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Il termine globalizzazione indica il processo di integrazione crescente delle economie delle diverse
aree del mondo; è un processo che tende a creare mercati che superano i confini nazionali, fino a
divenire mondiali o, come si usa dire, globali.
Questo fenomeno nasce negli USA e nasce sulla presunzione che il modello americano potesse
essere esportato in tutto il mondo. È un modello di matrice culturale.
Consideriamo Mc Donald: grande corporation che ha avuto la forza di imporsi a livello planetario;
ha proposto uno stile di consumo alimentare vincente: il fast food. Questo è stato un modello
culturale istigato da una logica imprenditoriale anche molto banale: se dietro un modello di
consumo alimentare c’è un panino e lo stile diventa globale l’impresa propone sul market place
globale sempre lo stesso prodotto per cui la globalizzazione ha dato vita alla nascita del cosiddetto
prodotto globale. Da un punto di vista imprenditoriale ed economico la globalizzazione si può
sintetizzare nel perseguire a tutti i costi la logica del prodotto globale, vedi Coca Cola o Barbie.
Le imprese americane negli anni ’80 erano così determinate nel voler affermare con forza
l’importanza di un prodotto globale perché su questo hanno dei margini di profitto enormi. Dietro
la globalizzazione non si cela altro che la logica della standardizzazione: elevati volumi di vendita
senza nessun adattamento delle specificità culturali dei paesi in cui l’impresa entra con
conseguente abbattimento dei CF e incremento dei profitti.
Questo ha comportato che il Mc Donald è presente in tutto il mondo ma con degli adattamenti
(nei paesi musulmani non c’è la carne di maiale…). Quando si va in un paese estero è necessario
adattarsi alle specificità locali altrimenti si rischiano flop di mercato. Uno dei flop di mercato più
grandi è quello della barbie, la cultura giapponese è talmente radicata che rifiutava
completamente il modello di bellezza californiano che esprime la Barbie.
1. 1870 – 1914: inizia in relazione al verificarsi di una serie di innovazioni quali, costruzione di
navi più robuste e veloci, apertura del canale di Suez che dimezza la durata del viaggio da
Londra a Bombay e l’inaugurazione del servizio telegrafico transatlantico. In questo
periodo crescono notevolmente i flussi migratori e gli investimenti diretti esteri.
Dopo il 1914, nel tentativo di porre rimedio alla grave crisi economica degli anni ’20 che registra il
momento più drammatico nel crollo della Borsa di New York nel 1929, vengono adottate politiche
commerciali che comportano svalutazioni monetarie, per sostenere l’esportazione delle proprie
merci, e aumenti dei dazi doganali, per indirizzare la D interno verso i prodotti nazionali. Nel 1930
negli USA adottano infatti lo Smoot-Hawley Tariff Act che innalza il dazio medio applicato alle
importazioni a oltre il 50%.
2. 1944 – 1980: Mentre il 2° conflitto è ancora in corso le Nazioni Unite convocano a Bretton
Woods, negli USA, una conferenza sui problemi monetari e finanziari che avevano
travagliato il mondo dopo la crisi del ’29. Ne segue il libero scambio quale via per la crescita
economica e la deregolamentazione per eliminare le barriere artificiali alla libera
circolazione di merci e k. Vengono poi definite le premesse per la nascita della Banca
Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e del GATT accordo generale sulle tariffe e il
commercio.
3. 1980 – anni 2000: è fase attualmente in corso. Si caratterizza per un ulteriore sviluppo del
commercio internazionale, degli IDE e dei flussi migratori. Gli scambi mondiali superano
oltre 10 volte quelli registrati nel 1950. Solo nel 2008-2009 gli scambi mondiali sono
diminuiti di oltre 1/5 per poi riprendersi dal 2010. Gli IDE sono stati favoriti dal
miglioramento delle infrastrutture mondiali, dal diffondersi dei servizi alle imprese e
dall’affermarsi delle tecnologie dell’informazione.
La differenza tra l’attuale fase di globalizzazione e quelle del passato è costituita dalla
partecipazione ai mercati globali di numerosi paesi in via di sviluppo, dalla modifica della
struttura del commercio estero: si hanno grandi volumi di commercio estero intra-industry
cioè commercio orizzontale, beni appartenenti alla stessa categoria merceologica,
piuttosto che inter-industry, tipico della 1°fase e guidato dalle differenze nella dotazione
dei fattori e nei divari tecnologici, infine dalla crescente dematerializzazione dei flussi
commerciali.
È entrambe. Sicuramente dipende dal tipo di impresa, ci sono settori che di per se sono globali:
musica, tecnologia o il settore del lusso: una Ferrari o una Luis Vuitton non ha segmenti, confini, è
orientata una donna che sia americana, italiana o musulmana che vuole soddisfare un suo bisogno
acquistando quella borsa con quel concept, non è accessibile a tutti ma è una nicchia globale.
La Tunisia prima della primavera araba ,quando c’era ancora il dittatore, era un acuto pianificatore
della vocazione industriale del Paese, Ben Alì ha preso un area del paese al sud di Tunisi che prima
era agricola l’ha collegata a delle piattaforme logistiche, ha formato una generazione di giovani
facendoli studiare, creando tutta una serie di condizioni per far sì che quella aria si specializzasse in
lavorazioni su prodotti agroalimentari, è ancora oggi una zona in cui si trasformano carciofini,
asparagi, lavorazioni del tonno subendo una prima fase di lavorazione prima dell’inscatolamento.
Quindi riconfigurazione significa dire che delle aree dell’Africa, Cina, Oriente, Paesi balcanici, si
sono riconfigurate perché questi paesi sono diventati attrattori di investimenti esteri:
l’imprenditore porta i suoi investimenti in quel paese ed investe in termini di impianti produttivi,
macchinari, formazione personale… Ovviamente il governo crea le condizioni per cui il paese si
possa specializzare in una particolare lavorazione, tessile, agroalimentare, abbigliamento…
L’Italia manifesta debolezza nei settori: basati sulla scienza, cioè i settori ad alta intensità di ricerca
e sviluppo, generatori netti di innovazione tecnologica, che poi irrora il resto del sistema; e a forti
economie di scala in cui si producono in grande serie beni di consumo intermedi: chimica di base e
per il largo consumo, metallurgia, autoveicoli, software…
DIMENSIONE E INTERNAZIONALIZZAZIONE
Uno dei tratti maggiormente caratterizzanti l’economia italiana è l’elevata frammentazione dei
sistema produttivo. In Italia il 57% degli addetti all’industria manifatturiera è occupato in aziende
con meno di 50 addetti, contro il 32% della Francia e 23 Germania. La dimensione aziendale
esercita importanti ripercussioni sulla presenza internazionale delle imprese. Su circa 207.000
imprese esportatrici, il 63% sono considerati “microesportatori” e oltre il 99% delle esportazioni
italiane è generata da poco più di 76.000 imprese. Rispetto a queste imprese, il 43% è presente in
un solo paese estero e ciò denota scarsa capacità di diversificazione geografica e forte dipendenza
commerciale da pochi paesi, con conseguente vulnerabilità alle crisi a essi relative. La ridotta
dimensione incide peraltro non solo sul grado di diversificazione geografica dei mercati ma anche
su quello del paniere di prodotti esportati: oltre la metà delle imprese italiane ha infatti operato
sui mercati internazionali con una sola linea di prodotti.
Con il “crollo del Muro di Berlino”, nel 1989, si è verificata l’implosione: delle economie, del
blocco sovietico e dell’URSS dissoltasi in una serie di repubbliche indipendenti. In
conseguenza di ciò, anche nell’Europa centro-orientale si sono aperti all’economia di
mercato spazi rilevanti.
Parallelamente, anche nei paesi dell’Estremo Oriente asiatico ha preso il via un profondo
processo di cambiamento. Il caso più eclatante è quello della Cina, che rappresenta “la
maggiore transizione da un sistema economico pianificato a uno di mercato mai avvenuto
nella storia del pianeta”
Ruolo molto importante è quello del WTO World Trade Organization (GATT fino al 1994):
un’istituzione mondiale che ha il compito di vigilare gli scambi internazionali e le regole che
governano questi scambi per far sì che non ci siano iniquità di trattamento. Il principio è che
qualunque impresa deve godere delle stesse condizioni nell’effettuare il commercio internazionale
di un’altra imprese collocata in un altro paese. Tutto ciò ha comportato il progressivo
abbattimento delle barriere.
Tipi di barriere:
UE, sancito per atto costitutivo con istituzioni che governano l’area, oltre a essere un unione
economica e si spera anche politica, è soprattutto un mercato; non hanno invece un governo e
istituzioni centralizzate ma rappresentano solo aree di interesse
BRIC oggi BRICX perché al Brasile India e Russia si è aggiunto il Sud Africa, anch’essi lontani ma
aggregati, aggregazione che fu proposta quando queste erano le economie emergenti cioè che
crescevano a tassi di ricchezza prodotta molto elevati ed erano accumunati da questi parametri.
All’interno di queste aree non ci sono barriere nel trasferimento di prodotti, servizi, k, uomini..
possono circolare liberamente senza controlli e senza subire dazi: onere a carico di un prodotto o
servizio per attraversare un confine.
Parlando di dazi, l’Italia nel settore automobilistico aveva scelto di proteggere la propria industria
non impedendo le importazioni di autovetture dall’estero ma elevando al massimo i dazi doganali.
La politica italiana fu quella di applicare un dazio molto elevato sulla componentistica da ricambio,
se si rompeva un pezzo l’acquisto del ricambio era talmente oneroso che non conveniva più
acquistare un autovettura straniera. Questa era una vera e propria barriera all’ingresso.
L’ammontare degli I in R&S scientifico e tecnologico è talmente elevato che spesso i singoli
mercato nazionali, per quanto vasti, non possiedono dimensioni sufficienti a garantire
vendite e ritorni rispetto agli I sostenuti.
I tempi di obsolescenza dei nuovi prodotti si sono abbreviati al punto che diventa
necessario ammortizzare gli I effettuati in tempi sempre più ristretti; ciò comporta la
necessità di estendere i mercati in modo da conseguire adeguati volumi di vendite in BT.
- localizzare le attività della catena del valore in paesi diversi, connettendole attraverso reti
telematiche;
- avere una localizzazione unica dalla quale servire direttamente (tramite il commercio
elettronico) i clienti sparsi nel mondo.
5. Disuguaglianza tra aree ricche e povere del pianeta, fenomeno conseguente alla
globalizzazione ma allo stesso tempo amplificato da essa. Ha antica origine, lo possiamo
ricondurre al fenomeno del colonialismo. Alcune paesi europee tra cui Inghilterra, Francia e
Spagna hanno colonizzato per primi aree nuove del pianeta, in Algeria e Marocco ancora
oggi si parla francese. Il termine colonizzare è di per se negativo perché l’approccio di
questi paesi con le colonie è stato sempre unidirezionale, trasferendo un proprio modello
culturale e prelevando ricchezza dalla colonia senza alcun ritorno per essa: sfruttamento
delle colonie. Questo rapporto tra paesi ricchi e poveri veniva concepito quale normale ma
adesso ci ritroviamo squilibri in tutti i campi. Nell’approccio all’internazionalizzazione e
quindi quando ad esempio un’impresa occidentale si interfaccia con un paese orientale,
deve non solo tener conto che sono mercati potenziali o aree possibili di destinazione di
investimenti ma anche che non hanno lo stesso sviluppo. Oggi la logica del business è win
win, tutti devono guadagnare. Siamo finalmente arrivati alla considerazione che anche se
l’imprenditore si interfaccio con paesi che esprimono un’imprenditorialità non così evoluta
come la nostra è necessario il rispetto della cultura locale. Anche quando parliamo di
delocalizzazione produttiva che è l’internazionalizzazione che maggiormente coinvolge il
paese partner in quanto vi apro una fabbrica e utilizzo operai di quel paese, la logica è
quella di lasciare una parte del valore generato dall’impresa comune nel paese di
destinazione, significa non necessariamente lasciare profitti o corrompere come avviene in
Russia ma significa creare condizioni di sviluppo per le zone che sono più arretrate
ridistribuendo il valore. Questo valore si può tradurre in tanti modi: un’impresa può
promuovere in Africa una scuola per i figli degli operai.
Va infine detto che la globalizzazione ha contribuito all’allargamento della forbice tra ricchi e
poveri, indipendentemente dalle condizioni di distribuzioni del valore chi era ricco è diventato
ancora più ricco: pensiamo a Prada che ha l’80% della produzione nei paesi orientali ma a seguito
della delocalizzazione ai consumatori la borsa non è costata meno. Prada però ha entroitato
profitti maggiori seppur investendo in impianti. I prezzi non si sono abbassati, questa spinta alla
delocalizzazione infatti si è molta ridotta e ci sono imprenditori che come leva di marketing
decidono di produrre in Italia, il migliore in questo è Cucinelli che così la propria brand reputation,
fa del suo mady Italy completamente prodotto nel suo borgo un elemento di forza dove ha
costruito un impero. Vende un maglione di cashmere a 1000€ perché vi incorpora il valore della
produzione totalmente artigianale, italiana e controllata all’interno della famiglia-impresa
caratterizzata da tutta una serie di condizioni sociali di vantaggio per i dipendenti: viaggi premio,
asili per bambini, palestre…
Dimensioni della povertà: Tasso di mortalità infantile, Aspettativa di vita alla nascita, Tasso di
analfabetismo adulto
DISUGUAGLIANZA TRA NAZIONI: La sua incidenza è molto aumentata nel lungo periodo. La
globalizzazione ne è corresponsabile nella misura in cui la crescente apertura internazionale ha
contribuito alla maggior crescita del Nord rispetto al Sud del mondo.
DISUGUAGLIANZA INTERNA ALLE NAZIONI: La sua incidenza è andata riducendosi negli ultimi 180
anni. La sua crescita negli ultimi 20 anni è spiegata con il peggioramento nella distribuzione
personale del reddito.
• Nel breve periodo, l’attivazione di IDE può comportare un aumento delle esportazione di
semilavorati, parti, componenti, macchinari, di conseguenza la perdita di esportazioni di prodotti
finiti è compensata dall’incremento delle esportazioni di beni intermedi.
• Nel lungo termine, per molti paesi di vecchia industrializzazione, alla crescita degli IDE sembra
essersi accompagnata la riduzione delle esportazioni.
In realtà il tema è difficile da accertare, molto dipende da: orizzonte temporale, tipo di
investimenti (orizzontali o verticali) e paesi e settori coinvolti.
L’espressione paesi emergenti fu utilizzata per la 1° volta agli inizi degli anni 80 con lo scopo di
collegare nuove associazioni positive a quello che, originariamente, era stato indicato come 3°
mondo. Non esiste una definizione univoca, infatti la Banca Mondiale classifica i paesi solo in base
al loro grado di sviluppo economico, le Nazioni Unite valutano invece lo sviluppo economico e
sociale. Negli studi di management si ritengono emergenti quei mercati caratterizzati dalla
compresenza di alcuni fattori da natura prettamente economica: ridotta ricchezza pro capite,
arretratezza del mercato dei k, grado di industrializzazione crescente, apertura agli I esteri…
In generale sono paesi che presentano difficoltà superiori rispetto a quelli avanzati:
CASO CINA
La Cina da anni si trova in situazioni di ipercrescita, mai nella storia si è visto un paese così grande
conoscere una crescita così elevata - 8,9% - per un periodo così lungo – 30 anni -. Se dovesse
mantenere tali tassi di crescita o anche leggermente inferiori agli attuali, nei prossimi decenni il PIL
cinese eccederebbe quello degli USA.
La svolta ha inizio nel 1978. Dopo 30 anni di economia collettivista e autosufficiente e dopo un
lunghissimo periodo di chiusura assoluta nei confronti di ogni influenza straniera, si dà avvio a
un’opera di modernizzazione basata sulla valorizzazione dell’iniziativa privata e sull’apertura verso
l’estero, entrambi strumentali allo scopo principale: rafforzamento della Cina.
Fa leva sulle condizioni del proprio mercato interno: bassi livelli salari, amplissima offerta di
manodopera, condizioni di lavoro non in linea con gli standard… e aprendosi agli scambi
commerciali con il resto del pianeta, la Cina diventa:
– si è trasformata nella “fabbrica del mondo”, ossia un immenso opificio pronto a soddisfare le
esigenze planetarie dei consumi
CASO INDIA
È un caso profondamente diverso. Mentre la Cina è tutt’ora uno stato autoritario a partito unico,
l’India ha saputo costruire la più grande democrazia al mondo, malgrado gli ostacoli posti
dall’analfabetismo, pluralismo linguistico e religioso, varietà etnica e sociale. Inoltre la via indiana
si basa sul mercato interno più che sulle esportazioni, sui consumi più che sugli investimenti, sui
servizi ad alta tecnologia più che sull’industria manifatturiera.
Nel 1991 la politica inaugura un corso di importanti riforme con lo scopo di modificare l’assetto
economico adottato dal Paese a seguito della liberazione dal dominio coloniale britannico. L’India
ha trasformato il vecchio sistema protezionistico, in mano pubblica e fortemente burocratizzato, in
un sistema di mercato sul modello occidentale. Ciò è stato perseguito:
- privatizzazione e deregolamentazione
L’India rimane profondamente arretrato, rurale, ed è uno dei paesi con i più bassi indici di sviluppo
umano, però l’industria manifatturiera registra un incremento: l’india ha il primato nelle
produzioni di veicoli a 2, 3 ruote ed è il 4 produttore mondiale di prodotti farmaceutici.
• sfruttare il principio del vantaggio comparato, secondo il quale paesi e individui si sviluppano ed
evolvono quando utilizzano le proprie risorse naturali, umani, finanziarie, industriali… per
realizzare ciò che riescono a fare relativamente meglio degli altri.
• usufruire delle possibilità offerte dai mercati mondiali, ad esempio accedere a fonti più
vantaggiose di MP
• aumentare la possibilità di accedere a nuove idee, a conoscenze più sofisticate, a tecnologie più
avanzate, a procedimenti più efficaci ed efficienti
• attirare flussi più elevati di investimenti diretti esteri, i quali hanno un effetto accelerativo sulla
crescita più ampio che non l’investimento interno
L’essere impresa internazionale prima era una possibilità, era una scelta strategica che l’impresa
poteva perseguire per crescere. Oggi questa differenza è molto sfumata, i confini sono labili e
abbattuti non solo per la GI ma anche per la PI, perché questa anche se non vende in un mercato
estero è costretta comunque a confrontarsi con imprese, concorrenti o non, che operano in
qualunque parte del mondo. Esempio, un’impresa che si rifornisce di materie prime e sa che la
materia prima che compra in Italia è più costosa rispetto a quella che potrebbe comprare in un
mercato di fornitura diverso da quello italiano.
INTERNAZIONALIZZAZIONE
Processo di pianificazione strategica con cui l’impresa deliberatamente pone in essere una serie di
azioni successive e consequenziali finalizzate al raggiungimento di consolidare la propria presenza
su un mercato estero. È quindi una strategia, fissa un obiettivo di ML termine e percorre una serie
di step.
Anche l’internazionalizzazione come tutti gli I devono essere valutati su due elementi: il rischio e il
rendimento. Il rischio in questo caso si misura in buona parte in relazione al gap di non
conoscenza, quanto più l’operazione è rischiosa tanto più l’imprenditore si aspetta una reddittività
alta. Questo in termini pratici significa che un conto è mandare un proprio prodotto in Francia e un
conto nel Kazakistan pur essendo un’internazionalizzazione in entrambi i casi, ciò perché i paesi si
relazionano in termini di conoscenza, infrastruttura e logistica in modo diverso.
STRATEGIE INTERNAZIONALI
Secondo la teoria tradizionale un’impresa che nasce P e diventa G per svilupparsi deve crescere
dimensionalmente, i grandi colossi formati negli anni 60 e 70 supportano questa teoria,
un’impresa per essere forte deve essere grande. I tempi cambiano e si è visto che la GI comporta
una serie di problemi legati alla sua rigidità: k immobilizzato di difficile smobilizzo. La GI ha
cominciato a segnare segnali di instabilità quando i volumi di produzione non era del tutto
assorbiti dal mercato ed era difficile smobilizzare gli I fatti e convertire l’impresa. Perciò si dice che
la PI è di contro flessibile, cioè caratterizzata da I più bassi, c’è semmai un elevato I in K umano ma
non nelle strutture rigide, sopportano gli andamenti altalenanti del mercato molto meglio delle GI,
infatti sono cadute nella crisi sono cadute più le GI che le P che invece l’hanno superata o si sono
riconvertite avendo barriere all’E meno rigide. Il punto di debolezza della PI è una struttura
finanziaria molto debole, hanno maggiore difficoltà ad accedere al credito bancario perché non
avendo I immobilizzati sono poco garantite, i macchinari, impianti..sono una garanzia per la banca.
Molto spesso l’internazionalizzazione è una modalità per gestire passaggi generazionali quando
c’è un imprenditore che ha fondato l’impresa e ha più figli o ci sono più fratelli che hanno fondato
l’impresa e ognuno di questi ha più figli. Per collocare anche le generazioni futuri si creano ambiti
di attività specifici di ogni paese. Quindi è una strategia valutata anche in funzione di riassetti
organizzativi che riguardano la governance dell’impresa cioè il gruppo proprietario.
Detto ciò, possiamo definire le strategia internazionali come l’insieme delle scelte che riguardano
la distribuzione internazionale delle attività che compongono la catena del valore dell’impresa.
È uno schema che fu pubblicato per la 1° volta da Porter nel suo volume “il vantaggio
competitivo”. Porter studiò l’ambiente competitivo nel quale le imprese operano e per fare ciò
suddivise l’impresa in una serie ideale di compartimenti a tenuta stagna, cosa che non è reale
perché l’impresa di per sé è un sistema inscindibile nelle sue componenti ma per finalità
concettuali immaginò di suddividere l’impresa in una serie di attività di importanza diversa
disaggregate e indagate singolarmente per poter fare conclusioni di sintesi.
La prima distinzione fu tra attività primarie e di supporto. Le primarie fanno riferimento al core
business dell’impresa, sono tutte le attività che consentono la realizzazione del processo
produttivo, input trasformazione output: logistica in E, attività produttiva, logistica in U, attività di
marketing e vendita e assistenza. Queste attività vengono suddivise in attività a monte e a valle
della produzione. Le attività di supporto sono trasversali cioè a supporto delle primarie, riguardano
i servizi di supporto, le risorse umane, R&S, approvvigionamento.
È normale che la visione di Porter riguardava la GI che accentra e internalizza tutte le funzioni
possibili.
Nel costruire la propria strategia di internazionalizzare si parte dalla catena del valore, si deve
pensare a quale di queste attività collocare su mercati diversi da quello d’origine. Queste attività
possono essere completamente disaggregate fino ad arrivare ad una completa dispersione che
significa che ognuna di queste attività è collata fuori dall’impresa in paesi diversi.
L’export è ad esempio una strategia di internazionalizzazione in cui le ultime due attività primarie:
vendita e assistenza sono disperse, cioè collocate sui mercati di destinazione. Quindi le forme di
internazionalizzazione sono:
- Obblighi commerciali imposti dai governi dei paesi verso i quali si dirigono le
esportazioni dell’impresa, che richiedono a questa di acquistare dalle aziende locali
particolari componenti o servizi
- Migliore qualità
- Opportunità di entrare in un paese come acquirente per poi disporre della possibilità,
una volta acquisite le competenze commerciali, di dar vita ad accordi con partner locali
o di esportare propri beni/servizi
fiscali o di costi del lavoro notevolmente più bassi. Esempio vicino a noi è il distretto del
tessile che dal Veneto si è spostato in Romania.
- Che riguardano prodotti poco sofisticati, realizzabili in serie lunghe, con produzione
programmabile con largo anticipo
Lati negativi sono che: nei distretti più complessi, può esservi una barriera all’uscita a causa delle
relazioni esistenti fra le imprese e i costi sono inferiori ma la qualità della manodopera non è la
stessa. Tuttavia… Il decentramento produttivo comporta anche un decentramento di competenze:
uno dei criteri utilizzati dalle imprese decentranti per individuare i luoghi in cui delocalizzare le
lavorazioni è la presenza in loco di tradizioni artigiane, queste assicurano lavorazioni di qualità e
rappresentano una base di competenze su cui potrebbe svilupparsi nel tempo un presidio più
esteso o addirittura completo del ciclo produttivo.
Vi sono anche dei vincoli: l’esigenza di economie di scala per tali attività può indurre a limitarne il
decentramento.
I luoghi in cui avvengono le attività di R&S sono detti learning markets, in particolare si distinguono
in: learning markets di consumo e scientifico tecnologico. Nei primi si generano comportamenti di
consumo destinati a diffondersi internazionalmente nell’arco di pochi anni, New York e Londra per
prodotti moda, California per articoli sportivi… nei secondi si concentrano conoscenze e
competenze elevate, su scala mondiale, nell’ambito di un definito settore, la Silicon Valley per
l’informatica…
L’internazionalizzazione non va confusa con l’internalizzazione: impresa che porta al suo interno
tutte le varie fasi della catena di Porter.
Le modalità per realizzare questa dispersione sono tante: istituire rete franchising all’estero,
istituire punti vendita esteri dandoli in gestione ad imprenditori locali.. i due estremi sono il
controllo proprietario: tutto a gestione dell’imprenditore, istituisce il punto vendita, la filiare, paga
gli agenti…c’è un assoluto controllo proprietario oppure può dare in gestione una fase all’estero
della catena.
DELOCALIZZAZIONE ED ESTERNALIZZAZIONE
2. Il coordinamento. Il principio è: più le attività della catena del valore sono decentrate più
sono alti i costi di coordinamento; più concentrate sono le attività della catena del valore di
Porter minori sono i costi di coordinamento perché più basso è il livello generale di
coordinamento delle attività.
Pensiamo alle attività a monte, che sono le più complesse da gestire in termini di coordinamento,
una 1° produzione in Polonia e una 2° in Italia che consente di avere l’etichetta Mady in Italy..i
costi di coordinamento su mercati diversi sono necessariamente più alti rispetto al caso in cui
logistica, produzione e vendita sono concentrate in un’impresa.
C’è un punto centrale all’interno della matrice in cui il tutto si annulla, non ci sono vantaggi di
costo né di configurazione man mano che ci si sposta da questo punto centrale l’imprenditore
inizia a fare tutta una serie di valutazioni costi benefici.
LE STRATEGIE INTERNAZIONALI
di fondo seguite nella costruzione e/o nel rafforzamento del vantaggio competitivo in ambito
internazionale”:
È caratterizzata da una forte concentrazione geografica delle attività della catena del valore nel
paese di origine dell’impresa, ad eccezione di quelle legate alla commercializzazione dei prodotti.
Le risorse destinate ai mercati esteri sono dunque contenute e bassa è la capacità di controllare
tali mercati. Tuttavia il coinvolgimento estero varia in base al tipo di esportazione, se diretta:il
produttore ha il contatto diretto col mercato estero, o se indiretta: il produttore delega a operatori
specializzati la vendita e marketing. Nella prima il coinvolgimento è maggiore. Tale strategia è
tipica dello PMI che hanno minori risorse disponibili.
L’impresa opera a livello internazionale, è presente in più paesi con unità operative fra loro
indipendenti, ciascuna responsabile dei risultati ottenuti nell’area geografica di competenza. Tale
strategia è rappresentabile in un continuum che si estende fra due varianti: decentramento di
tutte le attività a valle della catena del valore e localizzazione in ogni paese di una completa catena
del valore.
Richiede, dunque, un prodotto di base standardizzato, la presenza nei principali mercati, una
coerente strategia competitiva.
4. Strategia transnazionale
È completamente diversa dalla globale in quanto l’impresa adotta una logica strategico-
organizzativa di tipo reticolare, non optando né per il decentramento né per il concentramento
delle attività, risorse, responsabilità e decisioni: combina i vantaggi di costo dell’accentramento e i
vantaggi della differenziazione, questo è l’obiettivo. Alcune attività sono concentrate nel paese
d’origine, alcune sono centralizzate in altri paesi e altre sono distribuite fra le unità nazionali. Si
ottiene una configurazione diffusa delle risorse e delle capacità.
Il vantaggio competitivo dell’impresa dipende sempre più da come l’impresa organizza la rete di
relazioni tra imprese, fornitori e clienti, a livello nazionale e internazionale. Con la crescente
globalizzazione dei mercati, la rete di relazioni ha coinvolto sempre più soggetti appartenenti a
paesi diversi e l’oggetto del commercio internazionale è gradualmente cambiato: da scambio di
beni completi trade in goods a commercio fra paesi dei vari compiti necessari alla produzione di
quei beni trade in tasks. Molti beni sono il risultato di lunghe filiere produttive globali alle quali
imprese di paesi diversi aggiungono via via frammenti di valore. Questa interpretazione è nota
come global value chain: è possibile guardare al processo produttivo di un dato bene come a un
continuum di compiti affidati ai vari attori della produzione, che possono essere svolti in diversi
luoghi del mondo. L’organizzazione della produzione varia continuamente svolgendo ogni compito
nel paese in cui esistono le migliori condizioni a tal fine necessarie. Sotto questo profilo si
distinguono le catene buyer-driven: la catena del valore è guidata dal compratore, il quale è
committente della produzione ed è l’unico acquirente; da quelle producer-driven: l’impresa finale
pur potendo commissionare la produzione di componenti a imprese terziste, è direttamente
coinvolta nell’attività manifatturiera, quand’anche questa sia internazionalizzata. Analizzando i
dati del commercio internazionale, si nota come gli scambi di prodotti finiti coprano il 40% circa
del commercio mondiale, mentre la parte più consistente è occupata da mp e lavorazioni
intermedie. Filiera dell’auto, agroalimentare e metalli sono ad esempio caratterizzate nelle fasi a
monte da una forte rilevanza degli scambi di mp, la cui disponibilità fisica è concentrata in pochi
paesi.
Quanto alla specializzazione di ciascuna filiera produttiva, indici confermano che l’Italia si
caratterizza come un paese con una vocazione industriale in parte anomala rispetto ai principali
benchmark internazionali, con livelli sostenuti e in crescita in alcuni comparti a media tecnologia
ma anche in diminuzione verso produzioni tradizionali come moda e sistema casa.
Questi aspetti hanno una rilevanza quanto più il mercato di destinazione è lontano
geograficamente e culturalmente da quello di origine. Prima di entrare nel paese l’impresa ha
necessità di ridurre il gap di non conoscenza, significa conoscere il mercato di riferimento quindi
conoscere a 360° la situazione in cui il paese di trova: stabilità politica, specificità culturali,
religiose, livello di sviluppo sociale, livello di alfabetizzazione, condizioni igienico sanitarie, PIL,
reddito disponibile al consumo, tasso di scolarizzazione, tasso di disoccupazione, stato delle
infrastrutture, sviluppo della tecnologia …
Questa analisi va completata con l’analisi firm specific: valutare il Paese non più in termini generali
ma nella prospettiva del settore di appartenenza dell’impresa. Indagare come il mercato
potenziale dell’O dell’impresa risponde sollecitato su questa produzione.
L’atteggiamento del governo nelle autorità nazionali è una 2° variabile. Pur essendo in un’epoca di
libero scambio le autorità nazionali possono perseguire delle politiche discriminanti rispetto ad
PIANIFICAZIONE E CONTROLLO
- Grazie alla comunicazione globale chiunque e in qualunque parte del mondo può visionare
il sito dell’impresa e può capire quale è il valore della O e può capitare in maniera del tutto
casuale che arrivi un ordine da un paese estero e lo si soddisfa.
- Spesso inizia anche per imitazione, l’impresa manda i prodotti all’estero perché imita il
principale concorrente. Effetto Sciame.
- Per esperienza. Avendo già effettuato export in un paese estero l’imprenditore potrebbe
fare memoria dell’esperienza per entrare in un altro paese. L’esperienza da informazioni
utili su come comportarsi in futuro ma comunque deve essere tutto pianificato.
Questo capita quando non c’è una direzione marketing attenta ai fenomeni dell’export e può
portare al fallimento, a vedere solo ai paesi più vicini, a concentrare le vendite in pochi paesi e a
perdere occasioni di fortuna rischi.
Il problema è che l’impresa che si interfaccia necessita di un supporto per essere poi
effettivamente un processo incorporato all’interno delle logiche strategiche di sviluppo
dell’impresa. Perché l’internazionalizzazione è in realtà una strategia di sviluppo che invece di
perseguire la crescita dimensionale persegue lo sviluppo in un altro modo ma per trasformare una
occasionalità in una presenza consolidata nel mercato estero bisogna avere un altro tipo di
approccio: approccio alla pianificazione, all’esplicitazione degli obiettivi e alla strutturazione di un
percorso in fasi che consentono di raggiungere l’obiettivo.
OBIETTIVO
Perché l’impresa vuole fare internazionalizzazione? Quali sono gli obiettivi? Sono sia quantitativi
che non.
Quota di mercato: rapporto tra vendite dell’impresa e le vendite del mercato cioè di tutti i
competitor. Si distingue in assoluta: che considera tutti competitor, e in relativa: che considera
solo i competitor principali. Distinguiamo anche in quota di mercato a valore: considero il fatturato
ottenuto, a volume: considero il n° di prodotti venduti.
Per necessità: contrazione dei consumi sul mercato locale, deve collocare il surplus di
produzione in un altro mercato.
Negli ultimi casi l’impresa ha un atteggiamento reattivo: reagisce a uno stimolo, l’impresa non
avrebbe mai pensato all’internazionalizzazione se non fosse stata stimolata da un evento esterno.
In Italia la maggior parte delle imprese sono MP e hanno una carenza strategica perché hanno una
struttura di risorse e management debole, sono generalmente diffidenti all’internazionalizzazione
non essendo nemmeno dotate delle adeguate risorse finanziarie. Queste MPI quando infatti si
accostano all’internazionalizzazione è a seguito di un atteggiamento reattivo fallimento.
Diverso è il caso dell’atteggiamento proattivo: prescinde dalla casualità, l’impresa non aspetta ma
provoca e anticipa gli eventi autonomamente attraverso una precisa scelta strategica di sviluppo
l’internazionalizzazione. Decide di amplificare le proprie attività, fa le giuste analisi micro e macro
economiche e individua la direzione più efficace in relazione alle sua risorse, punti di forza e
debolezza: pianifica. GI
Fare l’audit esterno significa verificare i paesi, le analisi di contesto e attraverso un processo di
macro segmentazione sui paesi individuare i paesi target e all’interno di questi individuare i
segmenti di mercato.
Tutta l’analisi va fatta alla luce dell’audit interno: punti di forza e debolezza, di una chiara visione
delle risorse disponibili da dedicare all’internazionalizzazione che è in tutto e per tutto un I. Tutto
deve essere contestualizzato all’impresa di riferimento, vi deve essere un piano previsionale di
flussi finanziari che confrontano i costi e le risorse necessarie con i ricavi.
RISCHI
I rischi di una mancata o errata pianificazione sono dunque rappresentati dai costi. Nello specifico
suddividiamo in costi reali che pesa quando la scelta fatta è errata e devo liquidare l’attività,
vendere macchinari etc.. e costi di opportunità, costo pagato per aver scelto un paese errato
anziché un paese che poteva dare una maggiore reddittività.
1. Definizione degli obiettivi: cosa voglio e perchè? Quali sono gli obiettivi concreti? Come
esprimo in parametri numerici gli obiettivi che devono infatti essere sempre misurabili?
5. Fase del controllo: l’impresa deve essere dotata di un sistema di feedback affinchè ogni
step possa essere riformulato sulla base del controllo concomitante. L’impresa rileva
sul mercato estero le azioni che pone in essere e le risposte che ottiene, di modo da
capire se gli obiettivi definiti al 1° step vanno mantenuti o riformulati.
In tutto questo percorso si fa riferimento al ciclo di vita del prodotto che penetra in un mercato
straniero: introduzione, lancio, maturità… l’impresa deve consolidare la posizione del prodotto
cioè non perdere i consumatori acquisiti.
- Quota di mercato e reddittività per difendersi dai concorrenti che utilizzano l’export come
leva competitiva per trarre vantaggio dalla formazione di segmenti di D trasnazionali:
- Possibilità di effettuare economie di scala, vendere il prodotto così come concepito nel
mercato di origine senza alcun tipo di adattamento: standardizzazione. Nel tentativo di
questa operazione l’impresa ricerca un unico segmento di mercato perché se ricerco un
unico segmento unica sarà anche l’O, se ricerco diversi segmenti esprimeranno esigenze
diverse e il prodotto va differenziato. Unico segmento di mercato con un’unica O per paesi
diversi detto trasnazionale: che travalica i confini del paese di origine. Questo si usa
soprattutto per le nicchie di mercato, si aggregano le varie nicchie formando un segmento
trasnazionale. I veri segmenti trasnazionali erano ricercati dai grandi brand: coca cola, mc
donald… Questo oggi non è più tanto possibile perché anche per i prodotti globali un
minimo di adattamento è necessario.
- Per allungare cicli di vita del prodotto: ci sono mercati nei quali il prodotto è in fase di
maturità e mercati in cui il prodotto è in fase di sviluppo..
Non sempre è razionale la scelta dei paesi – esperienza, distanza, imitazione… - ma così dovrebbe
essere. L’analisi condotta dall’impresa deve considerare 2 principali fattori:
- Se vi è una espandibilità della D primaria: coloro che già acquistano quel prodotto ne
potrebbero acquistare una quantità maggiore?
Sulla base di queste 2 variabili i paesi possono essere classificati in 4 modi differenti: Matrice delle
priorità di ingresso. Partiamo da 0 all’origine degli assi e muovendoci sull’asse delle ascisse
troviamo valori di attrattività sempre >, come pure per l’accessibilità muovendoci sull’asse delle
ordinate. I valori emergono da analisi di mercato ma le soglie le sceglie l’impresa sulla base della
sua capacità di essere competitiva.
Pianificata la possibilità di entrare in un paese estero si devono recuperare informazioni per capire
il paese quanto è attrattivo e accessibile. L’ambito di recupero di informazioni è il settore di
appartenenza ma il problema sta nella profondità delle informazioni che dipenderà dalla modalità
di ingresso (export, insediamento produttivo, accordi di collaborazione) da voler adottare perché
ogni modalità necessità di differenti informazioni e dalle risorse a disposizione perché un’impresa
potrebbe non avere le risorse necessarie a raggiungere approfondite informazioni.
Le fonti informative sono primarie e secondarie. Primarie: ottenimento delle informazioni con
delle indagini ad hoc cioè indagini commissionate ad una agenzia che effettua ricerche di mercato;
si fa ciò quando le informazioni da recuperare non sono disponibili nelle fonti secondarie:
informazioni disponibili da organizzazioni, istituzioni governative o nazionali come l’ICE; sono
utilizzate a titolo gratuito o oneroso e recano informazioni generali su specifici paesi. Essendo
specifici i paesi può capire di non trovare le informazioni sui paesi di cui si è interessati e a quel
punto si utilizzano le indagini ad hoc.
Quindi le informazioni che servono per prendere decisioni vengono recuperate dai dati interni,
dalle ricerche ad hoc e dal marketing intelligence: insieme di ricerche che generano informazioni
non confidenziali (un soggetto in un supermercato che in maniera non palese studia il
consumatore) sulla concorrenza, sui consumatori e sui trend di mercato; è molto importante
perché permette di ottenere quanto non si riesce ad avere dalle fonti primarie e secondarie.
2. Numerosità dei paesi all’interno dei quali operare. Si vuole entrare in un solo paese o in
più paesi?
ATTRATTIVITA’
È un processo ad imbuto caratterizzato da 3 screening, tutti i paesi vengono analizzati e man mano
si prendono in considerazioni solo i più importanti. Si parte anche da 200 mercati per arrivare a 2,
3.
Valutati i paesi sulla base di queste variabili verranno eliminati quei paesi che presentano degli
aspetti negativi e scelti quelli che risulteranno accettabili cioè che meritano un ulteriore
approfondimento.
Su questi paesi che meritano un 2° approfondimento verrà avviato il 2° SCREENING firm specific:
consiste nell’analisi della D potenziale per la categoria di prodotto all’interno del quale l’impresa
opera. - paese in relazione all’offerta -. Si usano altri set di indicatori micro: tasso di crescita del
mercato specifico, distribuzione della D, condizioni competitive… Ciò consente di individuare i
paesi attrattivi per il settore che verranno ulteriormente analizzati nel 3° SCREENING per
individuare i paesi attrattivi per l’impresa cioè quei paesi la cui D primaria è espandibile e per
valutare se vi è una compatibilità del prodotto/servizio dell’impresa con l’ambiente locale estero;
valutata la compatibilità l’impresa può scegliere di adattare il prodotto e quindi intervenire sulle 4p
del marketing mix o lasciarlo invariato. Nel 2° e 3° screening le informazioni essendo specifiche si
ottengono attraverso fonti primarie a pagamento.
I paesi, risultato finale dell’analisi di attrattività, possono essere considerati per intero come
mercati di destinazione? è difficile considerarli in modo omogeneo perché nel mercato vi sono una
serie quasi infinita di consumatori e per l’impresa è difficile rivolgersi alla totalità di questi. Al
termine della valutazione va comunque fatta l’operazione della segmentazione per suddividere i
mercati di riferimento selezioni in una serie di segmenti, così da non rivolgersi a tutto il mercato
indistintamente ma all’insieme di consumatori più compatibile con l’offerta.
VARIABILE ECONOMICA: considera indicatori economici quali il PIL: valore monetario dei beni e
dei servizi prodotti in un paese destinati al consumo finale, secondo un aggiornamento del 2012
l’Italia si colloca al 9° posto e tra i primi 3 USA Cina e Giappone; da solo il PIL non basta si ha
bisogno di capire il PIL pro capite: individualmente c’è o meno questo benessere? Le persone
hanno capacità di spesa? Però i PIL pro capite è un valore medio perché è il PIL rapportato alla
popolazione residente, essendo un valore medio deve essere analizzato bene, c’è una
distribuzione di reddito da analizzare all’interno delle fasce di reddito, si dice dunque che il reddito
è sperequato quando la distribuzione non è equa; può capitare quando molte persone hanno un
reddito basso ma alcune molto elevato. Uno studio del 2013 confronta il PIL pro capite con il tasso
di motorizzazione: il tasso cresce al crescere del PIL pro capite, più un paese ha il PIL pro capite
alto più c’è un aumento dei veicoli acquistati. Un altro indicatore da valutare è la propensione al
consumo e al risparmio: i soldi guadagnati vengono risparmiati o reinvestiti? È importante ad
esempio per chi si occupa di edilizia valutare quanti risparmiano per acquistare casa, i produttori
cinematografici invece valutano quanti investono i propri risparmi sul tempo libero. La crisi ha
ridotto di molto la spesa destinata al tempo libero e questi indicatori in queste situazioni servono
particolarmente.
VARIABILE CULTURA: ogni paese ha le sue tradizioni e l’impresa deve adattare le strategie di
marketing all’ambiente locale. Paesi diversi potrebbero utilizzare diversamente uno stesso
prodotto, si devono comprendere le abitudine di consumo e uso del prodotto. Ad esempio: i
tedeschi mangiano più pasta degli italiani, i giapponesi mangiano mentre vanno a lavoro... un
produttore di cibo per strada dovrebbe saperlo. Si può cadere in errore se l’impresa non considera
le tradizioni del paese: la Nike ignorò che la Cin è molto legato al konfù e realizzò una campagna di
produzione delle scarpe con un giocatore famoso che lotta con delle figure animati che
rappresentavano il konfù e il dragone. La Cina si offese e cancellò lo spot. Le imprese possono
inoltre ricavare dalle tradizioni opportunità di mercato: la LG creò un frigo ad hoc per il kimchi,
cibo tipico della Corea molto profumato che infettava tutto il frigo.
VARIABILE TECNOLOGICA: non tutti i paesi hanno lo stesso livello tecnologico dunque è
indispensabile valutarlo per comprendere se il prodotto/servizio può essere usufruito nel paese
estero. Ciò determina il ciclo di vita del prodotto: se il paese estero è in grado di recepire
l’innovazione l’impresa può prevedere se il prodotto, che ha una certa tecnologia di base, verrà
adottato subito o lentamente e dunque lo stadio all’interno del quale il prodotto si troverà.
INNOVAZIONE
2. Interesse
Chi vuole investire con una nuova tecnologia in un paese estero deve valutare quanti potrebbero
essere gli innovatori, adottatori iniziali... l’impresa deve cercare di ridurre quanto più il passaggio
dalla consapevolezza all’adozione. Se non c’è la base tecnologica nel paese estero questo processo
non può essere ridotto. Devono essere recuperate informazioni anche sulla domanda derivata: la
produzione del prodotto/servizio dipende dalla domanda di un altro produttore a cui serve il
prodotto per realizzare quello finale. BtoB. L’internazionalizzazione la faccio se vi è una domanda
derivata.
Scopo: capire la capacità di assorbimento del mercato nella categoria di prodotto scelta.
In questo caso bisogna considerare coloro che hanno intenzione di sostituire il prodotto durevole e
coloro che lo usano e non voglio sostituirlo.
Quando non si hanno i dati precedenti si utilizza l’analisi per analogia. Permette di prevedere la D
potenziale assoluta attraverso il comportamento di un paese considerato omogeneo.
Lead –lag
Si recuperano le serie storiche di tale paese e con esse vengono fatte le previsioni. Si prevedono le
stesse condizioni in futuro di un paese analogo. Il problema di questa analisi per analogia è che
bisogna prevedere tra quanti anni si verificherà. Si devono considerare tantissimi fattori: crisi
economica, guerra civile, cicli del prodotto differenti tra i due paesi ritenuti omogenei… allora
prevedo che tra 2 anni la D potenziale sarà x ma non è certo che sia tra 2 anni. La difficoltà di
identificazione dell’intervallo temporale che distanzia i paesi in termini di sviluppo economico e
crescente accorciamento del ciclo di vita internazionale dei prodotti induce tale analisi a non
essere ampiamente utilizzata.
Analisi barometrica
Tale tecnica si fonda sull’ipotesi che: se in un certo paese esiste una relazione diretta fra D di un
prodotto e un definito indicatore - ad esempio il tasso di adozione -, la stessa relazione può essere
supposta valida anche in altri paesi. Limite è che si presuppone la linearità della funzione di
consumo a prescindere dal livello dei P, dal quadro politico e legislativo…
VARIABILE RISCHIO
Nella valutazione dei paesi rientra la variabile rischio perché quando si parla di
internazionalizzazione si parla di un processo che va sempre considerato mettendo a confronto il
rischio e il rendimento: il rendimento che l’impresa si attende dall’operazione legata
all’internazionalizzazione e il rischio più o meno alto che l’impresa corre nell’entrare in un paese
estero.
Il rischio paese è un indicatore unico ma al suo interno sintetizza varie tipologie di rischio:
Rischio politico e di instabilità, riguarda l’instabilità dei governi dei paesi esteri considerati.
Nei paesi a regime instabile diventa incerto il controllo dell’investimento, subentra il cosiddetto
rischio della nazionalizzazione: governi fortemente orientati a regime di dittatura spesso con atti
unilaterali nazionalizzano investimenti esteri realizzati, sottraendoli alla proprietà
dell’investimento e acquisendoli con forza.
Questo rischio aumenta quanto più aumenta l’investimento in materiale effettuato nel paese. La
valutazione va fatta in modo molto più approfondito quanto più l’imprenditore decide di
stabilizzare attraverso immobilizzazione materiali – capannoni, impianti, attrezzature, automezzi,
know how… - l’impresa nel paese estero. Quando si perde la proprietà dell’investimento materiale
si ha immediatamente una perdita, meno oneroso è perdere una rete di agenti o una
rappresentanza legata solo alla vendita del prodotto.
Rischi sul controllo della proprietà dell’investimento, attiene al pericolo che beni mobili e
immobili facenti capo all’impresa possano essere oggetto di provvedimenti restrittivi, quali:
- Requisizione, sottrazione coattiva dell’uso dei beni nei confronti dei proprietario
Dipende da:
- Visibilità aziendale, > è la visibilità > è la vulnerabilità. A sua volta la visibilità dipende
dalla natura dei prodotti offerti, dalle politiche adottate dal management, dalle
dimensioni….
Sono tecniche legate essenzialmente alla riduzione dell’ammontare di investimenti effettuati nel
paese. Se il paese è strategico e non si vuole rinunciare all’investimento si può
- Tecniche di comunicazione per far percepire al governo locale il valore che da l’impresa
straniera nel proprio territorio
BARRIERE COMPETITIVE: fanno riferimento al grado di competitività del settore nel paese estero;
quindi si analizza:
BARRIERE NATURALI: fanno riferimento alle peculiarità socio-culturali: agli usi, costumi, abitudini
di consumo e stile di vita del consumatore estero. Ciò può portare il consumatore ad essere
distratto dall’O proposta, potrebbe cioè non essere interessato al prodotto perché culturalmente è
abituato a un altro uso e consumo.
BARRIERE ARTIFICIALI
Al contrario delle competitive che sono endogene al mercato della libera concorrenza, le barriere
artificiali sono ostacoli veri e propri creati appositamente dai governi nazionali per proteggere
determinate produzioni nazionali strategiche o rendere meno favorevoli le condizioni di ingresso
nel paese estero.
La principale conseguenza delle barriere artificiali è che la bilancia dei pagamenti migliora perché
c’è un introito notevole per il paese e una maggiore produttività del settore protetto. Ovviamente
se ci sono industrie nascenti che hanno bisogno di un periodo di protezione per rafforzarsi sul
mercato questo tipo di barriere le può proteggere. La barriera può anche influenzare decisioni di
delocalizzazione come è successo con il Brasile perché se un paese abbassa le barriere influenza
processi di migrazione di interi settori ed economie.
La World Trade Organization organizzazione mondiale del governo che controlla i commerci
internazionali ha sposato l’orientamento dell’abbattimento delle barriere artificiali e della libera
circolazione dei prodotti senza penalizzare produzioni provenienti da un paese rispetto a un altro:
principio della libera concorrenza che consegna al consumatore la possibilità di decidere senza
essere gravato di penalità quale prodotto acquistare qualunque sia il paese di origine.
Progressivamente dunque si va verso l’abbattimento di queste barriere imposte dagli Stati. Nelle
aree comuni come l’UE le barriere non ci sono ma non è così per tutte le aree, anzi, ci sono aree
che la WTO non riesce a controllare completamente, infatti nonostante l’impegno delle
organizzazioni internazionali le barriere artificiali rimangono numerose ed elevate.
3. Nazione più favorita. Un membro della WTO che concede a un altro paese, membro
anch’esso o meno, condizioni commerciali più favorevoli rispetto a quelle
precedentemente accordate agli altri membri, è tenuto a estendere tali condizioni
relativamente a prodotti simili a tutti gli altri membri.
4. Trattamento nazionale. Impone ai paesi membri del WTO di non discriminare tra prodotti
simili, in ragione della loro provenienza, per quanto riguarda tasse, leggi o regolamenti
interni a essi applicabili.
Un importante problema che si trova ad affrontare la WTO è l’effetto paese di origine: oggi ci
troviamo sempre più nella situazione in cui molte aziende hanno disseminato la propria catena del
valore in vari paesi a seconda delle convenienze che hanno e il ciclo produttivo dei prodotti non è
completamente concluso non solo nel paese d’origine ma nemmeno in un unico paese. Il punto di
riferimento della WTO è l’ultima trasformazione che ha subito il prodotto. Ne segue che oggi
l’impresa che fabbrica il suo prodotto all’estero e concretizza l’ultima trasformazione – cucitura,
etichettatura o rifinitura - in Italia può pregiarsi del titolo di prodotto Mady in Italy. La produzione
acquista un valore notevole con l’etichettatura mady in Italy o Francia.
TARIFFARIE
IL DAZIO DOGANALE
La più importante è un’imposta che si chiama dazio doganale specifica per il trasporto di merci da
un paese all’altro. Il dazio doganale è un’imposta indiretta che colpisce merci, prodotti o servizi nel
momento in cui questi fanno il loro ingresso nel territorio dello Stato di destinazione: passaggio
della dogana ovvero confine da un paese all’altro.
Il dazio riduce il vantaggio competitivo di costo di cui gode l’impresa estera perché le imposizioni
fiscali vengono scaricate sul prezzo finale di vendita del prodotto: nel paese di destinazione si trova
il prodotto che al suo costo totale aggiunge anche il dazio ponendo il prodotto estero in una
situazione di non convenienza rispetto al prodotto locale. Succede con tutti i prodotti alcolici negli
USA, il prezzo di una bottiglia di vino italiana costa molto di più rispetto a una americana.
L’imposizione di queste barriere porta il consumatore ad avere un orientamento etnocentrico cioè
un orientamento all’acquisto di prodotti locali rispetto a uno simile ma estero. Ciò vale non per
tutti i settori e non sempre per gli stessi. Un paese può avere interesse a proteggere le calzature
rispetto al vino.
Dazi antidumping. Il dumping è la differenza di P di uno stesso prodotto nel paese di origine e di
destinazione. Il dazio anti dumping evita questa manovra di disparità di P tra paesi produttori e di
destinazione. Avveniva tempo fa con le auto della Germania: c’erano degli importatori paralleli che
acquistavano le auto in Germania e le rivendevano in Italia senza passare per il canali distributivi
normali perché il produttore scontava le vetture e il P finale in Italia era minore rispetto a quello
che un consumatore tedesco pagava nel proprio paese.
Dazi compensativi. Volti a contrastare le importazioni di beni realizzati da aziende di paesi terzi
che beneficiano o hanno beneficiato di sussidi. Se si accerta l’esistenza di tali sussidi, si prevede
l’applicazione di dazi compensativi all’importazione, cioè tali da innalzare il P del bene importato.
Dazi ad valorem. Proporzionale con aliquota % al valore imponibile della merce importata.
Presenta anomalie in presenza di forti sbalzi di P, quando infatti il P è in rialzo il tributo
incide in misura tale da esasperare la finalità protettiva. La caduta dei P produce invece
l’effetto opposto.
Dazi ad pesum o specifici. L’aliquota è fissa per ogni unità di bene importato a prescindere
dal P. Tanto per peso, per volume, per unità… Può portare a gravare di più sulle merci
povere che su quelle ricche colpendo nella stessa misura beni di natura identica ma
qualità/valore diversa.
I diritti integrativi di confine sono un eterogeneo insieme di tributi e spese imposti dall’autorità
doganale di ogni Paese. Pur essendo fortemente differenti dai dazi, in quanto hanno discipline
molto diverse, producono gli stessi effetti. I principali sono: sovraimposta di fabbricazione, imposte
su valore aggiunto, diritti di monopolio, tasse addizionali di varia natura, diritti di magazzinaggio e
facchinaggio, tasse di sbarco e imbarco… nei diritti integrativi di confine possono rientrare dunque
tante voci che pesano sul costo del prodotto.
NON TARIFFARIE
Dette barriere occulte; non si concretizzano in tasse e imposte ma sono barriere più occulte, cioè
meno trasparenti, che producono l’effetto di alzare degli ostacoli alla libera circolazione di
prodotti, merci e servizi tra due paesi. La loro identificazione infatti non sempre è agevole.
CONTINGENTAMENTO ASSOLUTO
Gli assegnatari delle quote contingentali iniziano però a rendersi intestatari di quote senza
utilizzarle per ridurre ulteriormente la possibilità di negoziazione con l’estero e accrescere il potere
degli importatori autorizzati: sterilizzazione delle licenze. La WTO si è impegnata a ridurre tale
fenomeno ed effettivamente il ricorso al contingentamento assoluto si è ridotto, aumento quello
per il
CONTINGENTAMENTO DOGANALE
Con il contingentamento doganale la quota fissata della quantità di prodotto è consentita dietro il
versamento dei normali diritti doganali, se si vogliono importare quantità eccedenti la quota
fissata si applica il dazio doganale o si applica un dazio doganale crescente man mano che si
supera la quota eccedente. Questo viene applicato direttamente dalla dogana.
Famoso è stato il caso delle quote latte: limiti alla produzione, negoziati Paese per Paese
nell’ambito dell’Unione europea, per evitare che il mercato venga invaso da un’offerta troppo
abbondante e che la remunerazione degli allevatori crolli. I produttori che vogliono sforare i tetti
non violano nessuna legge e possono regolarsi come credono, ma poi si vedono costretti a pagare
un extra, una tassa che li disincentiva.
Tale barriera, diversamente dai contingentamenti, è istituita dallo Stato esportatore e non da
quello importatore. Il paese esportare fissa quanto può essere esportato e quanto destinato
all’economia locale. I prodotti oggetto di limitazione sono sopposti a licenze di esportazione
rilasciate dalle autorità del paese venditore entro uno specifico limite quantitativo e per un dato
periodo. I paesi importatori si limitano a verificare la presenza della licenza e a segnalare alle
autorità doganali eventuali anomalie.
Il più noto caso è l’Accordo Multifibre, siglato nel 1974 e durato sino al 2004, riguardava gli scambi
commerciali internazionali di prodotti tessili tra un cospicuo n° di paesi: i prodotti del settore
tessile erano sottoposti a un rigido regime di controllo quantitativo così da evitare gravi
ripercussioni sul sistema mondiale dei P e sulla competitività dei paesi occidentali aventi
produzioni eccellenti ma molto costose. Venuto meno l’accordo, dal 2005, dato l’aumento delle
esportazioni di prodotti tessili cinesi, la Cina su pressione dell’UE si è impegnata, sino al 2008, ad
autolimitare le proprie esportazioni relativamente a 10 categorie di prodotti appartenenti al
tessile.
Nel 2009 la Cina adotta una limitazione volontaria all’esportazione che ha fatto molto discutere in
quanto riguardava le cosiddette “terre rare”, ossia 17 elementi metallici della tavola periodica
fondamentali per molti prodotti ad alta tecnologia. La Cina produce il 90% delle terre rare, e tale
limitazione …giustificata dall’esigenza di proteggere l’ambiente…. Ha fatto crescere notevolmente i
P. La WTO è intervenuta non accettando la giustificazione in quanto i rifornimenti alle imprese
locali non avevano subito riduzioni; il tetto è stato innalzato ma le esportazioni sono rimaste
notevolmente inferiori alle precedenti.
La barriera più importante in un contesto ormai liberalizzato non sono i dazi ma gli ostacoli tecnici.
Al fine di tutelare la sicurezza dei consumatori e preservare l’ambiente, gli Stati adottano norme
tecniche, le quali prevedono le caratteristiche che devono essere possedute dai prodotti: forma,
dimensione, design, requisiti di etichettatura… Tali norme erano anche molto differenti tra i vari
paesi, allora intervengono organizzazioni internazionali tra cui la ISO International Standard
REGOLAMENTI TECNICI
Prescrizioni normative sulle caratteristiche tecniche del prodotto la cui presenza deve essere
obbligatoriamente assicurata altrimenti il prodotto non può essere messo in commercio. Un
esempio è la marcatura CE Conformitè Europèenne prevista dall’UE per alcune categorie di
prodotto, che va a significare che quel prodotto è conforme ai requisiti previsti dai regolamenti
comunitari in ordine di sicurezza e tutela dei consumatori. Riguarda soprattutto prodotti agricoli e
alimentari
STANDARD DI CONFORMITA’
Gli standard, ai differenza dei regolamenti tecnici, sono volontari; un prodotto che non rispetta gli
standard può ugualmente essere importato e venduto. Gli standard di conformità nascono per
tutelare la salute del consumatore e sono stati estesi a gran parte dei settori produttivi.
È il motivo per cui una produzione cinese non adeguata agli standard europei non entra in Europa.
Vengono sequestrati molti prodotti perché non potrebbero circolare nel territorio europeo. La
certificazione agli standard è costosa per le imprese in quanto sostengono oneri elevati ma
indispensabili se si vuole competere sul libero mercato.
identificata da 6 cifre: le prime 2 indicano il capitolo cioè la categoria generale di appartenenza del
prodotto, le successive 2 identificano il prodotto con maggiore precisione e le ultime 2
rappresentano uno stadio di lavorazione ulteriore.
CALENDARI DI IMPORTAZIONE
È facile intuire che l’apertura delle frontiere coincide con la fase della “bassa stagione” agricola,
cioè quando la produzione stagionale interna ha già trovato assorbimento sul mercato nazionale.
La conseguenza negativa di maggior rilievo per l’impresa intenzionata a vendere in un paese che
adotta calendari di importazione consiste nel non poter concludere rapporti di scambio. Essa può
o ridurre la quantità prodotta ma porta mancata utilizzazione della capacità produttiva; o
mantenere invariati i propri livelli produttivi accettando di sostenere costi di gestione delle scorte
della merce invenduta nella speranza uno sbocco commerciale.
Effetti negativi li ha non solo l’acquirente ma anche il produttore: perdita di possibili opportunità di
acquisto favorevoli e il venditore nazionale ha una posizione di forza nei confronti del compratore.
Sono provvedimenti il cui scopo è sostituire le normali dinamiche del mercato valutario con
prescrizioni e normative, al fine di influenzare gli scambi con l’estero a vantaggio del paese che
adotta tali misure.
RESTRIZIONI VALUTARIE
- Controllo statale sui cambi delle valute: poiché il cambio varia in funzione della D e O che a
loro volta sono influenzate da condizioni economiche, finanziarie e politiche dei paesi
interessati, in taluni casi lo stato può escludere il gioco della D e O manovrando i flussi
commerciali in entrata e stabilendo l’onerosità delle valute estere. Caso esemplare è quello
della Cina la cui valuta, renminbi, non è ancora liberamente convertibile ed è strettamente
controllata dall’Autorità centrale.
L’autorità monetaria nazionale discrimina i cambi di acquisto e di vendita delle valute straniere in
modo da rendere variamente oneroso l’acquisto delle monete straniere necessarie per effettuare
pagamenti relativi agli scambi commerciali internazionali. La discriminazione avviene in base alla
merce o al servizio importati nonché al paese di provenienza di questi ultimi.
LE RESTRIZIONI CREDITIZIE
• Divieti di concessione di prestiti agli importator imposti agli istituti di credito dalle autorità
governative
• Diversa onerosità dei finanziamenti ottenuti dagli importatori a seconda della tipologia di
prodotto acquistato all’estero
• Esclusione dai finanziamenti pubblici agevolati le imprese importatrici che trattano determinati
beni
Spesso i paesi individuati come interessanti sono numerosi, l’impresa allora deve completare le
sue analisi stimando:
L’analisi dei paesi selezionati sulla base del grado di attrattività e di accessibilità si completa con
l’individuazione della posizione competitiva acquisibile dell’impresa negli stessi. Si utilizza, per tale
individuazione, la matrice di portafoglio paesi che pone in relazione l’appetibilità dei paesi
selezionati, che tiene conto sia dell’accessibilità che della attrattività, con la posizione competitiva
in essi acquisibile.
Investire o crescere
Sono alte entrambe le variabili. È il quadrante che prospetta le > opportunità, tuttavia è richiesto
un elevato impegno dell’impresa per poter prima acquisire e poi difendere la posizione
conquistata: ciò implica un elevato investimento finanziario ed organizzativo.
Disinvestire o sfruttare
Sono medio basse entrambe le variabili. È il quadrante che prospetta le < opportunità. Nel caso in
cui l’impresa avesse già fatto ingresso in tali paesi, l’attenzione deve essere orientata alla gestione
dei flussi di cassa. Nella prospettiva di un possibile ritiro dal mercato deve pianificare una politica
di recupero degli investimenti: mutamenti nella struttura dei CV, riduzione degli investimenti
commerciali…
Investire selettivamente
Strategie selettive
È una posizione intermedia ed è opportuno attuare strategie selettive mirate: allo sviluppo della
posizione concorrenziale qualora l’impresa possieda specifici vantaggi competitivi o di abbandono
qualora i flussi economici dovessero ridursi e compromettere la posizione finanziaria dell’impresa.
Abbiamo in questo stesso caso:
Qualora l’impresa fosse già presenti in tali paesi e volesse disinvestire può cercare un acquirente
interessato a subentrare nella gestione dell’attività, tenendo sempre in conto la perdita di una
possibile opportunità di sviluppo futura.
- Concentrazione dei paesi: permette di focalizzare sforzi e azioni su pochi mercati di solito
caratterizzati da un elevato grado di similarità, non lontani geograficamente e/o
culturalmente. Assicura migliore visibilità ed economie di scala.
- Tasso di sviluppo della D primaria nei vari mercati. Più è ridotto più l’impresa è indotta a
operare in un n° più elevato di aree geografiche. Più è alto più ci si può concentrare.
- Grado di stabilità delle vendite nei singoli paesi. Più sono instabili e imprevedibili più
l’impresa può cercare di frazionare il rischio attraverso un’attenta diversificazione delle
aree geografiche.
- Risorse disponibili
- Grado di controllo che si intende esercitare sui mercati. Più si vuole esercitare un controllo
in maniera rapida e vincolante e più la moltiplicazione potrebbe risultare un fattore
ostacolante
- Importanza delle economie di scala e di esperienza. Più sono elevante più risulta
conveniente concentrare le attività in pochi paesi per raggiungere elevati volumi.
- Necessità e costi di adattamento del prodotto. Maggiore è l’entità degli adattamenti del
prodotto alle peculiarità dei vari paesi, tanto più complesso e costosa è la strategia di
moltiplicazione.
Sequenziale: posizionarsi nel paese più appetibile, raggiungere il più rapidamente possibile
un’elevata quota di mercato e poi rifare il processo in un altro paese. Così facendo si
contengono gli investimenti in risorse umane e finanziarie, si può trasferire l’esperienza
accumulata in un paese in un altro e trarre profitto dai differenti gradi di sviluppo delle
diverse realtà geografiche.
Parallelo: entrare fin da subito in tutti i paesi di interesse, raccogliere rapidamente e in uno
spazio più ampio le rendite associate alle proprie competenze distintive, anticipando le
mosse dei competitor correnti, presenti o potenziali. Offre la possibilità di sfruttare i
vantaggi del first mover: si contrastano iniziative attuali e/o potenziali concorrenti, si
anticipano le mosse di un rivale.
Può accadere che nel tempo due imprese che inizialmente hanno adoperato approcci differenti
finiscano per adoperare lo stesso.
La scelta dipende dalle dimensioni dell’impresa -la PI si introdurrà nel mercato internazionale
gradualmente-, dalle risorse finanziarie e umane, dalle competenze manageriali e strutture
organizzative in grado di gestire un contesto ambientale e competitivo di > complessità.
STRATEGIE DI INGRESSO:
Condotte concorrenziali adottate dall’impresa per affermarsi rispetto ai rivali presenti nel paese
selezionato. Le linee direttrici sono: l’attacco indiretto e diretto.
Quanto all’attacco indiretto mira a posizionarsi nel paese prescelto attraverso la conquista di un
segmento di D non servito dalla concorrenza oppure mediante l’ingresso in aree geografiche in cui
i rivali non sono presenti. Non suscita una forte reazione da parte della concorrenza locale e si
evita lo scontro frontale. L’ingresso con attacco indiretto può esplicarsi mediante le seguenti
manovre:
- Aggiramento. Si manifesta con lo sviluppo di nuovi bene e/o servizi: si evita un confronto
con la concorrenza locale aggirata in virtù del carattere innovativo dei prodotti dell’impresa
attaccante.
- Guerriglia. Ingresso in mercati strategici per il rivale per obbligarlo a ridurre la pressione in
altri paesi, minacciando un inasprimento del confronto competitivo che porterebbe a una
riduzione dei suoi flussi netti di cassa.
L’attacco diretto, invece, si pone come obiettivo la conquista, in tempi relativamente rapidi, di una
significativa posizione competitiva nel paese individuato. Normalmente è posto in essere dalle
imprese che ritengono di avere risorse e competenze tali da ridurre la forza di opposizione della
concorrenza locale. Si concretizza con:
- Attacco frontale. L’impresa pianifica una strategia imitativa contrapponendosi ai rivali nello
stesso mercato e indirizzandosi ai medesimi clienti. Si usa generalmente la manovra dei P:
l’impresa sfidante riduce i P. Ovviamente la si usa in settori in cui è possibile acquisire
significative economie di scala e di esperienza.
MODALITA’ DI INGRESSO
Soluzioni tecnico organizzative che rendono disponibile nel paese estero l’offerta dell’impresa.
Le modalità d’ingresso rientrano da un punto di vista concettuale nelle leve del marketing mix che
l’impresa può porre in essere per attuare la sua strategia di internazionalizzazione.
Individuato il segmento target di riferimento si deve capire con le leve di marketing come far
arrivare il prodotto sul mercato estero ed interagire con il consumatore estero: scelta distributiva,
Place.
Esempio: se si vogliono esportare prodotti alcolici quali birra e vino negli USA per quanto si
vogliono considerare aspetti strategico gestionali circa la convenienza dell’impresa, c’è solo una
modalità: il distributore americano; perché il mercato americano per quanto riguarda gli alcolici è
completamente controllato da grossi distributori che collezionano offerte provenienti dall’estero e
le distribuiscono sul mercato locale.
1. Esportazione: se è diretta l’azienda delega la gestione dei rapporti con i mercati esteri a
operatori del proprio paese specializzati nel commercio internazionale, i quali gestiscono le
operazioni di esportazione, promozione e distribuzione del prodotto. Se è indiretta
l’impresa provvede a organizzare e a coordinare in prima persona l’attività esportativa:
contattando direttamente i clienti stranieri o costituendo una rete vendita nel paese o
istituendo una propria unità commerciale.
2. Insediamento produttivo: l’impresa agisce quale insider perché produce in loco per servire
il mercato.
Ognuna delle 3 alternative può assumere connotazioni differenti e considerando due variabili:
grado di coinvolgimento internazionale, in base all’impegno in termini di k e risorse umane, e il
grado di controllo esercitato dall’impresa sulle attività svolte nel paese estero, ne seguono 4
quadranti:
- Esportazione indiretta
- Esportazione diretta
- Collaborazione interaziendale
- Insediamenti produttivi
Caso Mapei: industria di materiali per l’edilizia e l’industria fondata a Milano nel 1937. Le fasi nel
processo di crescita di un’unità estera sono:
- Selezioni di un paese
Limiti di tale impostazione sequenziale sono innanzitutto non sono delle fasi fissate per tutte le
imprese, c’è chi potrebbe pensare di iniziare con la collaborazione, poi non prevede possibilità di
ripensamento strategico, in quanto il contesto potrebbe mutare e un’impresa potrebbe voler
tornare all’esportazione dopo aver constatato esiti negativi, infine non considera una
combinazione di modalità di ingresso differenziata a seconda dei paesi.
L’aspetto delle modalità di ingresso è il più complesso perché consiste nella valutazione di fattori
interni ed esterni all’impresa.
Fattori interni
Elementi che l’impresa valuta in relazione alla sua capacità in termini non solo economici ma
anche di risorse umane di affrontare il mercato estero. Riguardano:
Risorse disponibili
rafforzare la sua presenza sul mercato; viceversa se l’obiettivo è far fronte a una
momentanea saturazione del mercato interno e l’export è solo speculativo per recuperare
fatturato sul mercato estero, tanti investimenti non vengono più valutati e le scelte
saranno di B termine.
Fattori esterni
Sono essenzialmente fattori endogeni al paese dunque significa analizzare tutte le variabili
analizzate durante l’analisi di attrattività del paese: andamento del mercato nostro e del paese
estero, fattori di tipo ambientale, fattori produttivi del paese estero e fattori del paese di origine.
Nella valutazione del paese di destinazione rientra anche la valutazione implicita di quanto pesa
l’effetto country of origin e quindi il mady in, perché per alcune produzione e paesi questo effetto
svolge un ruolo di moltiplicatore del valore.
L’approccio allo studio alle modalità d’ingresso è sequenziale per fasi e per tempi: normalmente
quando si approfondiscono le modalità di ingresso lo fa con un approccio anche temporale
ipotizzando che l’impresa inizia il suo percorso di internazionalizzazione nell’estremo iniziale cioè
con una internazionalizzazione occasionale, man mano che il tempo scorre e l’impresa rafforza la
sua presenza sul mercato estero cambiano anche le modalità con cui l’impresa distribuisce il
prodotto ed approccia il mercato estero.
ESPORTAZIONE
Generalmente l’impresa che inizia la sua presenza sul mercato estero avviando
un’internazionalizzazione a piccoli passi lo fa con l’esportazione, man mano che consolida la sua
presenza utilizzerà delle modalità di distribuzione quindi di ingresso differenti perché differenti
saranno gli obiettivi.
Gli obiettivi di un’esportazione sono quelli relativi alla possibilità di testare il mercato estero.
Valutare il mercato estero significa vedere come il consumatore reagisce rispetto al prodotto, se lo
acquista, quanto, se è soddisfatto e se non piace.
Esportazione indiretta
TRADING COMPANIES
Le TC sono talmente cresciute che ai giorni d’oggi non si limitano a questa loro attività di core
business ma coordinano anche la logistica quindi tutto quello che è collaterale all’operazione di
trade, svolgono attività di finanziamento al commercio internazionale, offrono supporto
manageriale, parlano quasi tutte le lingue e non hanno difficoltà ad interagire con paesi di culture
diverse. Riescono dunque in un pacchetto complessivo molto oneroso a supportare l’impresa in
tutte le fasi.
Da un punto di vista gestionale l’impresa con l’internazionalizzazione qui non ha nulla a che fare
perché invece di vendere a un grossista locale vende a una TC e del proprio prodotto una volta che
ha venduta alla TC non ne sa nulla. Questo è il vero punto debole: l’impresa non ha alcun feedback
dal mercato di destinazione se non quello che filtra dalla TC quindi il fatto che quasi certamente il
prodotto è stato venduto ma a quanto? A chi? Quale supporto in termini di comunicazione è stato
fatto? Queste informazioni che permettono all’impresa di conoscere il mercato di destinazione
sono perse. L’impresa ha una certezza della vendita e riceve direttamente il pagamento nella
propria valuta ma a fronte di questo perde un patrimonio informativo vitale nel momento in cui
l’impresa vuole valutare una presenza continuativa e costante in quel paese. Infatti a tali operatori
ricorrono le imprese che considerano ancora marginale l’attività di export avendo flussi di vendita
all’estero irregolari o di modesta entità.
Ormai è tramontata questa modalità ma negli anni ’80 ’90 e primi anni 2000 i C hanno permesso
alle PMI di avviarsi all’internazionalizzazione e si sono diffusi molto soprattutto in Italia. Ciò perché
l’Italia è formata da tante P e piccolissime MI, una tipologia di impresa che da sola difficilmente
può affrontare un mercato estero con successo se non dopo molti investimenti, tempo e lavoro. Il
C è stato visto come una modalità organizzativa per affrontare in squadra il mercato estero e per
dare ai consorziati un peso su quel mercato molto più forte. Si pensi al vino: vi sono tanti piccoli
produttori indipendenti che da soli non possono affrontare il mercato estero non avendo le
risorse.
Vi sono tante tipologie di consorzi ma non tutte hanno funzionato perché la struttura non basta
per raggiungere l’obiettivo, sono le risorse umane che determinano il successo o meno, spesso gli
italiano hanno un deficit nel fare squadra.
Consorzi promozionali. La gran parte dei C costituiti in Italia hanno messo in comune solo le
attività di comunicazione e promozione sul mercato estero: si organizza una fiera all’estero per
l’agroalimentare italiano il C si assume i costi di partecipazione per valorizzare i suoi produttori. È
deputato solo alla gestione delle fasi a valle della catena del valore: creare contatti con acquirenti
esteri, far conoscere il prodotto, attività di ricerche di mercato, indagini preliminari, assistenza
legale, finanziaria, organizzazione di visite per operatori esteri, interpretariato data la difficoltà
linguistica.
Consorzi di vendita/operativi. Costituiti e alcuni ancora attivi per vendere i prodotti dei
consorziati. Alle fasi dei c promozionali si aggiunge quella terminale della vendita. Questa tipologia
di C è quasi sempre settoriale perché ogni settore avrà i propri operatori specializzati, al contrario
dei C promozionali caratterizzati anche da tipologie merceologiche diverse perché si promuove il
mady in Italy o il mady in Naples, la Campania… I C di vendita possono essere senza assunzione di
rischio commerciale: la vendita è salvo buon fine, il C funge solo da mediatore o come le TC con
assunzione del rischio commerciale: acquista il prodotto dei consorziati e si assume il rischio della
mancata vendita gestendola. Il Corpus Iuris è molto articolato quindi a seconda dello statuto del
consorzio si dovrà capire il rapporto tra C e singoli consorziati e gli oneri e diritti che ne seguono.
E’ un organizzazione che si specializza nella gestione della sua attività e sviluppa attraverso
il learning by doing, esperienza sul campo, un patrimonio di competenza e conoscenze che
aumentano di importanza più è longeva l’attività del consorzio;
Più il C più ha associati e più riesce ad imporre la propria forze contrattuale e se sviluppa
con competenza la propria attività può trattare con banche e organismi pubblici per un
sostegno per le proprie imprese.
Sono intermediari, operatori commerciali autonomi che risiedono nel paese di destinazione e
agiscono in rappresentanza di grandi compratori sempre del paese; acquistano i prodotti in nome
proprio ma per conto altrui, senza assumerne la proprietà. Non sono incaricati dall’impresa ma da
compratori del paese estero. Sono legati all’acquirente da un contratto di commissione:
acquistano prodotto in nome proprio ma per conto di 3°. Sono specializzati per linee di prodotto e
guadagnano a provvigione cioè sul valore complessivo della merce acquistata e generalmente
hanno un rapporto di esclusività con il compratore. Sono agenti che cercano le migliori offerte sul
mercato globale e comprano quantità di prodotti enormi perciò vi è il contratto di esclusiva e
accettano in guadagno sulla provvigione. L’agente deve attenersi alle istruzioni del committente,
ma non è raro assistere a forme in cui l’agente ha un discreto margine di discrezionalità, potendo
quindi concludere affari in relazione alla contingente situazione del mercato.
Esportazione diretta
Implica valutazione più impegnative per l’impresa perché gestisce direttamente il mercato estero
con un soggetto che ha sede all’estero e che rappresenta a tutti gli effetti l’impresa nel paese
estero. Tanto può recarsi una persona periodicamente nel paese estero a gestire i rapporti
commerciali con i punti vendita e distributori, tanto può essere prevista una filiale commerciale:
investimento in una struttura e ciò sarà per l’impresa un CF. Quindi l’esportazione diretta necessita
di un investimento iniziale perché mette a preventivo una somma destinata a sostenere costi di
gestione che possono anche essere elevati. Questa modalità di ingresso inizia a irrigidire la
struttura finanziaria dell’impresa dato il CF che rende tutto meno smobbilizzabile nel B periodo.
Perde anche della reversibilità dell’indiretta perché il chiudere una struttura distributiva all’estero
comporta oneri. Vi è inoltre bisogno di personale qualificato.
Si usa quando la struttura distributiva del paese è particolarmente complessa ed è difficile affidarsi
a un distributore presente nel paese estero o quando i prodotti sono talmente complessi da
richiedere un supporto da parti di operatori specializzati che non si trovano nel mercato di
destinazione.
La gran parte dei casi in cui si utilizza questa modalità d’ingresso è con l’istituzione di una propria
unità organizzativa -filiale di vendita- che rappresenta l’impresa nella gestione e nel
coordinamento della funzione di vendita in quel paese, ciò non va confuso con l’ufficio di
rappresentanza che è solo una rappresentanza e non gestisce vendite.
Una seconda circostanza si ha quando le imprese esportatrici intrattengono contatti diretti con i
GDO grandi gruppi della distribuzione - in Italia COOP, CONAD, CARREFOUR.. - : non sono altro
che intermediari commerciali. Se una GI o un consorzio di vendita vuole vendere un prodotto
agroalimentare all’estero si interfaccia direttamente con i grandi gruppi della distribuzione del
paese estero. Spesso in questi grandi gruppi distributivi vi è un area dedicata ai prodotti stranieri
così da internazionalizzare le vendite. Il rapporto è condizionato dal peso contrattuale cioè dal
peso che esercitano le parti coinvolti nel gioco, più il distributore pesa tanto più queste imprese
possono far leva sul P, possono proporsi come marche commerciali… le GD sono dunque
determinanti all’ingresso dei prodotti di largo consumo nel paese estero.
Una terza circostanza è quella del ricorso al commercio elettronico. Oggi tale negoziazione diretta
ha avuto una rivitalizzazione per tutto il commercio online: modalità di interazione diretta tra
produttore e consumatore finale Il commercio elettronico svolge un ruolo sempre più importante
nelle modalità d’ingresso in un paese estero perché abbatte tutti i costi relativi
all’intermediazione; c’è una riscoperta del rapporto tra impresa e consumatore. Ovviamente
l’abbattimento del costo dell’intermediario implica che la piattaforma di commercio online sia
strutturata per interagire con un consumatore di qualsiasi paese… si deve fare attenzione dunque
alla barriera linguistica e bisogna affidarsi a una logistica che consente di inviare il proprio prodotto
al consumatore e nei tempi ragionevoli.
Alcune aree del paese godono di una limitata infrastruttura tecnologica ad esempio in Turchia
vengono chiuse le telecomunicazioni, facebook… ci sono aree del medio oriente in cui
l’informatizzazione ancora non è adeguatamente supportata. Un’ulteriore problema è la sicurezza
dei dati personali che porta il consumatore a essere ancora avverso a comprare su internet;
l’impresa deve garantirsi di tutti i certificati di sicurezza per garantire il consumatore che fa un
acquisto sicuro.
Consiste nella costituzione di un’organizzazione di vendita locale detta rete di vendita. Il primo
problema riguarda il personale da inserire in tale rete, esso può essere dipendente cioè con uno
stipendio o può essere autonomo quindi professionisti che guadagnano a provvigione, a % in parti
F e in parti V. In entrambi i casi entrano in contatto con i clienti, prendono gli ordini, studiano il
mercato, individuano le nuove esigenze di mercato e fanno da ponte con l’impresa madre
l’impresa è a conoscenza delle modalità attraverso cui viene venduto il proprio prodotto, ne sa il P,
a chi viene venduto, conosce le esigenze del mercato, propone campagne di comunicazione
proprie… ha un patrimonio di informazioni che alimenta il sistema informativo di marketing che a
sua volta alimenta il processo decisionale per vendere in quel paese, così si accumula conoscenza
e si riduce il gap conoscitivo.
Dunque per aprire una filiale all’estero ci sono tanti pro e contro quali l’inserimento del personale,
dal punto di vista normativo … in generale si deve valutare caso per caso il rapporto migliore costi
benefici.
È l’ultima alternativa tramite cui realizzare l’esportazione diretta: si istituisce un’unità commerciale
nel paese prescelto, con lo scopo di definire la politica distributiva, di coordinarvi la rete di vendita,
di curare direttamente i problemi finanziari, legati al marketing e all’amministrazione. Questa
soluzione è utilizzata quando si commercializzano prodotti di alta qualità e con un brand
affermato, per cui è
- La domanda è sostenuta
In questi casi è Infatti è necessario avere un controllo diretto sul mercato di sbocco. Le imprese di
moda utilizzano spesso tale modalità che hanno punti vendita in numerosi paesi.
Tra gli svantaggi: costi di avviamento, necessità di conoscere e rispettare le normative del paese
estero, difficoltà di integrare il personale locale con il personale della casa madre eventualmente
impiegato nella unità estera.
Alcuni paesi obbligano ad aprire una unità commerciale e inserirci soci e partner del paese estero:
succedeva nei paesi dell’est europeo dopo la caduta del muro di Berlino, chi voleva fare impresa in
quei mercati doveva aprire un’attività imprenditoriale con partner locali. Questa soluzione è molto
perseguita quando i prodotti sono di qualità e vi è bisogno di perseguire una brand reputation,
quando la D è forte, quando nel settore vi è un’accesa concorrenza è necessario presidiare quel
mercato con un controllo diretto e non filtrato sul mercato estero.
In relazione alla quota di partecipazione al k sociale detenuta dalla casa madre, la consociata è
denominata società controllata o sussidiaria, oppure società collegata o affiliata. Qualora la quota
di proprietà della casa-madre superi il 50% del capitale della consociata, l’unità assume la
denominazione di sussidiaria, mentre se ciò non avviene si parla di affiliata.
- Ufficio importazione: la società importa dalla casa madre o da un’altra consociata del
gruppo che produce in un altro paese; distribuisce poi ai grandi compratori i volumi più
elevati, mentre le vendite ai piccoli compratori sono di competenza degli agenti.
L’analisi dei diversi costi associati ad ogni forma di esportazione diretta non può non contemplare
la fiscalità. Ai fini fiscali è rilevante la presenza di una stabile organizzazione, in quanto è rispetto a
questa che si determina il luogo ove il reddito ottenuto deve essere assoggettato a tassazione:
• Qualora l’impresa italiana operi all’estero senza costituirvi una stabile organizzazione, il reddito
derivante da tale attività si considera senz’altro prodotto in Italia
• Qualora il reddito sia prodotto tramite una stabile organizzazione, è assoggettato a tassazione
all’estero e nuovamente tassato all’atto del suo trasferimento in Italia (pur trovando applicazione
le convenzioni contro le doppie imposizioni e il credito d’imposta)
– nella filiale
• Usualmente non vi sono tasse sul capitale o imposte di bollo sul capitale fornito
• La maggior parte dei paesi non impone una ritenuta sui profitti della filiale estera rimessa alla
casa-madre
• I vari tipi di incentivi e di contributi locali sono in genere usufruibili solo da una controllata e non
da una filiale
• Se l’aliquota d’imposta è inferiore nel paese estero, è possibile differire la tassazione ritenendo
gli utili presso la controllata
• I profitti ottenuti possono essere rimpatriati, se del caso, sfruttando i periodi di minor carico
fiscale
Nel caso in cui l’impresa abbia deciso di avvalersi di agenti o importatori, sorge il problema della
ricerca e della selezione degli stessi. Ciò richiede decisioni in merito a:
1. la definizione dei criteri per la valutazione del profilo professionale dei collaboratori
Definire al meglio diritti e doveri per ridurre al minimo controversie. Gli elementi principali sono:
remunerazione, esclusività del rapporto, obbligo di non concorrenza da parte
dell’agente/rappresentante, durata del contratto.
Le operazioni di TPP è la denominazione con cui la normativa dell’UE individua il regime della
temporanea esportazione. Il TPP consiste dell’esportazione di merci al fine della loro
reimportazione, dopo che esse hanno subito la trasformazione, lavorazione o riparazione.
L’impresa del paese industrializzato esporta il semilavorato o la materia prima in un paese a basso
costo di produzione, dove vengono perfezionati, ossia confezionati, riparati, trasformati…, prima di
rientrare nel paese industrializzato di origine per essere rifiniti e venduti. Non si tratta di una
transazione in quanto le merci rimangono di proprietà del committente.
L’impresa committente attua un parziale abbandono della produzione domestica con un modesto
trasferimento di conoscenza tecnologiche, ottenendo una considerevole riduzione dei costi.
Ovviamente però i costi di trasporto e sdoganamento merci raddoppiano e si amplificano i rischi di
ritardi nelle consegne. L’unità produttiva estera può essere una società controllata dall’impresa
che indirizza verso di essa il flusso di semilavorati.
L’obiettivo della normativa in tema di TPP è risolvere le difficoltà connesse a tale doppio
spostamento di merci quando queste attraversano le frontiere doganali in quanto, i due
movimenti dovrebbero determinare il pagamento di dazi e di oneri doganali vari. La
regolamentazione comunitaria sulle temporanee esportazioni prevede la parziale tassazione nel
momento in cui le merci vengono reimportate.
Finalità principali:
Entrare nel paese ed evitare tutti i trasferimenti tra paese di origine e di destinazione,
assicurando una presenza produttiva nel paese che permette di essere avvantaggiati nella
distribuzione e vendita del prodotto finito. Ad esempio completamento dell’ultima fase del
ciclo produttivo dell’impresa; si pensi a un prodotto voluminoso, al suo costo di trasporto
rispetto a componenti isolate e non montate che vengono trasferite nel paese estero e li
assemblate. L’operazione viene fatta per ridurre il costo della logistica a vantaggio di una
fase della produzione legata all’assemblaggio e confezionamento del prodotto finito, per
essere distribuito direttamente in quel paese e semmai per come avviene nei cosiddetti
paesi ponte anche nei paesi limitrofi. Marocco e Tunisia erano paesi ponte per tutta la
fascia del nord Africa.
Vantaggi di costo. Caso di un’impresa che delocalizza in Marocco pur non vendendo lì
attirata da vantaggi di costo legati a fattori della manodopera più economici.
Quando parliamo di insediamento produttivo non si deve pensare solo all’impresa che parte da
zero ma anche all’ipotesi in cui l’impresa acquista nel paese estero un’azienda funzionante o una
quota di un’azienda strumentale alle sue finalità:
Quando l’impresa realizza ex novo l’impianto l’investimento si definisce High Equity, cioè a
elevato apporto di K proprio ed è una Sole Venture: l’impresa si clona nel paese estero.
Normalmente nell’economia globale attuale le aree territoriali deputate ad attrarre I esteri sono
ormai abbastanza identificate - Balcani, Est Europeo, Nord Africa - e si sono formate attraverso
l’intervento di attori decisionali: governi, che hanno deciso con una serie di misure di far sì che
aree del paese fossero considerate aree attrattive per gli I esteri, operando una vera e propria
azione di marketing territoriale.
Ad esempio, l’area balcanica e la Turchia hanno messo insieme un pacchetto di misure incentivanti
e agevolative, rendendo vantaggiosa la localizzazione nei Balcani piuttosto che lasciare la
produzione nel paese d’origine.
Dunque, per attrarre gli I internazionali, gli operatori pubblici dei singoli paesi possono attivare una
serie di fattori:
Espliciti Vantaggio di prossimità cioè vicinanza, finanziamenti agevolati, aliquote fiscali doganali
ridotte, burocrazia snella, piattaforme logistiche funzionanti, basso costo di terreni e fabbricati,
esenzione dall’IVA
Impliciti costo del L , dell’energia più bassi, vicinanza alle risorse produttive -produzione del
legno vicina ai grandi nodi di smistamento del legname-…
L’unico elemento detrattore per l’Italia per andare a delocalizzare all’estero è il cosiddetto
ingegno delle lavorazioni italiane che fa sì che un operaio straniero abbia abilità, competenze,
know how inferiori. Ciò vale per lavorazioni di eccellenza caratterizzate da una qualità tangibile:
artigianato, design, moda di lusso… per tutte le lavorazioni standardizzate la despecializzano non
impatta sulla qualità del prodotto perché nasce già con un livello qualitativo intrinseco M/B.
Seppur negli anni passati i grandi brand si sono rifatti alla delocalizzazione, attualmente si sta
comprendendo che i grandi vantaggi derivanti dalla delocalizzazione sicuramente non li ha
percepiti il consumatore perché non paga meno ma nemmeno l’azienda perché ne segue una
erosione della reputazione. Brunello Cucinelli è di grande esempio: imprenditore del cashmere i
cui prodotti sono costosissimi, ha allestito come fabbrica un intero borgo, gli operai lavorano con
una serie di facilities: asili per bambini, palestra, ristorante...
Il Galles era un paese minerario; una volta chiuse le miniere per esaurimento e per un movimento
globale data la dannosità e la pericolosità di quel lavoro, il paese sprofonda in una forte crisi
economica. A seguito di ciò, 15 20 anni fa, il Galles istituisce un’agenzia per lo sviluppo delle
attività di business. È stato uno degli esempi di maggiore successo perché è diventato un polo
attrattivo per i settori a tecnologia high tech, facendo da paese ponte per l’Europa per questo
settore
Questa agenzia Austriaca stimola l’ingresso nel proprio paese di imprese agenti nei settori
considerati strategici come energia, medicina, high-tech e agroalimentare
- Realizzare un presidio più efficace del mercato in un paese cui si è già presenti
Quanto al 2°: STRATEGIA DI PRESIDIO DEI MERCATI ESTERI. Caso Ferrero: ha molti stabilimenti nel
mondo non per necessità di produrre in tutti i paesi ma perché ha svolto operazioni di prossimità,
ha cioè messo impianti produttivi nei paesi in cui aveva esigenza di penetrare in modo più forte nel
mercato. Sono infatti tutti mercati lontani: Argentina, Brasile, Canada, India, Messica, Turchia..
Bisogna considerare che Ferrero produce un prodotto stagionale e deperibile essendo cioccolato e
la strategia di collocare gli impianti in questi mercati è dovuta al fatto che si produce lì dove poi si
vende.
Vi sono paesi che per limitare la presenza di produzioni estere e salvaguardare quella
nazionale, pongono dei limiti alle importazioni a determinate categorie di prodotto; per
evitare tale controllo sui flussi in ingresso si fa diventare la produzione locale
Vi sono prodotti che hanno bisogno di una assistenza nel momento in cui viene consegnato
e installato il prodotto e quindi è una scelta obbligata la presenza dell’impresa nel paese
estero
Per Incrementare il livello di soddisfazione del cliente che può usufruire di servizi di
supporto alla vendita. Nel mezzo della soddisfazione e fedeltà vi sono tutte le operazioni
d’impresa per trasformare il cliente soddisfatto a cliente fedele, ciò lo si può meglio
ottenere con la propria presenza nel paese
Ci può essere il caso in cui l’insediamento produttivo è una scelta obbligata perché le barriere
artificiali o naturali che siano non consentono all’impresa di vendere semplicemente i propri
prodotti ma è necessario collocarsi nel paese estero. Condizione di molti paesi è che se non si
entra con l’insediamento produttivo non si vende - joint/Sole Venture - in quanto il paese vuole
1. Evitare una concorrenza eccessiva della produzione locale rispetto a quella estera
Dopo la caduta del muro di Berlino tutto l’Est Europeo era stato tenuto fuori dallo sviluppo
economico occidentale e ciò fu un’opportunità enorme per gli imprenditori italiani perché gli
abitanti prima del muro vivevano come vivevamo noi negli anni ’50; i paesi che si trinceravano
dietro il muro - Polonia, Germania dell’Est, Cecoslovacchia, Romania - sono stati costretti data la
pressione dei paesi europei sviluppati a imporre l’ingresso solo attraverso joint venture produttive
e per la distribuzione.
L’impresa non poteva entrare se prima non veniva costituita una forma societaria. Si tentò così di
arginare la speculazione e di favorire gli I stabili nel paese. Ovviamente vi è una motivazione
strategica di fondo: presidiare non solo il mercato locale ma anche l’area geografica che ruota
attorno a quel mercato, più è vasta più è strategica la posizione dell’impresa in quel mercato.
Vi può anche essere il caso in cui l’impresa ha un brand reputation elevata e la joint venture
ripartisce questa immagine anche nel paese estero.
3° MOTIVAZIONE: I COSTI
Costo del lavoro ma per lavorazioni standardizzate o dette Labour Intensive, dove la
componente umana svolge un ruolo tipico della macchina: ripetitivo, non creativo
Il vantaggio del costo del L più basso può essere vanificato da altri fattori:
Va detto che ormai attualmente un operaio specializzato cinese è uguale all’operaio occidentale, i
livelli si sono standardizzati.
Lontananza. Non si può avere il controllo dei dipendenti se l’impresa è in Cina, Vietnam...
Infatti molti imprenditori mandano i propri manager a controllare ma ciò è un costo.
Costi di esercizio cioè legati al normale funzionamento della struttura: energia, arrivo MP…
quindi CV
Essendo un impianto produttivo si deve ragionare come se fosse un centro di costo e per
essere profittevole il raffronto tra costi e benefici deve superare il punto di pareggio. Si
deve immaginare che i ricavi totali siano superiori ai costi totali, il volume produttivo deve
consentire di entrare nell’area dei profitti andando oltre il punto di pareggio
Necessità di personale qualificato. Non solo quindi degli operai ma anche del
management, responsabile di produzione, generale della struttura…
Rischio maggiore da un punto di vista economico e politico, si pensi ai paesi che si trovano
nell’aria di instabilità politica, Nord Africa e Medio Oriente. Il rischio è un costo che va
remunerato, più elevato il rischio dell’investimento maggiore deve essere la
remunerazione attesa dell’investitore
Un’impresa italiana che delocalizza parte della sua produzione all’estero, depaupera k
reputazionale legato all’effetto country of origin? Vi è un impatto sull’immagine
dell’impresa a livello corporate? Chi afferma, chi nega. Non c’è una risposta unica, va
valutato il settore, la produzione, i paesi coinvolti…
L’insediamento può avvenire anche per le imprese che erogano servizi; le imprese di servizi che
tradizionalmente sono internazionalizzate sono le banche e le assicurazioni. Sono, da un punto di
vista gestionale, i settori più attrezzati a internazionalizzarsi e ad offrire un servizio nei differenti
paesi in cui si decide di essere presenti. Il servizio non può essere esportato perché la particolarità
del servizio è il contestuale momento tra erogazione e consumo, al contrario del prodotto che può
essere acquistato in un momento e consumato in un altro.
Quindi non si può parlare di vera e propria esportazione tuttavia oggi le tecnologie
dell’informazione riescono a supportare banche e agenzie di assicurazione attraverso una presenza
capillare nei vari paesi con sportelli, agenzie, filiali, rappresentanze… per erogare nei paesi esteri
servizi che nascono nel paese di origine. La tecnologia permette di controllare tutto in back office
attraverso la rete e la standardizzazione del servizio in qualunque parte del mondo.
Ad esempio UniCraedit ha sviluppato come sua filosofia un’azione aggressiva nei paesi dell’Est
Europeo, si pone al fianco delle imprese come partner di servizi per supportarle nei processi di
internazionalizzazione proprio in quei paesi.
In generale i gruppi bancari e assicurativi sono tutti gruppi internazionali perché negli anni vi è
stato un processo di concentrazione: sono sparite le piccole banche e assicurazioni e si sono
formati i grandi gruppi che hanno la possibilità di aggredire i mercati esteri in modo più pervasivo.
- Grado di interazione fra produttore e utente del servizio, che può essere alto o basso
- Grado di coinvolgimento di beni nella consegna del servizio, che può evidenziare tre casi:
servizi puri, servizi consegnati attraverso l’utilizzo di beni, servizi incorporati in beni.
Ne segue una matrice che permette di individuare una serie di servizi, differenti per differenti
gradi.
Forme intermedie che possono essere anche trasferite con un supporto tangibile: le catene
alberghiere, fast food… in questo caso l’ingresso nel mercato estero si fonda sulla ricerca di
partner e collaborazioni.
Servizi incorporati nei beni: musica, film, libri... trasferiti al consumatore attraverso un
supporto materiale e in tal caso il grado di integrazione tra produttore e consumatore è
basso perché il servizio è molto standardizzato
Che sia insediamento commerciale o che sia produttivo il primo studio da fare sul mercato estero è
capire se:
Acquisire un’azienda locale dando vita a una forma societaria o comprando in toto
un’azienda che sta sull’orlo del fallimento, già fallita…
In entrambi i casi si deve costituire la cosiddetta sussidiaria o affiliata: termini tecnici utilizzati
quando si identifica la presenza materiale dell’impresa nel mercato estero.
La sussidiaria determina l’alter ego dell’impresa, è l’impresa clonata sull’impresa madre e funziona
in tutto e per tutto come l’impresa originale. La sussidiaria ha normalmente anche personalità
giuridica, vi è dunque un rappresenta legale che per conto della casa madre gestisce qualunque
tipo di negoziazione con il mercato estero.
Quando si parla di consociata invece si fa riferimento alla affiliata: si hanno due entità distinte, vi è
una partnership legittimata da un rapporto giuridico in cui l’impresa del paese di origine ha una
partecipazione, affiliazione con l’impresa del paese di destinazione che svolge per l’azienda madre
delle fasi produttive.
Obiettivi dell’impresa
Rendimenti attesi
Si parla di cross border quando si acquisisce non un’azienda nel proprio paese ma del paese
estero. Problemi di:
Convergenza culturale: tanto più sentito quanto più i paesi sono distanti culturalmente nel
modo di fare business, nel concetto intrinseco di imprenditorialità.
Difficoltà di gestire l’azienda nei paesi esteri: il top management difficilmente è disposto a
trasferirsi nel paese estero venendo così scoperte posizioni critiche e anche se coperta da
una risorsa locale ha un impatto negativo nel cogliere tutte le sinergie create in fase di
pianificazione.
Quanto al problema legato all’incompatibilità culturale, l’errore che è stato fatto all’inizio della
globalizzazione dagli imprenditori occidentali è stato quello di pensare di avere una cultura
dominante. Si sta cercando di superare ciò attraverso la pratica dell’integrazione: professionisti
specializzati, psicologici, entrano nelle aziende per integrare le culture; senza ciò l’avventura
imprenditoriale è destinata a fallire. È necessario effettuare delle tecniche tramite cui condividere
obiettivi e collaborare nel lavoro senza prevaricazione di un modello rispetto a un altro.
Non sempre ciò avviene e si possono avere casi in cui una cultura domina l’altra: assimilazione o si
può avere la separazione: due compartimenti isolati e separati; infine la deculturazione: cultura
che perde rispetto all’altra, non viene nemmeno assimilata ma soccombe rispetto all’altra.
1. Modello Europeo: modello dell’impresa multi domestica cioè che viene collocata nel paese
estero con una spinta molto forte all’adattamento locale. Quindi un’impresa che produce
per il paese estero ma che si adatta molto alle esigenze del mercato locale; un’impresa che
non nasce globale quindi con una produzione fortemente standardizzata, solitamente è di
3. Modello Giapponese: è una filosofia che nasce dal concetto dell’impresa come famiglia,
comunità. Forte orientamento all’integrazione culturale ed estremizza il concetto di
aderenza alla realtà locale. L’impresa ha dimensioni contenute, l’orientamento alla
produzione è locale Il mercato mondiale viene visto come un unico mercato integrato in cui
raggiungere elevati livelli di efficienza attraverso un alto livello di centralizzazione. Infatti il
modello organizzativo utilizzato è il “fulcro centralizzato” e si basa su una forte
centralizzazione delle attività di ricerca, sviluppo e produzione.
Questi tre modelli negli anni hanno presentato molti limiti dovuti principalmente al fatto che non
si è trovata una soluzione ottimale nella gestione delle relazioni tra casa madre e sussidiarie e ciò
ha comportato la ricerca continua ancora in oggi in corso su possibili soluzioni di mediazione che
consentissero di ottimizzare i rapporti fra imprese appartenenti allo stesso gruppo ma collocati in
posti diversi. Altro limite è che si trovano sempre più nella necessità di conciliare le economie di
scala con l’adattamento locale.
Modello che oggi perseguono quasi tutti le imprese, consiste nell’ottimizzare il coordinamento tra
unità distribuite geograficamente. L’operazione di dislocare unità all’estero viene fatta fino a
quando i costi di coordinamento non superano i benefici che l’impresa può trarre dal presidiare il
mercato estero con una unità in quel paese. È un modello in cui prevale la configurazione
geografica distribuita: attività nella catena del valore di Porter dislocate geograficamente in paesi
differenti; però vi è anche un significato più profondo: perdere sempre di più un orientamento
focalizzato sul paese di origine dando enfasi alla presenza dell’impresa nel paese estero
integrando l’impresa nel paese. Tale integrazione avviene soprattutto integrando K umano locale
con competenze che provengono dal paese di origine ma vengono messe a disposizione per
accrescere culturalmente le risorse umane locali.
L’impresa transazionale tenta di specializzare le unità produttive all’estero quanto più possibile. È
l’opposto della clonazione del modello americano; si vuole dare una forte specializzazione alle
unità, facendo in modo che possano svolgere con un elevato grado di specializzazione attività
gestionali strategiche per l’impresa; nessuna unità fa esattamente quello che fa l’altra perché si
specializzano in uno degli ambiti strategici mettendo a disposizione le proprie best practise ognuna
per l’altra.
Capacità di questo modello è quella di creare una forte interdipendenza fra le unità locali,
interdipendenza dal punto di vista della funzionalità dell’output prodotto da una unità collocata a
un paese rispetto all’output prodotto dall’altra unità in un altro paese. Vi è un rapporto di forte
coordinamento e interdipendenza tra le varie unità.
La classificazione è sulla base di 2 variabili: risorse e competenze delle unità locali e importanza
strategica dell’ambiente locale. Importanza strategica si intende quanto quel territorio è
importante da un punto di vista strategico: il paese ponte non è importante di per se ma ha un
elevata valenza strategica perché rappresenta la via d’ingresso per l’impresa non solo in quel
paese ma anche in altri paesi limitrofi.
BASSA /ALTA unità presenzialista: unità che ha il compito di presidiare un mercato importante.
Non vi si affidano capacità di sviluppo autonomo del business ma l’obiettivo è consolidare la
presenza dell’impresa in quel mercato. Ha un ruolo di rappresentanza sostanziale, non è detto
giuridica, dell’impresa nel paese estero.
Definizione: Relazione di collaborazione - parola chiave - fra 2 o più imprese che si uniscono
condividendo risorse finanziarie e umane, competenze e conoscenze per il raggiungimento di una
finalità comune e condivisa in cui convergono gli interessi di tutte le imprese che partecipano.
Ovviamente vi deve essere una motivazione sostenibile affinché l’impresa del mercato estero
possa voler fare l’accordo con una new entry dividendo la sua quota di mercato. Sono casi che
infatti riguardano brand molto forti a livello internazionale. L’impresa locale deve percepire la
minaccia concorrenziale del nuovo entrante e essere certa del fatto che perderebbe di più senza
l’accordo, e che quindi l’erosione in termini di quota di mercato sarebbe sicuramente > rispetto a
quella che si ottiene dividendo il mercato con il potenziale concorrente.
Patrimoniale; detto equity perché l’impresa investe nella nuova struttura K proprio
Contrattuale; detto non equity, in quanto l’impresa non è coinvolta nella partecipazione
societaria, non vi è alcun apporto di k proprio ma si basano su forme contrattuali di vario
tipo
Il vero problema dell’accordo è: chi decide? Chi è il più influente nel determinare la decisione?
Trattandosi di accordi non vi è mai un potere di imperio cioè di decisione forzata ma comunque vi
sarà una delle due parti che ha maggiore potere negoziale: potere di condurre la trattativa verso
le proprie posizioni e volontà.
Il potere negoziale dell’impresa A rispetto all’impresa B, soprattutto negli accordi Equity, dipende
dalla quota di k conferita. Generalmente la quota di k maggioritaria cioè > 50% determina un
potere negoziale che si impone sulla controparte. Quindi:
- Quota < 50% Potere molto debole o debole a seconda della differenza
Nel caso degli accordi non equity dipende tutto da quanto inserito nel contratto.
2. Ottenere vantaggi di costo, soprattutto di costo del L che impatta sulla produttività ed
economicità del prodotto finito
5. Aggirare la concorrenza, evitare di trovare nel paese estero un concorrente troppo forte; si
usa una strategia che invece di prediligere modalità di attacco prevede l’accordo, cioè la
gestione della quota di mercato disponibile nel paese in forma condivisa.
6. Generalmente il rischio economico nei confronti del cliente finale pesa sul concessionario e
non sull’ impresa esportatrice
1. L’ingresso nel paese in tempi più brevi perseguendo la strategia del time to market:
entrare sul mercato molto più velocemente accorciando i tempi dalla pianificazione alla
distribuzione del prodotto; questo è un elemento strategico fondamentale soprattutto oggi
in cui vi è una evoluzione veloce del consumatore, dei suoi gusti, delle tendenze… e
soprattutto sul mercato internazionale essendo meno controllabile. Rispetto alla sussidiaria
sono abbattuti i tempi burocratici e di avvio della costituzione della filiale, della messa a
regime degli impianti, del personale…
3. Ritiro dal mercato, soprattutto se sono non equity, in maniera più agevole
2. Facilita l’impresa a essere presente molto più velocemente nel paese di ingresso
1. Criticità di controllo. Il portafoglio clienti resta nelle mani dell’impresa del paese estero
quindi in mano al concessionario che potrebbe fare operazioni che compromettono
immagine, reputazione e reddittività dei prodotti.
Accordi di MARKETING
Riguardano prevalentemente le fasi a valle: di vendita. Sono i più diffusi: ipotesi dell’impresa che
vuole entrare nell’infrastruttura distributiva di un paese estero perché vuole vendere il proprio
prodotto.
Riguardano la funzione produzione. Attraverso questi accordi si delega parte o tutta dell’attività
manifatturiera, industriale ad un partner locale. Si mantiene il controllo delle attività di marketing,
distribuzione e supporto al cliente. È dunque l’esatto contrario.
LE ALLEANZE COMMERCIALI
Figura essenziale è dunque quella dell’importatore e può assumere diverse configurazioni. La più
diffusa è quella di concessione di vendita. Si parla di contratto di concessione: l’impresa
concedente si obbliga a fornire con continuità determinati prodotti a un rivenditore concessionario
il quale a sua volta si impegna ad acquistare tali prodotti -acquisendone la proprietà-, a
promuoverli e a effettuare la vendita in nome proprio, per conto proprio e a proprio rischio. Tale
IL FRANCHISING
È uno degli accordi internazionali più conosciuti. Vi sono due partner: l’impresa estera –franchisor-
e l’imprenditore locale –franchisee- che si accordano per utilizzare una formula commerciale di
successo che viene replicata in vari paesi con l’obiettivo di avvalersi di un know how, del brand, dei
simboli, dell’allestimento del punto vendita… Il franchisee per beneficiare di questa formula
distributiva paga delle royalties al franchisor che da un lato si alimenta di tali royalties dall’altro
mette a disposizione e condivide con i partner innovazione, notorietà di marca, conoscenza di
marca…
Dunque, i vantaggi sono la penetrazione immediata nel mercato estero con un marchio ad alta
reputazione, la ripartizione del rischio imprenditoriale e CF inferiori rispetto a punti di vendita di
proprietà; gli svantaggi: il rischio di limitate capacità finanziarie del franchisee, rischio che alla
scadenza i franchisee diventino concorrenti dei franchisor e la standardizzazione imposta dal
franchisor non sempre permette di accostarsi correttamente alla cultura e alle preferenze del
mercato locale.
Benetton fece questa operazione negli anni ’80 e ’90, oggi quasi tutti brand vengono distribuiti con
questa formula, molti hanno origine campana: Original Marines, Carpisa, Yamamay…
Caso eclatante è quello dei prodotti cosmetici Kiko: prima il cosmetico si acquistava soltanto in
profumeria, in cui vi era una forte assistenza alla vendita, non era minimamente un prodotto a
libero servizio tranne quello di basso P dei supermercati. Kiko ha fatto una operazione doppia: di
brand coniugando qualità e P e di franchising.
IL PIGGY BACK
È un’altra modalità di accordo, più semplice rispetto al franchising. Prevede due operatori
commerciali, il rider: impresa che vuole vendere i propri prodotti in un mercato estero, e che
stipula l’accordo con un’organizzazione commerciale di un’altra impresa già presente nel paese: il
carrier. Mentre l’accordo in via generica può prescindere dalla struttura commerciale, il piggy back
presuppone che l’organizzazione commerciale dell’impresa nel paese di destinazione può
riguardare:
L’organizzazione della forza vendita quindi una rete di vendita già costituita che può essere
utilizzata per distribuire il prodotto anche del rider
Il carrier può essere Carrefour, COOP, Conad… Inoltre l’accordo può essere reciproco: l’impresa del
paese A distribuisce il prodotto dell’impresa B nel paese A e viceversa.
Abbattimento di costi che sarebbero > nel caso in cui l’impresa decidesse di perseguire
l’obiettivo di una struttura commerciale propria
I CONTRATTI DI PRODUZIONE
L’impresa che intende entrare in un determinato paese con i propri prodotti ne affida a un’azienda
locale la fabbricazione, nel senso che ricorre all’acquisto di beni forniti da imprese terze che
producono in base al modello, ai disegni e ai documenti tecnici dell’acquirente. Il prodotto viene
poi consegnato all’impresa committente, alla quale compete di solito la gestione della
distribuzione rifornendo gli intermediari locali o la propria rete commerciale. Generalmente lo si
adopra quando le barriere sono alte o la D non giustifica l’insediamento produttivo. Ciò consente
di realizzare il manufatto a costi più bassi, di attribuirgli un determinato made in. Il rischio
maggiore è che il partner locale acquisisca tecnologie e competenze e diventare poi suo
concorrente.
IL LICENSING
È l’accordo di licenza internazionale. Tipico esempio è quello della Coca Cola che distribuisce il
proprio prodotto a livello mondiale attraverso questo accordo: le bottiglie di Coca non arrivano
direttamente dalla casa madre negli USA ma vengono imbottigliati in stabilimenti di prossimità ai
mercati di sbocco – a Marcianise vi è la Coca che produce la bevanda -. Tutto ciò perché sono casi
particolari in cui i costi di trasporto inciderebbero in maniera eccessiva sul costo del prodotto
messo in vendita, perché sono prodotti a basso valore unitario.
Si lavora con l’accordo di licenza per concedere all’impresa – licenziataria - il diritto di utilizzare un
processo produttivo brevettato o una tecnologia per realizzare il prodotto e di commercializzarlo
con il marchio del licenziante, in cambio di un corrispettivo.
Dilazionato
Vengono definite quote di compenso o in % sul P di vendita o come compenso fisso sul n° di pezzi
venduti
Più l’impresa licenziante è forte meno margini di contrattazione ci sono per l’impresa licenziataria.
Coca Cola o Nutella danno meno margini di contrattazione.
Vantaggi:
- Si limitano i costi di adattamento del prodotto alle specifiche realtà nazionali perché
si può prevedere che il licenziatario adatti il prodotto alle specificità locali caso di
Mc Donald che non fa un accordo di licenza perché è sicuramente un franchising ma
in esso vi è un accordo di licenza con il quale da accordo tra le parti si individuano
dei prodotti per adattarsi ai gusti del consumatore locale
Svantaggi:
- Divulgazione del K intellettuale, del brevetto, della conoscenza. È una motivazione per cui
ci sono aree del pianeta dove si evita di fare accordi di licenza, con la Cina ad esempio si
evita di farli perché i cinesi hanno dato prova di essere particolarmente bravi a imitare
processi produttivi e clonare prodotti
Joint Venture è una parola di origine anglosassone che significa avventura insieme. La JV
contrattuale non prevede la costituzione di una entità giuridicamente rilevante, di una persona
giuridica ma prevede un accordo contrattuale finalizzato nella maggior parte dei casi al
raggiungimento di uno specifico obiettivo. Non è un qualcosa destinato a perdurare nel tempo
illimitatamente ma realizzato l’obiettivo l’accordo si scoglie. Ad esempio la partecipazione a una
gara d’appalto internazionale quasi sempre prevede la costituzione di un partenariato che si
costituisce attraverso un accordo di JV contrattuale: i partner condividono l’obiettivo della
costruzione di un’opera: teatro, diga… terminata l’opera si scioglie il tutto.
Ciò determina che ciascuna delle imprese partner conserva la propria autonomia e identità, non vi
è assoluta confusione della struttura dell’impresa che partecipa alla JV. La situazione cambia in
quanto le imprese che partecipano si assumono oneri, responsabilità, rischi e profitti
predeterminanti dall’accordo pro quota; ciò è quanto viene contrattualizzato. Ognuno sa
preventivamente l’ammontare complessivo dell’I che deve sostenere per partecipare al progetto, i
rischi e i profitti. Inoltre mettono in comune le rispettive conoscenze e competenze tecniche e
operative.
È completamente diversa pur essendo identificata da un nome simile. Nel gergo tecnico si
definisce anche NewCo: new company cioè una nuova struttura che entra sul mercato.
In questo caso si ha la costituzione di una nuova entità giuridica, di una società totalmente
autonoma giuridica, completamente distinta e diversa dalle imprese che hanno dato vita alla JV e
anche in questo caso vi è come obiettivo un’attività produttiva di beni e servizi ma che non è
finalizzata al raggiungimento di un determinato e specifico obiettivo limitato nel tempo, ma è a
tempo indeterminato.
Sorge in questo caso il problema del controllo, che è totalmente a carico delle imprese che hanno
partecipato alla JV e si esercita a seconda di come si gestiscono i rapporti di forza che derivano
dall’intensità di partecipazione al K sociale della nuova entità.
Nel processo che porta alla costituzione di una JV, una fase delicata e costituita dall’individuazione
del partner locale. È opportuno considerare:
- La capacità di interagire con il mercato locale, facendo leva sulla reputazione, sul potere di
mercato, sulle relazioni con i soggetti della filiera, con le autorità e le istituzioni.
- l’orizzonte temporale della strategia perseguita dalle imprese. Quanto più limitato è il tempo di
raggiungimento degli obiettivi tanto più sarà di maggioranza.
- il rischio relativo. All’aumentare del grado di rischiosità che grava sulle singole controparti si
accresce il loro desiderio di gestire e controllare l’iniziativa.
La regola vuole che a occuparsi della gestione debba essere il partner i cui apporti sono
maggiormente critici per il funzionamento della newco, colui che dispone di > risorse e
competenze. Quando i contributi tendono a equivalersi tutti i soci contribuiscono a conduzione
gestionale.
Difficoltà di integrazione
Comportamenti opportunisti
Mancanza di fiducia
8. IL POSIZIONAMENTO
Partiamo da questo:
- Targeting
- Posizionamento
Contatti sempre più frequenti fra popolazioni e culture diverse, attraverso l’evoluzione dei
sistemi di trasporto e di comunicazione;
L’espansione internazionale delle GI, che diffondendo i propri prodotti in più paesi hanno
contribuito alla crescente similarità degli stili di vita.
Ciò vale sia per i beni di consumo che per i beni industriali, però non è da intendersi come
l’esistenza di un consumatore universale come sosteneva invece Levitt nel 1983. Levitt parlava di
una catena della globalizzazione secondo cui l’evoluzione tecnologica guida il mondo
all’omogeneizzazione dei bisogni e dei desideri, che a sua volta determina il passaggio da mercati
nazioni a mercati globali caratterizzati da beni standardizzati.
2. Di contro le attese dei consumatori aumentano ed emergono bisogni sempre più specifici e
mutevoli, dunque vi è una varietà e variabilità della domanda dei consumatori, arricchita
dalle differenze geografiche perché ogni contesto ha una propria cultura
La comprensione delle variabili che influenzano i processi di acquisto e consumo dei soggetti
appartenenti ai paesi esteri d’interesse dell’impresa è essenziale in quanto il comportamento del
A livello internazionale interessano particolarmente le variabili sociali perché come affermava nel
1964 George Katona, psicologo ed economista ungherese naturalizzato americano: “E’ l’individuo
che sente, pensa e agisce, ma la maniera in cui egli sente, pensa e agisce è influenzata dal gruppo
al quale egli appartiene”.
Principale variabile sociale è la cultura, intesa quale sistema di valori e di norme condivise da un
gruppo di persone e che, considerati congiuntamente, forniscono un modello di vita. Tali valori e
norme determinano un comportamento di consumo che impatta sulle politiche di marketing.
I valori sono convinzioni circa ciò che un gruppo ritiene sia giusto, le norme sono regole sociali che
governano le azioni e vengono distinte in: usi cioè convinzioni della vita quotidiana (buone
maniere, rispetto degli orari…) la cui violazione non è un problema serio, e costumi cioè norme
reputate fondamentali per il funzionamento di una collettività.
Analizzando la cultura in chiave internazionali è opportuno precisa che, gli stati nazionali possono
contenere un’unica cultura, come la Francia, o diverse, come nei paesi africani. Nel tempo alcune
culture accomunano diversi paesi, ad esempio quella islamica.
I valori e le norme che compongono una cultura sono il portato evolutivo di diversi fattori, tra cui:
Religione dominante, da cui discendono i sistemi etici: insieme di principi morali impiegati
per formare e guidare il comportamento umano
Linguaggio e istruzione
Struttura sociale, i cui aspetti principali sono: la rilevanza dell’individuo rispetto al gruppo in
quanto vi sono società in cui è ritenuta più importanze l’appartenenza al gruppo piuttosto
che la realizzazione individuale, in altre il contrario; la stratificazione sociale in base al
contesto familiare, all’occupazione e al reddito e infine al grado di mobilità tra gli strati
sociali, cioè al grado in cui gli individui possono uscire dallo strato sociale in cui sono stati.
Ad esempio in India vi sono le caste e la posizione sociale è determinata dalla famiglia di
nascita e non vi sono cambiamenti futuri.
Hofstede, antropologo e psicologo olandere, nel 1980, per conto di un’importante impresa
multinazionale, condusse un’approfondita ricerca su 116mila persone appartenenti a 72 paesi, per
individuare e misurare alcuni indicatori della cultura, valutando analogie e differenze tra i paesi
esaminati:
Individualismo/collettivismo
Distanza gerarchica: grado con cui, in una data cultura, la disuguaglianza tra individui è
considerata naturale e opportuna. Se assume valori elevati è giusto che ognuno rimanga al
suo posto accettando l’autorità di chi si colloca al di sopra
Avversione all’incertezza: modo in cui, nei vari paesi, le persone si pongono di fronte alla
circostanza per il futuro è sconosciuto e quindi fonte di rischi
Mascolinità: modo in cui le diverse culture affrontano la differenza fra i sessi e quanto tali
differenze biologiche hanno impatto sulle attività sociali
Alla luce di quanto detto si comprende quanto sia varia la domanda, però nell’ambito delle varie
realtà nazionali si possono anche rinvenire a similarità. Tali similarità permettono la
segmentazione.
1. MACROSEGMENTAZIONE
Consiste nella suddivisione del mercato mondiale per raggruppamenti piuttosto ampi, perciò si
chiamano macro segmenti. Tali raggruppamenti sono composti da un certo n° di mercati nazionali
che, ai fini delle scelte di marketing, possono essere considerati come aree da cui origina una D
caratterizzata da rilevanti tratti di omogeneità. La macro segmentazione varia a seconda dei
prodotto e non è detto che singoli mercati nazionali appartengano al medesimo macro segmento
solo perché geograficamente vicini.
La macro segmentazioni si effettua sulla base di precise variabili scelti in base al tipo di prodotto:
economici, geografici e culturali. Molta importanza ha proprio quest’ultima perché la religione, la
dieta, il livello di istruzione, la tendenza alla scolarizzazione influenzano i consumi e gli stili di vita.
A livello nazionale sono variabili molto più sfumate perché c’è una matrice di fondo comune che
potrebbe non esservi a livello internazionale.
Esempio, i l macro segmento dell’Europa Occidentale inserisce per affinità religiosa tutti i paesi di
religione cattolica. Esempio di macro suddivisione basata in tal caso su variabili geografiche e
economiche è la distinzione in: paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo; valutati sulla base
delle performance esportative, indice dei prezzi al consumo, indicatori della qualità della vita.
Considerando variabili politiche, un altro esempio è la suddivisione in: paesi stabili, instabili e a
forte rischio di instabilità; gli ultimi sono paesi aggregati da regimi non democratici e in generale il
discrimine tra un macro segmento e un altro è determinato dal tipo di governo nel paese.
2. MICRO SEGMENTAZIONE
La micro segmentazione consente di entrare in profondità nello studio del potenziale consumatore
estero, abbandonando le variabili macro economiche e valutando aspetti psicografici o
comportamentali. Le variabili psicografiche sono quelle che riguardano il ritratto psico logico e
anagrafico del consumatore: stile di vita, atteggiamenti, valori, interessi, desiderio di acquisto,
classe sociale…; le variabili comportamentali sono invece quelle di maggior valore ma le più
costose, si studiano i comportamenti dei consumatori rispetto al prodotto, la sua fedeltà, la
frequenza d’acquisto: quante volte si lavano i denti per chi vende dentifrici oppure di questi
consumatori quale è il livello di istruzione che condiziona maggiormente il consumatore a lavarsi i
denti più volte al giorno.
Esempio: si sceglie il macro segmento dei paesi a forte instabilità politica e su questo si inizia
l’operazione di micro segmentazione: valutare nel macro segmento i consumatori per cercare
elementi di omogeneità rispetto a un bisogno espresso che può essere soddisfatto dall’ O
dell’impresa.
È lo step innovativo rispetto alla segmentazione nazionale. È un tentativo delle imprese per capire
se da questi segmenti è possibile intercettare un segmento unico che unisca segmenti o parti di
segmenti appartenenti a paesi differenti, perciò si chiama anche transazionale perché scavalca i
confini nazionali. Il segmento orizzontale è difficile che si concretizzi perché lo scopo è consentire
all’impresa di proporsi al segmento con un’unica offerta ma allo stesso tempo e modo vi sono nel
segmento individui diversi, ad esempio una donna occidentale con una reddito medio alto e la
moglie di un emiro arabo. In cosa questi due individui possono essere omogenei rispetto al
prodotto? per i beni di lusso, solo in questo caso. La borsa LV viene proposta nello stesso modo,
con lo stesso posizionamento, perché quella O soddisfa lo stesso bisogno. Il lusso è un bisogno
trasversale che unisce culture completamente diverse. Il segmento orizzontale è infatti globale
perché sono produzioni particolari che accumunano in un macro segmento consumatori così
disomogei ed omogenei nel bisogno. Inoltre questo segmento ha una ulteriore caratteristica: le
economie di scala. La standardizzazione dell’offerta implica il poter realizzare economie di scala, il
posizionamento è unico e l’impresa fortifica le sue vendite abbattendo in parte i CF.
TARGETING
Operazione attraverso cui l’impresa, tra i vari segmenti che rappresentano il risultato della sua
attività macro, micro e orizzontale, seleziona quelli che, in termini di attrattività e accessibilità,
presentano il miglior rapporto costi benefici.
POSIZIONAMENTO
Significa utilizzare le componenti operative delle 4 variabili del marketing mix: prodotto, prezzo,
comunicazione e distribuzione, per consentire al prodotto il posizionamento desiderato sul
segmento target.
Posizionamento rilevato sul mercato, cioè nei consumatori, come risultato dell’uso delle
politiche di marketing.
L’impresa determina ma nella pratica il posizionamento viene espresso dai consumatori e non
sempre il risultato è quanto desiderato dall’impresa anzi, vi può sempre essere un gap tra
posizionamento desiderato ed effettuato.
Il controllo in itinere delle 4 variabili è determinante perché se l’impresa nota dalle rilevazioni sul
mercato quale delle variabili non è sfruttata al meglio per creare il posizionamento desiderato si
può intervenire in corso d’opera.
Particolarità a livello internazionale delle 4 variabili del marketing mix è che ciascuna di queste
deve rispondere a una grande questione che si pone sui mercati internazionali: standardizzazione
o adattamento? Quindi: posizionamento standardizzato o differenziato? Marketing differenziato o
indifferenziato? Da questa scelta dipende il successo e la reddittività marginale delle vendite sui
mercati internazionali.
Coca Cola, Mc Donald, Mattel con la Barbie… dall’altro della loro forza, sono entrati nei paesi con
adattamento zero e quindi standardizzazione completa dei prodotti. Ciò ha portato a grandi
insuccessi e hanno dovuto ricredersi: il brand è globale però c’è sempre qualche elemento di
adattamento, qualcosa che è specifica per il paese.
Il posizionamento standardizzato si può basare: sugli attributi del prodotto, sui benefici funzionali,
sui benefici psicosociali, sul riferimento al paese di origine del prodotto o dell’impresa oppure su
qualche tratto caratteristico dell’impresa su cui la stessa ha ormai sviluppato un vantaggio
competitivo.
- motivazioni diverse da parte del cliente, non sempre la funzione d’uso di un prodotto è
omogenea nei diversa paesi
- immagini di marca diverse, la Honda negli USA evoca qualità e affidabilità, in Giappone dove è
usata per le competizioni automobilistiche una personalità giovanile e piena di energia
La scelta di standardizzare o meno le politiche di marketing dipende non solo dalle caratteristiche
della D, dell’O e dalle risorse aziendali ma anche dall’orientamento dell’impresa nei confronti dei
mercati esteri. Perlmutter nel 1969 propone una distinzione fra imprese con orientamento:
1. Etnocentrico
Le scelte aziendali risultano home country oriented, cioè influenzate dalla cultura del paese dei
origine dell’impresa e dalla sua esperienza, nella convinzione che la formula imprenditoriale
sperimentata nel mercato interno possa essere replicata con successo all’estero, senza particolati
adattamenti alle specificità locali. Tale convinzione è frutto di un’oggettiva superiorità della
formula imprenditoriale. L’arena competitiva più rilevante è il mercato nazionale, i mercati esteri
sono marginali. Nel caso in cui nel paese estero siano istituite unità operative, le posizioni più
rilevanti sono rette da persone provenienti dal paese d’origine. Le decisioni vengono prese
secondo uno stile top-down.
2. Policentrico
3. Regiocentrico
Una volta che l’azienda ha maturato una solida cultura internazionale, si attenua la ricerca del
massimo adattamento tipico del 1° orientamento. Il mercato di riferimento viene suddiviso in
regioni o aree di mercato plurinazionali. Pur riconoscendo alle unità locali autonomia, si realizza
forte grado di integrazione e coordinamento sia a livello strategico che operativo, non agiscono
dunque singolarmente ma nell’ambito di un sistema relazionale tra casa madre e unità. Ogni
regione ha un quartier generale che opera in posizione intermedia tra le unità locali e la casa
madre. Quanto al piano strategico di marketing, i prodotti sono standardizzati pur prevedendo
degli adattamenti e la politica dei prezzi è omogenea. Da un lato questo orientamento sembra
un’estensione del 2° in quanto ogni area agisce in maniera relativamente autonoma, dall’altro il
coordinamento e l’interscambio tra le unità lo rendono simile al 4°.
4. Geocentrico
Stadio evoluto del 3° orientamento. L’impresa opera su scala planetaria, retta da dirigenti la cui
cultura non è strettamente identificabile con quella del paese di origine o nel quale lavorano:
world oriented. L’offerta è standardizzata ed è resa da una struttura produttiva globalizzata. Vi è
forte interdipendenza tra unità e casa madre, le unità non sono né indipendenti né esecutrici ma
componenti di un sistema uniforme focalizzato sulla realizzazione di una strategia globale. I vertici
aziendali sono individuati all’interno del gruppo, a prescindere della loro nazionalità di origine;
attraverso una forte mobilità internazionale, i dirigenti tendono ad abbandonare l’identità
culturale del proprio paese per acquisire quella dell’impresa, favorendo il processo di
omogeneizzazione culturale in tutto il gruppo internazionale.
Strutturali. Riguardano la materialità del prodotto quindi gli ingredienti, il gusto, il profumo
Di servizio. Servizi aggiuntivi che migliorano la qualità del prodotto stesso, consegna veloce
del prodotto, assistenza post vendita…
L’impresa può decidere di vendere il prodotto all’estero con i suoi stessi attributi di origine
standardizzandolo o può adattarlo. Standardizzare significa immutare il prodotto, non variare gli
attributi; adattare significa invece cambiare alcuni aspetti del prodotto per andare incontro alle
esigenze dei consumatori esteri – variabile cultura -.
Il prodotto si scontra con una serie di variabili presenti nel territorio estero e che incidono sulla
scelta del consumatore di acquistare o meno il prodotto, la principale è la variabile cultura: la
cultura spesso è un impedimento all’acquisto di un prodotto estero.
L’hamburger che richiama un stile di vita americano non viene considerato dai paesi orientali.
Oppure l’azienda della marca Vidal quando ha iniziato un’attività di esportazione del prodotto in
Giappone ha effettuato dei cambiamenti sull’aspetto strutturale del prodotto diminuendo la
profumazione del bagnoschiuma, in quanto i giapponesi non preferiscono al contrario degli italiani
il profumo troppo forte.
Si parla infatti di Buon Prodotto all’estero quando il prodotto riesce a rispondere alle esigenze del
consumatore sulla base degli standard di qualità cercati dal consumatore per quel prodotto in
quella località.
Tipologia di prodotto. In funzione del tipo di prodotto l’impresa può essere può o meno
portata a standardizzare il prodotto, vi sono casi in cui è “costretta”. Vi sono tipologie di
prodotto che necessariamente richiedono un adattamento: tipico esempio è quello dei
prodotti alimentari, per l’uso personale o i non durevoli. Al contrario, un’impresa che
produce bulloni procederà per la standardizzazione.
Il consumatore ha un bisogno, per rispondere a tale bisogno raccoglie informazioni, poi valuta le
possibili alternative, tutti i prodotti che effettivamente rispondono al bisogno, ne sceglierà uno, lo
acquista ed infine vi è la fase del post acquisto, valutare il livello di soddisfazione. Tra l’acquisto e il
post acquisto potrebbe esservi la cosiddetta dissonanza cognitiva: il consumatore potrebbe avere
o meno dei ripensamenti. L’ultima è una fase molto importante perché il passaparola potrebbe
essere negativo. L’impresa deve tamponare tale situazione con la pubblicità o richiedendo al
consumatore stesso la sua soddisfazione proiettandosi in un processo di miglioramento continuo.
L’impresa deve valutare il bisogno a chi effettivamente rivolto, chi prende la decisione e chi
acquista, perché spesso non sono la stessa persona. Il bisogno può essere di un bambino, la madre
decide il prodotto e il padre acquista.
Il problema principale di tale processo è intercettare chi sono i consumatori innovatori in quanto
solitamente l’acquisto di un nuovo prodotto avviene da parte di un x% di persone attente
all’innovazione; se tale % è bassa non vi sono le condizioni giuste per lanciare il nuovo prodotto nel
mercato estero perché la D potenziale iniziale sarebbe troppo bassa.
Secondo alcune analisi i paesi in cui si registra la presenza di un > n° di innovatori sarebbero quelli
con il reddito pro capite più elevato, con un livello di istruzione medio alto e con una % consistente
di consumatori giovani.
In secondo luogo bisogno comprendere se tali innovatori sono realmente attivi: se effettivamente
sono interessati al nuovo prodotto, lo provano e se sono soddisfatti restano fedeli. Quindi le fasi
sono:
- FEDELTA’
Tendenzialmente gli aspetti che condizionano l’adozione o meno del nuovo prodotto sono:
1. Innanzitutto deve essere azionato il processo di adozione del prodotto sopra menzionato
- Il vantaggio relativo: il cliente adotta il nuovo prodotto quando questo gli reca un beneficio
superiore al beneficio che aveva col prodotto acquistato precedentemente.
- La complessità: il cliente potrebbe non adottare il prodotto nuovo perché lo ritiene troppo
complesso. E’ legato alla variabile cultura perché se non vi è la conoscenza di base
tecnologica e culturale per poter capire effettivamente quell’innovazione tecnologica
molto probabilmente non verrà adottato.
- Divisibilità: vi sono alcuni prodotti innovativi che permettono di differenziarsi dagli altri.
Accadeva tanti anni fa con il Mec, chi lo acquistava poiché costava tantissimo si
differenziava e comunicava un certo status sociale.
- L’Individualismo: vi sono società individualiste come gli USA, il cliente adotta il prodotto
per sentirsi diverso
- Il Collettivismo: vi sono società collettiviste come la Cina, il cliente adotta il prodotto solo
se accettato dai pari, lo si adotta non per sentirsi diverso ma per essere come gli altri, per
omologarsi
EFFETTO PRISMA
Il prodotto che viene adottato in un nuovo paese potrebbe non essere valutato e posizionato nello
stesso modo rispetto al paese di origine. Nel momento in cui il prodotto viene inserito sul mercato
il consumatore esprime un giudizio, ma su quello stesso prodotto il consumatore estero può
esprimere un giudizio differente dal consumatore del paese di origine. Si parla di effetto prisma
perché il prodotto è uno ma le facce sono tre; ne possono seguire tre diversi effetti sulla base del
posizionamento: immagine che il prodotto ha nella mente del consumatore che può o meno
coincidere con il posizionamento voluto dall’impresa.
In generale tutto ciò ha delle conseguenze strategiche per il marketing mix, perché in base
all’effetto che emerge vengono prese le scelte da parte dell’impresa sulla distribuzione, sul prezzo
e sulla comunicazione. Se l’effetto è riducente l’impresa dovrà sicuramente lavorare sulla
comunicazione o sul prodotto stesso.
L’origine del prodotto è uno dei fattori che determina un cambiamento di percezione, di
posizionamento del prodotto dal paese di origine al paese estero. Può cambiare l’impressione e
l’immagine che il prodotto restituisce al consumatore finale e le sue scelte finali, anche
inconsciamente. A una scarpa mady in Italy piuttosto che in China daremo d’istinto un valore
maggiore.
Molti studi sono stati effettuati sul valore dell’informazione rispetto al paese d’origine: le
informazioni che il consumatore ha sul paese d’origine condizionano la scelta finale e abbreviano il
processo d’acquisto. Due sono gli effetti che le informazioni sul paese d’origine determinano
sull’acquisto o meno del prodotto:
EFFETTO ALONE. Halo Construct. Deriva dal fatto che l’informazione che il consumatore ha
del paese deriva da stereotipi, pregiudizi, informazioni generali e immagini che circolano
intorno al paese e condizionano le convinzioni sugli attributi del prodotto; si riversano sulla
valutazione della marca e portano a scegliere o meno il prodotto. Un individuo non ha
familiarità con le tv coreane ma ritiene che i prodotti coreani di quel tipo siano di alta
qualità.
Questi due effetti sono connessi tra di loro in modello dinamico e ciclico:
Senza avere nessuna esperienza del prodotto l’immagine del paese inciderà sugli attributi, sulla
percezione del prodotto e sulle marche; una volta acquistato il prodotto, l’esperienza post
acquisto del prodotto recherà delle sensazioni positive o meno che incideranno sulla percezione
del paese; tale percezione scatenerà l’effetto sintesi.
TASSONOMIE
A causa della frammentazione della catena del valore, il concetto di paese di origine ha assunto
diverse connotazioni. Non è detto che il paese d’origine del prodotto sia effettivamente quello
reale, vi sono una serie di tassonomie che influenzano le scelte del consumatore:
COUNTRY IMAGE
L’immagine del paese è l’insieme di associazioni e valori positivi o negativi collegati al paese. Non è
un’immagine statica perché varia nel tempo e da paese a paese. Le associazioni legate all’Italia
sono storia, cultura, arte, moda, cibo.
- Componenti cognitive, cioè tutte le informazioni connesse agli aspetti politici, sociali e
storici del paese.
- Componenti affettive, cioè il sentimento nei confronti del paese. Gli italiani ad esempio
hanno un senso di avversione nei confronti della Germania per scelte politiche che la
Germania ha effettuato in Europa.
- Stereotipi, valutazioni fatte su un paese senza averle verificate, frutto del passa parola o
della storia. Ad esempio il pregiudizio della qualità dei prodotti cinesi.
Il consumatore è più o meno influenzato dall’immagine del paese in base a se è più o meno alto:
Per misurare effettivamente quanto l’immagine del paese condiziona la scelta o meno del
prodotto si cerca di operazionalizzare cioè di scegliere degli indicatori che consentono di misurare
adeguatamente un concetto. In tal caso gli indicatori sono 4:
In uno studio tali indicatori sono stati esaminati per 6 paesi e ne è emerso che: il workmanship è
molto alto in Germania, il design in Italia, il prestigio in Francia, alla Cine invece non è associata
un’immagine precisa forse sull’innovatività ma emerge più in Giappone e negli USA.
In funzione dell’immagine positiva o negativa del paese d’origine e dell’importanza o meno che gli
attributi del prodotto hanno per il consumatore, ne seguono 4 effetti made in cioè della
produzione nel territorio di origine:
3. Immagine positiva e attributi non rilevanti: effetto made in mancato. Si può ugualmente
beneficiare dell’effetto del made in però cercando di rafforzare nella strategia di
comunicazione gli attributi secondari del prodotto magari legati all’immagine positiva del
paese.
La funzione produzione va generalmente d’accordo con la funzione marketing circa il lancio di una
nuova linea di prodotto perché l’obiettivo della produzione è incrementare i volumi di produzioni
così da godere di economie di scala e di apprendimento e l’obiettivo del marketing è proprio
ridurre i costi. Quindi sono due logiche che coincidono però in un processo di
internazionalizzazione la produzione vuole un prodotto standardizzato mentre il marketing lo
preferisce adattato. Perché il marketing risponde alle esigenze del consumatore, si lavora sul
prodotto per personalizzarlo rispetto alle esigenze del paese estero; mentre la produzione ha
come obiettivo l’aumento della produzione così da aumentare il potere contrattuale con i fornitori
perché aumentano le materie prime richieste.
2. Realizzare un prodotto che fin da subito è globale, è prodotto standardizzato, uguale per
tutti. Il problema del prodotto globale non è detto che soddisfi le esigenze di tutti i
consumatori di tutti i paese.
Vi possono essere degli adattamenti strategici cioè legati al posizionamento: a come l’impresa
vuole che il prodotto venga percepito. Lavorare sul posizionamento è un modo per ovviare al
Si può adattare il prodotto lavorando sulle politiche del marketing mix. Sulla comunicazione
è naturale che sia così, sulla distribuzione si possono fare accordi con determinati
distributori per la vendita del prodotto in una maniera tale considerata esclusiva o che
possa connettersi al concetto di origine del prodotto, infine il P, si può posizionare il
prodotto uguale per tutti i paesi però con un P > o < di quello dei paesi d’origine.
Prodotto tipico. DOC DOP IGP. Si vende un prodotto uguale per tutti i paesi sulla base del
fatto che quel prodotto ha una provenienza geografica chiara e precisa e l’adattamento
non avrebbe senso in quanto la caratteristica base del prodotto è la sua origine.
PRODOTTO GLOBALE
Il prodotto nasce per essere venduto uguale nel paese d’origine e all’estero. L’espressione di valori
non è adattata al paese ma è unica. Possono essere prodotti
Radicalmente nuovi
Il rischio del prodotto globale è che potrebbe non andare benne allo stesso modo a tutti i paesi. Ai
giorni d’oggi i veri prodotti globali sono i beni di lusso: prodotti standardizzati nelle caratteristiche
tecniche e nella comunicazione e prezzo.
Si adatta il prodotto alle peculiarità del paese estero. Il paese esprime delle specificità tali che
portano l’impresa a doverlo adattare per poterlo vendere. Ovviamente la necessità
dell’adattamento subentra maggiormente per prodotti alimentari piuttosto che per
l’abbigliamento. Diventa necessario quando
Vi sono differenze nell’ambiente sociale del consumatore. Coca cola sembra un prodotto
globale ma, a parte che negli USA vi sono gusti che in Italia come arrivano come ciliegia e
vaniglia, mentre negli USA se ne consumano tante infatti il P è più elevato, in Italia prevale
la dieta mediterranea e serve maggiore promozione.
Diversità nelle modalità d’uso del prodotto. Consumatori di mercati diversi potrebbero
utilizzare il prodotto per usi diversi. Un produttore di confetti della provincia di Avellino
voleva esportare il prodotto in Canada. In Italia il confetto è legato a eventi particolari non
è di uso quotidiano, in Canada invece lo usano come dolce a fine pasto e dunque ha dovuto
proporre un adattamento del prodotto perché la differente modalità di uso non ha impatto
sul core del prodotto ma sul confezionamento e sulla distribuzione. Ha cambiato il
confezionamento per renderlo disponibile come un pocket coffe. Ciò ha consentito
l’ingresso nel mercato canadese.
VIE DELL’ADATTAMENTO
Generalmente le imprese hanno a disposizione varie modalità per adattare il prodotto al mercato
estero.
1. Ogni paese ha il suo adattamento: l’impresa sviluppa una strategia di adattamento ad hoc
per lo specifico mercato estero. È la modalità più corretta ed immediata ma anche la più
costosa perché l’impresa pianifica l’adattamento del prodotto per lo specifico paese.
Significa avere nel proprio portafoglio prodotti complessivo un prodotto per ogni paese.
Prodotto A per il paese X e prodotto B per il paese Y
2. Nella maggioranza dei casi avviene un percorso più contorto ma più economico: l’impresa
prende come punto di partenza il prodotto sviluppato per il mercato d’origine e con
successive modifiche lo adatta ai vari paesi. È un processo di conoscenza incrementale:
l’impresa entra nel mercato, lo testa e poi attraverso modifiche successive cerca di rendere
il prodotto quanto più possibile vicino alle condizioni che il mercato di destinazione
esprime. Costa meno perché è un investimento diluito nel tempo, inizialmente il prodotto è
standardizzato poi lo si adatta.
Per adattare il prodotto l’impresa può modificare diversi attributi valutati caso per caso in base al
paese e al mercato. In generale si possono modificare gli:
L’impresa può sviluppare un prodotto ad hoc per il paese estero. È il tipico approccio policentrico
in cui l’impresa che non ha un forte legame con il paese di origine e progetta e sviluppa prodotti
per il paese di destinazione. Ovviamente ciò va fatto dopo una accurata analisi sulla D potenziale:
non si sviluppa mai un prodotto nuovo senza aver chiara l’entità della D potenziale ma ciò dipende
dalla capacità dell’impresa di intercettare tale domanda e di capire se effettivamente con la
propria O si può soddisfare un’esigenza specifica.
Sono sicuramente casi di GI, che già hanno una presenza forte nei mercati esteri e che possono
sostenere l’investimento circa la progettazione del prodotto nuovo.
Una produzione flessibile: l’impianto produttivo deve essere organizzato per essere
facilmente sostituito per le esigenze che emergono.
Una produzione modulare: l’impianto modulare entra in funzione per moduli/blocchi, solo
quando vi è la richiesta del mercato estero.
Differimento: approccio che consente di differire l’adattamento del prodotto al più tardi
rispetto al momento della specificazione dell’acquisto da parte del cliente. Si esegue più a
valle nella catena dell’O alcune attività normalmente associate alla produzione,
procrastinando nel tempo il momento in cui le merci vengono destinate a un mercato o a
una clientela particolare
La marca ha un ruolo essenziale, vi sono imprese che cambiano solo il nome del prodotto nei vari
paesi in cui entrano. La marca rende possibile l’adattamento, senza alterare le componenti
strutturali, esterne e di servizio, ma lavorando sulle componenti cognitive cioè su elementi di
brand awareness cioè di affidabilità, fedeltà e vicinanza della marca utilizzando il recall cioè quello
che la marca evoca attraverso linguaggi e simbologie legate al paese di destinazione; e su elementi
di brand recognition cioè di associazione a simbologie evocate dal nome.
Ciò comporta dei problemi in quanto pur essendo lo stesso prodotto si sviluppa però una
estensione della gamma produttiva perché quel brand diventa un’altra linea di prodotti.
LE ASSOCIAZIONI AL MARCHIO
Per quanto riguarda l’utilizzo della marca l’impresa ha a disposizione diverse possibilità. Può
costruire una:
- Marca locale per un determinato paese, come per il prodotto è una marca costruita e
dedicata a un paese su un prodotto che è uguale: il prodotto è lo stesso la marca varia. Lo si
fa perché vi è una differente percezione del consumatore, perché il nome di una marca in
un paese estero può essere simile a una parola volgare. L’ammorbidente Coccolino in Italia
assume un diverso nome all’estero, in Australia ad esempio si chiama Huggy.
Dalla globalizzare dei mercati non discende necessariamente l’uso di una marca globale dunque
preoccupazione dell’impresa deve essere quella di creare marchi forti in tutti i mercati di suo
interessa. È necessario integrare in un unico piano strategico la gestione dei marchi così da
consentire l’impresa a procedere, in modo incrementale, al rafforzamento dei suoi brand nei vari
mercati in cui è presente. D’altra parte brand globali come Coca Cola o Nike sono casi rari, la
maggior parte dei brand non sono globali e necessitano di azioni ad hoc di rafforzamento sui
mercati dove sono presenti. Ciò comporta per l’impresa:
Il mercato cinese ha avuto un’esplosione a livello internazionale. Una strategia di marca è molto
complessa sul mercato cinese. Una marca italiana può non significare nulla in Cina o avere un
significato negativo. A livello fonetico, letterale e simbolico siamo su pianeti diversi in quanto
utilizzano gli ideogrammi, la lingua è diversa, il modo di scrivere è diverso. Adattare un brand in
Cina è un operazione complessa si deve tener conto della fonetica, della simbologia.
Le imprese sono alla continua ricerca di strumenti diversi ma soprattutto di contenuti in grado di
catturare l’attenzione del consumatore.
Tutte le imprese hanno accesso a strumenti tecnologici: internet, siti web interattivi, blog…
comunicano e producono contenuti innovativi però ciò ha determinato una sovrabbondanza di
informazioni e di comunicazione che induce le imprese a competere sull’attenzione del
consumatore essendo sempre più difficile catturare il suo interesse.
Tali finalità valgono non solo per le imprese internazionali ma per qualunque tipo di impresa, per
enti, istituzioni…
Innanzitutto è importante superare l’idea che la comunicazione abbia come unico obiettivo quello
di vendere il prodotto, di incrementare i profitti; è sicuramente uno degli obiettivi ma, ragionando
in un’ottica allargata, ha anche altre finalità.
- Finanziatori, l’impresa che ha un’immagine forte e attrattiva riesce ad ottenere credito dai
finanziatori anche a condizioni più vantaggiose;
- Sindacati
- Mondo politico
- Pubblica opinione, se l’impresa è attenta alle politiche ambientale, alla tutela del lavoro,
alle energie rinnovabili… alimenta un’immagine positiva nella pubblica opinione
Comunicazione organizzativa: è diretta alle risorse che lavorano all’interno dell’impresa. L’internal
marketing è infatti proprio una branca del marketing che si occupa delle relazioni con i dipendenti,
è il marketing che si fa non verso i clienti ma verso le risorse umane impiegate nell’impresa. La
comunicazione circa l’apertura di una palestra o un asilo nido nell’impresa è un’operazione di
internal marketing cioè diretta a rafforzare il legame tra azienda e dipendente.
documenti contabili che devono rendere quanto più trasparente e chiara la situazione economica
dell’impresa.
IL PROCESSO DI COMUNICAZIONE
Feedback Risposta
Non è legato al marketing internazionale ma è un processo che funziona in questo modo ovunque
vi è un messaggio che transita da una fonte mittente a una ricevente.
Sono molto importanti sui mercati internazionali perché ci riferiamo a paesi culturalmente diversi
e la fonte ricevente potrebbe non essere in possesso dei codici per codificare il messaggio.
Esempio banalissimo, se viene scritto il messaggio in italiano i cinesi non lo decodificano. Il
linguaggio è l’esempio più banale ma tanti altri elementi potrebbero non essere in possesso del
ricevente per decodificare. Tanti messaggi non esplicitano direttamente il proprio obiettivo ma
fanno riferimento a metafore e allusioni che chi è del paese conosce ma non è certo che siano
conosciute anche dai paesi di destinazione.
- Rumore
Definito come un’ostacola che trova il messaggio durante il percorso. Il rumore può essere
determinato da altri messaggi che arrivano alla fonte emittente o da un messaggio proveniente
dalla stessa fonte ma con un altro strumento che non ha un obiettivo coerente con quello del
messaggio n°1 e crea confusione. Generalmente è determinato dai messaggi della concorrenza
(dagli altri messaggi) che abbassano il livello di attenzione della fonte ricevente e contribuiscono a
disperdere il valore della comunicazione.
- Feedback
Risposta in termini di ritorno che il ricevente può dare all’emittente così da permettere
all’emittente di porre in essere interventi correttivi se il processo non va a buon fine. È importante
valutare ex post gli effetti del messaggio, valutare se l’emittente raggiunge i suoi obiettivi in
termini di comunicazione, se il ricevente ha compreso il messaggio. Se l’obiettivo non è stato
raggiunto il feedback consente alla fonte emittente di non reiterare il proprio errore comunicativo
oppure di comprendere che l’errore non è da parte sua ma vi sono tanti messaggi simili nell’arena
competitiva che il consumatore non distingue.
Per barriere si intendono tutti gli ostacoli al processo di comunicazione, verbale e non verbale, fra
soggetti appartenenti a culture diverse.
- Lingua differente
- Legame che la lingua ha con il contesto: insieme degli elementi verbali e non verbali che si
accompagnano alle parole e ne chiariscono il significano. In base a quanto il contesto
concorre alla determinazione dei significati, distinguiamo in culture ad alta densità
contestuale hight context e a bassa densità contestuale low context
- Stile di comunicazione, cioè il tono di voce, la rapidità del discorso, l’enfasi, il grado di
coinvolgimento apparente, la frequenza e la natura delle interruzioni durante il processo
comunicativo. Gli stili comunicativi sono: exacting style usato nel Nord Europa e Nord
America, nella comunicazione vengono trasferite solo le informazioni essenziali senza
utilizzare messaggi articolati; elaborate style in cui l’uso della lingua è molto espressivo, il
messaggio è ricco di elementi e di informazioni; succint style dove la comunicazione è
spesso interrotta da pause e silenzi e non è utilizzata in modo esaustivo.
- Mimica facciale
- Gestualità
LA COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA
Diffidenza nei confronti della pubblicità. Vi sono paesi caratterizzati dal rifiuto verso ogni
forma di pubblicità, in quanto viene vista come non produttiva e causa dell’aumento del P.
Obiettivo della strategia creativa è presentare in modo nuovo, accattivante, e talora anche
spiritoso, un bene o un servizio. Si tratta di una creatività applicata, cioè deve indurre il target a
rafforzare/modificare un’opinione, a migliorare la preferenza verso marca o a compiere un atto
d’acquisto. Ciò non è facile, considerato che il messaggio deve essere di immediata comprensione
e che deve essere contenuto entro brevi limiti di spazio e di tempo
Valutarne l’efficacia
Quanto alla strategia creativa è condizionata dalle caratteristiche del contesto culturale a cui
appartengono i destinatari della comunicazione, quindi da:
- Differenze di lingua, barriera più elevata nel veicolare un messaggio, ed è ancora più
elevato nei paesi caratterizzati da un pluralismo linguistico come in India.
- Diversa valutazione degli elementi visivi. Una pubblicità francese sarà diversa da una per il
mercato arabo, i quali non concepiscono nemmeno un braccio scoperto.
– la disponibilità e le abitudini di fruizione dei mezzi. Nei paesi ricchi vi è maggiore fruizione della
radio al mattino e in automobile, nei poveri riveste il ruolo che per noi occupa la televisione, ci si
raduna attorno la famiglia per avere informazioni o intrattenersi
– la specializzazione dei veicoli. L’abolizione dei monopoli pubblici ha favorito la nascita di nuovi
canali televisivi ma non sono gli stessi in ogni paese, anche per quanto riguarda il settore della
stampa, vi sono paesi con un n° di testate giornalistiche molto basse rispetto ad altri paesi
– le normative che definiscono i limiti alla trasmissione dei messaggi pubblicitari. Vi sono paesi in
cui vi sono notevoli limiti non sono per il prodotti ma anche per gli spazi e i tempi pubblicitari e i
mezzi da usare per veicolare l’informazione pubblicitaria.
- Le scelte dei lettori/telespettatori ricadono quasi sempre sui veicoli di comunicazione del
proprio paese, anche se non mancano quelli con audience sovranazionale; Financial Times,
National Geographic o Grazia sono diffusi in moltissimi paesi.
- Si parla di televisione globale, nel senso di una televisione che si rivolge indistintamente a
un pubblico sovranazionale, con programmi che suscitano l’interesse di paesi diversi. Ciò
consente la veicolazione di pubblicità standardizzate. MTV ne è un esempio.
L’agenzia internazionale dispone di una rete di filiali o consociate in vari paesi del mondo, vi
ricorrono le imprese che dispongono di una presenza diretta in un certo n° di paesi esteri. Il
rapporto è tra la sede centrale dell’impresa e la sede centrale dell’agenzia pubblicitaria e a questo
livello, detto corporate, vengono definite le scelte strategiche del piano di comunicazione
realizzato nei singoli mercati, con eventuali adattamenti.
L’agenzia locale è più frequente quando, dovendo realizzare un adattamento rilevante delle
politiche di comunicazione alle specificità del contesto nazionale, occorre avvalersi di specialisti
locali ed è necessario che questo contatto sia gestito e sviluppato dalle singole unità locali
dell’impresa.
Le due opzioni possono combinarsi, nel senso che l’impresa può decidere di utilizzare un’agenzia
internazionale per i paesi che presentano un sufficiente grado di omogeneità e di avvalersi di
agenzie locali per i mercati con rilevanti tratti di specificità.
Svantaggi:
• Rischio di essere considerati stranieri, che si associa alla rinuncia esplicita ad assumere connotati
locali
• Costi di coordinamento dovuti alla necessità di raccogliere informazioni per giungere a una
soluzione ritenuta ideale a livello sovranazionale
La standardizzazione può avere senso nel caso in cui il target dell’impresa sia costituito da un
segmento transnazionale: chi viaggia, gli sportivi, gli innovatori; i prodotti sono universali come
beni di lusso o ad alta tecnologia; o quando un determinato prodotto/marca è associato a un certo
paese del quale evoca lo stile ad esempio.
Nella realtà, soluzione diffusa è quella di replicare lo stesso format e soluzione creativa ma con
adattamenti: fisionomia dei personaggi, ambientazione scenica…
Un criterio in grado di fornire utili elementi di orientamento per tale scelta è il processo di
acculturazione del target cui ci si rivolge. Tale espressione è riferita al cambiamento negli
atteggiamenti, nei valori e nei comportamenti che ha luogo fra i membri di un gruppo culturale
quando essi entrano in contatto con la cultura dominante.
Considerando come variabili l’attaccamento ai valori centrali della cultura locale e l’attrattività dei
valori della cultura importata, entrambi forti o deboli, uno studio ha individuato 4 possibili
situazioni, di cui due rappresentano gli estremi di un continuum: la separazione che si concretizza
nel mantenimento dell’identità culturale originaria, senza adottare alcun tratto di quella estera e
in tal caso la pubblicità è fortemente adattata al contesto locale; e l’assimilazione, che si manifesta
nell’abbandono della cultura d’origine in favore dell’altra, quindi le campagne pubblicitarie
riproducono integralmente i contenuti sviluppati nei paese d’origine dell’impresa o da essa
abitualmente veicolati. Fra questi due estremi si collocano le situazioni intermedie di integrazione
quando l’identità culturale d’origine è mantenuta pur adottando i tratti della cultura del paese
estero, quindi le pubblicità integrano i valori stranieri e quelli nazionali, e della marginalizzazione
consistente nella perdita dell’identità culturale originaria senza nel contempo adottare quella
dell’altro paese, le pubblicità sono dette nuove perché non sono nè adattate nè standardizzate.
VENDITA PERSONALE
Anche nei mercati esteri assume un ruolo rilevante il personal selling, ossia la presentazione
diretta dei prodotti da parte del personale di vendita agli acquirenti potenziali allo scopo di
realizzarne la vendita. Strumento di comunicazione pressoché esclusivo per le PMI e per realtà
B2B. Il venditore rappresenta l’impresa ed è un gestore della relazione fra impresa venditrice e
soggetto acquirente; le sue capacità relazionali influenzano notevolmente la sua forza di vendita.
Assumono, infatti, sempre più importanza man mano che il settore diventa a più alto
coinvolgimento psicologico, come nel caso dei beni di lusso. I venditori devono rendere tangibili
marca e valori.
Ai fini di una soddisfacente interazione fra acquirente e venditore, è fondamentale che esista una
certa compatibilità sia per quanto riguarda il contenuto dell’attività di vendita sia lo stile
comunicativo utilizzato. Su tale compatibilità influiscono:
La cultura locale condiziona i comportamenti relazionali. Ad esempio in Cina nei negozi di lusso il
venditore non osa avvicinarsi in maniera particolare all’acquirente, né consiglia per non mostrarsi
maleducato o invadente. Il venditore deve comunque conoscere i tratti culturali che influenzano la
logica decisionale basata su valori e norme comportamentali diverse da quelle occidentali.
• Concezione del tempo: per gli occidentali è lineare, in Cina è circolare, con delle fasi ben precise
a noi sconosciute che se non di rispettano non va a buon fine il processo negoziale
• Rispetto della gerarchia: è fondamentale per condurre una negoziazione, durante una riunione i
cinesi non parlano se non sono interpellati dal più anziano
• Rispetto dei vantaggi di gruppo: il ricercare vantaggi di gruppo è più importante del tornaconto
dei singoli, infatti prevale il consenso nel gruppo
• Guanxi: letteralmente relazioni, i cinesi spesso coltivano una relazioni di sostegno, gli obblighi
reciproci sono il collante di tali reti. Si devono rispettare gli obblighi e i favori fatti devono essere
ripagati o ricambiati altrimenti la reputazione del trasgressore è disonorata
• Importanza di “salvare la faccia”: nelle relazioni d’affari per i cinesi è fondamentale mantenere
intatta la loro immagine pubblica. Non vogliono essere smentiti, denigrati ne tornare indietro sulle
decisioni prese
MANIFESTAZIONI FIERISTICHE
Per la gran parte delle imprese manifatturiere italiane, la spesa per la partecipazione a
manifestazioni fieristiche rappresenta la quota più importante dell’intero investimento in
comunicazione. Tale strumento accresce ancor più nell’ambito della comunicazione
internazionale.
Nel corso del tempo hanno sempre più assunto il ruolo di occasioni di vendite piuttosto che quello
di strumenti di comunicazione, in quanto spesso i potenziali clienti hanno già iniziato il processo di
ricerca che precede l’acquisto. Al visitatore non ci si limita a dare informazioni ma si vuole offrire:
sperimentazione, socializzazione e divertimento, aspetti centrali del marketing esperenziale: far
coinvolgere il visitatore facendogli vivere esperienze uniche, irripetibili e coinvolgenti.
- Valutare direttamente e in tempo reale le reazioni dei target rispetto alle proposte
comunicative di volta in volta formulate negli stand propri e in quelli dei concorrenti
- Maggiore proattività: le fiere potrebbe migliorare se gli espositori fossero preparati alla
partecipazione fieristica e fossero più orientati al mercato anziché al prodotto