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Marcello Carmagnani

Le connessioni mondiali e l’Atlantico


1450-1850
Introduzione

La storia del mondo atlantico è stata tradizionalmente concepita nei


termini di una conseguenza dell’espansione europea, e le popolazioni
africane e americane sono state considerate attori fondamentalmente passivi
nel suo svolgersi. Questo saggio intende invece far emergere la
compartecipazione dei popoli dei tre continenti che si affacciano
sull’Atlantico, analizzando le interazioni mondiali a cui diede vita la
navigazione oceanica a partire dalla seconda metà del XV secolo.
Per superare definitivamente la tradizionale visione eurocentrica e
guardare in maniera nuova al processo plurisecolare della storia atlantica
bisognerà affiancare, come diceva Tocqueville, lo studio delle «idee della
filosofia della storia alla storia stessa» (1857). Sarà infatti necessaria una
profonda revisione degli strumenti analitici, elaborando i dati storici, sinora
utilizzati solo descrittivamente, per rintracciare i modelli, gli schemi e le
costanti del processo storico. Fernand Braudel diceva che la storia è la
rappresentante di tutte le scienze sociali nel passato: l’ampliamento della
visione della storia atlantica qui proposto dipende anche dalla capacità di
elaborare concetti analitici che tengano conto dei processi storici in ambito
economico, sociologico, politico e culturale, senza i quali la storia non può
essere altro che una mera raccolta di conoscenze.
Un aspetto fondamentale della revisione metodologica che sta alla base
di questo lavoro è la concezione della periodizzazione storica. Anche in
questo caso, si tratta di superare l’idea tradizionale delle epoche storiche,
intese come lunghi periodi di tempo a partire dalla comparsa dell’Homo
faber, artefice del proprio presente e del proprio futuro. Oltre a essere
estremamente rigido, questo tipo di periodizzazione si basa su un’implicita
classificazione delle civiltà a partire da quella europea, ritenuta la piú
evoluta. In questo senso, le civiltà amerindie sono considerate inferiori
perché non conoscono la ruota, l’aratro e la forza animale; quelle africane
perché non conoscono l’acciaio. Persino la civiltà cinese è ritenuta inferiore
a quella europea perché non presenta innovazioni tecnologiche comparabili.
Appare inoltre significativo che ancora oggi si faccia una distinzione fra
centro e periferia, aprendo cosí la strada a una visione dei popoli
«periferici» come passivi e privi di storia.
Occuparci del mondo atlantico ci permette di discutere della
periodizzazione tradizionale di un particolare momento storico, compreso
tra l’età moderna e quella contemporanea. L’ancien régime, che va dal
Basso Medioevo alle rivoluzioni del Settecento, non può piú essere
considerato soltanto come l’epoca del Rinascimento, della Riforma
protestante e dell’assolutismo, ma deve anche essere letto alla luce dei
grandi cambiamenti tecnologici, delle nuove connessioni navali, della
libertà di commercio e della nascita dei nazionalismi.
È inoltre importante tenere presente la cesura tra l’età moderna e quella
contemporanea, rappresentata dal passaggio dalle vie di comunicazione
terrestri, fluviali, su mari interni e laghi, alle nuove vie di comunicazione
oceaniche, che coinvolsero progressivamente tutti i continenti tra il 1450 e
il 1850. Fu in questo periodo che si assisté alla nascita e al consolidamento
del mondo atlantico, che a partire dalla prima metà del XIX secolo divenne
definitivamente parte integrante della storia mondiale. Si può aggiungere
che la grande novità del mondo atlantico consiste nell’aver inaugurato la
fase delle asimmetrie mondiali, che costituiscono uno sviluppo della
compartecipazione tra i vari attori attivi nell’area e perdurano sino a oggi.
Liberata la storia del mondo atlantico dalle strettoie della
periodizzazione tradizionale, emergono cosí i diversi momenti di
un’evoluzione delineatasi fra il 1450 e il 1850, che viene presentata nei
cinque capitoli di cui è composto questo volume.
Nel primo capitolo è descritta la sfida offerta dall’oceano Atlantico: un
mondo ignoto, molto diverso dal Mediterraneo e dagli altri mari europei,
che richiedeva conoscenze scientifiche capaci di trasformare le innovazioni
empiriche precedentemente elaborate nell’ambito della navigazione,
dell’astronomia e della cartografia. Questo mondo nuovo impose anche
nuove forme di insediamento umano, ma la difficoltà di consolidare i primi
collegamenti portò gli attori atlantici a sviluppare progressivamente
strategie innovative.
Nel secondo capitolo analizzo le nuove connessioni che tra il 1550 e il
1650 segnarono quella che ho chiamato la «seconda partenza» del mondo
atlantico: l’avvio definitivo delle relazioni trilaterali tra Europa, Africa e
America. Questa rete di relazioni è fondata sulla manodopera, sui flussi di
metalli preziosi, sullo scambio di merci, sull’organizzazione dei flussi
migratori e di quelli mercantili, e sui meccanismi di raccordo sociale e
politico.
Il terzo capitolo descrive il consolidamento della compartecipazione
atlantica avvenuto fra il 1650 e il 1850. Vi sono illustrati la moltiplicazione
delle migrazioni africane e l’avvio delle migrazioni libere europee, insieme
ai cambiamenti che riguardarono le transazioni mercantili, i regni africani e
le aree americane, incrementando tanto la sintonia quanto le tensioni tra le
aree atlantiche.
Il quarto capitolo analizza il sistema della piantagione, nuova forma
produttiva sviluppatasi in America, che rese possibile la trasformazione
degli scambi e dei consumi nel mondo atlantico tra il 1630 e il 1850.
Nel quinto e ultimo capitolo sono infine esaminate le costanti delle
rivoluzioni atlantiche, ossia gli elementi che accomunano le rivoluzioni
avvenute in America e quella francese, mettendo in evidenza le principali
trasformazioni a livello della forma di governo, della governabilità e della
nascita della cittadinanza.
Il lavoro preparatorio alla stesura del volume è stato reso possibile dai
nuovi repertori disponibili online – gli archivi di JSTOR, Project MUSE ,
revues.org, Dialnet –, dalle singole riviste digitalizzate e dalle serie storiche
europee, africane e americane digitalizzate presenti nelle biblioteche
centrali dei diversi paesi americani ed europei. Senza la loro esistenza non
avrei potuto scrivere questo libro.
Nella realizzazione del volume ho potuto contare sull’appoggio prezioso
del Colegio de México di Città del Messico, del Centro de Estudios de
México en Italia e della Fondazione Luigi Einaudi di Torino.
Ringrazio Alicia Hernández Chávez del Colegio de México per i
suggerimenti, le critiche e le innumerevoli discussioni storiche. Ringrazio
anche Paola Carmagnani per l’editing del volume ed Elena Carmagnani per
i suggerimenti riguardanti i grafici e le tabelle: il loro aiuto è stato molto
prezioso. Ringrazio infine Francesco Rossa, che si è occupato dell’editing
del volume, e Valentina Barbero che ha curato l’edizione del libro per conto
della casa editrice Einaudi.
Elenco delle illustrazioni

1. Caracca portoghese del XV secolo, modello.


(Foto © Ken Welsh / Bridgeman Images / Mondadori Portfolio).
2. La Santa Maria di Cristoforo Colombo, XV secolo, modello.
Berlino, Deutsches Historisches Museum. (Foto © Akg Images / Mondadori Portfolio).
3. Galeone portoghese del XVI secolo, modello.
(Foto © Granger / Bridgeman Images).
4. Un fluyt olandese, incisione di Reinier Nooms, 1650 circa.
(Foto © Album / Mondadori Portfolio).
5. Fregata inglese del XVII secolo, modello.
(Foto © Science & Society Picture Library / Getty Images).
6. Brigantino a pioppo armato della marina del Regno di Sardegna, olio su tela, XIX secolo.
Genova Pegli, Civico Museo Navale. (Foto © DeAgostini Picture Library, concessa in licenza
ad Alinari).
7. Il clipper americano Flying Cloud progettato da Donald McKay, litografia, 1852.
(Foto © Bridgeman Images / Mondadori Portfolio).
8. Veduta aerea del castello São Jorge da Mina a Elmina, Ghana.
(Foto © Rob Fenenga / Alamy / Ipa Images).
Elenco delle cartine

1. L’Atlantico settentrionale.
2. L’Atlantico meridionale.
3. Tempi di navigazione a vela.
4. Spinte demografiche nel mondo atlantico, 1650.
5. Il nuovo spazio americano atlantico, 1650.
6. Aree africane permeate dall’Europa atlantica.
7. Gruppi culturali africani.
8. Stati dell’Africa occidentale, 1625.
9. Stati dell’Africa centrale, 1625.
10. Flussi del commercio degli schiavi, 1650-1850.
11. Collegamenti tra gli insediamenti fortificati e l’entroterra del Costa d’Oro nel XVIII secolo.
12. Il flusso degli schiavi dall’Africa occidentale verso il Brasile.
13. La redistribuzione di schiavi africani della South Sea Company.
14. Insediamenti di comunità libere in Guiana.
15. Insediamenti di comunità libere in Pernambuco.
16. Il commercio atlantico nel XVIII secolo.
17. La piantagione di Batchelors Hall in Giamaica nel 1741.
18. Schema di una piantagione di riso nelle terre basse, 1789.
LE CONNESSIONI MONDIALI E L’ATLANTICO

Per i miei nipoti Sofia Manera, Samuel e Anita Tordjam


Capitolo primo
La sfida dell’Atlantico

Nel XV-XVI secolo, l’oceano Atlantico rappresentava una sfida al


collegamento dell’Europa con gli altri continenti, in particolare con l’Africa
e con le Americhe poiché, a differenza delle vie terrestri che sin
dall’antichità dall’Europa portavano in Asia, si trattava di uno spazio
ignoto.
La conquista dell’Atlantico fu possibile grazie all’ingegno degli uomini
che nel corso di parecchi secoli riuscirono a dominarlo, avvalendosi delle
competenze sviluppate nella navigazione per trasferirle nella concezione e
costruzione di nuove imbarcazioni. In parallelo, l’azione umana giunse a
superare le tecniche di navigazione del Mediterraneo e del Mare del Nord
creandone di nuove, al cui sviluppo contribuí lo studio approfondito dei
movimenti dei corpi celesti reso possibile dalla matematica e dalla
geometria sferica. Tutte queste acquisizioni ebbero una ricaduta culturale e
sociale, poiché aiutarono a capire quali nuovi rapporti si dovevano
implementare nel mondo atlantico tra le società europee e quelle africane.
Obiettivo di questo capitolo è illustrare quali risposte pratiche, tecniche,
scientifiche e politiche vennero date alla grande sfida offerta dall’Atlantico.
Esaminerò dunque in primo luogo le difficoltà della navigazione e lo
sviluppo delle nuove conoscenze, volte a ridurre i pericoli rappresentati da
correnti, venti, maree e lunghe distanze. Nel secondo paragrafo descriverò
una nuova tipologia di imbarcazioni, appositamente concepite per la
navigazione oceanica, e la rilevanza di tale innovazione, e mi occuperò
delle conseguenze politiche e strategiche derivanti dalla concorrenza tra i
paesi atlantici. Nel terzo paragrafo presenterò infine le caratteristiche di
discontinuità e di provvisorietà che definiscono i primi insediamenti umani
dell’Atlantico.
1. Correnti, venti, maree e distanze dell’Atlantico.

Nel XIV secolo l’immagine dell’Atlantico era ancora associata all’idea


mitica delle Isole Fortunate, rappresentate come un territorio quasi
paradisiaco, dove il sole genera l’oro e l’esistenza umana scorre senza
dolore né fatica poiché la natura offre spontaneamente tutti i beni necessari.
Nel 1306 il planisfero del veneziano Marino Sanuto le rappresenta come un
arcipelago di 350 isole, situato a ovest dell’Irlanda.
Accanto all’immagine mitica dell’Atlantico vi era anche l’opposta
visione del mondo difesa dal Sant’Uffizio, l’organismo della Curia romana
incaricato di promuovere e tutelare la dottrina della Chiesa cattolica, che
afferma la sfericità della Terra. Si tratta di conoscenze che provengono da
astronomi e geografi greci del III secolo a.C., giunte in Europa per tramite
della cultura araba, che le riprese e le conservò, in modo analogo a quanto
avvenne con invenzioni cinesi come la bussola, la carta, la stampa e la
polvere da sparo.
Ancora nel XIV secolo l’Atlantico è considerato come un prolungamento
del Mediterraneo. I mercanti e i marinai genovesi, portoghesi e spagnoli,
attratti dal grano, dall’olio, dalla cera e dal pesce del Marocco, si rendono
conto relativamente in fretta che è possibile navigare facilmente sino a
Capo Bojador, nella parte settentrionale del Sahara occidentale. Da qui
tuttavia è impossibile tornare indietro, perché la forte corrente sospinge le
navi verso sud. Capo Bojador è in effetti la porta del mondo atlantico, a 26°
di latitudine nord e 14° di longitudine ovest, dove finisce il Sahara e
incomincia la costa nordoccidentale dell’Africa (Gillis 2004).
Al di là della sua importanza nell’immaginario europeo, il mito delle
Isole Fortunate mostra bene la consapevolezza della necessità di trovare dei
punti fermi (isole, fiumi navigabili e insenature) a partire dai quali le navi
potessero spingersi oltre. In Africa come in America, l’esplorazione avrà
infatti luogo cominciando dalle insenature, dalle isole e dai fiumi. I
naviganti che salpavano da Madeira, dalle Azzorre e dalle Canarie capirono
che solo spostandosi in direzione ovest-nordovest avrebbero trovato venti
propizi, che evitassero loro di essere risucchiati dalle minacciose correnti
della costa africana.
La scoperta delle isole dell’Atlantico e la conquista dell’oceano fu
un’impresa lunga. Le Azzorre, segnalate come quattro isole nel 1351,
diventano dieci nel 1355 e dodici nel 1450. Per quanto riguarda le Canarie,
intercorsero centosettantacinque anni tra il loro primo avvistamento nel
1312 e la loro occupazione nel 1487. Soltanto nel 1650 l’olandese Bernhard
Varesius preciserà nella sua Geographica Universalis che l’Atlantico è il
mare racchiuso tra le coste occidentali del Vecchio Mondo e quelle orientali
del Nuovo Mondo, offrendone cosí una delle prime definizioni: il secondo
oceano della Terra, che ricopre il 20 per cento della sua superficie e ha
un’estensione di 82,3 milioni di chilometri quadri (Butel 1999).
Il volume d’acqua di questo oceano è composto da quattro masse marine
che circolano nell’Atlantico settentrionale in senso orario, e in senso
antiorario nell’Atlantico meridionale. Le maree che si muovono da sud a
nord aggiungono poi un’ulteriore difficoltà alla navigazione. Un’altra
insidia è rappresentata dalle correnti e dai venti, come si può vedere nelle
cartine 1 e 2, che permettono anche di osservare le notevoli differenze tra la
parte settentrionale e quella meridionale dell’oceano.
Gli europei giunsero a dominare la navigazione dell’Atlantico, in un
lento e progressivo processo di avanzamento delle interconnessioni
avvenuto tra il XV e il XIX secolo, attraverso un susseguirsi di tentativi ed
errori: provando e sbagliando, per poi riprovare ancora.
Questo processo di «prova-errore» portò i navigatori ad acquisire una
certa esperienza dei principali venti e delle correnti nell’Atlantico
settentrionale, permettendo di determinare le rotte marittime piú
convenienti. Cristoforo Colombo stabilí infatti il passaggio verso ovest in
base alle competenze acquisite in Portogallo, e soprattutto durante il
soggiorno a Madeira: partendo dalla Spagna, cercò nelle Canarie e nelle
Azzorre il vento e le correnti che gli avrebbero permesso di portare a
compimento il suo viaggio. Dalle Canarie, si avvalse della spinta dei venti
di nordest, passando sotto la regione dell’alta pressione subtropicale che
crea un’area di calma con venti deboli e variabili. Questa regione, oggi
conosciuta come Calms of Cancer, si trova tra i 30 e i 35º di latitudine nord.
Colombo navigò poi superando l’area di bassa pressione, in assenza di
venti, nella regione equatoriale e attraversò il Mar dei Sargassi, tra i 25 e i
30º di latitudine nord. L’esempio di Colombo è significativo, poiché illustra
bene il modus operandi generale che permetteva ai naviganti di trovare le
rotte migliori.

Cartina 1.
L’Atlantico settentrionale.
Cartina 2.
L’Atlantico meridionale.

Il Mar dei Sargassi è il centro dell’Atlantico settentrionale. In questo


mare la corrente esegue una rotazione nell’estremità orientale ed è quindi da
evitare. A sud del Mar dei Sargassi si trova invece la corrente equatoriale
nord, che fluisce dalla costa nordafricana in direzione est-ovest, tra la linea
dell’equatore e i 10° di latitudine nord. Avvicinandosi alle coste
dell’America meridionale, la corrente si biforca: da una parte diventa la
corrente dei Caraibi, che segue la costa sudamericana e si muove in senso
orario fino a raggiungere il golfo del Messico; dall’altra diventa invece la
corrente delle Antille, e fluisce verso ovest lungo il versante nord delle
Antille occidentali. Le due correnti convergono poi in quella del golfo, la
piú forte dell’Atlantico settentrionale: una corrente calda che ha origine nel
golfo del Messico, passa per lo stretto della Florida e prosegue lungo la
costa dell’America del Nord sino a Terranova.
A circa 40° di latitudine nord e 30° di longitudine ovest, la corrente del
golfo si biforca a sua volta. Il ramo meridionale fluisce verso la Spagna, il
Portogallo e l’Africa occidentale, si congiunge con la corrente delle Canarie
per poi orientarsi verso l’Atlantico settentrionale. L’altro ramo favorisce
invece la variazione del clima dell’Islanda, della Gran Bretagna e del Nord
Europa, offrendo un clima piú caldo di quello che quest’area dovrebbe
avere.
Tale conoscenza delle correnti è il risultato di scoperte fatte tra il XVI e il
XVIII secolo. Soltanto nel 1736 Herman Moll pubblicò un volume che
presentava in maniera sintetica e sistematica i venti prevalenti
nell’Atlantico settentrionale. Nel 1757 Philippe Buache pubblicò le Cartes
et tables de la géographie physique ou naturelle, che illustrano i contorni
dell’oceano Atlantico.
La navigazione dell’Atlantico meridionale è altrettanto complessa,
poiché si estende a sud dell’equatore dalla costa africana a quella americana
per poi scendere sino all’Antartide. Il suo limite orientale si trova nel
meridiano di Capo Agulhas (20° est), quello occidentale nel meridiano di
Capo Horn (67° ovest). In questa parte di oceano le correnti sono simili ma
non identiche a quelle dell’Atlantico settentrionale.
I venti alisei accompagnano la corrente sudequatoriale, che fluisce verso
ovest per poi biforcarsi: da una parte prosegue verso l’emisfero nord e
penetra nei Caraibi per diventare, insieme a una ridotta quantità d’acqua
proveniente dalla corrente equatoriale nord, la corrente della Guiana;
dall’altra si orienta verso sud, prendendo il nome di corrente brasiliana,
debole controparte di quella del golfo. Nell’area equatoriale, la corrente
sudequatoriale fluisce in senso antiorario verso est e si fa particolarmente
forte dopo il Ghana, combinandosi con l’estensione calda della corrente
delle Canarie per diventare la corrente di Guinea. Verso sud, nell’area di
alta pressione, la corrente del Brasile fluisce verso est e si trasforma nella
corrente dell’Atlantico meridionale; intorno all’equatore invece si trasforma
nella corrente di Benguela, piú pronunciata della sua controparte delle
Canarie, e raggiunge le coste africane.
A sud, all’altezza delle isole Falkland, scorre verso est la corrente
circumpolare, che penetra nell’Atlantico e si allunga verso nord lungo la
costa argentina.
Nell’Atlantico meridionale, i venti occidentali prevalentemente
irregolari, provenienti da nordovest, si sviluppano tra i 40° di latitudine sud
sin quasi all’Antartide, mentre l’area di alta pressione si situa intorno ai 30°
sud. L’anticiclone dell’Atlantico meridionale porta gli alisei verso nord, in
quanto la rotazione dei venti nell’area di alta pressione è opposta a quella
dell’emisfero settentrionale, per effetto della rotazione terrestre. Gli alisei
meridionali si incontrano con quelli settentrionali nell’area di convergenza
intertropicale, caratterizzata da forti piogge.
In sintesi, come avviene anche nell’Atlantico settentrionale, la
navigazione è agevole nelle latitudini in cui prevale l’alta pressione, mentre
è instabile e difficoltosa nelle aree battute dai venti occidentali. Le tormente
provocate dai venti occidentali dell’emisfero sud derivano principalmente
dal contrasto di temperatura tra il freddo antartico e il mare aperto
adiacente, piuttosto che dal contrasto fra i venti dell’ovest e quelli dell’est
che caratterizza invece le tormente dell’Atlantico settentrionale (Hattendorf
2007).
La conquista dell’Atlantico meridionale avvenne dopo quella
dell’Atlantico settentrionale. Nel 1456 i portoghesi raggiunsero Capo
Verde, e nel 1482 la foce del fiume Congo. Questi primi tentativi
culminarono nell’impresa di Vasco da Gama, che dopo una sosta alle
Canarie e a Capo Verde riuscí a superare la parte di mare piú stretta, tra
l’Atlantico settentrionale e la punta nordest dell’America del Sud, per
arrivare infine ai 34° di latitudine sud del Capo di Buona Speranza. Fu cosí
che, fra il 1497 e il 1498, Vasco da Gama raggiunse l’oceano Indiano.
Fra il 1519 e il 1522 il viaggio di Ferdinando Magellano e Juan
Sebastián de Elcano li portò invece verso il Capo Sant’Agostino, in Brasile;
da lí proseguirono poi lungo la costa del Sud America, per entrare infine
nell’oceano Pacifico realizzando cosí la prima circumnavigazione del
mondo.
Nonostante l’importanza delle esplorazioni del XVI secolo, un’adeguata
conoscenza delle rotte dell’Atlantico meridionale fu raggiunta solo nel
corso del XVIII , nel momento in cui ebbero inizio le spedizioni di
esplorazione scientifica di matrice illuminista; in questo stesso periodo
furono pubblicate carte geografiche che permisero di migliorare la
navigazione di questa parte di oceano, come era avvenuto in precedenza per
l’Atlantico settentrionale. I progressi compiuti in questi tre secoli non
dipesero soltanto dal processo di «prova-errore», ma anche dalla tecnica di
navigazione basata sull’osservazione degli astri: lo studio dei movimenti dei
corpi celesti e della loro predicibilità, e l’applicazione della matematica e
della geometria sferica, avevano reso possibile la localizzazione della
posizione in mare e lo sviluppo di strumenti di precisione per la
navigazione.
Conviene ricordare che sin dal Trecento le navi disponevano del timone
di poppa e della bussola, due invenzioni cinesi che consentivano di
mantenere la rotta anche in giornate nuvolose e con il mare mosso. La
versione moderna della bussola fu sviluppata nel Quattrocento: una scatola
rotonda contenente un ago di ferro magnetizzato attaccato a una carta
circolare, che ruota con esso, suddivisa in 360 gradi.
La misurazione dell’altezza degli astri fu invece un’innovazione iberica
del XV secolo, adottata nella navigazione abbastanza in fretta. Grazie a essa,
nel 1454 l’esploratore veneziano Alvise Cadamosto riuscí a misurare nella
foce del Gambia la distanza angolare tra la stella polare e il Polo Nord.
Questo tipo di misurazione fu perfezionato poi verso la fine del secolo con
il quadrante, uno strumento a forma di quarto di cerchio graduato da 0 a 90
gradi sul lato ricurvo, con due occhielli che costituiscono una sorta di
mirino su uno dei lati dritti e un filo a piombo nell’intersezione tra i due: è
necessario avvistare la stella polare e puntarvi lo strumento guardando
attraverso il mirino, e leggendo il grado indicato sull’estremità libera del
filo a piombo si determina l’angolo della stella polare rispetto all’orizzonte;
assumendo che un grado di latitudine corrisponde a 16 leghe e due terzi, si
riesce cosí a calcolare tenendo presente la latitudine la distanza in cui si
trova la nave dal porto che si vuole raggiungere.
La valutazione delle distanze offerta dal quadrante tuttavia è soltanto
congetturale, e avvicinandosi all’equatore la stella polare scende troppo in
basso per costituire un punto di riferimento utile. Per ragioni di simmetria,
si sperava di trovare anche nell’Atlantico meridionale un equivalente della
stella polare, ma solo all’inizio del XVI secolo si comprese che l’astro di
riferimento avrebbe dovuto essere individuato nella Croce del Sud, come
peraltro già noto agli amerindi. In questa parte di oceano le distanze sono
quindi misurate con l’utilizzo del filo di piombo mirando con il quadrante
verso un punto a metà tra le stelle superiori e inferiori della costellazione
del Polo Sud.
La navigazione astronomica con l’astrolabio nautico risale invece al XVI
secolo. Questo strumento è costituito da un quadrante circolare, sospeso a
un anello che deve essere puntato verso il sole affinché un raggio di luce,
passando attraverso il quadrante superiore, finisca nel quadrante inferiore
per determinare l’angolo del Sole sulla linea dell’orizzonte. L’astrolabio
nautico non era tuttavia sufficiente a determinare la latitudine, poiché la
linea dell’orizzonte varia con le stagioni. Ci si serví dunque della tabella
della declinazione solare, per stabilire l’angolo rispetto all’equatore celeste,
che si trova a mezzogiorno il primo giorno dell’anno.
L’Almanacco perpetuo elaborato dall’astronomo di Salamanca Abramo
Zacuto sul finire del XV secolo, e il Regimento do astrolabio e do
quadrante, la tabella definitiva della declinazione solare elaborata nel 1505
dal portoghese José Vizinho, permisero di stabilire con maggiore precisione
la latitudine in entrambi gli emisferi.
Nonostante l’avanzamento delle conoscenze nautiche, la loro diffusione
fu piuttosto lenta. Ancora nel XVI secolo la maggioranza delle navi puntava
verso nord o verso sud sino a trovarsi alla latitudine della destinazione, per
poi virare verso oriente o occidente sino a raggiungere la meta. Nemmeno
la carta del mondo di Mercatore, del 1569, era molto conosciuta, poiché i
naviganti preferivano le carte piane che non richiedevano conoscenze
matematiche.
Fu soltanto nel XVII e XVIII secolo che la cartografia si convertí da
descrizione delle rotte a disciplina scientifica. In questo processo
l’astronomia svolse un ruolo determinante e fu la conoscenza della
longitudine a rappresentare il salto di qualità che trasformò radicalmente la
navigazione dell’Atlantico e degli altri oceani. Sin dal XVII secolo i
governanti degli stati europei si erano resi conto delle conseguenze
derivanti dagli errori nel calcolo delle direzioni marittime e avevano offerto
un premio a chi avesse scoperto un metodo preciso per determinare la
longitudine in mare. Nonostante si sapesse che l’unica soluzione possibile
era rappresentata dagli orologi nautici, c’era ancora molta strada da fare.
Sin dall’inizio del XVIII secolo ci si rese conto infatti che bisognava
migliorare l’affidabilità degli orologi nautici esistenti.
Tra i diversi metodi astronomici il piú promettente era quello fondato
sulla misurazione delle distanze lunari. La luna percorre il cielo a una
velocità diversa dalle stelle, per cui stabilendo l’angolo tra questa e la stella
polare o la Croce del Sud è possibile conoscere l’ora precisa e determinare
cosí la longitudine a cui si trova la nave. L’orologio nautico è appunto lo
strumento in grado di misurare tale angolo, e la tavola numerica di cui è
corredato fornisce invece le coordinate degli astri, a partire dalle quali
l’orologio nautico riesce a elaborare i calcoli necessari.
Il primo passo nello sviluppo di un orologio nautico affidabile è
l’ottante, uno strumento per misurare gli angoli testato nel 1731-1732. Il
suo uso fu superato a partire dal 1757 grazie al sestante, che incorporava un
telescopio. La misurazione dei movimenti lunari si rivelò piú complicata
per via della loro irregolarità. Nel 1755 il matematico Tobias Mayer
dell’Università di Gottinga forní una soluzione, perfezionata poi
dall’astronomo reale britannico Nevil Maskelyne, che a partire dal 1767
incominciò a pubblicare le sue tavole lunari.
La correzione delle distanze lunari permise dunque la creazione di un
orologio nautico in grado di determinare la longitudine. Lo strumento
richiese numerose prove: nel 1759 John Harrison completò il suo, che
possedeva un diametro di appena 13 centimetri, ma nella prova effettuata
nel 1764 presentò un errore di un decimo di secondo al giorno. Anche in
Francia furono prodotti simili strumenti, testati nel 1767 e nel 1772.
Si comprende dunque perché la navigazione nell’Atlantico fosse rimasta
per molti secoli un’impresa estremamente perigliosa, in cui in molti casi le
navi perdevano buona parte dell’equipaggio. Soltanto a partire dall’ultimo
terzo del XVIII secolo la navigazione atlantica divenne praticabile senza
enormi rischi.
2. Navigazioni, cantieri e ruolo delle flotte atlantiche.

Dal periodo dei primi tentativi a quello delle misurazioni con l’orologio
nautico passarono molti decenni, nel corso dei quali si verificarono anche
una serie di innovazioni significative nella costruzione delle imbarcazioni.
Può essere utile a questo punto fare un po’ di chiarezza sui termini. Si
definisce nave un’imbarcazione che disponga da tre a cinque alberi, ognuno
dotato di vele quadre. Furono queste le imbarcazioni dominanti nel periodo
compreso fra il XV e il XX secolo. Il numero degli alberi permise
inizialmente di migliorare la navigazione, ma quando le vele cominciarono
a raggiungere dimensioni notevoli, furono divise in coppie di vele piú
piccole, perché fossero piú maneggevoli.
I primi viaggi di esplorazione atlantica furono fatti con diversi tipi di
navi, generalmente utilizzate per il commercio. I due tipi principali di cui ci
si serviva nel Mediterraneo erano la galera e la nave rotonda. La galera era
una nave lunga che viaggiava spinta dalla forza muscolare dei rematori. La
nave rotonda era invece dotata di un albero al centro, provvisto di una
grande vela quadra. Si trattava di un’imbarcazione pesante e lenta (dieci
volte piú della galera), con una notevole capacità di carico ed equipaggio
ridotto (un decimo rispetto a quello della galera, considerando i rematori),
che tuttavia non era in grado di assicurare una navigazione molto precisa:
gli inconvenienti principali erano rappresentati dalla sua guida
estremamente difficoltosa, dalla lentezza e dalla dipendenza dai venti
posteriori; nel XIII secolo, l’introduzione del timone apportò un notevole
miglioramento alla governabilità di questo tipo di nave.
Dal XIII al XV secolo l’evoluzione delle navi tese al gigantismo:
proliferarono infatti imbarcazioni in grado di trasportare 400-500 tonnellate
di merci e di convertirsi in velieri con grandi vele e timone per far fronte
alle maggiori esigenze del traffico marittimo. Questo sviluppo interessò
specialmente il trasporto di grano nel Mediterraneo, nell’Europa del Nord e
nel Baltico.
L’aumento nelle dimensioni di queste navi fu possibile grazie alle nuove
tipologie e superfici delle vele. Oltre all’albero centrale, due piccoli alberi
ausiliari permettevano una maggiore velocità. La vela quadra era usata per i
lunghi percorsi in linea retta; la vela latina triangolare, piú maneggevole,
favoriva invece le manovre difficili. Questa trasformazione interessò anche
il Mediterraneo, poiché a partire dal XIII secolo il Marocco divenne uno dei
principali fornitori di grano. Inoltre, per ridurre la resistenza dell’acqua,
furono allungati gli scafi: il rapporto tra lunghezza e larghezza passò da 2 a
1 nel XIII secolo a 3 a 1 alla fine del XV .
Nei viaggi lungo la costa africana a partire dal XIV secolo si diffuse
invece il barinel, una nave a due o tre alberi con vele quadre, sviluppata a
partire dalle barche dei pescatori portoghesi e spagnoli.
La nave maggiormente utilizzata nella navigazione atlantica fu la
caravella, che si diffuse tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Si
trattava di un’imbarcazione di forma allungata, elaborata in Portogallo, che
combinava le migliori caratteristiche delle navi mediterranee e atlantiche.
Utilizzabile sia sulle lunghe sia sulle brevi distanze, univa la rapidità e la
manovrabilità della galera alla portata della nave rotonda, poteva trasportare
agevolmente piccoli volumi di merci (fra le 60 e le 90 tonnellate) e
raggiungeva facilmente le coste, per questo fu impiegata soprattutto per
carichi di valore. Il capitano della caravella poteva scegliere di usare solo la
vela latina oppure di combinare le vele quadre dell’albero maestro, quelle
dell’albero di trinchetto e la vela latina dell’albero di mezzana, per ottenere
maggiore velocità con il vento di poppa. Era quindi una nave in grado di
seguire il vento, e poteva trasportare acqua sufficiente per un mese e cibo
per quattro mesi per un equipaggio di 20-30 uomini.
Illustrazione 1.
Caracca portoghese del XV secolo, modello.

Tale imbarcazione presentava tuttavia una serie di limiti. Nei lunghi


viaggi risultava scomoda ed eccessivamente affollata: l’equipaggio era
costretto a dormire sul ponte e le razioni quotidiane erano estremamente
limitate; i membri dell’equipaggio avevano infatti diritto all’incirca a un
litro d’acqua al giorno e non disponevano di frutta e verdura, col risultato
che lo scorbuto diventava rapidamente un pericolo. La principale modifica
che l’esperienza nautica apportò alla caravella fu l’aumento delle
dimensioni, per affrontare meglio l’Atlantico e localizzare piú facilmente i
venti favorevoli.
Nel XV secolo fu elaborato però anche un nuovo tipo di nave, chiamata
nao o caracca, di maggiore portata rispetto alla caravella (tra le 200 e le 400
tonnellate di stazza), e provvista di uno scafo piú profondo, simile a quello
della vecchia nave rotonda. La caracca disponeva di tre alberi: il maestro, il
trinchetto con vele quadre e l’albero di mezzana con vela latina per
facilitare la manovrabilità.

Illustrazione 2.
La Santa Maria di Cristoforo Colombo, XV secolo, modello.
La Santa Maria di Colombo era una caracca, che navigava con le
caravelle all’interno di una flotta mista. Con tre caracche navigò Vasco da
Gama verso l’India: queste possedevano tre alberi con vele quadre e
avevano una stazza di 100-120 tonnellate ciascuna.
Nel corso del XVI secolo caravelle e caracche cedettero il passo a una
nuova nave, il galeone. D’invenzione spagnola, il galeone offriva la stessa
capacità di carico della caracca ma velocità e manovrabilità simili alla
caravella, e fu concepito appositamente per i viaggi verso l’America. Non a
caso, i primi galeoni furono costruiti nella parte atlantica della Spagna, e
poi anche a Lisbona. Nel 1610 cominciarono a essere costruiti anche in
America, e piú precisamente a Cuba, utilizzando il legno di mogano
tropicale, di qualità superiore al legname europeo. In Spagna e in Portogallo
erano impiegati invece il rovere per gli elementi strutturali, il pino per gli
alberi e diverse essenze per le altre parti. In seguito la costruzione dei
galeoni si diffuse anche in Francia, in Olanda, in Inghilterra, in Svezia e
nella città anseatica di Lubecca.
Illustrazione 3.
Galeone portoghese del XVI secolo, modello.

I galeoni erano navi costituite da quattro alberi con numerose vele


(quadre sull’albero maestro, di gabbia e sull’albero di trinchetto; latine
sull’albero di mezzana e sul quarto albero; pennone di contromezzana e
sulla prua), che facilitavano le manovre dell’equipaggio.
A partire dalla fine del Cinquecento si assisté a un nuovo, triplice
fenomeno. Innanzitutto cominciarono ad apparire navi a tre alberi, ma di
stazza sempre maggiore. Nel 1630 la stazza media era di 150 tonnellate, nel
1700 era salita a 250, nel 1800 a 300 e nel 1850 raggiunse le 350 tonnellate.
Il secondo fattore di novità fu costituito dal grande sviluppo navale della
Gran Bretagna, della Francia e dell’Olanda, risultato delle leggi mercantili
protezioniste. Il terzo fattore fu infine la pluralità delle tipologie di
imbarcazioni ormai presenti nell’Atlantico: fluyt, fregate, brigantini e
clipper (Chaunu 1959; Mauro 1983; Cunill Grau 1999).
Illustrazione 4.
Un fluyt olandese, incisione di Reinier Nooms, 1650 circa.

Il fluyt era un’imbarcazione originariamente pensata come nave da


trasporto. Sviluppata nel corso del XVI secolo, divenne successivamente una
nave transoceanica di costo ridotto, in grado di trasportare molte merci
senza bisogno di un grosso equipaggio. Essa riduceva dunque i costi di
spedizione e favorí lo sviluppo della marina mercantile olandese, che nel
1670 raggiunse una flotta di 568 000 tonnellate.
La fregata, inizialmente concepita come nave da guerra, divenne nel
corso del XVIII secolo una nave a tre alberi particolarmente leggera. Aveva
una stazza media di 160 tonnellate, lunghezza media di 64,6 metri,
larghezza massima di 14,5 metri e una profondità di 6 metri. Gli olandesi
furono i primi a costruirla, all’inizio del XVII secolo, per proteggere le loro
navi e contrastare la flotta spagnola. Seguendo il modello olandese, a partire
dalla seconda metà del XVII secolo francesi e inglesi cominciarono a
sostituire le loro navi pesanti con le fregate (Blanning 2007).
Il brigantino fu uno sviluppo della nave mediterranea che fece la sua
comparsa nei paesi atlantici nel corso del XVII secolo. Si trattava di una
nave con tre vele quadre nell’albero centrale e vele triangolari in quello di
poppa; la sua stazza era compresa tra le 50 e le 200 tonnellate. Cominciò a
essere costruito nell’America continentale britannica a partire dal 1770 e
divenne estremamente popolare.

Illustrazione 5.
Fregata inglese del XVII secolo, modello.
Il clipper, utilizzato a partire dall’ultimo terzo del XVIII secolo, fu
sviluppato nella baia di Chesapeake. In seguito verrà costruito anche in
Inghilterra, in Olanda, in Francia e in Brasile. Si trattava di una nave a tre
alberi, lunga, leggera e aggraziata, con prua sporgente e scafo slanciato. In
media era lungo 74,6 metri, largo non piú di 10,7, e aveva un pescaggio di
6,5 metri. Molto veloce, il clipper era anche relativamente leggero poiché
raramente superava le 200 tonnellate di stazza. Poteva percorrere la distanza
tra Boston e Liverpool in 12 giorni e 6 ore, e quella tra New York e San
Francisco via Capo Horn in 89 giorni (Lubbok 1968).
Gli arsenali fecero la loro comparsa nei Caraibi spagnoli sin dalla
seconda metà del XVI secolo. L’attività cantieristica ebbe inizio a Cuba e si
diffuse successivamente nel golfo del Messico, nelle regioni di Veracruz e
Campeche. In Brasile, la prima regione dotata di arsenali fu quella di Bahia,
dove furono costruite imbarcazioni sin dalla fine del XVI secolo, seguita da
Pernambuco e, dopo il 1650, da Rio de Janeiro. Nel XVII secolo e nella
prima metà del seguente l’attività commerciale del Brasile in Africa è stata
sostenuta principalmente dalle navi costruite appunto negli arsenali di Bahia
e di Rio de Janeiro (Romano 2007).
Illustrazione 6.
Brigantino a pioppo armato della marina del Regno di Sardegna, olio su tela, XIX secolo.

È interessante notare che oltre agli arsenali della Biscaglia la Spagna


poté contare anche su quelli cubani, che contribuirono a evitare il declino
della sua flotta. L’arsenale dell’Avana forní infatti il 2,7 per cento delle navi
spagnole tra il 1554 e il 1600, il 26,5 per cento tra il 1601 e il 1650 e il 22
per cento tra il 1651 e il 1700. Nel 1639 la flotta spagnola contava 50 navi,
per un totale di 24 270 tonnellate, che tra il 1720 e il 1770 salí a 163 000
tonnellate (Grafe 2015).
L’attività cantieristica dell’Atlantico americano presentò molteplici
vantaggi rispetto agli arsenali europei: legname di ottima qualità e molto
meno caro, cosí come stoppa, canapa e cordame. Queste stesse ragioni
spiegano lo sviluppo degli arsenali nell’America del Nord. Anche qui, come
nell’America spagnola e portoghese, l’industria cantieristica si sviluppò
notevolmente e si rivelò in grado di dinamizzare il commercio con i Caraibi
e la Gran Bretagna.
Illustrazione 7.
Il clipper americano Flying Cloud progettato da Donald McKay, litografia, 1852.

Prima dell’indipendenza, nell’America britannica il commercio


marittimo occupava il quinto posto delle esportazioni, rivaleggiando con il
tabacco, principale merce di esportazione delle colonie continentali.
Inizialmente si costruirono navi per il commercio di cabotaggio e per il
trasporto verso i Caraibi; dopo il 1680 le navi americane intrapresero anche
il commercio con la Gran Bretagna. La fase di crescita incominciò nel
primo terzo del XVIII secolo e alla fine del periodo coloniale si producevano
ormai navi per un totale di 40 000 tonnellate, per un valore annuo di 300
000 sterline, di cui 18 600 tonnellate vendute all’estero per un valore di 140
000 sterline (McCusker e Menard 1991).
Anche le Indie occidentali inglesi conobbero l’attività cantieristica. A
Port Royal, capitale della Giamaica, il primo arsenale risale al 1655.
Sempre in Giamaica, tra il 1714 e il 1749 fu costruito un secondo arsenale a
Port Antonio. Ad Antigua vi era un arsenale sin dal 1744, e un altro fu
presente nelle Bermuda a partire dal 1790.
Lo sviluppo dell’attività navale nell’America atlantica mostra la capacità
degli imprenditori americani di sviluppare le connessioni all’interno delle
aree americane e tra queste e quelle africane ed europee.
La navigazione dell’Atlantico scatenò la concorrenza navale tra le
potenze europee. Tra il 1450 e il 1850 lo status di potenza marittima
appartenne a quei paesi che disponevano di una quota significativa di
imbarcazioni. Le dimensioni delle flotte sono un indicatore significativo dei
mutamenti che avvennero in questo periodo nei rapporti di forza tra i vari
paesi europei.

Tabella 1.
Distribuzione proporzionale del potere navale, 1500-1850.

La tabella 1 permette di seguire l’evoluzione della potenza navale dei


principali paesi atlantici. Come si può vedere, nel XVI secolo il primato
spettava al Portogallo, sebbene l’Inghilterra cominciasse a farsi incalzante.
Per quasi mezzo secolo, l’ascesa della sua flotta trasformò anche la Spagna
in una potenza mondiale, mentre l’Inghilterra, seguita dalla Francia, tentava
di raggiungere il primato. Nel corso del XVII secolo fu tuttavia l’Olanda a
detenere il primato navale.
Osserviamo poi come nel corso del XVIII secolo l’Inghilterra sia infine
diventata la prima potenza navale, primato che conserverà anche nella
prima metà del XIX secolo, mentre declinava il potere olandese e rimaneva
stazionario quello francese. Nel XIX secolo vediamo poi che anche gli Stati
Uniti cominciarono ad affermarsi come potenza navale, raggiungendo una
posizione significativa nella seconda metà del secolo (Mahau 1987).
La concorrenza non dipendeva dalla ricchezza di uno stato, bensí dalla
capacità di gestire e sviluppare la catena degli scambi, sfruttando al meglio
le rotte marittime. Scambi e flotta, sostenuti come in Gran Bretagna da una
politica fiscale, crearono infatti la possibilità di sviluppare la concorrenza
con gli altri stati e di accedere al primato navale. Nel XVIII e XIX secolo la
concorrenza navale divenne dunque lo strumento fondamentale
dell’egemonia mondiale.
Possiamo cosí affermare che l’evoluzione del potere navale ci permette
di individuare la diacronia atlantica, caratterizzata nel XVI secolo
dall’avanzata del Portogallo, seguito dalla Spagna. Nel XVII secolo a questa
prima fase successe un nuovo scenario, che vide protagonista l’Olanda,
seguita dall’Inghilterra e dalla Francia. A partire dal XVIII secolo e sino al
1850 il consolidamento del primato inglese fu condizionato dalla
concorrenza della Francia e dell’Olanda, con la Spagna sempre presente ma
in posizione secondaria. Nel corso del XIX secolo, infine, la comparsa degli
Stati Uniti annunciò quello che sarebbe diventato il principale attore
atlantico nella seconda metà del secolo.
Cartina 3.
Tempi di navigazione a vela (linee isocrome di 5 in 5 giorni): a) andate; b) ritorni.

3. I primi insediamenti.

Il processo di «prova-errore» non fu soltanto il meccanismo


fondamentale che guidò lo sviluppo della navigazione atlantica, ma anche
quello degli insediamenti umani. La loro formazione fu fortemente
condizionata dalla durata del viaggio e dalle innovazioni della navigazione.
Nel primo secolo del mondo atlantico, le carte geografiche che indicano
il tempo di navigazione a vela testimoniano già dell’importanza di questo
fattore. Esso divenne poi sempre piú determinante a partire dal XVII secolo,
quando le acquisizioni pratiche, tecniche e scientifiche già illustrate
permisero di predire con maggiore precisione la durata del viaggio verso
l’Africa e l’America.
La differenza tra la durata del viaggio di andata e quello di ritorno
(cartina 3) mostra come questa non dipendesse soltanto dalla velocità delle
navi, ma anche dalla capacità di capitani, piloti e marinai, dalla quantità di
cibo, acqua, vino e acquavite e dalla possibilità di approvvigionamento.
Tutte queste condizioni costruiscono il contesto della prima occupazione
del territorio.
Si può cosí capire l’importanza della ricerca di punti intermedi lungo il
viaggio, come le isole e le baie delle coste atlantiche, che nel XIV e XV
secolo furono individuate proprio per le loro potenzialità come punti di
scambio e di ristoro.
La principale caratteristica di questi siti strategici dell’Atlantico è che
erano per la maggior parte disabitati; dovevano quindi essere popolati, in
modo da renderli produttivi e poter cosí rifornire le navi e pagare le merci
provenienti dall’Europa. Questo spiega perché le isole dell’Atlantico furono
totalmente diverse dalle fattorie commerciali del Mediterraneo e si siano
configurate come nuovi insediamenti produttivi. Bisogna inoltre ricordare
che le isole atlantiche erano fondamentali per poter raggiungere l’Africa e
l’America.
Di grande importanza fu l’insediamento portoghese nelle isole disabitate
dell’arcipelago di Madeira, fra il 1425 e il 1427. La prima risorsa sfruttata
qui fu il legname, che per alcuni decenni diede ricchezza alle isole e
permise alle navi di rifornirsi. Da qui partivano inoltre le incursioni
schiaviste nelle Canarie, le uniche isole abitate dell’Atlantico, e
successivamente anche nelle coste africane. A partire dal 1450, gli schiavi
furono infatti la manodopera necessaria per incominciare a produrre ed
esportare grano, vino e bestiame verso il Portogallo.
Come quello di Madeira, anche l’insediamento nelle disabitate isole
Azzorre fu promosso da Enrico il Navigatore a partire dal 1427.
Inizialmente anche in questo arcipelago furono sfruttate le risorse naturali
esistenti e in seguito fu avviata la produzione di grano e bestiame per
l’esportazione in Portogallo oltre che per il rifornimento delle navi.
La prima isola di Capo Verde fu scoperta nel 1456 da Alvise Cadamosto
e il primo insediamento vi avvenne nel 1462. L’isola di São Tomé, nel golfo
di Guinea, fu invece scoperta nel 1471, ma rimase disabitata e cominciò a
essere sfruttata solo a partire dal XVI secolo.
Le Canarie, che diventeranno il nodo strategico spagnolo per
raggiungere l’America, furono di difficile insediamento. Portoghesi e
spagnoli provarono piú volte a occuparle, ma la popolazione locale, i
guanches, caratterizzata da un’efficace organizzazione tribale, riuscí a
cacciare ripetutamente gli invasori. L’insediamento spagnolo vi avvenne
infatti soltanto tra il 1478 e il 1496 (Grady 2008).
Un secondo tratto comune alle isole atlantiche è costituito dal fatto che la
loro occupazione avvenne tramite le autorizzazioni concesse dai monarchi
portoghesi e castigliani ai nobili, che le ricevevano in donazione per i loro
servigi alla corona. Le capitanerie erano ereditarie e avevano il diritto di
percepire tasse sulle produzioni e sui mulini e le attrezzature delle
piantagioni di zucchero.
La donazione regia trapiantata nel mondo atlantico fu l’istituzione
iberica che permise la riconquista dei territori occupati dalle invasioni
mussulmane. I capitani, utilizzando i propri mezzi con il contributo offerto
dai membri dell’armata, erano ricompensati con diritti giurisdizionali,
mentre i membri dell’armata avevano il diritto di spartirsi il bottino di
guerra. Le bolle papali del 1481 e del 1493, che sancirono la divisione delle
terre atlantiche tra il Portogallo e la Spagna, riconobbero ai monarchi il
diritto di concedere in donazione le isole e altre terre atlantiche (Verlinden
1966; Góngora 1994).
A partire dalla seconda metà del XV secolo, le isole dell’Atlantico
abbandonarono definitivamente il modello delle fattorie mediterranee, e tra
il 1450 e il 1520 lo sviluppo della produzione dello zucchero orientò
Madeira e le Canarie verso il nuovo mercato europeo dell’oro bianco. La
produzione raggiunse le 1200 tonnellate annue a Madeira, e le 3800
tonnellate annue nelle Canarie. Nelle prime furono in funzione 46 mulini di
zucchero, nelle seconde 64. Lo zucchero prodotto raggiungeva i mercati di
Portogallo, Spagna, Inghilterra, Fiandre, Francia, Italia e Turchia. A partire
dal 1536 anche lo zucchero di São Tomé raggiungerà i mercati europei.
Con lo sviluppo della produzione e del commercio di zucchero aumentò
l’importanza della manodopera schiavile proveniente dalle Canarie, che in
seguito fu sostituita da quella africana. In pochissimo tempo le abitazioni
degli schiavi diventarono l’infrastruttura dei mulini che trasformavano la
canna da zucchero (Findlay e O’Rourke 2001; Moore 2010; Viera 2015).
Parallelamente, lo zucchero favorí lo sviluppo delle reti mercantili nelle
isole atlantiche. A metà del XV secolo, oltre ai commercianti portoghesi,
spagnoli e genovesi arrivarono anche i fiorentini e, all’inizio del XVI secolo,
gli agenti dei grandi commercianti e finanzieri tedeschi Welser e Claes,
strettamente legati ai mercanti portoghesi. A partire dal 1450, le reti
mercantili di origine medievale, che collegavano mercanti di una sola
nazione, si trasformarono in reti internazionali e prese cosí avvio la fase
della concorrenza marittima tra i paesi europei che si affacciano
sull’Atlantico.
La domanda di manodopera schiavile per le isole rese necessario un
maggior numero di punti strategici che potessero condurre verso le coste
dell’Africa. Al loro arrivo sul continente, i portoghesi si stupirono di non
trovare nessuna guarnigione o protezione della costa, il che può essere
spiegato con una serie di credenze diffuse tra le popolazioni africane, come
ad esempio i tabú che impediscono ai re di vedere il mare. Questi divieti si
fondavano sull’idea che i mari, cosí come i fiumi, fossero luoghi pericolosi
e selvaggi, nemici dell’uomo. Pur riconoscendo i benefici derivanti dal
commercio marittimo, la diffidenza delle popolazioni africane nei confronti
del mare non si rivelò del tutto infondata, poiché nel 1444 le prime
spedizioni portoghesi a sud del fiume Senegal fecero terribili razzie di
schiavi e di beni, cosí come avevano già fatto sulla costa sahariana (Law
2011).
I capitani delle bande portoghesi ritenevano di avere il diritto di
depredare, come risarcimento per i rischi e le sofferenze patiti per servire
Dio e il re. Numerosi furono gli africani sequestrati dai portoghesi a Walo,
Kayor e in altri punti delle coste africane per essere poi venduti nelle isole
atlantiche. Sui litorali della Mauritania le navi portoghesi furono respinte
dalla popolazione locale, in netta superiorità numerica, con frecce
avvelenate. I portoghesi tentarono poi di ridurre la conflittualità con le
popolazioni locali, istruendo alcuni africani come interpreti. Tuttavia,
quando penetrarono nel fiume Gambia si scontrarono con numerose canoe
da guerra e vennero respinti. Piú utili furono le prime mediazioni con i
governanti africani, come quelle di Cadamosto e Diogo Gomes, che nel
1456 riuscirono a stabilire relazioni pacifiche con quasi tutti i regni del
Gambia. Questo tipo di accordi si diffonde all’inizio del XVI secolo, quando
i portoghesi incominciano a praticarli anche sulla costa della Guinea con
alcuni regni wolof.
L’opposizione degli africani impedí tuttavia ai portoghesi di continuare
la loro penetrazione attraverso il corso dei fiumi della Guinea, dove
incontrarono popolazioni che parlavano lingue sconosciute agli interpreti.
Incominciò tuttavia a diffondersi una nuova pratica, che consisteva
nell’invitare nobili africani a Lisbona e nell’acquistare schiavi per
addestrarli come interpreti.
Con l’aiuto degli interpreti e degli ambasciatori africani i portoghesi
riuscirono a ottenere informazioni utili sulla situazione politica nelle aree
che decidevano di visitare. L’avvio di relazioni diplomatiche con i regni
africani aveva lo scopo di garantire gli scambi commerciali. La procedura
era quella di concordare una tregua e avviare negoziazioni riguardanti le
merci da scambiare e le garanzie dei crediti. Ci si accordava inoltre sulle
ispezioni delle merci portoghesi che sarebbero state compiute dai
governanti africani e spesso i mercanti portoghesi in visita erano ospitati a
spese delle autorità locali. La conclusione delle negoziazioni e degli scambi
commerciali era poi occasione di grandi feste, con l’offerta reciproca di
doni tra i governanti africani e gli ospiti portoghesi (Elb 1991).
I buoni rapporti instauratisi tra africani e portoghesi favorirono
evidentemente le concessioni degli insediamenti commerciali.
Illustrazione 8.
Veduta aerea del castello São Jorge da Mina a Elmina, Ghana.

São Jorge da Mina, noto come Mina, a Elmina nel Costa d’Oro (odierno
Ghana), fu uno dei tre insediamenti stabiliti nell’ultimo decennio del XV
secolo. Gli altri due furono Wadame in Mauritania e Gwato nel Benin
(attuale Nigeria meridionale). Dei tre, solo Mina diventò permanente poiché
il re eguafo utilizzò l’accordo concluso con i portoghesi per rafforzare il
proprio potere nei confronti dei regni vicini. Il rappresentante portoghese
negoziò l’affitto di Mina con il re Kwamin Anzah, accordo che si concluse
con un rito di pace e una festa. Da semplice insediamento, Mina diventò poi
il primo castello commerciale, costruito a spese della corona portoghese. Il
sovrano inviò infatti una flotta comandata da Diogo de Azumbaja,
composta da dieci caravelle e due navi da trasporto, con 600 uomini
destinati alla costruzione del castello.
Mina e gli altri insediamenti portoghesi nell’Africa occidentale (in
Senegal, in Gambia, in Guinea e a Capo Verde) permisero di prendere il
controllo della via dell’oro. Prima della conquista marocchina di Timbuctú,
l’area di produzione aurifera, che dal Sudan arrivava sino al Niger, era
collegata con i porti mediterranei di Tangeri, Ceuta, Orano, Tlemcen e
Tunisi, dove si avvicendavano commercianti genovesi, portoghesi e
spagnoli. A partire dall’inizio del XVI secolo, invece, la via dell’oro divenne
atlantica. Secondo le fonti a nostra disposizione, tra il 1504 e il 1545 da
Mina giunsero a Lisbona ogni anno da un minimo di 371 a un massimo di
473 chili d’oro; tra il 1550 e il 1571 tra 150 e 435. Tra il 1494 e il 1496
giunsero a Lisbona dalla Guinea 52 chili annui; 182 tra il 1497 e il 1498;
301 tra il 1505 e il 1507; e 371 tra il 1509 e il 1513. Non conosciamo
invece le quantità d’oro proveniente dalla Sierra Leone, da Arguin e
Oudami, da Axem e dal Senegal (Braudel 1976; Magalhães-Godinho 1969).
Sulle coste africane degli attuali Senegal e Gambia lo scambio avveniva
tramite vari valori non monetari: prima del 1460 un cavallo valeva dai tre ai
quindici schiavi, intorno al 1490 tra i dieci e i dodici, e all’inizio del XVI
secolo ne valeva cinque. Ad Arguin, invece, lo scambio avveniva in oro; in
Guinea e nel Benin tra ferro e oro, mentre nell’alto Niger e nell’alto
Senegal l’oro veniva scambiato con sale e cipree, conchiglie pregiate usate
come moneta. Anche nel Congo e in Angola lo scambio avveniva con
conchiglie, denominate zimbos.
L’insediamento dello spazio atlantico prese forma con grande lentezza.
Tra lo stanziamento a Madeira e l’avvio del flusso d’oro dall’Africa verso
l’Europa atlantica trascorse piú di un secolo. Il predominio portoghese e
spagnolo è associato a questa fase del mondo atlantico, caratterizzata
principalmente dal commercio dell’oro e, secondariamente, degli schiavi.
Oltre agli scambi, un’altra caratteristica del primo percorso atlantico fu
però la creazione, tanto in Africa quanto nell’America del Nord, di una
serie di spazi isolati e non comunicanti tra loro, occupati in particolar modo
dagli inglesi e dai francesi, la cui presenza era ancora marginale e
contrastata da quella portoghese e spagnola.
Dopo essere stati respinti dai mercati ittici anseatici e aver inutilmente
provato a introdursi nelle acque islandesi, gli inglesi si spinsero piú a ovest
e, nella seconda metà del XV secolo, si insediarono a Terranova. Qui la loro
presenza fu contestata dalla Spagna e dal Portogallo sulla base delle bolle
papali del 1493, che assegnavano anche Terranova alle potenze iberiche e
che erano state recepite nel 1496 dal trattato di Tordesillas.
Rifiutando la spartizione papale dell’Atlantico, nel 1497-98 l’Inghilterra
inviò a Terranova Giovanni Caboto. Allo stesso modo, a partire dalla
spedizione di Giovanni da Verrazzano, fecero la loro comparsa nello
scenario dell’Atlantico settentrionale anche i francesi. Nel 1524 Verrazzano
raggiunse infatti le coste americane della Carolina del Nord e la baia di
New York, dove fu respinto dagli amerindi. Successivamente, le spedizioni
francesi di Jacques Cartier (1534, 1535 e 1543) permisero di approfondire
la conoscenza di Terranova e di esplorare il golfo di San Lorenzo, entrando
in contatto con gli irochesi.
Gli insediamenti di pesca avevano uno scopo commerciale; il baccalà
prima e la caccia alle balene poi stabilizzarono e rafforzarono i rapporti tra i
commercianti inglesi, francesi, portoghesi e biscaglini, interessati a sfruttare
il commercio di baccalà consumato nei paesi cattolici durante le feste
comandate.
Simile all’interesse offerto dai banchi di pesca è la ricerca di regioni
atlantiche dotate di risorse naturali, che si estese verso il Brasile ancora
prima della sua scoperta. Gli imprenditori di Bristol avevano infatti trovato
sulle coste brasiliane il pau brasil, una pianta tintoria usata nel settore
tessile per tingere di rosso specialmente il velluto. La corona portoghese si
affrettò allora a concedere l’usufrutto di questa risorsa a commercianti
portoghesi che stabilirono due insediamenti, a Cabo Frio, nel territorio di
Rio de Janeiro, e a Pernambuco, che in breve divenne il piú attivo per la
vicinanza con i mercati europei. Fiandre e Olanda figurano tra i primi
consumatori del legname di tintura per la finitura dei loro tessuti (McCusker
e Menard 1991).
Dopo il ritiro inglese dalle coste brasiliane furono i francesi a interessarsi
al pau brasil, disconoscendo come gli inglesi la spartizione dell’Atlantico
fatta dal Vaticano tra i due paesi iberici. Sino alla definitiva cacciata dei
francesi dal Brasile nel 1565, a opera della corona portoghese, lo
sfruttamento del legname fu caratterizzato dallo scontro continuo tra
mercanti portoghesi e francesi. Questo comportò la necessità di stringere
alleanze simili a quelle stabilite in Africa con le società amerindie, che
scambiavano la pianta tintoria contro prodotti europei. Questa conflittualità
rese inoltre la presenza portoghese e francese estremamente superficiale: il
tentativo francese di creare un insediamento permanente nella baia di
Guanabara, dove sorgerà piú tardi Rio de Janeiro, si rivelò un fallimento e
provocò una ribellione dei coloni.
La precarietà degli insediamenti cinquecenteschi in America è
documentata dal fallimento dell’impresa di Colombo nell’isola di
Hispaniola, dopo l’insediamento avvenuto nel 1492. Seguendo il modello
mediterraneo, Colombo cercò infatti di dare vita qui a una fattoria, in base
al contratto firmato nel 1492 con la regina di Castiglia, che gli concedeva i
diritti vitalizi ed ereditari di ammiraglio, viceré e governatore di tutti i
territori che avesse scoperto, oltre alla decima parte di tutti i benefici dei
territori conquistati. Nel corso del suo primo viaggio, Colombo organizzò
dunque a Hispaniola un insediamento commerciale la cui attività principale
era il monopolio dello scambio dell’oro, estratto con il lavoro forzato degli
amerindi, contro beni europei. Il monopolio regio-colombino si rivelò
tuttavia un pessimo affare, che trovò l’opposizione della popolazione
amerindia che raccoglieva l’oro alluvionale a scopo puramente religioso e
ornamentale.
Lo scarso progresso dell’impresa, che la corona meditava di liquidare,
favorí una ribellione nell’insediamento gestito da Colombo, motivata dalla
richiesta di poter commerciare liberamente con gli indios. La rivolta del
1497 inaugurò una fase nuova. Una volta revocato il monopolio, la Corona
cominciò infatti a concedere licenze affinché singoli privati e commercianti
potessero scambiare prodotti tra le Antille e la Spagna e all’interno dello
spazio caraibico.
Alonso de Ojeda fu tra i primi ad accettare i nuovi accordi con la corona.
Ojeda arrivò nell’attuale Venezuela nel 1499, e seguendo la pratica della
cattura di schiavi amerindi li impiegò nella pesca delle perle nell’isola di
Margarita, sulla costa venezuelana. Tuttavia, cosí come era successo con la
scarsa qualità dell’oro alluvionale dell’impresa di Colombo, anche le perle
si rivelarono costose e assai difficili da raccogliere. Le scarse eccedenze
agricole delle popolazioni amerindie finirono per trasformare le società
mercantili in vere e proprie bande armate, che razziavano i villaggi degli
indios per catturare schiavi e rivenderli poi al fine di procurarsi il
sostentamento necessario. Si trattava di imprese a tutti gli effetti, alle quali
partecipavano come soci e finanziatori funzionari regi, ecclesiastici e agenti
delle grandi case mercantili castigliane ed europee presenti a Siviglia.
Gli insediamenti creati dagli spagnoli sulla costa occidentale di Panama
dopo aver abbandonato Hispaniola illustrano la prima fase del controllo
spagnolo nell’area continentale americana. Tra il 1509 e il 1533, quando
comincerà la corsa alla conquista del Perú, le bande armate si sposteranno
dal Darién (come veniva chiamata questa regione) verso sud, est e nordest. I
raid nel Darién avevano lo scopo di raccogliere schiavi da utilizzare nella
raccolta dell’oro alluvionale. Le bande armate contavano tra i 40 e i 300
uomini a cavallo, che scorrazzavano tra l’attuale Panama e le coste
colombiane e venezuelane.
Dai registri degli ufficiali regi tra il 1514 e il 1526 risulta che le bande
armate pagavano al fisco un quinto del valore dell’oro alluvionale e dell’oro
delle miniere, come anche del valore delle perle, degli schiavi e delle merci
scambiate: in quel lasso di tempo le bande raccolsero un totale di 175 000
pesos da 8 real, di cui pagarono al regio fisco 31 000 pesos da 8 real
(Góngora 1962).
Queste ricchezze erano frutto di una violenza organizzata dai capitani e
dai membri delle bande armate, che condividevano gli stessi interessi. I
membri delle bande, infatti, oltre a partecipare ai raid, contribuivano al
finanziamento delle incursioni stesse e, in proporzione alla quota investita e
all’impegno assunto in tali azioni, ne condividevano guadagni e perdite.

Ricapitolando, nella prima fase della sfida dell’Atlantico vediamo in


azione un numero ridotto di invasori europei, principalmente portoghesi e
spagnoli. Il meccanismo di penetrazione nelle aree atlantiche fu lo scambio
di merci contro oro, e solo secondariamente in cambio di schiavi.
Gli ostacoli incontrati nella conquista dell’Atlantico sono testimoniati
dalle difficoltà poste alla navigazione dalle correnti marine, dai venti e dalle
maree, presenti in forme diverse tanto nella parte settentrionale quanto in
quella meridionale dell’oceano. Questo determinò la presenza di altri attori,
che svilupparono le conoscenze tecniche, scientifiche e industriali
necessarie al dominio dell’Atlantico. L’aumento del numero di attori
coinvolti nella sfida è evidente nel ricorso al principio di «prova-errore»,
che obbligò a sperimentare nuove forme di navigazione. Il perfezionamento
degli strumenti di navigazione coinvolse astronomi, matematici, università
e istituzioni scientifiche, spingendo i governi atlantici a organizzare
spedizioni scientifiche e a offrire premi agli inventori di nuovi strumenti. A
questo si aggiunse la creazione di nuove tipologie di navi, dalla caravella al
clipper, che a sua volta determinò l’apertura di numerosi arsenali in Europa
e in America. Per i governi atlantici ciò implicò il potenziamento di
politiche pubbliche a sostegno della potenza navale, e l’adozione di azioni
volte a evitare che altre potenze penetrassero nei nuovi territori
minacciando quella che veniva ritenuta come la propria sovranità. I risultati
immediati furono la crescita delle flotte navali e la concorrenza tra le varie
potenze.
In questa prima fase del mondo atlantico era già in essere una
connessione tra il commercio, la tecnica, la conoscenza scientifica e
l’industria: un circolo virtuoso che offrí numerosi vantaggi ai paesi che si
affacciano sull’Atlantico.
A questa impresa parteciparono europei, africani e americani. I primi
offrirono conoscenze e capitali, i secondi parteciparono agli scambi con gli
europei aumentando la propria autonomia tramite accordi e negoziati, gli
ultimi parteciparono al commercio con le proprie risorse naturali. Senza
dimenticare la violenza che per molti aspetti caratterizzò la nascita del
mondo atlantico, le sue origini si situano proprio all’interno delle
interazioni e interconnessioni tra i diversi attori sociali che abbiamo
illustrato.
Capitolo secondo
La ripartenza. La nascita del mondo atlantico

Nel capitolo precedente ho mostrato come i primi contatti nel mondo


atlantico non possano essere intesi nei termini di uno scontro di civiltà,
bensí come un’interazione estremamente complessa. Tale interazione, che
tra il 1450 e il 1500 portò a una situazione di equilibrio instabile, si limitò
essenzialmente a scambi di beni e accordi tra europei e africani, mentre ne
erano ancora escluse le aree atlantiche americane. Fino all’inizio del XVI
secolo, dunque, si assiste alla conquista e al successivo popolamento
europeo delle isole atlantiche, alla costituzione di piccoli insediamenti sulle
coste dell’Africa occidentale e allo sfruttamento di manodopera schiavile.
Obiettivi principali degli europei, in questa fase, erano l’oro africano e la
tratta degli schiavi, dalla costa africana verso le isole dell’Atlantico.
È stato inoltre messo in luce come i governanti africani abbiano
rapidamente assunto un ruolo attivo, opponendosi alle razzie dei portoghesi
e ottenendo il riconoscimento da parte dei governanti europei delle proprie
organizzazioni sociali e politiche. La resistenza alle incursioni obbligò
infatti le potenze europee a negoziare con gli africani tramite interpreti e
mediatori culturali, al fine di stabilire accordi non soltanto commerciali, ma
anche politici. Il bagaglio culturale, sociale e politico cosí acquisito
faciliterà in seguito gli iberici nello stabilire i primi contatti con le aree
americane: anche qui, infatti, ci troviamo di fronte a insediamenti
provvisori all’interno dei quali, come già nel caso degli insediamenti
africani, lo strumento d’interazione essenziale era l’interesse condiviso per
lo scambio di beni, poiché, come in Africa, gli avamposti provvisori
americani dipendevano dai rifornimenti da parte delle popolazioni locali.
Anche in America fu applicato lo stesso procedimento per tentativi ed
errori che ha contraddistinto l’intero processo della conquista
dell’Atlantico. Nei primi due paragrafi del capitolo illustrerò i risvolti
pratici di questo principio per quanto riguarda le interazioni nelle aree
atlantiche e la catastrofe demografica che colpí le popolazioni amerindie,
ma non quelle africane, e come quest’ultima abbia obbligato gli europei ad
attivare nuovi meccanismi per disporre della manodopera necessaria. Mi
dedicherò poi all’analisi del contributo degli schiavi africani e
dell’immigrazione europea allo stabilirsi dei primi insediamenti permanenti.
Il quarto paragrafo riguarderà la «confluenza atlantica»: l’avvio vero e
proprio dell’interazione tra le aree atlantiche europee, africane e americane.
Questa confluenza, che raggiunse pieno sviluppo nel corso della prima metà
del XVII secolo, fu un processo di interazione pluridimensionale tra merci e
manodopera africane ed europee, reso possibile dall’estrazione e dallo
sfruttamento dei metalli preziosi americani. Nel quinto paragrafo, infine,
mostrerò come furono gestite le divergenze derivanti dal rapporto
asimmetrico tra le varie componenti sociali presenti al momento della
nascita del mondo atlantico.

1. Preludio: interazioni nelle aree atlantiche.

Numerosi paesi dell’Europa atlantica hanno preso parte alle azioni di


esplorazione, sfruttamento delle risorse, commercio e stabilimento di nuovi
insediamenti nelle aree africane e americane; le presenze piú cospicue
furono quelle di portoghesi, spagnoli, olandesi, inglesi e francesi, e ognuna
di queste popolazioni, oltre alla varietà linguistica, portò con sé forme
differenziate di organizzazione sociale, politica e istituzionale, che
influirono a vari livelli sulle modalità di insediamento.
Ciò forní inoltre agli europei un modo per orientarsi e per adeguarsi fuori
dai propri paesi. I loro codici di comportamento fuori dalla madrepatria
assunsero una molteplicità di forme sulla base di un ulteriore livello di
differenziazione: pur appartenendo a una stessa organizzazione statale, era
molto forte l’influsso delle singole regioni di provenienza; inglesi, spagnoli,
portoghesi, olandesi e francesi attribuivano grande importanza alla loro
appartenenza regionale, per quanto riguardava l’insieme di usanze, la
religione praticata e i diversi e peculiari sistemi giuridici.
Lo studio dell’arrivo degli europei in Africa e in America richiede
un’attenta considerazione delle loro norme consuetudinarie, degli atti
istituzionali dei nuovi insediamenti, delle ordinanze dei funzionari regi e
delle decisioni delle autorità locali nelle loro nuove sedi di residenza. Per
quanto riguarda l’America britannica, entrarono in vigore le norme delle
compagnie che avevano ottenuto dal re il documento di concessione
(charter) per l’organizzazione della colonia; nell’America iberica furono
invece seguite le norme derivanti dalle capitulaciones, contratti «di
conquista» sottoscritti tra i capitani di conquista e il re di Castiglia. In
entrambe le aree i nuovi arrivati mantennero la distinzione tra norme
pubbliche e private. Le prime riguardavano la fedeltà al re e alle decisioni
dei funzionari regi, le seconde i loro diritti e doveri, oltre alla
regolamentazione della proprietà tra individui. Poiché le norme pubbliche e
private comportavano la presenza di corti e funzionari che permettevano
agli europei di rapportarsi con le monarchie africane e con le comunità
amerindie e convivere quindi in un contesto non previsto da charters e
capitulaciones, i comportamenti dei singoli funzionari si svilupparono sulla
base di come operava la legge nelle loro regioni di origine.
Si venne a creare uno scontro tra i coloni tutelati e quelli non tutelati
dalle norme dei charters e delle capitulaciones, caratterizzati dalla presenza
di forti tratti feudali. Nei territori della Virginia e del Massachusetts tale
conflitto favorí la nascita di nuove comunità, o meglio di conglomerati di
comunità, che permisero ai coloni di liberarsi dalle imposizioni delle
compagnie che gestivano i charters. Lo stesso avvenne nelle aree iberiche,
dove i nuovi coloni rivendicarono il diritto di fondare cabildos, ossia
municipi con cariche elettive riservati per i pochi coloni che avevano il
titolo di vicinato.
L’esempio del Massachusetts e della Virginia permise alla corona inglese
di rendersi conto della debolezza del modello del charter. I coloni, facendo
riferimento alla loro tradizionale appartenenza al sistema giuridico della
common law, favorirono la creazione di una società mercantile in conflitto
con l’élite dei piantatori. Nella colonia di Chesapeake le piantagioni di
tabacco erano molto dinamiche e competitive, e ciò rese impossibile
l’imposizione di una regolamentazione da parte della compagnia titolare
della concessione.
La corona inglese era contraria al superamento dei charters da parte dei
coloni, ma era anche contraria allo sviluppo di culture legali separate tra le
colonie del Nord e quelle del Sud. Ciononostante, facendo ricorso alla
common law i coloni riuscirono a creare proprie assemblee legislative che
riformarono il rigido ordinamento giuridico dei charters e riuscirono inoltre
a ridurre il ruolo dei governatori di nomina regia, accettando di pagare il
loro stipendio.
Le riforme introdotte permisero di rendere piú comprensibili le leggi e
avvicinare le corti ai desideri e alle necessità dei coloni. Le corti delle
contee acquistarono infatti una grande importanza nella vita politica e
sociale delle colonie britanniche. Nelle Barbados furono tali istituzioni a
concedere ai piantatori il potere di decidere le punizioni degli schiavi. Nel
relativo isolamento dalla madrepatria, i coloni svilupparono un sistema
legale che rispondeva alle loro necessità, non concedendo alcun diritto né
agli emigranti arrivati dall’Europa con contratti di servitú debitoria
(indentured servants) né agli schiavi amerindi e africani. Il sistema legale
coloniale subiva modifiche in base ai mutamenti di quello inglese, e nel
corso del XVII e XVIII secolo fecero la loro comparsa le nuove leggi
riguardanti la proprietà, l’eredità, il matrimonio e la criminalità (Hoffer
1992).
A differenza di quanto avvenne in altre aree atlantiche, nell’America
britannica troviamo scarsi accenni alla diffusione del pluralismo legale,
probabilmente per la vasta portata del fenomeno del pluralismo religioso,
che contribuí a rafforzare le norme giuridiche riguardanti la segregazione
razziale. Nell’America iberica, invece, il pluralismo legale si diffuse nel
corso dei secoli XVII e XVIII , relativizzando le divisioni razziali. È molto
probabile che il pluralismo legale iberico affondi le sue radici nella
tradizione dei contatti tra le comunità cristiane e quelle ebree e
mussulmane, le quali erano riconosciute dalla giurisdizione regia.
L’intolleranza religiosa in Spagna ebbe inizio nel XV secolo, con la
conversione forzata e l’espulsione di ebrei e mussulmani e l’annullamento,
dopo molti secoli, delle giurisdizioni religiose condivise. Ciononostante, le
corone iberiche conservarono alcuni tratti di pluralismo religioso, nella
misura in cui si svilupparono tensioni tra l’autorità regia e la Chiesa
cattolica. Tali tensioni trovarono posto anche nelle aree atlantiche iberiche:
la netta contrapposizione tra le leggi canoniche e quelle reali derivava dal
fatto che la Chiesa rivendicava l’assoluto controllo su viaggiatori e poveri,
ascrivendo completamente alle corti ecclesiali il diritto di punire l’usura e le
eresie, e di amministrare le proprietà ecclesiastiche.
La conquista e la colonizzazione offrirono al potere regio l’opportunità
di ampliare la propria sfera di influenza, tramite il non riconoscimento dei
diritti signorili in precedenza accordati ai capitani di conquista, e
l’abolizione dei privilegi ecclesiastici esistenti in territorio europeo. Con il
regio patronato delle Indie si rafforzò il potere del sovrano sulla Chiesa
poiché i vescovi di questi territori erano di nomina regia. L’autonomia della
Chiesa in area atlantica risultò in questo modo ridotta, e fu ridimensionato
anche il ruolo dell’Inquisizione, che rimase invece pressoché invariato in
Europa.
La riduzione dell’influenza ecclesiastica non impedí l’insorgere di
conflitti tra la corona, gli abitanti iberoamericani e le comunità amerindie
che grazie alla corona erano riusciti a conservare parzialmente i propri
diritti e non erano inoltre sottoposti al controllo religioso dell’Inquisizione.
La protezione offerta alle comunità amerindie permise la persistenza delle
loro norme consuetudinarie, che furono effettivamente rispettate dalle corti
legali, favorendo il sincretismo religioso.
Il pluralismo legale fu inoltre presente nelle aree portoghesi dell’Africa
atlantica, grazie al riconoscimento delle autonomie locali delle comunità
mussulmane sino al XIV secolo. Solo a partire dal XV secolo la corona
incomincia a controllare le amministrazioni locali, che nel XVI secolo
passano sotto il diretto controllo dei regi funzionari provinciali.
È interessante notare che il controllo da parte dei sovrani portoghesi si
estese nel 1562 anche all’area del forte di Mina, principale centro del
commercio degli schiavi, regolato da un trattato sottoscritto dal Portogallo
con il regno africano eguafo (Ghana meridionale). Allo stesso tempo in
Angola la corona portoghese lasciò agli africani convertiti al cattolicesimo
il controllo della giustizia locale. In Brasile la difesa delle comunità
amerindie portò a uno scontro tra la corona e i gesuiti, sostenuti
dall’auditore regio, che permise di ridurre l’influenza del governatore
portoghese che esercitava il suo potere grazie all’appoggio dei notabili luso-
brasiliani. Dopo la creazione, nel 1609, di un’alta corte di giustizia a Bahia,
si avvicendò al governo una serie di governatori generalmente favorevoli
agli interessi dei coloni portoghesi (Benton 2004).
Il pluralismo legale nelle aree iberiche si sviluppò per effetto di un
problema insito nella burocrazia regia riguardante il potere piú apparente
che reale dei viceré e dei governatori di nomina regia, dovuto al fatto che
diverse sfere della giurisdizione regia erano rigidamente limitate. Molti dei
subordinati dei viceré e dei governatori, in particolare nel caso dei tribunali
e della fiscalità, godevano di notevole autonomia, ferma restando la
partecipazione dei viceré e dei governatori in alcuni ambiti dei sistemi
legale e fiscale.
I proprietari iberici nelle aree americane sfruttarono a proprio vantaggio i
conflitti tra i vari corpi della burocrazia, approfittando del fatto che il
contesto locale rendeva difficile a viceré e governatori l’applicazione delle
disposizioni troppo generali dei regi consigli metropolitani. Questi, per
evitare le numerose pressioni locali, sospesero molte delle disposizioni
reali, ricorrendo alla formula dell’obbedienza della legge seguita dalla non
esecuzione immediata. «Non esecuzione» non significava negare l’ordine
regio, che veniva rinviato alla metropoli accompagnato dalle richieste dei
funzionari regi, da esposti dei tribunali e dei procuratori di corte dei
principali municipi iberoamericani. Il risultato finale nella maggior parte
dei casi era un nuovo ordine regio, modificato e di portata ridotta rispetto
all’originale.
La formula dell’obbedienza accompagnata dalla non immediata
esecuzione merita un esame approfondito. Non riguardava soltanto
l’isolamento delle aree iberiche dalla metropoli, ma era un modo per
trasformare pratiche americane in legge, senza con questo mettere in
discussione la figura del sovrano come massimo rappresentante della
giustizia. La clausola della non esecuzione implicava il riconoscimento del
fatto che il potere regio dovesse essere informato delle pratiche del
territorio, poiché la mancanza di conoscenza avrebbe potuto tradursi in una
ingiustizia da parte del re. Le informazioni aggiunte permettevano al regio
consiglio metropolitano di correggere la legge originale che avrebbe potuto
creare ingiustizia e conflitti sociali. Questa flessibilità della legge indica che
il pluralismo legale dipendeva dalle differenze esistenti nei territori
governati dalla monarchia. Il risultato fu che nelle aree iberoamericane tale
forma di pluralismo fu regolata a partire da una dinamica tra due principî,
l’autorità e la flessibilità: la forza dell’autorità regia era bilanciata dalle
pratiche giuridiche sviluppatesi nelle aree iberoamericane (Phelan 1960).
Quanto detto fin qui ci aiuta a comprendere la complessità e la fluidità
dell’ordine legale in Africa occidentale. Le tradizioni giuridiche africane
sono evidenti nelle relazioni instaurate con gli europei. In particolare,
l’espansione della tratta degli schiavi portò allo sviluppo di un controllo
interattivo euro-africano, dal momento che la schiavitú era divenuta
fondamentale nel sistema economico e legale africano. Tale pratica ebbe
una vasta diffusione in questo contesto perché si trattava della principale
fonte di reddito privato riconosciuta dalla legge locale, mentre per gli
europei la principale fonte di reddito privato derivava dalla proprietà della
terra (J. Thornton 1998).
Si capisce quindi perché, come vedremo, questa fondamentale differenza
in ambito economico e legale richiese la sottoscrizione di un gran numero
di accordi e trattati tra i regni africani e le compagnie portoghesi, spagnole,
olandesi, inglesi e francesi per regolare la tratta degli schiavi. Ciò comportò
l’assegnazione di un ruolo importante a commercianti e nobili africani, ma
anche ai figli mulatti degli europei, favorito dall’utilizzo del pidgin, lingua
veicolare di contatto, caratterizzata come un misto di lingue che rese
possibile la comunicazione e la convivenza tra europei e africani.

2. La catastrofe demografica.

Limitarsi a considerare la distruzione della popolazione amerindia come


un etnocidio sarebbe semplicistico. Essa non fu infatti il risultato di
un’azione razionalmente perseguita né dagli invasori né dalle monarchie
europee. La popolazione amerindia incomincia in realtà a diminuire sin dal
momento in cui avvengono i primi contatti, e in molte regioni questo
decremento si verifica senza che vi sia stata alcuna presenza europea,
poiché il contagio delle epidemie viaggia trasportato dagli amerindi insieme
con i prodotti europei. La catastrofe demografica fu la conseguenza di un
insieme di epidemie che flagellarono per piú di centocinquant’anni le
popolazioni americane. Gli elevatissimi livelli di morbilità rallentarono le
popolazioni amerindie nel partecipare come attori attivi nel contesto del
nascente mondo atlantico. Questa massiccia distruzione di popolazione
ebbe inizio con l’invasione spagnola e portoghese, e proseguí poi durante
quella inglese, francese e olandese.
Fino alla prima metà del XVIII secolo le popolazioni europee avevano
conosciuto frequenti epidemie, che associate ai cattivi raccolti avevano
provocato notevoli aumenti della mortalità. La stretta associazione tra crisi
demografica, crisi alimentare ed epidemie di vaiolo, tifo, morbillo e
influenza permise al contempo una progressiva immunizzazione delle
popolazioni europee. Tra gli amerindi, vissuti sino ad allora in completo
isolamento, l’arrivo delle malattie portate dagli europei provocò invece una
drastica riduzione della popolazione.
Nell’America iberica, all’inizio del XVII secolo, e poi durante il secolo
successivo nell’America inglese e francese, era sufficiente un ritaglio di
tessuto infetto a contagiare con il vaiolo migliaia di amerindi. Ancora nel
XIX secolo, in certe regioni americane che non erano entrate direttamente in
contatto con gli europei, le epidemie furono autentiche mine vaganti. Le
fonti amerindie e spagnole attribuirono la caduta della capitale azteca alla
diffusione di un’epidemia che non aveva risparmiato nemmeno la classe
dirigente dell’impero. Il vaiolo colpiva anche in associazione con tifo,
morbillo, difterite: nei Caraibi a partire dal 1518, nell’area mesoamericana
specialmente dopo il 1530, e nell’area andina a partire dal 1540 (Crosby
1992; Kipple e Krienehold 1996; N. D. Cook 1998; Ubelaker 2000).
Per l’America settentrionale disponiamo soltanto delle informazioni
riguardanti le epidemie di vaiolo che colpirono le tribú del Nordest, il
Québec e la Florida tra il 1649 e il 1655. Nel 1662-63 il vaiolo colpí gli
irochesi, i delaware e le tribú canadesi. Nel 1669-1670 fu interessata ancora
l’area francese e britannica. Nel 1674-75 il vaiolo colpí le tribú del Texas,
nel 1677-91 investí nuovamente le aree francesi e britanniche e nel 1696 il
Sudest e la costa del golfo (HSUS 2006, Table Ag495).
Nell’America iberica le epidemie si svilupparono specialmente sin dagli
anni Venti del XVI secolo e furono particolarmente virulente sulle coste
atlantiche. Alla fine del XVI secolo gli amerindi erano ormai quasi del tutto
scomparsi dalle Antille, ma è molto difficile stabilire l’impatto preciso delle
epidemie sulla mortalità della popolazione, poiché furono quasi sempre
associate alla violenza degli invasori. Dalle ricerche svolte su alcune
comunità amerindie risulta che questi due fattori contribuirono a una
riduzione del 50 per cento della popolazione dell’America continentale
britannica (Ubelaker 1992). Alcuni autori sostengono che si siano
manifestate anche forme di genocidio (J. D. Daniels 1992).
Secondo alcuni il recupero demografico avviene a partire da un decennio
dalla fine delle epidemie, quando il tasso di crescita sia tornato a registrare
valori positivi del 2,3 per cento annuo. Un’ipotesi piú realistica sostiene
invece che per ricostituire la popolazione decimata dalle epidemie sia
necessario un tasso di crescita dello 0,5 per cento annuo per la durata di un
secolo.
In sintesi, la drammatica riduzione della popolazione amerindia
rappresenta un fenomeno unico, nonostante molti aspetti di questa vicenda
rimangano ignoti. Si può dire che all’arrivo degli europei le Americhe si
caratterizzavano per una notevole diversità nella densità demografica. Tra le
incertezze figura la possibile evoluzione degli amerindi a partire dal 1492.
La prima stima fatta nel 1924 parlava di una popolazione compresa tra i 40
e i 50 milioni di persone. A partire dal 1930 e fino al 1960 le stime
fluttuavano tra i 13,1 e i 15,5 milioni, per poi ritornare a crescere tra il 1967
e il 1987 da un minimo di 72 a un massimo di 100 milioni di persone.
Se si disaggregano questi valori tra le aree dell’America settentrionale e
centromeridionale, le stime piú recenti ci dicono che nel Nord si contavano
all’inizio del XVI secolo tra i 4 e i 7 milioni di individui, mentre nell’area
centromeridionale tra i 35 e i 65 milioni. In altre parole, gli abitanti
dell’America settentrionale costituivano tra il 9,3 e l’11,2 per cento del
totale del continente, mentre la popolazione dell’America
centromeridionale costituiva la parte rimanente, tra l’88,8 e il 90,2 per
cento. Tra il 1620 e il 1640 gli effetti negativi delle epidemie tesero ad
attenuarsi, specialmente nell’America iberica, per assumere caratteristiche
simili a quelle riscontrate in precedenza in Europa.
L’evoluzione della popolazione amerindia del Messico coloniale ci aiuta
a capire il ritmo di spopolamento e di crescita demografica. La fase della
fortissima diminuzione avvenne tra il 1518 e il 1549, portando la
popolazione a 6,3 milioni di individui; la decrescita proseguí a un ritmo piú
lento tra il 1549 e il 1622, quando raggiunse un milione di abitanti. In
questa seconda fase, la popolazione diminuiva per l’effetto combinato delle
epidemie, della diffusione delle nuove forme produttive europee e della
nascita di un’economia mercantile, prima inesistente.
Nell’area andina la popolazione diminuí notevolmente tra il 1520 e il
1570, da 9 a 1,3 milioni di individui. Tra il 1570 e il 1630 scese ancora da
1,3 milioni a 600 000. Fenomeni simili si registrarono anche nelle aree
abitate da civiltà tribali, dove in alcuni casi si estinse l’intera popolazione,
come avvenne ad esempio nei Caraibi.

3. La costruzione del mondo atlantico: il ripopolamento delle aree


americane.

Il parziale ripopolamento del continente americano fu reso possibile


dall’immigrazione europea, sia libera sia coatta, e dagli schiavi africani.
Grazie a questi nuovi abitanti, che andavano ad aggiungersi alla residua
popolazione amerindia, prese avvio il processo che avrebbe portato
all’organizzazione degli insediamenti permanenti, favoriti dalle concessioni
gratuite di terra agli europei.
Per rendere chiaro il difficile processo di ripopolamento delle aree
atlantiche bisogna ancora una volta ricorrere alle stime disponibili per il
XVII secolo. Cominciamo con l’America atlantica settentrionale, tenendo
presente che le stime riguardano la fascia costiera, dalla Nuova Inghilterra
alle regioni del golfo del Messico, dove tra il 1600 e il 1650 la popolazione
amerindia si ridusse a 298 000 persone (HSUS 2006, Table Ag17.129).
Accanto alla popolazione amerindia, quella di origine europea crebbe del
2,3 per cento annuo a partire dal 1650, arrivando a raggiungere, nel 1690, i
198 000 abitanti (Klein 2004). Ancora alla fine del XVII secolo, quindi, in
quella zona la popolazione amerindia era superiore a quella bianca.
Cartina 4.
Spinte demografiche nel mondo atlantico, 1650.

Il maggiore incremento demografico si ebbe nei Caraibi britannici,


poiché il numero di bianchi residenti nelle isole era di 57 000, di cui 47 000
inglesi. Alla popolazione bianca dell’America inglese continentale va poi
aggiunta quella schiavile africana. Durante tutto il XVII secolo il suo
contributo rimase limitato, e soltanto dopo il 1680 essa raggiunse le 38 000
unità (HSUS 2006, Table Ad3-13).
Senza il contributo della popolazione amerindia e degli immigrati
europei, l’impresa di trasformare in insediamenti definitivi i primi nuclei
abitativi sarebbe stata estremamente difficile. Va precisato che la
manodopera, quella amerindia come quella bianca, non era libera. Come si
è detto, nel 1690 la popolazione bianca ammontava a 198 000 individui; di
questi, circa il 55 per cento (108 000) era costituito da indentured servants,
definiti anche «schiavi bianchi», e un 5 per cento (9900) era costituito da
carcerati inviati dall’Inghilterra. La popolazione bianca libera ammontava a
95 040 individui, ossia il 38 per cento del totale dei bianchi. Se al 60 per
cento di manodopera degli schiavi bianchi aggiungiamo la popolazione
schiavile africana e quella amerindia, si può allora dire che su un totale di
503 419 abitanti, 400 000, cioè l’80 per cento circa della popolazione totale,
erano lavoratori coatti.
Nei Caraibi inglesi la situazione era simile. Nel 1650 le Barbados
contavano 20 000 schiavi africani, pari alla popolazione di schiavi bianchi,
piantatori e liberi. Trent’anni piú tardi, nel 1680, il censimento dell’isola
registrò 2317 schiavi bianchi, 38 782 schiavi africani e 3044 piantatori
(Newman 2013). Anche nell’area atlantica britannica, dunque, la
trasformazione degli insediamenti provvisori in permanenti sarebbe stata
impossibile senza la manodopera coatta.
Se ci spostiamo in Brasile, la sponda portoghese del mondo atlantico
americano, ritroviamo una situazione simile. Alla fine del XVI secolo la
popolazione totale era di 57 000 abitanti, di cui 25 000 bianchi (43,9%), 14
000 schiavi (24,6%), 18 000 indios, meticci e mulatti (31,5%). Nel 1660 la
popolazione totale brasiliana si era piú che triplicata, raggiungendo i 184
000 abitanti, di cui 110 000 erano schiavi africani (59,8%) e i restanti 74
000 (40,2%) amerindi, mulatti, meticci e bianchi. Tra questi ultimi figura
una percentuale altissima di manodopera servile (Instituto brasileiro de
Geografia e Estatística 2000).
L’unica differenza sostanziale tra l’America atlantica portoghese e quella
britannica è la presenza nell’Atlantico portoghese di un altissimo tasso di
ibridazione etnica e sociale. Diversamente dall’America britannica, infatti,
il Brasile aveva perso molto piú rapidamente la propria popolazione
amerindia, che ammontava in origine a 2,4 milioni di abitanti, di cui 600
000 nell’area in cui furono stabilite le piantagioni di canna da zucchero,
decimata non solo dalle epidemie, ma anche dai nuovi ritmi di lavoro. Per le
altre aree atlantiche dell’America spagnola disponiamo di due stime, la
prima per il 1570, e la seconda per il 1650 (si veda la tabella 2).
Anche nelle aree iberiche delle Antille il contributo della manodopera
africana assunse una sempre maggiore importanza. Come in Brasile, anche
nei Caraibi spagnoli si osservò una forte ibridazione con la popolazione
bianca. In meno di un secolo, gli schiavi africani si moltiplicarono di undici
volte, tuttavia le esigenze produttive richiesero comunque di ricorrere alla
manodopera mulatta e meticcia. Sulle coste del Venezuela e della Colombia
la manodopera schiava era affiancata da quella servile di amerindi, mulatti e
meticci.
Confrontando le aree atlantiche americane si può dire per assenza di
studi che mentre nei Caraibi iberici la schiavitú permise la creazione di una
popolazione afroamericana semilibera, nell’America britannica essa impedí
invece questo stesso processo.

Tabella 2.
Popolazione dei Caraibi spagnoli, 1570-1650.
La forma assunta dagli insediamenti permanenti permise lo stabilirsi di
attività produttive e di inedite modalità di scambio, e il loro sviluppo seguí
un preciso disegno geografico e strategico, che ritroviamo in tutte le aree
atlantiche americane. A partire dalle zone costiere, dove spesso si erano
insediati provvisoriamente gli europei, si sviluppava un’area portuale, e
successivamente un hinterland, che per molto tempo non supererà i 100-150
chilometri dalla costa, in modo da non perdere il collegamento con il vicino
porto e con le rotte atlantiche. L’hinterland svolgeva inoltre la funzione di
collegamento con la frontiera aperta, dove si stabilirono gli appartenenti a
diversi gruppi etnici che erano stati espulsi o erano fuggiti dall’area degli
insediamenti permanenti.
Questa modalità di insediamento permanente prese piede a partire dalla
prima metà del XVII secolo, ma assunse la sua forma definitiva nel corso
della seconda metà del secolo. L’articolazione delle tre aree (costa,
hinterland e frontiera aperta) richiese infatti la creazione di infrastrutture di
comunicazione: strade, collegamenti fluviali e, a volte, canali navigabili.
Nell’occupazione territoriale dell’America britannica anche gli schiavi
ebbero un ruolo importante: senza di loro le piantagioni della baia di
Chesapeake, Virginia, Maryland e Carolina non avrebbero potuto prendere
forma. In Massachusetts, invece, dove non furono stabilite piantagioni, fu la
componente amerindia ad assumere un ruolo chiave, nonostante la
crescente influenza dei coloni. Nella Nuova Inghilterra si ridusse il numero
degli interpreti, e i capi tribú cominciarono a esprimersi in inglese, senza
che ciò comportasse una totale sottomissione dei nativi. Nel frattempo la
convivenza tra amerindi e coloni cominciò a farsi sempre piú difficile,
mentre i meticci erano riconosciuti nelle aree francesi ed erano invece
disprezzati nelle aree inglesi (Meining 1985).
Negli hinterland si creò invece un diverso genere di relazione tra
invasori e amerindi, come risultato della loro interdipendenza. Si
osservarono due diversi modelli di interazioni: in alcune regioni queste
erano localmente diffuse, con molti punti di contatto ma con scarsi sviluppi
sistematici; in altre aree invece i rapporti tra coloni e amerindi furono piú
formalizzati a livello interculturale e organizzativo. Il primo modello lo
ritroviamo nella Nuova Scozia, nella relazione tra acadiani e micmac in
Canada e lungo l’area meridionale del Mississippi. Il secondo modello
appare invece nelle aree di Montréal, Albany (New York), Charleston
(Carolina del Sud) e Mobile (Alabama).
Nell’hinterland continentale britannico, in cui si ritrovarono a convivere
artigiani, costruttori di canoe e traduttori, i principali contesti di contatto tra
coloni e amerindi furono i mercati, le guarnigioni, le chiese e, a volte, anche
le scuole. Tanto nell’hinterland quanto nella frontiera aperta si assisté alla
nascita di linguaggi formati da parole inglesi e francesi con significati
amerindi, e addirittura le tecniche di combattimento amerindie assunsero
alcuni tratti di quelle europee, grazie all’uso dei fucili e della polvere da
sparo. Nonostante i matrimoni misti non fossero apprezzati dai coloni, gli
incroci etnici furono frequenti dal momento che molti coloni convissero con
donne amerindie. Ne risultarono, nell’entroterra e nella frontiera aperta
britannica e francese continentali, percentuali significative di popolazione
meticcia.
Piú complessa fu la situazione della frontiera che si sviluppò a ovest,
geograficamente piú estesa dell’hinterland. In quell’area il sistema
commerciale era interamente nelle mani degli amerindi e dei meticci,
cacciatori di pelli, trasportatori di beni e commercianti delle produzioni
amerindie. Qui coloni e nativi trovarono un terreno di scontro, ma si videro
allo stesso tempo costretti alla convivenza, dando vita a una dinamica che
portò molti cambiamenti. Va aggiunto che l’assenza di controllo statale
sulla frontiera esterna del mondo atlantico provocò alterazioni tanto nelle
società amerindie quanto in quelle dei coloni; si istituirono inoltre alleanze
mutevoli, che portarono a un’intensificazione degli scontri bellici tra le
diverse tribú amerindie (Meining 1985).
A differenza degli insediamenti iberici, quelli inglesi offrirono
scarsissime possibilità di partecipazione alle popolazioni amerindie, poiché
i rapporti erano fondati sulla forza, sulla coercizione e sull’interesse dei
notabili (Jennings 1976).
L’organizzazione geografica e strategica dell’Atlantico meridionale fu
simile a quella dell’Atlantico settentrionale. La maggiore differenza
risiedeva nel fatto che l’hinterland nell’Atlantico meridionale si sviluppò su
un territorio molto esteso nell’entroterra. Si trattava di una zona
particolarmente ricca di argento e i principali siti estrattivi erano ben
collegati con i porti e le rotte atlantiche, inoltre la sua specificità dipese
dalla ripresa demografica avvenuta tra il 1620 e il 1640.
Nell’Atlantico meridionale i primi insediamenti permanenti si
svilupparono nell’area caraibica, a partire dalle isole di Cuba, Hispaniola e
Portorico, che si erano spopolate durante l’insediamento provvisorio del
XVI secolo, fino a occupare anche la fascia costiera del Messico, Panama,
Venezuela e Colombia, per poi ripartire dal Nordest del Brasile e da lí verso
sud fino a Santos.
In entrambe le aree si diffuse la produzione agricola; la coltura
principale, a partire dal 1530-40, fu quella della canna da zucchero, in
particolare nella regione di Bahia e Pernambuco.
Come nell’America britannica, nel XVI secolo gli avamposti iberici
furono stabiliti su isole in cui si scambiavano prodotti amerindi contro beni
europei. Il primo insediamento provvisorio in Brasile era finalizzato alla
racconta del pau brasil, intorno alla quale presero avvio anche i primi
meccanismi di interazione interetnica e i primi accordi di collaborazione tra
gli amerindi e gli invasori portoghesi e francesi.
Anche il primo insediamento spagnolo in Messico, stabilito a Veracruz
tra il 1517 e il 1540, fu un porto, collegato con Cuba e Siviglia. In
quest’area della costa gli insediamenti erano finalizzati alle razzie
organizzate dalle compagnie dei capitani di conquista. Il centro intorno a
cui ruotavano questi primi insediamenti spagnoli era il porto cubano
dell’Avana, che a partire dal 1561 ebbe il controllo dei commerci di
legname pregiato (il mogano cubano e guatemalteco e il legname tintorio di
Tabasco), di pellame, di perle e cacao venezuelano, degli smeraldi della
Colombia e della lana di alpaca del Perú. L’Avana divenne cosí lo snodo
americano della flotta che collegava il continente con la Spagna.
Gli snodi dell’Avana e di Portobelo divennero inoltre importanti, dopo il
1580, con l’avvio dell’hinterland minerario. A partire da quel momento,
l’area di produzione dell’argento del Messico centrosettentrionale e l’area
peruviana di Potosí nella Bolivia divennero fondamentali nella costruzione
del mondo atlantico. L’argento animerà infatti il collegamento con l’Europa
atlantica e offrirà, grazie all’intermediazione e al potenziamento delle reti
mercantili, il finanziamento necessario per la costruzione degli insediamenti
permanenti sulle fasce costiere.
Lo sviluppo dell’hinterland minerario trasse una forte spinta dalla
tecnica dell’amalgamazione, innovativo procedimento scoperto in America
che permette di trasformare il minerale grezzo in argento. Grazie a questo
procedimento i centri minerari offrirono dunque quantitativi crescenti di
argento alla circolazione monetaria atlantica (Carmagnani 2012b).

Cartina 5.
Il nuovo spazio americano atlantico, 1650.
La manodopera impiegata nel settore estrattivo provenne inizialmente
dalla residua popolazione amerindia, cui si aggiunse in seguito in Messico
quella servile meticcio-mulatta reclutata con il sistema della servitú
debitoria, specialmente a partire dal XVII secolo. Nelle miniere peruviane la
manodopera proveniva invece da duecento comunità amerindie installate in
un raggio di circa 50 chilometri dalle miniere d’argento di Potosí e di
mercurio di Huancavelica. Le comunità offrivano a turno un settimo della
popolazione maschile, che si trasferiva nella zona delle miniere per circa tre
mesi, portando con sé gli approvvigionamenti alimentari necessari per
sopravvivere. Questo sistema di lavoro forzato, istituito dal viceré Toledo
nel 1573, fu abolito soltanto nel 1812. Si trattava di una forma di lavoro
servile, poiché i salari della manodopera india finivano nelle mani dei
cacicchi (i governanti delle comunità), dei regi funzionari nominati dal
viceré e del clero (Dell 2010).
Con la manodopera amerindia e meticcio-mulatta e la nuova tecnica di
estrazione fu possibile produrre, tra il 1580 e il 1640, 674,3 milioni di pesos
d’argento, cioè 11,3 milioni annui. Sebbene una cospicua percentuale di
questo denaro prendesse la strada della Spagna e dell’Europa atlantica, una
parte significativa circolò sulle coste atlantiche del continente americano
per via del commercio illegale, svolto con la mediazione di commercianti
spagnoli, portoghesi, britannici, olandesi e francesi. L’argento requisito dai
corsari di varie nazionalità raggiunse inoltre il 10-20 per cento del totale
dell’argento prodotto circolante nelle diverse aree atlantiche americane,
ossia tra uno e due milioni di pesos annui (Morineau 1985; Te Paske 2010).
La ricchezza dell’America spagnola rimise in discussione la spartizione
papale dell’Atlantico concessa esclusivamente alla Spagna e al Portogallo,
provocando la corsa delle potenze europee escluse (Inghilterra, Francia e
Olanda) per prendere possesso delle terre dell’America settentrionale.
È dunque possibile affermare che, sebbene l’organizzazione territoriale e
strategica delle tre aree avesse fornito il presupposto per l’integrazione del
mondo atlantico, l’hinterland dell’argento americano fu il contesto in cui
questa si rivelò davvero possibile. Va aggiunto che nel corso della prima
metà del XVII secolo all’argento si aggiunse lo zucchero brasiliano, l’«oro
bianco» che rese il mondo atlantico euro-afro-americano una nuova e
inscindibile realtà. Senza il traino di questi due prodotti americani non
sarebbero arrivati gli schiavi bianchi e africani e l’Africa e le Americhe non
avrebbero potuto ottenere le merci europee necessarie per la loro
sopravvivenza.
La crescita del mondo atlantico tra la fine del XVI e la prima metà del
XVII secolo fu inoltre resa possibile dalla progressiva riduzione delle
esportazioni di oro africano per la circolazione monetaria europea: a partire
da questo momento, il ruolo dell’Africa rimase essenzialmente quello di
fornire forza lavoro per le Americhe.
Lo sviluppo delle aree americane è dimostrato dalla loro capacità di
attrarre popolazione europea. Mentre nel 1690 l’America continentale
britannica, come abbiamo visto, aveva una popolazione di 198 000 abitanti,
tra il 1500 e il 1580 le aree spagnole avevano attirato 139 000 immigrati e
altri 188 000 sarebbero arrivati tra il 1580 e il 1640. Il ripopolamento del
Brasile dipese dagli schiavi africani, ma anche dagli immigrati europei e
dalla nuova popolazione meticcia e mulatta, per cui nel 1690 la popolazione
totale brasiliana era di 242 000 abitanti. Il ripopolamento delle aree
spagnole dipese anche dalla fine della catastrofe demografica amerindia
(Romano 2007).
L’Atlantico meridionale, come quello settentrionale, aveva un’area di
frontiera aperta di vaste dimensioni, popolata soprattutto da amerindi, e in
cui vi erano pochi bianchi. Le principali aree di scambio si sviluppavano tra
l’attuale Argentina e il Brasile, e il commercio dipendeva anche in questo
caso dagli amerindi, che scambiavano beni europei contro argento, cavalli,
pelli, cuoio e carne essiccata proveniente dal bestiame brado introdotto dai
primi europei e successivamente rinselvatichito. La dinamica sociale
dominante era il conflitto, ma vi erano anche numerose interazioni tra
amerindi, bianchi, meticci e mulatti; la principale fonte di scambio in
quest’area era costituita dal contrabbando dell’argento prodotto a Potosí,
che raggiungeva i porti di Buenos Aires, Santos e Rio de Janeiro, ma anche
dal contrabbando dei diamanti. Lo stesso interesse per l’argento animava
l’area di frontiera aperta tra il Messico centrosettentrionale e l’America
britannica, dove i pesos coniati e i lingotti d’argento raggiungevano New
York e Boston, favorendo la circolazione monetaria nell’Atlantico
britannico e francese.
Per capire il salto qualitativo avvenuto nell’Atlantico americano tra la
fine del XVI e la prima metà del XVII secolo è importante considerare i
mutamenti intercorsi nei rapporti tra la popolazione e la forza animale.
Questa trasformazione ci aiuta a capire le innovazioni che avvennero
soprattutto nei collegamenti tra gli spazi. Prima dell’arrivo degli europei il
continente americano era carente di forza animale, e si stima che le attività
agricole richiedessero una forza lavoro umana di sette abitanti rispetto ai
quattro dell’Europa dello stesso periodo (Romano 2007).
All’inizio del XVI secolo l’America aveva una popolazione stimata di 72
milioni di abitanti e la sua capacità energetica era all’incirca di 10,3 milioni
di unità. Intorno al 1620 rimanevano soltanto 5-6 milioni di abitanti, la cui
capacità energetica, tenendo ora conto della forza animale introdotta dagli
europei, era di 1,3-1,5 milioni di unità. Se nel 1620 avesse potuto contare su
una popolazione di almeno 10 milioni di abitanti, l’America avrebbe avuto
il doppio delle unità di energia per sostenere l’avvio degli insediamenti
definitivi. Nel 1690, tuttavia, la popolazione totale non superava ancora i 7-
8 milioni di abitanti, con il risultato che il deficit energetico permaneva,
ammontando a circa 1,7-2 milioni di unità, pari a 425 000 - 500 000
abitanti. Questa carenza sarà colmata soltanto verso la fine del XVIII secolo.
Il calcolo del fabbisogno energetico necessario alla configurazione degli
spazi produttivi permette di comprendere l’importanza che ebbe nella
costruzione del mondo atlantico la forza animale, già presente invece in
Europa e in Africa. Gli animali da tiro innanzitutto: i cavalli apportano 500-
800 watt di energia, i muli tra i 500 e i 600, i buoi tra i 250 e i 500, le
mucche tra i 100 e i 300, gli asini tra i 100 e i 200 (Smil 1994). Va infine
ricordato che muli e cavalli, insieme allo sfruttamento delle vie fluviali,
permisero un’enorme riduzione delle distanze. All’energia animale va
aggiunta inoltre quella derivante dall’uso della ruota nei mulini, della
polvere da sparo, che permise maggiore forza in combattimento, e infine
della vela nella navigazione marittima e fluviale, che aumentavano l’energia
totale disponibile.
Nell’hinterland minerario del Messico e del Perú l’invenzione
dell’amalgamazione permise di incrementare l’energia della manodopera.
Nelle miniere di Potosí come in quelle messicane, furono svolti lavori
idraulici per convogliare l’acqua in canali che permisero ai mulini di
frammentare il minerale grezzo prima del processo di amalgamazione.
Queste nuove fonti di energia furono impiegate anche nelle nascenti
piantagioni di canna da zucchero del Brasile e delle Indie occidentali
britanniche. Oltre alla manodopera servile e degli schiavi nel lavoro
agricolo ci si avvalse della forza animale e di quella dell’acqua che
alimentava i mulini, che permisero di aumentare la capacità produttiva della
produzione dello zucchero, come testimoniato dagli inventari brasiliani,
delle Indie occidentali britanniche e del Messico.

4. Confluenze atlantiche.

Il maggiore contributo demografico del mondo atlantico americano dopo


la catastrofe provenne dall’Africa. Tra il 1576 e il 1650 nei Caraibi spagnoli
sbarcarono 274 000 schiavi, in media 3702 all’anno, che sopperirono
parzialmente alla drastica riduzione della popolazione amerindia,
apportando quasi la metà della forza lavoro necessaria per colmare la
diminuzione della manodopera amerindia (Eltis e Richardson 2010).
Nei Caraibi inglesi, specialmente nelle Barbados, dopo un periodo di
massiccio sfruttamento degli schiavi bianchi, nel XVII secolo cominciarono
ad arrivare gli schiavi africani. Tra il 1620 e il 1650 nelle Barbados ne
arrivarono 26 000, ossia 866 all’anno, mentre a Saint Christopher (Saint
Kitts) ne arrivarono soltanto 800 in tutto. In questo stesso periodo il
contributo africano fu invece minimo nell’America britannica continentale,
con appena 100 arrivi nella baia di Chesapeake.
L’area in cui furono portati piú schiavi africani è il Brasile, dove
cominciarono ad arrivare sin dal 1500. Il loro numero crebbe rapidamente
tra il 1501 e il 1575, quando ne sbarcarono infatti 58 400, ossia 790 l’anno.
Questa accelerazione coincise con l’aumento delle coltivazioni di canna da
zucchero e l’incremento dei mulini, che trasformavano la canna in
zucchero. Tra il 1576 e il 1650 le regioni dello zucchero (Bahia,
Pernambuco e il Sudest del Brasile) ne ricevettero 638 900, 8634 ogni anno,
ossia 10 volte piú che nel XVI secolo (Eltis e Richardson 2010). Del totale
degli schiavi ben 120 600 (18,9%) giunsero nella regione di Bahia, 138 000
(21,6%) nella regione di Pernambuco e 84 000 (13,1%) nel Nordest del
Brasile.
Dopo il 1575 le principali regioni africane atlantiche della tratta degli
schiavi furono quella centro-occidentale e, secondariamente, la Guinea
superiore. Tra il 1576 e il 1650 la regione centro-occidentale inviò in
America 668 000 schiavi, 9027 ogni anno, dove arrivavano decimati dalle
malattie e dalla fame. La Guinea superiore contribuí con 100 000, 1351
all’anno.
Il rapporto che intercorre tra la catastrofe demografica amerindia e la
deportazione di schiavi africani verso le Americhe è chiaramente illustrato
dalla correlazione, nel primo terzo del XVII secolo, fra il culmine della
diminuzione della popolazione amerindia e l’intensificazione della tratta
degli schiavi. Nel periodo 1501-75 arrivavano in media appena 1172
schiavi all’anno, mentre nel periodo compreso fra il 1600 e il 1650 ne
arrivarono 8608 ogni anno.
Si può situare l’inizio del nuovo rapporto demografico atlantico euro-
afro-americano durante la cosiddetta «crisi generale del 1620-40». Tale
crisi, che ridiede importanza alle componenti signorili e rurali, oltre a
colpire l’Europa, avviando addirittura la seconda servitú nell’Europa
orientale, ebbe conseguenze anche per l’Atlantico americano.
Per capire la trasformazione avvenuta in Africa e le sue implicazioni per
il resto del mondo atlantico bisogna tenere presente che all’inizio del XV
secolo l’invio degli schiavi non era il principale obiettivo degli scambi tra i
portoghesi e gli africani. Come si è visto nel primo capitolo, l’obiettivo
principale era infatti quello di arrivare alle fonti dell’oro africano, e rispetto
a ciò la tratta degli schiavi era secondaria. Durante questa prima fase, gli
schiavi erano venduti soprattutto nelle isole dell’Atlantico, in Spagna e in
Portogallo. Il commercio di schiavi cominciò ad aumentare solo tra il 1490
e il 1519, sino ad arrivare a 4500 all’anno, per poi diminuire di nuovo,
scendendo a un migliaio nel periodo 1550-59 (Eltis e Richardson 2010).
Se ora esaminiamo la progressione dello stock europeo di metalli
preziosi, misurati in tonnellate di argento, notiamo che tra il 1500 e il 1550
il tasso d’incremento annuo fu del 6,1 per cento, esclusivamente grazie al
contributo dell’oro africano. Tra il 1580 e il 1650, quando cominciò
l’afflusso di argento americano, il tasso d’incremento salí al 9,4 per cento
annuo, aumentando cioè del 54 per cento rispetto alla prima metà del XVI
secolo; ciò significa che giunsero in Europa in media 2722 tonnellate di
argento americano all’anno, che insieme a un 10-20 per cento rimasto nelle
Americhe rappresenta un contributo totale compreso tra le 2994 e le 3266
tonnellate annue (Morineau 1985).
In verità l’immissione di oro e argento americani nello stock monetario
europeo era già cominciata nel XVI secolo. Sino al 1580 ammontò a 41,1
tonnellate annue di tesori ottenuti dalle razzie degli spagnoli e dei
portoghesi. Tra il 1500 e il 1580 il contributo africano cominciò a
diminuire, alimentando lo stock europeo con appena 0,6 tonnellate annue. Il
salto quantitativo del contributo americano fu dovuto all’argento delle
miniere, che tra il 1580 e il 1650 alimentò lo stock europeo con 237
tonnellate annue, mentre l’Africa contribuí nello stesso periodo con appena
1,1 tonnellate annue (Morineau 1985).
Nel corso del XVII secolo l’argento americano permise dunque al mondo
atlantico di prendere forma e diventare, specialmente durante la crisi
generale del 1620-40, l’area piú dinamica del mondo. Possiamo inoltre
aggiungere che gli attori principali della fase storica della ripresa del mondo
atlantico furono il Portogallo e la Spagna, che oltre a metterne in
comunicazione le varie parti trasmisero il suo dinamismo agli scambi con
l’Asia. Ciò spiega infine perché il primato della tratta degli schiavi sia
appartenuto al Brasile.
Nel XVII secolo gli insediamenti nell’America continentale britannica
divennero permanenti, soprattutto grazie all’immigrazione inglese,
scozzese, irlandese e tedesca. Tra il 1607 e il 1700 gli immigrati furono 399
993 (Altman e Horn 1993; Games 2008). Tuttavia, a differenza
dell’emigrazione iberica di uomini liberi, il 60 per cento di coloro che
emigravano dalla Gran Bretagna era costituito da indentured servants e
carcerati. Anche nel popolamento europeo dell’America britannica
continentale il sostegno della popolazione amerindia fu indispensabile; fino
a prima del 1700 nella Nuova Inghilterra la manodopera amerindia rimase
dominante, mentre i coloni e gli schiavi bianchi minoritari.
Il contributo degli amerindi fu importante poiché sin dal 1607, anche
nelle aree della costa, interagirono quotidianamente con i coloni inglesi.
Fino alla creazione della colonia di Massachusetts Bay, nel 1630, la
presenza inglese rimase inoltre debole e dispersa, e ciò spiega la necessità
di mantenere buoni rapporti con gli amerindi durante tutto il XVII secolo.
Nel Connecticut l’alleanza tra i coloni e le tribú dei mohegan e dei
mashantucket pequot serví per tenere a bada gli interessi dei poteri
regionali, compresi quelli della Massachusetts Bay.
Il rapporto tuttavia si fece conflittuale quando i coloni cominciarono ad
affermare il diritto di ridurre in schiavitú gli amerindi catturati in guerra.
Anche nelle Barbados, dove gli arawak avevano inizialmente stabilito
un’alleanza con i coloni, il governatore e il consiglio stabilirono nel 1636
che gli amerindi e gli indentured servants europei avrebbero dovuto essere
considerati schiavi a vita, o per un tempo determinato. Questo anticipava
ciò che sarebbe avvenuto piú tardi nelle Bermuda, in Virginia, a Providence
e in Giamaica: in tutte le aree britanniche gli amerindi avrebbero potuto
essere ridotti in schiavitú.
A partire dal 1640 le colonie della Nuova Inghilterra, che comprendeva
Connecticut, Plymouth, New Haven e Massachusetts Bay, affermarono la
propria sovranità e cominciarono a considerare le concessioni di terre
offerte dagli amerindi come proprietà private dei coloni.
Con la guerra di «re Filippo», nel 1675-76, le relazioni con le tribú
native subirono un brusco cambiamento: in risposta alla pressione dei
coloni, gli amerindi distrussero alcuni dei loro insediamenti, facendo
ritornare gli inglesi al livello del 1650. L’aumento della popolazione della
Nuova Inghilterra meridionale, da 18 500 a 54 000 abitanti, produsse un
aumento della domanda di terre da parte dei coloni, il che portò a una
recrudescenza degli scontri tra inglesi e tribú amerindie. Nel 1676, dopo la
vittoria, i coloni consolidarono la loro presenza nella Nuova Inghilterra e
incrementarono la manodopera con gli schiavi amerindi. Il tesoriere della
Massachusetts Bay dichiarò nel 1676 di aver venduto 66 schiavi amerindi,
di cui 30 bambini (Newell 2015).
Tra la fine del XVII secolo e i primi anni del XVIII , anche nella Carolina
meridionale, aree limitrofe alla Florida spagnola, si registrò un incremento
nel numero di schiavi amerindi. Molti di loro provenivano dalle regioni
abitate dagli «indiani dell’Est», cosí definiti dai coloni, che comprendevano
sette gruppi tribali dell’attuale Maine, New Hampshire, Vermont,
Massachusetts settentrionale, New Brunswick, Nuova Scozia, Isola del
Principe Edoardo, Québec meridionale e Terranova.
Un’altra via che portò all’asservimento degli amerindi fu la progressiva
eliminazione delle produzioni non legate allo scambio di beni europei. Un
buon esempio è rappresentato dal commercio delle pellicce, che obbligò gli
amerindi a dedicare sempre maggiori energie alla caccia, togliendole invece
all’attività di costruzione di canoe, con cui si spostavano e commerciavano
(Innis 1964). Oltre alla specializzazione commerciale degli amerindi
vennero progressivamente meno le tradizionali alleanze con i coloni. Ne
conseguí la progressiva accumulazione delle terre delle tribú da parte dei
coloni (Jennings 1976).
Seppure in forme diverse, anche l’evoluzione del rapporto tra gli
amerindi e gli invasori portoghesi e olandesi fu molto simile a quella cui si
assisté nell’America britannica continentale. In Brasile, nei villaggi
concessi dalla corona portoghese e amministrati dai gesuiti, gli amerindi
furono ridotti in schiavitú. Nelle aree delle piantagioni di canna da zucchero
i tupi opposero una resistenza particolarmente forte: nelle loro incursioni
militari, condotte da formazioni di dimensioni variabili tra le poche dozzine
e le parecchie migliaia di guerrieri, molti portoghesi persero i loro beni e
furono catturati, e dopo essere stati umiliati furono integrati nelle comunità
amerindie come servi (Puesipher 2011).
Tra il 1540 e il 1560 la presenza degli europei sulla costa brasiliana
provocò la diffusione di varie epidemie, soprattutto vaiolo, morbillo e
influenza, che dimezzarono la popolazione tupi; buona parte dei superstiti
fu ridotta in schiavitú. Fino al 1560, infatti, nelle prime piantagioni la
manodopera era costituita principalmente da schiavi amerindi (Schwartz
1985). Il passaggio dalla manodopera amerindia schiava a quella africana
avvenne gradualmente, a partire dalla fine del XVI secolo, quando
l’aumento della produzione di zucchero permise ai piantatori di ottenere
credito per l’acquisto di schiavi africani. A Pernambuco, nel decennio
1550-60, non fu registrata la presenza di schiavi africani, mentre nel 1585
vi erano sessantasei piantagioni che possedevano 2000 schiavi, ossia circa
trenta schiavi per piantagione. Nell’area di Bahia, la principale produttrice
di zucchero, nel 1572 si registravano 280 schiavi di cui soltanto venti erano
africani poiché il prezzo di uno schiavo africano era di tre volte superiore a
quello di un amerindio dotato di capacità tecniche simili, mentre nel 1591
dei 103 schiavi registrati trentotto erano africani. Soltanto a partire dal 1638
le piantagioni cominceranno a impiegare esclusivamente schiavi africani o
afrobrasiliani (Schwartz 1985).
Nel 1684, quando la regione di Bahia passò in mano olandese, la nuova
amministrazione della Compagnia delle Indie occidentali disponeva di
propri soldati e utilizzava gli amerindi tupi come ausiliari. Il loro
reclutamento avveniva grazie a un’alleanza con gli stessi tupi, che era stata
negoziata ad Amsterdam. I membri di questo gruppo etnico, di cui gli
olandesi apprezzavano le virtú militari, parteciparono dunque alla guerra
contro i portoghesi. Similmente, gli olandesi si avvalsero, nelle piantagioni
di canna da zucchero, delle competenze che i tupi avevano appreso dai
precedenti coloni portoghesi (Meuwese 2011).
L’America britannica, invece, cercò inizialmente una soluzione diversa
all’insufficienza della manodopera amerindia, senza ricorrere ancora a
quella africana. A partire dal 1630, infatti, l’arrivo di schiavi bianchi coprí
una buona parte della domanda di manodopera: in Virginia alla metà del
XVII secolo questi erano 12 000, il 66 per cento della popolazione totale.
Essi rappresentavano il 60 per cento dell’immigrazione bianca totale nel
1650.
La schiavitú bianca si sviluppò qui a partire dall’insediamento della
Virginia Company, che rielaborò il sistema di lavoro dei servi agricoli
esistente in Inghilterra, dove uomini e donne di età compresa fra i 13 e i 25
anni firmavano un contratto che li obbligava a vivere e lavorare nella casa
di un proprietario agricolo. Questo sistema fu attivato in America a partire
dal 1619, fornendo servi bianchi ai coloni in cambio del rimborso delle
spese di trasporto, e fu grazie a questa manodopera che la Virginia poté
cominciare a produrre ed esportare tabacco.
Esistevano tre tipologie di indentured servants. La prima era composta
da quanti stabilivano direttamente un contratto d’indebitamento con il
capitano di una nave, il quale li rivendeva all’arrivo in America. La seconda
riguardava la possibilità di estinguere il debito del trasporto cercando chi
volesse asumere il debito in America. La terza comprendeva invece i
detenuti che venivano inviati in America dalla giustizia e che accettavano di
essere trasportati a loro spese (Jernegan 1960).
Il reclutamento dei servi bianchi avveniva tramite agenti presenti in
Irlanda, Scozia, Galles, Inghilterra e Germania. Un agente londinese ad
esempio riuscí a inviare 500 servi bianchi in un anno, mentre un altro riuscí
a mandarne addirittura 840. Dal reclutamento non erano esclusi donne e
bambini, molti dei quali erano sottratti ai genitori; in Inghilterra venivano
sequestrati anche uomini adulti (Wareing 2017).
Le modalità di trasporto in America non erano diverse da quelle degli
schiavi africani. Uno di questi schiavi bianchi raccontò di essere stato
imbarcato con altri 500, provvisti di pochi alimenti e appena tre once (90 g)
di pane al giorno. Il tasso di mortalità durante il viaggio era elevato e
colpiva evidentemente soprattutto i bambini.
Il lavoro dei servi bianchi era molto pesante: alcuni erano assegnati al
disboscamento e alla coltivazione della terra, mentre gli artigiani
lavoravano almeno dodici ore al giorno. Il trattamento era comunque
migliore nella Nuova Inghilterra rispetto alle colonie meridionali e ai
Caraibi, e la durata media della condizione dei servi bianchi era di nove
anni dopodiché, in alcuni casi, potevano ricevere un lotto di terra di 20
ettari (Galenson 1981).
La durezza delle condizioni di vita dei servi bianchi si può desumere
anche dai dati relativi alle fughe dalle piantagioni. Tra il 1710 e il 1760 gli
annunci per la ricerca di fuggiaschi, in tutte le colonie dell’America
continentale britannica, riguardarono 4467 servi bianchi, soprattutto in
Pennsylvania (3007) e nel Maryland (591). Da questo campione è inoltre
possibile osservare che il 32 per cento dei 4467 fuggiaschi totali era in
possesso di una qualifica lavorativa, e che un terzo aveva un’età compresa
tra i venticinque e i ventisei anni. I fuggiaschi erano nella maggior parte dei
casi irlandesi, seguiti dagli inglesi (Komlos 1993). I servi bianchi che
fuggivano dalle piantagioni finivano spesso per dare vita a insediamenti nei
boschi, oppure si integravano alle tribú amerindie.
Questa predominanza degli schiavi bianchi nell’America inglese e
francese è probabilmente riconducibile al fatto che fino alla prima metà del
XVII secolo la tratta degli schiavi africani era monopolizzata dai portoghesi
(e, in misura minore, dagli spagnoli). Inoltre, il prezzo degli schiavi neri era
piú elevato di quello dei servi bianchi indebitati (Beckles 1985). Per i
lavoratori agricoli e gli artigiani inglesi e francesi, la spesa principale era
infatti rappresentata dal trasporto marittimo che pagavano con il lavoro da
tre a dieci anni; ricevevano scarsi alimenti, pochi vestiti e alloggio e alla
fine del periodo di lavoro venivano ricompensati con 10 sterline e un
appezzamento di terra.
I primi schiavi bianchi arrivarono nelle Barbados nel 1634: erano 836, di
cui 709 maschi e 46 femmine di età compresa tra i dieci e i vent’anni. Tra il
1638 e il 1643, prima dell’avvento della produzione dello zucchero, c’erano
su queste isole quindici piantagioni, per una superficie totale di 536 ettari,
con una manodopera totale di 194 schiavi bianchi e 31 africani. Tra il 1654
e il 1660 arrivarono 1808 schiavi bianchi, il 50,8 per cento dei quali
possedeva una qualche qualifica lavorativa. Nello stesso periodo, anche in
Virginia arrivarono 751 schiavi bianchi, di cui il 47,2 per cento in possesso
di una qualifica. Sarà soltanto verso la fine del XVII secolo che gli schiavi
africani diventeranno piú numerosi. Nelle Barbados, ad esempio, tra il 1676
e il 1680 troviamo 2256 servi bianchi e 37 551 schiavi africani, cioè 17
africani per ogni bianco.
Tra il 1718 e il 1759 il numero di servi bianchi arrivati nell’America
continentale britannica cominciò a superare quello dei servi destinati alle
Indie occidentali: ne arrivarono 1550, contro i 1399 assegnati ai Caraibi. Si
può quindi affermare che essi furono di cruciale importanza nella nascita e
nel consolidamento delle piantagioni nel continente e che, come nei
Caraibi, il loro arrivo precedette quello degli schiavi africani. Nel corso
della prima metà del XVIII secolo, i servi bianchi avevano un’età media
compresa fra i tredici e i ventun anni e la media degli anni di servizio passò
da sette anni e mezzo a quattro anni e mezzo. Ritengo invece poco credibile
l’ipotesi secondo cui la maggiore qualifica lavorativa dei servi bianchi li
avrebbe resi piú ricettivi alle innovazioni introdotte dai piantatori, in quanto
i loro omologhi caraibici nelle piantagioni di canna da zucchero dei Caraibi
si dimostrarono attivi nel metterle in atto (Galenson 1978; Abramitzky e
Braggion 2006).
È importante sottolineare che anche nelle aree francesi dei Caraibi e
nella Nuova Francia i servi bianchi, chiamati engagés, costituivano la
componente piú importante della forza lavoro. A differenza delle zone
inglesi, qui la servitú durava 36 mesi e al termine del contratto gli engagés
ottenevano un lotto di terra. Provenivano essenzialmente dal Nordovest
della Francia, dalla Bretagna, dalla Normandia e dall’area parigina.
Predominavano i contadini, ma vi erano anche molti artigiani e, come i
servi bianchi delle aree britanniche, la maggior parte di loro moriva
giovane, vittima della crudeltà dei piantatori e delle ridotte razioni di cibo.
Inizialmente gli incaricati del reclutamento degli engagés per il Canada
erano agenti della corona francese; dopo il 1670, tuttavia, furono i
commercianti stessi a farsi carico del reclutamento per la Guiana e la
Louisiana, e solo dopo il 1716 anche la Francia cominciò a inviare in
America criminali, contrabbandieri e prostitute (Pritchard 2004).
Lo sfruttamento dei lavoratori coatti, da cui dipese quasi interamente la
produzione americana, colpí anche gli amerindi delle aree spagnole, che a
partire dal 1545 non potevano piú essere ridotti in schiavitú ma che
dovevano comunque pagare un tributo personale prima ai discendenti dei
conquistatori e poi alla corona. Lo sfruttamento toccò qui anche la
popolazione meticcia e mulatta, per mezzo dell’indebitamento nelle
miniere, nelle piantagioni e nell’attività artigiana, e interessò anche i
prigionieri politici e le persone ritenute socialmente pericolose. Queste
forme di lavoro coatto furono impiegate nella costruzione di strade, canali,
porti e moli, fondamentali per la produttività di piantagioni e miniere e per
la loro difesa dagli attacchi dei pirati e dei corsari (Donoghue 2016).
La violenza implicita in tutte le forme di lavoro servile è ben
documentata da una serie di fonti iconografiche. Basti ricordare a questo
proposito le immagini di quella che fu una delle fonti principali della
leggenda nera della conquista spagnola: l’opera di Theodore De Bry,
Grands Voyages, pubblicata in quattordici volumi tra il 1580 e il 1634.
Possiamo ricordare inoltre il romanzo di Daniel Defoe, Il colonnello Jack
(1722), che evoca vividamente le brutali punizioni inflitte ai lavoratori
coatti in America.
Nel mondo atlantico, la violenza dei conquistatori seguí una serie di
modalità già presenti nell’Europa del XVI e XVII secolo, devastata dalla
guerra. Non si trattava tuttavia, come si tende generalmente a pensare, di
una semplice trasposizione sul suolo americano della violenza insita nelle
società europee. Diretta essenzialmente allo sfruttamento della manodopera,
la violenza dei conquistatori nei territori americani fu infatti utilizzata per
uno scopo diverso e specifico: dominare i servi e gli schiavi per
subordinarli alla volontà di piantatori, minatori, grandi commercianti e
funzionari regi. Se la schiavitú e la servitú costituirono il veicolo essenziale
del ripopolamento delle Americhe, non bisogna tuttavia dimenticare come
la violenza sia stata a tutti gli effetti parte integrante di questo processo di
ripartenza del mondo atlantico (D. Richardson 2009 e Schaub 2012).

5. Governare le divergenze.

Senza alcun dubbio, una delle grandi novità del mondo atlantico è
costituita dall’abbandono della pratica delle razzie. Tuttavia abbiamo visto
come la violenza incidesse sulla gestione della manodopera e va ricordato a
questo proposito che soltanto la Spagna abolí parzialmente la schiavitú
degli amerindi, mentre ciò non avvenne nelle aree portoghesi, inglesi,
olandesi e francesi. Le rivolte degli amerindi, degli schiavi africani e dei
coloni poveri erano inoltre una minaccia accessoria, mentre la violenza
europea rispondeva soprattutto al pericolo della fuga dei servi bianchi,
amerindi e degli schiavi africani. Per tre secoli si assisté infatti alla
formazione di comunità auto-organizzate di fuggiaschi, un fenomeno che
interessò tutte le Americhe, ma soprattutto le Antille spagnole, e che
raggiunse il maggior sviluppo in Brasile.
Una delle prime fu quella degli schiavi amerindi utilizzati nella raccolta
delle perle, costituitasi in Venezuela sull’isola di Margarita, a poca distanza
dal porto di Cumanà, nel 1500. Verso la metà del XVI secolo, si formò
sull’isola di Hispaniola un’altra comunità di fuggiaschi, che comprendeva
30 000 neri e 1200 bianchi. L’organizzazione di questi gruppi era
rigidamente gerarchizzata: erano guidati da un capo e da un consiglio di
governo. Le loro attività incominciavano con il furto di beni delle proprietà
spagnole, realizzato da squadre di uomini armati.
Anche a Panama, via di transito tra il Mar dei Caraibi e il Pacifico, si
costituí, nel 1553, una comunità di 3000 fuggitivi guidati da un nobile
africano. Nel 1570 questa incrociò la strada di Francis Drake e prese a
collaborare attivamente alle razzie dei corsari. Nel 1550, nell’isola di
Portorico, uno schiavo nato in America organizzò una rivolta che diede vita
a una comunità libera, dedita alla raccolta dell’oro fluviale. Anche in
Giamaica ritroviamo la presenza di questo tipo di collettività, impiegate nel
1665 dalle autorità spagnole per combattere l’occupazione inglese
dell’isola.
Nel corso del XVII e XVIII secolo le comunità di fuggiaschi svilupparono
una rete di legami che si estendeva anche verso gli insediamenti
permanenti. L’agricoltura, l’allevamento, la raccolta dell’oro fluviale, la
pesca, il commercio e il contrabbando praticati da questi gruppi erano
infatti funzionali all’economia degli insediamenti permanenti. Quando
parliamo di comunità di fuggiaschi facciamo quindi riferimento a un
insieme coeso, il piú delle volte costituito da comunità simili allo scopo di
rafforzare il sistema di difesa dalle incursioni militari (A. O. Thompson
2006).
Per evitare le rivolte e l’organizzazione delle comunità di fuggiaschi,
Spagna, Portogallo, Inghilterra e Francia agirono offrendo ai privati delle
patenti regie, che autorizzavano i capitani di conquista, le compagnie e i
diversi donatari a negoziare con gli amerindi e con le comunità di fuggitivi.
Le prime mediazioni si tradussero in molti casi in veri e propri accordi,
simili a quelli sottoscritti con gli stati africani. Grazie a tali accordi si creò
la premessa essenziale che consentí di garantire la durata e la stabilità degli
insediamenti permanenti.
Questa fase di negoziati e accordi si sviluppò su un arco temporale molto
lungo: ebbe inizio in Africa alla metà del XV secolo e continuò nelle aree
americane nel XVI e XVII secolo. Il dato geografico e temporale ha una
grande importanza poiché gli insediamenti permanenti occupavano le aree
della costa per estendersi poi verso l’hinterland, permettendo la nascita
dell’area della frontiera. I dissidi esistenti tra gli insediamenti permanenti e
le altre forme organizzative nelle zone costiere e nell’entroterra favorirono
la nascita di un pluralismo legale in grado di raccordare le forme legali delle
organizzazioni amerindie, africane ed euroamericane con quelle formali
euroamericane.
Per capire il significato del pluralismo legale, di cui abbiamo già parlato,
è necessario tenere presente i precedenti europei. È noto che nelle aree
iberiche per alcuni secoli coesistettero e convissero le forme legali
mussulmane e cristiane. In Francia quelle della Normandia, della Bretagna,
della regione parigina e della Borgogna. In Inghilterra il diritto
consuetudinario si collegò con le norme statali (statutes). Si può quindi
affermare che la presenza in America di africani, amerindi e comunità di
fuggiaschi contribuí ad arricchire una preesistente tradizione europea di
pluralismo legale.
Per quanto riguarda la tradizione iberica, cristiani, mussulmani ed ebrei
potevano scegliere se fare ricorso a forme legali separate oppure rivolgersi
alla giurisdizione regia. Una volta finito il pluralismo religioso, la corona
mantenne tuttavia una forma di pluralismo nella divisione tra l’autorità
della Chiesa e quella dello Stato, dualismo che si trasmise e a volte si
esasperò nelle aree iberiche del mondo atlantico. Qui, il regio patronato
delle Indie ridusse il potere della Chiesa a tal punto che nel 1606 il diritto
delle corti di giustizia ecclesiastiche fu trasferito al Consiglio delle Indie,
responsabile dell’ordine nelle aree americane. Il pluralismo legale si
manifestò inoltre in maniera evidente sin dal XVII secolo, nella capacità dei
funzionari regi di sospendere la legge, ricorrendo al giudizio del sovrano
(Góngora 1951).
Sin dal XVI secolo, inoltre, il governo amerindio dei municipi poté
disporre di un’autorità legale, che esercitò rifacendosi alle norme
consuetudinarie amerindie. Lo stesso avvenne anche nelle comunità
amerindie del Brasile, gestite dai gesuiti in costante conflitto con gli
insediamenti permanenti portoghesi, che con i loro feroci castighi violavano
i diritti degli amerindi.
Il recupero della popolazione amerindia e la crescita di quella meticcia e
mulatta furono resi possibili proprio dalla capacità delle autorità di governo
locali di gestire i conflitti. Senza alcun dubbio, questa pratica di pluralismo
legale era volta a limitare le insurrezioni e le conseguenti fughe di schiavi.
Essa contribuí inoltre alla capacità di mantenere, come si è detto, regolari
rapporti commerciali fra i villaggi indipendenti e le aree di insediamento
permanente (Benton 2000 e 2004).
Nelle isole atlantiche e sulla costa occidentale dell’Africa ritroviamo uno
sviluppo della precedente esperienza di pluralismo legale, ora combinata
con la strategia di delegare l’autorità legale ai capitani. Lo stesso avvenne
anche nelle aree brasiliane, nella fase delle donazioni di territorio ai nobili
portoghesi. Ai capitani veniva dato il potere giurisdizionale e molti di loro
nominavano funzionari di giustizia (nobili ai quali era concesso il controllo
di vaste regioni), mentre la corona si riservava soltanto il diritto di
intervenire in caso di abusi. Solo nel 1609 fu creata un’alta corte di
giustizia, allo scopo di applicare la norma che prevedeva un compenso per
gli amerindi in cambio del loro lavoro. Nella frontiera aperta del Nordest
brasiliano, il sertão aveva la reputazione di essere un luogo senza legge, e
nel Sud, dove avvenivano i raid per catturare schiavi nelle regioni interne, il
controllo da parte delle autorità regie era pressoché assente.
L’instabilità del pluralismo legale nelle aree atlantiche rese possibile una
graduale implementazione della giustizia, che favorí un’estrema
gerarchizzazione dell’ordine sociale. Sebbene siano ancora scarsi gli studi
sul pluralismo legale delle aree atlantiche, si ha l’impressione che,
malgrado le difficoltà, esso si sia sviluppato per offrire una risposta alle
miriadi di conflitti derivanti dalle diversità etniche, tentando di regolare i
diritti di proprietà e fondare un principio di autorità. Gli avvocati
contribuirono ad accrescere gli ostacoli, con la creazione di strategie volte a
sfruttare la complessità dell’ordine legale coloniale.
Se si analizzano i diversi problemi e le risposte che furono date,
l’insieme delle pressioni per la riforma dell’amministrazione coloniale e le
tensioni tra amministratori metropolitani e coloniali, si arriva a capire che la
costruzione dello stato coloniale non fu il prodotto di forze esterne, né di
conflitti interni, ma nacque dall’idea di un’organizzazione che teneva conto
delle complesse dinamiche politiche e culturali (Benton 2001).
Ciò che emerge dallo studio delle aree iberiche è riscontrabile anche
nelle aree inglesi e francesi del continente e dei Caraibi. Anche nei territori
inglesi, infatti, dopo una fase politica in cui si tentò di applicare agli
amerindi la legge britannica, si assisté alla nascita di una politica di
esclusione e il trattamento legale degli amerindi andò modellandosi
sull’esperienza dell’Irlanda, dove l’applicazione della legge serviva a
civilizzare i «selvaggi» irlandesi (Benton 1999). Lo stesso Jefferson
riconobbe esplicitamente la sovranità degli amerindi, insistendo tuttavia sul
fatto che i coloni potessero appropriarsi delle loro terre (White 1991).
Successivamente si osservò un impulso riformatore, allo scopo di
alterare e migliorare le norme giuridiche inglesi per adeguarle alle
condizioni presenti in ogni singola colonia americana. Si può quindi dire
che ogni colonia sviluppò il proprio sistema legale per rispondere a criteri
di sostenibilità sociale e politica. Le norme inglesi furono cosí il punto a
partire dal quale fu sviluppata una serie di altre norme locali, per far fronte
alle specifiche situazioni di ogni colonia riguardanti in particolar modo la
presenza degli amerindi. Nella costruzione del sistema legale ebbero un
ruolo importante anche l’ideologia e la confessione religiosa dei coloni, da
cui derivarono norme come quelle emanate dai puritani, particolarmente
tolleranti a livello religioso.
Le corti coloniali ebbero un ruolo di governo importante e si
caratterizzarono per la loro eterogeneità legislativa. Quella di New York, ad
esempio, incluse norme olandesi riguardanti le cause civili e penali, e si
serví della legge sostantiva e procedurale olandese, adeguandola alla
situazione di frontiera. Ancora all’inizio del XVIII secolo, la procedura della
corte di New York conservava, in tema di arresto e arbitrato, le idee
olandesi.
A partire dal 1660 furono in atto due modelli regionali diversi: quello
della Nuova Inghilterra e quello del Chesapeake (Maryland e Virginia). Il
primo era piú egualitario, moderato nei confronti delle donne, dei bambini e
dei servi bianchi, centrato sull’agricoltura familiare e rispettoso dei diritti
delle città portuali e mercantili. Al contrario, quello del Maryland e della
Virginia diede vita a un sistema legale molto gerarchico, con un duro
controllo sulla manodopera servile e particolarmente rivolto
all’esportazione del tabacco. Entrambi i sistemi condivisero tuttavia
l’impegno di governare secondo norme che impedissero la tirannia e che
tutelassero l’eredità legale inglese (Clark 2011). Lo sviluppo delle
legislature locali favorí evidentemente il pluralismo legale e tutte difesero il
diritto di approvare norme che le contraddistinsero come specificamente
americane.
Sin dall’inizio le leggi tesero a limitare il potere dei magistrati tramite
precise norme procedurali. Per controllare il potere delle élite, il
Massachusetts approvò infatti nel 1648 le Laws and Liberties of
Massachusetts, che organizzavano il sistema di governo e le corti,
regolavano i rapporti tra Stato e Chiesa e definivano gli aspetti normativi
riguardanti la proprietà, la criminalità, il commercio e la famiglia. Molte
colonie ripresero e utilizzarono parti sostanziali della compilazione del
Massachusetts: il Connecticut nel 1650, New Haven nel 1656, New York
nel 1665, il New Hampshire nel 1680 e la Pennsylvania alla fine del secolo.
Dopo il 1769 il processo di anglicizzazione sarebbe culminato in una
crisi non prevista: un numero crescente di avvocati e politici cominciò
infatti ad applicare i principî della common law per respingere le violazioni
dei diritti coloniali da parte della corona inglese (Hoffer 1992).
Nelle aree francesi la presenza della corona rimase estremamente
limitata anche dopo il 1670 e l’assolutismo praticato in patria non riuscí a
intaccare il pluralismo legale presente nei territori americani. I governi
coloniali affrontarono infatti la ribellione della Guadalupa e della Martinica
(1666) senza mettere in atto una forte repressione e concedendo infine
un’amnistia generale ai coloni. Persino la rivolta di Cap Français del 1680
rientrò senza repressioni, probabilmente anche grazie alle divisioni tra
coloni ricchi e coloni poveri. Nella Nuova Francia, le tasse sulla produzione
agricola e sui consumi erano irrisorie e le rivolte dei coloni furono
praticamente inesistenti. La ridotta amministrazione coloniale costituí
inoltre un ostacolo allo sviluppo di un forte principio gerarchico, favorendo
cosí tanto gli schiavi africani quanto i coloni poveri (Pritchard 2004).

In questo capitolo ho insistito sull’idea che la ripartenza del mondo


atlantico sia stata il risultato dell’interazione culturale e sociale tra europei,
africani e amerindi. Nella misura in cui ognuno di questi gruppi umani era
portatore di culture e valori sociali diversi, la possibilità di dare vita alla
nuova realtà del mondo atlantico dipendeva infatti dalla loro capacità di
creare una convergenza su problemi d’interesse comune.
Il primo problema era rappresentato dalla possibilità di disporre
dell’energia umana e animale necessaria per superare la catastrofe
demografica scatenata all’interno della popolazione amerindia dalle
ricorrenti epidemie e dalla violenza della colonizzazione. Il secondo
problema riguardava invece la necessità di disporre di una manodopera
europea e africana in grado di sostituire la popolazione amerindia decimata.
Il terzo problema verteva infine sulla costruzione e l’interconnessione di
nuove realtà materiali che permettessero di far fronte ai costi di
trasferimento della popolazione africana ed europea.
L’esistenza dell’hinterland minerario dell’argento messicano e peruviano
rese fattibile il raccordo tra le aree americane e quelle africane ed europee:
fu l’argento americano a far sí che negli ultimi decenni del XVI secolo e
nella prima metà del XVII l’Africa occidentale riducesse le esportazioni
auree e diventasse la principale area di esportazione di schiavi. L’intreccio
tra argento e manodopera schiavile permise a sua volta all’Africa
occidentale di aumentare il prezzo degli schiavi e di incrementare la propria
domanda di beni europei (armi, polvere da sparo, tessuti, prodotti di lusso).
Grazie all’argento, l’Europa atlantica espanse il proprio stock monetario e
gli scambi con le altre aree europee e con l’Asia, favorendo cosí
l’internazionalizzazione delle reti commerciali e incorporando anche i
commercianti africani e americani.
Grazie all’interazione tra l’offerta dell’argento e dello zucchero e la
manodopera, nel corso della prima metà del XVII secolo le tre aree
atlantiche cominciarono a incrementare la manodopera servile e schiavile e
a espandere la forza del lavoro del bestiame animale nelle Americhe,
avviando un processo di crescita di lunga durata. Infatti, il controllo che il
ceto proprietario mirava a instaurare sulle altre componenti sociali
(afroamericani, amerindi e meticci) era ancora incompleto, e si sarebbe
realizzato pienamente solo tra il 1620 e il 1650, a distanza di un secolo dai
primi insediamenti provvisori. Nel corso di questo processo, le potenze
europee si videro costrette ad accettare che sarebbe stato possibile
governare soltanto riconoscendo quel pluralismo legale che si era di fatto
installato come prodotto inevitabile dell’interazione tra le diverse culture e
valori sociali.
Capitolo terzo
Il consolidamento del mondo atlantico

Tra il 1650 e il 1850 il mondo atlantico divenne il principale attore delle


connessioni mondiali. Questa dinamica coinvolse i collegamenti tra
l’Europa, l’Africa e le Americhe, e determinò il definitivo superamento del
vecchio ordine mondiale.
Gli indicatori fondamentali che esamineremo in questo capitolo sono
numerosi. L’incremento del numero degli schiavi africani innanzitutto, che
quintuplicò, mentre scomparvero gli schiavi bianchi. Al crescere del
fenomeno della tratta degli schiavi, si svilupparono in Europa le idee
antischiaviste che porteranno poi, dopo il 1850, all’abolizione definitiva
della schiavitú legalizzata dallo scenario mondiale. L’importanza acquisita
dalle rotte atlantiche determinò inoltre in Europa una trasformazione dei
circuiti di scambio, spezzando i monopoli commerciali del continente che
frenavano la comunicazione tra le aree africane e quelle americane e
all’interno dello stesso Nuovo Mondo.
Nelle aree africane, gli effetti demografici negativi provocati dalla
crescita del commercio degli schiavi furono contrastati dall’azione dei
governi locali, che rafforzarono inoltre gli interessi dei nobili e dei
commercianti locali. Nelle aree americane, l’incremento delle migrazioni
africane rese possibile l’espansione degli insediamenti e delle nuove
produzioni, determinando cosí l’affermazione delle classi proprietarie. Allo
stesso tempo, aumentò la resistenza delle comunità ribelli e si rafforzò il
pluralismo legale attivato nell’epoca precedente.
In questa fase storica si assisté a un consolidamento delle interazioni e
all’irrobustirsi della sintonia tra le aree atlantiche. Vennero cosí a crearsi
concatenazioni inedite tra economia e società, con ricadute significative sul
rapporto tra produzione e commercio. I meccanismi piú pregnanti in questo
ambito furono il potenziamento del credito commerciale e la sempre
maggiore importanza del ruolo di mediazione svolto dalle reti mercantili.
L’internazionalizzazione di queste reti aumentò inoltre l’importanza del
commercio e accelerò la lateralizzazione degli scambi, ossia la
partecipazione di commercianti di diverse nazionalità negli scambi
mercantili. Il consolidamento del mondo atlantico procedette in parallelo ai
progressi tecnologici e scientifici descritti nel primo capitolo, che resero piú
sicuri la navigazione e i collegamenti tra le diverse aree marittime e
continentali.
Per permettere una piú semplice comprensione delle trasformazioni
avvenute tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del XIX , ho
suddiviso questo capitolo in cinque paragrafi. Nel primo ho cercato di
illustrare i cambiamenti avvenuti in Europa grazie al suo coinvolgimento
nel mondo atlantico. Il secondo paragrafo presenterà le linee di continuità e
i mutamenti avvenuti a livello economico, sociale e governativo nelle aree
atlantiche africane. Nel terzo paragrafo mi soffermerò sulle trasformazioni
che accompagnarono l’espansione della tratta atlantica, a livello
demografico e nei rapporti che intercorsero tra europei e africani. Nel
paragrafo successivo mostrerò come gli schiavi erano trasferiti nelle
Americhe venendo poi incorporati negli insediamenti permanenti, e come
questa incorporazione diede vita a una resistenza al regime schiavistico. Nel
quinto paragrafo, infine, analizzerò i cambiamenti avvenuti tra gli agenti
delle interconnessioni, ossia le reti mercantili, cercando di illustrare
l’evoluzione dei loro meccanismi.

1. La partecipazione europea nel mondo atlantico.

Il processo di potenziamento del mondo atlantico avvenne grazie ai


maggiori e piú frequenti collegamenti dell’Europa con l’Africa e le
Americhe. Questo processo si può riscontrare non soltanto nelle nuove
direzioni prese dal commercio, ma anche nei cambiamenti che avvennero a
livello dei consumi.
Il primo indicatore è presentato nella figura 1, che illustra le
trasformazioni avvenute nel mondo europeo prima e dopo la nascita del
mondo atlantico. La figura 1a mostra il tasso di urbanizzazione delle città
con piú di 5000 abitanti, dove solo l’Europa occidentale atlantica vede una
rapida crescita dopo il 1600, crescita che si accelera tra il 1750 e il 1850. La
figura 1b permette di osservare che le aree europee vincolate direttamente
con il commercio atlantico solo le uniche ad avere un tasso di
urbanizzazione piú rapido del resto dell’Europa dopo il 1600 e a superare le
aree europee che non commerciano direttamente con l’Atlantico a partire
dal 1700. Infine la figura 1c presenta con maggior dettaglio l’informazione
a partire dal 1500. È quest’ultima figura che illustra che le aree atlantiche
europee conoscono una crescita tra il 1500 e il 1820 e una forte
accelerazione tra il 1820 e il 1870. Mentre il tasso di urbanizzazione
dell’Europa occidentale vincolata indirettamente con il commercio atlantico
accelera solo a partire dal 1820, il ritmo di crescita dell’Europa orientale, la
piú lontana dal commercio atlantico, cresce molto lentamente tra il 1820 e il
1870.
Figura 1.
Commercio atlantico, Europa occidentale non atlantica ed Europa orientale, 1300-1870.
Fonte: Acemoglu, Johnson e Robinson 2005.

I paesi atlantici crebbero del 49,5 per cento tra il 1500 e il 1700 e del
22,5 per cento tra il 1700 e il 1800. Quelli non atlantici del 5,2 per cento tra
il 1500 e il 1700, e dell’11,6 per cento nel XVIII secolo. Si può aggiungere
che sebbene i profitti derivanti dal commercio atlantico siano stati inferiori
rispetto alla crescita del Pil, essi furono tuttavia piú elevati di quelli
anteriori al 1500. Possiamo renderci conto di tale divergenza osservando la
figura 2.

Tabella 3.
Urbanizzazione e prodotto interno lordo, Europa atlantica, Europa non atlantica ed Europa orientale,
1500-1800.

La figura 2 mostra che la crescita della popolazione dei porti atlantici


europei rispetto a quella dei porti mediterranei e delle città dell’entroterra
dell’Europa occidentale rispecchiò quanto già detto riguardo
all’urbanizzazione e alla crescita del prodotto lordo pro capite. Vale la pena
di notare inoltre che, se paragoniamo i viaggi mediterranei annui con quelli
atlantici tra il 1300 e il 1700, i primi ristagnarono, mentre i secondi
cominciarono a crescere a partire dal 1600, per poi accelerare tra il 1700 e il
1850. L’insieme di queste informazioni ci porta ad affermare che la
dinamicità del mondo atlantico è in netto contrasto con la ridotta crescita
delle aree europee non atlantiche. La maggiore dinamicità del mondo
atlantico trasformò cosí l’Europa atlantica in leader mondiale.
È possibile osservare il ritmo della crescita del Pil pro capite nella tabella
4.
Figura 2.
Porti europei atlantici, porti europei non atlantici e porti mediterranei, 1300-1850.
Fonte: ibid.
Tabella 4.
Prodotto interno lordo pro capite in Europa, 1400-1800 (dollari 1990).

Come si è detto, si può vedere qui come le potenze atlantiche, compresa


la Spagna, abbiano conosciuto una crescita del loro prodotto lordo pro
capite: piú rapida per l’Olanda, che tra il 1400 e il 1800 registrò un
incremento dello 0,5 per cento annuo, e per l’Inghilterra, che registrò un
incremento dello 0,4 per cento. Gli autori delle stime della tabella 4
sostengono che tra il 1500 e il 1800 non aumentò invece il reddito pro
capite dell’Europa meridionale e centrale, pur essendosi mantenuto elevato,
in Italia, tra il 1300 e il 1500. Tra il 1300 e il 1800 invece il reddito pro
capite dell’Inghilterra e dell’Olanda raddoppiò, sebbene il tasso di crescita
piú elevato sia stato raggiunto nel periodo 1500-1800 (De Plejit e Van
Zanden 2013). Come ha sostenuto per primo Eric Williams (1971), il
calcolo del flusso dei profitti del capitale inglese derivante dal commercio
fuori dall’Europa, ossia nelle aree atlantiche e asiatiche, permise di generare
introiti tali da finanziare il 15 per cento degli investimenti necessari per la
rivoluzione industriale (O’Brien 1982).
I calcoli dei profitti dei paesi del mondo atlantico non tengono conto di
quanto si è detto nel capitolo precedente su come la catastrofe demografica
americana abbia accelerato il ruolo svolto dalle popolazioni africane
nell’offerta di forza lavoro umana.
Il fine ultimo delle produzioni extraeuropee era il consumo in Europa e,
tra il 1600 e il 1850, ma soprattutto a partire dal 1700, le produzioni
atlantiche ne modificarono dunque profondamente le modalità. Già Adam
Smith aveva sottolineato l’interdipendenza tra Europa e aree extraeuropee;
è ora possibile precisare che essa derivava non solo dai consumi dei beni
nei paesi importatori atlantici, ma anche dal commercio tra i paesi non
atlantici e le aree atlantiche europee, dove i primi vendevano i loro prodotti
(come ad esempio il grano) per pagare le forniture di tabacco, zucchero,
caffè, cacao, tè, cioccolato e tessuti prodotti in India.
La figura 3 ci permette di farci un’idea di questa circolazione dei
consumi. Il grafico sintetizza l’evoluzione dei prodotti importati dalle
principali potenze atlantiche europee. Come si vede, una parte di essi era
trattenuta in questi paesi, ma un’altra parte era reindirizzata verso gli altri
paesi europei e nelle aree mediorientali. Va notato inoltre l’andamento
comune dei cinque prodotti: una tendenza ciclica nella seconda metà del
XVII secolo e una fase espansiva particolarmente accentuata a partire dalla
seconda metà del XVIII .

Figura 3.
Importazioni europee di prodotti americani e asiatici, 1651-1800.
Fonte: Carmagnani 2010, p. 248.
Possiamo andare oltre e notare, nella tabella 5, la sintonia dei tassi di
crescita del consumo dei beni atlantici (zucchero, tabacco e caffè) e la
correlazione positiva esistente fra i tre prodotti (molto alta tra lo zucchero e
il caffè, ma anche tra il caffè e il tabacco). Questo indica abbastanza
chiaramente che i consumatori di caffè amano anche lo zucchero e il
tabacco. Significativo, da questo punto di vista, fu lo sviluppo del caffè nel
corso del XVIII secolo, non solo in Europa ma anche nelle Americhe.

Tabella 5.
Importazioni europee di beni atlantici, 1661-1800.

Tabella 6.
Partecipazione dei metalli preziosi americani nella produzione mondiale, 1600-1800 (valori in
percentuale).
L’incorporazione dei beni atlantici nei consumi dell’Europa intera fu
quindi un processo che ebbe inizio nella seconda metà del XVII secolo e si
consolidò nel corso del XVIII secolo. Il punto d’inizio può essere
individuato tra il 1661 e il 1700, quando l’insieme dei beni atlantici
commerciati passò da 3178 a 48 284 tonnellate annue, moltiplicandosi per
quindici. Durante la prima fase, i prodotti esotici furono associati in Europa
all’immagine di un alto tenore di vita, determinando cosí il superamento
delle considerazioni morali negative tipiche dei secoli precedenti riguardo
al consumo di beni di lusso.
Nella seconda fase, i prodotti atlantici importati aumentarono da 48 284
a 130 000 tonnellate annue, moltiplicandosi trentasei volte. In particolare,
alla fine del XVIII secolo furono importate all’incirca 100 000 tonnellate
annue di zucchero, che non a caso prese il nome di «oro bianco». A mano a
mano che i consumatori si abituarono ai beni esotici, le importazioni
crebbero costantemente.
I prodotti atlantici in breve cominciarono a essere quotati dapprima nella
borsa di Amsterdam, e poi in quella di Londra. Il flusso di beni cominciò,
seppur ancora debolmente, a partire dal 1550; e all’incirca cento anni dopo,
oltre allo zucchero, al tabacco e alla cocciniglia, troviamo anche il cacao; e
a partire dal 1700 aumentò il numero di regioni dell’Atlantico americano
che esportavano prodotti consumati in Europa (O’Rourke e Williamson
2002; Carmagnani 2010).
Fondamentale, nel rapporto fra il mondo atlantico e l’economia europea,
fu inoltre la crescita dell’estrazione dei metalli preziosi, iniziata alla fine del
XVI secolo con l’argento e incrementata poi nel corso del XVIII con l’oro.
Vi è anche un secondo indicatore della partecipazione dei metalli
preziosi nell’economia europea, che si può osservare nell’evoluzione dello
stock di metalli preziosi. La tabella 6 ci mostra come, tra il 1600 e il 1800,
sia l’America spagnola sia il Brasile fossero in grado di fornire
all’economia mondiale non solo argento, come nel XVI secolo, ma anche
oro. Queste due aree conobbero inoltre in questa fase una notevole crescita
nei livelli di produzione. Nel XVII secolo l’America spagnola produsse
infatti 26 168 tonnellate di argento, mentre il Brasile produsse solo 158
tonnellate d’oro. Nel XVIII secolo tuttavia, l’oro prodotto dall’America
spagnola e portoghese salí a 1400 tonnellate, mentre l’argento prodotto
dall’America spagnola raggiunse le 39 157 tonnellate, aumentando quindi
entrambi i metalli preziosi del 50 per cento.
La figura 4 illustra esclusivamente l’evoluzione dello stock monetario
europeo, la cui dipendenza dalle aree americane era molto forte. Come si
può vedere, nel XVI secolo lo stock europeo passò da 15 000 a 28 000
tonnellate di argento, ma nel corso del XVII secolo raddoppiò ancora una
volta, crescendo da 28 000 a 58 000 tonnellate. Nel XVIII secolo poi passò
da 58 000 a 95 000 tonnellate, aumentando del 64 per cento. Va tenuto
presente che mentre nel XVII secolo ad aumentare fu soprattutto lo stock di
argento, la crescita del XVIII secolo riguarda sia questo metallo sia l’oro.

Figura 4.
Evoluzione dello stock di metalli preziosi in Europa, 1500-1800 (tonnellate di argento, scala
semilogaritmica).
Fonte: Morineau 1985, p. 585.

La crescita dello stock di metalli preziosi in Europa è particolarmente


interessante non solo perché illustra il notevole contributo delle aree
atlantiche americane, ma anche perché favorí la crescente monetarizzazione
degli scambi europei, esterni e interni, che a sua volta rese possibile lo
sviluppo delle reti mercantili e la lateralizzazione degli scambi.

2. L’Africa centro-occidentale: continuità e cambiamento.

La cartina 6 ci permette di notare che per alcuni secoli, fino alla


spartizione dell’Africa fra le potenze europee, la presenza europea rimase
bloccata lungo le coste atlantiche e dell’oceano Indiano. Questa situazione
illustra l’incapacità degli europei di costruire un hinterland con
insediamenti permanenti in questo contesto: oltre le coste, vi era soltanto la
frontiera permanente controllata dagli stati africani.
La persistenza, tra il 1650 e il 1850, dei gruppi culturali africani nell’area
centro-occidentale (cartina 7) dimostra che la loro coesione culturale bloccò
la penetrazione europea, determinando lo sviluppo di organizzazioni statali
grandi, medie e piccole.
Cartina 6.
Aree africane permeate dall’Europa atlantica.
Fonte: Eltis 1987.
Cartina 7.
Gruppi culturali africani.
Fonte: J. Thornton 1998, p. XIV .

A fronte di 81 stati africani nell’Africa occidentale (cartina 8) e 69


nell’Africa centrale (cartina 9), la presenza europea occupò appena un 5 per
cento del territorio africano prima del 1850. Sarà quindi necessario
analizzare prima di tutto le caratteristiche essenziali degli stati e delle
società africane, per comprendere poi le interazioni intercorse tra gli attori
africani e quelli europei.

Cartina 8.
Stati dell’Africa occidentale, 1625.
Fonte: ibid., p. X .

Come nel caso europeo, la demografia africana fu segnata da crisi


limitate, anche se la malaria ebbe qui una diffusione molto superiore
rispetto all’Europa mediterranea. Come in Europa, inoltre, la cultura
mussulmana si diffuse sin dal 700-800 d.C., a partire dai centri dell’Africa
del Nord. La penetrazione islamica seguí le rotte commerciali fino ad
arrivare nell’impero del Ghana, mentre da Tunisi e Tripoli, via Fez,
raggiunse la Nigeria. I modelli culturali e commerciali islamici
continuarono a influenzare le società e le religioni africane anche durante la
presenza europea, limitando cosí la diffusione delle religioni cristiane. I
mussulmani mantennero inoltre il controllo sul commercio transahariano:
commercianti e missionari arabi furono presenti nel Sudan occidentale sin
dal 750 d.C. e la loro influenza aumentò con la conquista del Ghana nel
1077.

Cartina 9.
Stati dell’Africa centrale, 1625.
Fonte: ibid., p. XII .
Legenda: 1. Rio d’Angra; 2. Kayombo (Caiombo); 3. Pongo; 4. Gabon; 5. Olibata; 6. Loango; 7.
Bukamele; 8. Yaka; 9. Nziko; 10. Fungeno; 11. Kakongo; 12. Ngoyo; 13. Nzari; 14. Vungo; 15.
Kongo; 16. Soa; 17-27. Regni instabili della regione di Dembos nelle valli di Bengo, Damde Loze,
Mbrize, Lukala e Nikini; 28. Angola; 29. Ndongo; 30. Kituxela; 31. Matamba; 32. Ndala Kisuba; 33.
Akikimbo; 34. Kina; 35. Malemba; 36. Songo; 37. Ndonji; 38. Xinje; 39-59. Regni delle terre alte
dell’Angola; 60. Lukeko; 61. Katumbela; 62. Benguela portoghese; 63. Songo; 64. Biasisongo; 65.
Kisango; 66. Bambe; 67. Muzumbo a Kalunga; 68. Wila; 69. Kulimata.

In tutte le società africane, la piú importante unità economica era quella


domestica, che poteva comprendere diverse famiglie e che non si sgretolò
con l’arrivo degli europei. Di piccole dimensioni, nelle colline della Nigeria
centrale, o di grandi dimensioni nel Camerun, dove vigeva la poligamia,
queste unità familiari erano funzionali alla necessità di organizzare il lavoro
addizionale della coltivazione e del raccolto nei periodi di grande domanda.
Le unità familiari partecipavano al lavoro comunitario, come avviene
tuttora tra gli yoruba in Nigeria, per preparare la coltivazione dei campi ma
anche per la produzione dell’olio di palma, come avviene nella Costa
d’Avorio.
Molte società differenziavano il lavoro maschile e quello femminile, ma
non sempre la suddivisione era la stessa. In alcuni casi infatti le donne
partecipavano alla coltivazione dei campi, mentre in altri la loro presenza
era piú rilevante nel commercio. È probabile inoltre che la diffusione
dell’Islam abbia impedito alle donne di svolgere alcuni lavori. Si può quindi
pensare che la divisione del lavoro tra donne e uomini abbia comportato
una diversa allocazione delle risorse umane nelle società africane rispetto a
quelle europee. Vi era tuttavia un grado importante di specializzazione del
lavoro tanto stagionale quanto permanente.
Il lavoro delle famiglie era tutto sommato abbastanza efficiente per far
fronte alle necessità dell’organizzazione produttiva, e questo spiega la
persistenza del sistema africano durante la penetrazione europea. La teoria
dell’economia contadina di Chayanov si adatta perfettamente all’attività
delle unità domestiche dell’Africa centro-occidentale tanto ieri quanto oggi
(Chayanov 1966).
Il lavoro schiavile era senz’altro presente anche prima dello sviluppo
della tratta atlantica, ma rappresentava una ridotta percentuale di
popolazione che occupava in certe aree una posizione di subordinazione
legale. Nel Mali, tra gli ashanti e nelle foreste del Dahomey la maggiore
concentrazione di schiavi si trovava nelle proprietà dei nobili e dei sovrani
africani, ed erano destinati a occupazioni diverse da quelle svolte dalla
manodopera locale libera.
Come in tutte le società preindustriali, nell’Africa occidentale la
principale attività economica era l’agricoltura, sviluppatasi probabilmente a
partire dal 2800-1500 a.C., e costituiva la matrice dalla quale si dipartivano
tutte le altre: come anche nell’Europa dell’ancien régime, l’agricoltura si
accompagnava infatti all’artigianato e al commercio, che dipendevano
dall’organizzazione dell’attività stagionale. Allora come oggi, i consumi
della popolazione africana comprendevano fondamentalmente sorgo, riso,
banane, noci di cocco e tuberi (patate dolci e manioca). Le coltivazioni
cerealicole tendevano a predominare nella savana, mentre nelle foreste
prevaleva la raccolta di radici.
Grazie alla flessibilità lavorativa delle famiglie estese, l’attività agricola
poteva crescere, a partire da un piccolo capitale e utilizzando le materie
prime e la manodopera disponibili a livello locale. Non si deve però pensare
che tutto lo spazio geografico fosse occupato da unità domestiche che
collaboravano collettivamente. Anche le città e i villaggi erano infatti
elementi di lunga durata all’interno del paesaggio africano. Centri di
scambio, amministrativi e religiosi, città e villaggi erano abitati da artigiani,
mercanti, albergatori e addetti ai trasporti. Nelle città, come ad esempio a
Timbuctú, gli abitanti piú agiati incoraggiarono lo sviluppo delle arti e la
diffusione dell’Islam (Hopkins 1973). Fu a partire dalle città e dai villaggi
che si organizzò il flusso di beni. A livello locale troviamo lo scambio di
alimenti e di materie prime, come cotone, indaco, bestiame e manufatti. I
commercianti locali erano in prevalenza donne, che svolgevano anche altre
attività per contribuire al reddito familiare.
Non è molto chiaro sino a che punto i governi africani abbiano favorito
lo sviluppo del commercio (Meillasoux 1971), mentre è relativamente nota
l’esistenza di un’interazione tra il commercio e la struttura della società
africana, dove gli scambi locali trovavano un prolungamento nella presenza
di produttori con eccedenze che potevano essere messe in commercio. I
commercianti avevano quindi la capacità di organizzarsi e di difendere i
propri monopoli, evitando che la concorrenza distruggesse le solidarietà
etniche.
Il legame fra i mercanti locali e una piú ampia rete commerciale è
testimoniato dall’esistenza della moneta cauri, la conchiglia di ciprea, che
già prima dell’arrivo dei portoghesi circolava e facilitava gli scambi.
L’importanza di questa moneta è evidente se si pensa che i portoghesi la
importavano dall’oceano Indiano, in modo da potersi inserire nella
circolazione commerciale africana. Poco o nulla sappiamo sulla possibilità
che la crescita del commercio determinasse l’appropriazione di nuove terre
da parte della nobiltà e dei sovrani africani. In ogni caso, grazie alla moneta
cauri la produzione domestica si inserí nella rete di scambi, favorendo
mutamenti tecnici a livello produttivo e forse anche di struttura sociale
(Bohann e Dalton 1962).
Un buon esempio è il Dahomey del XVIII secolo. La sua economia era
fondata su un equilibrio tra la società e i mercati locali da una parte, e
l’amministrazione statale redistributiva della monarchia africana dall’altra,
che aveva creato una situazione di reciprocità. Questo ci aiuta a capire
perché il commercio con gli europei potesse coesistere con i mercati locali
senza creare però un mercato unico (Polanyi 1987).
Sarebbe interessante sapere come l’interazione tra i mercati locali e i
mercati piú lontani possa aver influito a livello sociale. Un possibile
indicatore è il fatto che l’organizzazione sociale non fosse fondata sulla
parentela, mentre c’era una forte presenza delle corporazioni (a Imbangala,
nell’Africa centrale, spiccava ad esempio quella delle armi, retta dal
principio del merito e della clientela). Allo stesso modo, anche
l’organizzazione religiosa era flessibile e non seguiva le norme parentali (J.
Thornton 1998). Nel XVII secolo, in Sierra Leone e in Guinea-Bissau, il ceto
nobile aveva un ruolo preminente tanto nell’organizzazione religiosa quanto
nelle dispute territoriali.
Si è già parlato della presenza di numerosi stati africani prima dell’arrivo
degli europei. Non si trattava di entità fondate sulla presenza di un’unica
etnia, poiché i gruppi etnici erano divisi tra piú stati, e vi erano stati che
comprendevano diversi gruppi etnici. Coesistevano stati di piccole e grandi
dimensioni, o addirittura imperi, che occupavano il 30 per cento del
territorio dell’Africa occidentale. Prima dell’arrivo degli europei, e durante
la loro permanenza, si assisté a una mutazione della forma territoriale degli
stati. Ad esempio, fu cosí che dall’ancestrale regno di Tado discesero tutti
gli stati Aja-Ewe, che diventarono poi Ardra e Gran Popo, tra i primi a
commerciare con i portoghesi nel XV secolo.
Pare che le famiglie regnanti precedessero l’istituzione degli stati e
quindi, come sembra sia accaduto sulla costa della Guinea, le prime
strutture di comando furono di tipo dinastico. Questa ipotesi spiegherebbe
perché il piú delle volte l’autorità regia fosse circoscritta e coesistesse con
altre forme di governo, come avvenne ad esempio in Congo. Le traiettorie
statali seguirono quindi differenti modelli volti a consentire il
mantenimento dell’autorità regia (P. Manning 1990). Sulla costa del Ghana,
ad esempio, i vari stati si svilupparono in maniera diversa e, soprattutto, non
unidirezionale: la loro organizzazione non passò infatti necessariamente da
strutture piú semplici a strutture piú complesse (Decorse e Spiers 2009).
Sorto alla fine del XIV secolo, il regno del Congo presentava nel XVI due
elementi costitutivi: un nucleo centrale molto strutturato e le aree
periferiche in uno stato di dissidio permanente con il potere regio. Questo
caso particolare mostra tuttavia come l’indebolimento dell’autorità centrale
non determinasse l’indebolimento o la modificazione del potere del clan
che sosteneva il re. L’autorità del monarca del Congo derivava infatti dal
suo statuto di antenato vivente, incarnazione dell’eroe fondatore della
dinastia che garantiva il raccolto e la fertilità dei campi. Come in tutti gli
stati bantú, il re nominava un corpo di funzionari amministrativi e
disponeva di una guardia regia composta anche da schiavi di diversi gruppi
etnici. E come in tutti i regni africani, anche qui l’autorità personale del re
era forte soprattutto nella capitale, ma vi erano tensioni tra la casta dirigente
e il consiglio del re, e tra questi e il popolo. Le tensioni si manifestavano in
un disordine diffuso, che emergeva soprattutto nel momento dell’elezione
del nuovo re, assumendo caratteristiche simili a quelle di una guerra civile
(Randles 2002): le monarchie africane non erano ereditarie, il successore
era scelto all’interno del clan reale e non era necessariamente il
primogenito. In Congo la scelta del nuovo re era affidata ai governatori
delle provincie, ma qui come in altri regni poteva anche accadere che un
pretendente al trono, aiutato dai suoi sostenitori, si impossessasse del
potere. Il re, considerato allo stesso tempo un dio e un uomo dotato di
perfezione esemplare, tentava di far coesistere nel suo governo le
aspirazioni e i desideri di tutti i membri del clan, incarnando in questo
modo la forza e la vitalità del regno (Randles 2002).
Specialmente dopo l’arrivo degli europei, cominciarono a partecipare
alla politica anche i non nobili, arricchitisi grazie al commercio. Come
avvenne in Costa d’Oro, questi dovevano sottoporsi a una cerimonia che
prevedeva il pagamento di un forte tributo in cambio del quale era concesso
loro il titolo nobiliare, che permetteva di acquistare schiavi.
Se negli stati piú grandi il potere dei re era dunque limitato dai poteri
regionali, dal clan regio e dall’azione dei nobili, il sovrano non esercitava
un potere assoluto nemmeno nei regni di piccole dimensioni. Va precisato
inoltre che in tutti gli stati africani vigeva un sistema legale che autorizzava
la vendita delle persone come schiavi, utilizzati in modo simile ai servi
dell’Europa medievale. In molte aree le norme legali limitavano la
compravendita degli schiavi ad alcune categorie sociali, mentre in altre le
leggi ne favorivano il libero commercio. Già prima dell’arrivo degli
europei, il maggior numero di schiavi apparteneva comunque al re e alla sua
famiglia o allo stato, contribuendo in questo modo a una sua forte
centralizzazione. Dopo l’arrivo degli europei, questo stesso tipo di
organizzazione si estese anche agli eserciti. Nell’impero del Sudan gli
eserciti erano in gran parte composti da soldati schiavi, mentre i loro
ufficiali appartenevano alla nobiltà locale e spesso avevano in precedenza
governato stati poi incorporati all’interno di nuovi regni di maggiori
dimensioni. In Sierra Leone e nel Mali la schiavitú fu un vettore che favorí
la centralizzazione delle monarchie locali, sia prima sia dopo l’arrivo degli
europei. A partire dal XVI secolo intervennero tuttavia a favorire la
centralizzazione anche altri fattori: uno dei piú importanti fu l’incremento
dell’urbanizzazione.
La confederazione dei regni ashanti riuscí a diventare uno dei piú
importanti capisaldi politici sulla costa del Ghana e nel regno eguafo sin dal
XVII secolo, poiché riuscí a espandersi grazie a un esercito presente in tutto
il territorio. Questa espansione permise di incrementare la ricchezza della
confederazione con le tasse pagate dai commercianti e dagli europei degli
insediamenti costieri e controllare cosí il potere dei governanti locali. La
diffusione della schiavitú, l’urbanizzazione e il potenziamento degli eserciti
con l’arruolamento forzato di schiavi furono inoltre, tra il 1450 e il 1800,
una risposta degli stati africani alla crescente presenza europea.
Il controllo politico e sociale dell’aristocrazia fu particolarmente
accentuato nel XVIII secolo. È probabile che sia stato favorito
dall’espansione della schiavitú, come accadde negli stati wolof del
Senegambia. Sin dal XVII secolo, infatti, i nobili wolof incrementarono il
proprio potere grazie all’acquisto di schiavi destinati ad aumentare la
produttività agricola. I loro cereali venivano scambiati con il bestiame degli
arabi e dei berberi, ma anche con i prodotti europei, e servivano inoltre a
rifornire le navi della tratta degli schiavi. I nobili wolof riuscirono inoltre ad
appropriarsi di terre libere e comunitarie: l’aristocrazia entrò in possesso di
gran parte delle terre, coltivate da tenutari che erano costretti a consegnare
il 10 per cento dei raccolti ai proprietari. Il potere dei nobili si rafforzò
anche grazie alla disponibilità di guerrieri schiavi a cavallo, armati con
moschetti ottenuti dagli europei (Searing 1988).
È probabile che tale rafforzamento delle aristocrazie abbia fornito agli
stati africani un meccanismo di controllo della penetrazione economica
europea in Africa. I primi scambi tra congolesi ed europei, con il dono di
tessuti pregiati da parte del re del Portogallo, al quale furono inviati in
cambio rafia e avorio, testimoniano infatti la volontà dei regnanti congolesi
di mantenere il controllo dei nuovi commerci entro l’ambito dei privilegi
regi. Forse la monarchia congolese cercava di frenare la colonizzazione
portoghese a São Tomé, dove anche i nobili e i commercianti locali
miravano a liberarsi dal dominio congolese attraverso il commercio degli
schiavi, come aveva fatto in Angola il re del Dongo, vassallo del Congo
(Randles 2002).
Nel corso del XVIII secolo le guerre in Congo divennero endemiche
proprio nella misura in cui la monarchia congolese continuava a tentare di
limitare il commercio portoghese degli schiavi. Essa si vide infine costretta
ad abbandonare ben sei aree della costa: Loango, Kahongo, Angoi, Soyo,
Matamba e Carrange (J. Thornton 1998). Nello stesso periodo si assisté
inoltre alla nascita di nuovi stati in Africa. Il Dahomey si trasformò in
potenza predatrice di schiavi, costantemente in guerra con gli altri stati
(Becker e Martin 1975) e, proprio in risposta a tale politica, nel 1760 prese
forma in Costa d’Oro l’impero dei Sosso, risultato di un’alleanza tra Sosso,
Hungu e la provincia di Wandu (Rönnbäck 2016). Anche l’impero di
Luanda divenne una potenza predatrice: a partire da avamposti fortificati il
suo esercito si mosse verso ovest, catturando schiavi che potessero
soddisfare tanto la domanda locale quanto quella della tratta atlantica.
La nuova espansione dell’Islam, cominciata nel XV secolo, si rafforzò
nel corso dei due secoli successivi. Non soltanto sviluppò i rapporti tra
Timbuctú e le reti del pellegrinaggio e del commercio, ma promosse inoltre
una significativa azione di resistenza alla tratta degli schiavi nelle aree della
costa, e alla tendenza predatrice degli stati dell’Africa centromeridionale.
Risale al periodo 1673-77 infatti il primo movimento islamico di
opposizione alla tratta atlantica: il cosiddetto «movimento di
Purificazione», guidato dal riformatore islamico Na sri al Din e
particolarmente attivo nella valle del Senegal (Lovejoy 2000; Pétré-
Grenouilleau 2006). Nel 1727 un’altra insurrezione mussulmana nel
Senegal meridionale portò alla destituzione dei governanti di Futta Djallon
e diede vita a un regime teocratico islamico. Il nuovo stato, retto dalla
Sharia, riuscí a espandersi negli stati vicini tra il 1751 e il 1781.
Nel 1779 un nuovo movimento islamico negli stati wolof depose il
monarca, ridimensionò il potere dell’aristocrazia e si oppose alle incursioni
per catturare schiavi (Marty 1921). Vi fu poi un ciclo di rivolte contro la
schiavitú fra il 1783 e il 1796, nella zona tra Guinea e Sierra Leone, negli
stati di Moria e Sunbaya. La rivolta Yangekori ebbe inizio a Moria, dove era
presente un enorme numero di schiavi, in parte destinati allo sfruttamento
locale, in parte alla vendita ai commercianti europei. Nel 1789 un esercito
di 15 000 mussulmani invase il territorio, fino ad allora comandato
dall’etnia mande, imponendo una repubblica teocratica e bloccando il
commercio degli schiavi. I mande riusciranno in seguito a reinstaurare
l’ordine preesistente, riprendendo anche la tratta degli schiavi (Mouser
2007).
L’espansione mussulmana non riuscí tuttavia a ridurre la militarizzazione
e le guerre tra i regni africani nel corso del XVIII secolo. La trasformazione
riguardò soprattutto un rinnovamento del sistema di parentela, che si
modificò con l’aggiunta di nuove stratificazioni derivanti dai rapporti tra
proprietari e commercianti di schiavi africani e i loro omologhi europei.
Tra il XVII e il XVIII secolo si registrò un significativo aumento della
violenza e della militarizzazione degli stati, che dipese essenzialmente dalla
circolazione delle armi da fuoco europee innescata dalla tratta, e dalla loro
diffusione per la caccia e l’autodifesa: dai 20 000 fucili annui importati tra
il 1680 e il 1690 si passò a 190 000 fucili annui, tra il 1780 e il 1790 (J.
Thornton 2011). Sin dalla fine del XVII secolo, inoltre, gli eserciti
cominciarono ad arruolare soldati professionisti e cessò il reclutamento
della popolazione libera.
Queste trasformazioni ebbero un impatto anche sul commercio degli
schiavi. A partire dal 1650, infatti, i meccanismi di controllo da parte degli
stati cominciarono a indebolirsi, e la tratta si espanse. Significativamente, la
resistenza africana provenne dalle regioni che esportavano meno schiavi e
che per prime avrebbero posto fine a tale commercio: Senegambia, Sierra
Leone e Costa del Vento.
Non va infine dimenticato lo scarso avanzamento dell’occupazione
portoghese dell’hinterland, testimoniato dall’avvio della colonizzazione, tra
il 1616 e il 1679, nella zona compresa tra Luanda e Pungo Andongo, in
Angola.

3. L’interazione afro-europea.

Il punto di partenza del processo di interazione tra africani ed europei è il


flusso della tratta degli schiavi verso le Americhe, che ebbe ripercussioni
sulla demografia della popolazione africana. Questo spiega l’importanza
degli accordi stipulati con i governanti africani per la creazione di forti
commerciali sulle coste, centri delle transazioni e del credito commerciale
euro-africano; qui avrà origine l’oncia commerciale, meccanismo del
baratto differenziato nelle transazioni tra africani ed europei. L’insieme
delle interazioni mercantili afro-europee è visibile a livello delle
conseguenze delle importazioni africane e soprattutto nella bilancia
commerciale africana.
Bisogna tenere presente che l’espansione della tratta fu legata non solo ai
cambiamenti avvenuti in Europa, ma anche a quelli riguardanti l’offerta e la
domanda di manodopera nel contesto africano, che sono stati illustrati nel
paragrafo precedente.
In Europa l’offerta di manodopera servile inglese, irlandese, scozzese,
tedesca e francese era progressivamente diminuita con il superamento della
crisi degli anni 1620-40. Nello stesso periodo, tuttavia, la domanda di
manodopera oltreoceano aumentò, per effetto dell’espansione delle
piantagioni nei Caraibi e nell’America continentale inglese. La domanda
aumentò anche nelle Antille iberiche, con l’avvio di nuove produzioni
esportabili, e in Brasile, con la ripresa dello zucchero e l’incremento
dell’attività estrattiva di oro e diamanti.
Queste trasformazioni ebbero un impatto sull’aumento delle esportazioni
di schiavi dall’Africa centro-occidentale, nello stesso momento in cui si
ridusse la domanda di oro africano. Delle due principali fonti di profitto
africane ne rimase dunque una sola, gli schiavi, mentre crebbe la domanda
africana di armi, ferro e tessuti europei, cotoni dell’India, tabacco e
acquavite brasiliana. Questo nuovo commercio atlantico definito all’epoca
come triangolare incentivò cosí le connessioni tra l’Europa, l’Africa e le
Americhe.
La cartina 10 permette di cogliere i molteplici collegamenti che si
instaurarono tra le aree africane e quelle dell’America britannica, dei
Caraibi e dell’America iberica. Possiamo notare che il traffico negriero ha
la sua origine in Guinea, Costa d’Oro, Benin, Biafra, Africa centrale e
sudorientale. Dall’Africa gli schiavi sbarcavano nell’Atlantico
settentrionale – nelle Indie occidentali, in Guiana, Venezuela, Colombia,
Giamaica, Portorico, Hispaniola, Cuba, nell’America continentale
britannica – e nell’Atlantico meridionale, in Brasile e a Buenos Aires. I
punti di partenza africani sono illustrati nella tabella 7.

Tabella 7.
Schiavi trasportati dalle principali regioni dell’Africa, 1651-1850.
Cartina 10.
Flussi del commercio degli schiavi, 1650-1850.
Fonte: Ways of the World 2009.

La tabella ci permette di distinguere tre fasi. La prima, compresa fra il


1651 e il 1725, fu caratterizzata da un tasso di crescita dell’1,6 per cento
annuo. A questa fase seguí quella compresa fra il 1726 e il 1800, in cui si
assisté al raddoppio della tratta, con un tasso di crescita annuo dell’1,4 per
cento. Infine, tra il 1801 e il 1850, si ebbe una fase di ristagno, con un tasso
di crescita dello 0,2 per cento annuo. Bisogna tuttavia ricordare che questi
dati offrono una visione riduttiva del traffico negriero, poiché si fondano su
una sommatoria di realtà regionali molto diverse. Il primo dato che si deve
tenere presente per poter leggere queste diversità regionali è quello che
riguarda la decrescita demografica sperimentata dalle regioni africane.
La crescita demografica dell’intero continente africano fu simile a quella
delle altre realtà preindustriali, il che significa che non superò l’1 per cento
annuo. Il traffico degli schiavi dall’Africa centro-occidentale tuttavia
determinò una decrescita non uniforme (tabella 8). Nel corso del periodo
1651-1700 la riduzione demografica fu forte in Guinea, Costa d’Oro e
Benin, mentre fu quasi inesistente in Biafra, Africa centrale e Africa
sudorientale. Nella fase 1701-1750 la Guinea presentava ancora un tasso di
decrescita forte, insieme al Biafra, mentre si ridusse in Costa d’Oro e
Benin; aumentò nell’Africa centrale e diminuí in quella sudorientale. Nel
periodo seguente, fra il 1751 e il 1800, si nota una tendenza discendente
nella decrescita di Guinea, Costa d’Oro, Benin e Biafra, mentre essa
colpisce ora l’Africa centrale e quella sudorientale.

Tabella 8.
Decrescita demografica determinata dalle esportazioni di schiavi, 1651-1850 (stime percentuali).

L’effetto demografico negativo della tratta scomparve infine nella fase


compresa tra il 1801 e il 1850. Alle origini di questo andamento vi fu
senz’altro, sin dalla fine del XVIII secolo, l’effetto del dibattito abolizionista
e poi, a partire dal 1807, l’abolizione da parte inglese del commercio degli
schiavi. Come si è spiegato nel paragrafo precedente, tuttavia, ancor prima
del nuovo corso abolizionista fu l’azione di controllo esercitata dai
governanti africani sul flusso degli schiavi ad attenuare l’effetto
demografico negativo della tratta. In questa fase, dunque, il tasso di
decrescita fu dell’1 per cento in Guinea, e in percentuali inferiori in Costa
d’Oro, Benin, Biafra e Africa sudorientale. Soltanto l’Africa centrale
mostrava ancora un tasso elevato di decrescita demografica, pari al 2,2 per
cento (P. Manning 1990). Per quanto riguarda Abomey, che fu il regno
inizialmente piú colpito dalla decrescita demografica, il tasso di riduzione
demografica oscillò tra lo 0,2 per cento nel 1640 e lo 0,6 per cento nel
1670; a partire dal 1680 e sino al 1730 esso aumentò dall’1,1 fino al 3,3 per
cento, e tra il 1740 e il 1800 si ridusse dallo 0,3 allo 0,1 per cento.
Bisogna aggiungere che la decrescita della popolazione all’interno delle
varie regioni colpí maggiormente alcuni specifici gruppi etnici. Tra il 1720
e il 1800, i gruppi yoruba e hausa della Nigeria conobbero un tasso di
riduzione demografica dello 0,1 per cento. Lo stesso avvenne nell’Alto
Volta, dove i tassi di riduzione furono dello 0,5 per cento nel 1700 e dello
0,8 per cento nel 1760. Sempre in Nigeria, tuttavia, altri gruppi etnici
conobbero tassi di decremento demografico molto bassi tra gli yoruba, i
nupe e gli houssa. Tra gli yoruba, l’unico decennio con un tasso elevato fu il
1830 (0,6%) mentre quelli compresi tra i decenni 1720 e 1820 fluttuarono
tra lo 0,1 e lo 0,2 per cento. Anche tra i nupe il tasso fu dello 0,1 per cento
tra il 1740 e il 1830, mentre tra gli hausa fu dello 0,1 per cento tra il 1800 e
il 1820.
Un esempio efficace dell’influenza dei monarchi africani sul controllo
della sovranità sul territorio è rappresentato dal Dahomey. Le compagnie
europee si impegnarono qui a pagare un canone d’affitto mensile o annuale
per l’area occupata, oppure una tassa sui prodotti commerciati; dovevano
inoltre offrire acquavite, tessuti o altri beni in dono al sovrano. L’accordo
per l’occupazione del territorio firmato nel 1688 tra la compagnia
commerciale olandese e le autorità del regno di Fetu comportava ad
esempio il dono di 18 bottiglie di cognac francese e una pezza di lana
(Heijer 2013). Nel 1705, per rafforzare l’accordo commerciale con Allada,
nella Costa degli Schiavi, la compagnia olandese offrí al re un’enorme
quantità di acquavite e quattro pezze di seta ricamate d’oro. Regali simili
furono offerti anche al re di Abomey per ottenere il permesso di
commerciare polvere d’oro e avorio. Le armi costituivano una parte
consistente dei doni offerti alla firma dei trattati, e la sanzione per il
mancato pagamento del canone d’affitto era la rescissione del contratto
stipulato tra la compagnia commerciale e il governo (Becker e Martin
1975). Come scrisse un impiegato di un forte commerciale olandese nel
1702: «nessuna nazione europea può sentirsi sicura in questa costa, a meno
che i nativi siano dalla nostra parte» (Heijer 2013).
La presenza di ben 43 forti mercantili sulla costa occidentale dell’Africa
alla fine del XVII secolo, dall’isola di Arguin a Ouidah, nel Dahomey, è un
valido indicatore dell’elevato numero di trattati stipulati tra i regni africani e
le compagnie mercantili europee. In Costa d’Oro vi furono tra il 1673 e il
1713 sedici forti commerciali inglesi, di cui dieci principali e sei secondari;
sette forti olandesi; uno danese e uno brandeburghese. Negli anni Settanta
del XVIII secolo, in Ghana e in Costa d’Avorio vi erano dodici insediamenti
commerciali fortificati. Ad Accra ve n’erano addirittura tre: uno inglese,
uno olandese e uno danese. A Cape Coast vi erano un forte principale e altri
quattro secondari inglesi, e sei olandesi (Hopkins 1973; Metcalf 1987;
Davies 1999; Eltis 2000). Lo scopo delle concessioni era evidentemente di
impedire che gli africani commerciassero con compagnie mercantili non
autorizzate. Molti forti commerciali, inoltre, cambiarono di mano. Il forte di
Elmina ad esempio, fondato nel 1482 dai portoghesi, divenne poi olandese e
infine britannico. Il forte dell’isola di Gorea, a Capo Verde, passò di mano
una decina di volte e fu ricostruito in due occasioni, nel 1784 e nel 1847.
Nel corso del XVIII secolo si ridusse sensibilmente la funzione militare
dei forti, che divennero principalmente mercantili. Ogni forte commerciale
possedeva una guarnigione per la difesa insieme a spacci commerciali; la
cartina 11 mostra come i 15 forti commerciali dipendessero dalle località
vicine per la manodopera, il trasporto e gli approvvigionamenti di cibo,
acqua e legname: la loro esistenza dipendeva dal rapporto che riuscivano a
stabilire con i villaggi della costa e dell’entroterra.
Cartina 11.
Collegamenti tra gli insediamenti fortificati e l’entroterra del Costa d’Oro nel XVIII secolo.
Fonte: Coquery-Vidrovitch 1991, p. 1397.

La carta illustra le vie di comunicazione tra i forti e l’entroterra in un


raggio di 200 chilometri e ci aiuta a capire l’effetto indotto nell’economia
africana dalla presenza dei centri mercantili fortificati. Dopo il 1650 la
presenza europea modificò infatti l’organizzazione produttiva africana.
Sebbene non vi siano dati quantitativi, le manifatture tessili africane si
differenziarono tra quelle delle unità domestiche e quelle appartenenti ai
sovrani, ai nobili, ai funzionari e ai commercianti africani. Erano i
commercianti africani a vincolare produttori e compratori, nella misura in
cui oltre a fornire gli schiavi ai commercianti europei funsero anche da
interpreti e intermediari con i nobili e i funzionari africani. Gli europei
infatti non richiedevano solo la protezione delle autorità locali, ma anche
l’appoggio dei commercianti. Questo spiega perché molti africani si
convertirono al cristianesimo, mentre molti europei divennero membri delle
organizzazioni segrete africane. In Senegambia, Sierra Leone e Costa d’Oro
troviamo una forte partecipazione europea negli affari locali: una
collaborazione instauratasi con i commercianti e gli agenti mercantili
mulatti grazie alla diffusione del pidgin, che mescolava parole delle lingue
europee con parole africane.
Le transazioni euro-africane spiegano lo sviluppo del credito e del
sistema dei pegni in Africa. Era infatti una pratica diffusa tra gli europei
quella di anticipare beni in cambio di schiavi, con garanzie di ostaggi e altri
pegni da parte africana. Oltre ai forti commerciali vi erano anche mercati
periodici. Si trattava di mercati frequentati da consumatori africani a basso
reddito, che vivevano in insediamenti periferici. Anche qui è registrata la
presenza di commercianti europei, o di loro agenti africani, che
scambiavano beni europei contro beni africani per riorientarli al commercio
di lunga distanza. I mercati locali erano tutelati dalle autorità africane, che
stabilivano prezzi, pesi e misure degli scambi. Secondo le fonti a nostra
disposizione, i prodotti commerciati in questi mercati comprendevano 14
beni di tipo alimentare, principalmente fagioli, farina, mais e pepe africano;
4 materie prime, tra cui cotone e indaco; 8 tipi di bestiame; 4 tipi di
manufatti, fra cui vestiti di cotone e sapone. Dei 30 prodotti oggetto di
scambio, ne erano destinati soltanto due al commercio interno: olio e semi
di palma.
La principale rotta battuta dai grandi commercianti era quella del
trasporto degli schiavi, dalle aree interne alle zone costiere. Tra questi i piú
importanti erano i mercanti di Ovimbundu in Angola, di Marake nel Niger
medio e le carovane degli Swahili dell’Africa orientale. Accanto ai grandi
commercianti ve n’erano anche di piccoli, e anch’essi attribuivano un
prezzo agli schiavi tenendo conto del costo del trasporto, dell’alimentazione
e dei vestiti. A differenza del commercio generale quello degli schiavi
godette tuttavia dell’appoggio e della protezione dei governi, che
garantivano la difesa delle carovane e impedivano agli schiavi di scappare o
di essere riscattati dalle loro famiglie (Hopkins 1973; P. Manning 1982;
Curtin 1988).
Possiamo desumere la strategia di acquisto degli schiavi da documenti
contabili del 1751-97 dell’area della Guinea, riguardanti l’acquisto di 9880
schiavi (uomini, donne e bambini), avvenuto nell’arco di 8702 giorni.
L’acquisto medio era dunque di 1,1 schiavi al giorno, che presuppone
trattative commerciali complesse. Questo campione ci permette di sapere
che ogni nave negriera impiegava 153 giorni per acquistare schiavi in Costa
d’Avorio, un numero inferiore di giorni rispetto all’acquisto in Costa d’Oro.
Il 44 per cento dei 9880 schiavi fu acquistato nel forte di Elmina piú volte
menzionato, mentre i rimanenti in altri luoghi del Costa d’Oro. I documenti
in nostro possesso ci informano inoltre che gli schiavi prima di essere
imbarcati trascorrevano un lungo periodo alloggiati in baracche, durante il
quale la mortalità era relativamente alta (Hogerzeil e Richardson 2007).
I dati riguardanti gli schiavi giunti nell’America britannica tra il 1658 e il
1713 mostrano che dei 556 schiavi sbarcati 134 (il 24%) erano stati
acquistati a Ouidah, mentre la parte restante proveniva da Cape Coast,
Costa d’Oro, Nuovo e Vecchio Calabar (Biafra), Offrah (Costa degli
Schiavi) e dalle rive del fiume Gambia.
I dati riguardanti gli acquisti delle navi negriere ci dicono inoltre che il
90 per cento degli schiavi era acquistato in un unico porto, mentre il
rimanente in diversi luoghi del Costa d’Oro, del Biafra, del Gambia, del
Dahomey e della Costa degli Schiavi. Anche il 20 per cento degli schiavi in
partenza dal Costa d’Oro era acquistato poi in altre regioni.
Riassumendo, si può dire dunque che il commercio degli schiavi avesse
determinato una serie di interazioni tra africani ed europei. Tra gli europei
vi erano i commercianti residenti e i loro discendenti mulatti, impiegati nei
forti commerciali. Essi furono numerosi in Senegambia, Costa d’Oro,
Biafra, Costa d’Avorio, Congo e Loango. La parte di africani coinvolti nel
commercio degli schiavi era invece costituita dalle comunità mercantili,
soggette al controllo e alla regolamentazione dei regni africani. Come si è
visto, furono quindi i commercianti africani i principali intermediari tra
l’offerta e la domanda di schiavi nelle aree interne. Essi si arricchirono
grazie alla loro posizione strategica e alla loro abilità, e molti di loro
riuscirono a entrare a far parte della nobiltà. Il rapporto tra i commercianti
europei e africani favorí inoltre lo sviluppo del credito mercantile. Nel 1758
il re di Ashampo, nel Popo, inviò agli olandesi e ai danesi di Accra, in
Ghana, un’ambasciata per negoziare il debito accumulato. I danesi
rifiutarono, argomentando che non potevano acquistare soltanto armi ma
dovevano acquistare anche altri beni. Sappiamo tuttavia che il credito era
molto frequente nel commercio degli schiavi, tranne che a Popo, dove gli
schiavi venivano catturati ma non acquistati. Il pegno aveva invece lo scopo
di garantire la sicurezza dei commercianti. Fu cosí, ad esempio, che il
commerciante inglese Roberts accettò di inviare a sue spese il figlio del re a
studiare in Inghilterra, come pegno di garanzia dei suoi commerci
(Strickrodt 2015).
Va inoltre tenuto presente che, come nel Dahomey, gli stati africani
disponevano di sistemi di riscossione, contabilità e controllo del commercio
interno, oltre che di una monetarizzazione parziale: la conchiglia cauri, il
cui tasso di cambio con l’oncia d’oro era di 32 000 unità.
Ancora alla fine del XVII secolo vi era un’ampia gamma di valori per gli
scambi con i commercianti europei. Nel 1699 nel Vecchio Calabar i beni
europei erano valutati in verghe di rame, usate come equivalente generale
del valore delle verghe di ferro, dei tessuti e di altri beni. In altre regioni,
invece, erano i cauri l’unità di misura del valore dei beni europei, mentre la
verga di ferro era l’equivalente utilizzato nell’acquisto di schiavi in Gambia
e Costa d’Avorio. In Senegal i beni europei erano valutati in pelli e gli
schiavi in verghe di ferro: il rapporto tra verga di ferro e pelli era di 1 a 8. In
Angola le unità di scambio per schiavi e merci erano le pezze di seta,
velluto e cotone importate (Van Dantzig 1975; D. Richardson 2009).
Dal momento che era impossibile riunire questi eterogenei equivalenti
commerciali in un’unica unità monetaria, gli scambi avvenivano, come ha
scritto Polanyi (1987), a partire da lotti di beni. Fu questa la forma di
transazione dominante che si sviluppò tra il 1450 e il 1650: un lotto di
schiavi era pagato con un lotto di beni europei. Cosí, ad esempio, nel 1759
un lotto di merci comprendenti fucili, polvere da sparo, tessuti, coltelli,
pentole e articoli di vetro per un valore complessivo di 194 fiorini olandesi
permise alla compagnia Middleburg di acquistare tre schiavi adulti (Eltis e
Richardson 2010). Il valore del lotto di beni europei comprendeva
l’acquisto, il costo del trasporto marittimo e il tasso di profitto mercantile.
Quest’ultimo era variabile, poiché dipendeva dall’offerta di schiavi in
Africa, dalla domanda degli stessi in America e dal valore della mediazione
dei commercianti africani. I prezzi dei beni commerciati, tanto gli schiavi
quanto i prodotti europei, erano quindi fluttuanti e l’unico esempio di
cambio stabile fu il rapporto tra cauri e oncia d’oro (Polanyi 1987).
A partire dalla fine del XVII secolo il cesto di beni per lo scambio euro-
africano cominciò a trovare il suo equivalente nel marco e nell’oncia d’oro
(rispettivamente 226,79 e 28,34 grammi). Nel 1676 un cesto di beni europei
composto da moschetti, polvere da sparo, verghe di ferro e tessuti aveva un
costo primario di 5 marchi e 1 oncia d’oro in Europa, che comprendeva il
valore dei beni ma anche il costo del trasporto marittimo verso il Costa
d’Oro. A quanto pare, in Inghilterra il valore dell’oncia d’oro per l’acquisto
di un lotto di beni destinati al commercio africano era inferiore a quello di
mercato del 30-40 per cento (Johnson 1966).
È probabile che l’avvio dell’oncia commerciale come moneta di conto
per gli scambi euro-africani contenesse una parte della svalutazione
implicita dello scambio tra merci europee e oncia d’oro. Il valore dell’oncia
commerciale era la metà di quello dell’oncia d’oro: 4 sterline o 16 lire
tornesi contro 8 sterline o 32 lire tornesi. Siccome tutti i commercianti
europei, compresi i danesi e i brandeburghesi, utilizzarono l’oncia
commerciale sino al 1826 si può pensare che essa rappresentasse non solo
un vantaggio mercantile, ma anche un mezzo per semplificare i rapporti
commerciali.
La diffusione dell’oncia commerciale potrebbe aver aumentato il prezzo
degli schiavi, anche se la tendenza al rialzo dei prezzi dopo il 1650 dipese
dal controllo esercitato dai governi africani e, tra il 1710 e il 1790, non solo
dall’offerta africana ma anche dalla domanda americana. Tra il 1663 e il
1698 il prezzo medio pagato per uno schiavo era in Costa d’Oro di 3,96
sterline; 3,36 nel Benin; 3,07 nel Biafra e 4,04 nell’Africa centro-
occidentale. La fluttuazione del prezzo medio era simile in tutte le regioni e
lo scarto di prezzo fra le varie regioni non superava l’1,5 per cento (Eltis
2000). Tra il 1700 e il 1780 nel Benin i prezzi degli schiavi aumentarono da
12 a 25 sterline. Anche nel Dahomey i prezzi ebbero un’impennata dopo il
1690 e tra il 1700 e il 1790, passando da 5,25 a 14 sterline e continuando ad
aumentare ancora sino al 1813, quando raggiunsero le 21 sterline.
Conviene ora illustrare il commercio tra i paesi atlantici europei e
l’Africa centro-occidentale. I principali soci commerciali europei nel
periodo compreso fra il 1650 e il 1829 furono, in ordine d’importanza,
inglesi, olandesi, francesi e portoghesi, mentre danesi e brandeburghesi
ebbero un ruolo secondario. Fino al primo decennio del XVIII secolo, con i
prodotti europei si acquistarono oro e schiavi, successivamente soltanto
schiavi. Il 40 per cento delle merci sbarcate dagli inglesi era impiegato per
l’acquisto degli schiavi; il 50 per cento nel caso delle merci francesi; il 29
per cento nel caso di quelle olandesi e la quasi totalità di quelle portoghesi.
Tutti gli europei acquistavano comunque anche avorio, manufatti, pepe
africano e cotone grezzo.
La tabella 9 mostra come le armi e la polvere da sparo fossero prodotti
d’importazione strategici, utilizzati per la cattura degli schiavi e il
rafforzamento militare delle monarchie africane, ma emerge anche come i
tessili fossero le importazioni piú significative, dal momento che
rappresentavano la metà del totale dei prodotti importati. All’epoca si
sosteneva che gli africani consumassero annualmente 2,75 metri di tessuto.
È tuttavia possibile notare anche una debole tendenza verso la sostituzione
dei tessuti importati con prodotti locali, poiché le importazioni diminuirono
dal 50 al 31,7 per cento. Inizialmente, le importazioni di tessili
comprendevano molti cotoni prodotti in India, ma dopo il 1780
cominciarono a essere importati in Africa cotoni inglesi.
Tabella 9.
Distribuzione relativa delle importazioni nell’Africa occidentale, 1780-1860 (valori in percentuale).

Sebbene i dati riportati nella tabella sembrino smentire l’idea di un


ampio uso di alcolici europei, sappiamo che si consumava l’acquavite
prodotta nelle piantagioni dei Caraibi e del Brasile. Crebbero le
importazioni di tabacco, di cui l’Africa era grande consumatrice, tanto di
quello prodotto nell’America continentale inglese quanto di quello
brasiliano. Sin dal XVII secolo, infatti, gli schiavisti brasiliani di Bahia e Rio
de Janeiro si servirono del tabacco per procurarsi schiavi. La ridotta
quantità d’importazione di materie prime e di ferro, infine, è un tipico
indicatore del livello preindustriale delle economie africane (Eltis 1994).
Le stime riguardanti gli scambi commerciali olandesi ci offrono
un’immagine molto simile a quella inglese, anche se in questo caso parte
delle merci inviate nell’Africa atlantica erano destinate a sostenere i forti
commerciali e il personale impiegato. Una porzione dei beni inviati ai forti
era invece destinata al commercio con i mercati locali (van den Boogart
1992). È possibile capire l’importanza del commercio nel mondo africano
sommando il valore delle esportazioni, riesportazioni e importazioni in
sterline, e dividendolo poi per la popolazione totale. Il risultato, confrontato
con quello inglese, è mostrato nella tabella 10.

Tabella 10.
Commercio pro capite in Africa occidentale e Gran Bretagna (sterline).

È evidente dai dati forniti nella tabella che la partecipazione dell’Africa


occidentale nel commercio internazionale registrò una stagnazione, mentre
crebbe quella della Gran Bretagna. L’osservazione della bilancia
commerciale (tabella 11) permette di rafforzare ulteriormente questo
quadro, mostrando il progressivo impoverimento dell’Africa, che fra il 1700
e il 1850 si ritrovò piú povera di quanto non fosse nel XVII secolo.

Tabella 11.
Bilancia commerciale dell’Africa occidentale, 1680-1860 (milioni di sterline).

Non conosciamo le destinazioni riservate agli eccedenti dello scambio


asimmetrico che si rafforzò tra il 1700 e il 1860. In teoria il vantaggio
relativo avrebbe dovuto favorire l’Africa occidentale, ma esso si
ridimensionò per effetto dello scambio asimmetrico che andava a esclusivo
vantaggio dei commercianti europei. Si tratta di una situazione simile a
quella dell’America Latina nella prima metà del XIX secolo: anche qui la
bilancia commerciale era attiva come quella dell’Africa occidentale, con le
ragioni di scambio lorde positive. Si può allora pensare che il vantaggio
relativo della bilancia commerciale dell’Africa occidentale fosse un
miraggio poiché lo scambio asimmetrico con la Gran Bretagna favorí
soltanto i commercianti europei. Di conseguenza, si può formulare l’ipotesi
che la bilancia dei pagamenti dell’Africa occidentale fosse negativa.

4. Dall’Africa occidentale alle Americhe: incorporazione e resistenza.

Il trasporto degli schiavi dall’Africa alle Americhe fu un’impresa


complicata. Tra la cattura e la partenza via mare passavano dai sei ai dodici
mesi, tre dei quali trascorsi dagli schiavi nelle baracche dei punti d’imbarco.
Questo periodo di permanenza rappresentava un rischio pesante per la loro
salute, e portava a un aumento dei livelli di mortalità durante la traversata; a
volte era la violenza dei sorveglianti delle baracche a provocarne la morte.
Gli schiavi erano venduti nell’arco di 10-18 giorni in Senegambia, in 130
giorni nel Benin, mentre in Costa d’Oro si arrivava addirittura a 1650 giorni
(Hogerzeil e Richardson 2007). L’intera tratta, che gli schiavi definirono
«un destino orribile», era segnata da suicidi, malattie, denutrizione, ma
anche dalle ribellioni. Queste cominciavano in realtà già nei punti
d’imbarco in Africa: tra il 1527 e il 1867 si registrarono 345 rivolte.
Durante le traversate, poi, le ribellioni registrate furono 392: cominciarono
a crescere tra il 1650 e il 1700, aumentarono ulteriormente nel corso del
XVIII secolo e diminuirono poi nella prima metà del XIX secolo (D.
Richardson 2001 e 2009).
Una volta imbarcati, la durata del viaggio era cruciale non solo per la
sopravvivenza degli schiavi, ma anche perché il prezzo di vendita era legato
al fatto che questi potessero essere consegnati nei mercati americani in
tempo per il raccolto. Il tasso di mortalità all’arrivo in America dipendeva,
oltre che dalla durata della navigazione, dalla zona di sbarco, e dalla
distribuzione per età e per sesso. I livelli medi di mortalità furono piuttosto
elevati tra il 1680 e il 1750: per i viaggi tra l’Africa occidentale e i Caraibi
si registravano in media 2,25-2,38 decessi al giorno. Tra il 1750 e il 1836,
sulla stessa rotta, la mortalità giornaliera si ridusse a 1,01-1,56 decessi. Nel
periodo compreso fra il 1850 e il 1861 fu di 0,40 decessi al giorno. Questi
tassi dipendevano dallo spazio ridotto assegnato agli schiavi, dalle epidemie
e dalla scarsità delle razioni alimentari distribuite.
Fra il 1791 e il 1798 la durata del viaggio tra la Guinea meridionale e la
Giamaica era di 66 giorni; tra il 1811 e il 1840 dal Benin e dal Biafra ai
Caraibi di 50,9 giorni; nel periodo 1821-30 dal Benin e dal Biafra a Bahia
di 30 giorni; e nel periodo compreso fra il 1826 e il 1830 tra l’Africa centro-
occidentale e il Brasile meridionale di 33 giorni. I registri della compagnia
olandese ci informano che tra il 1751 e il 1797 la durata media della
traversata verso i Caraibi era di 70-99 giorni e che durante il viaggio il tasso
di mortalità degli schiavi era del 17,7 per cento.
Il trasporto degli schiavi necessitava della presenza di capitani in
possesso di grande esperienza e di marinai in grado di affrontare i rigori del
viaggio atlantico, oltre che di poter disporre all’arrivo di un arsenale per
riparare la nave. Nel corso del XVIII secolo si svilupparono nella tratta degli
schiavi forme di credito di durata annuale, suscettibili di rinnovo e a volte
accompagnate da merci date in pegno. Spesso il pegno era costituito da un
determinato numero di schiavi. Andarono inoltre creandosi, in Africa e in
America, meccanismi legali a garanzia del credito, ritenuti piú sicuri delle
cambiali.
Il passaggio dall’Africa all’America ha un flusso di schiavi diversificato
a seconda dell’area atlantica di incorporazione.
I Caraibi furono l’area di sbarco che meglio illustra questa diversità,
poiché vi fu qui una concorrenza tra britannici, olandesi, francesi, spagnoli
e danesi. Un’altra area importante fu il Brasile, mentre l’America
continentale britannica, la Guiana e il Rio de la Plata ebbero un ruolo
secondario dal punto di vista numerico, come si vede nella tabella 12.

Tabella 12.
Schiavi sbarcati nelle Americhe, 1651-1850.

Se osserviamo i Caraibi e il Brasile, le due aree dove sbarcò il maggior


numero di schiavi, notiamo che inizialmente, tra il 1651 e il 1675, il Brasile
ne ricevette 204 000, 8500 ogni anno, mentre l’insieme dei Caraibi ne
ricevette 160 600, ovvero 6991 ogni anno. La differenza aumenta se si
considera il fatto che lo sbarco degli schiavi in Brasile fu limitato a due
regioni, Pernambuco e Bahia, i principali esportatori mondiali di zucchero,
mentre l’assai piú vasta area dei Caraibi fu soltanto seconda nelle
esportazioni di «oro bianco». Mezzo secolo piú tardi, tra il 1701 e il 1725, il
Brasile triplicò il numero di schiavi importati, da 8500 a 25 462 all’anno,
mentre nei Caraibi l’importazione crebbe meno, da 6991 a 17 458,
nonostante nel frattempo i Caraibi fossero diventati i principali esportatori
di zucchero.
Alla fine del XVIII secolo il Brasile continuava a importare lo stesso
numero di schiavi del primo quarto del secolo, 25 920 all’anno, mentre i
Caraibi raddoppiarono l’importazione, che passò da 17 458 a 43 479
all’anno, confermando l’egemonia dello zucchero dei Caraibi inglesi. Va
aggiunto che se il Brasile riuscí ad avere la stessa importazione di schiavi
annua del periodo 1701-725, ciò dipese in parte dalla ripresa delle
esportazioni di zucchero, ma anche dal fatto di essere diventato il principale
fornitore di oro delle Americhe.
Nella prima metà del XIX secolo notiamo un declino delle importazioni
di schiavi nei Caraibi, con l’eccezione dell’area spagnola, che tra il 1826 e
il 1850 importò invece 13 750 schiavi all’anno.
L’incremento degli sbarchi di schiavi a Cuba può essere osservato nella
figura 5, che illustra la diminuzione delle esportazioni di zucchero dalle
Indie occidentali inglesi, il ristagno generale delle esportazioni britanniche
e l’ascesa di quelle cubane. In questo periodo Cuba divenne infatti il
principale esportatore di zucchero delle Americhe. Prima del 1800 erano
stati invece i Caraibi britannici a conoscere una rapida espansione delle
esportazioni di zucchero, e gli sbarchi di schiavi erano infatti aumentati
dagli 8191 del periodo 1676-1700 ai 24 166 del periodo 1751-75.
Figura 5.
Distribuzione delle esportazioni di zucchero, 1815-50 (medie quinquennali).
Fonte: Eltis 1987, p. 6.

Nei Caraibi britannici, come anche nell’America continentale britannica,


la manodopera degli schiavi bianchi era inizialmente piú importante di
quella africana: tra il 1651 e il 1660 ne arrivarono 6805, che si ridussero a
826 nel periodo compreso tra il 1691 e il 1699. L’incremento degli sbarchi
di schiavi africani coincise quindi con la fine della schiavitú bianca
(Beckles 1985; Wareing 2017).
Nel corso del XVIII secolo una simile espansione della schiavitú africana
avvenne anche nei Caraibi francesi. Qui, tra il 1701 e il 1725 e tra il 1776 e
il 1800, gli sbarchi quasi quintuplicarono, passando da 3333 schiavi
all’anno a 16 037. Fu ancora una volta lo zucchero a scatenare l’ascesa
dell’arrivo degli schiavi africani.
Un’evoluzione diversa si registrò invece nell’America continentale
britannica, dove sino al 1651-75 gli schiavi sbarcati furono 3637 all’anno.
Nel periodo 1751-75, quando il numero di schiavi africani sbarcati
annualmente era di 8743, l’incremento della popolazione bianca libera fu
annualmente di 4200 individui. Fu soltanto dopo il 1800 che
l’immigrazione bianca superò quella degli schiavi africani (Wareing 2017;
HSUS 2006). Tra il 1650 e il 1850 le navi coloniali britanniche
trasportarono un totale di 280 000 schiavi, che rappresentano il 2,8 per
cento dell’intera tratta (Eltis 2001). Le aree britanniche, sia continentali sia
caraibiche, disponevano di arsenali che costruivano le navi negriere. Anche
il Brasile possedeva i propri arsenali, a Bahia e a Rio de Janeiro, dove si
costruivano le navi negriere appartenenti ai commercianti brasiliani.
Le rotte della tratta verso il Brasile (cartina 12) partivano dalla Guinea,
dal Benin e dall’Angola. La prima sbarcava gli schiavi sulla costa
settentrionale, a Belém e São Luís, ed era probabilmente gestita da olandesi
e inglesi. Si trattava tuttavia di un flusso modesto, che tra il 1650 e il 1750
non superò i 250-300 schiavi all’anno. Nel corso della seconda metà del
XVIII secolo e sino al 1825 il numero di schiavi trasportati aumentò da 2300
a 5900 all’anno. La seconda rotta, proveniente dal Benin, era decisamente
piú consistente: collegava l’Africa occidentale con Bahia, dove fra il 1651 e
il 1675 sbarcarono 3796 schiavi all’anno; fra il 1701 e il 1725, 7400; tra il
1726 e il 1750, 9240; tra il 1776 e il 1800, 8960; e tra il 1801 e il 1825, 10
240. Si tratta dell’area dove la produzione dello zucchero aveva
maggiormente patito la concorrenza dei Caraibi britannici, e che riacquistò
poi importanza nel corso del XVIII secolo, quando prese il sopravvento
l’esportazione di tabacco e acquavite.
Anche il Nordest brasiliano ricevette schiavi provenienti dall’Angola, e
lo stesso avvenne per Rio de Janeiro e Santos, nella regione di San Paolo.
Molto probabilmente lungo la rotta proveniente dall’Angola erano
trasportati anche gli schiavi destinati alla nuova area mineraria di Minas
Gerais e Goiás, la cui produzione di oro sostituí definitivamente quella
africana, diventando la principale fornitrice del commercio atlantico.
All’inizio del XIX secolo, nel Sudest del Brasile fu avviata la produzione di
caffè e lo sbarco annuale degli schiavi ebbe un incremento: dai 2880 nel
periodo 1676-1700, si passò ai 6400 del 1725-50 e ai 10 800 del 1776-1800,
per raggiungere infine i 31 040 nel periodo compreso fra il 1826 e il 1850.
Cartina 12.
Il flusso degli schiavi dall’Africa occidentale verso il Brasile.
Fonte: Curto e Lovejoy (a cura di) 2004.

È importante sottolineare che il circuito brasiliano, dominato


inizialmente dalla tratta portoghese, passò successivamente sotto il
controllo degli armatori di Bahia e Rio de Janeiro, che disponevano di
un’infrastruttura mercantile e di arsenali in cui erano presenti brasiliani e
inglesi. Tra il 1650 e il 1850 l’intero circuito brasiliano fece sbarcare 4,2
milioni di schiavi, pari al 41,8 per cento dell’intero traffico negriero verso le
Americhe.
È probabile che la rotta negriera del Rio de la Plata fosse controllata
principalmente da inglesi, che disponevano a Buenos Aires di una fattoria
commerciale e negriera. Da quanto è possibile osservare nella tabella 12, il
Rio de la Plata alternò periodi di espansione e di riflusso nello sbarco degli
schiavi. Nel periodo compreso tra il 1701 e il 1725 vi fu uno sbarco annuo
di 680 schiavi, tra il 1801 e il 1825 furono 880, mentre tra il 1826 e il 1850
furono 158.

Cartina 13.
La redistribuzione di schiavi africani della South Sea Company.
Fonte: O’ Malley 2014.
Nelle isole dei Caraibi olandesi, amministrate dalla Compagnia delle
Indie occidentali, lo sbarco di schiavi decrebbe nella seconda metà del XVIII
secolo. Possiamo spiegare questa diminuzione con l’assenza di piantagioni,
ma soprattutto con il fatto che una gran parte degli schiavi sbarcati dagli
olandesi erano rivenduti in altre aree delle Antille, mentre una parte ridotta
veniva impiegata nelle saline e nei servizi degli insediamenti commerciali
olandesi. A differenza delle Antille olandesi, quelle danesi svilupparono
invece piantagioni di zucchero e acquistarono schiavi dai commercianti
brandeburghesi: tra il 1733 e il 1800 la popolazione schiava aumentò qui da
1087 a 35 000 individui (Tomich 2004). Anche nella Guiana olandese, dove
erano presenti piantagioni gestite dalla Compagnia delle Indie occidentali,
aumentarono gli sbarchi di schiavi, che rimasero invece molto limitati nella
Guiana inglese e francese (Eltis 1987).
Osservando la differenza tra il prezzo medio di uno schiavo in Africa e
in America si può desumere il rapporto fra il costo del trasporto e
l’eventuale profitto mercantile. Nel periodo 1681-98 il prezzo medio di uno
schiavo in Africa era di 3,45 sterline, mentre nelle Barbados, uno dei punti
di sbarco piú vicini all’Africa, il suo prezzo era di 15,90 sterline, ossia di
4,6 volte superiore. A Cuba, tra il 1815 e il 1820 e tra il 1861 e il 1870, la
differenza di prezzo in dollari americani era di 3,25 volte superiore; a Bahia
di 2,23 volte e nel Brasile meridionale di 1,83 volte. Si può dunque
ipotizzare che tra gli ultimi decenni del XVII secolo e la prima metà del XIX
sia avvenuta una riduzione del rapporto tra il prezzo degli schiavi in Africa
e in America, ma è possibile che questo miglioramento si sia tradotto in un
incremento dei profitti dei commercianti.
La cartina 13 rappresenta schematicamente la redistribuzione degli
schiavi verso le aree dei Caraibi spagnoli e verso l’area continentale
britannica. La tabella 12, infatti, non fa riferimento alla possibilità che gli
schiavi sbarcati in un determinato porto americano fossero a loro volta
trasportati in una regione diversa, tuttavia vi era un circuito intercoloniale
degli schiavi che coinvolse tutte le aree americane. Uno dei principali nodi
di redistribuzione degli schiavi fu la Giamaica, che ne inviava quantitativi
significativi e crescenti verso altre regioni. Tra il 1661 e il 1715 furono
inviati ad altre destinazioni 529 schiavi; tra il 1716 e il 1740, 217; e tra il
1741 e il 1808, 1373. Tra il 1751 e il 1808 dalle Barbados furono riesportati
verso altre regioni non inglesi 232 schiavi all’anno e 483 all’anno verso
l’America britannica continentale. Tra il 1701 e il 1765 la Virginia ricevette
dai Caraibi 1482 schiavi all’anno, la Carolina del Sud 167 e Chesapeake 78.
New York, la Pennsylvania, il New Jersey e la Nuova Inghilterra ricevettero
complessivamente dai Caraibi 138 schiavi all’anno (O’Malley 2014).

Tabella 13.
Partecipazione del commercio transatlantico di schiavi africani, 1650-1850.

La tabella 13 illustra il traffico negriero per nazionalità e precisa cosí


come gli interessi della tratta non fossero soltanto europei, ma anche
angloamericani e lusobrasiliani. Notiamo inoltre che per quanto riguarda
Francia e Spagna vi era una collaborazione con il Portogallo che non
escluse tuttavia la presenza di commercianti americani, britannici e
iberoamericani.
Il contributo della manodopera schiavile nei Caraibi, nell’America
continentale britannica e in Brasile è implicito nel calcolo del commercio
pro capite (tabella 14). Il loro contributo fu meno evidente in Brasile,
mentre appare chiaramente nei Caraibi, dove la manodopera delle
piantagioni era interamente schiava. Nell’America continentale britannica il
contributo della manodopera schiavile fu minore, mentre la partecipazione
dell’Africa occidentale fu comparativamente la piú ridotta. Sembra che le
economie maggiormente fondate sul lavoro degli schiavi siano quelle che
favorivano i piantatori, come avvenne nei Caraibi inglesi.

Tabella 14.
Commercio pro capite di alcune regioni del mondo atlantico, 1780-1860 (sterline)*.

È probabile che l’ascesa del commercio pro capite brasiliano nel XIX
secolo sia dipesa dalla nuova produzione di caffè, che sostituí la produzione
aurea che, dopo aver raggiunto nel 1726-30 le 15 tonnellate annue, conobbe
una fase di declino a partire dalla seconda metà del XVIII secolo (Noya
Pinto 1979).
La forma della distribuzione per età degli schiavi presenti in Giamaica è
quella tipica della piramide demografica preindustriale. La coorte piú
rappresentativa era quella tra gli 0 e i 4 anni, che garantiva un tasso di
crescita demografica positivo. Gli schiavi appena arrivati nelle piantagioni
presentavano invece una piramide distorta: il tasso di crescita demografica
degli schiavi arrivati in età lavorativa era negativo e diventava positivo solo
con la generazione successiva. Ritroviamo lo stesso schema nella provincia
di San Paolo, in Brasile, con la differenza che in Giamaica gli schiavi nati in
Africa costituivano il 17 per cento della popolazione schiava residente,
mentre a San Paolo nel 1829 gli schiavi nati in Africa rappresentavano il 57
per cento del totale della popolazione schiava residente.
Tabella 15.
Spesa brasiliana per l’acquisto degli schiavi (milioni di sterline).

Possiamo confrontare questi due casi con quello degli Stati Uniti nel
1850. Qui il flusso degli schiavi dall’Africa terminò nel 1808 e la
popolazione schiava era quindi essenzialmente creola, ossia
meticcia/mulatta: nel momento in cui la migrazione africana non influí piú
sulla piramide demografica, si assisté a una crescita naturale della
popolazione schiava.
Cartina 14.
Insediamenti di comunità libere in Guiana.
Fonte: A. O. Thompson 2006, p. 134.

Gli africani sbarcati nelle Americhe erano avviati al lavoro nelle


piantagioni, alla raccolta dell’oro alluvionale, ai servizi domestici, portuari
e alle manifatture. La giornata lavorativa era molto lunga, in cambio di
razioni alimentari ridotte, alloggi precari e vestiario scarso. Oltre alla
precarietà materiale, gli schiavi dovevano affrontare altre difficoltà: essi
arrivavano infatti in gruppi eterogeni per età, sesso ed etnia, e al momento
della vendita erano separati dalle loro famiglie; la vendita rappresentava
l’apice del disorientamento vissuto dagli schiavi, reso poi ulteriormente
traumatico dalle violenze dei loro padroni. L’adattamento al duro lavoro,
alle precarie condizioni sanitarie e materiali e alla nuova lingua durava tra
uno e due anni, durante i quali essi perdevano una gran parte del loro
retroterra culturale.
Soltanto alcuni gruppi di schiavi di una stessa etnia riuscivano a
riorganizzare la propria vita secondo i loro valori tradizionali. Tra questi
rari casi figura un gruppo di schiavi di etnia fon, del Dahomey, che nel 1830
sbarcarono dalla stessa nave a São Luís de Maranhão, una cittadina dove
viveva già un considerevole numero di africani fon, riuscendo cosí a
preservare le proprie radici religiose e culturali (Da Costa e Silva 2004). Per
far fronte alla dispersione della cultura tradizionale, sorsero in America
confraternite religiose organizzate dalle diverse nazioni africane. All’Avana
le etnie mandingo, carabalí, lucumí, arara e congo eleggevano i propri re e
regine, organizzavano processioni pubbliche e indossavano i costumi
tradizionali africani in occasione delle feste. Con il passare del tempo si
sviluppò un sincretismo religioso, risultato dell’incontro tra le religioni
africane e quelle cristiane. Queste nuove forme organizzative africane erano
già presenti nel XVI secolo e i riti afroamericani sono tuttora vivi in molte
parti delle Americhe, come dimostra la diffusione del candomblé, del vudú
e della santeria (Bastide 1970).
Sebbene il lavoro occupasse la maggior parte del tempo degli schiavi, e
nonostante fossero sottoposti a una rigida sorveglianza, un buon numero di
loro riusciva a disporre di un relativo controllo sul proprio tempo. Nelle
piantagioni infatti il lavoro impegnava la metà degli schiavi, mentre un
terzo era destinato a mansioni specializzate che non si svolgevano sotto il
controllo dei bianchi o dei capisquadra. Molte famiglie di schiavi potevano
essere impegnate in occupazioni sorvegliate, ma altre lavoravano la terra
per conto proprio. Anche artigiani e mulattieri potevano a volte sottrarsi al
controllo dei bianchi.
Cartina 15.
Insediamenti di comunità libere in Pernambuco.
Fonte: ibid., p. 177.

Infine, bisogna tenere presente che nei casi in cui la coercizione da parte
dei proprietari era giudicata eccessiva e insopportabile gli schiavi fuggivano
e si organizzavano in comunità o villaggi liberi. Ai proprietari non
conveniva dunque superare una certa soglia di violenza, rischiando cosí di
compromettere il funzionamento della società e delle istituzioni che
garantivano i loro privilegi di classe (R. Price 1973). Nel quattro secoli in
cui perdurò il regime schiavista le fughe furono comunque frequenti. Nei
Caraibi, gli individui o i piccoli gruppi che abbandonavano le piantagioni
potevano cercare rifugio tra le popolazioni amerindie, oppure fuggire in
un’altra isola e trovare qui la protezione di altre autorità coloniali (Mouser
2007). Come abbiamo visto, vi erano in tutte le regioni americane
numerosissime comunità di schiavi fuggiaschi, variamente denominate
(cimarrones, palenques, quilombos, mocambos, cumbes e mambises) e
presenti nei Caraibi spagnoli fin dal XVI secolo. Alcune furono semplici
bande che ebbero vita breve, altre furono invece organizzazioni di migliaia
di persone e sopravvissero per generazioni nei secoli successivi (Landers
2000).
In Virginia, Tennessee, Georgia e Mississippi i liberti erano tenuti a
registrarsi nelle diverse contee. In Brasile invece, molti liberti neri e mulatti
si arruolarono nelle milizie per avere uno status sociale superiore, mentre
alcuni diventarono veri e propri leader delle loro comunità, come Manuel
José Alves da Costa nei primi anni del XIX secolo (A. O. Thompson 2006).
Va inoltre tenuto presente che le autorità coloniali contemplavano due
forme di fuga: l’abbandono a breve termine, della durata di alcuni giorni, e
quello a lungo termine, in cui lo schiavo si rendeva irreperibile. Tuttavia
questa distinzione non impedí la costante caccia ai fuggitivi da parte delle
milizie comandate da piantatori, commercianti e proprietari.

In genere le comunità libere non si organizzarono sulla base di criteri


etnici, di colore o di classe. Molte comunità comprendevano infatti schiavi
e amerindi, e in Giamaica alcune furono bietniche, risultato dell’alleanza di
fuggitivi akan e malgasci. In alcuni casi le comunità libere inclusero anche
alcuni europei: nel 1817 vi erano due inglesi fuggiaschi in una comunità di
seminole nell’America britannica; in quelle del Suriname e della Guiana
olandese vi erano spesso soldati bianchi. Piú rare furono le comunità
organizzate su base etnica, come quella akan e quella angolese nell’area di
Cartagena (Colombia) alla fine del XVII secolo.
L’immagine corrente di queste comunità le situa in aree difficilmente
accessibili, come le paludi dell’America britannica meridionale oppure la
giungla della Guiana. Di fatto, esse impararono rapidamente a trasformare
le aree dove si nascondevano e molte costruirono villaggi palizzati con
trappole per proteggersi. Per difendersi dalle minacce esterne le comunità
libere svilupparono tecniche di guerriglia, sopperendo alla scarsità di armi
da fuoco con la conoscenza del territorio. Furono elaborate modalità di
difesa per affrontare le truppe coloniali che adottavano le tattiche di guerra
usate in Europa. Le comunità libere offrirono di volta in volta risposte
innovative alle sfide che si trovarono ad affrontare. Nella foresta i sistemi di
difesa prevedevano palizzate, fossati, trappole e pali, in modo da rendere
difficoltose le spedizioni militari. La comunità con cui si scontrarono gli
olandesi in Brasile nel 1645, nella regione di Palmares, aveva ad esempio
un’entrata a ovest munita di due ponti, ognuno dei quali provvisto di una
fila di pali; superati i ponti, gli invasori trovarono un fossato circondato di
altri pali appuntiti; a est vi era una fortificazione simile, a nord una palude e
a sud un’altra palizzata fatta di tronchi incrociati; il centro del villaggio,
infine, era protetto da un ponte levatoio (A. O. Thompson 2006).
Le comunità libere, inoltre, non furono mai isolate. Comunicavano
frequentemente le une con le altre: condivisero informazioni e
parteciparono insieme alle spedizioni organizzate per ottenere bestiame,
alimenti e altri prodotti. I loro livelli di adattamento economico furono
notevoli, e vivendo sotto la costante minaccia di attacco svilupparono
tecniche innovative che consentissero loro di procurarsi beni per la
sussistenza e il commercio. La costruzione di orti fu una delle loro prime
realizzazioni; praticarono inoltre la caccia e la pesca servendosi di tecniche
di origine amerindia, mentre nella coltivazione applicarono probabilmente
le modalità produttive apprese nelle piantagioni.
Gli schiavi liberi, per mezzo di azioni di guerriglia, penetrarono nelle
piantagioni, non solo per appropriarsi di merci ma anche per concludere
scambi clandestini con i piantatori, soprattutto per quanto riguardava i beni
di sussistenza essenziali. Spesso gli schiavi liberi strinsero inoltre alleanze
di convenienza con i pirati, tanto che molti fuggiaschi finirono per
imbarcarsi con essi.
Il banditismo fu in queste comunità un’attività puramente sussidiaria
poiché, come si è visto, furono nell’insieme economicamente indipendenti.
In Colombia, Brasile e a Hispaniola, oltre all’agricoltura, alla pesca e alla
caccia esse si dedicarono inoltre alla raccolta di oro alluvionale e smeraldi.
Alla fine del XVII secolo, a Cartagena, 300 schiavi fuggiaschi si
impossessarono di miniere d’oro, espellendo i proprietari bianchi. In Brasile
lavorarono nelle miniere della provincia di Maranhão e altrettanto fecero a
Cuba e a Hispaniola, per poi scambiare l’oro con merci europee. In
America centrale si dedicarono inoltre al contrabbando. L’ordine sociale
delle comunità libere era di carattere gerarchico. L’elezione dei governanti
era riservata ai capifamiglia che facevano parte della comunità da alcuni
anni e che avevano dato prova di lealtà prendendo parte a diverse
incombenze (Belmonte Postigo 2007).
Si è già accennato al fatto che le comunità libere mantennero rapporti
formali e informali con la società coloniale. Il passaggio dallo scontro
armato al dialogo portò alla sottoscrizione di trattati tra le comunità e i
proprietari di schiavi. Questi trattati furono la conseguenza del fallimento
dei governi coloniali nella lotta contro le comunità libere, come avvenne ad
esempio in Dominica fra il 1785 e il 1786, dove pure per contrastare il
fenomeno erano state spese ben 50 000 sterline, ottenute attraverso un
prelievo imposto a commercianti e piantatori. Lo stesso avvenne in
Pernambuco nel 1677 e in Giamaica nel 1803.
Si arrivava ai trattati con l’aiuto di mediatori, preti nelle aree spagnole e
francesi o militari delle potenze coloniali. Alla fine del XVII secolo, tuttavia,
in Giamaica le comunità libere spesso rifiutarono gli accordi negoziati dalle
loro stesse autorità e nell’area di Palmares fu lo stesso nipote del capo a
farsi portavoce dei membri della comunità che non accettavano il trattato.
Vi sono alcuni esempi di come trattati e negoziazioni avessero permesso di
stringere nuovi rapporti tra le comunità libere e le società coloniali, ma in
altri casi è invece evidente una certa difficoltà nello stabilire accordi
permanenti (Klein e Vinson 2013).
Cartina 16.
Il commercio atlantico nel XVIII secolo.
Fonte: Hopkins 1973, p. 100.

5. Agenti delle connessioni atlantiche: le reti mercantili.

Per comprendere la portata delle connessioni stabilitesi durante il


consolidamento del mondo atlantico conviene osservare la carta geografica
del commercio atlantico (cartina 16), che ci consente di osservare
l’associazione delle rotte della tratta degli schiavi con quelle dello zucchero,
dei metalli preziosi, del tabacco e del cotone provenienti dalle Americhe,
con quelle dell’oro, dell’avorio e di legname pregiato provenienti
dall’Africa, e infine con quelle delle manifatture europee. Si è infatti parlato
di una vera e propria rivoluzione commerciale del XVIII secolo, il cui asse
dinamico fu il mondo atlantico.
La carta non mostra tuttavia l’esistenza di altri circuiti, di natura illecita,
che accanto a quelli principali collegarono le aree americane. Nei Caraibi
infatti il contrabbando favorí rapporti di scambio permanenti di argento,
oro, zucchero, caffè, legname pregiato e coloranti con schiavi e manufatti
europei. Persino i collegamenti con l’Africa furono in parte legati al
contrabbando di schiavi, ceduti in cambio di tabacco, acquavite e
probabilmente anche oro e argento. Nel corso del XVIII secolo e durante la
prima metà del secolo successivo questo tipo di scambi si moltiplicò e il
loro volume d’affari crebbe notevolmente, incidendo sulle trasformazioni
che avvennero in quel periodo.
Se teniamo conto di quanto si è detto a proposito della durata dei viaggi
atlantici, della loro pericolosità e della progressiva riduzione delle distanze,
si può considerare l’aumento degli scambi come il segno di un superamento
delle difficoltà presenti all’inizio del XVII secolo. Tra gli ostacoli superati
figura l’abbandono del baratto in favore dello scambio monetario ma,
soprattutto, del baratto differenziato. Per baratto differenziato si intende
l’espressione del prezzo delle merci in moneta di conto (lira, lira tornese,
sterlina). Alla chiusura annuale o pluriannuale dei conti, il saldo positivo
del commerciante era espresso in valore monetario, ma pagato al produttore
in beni; se il saldo era positivo per il produttore, invece, il commerciante
pagava in monete coniate d’oro o d’argento. Le compravendite in contanti
rappresentavano una percentuale ridotta degli scambi nel mondo atlantico.
I rischi legati allo scambio erano inoltre spartiti tra diversi mercanti,
ricorrendo a un’assicurazione sottoscritta con la corporazione locale di
appartenenza. Oltre ai rischi dello scambio, i mercanti dovevano poter
garantire la sicurezza personale loro e dei loro agenti, ed evitare le
confische e i soprusi dei governi locali e dei grandi proprietari. Per questo si
fece ricorso a diverse soluzioni, creando reti grazie alle quali poterono
entrare in società tanto con commercianti della propria piazza quanto con
altri di nazionalità diverse residenti nelle regioni con cui commerciavano.
Un esempio è la rete organizzata tra il 1782 e il 1783 per lo scambio di 250
schiavi, acquistati a Rio de Janeiro per essere venduti a Buenos Aires.
La figura 6 rappresenta i vincoli tra le persone, desunti dalla loro
corrispondenza epistolare. Al centro della rete troviamo dunque il
commerciante Belgrano, di origine genovese, a cui erano legati Molina e i
fratelli Peña, dislocati tra Buenos Aires, Mendoza, Montevideo e Rio de
Janeiro. La figura 7 mostra l’enorme quantità di attori coinvolti in questa
stessa rete, che a partire da Cadice e Madrid si estendeva a comprendere
anche mercanti residenti a Santiago del Cile, Potosí, Lima e addirittura
Santo Domingo de Soriano. La rete commerciale si fondava dunque su una
serie di vincoli interpersonali sviluppati dai mercanti tra le due parti
dell’Atlantico. Si trattava di vere e proprie reti sociali all’interno delle quali
i commercianti non esitavano a stabilire rapporti anche con i funzionari
coloniali e metropolitani.
Figura 6.
Rete della principale associazione per l’importazione di schiavi dal Brasile, 1782-83. I numeri
rappresentano il numero di comunicazioni con i commercianti.
Fonte: Moutoukias 2016, p. 12.

Figura 7.
Rete mercantile euroamericana dell’importazione di schiavi, 1782-83.
Fonte: ibid., p. 14.

Oltre che per far fronte ai rischi delle imprese commerciali, le reti si
svilupparono anche per la necessità di incrementare il capitale. Le navi che
solcavano l’Atlantico erano infatti le piú complesse e costose macchine
dell’epoca preindustriale e il costo del trasporto di lunga distanza era alto.
Già prima dell’apertura delle rotte atlantiche, il proprietario di una nave
utilizzata per una decina di anni faceva ricorso a un’assicurazione marittima
che garantiva la rivendita dell’imbarcazione prima della comparsa dei segni
dei tarli. L’assicurazione copriva il commerciante anche nel caso in cui i
suoi dipendenti ignorassero le istruzioni acquistando merci che egli
giudicava invendibili. La perdita di una nave e del suo carico poteva
condurre alla rovina un singolo mercante e il rischio era dunque ridotto
incoraggiando la partecipazione di altri commercianti all’impresa.
Con lo sviluppo delle reti mercantili furono superati i preesistenti
strumenti di tutela rappresentati dalle corporazioni di commercianti, che
avevano un raggio d’azione ridotto. A differenza di queste ultime, inoltre, le
reti commerciali erano associazioni informali, poiché ciascun commerciante
conservava la propria autonomia e, soprattutto, poteva suddividere il
proprio capitale in diverse imprese (Grafe 2014 e 2015). L’unica formalità
richiesta dalla rete commerciale era la delega ad altri commercianti: uno
strumento notarile che offriva la partecipazione a una compagnia
mercantile, impegnando il delegante e il delegato a rendere conto, alla fine
della durata dell’accordo, del proprio operato. Grazie alla delega, i
commercianti accettavano di utilizzare strumenti di credito, come le
cambiali e i pegni, per i vincoli di fiducia che venivano a crearsi. Infine, a
partire dal XVIII secolo, le informazioni mercantili riguardanti i prezzi, la
legislazione in vigore, i costi delle assicurazioni e i tassi di cambio delle
monete divennero piú accessibili, rafforzando la fiducia preesistente
(Marzagalli 2007).
Tra il 1600 e il 1850 le reti commerciali furono progressivamente in
grado di collegare tutti gli spazi atlantici, stabilendo legami fra persone di
lingua, religione e nazionalità diverse, e contribuendo cosí a creare nuovi
circuiti sociali (figura 8). Riprendendo ed elaborando ulteriormente le
considerazioni di Simmel (1904) e Granovetter (1973), possiamo
concludere che le reti mercantili alterarono profondamente l’organizzazione
sociale concentrica sviluppata nel Medioevo, dando inizio cosí alla crisi
della società gerarchica. A questo passaggio dal circolo sociale concentrico
alla rete sociale contribuí non solo lo sviluppo dell’economia mercantile ma
anche la crescente individualizzazione degli attori sociali. Le nuove reti
sociali permisero infatti di creare molteplici intersezioni, che offrirono agli
individui una maggiore libertà di azione sociale ed economica. Grazie alle
reti sociali e commerciali il mondo atlantico riuscí a espandersi, anche se il
mercato cosí come lo conosciamo oggi non era ancora completamente
sviluppato.
Figura 8.
Forme storiche dei circuiti sociali.
Fonte: Carmagnani 2014, p. 35.

Vi sono numerosi esempi che testimoniano dell’azione antimonopolistica


svolta dalle compagnie commerciali. Nel XV secolo le attività congiunte dei
commercianti portoghesi e olandesi si opposero al monopolio regio del
Portogallo e a quello della Compagnia olandese delle Indie occidentali. In
Africa occidentale, invece, erano in attività i lançados, battitori liberi
portoghesi che lavoravano per le monarchie locali come interpreti,
mediatori e mercenari (Antunes 2012). Risale al 1602 la testimonianza di
un commerciante olandese attivo sulla costa occidentale dell’Africa, che
descrive la concorrenza tra gli agenti delle compagnie commerciali, che
strinsero accordi economici con i regni africani offrendo in regalo tessuti,
oggetti in ferro e rame.
A partire dalla metà del XVII secolo si nota la presenza di vincoli forti tra
i mercanti brasiliani e angolani, che segnano l’inizio di un complesso giro
di interessi ancora in vigore nel secolo successivo. Nello stesso periodo si
svilupparono reti di connessioni tra i commercianti portoghesi e quelli di
Capo Verde e di São Tomé, i quali inviavano schiavi dalla Guinea a
Cartagena, per poi spedire verso Siviglia il ricavato in oro, argento e perle,
trasformando infine i guadagni in cambiali pagabili a Lisbona.
Anche il commercio olandese in Africa occidentale, compreso quello
degli schiavi, si sviluppò per mezzo di reti composte da commercianti,
capitani e contabili. Le merci trasportate dalle navi negriere portoghesi in
Africa erano assicurate ad Amsterdam, e molte navi negriere olandesi
battevano bandiera portoghese (Ribeiro da Silva 2011). Le reti olandesi
avevano preso piede in Brasile nel 1630, con l’occupazione di Bahia; il loro
insediamento era stato facilitato dalla presenza di commercianti portoghesi
ad Amsterdam, che erano diventati azionisti al momento della fondazione
della Compagnia delle Indie occidentali senza tuttavia abbandonare i propri
commerci brasiliani. Nel 1695, con l’occupazione dell’Angola, essi
consolidarono il commercio di schiavi verso il Brasile.
Il successo della Compagnia si fondava sui crediti concessi ai piantatori
brasiliani per l’acquisto di schiavi africani. Questi crediti furono poi estesi
anche ai piantatori dei Caraibi, che li rimborsavano con cambiali garantite
dalla produzione di zucchero (Antunes e Odigard 2015). Cosí, con l’avvio
della produzione di zucchero nelle Barbados nel 1637, la Compagnia
olandese delle Indie concesse crediti che permisero ai piantatori di
rinnovare le tecniche di produzione, estese piú tardi anche alle piantagioni
dei Caraibi francesi (Ebert 2008).
Il rafforzamento della produzione di zucchero delle Barbados dipese
anche dal costo minore degli schiavi, dalla maggiore rapidità con cui l’«oro
bianco» raggiungeva l’Europa e dal prezzo concorrenziale rispetto allo
zucchero brasiliano. Nel 1660 il prezzo dello zucchero in Brasile era infatti
di 70 sterline per tonnellata, mentre quello delle Barbados era di 35 sterline
(Flory e Grant 1978). La crisi dello zucchero di Bahia favorí lo sviluppo
delle piantagioni di tabacco della regione, che a sua voltà favorí il
commercio con l’Africa, dove questo prodotto era molto richiesto, tanto che
nel XVIII secolo sarebbe stato commerciato insieme all’oro (Verger 1964).
Gli scambi commerciali brasiliano-portoghesi con l’Africa occidentale si
espansero soprattutto a partire dal 1680 e perdurarono sino alla fine della
schiavitú in Brasile. Tabacco, acquavite e oro erano usati per pagare gli
schiavi africani. Nel 1759 erano presenti a Bahia 81 mercanti: tra questi, 18
commerciavano con il Costa d’Oro, 4 con l’Angola e 5 con entrambi i
paesi; 24 facevano parte di reti commerciali, 6 erano anche piantatori,
soltanto 4 erano definiti genericamente «commercianti» mentre non
sappiamo nulla degli altri 18 mercanti (Russell-Wood 1951).
Un esempio del funzionamento di una rete mercantile è fornito da un
contratto del 1649, sottoscritto da un ebreo portoghese residente ad
Amsterdam e dal delegato della compagnia di António Mendes, Pedro Dias
e associati, mercanti residenti a Rouen, il cui oggetto era il commercio con
il Calabar, nell’Africa occidentale. Questo e altri casi simili mettono in
evidenza come il reclutamento di agenti e commercianti ignorasse i confini
politici e geografici del mondo atlantico.
Il caso di Lucas van de Venne e Leonard de Beer illustra invece la
creazione di una rete commerciale con connessioni all’interno di vari
imperi. Van de Venne e de Beer reclutarono infatti come agenti Gonçalo da
Costa, portoghese residente a Luanda, Francisco Pereira, gioielliere
portoghese residente a Bahia, e Lambert Hustaert, mercante fiammingo
residente a Lisbona e titolare di una licenza di commercio per la raccolta di
legname tintorio (pao brasil). Capitano della nave era Bartolomé Rodrigues
Molina, sefardita portoghese residente ad Amsterdam.
Questa modalità era molto frequente nelle regioni atlantiche e possiamo
concludere che già verso la metà del XVII secolo portoghesi, olandesi,
fiamminghi e spagnoli avessero cominciato a stringere accordi di
collaborazione commerciale e finanziaria. La presenza olandese in Africa e
nelle Americhe è attestata anche nel XVIII secolo. Tra la fine del XVII e
l’inizio del XVIII secolo si svilupparono infatti reti commerciali nel
Chesapeake, regione produttrice di tabacco dove operavano commercianti
olandesi e inglesi le cui compagnie operavano anche nei Caraibi. Si trattò di
una collaborazione estremamente efficace, poiché riuscí ad aggirare la
restrittiva legislazione commerciale britannica, permettendo l’apertura del
credito olandese ai piantatori inglesi.
Nel Suriname olandese la collaborazione anglo-olandese diede vita a reti
commerciali che si estesero verso le Barbados e l’America britannica
continentale. Grazie ai crediti olandesi, nell’America inglese nel periodo
1656-60 sbarcarono 11 200 schiavi, quasi tutti trasportati da navi negriere
inglesi (Koot 2011). Questa collaborazione si intensificò particolarmente
nel XVIII secolo, grazie all’incremento dei crediti olandesi concessi nei
Caraibi e nell’America continentale britannica.
Nelle Isole Sottovento (Saint Christopher, Nevis, Monserrat e Antigua),
ad esempio, un documento del 1645 registra i debiti dei piantatori con i
commercianti olandesi: nel caso dei piantatori di zucchero ammontavano a
42 249 sterline; quelli dei piantatori di tabacco a 279 402 sterline; e quelli
dei piantatori di indaco a 550 sterline (Koot 2011). Il rapporto tra
commercianti olandesi e francesi permise inoltre di organizzare le
riesportazioni dai porti francesi verso l’Olanda, con navi olandesi, e lo
stesso avvenne nel commercio tra i fiamminghi e gli spagnoli.
Dopo il progressivo abbandono del Brasile, a partire dal 1675, la
presenza olandese nei Caraibi si rafforzò ulteriormente. L’isola di Curaçao
divenne uno dei centri di redistribuzione di merci e schiavi verso l’America
britannica e spagnola; complice la prossimità geografica, si consolidò
particolarmente il rapporto tra l’isola olandese e il Venezuela. Nel 1724,
195 società commerciali di Curaçao avevano piú di 300 corrispondenti ad
Amsterdam. Nel 1754 i principali prodotti spediti da Curaçao verso
Amsterdam e New York erano cacao, tabacco, cotone e legname pregiato.
Nell’isola olandese facevano scalo le navi negriere dirette verso il porto
venezuelano di La Guaira, provenienti dalle Barbados e dalla Giamaica. Dal
Venezuela queste tornavano verso Curaçao, le Barbados e la Giamaica,
portando con sé muli e cacao. Risulta infatti che nel 1749 arrivassero a
Curaçao navi provenienti da Bonaire, Portobelo, Sant’Eustachio, Giamaica,
New York, Carolina del Sud, Filadelfia, Pennsylvania, Virginia, Saint
Thomas, Martinica, Haiti, Guinea e Amsterdam (Arauz Monfante 1984).
A partire dal 1730 Curaçao era inoltre diventata il porto di transito dei
muli destinati alle piantagioni francesi dei Caraibi. Questo commercio si
espanse poi nel corso della seconda metà del XVIII secolo, tanto che al
momento della rivoluzione di Haiti risulta che vi fossero qui 50 000 muli
provenienti dal Venezuela. Il commercio dei muli contribuiva infatti a
pagare parte dell’acquisto venezuelano di schiavi, mentre nelle piantagioni
francesi questi animali erano pagati in zucchero.
L’isola olandese di Sant’Eustachio era invece il centro del commercio
dello zucchero prodotto nelle piantagioni inglesi e francesi dei Caraibi e
spedito ad Amsterdam. Da qui partivano anche carne e pesci salati e la
farina dell’America continentale britannica. Sant’Eustachio era inoltre un
centro di redistribuzione di beni europei (tessuti, cotoni prodotti in India,
cappelli) e di spezie asiatiche, e si configurava quindi come ponte
commerciale con i mercanti francesi e inglesi.
Gli attori commerciali delle isole olandesi erano collegati con
Amsterdam, Haarlem, Leida e Middelburg, ma anche con i porti dei Caraibi
e con quelli del Venezuela. Ad esempio, la ditta di Isaac Faesch, svizzero
residente a Curaçao, creò una rete commerciale di tessuti francesi e olandesi
nei Caraibi. Pierre Brion, nato a Liegi e cresciuto ad Amsterdam, raggiunse
invece Curaçao nel 1778 come agente della ditta Turri, ma assunse anche la
rappresentanza di altre quattro aziende di Amsterdam. Una volta a Curaçao,
Brion creò legami con i maggiori porti venezuelani (La Guaira, Maracaibo
e Cumaná) e colombiani (Rio Hacha e Cartagena), con Hispaniola e
Portorico. Oltre agli affari strettamente mercantili entrò inoltre in rapporto
con la banca Obwexer di Augusta, interessata al commercio tessile, e ne
divenne l’agente per l’acquisto di cacao, tabacco, zucchero, caffè, indaco e
cuoio (Klooster 2014).
Nel 1686 un terzo degli scambi delle piantagioni continentali era invece
controllato dai 61 commercianti piú influenti all’interno delle reti
angloamericane. Mentre nei Caraibi 22 mercanti inglesi controllavano il 38
per cento del traffico commerciale totale (pari a 111 992 sterline),
nell’America continentale britannica erano solo 19 i mercanti inglesi che
controllavano il 36 per cento delle importazioni nei Caraibi di prodotti
dell’America britannica (pari a 207 131 sterline). Invece a Londra 114
mercanti amministravano il 77,5 per cento del commercio proveniente dai
Caraibi (674 318 sterline), mentre 45 commercianti controllavano le
importazioni dall’America continentale britannica (207 131 sterline) (Koot
2011).
Nel corso del XVIII secolo è possibile notare una progressiva
concentrazione nelle mani di poche ditte mercantili del commercio inglese
con l’America. Questa concentrazione fu tuttavia ostacolata, nell’America
continentale britannica, dalla capacità delle reti mercantili nordamericane di
servirsi delle risorse locali. I commercianti della Nuova Inghilterra
svilupparono infatti un’efficacissima flotta mercantile impiegando marinai
del posto (Komball 2016).
A partire dal 1650, quando il commercio bilaterale si trasformò in un
commercio di grandi volumi di merci gestiti da molti operatori, venne a
crearsi uno squilibrio nei flussi commerciali. I commercianti della Nuova
Inghilterra, della Pennsylvania e di New York cominciarono dunque a
pagare le merci ricevute con la vendita di navi costruite nell’America
continentale britannica, riuscendo cosí a compensare il deficit del
commercio americano, che tra il 1768 e il 1772 era di circa 40 000 sterline
annue. I vincoli multilaterali permisero quindi di compensare gli squilibri
commerciali prima ancora che il commercio multilaterale si affermasse, nel
corso del XIX secolo, come modalità dominante. Tra il 1700 e il 1770 le reti
commerciali portarono i profitti inglesi a crescere da 661 000 a 1 314 000
sterline (Morgan 2000).
Come abbiamo visto, la moltiplicazione delle reti commerciali determinò
lo sviluppo del credito, che divenne il principale meccanismo
dell’espansione del commercio atlantico. Nell’ultimo terzo del XVII secolo,
l’apertura del credito olandese ai piantatori dei Caraibi segnò l’inizio dello
sviluppo del nuovo sistema di pagamento (Davies 1999). All’interno di
questo sviluppo ebbe un ruolo fondamentale la Royal African Company,
che nella vendita degli schiavi sostituí il credito allo scambio in zucchero o
argento spagnolo. Le produzioni dei piantatori furono dunque inviate in
pegno ai magazzini della Royal African Company per permettere loro di
emettere cambiali per pagare le merci necessarie provenienti
dall’Inghilterra e gli schiavi acquistati. Le cambiali divennero cosí lo
strumento finanziario essenziale per lo scambio di merci tra le aree
atlantiche.
Inizialmente olandese, e poi inglese, il credito prese piede anche nei
Caraibi spagnoli, anche qui come meccanismo di garanzia per il pagamento
degli schiavi. Nel 1680 la fattoria spagnola della tratta degli schiavi
cominciò ad acquistarli dalla Royal African Company per rivenderli poi nei
Caraibi spagnoli.
Il commercio degli schiavi nei Caraibi spagnoli si rinnovò
successivamente a partire dalla Giamaica. Tra il 1700 e il 1807 la capitale
dell’isola, Kingston, ricevette infatti 830 000 schiavi di cui 150 000 furono
rivenduti nei Caraibi spagnoli tra il 1758 e il 1808. Tenuto conto che nella
seconda metà del XVIII secolo il prezzo medio di uno schiavo era di 30
sterline, l’ammontare totale della tratta era di 25 milioni di sterline, 4,5
milioni dei quali rappresentavano il giro d’affari con i Caraibi spagnoli. Il
profitto della tratta degli schiavi di Kingston fu probabilmente di 200 000
sterline annue, di cui il 18 per cento proveniva dal commercio con i Caraibi
spagnoli.
Kingston fu quindi l’epicentro del commercio con i Caraibi spagnoli,
consistente non solo di schiavi ma anche di prodotti europei e americani.
Nel 1707 i commercianti della Giamaica spedirono in Inghilterra 275 000
sterline di beni e tesori dell’America spagnola e negli anni Trenta dello
stesso secolo dall’America spagnola entrarono ogni anno in Giamaica 250
000 sterline in beni e 500 000 sterline in metalli preziosi. Il boom
commerciale si registrò tuttavia dopo la fine della Rivoluzione americana,
tra il 1786 e il 1796, quando vennero venduti all’America spagnola schiavi
per un valore di 1 695 353 sterline. Non è un caso che alla fine del XVIII
secolo Kingston fosse la città piú ricca dell’America britannica (Burnard e
Garrigus 2016).
La durata delle transazioni nel mondo atlantico è stata stimata fra uno e
tre anni, nel corso dei quali si utilizzavano forme assicurative, meccanismi
finanziari e informazioni mercantili e di borsa. Questo dato spiega l’elevato
tasso del profitto mercantile coloniale, derivato dal commercio atlantico,
che le fonti dell’epoca stimano del 10 per cento, mentre i profitti
commerciali tra la Gran Bretagna e l’Olanda erano dell’1,5 per cento e del
2,3 per cento con Francia, Spagna e Portogallo. Le trasformazioni del
credito e dei tassi commerciali permettono di capire perché gli scambi
divennero mondiali.
Motore di questa trasformazione furono le reti commerciali. Alcune,
come la Baring, svilupparono il ruolo bancario e si occuparono anche delle
dispute di arbitrato, che favorirono il loro irradiamento all’interno della
società. Le reti dei quaccheri trassero forza dalla condotta dei loro membri e
dalla loro capacità di agire come enti informativi e regolativi. Anche le reti
ebraiche e armene ebbero grande successo, specialmente in settori
specializzati. Nelle Barbados, in Giamaica e a Londra vi erano numerosi
mercanti ebrei, e delle ventidue figure principali del commercio tra Londra
e i Caraibi inglesi, sette erano commercianti ebrei. Molti ebrei sefarditi
furono figure chiave nel commercio con l’America iberica e con i Caraibi
inglesi (Zahedied 1999).
Le informazioni riguardanti il profitto commerciale sono invece scarse.
Le poche a nostra disposizione ci presentano i profitti di singoli viaggi nel
XVIII secolo, ma non conosciamo il costo di ritorno delle navi. Se
prendiamo ad esempio le trentatre iniziative commerciali della ditta di
William Daveport, che comprendevano l’acquisto di beni in Inghilterra per
rivenderli e acquistare schiavi da rivendere a loro volta in America, notiamo
che il valore medio delle iniziative era di 5575,8 sterline, con un profitto
medio del 22,8 per cento, ossia quasi il doppio del profitto del commercio
atlantico. L’esame delle iniziative individuali di navi negriere inglesi tra il
1770 e il 1803 mostra che il tasso di profitto era superiore all’8 per cento
(Inikori 1981).
Si veda la tabella 16: come tutte le altre stime fornite in questo saggio,
anche in questo caso si ipotizzano i profitti del commercio degli schiavi e la
loro importanza per la crescita economica britannica senza tuttavia
specificare se questi comprendano il commercio vincolato, l’acquisto e la
vendita degli schiavi. Solow fornisce una precisazione importante, poiché
abbiamo visto che le fonti dei profitti comprendono quelli diretti della
tratta, i guadagni ottenuti speculando sui beni dei viaggi triangolari euro-
afro-americani, i guadagni derivanti dal tasso di cambio tra sterlina, oncia
commerciale e monete coniate, i profitti derivanti dal credito e, infine,
quelli derivanti dalla durata dell’intera operazione commerciale. Invece per
Morgan (2000, p. 44, tabella 31) le stime piú accurate sono quelle dei
profitti della tratta: del 7,1 per cento tra il 1785 e il 1790, del 7,2 per cento
tra il 1791 e il 1800 e del 7,5 per cento per il periodo tra il 1801 e il 1807.
Tabella 16.
Profitto del commercio degli schiavi in milioni di sterline, percentuale del reddito nazionale
britannico, percentuale investimenti totali e percentuale investimenti commerciali e industriali, 1688-
1770.

Tra il 1650 e il 1850 si assiste dunque alla fase di maturazione del


mondo atlantico e alla sua definitiva integrazione nell’economia mondiale.
All’origine di questo processo vi fu l’aumento del numero di schiavi
comprati dall’Africa e rivenduti all’interno delle aree americane, che a sua
volta determinò una nuova molteplicità delle connessioni commerciali.
Impulso iniziale delle connessioni atlantiche, la tratta degli schiavi fu
favorita dalle innovazioni tecnologiche e scientifiche: maggiore capacità di
trasporto delle navi, costruzioni dei moli d’imbarco e di sbarco,
miglioramento delle conoscenze astronomiche. L’interazione tra il flusso
degli schiavi, le innovazioni tecnologiche e le maggiori applicazioni
scientifiche alla navigazione si tradusse nel coinvolgimento di un maggior
numero di attori all’interno delle reti commerciali, tra cui i commercianti, i
loro agenti e i loro corrispondenti.
L’espansione delle reti commerciali ebbe ripercussioni sulle tecniche
impiegate nel trasferimento di uomini, merci e metalli preziosi,
determinando nuove capacità che finirono per distruggere i vecchi
monopoli e generare la crisi delle compagnie privilegiate europee. Il
crescente numero di attori nei traffici atlantici fu inoltre all’origine
dell’espansione di nuovi meccanismi di pagamento (cambiali, assicurazioni
e pegni in America, e l’oncia commerciale in Africa) e incise sulla
circolazione monetaria.
La concatenazione fra la tratta degli schiavi e la lateralizzazione degli
scambi creò tuttavia notevoli resistenze, soprattutto nelle aree africane e
americane. Come in tutti i processi storici, queste trasformazioni
avvantaggiarono alcuni attori e ne danneggiarono altri. Nel mondo atlantico
è evidente che i costi maggiori furono pagati dalle popolazioni africane e
creole americane, mentre nelle Americhe gli attori privilegiati furono i
proprietari e in Europa i commercianti inglesi, olandesi e francesi.
Capitolo quarto
Piantagioni. L’originalità dell’Atlantico

Il contributo piú significativo della storia atlantica è senza dubbio


l’organizzazione delle piantagioni. In questo capitolo ne illustrerò il
modello storico, mostrando come gli sforzi per ridurre i costi di produzione
e di commercializzazione siano all’origine di una nuova economia di scala.
Descriverò la loro nascita in Brasile e nelle Barbados, la loro diffusione nei
Caraibi e la loro espansione nelle regioni dell’America britannica
continentale. I diversi paragrafi del capitolo ne preciseranno
l’organizzazione produttiva e analizzeranno le forme di
commercializzazione delle merci destinate al consumo europeo. Verranno
inoltre descritti i diversi modelli delle piantagioni esistenti tra il 1590 e il
1850, con le relative modalità di organizzazione del lavoro, e si farà
riferimento all’articolazione tra le piantagioni e le reti mercantili e
finanziarie.

1. Nascita della piantagione: dal Brasile alle Barbados.

Nei capitoli precedenti ho mostrato come il dinamismo del mondo


atlantico trovasse le sue origini nelle connessioni intercontinentali fondate
sullo scambio di beni e servizi e sulla circolazione della manodopera
schiavile e servile grazie allo sviluppo della navigazione e delle reti
mercantili. Abbiamo visto che i principali beni esportati dall’Africa erano
l’oro e gli schiavi; che quelli importati erano principalmente europei (ma
anche asiatici e americani) e che alle Americhe arrivavano beni europei e
schiavi. È chiaro quindi che il mondo americano utilizzava i manufatti
europei e gli schiavi come input per la produzione di beni da esportare tanto
verso l’Europa quanto verso l’Africa. Ovviamente, questi input furono
utilizzati dall’America atlantica nella produzione di beni per il consumo
europei: zucchero, caffè, indaco, legname pregiato; oltre che per la
costruzione delle navi utilizzate per il commercio transatlantico.
Per questo, l’America atlantica dovette essere in grado di creare un
sistema produttivo che oltre agli input importati tenesse conto anche delle
risorse locali, e attraverso questa inedita integrazione fu possibile creare
beni e servizi a un costo ridotto, mettendo in atto un’economia di scala che
ridusse i costi di produzione e di transazione.
Per capire il funzionamento dell’economia di scala conviene iniziare con
l’esame dell’interazione tra gli input produttivi (lavoro, risorse naturali,
merci) e la riproduzione, ossia la circolazione di nuove merci, che include il
costo del trasporto e il tasso di profitto del produttore e del commerciante.
Per leggere la tabella 17 bisogna ricordare che tra il 1650 e il 1799 i
prezzi agricoli interni diminuirono del 2,5 per cento in Inghilterra, dello 0,9
per cento in Olanda e dello 0,1 per cento in Francia, mentre i nuovi prodotti
americani conobbero tra il XVII e il XVIII secolo una forte riduzione dei
prezzi e un notevole incremento delle importazioni. Vediamo ad esempio
che in Inghilterra la riduzione del prezzo dello zucchero (il principale bene
di consumo importato anche nel resto d’Europa) e del caffè determinò una
fortissima crescita delle loro importazioni.
Tabella 17.
Prezzi e importazione di zucchero e caffè in Olanda, Francia e Gran Bretagna, 1600-1850 (valori in
percentuale).

La tabella descrive quindi gli scarti diacronici dei prezzi e delle


importazioni nelle tre principali potenze atlantiche, che indicano due
orientamenti divergenti. Il primo elemento, di natura essenzialmente
economica, è la lentezza nella sostituzione dei consumi tradizionali con i
nuovi consumi atlantici. Il secondo, di natura socioculturale, riguarda gli
ostacoli alla libertà dei consumi presenti nei paesi europei. Questa libertà
dei consumi si consolidò infatti solo a partire dalla seconda metà del XVIII
secolo, a un secolo di distanza dall’inizio delle importazioni dei beni
atlantici. Si ha l’impressione che nella misura in cui si espanse la libertà di
commercio aumentò anche quella di consumo.
La tabella permette di precisare le dinamiche dell’impatto
dell’interazione tra gli input e la circolazione delle merci sul mondo
atlantico non europeo. Nel corso del XVIII secolo aumentò il prezzo degli
schiavi, ma questo non impedí che si riducesse il costo delle merci che
approdavano in Europa e modificavano il consumo tradizionale. Il prezzo
degli schiavi africani ristagnò infatti tra il 1640 e il 1730 (prezzo medio
22,8 sterline), per poi aumentare da 24 a 53 sterline tra il 1730 e il 1800. In
Brasile il prezzo degli schiavi diminuí, passando da 31 a 24 sterline tra il
1640 e il 1700, per poi aumentare da 24 a 29 sterline tra il 1700 e il 1750, e
da 28 a 35 sterline tra il 1750 e il 1830 (Miller 1986).
Per capire la contraddizione tra l’incremento del prezzo degli schiavi,
che costituivano il principale input produttivo delle piantagioni, e la
progressiva riduzione del costo dei beni del Nuovo Mondo bisogna
analizzare l’evoluzione del sistema delle piantagioni. Si deve dunque partire
dalla forte riduzione della popolazione originaria di tutte le aree americane:
uno spopolamento da cui derivò un’enorme offerta potenziale di risorse
naturali suscettibile di tradursi in donazioni di terra, in particolare
nell’America iberica del XVI secolo e nell’America inglese e francese a
partire dal XVII secolo.
Le donazioni di terre erano concessioni ispirate alle norme tardofeudali
dell’ancien régime europeo, per cui la proprietà terriera era l’elemento
fondamentale dell’organizzazione sociale ed economica. Sin dal Medioevo,
i contratti di donazione di terra obbligavano il donatario a stabilirsi nella
terra concessa, coltivandola e allevando bestiame, pena la decadenza della
concessione. Come stabilisce una norma di New York del 1665, gli
ordinamenti dell’America britannica prevedevano che se entro tre anni dalla
concessione il donatario non si fosse insediato nella proprietà e non l’avesse
recintata, avrebbe perso i suoi diritti (Hart 1996).
Tenendo presenti questi principî generali della donazione della terra,
possiamo osservare ciò che avvenne in Brasile, l’area dove comparvero le
prime piantagioni. Nel 1548, la prima norma riguardante le terre destinate
allo zucchero specificava che si dovevano distinguere le donazioni per la
canna da zucchero e quelle per il mulino dello zucchero. Le prime
dovevano essere attribuite ai lavradores, i coltivatori della canna da
zucchero, e le seconde ai signori di engenhos, i proprietari del mulino che
macinava e trasformava la canna in melassa e zucchero. Ogni donazione
prevedeva che ci fosse la manodopera necessaria (Ferlini 2003).
La distinzione tra il produttore di canna da zucchero e il proprietario del
mulino risaliva al XVI secolo e perdurò sino al XVIII . Progressivamente si
costituí un’élite coloniale, composta dai signori di engenhos, ma anche da
molti lavradores. Nel 1662 tra i firmatari di una petizione figuravano alcuni
lavradores, come il sindaco di Bahia e altri ricchi possidenti, che non erano
signori di engenhos. All’inizio del XVII secolo le donazioni di terra
cominciarono a essere concesse anche a coloni con poche risorse. Fu
introdotta inoltre la distinzione fra lavradores liberi e vincolati. I lavradores
vincolati avevano ricevuto crediti o terre in affitto da un signore di engenho
ed erano quindi obbligati a macinare il raccolto presso il suo mulino. In un
trattato scritto alla fine del XVII secolo dal frate di Lucca Andrea Giovanni
Andreoni, o Antonil, si legge che i lavradores vincolati potevano disporre
liberamente della metà del loro raccolto. Molti di loro diventarono
dipendenti dell’engenho, e nel XIX secolo furono espulsi dalle terre affittate.
I lavradores liberi, invece, ottenevano concessioni senza alcun vincolo e
potevano cedere la canna da zucchero al mulino che offriva prezzi piú
vantaggiosi e il credito necessario alla produzione.
Molti lavradores affittavano terre senza contratto dal signore di engenho,
per un periodo variabile tra i sei e i nove anni, e pagavano l’affitto con un
terzo o un quarto della metà del raccolto. Di conseguenza, il lavrador
riusciva a trattenere tra il 15,5 e il 37,5 per cento della canna da zucchero
prodotta. Altri pagavano invece il canone d’affitto in denaro, rimanendo
cosí nelle terre dell’engenho per un lungo periodo. Altri ancora riuscivano
ad accumulare ricchezza, accompagnata dal prestigio di un incarico
pubblico che permetteva loro di partecipare alla politica locale. Vi erano
infine anche lavradores poveri, proprietari di appena due schiavi (Ferlini
2003).
A Pernambuco e a Bahia il numero di engenhos aumentò, ma la
produzione degli stabilimenti diminuí costantemente. Nel corso del XVII e
XVIII secolo, infatti, a Pernambuco il numero di engenhos si moltiplicò di
4,3 volte e a Bahia di 2,3 volte, ma la produzione per stabilimento si ridusse
rispettivamente del 71,7 e del 43,5 per cento. Probabilmente il numero di
engenhos aumentò per controllare i lavradores liberi e vincolati, e per
evitare che i piú ricchi tra questi diventassero a loro volta proprietari di
engenhos. È possibile che la riduzione della produzione per stabilimento
fosse compensata dai proventi ottenuti dallo sfruttamento dei lavradores,
per via dei crediti concessi o per l’aumento delle quote di canna da
zucchero cedute ai signori di engenhos.

Tabella 18.
Evoluzione dei mulini da zucchero, 1591-1788.
Dal modello di piantagione brasiliana si passò a quello della piantagione
integrata dei Caraibi, il cui sviluppo prese avvio nelle Barbados, l’isola
americana piú vicina all’Africa e all’Europa, che negli anni Quaranta del
XVII secolo produceva cotone, tabacco e indaco. A differenza delle
piantagioni brasiliane, che sfruttavano la forza lavoro degli schiavi africani,
le prime piantagioni delle Barbados impiegavano servi indebitati inglesi e
altri europei, i cosiddetti «schiavi bianchi» che dovevano servire tra i tre e i
sette anni e il cui debito poteva essere rivenduto senza il loro consenso.
Questa manodopera fu poi sostituita da quella schiava africana, ritenuta piú
resistente alla malaria. Fu proprio a partire dagli anni Quaranta del XVII
secolo che gli olandesi diffusero la coltura della canna da zucchero nei
Caraibi. La loro principale attività consisteva nel vendere in Brasile
l’attrezzatura di loro invenzione e gli schiavi africani, incentivando gli
acquisti con crediti rimborsabili con la consegna di zucchero. Gli olandesi
si offrirono inoltre come amministratori delle nuove piantagioni di
zucchero, e il loro contributo fu fondamentale nella fase di riduzione dei
servi bianchi (Curtin 1990).
Nel 1643 gli schiavi africani erano 3000, assai meno numerosi di quelli
bianchi. Nel 1646 nella piantagione di Anthony Asheli vi erano 26 schiavi
bianchi e soltanto 9 africani. Ancora nel 1654, nella piantagione di 200 acri
di Robert Hooper lavoravano 35 schiavi bianchi e 60 africani. A partire dal
1650 tuttavia gli africani divennero fondamentali nella crescita delle
piantagioni e raggiunsero un numero simile a quello degli schiavi bianchi
(Eltis, Lewis e Sokoloff 2004).
Lo sviluppo delle piantagioni comportò il disboscamento della metà
delle Barbados. Verso il 1670 l’aumento della produzione di zucchero fece
diminuire i prezzi e aumentare il consumo in Inghilterra, e i piantatori
cominciarono cosí a capire che l’aumento della produzione e la
diminuzione del prezzo favorivano la crescita dei loro redditi. Sul finire del
XVII secolo si assisté quindi al completamento della nuova forma di
piantagione integrata, reso possibile dalle donazioni, dalle nuove tecniche
della produzione e dal brutale sfruttamento della manodopera schiavile,
proveniente soprattutto dal Costa d’Oro.
La nuova forma di piantagione dipendeva anche da un’organizzazione
del lavoro radicalmente diversa da quella del modello brasiliano. Alle
Barbados la manodopera era rigidamente divisa in tre squadre: la prima era
composta dagli schiavi piú esperti, adulti e fisicamente forti; la seconda
dagli schiavi piú giovani e dalle donne; la terza da bambini e anziani.
La prima squadra, munita di zappe e roncole, era responsabile della
coltivazione della canna da zucchero, che iniziava nei primi giorni d’estate
con l’interramento delle piantine provenienti dalle serre. Questa forma di
coltivazione sarà poi sostituita con quella piú produttiva che utilizza un
quadrato ridotto di terra concimato. Alla prima squadra spettava anche il
compito del taglio e della raccolta della canna da zucchero. La seconda
squadra era invece destinata alla raccolta di feci umane e animali, il
concime che si sistemava in cubi appositi vicini alle aree di coltivazione. La
terza squadra era infine addestrata ai lavori specifici della produzione di
zucchero, in particolare la bollitura del succo della canna per trasformarlo
in melassa; anziani e bambini erano anche impiegati come artigiani nella
costruzione di edifici e in altri lavori. Coloro che non si dimostravano adatti
a questo tipo di mansioni venivano spostati nella seconda squadra.
Una volta che la canna da zucchero tagliata arrivava al mulino, la prima
squadra era incaricata di sistemarla in rulli meccanici, dove veniva
frantumata e spremuta. Il succo cosí ottenuto era quindi trasferito ai
bollitori e la melassa era poi trasformata in zucchero. Si trattava della fase
produttiva piú complessa e pericolosa, a cui lavoravano le prime due
squadre.
La nuova organizzazione del lavoro ebbe inizio nelle Barbados intorno al
1660 e i suoi vantaggi produttivi furono cosí elevati che successivamente
tutte le piantagioni di zucchero, a eccezione di quelle brasiliane, vennero
organizzate nello stesso modo. Questo tipo di organizzazione del lavoro
inaugurato nelle Barbados sarà successivamente utilizzato non soltanto nei
Caraibi, ma anche nelle piantagioni inglesi continentali. Esso richiedeva il
controllo permanente delle squadre da parte di sorveglianti e caporali,
spesso bianchi (Newman 2013). L’organizzazione per squadre è descritta in
una delle prime relazioni in nostro possesso, in cui si sostiene che questo
fosse il miglior sistema per prevenire l’ozio e mantenere occupati gli
schiavi. Si trattava evidentemente di un sistema tanto produttivo quanto
oppressivo, e il tasso di mortalità degli schiavi era molto elevato (piú nelle
piantagioni di zucchero che in quelle di caffè e di cotone, e piú nelle grandi
piantagioni che in quelle di piccole dimensioni). Nella testimonianza di uno
schiavo questa divisione del lavoro è definita «diabolica»: le squadre
venivano disciplinate con la frusta e la manodopera era sottoposta a fatiche
estreme (Burnard e Garrigus 2016). In sintesi, questo tipo di organizzazione
si fondava sull’interdipendenza e sulla tensione tra le squadre, specialmente
durante la coltivazione. I lavoratori della prima squadra erano divisi in un
gruppo che zappava e in un altro che interrava le piantine; il primo
procedeva, seguito a ruota dal secondo, mentre i sorveglianti si muovevano
avanti e indietro, esortando gli schiavi con le fruste affinché tenessero il
ritmo, e ispezionando costantemente la qualità del lavoro svolto. Questo uso
della forza nel controllo delle squadre di lavoro permetteva inoltre di
impedire sollevamenti e fughe. La forza fisica era del resto utilizzata anche
fuori dalla piantagione, sugli schiavi che si trovavano altrove senza il
permesso scritto del piantatore.
Molte relazioni descrivono le forme di correzione applicate alla
manodopera schiavile: taglio dell’orecchio, uccisioni dei ribelli e altre
torture utilizzate per garantire l’ubbidienza. È stato osservato che questo
tipo di misure repressive tese ad aumentare, nelle piantagioni di tabacco del
Chesapeake, nel corso del XVIII secolo. Già nel 1675, tuttavia, nelle
Barbados sei schiavi ribelli furono bruciati vivi e altri vennero castrati.
Responsabili dell’applicazione delle misure di controllo e di correzione
erano non solo i sorveglianti bianchi, ma anche quelli neri (Burnard e
Garrigus 2016). Va tenuto presente che, ancora nel XIX secolo, il sistema
giuridico americano altro non era che l’espressione della volontà della
classe proprietaria. Non stupisce dunque che questi crimini commessi
contro gli schiavi fossero autorizzati dall’autorità costituita (Genovese
1974).
La tabella 19 illustra l’enorme diffusione del lavoro a squadre nei
Caraibi e negli Stati Uniti e suggerisce come questo sistema, nato per la
produzione dello zucchero, si sia esteso anche a piantagioni destinate ad
altre colture. Osservando la colonna del lavoro a squadre come percentuale
della popolazione schiava adulta totale notiamo che il 29,9 per cento e il
46,6 per cento sono coinvolti nelle squadre di lavoro.
Tabella 19.
Lavoro a squadre nelle piantagioni delle Americhe.

2. Diffusione delle piantagioni nei Caraibi.

Nel corso del XVIII secolo il sistema della piantagione si diffuse anche
nei Caraibi francesi, a partire dalla Martinica. Anche qui il prodotto
principale era lo zucchero, ma dalla metà del secolo le piantagioni francesi
diedero il via alla produzione di caffè, indaco e cotone. Inizialmente la
crescita economica dei Caraibi francesi apparve piuttosto lenta, poi a partire
dal 1750 conobbe un’impennata tale da sorpassare non solo la produzione
brasiliana, ma anche quella dei Caraibi inglesi. Nel 1791, al momento della
rivoluzione haitiana, la produzione delle isole francesi superava ormai
quella di tutte le altre isole caraibiche (Burnard e Garrigus 2016).
Lo sviluppo delle piantagioni dei Caraibi dipese innanzitutto dal terreno
vulcanico e dal clima sufficientemente piovoso delle isole, che favorirono la
coltivazione della canna da zucchero. Questa avveniva nelle aree vicine alla
costa, consentendo cosí il rapido imbarco dei barili di zucchero, ed evitando
il costo del trasporto terrestre.
Nel 1645 il 40 per cento del territorio delle Barbados era destinato alla
canna da zucchero e nel 1667 la produzione occupava ormai l’80 per cento
dell’isola. A partire dal 1680 la presenza delle piantagioni di canna da
zucchero eliminò i piccoli proprietari del tabacco. Nel corso del XVIII
secolo, infatti, vi erano alle Barbados 175 piantatori di canna da zucchero,
che possedevano la metà dell’isola (tra gli 80 e i 100 ettari di terra) ed erano
anche proprietari della metà degli schiavi presenti (Curtin 1990; Eltis 2000).
Insieme all’organizzazione del lavoro a squadre, influirono
positivamente sulla produttività delle piantagioni caraibiche anche tutta una
serie di innovazioni introdotte a partire dal XVIII secolo. Queste
riguardarono fondamentalmente le pratiche agricole, l’utilizzo delle risorse
naturali, le modifiche tecnologiche nella macinazione della canna da
zucchero e l’adozione di nuovi alimenti per il nutrimento degli schiavi e del
bestiame (Higman 2005).
Un’innovazione importante fu rappresentata dall’introduzione di un
nuovo tipo di fornace, dotata di fuochi separati per ognuno dei calderoni
dove veniva bollito il succo della canna da zucchero, denominato aguamiel,
che permise di aumentare l’efficienza, riducendo al contempo il costo di
produzione. Questo tipo di fornace, introdotto innanzitutto in Giamaica (e
per questo chiamata «Jamaican train»), si diffuse nel corso del XVIII secolo
in tutte le piantagioni dei Caraibi. Si assisté inoltre a una maggiore
diffusione della concimazione, che risolse il problema del declino della
fertilità del suolo. In Giamaica ciò permise di aumentare la superficie
coltivata e favorí inoltre l’incremento della produzione di bestiame, in
particolare di ovini. Un’altra innovazione significativa fu offerta
dall’introduzione del cosiddetto cane-hole: piccoli appezzamenti di 180 cm
quadrati dove la canna da zucchero veniva piantata direttamente nel
concime, permettendo cosí di aggirare il problema dell’erosione del suolo e
avviando una coltivazione intensiva senza bisogno di trapianto.
Una delle piú importanti innovazioni, diffusa a partire dalle Barbados, fu
poi la sostituzione del mulino a trazione animale con quello a vento, anche
se non tutte le isole possedevano le condizioni climatiche necessarie per il
suo utilizzo. A Hispaniola si riuscí invece a risolvere il problema delle
scarse precipitazioni attraverso un sistema di irrigazione, sviluppato a
partire dal 1730 soprattutto nell’area di Cul-de-Sac. Sul finire del XVIII
secolo piú di un terzo della zona pianeggiante dell’isola era irrigato, con un
conseguente aumento del numero delle piantagioni: tra il 1713 e il 1794
passarono da 3 a 118. Nel Suriname i piantatori investirono piuttosto nel
drenaggio dei terreni, con un sistema di dighe e canali che andarono a
potenziare soprattutto le piantagioni costiere. A partire dal 1750, questo
sistema, che facilitava il trasporto di beni e persone, sostituí quello dei carri
a trazione animale (Galloway 1989).
I governi metropolitani favorirono queste innovazioni che incentivavano
le esportazioni di beni verso i paesi atlantici europei. Nel 1768, la
spedizione francese di Louis Antoine de Boungainville permise cosí la
sostituzione della canna da zucchero creola con una varietà trovata a Tahiti,
l’otaheite. Questa nuova canna da zucchero presentava un triplice
vantaggio: maturava piú rapidamente, conteneva una maggiore quantità di
sostanza zuccherina e il suo bagasso, residuo della macinazione della canna
essiccato al sole e immagazzinato nella «casa dei residui» per essere
utilizzato come combustibile nella bollitura dell’aguamiel, risolveva il
problema del disboscamento delle isole (Galloway 1989). Le spedizioni
scientifiche, che diedero origine ai primi giardini botanici in Europa,
permisero di scoprire inoltre una serie di piante che furono utilizzate per
l’alimentazione degli schiavi.
Oltre all’utilizzo dei prodotti amerindi, cominciarono a essere coltivati
l’albero del pane e altre piante africane, come le banane, le patate dolci, il
mango, il riso e l’erba di Guinea, introdotta nel 1740 per nutrire il bestiame
(Meniketti 2006). Alla fine del XVIII secolo si cominciarono inoltre a
utilizzare campi di canna da zucchero per la coltivazione di granturco,
piselli, patate e altri prodotti destinati all’alimentazione degli schiavi.
Migliorò anche la qualità delle abitazioni della manodopera schiava e fu
concesso a ogni famiglia di schiavi un appezzamento di terreno, utilizzato
per la produzione di beni che venivano scambiati nei mercati locali. Questi
cambiamenti non comportarono tuttavia una diminuzione delle violenze nei
confronti degli schiavi (Newman 2013).
A Cuba, l’ultima area americana in cui presero piede le piantagioni di
canna da zucchero, le innovazioni cominciarono a diffondersi durante la
crisi dello zucchero provocata dalla rivoluzione haitiana. I piantatori
introdussero la canna da zucchero otaheite e sostituirono i mulini a trazione
animale con quelli ad acqua, a loro volta rimpiazzati dai mulini a vapore a
partire dal 1830. Nel 1860 vi erano a Cuba 889 piantagioni parzialmente
meccanizzate a vapore, con una capacità produttiva di 411 tonnellate
ciascuna, e 64 piantagioni totalmente meccanizzate, con una capacità
produttiva di 1176 tonnellate ciascuna, che producevano il 15 per cento
dello zucchero totale dell’isola. Per questo le piantagioni, che nel 1762
erano all’incirca di 120-180 ettari, si ingrandirono, raggiungendo
mediamente i 570 ettari (Moreno Frajinals 1976).
La forza delle piantagioni di canna da zucchero cubane trasse poi
ulteriore incremento dalle nuove facilitazioni offerte dai mezzi di trasporto.
Nel 1837, infatti, appena tredici anni dopo l’introduzione della prima linea
ferroviaria inglese con trazione a vapore, fu costruita la prima ferrovia
dell’isola, che metteva in collegamento il distretto zuccheriero di Guines
con il porto dell’Avana. Tra il 1837 e il 1851, i centri produttivi furono
sistematicamente collegati ai porti regionali. Nel 1850 la rete ferroviaria
raggiunse i 618 chilometri, e l’anno successivo l’isola era interamente
collegata anche dalla rete telegrafica (Tomich 2004). Queste trasformazioni
delle piantagioni sarebbero state impensabili senza gli schiavi e
l’organizzazione del lavoro a squadre. Dagli 84 000 schiavi presenti a Cuba
nel 1790, si arrivò nel 1840 a 324 000, e a 370 000 nel 1860. Ad essi furono
aggiunti inoltre i 100 000 servi cinesi e amerindi provenienti dallo Yucatan
(Klein e Vinson 2013).
La società razzista al cui interno era in funzione il sistema della
piantagione era scissa tra un orizzonte gerarchico e uno orientato al profitto.
Solo cosí è possibile comprendere appieno l’importanza che ebbero per i
piantatori le varie innovazioni produttive, la cui introduzione apportò un
notevole aumento dei profitti. I dati in nostro possesso mostrano un
incremento degli investimenti nell’ambito delle innovazioni produttive.
Secondo il censimento fatto negli Stati Uniti nel 1860, nelle contee della
Virginia dove si produceva tabacco il valore medio degli investimenti in
utensili e macchine agricole si moltiplicò di 9 volte per quanto riguarda le
piantagioni con meno di cinque schiavi, e di 18,5 volte per quelle in cui
erano impiegati tra i 61 e i 100 schiavi, passando da 50 a 925 dollari. Nelle
contee del cotone della Georgia gli investimenti si moltiplicarono di 6,6
volte nelle piantagioni che impiegavano tra i 61 e i 100 schiavi, passando da
75 a 500 dollari. Nelle piantagioni di cotone del Mississippi essi
aumentarono di dieci volte, passando da 100 a 1000 dollari (Genovese
1968, p. 70).
Il modello presentato nella figura 9 è costituito da 16 campi di canna da
zucchero, che rappresentano il 70 per cento della superficie totale; il 30 per
cento è occupato dalla casa padronale, dai quartieri degli schiavi e dall’area
di produzione di beni agricoli per il piantatore e i suoi dipendenti; il resto,
circa un terzo, è utilizzato per l’allevamento del bestiame. Probabilmente,
non tutti i campi di canna da zucchero erano effettivamente in produzione:
alcuni costituivano una riserva che veniva utilizzata soltanto nel momento
in cui cresceva la domanda, come avvenne nel XVIII secolo.
Dalle scarse informazioni in nostro possesso sappiamo che, nonostante i
miglioramenti, le abitazioni degli schiavi rimasero dei tuguri. Intorno al
1800 nelle Barbados gli schiavi vivevano in baracche con i muri in pietra e
il tetto in legno. In Martinica le baracche degli schiavi erano situate
sottovento rispetto alla casa del proprietario, e vicino alla stalla in modo da
sorvegliare il bestiame durante la notte. Generalmente le abitazioni degli
schiavi erano inoltre vicine agli edifici delle piantagioni, sempre con lo
scopo di tenerli sotto controllo. Nella Guiana britannica la casa del padrone
e gli edifici principali della piantagione erano situati su alture, mentre le
abitazioni degli schiavi si trovavano sulla riva del mare (B. C. Richardson
1992).
Ai vertici del sistema gerarchico che governava le piantagioni vi erano il
proprietario, l’amministratore, i contabili e il ridotto contingente del
personale bianco. La quasi totalità della manodopera era invece costituita da
schiavi impiegati nel lavoro di trasformazione dei beni, controllati dai
sorveglianti. Quelli specializzati nella macinazione, nella bollitura
dell’aguamiel e nella produzione dei pani di zucchero erano strettamente
controllati, mentre erano meno sorvegliati gli schiavi destinati ai mestieri
artigianali. Questo tipo di struttura discendeva dal modello della gerarchia
bianca e permetteva di organizzare la manodopera distinguendo i lavoratori
generici da quelli specializzati, e i lavoratori che non godevano di nessuna
libertà di movimento da quelli relativamente piú liberi. L’organizzazione
del lavoro schiavile tuttavia va analizzata nell’ambito dell’intero sistema
della piantagione.
Figura 9.
Modello di piantagione di canna da zucchero dei Caraibi francesi, 1799.
Fonte: Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Paris 1751.

La piantagione giamaicana di Batchelors Hall (cartina 17) nacque da due


donazioni di terre, di 500 acri (202 ettari) la prima e di 600 acri (242 ettari)
la seconda, che costituivano due aree separate della piantagione
(contrassegnate nella figura dalle lettere A e B). Ognuna di esse aveva una
sua squadra che si occupava della coltivazione della canna da zucchero, e la
comunicazione tra le due squadre era proibita. In ciascuna delle due aree,
metà del terreno fungeva da riserva per l’eventuale espansione delle
produzioni. Era considerato riserva anche il canneto selvatico vicino al
fiume. I lotti di banani e i due lotti di granturco erano destinati alla
produzione degli alimenti per gli schiavi, mentre il lotto del bestiame ovino
(E) era destinato soprattutto alla produzione di concime. Il grande pascolo
(N) era utilizzato per la riproduzione di muli, cavalli e bovini, necessari
come forza animale ma anche in quanto produttori di concime.

Figura 10.
Gerarchia amministrativa della piantagione.
Fonte: Higman 2005, p. 180.

La parte piú cospicua della piantagione era dunque quella destinata alla
produzione della canna da zucchero, e rappresentava il 20-25 per cento dei
444 ettari totali; un altro 15-20 per cento serviva per l’alimentazione degli
schiavi; un 10 per cento per i trasporti e l’autoconsumo della piantagione; e
un altro 10 per cento per la produzione del legname destinato alle abitazioni
degli schiavi e agli edifici della piantagione. La superficie destinata alla
produzione dello zucchero e alle altre esigenze legate alla
commercializzazione del prodotto rappresentava quindi all’incirca la metà
del totale.

Cartina 17.
La piantagione di Batchelors Hall in Giamaica nel 1741.
Fonte: ibid., p. 180.
Tra il XVII e il XVIII secolo le piantagioni dei Caraibi evolvettero dunque
verso una produzione caratterizzata da una grande capacità di innovazione.
Si trattò inoltre di una produzione integrata: gran parte delle attività
produttive si svolgeva all’interno della piantagione stessa, che era in grado
di organizzarle gerarchicamente. All’interno di questo modello, la
manodopera schiavile partecipava non solo alla produzione commerciale,
ma anche a quella degli input che la determinavano. In altre parole, la
produzione dello zucchero era sostenuta dagli input prodotti all’interno
della piantagione stessa: cosí era per il mantenimento degli schiavi e dei
dipendenti bianchi; inoltre il bestiame e i mezzi di trasporto non erano
acquistati sul mercato e il loro costo di produzione era dunque pari (o quasi)
a zero.
Se si analizzano i costi di produzione emerge infatti come essi
riguardassero principalmente l’acquisto degli schiavi e degli strumenti e
tecnologie necessari. I piantatori pagavano questi acquisti con il credito
fatto loro dai commercianti, restituito con la produzione commerciale della
piantagione. Si può dunque affermare che tra il 1650 e il 1850
l’autosufficienza degli input spiega non solo la riduzione dei costi di
produzione, ma anche quella del prezzo di vendita dello zucchero.
La dinamicità che caratterizzò le piantagioni dipese essenzialmente da
una combinazione di fattori produttivi che sfruttavano in maniera intensiva
le risorse naturali e la manodopera schiavile. Grazie a questa dinamicità
della produzione, la piantagione riusciva a scindere la forma di scambio. Il
rimborso delle merci importate, pagate con il credito mercantile, avveniva
infatti a distanza di tempo, con lo zucchero prodotto, e la dilatazione
temporale dello scambio nascondeva quindi l’asimmetria che si sviluppava
tra la piantagione e il commercio intercontinentale.
Disponiamo di alcuni indicatori che misurano la produttività delle
piantagioni dei Caraibi. L’investimento per l’acquisto degli schiavi aumentò
tra il 1750 e il 1810, e al contempo raddoppiò l’investimento per la
coltivazione della canna da zucchero e per l’acquisto di nuovi macchinari
per i mulini a vento. Aumentarono inoltre, come ad esempio in Giamaica,
gli investimenti per l’allevamento di bestiame. Tra il 1624 e il 1834
raddoppiò inoltre l’investimento necessario per l’acquisto di uno schiavo,
passando da 45 a 90 sterline; nel caso della Giamaica esso aumentò di piú
del doppio, da 50 a 116 sterline.
Nei periodi 1749-55 e 1763-75 i profitti delle piantagioni dei Caraibi
furono elevati, con una media del 10,9 per cento annuo, mentre diminuirono
leggermente tra il 1783 e il 1791 e tra il 1820 e il 1834, scendendo al 9,5
per cento. I profitti crebbero innanzitutto dal momento che non aumentava
il costo di mantenimento degli schiavi, che ricevevano beni autoprodotti e
ridotta assistenza medica. Gli altri elementi che favorirono la crescita del
profitto furono la riduzione dei costi delle assicurazioni marittime e del
trasporto verso Londra, che nei periodi 1698-1702 e 1816-34 diminuí da 9,5
a 5 scellini (Ward 1976).
Il rapporto tra il prezzo degli schiavi e quello dello zucchero è un altro
indicatore che permette di capire la produttività della manodopera. Dato che
il tasso del costo di mantenimento dello schiavo non crebbe allo stesso
ritmo del prezzo dello zucchero, il rapporto tra il prezzo dello schiavo e il
prezzo dello zucchero indica la quota dello sfruttamento dello schiavo, che
tra il 1674-1679 e il 1780-1807 aumentò del 10,7 per cento (Eltis, Lewis e
Richardson 2005).
Per comprendere le informazioni fornite dalla tabella 20 è necessario
tenere presente che gli organizzatori della manodopera rappresentavano
l’8,75 per cento della popolazione attiva (i bianchi e i mulatti liberi, gli
amministratori e i sorveglianti), mentre gli artigiani e i commercianti che
affiancavano l’attività delle piantagioni rappresentavano l’8,64 per cento
della popolazione attiva. La popolazione schiava rappresentava l’82,61 per
cento della popolazione totale e un altro 58,2 per cento di popolazione era
costituito da domestici, trasportatori, sorveglianti e addetti alla macinazione
e ai bollitori dello zucchero. All’interno della popolazione schiava
complessiva, i lavoratori a squadre sono senza dubbio quelli piú sfruttati e
rappresentano ben 222 854 persone, pari al 34,3 per cento della popolazione
attiva.
Tabella 20.
Lavoro e schiavitú nei Caraibi britannici, 1834.

3. Dai Caraibi all’America britannica continentale: Chesapeake e


Maryland.

Se si osserva la carta geografica degli Stati Uniti al momento


dell’indipendenza si vede con chiarezza come il territorio fosse nettamente
diviso fra l’area della schiavitú nel Sud e gli stati del Nord, privi di
piantagioni (Meining 1985).
La baia di Chesapeake, tra il Maryland e la Virginia, era un’area di
relativa stabilità economica, fondata sulla produzione del tabacco. Tra il
1617 e il 1623 l’incremento del prezzo del tabacco favorí infatti la nascita
di nuove piantagioni e la creazione di reti mercantili che concessero crediti
ai nuovi coloni per circa 100 000 sterline. Grazie al tabacco, nel 1622 la
popolazione dell’area raggiunse i 1300 abitanti. Tra il 1660 e il 1680 la
produzione del tabacco crebbe rapidamente, passando da 5 a 50 tonnellate.
Le esportazioni non conobbero subito un aumento significativo: tra il 1700
e il 1780 passarono da 900 a 1000 tonnellate annue. Si impennarono poi tra
il 1780 e il 1800, passando da 11 000 a 50 000 tonnellate annue. Il prezzo
del tabacco della Virginia si ridusse tra il 1620 e il 1650, passando da 8 a
2,5 penny la libbra e arrivando fino a un penny nel 1690; tra il 1690 e il
1780 riprese quota sino ad arrivare a 2 penny la libbra (McCusker e Menard
1991).
Nell’inverno del 1609-610 i primi coloni del Chesapeake furono
decimati da una terribile carestia, e la guerra con gli amerindi powhatan
ridusse ulteriormente la popolazione, che nel 1622 scese da 4000 a 1000
persone. Il Chesapeake fu la prima regione a ricevere forza lavoro composta
di schiavi bianchi, che tra il 1631 e il 1671 passarono da 2400 a 38 500,
rendendolo la regione piú popolata dell’America britannica dopo la Nuova
Inghilterra (Wareing 2017). A partire dal 1658, invece, il Chesapeake fu la
regione che ricevette il maggior numero di schiavi africani (Eltis 2000).
Prima dell’apertura delle piantagioni, nella baia di Chesapeake il tabacco
veniva prodotto da piccoli proprietari che impiegavano la manodopera
familiare. Successivamente, quando fra il 1623 e il 1629 questi riuscivano
ad acquisire almeno uno schiavo bianco la produttività per lavoratore era di
345 libbre annue per lavoratore; mentre nel XVIII secolo, con le piantagioni,
questa divenne di 1503 libbre per lavoratore (Menard 1980 e Walsh 1989).
Nel Chesapeake la nascita delle piantagioni favorí anche il disboscamento,
e la terra ricavata fu utilizzata non solo per la produzione di tabacco, ma
anche di granturco, commerciato localmente e utilizzato per l’autoconsumo.
Tra il 1650 e il 1699 le piantagioni incrementarono la produttività grazie
allo sviluppo delle reti mercantili, che permisero di ridurre il prezzo della
commercializzazione del tabacco.
La piantagione di St. Clement, di proprietà di Robert Cole, offre un
esempio di come veniva avviato questo tipo di produzione. La proprietà era
composta di terre ricevute in donazione da Thomas Gerard, un notabile
locale, tra il 1639 e il 1641. Cole ricevette il capitale iniziale per la
piantagione da parecchie persone, tra cui un ricco commerciante del
Maryland che garantí anche l’anticipazione dei beni necessari e l’adeguata
commercializzazione della produzione. Il terreno era adeguato al tabacco e
all’allevamento di bestiame, quindi, a differenza di altri piantatori, Cole
costruí un recinto per l’allevamento di maiali e una stalla per il bestiame. La
principale fonte di reddito della piantagione era il tabacco; all’inizio della
sua attività, nel 1662, Cole lavorava con i suoi quattro figli e disponeva di
quattro schiavi bianchi.
A partire dalla metà del XVII secolo la piantagione di St. Clement
mostrava una performance superiore alla media. All’origine di questo
successo vi fu la sua capitalizzazione, a livello del lavoro, del bestiame e
degli strumenti produttivi. Nonostante il valore della terra fosse simile a
quello delle altre piantagioni della regione, essa aveva inoltre a sua
disposizione un’enorme quantità di beni per il consumo. Nel periodo
compreso fra il 1662 e il 1672 il reddito della piantagione di St. Clement
provenne soprattutto dal raccolto del tabacco, che fece guadagnare una
media annua di 25,10 sterline, pari al 65,6 per cento del reddito totale. La
seconda voce era rappresentata dal bestiame, con un valore medio annuo di
7,98 sterline, pari al 20,8 per cento del reddito totale. Le altre voci
comprendevano il caseificio, le granaglie, gli ortaggi e le varie altre
produzioni, per un reddito medio di 5,18 sterline, pari al 13,5 per cento del
totale.

Tabella 21.
Inventario della piantagione di St. Clement comparata con altre, 1658-65 (sterline).

Nella seconda metà del XVII secolo la piantagione di St. Clement ebbe
un doppio orientamento commerciale: il tabacco per il mercato inglese e gli
altri prodotti per il mercato locale. Per cinque anni (1663, 1664, 1669, 1671
e 1672) i proventi del tabacco si ridussero e furono compensati dal reddito
derivante dalle altre attività, consentendo di conservare la piantagione. Nel
1669, anno di crisi per il tabacco e per il bestiame, il 46,6 per cento del
reddito provenne ad esempio dalla commercializzazione dei beni secondari.
L’evoluzione del reddito ci aiuta a capire il ruolo degli input orientati
all’autosufficienza e destinati al mantenimento del personale e della
manodopera. Notiamo una maggiore flessibilità nelle piantagioni di
Chesapeake rispetto a quelle dei Caraibi, derivante probabilmente dalla
maggiore quantità di terra disponibile. L’esistenza di almeno due prodotti
suscettibili di essere commercializzati garantiva un reddito costante alle
piantagioni di Chesapeake. Dall’inventario emerge infatti che il valore
nominale dei beni di sussistenza, di 30,85 sterline, equivaleva al 44 per
cento del reddito. Si tratta di un valore puramente contabile, poiché i beni di
sussistenza erano autoprodotti e consumati nella piantagione (Menard,
Green e Walsh 1983).
Un tratto comune alle piantagioni di Chesapeake e a quelle dei Caraibi fu
la disponibilità di terre abbondanti ottenute a bassissimo prezzo. Ciò
permetteva di produrre beni destinati a un triplice utilizzo: per il
funzionamento quotidiano della piantagione, per raggiungere il livello di
reddito necessario alla sopravvivenza quando calava il prezzo del bene
esportabile e per la commercializzazione del bene principale, il tabacco
esportato verso l’Inghilterra e l’Europa.
I dati riguardanti la piantagione di St. Clement mostrano che il
mantenimento degli schiavi bianchi richiedeva una spesa annua di appena
1,6 sterline, pari al 3,9 per cento della spesa totale. Le spese per il personale
domestico, per gli impiegati e per l’acquisto di vestiti erano di 15,5 sterline
annue, pari al 38,4 per cento del totale. L’acquisto di beni e servizi importati
era di 1,9 sterline annue, mentre quello di beni e servizi locali era di 4,43.
Le spese destinate al proprietario e al personale non schiavo erano di 25,73
sterline annue e riflettevano lo stile di vita dei notabili. Il reddito
proveniente dal tabacco e dal bestiame era infatti di 38,32 sterline annue, e
se si sottraggono le spese destinate al proprietario e al personale non
schiavo il reddito netto risultava essere di appena 9,50 sterline annue.
L’orientamento notabiliare della piantagione è illustrato dalla differenza
tra l’incremento del suo valore complessivo e quello della terra. Tra il 1662
e il 1673 l’incremento del valore complessivo della piantagione fu del 52,8
per cento, passando da 221,92 a 339,24 sterline. Se si prende in
considerazione solo il valore della terra, tuttavia, bisogna considerare che
esso aumentò fra il 1662 e il 1673 del 97,3 per cento. Il reddito della
piantagione dunque non crebbe, mentre aumentava la ricchezza del
piantatore, sostenuta dallo sforzo produttivo degli schiavi bianchi e
dall’aumento del valore della terra (Menard, Green e Walsh 1983).
Lo sforzo produttivo delle piantagioni riuscí a ridurre l’impatto negativo
della caduta del prezzo del tabacco, verificatasi a partire dal 1630. Tra il
1650 e il 1689, infatti, la produzione aumentò, sino ad arrivare a 1,36
tonnellate per lavoratore in Virginia e a 2,167-2,584 tonnellate nel
Maryland (Walsh 1989). D’altra parte, nei periodi 1663-69 e 1700-709 il
declino del prezzo del tabacco favorí l’incremento del consumo in
Inghilterra. In quegli stessi anni, infatti, l’importazione di tabacco pro capite
aumentò da 421 a 1011 grammi (Menard 2007).
Verso la fine del XVII secolo il nucleo principale delle piantagioni era la
Virginia, mentre quelle del Maryland furono fondate dopo il 1710-20,
grazie a un maggior collegamento tra piantatori e credito mercantile (J. M.
Price 1989). Tra il 1700 e il 1750 le piantagioni si espansero e conobbero
una rapida e radicale trasformazione. Oltre al tabacco, fu inaugurata la
produzione di grano per il commercio intercoloniale, e i piantatori
cominciarono ad acquistare schiavi africani, che sostituirono i precedenti
schiavi bianchi. Tra il 1650 e il 1713 sbarcarono nel Chesapeake 1435
schiavi adulti e 1202 bambini (Eltis 2000), e valori simili furono registrati
nei Caraibi (Burnard 2015).
La diversificazione produttiva consentí di commerciare granaglie e vari
prodotti con le altre colonie continentali senza per questo smettere di
inviare tabacco verso l’Inghilterra e di investire in beni strumentali per le
diverse produzioni. Cominciò inoltre a emergere la necessità di far fronte a
diversi cicli produttivi, assumendo lavoratori giornalieri e fittavoli. Ne
risultò un’espansione territoriale delle piantagioni. Nella piantagione di
Robert Goldborough, ad esempio, nel primo decennio del XVIII secolo ogni
schiavo produceva 1,17 tonnellate di tabacco all’anno, mentre negli anni
Trenta, nonostante l’aumento dell’estensione della piantagione, la
produzione di tabacco si ridusse a 0,36 tonnellate annue. Tale diminuzione
fu compensata con la maggior produzione di grano consentita dall’utilizzo
degli schiavi africani: alla fine del XVII secolo essa superava le 0,9
tonnellate per lavoratore, ed era di 0,54-0,63 tonnellate annue negli anni
Quaranta del XVIII secolo. All’inizio del secolo un piantatore senza schiavi,
con l’unico aiuto della moglie e del figlio maggiore, era in grado di
produrre una tonnellata all’anno (Clemens 1975).
Nei primi anni del XVIII secolo, la piantagione di Gresham si estendeva
su 301 ettari e combinava diversi tipi di manodopera: schiavi bianchi e
africani, schiavi africani affittati e lavoratori giornalieri liberi. Il suo reddito
era superiore alla media delle piantagioni dei Caraibi, e nelle annate buone
l’80 per cento del reddito proveniva dal tabacco, mentre il restante 20 per
cento da grano e granturco. Queste ultime due produzioni permettevano di
nutrire la manodopera, utilizzando le terre destinate all’autosufficienza
dell’input della piantagione.
I documenti contabili della piantagione di Gresham mostrano una rapida
ascesa della produzione di tabacco tra il 1728 e il 1737. Successivamente,
tra il 1738 e il 1740, vi fu una diminuzione, e poi una nuova ripresa tra il
1749 e il 1752. L’evoluzione della produzione totale della piantagione
dipese dall’incremento della produzione del grano, che partendo da 70
bushel (2,5 tonnellate) nel 1735, arrivò a 282 bushel (102 t) nel 1738 e a
345 (125,5 t) nel 1740, per poi diminuire a 300 e 136 bushel
(rispettivamente 109 e 49 t) tra il 1741 e il 1750.
Il reddito della piantagione di Gresham dipendeva dalla capacità di
conciliare la domanda del tabacco per il mercato europeo con quella del
grano e di altri beni per le aree coloniali. Quando diminuiva la domanda di
tabacco si aumentava la produzione di grano e di altri beni e cosí il reddito
del piantatore non soffriva di grandi alterazioni.

Tabella 22.
Piantagione di Gresham. Percentuale di reddito delle produzioni vendute, 1735-50 (sterline).
Nel corso del XVIII secolo le piantagioni di tabacco si diversificarono: vi
erano i grandi piantatori, che avevano una produzione media di 0,9
tonnellate annue per schiavo; i piantatori medi, con una produzione di 0,72
tonnellate annue per schiavo, e infine i piccoli proprietari, con una
produzione di 0,54 tonnellate annue per schiavo. La comparsa dei piccoli e
medi produttori derivò probabilmente dall’evoluzione dei servi bianchi, che
al temine del loro ingaggio ricevevano 20 ettari di terra e, con l’aiuto della
manodopera familiare, riuscivano ad acquistarne altra.
È probabile che la stima degli investimenti nella produzione del tabacco
non sia corretta quando si sostiene che l’investimento in terra equivaleva a
3,01 sterline, mentre quello destinato alla manodopera a 34,4 sterline sia per
il piantatore sia per il medio e piccolo produttore (Clemens 1975).
La tabella 23 mostra che i proprietari di schiavi erano la metà della
popolazione maschile libera, e che la maggioranza possedeva piantagioni di
dimensioni comprese tra i 40 e i 120 ettari. Gli affittuari invece, non
possedevano schiavi africani, ma soltanto qualche schiavo bianco. Le
piantagioni producevano 2,7 tonnellate di tabacco annuo per ettaro e una
volta coperte le spese avevano una produzione netta commerciabile di 1,57
tonnellate per ettaro. Dalla produzione venduta dovevano poi dedurre il
costo dei beni inglesi acquistati, che comprendevano le attrezzature per la
produzione e i beni di prestigio del piantatore.

Tabella 23.
Forme di lavoro nel Maryland, 1720.
Si può quindi affermare che tutte le piantagioni facevano fronte alla
riduzione del prezzo del tabacco con la produzione di granaglie e bestiame.
Anche l’allevamento fu un’attività fondamentale, e rimase una fonte di
reddito importante nel XVIII secolo. Tra il 1704-710 e il 1730-39 la contea
di Talbot conobbe una riduzione dei bovini, che passarono da 14 000 a 12
300 capi, un incremento dei suini, che passarono da 17 400 a 29 400 capi, e
anche degli ovini, che passarono da 9900 a 14 700 capi (Clemens 1975).
A partire dal 1750 è possibile riscontrare un adeguamento nel mutevole
rapporto tra tabacco e grano. I profitti delle piantagioni provenivano infatti
da una combinazione mutevole tra le entrate del tabacco e quelle delle
granaglie. Durante la Rivoluzione americana, la chiusura dei mercati
internazionali del tabacco determinò una nuova strategia da parte dei
piantatori e dei medi proprietari, che svilupparono un maggiore interesse
per i mercati interni. A partire dal 1792 molti piantatori abbandonarono
dunque il tabacco per dedicarsi al grano. Tra il 1768-72 e il 1791-92 la
produzione di grano aumentò da 10 957 a 14 574 tonnellate, quella di farina
da 178 a 862,5 tonnellate e quella di granturco da 13 978 a 23 286
tonnellate.
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo le piantagioni di
Chesapeake acquisirono un maggior peso economico e politico nella misura
in cui accumularono l’82 per cento della ricchezza di tutte le piantagioni
americane. Questo dipese innanzitutto dalla densità della loro popolazione,
stimata nel 1774 a 734 400 abitanti, di cui 438 000 bianchi e 295 100
schiavi africani. La ricchezza media dei bianchi era di 127 sterline superiore
a quella nei Caraibi e di 3,2 volte superiore alla ricchezza pro capite nelle
aree agricole delle regioni settentrionali americane. Ciononostante, la
ricchezza pro capite dei piccoli e medi proprietari del Chesapeake si ridusse
a 87,70 sterline (Burnard 2015).
L’arricchimento dei piantatori derivava essenzialmente dagli schiavi: la
quasi totalità del reddito generato da essi era infatti assorbita dai padroni
delle piantagioni, mentre gran parte del resto della popolazione bianca era
in povertà. Il governo coloniale si vide quindi costretto a moltiplicare la
costruzione di case per i poveri: al momento della Rivoluzione americana
un terzo delle famiglie bianche dell’area di Tidewater-Chesapeake viveva in
povertà.
La differenza sostanziale tra la piantagione e le piccole e medie proprietà
è individuabile nell’uso dell’aratro, che nelle piantagioni sostituí la zappa, e
nella maggiore partecipazione dei piantatori all’interno delle reti
commerciali. I contratti di vendita di tabacco, grano e granturco
introdussero le penali per la mancata consegna delle merci, e una serie di
premi per i produttori che pagavano i crediti alla consegna delle loro
produzioni. Rimase invece in vigore il sistema di prezzi differenziati per lo
scambio di tabacco contro merci e per il tabacco pagato in cambiali (Walsh
1999).
Soprattutto a partire dal 1750 il reddito delle piantagioni tese ad
aumentare piú rapidamente per i piantatori e i medi proprietari piú ricettivi
alle innovazioni, mentre ristagnò per i piccoli proprietari. I piantatori che
raggiunsero i redditi superiori furono quelli che seguirono l’orientamento
del mercato e che organizzarono il lavoro su base annuale. Molti piantatori
continuarono a produrre tabacco, nonostante l’aumento del prezzo della
manodopera schiavile, che tra il 1790 e il 1818 passò da 25 a 35 sterline per
schiavo. Un nuovo fattore che influí sul reddito dei piantatori furono inoltre
gli investimenti nelle proprietà urbane, nelle azioni bancarie e nelle aziende
industriali, oltre alla possibilità di continuare a ricevere donazioni di terre
(Walsh 1999).
Le piantagioni del Chesapeake furono dunque caratterizzate
dall’adozione di strategie produttive assai piú flessibili di quelle dei Caraibi.
Il principio organizzativo della piantagione fu invece simile per le due
regioni. In entrambi i casi la proprietà era divisa in tre aree: una di riserva,
una per la produzione degli input e una per la produzione e per il mercato.
Erano queste ultime due aree a permettere l’alternanza tra il mercato interno
e quello internazionale.
Sebbene la manodopera schiava rimanesse dominante sia nelle
piantagioni del Chesapeake sia in quelle dei Caraibi, nel primo caso
notiamo, dopo il 1750, la comparsa di fittavoli e lavoratori giornalieri che
aprirono la strada della manodopera libera. Va inoltre tenuto presente che le
piantagioni del Chesapeake ebbero la possibilità di accedere alle donazioni
di terre ancora nel XVIII secolo.
4. Le piantagioni della Carolina del Sud e della Georgia: dal riso al
cotone.

La seconda area di piantagioni che si sviluppò nell’America britannica


continentale è quella delle regioni meridionali, in particolare la Carolina del
Sud. I fondatori del primo insediamento intendevano organizzarla in
villaggi ordinati, ma i primi coloni si opposero al progetto, muovendosi
invece verso la bassa area fluviale amerindia di Curabo. Questi vi giunsero
nel 1670, provenienti dalle Barbados, intenzionati a creare un’area
produttiva per esportare granturco e bestiame nei Caraibi, scelsero di non
adottare il modello della fattoria inglese e nei primi anni del XVIII secolo
impararono a coltivare riso nelle aree paludose, servendosi inizialmente di
manodopera schiava amerindia. Solo successivamente introdussero
l’irrigazione delle risaie e le tecniche di conservazione del riso.
Svilupparono abbastanza in fretta la comunicazione marittima lungo la
costa, con golette e altre imbarcazioni per collegare le nascenti piantagioni
con il porto di Charleston. Alla metà del secolo aggiunsero al riso la
produzione dell’indaco, che insieme alle forniture navali (pece, catrame,
trementina e legname) costituí la prima struttura produttiva integrata della
piantagione nella Carolina del Sud.
Nonostante la capacità dimostrata dai coloni, la trasformazione
produttiva non è comprensibile senza tenere conto dello sfruttamento della
popolazione amerindia, impiegata nel disboscamento e nella preparazione
dei campi per l’allevamento del bestiame. Gli amerindi fecero inoltre
conoscere ai coloni la coltura del granturco e dei fagioli, che insieme alla
carne essiccata costituirono le prime esportazioni verso i Caraibi.
Successivamente, l’arrivo degli schiavi africani permise di fondare le prime
piantagioni. Il valore di una piantagione di 400 ettari ammontava a 1000
sterline ed equivaleva al prezzo di 40 schiavi, mentre la terra era ottenuta in
donazione. Nel 1770, per acquistare 40 schiavi africani una piantagione di
81 ettari di terra ricevuti in donazione doveva spendere 2500 sterline
(Edelson 2006).
Tra il 1730 e il 1779 il 25 per cento delle piantagioni della Carolina del
Sud produceva principalmente riso (ma l’11 per cento di queste anche
indaco), mentre il 60 per cento produceva granturco, patate e piselli. Solo le
piantagioni piú grandi dunque coltivavano riso e indaco, suscettibili di
essere esportati, mentre le rimanenti producevano derrate per il consumo
locale e solo occasionalmente per l’esportazione.
Il censimento del 1745 della parrocchia di St. James Goose Creek mostra
che il 70 per cento degli schiavi viveva in piantagioni che ne possedevano
piú di 50. L’estensione media di una piantagione era qui di 367 ettari, ma il
41 per cento delle proprietà aveva un’estensione di piú di 400 ettari. Nel
1770 tutta l’area costiera aveva simili caratteristiche: il 52 per cento della
popolazione schiava viveva in piantagioni con piú di 50 schiavi. Grazie agli
schiavi e all’introduzione di nuove tecniche, le esportazioni di riso pro
capite della regione aumentano da 32 chilogrammi nel 1700 a 172
chilogrammi nel 1720, e da 0,45 tonnellate nel 1740 a 0,9 tonnellate nel
1770 (Edelson 2006).
Oltre agli schiavi, l’altro fattore produttivo importante era rappresentato
dalle donazioni di terre. Nel periodo compreso tra il 1673-99 e il 1730-34,
tutte le terre delle tre aree regionali – costa, hinterland e frontiera aperta –
furono date in concessione gratuita. Furono cosí distribuiti 162 753 ettari in
appezzamenti a 890 donatari: mediamente ognuno di essi ottenne 198,8
ettari. Ancora nel 1731-39 gli appezzamenti in donazione erano 159, per un
totale di 30 652 ettari. Se si sommano gli appezzamenti esistenti nel 1739
vediamo che 110 893 ettari (il 45,9%) sono stati acquistati dai diversi
donatari, mentre 100 036 ettari (il 42,3%) sono stati ereditati, regalati o
ottenuti per matrimonio, e derivavano quindi dal prestigio dei titolari (Nash
1992).
I dati mostrano inoltre che la terra venduta e acquistata era all’incirca la
metà, mentre l’altra metà proveniva dalle connessioni con altre famiglie
signorili. Come nelle altre società di piantatori, nel primo terzo del XVIII
secolo anche nella Carolina del Sud la dotazione di risorse naturali era di
almeno 500 acri e le piantagioni di queste dimensioni appartenevano a 255
persone, ma soltanto 19 persone possedevano piantagioni di piú di 2000
acri.
Nel periodo compreso fra il 1730 e il 1770 le terre vendute e acquistate
erano destinate principalmente alla produzione di riso, mentre quelle
destinate all’indaco e al granturco erano meno frequentemente oggetto di
compravendita. Ciò significa che in questo periodo la piantagione era
dedicata essenzialmente al riso, mentre le altre produzioni erano
complementari.
Le piantagioni si consolidarono tra il 1732 e il 1775, quando comparve
una divisione operativa fra terre coltivate e terre lasciate senza coltivo,
considerate di riserva. Il rapporto fra terra coltivata e riserva era dell’1,5
nell’area centrale, dello 0,8 nell’hinterland e dello 0,4 nell’area di frontiera
aperta. In quel periodo le piantagioni consolidate nell’area di Charleston
erano organizzate in modo simile al modello elaborato del geografo tedesco
Johann Heinrich von Thünen sulla base della distanza dal principale
mercato, il porto di esportazione di Charleston, come si può vedere nella
tabella 24. Le piantagioni piú lontane da Charleston avevano superficie
maggiore, che compensava la maggiore distanza dal porto. La loro
estensione raddoppiava quasi quando si passava da 6 a 10 miglia di
distanza, aumentava di un altro 40 per cento circa tra le 11 e le 20 miglia ed
era piú che tripla rispetto alle dimensioni iniziali tra le 21 e le 50 miglia.

Tabella 24.
Dimensioni delle piantagioni nell’area di Charlestown, 1732-75.

Lo schema rappresentato nella cartina 18 di una piantagione di 329 ettari


mostra il corpo centrale della piantagione, dove si trovavano la residenza
padronale, le case dell’amministrazione e le capanne degli schiavi. Vi sono
poi le aree del granturco, di cui una parte era destinata alla sussistenza della
manodopera schiava, al bestiame, alla casa padronale e a quelle
dell’amministrazione, e il resto alla commercializzazione. I campi di riso
occupavano metà della piantagione, divisi in dieci piccoli appezzamenti e
nove grandi campi; vi erano poi due lotti di bosco di una certa estensione. È
importante notare inoltre la presenza di terre affittate, adiacenti alla strada
che portava a Charleston. Il riso era la produzione piú importante, quella
che generava il reddito maggiore, mentre il granturco costituiva il reddito
secondario.

Cartina 18.
Schema di una piantagione di riso nelle terre basse, 1789.
Fonte: ibid., p. 118.

Se confrontiamo la piantagione della cartina, appartenente a James


Stanyarne, con quelle dell’area di frontiera possiamo notare che la
piantagione di Broughton Island produceva 299 tonnellate di riso, per un
valore di 19 947 sterline, ossia il 99,1 per cento del reddito totale. Anche la
piantagione di New Hope derivava il suo reddito dal riso, per un valore di
11 182 sterline, pari al 99,6 per cento del reddito totale. Si trattava di
piantagioni monoproduttrici, a differenza di quella di Stanyarne che
ricavava invece il proprio reddito combinando il riso con il granturco
(Edelson 2006).
L’analisi dei prezzi praticati nel porto di Charleston tra il 1720 e il 1840
mostra che l’incremento del prezzo del riso permise effettivamente di
quadruplicare le esportazioni, tanto da diventare il principale prodotto del
commercio transatlantico della Carolina del Sud. Alla fase di ascesa del
prezzo del riso seguí tra il 1740 e il 1760 una fase di depressione, seguita a
sua volta da una nuova ripresa tra il 1764 e il 1774.
L’andamento del prezzo e delle esportazioni di riso dipendeva dalla
domanda metropolitana e da quella delle altre colonie britanniche. Le
esportazioni verso l’Inghilterra rappresentavano il 4,5 per cento dell’offerta
europea di riso nel periodo compreso tra il 1720 e il 1729, giungendo poi a
rappresentare il 18,2 per cento dell’offerta nel periodo tra il 1760 e il 1769.
Osservando le esportazioni della Carolina del Sud notiamo che il dato
relativo al riso raddoppia tra il 1750 e il 1770, mentre nello stesso periodo
l’indaco moltiplica per dieci il suo volume di esportazione (Nash 1992).
Sebbene la manodopera schiavile e lo sfruttamento a basso costo delle
risorse naturali costituissero il fondamento delle piantagioni, bisogna
considerare anche la capacità imprenditoriale dei piantatori e dei
commercianti. L’introduzione del riso nella Carolina del Sud fu resa
possibile negli anni Novanta del XVII secolo dalle tecniche di coltivazione
africane già note agli schiavi, come il controllo dell’acqua tramite chiuse
costruite con alberi scavati e utilizzati come canaline e l’uso della zappa
lunga per diserbare i campi (Carney 1998).
La specie coltivata nella Carolina del Sud era l’Oryza glaberrima,
proveniente dall’Africa occidentale, nell’area da cui erano prelevati gli
schiavi. Il riso doveva essere processato, al fine di eliminare il guscio
indigeribile, con un mortaio in legno. Fra il 1691 e il 1698 fu introdotta una
macchina per la pulitura del riso, ma la produzione aumentò davvero solo
alla metà del XVIII secolo, grazie all’utilizzo dei mulini a trazione animale.
I piantatori contribuirono inoltre all’espansione delle risaie con
l’introduzione delle nuove pratiche del controllo dell’acqua nelle terre
paludose, apprese dalla lettura di pubblicazioni agricole. Furono cosí
costruiti bacini artificiali che evitavano la dispersione dell’acqua e, a partire
dal 1750, si cominciò a coltivare il riso nelle pianure alluvionali, sfruttando
l’innalzamento e l’abbassamento del livello dell’acqua fluviale provocato
dalle maree oceaniche. Per questo furono creati reticoli geometrici di
terrapieni, con campi livellati dove il riso veniva irrigato attraverso un
sistema di canali.
Anche la produzione dell’indaco conobbe una serie di innovazioni
importanti. A differenza delle risaie, dove gli schiavi lavoravano
individualmente, per la produzione dell’indaco era necessario il lavoro a
squadre. Dopo la fase della semina, gli schiavi si occupavano del raccolto,
pompavano l’acqua dalle cisterne, battevano il liquido infuso e impastavano
il colorante in tavolette destinate alla commercializzazione. Si trattava di un
lavoro assai piú faticoso di quello delle risaie, che obbligava i piantatori a
formare la manodopera.
Osserviamo ora la gestione delle cinque piantagioni di Henry Laurens,
tra il 1766 e il 1773. In questo caso il piantatore si trovava a dover gestire i
vari flussi di alimenti e acquavite destinati alle piantagioni di riso situate
nell’area di frontiera. La piantagione Mepkin era la sede centrale, dove
veniva portato il riso prodotto nelle altre quattro piantagioni, per
compensare il deficit di input nelle risaie (Edelson 2006). Oltre
all’organizzazione delle produzioni vi era poi la gestione dei rapporti con le
ditte mercantili, l’asset piú importante delle piantagioni. Gli scambi
avvenivano nel porto di Charleston. Alla fine del periodo coloniale questo
aveva un’estensione di 121 ettari al suo interno, in uno spazio ridotto situato
nella parte orientale della città, dove si trovavano i depositi, i magazzini e i
pontili. Alla fine del XVIII secolo nell’area portuale operavano 230 ditte
mercantili, che rappresentavano circa 2000 piantatori.
Henry Laurens, che faceva parte del gruppo dei grandi piantatori,
sosteneva nella sua contabilità che il profitto di una piantagione non doveva
essere inferiore all’8 per cento annuo. Secondo altri piantatori, gli schiavi
«si pagavano con il loro lavoro» in 4-5 anni, suggerendo cosí che il profitto
reale fosse del 15-20 per cento annuo. I documenti contabili di Laurens ci
permettono di calcolare i profitti delle sue piantagioni nel periodo compreso
fra il 1766 e il 1773. La piú redditizia era quella di Mepkin, che presentava
un tasso medio del 19,7 per cento. Era seguita dalla Altama River
Plantation, che aveva un tasso del 7,2 per cento, da Wambaw, con un tasso
del 2,8 per cento, e da Wright’s Savannah, con un tasso del 2,7 per cento. Il
profitto medio delle piantagioni era del 10,1 per cento, il 2,1 per cento in
piú del tasso di profitto minimo. Paragonato con il ricavato dei buoni del
tesoro inglese, equivalente al 4 per cento annuo, il profitto delle piantagioni
risultava essere piú del doppio di quello che era possibile ottenere cedendo
il proprio capitale alla Bank of England.
Come già avveniva nelle piantagioni del Chesapeake, i piantatori della
Carolina del Sud non ragionavano solo in termini di profitto, ma anche di
aumento della propria ricchezza. Gli investimenti in manodopera e
macchinari permettevano infatti di costruire nuovi edifici, canali
d’irrigazione, bacini idrici e strade, e di ampliare e arricchire la residenza
padronale. L’incremento della ricchezza del piantatore, sostenuta dal potere
coercitivo del governo e dal codice negriero, dipendeva dalla sua capacità
di organizzare il lavoro degli schiavi e l’autoproduzione di input per la
sussistenza della sua famiglia, del personale amministrativo e della
manodopera.
Anche nella Carolina del Sud tuttavia i piantatori dovettero far fronte
alle ribellioni e alle fughe degli schiavi. Nel 1739, nell’area del fiume
Stono, i ribelli uccisero 20 bianchi. Il governo coloniale emanò allora
l’editto del 1740, che impediva l’uscita degli schiavi dalle piantagioni senza
un’autorizzazione scritta del piantatore.
Come la Carolina del Sud, anche la Georgia si sviluppò inizialmente
come produttore di riso. La colonia fu fondata nel 1720, in onore di Giorgio
III , dalla Georgia Trustees, un gruppo di cinquantun filantropi londinesi
guidati da James Oglethorpe, che intendevano alleviare la povertà che
affliggeva le città inglesi inviando i bisognosi in America. Trasformati in
soggetti produttivi, i nuovi coloni avrebbero inoltre permesso di difendere
la frontiera meridionale dell’impero britannico. Insieme al finanziamento da
parte della corona e del parlamento, la Georgia ricevette dunque il charter
che concedeva ai Trustees la gestione della colonia per ventun anni,
dopodiché sarebbe diventata una colonia regia. Tra il 1733 e il 1742 i nuovi
coloni furono trasportati gratuitamente in America, e furono loro assegnati
piccoli poderi, poiché i Trustees avevano stabilito che la colonia non
dovesse avere piantatori e manodopera schiava.
In breve tempo, tuttavia, le idee dei fondatori furono contestate dai nuovi
coloni, che con il motto di «Libertà e proprietà senza restrizioni» difesero il
diritto di puntare alla grande proprietà schiavista. I Georgia Trustees
abbandonarono il loro progetto, e nel 1751 la colonia divenne proprietà
della corona, che permise la schiavitú e autorizzò la nomina di
un’assemblea, di un consiglio regio e di un governatore (Taylor 2002).
Questa trasformazione attirò immediatamente in Georgia molti piantatori
dalla Carolina del Sud e dalle Indie occidentali, che con i loro schiavi
svilupparono piantagioni di riso e indaco.
Pur essendo una ridotta minoranza, i nuovi arrivati disponevano delle
conoscenze e delle terre necessarie per mantenere un tenore di vita elevato e
ricoprire un ruolo politico importante. Questa minoranza occupò dunque le
nuove istituzioni coloniali, e nella seconda metà del XVIII secolo favorí la
concessione dei lotti di terra gratuiti. La norma generale della donazione era
quella di concedere 40 ettari al titolare e 20 ettari a ogni membro della sua
famiglia, inclusi gli schiavi. I coloni piú influenti ricevevano le terre
migliori, adiacenti alle strade, irrigate e situate a 15-30 chilometri dalla
costa (Gallay 1988).
Un esempio di grande proprietà della Georgia era quello di Jonathan
Bryan, che possedeva quattro piantagioni nell’area del fiume Savannah e
ottenne inoltre la concessione di un molo nel porto fluviale. Nel 1765 Bryan
consolidò la propria piantagione centrale, Walnut Hill, che disponeva di 250
schiavi. Fu anche proprietario di piantagioni nella Carolina del Sud e
intrattenne solidi contatti commerciali con Charleston e Bristol (Gallay
1988).
Si stima che nel 1750 il costo di una piantagione di riso in Georgia fosse
di 2476 sterline, che comprendevano il costo degli schiavi e delle
attrezzature agricole, poiché i 2000 acri necessari provenivano da una
donazione di terre demaniali. Come nella Carolina del Sud, le piantagioni di
Bryan seguirono il principio dell’autosufficienza degli input, ottenendone
una riduzione delle spese. L’alimentazione degli schiavi e degli impiegati
bianchi era infatti autoprodotta, come anche il bestiame, il legname e i
materiali per la costruzione delle abitazioni e dei canali d’irrigazione. I
maggiori indici di spesa del piantatore non erano diversi da quelli della
Carolina del Sud, e consistevano nei vestiti e negli articoli domestici forniti
dai commercianti di Savannah. Bryan aveva un rapporto diretto con un
commerciante di Bristol, Edward Lloyd, che forniva i crediti e garantiva la
commercializzazione delle produzioni (Gallay 1988).
Come in Carolina del Sud, anche in Georgia lo sviluppo avvenne a
partire dalle aree costiere, dove furono create risaie irrigue, con canali e
dighe; e anche qui furono impiegati gli schiavi, posti sotto il duro controllo
dei sorveglianti (Chaplin 1992). Come in Carolina inoltre i piantatori
georgiani studiarono le innovazioni tecniche dell’irrigazione, specialmente
quelle olandesi. Si diffuse cosí l’uso delle pompe per drenare i pantani e nel
1786 fu brevettata dall’assemblea legislativa della colonia una macchina in
grado di drenare e desalinizzare le paludi. Nello stesso anno fu anche
approvata una norma che obbligava le piantagioni ad aprire le barriere il 10
di marzo di ogni anno, per evitare pericolosi ristagni d’acqua nei canali.
Il passaggio della Carolina del Sud e della Georgia alla produzione del
cotone fu il risultato della chiusura dei mercati europei del riso e
dell’indaco durante la Rivoluzione americana. In questo periodo fu anche
introdotto, per l’imballaggio del cotone, l’uso della pressa precedentemente
utilizzata per il tabacco, che permetteva di ridurre l’ingombro del prodotto,
rendendone piú agile il trasporto (Chaplin 1991).
La Georgia continuò a seguire il modello dell’autoproduzione anche
dopo il passaggio al cotone. Gallman (1970) sostiene che negli anni
immediatamente precedenti all’abolizione della schiavitú l’alimentazione
rappresentasse il principale consumo nelle piantagioni di cotone. Il
prevalere del sistema di autoproduzione delle piantagioni bloccava quindi
ogni possibile sviluppo nella produzione di alimenti da parte dei piccoli e
medi proprietari agricoli. Le piantagioni di cotone rimasero dunque
ancorate all’autosufficienza degli input, una parte dei quali divenne
un’attività commerciale secondaria. A generare il reddito monetario era
invece il cotone, non solo nelle piantagioni ma anche per quanto riguardava
la piccola proprietà. Il risultato fu che, ancora nel 1860, tutte le proprietà
(comprese le piccole) continuavano a produrre i propri input, con una media
di granaglie pro capite di 53 bushel, pari a 1,34 tonnellate.
Se limitiamo l’analisi alle piantagioni di piú di 120 ettari è possibile
osservare che il 17,3 per cento del granturco autoprodotto era consumato
dagli schiavi; il 2,5 dalla manodopera libera; il 34,6 era destinato al
bestiame da commerciare; il 39,6 al bestiame utilizzato dalla piantagione,
compresi i suini che venivano distribuiti agli schiavi; infine il 6 per cento
era rappresentato dai semi per la riproduzione. Gli schiavi ricevevano tra gli
1,3 e gli 1,8 chilogrammi di carne suina alla settimana, con una media
annua di 104 libbre. Solamente tre delle dieci grandi piantagioni della
Carolina del Sud e sei delle undici della Georgia riuscirono a raggiungere la
completa autosufficienza; probabilmente molte dipendevano dalla
produzione delle altre tenute appartenenti allo stesso proprietario.
Il successo del cotone nel vecchio Sud americano è legato al Sea Island,
una varietà a fibra lunga proveniente dalle Bahamas. A differenza dei cotoni
a fibra corta, questa nuova varietà produceva un filo lungo e setoso
adeguato alla produzione di filati e tele di pregio (Beckert 2016).
La produzione e l’esportazione di cotone della Carolina del Sud e della
Georgia aumentarono rapidamente, passando tra il 1790 e il 1800 da 4,5 a
2900 tonnellate. Questo incremento fu facilitato dall’indipendenza di Haiti,
che era stato il principale fornitore dei paesi europei, e dall’arrivo in
America settentrionale di molti piantatori francesi provenienti dall’isola.
Dopo una prima crescita, l’esportazione del cotone rallentò perché la
coltivazione era limitata alle regioni costiere, mentre sulle alture si
coltivava ancora un cotone a fibra corta, piú difficile da pulire. Eli Whitney,
che giunse a Savannah nel 1793 appena uscito dalla Yale University,
inventò una macchina per sgranare il cotone che moltiplicò per 50 la
produttività, rilanciando la produzione nelle aree interne della Carolina del
Sud e della Georgia.
Prima dello sviluppo delle piantagioni di cotone, la principale
produzione georgiana era rappresentata da riso e granturco. La resa del
granturco era di 0,35 tonnellate per ettaro nelle piccole proprietà e tra 1,4 e
1,9 tonnellate nelle piantagioni di piú di 200 ettari. Nel 1860, nelle contee
di DeKalb e Floyd, tutte le aziende agricole si erano ormai convertite alla
produzione di cotone. Nella contea di DeKalb questa coltura costituiva il
45,5 per cento della produzione delle piccole proprietà; il 73,3 per cento di
quella delle proprietà medie tra i 40 e gli 80 ettari, e il 100 per cento di
quella delle piantagioni di piú di 80 ettari. Nella contea di Floyd il cotone
costituiva il 72,1 per cento della produzione delle piccole proprietà; l’83,3
per cento di quella delle proprietà tra i 40 e gli 80 ettari e il 100 per cento di
quella delle piantagioni piú grandi. Nella contea di DeKalb era destinato
alla coltivazione di cotone il 40,3 per cento delle terre, mentre il restante
59,7 per cento era utilizzato per la produzione di beni per l’autoconsumo.
Nella contea di Floyd le terre destinate alla produzione di cotone erano il
60,8 per cento, e il restante 35,2 per cento era destinato ai beni di
autoconsumo (Weiman 1987).
Il cotone era inviato direttamente in Inghilterra e le esportazioni
aumentarono cosí rapidamente che molti piantatori della Carolina del Sud si
trasferirono in Georgia con i loro schiavi: tra il 1790 e il 1820 la produzione
di cotone passò qui dal 18,4 al 39,5 per cento, raggiungendo nel 1860 il
61,1 per cento.
Come scrive Sven Beckert (2016), nel XIX secolo l’impero del cotone
poggiava su due assi gemelli, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Si trattava
tuttavia di un impero instabile, poiché il rapido esaurimento del suolo
costringeva i piantatori a spostare costantemente la coltivazione verso altri
appezzamenti, lasciando che i terreni non piú fertili si ricostituissero
attraverso la coltivazione di legumi e la concimazione con il guano, un
nuovo fertilizzante proveniente dal Perú. Il risultato fu che le piantagioni di
cotone si estesero verso l’Alabama e la Louisiana, per raggiungere poi il
Mississippi, l’Arkansas e il Texas. Nel 1860 il 75 per cento del cotone era
prodotto in queste nuove regioni, mentre nel 1811 ne producevano appena il
6,25 per cento.
Carolina del Sud e Georgia divennero quindi il modello produttivo per le
nuove regioni che dominarono il nascente impero del cotone. Qui fu
elaborato anche un nuovo rapporto tra piantatori e commercianti, basato
sulla fiducia, e simile a quello descritto per le piantagioni di Chesapeake e
dei Caraibi inglesi.
I commercianti vendevano le produzioni delle piantagioni e acquistavano
e spedivano tutti i manufatti richiesti, concedendo crediti al piantatore. Il
nuovo rapporto fiduciario assunse un carattere permanente. Si assisté al suo
primo sviluppo nel corso della Rivoluzione americana, che portò a una
riduzione nella presenza dei commercianti inglesi e incrementò quella degli
americani (Woodman 1990). Ancora nel 1800 molti piantatori trasportavano
il raccolto a Charleston e Savannah per venderlo a compratori locali, che a
loro volta lo rivendevano ai capitani delle navi o agli agenti dei
commercianti inglesi. Si trattava di un sistema oneroso, poiché il piantatore
era tenuto a vendere o a scambiare il raccolto immediatamente, senza avere
la possibilità di immagazzinarlo in attesa di un prezzo migliore.
La nuova forma di commercializzazione era il cosiddetto contratto di
factoring: una transazione in cui il commerciante diventava un debitore
finanziario, che rivendeva le merci ricevute a un terzo, denominato fattore,
con uno sconto. In questo modo, il commerciante eseguiva le istruzioni del
piantatore nella vendita del cotone, acquistando beni per lui e la sua
piantagione e ottenendo anticipi sulle vendite future. Tale modello aumentò
i capitali delle reti commerciali, permettendo la nascita delle merchant
banks che associavano commercio e credito bancario. Questo tipo di
transazione era utilizzato nei principali mercati di cotone (Fayetteville,
Columbia, Augusta, Macon, Atlanta, Montgomery, Nashville, Memphis) e
in tutti i porti: a Charleston, Savannah, Mobile e New Orleans, che
diventarono i principali mercati del cotone (Woodman 1990).
Progressivamente, alcuni piantatori cominciarono a inviare direttamente
il raccolto alle aziende di factoring di Liverpool, ma una gran parte di
queste fu aperta in America. Nel 1850 il factoring piú importante era gestito
dalla Hill, McLean Co. di New Orleans, che lo gestiva in associazione con
alcune ditte di Montgomery. Nel 1860 un gruppo di società di factoring di
New Orleans annunciò pubblicamente di avere come consociate ditte del
Texas, di Montgomery, del Mississippi e di altri importanti mercati del
cotone. Vediamo invece che le ditte di New Orleans e Filadelfia lavoravano
con società di Liverpool.
Nei tre decenni che precedettero la guerra civile, la grande azienda
londinese Baring Brothers ricevette cotone dai suoi soci commerciali di
Charleston, Savannah, Mobile e New Orleans; mentre le società di proprietà
della famiglia Brown con sede a New York, Liverpool, Londra e Baltimora
avevano agenti nei principali mercati del cotone.
Nel momento in cui le società di factoring assunsero il ruolo di banchieri
dei piantatori, si ridussero i costi delle commissioni sulla vendita del
cotone, che erano aumentati all’inizio del XIX secolo (Woodman 1990).
Dall’analisi di 142 archivi di piantagioni di cotone emerge che tra il
1800 e il 1860 la produzione aumentò del 6,6 per cento annuo, il numero di
schiavi aumentò del 2,4 per cento e il prezzo di uno schiavo dell’1,9 per
cento annuo. Nel corso di questi sessant’anni l’incremento della produzione
presentò un andamento regolare, il che compensò probabilmente la
diminuzione dello 0,53 per cento annuo del prezzo reale del cotone. Nelle
aree del cotone a fibra corta, nella prima metà del XIX secolo il raccolto
medio giornaliero di un lavoratore si quadruplicò, passando da 11 a 44
chilogrammi (Olmstead e Rhode 2008). L’economia di scala delle
piantagioni poté cosí espandersi, riducendo il costo di produzione.
Ciò che gli indicatori macroeconomici non mostrano sono tuttavia i
fattori che contribuirono a questo incremento produttivo. L’aumento nel
raccolto giornaliero fu forse dovuto a un aumento delle ore lavorative, dato
che il sistema repressivo del lavoro schiavile si rafforzò nel corso della
prima metà del XIX secolo. Tuttavia tale incremento potrebbe anche essere
dipeso dall’aumento dell’autoproduzione dei beni per il bestiame e per la
manodopera schiava e libera della piantagione. Una notevole percentuale
dell’autoconsumo della Georgia (tra il 35 e il 59 per cento) proveniva infatti
dalle terre delle piantagioni. Tra i fattori che spiegano l’incremento
produttivo vanno ricordati inoltre il perfezionamento del cotone coltivato, le
innovazioni nello sgranamento e l’uso della pressa precedentemente
menzionati.
In sintesi, si può dire che l’economia di scala delle piantagioni di cotone
si sviluppò in funzione dell’organizzazione produttiva, dell’innovazione
tecnologica, del factoring finanziario e dell’intensità del lavoro degli
schiavi.

In conclusione, possiamo considerare la piantagione come un


insediamento territoriale dotato di una molteplicità di funzioni che la
inserivano all’interno di un sistema signorile. Si trattava di un’istituzione
gerarchica, in concorrenza a livello produttivo con le altre piantagioni ma
anche in grado di cooperare con esse a livello politico, nelle assemblee
legislative, e a livello materiale, nelle innovazioni tecnologiche, nelle
comunicazioni e nella commercializzazione. La piantagione fu quindi
un’istituzione economica gerarchica produttiva, che si manifestò a livello
geografico e territoriale, a livello produttivo e sociale. La struttura
gerarchica della piantagione organizzava la vita della popolazione
differenziandola in base alla libertà, alla ricchezza, all’onore e al prestigio.
La sua organizzazione interna era influenzata dal commercio, che grazie
all’economia di scala rendeva la piantagione competitiva rispetto alle altre
aree produttive mondiali.
La piantagione fu anche un’istituzione politica, in grado di organizzare i
governi locali e regionali che consentirono agli stati dell’ancien régime di
irradiarsi all’interno delle aree del mondo atlantico stringendo alleanze con
la classe dei piantatori.
La piantagione assunse infine il ruolo di istituzione culturale, capace di
sviluppare e radicare l’organizzazione gerarchica. Con l’aiuto dei poteri
locali e regionali controllati dai piantatori, questo tipo di organizzazione
trovò infatti un veicolo nella religione cristiana, in quelle africane e nei vari
sincretismi a cui esse diedero vita.
Edgar T. Thompson (1975) ha dunque ragione a definire la piantagione
come un sistema gerarchico in grado di svolgere funzioni economiche,
sociali, culturali e politiche. Egli dimentica, tuttavia, che rispetto alle altre
forme organizzative fondate sulla proprietà la forza della piantagione
proveniva essenzialmente dalla capacità di rendere egemone la sua specifica
dimensione economica. Conviene quindi sottolineare l’efficacia
dell’economia di scala a partire dal potenziamento degli scambi e delle
transazioni, che la proiettarono oltre l’organizzazione produttiva e verso la
riproduzione istituzionale nel tempo. Allo stesso modo, mi pare limitata
l’ipotesi formulata da Fogel ed Engerman (1974), che fonda la produttività
delle piantagioni esclusivamente sulla manodopera schiava, cosí come
anche tutte quelle ipotesi che tengono conto soltanto della produzione pro
capite degli schiavi. Considerare l’economia di scala come l’elemento
chiave del sistema della piantagione permette invece di associare le
variabili economiche a quelle culturali, politiche e istituzionali,
sottolineando il ruolo dei piantatori come classe egemone del mondo
atlantico americano, sicuramente meno sofisticata della nobiltà europea ma
anch’essa impregnata dai valori dell’ancien régime.
Capitolo quinto
Le costanti delle rivoluzioni atlantiche

Le rivoluzioni atlantiche sono state viste come un processo che


incomincia nelle aree dell’America continentale inglese e che prosegue in
Francia, per riattraversare poi l’Atlantico con la rivoluzione di Haiti e, in
forma piú moderata, con le guerre d’indipendenza dell’America iberica.
Questa narrazione, tuttavia, non tiene conto dell’influenza e delle
ripercussioni che le rivoluzioni atlantiche ebbero anche sui paesi
dell’Europa continentale che non facevano parte del mondo atlantico. In
realtà, le rivoluzioni atlantiche segnarono l’inizio delle grandi
trasformazioni avvenute nel mondo occidentale tra l’ultimo terzo del XVIII
secolo e la prima metà del secolo seguente. A prescindere dalle varianti
specifiche che questa trasformazione ha presentato in aree diverse, si
tratterà dunque di analizzarne le principali costanti al fine di evidenziarne la
dimensione mondiale.
Nel primo paragrafo cercherò di illustrare come il nuovo valore
universale della libertà abbia dato vita, nel periodo compreso fra il 1770 e il
1815, a una nuova fase politica e sociale che mise fine all’ancien régime,
che durava almeno da quattro secoli. Una volta precisate le caratteristiche di
questa fase, il secondo paragrafo analizzerà la costruzione di nuove forme
di governo, in grado di dare voce ai ceti esclusi nei secoli precedenti,
soffermandosi in particolare sulle interazioni fra la nascita degli Stati Uniti
e la Rivoluzione francese. Nel terzo paragrafo illustrerò come, a partire
dall’ultimo decennio del XVIII secolo, le innovazioni precedentemente
analizzate si siano diffuse nell’area atlantica dei Caraibi e quali reazioni
provocarono. In quest’area, dove la presenza degli schiavi africani e
afroamericani era particolarmente forte, si produssero infatti una serie di
rivoluzioni e di ribellioni che impedirono non solo la nascita di nazioni
indipendenti, ma anche la formazione di un assetto istituzionale favorevole
alla classe proprietaria. Nel quarto paragrafo, infine, verrà offerta un’analisi
comparata delle varie fasi delle rivoluzioni atlantiche tra il 1776 e il 1825.

1. «Il grido universale della libertà»: la nascita di un nuovo campo


politico e sociale.

Siamo abituati a concepire l’era delle rivoluzioni atlantiche come una


catena di eventi sviluppatasi a partire dalle conseguenze intercontinentali
della guerra dei Sette anni (1756-63), che si è manifestata prima
nell’America britannica continentale e poi in Francia, per attraversare in
seguito nuovamente l’Atlantico arrivando nella colonia francese di Saint-
Domingue e riapprodare infine nell’America iberica durante l’era di
Napoleone. Cosí considerate, le rivoluzioni atlantiche diventano tanti atti di
un unico spettacolo, e ognuna di esse sembra avere cause locali e
conseguenze quasi esclusivamente nazionali (Ghachem 2003a). Vedremo
che cosí non fu.
L’intero processo rivoluzionario può essere definito come un movimento
di opposizione alla schiavitú, alla servitú e a tutte le forme di violenza e di
coercizione utilizzate dalle classi proprietarie e determinate dallo sviluppo
asimmetrico del mondo atlantico. Per chiarire questo primo punto bisogna
tener presente che a partire dal 1750 non fu solo il mondo atlantico a
trasformarsi in un nuovo campo di sviluppo politico e sociale, ma anche la
totalità dell’Europa, delle Americhe e dell’Africa. Questo campo di
sviluppo va concepito come lo spazio in cui si annodarono i fili della vita
sociale, dando vita a un’azione collettiva che orientò attività e dibattiti
offrendo loro un senso nuovo (Rosanvallon 1992).
Causa scatenante fu la crisi fiscale delle potenze atlantiche, derivata
dall’incremento delle spese militari della guerra dei Sette anni e irradiatasi
in tutte le aree del mondo atlantico. Dall’Europa il conflitto giunse infatti a
coinvolgere le colonie britanniche e francesi dell’America continentale, le
aree spagnole dell’America del Nord e i Caraibi. In un opuscolo pubblicato
a Bruxelles nel 1790 si legge che in piú della metà del globo tutti gli uomini
lanciavano ormai un solo grido, condividevano un unico desiderio: insieme
al popolo l’umanità intera «si alza per reclamare la maestosa e potente
libertà». Le rivoluzioni si susseguirono infatti in tutti i paesi che si
affacciavano sull’Atlantico, sfidando i privilegi dell’aristocrazia, degli
ecclesiastici e dei monarchi per reclamare la sovranità del popolo. In alcuni
casi le insurrezioni portarono alla nascita di stati duraturi, piú spesso i moti
si esaurirono e furono dimenticati.
I leader rivoluzionari del XVIII secolo concepivano la libertà come un
concetto globale, e questo portò allo stabilirsi, nel mondo atlantico, di una
serie di connessioni. Pensiamo ad esempio ai legami tra il commerciante
toscano Filippo Mazzei e Thomas Jefferson, consiglieri del re di Polonia a
Parigi, o ancora al discorso di Anna Falconbridge, moglie del teorico
dell’abolizionismo e fondatore di Freetown in Sierra Leone Alexander
Falconbridge, che ricordava l’insurrezione di Fouta Jallon e la conseguente
creazione di uno stato teocratico mussulmano. Anche il rivoluzionario
francese Jacques-Pierre Brisot fece riferimento all’esistenza di vincoli tra i
diversi movimenti: nella rivoluzione di Haiti si sentivano gli echi dei
movimenti rivoluzionari che Brisot aveva conosciuto a Ginevra, in America
e in Francia. In maniera simile, Condorcet descrisse l’universale grido di
libertà che risuonava dall’Europa ai paesi atlantici.
Nel mondo atlantico della fine del XVIII secolo l’universalismo europeo
fu alimentato dalle tradizioni di ribellione africane e caraibiche, e in Africa
ebbero vasta risonanza le parole di Diderot, che ricordavano che libertà
significa godere liberamente degli inalienabili diritti naturali. Quella libertà
fu invocata dai ribelli della Sierra Leone, che avevano già sostenuto la
rivolta di Temma e Mori Kannu contro la crudeltà della schiavitú, e che
lottavano per l’autogoverno richiamandosi all’esperienza americana. D’altra
parte, Abraham Bishop si chiedeva perché i suoi connazionali non
intervenissero ad Haiti a sostegno dei «diritti delle persone nere», e fossero
invece tra i primi ad appoggiare il ritorno delle catene (Polasky 2015).
Ritroviamo inoltre in tutte le aree atlantiche l’opposizione alla secolare
organizzazione cetuale-gerarchica: nei regni africani, dove prevalevano
società fondate sul potere del clan regio e sulla gerarchia di nobili, liberi e
schiavi; e nell’America iberica, dove vi erano profonde differenze tra
piantatori, commercianti, funzionari, servi e schiavi.
Il motore del nuovo campo politico delle insurrezioni furono
evidentemente gli attori sociali, privati delle garanzie minime ed esclusi dal
mondo politico, assai piú numerosi nell’Atlantico americano per via della
massiccia presenza di schiavi e per la diffusione della servitú per
indebitamento. Gli altissimi livelli di esclusione nel mondo americano
erano testimoniati dalla presenza delle comunità libere di schiavi che
comprendevano, come abbiamo visto, anche amerindi e bianchi. In Africa
occidentale gli esclusi trovarono un potente alleato nella diffusione
dell’Islam, che nel corso del XVIII secolo favorí la resistenza alla schiavitú a
Fouta Jaloo e Mona, tra la Guinea e la Sierra Leone.
Come ho ricordato nel secondo e terzo capitolo, nel XVII e XVIII secolo si
diffuse in Africa e nelle Americhe iberiche il pluralismo legale, già presente
nello ius commune dell’Europa medievale per effetto dell’interazione tra il
diritto romano e il diritto canonico, che permise di attenuare la violenza e la
coercizione (Gilissen 1972). Grazie a esso, le tensioni e le rivendicazioni
sociali dei liberti neri, mulatti e meticci poterono essere riorientate verso la
richiesta dello status di vicinia (vecinos), considerato anche una forma di
ascesa sociale dal momento che permetteva di accedere alle milizie
coloniali. Nel periodo compreso fra il 1750 e il 1830, inoltre, nei Caraibi, in
Brasile e nell’America coloniale britannica e francese i ceti popolari liberi
cominciarono ad aiutare familiari e amici ad acquistare la libertà, e
favorirono la fuga degli schiavi (Berlin 1977).
Un’altra novità settecentesca fu il superamento della dimensione locale
delle critiche alla schiavitú, avviate nel XVI secolo in Europa e tra i
quaccheri nelle colonie dell’America del Nord. Grazie ai teorici
dell’Illuminismo queste critiche isolate si trasformarono in un movimento
piú ampio, che raggiunse inizialmente la società inglese e si diffuse poi
nell’Europa continentale. Il nuovo movimento antischiavista diede vita a
gruppi di pressione, diffuse informazioni scritte e orali e organizzò
manifestazioni pubbliche e petizioni per influenzare il dibattito
parlamentare. Le società abolizioniste si organizzarono in tutti i paesi
atlantici e manifestarono a favore dei trattati contro il commercio degli
schiavi. I movimenti e le associazioni abolizioniste riuscirono a diffondere
massicciamente le proprie idee nell’opinione pubblica solo a partire dal
1840, raggiungendo anche i settori popolari (D. Richardson 2007;
Grenouilleau 2007). Sebbene la Francia avesse abolito la schiavitú nel 1794
(ma in via definitiva soltanto nel 1848), l’abolizionismo non era stato infatti
incorporato nelle idee repubblicane, probabilmente perché era diffuso
soprattutto tra i protestanti e nel XVIII secolo rappresentava ancora un
fenomeno d’élite.
È interessante notare come due rivolte di schiavi, quella di Demerara
(Guiana olandese) nel 1816 e quella delle Barbados nel 1823, abbiano
bloccato il dibattito parlamentare inglese sull’abolizione, mentre la rivolta
della Giamaica nel 1831-32 abbia al contrario portato a un’accelerazione
del processo abolizionista. Vi fu quindi un rapporto diretto tra rivolte e
abolizionismo, tanto che i danesi misero definitivamente fine al lavoro
schiavile dopo la rivolta dei Caraibi nel 1848 (Beauvois 2013).
Nonostante la diffusione, nel corso del XVIII secolo, delle idee
abolizioniste, i negrieri proseguirono ancora a lungo le loro attività. Nel
1758 furono esclusi dall’assemblea dei quaccheri di Filadelfia gli individui
dediti al traffico degli schiavi, e nel 1780 anche i proprietari di schiavi, ma
la prima società antischiavista dell’America continentale fu fondata nel
1779 e fu solo nel 1790 che Benjamin Franklin presentò al congresso un
disegno di legge abolizionista. Fino all’indipendenza del Brasile (1821-25),
il Portogallo fu favorevole soltanto a un’abolizione graduale, e la tratta tra
l’Angola e il Brasile continuò in realtà indisturbata anche dopo la firma del
trattato del 1821 con l’Inghilterra, che aboliva la schiavitú. Lo stesso
avvenne per i trattati firmati tra l’Inghilterra e gli stati dell’Africa
occidentale e orientale e per il trattato anglo-spagnolo del 1835, che non fu
applicato a Cuba, dove il traffico illecito di schiavi era praticato ancora nel
1850 (Mason 2009).
Nonostante le ingenti somme stanziate dall’Inghilterra tra il 1816 e il
1862 per bloccare le navi negriere, i risultati furono piuttosto scarsi. Tra il
1808 e il 1867 furono infatti bloccate 576 navi che trasportavano 152 600
schiavi, ma il numero di navi che riuscirono a sfuggire fu di molto superiore
poiché solo una nave su cinque fu effettivamente fermata (Eltis 1987).
La diffusione e il consolidamento dell’abolizionismo a partire dal
secondo terzo del XIX secolo procedettero congiuntamente alla
rivendicazione dei diritti politici e sociali. Ciò andò di pari passo con
l’affermazione di una nuova élite culturale nelle aree atlantiche, composta
da individui che in molti casi avevano soggiornato in Inghilterra e in
Francia e si erano nutriti del dibattito europeo.
2. La ricerca di nuove forme di governo.

Se teniamo presente che i movimenti rivoluzionari sorti nel mondo


atlantico nel XVIII secolo in molti casi naufragarono nel nulla, bisognerà
chiedersi quali siano stati gli elementi essenziali che caratterizzarono e
differenziarono le rivoluzioni atlantiche successive. A partire dal 1750 il
mutamento del campo politico e sociale derivò dall’ascesa di nuovi gruppi
d’interesse: le reti commerciali, che diventarono anche reti finanziarie e
sociali, dotate di una forte capacità di azione politica. A differenza dei ceti
privilegiati dell’ancien régime, questi gruppi d’interesse nuovi si
organizzarono in funzione di obiettivi di durata limitata e si fondarono sulla
rappresentanza. In questo modo, far parte di un gruppo d’interesse non
escludeva la possibilità di avere legami con altri gruppi d’interesse
economico, sociale, politico o religioso. In altre parole, i ceti privilegiati
cominciarono a disgregarsi e gli attori sociali si definivano ormai
essenzialmente a partire da interessi individuali e parentali. Essi poterono
scegliere nei club e nei circoli sociali le persone piú affini ai loro interessi e
capaci di rappresentarli nelle istituzioni, nelle reti sociali e commerciali o
nelle confraternite. Fu questo il preludio della politica moderna, che vide il
passaggio dalla società gerarchica alla società politica, coinvolgendo i
cittadini, trasformando gli interessi sociali e vincolandoli ai nuovi attori
sociali emersi nel processo di trasformazione posteriore al 1750.
Nell’ambito di questo quadro generale, un decennio prima della
rivoluzione prese forma in America settentrionale una nuova élite nera, che
poté emergere grazie all’espansione della popolazione libera afroamericana.
Prince Hall a Boston, Richard Allen a Filadelfia, Daniel Coker a Baltimora,
Christopher McPherson a Richmond, Andrew Bryan a Savannah e molti
altri riuscirono a farsi strada nella nuova repubblica americana grazie
all’istruzione e ai livelli di ricchezza raggiunti; occuparono posizioni di
prestigio all’interno delle loro comunità e furono in grado di esercitare
pressioni sulla società bianca per favorire la libertà degli afroamericani
schiavi. Forte della Dichiarazione d’Indipendenza, la nuova élite si fece
portavoce delle istanze abolizioniste presentate al congresso e alle
legislature statali (Berlin 1977). Una nuova interazione sociale e politica di
questo genere si manifestò anche nell’America iberica, ad esempio negli
accordi stipulati nei primi decenni del XIX secolo tra i leader rivoluzionari e
le reti di notabili di Pernambuco, Sonora e della costa argentina (Lewin
1989; Voss 1982; Chiaramonti 1991).
I nodi essenziali attraverso cui possiamo analizzare le rivoluzioni
atlantiche sono il consenso, la costituzione politica e i diritti dei cittadini.
Possiamo osservarli nello svolgersi del processo che vide la nascita della
confederazione degli stati americani e la sua evoluzione verso la repubblica
federale degli Stati Uniti. Tale processo ebbe inizio a metà del XVIII secolo
e si configurò come una lotta contro il potere di pochi, che opprimeva la
maggioranza, privandola della libertà, intesa come legge e diritti uguali per
tutti.
Nella Dichiarazione d’Indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America,
emanata il 4 luglio del 1776, si legge che il popolo avrebbe potuto decidere
di dissolvere i vincoli politici che legavano gli stati. Questa dissoluzione era
motivata dall’appello alla legge naturale, secondo la quale gli uomini
nascevano uguali e avevano tutti il diritto inalienabile alla vita, alla libertà e
alla ricerca della felicità: se una forma di governo non avesse tenuto conto
di questi diritti naturali, il popolo avrebbe potuto abolirla e istituirne una
nuova che li garantisse. La Dichiarazione d’Indipendenza procedeva poi
enumerando le ripetute ingiustizie del re Giorgio III d’Inghilterra, che nelle
colonie americane aveva istituito una tirannia, alterando la forma di
governo e il funzionamento della giustizia, compresa l’imposizione di tasse
senza il consenso delle assemblee legislative. Con queste motivazioni gli
stati americani affermavano il proprio diritto a essere liberi e indipendenti
dalla corona britannica. In qualità di stato libero e indipendente, la
confederazione aveva il diritto di dichiarare guerre, firmare paci, contrarre
alleanze, stipulare trattati commerciali e fare tutto quanto fosse ritenuto
necessario.
Si è scritto che la Rivoluzione americana si differenziò dalle altre, poiché
fu una rivoluzione ordinata e senza gli eccessi di quella francese o delle
rivoluzioni avvenute nelle altre aree americane. In realtà, ebbe una serie di
caratteristiche comuni: fu una guerra civile, in cui i cittadini americani si
uccisero tra loro e massacrarono gli amerindi; due quinti degli
afroamericani furono mantenuti in schiavitú, mentre migliaia di altri schiavi
fuggirono dalle piantagioni e parteciparono alla guerra, combattendo da
entrambe le parti. Si stima che la popolazione americana uccisa fu
addirittura superiore a quella della Rivoluzione francese. Per vincere la
guerra civile, i patrioti americani dovettero creare coalizioni in grado di
mobilitare i ceti popolari, senza la cui partecipazione non avrebbero potuto
boicottare le tasse imposte dagli inglesi e poi armarsi e sostenere lo sforzo
bellico (Taylor 2017).
La Rivoluzione americana trovò il suo fondamento nell’oppressione
inglese, e la Dichiarazione d’Indipendenza fu in realtà il punto di arrivo di
un processo iniziato a partire dagli anni Sessanta del XVIII secolo (Greene
1973). Nel 1763 il parlamento britannico, con l’appoggio della Chiesa
d’Inghilterra, aveva imposto una serie di tasse sulla legalizzazione dei
contratti, sul gioco d’azzardo, sulle medicine e sulle licenze, che
rappresentavano una minaccia per il patrimonio dei coloni. A esse si erano
aggiunte, nel 1768, le nuove tasse sulle importazioni americane di beni
inglesi (carta, stagno, vetro e tè) e la sospensione della dipendenza dei
funzionari inglesi dalle assemblee legislative coloniali, al fine di aumentare
il numero di funzionari direttamente dipendenti dalla corona.
Di fronte a queste imposizioni, le risposte piú clamorose degli americani
furono il catalogo delle violazioni dei diritti dei coloni elaborato a Boston
nel 1772 e, sempre a Boston, l’organizzazione del cosiddetto Tea Party nel
1773, durante il quale fu buttato a mare un carico di tè (Bailyn 1967). A
partire dagli anni Quaranta, inoltre, l’aumento della disparità sociale aveva
provocato un inasprimento delle tensioni e avevano cominciato a comparire
nelle assemblee legislative fazioni contrarie ai notabili (Wood 1993).
Prima ancora della Dichiarazione d’Indipendenza, tra il 1775 e il 1776,
l’ostilità al governo britannico aveva determinato l’elaborazione delle prime
costituzioni in ben sette stati (Massachusetts, New Hampshire, Carolina del
Sud, Rhode Island, Connecticut, Virginia e New Jersey). Tra il 1777 e il
1780 approvarono le proprie costituzioni di stati indipendenti la Georgia e
New York; il New Hampshire nel 1784, mentre il Massachusetts e la
Carolina del Sud riscrissero le loro prime carte costituzionali. Con
l’eccezione della seconda costituzione del Massachusetts e di quella del
New Hampshire, tutte furono adottate dalle assemblee legislative
preesistenti, senza essere ratificate dai cittadini. Tutte queste costituzioni
erano espressione di un’ideologia repubblicana moderata, e tutte erano
bicamerali, ad eccezione di quelle della Pennsylvania e della Georgia,
unicamerali. Tutte sancivano il principio del consenso della rappresentanza
cittadina come condizione vincolante per ogni forma di tassazione. I
distretti elettorali erano rappresentati dalle città e dalle contee, che
determinavano il numero degli eletti alla camera bassa. La camera alta, il
senato e il consiglio legislativo avevano invece un numero inferiore di
rappresentanti. Le costituzioni stabilivano che il governatore dello stato
fosse un rappresentante della repubblica responsabile nei confronti del
popolo, in nome del quale rendeva esecutive le leggi approvate dalle
camere. Il governatore era inoltre a capo delle forze navali e militari dello
stato. Per il resto, il sistema giudiziario preesistente non subí alcuna
modifica (Morey 1893). La teoria politica alla base di tutte le costituzioni
statali era di orientamento comunitario con particolare enfasi sul consenso
diretto della maggioranza popolare, che costituiva quindi il collegamento
essenziale tra la teoria e la pratica repubblicana (Lutz 1979).
Mi sono soffermato sulle costituzioni statali perché furono il preludio
tanto della Dichiarazione d’Indipendenza, quanto della costituzione
confederale del 1777. Quest’ultima rappresentò l’atto di fondazione della
nuova nazione indipendente, che ottenne il consenso della maggioranza
della popolazione bianca di origine britannica e segnò l’inizio dello sforzo
organizzativo della nuova repubblica. Si capisce quindi perché la
rivoluzione abbia inaugurato una nuova era, che riordinò la società e la
politica in funzione delle idee repubblicane (Wood 1972).
Il passaggio dall’organizzazione degli stati alla confederazione richiese
invece piú tempo. Dopo la Dichiarazione d’Indipendenza, il congresso
continentale creò un comitato incaricato di scrivere gli articoli della
costituzione, i cui lavori terminarono nel 1777. La nuova costituzione diede
vita alla confederazione: l’unione perpetua tra gli Stati Uniti d’America
approvata da tutti i membri tra il 1777 e il 1781. Gli «Articoli di
Confederazione» definivano ogni stato come sovrano, libero e
indipendente, e delegavano alla confederazione alcuni poteri per garantire
la libertà di movimento delle persone, la difesa militare, la sicurezza della
libertà e il benessere mutuo e generale. I delegati degli stati dovevano
riunirsi annualmente per definire i problemi generali. La Dichiarazione
d’Indipendenza e la costituzione confederale mostravano il largo consenso
territoriale di cui godettero i principî della rivoluzione, e che portò alla
creazione di una nazione.
La logica confederale cominciò tuttavia a venir meno dopo il 1780, al
punto che per cinque anni il congresso continentale non riuscí a raggiungere
il quorum e, di conseguenza, a governare efficacemente la confederazione.
Questa situazione irrobustí la percezione che la completa sovranità di ogni
stato fosse il principale ostacolo alla rivoluzione. Nel biennio 1786-87
l’istituzione del governo centrale divenne il problema politico principale e
si pose dunque la necessità di una riforma che permettesse la nascita di un
governo nazionale forte, capace di superare la debolezza della
confederazione (Wood 1972).
Si assisté cosí al graduale superamento della tradizione britannica che
enfatizzava la politica comunitaria e le virtú repubblicane, e si definí una
nuova idea repubblicana federale, che trovò in James Madison il suo
principale teorico. Il federalismo implicava un sistema elettorale diverso,
con distretti piú ampi, elezione indiretta del Senato, una maggiore durata
degli incarichi e poteri separati ma condivisi. Pur non rinunciando all’idea
liberale secondo cui tutti i poteri del governo derivavano dal popolo, il
federalismo doveva dunque bilanciare l’interesse individuale con quelli
collettivi. Il commercio divenne lo strumento essenziale per riorientare le
virtú repubblicane americane, e l’idea liberale di indire frequenti elezioni
per le cariche pubbliche andò a bilanciare il peso dei poteri federali (Eleazar
1982).
Nella nuova costituzione del 1787 osserviamo dunque come la divisione
dei poteri favorisse la protezione della libertà e della proprietà dei cittadini.
Allo stesso tempo, tuttavia, essa contribuiva a regolamentare la concorrenza
tra interessi e fazioni diverse, garantendo che nessuna parte sociale potesse
ledere i diritti delle altre (Wood 1993).
Le istituzioni, il governo federale e lo sviluppo di un potere giudiziario
indipendente tentarono di mitigare la tendenza favorevole alla maggioranza
popolare. La costituzione e i diritti costituzionali indicano che la
rivoluzione accompagnò la trasformazione sociale scaturita dall’energia del
popolo, e l’uguaglianza divenne il centro e la circonferenza della prima
democrazia, tanto da diventare il cuore del repubblicanesimo: la
cittadinanza repubblicana implicava l’uguaglianza (Wood 1993).
Probabilmente il nuovo corso politico moderato dipese dalla
polarizzazione avvenuta nell’ultimo decennio del XVIII secolo, che sulla
scia degli eventi francesi e anche della rivoluzione haitiana vide i
repubblicani dividersi dai federalisti. I primi abbracciarono la nuova
Rivoluzione francese, mentre gli altri ne denunciarono l’orientamento
radicale (Taylor 2017). È all’interno di questo influsso incrociato delle tre
principali rivoluzioni che deve essere letto dunque il passaggio dalla guerra
d’indipendenza al modello nazionale negli Stati Uniti.
Tra il 1786 e il 1812 si susseguirono almeno dodici scioperi di artigiani e
lavoratori giornalieri contro i ceti proprietari, oltre a due ribellioni (quella
del whiskey nel 1794 e quella capeggiata da John Fries nel 1799) e alla
rivolta di Gabriel (1800). Le ribellioni del 1794 e del 1799 mostrano bene il
peso dell’iniquità fiscale. Quella del whiskey riguardava una nuova tassa
federale sull’alcol distillato, approvata dalle grandi ditte commerciali della
costa e avversata dai piccoli produttori della nuova frontiera, che dovevano
pagare una tassa superiore a quella dei grandi produttori. La ribellione del
1799 fu invece condotta dai proprietari della Pennsylvania contro le tasse
dirette imposte dai federalisti che controllavano il congresso. La rivolta
degli schiavi in Virginia, infine, coinvolse sia i lavoratori bianchi sia quelli
afroamericani, liberi e schiavi, e scoppiò nella città di Richmond, centro
dell’élite mercantile accusata dello sfruttamento disonesto della
manodopera. Gabriel fu appunto il leader della rivolta, e un elemento
ricorrente delle sue apparizioni pubbliche fu significativamente il tricolore
francese. I tre esempi qui riportati mostrano dunque la persistenza dello
spirito ribelle, sviluppatosi nel corso della guerra rivoluzionaria (Newman
2000) e l’importanza dell’idea di uguaglianza all’interno del modello
nazionale, con un consenso simile a quello di cui aveva goduto il primo
modello liberale.
Nel 1800, l’elezione di Jefferson alla presidenza determinò l’abrogazione
delle leggi approvate dai repubblicani, comprese quelle che limitavano la
concessione della cittadinanza agli stranieri subordinandola a un numero
molto elevato di anni di residenza. I repubblicani rimasero tuttavia
particolarmente forti negli stati del Sud schiavista, limitando il ruolo del
governo federale (Taylor 2017).
In Francia, l’influsso della Rivoluzione americana fu molto forte, in
particolare in due momenti della storia di quegli anni: nella fase iniziale
della rivoluzione, fra il 1789 e il 1791, e durante il Consolato. Già nel 1776,
infatti, circolava in Francia una traduzione della Dichiarazione
d’Indipendenza americana. In seguito, l’esperienza americana serví ai
deputati francesi nell’elaborazione dei principî di governo (Marienstras e
Wulf 1999). Dopo un soggiorno in America, Jacques-Pierre Bissot fu eletto
all’Assemblea nazionale e propose la separazione tra il potere legislativo e
il potere costituente, richiamandosi all’America libera che aveva deciso che
l’elaborazione della costituzione avrebbe dovuto appartenere «alla nazione
o al popolo» (Mazzanti Pepe 2007). Il testo dei diritti dell’uomo e del
cittadino approvato dall’Assemblea nazionale contiene del resto frequenti
riferimenti ai testi americani.
Durante il periodo giacobino, invece, quando il potere legislativo
coincise con il potere costituente, la Rivoluzione americana assunse
un’immagine negativa. Secondo l’argomentazione giacobina, infatti, il
diritto dei rappresentanti del popolo all’insurrezione contro l’oppressione
sarebbe stato una manifestazione del potere costituente, in contrasto con
l’idea americana secondo cui una volta approvata la costituzione sarebbe
stato il potere legislativo a opporsi all’oppressione.
La «lunga durata» della Rivoluzione francese teorizzata da François
Furet, che ne prolunga la storia fino alla fine del XIX secolo e all’inizio del
secolo successivo, ci aiuta a capire il divario esistente tra l’Europa atlantica,
di cui la Francia fa parte, e le aree atlantiche americane. Secondo Furet,
infatti, la Rivoluzione francese si concluse soltanto con la vittoria dei
repubblicani sui monarchici all’inizio della Terza repubblica, quando la
Francia raggiunse «le profondità del paese», ossia quando anche la Francia
contadina si integrò nella nazione repubblicana (Furet 1978). Vi fu quindi
un’asimmetria politica delle rivoluzioni atlantiche, evidente prima di tutto
nella forma di governo nata dalla rivoluzione: la monarchia costituzionale
in Francia e la repubblica nelle Americhe.
Pur non conoscendo le ragioni storiche di questa asimmetria, possiamo
senz’altro affermare che essa fu legata a un’asimmetria economica
derivante dai maggiori profitti europei rispetto alle aree americane.
Entrambe le rivoluzioni poggiarono sul fondamento comune del diritto
naturale, secondo il quale l’ordine sociale e politico sarebbe stato reso
possibile dal riconoscimento e dalla garanzia dei diritti inalienabili di tutti.
Nei testi costituzionali francesi, gli articoli riguardanti i diritti dell’uomo e
del cittadino erano nove; sette quelli riguardanti i diritti della nazione. I
primi stabilivano che l’associazione politica avesse come scopo la difesa
dell’uomo che resiste all’oppressione, legittimando cosí la rivolta del 14
luglio 1789. Era garantita la libertà individuale di movimento, di pensiero,
di parola e di stampa, il cui unico limite consisteva nel non nuocere agli
altri. Anche la proprietà fu garantita come diritto inalienabile, di cui
nessuno avrebbe potuto essere privato tranne che per ragioni di necessità
pubblica legalmente regolate. Insieme alla libertà e alla proprietà tutelava
l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, alla giustizia e alle imposte. Anche
qui, come nel caso americano, il concetto di uguaglianza fu essenziale e
modificò profondamente il sistema giuridico dell’ancien régime, che
poggiava sull’idea dei doveri e dei servizi. Il primo diritto della nazione era
la sovranità sostenuta dal popolo, al di là delle differenze che potevano
esistere al suo interno, superando in questo modo il dissidio preesistente tra
individuo e comunità. La nazione non poteva dunque essere frammentata,
poiché essa rappresentava gli interessi dell’insieme dei governati, e non
quelli dei governanti. La sovranità si esprimeva attraverso la legge,
manifestazione della volontà generale che riguardava quindi tutti gli
individui, e stabiliva l’ordine pubblico a cui nessuno poteva derogare. I
poteri dello stato erano quelli che preservavano la sovranità. Essi erano
separati, poiché la costituzione controllava il potere esecutivo e impediva la
sovranità personale, mentre i rappresentanti dei cittadini controllavano la
spesa pubblica e approvavano i crediti pubblici e l’utilizzo dei fondi
pubblici (Ellul 1998).
La prima fase della Rivoluzione francese ebbe fine con la costituzione
del 1791, che si apriva ricordando come essa poggiasse sull’eliminazione di
tutti i privilegi e le distinzioni che «ferivano la libertà e l’uguaglianza dei
diritti». Tra i diritti garantiti dalla costituzione figurava l’apertura delle
cariche pubbliche a tutti i cittadini e la proporzionalità dei tributi versati dai
cittadini in base alla loro ricchezza, anche questa intesa come un
prolungamento dei diritti naturali. Erano riconosciute la libertà di
associazione e la petizione individuale, oltre al principio secondo cui la
libertà e i diritti naturali e civili non potevano essere ostacolati dal potere
legislativo.
La costituzione stabilí che la Francia era un regno indivisibile, cosí come
indivisibile e imprescrittibile era considerata la sovranità nella misura in cui
apparteneva alla nazione. La nazione era l’unica fonte di tutti i poteri
pubblici ed era rappresentativa sia a livello legislativo sia esecutivo. Il
potere legislativo era delegato all’Assemblea nazionale, composta da
rappresentanti liberamente eletti dal popolo. Il potere esecutivo apparteneva
invece al re, che esercitava la propria autorità tramite i ministri e gli altri
agenti di governo. Il potere legislativo aveva la facoltà e la funzione di
proporre e decretare le leggi, stabilire la spesa e i contributi pubblici,
organizzare la ripartizione delle tasse dirette tra i dipartimenti e stabilire, su
proposta del re, il numero di uomini e di navi destinati all’esercito e alla
marina, determinandone i compensi e l’arruolamento.
Il ruolo del re, capo supremo dell’amministrazione generale, era quello
di mantenere l’ordine e la tranquillità pubblica e, come capo supremo
dell’esercito e della marina, di garantire la sicurezza esterna del regno e di
conservare i suoi diritti e i suoi dominî. Il re nominava gli ambasciatori e gli
altri agenti delle negoziazioni, designava i capi dell’esercito e della marina,
i marescialli di Francia e gli ammiragli. Il re nominava inoltre i gradi
superiori dell’amministrazione pubblica, i responsabili dei contributi
indiretti e gli amministratori dei beni nazionali.
Il potere giudiziario apparteneva ai giudici, eletti dal popolo e
successivamente nominati dal re, che non poteva rifiutarli. Al potere
giudiziario competeva stabilire le sedi dei tribunali e il numero dei giudici
in ognuno di essi. Questi esercitavano le loro funzioni e non potevano
essere né destituiti, né sospesi dal loro incarico. Come i giudici, anche i
pubblici ministeri erano eletti dai cittadini. Tredici articoli della costituzione
stabilivano le regole dei tribunali, le loro competenze penali e civili e il
funzionamento delle carceri. Presso l’Assemblea nazionale fu creata la
Corte di cassazione, che aveva la funzione di rivedere le sentenze dei
tribunali e di pronunciarsi sulle domande di controllo. Integrata dalla Corte
di cassazione, la suprema Corte costituzionale era informata sulle cause
concernenti la sicurezza dello stato.
Nel 1792 la Convenzione decretò l’abolizione della monarchia e dichiarò
l’indivisibilità della Repubblica francese. La costituzione del 1793 elaborò
poi ulteriormente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789. Per molti aspetti simile a quella del 1791, la nuova costituzione
stabilí tuttavia la sovranità del popolo: il potere apparteneva
all’«universalità dei cittadini» ed era esercitato a partire dalle assemblee di
cantone. La costituzione del 1793 assegnò il primato al potere legislativo,
che assunse molti dei poteri precedentemente assegnati al monarca. Il
potere esecutivo divenne collegiale, delegato a ventiquattro membri eletti
dalle assemblee elettorali di ogni dipartimento. Il potere giudiziario, infine,
divenne garante dell’applicazione dei codici delle leggi civili e penali in
tutta la repubblica.
Le due rivoluzioni presentano dunque una serie di elementi comuni.
Entrambe trovarono le loro origini in una tendenza libertaria irregolare e
intermittente, che preparava la fine del vecchio ordine. Nel corso del
processo rivoluzionario la Francia rimosse gli ostacoli della precedente
centralizzazione politica e amministrativa, mentre gli Stati Uniti, che non
avevano conosciuto la centralizzazione assolutista, cominciarono con il
dotare di costituzione le diverse territorialità coloniali per poi affidare il
primato al governo nazionale federale. In entrambi i paesi il nuovo ordine
repubblicano si manifestò con la trasformazione dei sudditi in cittadini, che
la nazione rendeva uguali riconoscendo i loro diritti e sviluppando l’idea
che essi dovessero essere rappresentati nei poteri dello stato con la garanzia
di un sistema giudiziario elettivo e indipendente. L’ordine politico era
affidato alla capacità dei governi rappresentativi di regolamentarsi
attraverso istituzioni nate dalla sovranità popolare. Tanto in Francia quanto
negli Stati Uniti, la rivoluzione considerava il cittadino come un’entità
indipendente dalle regioni di appartenenza, poiché tutti avevano gli stessi
diritti e doveri. A partire da questo momento il concetto di cittadinanza e di
governo rappresentativo sarebbe diventato patrimonio di tutte le rivoluzioni
atlantiche.
I governi rappresentativi francesi e americani furono piú potenti di quelli
che le rivoluzioni avevano rovesciato, poiché grazie alla rappresentanza
politica fu creato un rapporto istituzionalizzato tra cittadini e legislatori, ai
quali era attribuito potere senza però precisare su cosa essi fossero delegati
a decidere e senza vincolarli nel corso della loro funzione.
3. La diffusione delle rivoluzioni nell’area dei Caraibi.

Nell’area dei Caraibi, intesa come zona che comprende le isole e i


territori continentali dell’America meridionale che si affacciano
sull’Atlantico, furono ulteriormente rielaborate le idee che avevano
costituito il fondamento delle prime due rivoluzioni atlantiche. Il retroterra
delle rivoluzioni di quest’area è rappresentato essenzialmente dalle
ribellioni degli schiavi e dalle rivolte amerindie e delle nuove popolazioni
meticce e mulatte ridotte in schiavitú. Soltanto i movimenti di ribellione
sviluppatisi dopo il 1750 divennero tuttavia un vero precedente, poiché
quelli anteriori si limitarono a una fuga dalla violenza della schiavitú e della
servitú che, come abbiamo visto, diede vita a comunità libere (maroons)
capaci di convivere, per quanto conflittualmente, con il sistema delle
piantagioni e i governi coloniali.
Con lo sviluppo dei movimenti abolizionisti del XVIII secolo e il
sequestro delle navi negriere da parte della marina inglese avvenne tuttavia
un mutamento che favorí lo sviluppo delle popolazioni afroamericane.
Nelle aree atlantiche iberoamericane la popolazione libera si vide
riconosciuto lo status di vicinia, grazie al quale acquistò il diritto di
residenza e quello di arruolarsi nelle milizie coloniali. Tra gli schiavi
dell’area caraibica, alcuni dei quali avevano imparato a leggere e scrivere
nelle chiese, cominciarono inoltre a diffondersi le prime informazioni sulla
concessione della libertà agli schiavi disponibili ad arruolarsi nell’America
continentale con i rivoluzionari americani o nell’esercito inglese, e la
propaganda abolizionista raggiunse cosí non piú soltanto i bianchi, ma
anche gli afroamericani.
Nel 1791 vi furono ribellioni di schiavi in Giamaica e ad Haiti, ma solo
ad Haiti la ribellione riuscí a trasformarsi in rivoluzione. Haiti e la
Giamaica avevano caratteristiche economiche, sociali e politiche simili, ma
in Giamaica vi erano cinque comunità afroamericane libere che
intrattenevano rapporti frequenti con le piantagioni e le autorità coloniali. Il
punto di partenza delle due ribellioni era quindi diverso.
Sappiamo che gli schiavi giamaicani erano abbastanza informati su
quanto avveniva ad Haiti tra il 1791 e il 1792; durante la preparazione della
rivolta, nella parte nordoccidentale dell’isola, i ribelli giamaicani cantavano
infatti le canzoni di quelli di Hispaniola. Nel 1792 i liberti mulatti di
Kingston, che rappresentavano un terzo delle milizie coloniali della
Giamaica, chiesero all’assemblea dell’isola l’eliminazione delle norme
discriminatorie riguardanti l’eredità e il diritto di testimoniare nei processi.
Significativamente, questa richiesta fu presentata in Giamaica nello stesso
momento in cui ad Haiti i mulatti cominciavano ad acquisire un nuovo peso
politico. La richiesta dei mulatti giamaicani fu presentata dai membri della
Chiesa metodista e accolta nel 1796, nel corso della seconda guerra contro
le comunità libere, cominciata l’anno precedente con l’insurrezione della
comunità di Trelawny, sull’altopiano di Montego Bay. Influenzata dalla
rivoluzione haitiana, la ribellione fu sconfitta dopo una resistenza di nove
mesi grazie a un accordo tra il governatore britannico e una parte degli
insorti. I ribelli sconfitti furono deportati prima nella Nuova Scozia e poi in
Sierra Leone (Geggus 1987).
Il caso giamaicano mostra bene come i rapporti tra gli schiavi che si
ribellavano e le comunità libere siano diventati conflittuali a partire dal
1790, quando queste ultime cominciarono a contrapporsi alle insurrezioni
degli schiavi urbani e di quelli delle piantagioni. Probabilmente, in questa
fase i poteri coloniali si accordarono con le comunità libere perché li
aiutassero a catturare gli schiavi fuggiaschi (Genovese 1979).
Ad Haiti, invece, il passaggio dalla ribellione alla rivoluzione fu reso
possibile dalla particolare articolazione con la Rivoluzione francese. I
proprietari bianchi rivendicavano infatti la partecipazione dell’isola agli
Stati generali e i proprietari francesi li appoggiavano, sostenendo la
necessità di rappresentare «una delle piú grandi provincie dell’impero»
(Ghachem 2003b; Benot 2004). Venti dei trentacinque rappresentanti
bianchi eletti a Saint-Domingue raggiunsero cosí gli Stati generali e ai
coloni fu infine concesso di nominare sei deputati, due per ogni provincia
dell’isola, permettendo agli altri rappresentanti bianchi di partecipare come
osservatori.
Nel marzo del 1790 il comitato coloniale dell’assemblea stabilí la
procedura per l’elezione delle nuove assemblee provinciali ad Haiti, e in
quest’occasione fu presentata una petizione affinché neri e mulatti avessero
gli stessi diritti dei residenti bianchi. Per salvaguardare gli interessi
provinciali il decreto approvò dunque le assemblee regionali, composte da
coloni e creoli (mulatti e neri). Nel maggio dello stesso anno l’assemblea
generale di Saint-Marc, che rappresentava le provincie occidentali e
meridionali di Haiti, elaborò la costituzione dell’isola, sul modello della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino emanata dall’assemblea
francese. La costituzione definiva il diritto di proprietà come inviolabile e
sacro, proteggendo cosí i proprietari di schiavi; d’altra parte, i neri e i
mulatti ottennero l’eleggibilità all’assemblea generale (Ghachem 2003b).
Il riconoscimento della presenza dei diversi gruppi etnici nelle assemblee
regionali e in quella generale fu tuttavia concesso soltanto ai proprietari di
almeno venti schiavi, con il risultato che i proprietari bianchi esclusi
passarono all’opposizione. Lo scontro che venne a crearsi culminò con
l’abbandono dell’isola da parte dei membri dell’assemblea centrale.
Nonostante i conflitti, tutti i proprietari bianchi sostenevano la rivoluzione
in atto in Francia. Nel frattempo, la mobilitazione politica raggiunse i
mulatti e i neri liberi presenti in Francia, sostenuti dalla «Società degli
amici dei neri», e nel marzo del 1791 l’assemblea francese approvò
l’uguaglianza di tutte le popolazioni dell’isola. Nello stesso anno gli schiavi
si ribellarono nella provincia settentrionale della colonia di Saint-
Domingue, obbligando i bianchi a rifugiarsi a Cap Français (odierno Cap
Haïtien) e dimostrando la propria capacità organizzativa.
La rivolta ebbe inizio domenica 14 agosto 1791, quando i delegati degli
schiavi delle varie piantagioni si riunirono in un bosco nella regione
centrale dell’isola. Il loro leader era Boukman, un mulatto di cui sappiamo
solo che era a capo dei sorveglianti e della setta religiosa Rouché. Egli
annunciò che l’assemblea e il re di Francia avevano decretato l’abolizione
della frusta e riconosciuto il diritto degli schiavi di godere di tre giorni liberi
alla settimana. L’assemblea clandestina approvò il piano della rivolta di
tutte le piantagioni rappresentate alla riunione e fissò l’insurrezione per il
24 agosto.
Le scarse informazioni in nostro possesso ci dicono che gli insorti
utilizzarono i simboli e le idee dei rivoluzionari francesi, ma fecero appello
soprattutto alla monarchia, mescolando il linguaggio repubblicano alle
invocazioni al re. La figura del sovrano era infatti utilizzata come possibile
contrappeso all’autorità dei padroni e delle istituzioni coloniali (Dubois
2003). Alla fine del 1791 vi erano formazioni politiche di schiavi in tre
provincie dell’isola. Nel Nord la presenza afrohaitiana fu cosí importante da
portare a un’alleanza tra bianchi e liberti per proteggere Cap Français. Nella
provincia occidentale e in quella meridionale, invece, questa alleanza non si
produsse: in quella meridionale si assisté addirittura, al contrario, a uno
scontro aperto tra bianchi e liberti, tanto che i piantatori bianchi e mulatti
armarono i propri schiavi (Klooster 2009).
I legami tra Haiti e la Francia proseguirono tra il 1793 e il 1794, quando
si riaprí il divario tra costituzione e rivoluzione, che l’assemblea costituente
aveva dichiarato conclusa nel 1792. La nuova congiuntura si manifestò
sull’isola con l’arrivo dei commissari rivoluzionari francesi, nel momento
in cui la ribellione degli schiavi si estese verso le regioni meridionali, e per
frenare la rivolta i mulatti e i neri liberi favorirono l’invasione delle truppe
spagnole e inglesi, appoggiando un colpo di stato dei piantatori.
Il momento era drammatico anche in Francia: il paese era invaso da
truppe di diversi stati europei e dilaniato dalla lotta tra le diverse correnti
rivoluzionarie. La Convenzione reagí istituzionalizzando il governo
rivoluzionario repubblicano, per sconfiggere il nemico e le fazioni
rivoluzionarie autonome. Ad Haiti, nel frattempo, nel 1792 gli schiavi
sconfissero l’esercito del governo francese e nel 1793 i delegati neri e
mulatti all’Assemblea nazionale in Francia chiesero l’abolizione della
schiavitú, decretata poi l’anno successivo dalla Convenzione: tutti gli
«uomini, senza distinzione di colore, domiciliati nelle colonie, sono
cittadini francesi e avranno tutti i diritti assicurati dalla costituzione». I tre
rappresentanti di Haiti – un bianco, un mulatto libero e un ex schiavo –
ebbero un ruolo decisivo in questo percorso istituzionale verso l’abolizione
della schiavitú (Blancpain 2008).
L’abolizione della schiavitú rese ancor piú virulenta la reazione dei
proprietari bianchi, che con l’appoggio degli spagnoli e degli inglesi
cercarono di riportare l’ordine occupando la maggior parte del territorio
dell’isola. La risposta dei rivoluzionari haitiani non si fece attendere. Essi
erano guidati da Toussaint Louverture, nato in una piantagione di zucchero
ma figlio dell’erede al trono di Allada, nel Dahomey (odierno Benin), che
era stato venduto e poi spedito ad Haiti. A trent’anni Toussaint Louverture
ottenne la libertà e divenne proprietario di una piantagione. Si alleò con i
repubblicani francesi e tra gli ufficiali del suo esercito troviamo una serie di
ex schiavi, come Jean-Jacques Dessalines e Henri Christophe, un nero
libero approdato molto giovane nel paese. Louverture e i suoi riuscirono a
impadronirsi della parte settentrionale dell’isola tra la fine del 1794 e
l’inizio del 1795. Le sue capacità di mediazione lo resero un leader
apprezzato dai diversi gruppi sociali ed etnici e il consenso aumentò
ulteriormente quando nel 1797 prese le distanze dal commissario francese
Sonthonax.
Grazie alla politica di neutralità nei confronti dell’Inghilterra e degli
Stati Uniti, Louverture riuscí a neutralizzare il rappresentante del Direttorio,
Hédonville, che voleva riportare Haiti sotto il controllo francese. Dopo aver
cacciato le truppe spagnole ottenne infine il controllo dell’intera isola e
avviò l’organizzazione del nuovo stato.
Il 4 febbraio del 1801, settimo anniversario dell’abolizione della
schiavitú, Louverture convocò dunque l’assemblea costituente per
consolidare con una carta costituzionale la rivoluzione. L’influenza della
costituzione francese del 1791 sul testo di Louverture fu indubbia, ed è
evidente il riferimento alla divisione dei poteri; fu assegnato un ruolo
preponderante all’esecutivo, guidato da un governatore che era anche
comandante generale delle forze armate. Il principio essenziale della
costituzione del 1801 è che l’intero territorio dell’isola era «parte
dell’impero francese», il che garantiva che tutti fossero liberi e che le
uniche differenze fossero quelle derivanti dalle virtú e dal talento. L’unica
religione che potesse essere professata liberamente era quella cattolica.
Per quanto riguarda l’economia, spettava al capo dello stato proporre
all’assemblea legislativa le nuove leggi sul lavoro e sul commercio. Il
capitolo VI della costituzione definiva una nuova regolamentazione del
lavoro, volta a evitare di interrompere la produzione; vi si sosteneva inoltre
la necessità di evitare la concorrenza dei beni stranieri con quelli prodotti
sull’isola.
L’organizzazione politica prevedeva un’assemblea centrale composta da
due deputati per dipartimento, rinnovabili ogni biennio. Il primo
governatore, che come abbiamo detto gestiva il potere esecutivo e
comandava le forze armate, fu evidentemente Toussaint Louverture. I
successivi governatori sarebbero rimasti in carica cinque anni, e oltre a
rispettare la costituzione erano tenuti a rimanere «nel governo francese».
Il potere giudiziario era gestito dai tribunali di prima istanza e da una
corte d’appello. Anche l’amministrazione municipale di ogni parrocchia
civile prevedeva un tribunale di giustizia e un’amministrazione municipale
eletta ogni due anni ma scelta dal governo in una lista di sedici persone.
La gestione delle finanze spettava al governatore, che oltre a organizzare
la riscossione delle tasse e a gestire la spesa pubblica doveva occuparsi
degli affitti dei beni dei proprietari assenti, che conservavano infatti i loro
diritti di proprietà nel territorio dello stato. La costituzione doveva essere
approvata dalla Repubblica francese (Gaffield 2007).
L’aspetto piú significativo del governo di Louverture fu la sua capacità
di contrastare le politiche francesi di restaurazione, volute prima dalla
Convenzione e poi dal Direttorio. Nel 1802, tuttavia, Dessalines e
Christophe si dichiararono favorevoli ad accordarsi con il generale francese
Charles Leclerc e Louverture fu costretto ad abbandonare il governo,
ponendo come unica condizione che non fosse restaurata la schiavitú.
L’auspicio di Louverture si sarebbe rivelato illusorio: nel 1802 Napoleone
emanò un decreto che restaurava la schiavitú e fra il novembre del 1802 e il
marzo del 1803 il successore di Leclerc ad Haiti ordinò l’esecuzione di 30
000 mulatti e neri insorti. Di fronte alla repressione francese, il primo
gennaio del 1804 i ribelli emanarono una Dichiarazione d’Indipendenza,
sottoscritta da diciassette generali: «morire piuttosto che vivere sotto la
dominazione francese», istituire «un governo stabile» e combattere per
l’indipendenza (Geggus 2011).
Dopo il colpo di stato che portò alla destituzione di Dessalines, il paese
fu organizzato in sei divisioni militari, i cui comandanti integrarono il
consiglio di stato. Nel 1805 fu emanata la costituzione, che proclamava la
repubblica e rielaborava le idee contenute nella costituzione del 1801. Il
primo articolo specificava che non dovevano esistere schiavi nel territorio
della repubblica e che i diritti dell’uomo e del cittadino erano la libertà, la
sicurezza e la proprietà. Si insisteva sull’idea della sovranità popolare come
meccanismo di difesa dei cittadini e si restituivano al potere legislativo tutte
le funzioni eliminate nella costituzione precedente. Il senato, composto da
ventiquattro eletti, aveva la funzione di controllo dell’esecutivo e il diritto
di nomina dei segretari di stato. La sicurezza interna ed esterna del paese
spettava al comandante delle forze armate. Era inoltre ripristinato il potere
giudiziario e istituita la Corte di giustizia, nominata tra i giudici dei
tribunali di dipartimento.
È difficile pensare che il turbolento periodo abbia ridotto il potere dei
militari. Il paese si divise in due parti, nord e sud, e mentre nella parte
settentrionale rimase in vigore la costituzione del 1806, in quella
meridionale la costituzione del 1807 assegnò tutto il potere a Henri
Christophe, tanto che questi poté nominare i membri del consiglio di stato,
permettendo addirittura loro di sospendere la costituzione nelle regioni in
cui fossero segnalati dei disturbi (Gaffield 2007).
L’inserimento di Haiti all’interno del processo rivoluzionario francese
spiega dunque il fatto che la ribellione, a differenza di quella della
Giamaica, sia riuscita a raggiungere qui una dimensione rivoluzionaria.
Diversamente dalle ribellioni giamaicane, inoltre, quella haitiana trovò un
gruppo dirigente che non solo fu in grado di riprendere l’ispirazione
francese, ma anche di contribuire attivamente alla libertà degli schiavi e di
superare poi, con la Dichiarazione d’Indipendenza del 1804, il ripristino
della schiavitú deciso dal governo francese.
Fra il 1791 e il 1804, la rivoluzione di Haiti precisò la sua capacità di
definire i diritti dell’uomo nella società e la propria versione del concetto di
uguaglianza. Nella costituzione del 1806 e in quella ulteriormente rivista
del 1816 si arrivò alla definizione di legge come volontà espressa dalla
maggioranza dei cittadini e dei loro rappresentanti.
A partire dall’inizio del XIX secolo le rivoluzioni nelle Americhe
conobbero una fase di stasi, che abbiamo già notato per gli Stati Uniti e che
riguardò del resto anche la Francia, a partire dal Termidoro. In questa nuova
fase le rivoluzioni assunsero una dimensione moderata, senza tuttavia
rinunciare ai principî della cittadinanza e del governo rappresentativo.
Mentre l’Europa evolvette verso la monarchia costituzionale, tutte le aree
americane tranne il Brasile scelsero il modello repubblicano. Si può pensare
che il nuovo orientamento moderato nascesse dalla paura delle classi
proprietarie di eventuali rivoluzioni organizzate dai gruppi neri, mulatti e
meticci. Fu dunque la paura della pardocrazia (il governo dei neri), come
venne definita nei paesi iberoamericani, a facilitare l’indipendenza e
l’accettazione della cittadinanza e dei governi rappresentativi nelle aree
atlantiche dell’America.
I timori della classe proprietaria ebbero inizio con la rivoluzione haitiana
e con la preoccupazione suscitata dalle numerose rivolte scoppiate in tutta
l’area caraibica tra il 1791 e il 1815: nel 1791 si ribellarono gli schiavi della
Dominica, fra il 1795 e il 1797 quelli di Grenada, nel 1795-96 le comunità
libere della Giamaica e fra il 1795 e il 1797 quelli di Santa Lucia e di Saint
Vincent. Anche in Brasile si susseguirono una serie di ribellioni di schiavi,
nel 1789, 1801, 1807, 1809 e 1816. La ribellione di Portorico risale al 1795;
nelle isole francesi della Martinica al 1789, 1790 e 1794 e in Guadalupa al
1791 e 1793. A Cuba, ancora colonia spagnola, si registrarono due rivolte,
nel 1822 e nel 1827 (Barcia 2008). Molto probabilmente influenzate dalle
rivoluzioni francese e haitiana, tutte queste rivolte furono soffocate dalle
guarnigioni militari inglesi, spagnole e brasiliane (Geggus 2011).
Nel mondo iberoamericano le classi dirigenti furono favorevoli a riforme
che ampliassero la partecipazione delle élite coloniali, pur rimanendo
all’interno delle monarchie spagnola e portoghese. Si trattava di trasformare
la monarchia assoluta in monarchie costituzionali che assicurassero una
maggiore autonomia politica e amministrativa alle aree americane. La
partecipazione delle élite ispanoamericane fu ad esempio nutritissima nel
parlamento di Cadice, che promulgò la costituzione del 1812.
L’elemento decisivo che segnò la fine delle monarchie assolute e l’inizio
delle rivoluzioni liberali nel mondo iberico fu l’invasione francese. Il re
portoghese e la sua corte si trasferirono a Rio de Janeiro, mentre nelle aree
ispanoamericane fu riconosciuta la legittimità del re Ferdinando VII,
prigioniero di Napoleone. In queste ultime aree si formarono governi
collegiali per difendersi da un’eventuale aggressione francese.
Nell’America spagnola la nuova situazione frantumò l’organizzazione
amministrativa preesistente, facendo emergere le diverse realtà presenti nei
vicereami e nei governatorati. L’adesione alla legittimità monarchica partí
dai consigli municipali delle capitali coloniali, che sin dal XVIII secolo
erano stati delegati a rappresentare tutti i municipi delle città minori
(Carmagnani 2003).
Dopo che il Congresso di Vienna reinsediò Ferdinando VII sul trono di
Spagna, le prime aree americane colpite dalla restaurazione furono quelle
atlantiche dei Caraibi e del Venezuela. Quest’ultima fu la prima colonia
spagnola ad avviare il processo di indipendenza: nel 1810 un governo
collegiale provvisorio obbligò il governatore ad abbandonare il paese. Il
nuovo governo fu riconosciuto da una gran parte delle provincie, mentre le
altre si schierarono con la reggenza spagnola. Il governo provvisorio
venezuelano convocò dunque il congresso costituente, composto da una
maggioranza di deputati moderati e da una minoranza di deputati
appartenenti alla società patriottica di Simón Bolivar e del rivoluzionario
girondino Francisco Miranda, rientrato dopo un lunghissimo esilio
(Carmagnani 2003). La costituzione del 1811 creò la confederazione degli
stati del Venezuela, uno stato sovrano che si impegnava a procurare il
benessere generale della popolazione, ad assicurare la sicurezza interna ed
esterna, e a sostenere la libertà e l’indipendenza del paese nel rispetto della
religione cattolica.
La costituzione conferiva la sovranità a ciascuna delle sette provincie del
nuovo stato confederale, affinché esse potessero organizzare il loro governo
regionale e amministrarsi con le leggi che ritenessero piú convenienti, a
condizione che non fossero in contrasto con le norme della confederazione,
l’unica entità che poteva assumere la rappresentanza della nazione.
Spettavano alla confederazione il compito di gestire i rapporti con i paesi
stranieri, la difesa comune e generale degli stati confederati, il commercio
estero e quello tra gli stati, i trattati e le alleanze con altri paesi, le
dichiarazioni di guerra e di pace e le forze armate. La confederazione aveva
potere legislativo, esecutivo e giudiziario. L’unica religione dello stato era
quella cattolica e i rapporti con la Santa Sede erano di competenza del
governo confederale. In realtà, il potere del governo confederale fu
piuttosto debole, poiché esso si limitava a far sí che le leggi provinciali
fossero approvate, ad assicurare la libera circolazione tra gli stati e a
garantire i diritti dell’uomo nella società.
Nel 1812 la prima repubblica venezuelana fu rovesciata dai monarchici,
senza bisogno di alcun aiuto militare da parte della Spagna. La
restaurazione scatenò numerose insurrezioni fra gli schiavi delle piantagioni
oltre alla formazione di bande armate nelle pianure interne e nelle regioni
della costa. A loro volta, gli indipendentisti cercarono di riconquistare il
controllo del paese senza tuttavia riuscirvi, poiché con lo sbarco
dell’esercito il re spagnolo riconquistò il paese nel 1815.
Osserviamo una situazione simile anche in Colombia, dove tra il 1809 e
il 1811 l’orientamento autonomista si spinse sino al punto di frammentare
lo spazio del vicereame, dando vita a una serie di costituzioni, ciascuna
delle quali fu emanata da una diversa regione. La costituzione di Socorro,
approvata nel 1809, trovava il suo precedente nell’insurrezione dei
Comuneros del 1781, rapidamente repressa, che rivendicava la protezione
delle terre delle comunità amerindie e una riduzione delle tasse. Essa
dichiarò l’indipendenza della regione e sancí la divisione tra potere
legislativo, esecutivo e giudiziario. La costituzione della repubblica di
Cundinamarca, del 1812, ripropose come fondamento della libertà il diritto
naturale. La forma di governo fu anche in questo caso quella repubblicana,
con la divisione dei poteri. Il potere esecutivo presiedeva il potere
legislativo bicamerale e furono inoltre garantiti i diritti di chi professava la
religione cattolica. Nello stesso anno fu emanata la costituzione dello stato
di Cartagena, sulla costa, e nel 1815 quella dello stato di Antioquia. Vi
furono due tentativi di dare vita a una costituzione confederale, che non
portarono tuttavia ad alcun risultato.
In tutti questi testi costituzionali si fa riferimento, come nelle altre
costituzioni americane, alla difesa del diritto naturale degli uomini. In
Colombia, la nozione di «diritti naturali» si adattò tuttavia a un’istituzione
tipica della cultura politica iberica, la «vicinia», per cui i governanti erano
eletti esclusivamente dai vecinos, ossia dai cittadini in possesso di una
proprietà o un reddito. Nelle esperienze costituzionali colombiane la
«vicinia» non fu riconosciuta agli afroamericani liberi e la schiavitú non
venne abolita.
È importante sottolineare che questa molteplicità di costituzioni emanate
nei Caraibi spagnoli fu precedente e contemporanea alla costituzione di
Cadice (1812), e non può quindi essere considerata una conseguenza
dell’affermazione della monarchia costituzionale fondata sulla sovranità
della nazione spagnola, intesa come associazione di tutti gli abitanti e i
cittadini di entrambi gli emisferi. In Brasile, invece, il trasferimento della
corte portoghese a Rio de Janeiro permise di rafforzare rapidamente il
rapporto tra il re e la colonia atlantica. Le riforme amministrative, tra cui
quella che sanciva la libertà di commercio, furono apprezzate dall’élite
lusobrasiliana e molto interesse riscosse anche la decisione di fare del
Brasile un regno, con diritti e doveri identici a quelli del Portogallo e
dell’Algarve. Altrettanto importante fu la decisione del re di rimanere in
Brasile dopo il 1815, nonostante le pressioni britanniche.
Inoltre, l’adesione brasiliana alla monarchia dipese probabilmente in
gran parte dalla capacità portoghese di reprimere le rivolte degli schiavi che
ebbero luogo tra il 1789 e il 1816, che rafforzò la fiducia dei proprietari
impauriti dalla minaccia di un governo afrobrasiliano. Parallelamente alla
fedeltà monarchica, emerse tuttavia anche un orientamento favorevole
all’indipendenza, tanto tra i membri dell’élite quanto tra gli artigiani e i
militari, molti dei quali erano mulatti e neri liberi che aspiravano a maggiori
diritti politici.
Dopo il Congresso di Vienna il timore di una richiesta di maggiori diritti
da parte dei ceti non privilegiati si tradusse per le élite brasiliane nel timore
di nuove rivolte di schiavi. La pressione dei proprietari del regno
portoghese obbligò dunque il re a rientrare a Lisbona, nominando il
principe Pedro come reggente a cui venne affidato il compito di preparare le
elezioni dei deputati brasiliani alle Cortes di Lisbona. Tanto la maggioranza
moderata, quanto la minoranza radicale dei deputati brasiliani, alcuni dei
quali avevano partecipato ai moti di Pernambuco del 1817, si dichiararono
favorevoli all’autonomia del Brasile nell’ambito della monarchia
portoghese. Le elezioni dei deputati alle Cortes diedero la maggioranza alla
fazione che premeva per riportare il Brasile allo status di colonia, spostando
nuovamente a Lisbona le istituzioni che vi erano state trasferite.
Il dissenso brasiliano si manifestò con forza a Rio de Janeiro, dove le
componenti moderata e radicale chiesero congiuntamente al reggente di non
abbandonare il Brasile. Il principe accolse la richiesta, disconoscendo
l’autorità delle Cortes di Lisbona e convocando l’assemblea costituente che
approvò l’indipendenza del Brasile nella forma di una monarchia
costituzionale. A differenza di tutte le altre costituzioni del mondo atlantico
quella brasiliana, approvata nel 1824, fu l’unica a essere stata concessa da
un monarca.
La costituzione dell’impero del Brasile dichiarò dunque l’indipendenza
della nazione, con un governo federale che riconosceva come religione
ufficiale quella cattolica. Si tratta di una costituzione che diede piú
importanza all’organizzazione dello stato che ai diritti dei cittadini,
menzionati brevemente solo nell’articolo 179, che specificava che i diritti
civili e politici garantiti ai cittadini erano la libertà, la sicurezza individuale
e la proprietà. Fu inoltre stabilita l’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla
legge, furono aboliti i privilegi e le corporazioni, l’istruzione elementare fu
resa gratuita per tutti.
I poteri federali erano quattro: esecutivo, legislativo, giudiziario e
moderatore. Quest’ultimo fu definito come «la chiave di tutta
l’organizzazione politica»: apparteneva esclusivamente all’imperatore e il
suo scopo era il mantenimento dell’indipendenza, dell’equilibrio e
dell’armonia di tutti i poteri dello stato. Spettava infatti all’imperatore
nominare un terzo dei senatori, sanzionare le leggi approvate e sospendere
quelle dei consigli provinciali, nominare i ministri ed eventualmente
rimuovere i magistrati. La centralità dell’imperatore era ulteriormente
rafforzata dalla facoltà di nominare i magistrati, i vescovi, gli ambasciatori
e i comandanti delle forze di terra e di quelle navali. Gli spettava inoltre la
facoltà di negoziare con le nazioni straniere, di stabilire trattati di alleanza e
trattati commerciali, di dichiarare la guerra e firmare la pace.
Il potere legislativo era composto dal congresso dei deputati e dal senato,
che funzionavano congiuntamente nell’assemblea generale. Alla camera dei
deputati spettava il controllo esclusivo delle imposte e dell’amministrazione
pubblica e il reclutamento delle forze armate. Il senato, i cui componenti
erano eletti a vita, aveva la funzione di sorveglianza dei membri della
famiglia imperiale, dei ministri e dei consiglieri di stato. Il potere
giudiziario, definito come un potere indipendente, era composto da giudici
il cui controllo spettava all’imperatore.
Ai poteri federali si aggiungevano quelli provinciali, gestiti dai consigli
generali delle provincie, composti da 21 membri nelle provincie piú
popolate e 13 nelle altre. I consiglieri provinciali deliberavano
esclusivamente sugli affari regionali e le loro risoluzioni dovevano essere
approvate dall’imperatore, che nominava anche il presidente della
provincia.
Tra il 1840 e il 1853 la solidità dell’impero dipese da una classe politica
composta essenzialmente da magistrati e professionisti, in cui i latifondisti
trovarono uno spazio marginale (Murilo de Carvalho 1980; Novais e Mota
1996). Le tensioni che si manifestarono al suo interno derivarono dunque
non tanto dagli interessi della classe politica, che l’amministrazione
imperiale riuscí a controllare, quanto piuttosto dalle insurrezioni avvenute
tra il 1831 e il 1848, dovute agli interessi provinciali degli stati del Nord
(Pernambuco, Recife e Ceará), del Centro (Minas Gerais e Rio de Janeiro) e
del Sud (San Paolo e Rio Grande do Sul).
4. Le costanti delle rivoluzioni atlantiche.

Per riflettere sulle costanti delle rivoluzioni atlantiche bisogna tenere


presente la loro evoluzione temporale. Il movimento ascendente delle
rivoluzioni si situa tra il 1763 e il 1815, mentre tra il 1815 e il 1848 si
osserva una fase di decrescita. Questa dinamica deriva dal fatto che nella
fase ascendente si elaborarono le novità rivoluzionarie, mentre in quella
discendente si ridimensionò la portata iniziale di quelle novità.
L’analisi diacronica delle rivoluzioni atlantiche permette di vedere in
maniera chiara il passaggio dalle innovazioni della cultura politica del
secolo dei Lumi alla loro rielaborazione liberale. Nella prima fase emersero
le due principali dimensioni delle rivoluzioni: la nascita della cittadinanza e
della rappresentanza politica. Nella seconda fase, queste due dimensioni
furono riprese e rielaborate in senso moderato all’interno dell’ordine
politico liberale.
Come abbiamo visto, la Rivoluzione americana e quella francese
trovarono il loro punto di partenza nelle idee preesistenti riguardo al diritto
naturale, derivanti dalla common law inglese e, come è stato recentemente
dimostrato, anche dalla loro formulazione coloniale, enunciata nel 1772
(Reid 1986; Hutson 1992). Nel corso del primo congresso continentale si
aprí infatti in America un dibattito tra i rappresentanti che invocavano
«l’immutabile legge della natura» e quelli favorevoli ai principî della
costituzione storica inglese (Hutson 1992). Nel 1787 James Wilson scriveva
che con la rivoluzione il popolo «riguadagna tutti i suoi diritti naturali» e
non a caso, sin dal 1774, la maggioranza dei coloni riteneva che Giorgio III
li avesse arbitrariamente ricondotti allo stato di natura con il risultato che i
loro diritti provenivano ora direttamente da Dio (Wood 1972).
La Dichiarazione americana dei diritti del 1789, considerata come il
deposito dei diritti naturali, riconosceva il supremo potere della comunità
nel potere legislativo. I poteri delegati a quello legislativo confederale
appartenevano tuttavia agli stati. La nuova costituzione federale del 1787
aveva fatto un passo avanti, nella misura in cui attribuiva ai cittadini di ogni
stato gli stessi privilegi e immunità dei cittadini degli altri stati: la
Dichiarazione del 1789 la completò specificando che l’enumerazione di
determinati diritti nella costituzione non nega né scredita gli altri diritti
conservati dal popolo (Hutson 1992).
Piú lineare appare la presenza del diritto naturale come fondamento della
Rivoluzione francese. Nell’introduzione alla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789 i diritti naturali sono infatti presentati
come inalienabili e sacri. Il primo articolo afferma che gli esseri umani
nascono e rimangono liberi e uguali, dotati degli stessi diritti, e nell’articolo
successivo si specifica che la finalità dell’associazione politica è la
conservazione dei diritti naturali, ossia la libertà, la proprietà, la sicurezza e
la resistenza all’oppressione.
Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino annessa alla
costituzione del 1793 si sostiene che la dimenticanza e il disprezzo dei
diritti naturali sono le cause principali del malessere del mondo. Poiché il
fine della società è il benessere comune, il governo deve garantire all’uomo
il godimento degli imprescrittibili diritti naturali.
Già nel 1758 Gabriel Bonnot de Mably analizzava le cause delle crisi
politiche della società francese e chiedeva la convocazione degli Stati
generali allo scopo di riavviare i diritti dell’uomo. Il prolegomeno della
libertà, scriveva Mably, è la conservazione di istituzioni quali i parlamenti,
per frenare l’avanzata del despotismo regio: la soppressione dei parlamenti
e delle corti superiori dotate di compiti giudiziari e di registro delle leggi
avrebbe bloccato la libertà dell’opinione pubblica, mentre la convocazione
degli Stati generali avrebbe restituito alla nazione l’esercizio del potere
legislativo, la fondamentale istituzione di controllo del potere esecutivo
(Gauthier 1992).
Al titolo II , articolo 1, la costituzione del 1791 stabiliva che si era
cittadini francesi per ius solis o ius sanguinis, senza peraltro definire questi
due concetti. Essa distingueva poi i cittadini attivi e quelli passivi. I primi
erano le persone di età superiore a 25 anni, domiciliate in una città o in un
cantone, iscritte nel municipio di residenza e nel registro delle guardie
nazionali, che pagavano una tassa diretta equivalente a tre giorni di lavoro.
Questa soglia fiscale era molto bassa e garantiva il diritto di voto a 6-7
milioni di cittadini maschi su una popolazione totale di 27 milioni di
persone (Manin 1992).
Anche la costituzione del 1793 si richiamava ai diritti naturali
dell’uguaglianza, della libertà, della sicurezza e della proprietà, e definiva i
cittadini allo stesso modo del testo del 1791, senza tuttavia distinguere gli
attivi dai passivi.
Nel governo rappresentativo americano erano cittadini quanti avevano le
caratteristiche richieste per eleggere i rappresentanti delle assemblee
legislative degli stati. Secondo le costituzioni statali del Maryland, della
Pennsylvania, della Virginia, di New York, della Carolina del Sud e del
Massachusetts, emanate tra il 1776 e il 1780, potevano votare i proprietari
bianchi che possedevano almeno 50 acri di terra, oppure coloro che
possedevano una proprietà del valore di almeno 20 sterline, e pagavano una
tassa nello stato di residenza. I requisiti aumentavano per i candidati al
congresso, al senato e alle altre cariche statali. Anche i rappresentanti al
congresso federale dovevano essere cittadini americani, residenti nello stato
che li eleggeva. Nel corso del dibattito, tuttavia, i costituenti non si
trovarono d’accordo sulla soglia di proprietà a causa delle differenze
esistenti tra gli stati (Manin 1992).
La definizione dei rappresentanti federali in America dipendeva dal
requisito della proprietà, ma anche dalla diversità geografica. Durante e
immediatamente dopo la rivoluzione, il principale problema del governo
repubblicano fu infatti il ridotto controllo del territorio. Emerse una
distinzione tra gli stati in base all’estensione geografica, con il risultato che
per parecchi decenni la rappresentanza ebbe come fondamento la
territorialità. Soltanto nella seconda metà del XIX secolo le procedure della
selezione degli elettori presidenziali e le modalità di elezione dei deputati e
dei senatori furono definite esclusivamente in base al criterio demografico
(Zagarri 1987).
Si può quindi dire che la cittadinanza fu inizialmente associata ai
requisiti degli elettori, definiti alla fine del XVIII secolo. L’avvocato
repubblicano Alexander Dallas fu tra i primi a distinguere il suddito dal
cittadino, sostenendo che il primo era vincolato alla fedeltà mentre il
secondo aveva un vincolo politico che derivava dal principio
dell’uguaglianza, della libertà e della costituzione. Il presupposto del
superamento della dimensione territoriale fu quindi la nuova definizione
della cittadinanza (K. M. Parker 2015).
Il cambiamento dei requisiti per la cittadinanza e la rappresentanza
americana può essere compreso osservando le trasformazioni avvenute
nella Carolina del Sud e nel New Jersey tra il 1761 e il 1786. Nel 1766, l’80
per cento dei notabili della Carolina del Sud controllava l’assemblea
regionale, mentre nel 1786 soltanto il 36 per cento dei notabili sedeva nel
senato, e il 22 per cento nell’assemblea provinciale. Anche nel New Jersey,
nel 1761, l’83 per cento dei notabili controllava l’assemblea regionale,
mentre nel 1785 tale percentuale era scesa al 32 per cento per quanto
riguarda il senato, e al 15,5 per cento per l’assemblea.
Le riforme avvenute tra il 1801 e il 1812 negli stati del Maryland, della
Carolina del Sud e del New Jersey ridimensionarono l’importanza della
proprietà per l’accesso alla cittadinanza. Le riforme fallirono negli stati del
Massachusetts, di Rhode Island e di New York. Dei nuovi territori, solo il
Kentucky fu ammesso, nel 1812, a far parte della repubblica federale senza
che il possesso di una proprietà fosse posto come requisito per essere
considerati cittadini. Nel corso della seconda fase di riforme, tra il 1815 e il
1828, si assisté a una riduzione della soglia di proprietà negli stati del
Connecticut, del Massachusetts e di New York. Nella terza fase delle
riforme, tra il 1829 e il 1830, fu ridimensionato il requisito della proprietà
anche nel Mississippi, nella Carolina del Nord e in Georgia. Questo criterio
restrittivo non fu tuttavia eliminato fino ai primi decenni del XIX secolo e
gli ostacoli alla naturalizzazione degli stranieri furono notevoli sino alla
guerra civile (Willentz 1992).
La schiavitú ebbe un ruolo importante nella diffusione dei diritti dei
cittadini. Nella Dichiarazione d’Indipendenza incorporata nella costituzione
si tenne conto non solo dei diritti degli schiavi, ma anche di quelli della
popolazione afroamericana libera, la cui partecipazione fu tuttavia frenata
dalle soglie di proprietà imposte dalle costituzioni statali.
Sebbene la popolazione totale degli Stati Uniti fosse cresciuta di otto
volte tra il 1790 e il 1860, passando da 3,9 a 31,4 milioni, la popolazione
bianca era aumentata di 8,6 volte, passando da 3,1 a 26,9 milioni, mentre
quella schiava di 5,5 volte, passando da 0,7 a 3,9 milioni. La popolazione
afroamericana libera aumentò di otto volte, passando da 59 000 a 488 000, e
tra il 1790 e il 1830 il suo peso relativo conobbe un’evoluzione ascendente,
passando dall’1,5 al 2,4 per cento della popolazione totale, per poi
decrescere nuovamente e tornare tra il 1830 e il 1860 all’1,5 per cento,
come nel 1790 (HSUS 2006, Tables Aa 145-84).
La ridotta evoluzione dei diritti politici della popolazione libera
afroamericana dipese dagli ostacoli incontrati a livello sociale e
istituzionale negli stati del Sud. La crescita della popolazione afroamericana
libera si verificò infatti soltanto nel periodo della guerra contro gli inglesi,
quando parecchie migliaia di persone ottennero la libertà come soldati
dell’esercito continentale.
Assai piú facile fu l’accesso alla cittadinanza per gli 80 000 migranti
inglesi e irlandesi che giunsero negli Stati Uniti alla fine del XVIII secolo.
Essi ottennero infatti la cittadinanza americana non solo grazie al sostegno
dei repubblicani ma anche a quello dei federalisti, favorevoli a concedere la
cittadinanza agli immigrati a condizione che avessero principî simili a
quelli americani e si dimostrassero rispettosi delle istituzioni (Bradburn
2003).
È probabile che l’immigrazione abbia eroso il principio della proprietà
nella definizione del cittadino, nella misura in cui questo tese a essere
sostituito con il pagamento delle tasse oppure, come avvenne in alcuni stati,
con il servizio nell’esercito e nella milizia statale.
Nel 1790 tutti gli stati eliminarono dall’attribuzione del diritto di voto il
criterio religioso, e nel corso del decennio sei stati (Maryland,
Massachusetts, New York, Carolina del Nord, Pennsylvania e Vermont)
riconobbero tale diritto agli afroamericani liberi. Nel 1800 in tre soli stati
(Kentucky, New Hampshire e Vermont) era necessario essere bianchi per
avere accesso alla cittadinanza, mentre nel 1830 in dieci stati il diritto al
voto era concesso ai soli maschi bianchi.
Nel 1830 in otto stati la cittadinanza era concessa solo ai contribuenti,
mentre in altri sei stati rimaneva in vigore la soglia di proprietà. Negli anni
Quaranta del XIX secolo gli abitanti del Midwest permisero agli stranieri di
accedere facilmente alla cittadinanza americana e lo stesso avvenne negli
stati che volevano reclutare nuovi coloni. Anche i partiti politici erano
interessati ad ampliare la propria base elettorale, mantenendo tuttavia
l’esclusione degli afroamericani liberi. Ancora nel 1855 gli afroamericani
liberi avevano il diritto di voto soltanto in cinque stati (Maine,
Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island e Vermont).
Non molto diversa fu la traiettoria francese. Anche qui, il principio fu
sostanzialmente lo stesso: il possesso di una proprietà. Si è già detto che i
cittadini attivi erano 6-7 milioni, su una popolazione totale di 27 milioni di
persone, con il risultato che il sistema elettorale francese era
quantitativamente vicino al suffragio universale ma giuridicamente al limite
del suffragio censitario. L’obbligo di pagare le tasse imposto a tutti i
proprietari costituí comunque un forte elemento di discontinuità rispetto al
precedente ordine cetuale fondato sui privilegi.
La nuova cultura politica che si manifestò negli Stati generali era quella
di una nazione che evolveva dall’uguaglianza di statuto verso l’uguaglianza
di potere politico attribuito al cittadino che si faceva incarnazione della
sovranità nazionale. Ciò spiega perché il nuovo attore fosse il cittadino che
esercita il diritto di suffragio (Rosanvallon 1992).
In Francia, come negli Stati Uniti, nell’ultimo decennio del XVIII secolo
il cittadino aveva un’appartenenza giuridica, la nazionalità, e un’iscrizione
materiale, il domicilio. Il pagamento delle tasse divenne quindi la
condizione piú importante della cittadinanza e assunse una connotazione
morale. Il passaggio da cittadino attivo, che ritroviamo nell’assemblea
primaria, a cittadino di secondo grado incaricato di scegliere i
rappresentanti, impose il pagamento di maggiori tasse, equivalenti a 10
giorni di lavoro. Agli eleggibili era richiesto di pagare un contributo di un
marco d’argento, ossia 50 lire tornesi. Se al primo livello vi erano 4,4
milioni di cittadini, al secondo livello troviamo 22 000 membri
dell’assemblea di distretto, e solo 6551 membri dell’assemblea
dipartimentale. Il sistema elettorale sembrava dunque presupporre che il
vincolo sociale precedesse la manifestazione politica del vivere insieme.
Il sistema elettorale a piú gradi implicava una limitazione dei diritti del
cittadino. Il governo rappresentativo offriva infatti al popolo soltanto un
potere di legittimazione, nel momento in cui votava e creava il consenso ai
governanti, e per questo fu percepito come un modo di canalizzare ed
epurare la volontà popolare. Negli Stati Uniti si discusse della
rappresentanza egualitaria, che fu tuttavia accantonata come un sistema
«assurdo», poiché il popolo non era tutto uguale; poco pratico, poiché
l’uguaglianza non creava influenza, interesse o intelligenza; e infine
pericoloso per la libertà. La rappresentanza egualitaria fu quindi associata
alla paura di ritrovarsi governati dalla massa, mettendo in pericolo la
religione e le libertà civili (Reid 1989).
Si può capire dunque perché la costituzione del 1799, che segnò la
nascita del Consolato in Francia, avesse definito il governo rappresentativo
come l’unico capace di dissociare la dimensione dell’uguaglianza dal
meccanismo della legittimazione popolare, collocando alla base
dell’universalità soltanto i cittadini attivi. In questo senso il governo era
essenzialmente nazionale e non derivava direttamente dal cittadino, che non
aveva diritto di rappresentare il popolo, ma dal popolo rappresentato
(Rosanvallon 1992).
La costituzione di Haiti del 1801 offre alcune informazioni utili sul
sistema elettorale. Nell’articolo 23 si spiegava che l’elezione dei due
deputati dipartimentali all’assemblea centrale avveniva attraverso l’elezione
da parte dei cittadini degli elettori municipali, che a loro volta eleggevano i
deputati. Sappiamo inoltre che i membri del consiglio municipale erano
scelti in una lista di 16 persone del municipio (art. 46). Nella costituzione
repubblicana del 1806 si dice che i deputati dovevano avere piú di 25 anni
ed essere proprietari di terra (art. 59), il che dimostra come anche qui la
rappresentanza trovasse il suo fondamento nella proprietà.
In Venezuela, nel 1811, il problema della cittadinanza degli
afrovenezuelani, i cosiddetti pardos, fu oggetto di grande dibattito. Tuttavia,
nel successivo congresso costituente del 1819 questo argomento non fu
nemmeno discusso. Nella costituzione del 1811 si diceva esplicitamente che
i diritti erano riconosciuti ai cittadini: nell’articolo 200 si faceva riferimento
agli amerindi, invitando le autorità provinciali ad aiutarli a capire «l’intima
unione che essi hanno con i cittadini», ma ai pardos non erano riconosciuti i
diritti della popolazione libera (art. 203). La stessa costituzione precisava
che erano cittadini gli uomini liberi, maggiorenni, in possesso di un capitale
compreso tra i 400 e i 600 pesos oppure di un titolo di studio superiore e
una proprietà (art. 26). I cittadini eleggevano un elettore ogni mille abitanti,
il quale eleggeva a sua volta i deputati nella capitale provinciale (artt. 21 e
27). Il senato era composto da 35 cittadini eletti indirettamente dalle
assemblee provinciali (artt. 45 e 48). I tre membri del potere esecutivo
collegiale dovevano essere proprietari di beni, possedere un titolo di studio
o un capitale (art. 73) ed erano votati dagli elettori di dipartimento (art. 76).
In Colombia il dibattito sugli afroamericani era limitato a pochi
intellettuali bianchi. José Ignacio Pombo, un ricco e colto proprietario,
chiese l’eliminazione delle distinzioni razziali tra le classi basse, allo scopo
di evitare ciò che era accaduto ad Haiti. Nel 1823 il rapporto del ministro
degli Interni al congresso colombiano illustrava la strategia per eliminare i
conflitti razziali e raggiungere una cittadinanza omogenea: tra le soluzioni
proposte figurava la concessione della libertà agli afroamericani nati in terra
colombiana. Queste proposte sembrano derivare in gran parte dalle rivolte
della popolazione schiava avvenute tra il 1811 e il 1828 (Lasso 2006).
Nel 1812, la costituzione della repubblica di Cundinamarca non forniva
alcuna definizione del cittadino, tuttavia stabiliva che il suo primo obbligo
era la «conservazione della società» (art. 25), ossia il riconoscimento della
religione cattolica, l’osservanza della costituzione e il rispetto della legge.
Questa costituzione era invece piú esplicita riguardo al governo
rappresentativo. Nel titolo XI , all’articolo 1, si legge che il diritto di
suffragio spettava ai cittadini maggiori di 21 anni iscritti nella lista civica.
Si trattava di un suffragio indiretto: gli elettori erano nominati in misura di
uno ogni 500 vecinos votanti, mentre gli elettori di secondo grado nella
misura di uno ogni 5000 vecinos; questi ultimi eleggevano collegialmente i
rappresentanti di ogni provincia al congresso.
La costituzione federale dell’impero brasiliano del 1824 specificava che
la cittadinanza apparteneva alla popolazione libera, escludendo quindi gli
schiavi. Riguardo al congresso, era stabilito unicamente che i deputati
potessero essere eletti per un solo mandato, mentre il senato era vitalizio, e
formato da membri designati in parte dall’imperatore e in parte dai consigli
provinciali, a condizione che fossero maggiori di 40 anni e avessero un
reddito annuo cospicuo, pari a 800 000 réis.
Tutti i membri della camera dei deputati, del senato e dei consigli
provinciali erano eletti indirettamente dai cittadini brasiliani in possesso di
un reddito annuo di almeno 1000 réis in beni immobili, industriali e
commerciali, o che avessero un impiego pubblico. Anche i liberti che
avevano un reddito simile a quello dei bianchi erano considerati cittadini
attivi.

In sintesi, le rivoluzioni atlantiche furono caratterizzate da due fasi: la


prima coprí l’ultimo terzo del XVIII secolo e il primo decennio del secolo
seguente; la seconda cominciò nel 1814-15 con il Congresso di Vienna,
ponendosi sotto il segno della restaurazione. Dopo un rapido scatto iniziale,
l’azione collettiva che raggiunse obiettivi piú radicali fu infatti
sistematicamente frenata dagli interessi preesistenti, che ridimensionarono
la portata destabilizzante delle rivolte. Questa tensione tra radicalismo e
moderatismo definí i risultati politici e sociali delle rivoluzioni.
Fu nella seconda fase di sviluppo che si consolidarono le novità
introdotte dalle rivoluzioni. Il nuovo ordine si organizzò infatti intorno
all’idea di nazione, una realtà nuova che si costruí attraverso una
costituzione scritta che precisava i diritti e i doveri dei nuovi attori, i
cittadini. A partire da questo primo risultato, la nazione procedette ad
assegnare ai cittadini un ruolo nella formazione dei governi rappresentativi,
seguendo un modello che potesse tenere conto di una pluralità di interessi.
Tutti i governi rappresentativi nati dalle rivoluzioni atlantiche si
formarono dunque distinguendo i vari gradi della partecipazione. Il peso
degli interessi preesistenti al processo rivoluzionario fu tuttavia
preponderante e determinò l’identificazione della rappresentanza degli
interessi nazionali con le élite dei proprietari. L’integrazione dei nuovi
interessi nati con le rivoluzioni trovò dunque il suo limite fondamentale in
un’organizzazione elettorale dove la rappresentanza non dipendeva dalla
volontà diretta dei cittadini: è difficile affermare che dalle rivoluzioni
atlantiche sia nata la democrazia.
Conclusioni
Le traiettorie delle connessioni atlantiche nella storia mondiale

In questo volume si è tentato di mostrare come i meccanismi sviluppati


nel corso della storia atlantica, tra il 1450 e il 1800, abbiano dato avvio alla
storia mondiale caratterizzata dallo studio e dall’analisi delle molteplici
interazioni che si danno tra le diverse parti del mondo.
Come abbiamo visto, la prima fase delle interconnessioni atlantiche si
svolse tra il 1450 e il 1550, con l’avvio dei primi collegamenti marittimi tra
l’Europa e l’Africa e in seguito le Americhe, accelerati poi dalla crisi
demografica che distrusse gran parte della popolazione amerindia, dal
commercio degli schiavi in Africa e dall’aumento della domanda europea di
metalli preziosi.
Superata questa prima fase del raccordo euro-afro-americano, ciascuno
dei vettori conobbe un riorientamento e un ampliamento qualitativo e
quantitativo. La seconda partenza del mondo atlantico, avviata al termine
del XVI secolo e potenziata dalla crisi generale del 1620-50, fu favorita dalla
fine della crisi demografica amerindiana, dall’aumento della tratta di
schiavi africani e di servi indebitati europei e dalla ulteriore costante
crescita della domanda europea di metalli preziosi per l’espansione della
monetarizzazione, specialmente nell’Europa atlantica.
A livello economico, il riorientamento e l’ampliamento del mondo
atlantico determinarono una serie di conseguenze, osservabili innanzitutto
nell’espansione e nella maggiore sicurezza dei viaggi transoceanici, e in
secondo luogo nell’aumento dell’estrazione di metalli preziosi (l’oro
africano nel XV secolo; la creazione dell’hinterland minerario americano
dell’argento sul finire del XVI secolo e la sua espansione nel corso del XVII
secolo; l’aumento dell’estrazione di oro americano nel corso del XVIII
secolo). Il flusso dei metalli preziosi determinò a sua volta l’espansione dei
mezzi di pagamento necessari alle intermediazioni mercantili e finanziarie
in Africa, nelle Americhe e in Europa. Fu questa una terza conseguenza
economica e sociale importante, che trasformò le reti mercantili integrando
le risorse di commercianti di diverse nazionalità.
È importante tenere presente che quando parliamo di rete mercantile
facciamo riferimento ai rapporti che un commerciante stabiliva con altri
commercianti dello stesso paese o di nazionalità diverse non solo per la
compravendita, ma anche per il finanziamento di crediti da concedere ad
altri mercanti, a proprietari di manifatture o di beni agricoli e addirittura ai
governi di alcuni stati.
Le reti mercantili e finanziarie assunsero una dimensione piú
internazionale a partire dal XVI secolo, quando cominciarono a fornire i
crediti necessari alle prime regioni produttrici di zucchero e tabacco nelle
aree americane, alla tratta degli schiavi in Africa occidentale e al
commercio dell’Europa atlantica. Queste reti finanziarono inoltre anche la
tratta degli schiavi verso le aree americane, i mediatori del trasferimento dei
servi indebitati dall’Europa alle Americhe e gli organizzatori delle
spedizioni di conquista.
Inizialmente europee, le reti commerciali si espansero poi verso l’Africa
occidentale, incorporando commercianti africani, e verso le Americhe,
associandosi ad altre reti presenti in Brasile, nei Caraibi e nelle aree
atlantiche dell’America del Nord. Tra la fine del XVIII e la prima metà del
XIX secolo queste reti si trasformarono nelle merchant banks e nelle aziende
di factoring inglesi, olandesi, francesi e tedesche, e da esse nacquero le
banche americane. Grazie a questa espansione delle reti commerciali e
finanziarie non solo si rafforzarono i legami fra le aree atlantiche, ma queste
si legarono ancora piú strettamente ai centri finanziari olandesi, inglesi,
francesi, tedeschi, portoghesi e spagnoli e, indirettamente, con il commercio
e la finanza dell’Europa continentale non atlantica e di altre aree del mondo.
Tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del XIX
l’intermediazione mercantile-finanziaria si saldò, ampliandosi, con il
commercio dell’Africa occidentale e con l’organizzazione produttiva dei
piantatori e grandi proprietari terrieri americani. Questi ultimi ebbero un
ruolo importante nell’espansione quantitativa e qualitativa della produzione
per la nuova domanda europea, e parzialmente anche per quella africana. La
domanda incentivò lo scambio di zucchero, tabacco, caffè, cacao, riso,
indaco, olio di palma e cotone americani e africani con tessuti, macchine
utensili, mezzi di trasporto, armi, polvere da sparo, ferro, rame, bronzo,
carta, libri e periodici europei.
L’espansione produttiva e mercantile rafforzò la posizione privilegiata e
dominante nelle aree americane dei proprietari delle piantagioni, che
riuscirono a estendere ulteriormente i loro possedimenti grazie alle
donazioni di terra e di risorse naturali concesse dai governi e grazie ai
rapporti familiari. A partire dal primo terzo del XVII secolo la gestione delle
piantagioni rafforzò ulteriormente il ruolo dei grandi produttori americani
nel mondo atlantico. Nelle loro mani si concentravano infatti la capacità di
abbinare terra e manodopera schiavile e servile e di controllare con il
commercio e le reti clientelari la popolazione libera. Il ruolo dei grandi
produttori americani fu quindi determinante poiché gestirono tutti gli aspetti
della nuova forma di produzione e tutti i collegamenti che si svilupparono a
partire dal 1650.
Una delle ragioni fondamentali che spiegano il dominio del ceto
proprietario americano fu la sua capacità di instaurare e diffondere il
pluralismo legale, ossia la coesistenza di due o piú sistemi giuridici che
regolavano gerarchicamente i rapporti sociali nelle piantagioni, nelle
relazioni con le comunità libere formate dagli schiavi ribelli e, piú in
generale, con la società e la politica delle aree atlantiche. Attraverso il
pluralismo legale il ceto proprietario riuscí a influenzare tanto
l’amministrazione coloniale quanto il rapporto con le metropoli europee.
In definitiva, furono i ceti privilegiati a trarre il maggior vantaggio dalle
rivoluzioni atlantiche. Dopo l’invenzione della stampa, essi poterono
approfittare della piú rapida e capillare diffusione delle informazioni
economiche e tecniche, ma anche politiche e istituzionali. Facendo proprie
le idee costituzionali, i ceti privilegiati trasformarono i loro privilegi in
diritti grazie a un’organizzazione politica e istituzionale che concesse
soltanto a loro la possibilità di essere eletti nelle assemblee provinciali, nei
congressi statali e nei parlamenti nazionali. I diritti furono negati agli
schiavi e ridotti ai liberti e alla servitú debitoria. Il vento della libertà della
propaganda rivoluzionaria rimase dunque parzialmente inascoltato, e
toccherà alla storia mondiale posteriore al 1850 riuscire a diffondere
davvero i diritti dei cittadini, attraverso l’ampliamento del suffragio e
l’elezione di nuovi rappresentanti capaci di far sentire la voce degli esclusi.
In tutte le aree atlantiche – europee, africane e americane – le rivoluzioni
formarono un blocco sociale in grado di consociare gli interessi del ceto
proprietario, quelli delle reti commerciali-finanziarie e quelli
dell’organizzazione politico-amministrativa dei nuovi stati. Questo permise
a ciascun gruppo d’interesse di appropriarsi del lavoro schiavile e servile,
ma anche di controllare i ceti liberi e di continuare a ottenere a basso costo
le risorse naturali grazie ai diritti di proprietà gestiti dai nuovi stati
indipendenti.
Le rivoluzioni atlantiche possono essere considerate come un
rafforzamento organizzativo, poiché favorirono lo spostamento dall’asse
portante locale e regionale verso una dimensione nazionale che grazie
all’istruzione e allo sviluppo del settore dei servizi pubblici e privati
permise la nascita del ceto medio.
Il blocco d’interessi creato dalle connessioni atlantiche mostra dunque la
debolezza del modello interpretativo tradizionale, fondato su una divisione
del lavoro tra le aree centrali dominanti e quelle periferiche passive.
Abbiamo invece mostrato come l’organizzazione del mondo atlantico abbia
coinvolto attivamente tutte le diverse aree e come abbia messo in atto
un’interazione tra il gruppo proprietario, le reti mercantili e finanziarie e gli
apparati politico-amministrativi delle metropoli e dei governi coloniali. Si
trattò di accordi che resero dinamici i gruppi d’interesse presenti nelle aree
atlantiche e che consentirono loro di aumentare i profitti e ottenere
privilegi. Queste dinamiche spiegano come, dopo l’esaurimento della
manodopera amerindia e dei servi indebitati europei, il ceto proprietario
abbia trovato i mezzi per acquistare a credito schiavi africani, che avevano
un maggior costo monetario. A sua volta, il maggior costo degli schiavi
spiega l’imposizione di un controllo brutale e il rafforzamento del vincolo
permanente con le reti mercantili.
Abbiamo visto come i principali asset del mondo atlantico furono la
forma di lavoro coatto e l’organizzazione fondata sull’autoproduzione dei
principali input produttivi. Fra il 1600 e il 1800, nel mondo atlantico le
forme di lavoro capitalista furono infatti molto limitate, mentre dominarono
quelle coatte, clientelari o comunitarie. La piú diffusa fu quella fondata
sull’assunzione annuale del servitore o del lavoratore, pagato in moneta e
soprattutto in beni. Il contratto di lavoro nella forma che conosciamo oggi si
sviluppò soltanto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando
emersero le aziende industriali integrate.
Come abbiamo visto, vi furono una serie di divari significativi
all’interno delle diverse aree atlantiche. Ciò fu soprattutto visibile nelle aree
africane, nel contatto tra commercianti europei e locali appartenenti al
settore commerciale e all’amministrazione dei regni nelle zone
d’intercambio degli schiavi con le merci. Nelle aree europee il divario fu
notevole tra la campagna e le città e i porti, caratterizzati invece da
un’espansione della monetarizzazione. Nelle aree americane il divario fu
visibile tra le zone produttive delle esportazioni e quelle da esse escluse. Gli
effetti di questi divari non furono gli stessi in tutte le aree. Essi favorirono
specialmente le zone produttive e mercantili vincolate direttamente
all’intercambio atlantico. Di conseguenza, l’impatto dei divari risultò piú
elevato nelle aree atlantiche europee e americane, mentre in quelle africane
fu parzialmente frenato dagli accordi tra le monarchie e le reti commerciali
europee.
A livello commerciale, vi fu un divario generato dalla dinamica dei
prezzi di esportazione: mentre quelli europei aumentarono, quelli africani e
soprattutto quelli americani diminuirono, obbligando i produttori a ridurre i
costi ampliando la produzione degli input delle piantagioni.
Questi divari furono il frutto dell’accentuarsi di una tendenza generale,
che si manifestò probabilmente a partire dalla seconda metà del XVII secolo
e che derivò dallo scambio asimmetrico tra beni industriali, semi-industriali
e primari. Si tratta di quello che Condillac chiamò il «valore soggettivo»,
per cui un bene acquista un valore, e quindi un prezzo, nel momento in cui
se ne sente il bisogno: si scambia dunque ciò che appare meno utile con ciò
che appare piú utile, cosicché lo scambio non avviene tra valori uguali, ma
tra valori non equivalenti. Dall’indagine svolta è emerso che le aree
atlantiche africane e americane esportarono beni per un valore superiore
alle importazioni provenienti dall’Europa. Questo suggerisce dunque che
tramite gli scambi l’Europa atlantica si appropriò di un valore superiore.
D’altra parte, abbiamo riscontrato anche che mentre i prezzi dei beni
africani e americani esportati declinarono, i prezzi di quelli europei
aumentarono. Questa seconda evidenza indica che mentre la domanda
europea fu in grado di favorire l’incremento dei prezzi delle proprie merci
esportate, quella africana e americana non fu invece capace di aumentare i
prezzi delle proprie merci esportate. Il meccanismo di appropriazione
avvenne insomma tramite l’associazione di una domanda elastica dei beni
europei e di una domanda non elastica dei beni africani e americani.
Le conseguenze di questo scambio non equivalente tra le aree atlantiche
sono visibili nel fatto che tutte le piantagioni furono costrette a ridurre i
costi di produzione dei beni esportati per permettere un aumento del
consumo dello zucchero, del caffè, del cioccolato, del tabacco, dell’indaco,
del riso, dell’olio di palma e del cotone, riducendone il prezzo in Europa.
Un ottimo esempio proviene dalla produzione di tabacco nelle
piantagioni di Chesapeake (figura 11), da cui risulta che la domanda non
elastica determinò l’aumento della produzione grazie alla riduzione dei
costi di produzione, mentre crebbe rapidamente la produzione del tabacco.
Lo studio della storia atlantica ci mostra dunque la necessità di dare una
nuova interpretazione agli squilibri economici internazionali, poiché è
proprio l’analisi di questi squilibri che ci permette di distinguere e capire le
dinamiche dello sviluppo e del sottosviluppo che caratterizzano la storia
mondiale.
Figura 11.
Produzione e prezzo del tabacco di Chesapeake, 1616-1700.
Fonte: Menard 1980, pp. 157-61.
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Atlantic Trade in the Seventeenth Century, in «Transactions of the Royal
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Il libro

A PARTIRE DALLA METÀ DEL XV SECOLO GLI EUROPEI INIZIARONO A ESPLORARE

l’oceano Atlantico, e le nuove vie di comunicazione misero in contatto


civiltà ignote e diversissime. I collegamenti marittimi tra Europa, Africa e
Americhe si fondarono dapprima sul commercio degli schiavi e, in seguito,
sull’estrazione dei metalli preziosi e lo scambio di merci, sull’organizzazione dei
flussi migratori e di quelli mercantili, attivando, in particolare attraverso le
esperienze rivoluzionarie, meccanismi di raccordo sociale e politico tra Vecchio e
Nuovo Mondo. Da metà Cinquecento a metà Ottocento si consolidarono i rapporti, si
moltiplicarono i fenomeni migratori e gli interessi commerciali e finanziari. Cosí, in
quattro secoli, s’instaurarono quelle relazioni asimmetriche che contraddistinguono
ancor oggi il mondo atlantico e che questo libro analizza gettando luce sulle nuove
connessioni navali, sulle libertà di commercio e sulla nascita dei nazionalismi. Una
storia dei popoli che si affacciano sull’Atlantico che amplia e rinnova la nostra
visione di un’epoca cruciale, mettendo sempre in primo piano le reciproche influenze
delle dinamiche economiche, sociologiche e politiche.
L’autore

MARCELLO CARMAGNANI , già ordinario di Storia dell’America Latina, è


Research Professor nel Colegio de México e membro del comitato scientifico della
Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Tra i suoi libri, L’altro Occidente. L’America
Latina dall’invasione europea al nuovo millennio (Einaudi 2003); Le isole del lusso.
Prodotti esotici, nuovi consumi e cultura economica europea.1650-1800 (UTET
2010); Economía y política. México y América Latina (El Colegio de México 2011)
ed Economia politica e morale pubblica. Pietro Verri e la cultura economica
europea (il Mulino 2014).
Dello stesso autore

L’altro Occidente
© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Elaborazione cartine © Peter Palm
In copertina: Giovanni Battista Boazio, il percorso nell’oceano Atlantico intrapreso da una
flotta inglese di 23 navi (Plymouth settembre 1585 - Portsmouth luglio 1586), incisione
colorata a mano, 1589, particolare. Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection. (Foto ©
Bridgeman Images / Mondadori Portfolio).
Progetto grafico di Fabrizio Farina.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
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Ebook ISBN 9788858428948

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