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1. L’Atlantico settentrionale.
2. L’Atlantico meridionale.
3. Tempi di navigazione a vela.
4. Spinte demografiche nel mondo atlantico, 1650.
5. Il nuovo spazio americano atlantico, 1650.
6. Aree africane permeate dall’Europa atlantica.
7. Gruppi culturali africani.
8. Stati dell’Africa occidentale, 1625.
9. Stati dell’Africa centrale, 1625.
10. Flussi del commercio degli schiavi, 1650-1850.
11. Collegamenti tra gli insediamenti fortificati e l’entroterra del Costa d’Oro nel XVIII secolo.
12. Il flusso degli schiavi dall’Africa occidentale verso il Brasile.
13. La redistribuzione di schiavi africani della South Sea Company.
14. Insediamenti di comunità libere in Guiana.
15. Insediamenti di comunità libere in Pernambuco.
16. Il commercio atlantico nel XVIII secolo.
17. La piantagione di Batchelors Hall in Giamaica nel 1741.
18. Schema di una piantagione di riso nelle terre basse, 1789.
LE CONNESSIONI MONDIALI E L’ATLANTICO
Cartina 1.
L’Atlantico settentrionale.
Cartina 2.
L’Atlantico meridionale.
Dal periodo dei primi tentativi a quello delle misurazioni con l’orologio
nautico passarono molti decenni, nel corso dei quali si verificarono anche
una serie di innovazioni significative nella costruzione delle imbarcazioni.
Può essere utile a questo punto fare un po’ di chiarezza sui termini. Si
definisce nave un’imbarcazione che disponga da tre a cinque alberi, ognuno
dotato di vele quadre. Furono queste le imbarcazioni dominanti nel periodo
compreso fra il XV e il XX secolo. Il numero degli alberi permise
inizialmente di migliorare la navigazione, ma quando le vele cominciarono
a raggiungere dimensioni notevoli, furono divise in coppie di vele piú
piccole, perché fossero piú maneggevoli.
I primi viaggi di esplorazione atlantica furono fatti con diversi tipi di
navi, generalmente utilizzate per il commercio. I due tipi principali di cui ci
si serviva nel Mediterraneo erano la galera e la nave rotonda. La galera era
una nave lunga che viaggiava spinta dalla forza muscolare dei rematori. La
nave rotonda era invece dotata di un albero al centro, provvisto di una
grande vela quadra. Si trattava di un’imbarcazione pesante e lenta (dieci
volte piú della galera), con una notevole capacità di carico ed equipaggio
ridotto (un decimo rispetto a quello della galera, considerando i rematori),
che tuttavia non era in grado di assicurare una navigazione molto precisa:
gli inconvenienti principali erano rappresentati dalla sua guida
estremamente difficoltosa, dalla lentezza e dalla dipendenza dai venti
posteriori; nel XIII secolo, l’introduzione del timone apportò un notevole
miglioramento alla governabilità di questo tipo di nave.
Dal XIII al XV secolo l’evoluzione delle navi tese al gigantismo:
proliferarono infatti imbarcazioni in grado di trasportare 400-500 tonnellate
di merci e di convertirsi in velieri con grandi vele e timone per far fronte
alle maggiori esigenze del traffico marittimo. Questo sviluppo interessò
specialmente il trasporto di grano nel Mediterraneo, nell’Europa del Nord e
nel Baltico.
L’aumento nelle dimensioni di queste navi fu possibile grazie alle nuove
tipologie e superfici delle vele. Oltre all’albero centrale, due piccoli alberi
ausiliari permettevano una maggiore velocità. La vela quadra era usata per i
lunghi percorsi in linea retta; la vela latina triangolare, piú maneggevole,
favoriva invece le manovre difficili. Questa trasformazione interessò anche
il Mediterraneo, poiché a partire dal XIII secolo il Marocco divenne uno dei
principali fornitori di grano. Inoltre, per ridurre la resistenza dell’acqua,
furono allungati gli scafi: il rapporto tra lunghezza e larghezza passò da 2 a
1 nel XIII secolo a 3 a 1 alla fine del XV .
Nei viaggi lungo la costa africana a partire dal XIV secolo si diffuse
invece il barinel, una nave a due o tre alberi con vele quadre, sviluppata a
partire dalle barche dei pescatori portoghesi e spagnoli.
La nave maggiormente utilizzata nella navigazione atlantica fu la
caravella, che si diffuse tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Si
trattava di un’imbarcazione di forma allungata, elaborata in Portogallo, che
combinava le migliori caratteristiche delle navi mediterranee e atlantiche.
Utilizzabile sia sulle lunghe sia sulle brevi distanze, univa la rapidità e la
manovrabilità della galera alla portata della nave rotonda, poteva trasportare
agevolmente piccoli volumi di merci (fra le 60 e le 90 tonnellate) e
raggiungeva facilmente le coste, per questo fu impiegata soprattutto per
carichi di valore. Il capitano della caravella poteva scegliere di usare solo la
vela latina oppure di combinare le vele quadre dell’albero maestro, quelle
dell’albero di trinchetto e la vela latina dell’albero di mezzana, per ottenere
maggiore velocità con il vento di poppa. Era quindi una nave in grado di
seguire il vento, e poteva trasportare acqua sufficiente per un mese e cibo
per quattro mesi per un equipaggio di 20-30 uomini.
Illustrazione 1.
Caracca portoghese del XV secolo, modello.
Illustrazione 2.
La Santa Maria di Cristoforo Colombo, XV secolo, modello.
La Santa Maria di Colombo era una caracca, che navigava con le
caravelle all’interno di una flotta mista. Con tre caracche navigò Vasco da
Gama verso l’India: queste possedevano tre alberi con vele quadre e
avevano una stazza di 100-120 tonnellate ciascuna.
Nel corso del XVI secolo caravelle e caracche cedettero il passo a una
nuova nave, il galeone. D’invenzione spagnola, il galeone offriva la stessa
capacità di carico della caracca ma velocità e manovrabilità simili alla
caravella, e fu concepito appositamente per i viaggi verso l’America. Non a
caso, i primi galeoni furono costruiti nella parte atlantica della Spagna, e
poi anche a Lisbona. Nel 1610 cominciarono a essere costruiti anche in
America, e piú precisamente a Cuba, utilizzando il legno di mogano
tropicale, di qualità superiore al legname europeo. In Spagna e in Portogallo
erano impiegati invece il rovere per gli elementi strutturali, il pino per gli
alberi e diverse essenze per le altre parti. In seguito la costruzione dei
galeoni si diffuse anche in Francia, in Olanda, in Inghilterra, in Svezia e
nella città anseatica di Lubecca.
Illustrazione 3.
Galeone portoghese del XVI secolo, modello.
Illustrazione 5.
Fregata inglese del XVII secolo, modello.
Il clipper, utilizzato a partire dall’ultimo terzo del XVIII secolo, fu
sviluppato nella baia di Chesapeake. In seguito verrà costruito anche in
Inghilterra, in Olanda, in Francia e in Brasile. Si trattava di una nave a tre
alberi, lunga, leggera e aggraziata, con prua sporgente e scafo slanciato. In
media era lungo 74,6 metri, largo non piú di 10,7, e aveva un pescaggio di
6,5 metri. Molto veloce, il clipper era anche relativamente leggero poiché
raramente superava le 200 tonnellate di stazza. Poteva percorrere la distanza
tra Boston e Liverpool in 12 giorni e 6 ore, e quella tra New York e San
Francisco via Capo Horn in 89 giorni (Lubbok 1968).
Gli arsenali fecero la loro comparsa nei Caraibi spagnoli sin dalla
seconda metà del XVI secolo. L’attività cantieristica ebbe inizio a Cuba e si
diffuse successivamente nel golfo del Messico, nelle regioni di Veracruz e
Campeche. In Brasile, la prima regione dotata di arsenali fu quella di Bahia,
dove furono costruite imbarcazioni sin dalla fine del XVI secolo, seguita da
Pernambuco e, dopo il 1650, da Rio de Janeiro. Nel XVII secolo e nella
prima metà del seguente l’attività commerciale del Brasile in Africa è stata
sostenuta principalmente dalle navi costruite appunto negli arsenali di Bahia
e di Rio de Janeiro (Romano 2007).
Illustrazione 6.
Brigantino a pioppo armato della marina del Regno di Sardegna, olio su tela, XIX secolo.
Tabella 1.
Distribuzione proporzionale del potere navale, 1500-1850.
3. I primi insediamenti.
São Jorge da Mina, noto come Mina, a Elmina nel Costa d’Oro (odierno
Ghana), fu uno dei tre insediamenti stabiliti nell’ultimo decennio del XV
secolo. Gli altri due furono Wadame in Mauritania e Gwato nel Benin
(attuale Nigeria meridionale). Dei tre, solo Mina diventò permanente poiché
il re eguafo utilizzò l’accordo concluso con i portoghesi per rafforzare il
proprio potere nei confronti dei regni vicini. Il rappresentante portoghese
negoziò l’affitto di Mina con il re Kwamin Anzah, accordo che si concluse
con un rito di pace e una festa. Da semplice insediamento, Mina diventò poi
il primo castello commerciale, costruito a spese della corona portoghese. Il
sovrano inviò infatti una flotta comandata da Diogo de Azumbaja,
composta da dieci caravelle e due navi da trasporto, con 600 uomini
destinati alla costruzione del castello.
Mina e gli altri insediamenti portoghesi nell’Africa occidentale (in
Senegal, in Gambia, in Guinea e a Capo Verde) permisero di prendere il
controllo della via dell’oro. Prima della conquista marocchina di Timbuctú,
l’area di produzione aurifera, che dal Sudan arrivava sino al Niger, era
collegata con i porti mediterranei di Tangeri, Ceuta, Orano, Tlemcen e
Tunisi, dove si avvicendavano commercianti genovesi, portoghesi e
spagnoli. A partire dall’inizio del XVI secolo, invece, la via dell’oro divenne
atlantica. Secondo le fonti a nostra disposizione, tra il 1504 e il 1545 da
Mina giunsero a Lisbona ogni anno da un minimo di 371 a un massimo di
473 chili d’oro; tra il 1550 e il 1571 tra 150 e 435. Tra il 1494 e il 1496
giunsero a Lisbona dalla Guinea 52 chili annui; 182 tra il 1497 e il 1498;
301 tra il 1505 e il 1507; e 371 tra il 1509 e il 1513. Non conosciamo
invece le quantità d’oro proveniente dalla Sierra Leone, da Arguin e
Oudami, da Axem e dal Senegal (Braudel 1976; Magalhães-Godinho 1969).
Sulle coste africane degli attuali Senegal e Gambia lo scambio avveniva
tramite vari valori non monetari: prima del 1460 un cavallo valeva dai tre ai
quindici schiavi, intorno al 1490 tra i dieci e i dodici, e all’inizio del XVI
secolo ne valeva cinque. Ad Arguin, invece, lo scambio avveniva in oro; in
Guinea e nel Benin tra ferro e oro, mentre nell’alto Niger e nell’alto
Senegal l’oro veniva scambiato con sale e cipree, conchiglie pregiate usate
come moneta. Anche nel Congo e in Angola lo scambio avveniva con
conchiglie, denominate zimbos.
L’insediamento dello spazio atlantico prese forma con grande lentezza.
Tra lo stanziamento a Madeira e l’avvio del flusso d’oro dall’Africa verso
l’Europa atlantica trascorse piú di un secolo. Il predominio portoghese e
spagnolo è associato a questa fase del mondo atlantico, caratterizzata
principalmente dal commercio dell’oro e, secondariamente, degli schiavi.
Oltre agli scambi, un’altra caratteristica del primo percorso atlantico fu
però la creazione, tanto in Africa quanto nell’America del Nord, di una
serie di spazi isolati e non comunicanti tra loro, occupati in particolar modo
dagli inglesi e dai francesi, la cui presenza era ancora marginale e
contrastata da quella portoghese e spagnola.
Dopo essere stati respinti dai mercati ittici anseatici e aver inutilmente
provato a introdursi nelle acque islandesi, gli inglesi si spinsero piú a ovest
e, nella seconda metà del XV secolo, si insediarono a Terranova. Qui la loro
presenza fu contestata dalla Spagna e dal Portogallo sulla base delle bolle
papali del 1493, che assegnavano anche Terranova alle potenze iberiche e
che erano state recepite nel 1496 dal trattato di Tordesillas.
Rifiutando la spartizione papale dell’Atlantico, nel 1497-98 l’Inghilterra
inviò a Terranova Giovanni Caboto. Allo stesso modo, a partire dalla
spedizione di Giovanni da Verrazzano, fecero la loro comparsa nello
scenario dell’Atlantico settentrionale anche i francesi. Nel 1524 Verrazzano
raggiunse infatti le coste americane della Carolina del Nord e la baia di
New York, dove fu respinto dagli amerindi. Successivamente, le spedizioni
francesi di Jacques Cartier (1534, 1535 e 1543) permisero di approfondire
la conoscenza di Terranova e di esplorare il golfo di San Lorenzo, entrando
in contatto con gli irochesi.
Gli insediamenti di pesca avevano uno scopo commerciale; il baccalà
prima e la caccia alle balene poi stabilizzarono e rafforzarono i rapporti tra i
commercianti inglesi, francesi, portoghesi e biscaglini, interessati a sfruttare
il commercio di baccalà consumato nei paesi cattolici durante le feste
comandate.
Simile all’interesse offerto dai banchi di pesca è la ricerca di regioni
atlantiche dotate di risorse naturali, che si estese verso il Brasile ancora
prima della sua scoperta. Gli imprenditori di Bristol avevano infatti trovato
sulle coste brasiliane il pau brasil, una pianta tintoria usata nel settore
tessile per tingere di rosso specialmente il velluto. La corona portoghese si
affrettò allora a concedere l’usufrutto di questa risorsa a commercianti
portoghesi che stabilirono due insediamenti, a Cabo Frio, nel territorio di
Rio de Janeiro, e a Pernambuco, che in breve divenne il piú attivo per la
vicinanza con i mercati europei. Fiandre e Olanda figurano tra i primi
consumatori del legname di tintura per la finitura dei loro tessuti (McCusker
e Menard 1991).
Dopo il ritiro inglese dalle coste brasiliane furono i francesi a interessarsi
al pau brasil, disconoscendo come gli inglesi la spartizione dell’Atlantico
fatta dal Vaticano tra i due paesi iberici. Sino alla definitiva cacciata dei
francesi dal Brasile nel 1565, a opera della corona portoghese, lo
sfruttamento del legname fu caratterizzato dallo scontro continuo tra
mercanti portoghesi e francesi. Questo comportò la necessità di stringere
alleanze simili a quelle stabilite in Africa con le società amerindie, che
scambiavano la pianta tintoria contro prodotti europei. Questa conflittualità
rese inoltre la presenza portoghese e francese estremamente superficiale: il
tentativo francese di creare un insediamento permanente nella baia di
Guanabara, dove sorgerà piú tardi Rio de Janeiro, si rivelò un fallimento e
provocò una ribellione dei coloni.
La precarietà degli insediamenti cinquecenteschi in America è
documentata dal fallimento dell’impresa di Colombo nell’isola di
Hispaniola, dopo l’insediamento avvenuto nel 1492. Seguendo il modello
mediterraneo, Colombo cercò infatti di dare vita qui a una fattoria, in base
al contratto firmato nel 1492 con la regina di Castiglia, che gli concedeva i
diritti vitalizi ed ereditari di ammiraglio, viceré e governatore di tutti i
territori che avesse scoperto, oltre alla decima parte di tutti i benefici dei
territori conquistati. Nel corso del suo primo viaggio, Colombo organizzò
dunque a Hispaniola un insediamento commerciale la cui attività principale
era il monopolio dello scambio dell’oro, estratto con il lavoro forzato degli
amerindi, contro beni europei. Il monopolio regio-colombino si rivelò
tuttavia un pessimo affare, che trovò l’opposizione della popolazione
amerindia che raccoglieva l’oro alluvionale a scopo puramente religioso e
ornamentale.
Lo scarso progresso dell’impresa, che la corona meditava di liquidare,
favorí una ribellione nell’insediamento gestito da Colombo, motivata dalla
richiesta di poter commerciare liberamente con gli indios. La rivolta del
1497 inaugurò una fase nuova. Una volta revocato il monopolio, la Corona
cominciò infatti a concedere licenze affinché singoli privati e commercianti
potessero scambiare prodotti tra le Antille e la Spagna e all’interno dello
spazio caraibico.
Alonso de Ojeda fu tra i primi ad accettare i nuovi accordi con la corona.
Ojeda arrivò nell’attuale Venezuela nel 1499, e seguendo la pratica della
cattura di schiavi amerindi li impiegò nella pesca delle perle nell’isola di
Margarita, sulla costa venezuelana. Tuttavia, cosí come era successo con la
scarsa qualità dell’oro alluvionale dell’impresa di Colombo, anche le perle
si rivelarono costose e assai difficili da raccogliere. Le scarse eccedenze
agricole delle popolazioni amerindie finirono per trasformare le società
mercantili in vere e proprie bande armate, che razziavano i villaggi degli
indios per catturare schiavi e rivenderli poi al fine di procurarsi il
sostentamento necessario. Si trattava di imprese a tutti gli effetti, alle quali
partecipavano come soci e finanziatori funzionari regi, ecclesiastici e agenti
delle grandi case mercantili castigliane ed europee presenti a Siviglia.
Gli insediamenti creati dagli spagnoli sulla costa occidentale di Panama
dopo aver abbandonato Hispaniola illustrano la prima fase del controllo
spagnolo nell’area continentale americana. Tra il 1509 e il 1533, quando
comincerà la corsa alla conquista del Perú, le bande armate si sposteranno
dal Darién (come veniva chiamata questa regione) verso sud, est e nordest. I
raid nel Darién avevano lo scopo di raccogliere schiavi da utilizzare nella
raccolta dell’oro alluvionale. Le bande armate contavano tra i 40 e i 300
uomini a cavallo, che scorrazzavano tra l’attuale Panama e le coste
colombiane e venezuelane.
Dai registri degli ufficiali regi tra il 1514 e il 1526 risulta che le bande
armate pagavano al fisco un quinto del valore dell’oro alluvionale e dell’oro
delle miniere, come anche del valore delle perle, degli schiavi e delle merci
scambiate: in quel lasso di tempo le bande raccolsero un totale di 175 000
pesos da 8 real, di cui pagarono al regio fisco 31 000 pesos da 8 real
(Góngora 1962).
Queste ricchezze erano frutto di una violenza organizzata dai capitani e
dai membri delle bande armate, che condividevano gli stessi interessi. I
membri delle bande, infatti, oltre a partecipare ai raid, contribuivano al
finanziamento delle incursioni stesse e, in proporzione alla quota investita e
all’impegno assunto in tali azioni, ne condividevano guadagni e perdite.
2. La catastrofe demografica.
Tabella 2.
Popolazione dei Caraibi spagnoli, 1570-1650.
La forma assunta dagli insediamenti permanenti permise lo stabilirsi di
attività produttive e di inedite modalità di scambio, e il loro sviluppo seguí
un preciso disegno geografico e strategico, che ritroviamo in tutte le aree
atlantiche americane. A partire dalle zone costiere, dove spesso si erano
insediati provvisoriamente gli europei, si sviluppava un’area portuale, e
successivamente un hinterland, che per molto tempo non supererà i 100-150
chilometri dalla costa, in modo da non perdere il collegamento con il vicino
porto e con le rotte atlantiche. L’hinterland svolgeva inoltre la funzione di
collegamento con la frontiera aperta, dove si stabilirono gli appartenenti a
diversi gruppi etnici che erano stati espulsi o erano fuggiti dall’area degli
insediamenti permanenti.
Questa modalità di insediamento permanente prese piede a partire dalla
prima metà del XVII secolo, ma assunse la sua forma definitiva nel corso
della seconda metà del secolo. L’articolazione delle tre aree (costa,
hinterland e frontiera aperta) richiese infatti la creazione di infrastrutture di
comunicazione: strade, collegamenti fluviali e, a volte, canali navigabili.
Nell’occupazione territoriale dell’America britannica anche gli schiavi
ebbero un ruolo importante: senza di loro le piantagioni della baia di
Chesapeake, Virginia, Maryland e Carolina non avrebbero potuto prendere
forma. In Massachusetts, invece, dove non furono stabilite piantagioni, fu la
componente amerindia ad assumere un ruolo chiave, nonostante la
crescente influenza dei coloni. Nella Nuova Inghilterra si ridusse il numero
degli interpreti, e i capi tribú cominciarono a esprimersi in inglese, senza
che ciò comportasse una totale sottomissione dei nativi. Nel frattempo la
convivenza tra amerindi e coloni cominciò a farsi sempre piú difficile,
mentre i meticci erano riconosciuti nelle aree francesi ed erano invece
disprezzati nelle aree inglesi (Meining 1985).
Negli hinterland si creò invece un diverso genere di relazione tra
invasori e amerindi, come risultato della loro interdipendenza. Si
osservarono due diversi modelli di interazioni: in alcune regioni queste
erano localmente diffuse, con molti punti di contatto ma con scarsi sviluppi
sistematici; in altre aree invece i rapporti tra coloni e amerindi furono piú
formalizzati a livello interculturale e organizzativo. Il primo modello lo
ritroviamo nella Nuova Scozia, nella relazione tra acadiani e micmac in
Canada e lungo l’area meridionale del Mississippi. Il secondo modello
appare invece nelle aree di Montréal, Albany (New York), Charleston
(Carolina del Sud) e Mobile (Alabama).
Nell’hinterland continentale britannico, in cui si ritrovarono a convivere
artigiani, costruttori di canoe e traduttori, i principali contesti di contatto tra
coloni e amerindi furono i mercati, le guarnigioni, le chiese e, a volte, anche
le scuole. Tanto nell’hinterland quanto nella frontiera aperta si assisté alla
nascita di linguaggi formati da parole inglesi e francesi con significati
amerindi, e addirittura le tecniche di combattimento amerindie assunsero
alcuni tratti di quelle europee, grazie all’uso dei fucili e della polvere da
sparo. Nonostante i matrimoni misti non fossero apprezzati dai coloni, gli
incroci etnici furono frequenti dal momento che molti coloni convissero con
donne amerindie. Ne risultarono, nell’entroterra e nella frontiera aperta
britannica e francese continentali, percentuali significative di popolazione
meticcia.
Piú complessa fu la situazione della frontiera che si sviluppò a ovest,
geograficamente piú estesa dell’hinterland. In quell’area il sistema
commerciale era interamente nelle mani degli amerindi e dei meticci,
cacciatori di pelli, trasportatori di beni e commercianti delle produzioni
amerindie. Qui coloni e nativi trovarono un terreno di scontro, ma si videro
allo stesso tempo costretti alla convivenza, dando vita a una dinamica che
portò molti cambiamenti. Va aggiunto che l’assenza di controllo statale
sulla frontiera esterna del mondo atlantico provocò alterazioni tanto nelle
società amerindie quanto in quelle dei coloni; si istituirono inoltre alleanze
mutevoli, che portarono a un’intensificazione degli scontri bellici tra le
diverse tribú amerindie (Meining 1985).
A differenza degli insediamenti iberici, quelli inglesi offrirono
scarsissime possibilità di partecipazione alle popolazioni amerindie, poiché
i rapporti erano fondati sulla forza, sulla coercizione e sull’interesse dei
notabili (Jennings 1976).
L’organizzazione geografica e strategica dell’Atlantico meridionale fu
simile a quella dell’Atlantico settentrionale. La maggiore differenza
risiedeva nel fatto che l’hinterland nell’Atlantico meridionale si sviluppò su
un territorio molto esteso nell’entroterra. Si trattava di una zona
particolarmente ricca di argento e i principali siti estrattivi erano ben
collegati con i porti e le rotte atlantiche, inoltre la sua specificità dipese
dalla ripresa demografica avvenuta tra il 1620 e il 1640.
Nell’Atlantico meridionale i primi insediamenti permanenti si
svilupparono nell’area caraibica, a partire dalle isole di Cuba, Hispaniola e
Portorico, che si erano spopolate durante l’insediamento provvisorio del
XVI secolo, fino a occupare anche la fascia costiera del Messico, Panama,
Venezuela e Colombia, per poi ripartire dal Nordest del Brasile e da lí verso
sud fino a Santos.
In entrambe le aree si diffuse la produzione agricola; la coltura
principale, a partire dal 1530-40, fu quella della canna da zucchero, in
particolare nella regione di Bahia e Pernambuco.
Come nell’America britannica, nel XVI secolo gli avamposti iberici
furono stabiliti su isole in cui si scambiavano prodotti amerindi contro beni
europei. Il primo insediamento provvisorio in Brasile era finalizzato alla
racconta del pau brasil, intorno alla quale presero avvio anche i primi
meccanismi di interazione interetnica e i primi accordi di collaborazione tra
gli amerindi e gli invasori portoghesi e francesi.
Anche il primo insediamento spagnolo in Messico, stabilito a Veracruz
tra il 1517 e il 1540, fu un porto, collegato con Cuba e Siviglia. In
quest’area della costa gli insediamenti erano finalizzati alle razzie
organizzate dalle compagnie dei capitani di conquista. Il centro intorno a
cui ruotavano questi primi insediamenti spagnoli era il porto cubano
dell’Avana, che a partire dal 1561 ebbe il controllo dei commerci di
legname pregiato (il mogano cubano e guatemalteco e il legname tintorio di
Tabasco), di pellame, di perle e cacao venezuelano, degli smeraldi della
Colombia e della lana di alpaca del Perú. L’Avana divenne cosí lo snodo
americano della flotta che collegava il continente con la Spagna.
Gli snodi dell’Avana e di Portobelo divennero inoltre importanti, dopo il
1580, con l’avvio dell’hinterland minerario. A partire da quel momento,
l’area di produzione dell’argento del Messico centrosettentrionale e l’area
peruviana di Potosí nella Bolivia divennero fondamentali nella costruzione
del mondo atlantico. L’argento animerà infatti il collegamento con l’Europa
atlantica e offrirà, grazie all’intermediazione e al potenziamento delle reti
mercantili, il finanziamento necessario per la costruzione degli insediamenti
permanenti sulle fasce costiere.
Lo sviluppo dell’hinterland minerario trasse una forte spinta dalla
tecnica dell’amalgamazione, innovativo procedimento scoperto in America
che permette di trasformare il minerale grezzo in argento. Grazie a questo
procedimento i centri minerari offrirono dunque quantitativi crescenti di
argento alla circolazione monetaria atlantica (Carmagnani 2012b).
Cartina 5.
Il nuovo spazio americano atlantico, 1650.
La manodopera impiegata nel settore estrattivo provenne inizialmente
dalla residua popolazione amerindia, cui si aggiunse in seguito in Messico
quella servile meticcio-mulatta reclutata con il sistema della servitú
debitoria, specialmente a partire dal XVII secolo. Nelle miniere peruviane la
manodopera proveniva invece da duecento comunità amerindie installate in
un raggio di circa 50 chilometri dalle miniere d’argento di Potosí e di
mercurio di Huancavelica. Le comunità offrivano a turno un settimo della
popolazione maschile, che si trasferiva nella zona delle miniere per circa tre
mesi, portando con sé gli approvvigionamenti alimentari necessari per
sopravvivere. Questo sistema di lavoro forzato, istituito dal viceré Toledo
nel 1573, fu abolito soltanto nel 1812. Si trattava di una forma di lavoro
servile, poiché i salari della manodopera india finivano nelle mani dei
cacicchi (i governanti delle comunità), dei regi funzionari nominati dal
viceré e del clero (Dell 2010).
Con la manodopera amerindia e meticcio-mulatta e la nuova tecnica di
estrazione fu possibile produrre, tra il 1580 e il 1640, 674,3 milioni di pesos
d’argento, cioè 11,3 milioni annui. Sebbene una cospicua percentuale di
questo denaro prendesse la strada della Spagna e dell’Europa atlantica, una
parte significativa circolò sulle coste atlantiche del continente americano
per via del commercio illegale, svolto con la mediazione di commercianti
spagnoli, portoghesi, britannici, olandesi e francesi. L’argento requisito dai
corsari di varie nazionalità raggiunse inoltre il 10-20 per cento del totale
dell’argento prodotto circolante nelle diverse aree atlantiche americane,
ossia tra uno e due milioni di pesos annui (Morineau 1985; Te Paske 2010).
La ricchezza dell’America spagnola rimise in discussione la spartizione
papale dell’Atlantico concessa esclusivamente alla Spagna e al Portogallo,
provocando la corsa delle potenze europee escluse (Inghilterra, Francia e
Olanda) per prendere possesso delle terre dell’America settentrionale.
È dunque possibile affermare che, sebbene l’organizzazione territoriale e
strategica delle tre aree avesse fornito il presupposto per l’integrazione del
mondo atlantico, l’hinterland dell’argento americano fu il contesto in cui
questa si rivelò davvero possibile. Va aggiunto che nel corso della prima
metà del XVII secolo all’argento si aggiunse lo zucchero brasiliano, l’«oro
bianco» che rese il mondo atlantico euro-afro-americano una nuova e
inscindibile realtà. Senza il traino di questi due prodotti americani non
sarebbero arrivati gli schiavi bianchi e africani e l’Africa e le Americhe non
avrebbero potuto ottenere le merci europee necessarie per la loro
sopravvivenza.
La crescita del mondo atlantico tra la fine del XVI e la prima metà del
XVII secolo fu inoltre resa possibile dalla progressiva riduzione delle
esportazioni di oro africano per la circolazione monetaria europea: a partire
da questo momento, il ruolo dell’Africa rimase essenzialmente quello di
fornire forza lavoro per le Americhe.
Lo sviluppo delle aree americane è dimostrato dalla loro capacità di
attrarre popolazione europea. Mentre nel 1690 l’America continentale
britannica, come abbiamo visto, aveva una popolazione di 198 000 abitanti,
tra il 1500 e il 1580 le aree spagnole avevano attirato 139 000 immigrati e
altri 188 000 sarebbero arrivati tra il 1580 e il 1640. Il ripopolamento del
Brasile dipese dagli schiavi africani, ma anche dagli immigrati europei e
dalla nuova popolazione meticcia e mulatta, per cui nel 1690 la popolazione
totale brasiliana era di 242 000 abitanti. Il ripopolamento delle aree
spagnole dipese anche dalla fine della catastrofe demografica amerindia
(Romano 2007).
L’Atlantico meridionale, come quello settentrionale, aveva un’area di
frontiera aperta di vaste dimensioni, popolata soprattutto da amerindi, e in
cui vi erano pochi bianchi. Le principali aree di scambio si sviluppavano tra
l’attuale Argentina e il Brasile, e il commercio dipendeva anche in questo
caso dagli amerindi, che scambiavano beni europei contro argento, cavalli,
pelli, cuoio e carne essiccata proveniente dal bestiame brado introdotto dai
primi europei e successivamente rinselvatichito. La dinamica sociale
dominante era il conflitto, ma vi erano anche numerose interazioni tra
amerindi, bianchi, meticci e mulatti; la principale fonte di scambio in
quest’area era costituita dal contrabbando dell’argento prodotto a Potosí,
che raggiungeva i porti di Buenos Aires, Santos e Rio de Janeiro, ma anche
dal contrabbando dei diamanti. Lo stesso interesse per l’argento animava
l’area di frontiera aperta tra il Messico centrosettentrionale e l’America
britannica, dove i pesos coniati e i lingotti d’argento raggiungevano New
York e Boston, favorendo la circolazione monetaria nell’Atlantico
britannico e francese.
Per capire il salto qualitativo avvenuto nell’Atlantico americano tra la
fine del XVI e la prima metà del XVII secolo è importante considerare i
mutamenti intercorsi nei rapporti tra la popolazione e la forza animale.
Questa trasformazione ci aiuta a capire le innovazioni che avvennero
soprattutto nei collegamenti tra gli spazi. Prima dell’arrivo degli europei il
continente americano era carente di forza animale, e si stima che le attività
agricole richiedessero una forza lavoro umana di sette abitanti rispetto ai
quattro dell’Europa dello stesso periodo (Romano 2007).
All’inizio del XVI secolo l’America aveva una popolazione stimata di 72
milioni di abitanti e la sua capacità energetica era all’incirca di 10,3 milioni
di unità. Intorno al 1620 rimanevano soltanto 5-6 milioni di abitanti, la cui
capacità energetica, tenendo ora conto della forza animale introdotta dagli
europei, era di 1,3-1,5 milioni di unità. Se nel 1620 avesse potuto contare su
una popolazione di almeno 10 milioni di abitanti, l’America avrebbe avuto
il doppio delle unità di energia per sostenere l’avvio degli insediamenti
definitivi. Nel 1690, tuttavia, la popolazione totale non superava ancora i 7-
8 milioni di abitanti, con il risultato che il deficit energetico permaneva,
ammontando a circa 1,7-2 milioni di unità, pari a 425 000 - 500 000
abitanti. Questa carenza sarà colmata soltanto verso la fine del XVIII secolo.
Il calcolo del fabbisogno energetico necessario alla configurazione degli
spazi produttivi permette di comprendere l’importanza che ebbe nella
costruzione del mondo atlantico la forza animale, già presente invece in
Europa e in Africa. Gli animali da tiro innanzitutto: i cavalli apportano 500-
800 watt di energia, i muli tra i 500 e i 600, i buoi tra i 250 e i 500, le
mucche tra i 100 e i 300, gli asini tra i 100 e i 200 (Smil 1994). Va infine
ricordato che muli e cavalli, insieme allo sfruttamento delle vie fluviali,
permisero un’enorme riduzione delle distanze. All’energia animale va
aggiunta inoltre quella derivante dall’uso della ruota nei mulini, della
polvere da sparo, che permise maggiore forza in combattimento, e infine
della vela nella navigazione marittima e fluviale, che aumentavano l’energia
totale disponibile.
Nell’hinterland minerario del Messico e del Perú l’invenzione
dell’amalgamazione permise di incrementare l’energia della manodopera.
Nelle miniere di Potosí come in quelle messicane, furono svolti lavori
idraulici per convogliare l’acqua in canali che permisero ai mulini di
frammentare il minerale grezzo prima del processo di amalgamazione.
Queste nuove fonti di energia furono impiegate anche nelle nascenti
piantagioni di canna da zucchero del Brasile e delle Indie occidentali
britanniche. Oltre alla manodopera servile e degli schiavi nel lavoro
agricolo ci si avvalse della forza animale e di quella dell’acqua che
alimentava i mulini, che permisero di aumentare la capacità produttiva della
produzione dello zucchero, come testimoniato dagli inventari brasiliani,
delle Indie occidentali britanniche e del Messico.
4. Confluenze atlantiche.
5. Governare le divergenze.
Senza alcun dubbio, una delle grandi novità del mondo atlantico è
costituita dall’abbandono della pratica delle razzie. Tuttavia abbiamo visto
come la violenza incidesse sulla gestione della manodopera e va ricordato a
questo proposito che soltanto la Spagna abolí parzialmente la schiavitú
degli amerindi, mentre ciò non avvenne nelle aree portoghesi, inglesi,
olandesi e francesi. Le rivolte degli amerindi, degli schiavi africani e dei
coloni poveri erano inoltre una minaccia accessoria, mentre la violenza
europea rispondeva soprattutto al pericolo della fuga dei servi bianchi,
amerindi e degli schiavi africani. Per tre secoli si assisté infatti alla
formazione di comunità auto-organizzate di fuggiaschi, un fenomeno che
interessò tutte le Americhe, ma soprattutto le Antille spagnole, e che
raggiunse il maggior sviluppo in Brasile.
Una delle prime fu quella degli schiavi amerindi utilizzati nella raccolta
delle perle, costituitasi in Venezuela sull’isola di Margarita, a poca distanza
dal porto di Cumanà, nel 1500. Verso la metà del XVI secolo, si formò
sull’isola di Hispaniola un’altra comunità di fuggiaschi, che comprendeva
30 000 neri e 1200 bianchi. L’organizzazione di questi gruppi era
rigidamente gerarchizzata: erano guidati da un capo e da un consiglio di
governo. Le loro attività incominciavano con il furto di beni delle proprietà
spagnole, realizzato da squadre di uomini armati.
Anche a Panama, via di transito tra il Mar dei Caraibi e il Pacifico, si
costituí, nel 1553, una comunità di 3000 fuggitivi guidati da un nobile
africano. Nel 1570 questa incrociò la strada di Francis Drake e prese a
collaborare attivamente alle razzie dei corsari. Nel 1550, nell’isola di
Portorico, uno schiavo nato in America organizzò una rivolta che diede vita
a una comunità libera, dedita alla raccolta dell’oro fluviale. Anche in
Giamaica ritroviamo la presenza di questo tipo di collettività, impiegate nel
1665 dalle autorità spagnole per combattere l’occupazione inglese
dell’isola.
Nel corso del XVII e XVIII secolo le comunità di fuggiaschi svilupparono
una rete di legami che si estendeva anche verso gli insediamenti
permanenti. L’agricoltura, l’allevamento, la raccolta dell’oro fluviale, la
pesca, il commercio e il contrabbando praticati da questi gruppi erano
infatti funzionali all’economia degli insediamenti permanenti. Quando
parliamo di comunità di fuggiaschi facciamo quindi riferimento a un
insieme coeso, il piú delle volte costituito da comunità simili allo scopo di
rafforzare il sistema di difesa dalle incursioni militari (A. O. Thompson
2006).
Per evitare le rivolte e l’organizzazione delle comunità di fuggiaschi,
Spagna, Portogallo, Inghilterra e Francia agirono offrendo ai privati delle
patenti regie, che autorizzavano i capitani di conquista, le compagnie e i
diversi donatari a negoziare con gli amerindi e con le comunità di fuggitivi.
Le prime mediazioni si tradussero in molti casi in veri e propri accordi,
simili a quelli sottoscritti con gli stati africani. Grazie a tali accordi si creò
la premessa essenziale che consentí di garantire la durata e la stabilità degli
insediamenti permanenti.
Questa fase di negoziati e accordi si sviluppò su un arco temporale molto
lungo: ebbe inizio in Africa alla metà del XV secolo e continuò nelle aree
americane nel XVI e XVII secolo. Il dato geografico e temporale ha una
grande importanza poiché gli insediamenti permanenti occupavano le aree
della costa per estendersi poi verso l’hinterland, permettendo la nascita
dell’area della frontiera. I dissidi esistenti tra gli insediamenti permanenti e
le altre forme organizzative nelle zone costiere e nell’entroterra favorirono
la nascita di un pluralismo legale in grado di raccordare le forme legali delle
organizzazioni amerindie, africane ed euroamericane con quelle formali
euroamericane.
Per capire il significato del pluralismo legale, di cui abbiamo già parlato,
è necessario tenere presente i precedenti europei. È noto che nelle aree
iberiche per alcuni secoli coesistettero e convissero le forme legali
mussulmane e cristiane. In Francia quelle della Normandia, della Bretagna,
della regione parigina e della Borgogna. In Inghilterra il diritto
consuetudinario si collegò con le norme statali (statutes). Si può quindi
affermare che la presenza in America di africani, amerindi e comunità di
fuggiaschi contribuí ad arricchire una preesistente tradizione europea di
pluralismo legale.
Per quanto riguarda la tradizione iberica, cristiani, mussulmani ed ebrei
potevano scegliere se fare ricorso a forme legali separate oppure rivolgersi
alla giurisdizione regia. Una volta finito il pluralismo religioso, la corona
mantenne tuttavia una forma di pluralismo nella divisione tra l’autorità
della Chiesa e quella dello Stato, dualismo che si trasmise e a volte si
esasperò nelle aree iberiche del mondo atlantico. Qui, il regio patronato
delle Indie ridusse il potere della Chiesa a tal punto che nel 1606 il diritto
delle corti di giustizia ecclesiastiche fu trasferito al Consiglio delle Indie,
responsabile dell’ordine nelle aree americane. Il pluralismo legale si
manifestò inoltre in maniera evidente sin dal XVII secolo, nella capacità dei
funzionari regi di sospendere la legge, ricorrendo al giudizio del sovrano
(Góngora 1951).
Sin dal XVI secolo, inoltre, il governo amerindio dei municipi poté
disporre di un’autorità legale, che esercitò rifacendosi alle norme
consuetudinarie amerindie. Lo stesso avvenne anche nelle comunità
amerindie del Brasile, gestite dai gesuiti in costante conflitto con gli
insediamenti permanenti portoghesi, che con i loro feroci castighi violavano
i diritti degli amerindi.
Il recupero della popolazione amerindia e la crescita di quella meticcia e
mulatta furono resi possibili proprio dalla capacità delle autorità di governo
locali di gestire i conflitti. Senza alcun dubbio, questa pratica di pluralismo
legale era volta a limitare le insurrezioni e le conseguenti fughe di schiavi.
Essa contribuí inoltre alla capacità di mantenere, come si è detto, regolari
rapporti commerciali fra i villaggi indipendenti e le aree di insediamento
permanente (Benton 2000 e 2004).
Nelle isole atlantiche e sulla costa occidentale dell’Africa ritroviamo uno
sviluppo della precedente esperienza di pluralismo legale, ora combinata
con la strategia di delegare l’autorità legale ai capitani. Lo stesso avvenne
anche nelle aree brasiliane, nella fase delle donazioni di territorio ai nobili
portoghesi. Ai capitani veniva dato il potere giurisdizionale e molti di loro
nominavano funzionari di giustizia (nobili ai quali era concesso il controllo
di vaste regioni), mentre la corona si riservava soltanto il diritto di
intervenire in caso di abusi. Solo nel 1609 fu creata un’alta corte di
giustizia, allo scopo di applicare la norma che prevedeva un compenso per
gli amerindi in cambio del loro lavoro. Nella frontiera aperta del Nordest
brasiliano, il sertão aveva la reputazione di essere un luogo senza legge, e
nel Sud, dove avvenivano i raid per catturare schiavi nelle regioni interne, il
controllo da parte delle autorità regie era pressoché assente.
L’instabilità del pluralismo legale nelle aree atlantiche rese possibile una
graduale implementazione della giustizia, che favorí un’estrema
gerarchizzazione dell’ordine sociale. Sebbene siano ancora scarsi gli studi
sul pluralismo legale delle aree atlantiche, si ha l’impressione che,
malgrado le difficoltà, esso si sia sviluppato per offrire una risposta alle
miriadi di conflitti derivanti dalle diversità etniche, tentando di regolare i
diritti di proprietà e fondare un principio di autorità. Gli avvocati
contribuirono ad accrescere gli ostacoli, con la creazione di strategie volte a
sfruttare la complessità dell’ordine legale coloniale.
Se si analizzano i diversi problemi e le risposte che furono date,
l’insieme delle pressioni per la riforma dell’amministrazione coloniale e le
tensioni tra amministratori metropolitani e coloniali, si arriva a capire che la
costruzione dello stato coloniale non fu il prodotto di forze esterne, né di
conflitti interni, ma nacque dall’idea di un’organizzazione che teneva conto
delle complesse dinamiche politiche e culturali (Benton 2001).
Ciò che emerge dallo studio delle aree iberiche è riscontrabile anche
nelle aree inglesi e francesi del continente e dei Caraibi. Anche nei territori
inglesi, infatti, dopo una fase politica in cui si tentò di applicare agli
amerindi la legge britannica, si assisté alla nascita di una politica di
esclusione e il trattamento legale degli amerindi andò modellandosi
sull’esperienza dell’Irlanda, dove l’applicazione della legge serviva a
civilizzare i «selvaggi» irlandesi (Benton 1999). Lo stesso Jefferson
riconobbe esplicitamente la sovranità degli amerindi, insistendo tuttavia sul
fatto che i coloni potessero appropriarsi delle loro terre (White 1991).
Successivamente si osservò un impulso riformatore, allo scopo di
alterare e migliorare le norme giuridiche inglesi per adeguarle alle
condizioni presenti in ogni singola colonia americana. Si può quindi dire
che ogni colonia sviluppò il proprio sistema legale per rispondere a criteri
di sostenibilità sociale e politica. Le norme inglesi furono cosí il punto a
partire dal quale fu sviluppata una serie di altre norme locali, per far fronte
alle specifiche situazioni di ogni colonia riguardanti in particolar modo la
presenza degli amerindi. Nella costruzione del sistema legale ebbero un
ruolo importante anche l’ideologia e la confessione religiosa dei coloni, da
cui derivarono norme come quelle emanate dai puritani, particolarmente
tolleranti a livello religioso.
Le corti coloniali ebbero un ruolo di governo importante e si
caratterizzarono per la loro eterogeneità legislativa. Quella di New York, ad
esempio, incluse norme olandesi riguardanti le cause civili e penali, e si
serví della legge sostantiva e procedurale olandese, adeguandola alla
situazione di frontiera. Ancora all’inizio del XVIII secolo, la procedura della
corte di New York conservava, in tema di arresto e arbitrato, le idee
olandesi.
A partire dal 1660 furono in atto due modelli regionali diversi: quello
della Nuova Inghilterra e quello del Chesapeake (Maryland e Virginia). Il
primo era piú egualitario, moderato nei confronti delle donne, dei bambini e
dei servi bianchi, centrato sull’agricoltura familiare e rispettoso dei diritti
delle città portuali e mercantili. Al contrario, quello del Maryland e della
Virginia diede vita a un sistema legale molto gerarchico, con un duro
controllo sulla manodopera servile e particolarmente rivolto
all’esportazione del tabacco. Entrambi i sistemi condivisero tuttavia
l’impegno di governare secondo norme che impedissero la tirannia e che
tutelassero l’eredità legale inglese (Clark 2011). Lo sviluppo delle
legislature locali favorí evidentemente il pluralismo legale e tutte difesero il
diritto di approvare norme che le contraddistinsero come specificamente
americane.
Sin dall’inizio le leggi tesero a limitare il potere dei magistrati tramite
precise norme procedurali. Per controllare il potere delle élite, il
Massachusetts approvò infatti nel 1648 le Laws and Liberties of
Massachusetts, che organizzavano il sistema di governo e le corti,
regolavano i rapporti tra Stato e Chiesa e definivano gli aspetti normativi
riguardanti la proprietà, la criminalità, il commercio e la famiglia. Molte
colonie ripresero e utilizzarono parti sostanziali della compilazione del
Massachusetts: il Connecticut nel 1650, New Haven nel 1656, New York
nel 1665, il New Hampshire nel 1680 e la Pennsylvania alla fine del secolo.
Dopo il 1769 il processo di anglicizzazione sarebbe culminato in una
crisi non prevista: un numero crescente di avvocati e politici cominciò
infatti ad applicare i principî della common law per respingere le violazioni
dei diritti coloniali da parte della corona inglese (Hoffer 1992).
Nelle aree francesi la presenza della corona rimase estremamente
limitata anche dopo il 1670 e l’assolutismo praticato in patria non riuscí a
intaccare il pluralismo legale presente nei territori americani. I governi
coloniali affrontarono infatti la ribellione della Guadalupa e della Martinica
(1666) senza mettere in atto una forte repressione e concedendo infine
un’amnistia generale ai coloni. Persino la rivolta di Cap Français del 1680
rientrò senza repressioni, probabilmente anche grazie alle divisioni tra
coloni ricchi e coloni poveri. Nella Nuova Francia, le tasse sulla produzione
agricola e sui consumi erano irrisorie e le rivolte dei coloni furono
praticamente inesistenti. La ridotta amministrazione coloniale costituí
inoltre un ostacolo allo sviluppo di un forte principio gerarchico, favorendo
cosí tanto gli schiavi africani quanto i coloni poveri (Pritchard 2004).
I paesi atlantici crebbero del 49,5 per cento tra il 1500 e il 1700 e del
22,5 per cento tra il 1700 e il 1800. Quelli non atlantici del 5,2 per cento tra
il 1500 e il 1700, e dell’11,6 per cento nel XVIII secolo. Si può aggiungere
che sebbene i profitti derivanti dal commercio atlantico siano stati inferiori
rispetto alla crescita del Pil, essi furono tuttavia piú elevati di quelli
anteriori al 1500. Possiamo renderci conto di tale divergenza osservando la
figura 2.
Tabella 3.
Urbanizzazione e prodotto interno lordo, Europa atlantica, Europa non atlantica ed Europa orientale,
1500-1800.
Figura 3.
Importazioni europee di prodotti americani e asiatici, 1651-1800.
Fonte: Carmagnani 2010, p. 248.
Possiamo andare oltre e notare, nella tabella 5, la sintonia dei tassi di
crescita del consumo dei beni atlantici (zucchero, tabacco e caffè) e la
correlazione positiva esistente fra i tre prodotti (molto alta tra lo zucchero e
il caffè, ma anche tra il caffè e il tabacco). Questo indica abbastanza
chiaramente che i consumatori di caffè amano anche lo zucchero e il
tabacco. Significativo, da questo punto di vista, fu lo sviluppo del caffè nel
corso del XVIII secolo, non solo in Europa ma anche nelle Americhe.
Tabella 5.
Importazioni europee di beni atlantici, 1661-1800.
Tabella 6.
Partecipazione dei metalli preziosi americani nella produzione mondiale, 1600-1800 (valori in
percentuale).
L’incorporazione dei beni atlantici nei consumi dell’Europa intera fu
quindi un processo che ebbe inizio nella seconda metà del XVII secolo e si
consolidò nel corso del XVIII secolo. Il punto d’inizio può essere
individuato tra il 1661 e il 1700, quando l’insieme dei beni atlantici
commerciati passò da 3178 a 48 284 tonnellate annue, moltiplicandosi per
quindici. Durante la prima fase, i prodotti esotici furono associati in Europa
all’immagine di un alto tenore di vita, determinando cosí il superamento
delle considerazioni morali negative tipiche dei secoli precedenti riguardo
al consumo di beni di lusso.
Nella seconda fase, i prodotti atlantici importati aumentarono da 48 284
a 130 000 tonnellate annue, moltiplicandosi trentasei volte. In particolare,
alla fine del XVIII secolo furono importate all’incirca 100 000 tonnellate
annue di zucchero, che non a caso prese il nome di «oro bianco». A mano a
mano che i consumatori si abituarono ai beni esotici, le importazioni
crebbero costantemente.
I prodotti atlantici in breve cominciarono a essere quotati dapprima nella
borsa di Amsterdam, e poi in quella di Londra. Il flusso di beni cominciò,
seppur ancora debolmente, a partire dal 1550; e all’incirca cento anni dopo,
oltre allo zucchero, al tabacco e alla cocciniglia, troviamo anche il cacao; e
a partire dal 1700 aumentò il numero di regioni dell’Atlantico americano
che esportavano prodotti consumati in Europa (O’Rourke e Williamson
2002; Carmagnani 2010).
Fondamentale, nel rapporto fra il mondo atlantico e l’economia europea,
fu inoltre la crescita dell’estrazione dei metalli preziosi, iniziata alla fine del
XVI secolo con l’argento e incrementata poi nel corso del XVIII con l’oro.
Vi è anche un secondo indicatore della partecipazione dei metalli
preziosi nell’economia europea, che si può osservare nell’evoluzione dello
stock di metalli preziosi. La tabella 6 ci mostra come, tra il 1600 e il 1800,
sia l’America spagnola sia il Brasile fossero in grado di fornire
all’economia mondiale non solo argento, come nel XVI secolo, ma anche
oro. Queste due aree conobbero inoltre in questa fase una notevole crescita
nei livelli di produzione. Nel XVII secolo l’America spagnola produsse
infatti 26 168 tonnellate di argento, mentre il Brasile produsse solo 158
tonnellate d’oro. Nel XVIII secolo tuttavia, l’oro prodotto dall’America
spagnola e portoghese salí a 1400 tonnellate, mentre l’argento prodotto
dall’America spagnola raggiunse le 39 157 tonnellate, aumentando quindi
entrambi i metalli preziosi del 50 per cento.
La figura 4 illustra esclusivamente l’evoluzione dello stock monetario
europeo, la cui dipendenza dalle aree americane era molto forte. Come si
può vedere, nel XVI secolo lo stock europeo passò da 15 000 a 28 000
tonnellate di argento, ma nel corso del XVII secolo raddoppiò ancora una
volta, crescendo da 28 000 a 58 000 tonnellate. Nel XVIII secolo poi passò
da 58 000 a 95 000 tonnellate, aumentando del 64 per cento. Va tenuto
presente che mentre nel XVII secolo ad aumentare fu soprattutto lo stock di
argento, la crescita del XVIII secolo riguarda sia questo metallo sia l’oro.
Figura 4.
Evoluzione dello stock di metalli preziosi in Europa, 1500-1800 (tonnellate di argento, scala
semilogaritmica).
Fonte: Morineau 1985, p. 585.
Cartina 8.
Stati dell’Africa occidentale, 1625.
Fonte: ibid., p. X .
Cartina 9.
Stati dell’Africa centrale, 1625.
Fonte: ibid., p. XII .
Legenda: 1. Rio d’Angra; 2. Kayombo (Caiombo); 3. Pongo; 4. Gabon; 5. Olibata; 6. Loango; 7.
Bukamele; 8. Yaka; 9. Nziko; 10. Fungeno; 11. Kakongo; 12. Ngoyo; 13. Nzari; 14. Vungo; 15.
Kongo; 16. Soa; 17-27. Regni instabili della regione di Dembos nelle valli di Bengo, Damde Loze,
Mbrize, Lukala e Nikini; 28. Angola; 29. Ndongo; 30. Kituxela; 31. Matamba; 32. Ndala Kisuba; 33.
Akikimbo; 34. Kina; 35. Malemba; 36. Songo; 37. Ndonji; 38. Xinje; 39-59. Regni delle terre alte
dell’Angola; 60. Lukeko; 61. Katumbela; 62. Benguela portoghese; 63. Songo; 64. Biasisongo; 65.
Kisango; 66. Bambe; 67. Muzumbo a Kalunga; 68. Wila; 69. Kulimata.
3. L’interazione afro-europea.
Tabella 7.
Schiavi trasportati dalle principali regioni dell’Africa, 1651-1850.
Cartina 10.
Flussi del commercio degli schiavi, 1650-1850.
Fonte: Ways of the World 2009.
Tabella 8.
Decrescita demografica determinata dalle esportazioni di schiavi, 1651-1850 (stime percentuali).
Tabella 10.
Commercio pro capite in Africa occidentale e Gran Bretagna (sterline).
Tabella 11.
Bilancia commerciale dell’Africa occidentale, 1680-1860 (milioni di sterline).
Tabella 12.
Schiavi sbarcati nelle Americhe, 1651-1850.
Cartina 13.
La redistribuzione di schiavi africani della South Sea Company.
Fonte: O’ Malley 2014.
Nelle isole dei Caraibi olandesi, amministrate dalla Compagnia delle
Indie occidentali, lo sbarco di schiavi decrebbe nella seconda metà del XVIII
secolo. Possiamo spiegare questa diminuzione con l’assenza di piantagioni,
ma soprattutto con il fatto che una gran parte degli schiavi sbarcati dagli
olandesi erano rivenduti in altre aree delle Antille, mentre una parte ridotta
veniva impiegata nelle saline e nei servizi degli insediamenti commerciali
olandesi. A differenza delle Antille olandesi, quelle danesi svilupparono
invece piantagioni di zucchero e acquistarono schiavi dai commercianti
brandeburghesi: tra il 1733 e il 1800 la popolazione schiava aumentò qui da
1087 a 35 000 individui (Tomich 2004). Anche nella Guiana olandese, dove
erano presenti piantagioni gestite dalla Compagnia delle Indie occidentali,
aumentarono gli sbarchi di schiavi, che rimasero invece molto limitati nella
Guiana inglese e francese (Eltis 1987).
Osservando la differenza tra il prezzo medio di uno schiavo in Africa e
in America si può desumere il rapporto fra il costo del trasporto e
l’eventuale profitto mercantile. Nel periodo 1681-98 il prezzo medio di uno
schiavo in Africa era di 3,45 sterline, mentre nelle Barbados, uno dei punti
di sbarco piú vicini all’Africa, il suo prezzo era di 15,90 sterline, ossia di
4,6 volte superiore. A Cuba, tra il 1815 e il 1820 e tra il 1861 e il 1870, la
differenza di prezzo in dollari americani era di 3,25 volte superiore; a Bahia
di 2,23 volte e nel Brasile meridionale di 1,83 volte. Si può dunque
ipotizzare che tra gli ultimi decenni del XVII secolo e la prima metà del XIX
sia avvenuta una riduzione del rapporto tra il prezzo degli schiavi in Africa
e in America, ma è possibile che questo miglioramento si sia tradotto in un
incremento dei profitti dei commercianti.
La cartina 13 rappresenta schematicamente la redistribuzione degli
schiavi verso le aree dei Caraibi spagnoli e verso l’area continentale
britannica. La tabella 12, infatti, non fa riferimento alla possibilità che gli
schiavi sbarcati in un determinato porto americano fossero a loro volta
trasportati in una regione diversa, tuttavia vi era un circuito intercoloniale
degli schiavi che coinvolse tutte le aree americane. Uno dei principali nodi
di redistribuzione degli schiavi fu la Giamaica, che ne inviava quantitativi
significativi e crescenti verso altre regioni. Tra il 1661 e il 1715 furono
inviati ad altre destinazioni 529 schiavi; tra il 1716 e il 1740, 217; e tra il
1741 e il 1808, 1373. Tra il 1751 e il 1808 dalle Barbados furono riesportati
verso altre regioni non inglesi 232 schiavi all’anno e 483 all’anno verso
l’America britannica continentale. Tra il 1701 e il 1765 la Virginia ricevette
dai Caraibi 1482 schiavi all’anno, la Carolina del Sud 167 e Chesapeake 78.
New York, la Pennsylvania, il New Jersey e la Nuova Inghilterra ricevettero
complessivamente dai Caraibi 138 schiavi all’anno (O’Malley 2014).
Tabella 13.
Partecipazione del commercio transatlantico di schiavi africani, 1650-1850.
Tabella 14.
Commercio pro capite di alcune regioni del mondo atlantico, 1780-1860 (sterline)*.
È probabile che l’ascesa del commercio pro capite brasiliano nel XIX
secolo sia dipesa dalla nuova produzione di caffè, che sostituí la produzione
aurea che, dopo aver raggiunto nel 1726-30 le 15 tonnellate annue, conobbe
una fase di declino a partire dalla seconda metà del XVIII secolo (Noya
Pinto 1979).
La forma della distribuzione per età degli schiavi presenti in Giamaica è
quella tipica della piramide demografica preindustriale. La coorte piú
rappresentativa era quella tra gli 0 e i 4 anni, che garantiva un tasso di
crescita demografica positivo. Gli schiavi appena arrivati nelle piantagioni
presentavano invece una piramide distorta: il tasso di crescita demografica
degli schiavi arrivati in età lavorativa era negativo e diventava positivo solo
con la generazione successiva. Ritroviamo lo stesso schema nella provincia
di San Paolo, in Brasile, con la differenza che in Giamaica gli schiavi nati in
Africa costituivano il 17 per cento della popolazione schiava residente,
mentre a San Paolo nel 1829 gli schiavi nati in Africa rappresentavano il 57
per cento del totale della popolazione schiava residente.
Tabella 15.
Spesa brasiliana per l’acquisto degli schiavi (milioni di sterline).
Possiamo confrontare questi due casi con quello degli Stati Uniti nel
1850. Qui il flusso degli schiavi dall’Africa terminò nel 1808 e la
popolazione schiava era quindi essenzialmente creola, ossia
meticcia/mulatta: nel momento in cui la migrazione africana non influí piú
sulla piramide demografica, si assisté a una crescita naturale della
popolazione schiava.
Cartina 14.
Insediamenti di comunità libere in Guiana.
Fonte: A. O. Thompson 2006, p. 134.
Infine, bisogna tenere presente che nei casi in cui la coercizione da parte
dei proprietari era giudicata eccessiva e insopportabile gli schiavi fuggivano
e si organizzavano in comunità o villaggi liberi. Ai proprietari non
conveniva dunque superare una certa soglia di violenza, rischiando cosí di
compromettere il funzionamento della società e delle istituzioni che
garantivano i loro privilegi di classe (R. Price 1973). Nel quattro secoli in
cui perdurò il regime schiavista le fughe furono comunque frequenti. Nei
Caraibi, gli individui o i piccoli gruppi che abbandonavano le piantagioni
potevano cercare rifugio tra le popolazioni amerindie, oppure fuggire in
un’altra isola e trovare qui la protezione di altre autorità coloniali (Mouser
2007). Come abbiamo visto, vi erano in tutte le regioni americane
numerosissime comunità di schiavi fuggiaschi, variamente denominate
(cimarrones, palenques, quilombos, mocambos, cumbes e mambises) e
presenti nei Caraibi spagnoli fin dal XVI secolo. Alcune furono semplici
bande che ebbero vita breve, altre furono invece organizzazioni di migliaia
di persone e sopravvissero per generazioni nei secoli successivi (Landers
2000).
In Virginia, Tennessee, Georgia e Mississippi i liberti erano tenuti a
registrarsi nelle diverse contee. In Brasile invece, molti liberti neri e mulatti
si arruolarono nelle milizie per avere uno status sociale superiore, mentre
alcuni diventarono veri e propri leader delle loro comunità, come Manuel
José Alves da Costa nei primi anni del XIX secolo (A. O. Thompson 2006).
Va inoltre tenuto presente che le autorità coloniali contemplavano due
forme di fuga: l’abbandono a breve termine, della durata di alcuni giorni, e
quello a lungo termine, in cui lo schiavo si rendeva irreperibile. Tuttavia
questa distinzione non impedí la costante caccia ai fuggitivi da parte delle
milizie comandate da piantatori, commercianti e proprietari.
Figura 7.
Rete mercantile euroamericana dell’importazione di schiavi, 1782-83.
Fonte: ibid., p. 14.
Oltre che per far fronte ai rischi delle imprese commerciali, le reti si
svilupparono anche per la necessità di incrementare il capitale. Le navi che
solcavano l’Atlantico erano infatti le piú complesse e costose macchine
dell’epoca preindustriale e il costo del trasporto di lunga distanza era alto.
Già prima dell’apertura delle rotte atlantiche, il proprietario di una nave
utilizzata per una decina di anni faceva ricorso a un’assicurazione marittima
che garantiva la rivendita dell’imbarcazione prima della comparsa dei segni
dei tarli. L’assicurazione copriva il commerciante anche nel caso in cui i
suoi dipendenti ignorassero le istruzioni acquistando merci che egli
giudicava invendibili. La perdita di una nave e del suo carico poteva
condurre alla rovina un singolo mercante e il rischio era dunque ridotto
incoraggiando la partecipazione di altri commercianti all’impresa.
Con lo sviluppo delle reti mercantili furono superati i preesistenti
strumenti di tutela rappresentati dalle corporazioni di commercianti, che
avevano un raggio d’azione ridotto. A differenza di queste ultime, inoltre, le
reti commerciali erano associazioni informali, poiché ciascun commerciante
conservava la propria autonomia e, soprattutto, poteva suddividere il
proprio capitale in diverse imprese (Grafe 2014 e 2015). L’unica formalità
richiesta dalla rete commerciale era la delega ad altri commercianti: uno
strumento notarile che offriva la partecipazione a una compagnia
mercantile, impegnando il delegante e il delegato a rendere conto, alla fine
della durata dell’accordo, del proprio operato. Grazie alla delega, i
commercianti accettavano di utilizzare strumenti di credito, come le
cambiali e i pegni, per i vincoli di fiducia che venivano a crearsi. Infine, a
partire dal XVIII secolo, le informazioni mercantili riguardanti i prezzi, la
legislazione in vigore, i costi delle assicurazioni e i tassi di cambio delle
monete divennero piú accessibili, rafforzando la fiducia preesistente
(Marzagalli 2007).
Tra il 1600 e il 1850 le reti commerciali furono progressivamente in
grado di collegare tutti gli spazi atlantici, stabilendo legami fra persone di
lingua, religione e nazionalità diverse, e contribuendo cosí a creare nuovi
circuiti sociali (figura 8). Riprendendo ed elaborando ulteriormente le
considerazioni di Simmel (1904) e Granovetter (1973), possiamo
concludere che le reti mercantili alterarono profondamente l’organizzazione
sociale concentrica sviluppata nel Medioevo, dando inizio cosí alla crisi
della società gerarchica. A questo passaggio dal circolo sociale concentrico
alla rete sociale contribuí non solo lo sviluppo dell’economia mercantile ma
anche la crescente individualizzazione degli attori sociali. Le nuove reti
sociali permisero infatti di creare molteplici intersezioni, che offrirono agli
individui una maggiore libertà di azione sociale ed economica. Grazie alle
reti sociali e commerciali il mondo atlantico riuscí a espandersi, anche se il
mercato cosí come lo conosciamo oggi non era ancora completamente
sviluppato.
Figura 8.
Forme storiche dei circuiti sociali.
Fonte: Carmagnani 2014, p. 35.
Tabella 18.
Evoluzione dei mulini da zucchero, 1591-1788.
Dal modello di piantagione brasiliana si passò a quello della piantagione
integrata dei Caraibi, il cui sviluppo prese avvio nelle Barbados, l’isola
americana piú vicina all’Africa e all’Europa, che negli anni Quaranta del
XVII secolo produceva cotone, tabacco e indaco. A differenza delle
piantagioni brasiliane, che sfruttavano la forza lavoro degli schiavi africani,
le prime piantagioni delle Barbados impiegavano servi indebitati inglesi e
altri europei, i cosiddetti «schiavi bianchi» che dovevano servire tra i tre e i
sette anni e il cui debito poteva essere rivenduto senza il loro consenso.
Questa manodopera fu poi sostituita da quella schiava africana, ritenuta piú
resistente alla malaria. Fu proprio a partire dagli anni Quaranta del XVII
secolo che gli olandesi diffusero la coltura della canna da zucchero nei
Caraibi. La loro principale attività consisteva nel vendere in Brasile
l’attrezzatura di loro invenzione e gli schiavi africani, incentivando gli
acquisti con crediti rimborsabili con la consegna di zucchero. Gli olandesi
si offrirono inoltre come amministratori delle nuove piantagioni di
zucchero, e il loro contributo fu fondamentale nella fase di riduzione dei
servi bianchi (Curtin 1990).
Nel 1643 gli schiavi africani erano 3000, assai meno numerosi di quelli
bianchi. Nel 1646 nella piantagione di Anthony Asheli vi erano 26 schiavi
bianchi e soltanto 9 africani. Ancora nel 1654, nella piantagione di 200 acri
di Robert Hooper lavoravano 35 schiavi bianchi e 60 africani. A partire dal
1650 tuttavia gli africani divennero fondamentali nella crescita delle
piantagioni e raggiunsero un numero simile a quello degli schiavi bianchi
(Eltis, Lewis e Sokoloff 2004).
Lo sviluppo delle piantagioni comportò il disboscamento della metà
delle Barbados. Verso il 1670 l’aumento della produzione di zucchero fece
diminuire i prezzi e aumentare il consumo in Inghilterra, e i piantatori
cominciarono cosí a capire che l’aumento della produzione e la
diminuzione del prezzo favorivano la crescita dei loro redditi. Sul finire del
XVII secolo si assisté quindi al completamento della nuova forma di
piantagione integrata, reso possibile dalle donazioni, dalle nuove tecniche
della produzione e dal brutale sfruttamento della manodopera schiavile,
proveniente soprattutto dal Costa d’Oro.
La nuova forma di piantagione dipendeva anche da un’organizzazione
del lavoro radicalmente diversa da quella del modello brasiliano. Alle
Barbados la manodopera era rigidamente divisa in tre squadre: la prima era
composta dagli schiavi piú esperti, adulti e fisicamente forti; la seconda
dagli schiavi piú giovani e dalle donne; la terza da bambini e anziani.
La prima squadra, munita di zappe e roncole, era responsabile della
coltivazione della canna da zucchero, che iniziava nei primi giorni d’estate
con l’interramento delle piantine provenienti dalle serre. Questa forma di
coltivazione sarà poi sostituita con quella piú produttiva che utilizza un
quadrato ridotto di terra concimato. Alla prima squadra spettava anche il
compito del taglio e della raccolta della canna da zucchero. La seconda
squadra era invece destinata alla raccolta di feci umane e animali, il
concime che si sistemava in cubi appositi vicini alle aree di coltivazione. La
terza squadra era infine addestrata ai lavori specifici della produzione di
zucchero, in particolare la bollitura del succo della canna per trasformarlo
in melassa; anziani e bambini erano anche impiegati come artigiani nella
costruzione di edifici e in altri lavori. Coloro che non si dimostravano adatti
a questo tipo di mansioni venivano spostati nella seconda squadra.
Una volta che la canna da zucchero tagliata arrivava al mulino, la prima
squadra era incaricata di sistemarla in rulli meccanici, dove veniva
frantumata e spremuta. Il succo cosí ottenuto era quindi trasferito ai
bollitori e la melassa era poi trasformata in zucchero. Si trattava della fase
produttiva piú complessa e pericolosa, a cui lavoravano le prime due
squadre.
La nuova organizzazione del lavoro ebbe inizio nelle Barbados intorno al
1660 e i suoi vantaggi produttivi furono cosí elevati che successivamente
tutte le piantagioni di zucchero, a eccezione di quelle brasiliane, vennero
organizzate nello stesso modo. Questo tipo di organizzazione del lavoro
inaugurato nelle Barbados sarà successivamente utilizzato non soltanto nei
Caraibi, ma anche nelle piantagioni inglesi continentali. Esso richiedeva il
controllo permanente delle squadre da parte di sorveglianti e caporali,
spesso bianchi (Newman 2013). L’organizzazione per squadre è descritta in
una delle prime relazioni in nostro possesso, in cui si sostiene che questo
fosse il miglior sistema per prevenire l’ozio e mantenere occupati gli
schiavi. Si trattava evidentemente di un sistema tanto produttivo quanto
oppressivo, e il tasso di mortalità degli schiavi era molto elevato (piú nelle
piantagioni di zucchero che in quelle di caffè e di cotone, e piú nelle grandi
piantagioni che in quelle di piccole dimensioni). Nella testimonianza di uno
schiavo questa divisione del lavoro è definita «diabolica»: le squadre
venivano disciplinate con la frusta e la manodopera era sottoposta a fatiche
estreme (Burnard e Garrigus 2016). In sintesi, questo tipo di organizzazione
si fondava sull’interdipendenza e sulla tensione tra le squadre, specialmente
durante la coltivazione. I lavoratori della prima squadra erano divisi in un
gruppo che zappava e in un altro che interrava le piantine; il primo
procedeva, seguito a ruota dal secondo, mentre i sorveglianti si muovevano
avanti e indietro, esortando gli schiavi con le fruste affinché tenessero il
ritmo, e ispezionando costantemente la qualità del lavoro svolto. Questo uso
della forza nel controllo delle squadre di lavoro permetteva inoltre di
impedire sollevamenti e fughe. La forza fisica era del resto utilizzata anche
fuori dalla piantagione, sugli schiavi che si trovavano altrove senza il
permesso scritto del piantatore.
Molte relazioni descrivono le forme di correzione applicate alla
manodopera schiavile: taglio dell’orecchio, uccisioni dei ribelli e altre
torture utilizzate per garantire l’ubbidienza. È stato osservato che questo
tipo di misure repressive tese ad aumentare, nelle piantagioni di tabacco del
Chesapeake, nel corso del XVIII secolo. Già nel 1675, tuttavia, nelle
Barbados sei schiavi ribelli furono bruciati vivi e altri vennero castrati.
Responsabili dell’applicazione delle misure di controllo e di correzione
erano non solo i sorveglianti bianchi, ma anche quelli neri (Burnard e
Garrigus 2016). Va tenuto presente che, ancora nel XIX secolo, il sistema
giuridico americano altro non era che l’espressione della volontà della
classe proprietaria. Non stupisce dunque che questi crimini commessi
contro gli schiavi fossero autorizzati dall’autorità costituita (Genovese
1974).
La tabella 19 illustra l’enorme diffusione del lavoro a squadre nei
Caraibi e negli Stati Uniti e suggerisce come questo sistema, nato per la
produzione dello zucchero, si sia esteso anche a piantagioni destinate ad
altre colture. Osservando la colonna del lavoro a squadre come percentuale
della popolazione schiava adulta totale notiamo che il 29,9 per cento e il
46,6 per cento sono coinvolti nelle squadre di lavoro.
Tabella 19.
Lavoro a squadre nelle piantagioni delle Americhe.
Nel corso del XVIII secolo il sistema della piantagione si diffuse anche
nei Caraibi francesi, a partire dalla Martinica. Anche qui il prodotto
principale era lo zucchero, ma dalla metà del secolo le piantagioni francesi
diedero il via alla produzione di caffè, indaco e cotone. Inizialmente la
crescita economica dei Caraibi francesi apparve piuttosto lenta, poi a partire
dal 1750 conobbe un’impennata tale da sorpassare non solo la produzione
brasiliana, ma anche quella dei Caraibi inglesi. Nel 1791, al momento della
rivoluzione haitiana, la produzione delle isole francesi superava ormai
quella di tutte le altre isole caraibiche (Burnard e Garrigus 2016).
Lo sviluppo delle piantagioni dei Caraibi dipese innanzitutto dal terreno
vulcanico e dal clima sufficientemente piovoso delle isole, che favorirono la
coltivazione della canna da zucchero. Questa avveniva nelle aree vicine alla
costa, consentendo cosí il rapido imbarco dei barili di zucchero, ed evitando
il costo del trasporto terrestre.
Nel 1645 il 40 per cento del territorio delle Barbados era destinato alla
canna da zucchero e nel 1667 la produzione occupava ormai l’80 per cento
dell’isola. A partire dal 1680 la presenza delle piantagioni di canna da
zucchero eliminò i piccoli proprietari del tabacco. Nel corso del XVIII
secolo, infatti, vi erano alle Barbados 175 piantatori di canna da zucchero,
che possedevano la metà dell’isola (tra gli 80 e i 100 ettari di terra) ed erano
anche proprietari della metà degli schiavi presenti (Curtin 1990; Eltis 2000).
Insieme all’organizzazione del lavoro a squadre, influirono
positivamente sulla produttività delle piantagioni caraibiche anche tutta una
serie di innovazioni introdotte a partire dal XVIII secolo. Queste
riguardarono fondamentalmente le pratiche agricole, l’utilizzo delle risorse
naturali, le modifiche tecnologiche nella macinazione della canna da
zucchero e l’adozione di nuovi alimenti per il nutrimento degli schiavi e del
bestiame (Higman 2005).
Un’innovazione importante fu rappresentata dall’introduzione di un
nuovo tipo di fornace, dotata di fuochi separati per ognuno dei calderoni
dove veniva bollito il succo della canna da zucchero, denominato aguamiel,
che permise di aumentare l’efficienza, riducendo al contempo il costo di
produzione. Questo tipo di fornace, introdotto innanzitutto in Giamaica (e
per questo chiamata «Jamaican train»), si diffuse nel corso del XVIII secolo
in tutte le piantagioni dei Caraibi. Si assisté inoltre a una maggiore
diffusione della concimazione, che risolse il problema del declino della
fertilità del suolo. In Giamaica ciò permise di aumentare la superficie
coltivata e favorí inoltre l’incremento della produzione di bestiame, in
particolare di ovini. Un’altra innovazione significativa fu offerta
dall’introduzione del cosiddetto cane-hole: piccoli appezzamenti di 180 cm
quadrati dove la canna da zucchero veniva piantata direttamente nel
concime, permettendo cosí di aggirare il problema dell’erosione del suolo e
avviando una coltivazione intensiva senza bisogno di trapianto.
Una delle piú importanti innovazioni, diffusa a partire dalle Barbados, fu
poi la sostituzione del mulino a trazione animale con quello a vento, anche
se non tutte le isole possedevano le condizioni climatiche necessarie per il
suo utilizzo. A Hispaniola si riuscí invece a risolvere il problema delle
scarse precipitazioni attraverso un sistema di irrigazione, sviluppato a
partire dal 1730 soprattutto nell’area di Cul-de-Sac. Sul finire del XVIII
secolo piú di un terzo della zona pianeggiante dell’isola era irrigato, con un
conseguente aumento del numero delle piantagioni: tra il 1713 e il 1794
passarono da 3 a 118. Nel Suriname i piantatori investirono piuttosto nel
drenaggio dei terreni, con un sistema di dighe e canali che andarono a
potenziare soprattutto le piantagioni costiere. A partire dal 1750, questo
sistema, che facilitava il trasporto di beni e persone, sostituí quello dei carri
a trazione animale (Galloway 1989).
I governi metropolitani favorirono queste innovazioni che incentivavano
le esportazioni di beni verso i paesi atlantici europei. Nel 1768, la
spedizione francese di Louis Antoine de Boungainville permise cosí la
sostituzione della canna da zucchero creola con una varietà trovata a Tahiti,
l’otaheite. Questa nuova canna da zucchero presentava un triplice
vantaggio: maturava piú rapidamente, conteneva una maggiore quantità di
sostanza zuccherina e il suo bagasso, residuo della macinazione della canna
essiccato al sole e immagazzinato nella «casa dei residui» per essere
utilizzato come combustibile nella bollitura dell’aguamiel, risolveva il
problema del disboscamento delle isole (Galloway 1989). Le spedizioni
scientifiche, che diedero origine ai primi giardini botanici in Europa,
permisero di scoprire inoltre una serie di piante che furono utilizzate per
l’alimentazione degli schiavi.
Oltre all’utilizzo dei prodotti amerindi, cominciarono a essere coltivati
l’albero del pane e altre piante africane, come le banane, le patate dolci, il
mango, il riso e l’erba di Guinea, introdotta nel 1740 per nutrire il bestiame
(Meniketti 2006). Alla fine del XVIII secolo si cominciarono inoltre a
utilizzare campi di canna da zucchero per la coltivazione di granturco,
piselli, patate e altri prodotti destinati all’alimentazione degli schiavi.
Migliorò anche la qualità delle abitazioni della manodopera schiava e fu
concesso a ogni famiglia di schiavi un appezzamento di terreno, utilizzato
per la produzione di beni che venivano scambiati nei mercati locali. Questi
cambiamenti non comportarono tuttavia una diminuzione delle violenze nei
confronti degli schiavi (Newman 2013).
A Cuba, l’ultima area americana in cui presero piede le piantagioni di
canna da zucchero, le innovazioni cominciarono a diffondersi durante la
crisi dello zucchero provocata dalla rivoluzione haitiana. I piantatori
introdussero la canna da zucchero otaheite e sostituirono i mulini a trazione
animale con quelli ad acqua, a loro volta rimpiazzati dai mulini a vapore a
partire dal 1830. Nel 1860 vi erano a Cuba 889 piantagioni parzialmente
meccanizzate a vapore, con una capacità produttiva di 411 tonnellate
ciascuna, e 64 piantagioni totalmente meccanizzate, con una capacità
produttiva di 1176 tonnellate ciascuna, che producevano il 15 per cento
dello zucchero totale dell’isola. Per questo le piantagioni, che nel 1762
erano all’incirca di 120-180 ettari, si ingrandirono, raggiungendo
mediamente i 570 ettari (Moreno Frajinals 1976).
La forza delle piantagioni di canna da zucchero cubane trasse poi
ulteriore incremento dalle nuove facilitazioni offerte dai mezzi di trasporto.
Nel 1837, infatti, appena tredici anni dopo l’introduzione della prima linea
ferroviaria inglese con trazione a vapore, fu costruita la prima ferrovia
dell’isola, che metteva in collegamento il distretto zuccheriero di Guines
con il porto dell’Avana. Tra il 1837 e il 1851, i centri produttivi furono
sistematicamente collegati ai porti regionali. Nel 1850 la rete ferroviaria
raggiunse i 618 chilometri, e l’anno successivo l’isola era interamente
collegata anche dalla rete telegrafica (Tomich 2004). Queste trasformazioni
delle piantagioni sarebbero state impensabili senza gli schiavi e
l’organizzazione del lavoro a squadre. Dagli 84 000 schiavi presenti a Cuba
nel 1790, si arrivò nel 1840 a 324 000, e a 370 000 nel 1860. Ad essi furono
aggiunti inoltre i 100 000 servi cinesi e amerindi provenienti dallo Yucatan
(Klein e Vinson 2013).
La società razzista al cui interno era in funzione il sistema della
piantagione era scissa tra un orizzonte gerarchico e uno orientato al profitto.
Solo cosí è possibile comprendere appieno l’importanza che ebbero per i
piantatori le varie innovazioni produttive, la cui introduzione apportò un
notevole aumento dei profitti. I dati in nostro possesso mostrano un
incremento degli investimenti nell’ambito delle innovazioni produttive.
Secondo il censimento fatto negli Stati Uniti nel 1860, nelle contee della
Virginia dove si produceva tabacco il valore medio degli investimenti in
utensili e macchine agricole si moltiplicò di 9 volte per quanto riguarda le
piantagioni con meno di cinque schiavi, e di 18,5 volte per quelle in cui
erano impiegati tra i 61 e i 100 schiavi, passando da 50 a 925 dollari. Nelle
contee del cotone della Georgia gli investimenti si moltiplicarono di 6,6
volte nelle piantagioni che impiegavano tra i 61 e i 100 schiavi, passando da
75 a 500 dollari. Nelle piantagioni di cotone del Mississippi essi
aumentarono di dieci volte, passando da 100 a 1000 dollari (Genovese
1968, p. 70).
Il modello presentato nella figura 9 è costituito da 16 campi di canna da
zucchero, che rappresentano il 70 per cento della superficie totale; il 30 per
cento è occupato dalla casa padronale, dai quartieri degli schiavi e dall’area
di produzione di beni agricoli per il piantatore e i suoi dipendenti; il resto,
circa un terzo, è utilizzato per l’allevamento del bestiame. Probabilmente,
non tutti i campi di canna da zucchero erano effettivamente in produzione:
alcuni costituivano una riserva che veniva utilizzata soltanto nel momento
in cui cresceva la domanda, come avvenne nel XVIII secolo.
Dalle scarse informazioni in nostro possesso sappiamo che, nonostante i
miglioramenti, le abitazioni degli schiavi rimasero dei tuguri. Intorno al
1800 nelle Barbados gli schiavi vivevano in baracche con i muri in pietra e
il tetto in legno. In Martinica le baracche degli schiavi erano situate
sottovento rispetto alla casa del proprietario, e vicino alla stalla in modo da
sorvegliare il bestiame durante la notte. Generalmente le abitazioni degli
schiavi erano inoltre vicine agli edifici delle piantagioni, sempre con lo
scopo di tenerli sotto controllo. Nella Guiana britannica la casa del padrone
e gli edifici principali della piantagione erano situati su alture, mentre le
abitazioni degli schiavi si trovavano sulla riva del mare (B. C. Richardson
1992).
Ai vertici del sistema gerarchico che governava le piantagioni vi erano il
proprietario, l’amministratore, i contabili e il ridotto contingente del
personale bianco. La quasi totalità della manodopera era invece costituita da
schiavi impiegati nel lavoro di trasformazione dei beni, controllati dai
sorveglianti. Quelli specializzati nella macinazione, nella bollitura
dell’aguamiel e nella produzione dei pani di zucchero erano strettamente
controllati, mentre erano meno sorvegliati gli schiavi destinati ai mestieri
artigianali. Questo tipo di struttura discendeva dal modello della gerarchia
bianca e permetteva di organizzare la manodopera distinguendo i lavoratori
generici da quelli specializzati, e i lavoratori che non godevano di nessuna
libertà di movimento da quelli relativamente piú liberi. L’organizzazione
del lavoro schiavile tuttavia va analizzata nell’ambito dell’intero sistema
della piantagione.
Figura 9.
Modello di piantagione di canna da zucchero dei Caraibi francesi, 1799.
Fonte: Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Paris 1751.
Figura 10.
Gerarchia amministrativa della piantagione.
Fonte: Higman 2005, p. 180.
La parte piú cospicua della piantagione era dunque quella destinata alla
produzione della canna da zucchero, e rappresentava il 20-25 per cento dei
444 ettari totali; un altro 15-20 per cento serviva per l’alimentazione degli
schiavi; un 10 per cento per i trasporti e l’autoconsumo della piantagione; e
un altro 10 per cento per la produzione del legname destinato alle abitazioni
degli schiavi e agli edifici della piantagione. La superficie destinata alla
produzione dello zucchero e alle altre esigenze legate alla
commercializzazione del prodotto rappresentava quindi all’incirca la metà
del totale.
Cartina 17.
La piantagione di Batchelors Hall in Giamaica nel 1741.
Fonte: ibid., p. 180.
Tra il XVII e il XVIII secolo le piantagioni dei Caraibi evolvettero dunque
verso una produzione caratterizzata da una grande capacità di innovazione.
Si trattò inoltre di una produzione integrata: gran parte delle attività
produttive si svolgeva all’interno della piantagione stessa, che era in grado
di organizzarle gerarchicamente. All’interno di questo modello, la
manodopera schiavile partecipava non solo alla produzione commerciale,
ma anche a quella degli input che la determinavano. In altre parole, la
produzione dello zucchero era sostenuta dagli input prodotti all’interno
della piantagione stessa: cosí era per il mantenimento degli schiavi e dei
dipendenti bianchi; inoltre il bestiame e i mezzi di trasporto non erano
acquistati sul mercato e il loro costo di produzione era dunque pari (o quasi)
a zero.
Se si analizzano i costi di produzione emerge infatti come essi
riguardassero principalmente l’acquisto degli schiavi e degli strumenti e
tecnologie necessari. I piantatori pagavano questi acquisti con il credito
fatto loro dai commercianti, restituito con la produzione commerciale della
piantagione. Si può dunque affermare che tra il 1650 e il 1850
l’autosufficienza degli input spiega non solo la riduzione dei costi di
produzione, ma anche quella del prezzo di vendita dello zucchero.
La dinamicità che caratterizzò le piantagioni dipese essenzialmente da
una combinazione di fattori produttivi che sfruttavano in maniera intensiva
le risorse naturali e la manodopera schiavile. Grazie a questa dinamicità
della produzione, la piantagione riusciva a scindere la forma di scambio. Il
rimborso delle merci importate, pagate con il credito mercantile, avveniva
infatti a distanza di tempo, con lo zucchero prodotto, e la dilatazione
temporale dello scambio nascondeva quindi l’asimmetria che si sviluppava
tra la piantagione e il commercio intercontinentale.
Disponiamo di alcuni indicatori che misurano la produttività delle
piantagioni dei Caraibi. L’investimento per l’acquisto degli schiavi aumentò
tra il 1750 e il 1810, e al contempo raddoppiò l’investimento per la
coltivazione della canna da zucchero e per l’acquisto di nuovi macchinari
per i mulini a vento. Aumentarono inoltre, come ad esempio in Giamaica,
gli investimenti per l’allevamento di bestiame. Tra il 1624 e il 1834
raddoppiò inoltre l’investimento necessario per l’acquisto di uno schiavo,
passando da 45 a 90 sterline; nel caso della Giamaica esso aumentò di piú
del doppio, da 50 a 116 sterline.
Nei periodi 1749-55 e 1763-75 i profitti delle piantagioni dei Caraibi
furono elevati, con una media del 10,9 per cento annuo, mentre diminuirono
leggermente tra il 1783 e il 1791 e tra il 1820 e il 1834, scendendo al 9,5
per cento. I profitti crebbero innanzitutto dal momento che non aumentava
il costo di mantenimento degli schiavi, che ricevevano beni autoprodotti e
ridotta assistenza medica. Gli altri elementi che favorirono la crescita del
profitto furono la riduzione dei costi delle assicurazioni marittime e del
trasporto verso Londra, che nei periodi 1698-1702 e 1816-34 diminuí da 9,5
a 5 scellini (Ward 1976).
Il rapporto tra il prezzo degli schiavi e quello dello zucchero è un altro
indicatore che permette di capire la produttività della manodopera. Dato che
il tasso del costo di mantenimento dello schiavo non crebbe allo stesso
ritmo del prezzo dello zucchero, il rapporto tra il prezzo dello schiavo e il
prezzo dello zucchero indica la quota dello sfruttamento dello schiavo, che
tra il 1674-1679 e il 1780-1807 aumentò del 10,7 per cento (Eltis, Lewis e
Richardson 2005).
Per comprendere le informazioni fornite dalla tabella 20 è necessario
tenere presente che gli organizzatori della manodopera rappresentavano
l’8,75 per cento della popolazione attiva (i bianchi e i mulatti liberi, gli
amministratori e i sorveglianti), mentre gli artigiani e i commercianti che
affiancavano l’attività delle piantagioni rappresentavano l’8,64 per cento
della popolazione attiva. La popolazione schiava rappresentava l’82,61 per
cento della popolazione totale e un altro 58,2 per cento di popolazione era
costituito da domestici, trasportatori, sorveglianti e addetti alla macinazione
e ai bollitori dello zucchero. All’interno della popolazione schiava
complessiva, i lavoratori a squadre sono senza dubbio quelli piú sfruttati e
rappresentano ben 222 854 persone, pari al 34,3 per cento della popolazione
attiva.
Tabella 20.
Lavoro e schiavitú nei Caraibi britannici, 1834.
Tabella 21.
Inventario della piantagione di St. Clement comparata con altre, 1658-65 (sterline).
Nella seconda metà del XVII secolo la piantagione di St. Clement ebbe
un doppio orientamento commerciale: il tabacco per il mercato inglese e gli
altri prodotti per il mercato locale. Per cinque anni (1663, 1664, 1669, 1671
e 1672) i proventi del tabacco si ridussero e furono compensati dal reddito
derivante dalle altre attività, consentendo di conservare la piantagione. Nel
1669, anno di crisi per il tabacco e per il bestiame, il 46,6 per cento del
reddito provenne ad esempio dalla commercializzazione dei beni secondari.
L’evoluzione del reddito ci aiuta a capire il ruolo degli input orientati
all’autosufficienza e destinati al mantenimento del personale e della
manodopera. Notiamo una maggiore flessibilità nelle piantagioni di
Chesapeake rispetto a quelle dei Caraibi, derivante probabilmente dalla
maggiore quantità di terra disponibile. L’esistenza di almeno due prodotti
suscettibili di essere commercializzati garantiva un reddito costante alle
piantagioni di Chesapeake. Dall’inventario emerge infatti che il valore
nominale dei beni di sussistenza, di 30,85 sterline, equivaleva al 44 per
cento del reddito. Si tratta di un valore puramente contabile, poiché i beni di
sussistenza erano autoprodotti e consumati nella piantagione (Menard,
Green e Walsh 1983).
Un tratto comune alle piantagioni di Chesapeake e a quelle dei Caraibi fu
la disponibilità di terre abbondanti ottenute a bassissimo prezzo. Ciò
permetteva di produrre beni destinati a un triplice utilizzo: per il
funzionamento quotidiano della piantagione, per raggiungere il livello di
reddito necessario alla sopravvivenza quando calava il prezzo del bene
esportabile e per la commercializzazione del bene principale, il tabacco
esportato verso l’Inghilterra e l’Europa.
I dati riguardanti la piantagione di St. Clement mostrano che il
mantenimento degli schiavi bianchi richiedeva una spesa annua di appena
1,6 sterline, pari al 3,9 per cento della spesa totale. Le spese per il personale
domestico, per gli impiegati e per l’acquisto di vestiti erano di 15,5 sterline
annue, pari al 38,4 per cento del totale. L’acquisto di beni e servizi importati
era di 1,9 sterline annue, mentre quello di beni e servizi locali era di 4,43.
Le spese destinate al proprietario e al personale non schiavo erano di 25,73
sterline annue e riflettevano lo stile di vita dei notabili. Il reddito
proveniente dal tabacco e dal bestiame era infatti di 38,32 sterline annue, e
se si sottraggono le spese destinate al proprietario e al personale non
schiavo il reddito netto risultava essere di appena 9,50 sterline annue.
L’orientamento notabiliare della piantagione è illustrato dalla differenza
tra l’incremento del suo valore complessivo e quello della terra. Tra il 1662
e il 1673 l’incremento del valore complessivo della piantagione fu del 52,8
per cento, passando da 221,92 a 339,24 sterline. Se si prende in
considerazione solo il valore della terra, tuttavia, bisogna considerare che
esso aumentò fra il 1662 e il 1673 del 97,3 per cento. Il reddito della
piantagione dunque non crebbe, mentre aumentava la ricchezza del
piantatore, sostenuta dallo sforzo produttivo degli schiavi bianchi e
dall’aumento del valore della terra (Menard, Green e Walsh 1983).
Lo sforzo produttivo delle piantagioni riuscí a ridurre l’impatto negativo
della caduta del prezzo del tabacco, verificatasi a partire dal 1630. Tra il
1650 e il 1689, infatti, la produzione aumentò, sino ad arrivare a 1,36
tonnellate per lavoratore in Virginia e a 2,167-2,584 tonnellate nel
Maryland (Walsh 1989). D’altra parte, nei periodi 1663-69 e 1700-709 il
declino del prezzo del tabacco favorí l’incremento del consumo in
Inghilterra. In quegli stessi anni, infatti, l’importazione di tabacco pro capite
aumentò da 421 a 1011 grammi (Menard 2007).
Verso la fine del XVII secolo il nucleo principale delle piantagioni era la
Virginia, mentre quelle del Maryland furono fondate dopo il 1710-20,
grazie a un maggior collegamento tra piantatori e credito mercantile (J. M.
Price 1989). Tra il 1700 e il 1750 le piantagioni si espansero e conobbero
una rapida e radicale trasformazione. Oltre al tabacco, fu inaugurata la
produzione di grano per il commercio intercoloniale, e i piantatori
cominciarono ad acquistare schiavi africani, che sostituirono i precedenti
schiavi bianchi. Tra il 1650 e il 1713 sbarcarono nel Chesapeake 1435
schiavi adulti e 1202 bambini (Eltis 2000), e valori simili furono registrati
nei Caraibi (Burnard 2015).
La diversificazione produttiva consentí di commerciare granaglie e vari
prodotti con le altre colonie continentali senza per questo smettere di
inviare tabacco verso l’Inghilterra e di investire in beni strumentali per le
diverse produzioni. Cominciò inoltre a emergere la necessità di far fronte a
diversi cicli produttivi, assumendo lavoratori giornalieri e fittavoli. Ne
risultò un’espansione territoriale delle piantagioni. Nella piantagione di
Robert Goldborough, ad esempio, nel primo decennio del XVIII secolo ogni
schiavo produceva 1,17 tonnellate di tabacco all’anno, mentre negli anni
Trenta, nonostante l’aumento dell’estensione della piantagione, la
produzione di tabacco si ridusse a 0,36 tonnellate annue. Tale diminuzione
fu compensata con la maggior produzione di grano consentita dall’utilizzo
degli schiavi africani: alla fine del XVII secolo essa superava le 0,9
tonnellate per lavoratore, ed era di 0,54-0,63 tonnellate annue negli anni
Quaranta del XVIII secolo. All’inizio del secolo un piantatore senza schiavi,
con l’unico aiuto della moglie e del figlio maggiore, era in grado di
produrre una tonnellata all’anno (Clemens 1975).
Nei primi anni del XVIII secolo, la piantagione di Gresham si estendeva
su 301 ettari e combinava diversi tipi di manodopera: schiavi bianchi e
africani, schiavi africani affittati e lavoratori giornalieri liberi. Il suo reddito
era superiore alla media delle piantagioni dei Caraibi, e nelle annate buone
l’80 per cento del reddito proveniva dal tabacco, mentre il restante 20 per
cento da grano e granturco. Queste ultime due produzioni permettevano di
nutrire la manodopera, utilizzando le terre destinate all’autosufficienza
dell’input della piantagione.
I documenti contabili della piantagione di Gresham mostrano una rapida
ascesa della produzione di tabacco tra il 1728 e il 1737. Successivamente,
tra il 1738 e il 1740, vi fu una diminuzione, e poi una nuova ripresa tra il
1749 e il 1752. L’evoluzione della produzione totale della piantagione
dipese dall’incremento della produzione del grano, che partendo da 70
bushel (2,5 tonnellate) nel 1735, arrivò a 282 bushel (102 t) nel 1738 e a
345 (125,5 t) nel 1740, per poi diminuire a 300 e 136 bushel
(rispettivamente 109 e 49 t) tra il 1741 e il 1750.
Il reddito della piantagione di Gresham dipendeva dalla capacità di
conciliare la domanda del tabacco per il mercato europeo con quella del
grano e di altri beni per le aree coloniali. Quando diminuiva la domanda di
tabacco si aumentava la produzione di grano e di altri beni e cosí il reddito
del piantatore non soffriva di grandi alterazioni.
Tabella 22.
Piantagione di Gresham. Percentuale di reddito delle produzioni vendute, 1735-50 (sterline).
Nel corso del XVIII secolo le piantagioni di tabacco si diversificarono: vi
erano i grandi piantatori, che avevano una produzione media di 0,9
tonnellate annue per schiavo; i piantatori medi, con una produzione di 0,72
tonnellate annue per schiavo, e infine i piccoli proprietari, con una
produzione di 0,54 tonnellate annue per schiavo. La comparsa dei piccoli e
medi produttori derivò probabilmente dall’evoluzione dei servi bianchi, che
al temine del loro ingaggio ricevevano 20 ettari di terra e, con l’aiuto della
manodopera familiare, riuscivano ad acquistarne altra.
È probabile che la stima degli investimenti nella produzione del tabacco
non sia corretta quando si sostiene che l’investimento in terra equivaleva a
3,01 sterline, mentre quello destinato alla manodopera a 34,4 sterline sia per
il piantatore sia per il medio e piccolo produttore (Clemens 1975).
La tabella 23 mostra che i proprietari di schiavi erano la metà della
popolazione maschile libera, e che la maggioranza possedeva piantagioni di
dimensioni comprese tra i 40 e i 120 ettari. Gli affittuari invece, non
possedevano schiavi africani, ma soltanto qualche schiavo bianco. Le
piantagioni producevano 2,7 tonnellate di tabacco annuo per ettaro e una
volta coperte le spese avevano una produzione netta commerciabile di 1,57
tonnellate per ettaro. Dalla produzione venduta dovevano poi dedurre il
costo dei beni inglesi acquistati, che comprendevano le attrezzature per la
produzione e i beni di prestigio del piantatore.
Tabella 23.
Forme di lavoro nel Maryland, 1720.
Si può quindi affermare che tutte le piantagioni facevano fronte alla
riduzione del prezzo del tabacco con la produzione di granaglie e bestiame.
Anche l’allevamento fu un’attività fondamentale, e rimase una fonte di
reddito importante nel XVIII secolo. Tra il 1704-710 e il 1730-39 la contea
di Talbot conobbe una riduzione dei bovini, che passarono da 14 000 a 12
300 capi, un incremento dei suini, che passarono da 17 400 a 29 400 capi, e
anche degli ovini, che passarono da 9900 a 14 700 capi (Clemens 1975).
A partire dal 1750 è possibile riscontrare un adeguamento nel mutevole
rapporto tra tabacco e grano. I profitti delle piantagioni provenivano infatti
da una combinazione mutevole tra le entrate del tabacco e quelle delle
granaglie. Durante la Rivoluzione americana, la chiusura dei mercati
internazionali del tabacco determinò una nuova strategia da parte dei
piantatori e dei medi proprietari, che svilupparono un maggiore interesse
per i mercati interni. A partire dal 1792 molti piantatori abbandonarono
dunque il tabacco per dedicarsi al grano. Tra il 1768-72 e il 1791-92 la
produzione di grano aumentò da 10 957 a 14 574 tonnellate, quella di farina
da 178 a 862,5 tonnellate e quella di granturco da 13 978 a 23 286
tonnellate.
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo le piantagioni di
Chesapeake acquisirono un maggior peso economico e politico nella misura
in cui accumularono l’82 per cento della ricchezza di tutte le piantagioni
americane. Questo dipese innanzitutto dalla densità della loro popolazione,
stimata nel 1774 a 734 400 abitanti, di cui 438 000 bianchi e 295 100
schiavi africani. La ricchezza media dei bianchi era di 127 sterline superiore
a quella nei Caraibi e di 3,2 volte superiore alla ricchezza pro capite nelle
aree agricole delle regioni settentrionali americane. Ciononostante, la
ricchezza pro capite dei piccoli e medi proprietari del Chesapeake si ridusse
a 87,70 sterline (Burnard 2015).
L’arricchimento dei piantatori derivava essenzialmente dagli schiavi: la
quasi totalità del reddito generato da essi era infatti assorbita dai padroni
delle piantagioni, mentre gran parte del resto della popolazione bianca era
in povertà. Il governo coloniale si vide quindi costretto a moltiplicare la
costruzione di case per i poveri: al momento della Rivoluzione americana
un terzo delle famiglie bianche dell’area di Tidewater-Chesapeake viveva in
povertà.
La differenza sostanziale tra la piantagione e le piccole e medie proprietà
è individuabile nell’uso dell’aratro, che nelle piantagioni sostituí la zappa, e
nella maggiore partecipazione dei piantatori all’interno delle reti
commerciali. I contratti di vendita di tabacco, grano e granturco
introdussero le penali per la mancata consegna delle merci, e una serie di
premi per i produttori che pagavano i crediti alla consegna delle loro
produzioni. Rimase invece in vigore il sistema di prezzi differenziati per lo
scambio di tabacco contro merci e per il tabacco pagato in cambiali (Walsh
1999).
Soprattutto a partire dal 1750 il reddito delle piantagioni tese ad
aumentare piú rapidamente per i piantatori e i medi proprietari piú ricettivi
alle innovazioni, mentre ristagnò per i piccoli proprietari. I piantatori che
raggiunsero i redditi superiori furono quelli che seguirono l’orientamento
del mercato e che organizzarono il lavoro su base annuale. Molti piantatori
continuarono a produrre tabacco, nonostante l’aumento del prezzo della
manodopera schiavile, che tra il 1790 e il 1818 passò da 25 a 35 sterline per
schiavo. Un nuovo fattore che influí sul reddito dei piantatori furono inoltre
gli investimenti nelle proprietà urbane, nelle azioni bancarie e nelle aziende
industriali, oltre alla possibilità di continuare a ricevere donazioni di terre
(Walsh 1999).
Le piantagioni del Chesapeake furono dunque caratterizzate
dall’adozione di strategie produttive assai piú flessibili di quelle dei Caraibi.
Il principio organizzativo della piantagione fu invece simile per le due
regioni. In entrambi i casi la proprietà era divisa in tre aree: una di riserva,
una per la produzione degli input e una per la produzione e per il mercato.
Erano queste ultime due aree a permettere l’alternanza tra il mercato interno
e quello internazionale.
Sebbene la manodopera schiava rimanesse dominante sia nelle
piantagioni del Chesapeake sia in quelle dei Caraibi, nel primo caso
notiamo, dopo il 1750, la comparsa di fittavoli e lavoratori giornalieri che
aprirono la strada della manodopera libera. Va inoltre tenuto presente che le
piantagioni del Chesapeake ebbero la possibilità di accedere alle donazioni
di terre ancora nel XVIII secolo.
4. Le piantagioni della Carolina del Sud e della Georgia: dal riso al
cotone.
Tabella 24.
Dimensioni delle piantagioni nell’area di Charlestown, 1732-75.
Cartina 18.
Schema di una piantagione di riso nelle terre basse, 1789.
Fonte: ibid., p. 118.
L’altro Occidente
© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Elaborazione cartine © Peter Palm
In copertina: Giovanni Battista Boazio, il percorso nell’oceano Atlantico intrapreso da una
flotta inglese di 23 navi (Plymouth settembre 1585 - Portsmouth luglio 1586), incisione
colorata a mano, 1589, particolare. Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection. (Foto ©
Bridgeman Images / Mondadori Portfolio).
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