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Appunti su Gregorio Magno e Benedetto

Non abbandona infatti il nostro desiderio Colui che l’ha posto in noi (GREGORIO MAGNO, Omelia
XXIX)

Contesto storico

476: Fine dell’Impero Romano d’Occidente. Odoacre, re degli Eruli, depone Romolo Augustolo e
manda le insegne imperiali in Oriente. In Europa occidentale nascono i regni romano-barbarici: i
Franchi in Gallia (nel 496 Clodoveo si converte al cattolicesimo), i Vandali in Africa, gli Svevi e i
Visigoti in Spagna, gli Angli e i Sassoni in Bretagna. Spesso i barbari sono cristiani-ariani.

488: In Italia arrivano gli Ostrogoti di Teodorico, la capitale è portata a Ravenna, che diventa un
centro intellettuale che raccoglie anche l’aristocrazia romana (Severino Boezio).

In Oriente si afferma Giustiniano (527-565), che con la moglie Teodora, cerca di restaurare
l’imperium romanum. Grande progetto di restaurazione: chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, san
Vitale a Ravenna, Corpus iuris civilis. Cesaropapismo.

535-553. Guerra greco-gotica. L’esercito di Giustiniano libera l’Italia dal dominio ostrogoto, dopo
che nel 535 aveva conquistato l’Africa. La Sicilia bizantina è la base iniziale delle operazioni
militari dei generali Belisario e Narsete.

568. I Longobardi scendono in Italia, che viene divisa in una pars longobarda (Pavia), e una pars
bizantina (Ravenna). Roma è legata a Ravenna da uno stretto corridoio, è sempre più autonoma dal
punto di vista politico-amministrativo. Qui si trova l’origine del potere temporale del papa. Alla fine
del 500 con la regina Teodolinda i Longobardi si convertono dall’arianesimo al cattolicesimo. Così
Gregorio Magno nel suo Dialogo III racconta la discesa dei Longobardi che si stanziarono al nord e
fondarono i ducati di Spoleto e Benevento, dai quali minacciavano Roma e Napoli; nel 589 i
Longobardi di Benevento distruggono Montecassino, i cui monaci si rifugiarono a Roma.

Come una spada tratta dal fodero, queste orde selvagge si precipitarono sopra di noi e gli uomini caddero
ovunque come mietuti. Città vennero spopolate, castelli distrutti, chiese incendiate, monasteri di uomini e
donne rasi al suolo. I campi si ridussero ad un deserto, le terre squallide sono in lutto, perché non v’è chi
le coltivi. Gli stessi proprietari sono scomparsi e dove prima c’era calca di gente, abitano ora in solitudine
bestie feroci. (GREGORIO MARGNO, Discorso III, 38)

Per il papato sono anni difficili a causa del cesaropapismo orientale, della presenza degli Ostrogoti,
poi della minaccia dei Longobardi, ariani e nemici dei bizantini.

1) Nel 482 l’imperatore d’Oriente insieme al patriarca di Costantinopoli Acacio promulga l’


Enotico, un editto di unione della chiesa che tace la formula di Calcedonia. Papa Felice III non
l’accetta e scomunica Acacio. La divisione porterà nel 498 ad uno scisma a Roma, a papa Simmaco
si oppone il filo-bizantino Lorenzo. Lo scisma laurenziano terminerà nel 506, quello Acaciano nel
519 per merito del nuovo imperatore filo-calcedoniano Giustino I; ma il riavvicinamento preoccupa
Teodorico che processa per tradimento Boezio, che scriverà nel carcere La consolazione della
filosofia, e imprigiona il papa.

2) Giustiniano con l’editto i Tre capitoli, condanna post-mortem tre vescovi anti-monofisiti; si
condannò la persona e le opere di Teodoro di Mopsuestia, gli scritti di Teodoreto di Cirro contro
Cirillo, e la lettera di Iba di Edessa al vescovo persiano Mari. Indubbiamente erano scritti che
contenevano alcuni errori dottrinali, in un momento in cui il linguaggio non aveva ancora raggiunto
la chiarezza di Calcedonia; in ogni caso erano condannati vescovi che avevano fatto propria la
professione di fede di Calcedonia. Il papa Vigilio si rifiutò di accettare il decreto e viene portato a
Costantinopoli dove un Concilio lo condanna e lo scomunica nel 553. Potrà tornare a Roma solo
dopo avere accettato i Tre capitoli e morirà umiliato e malato a Siracusa.
Gregorio Magno

Apparteneva ad una delle più illustri famiglie cristiane dell’aristocrazia romana, ricca di beni e di
terre a Roma, Tivoli, Perugia e Sicilia, e da cui erano diventati papi Felice III e Agapito (morto nel
533). Nato intorno al 540 educato alla fede dai genitori Gordiano e Silvia e dalle zie paterne Tarsilla
ed emiliana, vergini consacrate al Signore, intorno al 572-574 diviene prefetto dell’Urbe, carica che
gli diede occasione di fare esperienza degli uomini e delle cose del mondo, e di mostrare le buoni
capacità amministrative. Durante la prefettura decise di ritirarsi dal mondo e di condurre una vita
monastica, trasformando il suo stesso palazzo in monastero, s. Andrea al Celio, sotto la guida
dell’abate Valentino, e fondò altri sei monasteri in Sicilia nei suoi possedimenti. Fu questo il
periodo più felice della sua vita, dedicato alla preghiera e alla contemplazione, lontano dagli
“affanni” del mondo, ma non durò a lungo. Fra il 570 e il 580 papa Pelagio II lo ordinò diacono e
lo inviò come suo “apocrisiario”, rappresentante, a Costantinopoli, per chiedere aiuti militari per
difendere Roma dalla minaccia Longobarda. Il viaggio non portò i frutti sperati, ma gli permise di
conoscere da vicino la diplomazia bizantina e stringere buoni rapporti con gli imperatori d’Oriente.
Tornato a Roma intorno al 585-586 fu segretario e consigliere di Pelagio II, alla morte del quale, nel
590, fu scelto dal popolo di Roma come vescovo della città e consacrato il 3 settembre di
quell’anno, quando arrivò la conferma imperiale dell’elezione.

Nell’accedere al pontificato, Gregorio aveva già la sua personalità, fatta di squisita umanità, di larga
esperienza, di singolare abilità nei negozi, di illuminata prudenza e di tatto nel trattare con gli uomini, di
decisione nell’affrontare i problemi. Egli aveva pure chiara coscienza della dignità pontificia, ma più per i
doveri che essa imponeva al suo titolare, che non per l’onore e preminenza che importava. Egli era,
inoltre, convinto che il supremo pastore non doveva limitarsi a guardare verso l’Oriente e l’imperatore di
Bisanzio, che del resto dimostrava di non essere in grado di difendere efficacemente Roma dagli attacchi
dei Longobardi; ma doveva ugualmente estendere il suo zelo anche ai popoli stanziati nell’Occidente,
fossero pure essi eretici o pagani, per stringerli tutti alla Sede apostolica. In virtù appunto della sua
personalità, dei doni naturali od acquisiti del suo carattere, della consapevolezza dei suoi diritti e dei suoi
doveri, Gregorio innalzò dinanzi agli occhi dei posteri l’immagine di un papa modello, che parecchi dei
suoi successori cercarono di imitare con ammirazione e venerazione, senza tuttavia riuscirvi. 1

Il suo governo è ben documentato grazie alle lettere del suo Registro, circa 800, conservate
nell’Archivio apostolico vaticano.
Il suo impegno nella potestas sulla chiesa, la sua vita attiva, fu sempre accompagnato dalla cura
della vita contemplativa.

Il buon pastore nelle occupazioni esteriori non trascura la sollecitudine per le cose dell’anima, e per
questa medesima sollecitudine delle cose dell’anima non abbandona la cura dei negozi esterni.
(GREGORIO MAGNO, Regola pastorale, II, I)

Sollecitudine pastorale verso l’Italia e l’Africa. Nella prima settimana dopo la sua elezione indisse
una processione penitenziale, cui partecipò tutto il popolo di Roma fino a Santa Maria Maggiore per
porre fine alla pestilenza; poi scrisse subito al pretore della Sicilia per sollecitarlo ad affrettare
spedizioni di grano superiori al normale per combattere la fame. Curò la nomina e la dignità dei
1
V. MONACHINO, «Il papato tra Bizantini e Longobardi (556-795)», in I papi nella storia, I. Da san Pietro a Innocenzo
VIII, Roma 1961, 182-183.
vescovi della sua metropolia, Italia centrale e meridionale, inviando visitatori, reprimendo abusi,
imponendo penitenze e, a volte, deponendo episcopi. Richiamò il vescovo di Ravenna Mariniano,
monaco di Roma, troppo preoccupato del patrimonio della sua diocesi, a dedicare più tempo alla
cura delle anime e a sopperire ai bisogni dei poveri. Nel 598 scrisse all’arcivescovo di Cagliari
Gennaro chiedendogli di restituire la sinagoga, occupata con la forza dai cristiani, ai giudei, che
dovevano essere convertiti con «soavi ammonimenti e amichevoli colloqui», non con la forza.
Sottrasse la Corsica al paganesimo e vi organizzò la chiesa. Fu viva in lui la preoccupazione per le
chiese d’Africa, dove per la mediocrità dell’episcopato e del clero, il donatismo si stava
riorganizzando. Chiese all’impero di applicare le leggi contro gli eretici e furono tenuti diversi
concili in Numidia, e nel 594 a Cartagine al fine di combattere l’eresia. In questo suo impegno suoi
maggiori collaboratori furono il suo notaio Ilaro, rettore del patrimonio romano in Africa, e il
vescovo numida Colombo. Con la sua opera il donatismo fu definitivamente sconfitto. Il primato di
Roma con Gregorio Magno per la sua autorevolezza e il suo zelo pastorale, fu riconosciuto nella
teoria e nella pratica dai vescovi d’Italia e dell’Africa Bizantina.

Relazioni con le chiese orientali. Gregorio intervenne spesso sui quattro patriarcati orientali,
incoraggiandoli a correggere abusi e accogliendo appelli provenienti dalla chiese di oriente. Fece
ciò con la piena consapevolezza del primato spettante alla Santa Sede, definita da lui

Capo di tutte le Chiese, preposta per autorità di Dio sopra tutte le Chiese, capo della fede; a sé è stata
ingiunta la sollecitudine per tutte le chiese, perché è stata chiamato al governo della Chiesa Universale.

In genere il suo primato fu riconosciuto dagli altri patriarchi; lo scontro si ebbe invece con il
patriarca di Costantinopoli per il suo uso del titolo di “patriarca ecumenico”. Gregorio scrive
all’imperatore che lo aveva invitato a riconciliarsi con il patriarca:

Il precetto dei piissimi sovrani non deve colpire me, ma colui che con disprezzo nega obbedienza alle
prescrizioni canoniche, che reca ingiuria alla Santa Chiesa universale, che ha il cuore gonfio di superbia,
che brama farsi innanzi con titoli singolari, che s’innalza sopra la stessa dignità del vostro impero a
cagione di un privato vocabolo. Ecco, ne siamo tutti scandalizzati. L’autore dello scandalo ritorni sulla
retta via e cesserà ogni dissenso tra sacerdoti.

E al suo apocrisario Sabiniano:

Io procederò per la via diritta, non altri temendo in questa cosa se non Dio onnipotente … Quanto devi
fare in questa cosa, fa’ tutto con piena autorità e senza riguardi.

Il titolo servus servorum Dei, non introdotto nel suo pontificato, lui stesso l’aveva usato prima di
diventare papa, ma da lui stabilmente adottato, probabilmente aveva come scopo anche la polemica
contro la superbia del patriarca di Costantinopoli.

La valorizzazione dei patrimoni. Grande attenzione dedicò Gregorio all’amministrazione dei


numerosi patrimoni della chiesa, donati ai Santi Pietro e Paolo, in Sicilia, i più vasti, Campania,
Bruzzio, Sardegna, Corsica, Africa, Gallia, Dalmazia e nelle regioni occupate dai Longobardi. I
fondi erano divisi in massae, e queste in patrimonia, il più ricco era quello siciliano che venne
diviso per la sua vastità nel “patrimonio siracusano” e nel “patrimonio panormitano”. Ogni
patrimonio, che prendeva il nome dalla regione, era retto da un “rettore”, nominato dal papa,
generalmente un suddiacono della chiesa chiesa romana, coadiuvato da altri chierici inferiori.
Gregorio lo faceva giurare presso la tomba di san Pietro di adempiere con coscienza e carità il suo
ufficio, e controllava minutamente la sua amministrazione, dando anche consigli ed istruzioni per
migliorare la rendita del patrimonio. L’amministrazione doveva essere ispirata ai principi della
giustizia e della carità, e non essere contaminata da turpi guadagni. Se i coloni erano stati
defraudati, ordinava al rettore di restituire loro quanto indebitamente tolto. Al suddiacono Pietro,
rettore del patrimonio siciliano, scriveva:

Considera la maestà del Giudice futuro, restituisci tutto ciò che è stato tolto con peccato, sapendo che mi
porti un gran guadagno se raccogli benedizioni piuttosto che ricchezze.

Grazie alla migliorata amministrazione, crebbe di molto la resa del patrimonio della Chiesa romana,
mettendo così a disposizione del papa i mezzi, in denaro e in natura, di cui aveva urgente bisogno per far
fronte ai grandi bisogni del tempo. Giacché, oltre alla consueta assistenza dei poveri iscritti nei registri
della Chiesa romana, bisognava allora soccorrere l’indigenza di ecclesiastici e di monaci e monache,
aiutare nobili decaduti e vecchie matrone cadute in miseria, riscattare i cittadini caduti in mano ai
Longobardi, sostentare i rifugiati a Roma dalle regioni invase. A ciò si aggiunga, che anche il
vettovagliamento della popolazione romana e dei dintorni poté essere assicurato solo attingendo ai granai
della Chiesa; che il papa dovette spesso pagare o almeno anticipare il soldo alle truppe e sborsare grandi
somme come tributo ai Longobardi. Inoltre, Gregorio applicò le entrate dei patrimoni per il restauro delle
vecchie chiese e la costruzione di nuove, per l’impianto e sostentamento di monasteri, ospedali, ospizi di
orfani e di pellegrini; e ciò non nella sola Italia, ma dovunque vi fosse miseria da soccorrere ed opere
buone da sostenere. I beni della Chiesa furono allora veramente il patrimonio dei poveri; e Gregorio
poteva anche chiamarsi, in una lettera all’imperatrice Costantina, il saccellarius dell’imperatore per la
città di Roma. È naturale che tutta questa opera assistenziale, resa possibile dai ricchi possedimenti della
Chiesa romana, ma realizzata dalla mente e dal cuore di Gregorio, gli procurasse un grande ascendente ed
un influsso preponderante nella vita e nel governo stesso di Roma. Egli fu riguardato come il vero
governatore della città, dinanzi alla cui potente personalità impallidivano le figure del prefetto e degli altri
magistrati cittadini.2

Il problema dei Longobardi. Di fronte al grande problema dei Longobardi, che travagliava Roma e
l’Italia, Gregorio Magno tenne una posizione diversa da quella dell’Imperatore e dell’esarca di
Ravenna. Mentre i Bizantini vedevano nel popolo del nord solo barbari e predoni da sottomettere e
sterminare, senza averne la forza, invece il Vescovo di Roma vedeva in loro un popolo da
convertire dall’arianesimo e cercò di favorire la pace attraverso l’opera di mediazione e il rapporto
di amicizia con la regina Teodolinda, che fece battezzare secondo il rito cattolico il figlio Adaoaldo,
e a cui inviò reliquie dei martiri romani per la basilica di san Giovanni Battista di Monza, fatta
costruire dalla regina. Nel 592 e nel 593, di fronte all’assedio di Roma da parte del duca Ariulfo di
Spoleto e del re Agilulfo, Gregorio Magno, con la sua collaborazione nella strategia militare con i
generali Bizantini e con l’opera di mediazione, per mezzo del pagamento di una somma di denaro,
salvò l’Urbe dalla minaccia. Nel 595 rispose ad una lettera dell’imperatore, che lo accusava di
ingenuità e negligenza per il suo presentare una possibile pace con i Longobardi, e minacciava su di
lui il giudizio divino:

Nella sua serenissima lettera la pietà del sovrano, facendo mostra di volermi usare indulgenza, non mi ha
punto risparmiato; giacché egli usa si l’urbana parola di semplicità, usata in senso buono nella Sacra
Scrittura, in quanto spesso la semplicità è unita con la prudenza e la rettitudine … Ma se io, perché
ingannato dall’astuzia di Ariulfo, son designato come semplice, senza alcuna aggiunta, è chiaro che son
chiamato sciocco; ciò che io stesso riconosco essere la verità. Se la vostra pietà lo tacesse, lo griderebbero
2
Ibidem, 190.
i fatti. Giacché se non fossi stato uno sciocco, non mi sarei indotto a sopportare tutti i malanni che soffro
adesso tra le spade dei Longobardi. Quanto a ciò che ho affermato riguardo ad Ariulfo, essere cioè egli
disposto a passare dalla parte dell’Impero, poiché non mi si crede, mi si rimprovera d’avere mentito.
Questa è un’ingiuria grave per un sacerdote, anche se io non merito di essere sacerdote, se lo si accusa, lui
che serve alla verità, di menzogna … E invero, se la cattività della mia terra non s’aggravasse di giorno in
giorno, io tacerei, lieto del disprezzo e dell’insulto contro la mia persona. Ma questo mi addolora
profondamente, che mentre non si crede affatto ai miei suggerimenti, l’Italia è quotidianamente ridotta dai
Longobardi a più dura schiavitù; mentre non si bada ai miei consigli, le forze dei nemici crescono
paurosamente. Ciò tuttavia suggerisco al piissimo sovrano: che creda di me tutto il male che vuole, ma
quando si tratta del bene dell’Impero e della salvezza dell’Italia, non presti facilmente le pie orecchie alle
chiacchiere di chicchessia, ma creda più ai fatti che alle parole. Verso i sacerdoti poi, a cagione della sua
potenza terrena, non si sdegni troppo presto il signor nostro; ma riflettendo di chi essi siano i servi,
eserciti sopra di essi il suo dominio in modo da rendere loro anche la debita riverenza … Non dico questo
per me, ma per i sacerdoti. Io sarò un misero peccatore e poiché ogni giorno incessantemente manco
verso l’Onnipotente Iddio, spero che mi sia di qualche sollievo nel tremendo giudizio, se ogni giorno sono
colpito da percosse incessanti.

L’opera verso i Longobardi di Gregorio Magno porterà alle tregue del 598 e 603, e porrà le bassi
per la futura conversione al cattolicesimo del popolo barbaro, nei primi decenni del 600, contrastata
dalla resistenza dei circoli ariani sempre presenti.

L’azione di Gregorio nella questione longobarda è della massima importanza anche per altri capi. Essa ci
mostra il papa svolgere la funzione di arbitro tra Bizantini e Longobardi, e sebbene i primi si siano in un
primo tempo rifiutati di riconoscergli tale funzione, finirono poi per accettare la sua mediazione. Inoltre,
il papa diviene il rappresentante degli interessi di Roma e dell’Italia, «la sua terra», dinanzi a tutti gli
stranieri, siano essi gli invasori venuti dal settentrione, che i padroni che inviano ordini dall’Oriente, ma
che alla prova dei fatti si dimostrano ogni giorno più incapaci di difenderla. E sebbene egli sia sempre
rimasto il suddito devoto e fedele dell’imperatore e non abbia mai pensato a sottrarre Roma e l’Italia alla
sua soggezione, di fatto a posto le basi per i futuri sviluppi e per le future iniziative dei successori in
questo senso; giacché quello che Gregorio, in virtù della sua potente personalità, aveva fatto in una
situazione particolarmente grave, fu preso in circostanze analoghe a modello dai papi che gli successero. 3

Cura per le chiese nei regni d’Occidente.

Spagna. Papa Gregorio accolse con gioia la notizia della conversione al cattolicesimo del re
Reccaredo nel 587 e l’abiura dell’eresia ariana di tutti gli ecclesiastici spagnoli nel concilio di
Toledo del 589. Rispose alla lettera del re, che si sentiva a lui legato dalle «catene dell’amore»
sebbene «diviso dai mari», inviando reliquie e consigli per il governo. Mandò il pallio al vescovo
Leandro di Siviglia, e rispose alle sue interrogazioni. I contatti e le relazioni fra Roma e la chiesa di
Spagna furono rari, per la lontananza, ma significativi, e dimostrano come la chiesa visigota non fu
mai una chiesa nazionale, come a volte la storiografia afferma. Nella penisola iberica l’istituto
conciliare provvide e reprimere gli abusi, alla cui correzione nelle altre regioni furono diretti gli
interventi dei papi.

Gallia. Di fronte alla chiesa in Gallia, cattolica dal battesimo del re Clodoveo nel 496, ma in
decadenza per gli abusi, la simonia, gli scontri civili fra i vari principi e re, l’immoralità del clero,
Gregorio tentò di intervenire nominando Virgilio di Arles Vicario apostolico su tutte le Gallie,
intrattenendo una corrispondenza epistolare con il re Childeberto d’Austrasia e la regina
3
Ibidem, 194.
Brunechilde, e insistendo per la convocazione di un concilio, che si radunò a Parigi solo nel 614. Se
la sua sollecitudine non portò grandi frutti immediati, le sue frequenti relazioni con i potentati
franchi, in particolare con la regina Brunechilde, servirono come appoggio alla più grande conquista
della Chiesa in questo tempo, ossia alla conversione degli Anglosassoni.

Anglosassoni. La conquista degli Anglosassoni alla fede fu un merito indiscusso e personale di


Gregorio. Prima di diventare papa aveva manifestato a Pelagio II il desiderio di andare in Britannia
come missionario, dopo che aveva visto dei fanciulli angli, ancora pagani, nel mercato di Roma.
Nel 596 mandò in missione in Inghilterra Agostino, priore del monastero di san Andrea al Celio,
con quaranta compagni. I missionari, arrivati in Gallia, perdettero coraggio, e inviarono Agostino
alla volta di Roma a chiedere di essere dispensati da una impresa così pericolosa. Gregorio rimase
fermo nel suo proposito; nominò Agostino abate del drappello di monaci, inviò una lettera di
conforto per i suoi compagni e lettere commendatizie per i re Teodoberto, Teodorico e la regina
Brunechilde; sovrani che risposero all’appello del papa aiutando i missionari e fornendoli di
interpreti.
Sbarcarono nella piccola isola di Thanet, alla foce del Tamigi, che faceva parte del regno di Kent e
furono accolti dal re Etelberto, sposato con la principessa franca Berta, nipote di Brunechilde,
cattolica, che aveva presso di sé un cappellano per la celebrazione dell’eucarestia. Il re concesse il
permesso di predicare la nuova religione e la vigilia della Pentecoste del 597 ricevette egli stesso il
battesimo, seguito da molti sudditi; cedette il suo palazzo reale a Canterbury ad Agostino, come sua
residenza, fece riedificare un’antica chiesa in onore del Santo Salvatore, ed erigere vicino alla città
il monastero dei ss. Pietro e Paolo. Nella solennità del Natale Agostino, che intanto si era recato ad
Arles a ricevere l’ordinazione episcopale dall’arcivescovo Virgilio, donò il battesimo a più di
diecimila Angli. Gregorio rafforzò la missione inviando i monaci Mellito, Giusto, Paolino e
Rufiniano, tutti santi vescovi, ed organizzò la nuova Chiesa in due provincie ecclesiastiche, aventi
come centro Londra e York, con dodici sedi vescovili ciascuna; Agostino, a cui Gregorio inviò il
pallio, sarebbe rimasto fino alla sua morte l’unico capo di tutta la Chiesa d’Inghilterra.

Molto importanti poi sono le istruzioni, che egli [Gregorio] diede in risposta alle interrogazioni di
Agostino ed in altre lettere, e riguardavano la casa episcopale, la disciplina del clero, gli usi liturgici, le
relazioni coi vescovi galli e bretoni, casi matrimoniali, la destinazione a chiese dei templi pagani e la
cristianizzazione delle feste e baldorie popolari già in uso in onore degli idoli. Tutte portano l’impronta
del suo senso pratico e delle sue doti di governo, e soprattutto della sua moderazione e larghezza di
spirito.4

Opera liturgica e letteraria.

Sacramentario. Riordinò tutta la liturgia della Messa, soprattutto riducendo i brani liturgici, prefazi
e varianti del canone, molto numerosi nell’anteriore Sacramentario gelasiano.

4
Ibidem, 197.
Antifonario. Contiene i canti da eseguirsi durante la Messa, e durante il ciclo dell’anno liturgico.
Riprende canti in uso nella Chiesa di Roma, aggiungendone dei nuovi. La revisione non si limitava
al testo dei canti, ma si estendeva anche alla melodia, donde la denominazione di «gregoriano» data
al canto della Chiesa romana.

La liturgia «gregoriana» per la grande autorità di Gregorio Magno e la diffusione del monachesimo
benedettino si diffuse in tutta la cristianità; in particolare in Inghilterra fu introdotta dai monaci
missionari.

Liber regulae pastoralis. In quattro libri è dedicato all’arcivescovo Giovanni di Ravenna, che lo
aveva dolcemente rimproverato per avere tentato e desiderato di fuggire il peso dell’ufficio di
pontefice. Vi si traccia il programma di vita del pastore, dimostrando come il pastore debba
prepararsi al grave ufficio della direzione delle anime, che è l’ «arte delle arti»; come egli debba
vivere, di quali virtù debba essere dotato e quali difetti fuggire; come deve insegnare, adattando la
predicazione ai bisogni e alle disposizioni dei suoi uditori, animato dalla carità e ricco della sua
esperienza; come, dopo avere insegnato agli altri, il pastore debba vedere come pratichi egli stesso
il suo insegnamento. Il libro, terminato nel 591, ebbe subito una larga diffusione e una traduzione in
greco fatta dal patriarca Anastasio d’Antiochia. Il centro della vita del pastore è la virtù dell’umiltà,
a cui è dedicato il capitolo finale, concepita come imitazione di Dio che si è fatto servo degli uomini
in Gesù.

È dunque necessario, quando siamo accarezzati dal pensiero di avere raggiunto una grande virtù, riflettere
alla propria debolezza e desiderare l’umiltà che salva: tener conto cioè non del bene compiuto ma delle
negligenze ammesse, così che il cuore,pieno di contrizione al ricordo della propria debolezza, si fortifichi
nella virtù, davanti all’Autore dell’umiltà. Il Signore onnipotente infatti, benché di solito sia largo di doni
verso coloro che ha chiamato a dirigere le anime, lascia in loro delle piccole imperfezioni, perché provino
la tristezza di chi, pur nel possesso di grandi virtù, sa di avere ancora dei difetti, e perciò, mentre cerca du
superarli, non cede all’orgoglio pensando di avere dei grandi meriti, ma riconoscendosi sempre peccatore,
non osa agire con superbia neppure sapendo di avere compiuto azioni veramente grandi. Ecco, venerabile
confratello [Giovanni, arcivescovo di Ravenna, a cui l’opera è dedicata], che, spinto dalla necessità di
rispondere al tuo rimprovero e desideroso di mostrare come debba essere un pastore, ne ho delineato, da
inesperto artista, i tratti ideali: cerco di condurre gli altri ai lidi della santità mentre io stesso sono ancora
tra i flutti dei miei peccati. Nel naufragio di questa vita, mi sostenga però, ti prego, la tavola di salvezza
della tua preghiera, e se il peso dei miei peccati sta per sommergermi, mi salvi con pietà la tua mano
piena di meriti. (Liber regulae pastoralis, 4, I)

Divenne il libro spirituale più universalmente letto dall’episcopato e dal clero, e in tutto il Medioevo si
tenne in conto di codice proprio dei vescovi e dei sacerdoti, né più né meno della Regula di s. Benedetto,
che era il codice dei monaci.5

Expositio in librum Job, sive Moralium libri XXX. L’opera iniziata durante la dimora a
Costantinopoli, sotto forma di omelie ai monaci suoi compagni, e dedicata al vescovo Leandro di
Siviglia, fu portata a termine nei primi anni del pontificato. Gregorio commenta il libro di Giobbe
secondo tre significati: storico, allegorico e morale. Nel Medioevo fu considerato un testo di
riferimento come compendio di morale. L’esegesi nasce dalla vita ed ha come scopo l’alimentare la
vita morale, non è mera conoscenza critica; da qui la grande importanza data al senso e
all’insegnamento morale.

5
Ibidem, 199.
Omelie sopra i Vengeli. Pubblicato nel 593, raccoglie quaranta discorsi di Gregorio, tenuti in
diverse circostanze.

Omelie sul profeta Ezechiele. Comprende ventidue discorsi presentati in diverse ricorrenze.
L’ultimo fu interrotto dall’arrivo di Agilulfo sotto le mura di Roma nel 593.

Il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore, potrà così arrivare all’orecchio del
prossimo. (Omelie su Ezechiele)

Dialoghi
Testi
Il giudizio degli storici

Non che i papi di questo periodo non fossero stati capaci di fare fronte, talora anche brillantemente, alle
situazioni spesso difficili che si erano trovati a dovere affrontare. Ma ... ciò che li accomuna è
giustamente la scarsa attitudine a porsi al di sopra degli eventi, padroneggiandoli sotto il profilo in senso
lato culturale, come aveva dato prova di saper fare Gregorio Magno, in giorni non certo più facili di quelli
che sarebbero venuti dopo di lui. Perché il vero discrimine non passa, come ci suggerirebbe un facile
moralismo semplificatorio, fra papato temporale e papato spirituale - Gregorio stesso era stato un uomo di
governo, nel senso pieno del termine, con tutte le difficoltà e le contraddizioni che ciò non poteva non
comportare per chi restava in prima istanza un uomo di Chiesa - ma fra un papato immeschinito nella
dimensione del temporale, ridotto a coincidere con essa, e un papato capace di signoreggiarla, affrontando
a viso aperto e con spirito d'inventiva i rischi comunque inerenti all'impresa. (G. ARNALDI, Natale 875.
Politica, ecclesiologia, cultura del papato altomedievale, Roma 1990, 17)

Di questa cambiata situazione il sustrato era, come dicemmo or ora, la sopravvenuta dominazione
longobarda la quale riducendo, da una parte, a nulla l’egemonia bizantina, e d’altra parte, non fondendosi
mai con gli italiani, creava a questi una posizione a parte, quella di un terzo ente sempre più distinto, non
più dominato da Bisanzio, non assorbito dai longobardi, minacciato sempre da ambedue, ma ormai tale
che, sopravvenendo per esso un uomo superiore, poteva aprirsi la strada fra i due nemici. E, al momento
provvidenziale, sopravvenne non un uomo superiore, ma un genio: Gregorio Magno. Questo nobile
romano autentico venne al cleri calato dagli uffici civili, come Ambrogio. Egli fu pretore a Roma al
tempo di Tiberio II. Tutto compreso dal sublime ideale della religione, che gli fornì una vera mentalità
cattolica, cioè religiosamente universale, piena di zelo apostolico, Gregorio era veramente l’uomo degno
di essere per comune acclamazione nominato successore di Pietro. In lui risplende la soprannaturale verità
della sentenza apostolica: «la pietà è utile a tutto», la pietà, ben s’intende, soda e illuminata. Quell’uomo
piissimo che sognava la quieta vita monacale, che non intese far mai della politica ma soltanto compiere il
suo ministero di verità, di giustizia, di carità, fu il solo grande politico del suo tempo, prendendo la parola
«politico» nell’alto senso storico che meglio le si possa attribuire. Storici anticattolici hanno
tendenziosamente detto di lui, ch’egli fondò il papato romano; che quel vescovo di Roma fu il primo
papa. La verità storica è che il primo Papa fu S. Pietro; ma è vero altresì che Gregorio Magno stampò nel
mondo cristiano la più vasta orma papale che mai fosse veduta sino allora e che, almeno in un certo senso,
mai più si vedesse in avvenire. La sua prodigiosa attività, di cui fu strumento la sua cosmopolitica
corrispondenza, tenne nella sua mano le fila di tutto l’orbe cattolico ed abituò questo a volgersi
costantemente a Roma per ogni contingenza morale e materiale. Quanto all’Italia Gregorio ne fu il vero
sovrano morale; i longobardi stessi lo sentirono e trattarono con lui come tale. Quando la sua
corrispondenza epistolare ci elenca le sue lettere «militari», con le quali ordina ai vescovi della penisola e
delle isole di armare la milizia cittadina, di far buona guardia, di non esentare alcuno dal servizio di
sentinella, e quando tratta con le corti di Pavia e di Bisanzio per salvare la straziata Italia, la sua figura di
«sovrano» eclissa quella degli altri coronati. Ed in mezzo a questo nimbo di gloria civile il santo
Pontefice passa tutto assorbito dalla sua missione religiosa. In lui splende la parola di Cristo che nessuno
mai deve dimenticare, dal suo Vicario all’ultimo fedele: «Cercate in primo luogo il regno di Dio e la sua
giustizia, ed avrete di sovrappiù tutte queste cose». Gregorio che visse e morì persuaso di essere,
politicamente un cittadino dell’impero romano, e che scriveva ai suoi «signori» gl’imperatori di
Costantinopoli come il suddito più leale, fu quegli che gettò le allora non viste fondamenta non solo dello
Stato papale ma della egemonia politica dei grandi Pontefici medioevali. Tra Gregorio Magno e Gregorio
VII vi è una enorme differenza di contegno politico, ma tale diversità è data molto più dal diverso
ambiente che non dalla mentalità fondamentale dei due grandi Gregori. L’ultimo è l’evoluzione logica del
primo. (U. BENIGNI, Storia sociale della Chiesa, III. La crisi della società antica. Dalla caduta alla
rinascita dell’Impero romano, Roma 1922, 153-154)
Il pastore

Non si può insegnare un’arte senza averla appresa con un’assidua applicazione. Perché dunque alcuni
osano assumere, senza preparazione, il magistero pastorale, se la direzione delle anime è la suprema delle
fra le arti? Chi non sa che le ferite dello spirito agiscono più nell’intimo che quelle dei visceri? Tuttavia
spesso chi non ha mai conosciuto le leggi dello spirito, non teme di presentarsi come un medico delle
anime, mentre si vergognerebbe di essere considerato medico dei corpi ignorando la virtù delle medicine.
Anzi siccome per divina disposizione, ora tutti i potenti tendono a mostrarsi ossequienti alla religione,
alcuni nella santa Chiesa approfittano del ministero pastorale per cercare onori, bramano di essere
considerati maestri e di stare al di sopra di tutti e, come attesta la Verità, ambiscono i primi saluti nelle
piazze, i posti distinti nei conviti, i primi seggi nelle riunioni: costoro non possono esercitare degnamente
il ministero pastorale che hanno assunto, perché sono arrivati ad un magistero di umiltà solo per impulso
dell’orgoglio. […] l’ignoranza dei pastori è un castigo per le colpe dei sudditi perché, pur essendo motivo
di condanna per loro il non possedere la scienza, tuttavia il severo giudizio di Dio dispone in questa loro
ignoranza un’occasione di inciampo per chi li segue. Nel Vangelo infatti la Verità stessa esclama: se un
cieco guida un altro cieco, entrambi cadono nella fossa (Mt 15, 14). Per questo il Salmista, non per un
desiderio di vendetta ma nell’esercizio del ministero profetico, li minaccia esclamando: si offuschino i
loro occhi così da non vedere, e piega sempre più il loro dorso (Sal 68, 24). Gli occhi indicano coloro che
posti in luoghi di altissima dignità hanno accettato il compito di indicare il cammino; quelli che li
seguono con la loro adesione sono designati dal dorso. Offuscati gli occhi, il dorso si piega, perché
quando chi sta davanti perde il lume della scienza, subito si piega sotto il peso delle colpe chi cammina
dopo di lui. (Regola pastorale, 1, I)

Spesso le cure pastorali tengono l’anima impegnata in tante cose, e si diventa incapaci di attendere a tutto
con mente assorbita da troppe ansie. Il Saggio ce lo vieta con sapienti parole: figlio mio, non impegnarti
in troppe cose (Qoèlet 2, 10). Quando infatti la mente è distratta da tante preoccupazioni, non può
applicarsi pienamente ai singoli campi della sua attività. Se l’assillo nell’agire è troppo grande, l’anima
non ha più la forza che le proviene dal raccoglimento interiore: attenta solo a disporre la realtà in cui è
impegnata, ma dimentica di se stessa, sa ben disporre di tante cose ma non provvede a sé. Quando infatti
si dà all’attività esteriore più di quanto è necessario, si comporta come chi dimentica la meta perché
troppo impegnato lungo la via; così non preoccupandosi di esaminare se stessa, non si rende conto dei
danni che subisce e non avverte la gravità delle colpe. (Regola pastorale, 1, IV)

Alcuni, come si diceva, dotati di qualità egregie, sono presi da ardori di contemplazione e rifuggono dal
rendersi utili al prossimo, per amore della pace nella solitudine e per il gusto dell’intima meditazione.
Giudicandoli con severità dovremmo dire che costoro sono davvero colpevoli, perché avrebbero potuto
fare del bene al prossimo impegnandosi nella vita attiva. Con quale animo chi possiede grandi virtù per
fare del bene al prossimo potrà anteporre la quiete della propria vita al bene degli altri, quando
l’Unigenito stesso dell’Onnipotente venne dall’Eterno Padre in mezzo all’umanità per l’universale
salvezza? (Regola pastorale, 1, V)

Una pastorale non ideologica

L’esortazione va proporzionata ai vari tipi di situazioni umane. Ci sono infatti gli uomini e le donne, i
giovani e i vecchi, i poveri e i ricchi, i soddisfatti e gli scontenti, i sudditi e i prelati, i dipendenti e i
padroni, i dotti e i tardi, gli invadenti e i timidi, gli orgogliosi e i pusillanimi, i pazienti e gli impazienti, i
benevoli e gli invidiosi, i semplici e i perfidi, i sani e gli ammalati, quelli che temono i castighi e
conducono per questo una vita innocente e quelli talmente ostinati nel male che neppure i flagelli riescono
a farli ravvedere, quelli che amano fin troppo il silenzio e i ciarloni, i pigri e gli avventati, i mansueti e gli
iracondi, gli umili e i superbi, gli ostinati e gli incostanti, i golosi e i temperanti, i generosi nel donare e i
rapaci, quelli che non vogliono le sostanze degli altri ed anche sanno elargire qualcosa e quelli che
donano di quel che hanno e poi rubano agli altri, i litigiosi e gli spiriti quieti, i seminatori di discordie e i
pacifici, quelli che non sanno intendere la Legge divina e quelli che pur penetrandone il senso non sanno
esporla con umiltà, alcuni veramente esperti nel ministero della predicazione ma timorosi di esercitarlo
per esagerata umiltà, altri invece per cui sarebbe meglio astenersi a motivo dell’età o dei difetti e che
vogliono invece ad ogni costo esercitarlo, i fortunati nell’accumulare ricchezze di cui sono desiderosi e i
perseguitati dalle avversità che impediscono loro di ottenere i beni terreni a cui pure aspirano, gli sposati
e i celibi, gli esperti nella vita sessuale e quelli che non ne sanno nulla, chi piange peccati di opere e chi di
pensiero, chi deplora gli sbagli compiuti ma continua a ricadervi e chi si distacca ma senza provarne
dolore, chi compie il male con la pretesa di trarne gioia e chi invece si accusa dei peccati fatti ma non li
evita, i peccatori che diventano tali per un improvviso assalto della passione e quelli che si danno al male
con una scelta consapevole, quelli che compiono spesso delle mancanze per quanto lievi e altri che sanno
astenersi dalle piccole colpe per cadere ogni tanto in quelle gravi, alcuni che neanche si mettono sulla via
del bene e altri che non sanno neppure per breve tempo perseverare, alcuni che compiono il male di
nascosto e il bene in pubblico, altri che tengono segreto il bene che fanno e tuttavia, per certi
atteggiamenti che assumono, finiscono per incorrere nella pubblica disistima. (Regola pastorale, 3, I)

Tutto questo è simboleggiato nella vicenda di Lot che fugge da Sodoma in fiamme, ma, giunto vicino a
Segor, non si ritira subito sui monti. Fuggire da Sodoma in fiamme significa comprimere gli ardori illeciti
della carne. L’altezza dei monti indica la purezza di chi vive casto, e su queste vette stanno coloro che nei
rapporti coniugali hanno di mira la trasmissione della vita e non la voluttà carnale. Stanno dunque sui
monti coloro che cercano nell’unione coniugale il frutto della prole e, pur in un rapporto carnale, non si
comportano secondo la carne. Molti però, anche senza macchiarsi di colpe sensuali, vivono nel
matrimonio non limitandosi all’uso puramente necessario dei diritti coniugali. Costoro sono rappresentati
da Lot che uscì da Sodoma ma non salì subito sui monti, in quanto lasciano le colpe di una vita
disordinata ma non raggiungono le vette della continenza coniugale. La città di Segor, situata in una
posizione di mezzo, offre asilo al debole fuggiasco, simbolo in questo degli sposi che in rapporti
coniugali diretti a soddisfare i sensi, evitano la colpa e possono essere giudicati con indulgenza. Si
rifugiano quindi in una piccola città per difendersi dalle fiamme, in quanto questa loro vita coniugale pur
non raggiungendo il massimo della virtù, rende sicuri dai castighi. Per questo Lot dice all’angelo: ecco
vicino una città in cui posso trovare scampo, piccola, ma tale da offrire un riparo. Non è forse una
piccola città in cui riuscirò ad avere salva la vita? (Gn 19, 20). Essa è dunque vicina e tuttavia sicura per
chi cerca di salvarsi, come la vita coniugale che pur non essendo molto lontana da ciò che è mondano,
non esclude dalla gioia della salvezza. Gli sposi devono custodire la vita coniugale come in una piccola
città, rivolgendosi al Signore con assidua preghiera. (Regola pastorale, 3, XXVII)

[…] : si presenti dunque l’umiltà ai superbi, senza scoraggiare i deboli; la severità del comando ai timidi,
senza appoggiare l’orgoglio dei potenti; ai pigri e ai tiepidi il dovere di impegnarsi, senza stuzzicare negli
inquieti l’ardore di una operosità sfrenata; il senso della moderazione a chi vorrebbe sempre fare, senza
rendere sicuri di sé gli inerti; il dovere di frenare l’ira a chi ha questo vizio, senza appoggiare la pigrizia di
chi è negligente e svogliato; la necessità dello zelo a chi ama la pace, senza eccitare gli iracondi; la
generosità agli avari, senza dare piena libertà agli scialacquatori; la parsimonia ai prodighi, senza
aumentare negli avari la custodia affannosa dei loro beni caduchi; la dignità della vita coniugale ai
dissoluti, senza fare nascere passioni in chi vive nella totale castità; la grandezza della verginità del corpo
ai celibi, senza fare nascere nei coniugi il disprezzo per la fecondità delle loro carni. Bisogna cioè esortare
al bene senza fare entrare di sotterfugio il male, lodare le virtù perfette senza deprezzare i beni minori,
fare attenzione alle piccole cose senza allontanarsi da quelle supreme, nell’illusione che quelle minori
bastino. (Regola pastorale, 3, XXXVI)

Ha in sé come una scabbia persistente chi è dominato continuamente dagli stimoli della carne. Nella
scabbia infatti il calore dei visceri erompe attraverso le carni, e questo ci fa pensare al vizio della lussuria.
Quando infatti la tentazione del cuore si attua nell’atto esterno, l’interiore fiamma si manifesta nella
scabbia delle carni, e il corpo ne rimane esteriormente ferito, perché se il fantasma lussurioso non è
represso nella mente, si impone negli atti che vengono compiuti. San Paolo cercava di porre rimedio a
questo prurito delle carni quando scriveva: nessuna tentazione vi colga se non umana (1 Cor 10, 13),
come a dire: è umano sentire la tentazione nel cuore, ma è un trionfo di Satana quando noi cediamo nella
lotta e ci diamo vinti nell’azione. (Regola pastorale, 1, XI)

Bisogna però esortare i peccatori ad avere fiducia nel perdono senza cadere nel torpore di una sicurezza
incauta. Spesso infatti il perfido nostro avversario, vedendo che l’anima dopo il peccato geme nella
rovina, le si accosta con le lusinghe di una sicurezza che la lascia nella morte. La vicenda di Dina [figlia
di Giacobbe e di Lia, oltraggiata da Sichem, fu vendicata dai fratelli Simone e Levi] è un simbolo di tutto
questo. Leggiamo infatti: Dina uscì per vedere le donne di quel luogo, e Sichem, figlio di Hemor Eveo,
principe della regione, avendola vista, fu preso da passione per lei, la rapì e fece violenza alla sua
verginità. Il suo cuore però sentì un trasporto d’amore per la fanciulla vedendola afflitta e cercò di
consolarla con tenerezza (Gn 34, 1-3). Dina che esce per vedere le donne di quella terra straniera, è figura
di ogni anima che trascura i suoi obblighi e, curiosa di ciò che riguarda gli altri, si interessa di fatti che
non riguardano la sua vita e il suo stato. Sichem, il principe della regione, le usa violenza, come il
demonio trascina al male l’anima che vede dissipata in ansie puramente esteriori. Sichem sentì un
trasporto d’amore per la fanciulla, come il demonio quando vede l’anima ormai avvinta a sé nel male. Se
poi il peccatore, afflitto per le colpe commesse, rientra in sé e cerca di piangere i suoi errori, il Maligno
suggerisce vani sentimenti di speranza e di sicurezza per distruggere il buon frutto di questo dolore, come
leggiamo nel testo citato: vedendola afflitta cercò di consolarla con tenerezza. Il demonio infatti, o dice
che le colpe degli altri sono ben più gravi e che le azioni compiute non sono affatto peccaminose, o insiste
sulla misericordia di Dio e assicura che c’è ancora molto tempo a disposizione per tornare a penitenza,
sperando così di trarre in inganno l’anima e di dissuaderla dalla conversione, perché se essa non si
rattrista per le colpe commesse non potrà ricevere il premio, e se ora vive contenta nei peccati, dovrà poi
essere condannata ai supplizi. (Regola pastorale, 3, XXIX)

Siccome spesso due vizi affliggono l’anima, uno lieve, l’altro più grave, è necessario pensare subito di
estirpare quello che potrebbe portare più celermente alla rovina. Se non fosse possibile evitare
un’imminente catastrofe senza rinvigorire un po’ il vizio meno grave, il predicatore si adatti pure ad usare
un saggio sistema di ammonizioni che consente a questo vizio di crescere, ma che preserva
dall’imminente rovina. Facendo così non peggiora la situazione, ma salva la vita del paziente al quale
porge il rimedio, in attesa del tempo propizio per una completa guarigione. Spesso, ad esempio, qualcuno,
schiavo del vizio della gola, è assalito dagli stimoli della lussuria e sta quasi per soccombere. Turbato da
queste tentazioni, mentre cerca di dominarsi con l’astinenza, sente nascere in sé pensieri di vanagloria, e
in una simile situazione non si supera un vizio senza rinvigorire l’altro. In questi casi non si dovrà forse
combattere il male più pericoloso? Bisogna quindi tollerare che la virtù dell’astinenza si accompagni per
un po’, in un’anima, al difetto della vanagloria, purché lo spirito viva e non trovi la morte nel vizio della
lussuria alimentato dai peccati di gola. Per questo, san Paolo, vedendo l’incertezza di un suo discepolo
che doveva scegliere se continuare una vita di peccato o gioire per le lodi umane ricevute nel fare il bene,
disse: vuoi non avere timore dell’autorità? Compi il bene e avrai lode da essa (Rm 13, 3). Certo non
bisogna fare il bene per paura di chi ha il potere in questo mondo o per ricevere il piccolo trionfo di
un’effimera lode. Tuttavia, convinto che un’anima ancora debole non riesce ad avere tanta forza da
allontanarsi contemporaneamente dal male e dal desiderio di ricevere lodi, il gran Dottore, nella sua
esortazione, concesse qualcosa ma impose la sua volontà. Si mostrò cioè largo per le lievi mancanze, ma
volle il distacco da quelle più gravi, e sapendo che il discepolo non sarebbe riuscito ad abbandonare ogni
cattiva abitudine, tollerò che un piccolo difetto restasse in lui, che avrebbe così potuto con minor fatica
liberarsi dall’altro. (Regola pastorale, 3, XXXVIII)
Umiltà

Ciascuno, perciò, cerchi, sì, di distinguersi, ma in certo modo quasi dimenticandosi, per non vedersi privo
di una grandezza ingiustamente pretesa. […] Tuttavia in ogni circostanza si umilia chi afferma di ritenersi
misero davanti ai Suoi occhi. Se quindi i santi anche compiendo straordinarie imprese conservano
sentimenti di umiltà, che scusante potranno addurre coloro che senza merito alcuno si gonfiano di
orgoglio? Eppure anche se qualche buona opera è stata compiuta, resta priva di valore se non è
impreziosita dall’umiltà. Un’impresa ammirevole compiuta con orgoglio non eleva, ma appesantisce
l’anima. Chi cerca di compiere opere virtuose senza l’umiltà, butta polvere al vento e dove crede di trarre
vantaggio, trova occasione di peggiore cecità. In tutte le vostre azioni perciò, fratelli miei, considerate
l’umiltà come il fondamento delle buone opere e non confrontatevi con coloro che già avete superato ma
con quelli di cui vi sentite ancora inferiori, per riuscire nell’umiltà a raggiungere mete sempre più alte,
imitando gli esempi di chi ha compito progressi maggiori. (Omelia VII)

Ecco, carissimi fratelli, abbiamo brevemente commentato le parole del brano evangelico: ora disponiamo
l’anima alla contemplazione di questa solenne festività. Siccome col Vangelo vi è stato letto anche il
brano degli Atti degli Apostoli, prendiamo da esso qualche spunto per la nostra riflessione. Avete sentito
che lo Spirito Santo si posò sugli apostoli in lingua di fuoco e diede loro la conoscenza di tutte le lingue.
Cosa indica questo prodigio se non che la santa Chiesa, illuminata dal medesimo Spirito, avrebbe rivolto
la sua parola a tutte le genti? Quelli che tentarono di costruire la torre contro Dio, infransero l’unità del
primitivo linguaggio, mentre in costoro che con umiltà temevano Dio, tutte le lingue si ricomposero in
unità. Dall’umiltà quindi derivò questo prodigio, mentre dalla superbia la confusione delle lingue.
(Omelia XXX)

Contro l’eresia e la simonia

Ma perché usiamo queste parole mentre sappiamo che molti sono colpevoli di crimini ben maggiori? Io
parlo a voi sacerdoti nel pianto, perché so che alcuni di voi conferiscono gli ordini dietro compenso,
mercanteggiano la grazia, e accumulano guadagni coll’iniquità altrui, cedendo al peccato. Perché non
richiamate alla vostra mente il comando del Signore: avete ricevuto gratuitamente e gratuitamente date
(Mt 10,8). Perché non ricostruite con la mente la scena del Redentore che entra nel tempio, rovescia i
banchi dei venditori di colombe e disperde il danaro dei commercianti? Chi oggi, ancor, nel tempio di Dio
vende le colombe se non quelli che accettano, nella Chiesa, il denaro per l’imposizione delle mani?
Sappiamo che questa imposizione trasmette lo Spirito Santo. È quindi come se si vendessero le colombe,
perché l’imposizione delle mani che fa scendere lo Spirito Santo si compie per denaro. Ma il Redentore
nostro rovescia i banchi dei venditori di colombe, perché distrugge il sacerdozio di simili disonesti. Per
questo i sacri canoni colpiscono l’eresia simoniaca e comandano che siano sospesi dal sacerdozio coloro
che esigono denaro per conferire ordini. (Omelia XVII)

Bisogna accostare in modo diverso chi non interpreta con esattezza la Legge e chi la conosce in modo
perfetto ma non la espone con umiltà. Chi fraintende l’insegnamento della Legge deve sapere che
trasforma un vino saluberrimo in una bevanda velenosa, e si procura una ferita mortale con uno strumento
chirurgico, facendo incisioni su parti sane invece di intervenire a portare la salute nelle zone devastate
dalla malattia. Sappia costui che la Sacra Scrittura, nella notte di questa vita, ci è data come una lucerna,
la cui luce acceca chi non ne comprende esattamente il senso. Costoro tuttavia no sarebbero trascinati da
una perversa volontà a delle errate interpretazioni, se la superbia non possedesse il loro cuore. Convinti di
avere una scienza superiore a tutti, sdegnano le comuni e sicure spiegazioni, e nel desiderio di passare
come uomini di scienza nel giudizio del volgo inesperto, si affannano a criticare le esatte interpretazioni
degli altri e a dare peso alle loro che sono aberranti. A costoro possiamo applicare la parola del profeta:
trafissero le donne incinte del Galaad per estendere i loro confini (Amos 1, 13). Il vocabolo Galaad
significa «cumulo della testimonianza». Siccome tutta la Chiesa rende testimonianza alla verità, in Galaad
vediamo un simbolo della Chiesa che esprime con la voce di tutti i fedeli la verità che riguarda Dio. Le
donne incinte raffigurano le anime che nell’amore di Dio concepiscono il retto senso della parola rivelata
e, nel tempo esatto, portano alla luce, con le opere, questa parola intesa secondo verità. Estendere i
confini significa dilatare la fama della propria opinione. Dunque quelli che trafissero le donne incinte del
Galaad indicano gli eretici, che colpiscono con la loro predicazione perversa la mente dei fedeli già aperta
ad una certa conoscenza della verità, per diffondere la loro fama di uomini pieni di dottrina. Trafiggono
con la spada dell’errore i cuori semplici già, per così dire, gravidi del senso della divina parola, per
conquistare nome di scienziati. Se dunque vogliamo esortare costoro a non insegnare dottrine errate,
dobbiamo ammonirli a non ricercare una gloria vana. Togliendo infatti la radice della superbia,
disseccano anche i frutti delle perverse dottrine. (Regola pastorale, 3, XXIV)

La predicazione che scuote il cuore

Ho presentato a Voi, carissimi fratelli, parecchi brani del Vangelo con un commento che avevo in
antecedenza dettato. Siccome però non mi è possibile per i disturbi di stomaco leggere personalmente
questo commento, vedo alcuni di voi meno impegnati ed attenti. Perciò voglio ora imporre a me stesso,
contro il mio sistema consueto, di spiegare, durante le messe solenni, il Vangelo come in un diretto
colloquio con voi, senza dettare prima. Sarà così accolto come viene spontaneamente presentato, perché
la viva voce scuote i cuori pigri più che i discorsi fatti per istruire, ed aiuta a stare pronti e vigilanti come
una mano premurosa che si posa su noi. Vedo di non avere forze sufficienti per questo, ma l’amore potrà
dare l’aiuto che non viene dall’umana fragilità. So che sta scritto: Apri la tua bocca ed io suggerirò tutto
(Sal, 80, 11). La nostra volontà non desidera che compiere il bene e l’aiuto di Dio perfezionerà tutto.
(Omelia XXI)

La pazienza di Dio

Meditiamo l’infinita bontà del Creatore che ci vede peccare e ci sopporta. Colui che ci vietò di peccare
prima della colpa, non cessa di attenderci a penitenza dopo il peccato. Disprezzato da noi ci rivolge il suo
invito, tenuto da noi lontano, non ci abbandona. Per questo scrive Isaia: i tuoi occhi vedranno il tuo
maestro e le tue orecchie ne ascolteranno, alle spalle, la voce che ammonisce (Is 30, 20-21). L’uomo è
ammonito direttamente, quando, creato per la giustizi, riceve i precetti della rettitudine. Ma quando li
disprezza è come se voltasse le spalle, nello spirito, al Creatore. Questi però si pone alle nostre spalle e
ammonisce, perché, anche disprezzato da noi, continuamente ci chiama. Noi gli abbiamo voltato le spalle
quando ne abbiamo trascurato le parole e calpestato i precetti, ma Egli, stando dietro a noi, pur vedendo la
nostra indifferenza, ci richiama mentre siamo rivolti contro di Lui, ci propone i suoi comandamenti ed
attende con pazienza. Pensate, fratelli carissimi, cosa accadrebbe se ad uno di voi mentre sta parlando, un
servo, preso da improvviso orgoglio, volgesse le spalle: il padrone offeso, ne colpirebbe certo la superbia,
infliggendogli pene severe. Noi, peccando, abbiamo voltato le spalle al Creatore, che tuttavia ci sopporta.
Ci chiama a Sé mentre noi stiamo con orgoglio lontano da Lui, e mentre potrebbe castigarci in questo
stato, promette dei doni per indurci al ritorno. Questa grande misericordia del Creatore smuova la nostra
durezza di peccatori, e l’uomo che avrebbe potuto nel castigo rendersi conto del male compiuto, ne abbia
almeno il rimorso vedendo l’attesa di Dio. (Omelia XXXIV)

La Chiesa fatta di santi e peccatori fino alla fine dei tempi

Sentiamo due volte nel Vangelo il comando del Signore di gettare le reti per la pesca, prima cioè della
Passione e dopo la Risurrezione. Prima però di patire e di risorgere, il suo comando non indica dove
gettare le reti, se a destra o a sinistra; dopo la Risurrezione, invece, agli apostoli è rivolto un preciso
comando di porre la rete a destra. In quella pesca furono presi così tanti pesci che le reti si rompevano, in
questa ne furono ancora presi tanti, ma le reti non si ruppero. Chi non sa che la destra indica i buoni, la
sinistra i malvagi? Perciò quella pesca nella quale nessun preciso comando fu dato dove gettare la rete,
simboleggia la Chiesa presente che raccoglie i buoni e i perversi e non sceglie prima di accogliere perché
non sa verso chi potrebbe orientare la scelta. Invece la pesca dopo la Risurrezione di Cristo è compiuta
solo a destra, perché solo la Chiesa degli eletti giunge a contemplare la gloria del suo splendore, non
avendo in sé nulla di contaminato. In quella pesca la rete si rompe per la gran quantità di pesci, perché ora
anche tanti reprobi si accostano alla fede, ma per lacerare la Chiesa con l’eresia. In questa pesca invece
vengono presi tanti e grossi pesci e la rete non si rompe, perché la Chiesa santa degli Eletti, nella grande,
imperturbata pace del suo fondatore, non è lacerata da contrarietà alcuna. (Omelia XXIV)

Se dunque siete nel numero dei giusti, finché vivete sulla terra sopportate con pazienza i reprobi. Chi
infatti li tratta con intolleranza, dimostra con questo atteggiamento di non essere giusto. Rifiuta di essere
Abele chi non sa sopportare la malizia di Caino. Così nella trebbiatura sull’aia i chicchi vengono premuti
sotto la paglia, i fiori nascono tra le spine e la rosa profumata cresce con la spina che punge. Il primo
uomo ebbe due figli, ma uno di costoro fu un eletto, l’altro un perverso. Noè accolse nell’arca tre figli:
due furono giusti, l’altro fu un reprobo. Isacco ebbe due figli, un giusto e un reprobo. Giacobbe fu padre
di dodici figli, uno dei quali fu venduto a motivo della sua innocenza perché gli altri lo mercanteggiarono
nella loro perversità. Dodici furono scelti come apostoli; uno però per mettere gli altri alla prova, undici
per subirla. Sette diaconi furono ordinati dagli apostoli, sei dei quali annunciarono la rette fede, mentre
uno seminò l’errore. Nella Chiesa del tempo presente quindi non possono trovarsi i reprobi senza i giusti,
né questi senza i malvagi. Meditate le vicende passate, fratelli carissimi, ed esercitatevi nel sopportare i
cattivi. Se siamo nel numero degli eletti, dobbiamo imitarne gli esempi, e non vi fu alcun giusto che abbia
rifiutato di tollerare i reprobi. […] Ecco, fratelli carissimi, citando da quasi tutta la Scrittura, veniamo a
sapere che non poté esistere un giusto che non sia stato messo alla prova dalla disonestà dei malvagi. Il
ferro dell’anima nostra, per usare quest’immagine, non è affilato e reso tagliente se la lima dell’altrui
iniquità non lo affina. (Omelia XXXVIII)

Cristo, fine dei tempi

Il Regno dei cieli è paragonato ad un padre di famiglia che manda degli operai a coltivare la sua vigna. A
chi meglio che al Creatore può essere attribuito questo titolo di padre di famiglia? Egli ha il potere su
coloro che ha creato e lo esercita sugli eletti in questo mondo, come il padrone di casa sui sudditi. Ha una
vigna, cioè la Chiesa universale, che dal giusto Abele fino all’ultimo degli eletti che nascerà nel mondo ha
prodotto tanti tralci quanti sono i santi. Questo padre di famiglia, dunque, prende degli operai per
coltivare la sua vigna all’ora terza, sesta, nona e undicesima. Come il Signore, che dall’inizio del mondo
alla fine non cessa di suscitare predicatori per istruire il suo popolo. L’aurora del mondo durò da Adamo a
Noè, l’ora terza da Noè ad Abramo, la sesta da Abramo a Mosè, la nona da Mosè alla venuta del Signore,
l’undicesima dalla venuta del Signore alla fine del mondo. In quest’ultima ora come predicatori furono
inviati gli Apostoli che presero l’intera paga pur essendo arrivati ultimi. Il Signore quindi non cessò mai
di inviare operai a coltivare la sua vigna, cioè ad istruire il suo popolo, perché dapprima i Patriarchi, poi i
dottori della legge e i profeti, infine gli apostoli, orientando al bene la vita del popolo di Dio, furono come
operai addetti a questa vigna del Signore. Del resto chi compie con fedeltà e rettitudine le opere buone,
lavora in questa vigna. Gli operai chiamati all’alba, all’ora terza, sesta e nona, rappresentano l’antico
popolo ebreo, che avendo cercato con i suoi eletti di onorare Dio con fedeltà e rettitudine, lavorò senza
tregua in questa vigna. All’undicesima ora viene rivolto l’invito ai pagani: perché state qui tutto il giorno
in ozio (Mt 20, 6). Essi infatti avendo trascurato di lavorare per la loro vita per un tempo così lungo della
storia umana, avevano trascorso nell’ozio la loro giornata. Ma riflettiamo alla risposta che essi danno:
perché nessuno ci ha ingaggiato (Mt 20, 6). Infatti nessun Patriarca o profeta era stato loro inviato. La
loro risposta quindi accenna al fatto che nessuno aveva mostrato le vie della vita. (Omelia XIX)

Sansone-Cristo. Un’esegesi cristocentrica

La vicenda di Sansone narrata nel Libro dei Giudici adombra questi fatti. Entrato in Gaza, città dei
Filistei, questi, appena informati del suo arrivo, assediarono subito la città, posero delle guardie e si
diedero alla gioia come se avessero già fatto prigioniero il fortissimo Sansone. Ma sappiamo ciò che egli
fece. A mezza notte divelse le porte della città e salì in cima al monte. Di chi è figura, carissimi fratelli, in
questo fatto, Sansone, se non del Redentore? Cosa indica la città di Gaza se non l’inferno? E i Filistei, se
non la perfidia giudaica? I Giudei infatti vista la morte di Cristo e il suo corpo ormai nel sepolcro,
scelsero subito delle guardie e si rallegrarono di avere rinchiuso negli inferi colui che era apparso come
l’autore della vita, a somiglianza dei Filistei quando assediarono Sansone a Gaza. Sansone invece a
mezzanotte non solo uscì, ma sradicò le porte. Come Sansone divelse le porte della città e salì sul monte,
Egli, risorgendo, spezzò le barriere dell’inferno e salì per arrivare al Regno dei Cieli. (Omelia XXI)

Chi ottiene l’amicizia di Dio, non lo attribuisca ai suoi meriti

Chi raggiunge la dignità di essere chiamato amico di Dio, esamini se stesso e veda la soprannaturalità del
dono conseguito. Non attribuisca nulla ai suoi meriti per non tornare ad essere nemico. Per questo subito
si afferma: non voi avete scelto me, ma io vi ho scelto e vi ho costituito perché andiate e otteniate frutto.
(Gv 15,16). La vostra missione è di distribuire la grazia: vi ho costituito perché vi mettiate in cammino
con la volontà e rendiate frutto con le vostre azioni. (Omelia XXVII)

Amare non il mondo ma ciò che è eterno

Non misurate quindi in voi ciò che avete, ma ciò che siete. Ecco passa il mondo che raccoglie il vostro
amore. Questi santi sulla tomba dei quali ci siamo riuniti [l’omelia fu pronunciata nella Basilica dei santi
martiri Nereo e Achilleo], col disprezzo della mente si opposero al mondo e al suo fascino. La vita era
lunga, la sapute prospera, la ricchezza abbondante, feconda la specie umana, tranquilla e in pace continua
la vita, ma mentre tutto fioriva e prosperava, il mondo nei loro cuori era come rinsecchito. Ecco invece
ora il mondo si trova inaridito e noi lo consideriamo fiorente nei nostri cuori. Ovunque regna la morte, il
pianto, la desolazione; da ogni parte siamo percossi e colpiti dalla sventura e tuttavia, nella cecità della
mente schiava dell’umana concupiscenza, amiamo queste sventure, inseguiamo la vita che fugge, ci
aggrappiamo a questo mondo che passa. E siccome non possiamo trattenerlo nella sua rovina, cadiamo
con esso, a lui avvinti. Un tempo il mondo poté forse incatenarci coi suoi piaceri, ora è così pieno di
angoscia che dovrebbe riuscire ad orientarci a Dio. Riflettete alla nullità di tutto ciò che fluisce nel tempo.
Il destino di morte delle realtà terrene ci mostra l’inconsistenza di ciò che ha dovuto sparire. La fine di
tutto ci indica che ogni cosa che passa fu quasi un nulla anche quando sembrava avere vita. Riflettete a
queste verità, carissimi fratelli, con impegno continuo, e ponete il vostro cuore nell’amore di ciò che è
eterno: in questo modo, disprezzando gli onori della terra, arriverete alla gloria che già possedete nella
fede. (Omelia XXIX)

Vorrei esortarvi a lasciare ogni cosa, ma non oso tanto. [Gregorio Magno è equilibrato! Non confonde i
consigli evangelici con i precetti] Se dunque non vi sentite di lasciare tutti i beni della terra, usate ciò che
trovate nel mondo in modo da non esserne schiavi, e siate voi a possedere le cose della terra non a esserne
posseduti. Sia dominato dal vostro spirito ciò che possedete, perché se il vostro cuore è dominato
dall’amore ai beni di quaggiù, sono le vostre sostanze a possedervi. Usate dunque dei beni di quaggiù, ma
desiderate quelli eterni: i primi vi accompagnino nel pellegrinaggio, gli altri siano desiderati per un
possesso eterno. La vicenda umana sia da noi contemplata come stando da parte. Lo sguardo della mente
sia tutto proteso nella contemplazione attenta del destino eterno a cui dobbiamo giungere. I nostri vizi
siano radicalmente estirpati non solo dalle azioni che compiamo, ma anche dai sentimenti del cuore. Non
ci tengano lontani dalla cena del Signore le voglie carnali, la smania della curiosità, l’ambizione che ci
rode: anche tutto ciò che compiamo onestamente nel mondo, sia come sfiorato dalla nostra mente, così
che le cose piacevoli di quaggiù servano al corpo in modo da non danneggiare l’anima. Non osiamo dirvi,
fratelli, di abbandonare tutto, ma se volete, vi è dato di essere distaccati da ogni cosa anche
conservandone il possesso, se usate i beni della terra con la mente del tutto protesa a quelli eterni.
(Omelia XXXVI)
Dovunque vediamo lutti, dovunque sentiamo gemiti. Distrutte le città, invasi i villaggi, devastate le
campagne, la terra è stata ridotta a un deserto. Non è rimasto nessun abitante nei villaggi; quasi nessuno
nelle città; e tuttavia anche questi piccoli resti del genere umano sono colpiti continuamente ogni giorno.
E i flagelli della giustizia celeste non hanno termine, perché neppure in mezzo ai flagelli si emendano le
colpe. Vediamo alcuni deportati come schiavi, alcuni mutilati, altri uccisi… voi vedete come è ridotta
Roma stessa, che un tempo sembrava la dominatrice del mondo. Schiacciata in tanti modi da immensi
dolori, dalla desolazione dei cittadini, dall’assedio dei nemici, dalle continue rovine. (Commento ad
Ezechiele, II,6)

Il mondo è logorato dallo stato di vecchiezza e angustiato da affanni continui per la morte imminente; per
questo, fratelli, non amate il mondo, di cui intuite l’instabile e fragile vita […]. Rinnovate la vita,
trasformate i costumi, lottate costantemente contro gli stimoli del male, distruggete nel pianto i peccati
compiuti. (Omelia XL)

Spesso avviene che un povero dormendo si vede ricco in sogno e ci trova tanta gioia, si sente divenuto
una persona importante e comincia a guardare con disprezzo quelli da cui prima gli dispiaceva d’essere
disprezzato. Ma ad un tratto si sveglia, e gli dispiace d’essersi svegliato dal momento che, almeno in
sogno, si sentiva ricco. Geme sotto il peso della povertà e si sente oppresso dall’angustia della sua
miseria, e tanto più perché per un momentino ebbe l’illusione d’essere ricco. Lo stesso avviene per i
ricchi di questo mondo, che son gonfi della loro ricchezza. Non sanno far opere buone colla loro
abbondanza, sono come ricchi addormentati; ma quando si svegliano trovano la loro povertà, perché non
hanno niente da portare a quel giudizio che dura sempre, e quanto più ora per breve tempo si sono creduti
importanti, tanto più in perpetuo gemono contro se stessi… Aprono là occhi per vedere i supplizi,
mentre qui li tenevano chiusi per non vedere la misericordia. Aprono gli occhi e non vedono frutti di
pietà, mentre li tennero chiusi quando trovarono l’occasione di praticarla. Troppo tardi li aprono… Una
volta perdute, vedono che erano vili e fuggevoli le cose che tenevano strette, mentre quando le avevano
parevano grandi e durature ai loro cuori stolti. Tardi aprì gli occhi il ricco, quando vide Lazzaro che
riposava, quello stesso di cui egli non si era curato quando giaceva davanti alla Sua porta. Allora capì
quel che qui non volle fare; nella sua dannazione fu costretto a comprendere che cosa aveva perduto
quando non riconobbe come suo prossimo quell’indigente. Vediamo adesso la miseria del ricco tra le
fiamme, dopo aver goduta tanta abbondanza nei suoi banchetti… Dalle parole del ricco si vede come per
finissimo giudizio di Dio la pena corrisponde perfettamente alla colpa. Infatti spinto dalla sua inopia fu
costretto a chiedere una piccolissima cosa lui, che qui, colla sua avarizia fin le minime cose aveva
negate”. Chiese una goccia d’acqua lui che aveva rifiutate le briciole di pane. (Moralia in Job, XVIII, 29-
30)

Alcuni sono “costretti”

Occorre notare che per questa terza categoria di persone non si parla di un invito ma si usano queste
parole: costringili ad entrare (Lc 14, 23). Alcuni infatti sono chiamati e disprezzano l’invito, altri invece
l’accolgono; per questi invece non si parla di una chiamata, ma di una costrizione ad entrare. Vengono
chiamati e non accettano, coloro che ricevono il dono dell’intelletto ma non vi si conformano con le
opere; accolgono l’invito quelli che traducono nelle opere la grazia loro data dell’intelletto; altri invece
sono chiamati in maniera da essere costretti. Vi sono infatti alcuni che ricevono luce per comprendere il
bene che deve essere compiuto, ma non vogliono compierlo: vedono ciò che dovrebbe essere fatto, ma
non vi si conformano con l’anima. A costoro capita spesso, come abbiamo sopra esposto, di essere colpiti
nei loro umani desideri dall’avversione del mondo, di non potere conseguire la gloria terrena desiderata e
di essere sempre respinti verso terra, sul lido, dai venti contrari, quando si propongono di condurre la loro
nave in alto mare, verso le più tenaci cure della vita presente. Quando vedono i propri desideri infranti per
l’opposizione del mondo, si rendono conto di ciò che devono al Creatore e ritornano a lui col rossore della
colpa, dopo averlo orgogliosamente abbandonato per amare il mondo. Spesso infatti alcuni, del tutto
protesi alla conquista di una gloria umana, o sono piegati da lunga infermità, o vengono meno per il
dolore delle offese subite, o si vedono colpiti da gravi danni. Pieno di sconforto per ciò che dà il mondo,
si accorgono dell’errore compiuto nell’avere posto la fiducia nei suoi piaceri, e pentiti di avere inseguito
fallaci desideri, orientano il loro cuore a Dio. (Omelia XXXVI)

Carità verso i poveri

Continua il testo evangelico: [Giovanni] diceva loro in risposta: chi ha due tuniche ne doni una a chi non
ne possiede, e chi ha dei cibi faccia altrettanto (Luc., 3, 11). Siccome la tunica ci è più necessaria,
nell’uso, del mantello, rientra nei degni frutti di penitenza il dovere di dividere col prossimo non solo gli
oggetti esterni e non del tutto necessari, ma anche quelli indispensabili, come i cibi che sostentano la vita
o la tunica con cui ci copriamo. Siccome nella legge sta scritto: amerai il prossimo tuo come le stesso
(Matt., 22, 39), dovrà invece dire di amare meno il prossimo chi non è pronto a dividere con chi si trova
nelle strettezze anche ciò che gli è necessario. Viene quindi dato il precetto di dare al prossimo una delle
due tuniche, perché una sola non potrebbe essere divisa fra due, a meno di lasciar senza vesti l’uno e
l’altro: con mezza tunica si sa che non può coprirsi né chi ha dato né chi ha ricevuto. Da tutto questo
risulta chiaro il valore delle opere di misericordia che vengono comandate più di ogni altra cosa per
produrre degni frutti di penitenza. Per questo anche la stessa Verità afferma: date in elemosina ed ecco
che tutto si purifica per voi (Lc 11, 41). Ed ancora: date e vi sarà dato (Lc., 6, 38). Come pure sta scritto:
l’acqua spegne il fuoco che divampa e l’elemosina purifica dai peccati (Eccl., 3, sgg). Come anche:
nascondi la tua elemosina in grembo al povero ed essa diverrà preghiera per te (Eccl., 29, 15). Cosi il
buon padre esorta il figlio innocente: se avrai in abbondanza, donerai con generosità; se ti resterà poco,
dovrai cercare di dare volentieri quel poco che ti rimane (Tob., 4, 9). (Omelia XX)

Quando infatti diamo ai miseri ciò di cui hanno stretto bisogno, compiamo una restituzione più che un
dono, rendiamo omaggio alla giustizia più che compiere un atto generoso. Per questo la Verità stessa, per
esortarci a compiere la beneficenza con animo vigilante, ci dice: guardatevi dal compiere le vostre opere
di giustizia davanti agli uomini (Mt 6, 1), come anche aveva proclamato il salmista: ha dato con
generosità ai poveri; la sua giustizia rimane in eterno (Sal 111, 9). Usa quindi il vocabolo giustizia e non
parla di misericordia per indicare la larghezza verso i poveri, perché ciò che il Padre dona a tutti, deve
servire alla comune utilità. Salomone infatti scrive: il giusto donerà senza mai cessare (Prov 21, 26).
Bisogna anche riflettere alle severe parole rivolte contro il fico sterile che occupava inutilmente il terreno.
Il cuore avido di chi tiene in serbo i beni che potrebbero giovare agli altri, è simile al fico sterile che
occupa inutilmente il terreno, come pure è tale lo stolto che ingombra con la sua inerzia il suolo che un
altro avrebbe messo a buon frutto con lo splendore delle opere buone. Costoro però dicono di solito: noi
usiamo i beni concessi e non ci appropriamo di quelli degli altri, e se anche non compiamo azioni degne
di ricompensa, non facciamo nulla di male. Anche il ricco del Vangelo che si vestiva di porpora e di bisso
e ogni giorno dava splendidi conviti, non è accusato di avere rapito agli altri ma solo di avere sciupato nel
piacere i suoi beni, eppure è condannato alla geenna per avere goduto in modo sfrenato di cose lecite, pur
non avendo compiuto azioni per se stesse illecite. (Regola pastorale, 3, XXI)

[Gregorio] il primo giorno di ogni mese distribuiva a tutti i poveri la parte dei redditi della chiesa pagati
in natura: nella stagione adatta, il frumento e, a seconda delle stagioni, vino, formaggio, legumi, lardo,
animali commestibili, pesce e olio venivano così assegnati con la massima discrezione da questo capo
della famiglia del Signore …. Inoltre ogni giorno servendosi di corrieri adibiti a tale mansione inviava per
vie e crocicchi di ogni regione della città alimenti cotti per i malati e gli invalidi. Prima di prendere lui
stesso il cibo, aveva cura di inviare una scodella della sua mensa ai più poveri che non avevano coraggio
di mostrarsi tali, di porta in porta, con la benedizione apostolica, sino al punto che la benevolenza di quel
misericordioso distributore non escludeva assolutamente nessuno di coloro che la conoscenza
dell’onnipotente creatore aveva portato alla fede.(GIOVANNI DIACONO, La vita di Gregorio Magno, in PL
75, I, 24-28)
L’esempio dei santi

Stava sotto il portico per il quale passa chi va alla Chiesa di S. Clemente un uomo chiamato Servolo, che
molti di voi hanno conosciuto: povero di sostanze ma ricco di meriti, distrutto ormai da una lunga
infermità e dalla paralisi che lo rese immobile dalla fanciullezza sino al termine della vita. Non poteva in
alcun modo reggersi, sorgere dal lettuccio o porsi a sedere, servirsi delle mani e girarsi sui fianchi. La
madre e il fratello lo assistevano, e tutto ciò che egli prendeva in elemosina lo dava per le loro mani ai
poveri. Era analfabeta, ma, avendo comperato i libri della Bibbia, pregava i religiosi che venivano a fargli
visita di leggergli a lungo brani delle Sacre Scritture. Avvenne cosi che acquistò una notevole conoscenza
della Sacra Scrittura, limitatamente alle sue possibilità, essendo del tutto privo di istruzione. Cercava, nel
dolore, di ringraziare Dio e di innalzare a Lui lodi e canti notte e giorno. Quando giunse il tempo del
premio destinato a tanto dolore, la malattia colpi gli organi vitali. Sentendosi ormai prossimo alla fine,
invitò i pellegrini e tutti quelli venuti a fargli visita ad alzarsi ed a cantare con lui i salmi in preparazione
alla morte. Mentre, moribondo ormai, si univa alla salmodia, all’improvviso li fece tacere ed esclamò a
gran voce, pieno di ammirazione: tacete, non sentite le lodi sublimi che risuonano nel cielo? E mentre
tendeva lo spirito a quelle lodi nell’intimo pregustate, la sua santa anima lasciò il corpo, Mentre questo
avveniva, un profumo soavissimo si diffuse e tutti i presenti avvertirono la paradisiaca fragranza,
comprendendo così che tra gli inni di lode l’anima era tornata a Dio. Un nostro monaco, ancora in vita,
era presente al fatto e attesta, tra le lacrime, che il profumo soavissimo non lasciò i loro sensi fino a
quando il corpo fu portato alla sepoltura. Ecco come egli lasciò questa vita, avendone sopportato i dolori
con grande virtù. Secondo la parola del Signore quindi, quel terreno, dopo la paziente fatica, diede i frutti:
arato col vomere della sofferenza, giunse alla raccolta e al premio. Pensate ora, vi prego o fratelli;
carissimi, quali attenuanti potremo presentare nel severissimo giudizio noi, pigri nel bene, pur avendo
ricevuto vigore e sostanze, se un povero paralitico attuò alla perfezione i precetti del Signore. Il Giudice
non ci mostri allora gli Apostoli, che portarono con sé, i nel Regno, turbe di fedeli con la loro
predicazione, né i martiri che raggiunsero la patria versando il loro sangue. Che diremo allora, vedendo
questo Servolo, di cui abbiamo parlato, che, paralitico per lungo tempo, ebbe tuttavia la forza di
perseverare nel bene? Riflettete su questo, fratelli, decidetevi a compiere il bene: proponendovi di imitare
l’esempio dei buoni, possiate in quel giorno ottenere lo stesso loro premio. (Omelia XV)

Mentre questa Creatura [Romula] fu in vita da chi ebbe onori? Sembrava a tutti trascurabile e spregevole.
Chi si degnava di farle visita e di accostarsi a lei? Tuttavia essa era come una perla preziosa nascosta in
un letamaio. Uso questo vocabolo, fratelli, per indicare lo strazio della malattia nel corpo e l’umiliazione
della povertà. Orbene, questa perla nascosta nel letamaio fu portata in Cielo e usata come ornamento del
Re dell’universo, ed ora splende tra i beati, fulgida fra le pietre che brillano nell’eterno diadema. Voi che
credete di essere o siete ricchi in questo mondo, paragonate, se vi riesce, le vostre false ricchezze ai veri
tesori di Romula. Voi possedete in questo mondo beni da cui sarete strappati: ella non cercò nulla sulla
terra e trovò tutto nella patria. Voi godete nella vita e temete la morte; ella dopo le sofferenze presenti
giunse a una morte in cui trovò gioia. Voi cercate una gloria effimera dagli uomini, ella, disprezzata sulla
terra, fu accolta tra i cori degli angeli. Imparate dunque, fratelli, a disprezzare i beni di questa vita, gli
onori umani cosi effimeri, e ad amare la gloria eterna. Onorate quelli che vedete nella povertà e giudicate
amici di Dio coloro che sono disprezzati su questa terra. Aiutateli con ciò che possedete, affinché un
giorno vi soccorrano con i tesori di cui possono disporre. Riflettete alle parole del maestro delle genti: nel
tempo presente la vostra ricchezza rechi soccorso alla loro povertà, affinché anche la loro abbondanza sia
di aiuto alle vostre necessità (2 Cor. 8, 14); E la Verità stessa dice: quando l’avete fatto anche a uno solo
fra i più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me (Matt., 25, 40). Perché siete pigri nel dare, se ciò
che porgete al mendico lungo la via è accolto da chi sta nei Cieli? Dio onnipotente che ha fatto giungere,
per mio mezzo, queste parole al vostro orecchio, le imprima nei vostri cuori, Lui che vive e regna col
Padre, in unità con lo Spirito Santo, Dio, per tutti i secoli. Amen. (Omelia XL)
Benedetto

1) Fonti storiche: La fonte storica principale per la vita di san Benedetto è il secondo libro dei
Dialoghi di Gregorio Magno (590-604), dedicato alla vita del santo. I Dialoghi si compongono di
quattro libri, e nascono dal dialogo fra papa Gregorio Magno e l’amico diacono Pietro, convinto che
i costumi fossero così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei secoli passati. Gregorio
Magno dimostra il contrario, narrando la vita di persone sante contemporanee o scomparse da poco.
Papa Zaccaria (741-752) tradusse i Dialoghi in greco.

a) 1 libro: racconto della vita di 12 santi


b) 2 libro: tutto dedicato a san Benedetto
c) 3 libro: racconto della vita di 30 santi
d) 4 libro: catechesi sulla sorte dell’anima dopo la morte

PIETRO: Sono veramente meravigliosi questi fatti che, come vedo, finora mi erano rimasti
sconosciuti. Ma per quale motivo uomini di tal genere non si trovano più?
GREGORIO. Io invece ritengo, Pietro, che anche nel nostro secolo ce ne siano molti di costoro,
anche ora. Non è detto infatti che, siccome non compiono prodigi di questo genere [signa non
faciunt], essi non siano tali, perché la vera valutazione del modo di vivere si basa sulla virtù delle
opere, non sulla manifestazione di fatti prodigiosi [non in ostensione signorum]. Ce ne sono molti
oggi che, anche se non fanno miracoli, tuttavia non sono inferiori a quelli che li hanno fatti.
PIETRO. Ma in che modo, ti chiedo, mi si può dimostrare che ci sono alcuni che, pur non facendo
miracoli, non differiscono da quelli che li fanno?
GREGORIO: Ignori forse che l’apostolo Paolo è pari all’apostolo Pietro nell’essere il primo ttra gli
apostoli?
PIETRO: Lo so bene ed è cosa certa, perché anche se Paolo è stato l’ultimo tra gli apostoli, tuttavia
ha faticato più di tutti loro.
GREGORIO: Come ben ricordi, Pietro ha camminato a piedi sull’acqua, mentre Paolo in mare ha
fatto naufragio. Ecco che nel medesimo elemento Paolo non ha potuto andare per nave dove Pietro
è andato a piedi. È perciò evidente che, mentre fu diversa la loro capacità nel fare miracoli, tuttavia
non è diverso il loro merito in cielo.
PIETRO: Approvo, l’ammetto, tutto ciò che dici. Ecco che ho compreso perfettamente che si deve
ricercare il modo di vita, non i miracoli. Per altro, proprio il far miracoli è testimonianza di buona
condotta di vita. Perciò, ti prego ancora, se ce ne sono, raccontali, per saziare la mia fame con gli
esempi degli uomini dabbene. (GREGORIO MAGNO, Dialoghi, I, XII, 4-6)

L’idea di santità è legata all’umiltà e alla condotta virtuosa della vita. Ma attenzione. Per Gregorio
Magno anche un vita santa è una grazia; san Ambrogio parlava di gratia moralis. Non vi è
opposizione fra prodigi e umiltà; entrambi vengono da Dio. Quando parla di Onorato abate del
monastero di Fondi, Gregorio, dopo avere presentato la sua vita santa, e sottolineato che non ebbe
maestri, mette in luce la libertà dello Spirito Santo, da cui provengono i miracoli e l’ humilitas,
testimoni entrambi della grazia divina.

PIETRO: Non dobbiamo forse pensare che una persona tanto importante da diventare maestro di
molti discepoli abbia avuto in precedenza egli stesso un maestro?
GREGORIO: Non ho mai sentito dire che sia stato discepolo di chicchessia, perché il dono dello
Spirito Santo non è vincolato da alcuna legge. È vero che la norma del retto vivere monastico
prescrive che non abbia l’ardire di comandare che prima non abbia imparato a essere sottomesso, e
che non imponga agli inferiori l’ubbidienza che egli non ha prestato ai suoi superiori. A volte
[nonnunquam] tuttavia alcuni sono a tal punto istruiti interiormente dallo spirito che, pur
mancando dell’insegnamento di un maestro esterno, non è mancata loro la correzione del maestro
interiore. Tuttavia la loro libertà di vita non deve essere assunta come esempio da chi è debole, per
evitare che qualcuno, presumendo di essere anche lui ispirato dallo Spirito Santo, rifiuti di essere
discepolo di un uomo e così diventi maestro di errore. Infatti l’anima che è ricolma di Spirito
divino ne dà segni evidenti [evidentissima signa]: i prodigi [virtutes] e l’umiltà [humilitatem], che
si armonizzano perfettamente l’una con gli altri, vi testimoniano chiaramente la presenza dello
Spirito Santo. (GREGORIO MAGNO, Dialoghi, I, I, 5-6)

La vita di san Benedetto è narrata a partire dal racconto di quattro monaci, suoi discepoli e testimoni
dei fatti raccontati. Nel 577 i Longobardi distrussero il monastero di monte Cassino e i monaci
trovarono rifugio nella monastero del Laterano a Roma, qui Gregorio ascoltò le loro parole, prima
di diventare papa.

Non conosco tutto ciò che egli ha realizzato, perciò racconto i pochi fatti che ho appreso dalla
bocca di quattro suoi discepoli: il reverendo Costantino, che gli è succeduto nel governo del
monastero; Valentiniano, che per molti anni ha diretto il monastero del Laterano; Simplicio, che
per terzo dopo di lui ha diretto la comunità; Onorato, che ora è a capo del monastero in cui
Benedetto fu iniziato alla vita monastica. (GREGORIO MAGNO, Dialoghi, II, I, 2)

Un’altra fonte storica molto antica, scritta probabilmente prima dei Dialoghi, è il carme Versus in
laudem S. Benedicti di Marco poeta. Si tratta di 33 distici che ci riportano notizie nuove sulla vita di
Benedetto e indipendenti dal racconto di Gregorio. Ci si sofferma, ad esempio, sulle opere di
bonifica fatte dai monaci di Cassino. È una fonte interessante, ma da usare con attenzione e
prudenza, in quanto scritto poetico.

Molto belli e storicamente validi sono gli scritti del cardinale Ildefonso Schuster sul santo, oggi
raccolti nel volume Benedetto, il padre dell’Europa, Jaca Book, Milano 2018. Schuster, attraverso il
suo vastissimo sapere, riesce a colloca Benedetto nel suo tempo e nelle dinamiche giuridiche e
culturali della chiesa di allora. La scienza storica nelle sue ricerche si accompagna sempre
all’archeologia.

2) Vita: Benedetto nasce intorno al 480 ex provincia Nursiae da genitori benestanti, che lo
mandarono a studiare a Roma. Disgustato dallo stile di vita degli studenti, lui che desiderava
piacere solo a Dio, soli Deo placere, lasciò Roma e si ritirò nel paese di Affile (monti a est di
Roma), accompagnato dalla nutrice Cirilla.

C’è stato un uomo di vita venerabile, Benedetto di nome e per grazia, che fin da ragazzo aveva il
cuore maturo. Infatti per il modo di vita era in anticipo sull’età, e nulla concesse al piacere. Mentre
era in terra, avrebbe potuto fruire liberamente dei beni temporali, ma egli disprezzò come arido
deserto il mondo con le sue attrattive. Nacque nella regione di Norcia da famiglia di buona
condizione, e a Roma attese agli studi liberali. Ma vedeva che molti, dediti a questi studi,
precipitavano nel vizio, perciò ritrasse il piede col quale stava già entrando nel mondo, per evitare
che, avendo qualche parte in questa scienza, anch’egli in seguito precipitasse nell’immane baratro.
Perciò, disprezzati gli studi letterari, abbandonati la casa e i beni paterni, desiderando riuscire
gradito solo a Dio, cercò l’abito della vita monastica. Si ritirò dal mondo, sapientemente ignorante
e saggiamente stolto [Recessit igitur scienter nescius et sapienter indoctus]. (GREGORIO MAGNO,
Dialoghi, II, I, 1)
Ad Affile la sua fama si diffonde, dopo il miracolo attraverso il quale riparò con la preghiera un
“vaglio” rotto dalla nutrice. Così:

Benedetto, che aspirava più a patire i mali del mondo che a ricevere le lodi e ad affaticarsi per Dio
piuttosto che godere dei favori di questo mondo, abbandonò di nascosto anche la nutrice e si
diresse in un luogo solitario, di nome Subiaco, che dista da Roma circa quaranta miglia.
(GREGORIO MAGNO, Dialoghi, II, I, 3)

Qui si ritirò in una grotta, ignorato da tutti, tranne che dal monaco Romano, che, di nascosto, gli
portava il cibo calandolo dall’alto attraverso una corda. Dopo tre anni di vita eremitica, la “lucerna
doveva essere posta sul poggio”; la santità di vita di Benedetto fu conosciuta:

Ma finalmente Dio onnipotente volle sgravare Romano dalla fatica e far conoscere agli uomini la
vita di Benedetto perché servisse di esempio, in modo che la lucerna posta sul candelabro potesse
diffondere la sua luce illuminando tutti coloro che stanno nella casa. Pertanto il Signore si degnò
di apparire a un presbitero, che abitava un po’ distante e che si era preparato un buon pranzo per
festeggiare la Pasqua, e gli disse: «Tu ti prepari intingoli e leccornie, mentre il mio servo, in un
luogo come quello, è tormentato dalla fame». Quello subito si dette da fare, e proprio nel giorno di
Pasqua si diresse con i cibi al luogo che gli era stato indicato, e cercò l’uomo di Dio tra i dirupi
montani, valli profonde e precipizi, finché lo trovò che viveva nascosto nella grotta.
Dopo che ebbero pregato e benedetto il Signore onnipotente, si misero a sedere e parlarono
amabilmente dei fatti della loro vita, quindi il presbitero che era arrivato là disse: «Alzati e
mangiamo, perché oggi è Pasqua». L’uomo di Dio gli rispose: «So che è Pasqua, perché ho avuto
in sorte la gioia di vederti». Infatti, lontano dal consorzio degli uomini, non sapeva che proprio
quel giorno ricorreva la Pasqua. Il presbitero insistette: «Veramente oggi è il giorno di Pasqua,
della risurrezione del Signore. No sta bene che tu digiuni, perché io sono stato inviato proprio al
fine di consumare insieme i beni del Signore onnipotente». Così, benedetto Dio, si cibarono.
Terminato il pranzo e concluso il colloquio, il presbitero fece ritorno alla sua chiesa. (GREGORIO
MAGNO, Dialoghi, II, I, 6-7)

Viene scoperto anche da alcuni pastori e la fama della sua santità inizia a diffondersi. La comunità
di un monastero vicino chiese a Benedetto di assumere il loro governo, dopo la morte dell’abate.
Benedetto accettò, ma poi l’ammirazione si trasformò in odio.

Poi, vedendo che sotto di lui non potevano più comportarsi irregolarmente, si dolevano di dover
abbandonare le consuete abitudini, e siccome è difficile per una mentalità ormai invecchiata
costringersi a pensare in modo nuovo, così come a chi è di cattivi costumi dà sempre fastidio chi si
comporta rettamente, si dettero a ricercare il modo di ucciderlo.
Decisero perciò di avvelenargli il vino. Ma quando la caraffa, in cui c’era la bevanda avvelenata,
fu presentata al padre che sedeva a mensa, perché era usanza del monastero che egli la
benedicesse, Benedetto tracciò un segno di croce con la mano distesa, e la caraffa, che pure era
tenuta un po’ discosta da lui, si ruppe e cadde in frantumi, come se l’avesse colpita con una pietra
invece che segnata con lo croce. L’uomo di Dio comprese subito che la caraffa aveva contenuto
una pozione mortale, dato che non aveva potuto sopportare il segno della vita; […]
Tornò così al luogo dell’amata solitudine e abitò solo con sé stesso sotto gli occhi di Colui che
dall’alto vede tutto. (GREGORIO MAGNO, Dialoghi, II, III, 4-5)

Si uniscono a lui giovani pastori della zona, e anche figli di aristocratici romani gli vengono affidati
per l’educazione, come i discepoli Placido e Mauro. Attraverso i monaci dell’aristocrazia romana
Benedetto sarà sempre legato a Roma e al papa. Sorgono 12 monasteri intorno al Sacro Specus.
Ormai tutta quella ragione era infiammata dall’amore per il Signore Dio Gesù Cristo, e molti
abbandonavano la vita del mondo e piegavano la durezza del loro cuore al giogo soave del
Redentore. (GREGORIO MAGNO, Dialoghi, II, VIII, 1)

Questo successo suscitò l’invidia del sacerdote della chiesa vicina, Fiorenzo, antenato del
suddiacono Fiorenzo, conosciuto da Gregorio Magno: «antenato del nostro suddiacono Fiorenzo».
«Infiammato dalla gelosia» il prete, prima tentò inutilmente di uccidere Benedetto, mandandoli un
pane avvelenato, poi cercò di «fare morire l’anima dei suoi discepoli», facendo entrare nel
monastero «sette fanciulle nude che sotto gli occhi dei monaci, tenendosi per mano e danzando a
lungo, infiammarono i loro animi di una passione perversa». Allora il santo, vedendo che questo
avveniva per causa sua, «cedette all’invidia». Nominò dei superiori per i monasteri fondati e, con
alcuni monaci, andò sul Monte Cassio (Montecassino) nel 529. Lungo la strada Mauro mandò a
dirgli che poteva tornare, perché Fiorenzo era morto improvvisamente.

A questa notizia Benedetto si dette a gridare e lamentarsi, e perché il suo nemico era morto e
perché il suo discepolo si era rallegrato della morte di quello. Perciò gli impose una penitenza,
perché nel comunicargli la notizia non aveva avuto remore a gioire per la morte del nemico.
(GREGORIO MAGNO, Dialoghi, II, VIII, 7)

Benedetto non tornò, fondò il monastero di Montecassino ed evangelizzò la zona. Secondo Schuster
a Cassino il monaco godeva l’autorità di un vescovo, esercitava una giurisdizione ecclesiastica,
perché era stato inviato dal papa per annunciare il cristianesimo alle popolazioni della regione
ancora legate al paganesimo. Morì nel 547.

3) La Regola: A Cassino Benedetto scrisse la sua regola, che fu portata a Roma nel 577 al
momento della fuga dei monaci per l’invasione longobarda, dove fu conosciuta da Gregorio Magno,
che forse la utilizzò nel suo monastero di san Andrea sul Cellio; ne parla così nei suoi Dialoghi:

Avrei piacere, Pietro, di raccontarti ancora molti fatti di questo venerabile padre, ma ne tralascio
alcuni a bella posta perché ho fretta di raccontare anche le gesta di altri. Ma voglio che tu abbia
ben presente che Benedetto, tra tanti miracoli che l’hanno reso famoso in tutto il mondo, si è
distinto non poco anche per dottrina. Infatti ha scritto una regola per i monaci, esemplare per la
discrezione, brillante per la forma. Se uno ha intenzione di conoscerne più dettagliatamente la
condotta di vita, può leggere in questa regola l’insegnamento che ha informato la sua azione,
perché questo sant’uomo ha insegnato esattamente come ha vissuto. (GREGORIO MAGNO,
Dialoghi, II, XXXVII, 2)

La cita nel sul Expositio in I Regum (Commento al primo libro dei re), e tutto il suo Liber Regulae
pastoralis sulla condotta dei vescovi è ispirato spiritualmente dalla Regola di Benedetto,
riproducendone spesso lo stesso contenuto. La Regola si compone di 73 capitoli e si fonda su tre
grandi virtù: umiltà, ubbidienza e silenzio.

Il sommo grado dell’umiltà è l’obbedienza senza indugio. Ciò si addice a quelli che nulla stimano
caro più di Cristo. (BENEDETTO, Regola, V)

Parlare e insegnare appartiene al Maestro, tacere e ascoltare spetta al discepolo. E se occorrerà


chiedere qualcosa al superiore, si chieda in tutta umiltà, sottomissione e riverenza. (BENEDETTO,
Regola, VI)
Il primo grado dell’umiltà è che il monaco abbia il timore di Dio sempre innanzi agli occhi.
(BENEDETTO, Regola, VII)

L’abate, responsabile dell’anima dei monaci, non comanderà «nulla di gravoso e pesante».

L’abate deve sempre ricordare quel che è. Ricordare come vien chiamato, e sappia che si esige di
più da quelli a cui fu più affidato. Sappia qual cosa ardua e difficile egli ha intrapreso col dirigere
anime e adattarsi al carattere di molti. Tratti l’uno con la dolcezza, l’altro con le minacce, l’altro
con la persuasione: si adatti e si conformi a tutti, secondo l’indole varia e la capacità di ciascuno,
per non patire il danno dell’ovile che ha in custodia e anzi gioire dell’accrescimento del buon
gregge. (BENEDETTO, Regola, Prologo)

Non è l’ascesi il centro della vita, ma l’opus Dei: il canto, i salmi, la liturgia sacra. I sacrifici
imposti sono ragionevoli; «si faccia tutto con moderazione per riguardo ai più deboli».

Se a un fratello venissero ingiunte cose ardue o impossibili, riceva ugualmente l’ordine che gli è
dato con perfetta mansuetudine e obbedienza. Se poi vede che il peso è troppo al di là delle sue
forze, presenti al superiore i motivi per cui la cosa non gli è impossibile, con pazienza e
opportunità, senza insuperbire né impuntarsi né contraddire. Che se, dopo le sue osservazioni, il
superiore insiste ancora nel suo comando, l’inferiore sappia che così gli conviene di fare, e
confidando, in spirito di carità, nell’aiuto di Dio, obbedisca. (BENEDETTO, Regola, LXVIII)

Per questa discrezione e moderazione Benedetto si distingue dalle antiche regole monastiche. La
sua è una regola, dice, per i «pigri e i negligenti». Il lavoro, espressione della preghiera che
coinvolge la vita, occupa un posto centrale; gli strumenti sono paragonati ai «vasi sacri dell’altare».
La Regola è nata dall’esperienza cristiana e dalla vita monastica di Benedetto, come dice Gregorio,
dalla sua obbedienza alla realtà, non da un a-priori imposto all’esistenza. Pur citando spesso le
opere monastiche di san Cassiano, accusato di semi-pelagianesimo, la Regola si caratterizza per un
spirito profondamente anti-pelagiano. Spesse volte si avverte il monaco a non insuperbirsi del bene
compiuto, perché è dono della grazia divina, e si ricorda che per operare il bene abbiamo bisogno
del dono dello Spirito Santo.

[…];quelli che nel timore del Signore, non s’insuperbiscono della loro buona osservanza, ma
sapendo che il bene che è in essi non è opera loro ma di Dio, Lo magnificano, […] (BENEDETTO,
Regola, Prologo)

Questione storiografica: negli anni trenta del 1900 la scoperta della antecedenza storica della
Regula Magistri sulla Regula Benedicti, -prima si riteneva il contrario e così si spiegava il legame
contenutistico fra i due scritti-, ha portato diversi studiosi a ridimensionare la figura di san
Benedetto, svilendo l’originalità della sua Regola, fatta dipendere da fonti precedenti. Alcuni ne
hanno messo in dubbio la stessa autenticità. Possiamo dire che Benedetto usò diverse tradizioni
monastiche a lui precedenti (Agostino, Pacomio, Cassiano, Basilio, Regula Magistri), e fu capace di
sintetizzarle in una regola originale e nuova, improntata alla teologia e alla spiritualità della chiesa
di Roma. I blocchi vengono da diverse cave ma l’edificio è frutto del genio di Benedetto. La Regula
Benedicti si impose nel Medioevo per la sua autorevolezza e romanità. Divenne la regola dei
monaci in occidente, mentre i canonici seguivano la regola di san Agostino. Oggi è seguita dai
benedettini e da tutti gli ordini sorti da una loro riforma, come i cistercensi e i trappisti.
4) L’incontro con la sorella Scolastica

GREGORIO: La sua sorella di nome Scolastica, consacrata al Signore onnipotente fin dalla più
tenera età, soleva fargli visita una volta all’anno. L’uomo di Dio scendeva ad incontrarla in una
dipendenza del monastero, non molto lontano dalla porta. Un giorno, dunque, come di consueto
ella venne, e il suo venerabile fratello, accompagnato da alcuni discepoli, scese da lei. Trascorsero
l’intera giornata della lode divina e in colloqui spirituali, e quando ormai stava per calare l’oscurità
della notte, presero cibo insieme. Sedevano ancora a mensa conversando di cose sante, e ormai
s’era fatto tardi, quando la monaca sua sorella lo supplicò dicendo: «Ti prego, non lasciarmi questa
notte; rimaniamo fino al mattino a parlare delle gioie della vita celeste». Ma egli rispose: «Che dici
mai sorella? Non posso assolutamente trattenermi fuori dal monastero.
Il cielo era di uno splendido sereno: non si scorgeva neppure una nuvola. Udito il rifiuto del
fratello, la monaca pose sulla mensa le mani intrecciando le dita e reclinò il capo su di esse per
invocare il Signore onnipotente. Quando rialzò la testa, si scatenarono tuoni e lampi così violenti e
vi fu un tale scroscio di pioggia, che né il venerabile Benedetto, né i fratelli che erano con lui
poterono mettere piede fuori della casa in cui si trovavano. La vergine consacrata, reclinando il
capo sulle mani, aveva sparso sulla mensa un tale fiume di lacrime da volgere in pioggia, con esse,
il sereno del cielo. E la pioggia torrenziale non seguì di qualche tempo la sua preghiera, ma fu ad
essa simultanea, a tal punto che mentre ancora la donna alzava il capo dalla tavola, già scoppiava il
tuono; tutto avvenne nel medesimo istante.: col sollevare del capo la pioggia incominciò a
scrosciare.
L’uomo di Dio, vedendo che in mezzo a tali lampi, tuoni e tanta inondazione d’acqua non poteva
affatto ritornare al monastero, cominciò a rammaricarsene e, rattristato, le disse: «Dio onnipotente
ti perdoni, sorella. Che hai fatto?». Ma ella rispose: «Vedi, io ti ho pregato, e tu non hai voluto
ascoltarmi. Ho pregato il mio Signore, ed egli mi ha esaudita. Ora esci, se puoi; lasciami pure e
torna al monastero». Ma egli, non potendo uscire dal coperto, fu costretto a rimanere suo malgrado
là dove non aveva voluto fermarsi di sua spontanea volontà. Passarono così tutta la notte vegliando
e saziandosi reciprocamente di sante conversazioni concernenti la vita dello spirito.
Per questo ti avevo detto che vi fu qualcosa che l’uomo di Dio, pur volendolo, non poté ottenere.
Se infatti consideriamo la sua intenzione, appare in tutta evidenza il suo desiderio che il cielo si
mantenesse sereno come quando era sceso dal suo monastero. Ma contrariamente a quanto
desiderava, egli si trovò davanti a un miracolo operato per potenza di Dio dal cuore ardente di una
donna. E non c’è da meravigliarsi se in quell’occasione poté di più la sorella, che desiderava
trattenersi più a lungo con lui. Secondo la parola di Giovanni, infatti, Dio è amore [Deus caritas
est]; per giustissimo giudizio, dunque, poté di più colei che amò di più.
PIETRO: Ti confesso che quanto dici mi piace molto. (GREGORIO MAGNO, Dialoghi, II, XXXIII, 2-
5)
5) L’ultima conversione di Benedetto: La storia di san Benedetto è la storia di una conversione
continua, per fuggire il mondo e piacere a Dio, ubbidendo a quello che accadeva. Abbandona Roma
per non cadere nelle tentazioni della vita degli studenti; lasciò poi Affile e l’amata nutrice Cirilla
per la vita eremitica a Subiaco a causa del pericolo della fama; dopo tre anni, scoperto dal
sacerdote, la sua vita fu conosciuta e iniziò l’esperienza comunitaria del monastero; nel 529 si
spostò a Cassino per salvare l’anima dei discepoli, tentata per l’invidia di Fiorenzo, e la vita
comunitaria, in obbedienza al mandato del papa, divenne anche missionaria. Poi il 29 ottobre 540
l’ultima conversione: un’esperienza mistica durante la quale l’anima di Benedetto si sentì immersa
in Dio e dilatata, così che, in un unico sguardo, poté contemplare come raccolto in sé ed in un
semplice raggio di luce tutta l’opera divina del mondo creato.

Un certo Servando, diacono e Abate di quel monastero che il patrizio Liberio costruì nella regione
Campana, aveva l’uso di fargli ogni tanto una visita di amicizia. Faceva questo perché era anche
lui ripieno di dottrina celeste e così si trasfondevano a vicenda confortevoli parole di vita e non
potendo ancora gustare il dolce cibo della patria del cielo, lo pregustavano almeno con ardente
desiderio. Una volta si trattennero tanto, che era già l’ora di andare al riposo. Benedetto si era
ritirato a riposare nel piano superiore di quella torre che si elevava a dominare tutto l’abitato,
Servando nei locali inferiori: i due piani però erano in comunicazione per mezzo di una comoda
scala. Di fronte poi alla torre si estendeva un fabbricato più grande, ove presero riposo i discepoli
dell’uno e dell’altro. Mentre i fratelli dormivano, Benedetto prolungò la veglia in attesa della
preghiera notturna, e in piedi, vicino alla finestra, pregava. D’un tratto, fissando l’occhio nelle
tenebre profonde della notte, scorse una luce scendente dall’alto che fugava la densa oscurità e
diffondeva un chiarore così intenso da superare persino la luce del giorno. In questa visione
avvenne un fenomeno meraviglioso, che lui stesso poi raccontava: fu posto davanti ai suoi occhi
tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole. Mentre contemplava con lo
sguardo gli splendori di quella luce smagliante, vide l’anima di Germano, Vescovo di Capua,
trasportata dagli angeli, raccolta in un globo di fuoco. Volendo quindi avere un testimone di sì
mirabile prodigio, chiamò a gran voce, ripetutamente, due o tre volte, il diacono Servando. Questi,
impressionato alle grida insolite di quell’uomo, corse su veloce, guardò anche lui e poté vedere
con meraviglia l’ultimo affievolirsi di quella luce meravigliosa, mentre l’uomo di Dio completava
il racconto di quanto aveva veduto, suscitando in lui profondo stupore per il grande miracolo.
Mandò subito dopo a Cassino un messaggero al monaco Teoprobo, perché nella stessa notte si
recasse a Capua e si informasse, per poi riferire, che fosse successo al vescovo Germano. L’ordine
fu eseguito. L’inviato trovò già defunto il reverendissimo Vescovo Germano, e, informandosi delle
circostanze della morte, gli risultò che coincideva proprio con quel momento nel quale l’uomo di
Dio aveva contemplata la sua elevazione al cielo.
PIETRO: È un Miracolo meraviglioso e stupendo! Ma cosa vuol dire che fu presentato davanti agli
occhi di lui tutto il mondo, come raccolto in un raggio di sole? Siccome a me non è successo mai,
allora non riesco proprio a immaginare, come possa avvenire che un solo uomo possa vedere
l’intero mondo.
GREGORIO: Pietro, tieni bene in mente questo che ti dico: all’anima che contempla il Creatore,
ogni creatura è ben piccola cosa. Quando essa vede un bagliore del Creatore, per piccolo che sia,
esigua gli diventa ogni cosa creata. Per la luce stessa che contempla interiormente, si dilata la
capacità dell’intelligenza, e tanto si espande in Dio da ritrovarsi al di sopra del mondo. Anzi
l’anima del contemplativo si eleva anche al di sopra di se stessa. Rapita nella luce di Dio, si
espande interiormente sopra se stessa e quando sollevata in alto riguarda al di sotto di sé,
comprende quanto piccolo sia quel che non aveva potuto contemplare dal basso. L’uomo di Dio,
dunque, che fissava il globo di fuoco e gli angeli che tornavano in cielo, non poteva contemplare
queste cose se non nella luce di Dio. Non reca dunque meraviglia se vide raccolto innanzi a sé
tutto il mondo, perché, innalzato al cielo nella luce intellettuale, era fuori del creato. Tutto il
mondo si dice raccolto davanti a lui, non perché il cielo e la terra si fossero impiccoliti, ma perché
lo spirito del veggente si era dilatato, sicché, rapito in Dio, poté senza difficoltà contemplare quel
che si trova al di sotto di Dio. Perciò in quella luce che brillò ai suoi occhi corporei, era
simboleggiata la luce interiore della mente, la quale nel rapimento dell’anima, gli mostrò quanto
piccole fossero tutte le cose di quaggiù.
PIETRO: mi accorgo che è stato un bene per me non aver capito prima quel che avevi detto. La mia
ottusità ha occasionato queste tue esposizioni veramente sublimi. Adesso ho capito benissimo la
cosa e quindi, se non ti dispiace, riprendi il filo del racconto. (GREGORIO MAGNO, Dialoghi, II,
XXXV)

L’esperienza raccontata rimarrà esemplare per la mistica di tutto il Medioevo, basti pensare alla
contemplazione di Dio da parte di Dante nell’ultimo canto del Paradiso:

Nel suo profondo vidi che s’interna,


legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i dico è un semplice lume. (DANTE, Paradiso, XXXIII, 85-90).

Dopo la visione della luce di Dio, non dell’essenza increata come sottolinea san Tommaso nelle sue
Quaestiones quodlibetales (q.1, a.1), la vita di Benedetto negli ultimi anni fu tutta un’attesa e una
nostalgia del cielo. «Non faceva che parlare e sospirare al Paradiso; tanto che altri santi suoi
contemporanei intraprendevano fra molti pericoli il viaggio di Monte Cassino, pur di avere la
soddisfazione di pregustare le gioie del cielo e discorrendone con padre Benedetto». (I. SCHUSTER,
Benedetto il padre dell’Europa, Jaca Book, Milano 2019, 355)

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