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  KARL RAHNER 

TU SEI IL SILENZIO
Colloqui con il Dio Altissimo
QUERINIANA
Titolo originale dell'opera: Warte ins Schweigen

PREMESSA

Non presento Karl Rahner. Ma avverto chi vuol avere un'idea dell'uomo, che in questo libro non
deve vedere più che un aspetto della sua anima.
È vero che l'anima non ha pezzi che non la riflettano tutta. Chi mediti questi incontri con Dio, si
sentirà poi familiare un po' con tutti gli scritti dell'autore. Ma sentirsi familiare non è trovare che
l'autore si ripeta.
E, senza tener conto degli anni che Dio vorrà aggiungere ai suoi cinquanta (Karl Rahner è di quelli
che non invecchiano), l'autore ha già una produzione vastissima. Produzione viva, dico; che è
passata per  l'anima di questo cercatore di Dio che è Karl Rahner, in cui tutto il peso di una
tradizione e l'energia di un pensiero personale convergono nell'unico interesse umano centrale che
è la risposta all'appello di Dio, sofferto, affrontato con evangelica onestà, con l'impegno di tutto
l'uomo, sicché non rimane nella sua pur ricchissima personalità interesse alcuno che non sia
riassunto in quell'unico, vissuto in funzione di quell'unico interesse.
Ma aver così appiccicato a Karl Rahner la categoria di uomo religioso, non è aver detto l'uomo Karl
Rahner. Niente di più personale, fra quanto è umano, che l'incontro con Dio; e perciò nessuna
categoria è così povera di fronte alla realtà che vuole esprimere, come la categoria dell' uomo
religioso. E non è comune trovare un uomo che abbia dato a questa personale esperienza una così
libera espressione come Karl Rahner; fino nel mondo della teologia propriamente detta, anche lì dove
altri non sanno che ingerire intatta la sacrosanta formula tradizionale, nel timore che a scalfirla
svanisca con il suo deposito. Ma a chi la parola di Dio scende nel cuore, cava lavoro e sofferenza, e
quel dubbio che nasce... a guisa di rampollo, a pie' del vero, a testimonianza non che il vero è
morto, ma vivo e forte nel cuore, e al sommo pinge noi di collo in collo.
Ché questo si chiama « pellegrinare lontano dal Signore», cioè lontano da quella luce dove «
conoscerò come son conosciuto» dove quanto essere Dio ha posto nella sua creatura, tanto sarà luce
di cognizione e calore di amore di colui che « del disio di sé veder n'accora ». Solo allora la
creatura non troverà in sé nessuno spazio più per il dubbio e per l'indagine.
E non si pensi che abbia voluto fare della letteratura, perchè m'è venuto in mente Dante e San
Paolo, e cioè, che abbia voluto dire a forza di eufemismi che Karl Rahner non fa che accumulare
dubbi nei suoi lavori. La citazione di Dante sta qui perchè è esatta: Karl Rahner non vi lascerà mai
senza qualche problema, precisamente perchè vi ha dato più luce, perché vi ha aperto a
quell'intelligenza della fede e a quell'amore, in cui egli posa davvero « come fera in lustra». Ma il
robusto paragone di Dante conviene più all'energia del suo pensiero che alla schietta, cristiana
bontà del suo carattere.
Ricerca di Dio è in Karl Rahner ogni sua fatica intellettuale e ogni sofferenza. Non è dunque tutto
l'uomo, nèppure tutto l'uomo religioso Karl Rahner, quello che questo libro presenta.
E questo ho voluto scrivere per invitare a un incontro diretto negli altri suoi scritti con la
multiforme e forte testimonianza dell'amante ricercatore di Dio.
Meno a proposito sarebbe in questo luogo parlare dell'interesse che Karl Rahner ha come pensatore,
in senso stretto; sebbene, com' è naturale, non mancano in queste pagine degli spunti adatti a
invitare anche a un incontro con il suo pensiero.
C. NEGRO
Innsbruck, 25 marzo 1955.

DIO DELLA MIA VITA

Con te voglio parlare. E di che posso parlare se non di te? C'è cosa che non sia dall'eternità
presso di te, che non abbia la patria nel tuo spirito e nel tuo cuore la sua prima sorgente? E
perciò tutto quanto io pos;o dire è sempre un parlare di te. E tuttavia in questo parlare,
sommesso e timido, tu intendi sempre un parlare di me, sebbene di te solo io vorrei far
parola. Perchè, che posso dire di te, se non che sei il mio Dio, Dio della mia origine e del
mio tramonto, Dio del mio gaudio e della mia afflizione, Dio della mia vita? Sì, anche
nell'adorare in te l'Altissimo che non ha bisogno di me, che sta lontano sopra questa valle
dove si snoda il mio cammino, ti chiamo pur sempre Dio della mia vita. E, saresti tu il Dio
della mia vita, se non fossi che il Dio della mia vita? E se io adoro te, Padre, Figlio e Spirito,
se confesso il mistero tre volte santo della tua vita, celato cosÌ nell'abisso della tua infinità
che nessuna traccia ne possiamo rinvenire nella creazione,... m'avessi tu rivelato questo
mistero della tua vita, pure potrei io confessare te Padre, e te Verbo eterno del cuore del
Padre, e te Spirito del Padre e del Figlio, se la tua vita non fosse divenuta mia vita nella
grazia, se proprio tu, Trinità divina, non fossi per grazia il Dio della mia vita?

Dio della mia vita! Ma che ho poi detto chiamandoti Dio mio, Dio della mia vita? Senso
della mia vita? Meta del mio cammino? Santità delle mie opere? Giudizio dei miei peccati?
Amarezza delle mie ore amare e il più segreto dei miei gaudii? Mia forza, che prostri
nell'impotenza quella forza che viene da me? Datore di essere di vita e di grazia? vicino e
lontano? Incomprensibile? Dio dei miei fratelli, Dio dei miei padri? C'è nome ch'io non ti
debba dare? E che avrò poi detto quando te li abbia dati tutti? Se dalla soglia della tua
infinità avrò gridato nelle lontananze senza vie del tuo essere tutti insieme i nomi che nella
povertà del mio piccolo mondo io posso raccogliere, mai avrebbe fine il mio dire di te, mio
Dio.

Ma perchè sto affatto a parlare di te? E tu mi tormenti con la tua infinità e io non la posso
misurare! Perchè tu mi spingi sulle tue vie, che menano solo nella strana oscurità della tua
notte, che a te solo è luce. Solo il tangibile e il finito è reale per noi e raggiungibile; e puoi
tu essere per me una realtà, vicina, se io riconosco l'infinito in te? Perchè hai lasciato il tuo
segno di fuoco nella mia anima nel battesimo e m'hai acceso la luce della fede? oscura luce
che m'alletta nella tua notte, fuori dalla sicura chiarità del mio piccolo nido. E mi hai fatto
tuo prete, che io viva presso a te la mia vita, per gli uomini, presso a te dove mi manca il
respiro di queste mie piccole cose!

E in verità, Signore, guarda, i più degli uomini (perdonami, che io oso farne giudizio), ma
forse che pensano spesso a te? Sei tu il principio e la fine dell'inquietudine del loro cuore e
del loro spirito? Non s'aggiustano anche senza di te in questo mondo, di cui hanno
intelligenza, dove sanno su che devono contare? Che sei tu per loro, in questo lor modo di
vita, più di colui che deve pensare a mantenere il mondo nel suo buon ordine, perchè essi
non vengano ad aver bisogno di te? Dillo tu, Signore, sei tu il Dio della loro vita?
Io non so, Signore, se è vero quel che ho detto degli uomini. Chi conosce il cuore di un
altro, mentre tu solo, non io, comprendi il mio cuore? Ma, tu lo sai, o Dio nascosto a cui
nulla si cela, Dio che vedi in fondo al mio cuore, io ho pensato agli altri, perchè sì spesso
rinasce dal mio cuore il desiderio segreto di essere così come gli altri mi paiono.
O Dio, come smarrito mi sento nell'anima, quando ti parlo di te! Come ti posso chiamare
se non Dio della mia vita? Ma che ho detto mai con questo, quando non c'è nome che ti
possa nominare? E in me rinasce sempre l'impulso a sottrarmi a te, e ritornare alle cose, di
te più comprensibili, più familiari al mio cuore che l'ignoto tuo mondo.

Ma dove rivolgermi? Potrebbe il mio piccolo nido, l'angusto mondo delle mie cose
familiari, questa vita terrena, con le sue grandi gioie e i grandi dolori, potrebbe essermi
patria se non riposasse tutto nell'abbraccio della tua lontana infinità? Mi sarebbe mai
patria la terra se non le si stendesse sopra il cielo tuo lontano? E volessi pure ostinarmi a
credere solo nel mio essere finito, a riconoscervi l'unico senso della mia vita, come tanti
fanno, e lo professano apertamente, dove troverei la chiarità dello spirito che accetta
consapevole questa finitudine come unica sua sorte, se non avessi levato prima lo sguardo
a quell'orizzonte lontano dove. è l'inizio dell'essere tuo infinito? Ché questo mio piccolo
essere affonderebbe nel buio e nell'inconscia sua piccolezza, senza dolore di nostalgia,
senza coscienza di rassegnazione, se la luce dello spirito non si potesse spingere oltre i
propri limiti, nello spazio senza confini, che tu, silenzioso Infinito, riempi. Dove rivolgermi
dunque, per sfuggire a te, se il coraggio della mia finitudine, come la brama nostalgica
dell'infinito non fanno che confessare te?

Che ti posso più dire di te se non so che tu sei quello senza cui io non posso essere, che tu
sei l'infinito in cui solo può vivere la mia finita umanità? E con questo mi san dato anche il
mio vero nome, quello che ripeto sempre nel salterio di David: « tuus sum ego». lo sono
colui che non s'appartiene, ma che appartiene a te. Di più non so di me; né di te... Tu, Dio
della mia vita, infinità della mia finitudine.

Ma che m'hai messo nell'anima, come m'hai creato, che io, di te e di me, so solo che tu sei
l'eterno mistero della mia vita? Terribile mistero dell'uomo, che appartiene a te, mio Dio,
che sei l'incomprensibile! Incomprensibile nel tuo essere e piùancora nelle tue vie e nei
tuoi giudizi. Poichè se quanto fai di me è frutto della tua libertà, insondabile abisso di
grazia che non ha nessun perchè, se la mia creazione e tutta la mia vita è tua libera
elezione e le mie vie sono in fondo le tue vie, imperscrutabili, allora Signore non ti può
comprendere nessun perchè del mio spirito, allora tu resti l'incomprensibile anche quando
io ti veda faccia a faccia. Ma se tu non fossi l'incomprensibile, mi saresti soggetto; ti avrei
concepito e compreso e tu apparterresti a me, non io a te. E sarebbe l'inferno la sorte dei
dannati, che io finito, con il mio definito essere, appartenessi a me stesso; fossi ridotto in
eterno a far la ronda nel carcere della mia finitudine.

Ma è poi possibile che tu sia la mia dimora, tu che mi liberi dal carcere della mia
finitudine? O non diventi tu il nuovo tormento della mia vita, quando m'apri l'adito alla
tua infinità? La mia insoddisfazione sei tu, se ogni mia conoscenza non può che finire nella
tua incomprensibilità; l'eterna inquietudine di questo spirito senza pace sei tu. Dovrà
cadere davanti a te senza risposta ogni domanda? sei tu solo il « fatto»muto, davanti a cui
cade impotente ogni tentativo di intelligenza?
Io ti parlo da insipiente. Perdonami, Signore! Tu m'hai detto, per il Figlio tuo, che sei il Dio
del mio amore: m 'hai comandato di amarti. I tuoi precetti sono difficili, perchè il mio
animo inclina spesso al contrario di quanto mi comandi. Ma poiché vuoi che io ti ami, mi
comandi ciò che non avrei animo di fare senza tuo precetto: di amare te; così, da vicino.
Amare quello che è la tua vita. Entrare e perdermi in te, sapendo che tu m'accogli entro al
tuo cuore, che io posso incontrarti nell'amore, e dirti: tu!, incomprensibile mistero della
mia vita, perchè tu sei l'amore. Nell'amore ti trovo, finalmente, mio Dio! E allora si apre la
mia anima allora m'abbandono e dimentico; e il mio essere tutto si riversa oltre la stretta
dei suoi confini, oltre l'angustia della mia propria affermazione, che mi tratteneva nella
mia povertà. Con tutte le forze ti viene incontro la mia anima e non vuole ritornare più in
se stessa, ma perdersi in te, che, nell'amore, sei il cuore del mio cuore, più intimo a me di
me stesso.

E se io ti amo, se non sono più fermo nel tormento dei miei dubbi, nè più come dal di
fuori, da lontano, come ciecuziente, fisso lo sguardo nella tua luce inaccessibile; se tu
stesso, l'incomprensibile, sei divenuto in questo amore il centro della mia vita, allora io ho
dimenticato me stesso in te, con tutti i miei dubbi, Dio del mistero. E quest'amore ti vuole
come sei. E come ti potrebbe volere diverso, l'amore che vuole te, non l'immagine tua nel
proprio spirito, solo te, con cui diventa una cosa sola, sì che all'amante tu stesso appartieni,
non la tua immagine, dal giorno che egli finisce di possedere se stesso. L'amore ti vuole
così come sei. E come sa di essere buono e giustificato, e di portare in sè ogni suo perchè,
così tu sei buono e giustificato per l'amore che ti abbraccia e non chiede perchè tu sei così.
Lo stesso « fatto)) che tu gli opponi è la sua beatitudine somma. La beatitudine che non ti
vuole più costringere nel piano della mia intelligenza, per strapparti il tuo segreto eterno.
L'amore m'innalza e rapisce in te. Se io ho abbandonato me stesso nell'amore, tu sei la mia
vita, e la !ua incomprensibilità è sepolta nella unità dell'amore. Comprendere la tua
incomprensibilità è beatitudine, se ti posso amare. E più è lontana l'infinità del tuo essere
dal mio nulla, più provoca l'ardire del mio amore. E più è totale la dipendenza del mio
essere incerto dai tuoi consigli imperscrutabili, più incondizionato èil beato abbandono
della mia anima in te, dilettissimo Dio; più sconcertanti e incomprensibili sono le tue vie e
i tuoi giudizi, tanto maggiore sia la santa audacia del mio amore, che tanto più è beato e si
dilata quanto meno può comprendere di te il mio spirito.

Dio della mia vita, incomprensibile! Sii tu la mia vita. Dio della mia fede, che mi attira
nella tua notte, Dio del mio amore, che fa della tua notte la dolce luce di mia vita, sii tu il
Dio di questa speranza, che un giorno sarai il Dio di quella mia vita che è l'amore eterno.

DIO DELLA MIA PREGHIERA

Della mia preghiera voglio parlarti, Signore. E se pure mi sembra che tu quasi non ti curi
di quello che ti soglia dire nella mia preghiera, ascolta le mie parole quest'unica volta.
Ah, Signore Dio, io non mi meraviglio se le mie preghiere ricadono a terra senza arrivare
presso a te! Non bado spesso neanch 'io a quello che dico. La mia preghiera è spesso un
impegno, un « compito» che devo sbrigare, e son contento quando l'ho dietro a me. E
invece di essere preso dalla tua presenza, sono impegnato nel mio pregare, nel mio «
compito».
Così è la mia preghiera. lo lo confesso. Ma me ne devo pentire? Quella non è preghiera; ma
pure non mi riesce quasi di pentirmene, mio Dio. Come posso riuscire a parlare con te? Tu
sei così lontano e inafferrabile. E quando prego, mi pare che le mie parole cadano tutte nel
buio sordo; che nessun'eco mi risponda e mi venga a dire che la mia preghiera ha toccato il
tuo cuore. Oh Signore, pregare, parlare tutta una vita, e non udire una risposta, non è
troppo per me? Tu comprendi come io ti sfugga sempre, per tornare agli uomini e alle cose
- che hanno una risposta da darmi.

O dovrò dare per tue illustrazioni la tenerezza che mi prende pregando, o l'idea che mi
viene nel meditare? Oh Dio! La gente devota s'adatta presto e se ne persuade. Ma a me è
così difficile crederei. lo ritrovo sempre me stesso in queste esperienze, e solo l'eco vuota
della mia propria invocazione. Ma la tua parola io cerco, e te mio Dio. lo con tutti i miei
pensieri, sarò forse utile agli altri, anche se i miei pensieri riguardano te; anche se gli altri
finiscono per trovarli profondi. Brivido e orrore provo io della mia « profondità» che non è
che lo spirito sciatto di un uomo, e di un ordinarissimo uomo. E un' « interiorità » in cui
non trovo che me stesso, svuota il mio cuore anche più di ogni distrazione e di ogni
abbandonarmi alle còse del mondo.

Solo se riesco a dimenticarmi nella preghiera, rivolgendo a te la mia vita, solo allora
divento sopportabile a me stesso. Ma come ci devo riuscire se tu non mi ti mostri mai, se
tu rimani così lontano? Perchè taci così tu, e perchè vuoi che io ti parli, se poi sembra che
tu non m'ascolti? O non è un segno che tu non ascolti se taci? O ascolti tu forse attento il
mio parlare; ascolti tutta lunga la mia vita finché io abbia narrato tutto me stesso, ti abbia
detta tutta la mia vita? Taci forse perchè quieto e attento ascolti fin ch'io finisca, per dirmi
la tua parola, la parola della tua eternità, per mettere fine con la luce della tua vita eterna,
quando la tua risposta mi dirà te stesso dentro nel cuore, al buio e all'oppressione del
lungo monologo che fu la mia vita in questo mondo?

Forse la mia vita è tutta una sola breve invocazione (e le mie preghiere la traducono in
parole umane) a cui è eterna risposta la tua eterna visione. Forse il tuo silenzio di fronte
alla mia preghiera è una parola piena di infinita promessa, indicibilmente più ricca di ogni
parola che dovesse proporzionarsi al mio piccolo e povero cuore, se tu mi parlassi adesso.

Sarà così, Signore. Ma, se è questa la risposta che daresti al mio lamento se tu mi volessi
parlare, allora ho ancora da - dire qualcosa che mi preme l'anima anche più che il tuo
silenzio, mio Dio lontano.

Se la mia vita dev'essere una sola preghiera, e il mio pregare solo una parte di questa vita
che passa così, in preghiera, davanti a te, allora devo poter presentare la mia vita, me
stesso a te. Ma vedi che proprio questo è sopra le mie forze. Quando prego parla la mia
bocca, e, se faccio una « buona» preghiera, pensieri e propositi eseguono docili la parte che
ho imparato a recitare. Ma sono proprio io, nella preghiera ?Perchè non parole o pensieri o
propositi dovrei pregare, ma me stesso.

La mia buona volontà sta pur sempre su un piano superficiale della mia anima, è troppo
debole per spingersi fino a quell'intimo del mio essere, dov'io sono io, dove l'onda della
mia vita fiotta libera nel suo proprio ritmo. Che poca forza ho io su me stesso! Amo io
proprio quel ch 'io voglio amare? Amore è riversarsi e fluire in te, pendere da te e aderire a
te con l'ultimo fondo del mio essere. E come dovròio pregare in amore se la preghiera
dell'amore è questa consegna della mia intimità, lo schiudere a te l'ultimo sacrario
dell'anima, e io non ho forza su questo chiuso sacrario e sto così impotente e smarrito in
faccia all'ultimo mio segreto che giace sepolto immobile e sordo in quel cuore del mio
essere dove non penetra la libertà in cui vivo io i miei giorni?
So bene, mio Dio, che la preghiera non è di necessità entusiasmo e rapimento, e mi può
tuttavia mettere intero in mano a te, a tua discrezione, senza riserva alcuna. La preghiera,
che si chiama giustamente preghiera, non è necessariamente giubilo e gioia di
abbandonata e felice donazione di se stesso. La preghiera può essere afflizione e dolore e
intimo sanguinare del cuore, che penetra in silenzio nella profondità dell'uomo interiore. E
io sarei contento di una preghiera o di un'altra, purchè giungessi a darti pregando quello
che solo tu vuoi. non pensieri, affetti e propositi, ma me stesso. Ma a questo appunto non
riesco, perchè nell'abituale superficialità, in cui la necessaria mia povertà risospinge
sempre la mia vita, sono assente e straniero a me stesso. Come posso cercare te,
lontanissimo Dio, e consegnare la mia anima a te, se io stesso non mi sono trovato?

Abbi pietà, mio Dio. Se io fuggo la preghiera, non è te che io voglio fuggire, ma solo me e
la mia superficialità. Non voglio sottrarmi alla tua santità infinita, ma alla desolazione di
questo vuòto della mia anima dov'io devo vagare quando fuggo il mondo senza riuscire a
penetrare nel vero santuario della mia intimità dove solo potrei trovare e adorare te.

Non comprendi nella tua pietà che, escluso dal luogo della tua dimora, devo, mio
malgrado, riempire del traffico mondano questo sagrato della tua casa, al quale sono
ridotto; non comprendi nella tua misericordia che il chiasso di quel traffico mi è più dolce
dello sconcertante silenzio a cui mi condanno se faccio tacere il mondo senza che tu mi
attiri in te, almeno all'intelligenza del tuo eloquente silenzio?

Che posso più fare? Tu m'hai comandato di pregare. E potrei credere che tu mi imponga
qualcosa che io non possa fare con la tua grazia? lo credo che tu vuoi che io preghi e che
posso pregare con la tua grazia. Ma allora la preghiera che tu vuoi da me non può essere
in fondo, che lo stare ad aspettarti, lo stare pronto, in silenzio, finché tu, che sempre dimori
in fondo al mio essere, mi apra l'adito a che entri anch'io nel santuario segreto della mia
vita, per offrirti una volta il sacrificio del sangue del mio cuore.

E questa sarà l'ora del mio amore. Se quest'ora coinciderà con una preghiera quella che
sogliamo chiamare così - o con un'altra ora decisiva per la mia salvezza, o con la mia
morte; se io m'accorgerò che quella è l'ora della mia vita; se sarà lunga e se saranno pochi
momenti, tutto questo è noto solo a te. Ma io devo vivere in attesa, perchè quando tu mi
chiami a decidere della mia vita - forse sottovoce o quasi impercettibile - non m'avvenga di
perdere la sorte di entrare in me e in te, dissipato com'io sono sulle cose di questo mondo.

Mi troverò allora ad avere me stesso nelle mani tremanti, quel misterioso senza-nome in
cui tutte le mie forze e le mie potenze sono ancora uno, come nella loro sorgente; e lo
renderò a te in sacrificio di amore. lo non se se quest'ora è già cominciata nella mia vita; so
che solo la morte ne segnerà la fine. In quest'ora, beata e terribile, del mio amore tu tacerai
ancora, e lascerai dire me, . ch'io dica me stesso. Notte dello spirito han chiamato questo
tuo silenzio coloro che hanno fatto la teologia di quell'ora dell'elezione, e coloro che
l'hanno sperimentata, coloro che non solo sono vissuti in quest'ora dell'elezione
dell'amore, come tutti gli uomini, ma che quasi hanno potuto vedersi vivere in quell'ora,
son detti « mistici »; nome che ha per molti un senso tanto vano. E dopo l'ora del mio
amore, che tu veli nel tuo silenzio, viene il giorno del tuo amore: la visione beatifica.

Ora dunque, che io non so quando la mia ora viene, o se è già iniziata, devo stare in attesa
sul sagrato del mio e tuo santuario; devo liberarlo dal rumore del mondo, devo soffrire,
con la: tua grazia e in fede pura, l'amaro silenzio e la desolazione che succede al rumore
del mondo: notte dei sensi.

Questo è l'ultimo senso delle mie preghiere d'ogni giorno.

Non quello che io penso nella mia preghiera, non quello che io sento o decido, non questo
adoperare della mente e del volere, non questo è che a te piace in se stesso. Tutto questo è
precetto e grazia tua, perchè l'anima sia pronta per l'ora in cui tu le darai di pregare
davvero se stessa e di entrare in te. Dammi, o Dio della mia preghiera, ch'io viva,
pregando, nella tua attesa.

DIO DELLA LEGGE

Sta scritto che tu sei spirito. E del tuo Spirito che è lo spirito della libertà. « Il Signore è
spirito, e dov'è lo spirito del Signore, ivi è libertà» (2 Cor. 3, 17). E questo non è scritto di te
libero signore delle ampiezze sconfinate della tua vita divina, ma di te che sei spirito e vita
per noi.

O Dio della libertà, tu Dio nostro! Ecco, talvolta mi pare che credo a questa tua parola, non
tanto perchè la piena della tua libera vita ci riempie il cuore con la sua larghezza e l'onda
del tuo spirito, che spira dove vuole, ci abbia fatto liberi, ma piuttosto perchè so che mi
lega la legge della tua fede, perchè riconosco in te il mio Dio della libertà, perchè necessità
mi stringe.

Sei tu lo spirito di libertà o il Dio della legge nella mia vita? o tutt'e due? O è proprio nella
legge che sei il Dio della libertà? La tua legge, che tu hai dato, non è una catena: questo è
vero: la tua è una legge di libertà. E' ruvida inesorabile e schietta, e mi libera dalla
opprimente grettezza in cui m'attirano le mie voglie miserabili e pigre! mi chiama nella
libertà del tuo amore.

E' verità la tua legge, e comanda di dare il primo posto al primo valore, e di non innalzare
niente d'indegno sull'altare della mia vita. E perchè è verità ci libera, questa legge çhe tu
stesso nel nuovo Testamento hai dato, o meglio ci hai lasciato quando Cristo « nella libertà
ci ha fatto liberi» (Gal. 5) abolendo la legge antica e instaurando la sola « legge di libertà»
(Jac. 2, 12). Sì, la tua legge sarà difficile, ma ci fa liberi.

Ma, Signore, le leggi che gli uomini emanano in tuo nome? Lascia, o 'Dio della libera
sincerità, ch'io ti dica una volta apertamente tutti i crucci e i risentimenti che mi
amareggiano l'anima nei giorni di malumore. Sei benigno, tu, anche con i miei lamenti.

Signore, tu hai abolito la legge antica, « che nè noi nè i nostri padri riuscirono a portare»
(Atti 15, 10). Ma poi hai stabilito autorità in questo mondo, secolari, e soprattutto,
ecclesiastiche; e a me sembra talvolta che si sono date da fare, a rinfittire dove l'impeto
pentecostale del tuo spirito di libertà aveva diradato quell'antico ginepraio di ordini e
prescrizioni. Ci sono 2414 canoni del codice. E non erano ancora abbastanza: quanti
responsi si sono aggiunti a consolazione dei giuristi! E qualche migliaio di decreti liturgici
vogliono pure essere rispettati. Per lodarti nel breviario « in salmi ed inni e cantici
spirituali» per « inneggiare e cantare a te di cuore» (Eph. 5, 19), devo studiarmi una guida,
come un turista in paese straniero, un direttorio che ristampano tutti gli anni, tanto
intricata è questa lode di Dio! E poi nel regno dello Spirito Santo, c'è anche una « Gazzetta
ufficiale», e serie di atti senza numero, questionari e risposte, informazioni, relazioni,
decisioni, sessioni, citazioni, istruzioni, di non so quante congregazioni e commissioni. E
con che sottigliezze non si sanno lambiccare il cervello i moralisti per interpretare e dar
ordine a tutti i decreti di tutte le competenze!

E che calcolo logaritmico è diventato l'acquisto delle indulgenze! Dotti teologi hanno da
poco disputato se un povèro malato deve baciare quattordici volte la croce del tuo Figlio, o
se solo sei volte o se basti meno, per un'indulgenza! Cosa non hanno escogitato, con tutto
il loro zelo, i tuoi servi e gli amministratori a cui hai voluto affidare la tua casa nel lungo
tempo che tu. sei « in viaggio nella regione lontana» dell'eternità. Eppure sta scritto che «
dove è lo spirito del Signore ivi è libertà».

lo non voglio accusarli, questi servi fedeli e prudenti che tu hai costituito sopra la tua
famiglia. E voglio confessare a loro lode che non si meritano di solito l'accusa che il Figlio
tuo fece agli scribi e farisei che « siedono sulla cattedra di Mosè» (Matt. 23, 4) : non hanno
imposto solo agli altri i loro gravi oneri. La tua famiglia, Signore, i laici, hanno poi da
portare solo il tuo giogo soave, il tuo peso leggero, la fede nella tua parola, i tuoi
comandamenti che ci danno la libertà dell'amore, il peso della grazia dei tuoi sacramenti. E
se questo peso ci riesce grave, è solo che noi siamo deboli e il nostro cuore cattivo: siamo in
colpa noi, non il tuo peso. Ma io mi lamentavo in cuor mio del nostro peso, di noi preti,
peso che ci siamo poi addossato da noi.

Ma non è davvero un peso? E' solo la tua libertà, solo il sovraccarico di grazia, che nel
nostro animo piccino e comodo, sentiamo come peso e oppressione?

A questa domanda non c'è forse altra risposta che quella del Figlio tuo: i tuoi piccoli servi
devono osservare e fare .tutto quanto i tuoi grandi servi impongono loro; e quelli a cui
desti il potere di sciogliere e legare, renderanno conto a te, un giorno, se il loro legare fu
sempre in verità un ridonare la tua libertà ai loro fratelli.

Io so, e voglio stabilire sempre più il mio cuore in questa viva sapienza, che al1a tua libertà
non si arriva mai protestando contro chi riceve da te il suo potere. Solo entrando nello
spirito di tua dolce libertà si supera il peso dell'autorità umana, sentendola come tuo «
strumento di bene» in mano agli uomini (Rom. 13; 3 ss.). Se non voglio ingannare me
stesso, chi trova grave e vuole scuotere il suo peso non è il tuo spirito di libertà, ma il mio
uomo deteriore, la mia pigrizia, l'ostinazione, l'egoismo; è che non ho riguardo allo
scandalo del mio fratello, per cui pure sparse il suo sangue il Figlio tuo; è che mi voglio
credere lecita ogni cosa monda (Rom. 14, 13 ss.); ho la scienza che gonfia, non la carità che
edifica (1 Cor. 8, 1 ss.). E mi è già successo che ho, giudicato ostacoli alla tua libertà,
precetti' e imposizioni che erano solo salvaguardia per la libertà del tuo amore e
protezione contro la legge che è nelle mie membra. Sì, io sperimento sempre di nuovo che
le leggi umane della tua Chiesa sono scuola di disciplina per la volontà, di pazienza, di
dominio su me stesso, di forte tranquillità dello spirito, di rispetto e di amore per il
prossimo; vedo sempre di nuovo che non quello che piace, ma il dovere mi matura. E in
verità non ogni dovere è una costrizione, e la felicità nell'operare non è sempre segno di
alta moralità nè di vera libertà. Consapevole volere si trova anche nel fanciullo immaturo,
ma la consapevole accettazione del dovere segna la maturità dell'uomo. Dammi di non
restare sempre nel numero degli immaturi che, nel loro "mondo di giochi, vogliono
sempre altro da quello che si desidera e si esige da loro.

So anche che ordini e prescrizioni, cerimonie e consuetudini, metodi e industrie che mi


sono imposte e raccomandate, possono>divenire forma sensibile del mio amore, se ce l'ho
l'amore; e che mi diventano un peso morto s'io sono fiacco, troppo poco vivo per dare loro
un'anima. La tua Chiesa, mio Dio, deve essere visibile, per essere la « dimora dello Spirito
Santo», come la chiama già Sant'Ireneo. Ma è in ogni precetto e in ogni indirizzo, in ogni
no, e in ogni sì che essa è hic et nunc visibile; che in essa si manifesta e si rende tangibile il
tuo Spirito. E chi questo accetta con cuore fedele e in forte amore, per la porta stretta delle
leggi entra nella libertà del tuo Spirito.

Ti ho parlato tanto fin qui, Signore, per mostrarti il mio cuore aperto ai molti precetti e alle
più numerose proibizioni dei superiori spirituali che tu m'hai dato. Voglio osservare tutto
quanto hanno stabilito. E mi tornerà in benedizione certamente. Ma tu, Signore... tu sei il
Dio delle leggi?

Tu vuoi ch'io le osservi, è chiaro. (Per ,certo appartiene all'intera intelligenza del tuo volere
anche molto di quello che, a proposito di interpretazione, esenzione, equità, scrivono i
moralisti all'inizio dei loro libri, per dimenticarlo poi dopo nel corso del trattato).

Ma tu, Signore, sei tu il Dio delle leggi? faccio fatica a chiarire a me stesso che cosa intendo
propriamente con questa domanda. Ecco: nei precetti che hai dato tu, incontro quasi
direttamente te: il loro contenuto 1'hai comandato perchè esso è già espressione della
santità e bontà tua, perchè io divento difforme da te se non amo quello che tu comandi.
Ma per le leggi che le autorità umane stabiliscono, non è lo stesso. La forma dell'abito
clericale non ha niente a che vedere con la santità della tua essenza: che la talare sia lunga
o corta, il tuo prete ti servirebbe allo stesso modo. Tu non stai in queste determinazioni:
oppure ci stai quanto nel loro contrario. Perchè ti devo dunque cercare proprio in questo
modo, mentre ti potrei trovare ugualmente in un altro? Perchè così ha ordinato il potere da
te costituito? Sì, certo. Ma perchè doveva poi ordinare così? Forse solo perchè una qualche
elezione arbitraria deve limitare l'ampio regno della possibilità, perchè esso possa entrare
e vivere nel reale, e perchè non si potrebbe creare che disordine e scompiglio se ciascuno
fosse libero di operare a suo arbitrio? Sì., questa può essere spesso la ragione. Ma sempre e
in ogni. caso? Non si potrà concepire ogni legge e prescritto del tuo regno solo come un
codice della strada, per disciplinare e coordinare il traffico, oppure sempre come
determinazione della tua propria legge. Fossero tutte le leggi su questo tipo, non sarebbero
una limitazione della interiore libertà personale, come nessun sente, seriamente, come
restrizione della sua libertà, le leggi del traffico. Ma e le altre leggi che non sono affatto la
semplice espressione della tua legge, e tuttavia non si limitano a regolare il mondo dei
miei estrinseci rapporti con gli altri, ma mi toccano nell'intimo della mia personalità e nella
mia libertà? Non ti chiedo se le devo osservare. Questo è chiaro. Ma come le osserverò in
modo da incontrare te, da trovare te in libertà di spirito? Impegnano il mio intimo, con le
loro determinazioni, ma non sono, come le tue leggi, piene di te, così che la loro
osservanza sia lo stesso che la donazione a te.

Io ne ripeto sempre l'esperienza: chi non ci fa attenzione diventa un esteriore, freddo


osservante dei canoni, un « legalista», un ligio servo della santità della lettera, uno che
pensa di aver adempito ogni giustizia davanti a te con il compimento delle ordinanze
umane, uno che ha scambiato te con la lettera. lo non voglio essere un legalista, né servo
degli uomini, né della lettera. E tuttavia mi devo conformare agli ordinamenti di autorità
umane. lo voglio essere fedele, di cuore, alle loro leggi; ma a tali leggi non posso
consacrare il mio cuore; la mia anima deve obbedire, ma senza diventare serva degli
uomini. Così io devo alzare direttamente a te il mio sguardo, nell'obbedire a queste leggi.
A te il mio ossequio, solo a te senza intermediari; non alla cosa comandata in sè, nè alla
cosa come necessario riflesso del tuo essere; anzi, appunto perchè non ci ha in sè niente su
cui possa fermare il mio cuore, questa obbedienza è ricerca di te, e di te solo.

Così o non ti trovo affatto nelle leggi umane, o trovo te solo, secondo che è o no il puro
amore che mi muove. Nella tua legge trovo te anche se non penso ad amarti nel suo
adempimento, perchè il suo contenuto è necessaria espressione della santità del tuo essere.
Ma nell'obbedienza a leggi umane non si trova che il volere umano, che fa servo chi in esse
non ama te. Se le osservo in segno del mio ossequio amoroso alla libera tua volontà, che
dispone di me a suo beneplacito, trovo te, e tutto il mio essere si converte a te, entra in te, e
passa dall'angustia dell'obbedienza umana alla ampiezza della tua libertà. Solo se sei il Dio
del mio amore, sei. il mio Dio anche come Dio delle leggi umane.

Dammi un cuore aperto a portare il peso dei superiori che m'hai dato, così che la mia
soggezione sia esercizio di donazione, di pazienza, di fedeltà. E l'amore tuo dammi, che è
la sola vera libertà, senza cui ogni obbedienza umana è esteriorità o servitù. Dammi pieno
il cuore di venerazione per ogni legittimo comando e per quella libertà dei tuoi figli, nella
quale mi ha stabilito la tua redenzione. Venga sempre più il regno della tua libertà: è il
regno del tuo amore, in cui solo sono libero, da me e da ogni volere umano. Ché, io non
servo all'uomo né per l'uomo, ma a te e per te. In nessuna legge io sono di un uomo, ma
solo tuo. E chi è tuo è libero. Poiché tu non sei in verità un Dio delle leggi, perchè noi
serviamo alle leggi, ma il Dio dell'unica legge di servire a te solo e amare te solo.

E io prego anche, come tu vuoi ch'io preghi, per ogni autorità che tu hai stabilito sopra di
me, affinché ogni suo precetto non sia mai altro che la forma terrena e l'esercizio della
legge del tuo amore.

DIO DEI VIVENTI

I miei morti voglio ricordare davanti a 'te, Signore; tutti quelli che un giorno mi
appartennero, e se ne sono andati prima di me. Sono molti i miei morti; tanti che uno
sguardo solo non li comprende più; e devo ritornare con la mente lungo la via della mia
vita, per rinnovare a ciascuno il mio triste saluto. E vedo allora, sulla strada di mia vita,
snodarsi come un lungo corteo e di mano in mano staccarsi qualcuno in silenzio e uscir
dalla via, senza un addio, e perdersi nel buio della notte. Sempre più piccolo diventa il mio
corteo, che solo in apparenza sempre nuovi arrivano sulla via della mia vita, per
camminare assieme. E molti fanno, sì, la stessa via; ma con me, veramente, solo pochi. Ché
con me vanno in verità solo quelli che un giorno si misero con me in cammino, quelli che
erano già con me quando cominciai il mio pellegrinare verso di te, che erano e sono così
vicini al mio cuore. Gli altri sono incontri di viaggio; e ce ne sono molti: ci si saluta e ci
s'aiuta. E sempre nuovi s'aggiungono e se ne vanno. Ma il vero corteo della mia vita,
formato da quelli che si amano, diventa sempre più piccolo e silenzioso, finché un giorno
in silenzio anch'io esco dalla via e me ne va senza addio e senza ritorno.

Perché il mio cuore è presso a loro che già se ne sono andati così. Non c'è sostituto per essi;
nessun uomo che possa davvero ricompire la cerchia degli amanti, quando uno d'essi,
d'improvviso, non è più: ché nessuno può sostituire l'altro, nel vero amore, poi che il vero
amore ama l'altro in quella intimità dove ciascuno è solo se stesso. E così ognuno che è
scomparso s'è portato con sè una fibra del mio cuore, o spesso il cuore intero, allora che la
morte m'ha attraversato la vita. Chi ha amato in verità ed ama, la sua vita si cambia, già
prima che muoia, in un vivere coi morti. Ché, potrebbe l'amante dimenticare i suoi morti?
Se ha amato in verità, il suo dimenticare, il suo consumare il pianto non segnano il ritorno
della consolazione, ma lo stadio definitivo della mestizia, segnano che un po' del suo cuore
s'è fermato per vivere con essi nella morte e perciò è cessato il suo lamento. Così vivo io
coi morti, quelli che avanti a me sono entrati nella notte dove nessuno più può operare.

Ma come vivrò io con i morti, nella realtà sola del mio e del loro amore? Rispondimi tu,
Dio mio, che ti sei nominato Dio dei viventi non dei morti. Come vivrò io con loro? Che
serve dire - oh Signore, e i filosofi me lo dimostrano pure - ch'essi sono ancora, che vivono
ancora Ma stanno essi vicino a me? lo ho bisogno di restare presso i miei morti, perchè li
ho amati e li amo sempre. Ma sono essi pure accanto a me? essi gli scomparsi, essi i
silenziosi?

Nessuna parola più mi arriva dalla loro bocca, né la mite dolcezza del loro affetto riempie
più il mio cuore. Oh sì, come sono muti i morti; sì, come sono morti, i miei morti! Che
vogliono, forse ch'io li dimentichi, come uno che incontrai per caso in un viaggio, e feci
con lui due chiacchiere inutili? Se a chi si spegne nel tuo amore la vita non è tolta, ma
mutata nell'eterna pienezza della vita, perchè è per me come se essi non fossero più?

E la luce, la tua luce Dio mio, in cui essi sono entrati, è così tenue che non possa estendere
fino a me, quaggiù, i suoi raggi? O possono essi stare accanto a te solo se il loro amore, non
il loro corpo solo, mi ha abbandonato? Così, dai miei morti, ritorno ad interrogare te, o
Dio, che ti nomini Dio dei viventi non dei morti. Ma pure, che ti interrogo a fare? Tu sei
già muto quanto i morti: e anche te, io ti amo così come i miei morti, i muti, i lontani che
sono entrati nella notte. Perchè, fai tu sentire risposta al mio amore, se t'invoca e ti prega di
un segno che il tuo amore per me è vivo, e mi sta accanto? Posso più accusare i miei morti,
se il loro è solo l'eco del tuo silenzio? O è forse il tuo silenzio la tua risposta al mio lamento
per il loro silenzio?

Deve ben essere così, poi che tu sei l'ultima, se pure misteriosa, risposta a tutte le domande
del mio cuore. lo lo so perchè tu taci: il tuo silenzio è il solo spazio sterminato, dove il mio
amore può operare la sua fede nel tuo amore.

Se questa vita terrena possedesse già svelato il tuo amore, se mi fosse manifesto come io
sono oggetto del tuo amore, avrebbe più modo, il mio amore, di mostrarti l'ardimento
della sua fedeltà? Dove sarebbe più quell'estasi che, in fede ed amore mi strania così da
questo mondo, mi porta nel tuo mondo, a vivere e amare, entro al tuo cuore ?Perchè il mio
amore si possa svelare nella fede, s'è velato nella quiete del tuo silenzio il tuo amore. Tu
m'hai lasciato perchè io ti trovi. Se tu fossi vicino a me, ritroverei sempre me stesso nella
tua ricerca. No, io devo uscire da me, per trovarti lì dove solo puoi essere tu, veramente tu.
Poiché il tuo amore è infinito, può abitare solo nella tua infinità; e poiché mi vuoi mostrare
il tuo amore infinito, l'hai celato a me nella mia finitezza, e mi chiami, m'inviti ad uscirne.
E la mia fede non è che la via oscura nella notte fra la dimora della mia vita con le sue
tenui piccole luci, e la luce della tua vita eterna. E il tuo silenzio nel tempo non è che
l'apparizione terrena della tua eterna parola di amore.

Così dunque ripetono i miei morii il tuo silenzio: restano a me nascosti perchè sono entrati
nella tua vita; le parole d'amore che essi mi dicono non arrivano al mio orecchio perchè
sono lo stesso suono del gaudio e dell'amore tuo infinito. Hanno toccato in te l'infinità
della vita e dell'amore, e quello ch'io chiamo mia vita e mio amore, non ha forza né ha il
senso della loro infinità. lo vivo la morte - prolixitas mortis - come dice la Chiesa - e perciò
m'è così muta quella loro vita, che non conosce la morte. Ma è proprio così che essi san
vivi anche per me. Ché il loro silenzio è un alto grido, l'eco del tuo silenzio, la consonanza
con la tua parola, che parla appunto proteggendo noi e le nostre parole nel velo del
silenzio contro il chiasso della nostra agitazione, contro le nostre incerte ed effimere
attestazioni di amore. Così ci .chiama la tua parola a entrate nella tua vita: così ci comandi
di osare nella fede, che è l'opera dell'amore, di abbandonare noi stessi per radicarci nella
terra della tua vita eterna.

E così grida e richiama anche il silenzio dei miei morti, che vivono nella tua vita e
chiamano con la tua voce, Dio di quella vita, che sta lungi dal mio morire. Essi vivono. E
perciò tacciono. Mentre il nostro parlare è tentativo di obliare il nostro morire. E il loro
silenzio è la parola del loro amore per me, il loro amore che mi parla.

Silenzioso Iddio, Dio dei muti miei morti, vivente Dio dei viventi, tu, la voce del silenzio,
Dio pi quelli che col silenzio mi vogliono chiamare nella tua vita, fa ch'io non dimentichi
più i miei morti, i miei viventi. L'amore mio e la fedeltà ai miei morti sian prova della mia
fede in te, Dio della vita eterna. Che non sfugga il loro silenzio al mio orecchio, il silenzio
che è l'intima parola del loro amore. Resti con me la loro parola, ché per questo si partono
essi da me, perchè il loro amore, entrando in te, mi diventi tanto più vicino. Anima, non
dimenticare i morti. Essi vivono. Vivono senza velo nella luce eterna la vera vita tua, che
m'è nascosta ancora. E i tuoi viventi, Dio dei viventi, non mi dimentichino qui nella morte.
Concedi loro anche questo, tu che hai già loro concesso tutto te stesso, che il loro silenzio
diventi la fortissima parola del loro amore per me, la parola che riconduca in patria anche
il mio amore, nella loro vita, nella loro luce. E questa vita, che diviene sempre più un
vivere con i morti, che mi son andati avanti nel buio della morte, dove nessuno può più
operare, diventi sempre più vita di fede nella tua luce, mentre dura la notte di questa terra.

Allora vivrò con i viventi che nel segno della fede mi hanno preceduto nel giorno chiaro
della vita, dove nulla più resta da fare, perchè quel giorno sei tu, pienezza di ogni realtà,
Dio dei viventi. E quando io prego: « L'eterno riposo dona" loro, Signore; splenda ad essi
la luce perpetua», sia la mia preghiera solo l'eco della parola d'amore che essi, nella pace
dell'eternità, ripetono per me: « dona a lui, che noi, Signore, amiamo nel tuo amore come
non mai, dona a lui, dopo la lotta della vita, l'eterno riposo, e splenda anche a lui la luce
perpetua, che ha accolto noi».

Anima, non dimenticare i morti.


Dio dei viventi, non dimenticarmi qui nella morte; venga il giorno nel quale tu sia la mia
vita. Amen.

DIO DEL TUO PRETE

Tu sei, Padre, il Dio della libera grazia. Hai compassione di chi vuoi, come e quando vuoi.
Se è per gratuito favore che tu chiami gli uomini alla tua vita, allora, io lo capisco, la tua
chiamata non è una dote che all'uomo sia dovuta con la sua natura; allora ti possiamo
trovare solo là dove tu vuoi lasciarti trovare; e, sebbene le infinite possibilità della tua
onnipotenza stiano a disposizione della tua grazia, tuttavia, la testimonianza della sua
libertà, il nostro cammino alla salvezza è costretto al passaggio obbligato del tuo
mediatore, l'Uomo che nacque sotto Cesare Augusto in Palestina e morì sotto il
Procuratore Ponzio Pilato, il tuo Figlio, che si fece uomo . Nel suo concreto essere storico ci
è donata la grazia, non dove che io sia nel campo delle possibilità su cui erra il nostro
spirito. Il tuo Spirito spira dove vuole; dove vuole lui, non dove voglio io. Non si trova
dovunque un uomo lo voglia avere; ma lo dobbiamo cercare lì dove egli dispensa la
grazia. E così la tua salute èlegata alla Chiesa visibile, la tua grazia arriva a noi per il
ministero dei segni visibili.

Io so bene tutto questo, Signore, e sono felice delle vie singolari della tua grazia, e mi
consolo nel vedere che non solo mi posso avvicinare a te « in spirito », ma in segni visibili
possiedo la sicurezza della tua forza, della tua presenza nella mia vita: nell'acqua del
battesimo, nella parola di perdono del tuo sacerdote, nel pane santo dell'altare. Ché lo «
spirito puro» dei filosofi iniziatori di religioni mi ha fatto sempre l'impressione di un certo
fantasma. E, per me, non sogno affatto nessuna religione dello « spirito puro», della pura
interiorità, cioè, in fondo., una religione di puro umanesimo, in cui non troverei che il mio
spirito il mio misero mondo interiore, e sempre me stesso solo, invece di udire la tua libera
parola, che ti rivela a noi più di tutto quanto la tua mano poté scrivere nella piccola pagina
del creato.

Ma poi, Signore, così nello stile del1a tua libera concreta religione, è entrato nella mia vita
qualcosa che pesa così sulla mia anima! Tu m'hai fatto prete. M'hai scelto a segno della tua
grazia su questa terra. Hai messo la tua grazia nelle mie mani e la tua verità sulle mie
labbra.

Che gli uomini ti riconoscano incontrandoti nel tuo Figlio unigenito, nell'acqua casta del
battesimo, nella divina semplicità della Scrittura, io arrivo a comprenderlo. Ma che tu
voglia entrare nel santuario del cuore umano per mezzo mio... mio Dio, come ti possono
gli uomini riconoscere in me?

Sì, tu m'hai affidato tutto. Tutti i segni d'amore con cui vai incontro agli uomini sulle loro
vie, tu eterno pellegrino sulle vie del mondo, li hai affidati a me: la tua parola, la tua verità
il tuo Sacramento; così che i tuoi doni non trovano l'adito all'intimo segreto del libero
spirito umano, se gli uomini non si contentano di prendermi, Signore, anche me, assieme.
Ma ti possono riconoscere in me gli uomini, o almeno capacitarsi che tu m'abbia mandato
come mes'saggero della verità, portatore della tua misericordia? Quando questo
interrogativo mi nasce in cuore, o mio Dio, che peso oppriJ1lente diventa la tua lieta
novella, per me che l'annuncio agli' altri! Sì, io lo so. Tu m'hai mandato: tuo ambasciatore
sono io; misero, ma pur sempre tuo ambasciatore, mandato da te, segnato con il tuo
carattere indelebile. E la tua verità non diventa falsa perchè l'annuncio io,. peccatore, di cui
pure è vero quello che dice la Scrittura: Omnis homo mendax. Anche fra le mie mani la tua
grazia rimane pura; il vangelo rimane sempre la tua lieta novella, anche se non ~i può
vedere nel tuo messaggero che (( la sua anima esulta in Dio suo Salvatore»; la tua chiarità
splende e cambia la nostra tenebra nel giorno della tua grazia, anche la tua luce deve
cercarsi la via attraverso gli occhi oscuri della mia piccola lanterna.

Lo so, Signore, io sacerdote della tua vera Chiesa, non posso far dipendere la coscienza
della mia missione, il coraggio di annunciare, opportuno e importuno, il tuo vangelo, dalla
coscienza del mio valore personale. Il tuo prete non viene fra gli uomini come un «amico
di Dio», come un sapiente o uno staretz, o come carismatico o come altro si chiamino
quelli che agli uomini possono dire di te solo quello che essi stessi hanno. Io vengo come il
tuo messo, mandato dal Figlio tuo, nostro Signore; e questo è meno e a un tempo più,
immensamente di più di ogni altra cosa.

Ma, o Dio del mio sacerdozio, se io potessi sbrigarmi dalla tua ambasciata, bene o male,
tanto da aver adempito il tuo incarico, e potessi poi vivere la mia vita per me, allora il suo
peso non sarebbe più grave che l'impegno di un altro ambasciatore o ministro. Ma il tuo
incarico, la missione che m'hai data, è divenuta la mia stessa vita, assorbe semplicemente
tutte le mie forze. E io non vivo ormai più la mia propria vita personale, se non
diffondendo il tuo messaggio. Tuo rappresentante sono io, e niente altro. La tua luce - oh
Signore, perdonami! - arde nutrendosi della mia vita. Non c'è presso di te orario di
servizio, fuori del quale io possa tornare padrone di me stesso, « persona privata». Ora,
Signore, poterti servire con tutte le proprie energie è grazia e onore. E io devo ringraziare
che hai fatto della mia vita un. esercizio del tuo ministero; che io non ho altra professione
che di diffondere la tua parola di salute; che, nella mia vita, amore e professione possano
al tutto coincidere.

Ma tuttavia questa grazia è pure il grave peso della mia vita! Potevi anche nel tuo servizio
tener separati vita e ufficio. Quanto più facile sarebbe! Non ch'io ti volessi servire solo
poche ore al giorno; non ch'io dovessi o volessi occuparmi a comunicare con gli uomini le
mie esperienze religiose, i miei affetti o le mie idee. No, io voglio essere solo il tuo
messaggero e non avere che la tua verità, la tua grazia da comunicare. Ma appunto per
questo vorrei spesso tener separata la mia vita dal mio ministero.

Ma come si fa a diffondere la tua verità senza averla assimilata, senza esserne compresi,
come annunciare il tuo vangelo, se non mi è sceso in fondo al cuore, come comunicare agli
altri la tua vita, senza essere vivi della tua vita? I tuoi segni sacri operano la grazia di
propria forza. Ma se ne lasciano segnare da me gli uomini, se non vedono già sul mio
volto il segno della tua consacrazione? Il tuo sacerdozio l}on si può separare dalla vita. E
questo è appunto il peso della mia vita: io posso voler predicare la tua pura verità, ma dico
sempre anche la mia povertà, la mia mediocrità, me, l'uomo qualunque. Come posso fare
che gli uomini scompongano questo brutto miscuglio di te e di me che si chiama la mia
predica; si prendano a cuore la tua parola e dimentichino di me, il predicatore? Dovrei
diffondere la tua luce, dovrei nutrire la fiamma con la mia vita... e mi ci metto davanti io,
che, se gli uomini le danno uno sguardo, non sembra buona più ad altro che ad ingrandire
e oscurare le ombre di questo mondo oscuro.
Veramente che alla fine della mia vita di prete non sarò che il servo inutile, l'araldo che tu
hai mandato innanzi solo perchè non fosse d'impiccio al tuo arrivo. Se io porto la grazia,
questo è grazia tua; e quello che viene da me è nulla, un ostacolo, o tutt'al più la difficoltà
con cui metti alla prova gli uomini, se l'intuito del loro amore ti sappia riconoscere anche
quando ti nascondi in me fino ad essere quasi irriconoscibile.

A questi pensieri, o Dio del mio sacerdozio, sento il bisogno di confessarti ch'io non sono
capace di essere come quei tuoi apostoli che sono sempre sicuri di sé, con la vittoria
sempre in cuore. lo mi metto in via sempre in timore e tremore., Non voglio biasimare la
franca sicurezza di questi tuoi servi, i miei fratelli, a cui si legge in viso la coscienza di
venire nel nome del Dio degli eserciti; e si meravigliano se qualcuno non li riconosce
subito per quei messaggeri dell'Onnipotente che sono. Ma io, e tu dammi questa grazia, io
amo di più di essere di quegli uomini tuoi preti che ti sono riconoscenti della tua grazia,
che è forte nella debolezza, e si meravigliano che gli uomini li prendano in considerazione.
Sì rinnova piuttosto in ,me un senso di timida gratitudine ogni volta che si ripete la
meraviglia che io trovi qualcuno che m'ammette nel segreto del suo cuore, me peccatore,
in cui egli riesce ancora a riconoscere te. Così mi aprirò volentieri agli uomini. Tu m'hai
mandato: io vado nel tuo nome, non nel mio. Ti piaccia che la tua forza vinca nella mia
debolezza.

E sulla via della mia vita, con il tuo vangelo, sarò come una volta il tuo profeta: posseduto
e messo da Jaweh, deriso dagli uomini, segno di contraddizione per tutto il mondo. lo
devo parlare (guai a me se non predico !); parlare di te, che dovrei piuttosto adorare in
silenzio, con l'opprimente sensazione di essere vuoto come un cembalo squillante. Perchè
chi è davvero sicuro di essere nell'amore, fuori del quale tutto è chiasso inutile? E, sulla tua
parola e fra lo scherno del mondo, continuerò a girare attorno alle anime, come Giosuè
attorno a Gerico, finché non vieni tu ad atterrarne le mura, affinché nessuno si possa
gloriare davanti a te. Ma così si compie la mia missione, e si conforma alla missione del tuo
Figlio, il maestro mio crocifisso, o Dio del mio sacerdozio per il quale ti voglio in eterno
benedire.

Dammi solo la grazia, o Dio che in me ti nascondi come in un velo per arri vare agli
uomini, di purificarmi ogni giorno più dal peccato e dall'egoismo. Rimarrò sempre quello
che bisogna ch'io sia, il tuo velo, il tuo inutile servo. Ma sarò almeno sempre più simile al
tuo Figlio, che dovette pure velare la luce della sua divinità « nella forma di servo e fu
trovato in veste come d'uomo ».

Se porto così il tuo peso, il peso della tua missione; se il tuo mandato mi opprime, la tua
santità mi umilia e la mia debolezza è assunta in quella del tuo Figlio, allora possa
confidare che l'ostacolo che io frappongo alla tua venuta è in benedizione per i miei
fratelli. Allora tu, tu solo nel tuo segreto, cambi la mia forma di servo nella forma
sacramentale sotto la cui povertà tu sei il pane della vita per i miei fratelli. Si consuma la
mia vita, come l'ostia, perchè essi vivano in te e tu in essi eternamente. Amen.

DIO DEL MIO SIGNORE GESÙ CRISTO

Tu sei l'infinito, mio Dio, il senza confini. Tutto, quanto è e può essere, è presente realtà in.
te. Quanto io posso conoscere ha avuto dall'eterno sua patria nella tua mente; quanto io
bramo tu hai da sempre posseduto; quanto io amo, è, nella sua ultima verità, quello che tu
hai compreso da sempre nel tuo amore: sei tu. Tu la sapienza, la potenza, la bontà, la vita,
la forza, tu tutto quanto io posso pensare, tutto quello in cui può terminare la mia
nostalgia. Ma tu come sei tutto insieme?

Quanto io so e bramo ed amo, qui, dove ha dimora il mio essere, è sempre spartito e
disperso. Tutto si dissolve: il pensiero è atono e smorto; la bontà è impotente; la potenza è
senza amore, e l'incurante forza vitale è bruta e senza mente. Non ci è mai dato, nel nostro
piccolo essere, di stringere assieme tutto: vita e sapienza, bontà e potere, forza e tenerezza
e tutti gli altri valori della nostra vita a cui non vogliamo né possiamo rinunciare. Solo
questo possiamo fare noi, e lo dobbiamo anche: stabilire una scala di valori e a ciascuno
fissare il suo posto e la sua parte nella nostra vita, perchè nessuno la assorba tutta ed
elimini gli altri valori. Dobbiamo tenere ordine e misura. E badare che lo spirito non
diventi l'avversario dell'anima, che la bontà non diventi debolezza o la forza violenza
brutale. Fra tutti questi valori si svolge la nostra vita e ciascuno esige la sua parte per
realizzarsi e vivere in noi e per noi. E dobbiamo stare guardinghi e dividere fra loro, come
in piccole avare porzioni, la nostra forza finita. Mai non possiamo impegnare interamente
il nostro vivere, mai prodigarci; sotto pena di annientare noi e la vita, in quella prodigalità
immoderata ed esclusiva. Quelli che sanno tutto, raramente sanno amare; quelli che
possono tutto, sono di solito duri; di chi è bello si suol dire che è sciocco. E deve anche
essere così: come possiamo noi, finiti, essere tutto?

Ma pure, dov'è l'onniscienza che è eterno amore e l'onnipotenza che rimane ogni bontà, e
il calore e il vigore della vita, o la bellezza che siano insieme saggezza e spirito altrettanto
vivace? Dov'è che tutto quanto è grande può crescere all'infinito, espandersi inesorabile s!
enza confini, imporsi senz~ riguardo e proprio così non distruggere, ma essere ogni altro
valore?

In te, mio Dio: tu sei il tutto di ogni perfezione e intero in ciascuna. Ed ogni valore che noi
pensiamo in te grande senza confini, non esclude nessun altro dal regno delle realtà, ma
gli dà anzi luogo nella propria ampiezza senza fine. Il tuo sapere si espande in onniscienza
così che l'onniscienza diviene onnipotenza e la terribile inesorabile onnipotenza è la stessa
irresistibile forza della tua bontà. E ognuno dei valori che nel ,mio piccolo essere si
finiscono, si comprimono e si escludono a vicenda, diviene in te l'infinità, che è unità e
infinità ad un tempo. Ciascuno dei tuoi attributi è da sè solo tutto il tuo essere sconfinato,
porta nel suo seno tutta la realtà.

C'è almeno un essere in cui posso amare, senza confini nè condizioni, senza pensiero di
misura o proporzione: e sei tu. E nell'amore della tua santità, libero da ogni misura,
diventa tollerabile questa nostra vita sempre costretta alla misura e all'ordine. La nostalgia
di infinito del nostro cuore si può dilatare in te senza misura, senza traviare; e in tutto
quanto è in te posso prodigare il mio amore perchè tu sei tutto in tutto. Se noi amando
possiamo raggiungere te, cadono quasi da noi, almeno per quell'ora dell' amore, i confini
angusti della nostra finitudine. E allora ritroviamo la g101a anche nella nostra povertà
consueta.

Così la tua infinità è la redenzione della nostra finitudine. Eppure, mio Dio, ti devo
confessare che più ci penso, più mi invade un senso d'angoscia davanti a questo tuo
essere. Minaccia la mia sicurezza e io mi ci smarrisco. Ho sempre l'impressione, e il timore,
che sia solo per te questa tua infinità, in cui tutto è uno e lo stesso. Sì, tu sei sempre tutto,
in ogni tuo attributo e in ogni tua opera. Tu sei sempre il tutto anche quando scendi su di
me, quando entri nella mia vita. Il lampo della tua onnipotenza è sempre, da sé, il dolce
lume della tua sapienza. Tu puoi immettere libero tutto il tuo essere nella tua potenza, ché
con questo il tuo mare non abbandona alcun lido, non lascia scoperta alcuna possibilità
che tu non riempia sempre della tua realtà. Tu puoi essere un giudizio inesorabile e il
verdetto di condanna risuona sempre, per te, come il gaudio che canta la tua bontà
infinita. Ma per me, per la mia piccolezza, tutto questo è tremendo e orribile e mi agita fin
nelle ultime fibre del mio essere. Tu sei sempre tu, il tutto, comunque tu tratti con me; tu
sei per te sempre l'infinita unità di ogni realtà, tanto se mi ami quanto se passi via da me;
tanto se mi tocca la tua bontà o la tua potenza, la tua misericordia o la tua giustizia. Ma
appunto perchè comunque tu ti manifesti, sei sempre l'infinita unità di ogni essere,
proprio per questo io non so mai, s'io penso alla tua infinità, che cosa tu sia per me. Se
voglio immetterti nel calcolo della mia vita, devo scrivere la cifra enigmatica della tua
infinità, in cui c'è sempre tutto e ogni cosa, e il calcolo della mia vita diventa pure un
enigma insolubile. Come posso contare sulla tua bontà se essa è il tuo santo rigore, o sulla
tua misericordia, se essa è anche la tua inesorabile giustizia? Tu mi dici sempre tutto: la
tua infinità. Ma questa parola annienta ogni consiglio del mio essere finito. E così tu sei la
perenne minaccia nella mia vita, e la fine di ogni mia sicurezza.

No, Signore, tu mi devi dire una parola che non possa significare ogni cosa e tutto ad un
tempo. Mi devi dire una parola che significhi una. cosa sola, una cosa che non sia tutto. Tu
devi, affinchè cessi da me il terrore della tua infinità, ridurre finita la tua infinita parola,
che possa entrare nella mia piccolezza, che le si adatti. senza distruggere la piccola dimora
in cui solo può vivere il mio essere finito. Allora la potrò comprendere, senza che l'infinità
tua e della tua parola metta la confusione nel mio spirito e l'angoscia nel mio cuore. Nel
tuo « verbum abbreviatum », nella tua parola rimpiccolita, che non dice tutto ma che io
posso intendere, io ritroverò ancora il respiro. Una parola umana devi assumere a tua
parola e questa devi dire, alla tua creatura. Non dire tutto quello che sei nella tua infinità:
dimmi solo che mi ami, dimmi che sei buono con me. Dimmelo, ma non nel tuo linguaggio
divino, in cui il tuo amore significa sempre l'inesorabile tua giustizia e la tua potenza
distruggitrice; dimmelo nella mia lingua, che io non abbia a temere che il nome dell' amore
nasconda in sè altro che la tua bontà e la misericordia tua dolce.

Oh Dio infinito, tu me l'hai voluta dire questa parola! Hai comandato al mare tuo infinito
di non fiottare più oltre la cinta che richiude sì, il campo del mio essere, ma anche lo
protegge nella sua piccola estensione, accanto alla tua infinità. Hai voluto che dal tuo mare
non venisse più, sopra la mia piccola povera terra, se non la mite tua rugiada. Tu sei
venuto in parola d'uomo. Poiché tu, infinito, sei il Dio di nostro Signore Gesù Cristo. Egli
ci ha parlato in parole d'uomo: e il nome dell'amore non nasconde più nulla che io debba
temere. Se egli dice che ci ama e che tu ci ami in lui, questa parola esce da un cuore di
uomo: e in un cuore d'uomo essa ha solo un significato, che è la nostra beatitudine. E se
questo cuore di uomo ci ama, il cuore del Figlio tuo, il cuore che - siine tu benedetto - è pur
finito come il mio, allora s'acquieta il mio 'Cuore. S'esso mi ama, io so che l'amore di un
cuore umano non è che vero amore e niente altro. E Gesù mi ha detto davvero ch'egli mi
ama e la sua parola è uscita dal suo cuore di uomo. E questo cuore è il tuo cuore, tu Dio di
nostro Signore Gesù Cristo. E se il cuore umano del tuo Figlio è indicibilmente più ricco e
più grande del mio, è indicibilmente più ricco solo in amore, più grande in quella bontà
che è solo bontà e amore e non cela in sè la terribile tua infinità, che è sempre tutto.
Dammi, o Dio infinito, ch'io tenga sempre in Gesù Cristo, mio Signore, la mia speranza. Il
suo cuore mi manifesti quello che tu sei per me. Al suo cuore voglio guardare, quando io
brami sapere chi tu sei. La tua infinità da sola, nella quale sei sempre tutto, abbaglia la mia
anima e mi getta in quella tenebra del tuo essere senza confini, che è più dura di ogni notte
di questa terra. E perciò io voglio guardare al cuore umano di Gesù, o Dio del mio Signore,
e allora vedrò che tu mi ami.

E ancora una preghiera: fa il mio cuore come il cuore del Figlio tuo; così largo e così ricco
di amore; che i miei fratelli... che uno almeno, nella mia vita, venga per questa via, a
comprendere che tu lo ami. Dio del mio Signore Gesù Cristo, che io ti possa trovare nel
suo cuore.

DIO DELLA CONOSCENZA

Quante cose mai sono passate per la mia anima, e per la mia mente, quante ne ho
imparate, mio Dio! Non ch'io sappia ora quanto ho imparato. Ho imparato molto, perchè
dovevo o perchè 1'ho voluto io; e in un caso e nell'altro tutto è finito al medesimo modo:
ho dimenticato. Dimenticato perchè il povero piccolo spirito non può apprendere e
ritenere una cosa senza lasciar cadere l'altra. Dimenticato perchè, forse già. nell'atto
dell'apprendere, una segreta indifferenza impediva al nuovo sapere di diventare più che
un nuovo oggetto di noia e di dimenticanza. Comunque io ho per lo più imparato «per»
dimenticare di nuovo, «per» fare anche nel sapere l'esperienza della mia povertà e degli
angusti limiti del mio spirito. E quel «per » non è un errore di lingua, che il grammatico o
il logico debba segnare in rosso. Perchè, Signore, se il dimenticare, questo cadere delle
cose, fosse solo una triste sfortuna, e non la debita fine di ogni mio sapere, di ogni scienza,
dovrei forse desiderare di sapere ancora tutto quanto ho mai imparato. Ma c'è da
inorridire a pensarci: tutte le cose che in tutte le materie scolastiche, in tutti i corsi
universitari ho udito e imparato, dovrei saperle ancora; sapere tutti gli argomenti delle
oziose conversazioni passate, tutto quanto ho visto in musei o in paesi stranieri. Che mi
potrebbe mai servire? Ne sarebbe forse più ricco, o meno vuoto, il mio spirito? Come 1arei
a possedere tante nozioni? Dovrei tenerle tutte accatastate nella memoria, a disposizione,
per tirarle fuori al bisogno? E perchè dovrei mai averne bisogno? Dovrei rivivere daccapo
tutta la mia vita! O dovrebbe essere tutto simultaneamente presente alla mia coscienza?
Ma che ci starebbe a fare tutta questa festa di cose nella mia coscienza? Molto meglio
dimenticare, mio Dio; e il meglio delle cose - che io ho mai saputo è, per lo più, che si
possono dimenticare; è che si vede chiara la povertà loro e della loro scienza.

Si dice, mio Dio - e potrei io contestarlo? - che il conoscere è una delle più alte
manifestazioni dello spirito umano, e una delle azioni più proprie della sua vita. E tu
stesso sei chiamato «Deus scientiarum Dominus » : «Signore Dio di ogni sapere». Che
devo dire io ? Non pesa contro questa affermazione l'esperienza del tuo savio antico?: «Ho
rivolto il mio animo alla ricerca della saggezza e della dottrina, dell'errore e della stoltezza,
e conobbi che anche in questo è fatica e afflizione di spirito, perchè nella molta sapienza è
molto scontento, e chi aumenta la scienza aumenta il dolore» (Eccl. 1, 17 ss.). Si dice che la
conoscenza è la via per toccare le cose nel loro cuore, la più intima maniera di possederle.
Ma a me sembra che la conoscenza tocca appena la superficie delle cose; nè mi pare che
penetri nel mio cuore, in quel centro del mio essere dove io sono veramente io; che è solo
un modo di ingannare la noia, di distrarmi dalla desolazione del mio cuore, che ha .fame
di possedere davvero le cose e la vita vera" quella vita nella quale la realtà, non nomi o
concetti, fluisca come un'onda di melodia nel mio cuore.

Veramente, mio Dio, il solo sapere è nulla, e finisce tutto nella consapevole amarezza di
non riuscire a raggiungere una comunione viva con la realtà. Solo nella sapienza
dell'amore è l'esperienza che mette il mio cuore in contatto con il cuore delle cose. Solo
questa esperienza mi sa trasformare. L'incontro con la realtà mi può trasformare solo se io
sono intero nel mio incontro, e intero sono solo nella sapienza dell'amore, non nel nudo
'conoscere; e solo allora ho raggiunto un « sapere» che è il mio stesso essere, che non è solo
un'ombra che passa sullo schermo della mia coscienza; ma resta, perchè e come io resto.
Solo quanto è vissuto, sperimentato e sofferto è un sapere che non finisce, come
un'illusione, in noia e in oblio, ma riempie il cuore con la prudente sapienza
dell'esperienza amorosa. Non quello che so escogitare, ma quello che vivo. e soffro riempie
il mio spirito e il mio cuore. E ogni dotto sapere è solo un piccolo aiuto per aprire l'animo
all'esperienza della vita, in cui solo è la sapienza.

Benedetta la tua misericordia, o Dio infinito, che io non ho solo parole e concetti di te, ma
nella mia esperienza, nella mia vita, nella mia sofferenza ti ho incontrato. Poiché tu sei la
prima e l'ultima esperienza della mia vita. Tu, non un concetto, né il tuo nome che
t'abbiamo dato noi. Tu sei sceso su di me nell' Acqua e nello Spirito del battesimo. Nessun
sapiente pensiero ho avuto allora per concepire te. Allora taceva ancora la mia mente, e
ogni presunzione del mio ingegno. E tu sei diventato la sorte della mia vita, nè m'hai
richiesto di consiglio. Tu m'hai preso; non io ti ho compreso; tu hai trasformato il mio
essere fin nella sua ultima radice, nella sua più intima sorgente; m'hai introdotto nella
comunione del tuo essere e della tua vita; ti sei donato a me; te stesso m'hai donato, non
solo una pallida, lontana notizia di te in parole umane. E io non ti posso dimenticare più,
poiché tu sei diventato il più intimo centro del mio essere. Poi che vivi tu in me, non sono
più soli fantasmi di vuote e morte parole a portare 1'eco della realtà nel mio spirito, e
stancare il mio cuore con la loro molteplicità confusa. No, nel battesimo hai parlato tu la
tua parola nella mia anima, il Verbo che fu prima delle cose, più reale delle cose, dal quale
solo ogni cosa attinge essere e vita. Questo Verbo della vita è divenuto mia esperienza, per
opera tua, o Dio munifico. E il mio spirito non si stanca di lui, perchè egli è uno e infinito;
e non mi può tediare mai il suo colloquio con la mia anima, perchè egli, eterno, solleva il
mio spirito sopra la perpetua vicissitudine delle cose che mutano, nella muta e gaudiosa
pace di sempre antico e sempre nuovo possesso del tutto nella unità. Il tuo Verbo e la tua
Sapienza è in me, non perchè io con la mia mente ti conosco, ma perchè tu m'hai
riconosciuto figlio e amico tuo. E' vero, la parola esterna, quella della « fede per l'udito»,
m'è necessaria ancora per possedere quel verbo che hai generato uguale a te dal tuo cuore
e che hai pronunciato nella mia anima. Ancora m'è oscura la tua parola viva, e, dall'ultima
profondità del mio cuore ove tu l'hai detta, risuona debole e come un'eco lontana nel
campo della mia vita cosciente, dove si muove e s'estende il mio sapere, quello che genera
lo scontento e l'afflizione di spirito e finisce nell'oblio e merita di essere obliato perchè non
giunge mai alla unità, alla vita.

Tuattavia, accanto alla pena di questo disperso sapere, è già realtà in me un altro sapere: la
tua Parola, la tua luce eterna.
Cresci in me; divampa, illumina, splendore eterno, dolce luce dell'anima. Risuona sempre
più chiaro in me, Verbo del Padre, Verbo dell'amore, Gesù. Tu hai detto che ci hai
manifestato tutto quanto hai udito dal Padre. La tua parola è vera. Poiché quanto udisti
dal Padre sei tu stesso, Verbo del Padre che conosci te stesso e conosci il Padre. E tu sei
mio, tu Verbo sopra ogni parola umana, tu luce davanti alla quale è notte ogni luce della
terra, Irradiami tu solo, parlami solo tu. E tutto quanto io so e apprendo non sia che una
guida a te, e, nel dolore che l'accompagna, poiché « chi aumenta la scienza aumenta il
dolore» (Eccl. 1, 17), mi maturi a comprendere te, e poi scompaia nell'oblio.

Allora sarai tu l'ultima Parola, l'unica che rimane e non si dimentica. Allora, quando tutto
tacerà nella morte, e io avrò consumato il mio sapere e il mio soffrire. Allora avrà inizio il
grande silenzio in cui tu solo risuoni, Parola dell'eternità. Allora sarà muta ogni parola
umana, essere e sapere, conoscere e esperienza saranno una cosa sola: « io conoscerò come
son conosciuto», comprenderò quello che tu da sempre m'hai detto: te, mio Dio. Non ci
sarà parola umana, né immagine, né concetto fra me e te; tu sarai la mia parola del giubilo
dell'amore, della vita che riempie ogni spazio della mia anima.

E sii ora pure la mia consolazione, mentre nessun sapere, mentre la stessa tua rivelazione
in parole umane non quieta la nostalgia del cuore, mentre la mia anima si stanca nelle
mille parole che noi diciamo di te, ma non possiamo raggiungerti.

Anche se la fiamma della mia mente si illumina nelle ore tranquille e ricade e si cela alla
mia vita quotidiana, anche se i miei pensieri appaiono e ricadono nell'oblìo, il tuo Verbo
vive in me, di cui sta scritto:

Il Verbo del Signore rimane in eterno. Tu sei la mia conoscenza, la luce e la vita; tu la
conoscenza e l'esperienza, tu Dio dell'unica conoscenza che è eterna e beatitudine senza
fine.

DIO DEI MIEI POVERI GIORNI

La povertà della mia vita quotidiana voglio portarti dinanzi, Signore, e la mortale
monotonia delle mie abitudini; lunghe ore, lunghi giorni, pieni di tutto fuorché di te.
Guarda, Dio mite che dell'uomo hai compassione, dell'uomo che è tutto in questa povertà ;
guarda la mia anima, ché l'infinita sagra di questo mondo consuma quasi per intero, nella
sua ridda di inezie senza numero, nelle chiacchiere, nelle curiosità, nel vuoto delle sue
faccende e del suo darsi importanza.

Non è la mia anima, davanti a te, verità intemerata, come una piazza dove dai quattro
venti tutti i rivenduglioli si danno convegno per far mercato delle povere ricchezze di
questo mondo; dove esponiamo, io e gli altri, le nostre futilità in perpetua insipiente
inquietudine?

E' proprio dell' anima essere in qualche modo « tutto», ho imparato molti anni fa, da «
filosofo». Oh mio Dio, quanto diversa esperienza ho dovuto fare di questa verità, da quello
che allora pensavo e sognavo! Un enorme magazzino è diventata la mia anima, in cui, alla
rinfusa, s'ammassa « tutto» giorno su giorno, fino a stiparlo fino al tetto.
Quale sarà la mia fine, mio Dio, se la mia vita continua così? L'ora che, improvvisa,
spazzerà dalla mia anima tutte le futilità che l'hanno ingombrata, l'ora della mia morte,
come sarà, Signore? Nulla di quanto riempie la mia vita quotidiana, nulla mi resterà in
quell'improvviso totale abbandono. Ma che sarò io allora, Signore, che sarò io quando non
mi resterà che me stesso, a me che tutta una vita sono stato vanità, cioè chiasso e
chiacchiere e affaccendarmi, e, in fondo, sempre desolazione e squallore? Quando la
pressione 'e la violenza della morte finirà di esprimere, inesorabile, dai giorni della mia
vita, dai miei lunghi anni, il loro vero contenuto, che sarà allora, Signore? Se tu m'hai usato
misericordia, mio Dio, qualche raro minuto si salverà forse nella grande delusione che
sopravverrà all'illusione dei miei giorni perduti; pochi momenti nei quali la grazia del tuo
amore s'è insinuata in un angolo del mio cuore, accanto alle infinite futilità che hanno
ingombrato i giorni della mia vita.

Ma chi mi darà di evadere dalla miseria delle mie vane sollecitudini, di rivolgere la mia
anima all'uno necessario che sei tu? Come fuggire alla forza delle mie abitudini
quotidiane? Non sei stato tu che mi hai assoggettato al loro ricorso mortificante? Non ero
già perduto e sommerso nella vanità di questo mondo quando ho cominciato la prima
volta a intravedere in te il vero senso di questa mia vita che non potevo abbandonare così
alla giostra delle mie abitudini?

Non sei tu che m'hai fatto uomo? Questo essere insoddisfatto, che, nella brama della tua
infinità, cammina e cammina incontro alle tue stelle; e s'affanna su tutte le vie della terra e
in capo a tutte le vie della terra, ecco, le tue stelle brillano mute sempre ugualmente
lontane.

E, vedi Signore, se io volessi fuggire la povertà della mia vita ordinaria, se volessi farmi
certosino per dover restare sempre, in silenzio e adorazione, alla tua santa presenza, mi
sarei con questo sottratto davvero al ricorso dell'abitudine? Se penso alle ore che ,passo al
tuo altare, o a recitare la preghiera della tua Chiesa, allora io comprendo: non le
occupazioni mondane rendono monotoni e vani i miei giorni; io sono che ho il potere di
trasformare le azioni più sante in meccanica, grigia ripetizione: io svuoto i miei giorni, non
i miei giorni me.

Io lo vedo perciò, che se una via c'è che a te mi possa condurre, essa passa attraverso le
povertà della mia vita quotidiana; altra via per rifugiarmi in te non potrei trovare che
lasciando indietro me stesso nella mia fuga. Ma si può mai giungere a te attraverso questa
povertà? Non mena lontano da te questa via, giù sempre verso il vuoto e il chiasso delle
mie faccende, nelle quali tu non abiti, tu Dio della quiete? So bene che l'agitazione
molteplice, che a uno riempie la vita e il cuore, finisce poi nella sazietà; che il « taedium
vitae» dei filosofi, la sazietà di vivere, l'ultima esperienza della vita dei patriarchi, come mi
narra la tua parola, sarà sempre più anche la mia sorte. Sì, questa mia vita quotidiana si
converte al fine nella grande melanconia della vita. Ma non la fanno anche i pagani questa
esperienza? Sono con ciò arrivato vicino a te, solo che la mia vita mostri al fine il suo vero
volto, solo che io rinnovi l'esperienza del tuo savio e confessi che tutto è vanità e afflizione
di spirito? E così, in tanta semplicità, che la mia vita ordinaria è una via verso di te? O non
è piuttosto questa l'ultima vittoria della vanità, quando il cuore è al fine esausto e
insignificanti sono anche gli interessi consueti della vita, quelli che, così familiarmente,
solevano distrarre l'uomo dalla noia, dallo squallore che gli occupava l'anima, E' più vicina
a te la stanchezza delusa che la fresca gioia di vivere? E dove ti si troverà, Signore, se le
voglie che riempiono i miei giorni ti fanno dimenticare e la disillusione non t'ha ancora
trovato, anzi affligge il cuore e lo rende .anche più inadatto al tuo incontro?

Mio Dio, se in tutto ti posso perdere, se né preghiera, né sacre solennità, nè quiete di


chiostro, se neppure la finale delusione basta a escludere questo pericolo, allora anche
tutto quanto c'è di santo, quanto sembra elevarsi sopra la vanità della mia monotona vita,
ricade nella vanità. Sì, vanità non è una parte della mia vita, la più lunga, fosse pure; ma
quanto è lunga la vita, tanto c'è in essa di vanità; tutto è vanità, che mi nasconde e mi
toglie quello di cui ho bisogno, te, mio Dio.

Ma pure se non c'è luogo dove io debba andare per averti trovato, se tutto può essere la
perdita di te, dell'Unico, allora devo anche poterti trovare in tutto; ché se no non ti
potrebbe affatto trovare l'uomo che senza di te non può essere. Bisogna allora che ti cerchi
in tutto, ché ogni creatura è vanità, e ogni creatura è un incontro con te, l'ora della tua
grazia. Tutto ti nasconde e tutto ti rivela. lo comprendo ancora quello che da tanto tempo
sapevo; ora mi rivive in cuore quello che m'ha spesso ripetuto la mia mente. Ma a che
serve la verità della mente che non diventa vita del cuore?

Mi devo ancora una volta rileggere quella pagina che ho trascritto tanti anni fa da
Giovanni Ruysbroeck: il mio cuore la comprende ancora una volta. Mi consolo sempre a
rileggere come questo uomo interiore concepiva la sua vita. E l'amore che ritrovo in me
per queste parole, anche in tanta povertà della mia vita, è come una promessa che tu
vorrai un giorno benedire anche la mia povertà. « Dio viene senza posa in noi, attraverso
le cose e senza le cose, e vuole da noi quiete amorosa e lavoro, e che l'uno 'non impedisca
l'altra, ma si fortifichino sempre a vicenda. L'uomo interiore perciò possiede la sua vita in
queste due maniere, nella quiete e nel lavoro. E in ciascun di esse egli è intero e indiviso.
Egli è tutto in Dio, godendo la sua quiete, ed è tutto in se stesso, rimanendo attivo in
amore. E costantemente riceve egli da Dio il monito e l'incitamento a rinnovare l'una e
l'altro: la quiete e l'amore. L'uomo dunque è giusto ed in cammino verso Dio mediante
interiore dilezione e costante operare; ed entra in Dio mediante la dilezione fruitiva in
pace eterna. Rimane in Dio ed esce tuttavia su tutte le creature, in amore aperto a tutto, in
virtù e giustizia. E questo è il grado supremo della vita interiore. Tutti coloro che non
possiedono « ad un tempo»quiete e lavoro, non hanno raggiunto questa giustizia. Ma quel
giusto non può essere impedito nella sua vita interiore, poiché e la quiete e l'operare ve lo
riconducono. Egli è piuttosto simile a un doppio specchio, che rispecchia dalle due facce.
Ché nella parte superiore del suo spirito l'uomo rispecchia e riceve Dio con tutti i suoi
doni, e nella parte inferiore riceve, attraverso i sensi, le immagini corporee... ».

« Ad un tempo » devo essere nella povertà delle cose e nella tua verità. Uscendo nel
mondo, rientrare prèsso di te, possedere in tutto te, l'Unico. Ma come fanno le cose a
diventare la tua verità? E' solo opera tua, Signore. Solo tu puoi fare di me un uomo. «
interiore» nella molteplicità delle occupazioni d'ogni giorno. Solo tu mi puoi mantenere,
nel mio intimo, vicino. a te, quando io esco quasi da me per essere con le cose. Non
l'angoscia, nè il nulla, né la morte mi liberano dalla dispersione sulle cose del mondo,
come van dicendo oggi i filosofi; ma solo il tuo amore, l'amore per te, tu che sei di tutte le
cose fine e attrattiva, tu beatitudine che sola basti a te stessa. Il tuo amore, mio Dio infinito,
l'amore per te, che si protende oltre attraverso le creature, attraverso il loro cuore, fin nella
tua lontananza infinita, e tutte queste perdute creature le solleva con sè, come un coro di
lodi alla tua infinità. Davanti a te diventa uno ogni molteplicità; ogni dissipazione si
raccoglie in te; ogni esteriorità ritorna alla sua interiorità nel tuo amore. Nel tuo amore
ogni uscire sulle cose diventa un ritorno nella tua unità, che è la vita eterna. Ma tu solo mi
puoi donare questo amore, che lascia alla vita quotidiana la sua povertà, e la converte
tuttavia in vita di incontro con te.

Che mi resta più da dirti, Signore, ora che mi presento così a te nella povertà mia
quotidiana? Solo una timida invocazione ancora: Il tuo amore, mio Dio, il dono che tu
sempre dispensi, il sommo dei tuoi doni. Tocca il mio cuore con la tua grazia. Quando,
nella gioia o nel dolore, tratto le cose di questo mondo, fa che, attraverso ad esse, giunga
all'amore e al contatto con te, che di tutte le cose sei l'unico primordiale principio. Tu che
sei l'amore, dammi l'amore, donami te stesso, perchè tutti i miei giorni sfocino finalmente
nell'unico giorno, che è la tua vita eterna.

DIO DEI MIEI FRATELLI

Tu m'hai mandato fra gli uomini. Caricato sulle mie spalle il grave peso dei tuoi poteri e la
forza della tua grazia, m'hai detto d'andare. Dura e quasi rude la tua parola, che mi manda
lontano da te, fra le tue creature che tu vuoi salvare, fra gli uomini. lo ho trattato, sì, già da
sempre, con loro, anche prima che la tua parola mi consacrasse a questa missione. Ho
amato di amare e di essere amato, d'essere buon amico e di avere buoni amici. E' bello star
così con :gli uomini, e facile anche. Poiché si va solo fra quelli che uno si sceglie, e vi
rimane finché ne ha piacere. Ma adesso no: gli uomini a cui io sono mandato, li hai scelti
tu, non io; né io devo essere il loro amico, ma il servo. E quando mi vengono a noia,w non
è più il segno di andarmene, come un tempo, ma il tuo ordine di rimanere.

Oh, queste creature, mio Dio, alle quali tu m'hai ;mandato, lontano da te! I più non
ricevono affatto il tuo messo, non vogliono affatto i tuoi doni, la tua grazia, la tua verità,
con cui tu m'hai loro mandato. E io devo tuttavia tornare sempre daccapo alla loro porta,
importuno come un rivenditore ambulante con le sue chincaglierie. Sapessi almeno io di
certo ch'essi vogliono rigettare te quando non mi ricevono, mi (consolerei. Ma chiuderei
forse anch'io la porta della mia vita, se uno come me venisse a bussare e dire che è
mandato da te.

E quelli poi che mi ammettono nella loro vita? Oh Signore, essi vogliono per lo più
tutt'altro che quello ch'io porto loro da parte tua: raccontarmi le loro misere piccole cose,
alleviare con me il loro cuore, liberarlo di quello sconcertante misto di commovente e di
ridicolo, di verità e di finzione, di piccoli dolori ingranditi, di grandi peccati che si cerca di
scusare. E che cosa vogliono poi avere da me? Se proprio non è iil denaro che cercano, o
un aiuto materiale, o il piccolo sollievo della compassione, mi guardano come una specie
di agente delle assicurazioni, con cui vogliono concludere un'assicurazione sulla vita per
l'al di là: che la prepotenza della tua giustizia, della tua santità, non turbi la quiete della
loro vita, non li cacci dal nido delle preoccupazioni quotidiane e delle gioie dei loro dì di
festa; vogliono essere tranquilli per questa e per l'altra vita. Com'è raro chi voglia udire
davvero, senza mutilazioni, lo sconcertante messaggio, ch'egli deve amare
appassionatamente te, non -solo se stesso, amare te, per amar tuo, non per amor proprio;
amarti non solo rispettarti e aver riguardo del tuo giudizio. Com'è raro che voglia
prendere il dono della tua grazia così com'è, rude e chiara, per tuo onore, non solo a nostra
consolazione; austera e pura, schietta e invadente.
Tali sono gli uomini a cui m'hai mandato. E non posso fuggire. L'esperienza, così, della
loro misera umana verità, non è ragione di abbandonare gli uomini; è il segno che ho
trovato il campo, sassoso, coperto di spine e calcato dal passo di mille viandanti sul quale
tu, incomprensibile prodigo Iddio, vuoi sapere ch'io ho sparso il seme della tua verità e
della tua grazia. E poi io devo guardare: il seme negli spineti, sulle strade e sui sassi,
beccato dagli uccelli dell'aria: nessun frutto. E anche dove par caduto in buon terreno, allo
spuntare, mostra che, più che della tua grazia, tiene della. terra che l'ha ricevuto: povertà e
grettezza umana. E sembra che tu solo vedi il vero frutto, il trenta, il sessanta, il cento per
uno. Che io devo sempre dubitare, se m'immagino di vederlo anch'io: non hai detto tu che
nessuno di noi sa chi è degno del tuo regno?

Se mi lamento con te di quelli a cui tu mi hai mandato, non voglio dire d'essere migliore
dei miei fratelli. Io conosco il mio cuore. E tu lo conosci meglio. Non è migliore di quello
degli uomini a cui mi presento in nome tuo. E so che proprio lamentandomi con te del
peso della missione che m'hai affidato, faccio, appunto come gli altri di cui mi lamento, il
piccino che vuole farsi consolare, che è sempre intento alle sue afflizioni, che non sa tacere,
e dimenticare, nella grandezza del tuo servizio, le proprie comodità. Ma appunto per
questo, non ho per conto mio già abbastanza da sopportare, non è il mio cuore già
abbastanza piccolo e debole, che debbano anche gli altri confidarmi il peso del loro simile
cuore?

O forse il mio cuore guarisce dalla sua miseria e si presta così, e si dona in pazienza, in
silenzio, senza lamenti; se rimane virilmente nel servizio dei fratelli per fare in questo
mondo da testimonio che il tuo cuore è più grande del nostro, che tu sei longanime e
paziente, che la tua compassione non ci disprezza, e la nostra bassezza non basta a
spegnere il tuo amore. Forse non posso aver maggior cura di me che dimenticandomi per
gli altri; e il mio cuore si alleggerisce se, giorno per giorno, porta il peso degli altri in
silenzio e pazienza. E dève essere così, se la missione che m'hai dato è la misericordia che
tu hai usato con me: tu vuoi ch'io possieda in pazienza la mia anima, portando in pazienza
quella dei miei fratelli.

Ma vedi, Signore: io vado dagli uomini, quasi a munirli degli ultimi sacramenti, portando
la tua verità e la tua grazia; busso alla porta del loro intimo, ma, se pure mi lasciano
entrare, mi dissipano poi solo con le piccolezze della loro vita quotidiana, raccontando di
sé e dei loro affari, mi mostrano tutto quanto li circonda, e parlano, parlano, per passar
sotto silenzio quello che importa per fare dimenticare, a me e a se stessi, il vero fine per cui
son venuto: portare te, mio Dio, quasi come il Sacramento, nell'intimo tabernacolo del loro
cuore, dove il loro spirito è malato a morte, dove dovrebbe essere un altare su cui arda a te
la luce della fede, della speranza e della carità. E invece m'intrattengo nel mondo dei loro
piccoli interessi quotidiani: qui :mi aprono facilmente una porta. Ma invano cerco l'adito e
quell'intimo dove si decide la sorte eterna di un uomo. Mi sembra talvolta che molti
vivano tanto alla superficie della loro vita, che non hanno essi stessi mai trovato la via a
quella intimità dove si tratta della vita, o della morte di ciascun uomo. Come potrei
trovarla io, quella via? O forse non è affatto il mio compito di trovare quella via? lo sono
forse una specie di fornitore che consegna all'ingresso di servizio i tuoi doni, senza
poter :mai entrare nel santuario intimo di un' anima; e non un messaggero che possa
entrare nella intimità dei mIei fratelli con il tuo messaggio e i tuoi doni, per curare lì,
dall'interno, ch'essi siano accolti dalla libera dilezione dell'uomo e diventino pegno di vita
eterna. Forse tu vuoi trattare nell'assoluta solitudine, nell'intimità di ogni uomo,
quest'unico incontro decisivo, e la mia missione pastorale finisce quand'io ho « fatto il mio
dovere», ho sbrigato il mio compito; e non ho affatto l'ufficio di introdurti nel cuore degli
uomini: ché tu ci stai già da sempre, tu che tutto riempi, in cui ogni uomo vive e respira, tu
che sei sempre nel cuore di ognuno, a suo giudizio o a sua salute.

Ma pure, se tu m'hai comandato di prendere cura delle anime, e non solo di fare il mio
dovere, la mia cura deve arrivare fino al cuore di mio fratello, fino al suo intimo, dove
s'accende la vita del suo spirito. E se tu sei il solo a conoscere l'adito al suo cuore, tu nella
tua grazia e misericordia alla cui mite violenza nessun cuore resta chiuso, allora io so che
tu sei la sola via per incontrare l'anima del mio fratello. Devo trovare la tua familiarità,
sempre più intima, se voglio essere più che un ospite gradito o tollerato, del mondo !
Umano dei miei fratelli, se voglio poter arrivare là dove nell'uomo è celata la luce o la
tenebra eterna. Ché tu sei più intimo della più intima solitudine dell'uomo, e la sostieni
con l'amore imperscrutabile e con l'onnipotenza a cui anche la sovrana libertà d'ogni uomo
è soggetta. E perciò solo chi sta vicino a te, Signore di tutti i cuori, può essere, come
pastore, vicino alle anime.

Così dunque non m'hai mandato veramente lontano da te, con la missione di andare fra gli
uomini; anche questa missione è una nuova forma del tuo unico precetto: che io cerchi in
te la mia dimora, nell'amore. Ogni cura delle anime in verità è possibile solo in te,
nell'amore che a te mi lega e m'introduce lì dove tu solo hai accesso, nel cuore degli
uomini. E te io trovo nell'amore, e in quella che è la vita del vero amore: la preghiera.
Avessi pregato di più, sarei più vicino alle anime. Poiché la preghiera, che non solo
'mendica i tuoi doni, ma m'introduce nel tuo cuore, non è solo un. aiuto dell'apostolato,
ma la sua prima e più vera realtà.

Signore insegnami a pregare e ad amarti. Allora dimenticherò in te la mia miseria, perchè


avrò in me quello che la fa dimenticare: l'amore paziente, che dona la tua ricchezza alla
povertà dei miei fratelli. E solo. allora sarò un fratello per gli uomini, uno che li aiuta a
trovare l'unico di cui hanno bisogno, te, Dio dei miei fratelli.

DIO CHE VIENI

Ecco, è di nuovo avvento nell'anno della tua Chiesa, mio Dio. E le preghiere della nostalgia
e dell'attesa ci escono ancora dal cuore, i canti della speranza e della promessa. E dolore e
nostalgia e fedele aspettativa s'addensano ancora nella invocazione: vieni!

Strana preghiera. Tu sei già venuto e hai piantato fra noi la tua tenda, hai diviso con noi la
nostra vita con le sue piccole gioie, la sua lunga monotonia e l'amara sua fine. A che ti
potevamo più invitare con il nostro « vieni»? Ti potevi avvicinare di più di così a noi col
tuo avvento, che sei entrato tanto nel nostro povero mondo, che non ti ritroviamo quasi
più in mezzo agli altri uomini, o Dio che ti sei chiamato il figlio dell'uomo. E tuttavia noi
preghiamo: vieni. E tuttavia questa preghiera ci sale dal cuore, come un tempo ai
patriarchi, re e veggenti, che videro solo da lungi il tuo giorno e lo benedissero. E' solo che
noi celebriamo l'avvento, o è avvento sempre in verità? Sei tu davvero già venuto? Tu
stesso, proprio quello che la nostra nostalgia voleva, quando invocavamo colui che deve
venire, il Dio forte, il padre del secolo futuro, il principe della pace, la luce e la verità e
l'eterna beatitudine? Nella prima pagina della Sacra Scrittura è già promesso il tuo
avvento, e, pure, nel suo ultimo foglio, a cui nessuno più se n'ha ad aggiungere, sta ancora
la preghiera: vieni, Signore Gesù.

Sei tu l'eterno avvento, che deve sempre venire, e non vieni mai in modo da adempiere
ogni aspettativa? Sei tu l'irraggiungibile lontananza a cui vanno pellegrini tutti i tempi e
tutte le generazioni e la nostalgia di ogni cuore, per vie che non hanno fine; sei tu il
lontano orizzonte attorno alla terra del nostro lavoro e del nostro patire, sempre
ugualmente lontano, dovunque si spinga il nostro cammino? Sei tu solo lo eterno presente,
a tutto ugualmente vicino e da tutto lontano, che comprende ogni tempo e ogni
vicissitudine nella sua indifferenza? O non vuoi tu affatto venire, poi che tu possiedi
ancora ciò che noi eravamo ieri e oggi non siamo più, e dall'eternità hai superato il nostro
più remoto futuro? Tu ci sfuggi sempre nella infinità sterminata, che riempi della tua
realtà, sempre doppiamente lontano di quanta strada abbiamo battuto, e insanguinato,
cercando la tua eternità! Ti s'è avvicinata di nulla l'umanità, da quando, da mille e mille
anni, s'aprì al dolcissimo e terribile ardimento di mettersi alla tua ricerca? E io mi sono
avvicinato a te nella mia vita, o non è ogni vicinanza che ho conquistato, in fondo, solo più
la forte amarezza che la tua lontananze mesce alla mia anima? Siamo noi condannati a
restarti sempre lontani, forse, perchè tu, Immenso, ci sei sempre vicino, e non hai bisogno
di avvicinarti a noi, nè c'è luogo alcuno a cui tu debba ancora cercare la via.

Tu mi dici che in verità sei già venuto: Gesù, figlio di Maria, è il tuo nome, e io dovrei
sapere luogo e tempo dove trovarti. Oh, perdonami, Signore; chiamalo piuttosto un
andare questo tuo venire. Ti sei velato « in forma di servo, e, trovato come uno di noi», tu,
Dio nascosto, silenzioso e inosservato, sei entrato nelle nostre file e sei andato con noi che
andiamo sempre, e non arriviamo mai, poiché ogni nostro arrivo è solo un toccare il
termine: la fine. E noi t'invochiamo tuttavia: vieni, vieni tu che non vai, che non passi mai
perchè il tuo giorno non ha sera, la tua realtà non ha fine; vieni tu perchè noi, noi siamo
sempre in questo andare, in via verso la fine.

Noi t'invochiamo perchè disperiamo di noi, e poi, più spesso, quando tranquilli e coscienti
ci rassegniamo al nostro essere finito. Abbiamo invocato la tua infinità e solo dal tuo
avvento, Dio infinito, ci è rimasta speranza di una vita infinita. Perchè gli uomini, quelli
almeno cui tu hai donato l'ultima speranza di questa vita, hanno imparato che era inutile
quello sforzo a cui ci spingeva l'angoscia della nostra impotenza, per tentare noi, effimeri,
per mille vie, di sottrarci alla sorte di questo nostro essere e arrivare a qualcosa di eterno.
Ma ogni nostro sforzo è inutile, e noi non ci possiamo rimediare da noi stessi; e perciò
abbiamo invocato su di noi la tua realtà, la tua verità, la pienezza della tua vita; abbiamo
invocato la tua sapienza, la tua giustizia, la tua bontà, la tua compassione, perchè venissi
tu a demolire i limiti in cui siamo chiusi, a cambiare in ricchezza la nostra povertà, in
eternità il nostro tempo.

E tu ci hai promesso che verresti, e sei venuto. Ma come sei venuto, e cosa hai fatto? Hai
assunto a tua propria vita una vita umana, in tutto simile a noi: nato di donna, hai patito
sotto Ponzio Pilato, fosti crocifisso, morto, sepolto. Hai assunto quanto noi fuggiamo; hai
cominciato anche tu quello che volevano finisse con la tua venuta; la nostra vita e
l'impotenza, l'intima angustia e la morte. Proprio questa natura umana hai assunto, non
per trasformarla, per eliminarla, o per divinizzarla visibilmente, o per sommergerla
almeno in quei beni che noi, come umani beni eterni, cerchiamo di strappare, con lavoro e
dolore, al campo piccolo e avaro del nostro tempo. Hai assunto la nostra vita, così com'è.
L'hai trascorsa così come noi sulla terra; e l'hai toccata con tanto riguardo, che non
versasse una sola goccia del suo dolore, della sua angustia, prima che tu la gustassi tutta. Il
rullo compressore della cieca natura è passato anche sulla tua vita, come pure la
consapevole cattiveria umana. E se dalla tua realtà umana alzavi lo sguardo a colui che
con verità e con ardente amore chiamavi padre, vedevi, come noi, il Dio delle vie
Incomprensibili, dei giudizi imperscrutabili, che porge il calice e lo £a passare così come a
lui piace. E non c'è in eterno nessun perchè che mostri i motivi di questa volontà, che
poteva volere altrimenti e ha voluto quello che è l'incomprensibile per me. Dovevi venire a
redimerei da noi stessi, e tu, unico libero e senza confini, sei diventato anche tu « come
noi». So bene che sei rimasto quello che eri, ma... non hai avuto orrore tu immortale della
nostra morte, tu infinito della nostra angustia, tu verità della nostra parvenza di essere? Ti
sei crocifisso da te alla creatura: ti sei unito, vicino e stretto, e hai assunto a tua propria vita
quello che prima" quasi lontano, avevi solo disteso come fondo oscuro alla tua luce
inaccessibile. Non è la croce del Golgota solo l'immagine visibile di quella che ti sei esteso
da te negli spazi eterni?

Questo dunque è il tuo avvento? Ed è a questo avvento che gli uomini hanno elevato
quell'unica immensa invocazione, quel coro sterminato che è la storia intera? Ché, anche
chi bestemmia invoca in questo coro. E' dunque finita la nostra miseria dacché tu hai
pianto? Non è una forma di disperazione, la più orribile, questa rassegnazione al nostro
essere finito, da quando nella tua umanità hai pronunciato con noi la tua parola di
rassegnazione? E la nostra via che non vuol finire, trova la sua fine beata solo perchè tu
cammini con noi? Ma come, Signore? Come diviene riscatto da se stessa la nostra vita, solo
perchè è diventata la tua vita? Come ci puoi riscattare dalla legge, proprio perchè sei anche
tu sotto la legge (Gal. 4,5)? La mia rassegnazione alla mia vita inizia forse la redenzione
dall'angustia che mi opprime, dacché essa è divenuta il mio amen alla tua vita umana, a
questo tuo avvento, che ha deluso ogni mia aspettazione? Che serve dunque che il mio
destino sia partecipazione del tuo, se sei tu che ti sei appropriato il mio? O forse tu hai
fatto della mia vita solo l'inizio del tuo venire, l'inizio della tua vita?

Io torno lentamente a capire, ciò che già sapevo: tu stai sempre venendo; la tua comparsa
in forma di servo è l'inizio del tuo avvento che ci redime dalla servitù che tu hai assunto.
Le strade che tu percorri hanno una fine; l'angustia in cui tu entri si apre e si dilata; la
croce che tu porti diventa il segno del trionfo. Tu non sei veramente venuto: tu vieni: dalla
tua incarnazione al compimento del tempo non è che un momento, anche se s'aggiungono
millenni a millenni per compire, benedetti da te, solo un istante di questo momento. E' il
momento unico dell'unica tua opera, con la quale tu, nella forza della tua vita umana, ci
abbracci tutti e ci riconduci in patria, nell'ampiezza della tua vita eterna. Dacché tu
t'accingesti a quest'opera, ultima della tua creazione, nulla di nuovo può accadere più, in
seno al tempo: ché in fondo al cuore delle creature tutti i tempi posano già, « poi che a noi
è giunta la consumazione dei secoli» ( 1 Cor. 10, 4) , e non c'è più che un solo tempo iu
questo mondo: il tuo avvento. E quando quest'ultimo giorno tocca il suo termine, non c'è
nessun tempo più, ma tu solo e la tua eternità.

Se sono le opere che maturano il tempo, e non il tempo che sostiene e prolunga le cose, se
solo una realtà nuova può evocare un tempo nuovo, allora un nuovo e ultimo tempo s'è
aperto con la tua incarnazione. E che potrebbe più accadere, che questo tempo non ti porti
già in seno? Che noi veniamo a partecipare di te? Sì, ma questo è appunto accaduto
quando tu ti degnasti di partecipare la nostra umana natura. Noi diciamo che tu devi di
nuovo venire. Ed è, vero. Ma non è propriamente un « nuovo» venire; poiché nella
umanità che hai assunto in eterno per. tua, non ci hai mai lasciato. Solo deve rivelarsi
sempre più che tu sei veramente venuto, che le creature sono già mutate nel loro cuore,
poi che tu le hai prese nel tuo cuore. Ma devi venire sempre più; deve manifestarsi sempre
più ciò che in fondo 'ad ogni essere è. già accaduto, deve consumarsi la falsa apparenza
che la finitudine non sia ancora libera da quando tu 1 'hai assunta a tua vita. Ecco: tu vieni.
Non un passato nè un futuro: è il presente che si adempie. E' sempre la sola ora del tuo
venire; e quando essa tocchi la sua fine, avremo fatto anche noi l'esperienza che sei venuto.
Fa che io.. viva in questo tuo avvento, affinché io viva in te, o Dio che vieni. Amen.

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