONIBUS QUAM IN FINITIMIS -
GUARDIAE LOMB. MORRAE ET ROCCAE S. FELICIS - HUMANI GENERIS BONO
NATUS - REI AGRARIAE INSTAURATOR EXIMIUS - VETUS HOC CIVITATIS S. ANG.
LOMB. CASTRUM - SAECULIS VETUSTIORIBUS PER LONGOBARDOS - TURRI
SEPULCRALI A POPPIO MARCELLINO ERECTAE - ADIUNCTUM ET VALLO
CIRCUMDATUM - IAM PENE COLLAPSUM REFECIT - NOVIS UNDIQUE AMPLIAVIT

308
M. ROTILI (a cura di), Sant’Angelo dei Lombardi - Ricerche nel Castello (1987-96), Arte Tipografica, Napoli
2002, p. 17 e segg.
309
M. ROTILI, op. cit., p. 20, riporta una dichiarazione fatta da più persone di S. Angelo dinanzi al notaio
Giovanbattista Serio il 14 aprile del 1747; cfr. ASA, Protocolli notarili di Sant’Angelo dei Lombardi, fascio 2203,
ff. 62r-63r. Vi si legge: In questa Città di S. Angiolo Lombardi vi è un […] Carcere, questo stà dentro il Principal
Palazzo di questa Città di cui se ne servono in ogni occorrenza per tener carcerati cosi la Corte locale è della Città per le
Cause Civili e Criminali e miste […] ed ogni Cittadino sempre che l’è stato ed è d’uopo, per tener carcerati […] se n’è
servito e serve». E ancora, poco più avanti la dichiarazione enfatizza la sicurtà di esso Carcere, tutte le Corti dello
Stato di S. Angelo, sono state, e sono solite servirsi di tal carcere, esistente in detto Principal Palazzo per trasmettervi i
Carcerati, e così sempre et ab antiquo loro costa benissimo essersi praticato in ogni occorrenza dalle Corti locali di Stato.
ACCESSIONIBUS - ET AD ELEGANTIOREM PALATII FORMAM - IPSOMET PRINCIPE
OPTIMO CURANTE - REDEGIT - A.D. MDCCLVIII 310
La lapide di Sant’Angelo fa il paio con quella che circa un ventennio dopo, nel 1779, l’Imperiale
fece apporre sulle mura della casa di campagna che fece costruire nel Bosco di Fiorentino, in
territorio di Nusco311:
PLACIDUS IMPERIALIS IULII FRANCISCI MARIAE - III EX FAMILIA GENUENSI
SPLENDIDUS EQUES - ET S. ANGELI LOMBARDORUM PRINCEPS - HISPANIARUM
PRIMAE CLASSIS MAGNUS - DYNASTES URBIS NUSCI LEONUM ANDRECTAE
CARBONARIAE MONTICULI ATQUE OPPIDI - PAGORUMQUE S. BARTHOLOMAEI S.
GUILLELMI DE GULETO ET PONTISLOMITO - ADVERSARIIS PLURIES DEVICTIS -
ACQUISITOR EGREGIUS IN APULIA TERRAE S. PAULI ET CIVITATIS LESINAE - IN
QUA PAGUM PODII IMPERIALIS FUNDAVIT - MIRASQUE ATQUE PLURIMAS IN
LACU AD MARE FAUCES APERUIT - INNUMERORUM LATIFUNDORUM TAM IN
ACQUISITIS SUIS DITIONIBUS - QUAM IN FINITIMIS GUARDIAE LOMBARDORUM
MORRAE ET ROCCAE S. FELICIS EMPTORUM - HUMANI GENERIS BONO NATUS -
REI AGRARIAE INSTAURATOR EXIMIUS - ISTIS INFECUNDIS ET SENTICOSIS
NEMORIBUS ET DEFENSIS - FERENTINI - UBI OLIM URBS FUIT FERENTINUM -
ISCLAE PULVERIS - GRAMATICI - CAROVELLAE ATQUE LAGARELLIARUM -
ACCURATA CULTURA NEC NON UTILISSIMA - PROSPERO SUBACTIS SUCCESSU
INNUMERIS ALBIS CONSITIS MORIS - CASTANEISQUE AC VITIBUS POPULIS IUGATIS
ET IN IUCUNDISSIMUM VIRIDARIUM REDACTIS - NULLIS PARCENDO CURIS ET
IMPENSIS - PALATIUM ISTUD AC AMOENISSIMUM SIBI ET SUIS EREXIT A.D.
MDCCLXXIX
Sul possesso di questo feudo e su quello di altre terre di Nusco si sviluppò solo alla morte del
principe un’accesa controversia tra quella Università e il legittimo erede del nobile signore 312. In
buona sostanza i cittadini di quella città accusarono la «prepotente famiglia Imperiale» e il
«malpoderoso barone qual s’era il Principe D. Placido Imperiale» di aver usurpato negli anni, con
inganni e bugie, il possesso feudale di Fiorentino, del «bosco dello Mito», nonché della contrada
denominata Grammatico, dell’Isca della Polvere, della Fundera, della Carovella e finanche di un
vasto fondo detto Lagarelli, che però ricadeva nel territorio della vicina Università di Bagnoli.
«Può credersi! Il Principe D. Placido, che più prima erasi risoluto ad usurparla, già descritta
l’avea di propria ragione, e spettanza in un’iscrizione lapidea apposta fin dal 1779, nel suo
palazzo di campagna edificato in Fiorentino, e con finti istromenti per servire di documenti, e
pretesti nella futura età ne fingeva finanche l’affitto a suo pro. Di fatti s’è presentato quello

310
Cfr. F. SCANDONE, op. cit., p. 363. Ulteriori opere di ammodernamento furono fatte nel castello da Giulio II,
figlio di Placido, che utilizzò le sale del palazzo nobiliare per ospitare i suoi pari e per tenervi feste
memorabili. Le condizioni generali del palazzo gentilizio si ritrovano negli apprezzi stilati agli inizi del XIX
sec., in conseguenza di una lunga e controversa vertenza tra gli eredi degli Imperiali. Tra questi è stato
consultato il dettagliato Apprezzo de’ beni ereditari del fu Principe di S. Angelo D. Giulio Imperiali, redatto dagli
architetti Luigi Morra, Filippo Giuliano ed Angiolo Ostilio Grasso e stampato presso Angelo Trani, Napoli
1822. Per la conoscenza di quello che alla fine del XVIII sec. era l’impianto e la consistenza del Palazzo (il
toponimo si è perso nell’ultimo dopo terremoto, soppiantato dalla più enfatica dizione di ‘Castello’) si ritiene
utile riportare in appendice a questo contributo la descrizione fatta da questi ultimi apprezzatori. Cosa
ancora più opportuna se la si rapporta allo stato attuale dei luoghi uscito dai lavori di recupero,
consolidamento e restauro che sono stati condotti sull’area del castello dopo il sisma del 1980. Interventi che
sono serviti a riportare alla luce gli antichi perimetri murari longobardi e una chiesa altomedievale
assolutamente ignota, e che hanno fatto assumere all’intero complesso una fisionomia assolutamente diversa
da quella finora nota agli storici che si sono occupati delle cose di Sant’Angelo dei Lombardi.
311
Anche questa epigrafe è ripresa da F. SCANDONE, Op. cit., p. 362.
312
A margine della querelle che oppose la comunità nuscana agli Imperiale va annotato che l’università non
riuscì più a farsi restituire l’unica, preziosa copia originale della «Legenda» sulla vita di S.Amato scritta da
Francesco De Ponte nel 1461, testo che il Principe Placido ebbe prestato dal vescovo di Nusco Gaetano De
Arco. Cfr. Giuseppe Passaro, Rilievi e note ad una storia di Nusco, Tip. Napoletana, Napoli 1971.
stipulato in luglio 1786 per Notar Votto di Montella, col quale si finge d’aver dato in affitto a
Diego Barbone per annui ducati 40 la difesa de’ Lagarelli di circa moggia 200 adjacente, ed
attaccata all’altra difesa della Carovella» 313.
***
Tornando a come il principe Placido intendeva amministrare il feudo, va ricordato che nei primi
decenni del Settecento nel Regno di Napoli il tessuto sociale era assolutamente arretrato, segnato
dall’assenza di un intermedio ceto borghese che facesse da filtro tra i privilegi dei feudatari,
depositari di un incontrastato potere di casta, e le masse contadine, depresse da ogni sorta di
legame servile. Mancavano inoltre significative attività industriali, mentre quella mercantile era
praticamente anemica. Le enormi proprietà terriere non avevano subito alcun rinnovamento,
cosicché il latifondo e la miseria, insieme alla malaria e al brigantaggio, erano le peculiarità di una
società ancora largamente medievale.
Inoltre non erano estranee ai proponimenti maturati dal principe di Sant’Angelo le nuove idee
che circolavano nel Regno e che puntavano a scalzare l’immobilismo dell’ancien régime a tutto
favore di una più moderna e illuminata concezione dello Stato, a cui il giovane Carlo di Borbone
stava cercando di dare un assetto che fosse meno ingessato dalla soverchiante nobiltà feudale alla
quale cercò in tutti i modi di spuntare gli artigli famelici.
Maggiormente nell’iscrizione del casino di Fiorentino è possibile ritrovare la summa dello spirito
innovatore di Placido che, non senza orgoglio, volle ricordare ai posteri sia i titoli nobiliari che i
possedimenti, e, cosa alquanto inusuale, i meriti di «esimio instauratore dell’agricoltura» per aver
diboscato, «senza risparmiare nessuna cura e spesa», i boschi e le difese di Oppido, mettendo altresì a
coltura «castagni e viti congiunte a pioppi» e impiantandovi una cospicua coltivazione di gelsi
bianchi e una «grandiosa bacheria che tuttora ivi vedesi in piede», così come ricorda Ferrara 314, oltre a
molte decine di arnie a supporto dell’apicoltura che aveva importato e diffuso in tutte le terre del
suo feudo. Un’impresa quest’ultima che, però, non dovette dare gli utili che il principe sperava; e
questo per colpa di una tipologia di alveare, l’arnia del Conte della Bourdonnaye, risultata
evidentemente inadeguata e tale da provocare il commento beffardo del redentorista padre
Tannoja:
«D. Placido Imperiale, Principe di S. Angelo de’ Lombardi, uomo troppo
interessato per le cose della Villa, credeva metter carrozza, facendo uso ne’ suoi
Feudi di S. Angelo, S. Paolo, e Lesina, dell’arnia dei Conte; ma li venne fallito il
disegno. Il successo non corrispose all’aspettativa. Tutto fu rovina; e servirono le
casse a’ suoi campagnuoli per riporvi dentro ceci, e piselli» 315.
Non minore attenzione Placido ebbe per l’agricoltura nel capoluogo del feudo, dove aveva
provveduto alla …

313
L. PEPE, Collezione di varj documenti, e notizie attinenti alla città di Nusco, Stamperia Abbaziana, Napoli 1809,
p. 17. È curioso come anche un’altra vertenza contro Placido sia stata accesa dall’Università di Nusco solo
dopo la morte del suo feudatario e imputata, perciò, al suo successore. Ancora dall’avvocato dottor Luigi
Pepe qu. Amato si apprende che A 20 luglio 1751, il Marchese D. Errico Imperiale de’ Principi di S.Angelo nel fare
il suo testamento per mano di Notar Giuseppe De Angelis qu. Nicola di Napoli, dopo d’aver istituito suo erede il
Principe D. Placido Imperiale suo nipote, legò la somma di ducati 500 a pro degli amministratori dell’Università di
Nusco, affine d’impiegarsi in compra sicura, ed il fruttato, ossia annua rendita erogarsi in alcune opere pie. Don
Placido si guardò bene di assegnare il legato (che tra l’altro era l’esecuzione testamentaria della volontà di
Gio. Giacomo juniore) al governo della città di Nusco, che avrebbe dovuto utilizzare la somma in onore di S.
Amato, impiegandone metà per aumento di cera e metà per i poveri che avessero partecipato ai riti religiosi in
devozione del venerato protovescovo. Dopo un’interminabile giudizio dinanzi ai tribunali napoletani, gli
Imperiale furono condannati a rimborsare l’Università con tutti gli interessi legali che nel frattempo erano
maturati.
314
M. FERRARA, art. cit.
315
A. M. TANNOJA, Delle api e loro utile e della maniera di ben governarle. Trattato fisico-economico-rustico del P. D.
Antonio Maria Tannoja della congregazione del SS. Redentore, Raffaele Raimondi, Napoli 1818.
«… creazione della vasta selva di castagni sui monti di S. Angelo, di recente
distrutta dalla gente di spirito più che vandalico che ne ebbe l’amministrazione, ed
al presente la popolazione ne risente tutto lo immenso danno» 316.
Piuttosto che lasciarvi boschi incolti curò pure una massiva cerealicoltura nel vasto territorio di
Montanaldo e l’impiantamento a viti sia nella tenuta di San Vito, sia là dove un tempo sorgeva
l’antica città di Monticchio de’ Lombardi. Ma anche a Nusco, nelle terre demaniali di Ponteromito,
ad Andretta nel Bosco San Giovanni e Piano del Conte, e a Carbonara nel demanio della Mattina.
Su questo straordinario processo di rinnovamento dell’agricoltura nello Stato di Sant’Angelo dei
Lombardi, tale da sfruttare appieno come mai era stato fatto l’esposizione dei terreni e i corsi
d’acqua, così scrive Barra:
«La massiccia granificazione del territorio consentì al feudatario l’accumulazione
di ingentissime quantità di cereali, da smerciare con ingenti e crescenti profitti sul
mercato napoletano. Ma, accanto a questo, vanno ricordati pure l’impianto di
estesi castagneti, destinati ad assicurare l’assetto idrogeologico del suolo ed a
sostituire, assai più produttivamente, i vecchi boschi, e l’introduzione, sia pure su
scala più ridotta, di colture arboree intensive, quali vigneti e gelseti. Analoga
attenzione venne dedicata allo sfruttamento delle risorse idrauliche a fini
industriali, con l’impianto, oltre che di numerosi mulini, di una grossa cartiera a
12 pile e di alcune gualchiere a Pontelomito»317.
Oltre che un utile avviamento alle «arti manifattrici», Placido mise in piedi un’operazione di
trasformazione agraria assolutamente coraggiosa, poiché la privatizzazione e la messa a coltura dei
terreni feudali, normalmente aperti agli usi civici essenziali e collettivi, impediva agli abitanti lo
sfruttamento delle risorse del territorio che, evidentemente, per la modesta economia silvo-
pastorale del feudo significava molto.
Una vicenda, quella della limitazione degli usi civici, che non fu indolore per il Signore di
Sant’Angelo dei Lombardi, il quale si vide contestato aspramente dai suoi vassalli. Più che in altre
terre del feudo, fu maggiormente a Carbonara che il principe dovette far fronte alla ferma
opposizione dei cittadini del luogo, decisi ad impedire strenuamente il tentativo del feudatario di
intensificare lo sfruttamento delle terre per incrementare le rendite agrarie. Un’aspra contesa che i
vassalli condussero sotto la guida del ceto colto dell’Università di Carbonara e che, nel corso degli
anni, portarono più volte davanti al Sacro Regio Consiglio nel tentativo, a volte riuscito altre meno,
di vedersi riconosciuto il diritto a legnare e a raccogliere erba e frutti caduti, principalmente nei
territori la cui natura, feudale o burgensatica, era alquanto dubbia.
Nel mentre i legali dell’Imperiale lamentavano che era venuto in mente all’Amministrazione di
detta Università di rendersi quasi padrone delle cennate difese feudali 318 e forse anche di impedire al suo
Illustre Principe l’esercizio dei suoi diritti, dall’altra i procuratori di Carbonara notiziavano al
tribunale che …
«Da lunghissimo tempo, da più centinaia d’anni che non è memoria in contrario,
che la Università e cittadini di questa Terra hanno in pacifico possesso posseduto li
jussi, ragioni ed azioni nelle difese denominate Sassano, Pesco di Rago e
Pietrapalomba di far travi e scandole per uso di loro masserie, pali per le vigne e le
legne per uso di fuoco, di raccogliere ghiande e foglie. Presentemente nel governo e
possesso di detta Terra della felice memoria dell’Eccellentissimo Principe D. Giulio
Imperiale sono stati de facto e violentemente, con seguire a carcerazioni, e spogliati,
a riserba del jus delle ghiande e foglie, di tutti li altri jussi e ragioni, di far travi,
tavole, scandole, pali e legna, con farli pagare al quanti plurimi a chiunque loro
necessitano, col privarli alle volte delle ghiande, con portarci al pascolo di detta
difesa animali neri»319.

316
M. FERRARA, art. cit.
317
F. BARRA, Tra accumulazione borghese e latifondo contadino: la disgregazione dei patrimoni feudali, p. 67.
318
ASA, Atti demaniali, B. 19, Fasc. 105, f. 59.
319
Ibidem, f. 46.
Una querelle che, preso l’avvio con una delibera del parlamento dell’Università di Carbonara in
data 25 ottobre 1739, andò ben oltre la morte di Placido, arrivando a coinvolgere il successore
Giulio II. In questa quarantennale controversia nulla potettero i governatori del principe,
appositamente scelti tra gli esponenti della migliore borghesia carbonarese nell’inconcludente
tentativo auspicato da Placido di averla dalla sua parte nello scontro che lo vedeva praticamente
soccombente rispetto ai vassalli320.
***
Per comprendere meglio la portata innovativa del governo feudale praticato dal principe,
conviene avere chiaro quale fosse il contesto nel quale le scelte di Placido andarono a calarsi.
A Napoli, ancora nei primi decenni del XVIII secolo, la nobiltà, con la nuova aristocrazia che nel
tempo si era bene equiparata all’antico ceto nobile, godeva di esclusive prerogative che,
soprattutto nei feudi, rasentavano un dispotismo che i sovrani non erano riusciti a limitare. I nobili
erano i tutori della giustizia, imponevano tributi e gabelle, disponevano a loro piacimento delle
braccia dei lavoratori. Anche gli antichi diritti, per così dire, personali non avevano subito
menomazioni, tant’è che nelle loro terre i feudatari potevano servirsi a piacimento dei loro vassalli
sia per lavori domestici che per quelli nei campi, dove disponevano finanche della facoltà di
determinare d’autorità i tempi e la qualità delle culture. Erano, insomma, dei piccoli sovrani,
abituati ad obbedire solo ai loro interessi e ai loro capricci.
Nei confronti della preminente autorità dello Stato, poi, opponevano caparbiamente le ragioni
di casta che li autorizzava non solo a sottrarsi agli obblighi tributari, ma anche a rivendicare
ulteriori e più ampie esenzioni fiscali; per non dire della presunzione di potersi sottrarre pure alla
giustizia, in virtù dei loro privilegi di foro.
Se non era riuscito con un progetto di ampio respiro ad intaccare in maniera sensibile la fitta
rete delle prerogative, il sovrano borbonico, che puntava a smantellare le strutture feudali per
fondare lo Stato su concetti di libertà e uguaglianza, ebbe certamente miglior fortuna nell’opera di
erosione dei poteri dei baroni sul terreno politico; tanto da costringere la nobiltà feudale a piegarsi
dinanzi all’autorità e alla forza della monarchia.
Non fu da meno, infine, la lotta che re Carlo, e con lui il ministro Bernardo Tanucci, dovettero
intraprendere rispetto ai privilegi anacronistici di cui godeva il clero, nelle sue varie articolazioni e
gerarchie. Un’idea, quella della rivendicazione dei diritti dello Stato, alla quale lavorava Pietro
Giannone fin dai primi decenni del secolo, mentre Tanucci faceva i primi tentativi di riforma per
limitare i possedimenti feudali ecclesiastici.
In questo quadro, dunque, si presentò l’occasione per il principe Placido di diventare l’ecista di
una nuova città. Un progetto che incrociava la politica economica della corte borbonica, la quale
intendeva trasformare le desolate lande del Tavoliere, fino ad allora preposte alla pastorizia, in
produttive terre da destinare alla coltivazione, e che trovava una logica convincente nelle tesi
economiche e politiche dell’abate Galiani, il quale rilevava un’incomprensibile gestione fiscale e
produttiva del Tavoliere, denunciando, sdegnato, come si considerasse remunerativo un territorio
come quello di Capitanata che rendeva solo 400mila ducati mentre se ne sarebbero potuti ricavare
almeno due milioni. Fu questa una scelta strategica dettata anche dalle mutate condizioni
dell’agricoltura imposte dal lungo periodo di gravi perturbazioni atmosferiche che a cavallo degli
anni cinquanta del Settecento alterarono il ciclo produttivo. Nelle province del Regno si
susseguirono, infatti, con una triste regolarità annate di carestia 321 per siccità prolungata, inverni
rigidi e invasioni di locuste che distrussero i raccolti. I granai e le dispense semivuote misero a
320
Per il documentato racconto della lotta tra il Principe di Sant’Angelo e l’Università di Carbonara cfr. D.
IANNECI, Carbonara- Aquilonia - La proprietà fondiaria dal Medioevo all’Unità d’Italia, Edizioni Osanna, Venosa
1996.
321
Particolarmente devastante fu la memorabile carestia del 1764, soprattutto per il tasso di mortalità e per le
notevoli complicazioni sociali ed economiche che comportò. Un documento di quell’anno riferisce della
controversia tra l’università di Avellino e gli affittatori della gabella degli «ignoccoli» e di altri lavori di
pasta, circa il computo della tassa; gli affittatori si rifiutavano di pagare per intero la gabella a causa della
stasi della lavorazione della pasta, dovuta a penuria di grano. Cfr. ASA, Regia udienza di Principato Ultra
(1589-1809), B. 13, fasc. 115.
dura prova la capacità di resistenza delle aziende agricole che, per sopravvivere, videro
accentuarsi la loro tradizionale subordinazione a mercanti ed usurai ed aumentare il loro
indebitamento.
Rovescio di questa medaglia fu il crescente incremento demografico 322 che nella seconda metà
del secolo pose seri problemi di approvvigionamento. La crescente richiesta di cibo da parte della
popolazione faceva salire i prezzi dei prodotti alimentari e spingeva ad aumentare la produzione
agricola attraverso l’espansione dei terreni coltivati e l’introduzione di nuove tecniche.
L’ampliamento delle zone coltivate fu realizzato bonificando pianure paludose e abbattendo
boschi di collina e di montagna per far posto alle coltivazioni. Altrettanto importante fu il
passaggio dalla rotazione seminativa triennale alla rotazione permanente, con l’eliminazione del
maggese improduttivo, soppiantato dall’impiego di piante foraggere (trifoglio, erba medica) che
meglio si adattavano all’alimentazione degli animali allevati. Quest’erbaggio, oltre ad arricchire il
terreno di sostanze utili alla coltivazione dei cereali, permise di sviluppare l’allevamento e di dare
vita a una moderna agricoltura, dove le coltivazioni e l’allevamento erano tra loro strettamente
integrati. Infine, la produzione agricola aumentò anche per l’impiego di nuovi e più perfezionati
attrezzi da lavoro, quali l’aratro di ferro adatto per arature profonde, la falce lunga più efficace del
falcetto, e i nuovi tipi di seminatrici ed erpici.
***
Per tornare agli intendimenti di largo respiro del signore di Sant’Angelo, va detto che il principe
Imperiale si tuffò a capofitto nel suo progetto di modernizzazione dopo che, trascorsi alcuni anni
dall’acquisto delle terre della Santa Casa dell’Annunziata, decise di trascorrere con la propria
famiglia le festività pasquali del 1759 nel feudo di San Paolo. Da lì, poi, il 15 aprile, domenica di
Pasqua, si recò in visita alla città di Lesina. Fu in questa occasione che si verificò un curioso
episodio; nel mentre il feudatario incarrozzato s’era già avviato verso le sue terre, fu raggiunto dalla
notizia che Antonio Scarella, maestro di Casa Imperiale a Napoli, era scappato con la cassa del
denaro del principe. Questi dispose che i suoi soldati riacciuffassero immediatamente il mariuolo,
cosa che avvenne quando il funzionario infedele era già in territorio di San Severo. Alle cinque del
pomeriggio dello stesso giorno si celebrò il processo che condannò lo Scarella, il quale, però, grazie
all’aiuto di complici, un paio di settimane dopo riuscì a scappare dal carcere di Lesina facendo
perdere per sempre le proprie tracce323.
Nella sua visita l’Imperiale trovò un feudo che si perdeva a vista d’occhio, arso dalla siccità e
abitato da gente semplice la cui salute, però, era pregiudicata dall’aria malsana che si alzava dalle
terre paludose del Lago. Era necessario e urgente provvedere a risanare l’area con imponenti e
impegnative opere idrauliche che mediante fossi e canali mettessero in comunicazione il lago con il
mare. Tutto questo mentre gli abitanti della zona si sarebbero dovuti mettere a distanza di
sicurezza dai miasmi malarici.
Un altro problema a cui il Principe Placido dovette far fronte fu la notevole anarchia che
regnava in quelle terre. Il nuovo signore di Lesina dovette faticare non poco per riportare l’ordine
se, ancora nel 1769, fu costretto ad adire gli organi giudiziari del Regno per avere ragione di una
clamorosa violazione delle più elementari e consolidate prerogative feudali:
«Il principe don Placido, ricorda che nel 1751 aveva comperate le difese feudali del
Lago di Lesina, e della sua Isola, con la privativa della caccia ai volatili. Egli vi
aveva dipoi introdotte 12 scrofe di cinghiale, a lui donate dal Re, con altra riserva
del diritto della caccia al cinghiale. Il fatto non era andato a verso all’arciprete di
Lesina, don Felice di Lullo. Per incitamento di lui, e del sacerdote don Giovanni di
Napoli, ed anche di Nicola d’Angelo, alcuni abitanti della terra, con licenze di
caccia non concesse dal principe, avevano dal 13 febbraio in poi saccheggiata la
selvaggina della riserva. Insieme con loro erano stati invitati alla caccia anche

322
Cfr. F. BARRA, Tra accumulazione borghese e latifondo contadino: la disgregazione dei patrimoni feudali, p. 69. Lo
«Stato» feudale degli Imperiale fece infatti registrare in cinquant’anni, tra il 1740 ed il 1790, un incremento
complessivo del 48, 68%, con punte del 60% a S. Angelo, del 51% ad Andretta e del 50% a Lioni.
323
ASN, Carte della Società Storica Napoletana, fasc. 57.
alcuni amici di Apricena, sforniti addirittura di qualsiasi licenza. La Consulta,
interpellata, propone che tutti siano rubricati come “cacciatori di frodo”, e citati ad
informandum»324.
L’assillo maggiore del principe, però, fu la bonifica dalla malaria dell’area lacustre. Un’opera
che lo impegnò non poco e per la quale impiegò «macchine idrauliche, assai più da se stesso escogitate».
Nel frattempo una notevole manovalanza, a circa due miglia a sud, tra Apricena e Lesina,
provvedeva a disboscare la collina di Coppa Montorio per costruirvi un nuovo casale e un
palazzotto che potesse ospitare il principe durante il tempo che avrebbe voluto soggiornare nel
nuovo feudo. Un alloggio signorile che in assenza del feudatario era abitato dal suo
amministratore. Nei pressi furono pure realizzati alcuni alloggi per una quindicina di famiglie che
avevano accettato l’invito a trasferirsi nei suoi territori, dove nel frattempo aveva avviato un
significativo esperimento di colonizzazione. I contadini, provenienti per lo più da paesi vicini,
ebbero in comodato gratuito delle comode abitazioni costituite da monolocali a schiera con tetti ad
una falda ed una piccola finestra. Le case, munite di un caminetto che assolveva alla doppia
funzione di cucina e di fonte di riscaldamento nel periodo invernale, erano fornite di una stalla per
gli animali e di un deposito per gli attrezzi agricoli, separati dalle abitazioni da un’aia che dava al
contesto abitativo le sembianze di una vera e propria azienda agricola. Fu questo il primo
embrione del nuovo paese che il fondatore chiamò Poggio Imperiale.
Per tutto il 1759 e anche per l’anno successivo gli unici residenti nella nuova cittadina furono i
coloni di origine pugliese. Ben presto, però, nel gennaio del 1761, a questi andò ad affiancarsi una
colonia di profughi albanesi, partiti da Scutari dopo che la città fu occupata dai turchi. Una robusta
presenza che a Napoli, con reciproca soddisfazione, convenne col principe la decisione di
trasferirsi nella sua terra nuova. Gli scutarini, però, non resistettero a lungo e la maggior parte di
essi fecero ritorno a Pianiano. Non tutti, però, andarono via; anzi, da diverse altre parti del Regno
arrivarono nuove braccia albanesi e ancora altri immigrati che avevano ascoltato il bando che il
principe Imperiale aveva fatto diffondere per richiamare uomini nelle sue terre di Capitanata.
Per incoraggiare questi trasferimenti, a chiunque avesse voluto stabilirsi nel nuovo villaggio
Placido concedeva molti privilegi, tra i quali, oltre all’esenzione dal focatico, c’era la consegna di
casa e terreno e di una certa quantità di sementi e animali. Il principe pensò finanche alla cura del
corpo e dell’anima, assegnando alla nuova comunità un medico e un cappellano.
Dalle università e dalle terre del Principato Ultra furono in molti a raccogliere l’invito, tutti con
la speranza di trovare nelle nuove terre del principe Imperiale migliori condizioni di vita.
Fu così, tra alti e bassi, che il principe vide assumere man mano al neonato casale la forma e la
dimensione di una significativa realtà urbana dove si andarono costruendo sempre più nuove
abitazioni per i coloni, a cui furono affidate molte misure di terreno coltivabile sottratte ai boschi e
ai pascoli, e dove la produzione agricola, con l’inserimento di nuove piante alimentari come il
mais, e di legumi, quali favi e piselli, era arrivata a proporzioni ragguardevoli, tali da far dire al
Targioni:
«L’esempio del sig. Principe di S. Angiolo Imperiali dà luogo a sperare che se
fossero fatte le convenienti esperienze si potrebbero ridurre ad assaj più utile
cultura non meno gli Abruzzi, che la calda conca della Puglia» 325.
Non solo l’agricoltura fu nelle mire innovatrici del nobile ecista di Poggio Imperiale. Nei piani
del principe prese corpo anche una moderna concezione della pesca, sullo stile di quella praticata
nelle acque di Comacchio, e soprattutto una fiorente industria metallurgica, con una notevole
fonderia di ottone e ferro affidata a braccia esperte fatte venire appositamente da Pistoia.
Insomma, un riformista a tutto tondo che trasformò le assolate terre di Capitanata in un fiorente e
moderno centro agricolo e industriale, dove le idee nuove che arrivavano dal resto dell’Italia e
dalla Francia trovarono entusiastica accoglienza nell’operosità dell’Imperiale.
Il grandioso disegno del principe aveva trovato, dunque, soddisfacente compimento; e questo
grazie soprattutto all’impronta illuminista del suo governo che, senza rinunciare alla ferrea logica

324
F. SCANDONE, op. cit., doc. 691.
325
L. TARGIONI, Saggi fisici, politici ed economici, Stamperia di Donato Campo, Napoli 1786, p. 206.
delle prerogative feudali, fu tutto sommato mite e comprensivo.
Anche nel feudo altirpino la signoria di Placido, pur nella difesa sostenuta delle sue
prerogative, fu saggia e illuminata, schiva dalla ricerca di motivi di scontro con i governi delle
Università o con i vescovi di Sant’Angelo 326 o con il potente monastero verginiano del Goleto.
Contrapposizioni che, in passato, avevano fortemente connotato i rapporti dei suoi maggiori con
queste figure emblematiche del santangiolese. Anche qui, come nelle terre di Lesina, Placido
dissodò boschi e terreni per sperimentare nuove colture. E sul suo esempio fecero altrettanto i
nativi che guardarono con spirito emulativo al loro illuminato signore, tant’è che gli anni a metà
del secolo XVIII rappresentarono positive occasioni di ristrutturazione fondiaria e di ulteriore
promozione del ricco ed articolato paesaggio agrario327.
Cosicché, piuttosto che pagine di lagnanze oggi restano volumi e pubblicazioni a stampa
dedicati al feudatario, come quello scritto da don Domenico Benfatto di Andretta che
all’«Eccellentissimo Signor Placido Imperiali, Principe di S. Angelo dei Lombardi» dedicò un’apprezzata
biografia del suo concittadino il Servo di Dio don Agostino Arace (1718-1764) 328. Segno evidente di
una stima e di una diffusa considerazione che plasticamente può leggersi nell’udienza privata che
il papa Pio VI concesse il 20 gennaio 1776 all’Imperiale, giusto nel pieno della notoria disputa che
vedeva contrapposto il Pontefice alla politica giurisdizionalista di Ferdinando IV.
Questa lunga stagione di pace sociale 329, non disgiunta dal forte prestigio di cui godeva il
principe, permise al nobile possidente di estendere oltremodo la sua signoria, acquisendo latifondi
nelle vicine terre di Guardia dei Lombardi, di Morra e di Rocca San Felice, e di porre mano nel
1779, così come si è detto, alla costruzione, sibi et suis, della palazzina di campagna tra i boschi di
Oppido.
Insomma, quelli a metà del XVIII secolo furono anni proficui sia per lo Stato di Sant’Angelo dei
Lombardi che per i feudi pugliesi, reduci, lo ricordiamo, da devastanti terremoti e annate di siccità.
***
Placido Imperiale abbandonò la vita terrena il 10 dicembre 1786 all’età di 59 anni e le sue
spoglie furono traslate nella cripta di famiglia nella Chiesa di San Giorgio dei Genovesi 330 in
326
Negli anni di signoria dell’Imperiale sulla cattedra vescovile della diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi e
Bisaccia, invicem unitae, sedettero il pugliese Antonio Manerba (1735-1761) e il napoletano Domenico Volpe
(1762-1783). A Nusco, invece, in quegli anni ressero la diocesi Niccolò Tupputi (1724-1740), Gaetano de Arco
(1741-1753) e Francesco Antonio Bonaventura (1753-1788).
327
Tra quanti a Sant’Angelo ammodernarono l’impianto agricolo nei loro terreni ci fu la Congrega laicale del
SS. Sacramento che, dopo le consuete informazioni della Corte locale, ottenne il regio assenso per mettere a
coltura un piccolo bosco. Cfr. F. SCANDONE, op. cit., doc. 688.
328
D. BELFATTO, Compendio della vita del Servo di Dio D. Agostino Arace, Stamperia dei Fratelli Raimondi, 1773.
329
Anche i governi dell’Università di Sant’Angelo dei Lombardi risentirono di questo clima di diffusa
pacificazione, tant’è che gli eletti dal parlamento civico furono riconfermati più volte negli incarichi, con la
dispensa del prescritto intervallo (Cfr. F. SCANDONE, op. cit., docc. 676, 678, 683, 692, 695). In città, inoltre,
erano in corso importanti lavori, come quelli commissionati da mons. Manerba per ricostruire il seminario
della diocesi (1746). Fervore che coinvolse anche tutti gli ordini religiosi presenti in città. I francescani
riformati di Santa Maria nel 1757 ottennero dai superiori del diffinitorio licenza di poter edificare davanti alla
chiesa un atrio che servisse allo stesso tempo a sostenere la facciata, sconnessa dal tremuoto, e anche per
formarvi sopra una sala che eliminasse l’incomodo de’ religiosi che in tempo d’inverno soffrono rigidezza del
clima. Non furono da meno i monaci del monastero francescano extra moenia di San Marco, che nel 1762
disposero per una nuova platea dei beni mentre importanti opere di rifacimento diedero maggiore dignità
sia al convento che all’annessa chiesa dedicata a San Marco (per queste notizie cfr. di G. CHIUSANO, S. Maria
delle Grazie, Linotype Jannone, Salerno 1971 e L’antico Convento di San Marco in S. Angelo L., Edizioni
Dehoniane, 1975). Da parte sua il Capitolo della Cattedrale nel 1768 incaricò Diego Villani di Vallata, regio
agrimensore della Dogana di Foggia, di predisporre e disegnare il Registro delle piante di tutti i territori che
possedansi dal Rever. Capitolo della Cattedrale Chiesa di S. Angelo Lombardi sotto il titolo di S. Antonino Martire.
330
Una piccola chiesa dedicata a San Giorgio fu edificata nel 1525 dalla comunità dei mercanti genovesi
residenti a Napoli sotto l‘infermeria di Santa Maria la Nova. Nel 1587 la comunità ligure acquistò un’area
sulla quale si trovava il teatro detto della «Commedia vecchia», che fecero demolire per far posto, nel 1620, al
nuovo tempio. Oggi la Chiesa di San Giorgio dei Genovesi è concessa in comodato dalla Curia di Napoli
all’Università Partenopea e oltre ad avere funzione di cappella universitaria, è sede delle sedute di laurea e
Napoli, dove già riposavano il padre Giulio331 e gli altri consanguinei.
In questa chiesa c’è il sacello di famiglia che il munifico Signore di Sant’Angelo dei Lombardi
tre lustri prima della sua morte aveva fatto abbellire con eleganti marmi policromi. Sull’imponente
altare, che occupa interamente il transetto destro, risaltava una tela di Francesco De Mura
raffigurante il martirio di San Placido332; sui piedritti con lo stemma della famiglia Imperiale si può
leggere l’epigrafe dettata dallo stesso Principe:
PLACIDE SANCTISSIME QVI CÆLESTI IAM IN SEDE ÆTERNALEM DVCIS PACEM
IMPERIALEM PROSAPIAM NOMENQ PRÆSENTISSIMA TVTELA AC FIDE PRÆCIPVE
PLACIDVM SANCTI ANGELI PRINCIPEM DE TE PIETATE CVLTVQVE RELIGIONIS
EGREGIE MERITVM SERVES AC TVTERIS EIQVE SERISSIMOS DESTINES SVCCESSORES
TIBI ETIAM PIA MENTE DEVOTISSIMOS
SACELLVM CVM ARA VBI OPVS SEPVLCRI DVMTAXAT VISEBATVR DIVI PLACIDI
TVTELA AVGVSTVM QVOVIS ORNAMENTORUM GENERE DECORUM ADDICTA PRO
CELEBRANDIS EVCHARISTICIS SACRIFICIIS SVPELLECTILE OMNE CENVS
LOCVPLETISSIMA PLACIDUS IMPERIALIS S.ANGELI PRINCEPS OB AVSPICATAM SVI
NOMINIS RELIGIONEM IMPENSA SVA EXCITAVIT DEDICAVITQ AN. MDCCLXXI
Il principe Placido morì improvvisamente, colto da fulmineo malore, senza avere la possibilità
di lasciare testamento; cosicché il titolo e le terre feudali passarono al figlio primogenito Giulio,
non senza però che si aprisse tra questi e i fratelli Gaetano, Domenico e Giuseppe una complessa
controversia per la divisione della cospicua eredità dei beni burgensatici. La questione fu risolta
con la mediazione del marchese Baldassare Cito, presidente del Sacro Regio Consiglio, a ciò
incaricato dal re Ferdinando IV. Nonostante l’accordo fosse stato ratificato con un atto del 19
febbraio 1798, la vertenza riesplose alcuni anni più tardi, dando origine ad una complessa vicenda
giudiziaria che vide coinvolti gli eredi dei vari rami della famiglia e che portò al disfacimento del
notevole patrimonio di casa Imperiale.
Il principe Giulio II, ondivago tra le nuove idee giacobine e la più rassicurante fedeltà ai
legittimi governanti333, non dedicò molte cure alla proprietà paterna ma anzi fini per dilapidare il
consistente notevole patrimonio nei suoi feudi.
Alla morte di Giulio II i creditori, ai quali aveva fatto ricorso per fronteggiare il crescente
indebitamento, per rientrare in possesso dei loro averi ne pretesero il saldo agli eredi. Questi,
nell’impossibilità di farvi fronte, il 30 ottobre 1819 videro mettere sotto confisca tutti i beni di Casa
Imperiale. Da questa controversia scaturisce una stima valutativa dei beni ereditari commissionata
nel 1816 direttamente dal principe e dal suo vicario generale, avv. Filippo Secchioni, a Pasquale
Pinto.
Per concludere, non si può proprio dire che la stagione terrena del principe Placido Imperiale
sia trascorsa senza che fosse notata la sua opera. Ancor più lo si capisce dal ritratto fortemente
di attività seminariali e culturali, nonché di mostre e convegni.
331
La tomba degli Imperiale, posta nell’ipogeo della chiesa, dopo che fu saccheggiata dai ladri è stata
svuotata e richiusa. La cripta era chiusa da una lastra tombale, oggi nascosta sotto una maxi pedana,
contenente la suegente epigrafe: «Presso quest’antico sepolcro dove ci sono le ceneri dei suoi antenati, ma
soprattutto del padre che ha conseguito un gran numero di imprese, è sepolto, per onorare la loro stessa memoria e come
sprone ai posteri, tra scelti marmi di squisita fattura e grande raffinatezza, nè senza cognizione artistica, Placido
Imperiale principe di Sant’Angelo». La consorte del principe, donna Anna Caterina Acquaviva, morì a Napoli il
9 dicembre1797.
332
La chiesa, divenuta cappella dell’Università Parthenope, è attualmente interessata da significativi lavori di
restauro per cui l’oleografia è stata rimossa e depositata altrove.
333
Per questo cfr. F. BARRA, Giulio Imperiale e il giacobinismo meridionale, in R. DE LORENZO (a cura),
Risorgimento, democrazia, Mezzogiorno d’Italia. Studi in onore di Alfonso Scirocco, Ed. Franco Angeli, Milano
2003; e ancora M. VESPASIANO, Sant’Angelo dei Lombardi tra Giacobini e Sanfedisti al tempo della Repubblica
Napoletana, Arti Grafiche, Montella 1999. Per aver aderito alle idee giacobine, Giulio fu dichiarato reo di stato
e gli vennero confiscati tutti i beni. Scappato in Francia, lasciò la famiglia senza un adeguato sostentamento,
cosicché la moglie si vide necessitata a supplicare il re perché le venisse assegnato un sussidio che
permettesse a lei e alle due figlie di vivere decentemente. Cfr. ASN, Pandetta corrente, fascio 802, fascicolo
4432, dov’è collazionata l’intera istruttoria che accompagnò l’istanza della nobildonna.
elogiativo del nobile possessore che si ritrova nel Saggi fisici di Luigi Targioni. L’apprezzato
economista napoletano, che di lì a qualche anno sarebbe divenuto governatore unico della Santa
Casa dell’Annunziata, trattò con parole di lode l’operato di Placido Imperiale. Tanto basta per
concludere il compito che ci si era prefisso; vale a dire quello di riportare sotto la luce di una
maggiore attenzione storicistica una figura emblematica della stagione feudale nella seconda metà
del XVIII secolo. Un periodo che negli anni a seguire avrebbe assunto una connotazione
dirompente, destinato a mutare profondamente e in senso moderno, seppure a prezzo di profonde
lacerazioni e travolgenti conflitti sociali, sia il concetto di feudalità che quello di proprietà.
Il rovescio di questa medaglia fu la disgregazione dei grandi latifondi e la parcellizzazione delle
proprietà; eventi che furono alla base della nascita di nuovi ceti sociali, dai ricchi massari
all’ingorda aristocrazia terriera, nati dall’assalto alle difese e dalla divisione a massa dei terreni
feudali. Prodomi di un ceto politico rapace, assolutamente poco autonomo sul piano produttivo.
APPENDICE
Ci sembra eloquente approfondire in questa parte finale la conoscenza della fase storica in atto
in Albania negli anni immediatamente precedenti la fuga delle famiglie cristiane dal vilajet di
Scutari verso le sponde italiane nel 1756. Apprenderemo meglio questo momento da due scritti: il
primo un articolo del preside Italo Sarro, apparso mercoledì 19 gennaio 2011 sulla rivista albanese
«Hylli i Dritës», che descrive lo stato socio-politico della diocesi di Scutari nella metà del XVIII
secolo.
Il secondo, invece, un manoscritto di anonimo del 1788 riportato in un lavoro dello storico
Bruno Blasi il quale, indagando sulla diaspora del 1484 che portò un gruppo di famiglie albanesi a
Corneto, antico nome di Tarquinia, nel 1982, «seguendo un certo fiuto», contattava don Angelo Maria
Patrizi, parroco di Grotte di Castro, il quale gli confidava che, nell’Archivio della Curia Vescovile
di Acquapendente, era conservato un documento nel quale erano descritte, con minuzia di
particolari, le vicende della colonia albanese di Pianiano, dalla loro partenza da Scutari fin
all’arrivo in Italia. Una testimonianza di straordinaria importanza, potremmo affermare, che ci
illustra i motivi che indussero gli albanesi a lasciare la loro patria e quali e quante peripezie
dovettero affrontare prima di trovare un definitivo rifugio chi nello Stato della Chiesa e chi nel
Regno di Napoli, e propriamente a Poggio Imperiale. Purtroppo l’autore, per scelta propria, non
riporta i nomi dei capifamiglia che abbandonarono il vilajet di Scutari, anche se è molto preciso
nell’indicare il numero delle famiglie e delle persone imbarcate sulla marsiliana. Comunque
bisogna riconoscere e dare atto all’anonimo dell’aiuto che ci fornisce con la stesura di questo
prezioso documento.

SCUTARI E LA SUA DIOCESI INTORNO AL 1750


I rapporti tra mussulmani e cattolici, nella metropolia di Antivari, peggiorarono sensibilmente
dopo la pace di Belgrado del 1740, che concludeva, temporaneamente, a favore degli islamici, la
questione militare, ché di questo, in fondo, si trattava, tra Oriente ed Occidente.
Ciò rese particolarmente euforici gli estremisti, i quali, ritenendo ormai prossima la completa
islamizzazione dell’Albania settentrionale, si dedicarono con successo ad un particolare tipo di
caccia, che, ancora oggi, a sentire il papa (omelia di Santo Stefano, Natale 2005), viene praticato in
tante plaghe del mondo.
L’azione ebbe i suoi frutti, perché, negli anni successivi alla pace suddetta, la religione
mussulmana si diffuse, o per meglio dire fu imposta ancora di più in quella regione. Il mondo
cattolico dovette subito combattere una lotta che si rivelò impari, se, nel 1744, S. S. papa Benedetto
XIV deve intervenire con una bolla334.
È pur vero che «iisque se compelleri patiantur», come si dirà in una successiva bolla del 1754 sullo
stesso argomento, ma essa sta a significare la situazione di pericolo, vero e reale, in cui i cattolici
erano costretti a vivere.
Non erano soltanto i mussulmani ad attaccare la «cittadella» cattolica, ma anche i greco-
ortodossi. Questi conducevano una lotta serrata sul piano della dottrina e pretendevano, data la
loro identica provenienza, di usare le stesse chiese o di concelebrare.
Inoltre, forti dell’appoggio del «Governo della Porta», che usava tutte le armi disponibili per
scardinare la resistenza cattolica, gli scismatici (secondo la definizione corrente) attaccavano, con
vere e proprie azioni militari, basate sulla sorpresa, i nuclei cattolici, che venivano, così, sottoposti
a devastazioni, a saccheggi e ad incendi.
Si viveva sulla lama del rasoio; «…le nostre vivande sono condite di timori, e di tremori, e li nostri
sonni notturni vengono accompagnati da spaventi, poiché chi ci domina si pasce de nostri sudori, col rischio
eziandio della nostra vita…»335.

334
Cfr., Bullarium Romanum, Benedetto XIV, Biblioteca degli Ardenti, Viterbo, VII C 34. «Sub Turcarum ditione
versantes ad occultandam Christianae Religionis professionem Maomettana Nomine Sibi imponant».
335
ARCHIVIO STORICO DI PROPAGANDA FIDE, Fondo Albania, (d’ora in avanti ASPF), voll., n. 10, cc. 80, 115,
127, 179 e 241.; n. 12, c. 555; n. 13, c. 321.
Il fatto di essere cattolici e, quindi, di poter professare liberamente la propria religione, dopo la
conquista, non era mai stato semplice. Tale «status» aveva registrato alti e bassi, ormai, nel corso
dei secoli. Infatti, dopo i primi, violenti tentativi di imporre l’Islamismo, fu raggiunto un certo
«modus vivendi», che durò anche per lunghi periodi, permettendo così, anche se non proprio la
pace, accettabili condizioni di vita.
Se esaminiamo lo svolgersi delle migrazioni albanesi verso l’Italia, osserviamo che esse si
infittirono nella seconda metà del XV secolo e nella prima metà del XVI.
Dopo la battaglia di Lepanto (1572), si conoscono finora due migrazioni di scarsa consistenza:
un gruppo di albanesi, proveniente da Maina in Morea, nel 1647, si attestò in Lucania ed un altro
gruppo, proveniente da Picchierni, ripopolò, nel 1744, il feudo di Badessa in Abruzzo336.
Ciò conferma che l’azione repressiva, attivata dal governo centrale, ha avuto effetti ed efficacia
piuttosto discontinui.
Evidentemente lo Stato non poteva dedicarsi a tempo pieno per «recuperare alla vera fede» i
cattolici. Esso doveva essere memore delle difficoltà incontrate e delle umiliazioni subite a causa di
un piccolo esercito guidato, però, da un grande stratega come Skanderbeg337.
L’Impero, stordito dalla tremenda sconfitta navale, aveva i suoi problemi e non poteva dividere
le proprie forze in un momento cruciale della lotta. Inoltre, proprio dopo il 1572 e, forse, proprio
per le conseguenze della sconfitta, l’Impero della Sublime Porta approfondisce una strategia che,
nei disegni e nei piani, avrebbe dovuto portarlo a colpire, mortalmente, il cuore del mondo
cattolico, rappresentato, nel corso del ‘600, da Vienna, capitale dell’Impero asburgico, avversario
acerrimo di quello turco non certamente o meglio non solo per motivi religiosi.
La fede cattolica e quella mussulmana erano l’aspetto appariscente di una politica di potenza,
perseguita dai due Imperi, del resto, resa evidente dalla continua, costante e «innaturale» alleanza
del «cristianissimo» re di Francia con il sultano di Costantinopoli.
I cattolici di Albania, in un contesto simile, non potevano costituire un problema. Bastava saper
attendere e procedere aumentando con oculatezza le «attenzioni» soprattutto sul versante delle
imposte ed impedendo ai non credenti di accedere, come impiegati, all’amministrazione dello
stato.
Se il graduale giro di vite fosse stato avaro di risultati, si sarebbe potuto andare avanti
scoperchiando le chiese, per impedire le funzioni religiose specie nel periodo invernale, oppure si
sarebbe chiesto il rispetto della norma turca, che vietava la presenza di chiese o di edifici religiosi,
a portata… di occhio delle autorità338.
Una politica così «intelligente» aveva dato buoni frutti nella parte meridionale dell’Albania,
passata quasi in blocco all’Islamismo. Resisteva bellamente, ma era solo questione di tempo, la
parte settentrionale, che, di conseguenza, era diventata, secondo frate Zeff Allumi, un
«avamposto» del Cattolicesimo.
Su questa striscia di territorio, delimitato dall’Arcivescovato di Durazzo e di Antivari, si giocò,
nel corso del ‘600 e della prima metà del ‘700, una partita dagli esiti non sempre certi. Oltre la città
336
ASPF, vol. n. 13, c. 616. Gli studiosi non concordano sul numero complessivo delle migrazioni che furono
le seguenti: 1° (1448) Demetrio Reres ottiene alcune terre nel catanzarese ed in Sicilia. 2° (1461) Giorgio
Castriota Scanderbeg ed il nipote Stresio ottengono terre in Puglia. 3° (1467) Dopo la morte di Scanderbeg,
gruppi di albanesi si dirigono in Sicilia ed in Calabria. 4° (1478) Dopo la caduta della fortezza di Kruia, i
fuggitivi, in Calabria, ripopolano molti borghi del cosentino. 5° (1534) Arrivo nel cosentino e in due paesi
della Lucania degli albanesi abitanti in Corone (Grecia), «pupilli» di CarloV per aver opposto una strenua
resistenza ai turchi. 6° (1647) Arrivo in Lucania degli albanesi abitanti in Maina (Morea). 7° (1744) Arrivo nel
feudo di Badessa (Abruzzo) degli abitanti di Picchierni. Per la storia della diaspora degli albanesi in Italia,
quella che, nel 1756, ebbe come destinazione Pianiano fu l’ultima migrazione storica (quella che si verificò
nel 1991 ha caratteristiche completamente diverse) di cui si abbia notizia certa. 8° (1774) Arrivo degli
«ultimi» albanesi a Brindisi. A queste bisogna aggiungere quella del 1756 con destinazione Pianiano, nello
Stato pontificio.
337
Per la bibliografia sull’eroe albanese, si rinvia alla pubblicazione degli atti del convegno su Scanderbeg,
tenutosi a Napoli, nel dicembre del 2005, sotto la direzione del prof. Italo Costante Fortino ed al quale hanno
partecipato numerosi esperti di Storia dell’Europa orientale.
338
ASPF, vol. 10, c. 537 e segg. Relazione del vescovo P. Campsi per l’anno 1757.
di Scutari costituiva un interesse per la Francia, per l’Austria e anche per Venezia, sebbene
quest’ultima si sia adoperata solo nella misura in cui ciò coincideva con i propri affari.
Costantinopoli si attivò per indurre i cattolici ad abbracciare la religione maomettana. Roma,
dal canto suo, rispose rafforzando la difesa del mondo cattolico e sul piano dottrinario con la
istituzione, nel 1622, della Congregazione di Propaganda Fide che dotò di un fondo per poter
sostenere il clero ed affrontare le spese per la riedificazione delle chiese e dei conventi distrutti e/o
saccheggiati.
La scansione delle migrazioni induce a ritenere che, nel corso dei secoli, pur in presenza di una
situazione potenzialmente conflittuale, non sempre, latente, i due gruppi religiosi trovarono
qualche decente compromesso, per cui riuscirono a vivere, nonostante qualche sanguinosa
lacerazione, in pace.
Ciò non accadde più dopo la pace di Belgrado, quando, i vincitori, dimenticando che nel mondo
c’è spazio per tutti, ritennero che era giunto il momento di sferrare un colpo decisivo al mondo
cattolico.
Questa volta, i Cattolici presi di mira furono, soprattutto, quelli di Scutari e del suo «vilajet»,
che ancora si intestardivano a proclamarsi cattolici ed a vivere da cattolici, cosa quest’ultima
particolarmente pericolosa in un momento in cui il vertice politico fu occupato dai cosiddetti
Ciausci339.
Essi pervennero al potere intorno al 1750 e, come se non fossero bastati tre secoli di angherie,
ritennero che il bel quadro di Scutari e della sua provincia fosse deturpato dalla presenza cattolica.
È singolare che la mancanza di limpidezza venga puntualmente lamentata da coloro che sono
sul punto di regolare i conti con un’altra etnia o con gli appartenenti ad un’altra religione. Gli
esempi che la Storia, purtroppo non maestra di vita, ci fornisce sono proprio tanti. Essi sono vicini
o vicinissimi a noi, come il caso dell’ex Jugoslavia, di alcuni paesi africani o dell’attacco contro i
Valdesi in Calabria.
Francisco Franco invocava la limpieza e così fece anche un vescovo cattolico, nella Calabria del
‘600, a causa della presenza dei Valdesi, che da 300 anni vivevano in quel di Guardia in provincia
di Cosenza340. Il lupo e l’agnello è, purtroppo, una favola che è di una attualità sconvolgente!
Sta di fatto che i Ciausci, come del resto tutti coloro che, accecati da qualche «nobile» motivo,
tentano di far sparire l’avversario, diedero voce a Scutari e nella sua provincia a quel movimento
maomettano che lotta per eliminare l’imperfezione, costituita dalla presenza dell’infedele.
La persecuzione contro i cattolici fu condotta in grande stile sul piano militare, con continue
incursioni, che levarono il respiro a più di una persona. Nel 1751, la gente soffrì sciagure e
patimenti a causa di una «fierissima persecuzione dal Bassà di Canaja(?) che mandò quattromila turchi…
per sottrarsi dall’empio furore d’essi ci è convenuto fugire di notte tempo con grandissimo struscio ed
incomodo… l’Arcivescovo si ritirò a salvarsi nel Convento di S. Salvatore dei Minori… di Zubigo ed io in
una spelonga…» «…nel paese si sentono lamenti , e pianti da parte dei Cristiani contro il barbaro
governo…, che con… oppressioni, tributi, estorsioni, ed angarìe vengono… tormentati» 341.
Essa, però, conobbe anche le seguenti modalità, che, pur non del tutto nuove, furono applicate
con metodo rigorosamente scientifico:
proibizione di costruire edifici religiosi visibili dai simboli del potere islamico (fortezza e
moschea);
incendio o asportazione del tetto delle chiese esistenti nelle città 342;

339
Cfr., per la professione di fede, A.S.P.F., vol. 10, c. 545. «Ma le… Donne vincolate col Sagro Matrimonio
pubblicamente ed espressamente hanno professato la S. Fede Cat., e lo professano oggidì, e le loro proli si battezzano
perché le loro Madri pubblicamente ne portano alla Chiesa a ricevere…». Cfr. A. GALANTI, L’Albania, Roma, 1901, p.
180 e segg., per le famiglie al potere intorno al 1750. I Ciausci erano dei cristiani rinnegati.
340
ARCHIVIO STORICO PER LA CALABRIA E LA LUCANIA, presso L’ARCHIVIO DI STATO DI COSENZA , a. IX, pp.
121-129.
341
ASPF, vol. 10, cc. 115, 127 e 287.
342
ASPF, ivi, nella relazione del Vescovo della città di Scutari, citata, esiste la descrizione delle «condizioni»
di ciascuna chiesa, dopo il saccheggio o l’incendio. Cfr., inoltre, ivi, vol. 13, c. 317, lettera del sacerdote
Antonio Logorezzi, vicario generale di Scutari, del 20 agosto 1753 in cui si afferma che i sacerdoti, «essendo
esazione del tributo che ogni maschio albanese di religione cattolica doveva versare;
continue retate di polizia o incursioni di armati, motivate col «bisogno» di difendere i «loro
amici», che ignoravano di essere oggetto di tanto onore, per qualche offesa subita da qualche
avversario;
pronto intervento, quando la richiesta proveniva da qualche albanese per sistemare conflitti con
l’avversario di turno;
intervento per mantenere l’ordine pubblico, turbato dalle continue liti degli abitanti delle città,
riuniti in clan343.
La penultima modalità spiega ad abundantiam, qualora ce ne fosse bisogno, la ferocia di «quel»
modo di occupare, che induce qualche uomo, per fortuna non tutti, a dimenticare tutto, anche la
propria dignità.
Il quadro, già così tetro, fu reso deprimente dalle avversità atmosferiche, che sembravano
prediligere il settore scutarino. Scutari e la sua pianura, infatti, restarono per molto tempo
sommerse per l’innalzamento del livello delle acque, apportate dal Kiri, dal Drin e dalla Boiana.
La città, in quel torno di tempo, fu interessata da forti scosse di terremoto e fu colpita, come se
non bastasse, dalla peste. I campi, va da sé, non potevano essere coltivati. La carestia fu la naturale
conseguenza di quello straordinario concorso di circostanze negative. Essa scoppiò, come scrisse
un povero prete, «senza venire esercito».
L’emergenza provocò qualche spostamento tra le popolazioni delle zone più colpite, specie
quelle che vivevano intorno al lago di Scutari e di Sfaccia. Ci fu chi si recò a Dulcigno, chi a Spizza
e chi verso Pulati. È ovvio che, a seconda della località di arrivo, aumentavano o diminuivano le
speranze di poter difendere con successo la fede o di poterla mantenere.
Ciò che, comunque, soprattutto in quel momento, rese drammatica la situazione al punto da
farla ritenere disperata, furono la nuova tecnica adottata dal potere locale per quanto riguarda il
tributo e la cosiddetta instabilità dei turchi, a cui, per motivi amministrativi, si doveva ricorrere.
I pascià, ormai, imponevano taglie su tutto, perché, per la politica imperiale, perseguita dal
governo centrale, avevano bisogno di molto denaro. Anche le «satrapine paghe», cioè il tributo
«che li poveri Parrochi tante volte danno alli Tributieri ogni anno…», erano utili allo scopo, per cui i
sacerdoti dovevano tenere pronta una certa somma per le eventuali richieste.
Per vivere, bisognava pagare, ma non si sapeva mai se l’esborso sarebbe stato sufficiente,
perché, i turchi erano, come si è avuto modo di dire, molto «instabili» sull’argomento.
L’esazione del tributo fu affidata ad un funzionario locale, detto il «tributiere». Questi non
esigeva il pagamento dell’imposta, secondo la scadenza e gli importi stabiliti, ma lo «adattava» alle
esigenze di cassa. Il cattolico doveva pagare una imposta «mobile», cioè senza scadenze ed
importo344.
Il sistema, escogitato dal funzionario, opportunamente imbeccato dal potere locale, che le
studiava proprio tutte, ebbe come risultato, dopo qualche giro di un simile valzer, la completa
rovina delle famiglie cattoliche. Queste dovevano assistere inermi al saccheggio delle loro case per
un motivo sacrosanto e perfettamente legittimo: non pagavano i tributi!

obbligati nei giorni festivi a celebrare la messa allo scoperto», chiedono, a causa del freddo, di poter coprire la testa
con il cappello. La Congregazione risponde: «Recurrant in casibus particolaribus».
343
Cfr., sul tema della vendetta, gli Statuti di Scutari; A. GALANTI, op. cit., p. cit. Tabacchi e Terzj era il nome
dei due principali quartieri di Scutari. Le liti scoppiavano per il mito della vendetta, che accompagnava la
vita degli albanesi. La Chiesa cattolica, allora, condusse una lunga battaglia per sradicare dalle loro coscienze
un’autentica piaga sociale, ma, forse, con scarsi risultati, se il metropolita, nelle sue lunghissime lettere,
illustrava al papa la pericolosa situazione, in cui vivevano i cattolici sia per l’attacco esterno, ma sia,anche e
soprattutto, per motivi interni. Da non dimenticare che, spesso, i Turchi intervenivano presumendo che un
loro «amico» fosse in difficoltà.
344
Cfr., per la carestia, ASPF, vol. 10, c. 80, lettera del 31 dicembre 1750 e cc. 147 e 148, lettere del primo e
dell’8 settembre 1751. Per gli spostamenti di popolazione, cfr., ivi, cc. 147, 157, 159. e 241; vol.11, c. 285, per il
tributo, cfr., ivi, vol. 13, c, 616; vol.10, cc. 115, 251 e 285; per le paghe, cfr., ivi, cc. 179 e 989. Nei paesi
arbrëshë, sul fianco sinistro del medio Crati, in provincia di Cosenza, è vivo il termine «bunar» (dal fiume
Bune?) per indicare il procedimento di bagnare le botti, di modo che le doghe, gonfiandosi, si compattino.
I cattolici potevano salvarsi ad una sola condizione: o si convertivano effettivamente
all’Islamismo o facevano finta, ma, in tal caso, si imponevano dei nomi maomettani e, in segreto,
professavano la vera fede. Bisognava, comunque, fare in fretta, perché la «grazia» di essere accolti
nella nuova religione non poteva essere estesa a tutti, dal momento che occorreva che ci fosse una
buona percentuale di sudditi che continuasse a pagare le tasse.
Stando così le cose, molti preferirono professare la fede senza ostentarla. Angariati e vessati, i
cattolici di Scutari reagirono nella maniera peggiore alla maligna provocazione. Si ribellarono e,
avendo individuato in Hakem Pascià, nel fratello e nella sua corte i loro mortali avversari,
organizzarono con successo degli attentati, ritenendo che, decapitando il vertice amministrativo e
politico, le cose avrebbero preso una piega diversa345.
Ciò, ovviamente, non si verificò. Anzi, l’assassinio politico fornì, su un piatto d’argento, ai
turchi il pretesto per intervenire militarmente.
Migliaia di uomini furono, pertanto, concentrati nelle terre appartenenti al feudo dei Ducagjini,
per marciare sulla città di Scutari, ove si annidavano i capi della rivolta, al fine di chiudere, una
volta per tutte, la fastidiosa vicenda.
Il pericolo ebbe effetti salutari, nel senso che, in città, le lotte intestine cessarono d’incanto. I capi
dei Terzj e dei Tabaqi, purtroppo non sulla base degli Statuti di Scutari, ordinarono la cessazione
degli scontri che insanguinavano la città e strinsero un’alleanza tattica contro i turchi, che diede
vita alla costituzione di un corpo di guardie scelte, dette Culluqe o Culluq.
Don Antonio Logorezzi, vicario generale del vescovo di Scutari, testimonia che la città, per
l’ondata di omicidi eccellenti, vive con tanto timore, che appena può prendere sospiro, anche
perché si «raduna… esercito contro Scuttari, [già] in ansietà per dieci anni…», per via di una latente
guerra civile.
L’accordo tra i clan, però, nonostante qualche frizione, si dimostrò più forte del previsto e le
guardie fecero la loro parte in modo impeccabile e perentorio: queste «non lasciano nuocere à veruno
anco della Religione. Se dureranno…, non ci possono opprimere facilmente, e noi Cristiani preghiamo Dio à
durare esse». Se essi «per ora», non sono molto «travagliati dai Potenti infedeli», ciò avviene solamente
per il fatto «che ogni uno teme Culluke», i quali si comportavano come se fossero i governatori della
città dal momento che incarceravano ed impiccavano.
Il 18 febbraio 1752, la situazione diventa particolarmente drammatica, perché viene assassinato
Alì Begu i Smail Aghes, «gran Tiranno di Scutari e punitore di tutti li suoi malevoli, abbenche forti, e
Potenti».
Il Governo turco non dispone sul posto di un conveniente numero di armati, che gli avrebbe
permesso di snidare i ribelli casa per casa, e, inoltre, dovrebbe affrontare i Culluqe, la cui
rassicurante presenza, invece, consentì, nei primi mesi del 1752, che si vivesse «consolati, e
soddisfatti ancor noi Cristiani, che ci pareva di stare nella Cristianità».
Il servizio armato, pertanto, garantì normali rapporti, sia pure temporanei, tra scutarini ed
impedì che i turchi dessero vita alla consueta rappresaglia in città, che così godette, come si è visto,
di un relativo momento di pace.
Ben presto, la tregua non fu più rispettata dagli estremisti «tanto dei Tabachi, quanto de’ Terzj, che,
a giugno, sguastarono Culluke» e la città ripiombò nel clima di guerra civile.
La paura di essere ucciso dai «bizzarri, ed aggressori» rientrava, di nuovo, nell’ordine naturale
delle cose e, purtroppo, era ricominciata la caccia al cristiano e, specialmente, al sacerdote.
In una città in cui anche i pascià erano in pericolo di vita, come è testimoniato dalla uccisione di
Scolei Begu, di Mituf e di Misftar Pascià, «molti altri col schioppo», la vita dei poveri valeva molto
poco e, soprattutto, quella dei sacerdoti e dei «Poveri Fedeli» di Cristo, che vivevano «in grandi
angoscie, e tribolazioni»346.

345
Cfr., ivi, vol. 10, c. 147. Per la tecnica di occultarsi, cfr., ivi c. 394, la disposizione papale del 1° agosto 1754
dal titolo «Ne Christianes sub Turcarum ditione versantes, ad occultandam Christianae Religionis professionem,
Mahumettana nomina sibi imponant, iisque compellari patiuntur», simile a quella precedente riportata alla nota 1.
346
Sui Culluqe, sulla situazione a Scutari e sugli omicidi eccellenti, cfr., ivi, vol. 10, cc. 147, 148, 219, 251 e 287;
vol. 11, c. 285.
Gli scutarini sono solo in grado di resistere agli scalmanati, che, per il cessato presidio delle
guardie e per la carestia, dilagano nella città come leoni famelici e requisiscono ciò che vogliono e
dove vogliono, «perché tra noi ovunque possono»347.
La calma, pertanto, sparì dalla città, perché le redini del comando rimasero saldamente nelle
mani di Jacup Aga, un nipote di Alì Begu, che «tutti li passa nella fierezza, ed in bruttezza. Sembra un
Demonio; ed è il più Tiranno, che ci sia stato nel secolo presente in Albania». Esce circondato da un
nugolo di bravi e mette a ferro e a fuoco i villaggi, spogliando, incatenando e distruggendo i
cristiani. È quasi impossibile descrivere le malvagie azioni compiute da lui e dai suoi bravi per
strada e nelle case, quotidianamente.
«Questo mostro hà dato licenza alli suoi assassini dà spogliare Donne, ed assassinare, chi passano». Ciò
ha dell’incredibile, perché «Mai si son spogliate Donne per strada da nessuno dei Sudetti, come dicono li
più Vecchi del Paese»348.
La violenza è veramente diffusa ed è rivolta, soprattutto, contro i sacerdoti che vengono rapiti
per chiederne il riscatto. Per prevenire una simile possibilità, il vescovo di Scutari, monsignor
Paolo Campsi, come si è visto, si è dovuto rifugiare tra i monti, perché, in quei luoghi, la situazione
risulta meno drammatica.
Bisognerebbe, per avere la speranza di una vita migliore, essere disposti a «servirli», ma sarebbe
una resa grave ed impensabile, considerando «i maligni fatti» compiuti dal «mostro». Egli,
instaurando un clima di terrore, ha indotto i contadini ad abbandonare case, terreni e denaro e a
fuggire altrove, accettando anche l’umile lavoro di stalliere.
Nel passato, si viveva in pace almeno durante il mese del Ramadan, ma, ora, «l’Infernal
Dragone» non tiene conto neanche dei suoi doveri religiosi, in quanto non rispetta il Ramadan 349.
Davanti ad episodi di violenza così diffusi, i cattolici non trovano di meglio che nascondere la
propria fede e, per poter mantenere le loro famiglie, sono costretti ad arrangiarsi e, in tal modo,
commettono qualche illecito350. La lotta diventò spietata. Per molti la fuga fu l’unica via di uscita da
una situazione carica di pericoli e di angosce.
Oltre le località precedentemente citate, anche Costantinopoli e la Dalmazia rientrano tra le
mete dei fuggiaschi, che si spostarono singolarmente o come nucleo familiare 351.
Accadde, però, che gli abitanti di un intero paese, Bria, dopo aver manifestato la propria
volontà di abbandonare il luogo natio ed aver ricevuto garanzie che sarebbero stati accolti nello
Stato Pontificio, abbiano dato inizio ai preparativi di fuga 352. Questa, effettivamente, avvenne nel
1756 e condusse in Italia, nel borgo fortificato di Pianiano, non solo gli abitanti i Bria, ma anche
alcuni di Pistuli, di San Giorgio alla Boiana, di Mida, di Scutari, di Pali, di Calmet e di Zadrima 353.

347
Cfr., ivi, vol. 10, c. 287.
348
Cfr., ivi, c. 251; cfr., ivi., vol.11, c. 285. Gli anziani venivano definiti «vecchiardi», cfr., vol. 10, c. 109, senza
data, « I Vecchiardi, e tutto il Popolo cattolico Romano delle Ville di Musceli, Scestani, Marcani, Bisa (?),
Duscoli, Juba…manifestano, come nella Villa di Gadone vi è un Convento de P. Minori osservanti, il quale
da molto tempo non viene habituato da alcun religioso».
349
Cfr., ivi, vol. 11, c. 285 e segg.
350
Sull’argomento vi sono due interventi del papa. Per il primo, cfr., ivi, vol. 10, c. 185, lettera del 19 marzo
1752 di S.S. Benedetto XIV a mons. Nicolò Lercari, Segretario della Congregazione di Propaganda Fide
«Sopra alcuni quesiti proposti da Mons. Arcivescovo di Antivari alla stessa»; per il secondo, cfr., ivi, c. 350, lettera
del 24 maggio 1754 all’arcivescovo di Rodi, Segretario di Propaganda Fide «sopra la materia dei quesiti altre
volte proposti da Mons. Arcivescovo di Antivari alla stessa».
351
Cfr., ivi, c. 241.
352
Cfr., ivi, c. 524 e segg. «Bria, qua hodie diserta est propter discessum Illorum Christianorum, quos oper, et
expensis propriis SS… Benedictus XIV, ex ea ad Caninum vulgo dictum transtulit… Brie Parrochus non habet…cui
inserviat in Spiritualibus»; Archivio ex diocesano di Acquapendente (VT), fondo Pianiano: attestazione che
uno «scutarino», Simone Sterbini, è stato battezzato a Pistuli.
353
Cfr., I. SARRO, op. cit. Per la partecipazione del prelato ai preparativi di fuga, cfr., ASPF, vol. 10, c. 751, già
cit. Lettera del 16 ottobre 1758 «In Antivari non ho animo di portarmi, per la tema del trasporto delle famiglie
albanesi nello stato pontificio imputato à me dalli Turchi e per il ritorno che hà fatto in Albanìa…Gioacchino Cabasci,
la di cui conversione alla fede di Roma, se venisse a penetrarsi da’ Turchi sarebbe(ro) guai per chi l’hà maneggiato».
La diocesi di Scutari, guidata da monsignor Paolo Campsi, che era stato eletto vescovo nel 1741,
si districò egregiamente nella bufera scoppiata intorno agli anni ’50 e seppe mantenere sempre un
profilo alto anche in altre drammatiche circostanze.
Gli albanesi, ormai, erano abituati a tutto, anche alla «instabilità» dei turchi, che, spesso e
volentieri, non mantenevano la parola data, creando situazioni che se non avessero avuto risvolti
tragici, potrebbero essere considerati paradossali354.
Il vescovo guidò la barca della diocesi con perizia, attento a non compromettere né se stesso, né
gli altri e a non perdere quei margini di manovra, che la legislazione turca gli permetteva. Molte
volte, per risolvere i problemi, preferì sborsare fior di quattrini agli esponenti del potere, piuttosto
che contrapporsi ad essi. Inoltre, egli non prese mai provvedimenti disciplinari nei confronti dei
sacerdoti che, a volte, approfittando del loro «status», sbagliavano, sebbene avessero ricevuto la
necessaria formazione nei collegi esistenti in Italia355.
Ciò avvenne per evitare guai peggiori. Un atteggiamento intransigente avrebbe spinto i più
deboli se non tra le braccia dei Turchi, in quelle certamente non meno pericolose degli scismatici,
dal momento che questi ultimi godevano di una eccezionale libertà di movimento e di culto.
Il compito del vescovo, a Scutari, era molto delicato e veniva espletato in condizioni
particolarmente difficili, riconosciute da tutti gli altri vescovi della metropolia (Sappa, Pulati ed
Alessio).
Nonostante ciò, forte anche del sostegno morale, oltre che delle direttive chiare emanate dal
pontefice Benedetto XIV, riuscì a districarsi nel giornaliero ginepraio ed a tenere alta la fede, che
bisognava non solo conservare, ma anche difendere e diffondere. Nell’adempimento di tale nobile
compito, però, occorreva usare le armi della prudenza, soprattutto, quando si trattava di giudicare
comportamenti, che, in altri contesti, sarebbero stati sicuramente sanzionabili 356.
La maggior parte della popolazione scutarina era cattolica, ma in città accadeva di tutto. Molti
uomini ritenevano conveniente unirsi a più donne, altri a sposare la cognata, se rimaneva vedova.
C’era il problema, doloroso per le conseguenze, dei figli nati dalla unione, volontaria o forzata, tra
donne albanesi e turchi e quello rappresentato da chi faceva mercato di oggetti religiosi, frutto del
saccheggio delle chiese da parte dei vincitori357.
Il vescovo predicò sempre la prudenza e, in linea con le direttive papali, che il suo arcivescovo,
monsignor Lazzaro Vladagni, gli trasmetteva, mantenne nei confronti di chi sbagliava un

354
Cfr., ivi, vol. 9, c. 140 e vol. 11, c. 512 «Brahim Begu dimorante in qualità di conte a Barbullusci pretende, che lo
collochi in detto… confidato nel Sig. Iddio offersi più tosto il collo al taglio, che eseguire la di Lui ingiusta petizione» .
Per quanto riguarda il comportamento dei turchi o la loro instabilità, cfr., ivi, vol. 10, c. 179 e vol. 13, c. 616.
Due giovani, volendo sposarsi, si rivolsero «alla Legge della Luna», la quale, quella volta, rifiutò di
«concedere loro il solito instrumento autentico in scritto col suo sigillo». Per non vivere in peccato, i due si
rivolgono al loro prelato, che li unisce in matrimonio. Il prelato fu tenuto prigioniero, per ordine del piccolo
Drago, per tutta la notte; il giorno seguente, col permesso del gran Dragone, che risiedeva nella cittadella,
sulla collina, fu rilasciato dietro pagamento di più di 70 monete d’oro, che furono divise tra i due.
355
Cfr., ivi, vol. 11, cc. 52, 62 e 72. In Italia i giovani albanesi venivano accolti nel collegio illirico di Loreto,
(quello di Fermo fu soppresso nel 1746), in quello Urbano di Roma e in quello cinese di Napoli. Le richieste
erano molto numerose ed insistenti. Nel collegio di Loreto un «alunnato» era stato eretto da Niccolò
Vladagni; cfr., inoltre, Fondo Albania, Acta 1746-29-14, c. 42, la «nota de’ Collegiali Albanesi, che stanno in
Collegio di Napoli»: sacerdote don Pietro Summa, di Scutari, di anni 29; sacerdote don Tommaso Mariagni, di
Scutari, di anni 28; accolito don Stefano Delvesi di Sappa, di anni 24 «studia de Sacramentis in genere
degnamente»; accolito don Pietro Delvesi, fratello del precedente, di anni 23, «studia ancora de Sacramentis»;
accolito don Antonio Gattucci, di Scutari, di anni 17, «studia l’Umanità»; don Antonio Murari, di Scutari di
anni 21, «studia l’Umanità»; don Pietro Micheli, di Scutari, di anni 19, «studia l’Umanità, ma adesso è venuto
dalla colonia di Canino dello stato Romano della diocesi di Aquapendente». Ancona, per questo motivo e per
l’annuale fiera di Senigallia che, per la sua importanza, richiamava mercanti anche dall’Adriatico orientale,
era diventata una città molto frequentata dagli Albanesi.
356
Tale prudenza non venne meno neanche quando il «giovine Issuf, figlio di Mehmet agga di Miedia, Diocesi di
Sappa, turco, nato da..Turchi», si convertì al Cattolicesimo. Cfr., ASPF, vol. 10, c. 441.
357
Cfr., ivi, cc. 111, 127, 241 e 251.
atteggiamento possibilista, giustificabile e spiegabile solo a causa delle condizioni eccezionali in
cui si era costretti a vivere.
Bisognava convivere, purtroppo, con la complessa macchina organizzativa e militare dei turchi
e con la loro religione e, quindi, il compito delle autorità ecclesiastiche era quello di non fornire
mai al potere il pretesto per intervenire nelle cose che riguardavano, strictu sensu, gli albanesi. Tale
prudenza doveva essere fortissima in presenza di gente fanatica al potere, a cui non bisognava mai
chiedere favori o interventi.
La difficile politica di equilibrio, portata avanti dal vescovo soprattutto in quegli anni che, come
si è detto, videro l’acuirsi della persecuzione dei cattolici, fu messa in serio pericolo dal
comportamento di cinque sacerdoti (Niccolò Campsi, detto Gieca, Stefano Remani, Simone
Vladagni, Marco Micheli e Simone Cabasci) i quali, nel 1754, si ribellarono al vescovo che,
legittimamente, aveva deciso di trasferirli dalle parrocchie che occupavano. In effetti, non si
trattava di un normale avvicendamento.
Uno dei sacerdoti, Niccolò Campsi, per ottenere i sicuri introiti della parrocchia di Top-hanna,
già occupata da don Stefano Remani, si era rivolto alle autorità turche, che avevano messo in moto
le solite pressioni, larvate di minacce non proprio oscure.
Il vescovo aveva dovuto fare buon viso all’imposizione, ma, dietro versamento di danaro, aveva
ottenuto che il sacerdote potesse stare nella parrocchia solo per un anno. Era il meno peggio, cioè
era l’unica via di uscita escogitata dal prelato. Egli, però, non aveva fatto i conti con la
violentissima reazione dei sacerdoti interessati che, non accettando la sua decisione, fecero ricorso
all’arcivescovo di Antivari, monsignor Lazzaro Vladagni, zio di Stefano e di Simone Vladagni.
Questi, indignato per il fatto che due suoi parenti fossero stati toccati, contestò il
provvedimento che il vescovo aveva preso e, visto che non lo revocava, lo sospese a divinis.
Monsignor Paolo prese la strada di Roma e colà, presso il santo Tavolino, fece la sua relazione dei
fatti ed ebbe l’approvazione del pontefice.
I sacerdoti, dopo un temporaneo «esilio», nel 1755, vengono convocati a Roma. Stessa sorte
subisce l’arcivescovo di Antivari. L’ordine, messo in pericolo dall’avventato comportamento di
tutti, ma soprattutto di Lazzaro Vladagni e dei suoi nipoti, viene ristabilito. Il vescovo di Alessio
riceve l’incarico, sentite le parti, di comporre la vertenza358.
Le autorità ecclesiastiche furono costrette a prendere drastici provvedimenti. Stefano Remani e
Simone Vladagni, cioè quelli che, addirittura, avevano impedito con armati al vescovo l’esercizio
delle sue funzioni, furono trattenuti in Italia. Il loro compito fu quello di evitare che Scutari fosse
teatro di ulteriori guai, che sarebbero, inevitabilmente, avvenuti, ricadendo sulla testa di innocenti,
se le stesse persone si fossero trovate di nuovo ad operare insieme.
Simone Vladagni rivide la patria dopo qualche anno, ma Stefano Remani, purtroppo, non vi
fece più ritorno. La scelta di trattenere il Remani a Roma si rivelò rovinosa, perché egli, con una
operazione truffaldina, riuscì ad affossare, nel giro di pochi decenni, il tentativo degli infelici
scutarini, fuggiti nel 1756 dalla «Turcica oppressione», di vivere in Italia359.
Composta, provvisoriamente, la lite, il vescovo Campsi non trovò altri ostacoli per la sua azione
pastorale. Pertanto, egli fu in grado di effettuare la visita della sua diocesi e di stendere la
prescritta relazione.
Scomparsi i Ciausci, il potere, in città, passò nelle mani di una personalità intelligente e capace,
Mehemet Alì dei Busciatli360. Questi, in un certo senso, reso prudente da ciò che era avvenuto negli

358
Per la vicenda dei cinque sacerdoti «refrattari», cfr., ivi, vol. 10, c. 590 e segg., 701 e segg., 751 e segg., 871
e segg., 989 e segg., 1006 e segg. e il vol. 13, c. 10 e segg.; cfr., inoltre, ivi, fondo Acta, n. 127 (anno 1757) cc.
150-161.
359
Cfr. I. SARRO, op. cit.
360
ASPF, vol. 10, cc. 408-413; 536-548. Sui Busciatli che ressero il potere dal 1755 circa per oltre un ventennio,
cfr. A. GALANTI, op. cit., p. 181. «La famiglia dei… pervenne alla dignità del pascialato verso la metà del secolo XVIII.
Ne è il capostipite Mehemet Bey di Busciat, borgo che un tempo era un luogo di piacere delle nobili famiglie scutarine,
adorno di eleganti edifizi, di cui oggi non esistono che le rovine. Pretendeva di discendere da un ribelle fratello di
Giorgio Cernojevic, signore del Montenegro, che si era rifugiato a Busciat, era evidentemente la sua come tante altre
una famiglia di cristiani rinnegati».
anni precedenti a Scutari, dovette accettare l’esistenza, nel patrimonio degli albanesi, anche della
fede cattolica, con tutte le conseguenze che ciò comportava.
La sua opera, pertanto, assicurò alla città un ventennio, inframmezzato dalle scorrerie degli
scismatici, di relativa tranquillità e di pace per il motivo che il suo lungimirante atteggiamento fu
adottato anche dal figlio Mahmut Bassà. Ciò significò il venir meno, sia pure momentaneo, delle
persecuzioni e consentì ai cattolici di poter professare la loro religione alla luce del sole. Ciò
avvenne non sempre, perché non era prudente neppure per un Bassà provocare sul problema
religioso il potere centrale, ma in occasione di un avvenimento quale era la festa della Madonna
del Buon Consiglio361.

361
Per le scorrerie dei greco-ortodossi, cfr., ivi, vol. 13, c. 43. Per la festa della Madonna del Buon Consiglio,
che si teneva il 22 luglio, cfr., ivi, vol. 18, c. 206. «L’antica Chiesa di S. Maria Maddalena situata di là dal Fiume
Bojana nel monte di Casena detto Preva dirimpetto alla Piazza di Scuttari, è... per la credenza che miracolosamente
d’Ivi siasi staccata, e trasportata in Genazzano… gran devozione… quotidianamente la venera… grandi voti per le
grazie che si ottengono, e per i molti prodigi… non averla potuto i Turchi ridurre in moschea… puniti quei che osarono
prender pietre… castigati… e parte trucidati gli Pristini Bassà Governatori di Scuttari detti gli Ciausci… Da allora…
và a chiedere la permissione… Ed il Padre dell’odierno La dava sempre volentieri assicurandoci che nessun avrebbe
ardito molestarci. Il Fratello Mustafà Bassà rispondeva che si accendessero ivi non una ma cento candele, e che si
pregasse per Lui. E l’odierno Mahmud Bassà non solo concede Libertà, ma è altresì propenso che si copra e che si
restauri. Per il che Le Cattoliche con voti, ed a piedi scalzi per devozione, passano francamente per la Piazza, e vanno
alla detta Chiesa andandole d’intorno inginocchioni».
IL PIÙ SUCCINTO RACCONTO DELLA PARTENZA E VENUTA DELLE FAMIGLIE ALBANESI NELLO
STATO DI CASTRO, E DELLO STATO IN CUI SI RITROVANO, DI PASSAGGIO, TOCCANDOSI
SEMPLICEMENTE LE COSE PIÙ SOSTANZIALI
«Attese le grandi angarie, ed invasioni, che alli Cristiani venivano fatte in tempo dei tiranni Ciausci,
allora Comandanti di Scutari, erano costretti i Cristiani a venire ad un’atto di disperazione, cioè o di
ammazzare qualcheduno di quei Tiranni, ed andare a rovina famiglie, e Paesi intieri come succede a Reci; che
alcuni furono abbruggiati vivi, come i Dodosci; alcuni ammazzati, e negata la sepultura, fatti mangiare dai
cani, come i Boce Cola; altri fugiti e dispersi per avere ammazzato il Tiranno Jacub’Aga, che sino le Donne
chiedeva o rinegare la fede, o fugire in altri Domini.
Fatta di ciò una serie riflessione da molti Abitanti nella Riva di Bojana, come più di tutti i saccheggiati,
risolvettero di approfittarsi della terza, e però circa dieci Capi delle principali Famiglie si portarono da Mons.
Lazzaro Madagni [Uladagni] Arcivescovo di Antivori, e con gemiti raccontando lo stato miserabile, in cui
si ritrovano i Cristiani in Albania, cercavano consiglio ed indirizzo dal medesimo, mentre ad una delle tre
suddette risoluzioni erano costretti venire.
Non puoté il Prelato contenere le lacrime nell’udirli, giacché eragli già noto il tutto; e sebbene dimostrasse
difficile l’esito, gli consigliò, che meglio d’ogn’altro Dominio, al Pontificio si rifugiassero: Consolati alquanto
ritornarono al loro Paese, tanto più che dopo qualche tempo dovevano a lui ritornare, con speranza, che
qualche nuova gli avrebbe data.
Trovavasi allora in Ancona in compagnia de Mercanti Albanesi il di lui nipote Antonio Remani con
qualche piccola cosa del suo, a cui il Prelato scrisse, che anche per sua parte, giacché andava munito di sue
comendatizie si portasse in Roma dal Sommo Pontefice allora Regnante Benedetto XIV e manifestasse la
risoluzione presa da molte Famiglie, che desideravano dall’Albania fugirsene nel suo Stato. Assicurato
dell’accoglienza di esse dal Sommo Pontefice, e da Mons. Tesoriere, allora Perelli, e ricevuta anche qualche
mancia, tutto giubilante ritornò in Ancona e manifestò le promesse fattegli dalla S. Sede all’Arcivescovo suo
zio, quale comunicolle alli Ricorrenti.
Per più motivi tardò la partenza per lo spazio di quasi tre anni, che finalmente non più quella gran
quantità, ma sola circa 40 Famiglie in numero di 218 Persone di notte tempo partirono il dì 9 Febbraio 1756,
trovandosi del pari nel Bastimento per avere abbandonato il tutto, anche quelli non poco possidenti.
Si tralascia chi, e quanti fossero, che cooperassero a questa partenza; si tralasciano i gran pericoli, e
strapazzi sofferti per il viaggio; arrivarono grazie a Dio in Ancona, dove per mezzo del Marchese Trionfi
furono dalla S. Sede assistiti, e mantenuti, niente avendo seco condotto, se non piccola somma di denaro, chi
s. 20; chi s. 50; chi s. 100; e chi s. 300, quali tutti consegnarono in mani di Antonio Remani per ridurli in
Romani, che non più li viddero.
Da Ancona, a spede della R.C.A. furono trasportate nello Stato di Castro, dove fu ad esse assegnato il
diruto Castello di Pianiano, ed alcuni terreni macchiosi, acciò li riducessero lavorativi, e con industria, e
fatica, si mantenessero, avendo perciò ad ogn’una assegnata Bestiami, ed attrezzi atti alla coltura. Ad
Antonio Remani, come Capo della condotta fu dalla R.C.A. assegnato sc. 8 al Mese, ed al di lui fratello D.
Stefano come interprete, e Direttore di quella Colonia sc. 9 al Mese.
Ma che? Per i strapazzi sofferti per la strada; per essere giunti in Canino, o sia Pianiano nel Mese critico
di Luglio, partiti da un’aria buona, per le grandi fatiche sofferte nel smacchiare quelli terreni, che in breve da
Boschi li ridussero tutti a coltura; per il pessimo mantenimento, ed alloggio nelle Capanne, e Grotti, in breve
ne morì la metà.
Attribuito tutto ciò all’aria pessima, e maggiormente impauriti dalli Celeresi, sbigottiti di perire tutti in
pochi giorni, risolvettero di abbandonare quel luogo, e però umiliarono supplica al Sommo Pontefice
Clemente XIII che l’avesse collocati in qualche altro luogo di aria megliore, contentandosi anche del meno di
quello l’aveva assegnati; ma essendosi mutati i Ministri della R.C.A., ne avendo più quelli che per essi erano
propensi, furono messi in cattiva vista del Principe, dal quale ebbero il riscritto, che non aveva altri luoghi a
proposito; se volevano stare colì bene quidem, altrimenti andassero dove ad essi più pareva, e piaceva.
Carteggiando Stefano Mida, uno della Colonia col Fratello Tenente Colonnello nel Reggimento Macedone
in Napoli, in oggi Capitan Mida insinuò alla Colonia, che quante volte aveva risoluta di non stare in
Pianiano, e non si dimostrasse ingrata al Supremo Principe, ma avesse dal medesimo il permesso, il suo Re
essendo portatissimo per la Nazione Albanese, l’avrebbe collocata nel suo Regno; assicurata di ciò, risolvette
di andare. Vedendo prossimo il discisso della Colonia il Sacerdote Stefano Remani, prevedendo che
l’assegnamento delli sc. 9 mensui dopo la loro partenza gli sarebbe della R.C.A. che non ostante il permesso
ottenuto dal Prencipe, impedissero la loro partenza con levargli il tutto e rendergli impotenti; come infatti
per ordine di Mons. Tesoriere, allora Canali, di notte tempo fu ad essi levato tutto il Bestiame, e poi il Grano
e tutt’altro che avevano; cio non ostante, la risoluzione era fatta, dovettero imbarcarsi, fuorché Giovanni
Sterbini, che rimase nello Stato di Ronciglione; ma infra questo trattenimento arrivati a Napoli trovorono il
Re Carlo partito per Spagna, ed il presente sotto la tutela de Principi, i quali, specialmente il Principe
Camporeali, ed il Principe di S. Angelo Imperiali procurarono di collocarli nei loro Feudi, ma l’Albanesi, non
essendogli riuscito di stare immediatamente sotto il Re, ricusarono di stare Feudatari; e fattosi qualche
sospetto di qualche sinistro successo risolvettero ritornare nello Stato Pontificio eccettuate circa 30 persone,
che per impotenza dovettero colà stare, e collocarsi nel Feudo del suddetto Principe di S. Angelo Imperiali in
Lesina di Puglia.
Dopo tre Mesi si ritrovarono nuovamente in Pianiano, ma che? li Terrazzani di Cellere per godere solo i
Beni di quella Comunità, annessa a quella di Cellere nell’anno 1732 (ai quali non pareva vera la partenza
degli Albanesi) calunniarono li medesimi di moltissimi insussistenti delitti presso i Ministri della R.C.A.
che già con sinistri occhi vedevano quella Nazione, ed anche per altri loro fini, mandarono lo sfratto da tutto
lo Stato Pontificio alli miserabili innocenti in termine di giorni dieci. Come gente incapace e derelitta non
sapevano dove andare, ne a chi ricorrere, se non al Patrocinio della S. Congregazione di Propaganda Fide;
come quella che protegge i Cristiani in tutte le parti del Mondo, però alcuni Capi pigliorono la strada e si
portarono in Roma, instruiti e accompagnati con un Memoriale dal suddetto Stefano Remani, che in Roma
stava, si presentarono alla bona memoria del Cardinale Spinelli, Prefetto di quella S. Congregazione da cui
scopertasi l’odiosità de malevoli, e le false accuse, restarono nei piedi di prima, miserabili però, e mendicanti.
Si credette dalli Ministri Camerali, che fossero decaduti dall’enfiteusi di quei Terreni concedutegli già in
perpetuo, e però impedirono a quelli della Colonia il coltivarli: in queste circostanze di cose trovandosi in
mezzo ad una strada, senza ricovero, senza aver modo di potersi aiutare, la maggior parte invalida a
procacciarsi il pane col lavoro alla giornata, ricorsero alle caritatevoli viscere degli Vescovi di Acqupendente
e di Montefiascone, e di altre pie persone per qualche elemosina, ed in fine alcuni vennero in Roma, dove non
sapevano a chi spiegare le loro miserie per non sapere la lingua Italiana, se non al Nazionale Sacerdote
Stefano Remani, coll’indirizzo di cui ottenuta una elemosina dalla S. Congregazione di Propaganda
ritornarono dalli deplorabili loro Compagni.
Stava questo Sacerdote a dozzina con un Curiale, a cui raccontando il modo con cui erano stati questi
trattati, insinuò il Curiale al Remani che ricorressero alla S. Congregazione di S. Ivo 362, che in tali
circostanze l’avrebbe difesi. Fece il Sacerdote Stefano Remani venire dalle Famiglie tutti quei documenti
necessari, acciò questa S. Congregazione avesse pigliato la loro difesa, ed assicuratosi di questa Protezione e
difesa, senza la loro saputa, o intesa alcuna si offerì di esso protegerli, e farli riavere dalla R.C.A. tutto quello
tolto gli aveva, cioè grano, Bestiame ed altro, che a più mille scudi ascendeva, ed i terreni, con questo però,
che essi Albanesi si obligassero di dare al Remani, ed alla di lui Famiglia dodici some, che vengono a essere
otto rubbia di terreno; senza risposta alcuna, di quello concesso alle suddette Famiglie dalla R.C.A. e rubbia
dieci di grano annualmente in perpetuum. Quantunque si trovassero così strozzati dalle miserie, molti
furono contrari a fargli tal’obligo, alcuni però suoi Parenti, ed aderenti acconsentirono; per comprenderli poi
tutti ridusse l’obligo delle dieci rubbia di grano ad tempus, cioè per lo spazio di anni cinquanta. Fu
intrapresa la lite dalla S. Congregazione di S. Ivo a favore degli Albanesi, come spoglio violento fattosi dalli
Ministri Camerali, ed agitatasi la Causa dopo sei anni fu risoluto in Piena Camera “ad Dominum Ponentem
pro Concordia etiam ex Officio” 363. Tentò allora il Remani la riconferma dell’Obligo fattogli dagli Albanesi
ancorché non ottenessero il tutto, ma gli fu negata dalli medesimi. Si stimolava dalle Famiglie che venisse
alla stipolazione dell’Istromento di concordia, ma esso Remani sempre più tardava, fiinalmente si scoprì che
l’intoppo era che il Remani voleva essere conosciuto dalla R.C.A. qual Principe, e per tale voleva essere
ricompensato, facendo costare alla Santità Sua felicemente Regnante Pio VI in tempo, che occupava il posto

362
Opera pia istituita da Paolo V, papa dal 1605 al 1621, che aveva «per proprio istituto assumere le cause de’
poveri pupilli, vedove, orfani e forastieri abbandonati» e patrocinarle presso tutti i tribunali di Roma. Cfr. C. B.
PIAZZA, Opere pie di Roma, per Giovan Battista Bussotti, Roma 1679, p. 649.
363
Formula giuridica con la quale la causa veniva rimessa a colui che la proponeva allo scopo di giungere ad
un accordo. In caso contrario, la stessa poteva derimere la questione, dettando la sentenza.
di Tesoriere con fedi in generale ample, di persone degne di Fede, da interpretarle però diversamente da chi è
inteso di tutti i fatti, e spiegarle nelli loro veri significati, essere lui stato Principe in Albania, e questi della
Colonia essere stati suoi Feudatari; avere egli molto lasciato, e perduto per avere qua condotta questa
Colonia: avere egli, per obbedire alla R.C.A. tralasciata la gran lite, che aveva con quelli Vescovi, e Preti
d’Albania, che in caso diverso l’avrebbe vinta, ed anche Vescovo sarebbe stato di quelle parti. Con documenti
tutto questo procurava approvare, che in realtà era falsissimo: Sicchè saputosi da uno la trama, che faceva
per ingannare il Principe, si credette obligato di significare per lettere tutto l’inganno a Mons. Tesoriere ora
Sommo Pontefice Pio VI, che per sincerarsi del fatto ordinò a quell’Assessore Generale dello Stato di Castro,
Girolamo Batifoli, che con ogni segretezza, senza che penetrassero il fine, giudicialmente esaminasse tutti i
Capi di quelle Famiglie, ed extragiudicalmente li Sacerdoti.
Se quali Beni lasciasse la Famiglia Remani in Albania, e se utile, o disutile sia stata per essa trovarsi in
questo Stato: rilevò, aver lasciato la Famiglia Remani nella Villa di Bria, sua nativa Patria, una Casa ben
piccola a pian terreno; con una vigna di circa mezzo rubio di terreno; altra piccola Casa in Scutari proda il
fiume Bojana parimenti a pian terreno con robba di pochissima considerazione; di modo che tutto il suo
valsente mai, e poi mai ascendere poteva a scudi 400. Oltre a questo aveva però lasciati dei debiti: essere vero,
che perdesse la lite, che messa aveva tra quelli Preti, Vescovo, ed Arcivescovo, non per obedire la R.C.A. ma
perché contraria glie la decise la S. Congregazione di Propaganda Fide, che però si considera per una sorte
per il sacerdote Remani godere della munificenza del Principe sei scudi al Mese senza alcun peso, quando
prima stava con tre scudi soli di elemosina di Messe.
Passati tre anni già erano che il Remani alla stipolazione della Concordia con la R.C.A. non veniva,
perciò la Colonia fu costretta di deputare per loro Procuratore a stipolare detto Istromento di Concordia
Giovanni Sterbini, uno di essa Nazione, che rilasciatosi il prezzo del grano, Bestiame, ed altro alla R.C.A. si
ebbero semplicemente i Terreni.
E’inesplicabile il furore, ed odio che concepì, e mantiene ancora contro tutti, ma in modo speciale contro
chi svelò la verità al Principe: che non essendogli riuscito ottenere dalla R.C.A. quanto aveva tramato, con
tutt’impeto si è voltato contro questi, e o che si servisse della loro ignoranza, che non sapevano parlare in
Italiano, non che capire i termini, nell’Atto dell’Istromento, fossero realmente messe quelle condizioni dalle
Famiglie mai perintese, bensì cautelate dal Remani; o che fossero posticipatamente aggiunte dal Notaro,
deposto già per falsario provato in altri simili casi in Ischia, s’obligarono le Famiglie dargli dieci rubbia di
grano per lo spazio di cinquanta anni, oltre le otto some di Terreno, quante volte con decreto autentico del
Giudice il Remani avesse fatto costare di avere ricuperato a sue proprie spese grano, Bestiami, Terreni alle
Famiglie Albanesi, le quali in quel caso a riguardo delle spese grandi, che doveva soccombere per una tal lite
ed in ricompenso delle spese fatte, e fatiche nel loro trasporto, si obligavano dargli le dieci rubbia di grano, e
terreno suddetto. Stando di continuo il Sacerdote Remani in Roma gli è riuscito di appoggiare la sua difesa
alla S. Congregazione di S. Ivo, dove che le povere Famiglie derelitte d’ogni ajuto somministrarono quelle
semplici relazioni del fatto fuscamente spiegate dal Curiale Sig. Lorenzo Severini, che quasi per atto di carità
e compassione le difende già per lo spazio di venti anni.
E perché la forza delle ragioni del Remani è ridotta all’ultimo motivo, non per inteso dalli medesimi
dell’Obligo, per cui dicon dargli dieci rubbia infatti insussistente, come già fu deposto da tutti i Capi di
Famiglia avanti Battifogli Assessore Generale dello Stato di Castro, mentre poco poteva spendere chi poco
aveva, e per maggior prova della pura verità, da essi deposta avanti quell’Assessore ricercata dal Principe, e
per svelare la realtà sono stati costretti di umiliare una supplica alla S. Congregazione di Propaganda Fide,
acciò il Remani non sparli del Principe con dire non averli fatto giustizia, e per la loro giustificazione, acciò
per mezzo di essa con tutta sincerità venga manifestata la pura verità da quelli Vescovi d’Albania, e da altre
persone degne di fede, se che robba, ed a quanto poteva ascendere tutto il valsente del Remani, lasciato in
quelle parti? Per loro giustificazione, difesi, e per non restar soggetti ad avere una definitiva decisione Totale
ad essi contraria.
E’vero che la Famiglia Remani in persona di Antonio ha molto cooperato con industria, fatiche, viaggi,
strapazzi, pericoli, e con qualche cosa del proprio; è vero che forse con quel poco si sarebbe avantaggiato nelli
beni di fortuna, come hanno fatto molti Cristiani, che colla pace goduta dopo la partenza di questa Colonia, si
sono molto avanzati: è vero, che il Sacerdote Stefano di lui fratello ha molto operato in di loro vantaggio, con
fare delle suppliche, con indirizzi, con insinuare ragioni alli Curiali di S. Ivo, con procurare documenti, con
difenderli dal principio da più calunnie ed imposture degli Celleresi.
E’vero però altresì che mai la Casa Remani da un Capitale, posto anche che arrivasse a scudi 400 poteva
avere l’entrata di scudi 17 mensuali, come le venivano somministrati dalla R.C.A. e rimasto unico di quella
famiglia il Sacerdote Stefano gli venga anche ora somministrato l’assegnamento di scudi sei al Mese; è vero
altresì che dalle Famiglie, all’arrivo in Ancona, pigliò sopra scudi 1000: in tanti zecchini anche veneziani col
pretesto di barattarli in moneta Romana, facendo capire a quella gente ignorante, che in questo Stato non
correvano, è vero altresì che dalle Famiglie, all’arrivo in Ancona, pigliò sopra scudi 1000: in tanti zecchini
anche veneziani col pretesto di barattarli in moneta Romana, facendo capire a quella gente ignorante, che in
questo Stato non correvano, è vero altresì che per più di quattr’anni percepì da quelle Famiglie alla ragione
di dieci rubia di grano annualmente fuorché dalli Sterbini, come esso stesso attesta; è vero altresì che da
quelli poveretti per due anni percepì alla ragione di sopra scudi 200 l’anno fuorché dalla Casa Miccheli; è
vero altresì che gode le otto some di terreno, che non gli sarebbero competute; è vero altresì che in tempo che
dalla Clemenza del Sommo Pontefice Benedetto XIV veniva in quei primi mesi della loro venuta
somministrato a chi 10 ed a chi 5 Bajocchi a testa, ed il Sacerdote Remani per qualunque minimo pretesto
tratteneva ad essi l’elemosina, e se l’appropriava con dipingerli ancora presso quel degno Cav.le Conte
Niccolò Soderini, allora affittuario Generale dello Stato di Castro, per sollevatori, inquieti e bricconi, acciò
non li prestasse orecchie, così credendo, riceveva elogio nella sua condotta, con farli anche carcerare, volendo
che neppure una spilla comprassero senza il consenso del medesimo Remani, come fu nelle persone dei
Cabasci, ed altri, noto a tutto Canino e Viterbo per essere sino colà portati Carcerati. A tanto era arrivata
l’avidità di commandare che anche nella concessione delle terre fatta alle Famiglie, per articolo, e condizione,
sotto pena di caducità si dovesse obedire. E’ vero parimente che dal primo giorno sino al dì d’oggi, per ordine
della Sacra Congregazione del Buon Governo viene pagato da quella Comunità di Cellere e Pianiano come
Agente degli Albanesi quantunque da molti anni faccia da Agente contrario. E che più puol, o deve
pretendere da chi stenta il pane quotidiano? In qual Cantone di profondità di miserie cerca collocarli? La
fiducia loro è stata sempre, ed è, che sit Deus in Israel, e Dio onnipotente illuminerà alla fine il cuore di
qualche suo fedele, che servirà di loro difesa.
Per tornare adunque da capo, ritornati da Napoli nuovamente a Pianiano, prima di entrare a lavorare
ogn’uno quelle terre concedutegli in Enfiteusi, passarono nove anni, e non avendo avuto altro ajuto e
soccorso, se non quella poca elemosina che si disse miserabilissimamente camparono.
Al principio le terre, da macchie ridotte a coltura, rendevano gran frutto di grano, granturco, tabacco e
tutt’altro, ma stracche, costretti a seminarle ogn’anno, incominciarono a zoppicare; procurarono
d’industriarsi colli lavori nel Piano dell’Abbadia, terreni Camerali, non molto distanti da Pianiano, pagando
i soliti terratici di rubbio per rubbio alli Signori Stampa, Affittuari Generali di quello Stato di Castro, e di
stendersi anche con lavori non indifferenti; ma ciò fu peggio per essi, mentre atteso li più anni continui di
scarsa raccolta, specialmente quell’anno della siccità, che chi 60 rubbia aveva seminato, non arrivò a
raccogliere più di rubbia 90, e dovendo pagare i terratici, imprestanze, e prezzi de Bovi, fattigli dalli Signori
Stampa, rimasero coll’appalto in gran debito, ne avendo modo di tirare avanti i lavori, furono costretti a dare
alli Signori Appaltatori quel bestiame e semente che in piedi avevano per allegerire e non scancellare il debito
che ancora glie ne resta a più di uno.
In quelli anni che le terre fruttavano, fecero dei gran progressi, con fare ogn’uno la sua necessaria
abitazione, con piantare viti ed altro, che in verità i Paesi vicini si maravigliavano; ora che non solo per le
critiche stagioni ma anche per la tenuità del terreno che sono costretti a seminarlo del continuo, pochissimo
di frutto percepiscono, e però sono obligati a piuttosto retrocedere che andare avanti.
Si disse che all’arrivo in Pianiano dall’Albania in pochi anni ne morì la metà, altri 30 ne rimasero nel
Regno di Napoli, sicché di 218 si ridussero ad un centinaro di persone, qual numero in circa ancora si
mantiene. E non è che divenga da quell’aria pessima, come si dipinge communemente ma da altri motivi più
che veri.
Primieramente si deve riflettere che sebbene tutti del pari si trovassero miserabili in queste parti non però
così erano in Albania; e quelli nati bene, avendo sempre quella massima di vivere con quella maggior
riputazione che si puole, non volevano pigliar Moglie se prima non erano assicurati di aver dove e con che
mantener esse e loro Figli, non avessi a stare alla zincaresca nelle Capanne, e grotti, come quà al principio
stavano; ardua cosa ad essi pareva doverli vedere raminghi e mendicanti per le strade, però per lo spazio di
nove anni, che stiedero come Augelli alle frasche, aspettando la risoluzione di entrare in possesso dei terreni
concessegli come sopra, niuno era sicuro di stare in Pianiano, ne alcuno procurò di accasarsi sull’incertezza
del suo soggiorno.
Passati i nove anni, ed entrato ognuno a seminare nel terreno assegnatoli, da tutti si procurò prima
d’ogni cosa, l’Abitazione, che a poco l’anno la condussero a fine; si aggiunge che di Femine Nazionali si
scarseggiava assai, e pigliare per Moglie di diversa Nazione dimostravano incredibile contrarietà, senza
Medico, senza Chirurgo, senza modo di ajutarsi nelle malattie, morire potevano, ma non crescere.
E questo era il motivo per cui non si vedevano i Ragazzi, e non che l’inghiottisse quel luogo; ne è così
adesso, avendo già data per rotta alla difficoltà di pigliare l’Italiane per la mancanza delle Nazionali.
Al principio l’aria di Pianiano certissimamente era pessima per essere stato un Castello diruto,
abbandonato, offuscato da spini, e robaccia di tutte quelle macerie di mura cadute, ed abitato animali
immondi e velenosi, circondato e sepolto da tutte le parti delle Macchie, quali ora essendo state levate, e
rimasta solo una a riparo di Scirocco, resta luogo sollevato e scoperto; levate le macerie e ripulito il paese,
lontano da fossi e luoghi acquastrini, e specialmente essendo stata asciuttata la palude, detto il Paglieto nel
Piano dell’Abbadia, non molto distante da Pianiano per ordine del Sommo Pontefice felicemente regnante
Pio VI l’aria non è ora peggiore degl’altri Paesi vicini; niente differente, anzi effettivamente megliore di
quella di Canino, Tessennano ed Arlena, ne altro male ha se non il piccolo numero degli Abitanti e la
mancanza dell’assistenza de Professori che non vi sono se non una volta la settimana, dovrebbero venire da
Cellere, che quasi mai si vedono.
Delli venuti adulti da Albania sono rimasti pochi essendo l’altri quà cresciuti; non pare però che questi si
assomigliano a quelli; altre massime, altre serie riflessioni avevano li primi, e questo n’è divenuto forse,
perché morti i vecchi senza che questi fossero cresciuti, ed imbevuti delle loro vestigie ed insegnamenti; e per
essere anche rimasti pochi hanno cominciato ad infrascare il procedere Albanese coll’Italiano uno quasi
tralasciato, e l’altro non intrapreso.
Il procedere di questa Nazione, è un procedere da veri Cristiani, e senza dir’altro per la loro
giustificazione abbasti sapere che trentadue anni sono che in Pianiano si trovano, ed in questo fra tempo non
trovasi nel Tribunale laico di Valentano, ne nel Tribunale Ecclesiastico d’Acquapendente, sotto quali
Tribunali stanno un processo formato contro un’Albanese, e che possa servire di rimprovero per la Nazione.
E’certo, che si osserva anche negli animali che, anche di specie innocente che sia, infrascandosi un’estero
nella loro Compagnia, anche dell’istessa specie, non è riguardato egualmente che li Compagni, ma or’da uno,
or’da un altro viene urtato, così non fa tanta specie se l’Albanesi gente estera, gente ignorante, gente
incapace, gente povera, gente idiota, gente senza particolar protezzione sia stata così fieramente urtata
specialmente dalli Celleresi che hanno sempre procurato mandarli per aria per il timore che un giorno o
l’altro non avessero che separare la Comunità di Pianiano da quella di Celleri, come era prima del 1732, ed
un dì fossero per privare l’entrata della Comunità di Pianiano alli Comunisti di Celleri, ma sopra tutto deve
far specie che un Nazionale, un Individuo, quale è il Sacerdote Stefano Remani, unito alli Celleresi abbia
procurato e procuri la total rovina di questi poveretti che se il timore della protezzione dell’E.mo Pallotta in
tempo del suo Tesorierato non gli avesse raffrenati, al niente a quest’ora averebbero ridotti li poveri Albanesi,
uno coll’altri uniti, ed infieriti contro li medesimi.
Se non fossero stati ben’intesi di tutti questi fatti quelli che stanno in Albania, certamente forse si
sarebbero risoluti e messi in azzardo, e sarebbero in gran quantità di persone quà venuti fra loro Nazionali, e
Parenti, avendo questi lasciato colà chi il Padre, e chi la Madre, chi li Fratelli, e chi le Sorelle, chi i Nipoti, e
chi anche li Figli, e Figlie.
Per questi sarebbe stata una indicibil consolazione, e quelli si sarebbero esentati da ogni pericolo, e
disturbo de Turchi».
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