Sei sulla pagina 1di 85

lOMoARcPSD|18457935

Riassunto Storia Economica (Cameron-Neal)

Storia Economica / Economic History (Università Commerciale Luigi Bocconi)

Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)
lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

INTRODUZIONE: STORIA ECONOMICA E SVILUPPO1


L’esistenza di nazioni ricche e altre povere è determinato dallo sviluppo economico ineguale. Esso
ha provocato rivoluzioni e colpi di stato anche in risposta a governi totalitari e dittature militari che
hanno spogliato intere nazioni della libertà politica e individuale.
La differenza di reddito tra il numero relativamente limitato di nazioni ricche e la grande
maggioranza di quelle impoverite si allarga di anno in anno.
Determinare le origini degli attuali livelli ineguali di sviluppo è compito dell’analisi storica: il
metodo storico isola gli elementi fondamentali dello sviluppo economico, ossia non vengono prese
in considerazioni il vantaggio o l’efficacia di determinate politiche in rapporto a specifici problemi
attuali.
Per conseguire un reddito elevato è necessario creare un’economia industriale moderna oppure
trovare il modo di fornire servizi importanti a economie del genere2 .

Crescita, sviluppo e progresso3.


La crescita economica è definita come un aumento sostenuto del volume totale di beni e servizi
prodotti da una data società. Questo volume totale è stato misurato come prodotto interno lordo
(Pil), il complesso dei beni e servizi prodotto all’interno del territorio di uno stato. I trasferimenti tra
un paese e l’altro devono essere detratti quando si vuole calcolare il reddito nazionale e il prodotto
nazionale lordo (Pnl). La crescita del prodotto totale può verificarsi sia in conseguenza dell’impiego
di maggiori quantità dei fattori di produzione (terra, lavoro e capitale), sia perché quantità
equivalenti dei fattori di produzione vengono impiegate con maggiore efficienza. Se la popolazione
aumenta, vi può essere una crescita del prodotto totale pure senza una crescita del prodotto pro
capite. Il reddito nazionale e altre misure vengono espressi in unità monetarie.
Lo sviluppo economico significa crescita economica accompagnata da un sostanziale cambiamento
strutturale od organizzativo dell’economia, come ad esempio nel passaggio da un’economia locale
di sussistenza ai mercati ed al commercio, o nella crescita dell’industria e dei servizi a scapito
dell’agricoltura. La crescita economica è un processo reversibile in cui è possibile che durante o in
seguito ad un prolungato periodo di declino economico, si verifica qualche forma di regressione
economica.
Il progresso: l’aumento del benessere materiale non sempre è considerato, da un punto di vista
etico, un avanzamento dell’umanità. (tecnologia per la guerra, elevati consumi, questione
ambientale)

L’economia classica ha sviluppato a classificazione tripartita dei “fattori di produzione”: terra,


lavoro e capitale (più l’imprenditorialità). Il prodotto totale di un’economia è determinato dalle
quantità dei fattori di produzione messi in gioco. L’analisi dello sviluppo economico presuppone
che i gusti, la tecnologia e le istituzioni sociale (forme di organizzazione economica, sociale e
politica, il sistema legale e quello religioso) non influenzano il processo di produzione,
contrariamente a quanto storicamente invece accade. Infatti i mutamenti tecnologici e delle
istituzioni sociali costituiscono i fattori più dinamici di cambiamento dell’intera economia. È
possibile considerare fattori come i gusti, la tecnologia e le istituzioni sociali dei parametri di un
sistema nel quale le quantità e i prezzi dei fattori convenzionali di produzione sono le variabili
principali. Negli ultimi secoli l’innovazione tecnologica è stato il fattore più dinamico di
mutamento economico e di sviluppo: il mutamento tecnologico consente un’espansione dei limiti
legati alle risorse disponibili, sia attraverso la scoperta di nuove risorse sia un uso più efficiente dei
fattori tradizionali di produzione.
L’interdipendenza tra popolazione risorse e tecnologia nell’economia è condizionata dalle
istituzioni sociali. Le istituzioni che acquistano rilevanza sono la struttura sociale, la natura dello

1 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dalla preistoria al XVII secolo, tomo I, Il Mulino, 2005. Capitolo I.
2 ibidem, pp. 12-15.
3 ibidem, pp. 15-19.
1

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

stato o altro regime politico, e le inclinazioni religiose e ideologiche del gruppo o delle classi
dominanti e delle masse. Istituzioni minori sono le libere associazioni, il sistema scolastico, la
struttura familiare e altre agenzie creatrici di valori.
Una delle funzioni sociali svolte dalle istituzioni è di rappresentare un elemento di continuità e di
stabilità, senza il quale la società si disintegrerebbe. Esempi di innovazioni istituzionali sono i
mercati organizzati, la moneta battuta, i brevetti, le assicurazioni e le varie forme d’impresa, tra cui
la moderna società per azioni.
Gli intellettuali marxisti ritengono che l’elemento dinamico è fornito dalla lotta tra le classi sociali
per il controllo dei mezzi di produzione. Il sistema è nel complesso semplicistico e eccessivamente
dogmatico. La “teoria istituzionalista” (meno ideologica a quella dei marxisti) considera lo sviluppo
economico come il prodotto di una tensione o lotta permanente tra l’innovazione tecnologica e le
istituzioni sociali. La tecnologia, secondo tale teoria, è l’elemento dinamico e progressista, mentre
le istituzioni invariabilmente si oppongono al mutamento4 .

Produzione e produttività5 .
La produzione è il processo mediante il quale i fattori di produzione vengono messi in relazione per
produrre i beni e i servizi desiderati dalle popolazioni umane. La produzione può essere misurata in
unità fisiche o in termini di valore (monetari).
La produttività è il rapporto tra il risultato utile di un processo di produzione e i fattori di
produzione in esso impiegati. Essa può essere misurata in unità fisiche o in termini di valori. Per
misurare la produttività totale dei fattori di produzione è necessario ricorrere a misure di valore.
La produttività del capitale è in è parte in funzione della tecnologia che esprime. Inoltre,
determinate combinazioni di fattori di produzione sono in grado di accrescere la produttività.
Un’importante combinazione speciale dei fattori di produzione attiene al concetto di capitale
umano, derivante dall’investimento in conoscenze e abilità o capacità. L’investimento può assumere
la forma di un’educazione o di un addestramento formale di un periodo di apprendistato o di
apprendimento “sul campo”. Le differenze nel livello di capitale umano pro capite tra economie
avanzate e quella arretrate sono notevoli.
Un aumento dei fattori tradizionali di produzione spiega solo in parte l’aumento della produzione
nelle economie avanzate. È cresciuta enormemente la produttività di tutti i fattori di produzione.
Elementi determinati sono stati i processi tecnologici, i miglioramenti organizzativi sia a livello
macroscopico che microscopico (tra cui le economie di scala) e la crescita notevole degli
investimenti in capitale umano.
Nel 1798 Thomas R. Malthus pubblicò il Saggio sul principio della popolazione dove si partiva dal
presupposto che “la passione tra i sessi” avrebbe portato ad una crescita demografica in
progressione geometrica, ma che le disponibilità di cibo sarebbero cresciute in progressione
aritmetica. In assenza di una “costrizione morale”, come il celibato o il matrimonio in tarda età, la
legge dei rendimenti decrescenti e i “freni positivi” sulla popolazione rappresentati dalla guerra
dalla carestia e dalle pestilenze, concludeva, avrebbero condannato la grande maggioranza della
popolazione ad una vita di mera sussistenza.

Struttura economica e mutamenti strutturali6.


La struttura economica ha a che vedere con le relazioni tra i vari settori dell’economia, in
particolare i tre settori principali noti col nome di primario, secondario e terziario. Il settore
primario comprende quelle attività i cui prodotti sono ottenuti direttamente dalla natura, agricoltura,
silvicoltura e pesca. Il settore secondario comprende le attività che trasformano o lavorano i prodotti
naturali: la manifattura e le costruzioni. Il terziario, o settore dei servizi, non ha nulla a che vedere

4 ibidem, pp. 19-24.


5 ibidem, pp. 25-27.
6 ibidem, pp. 28-30.
2

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

con prodotti o beni materiali ma comprende uno spettro di servizi tra i quali quelli domestici,
personali, commerciali, finanziari, professionali e pubblici.
Per migliaia di anni l’agricoltura è stata la principale occupazione della grande maggioranza della
razza umana: la produttività era così bassa in origine che per sopravvivere era necessario dedicarsi
alla produzione di generi alimentari. La produttività agricola cominciò a crescere e sempre meno
lavoratori divennero necessari per la produzione di beni di sussistenza. Cominciò così il processo di
industrializzazione che si protrasse dalla fine del Medioevo fino alla metà del XX secolo.
Il passaggio dall’agricoltura alle attività secondarie si svolge lungo due linee principali. Sul
versante dell’offerta, l’accresciuta produttività rese possibile produrre le stessa quantità di prodotti
con meno lavoro. Sul versante della domanda entrò in gioco l’aspetto peculiare del comportamento
umano, definito dalla legge di Engel. Essa afferma che ma mano ce cresce il reddito di un
consumatore, diminuisce la percentuale del reddito destinata all’acquisto di cibo.
Il secondo cambiamento strutturale attualmente in atto, il passaggio relativo della produzione di
beni a quella di servizi, implica un corollario della legge di Engel: man mano che cresce il reddito,
cresce la domanda per ogni genere di merce, ma ad un ritmo inferiore a quello del reddito, mentre la
domanda di servizi e di tempo libero si sostituisce in parte a quella di beni concreti.
I mutamenti tecnologici sono in gran parte responsabili di tali cambiamenti strutturali, nonostante la
forza scatenante immediata sia solitamente la variazione dei prezzi relativi (e dei salari).

La logistica della crescita economica7 .


Il termine logistica è qui atta ad indicare la formula matematica che serve a derivare la “curva
logistica”, una curva a forma di S, anche detta “curva della crescita”, che descrive con una certa
accuratezza la crescita delle popolazioni. La curva ha due fasi, una prima fase di crescita accelerata
seguita da una seconda di decelerazione; dal punto di vista matematico, ai suoi limiti la curva si
approssima asintoticamente ad una retta orizzontale parallela all’asintoto originario.
Le curve logistiche possono descrivere approssimativamente fenomeni sociali, in particolare la
crescita delle popolazioni umane; nel caso europeo si è osservato che la crescita demografica è
seguita puntualmente da una fase di relativa stagnazione o addirittura declino.
È pressoché certo che ciascuna fase di accelerazione della crescita demografica in Europa sia stata
accompagnata dalla crescita economica, nel senso sia del prodotto totale che di quello pro capite.
Le fasi finali di tutte le logistiche, e gli intervalli di stagnazione o depressione che seguirono,
testimoniarono la propagazioni di tensioni sociali, inquietudini e disordini, e lo scoppio di guerre
eccezionalmente feroci e distruttive. Guerre e lotte civili si ebbero naturalmente anche in altre
epoche. È possibile che certi periodi di crisi degli affari umani, allorché l’ordine stabilito sembra
crollare, possano stimolare i migliori intelletti in una grande varietà di campi a sottoporre a riesame
le verità accettate. Il cambiamento tecnologico, che accresce la produttività e rende disponibili
nuove risorse permette un’ulteriore crescita demografica. Senza altre innovazioni tecnologiche
finisce per manifestarsi il fenomeno dei rendimenti decrescenti, la società incontra un nuovo tetto di
produzione, e la popolazione si stabilizza di nuovo fino al momento in cui una nuova “innovazione
epocale” fa di nuovo aumentare la produttività e rende disponibili ulteriori risorse.

LA SECONDA LOGISTICA8
Verso la metà del Quattrocento, dopo una secolo di decadenza e stagnazione, la popolazione
europea ricominciò ad aumentare. All’inizio del Seicento la crescita incontro i soliti ostacoli delle
carestie, delle epidemie e delle guerre, soprattutto della guerra dei Trent’anni, che decimò la
popolazione dell’Europa centrale. La metà del Quattrocento e la metà del Seicento delimitano la
seconda logistica europea: in questi anni si verificarono importanti cambiamenti che modificarono
enormemente l’economia europea. L’immensa espansione degli orizzonti geografici nell’epoca delle
grandi esplorazioni e scoperte marittime, l’individuazione di rotte interamente marittimi tra

7 ibidem, pp. 31-27.


8 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dalla preistoria al XVII secolo, tomo I, Il Mulino, 2005. Capitolo V.
3

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

l’Europa e l’Asia e la conquista e la colonizzazione dell’emisfero occidentale rappresentarono per


l’Europa una grande espansione delle risorse a disposizione, sia immediate che potenziali, e
significarono mutamenti istituzionali nell’economia e del ruolo dello Stato nell’economia.
Si verificò un marcato spostamento dei principali centri economici europei: le città dell’Italia
settentrionale godettero ancora nel XV secolo della leadership negli affari economici, ma non più
del monopolio nel commercio delle spezie. L’invasione e l’occupazione dell’Italia da parte di
eserciti stranieri portò ad un ulteriore sconvolgimento del commercio e della finanza nonché del
graduale declino (relativo rispetto ai grandi passi dell’Europa) dell’Italia.
La Spagna e il Portogallo divennero le principali potenze economiche europee: Lisbona sostituì
Venezia nel ruolo di grande emporio del commercio delle spezie, e gli Asburgo spagnoli, finanziati
dall’oro e dall’argento del loro impero americano, divennero i sovrani più potenti d’Europa. La
ricchezza delle Indie e delle Americhe non fu però adeguatamente distribuita all’interno dei due
paesi: i relativi governi sprecarono le risorse a loro disposizione e soffocarono lo sviluppo di
istituzioni economiche vigorose e dinamiche.
L’Hansa tedesca fiorì nel XV secolo per poi declinare, essendo la Germania e la Svizzera lontane
dalle più importanti vie commerciali e non disponendo di porti che potessero beneficiare
dell’aumento del commercio marittimo.
La regione che più trasse guadagno dai mutamenti economici associati alle grandi scoperte fu quella
attorno al Mare del Nord e alla Mania: i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia settentrionale.
Le Fiandre, la regione già economicamente più avanzata dell’Europa settentrionale, si riprese
lentamente dalla grande depressione del tardo Medioevo. Bruges declinò gradualmente come
principale scalo nel commercio con l’Europa meridionale, mentre Anversa si affermò fino a
divenire nella prima metà del XVI secolo il porto e il mercato più importante d’Europa.
Il commercio si spostò più a nord, e Amsterdam divenne la grande metropoli commerciale e
finanziaria del XVII secolo. L’introduzione della polvere da sparo e la sua applicazione da parte
degli europei alle armi da fuoco fu ugualmente importante per le conquiste europee oltremare.
Nonostante le innovazioni nel campo della navigazione e l’introduzione della polvere da sparo con
la sua applicazione da parte degli europei alle armi da fuoco (importante per le conquiste europee
oltremare) nel complesso questo periodo non spicca per i suoi progressi tecnologici, in particolare
in campo agricolo9 .

Popolazione e livelli di vita10.


Nel Seicento l’incidenza della peste e di altre malattie epidemiche diminuì gradualmente, forse
come conseguenza di una crescente immunizzazione naturale o di mutamenti ecologici che
colpirono i portatori. Inoltre il leggero miglioramento climatico e l’aumento dei salari reali possono
aver influito all’innalzamento del tasso di natalità. La popolazione europea infatti cominciò
progressivamente ad aumentare per tutto il XVI secolo. La densità maggiore d’abitanti spetta
all’Italia (economia matura) e ai Paesi Bassi (economia dinamica); l’aumento della popolazione
urbana fu più marcato nell’Europa settentrionale.
In alcuni casi un aumento della popolazione urbana può essere considerato un segno favorevole di
sviluppo economico; ciò non era però necessariamente il caso nel XVI secolo: le città fungevano
principalmente da centri commerciali e amministrativi piuttosto che industriali. Nelle città gli
immigranti formavano il Lumpenproletariat, un gruppo di lavoratori occasionali e non qualificati,
spesso privi di occupazione, che arrotondavano i loro magri guadagni con elemosine o piccoli furti.
Le condizioni di vita in ambienti affollati, sporchi e squallidi mettevano in pericolo l’intera
comunità rendendola più esposta alle epidemie.
La popolazione cresceva più rapidamente della produzione agricola, il prezzo dei prodotti
alimentari (soprattutto i cereali usati per fare il pane) crebbe più velocemente dei salari monetari,
una situazione che fu esacerbata dal fenomeno della “rivoluzione dei prezzi”.

9 ibidem, pp. 151-154.


10 ibidem, pp. 155-157.
4

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Esplorazioni e scoperte11.
Alla fine del Medioevo notevoli progressi tecnologici furono realizzati nella progettazione delle
navi, nella loro costruzione e negli strumenti di navigazione. I cambiamenti riscontrabili in questo
periodo assicuravano maggiore manovrabilità e un miglior controllo della direzione, rendendo
inutili gli uomini ai remi. Le navi divennero più grandi, maneggevoli, più atte a tenere il mare ed
acquistarono maggiori capacità di carico, il che permise di effettuare viaggi più lunghi. La bussola
ridusse di molto il margine di approssimazione insito nella navigazione e la cartografia venne
sviluppata e perfezionata.
Gli italiani, veterani nell’arte della navigazione, continuarono nella loro attività, anche se tramite
finanziamenti e/o spedizioni estere: questo è l caso di Colombo, Caboto, Vespucci, Verrazzano, ecc.
Il principe Enrico, detto il Navigatore, figlio minore del re di Portogallo, si dedicò
all’incoraggiamento dell’esplorazioni della costa africana con l’obiettivo finale di raggiungere
l’Oceano Indiano. A Sagres fondo una sorta di istituto di studi avanzati nel quale fece venire
astronomi, geografi, cartografi e navigatori di ogni nazionalità.
Nel 1488 Dias doppiò il Capo di Buona Speranza, tra il 1497 e il 1499 Vasco da Gama raggiunse a
Calicut circumnavigando l’Africa. Nel 1492 Ferdinando e Isabella di Spagna, sconfitti i mori,
accordarono a Cristoforo Colombo il loro patrocinio alla spedizione oltre l’Atlantico per giungere in
India. Fu merito di Magellano, invece, trovare un passaggio attraverso quel nuovo continente
scoperto da Colombo e chiamato America: lo stretto di Magellano. Il Mare Pacificum in cui finì non
gli portò ricchezze ma solo la morte di lui e di gran parte del suo equipaggio; l’unica nave rimasta
fu la prima a completare la circumnavigazione del globo.

La conquista dei mari e i suoi effetti sull’Europa12 .


Il primo secolo di espansione europea sui mari e di conquista coloniale fu monopolio quasi
esclusivo della Spagna e del Portogallo, responsabili di opere pionieristiche di scoperta,
esplorazione e sfruttamento del mondo extraeuropeo.
I portoghesi divennero i padroni dell’Oceano Indiano intrecciando relazioni perfino con il
Giappone. L’impero spagnolo si volse invece alla ricerca di oro e argento: conquistarono l’impero
azteco e l’impero inca. Alla fine del XVI secolo gli spagnoli avevano il controllo effettivo
dell’intero emisfero, dalla Florida e dalla California meridionale; essi non fecero altro che
depredare gli abitanti del luogo di tutte le ricchezze che potevano essere asportate e introdurre i
metodi estrattivi europei nelle ricche miniere d’argento del Messico e delle Ande. Gli spagnoli
intrapresero fin dall’inizio un’opera di colonizzazione e di insediamento nelle regioni da loro
conquistate. Introdussero tecniche, attrezzature, istituzioni (religione compresa) e colture (grano,
cereali, zucchero di canna, caffè, agrumi, ecc.) europee.
L’espansione determinò un grande aumento del volume di merci scambiate: nel XVI secolo le
spezie orientali e i metalli preziosi occidentali rappresentarono una percentuale schiacciante delle
importazioni dal mondo coloniale: oro e argento, tinture esotiche, caffè africano, cacao americano,
tè asiatico, canna sa zucchero, tabacco, frutta tropicale e noci venivano importati in Europa.

La rivoluzione dei prezzi13 .


L’afflusso di oro e argento dalle colonie spagnole triplicò nel corso del Cinquecento le scorte di
metalli adatti alla monetazione: il governo spagnolo utilizzo tali risorse per saldare i debiti contratti
per finanziarie le proprie guerre. Il risultato più immediato fu un prolungato aumento dei prezzi
(localmente disomogeneo). Il fenomeno della rivoluzione dei prezzi ha dato origine a innumerevoli,
apparentemente interminabili e per lo più inutili dispute dotte sui suoi meccanismi, sulle sue
conseguenze e persino sulle sue cause. L’aumento della produzione di argento in Europa centrale

11 ibidem, pp. 158-165.


12 ibidem, pp. 165-168.
13 ibidem, pp. 169-170.

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

accrebbe le riserve monetarie e contribuì alla crescita dei prezzi. Lo svilimento della moneta deciso
da sovrani senza soldi stimolò l’incremento dei prezzi nominali. La rivoluzione dei prezzi, come
qualsiasi fenomeno inflativo, causò una redistribuzione del reddito e della ricchezza, sia a livello
individuale che di gruppi sociali. Chi godeva di redditi elastici in rapporto ai prezzi (es:
commercianti) se ne avvantaggiò a spese dei salariati e di coloro che disponendo di redditi fissi o in
grado di crescere solo lentamente.
La crescita demografica, pur non provocando l’aumento (assoluto) dei prezzi, svolse probabilmente
un ruolo determinante nel ritardo dei salari, in quanto l’agricoltura e l’industria si rivelarono
incapaci di assorbire la forza lavoro eccedente. Causa determinante della diminuzione dei salari
reali fu il risultato delle interrelazioni tra il comportamento demografico e la produttività agricola.

Tecnologia agricola e produttività14.


La spiegazione immediata della cessazione della crescita demografica nel XVII è che la
popolazione era cresciuta al di là delle proprie capacità di nutrirsi adeguatamente anche a causa
della mancanza di progressi significativi nella tecnologia agricola, con una conseguente stagnazione
o persino una diminuzione relativa della produttività agricola.
Nella periferia settentrionale e occidentale d’Europa predominava un’agricoltura di sussistenza con
l’applicazione di tecniche primitive. L’Europa dell’est era la regione della Gutherrschaft, il sistema
di sfruttamento diretto, a vantaggio della nobiltà terriera, delle grandi tenute. Qui l’aspetto distintivo
delle relazioni sociali era la presenza della schiavitù personale. L’area mediterranea era eterogenea:
in Italia le proprietà fondiarie variavano dalle piccole ma innovatrici fattorie dei contadini
proprietari e dei fittavoli indipendente (prevalentemente al Nord) ai grandi possedimenti coltivati da
mezzadri e braccianti salariati in Sicilia e nel Sud. Nonostante l’agricoltura italiana fosse la più
diversificata d’Europa, la produzione non riuscì a mantenere il passo della crescita demografica.
L’agricoltura spagnola ricevette una cospicua eredità dai predecessori musulmani, che venne però
sperperata a causa del fanatismo religioso dai sovrani spagnoli.
In Francia, Inghilterra e nella parte ovest della Germani prevaleva il sistema dei campi aperti.
L’area agricola più progredita d’Europa erano i Paesi Bassi, e soprattutto la parte più settentrionale
concentrata attorno alla provincia d’Olanda. Chiave del successo della trasformazione
dell’agricoltura olandese fu la specializzazione, resa possibile dalla domanda sostenuta delle città
olandesi in rapida espansione. Invece di cercare di produrre il maggior numero possibile di merci,
gli agricoltori olandesi cercarono i produrre il maggior numero possibile per il mercato, acquistando
ugualmente sul mercato molti beni di consumo nonché beni capitale e veni intermedi.
La redditività dell’agricoltura olandese è attestata dagli sforzi continui e ininterrotti di creare nuova
terra strappandola al mare, prosciugando laghi e acquitrini e mettendo a coltivazione le torbiere.

Tecnologia industriale e produttività15 .


Nell’industria, come nell’agricoltura, non vi fu una netta cesura tra il Medioevo e l’inizio dell’epoca
moderna. A differenza dell’agricoltura, le innovazioni furono più o meno continue. La maggior
parte delle innovazioni introdotte nel Cinque-Seicento implicò dei miglioramenti relativamente
minori di tecniche già esistenti. L’orientamento verso il mercato dell’economia europea
incoraggiava gli imprenditori, che ne erano in grado, di ridurre i costi di produzione e di reagire
prontamente alle variazioni della domanda. Tuttavia esisteva l’opposizione delle autorità che
temevano la disoccupazione derivante dalle innovazioni che riducevano la quantità di lavoro
necessario. Nel 1551 il parlamento inglese approvò una legge che proibiva macchine per la
rifinitura dei tessuti: il mercato ebbe in ogni caso la meglio.
La manifattura di tessuti di cotone, già presente in Italia dal Medioevo, si diffuse fino al Lancashire
nel XVII secolo. L’industria tessile rimase ampiamente frammentata, con gran parte della
produzione svolta in ambito domestico per il consumo familiare e per i mercati locali.

14 ibidem, pp. 169-180.


15 ibidem, pp. 181-190.
6

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

L’organizzazione delle industrie non mutò rispetto al tardo Medioevo. La figura caratteristica
dell’industriale era quella del mercante-manifatturiere che acquistava la materia prima, la
distribuiva a filatori, tessitori ed altri artigiani che lavoravano a domicilio e metteva sul mercato il
prodotto finale. Grazie alla rapida espansione del commercio, la flotta mercantile olandese aumentò
di dieci volte dal punto di vista numerico ed ancor più in quanto a tonnellaggio tra l’inizio del XVI
secolo e la metà del XVII. La loro efficienza era tale che rifornivano non solo la flotta del proprio
paese ma anche quelle dei suoi rivali.
Le industrie metallurgiche, sebbene l’importanza relativamente secondaria in termini di
manodopera impiegata e di prodotto, stavano acquistando un’importanza strategica a causa del peso
crescente delle armi da fuoco e dell’artiglieria nelle azioni belliche. All’inizio del XVI secolo venne
introdotto l’altoforno che permetteva di fondere e raffinare minerali impuri e colare il fuso in forme
utili, risparmiando tempo sulla lavorazione dei singoli pezzi.
Mentre l’Europa era povera di metalli preziosi, era invece relativamente ricca di metalli utili quali il
rame, il piombo e lo zinco. Le scoperte oltremare, introducendo nuove materie prime, stimolarono
direttamente la nascita di nuove industrie (es: raffinazione dello zucchero e lavorazione del
tabacco).

Traffici, rotte commerciali e organizzazione del commercio16 .


I mercanti portoghesi al di là del Capo di Buona Speranza erano parte attiva del “commercio
regionale”. I portoghesi godettero di un monopolio virtuale sugli scambi tra Cina e Giappone. Goa
era il polo orientale del commercio delle spezie, così come Lisbona quello occidentale.
Si trattava soprattutto di commercio su piccola scala, che variava ben poco col tempo o da luogo a
luogo. Il centro del commercio europeo si spostò dal Mediterraneo al Mare del Nord. Gli olandesi
cominciarono a costruire navi capaci di affrontare il viaggio verso l’Oceano Indiano con
circumnavigazione dell’Africa. La compagnia olandese delle Indie orientali monopolizzò
legalmente il commercio tra le Indie e i Paesi Bassi. Nel 1600 fu organizzata la Compagnia inglese
delle Indie orientali, con un monopolio simile a quello della Compagnia olandese. Entrambe ostili
al Portogallo, la Compagnia inglese pose delle basi commerciali su quella che diventerà il “gioiello
della corona”, l’India, mentre quella olandese affermò la propria autorità in Indonesia.
Branca particolare del commercio era quella che trattava gli esseri umani: il traffico di schiavi.
Questo traffico, di natura triangolare, fu dapprima dominato dai portoghesi, poi di volta in volta
dagli olandesi, dai francesi e dagli inglesi. Una nave europea carica di armi da fuoco, coltelli e altri
articoli di metallo faceva vela per la costa occidentale dell’Africa, dove consegnava il suo carico a
capi tribù locali in cambio di schiavi. Una volta caricati tanti schiavi africani quanti la nave ne
poteva caricare, si faceva rotta per le Indie occidentali o il continente nordamericano o
sudamericano. Lì veniva ceduto il carico umano in cambio di zucchero, tabacco o altri prodotti
dell’emisfero occidentale, con i quali si faceva ritorno in Europa. I profitti del traffico di schiavi
erano eccezionali.
I commercianti appresero le tecniche commerciali italiane, quali la contabilità a partita doppia e i
vantaggi del credito. La maggior dinastia commerciale del Cinquecento fu la famiglia Fugger.
Fino alla seconda metà del XVI secolo non esisteva un capitale societario: ciascun mercante
commerciava per conto proprio. In seguito nacquero in Inghilterra diverse compagnie detentrici di
privilegi commerciali monopolistici: la Compagnia della Moscovia (1555), la Compagnia orientale
(Baltico), la Compagnia del Levante (Turchia), ecc. La Compagnia della Moscovia e del Levante
nacquero come società per azioni, per poi trasformarsi in compagnie regolamentate con lo
svilupparsi e il consolidarsi delle relazioni commerciali. Anche la Compagnia delle Indie orientali
adottò una forma di società per azioni particolare, dove ogni spedizione annuale costituiva
un’iniziativa separata, alla quale potevano partecipare di volta in volta differenti gruppi di azionisti.
Con la necessità di realizzare installazioni permanenti in India e gestire con continuità gli affari

16 ibidem, pp. 191-203.


7

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

della società, questa adottò una forma permanente di organizzazione nella quale un azionista poteva
ritirarsi solo dopo aver venduto ad un altro investitore la sua quota.
Si rese necessaria una borsa o mercato (il termine borsa deriva dalla sala delle riunioni dei mercanti
a Bruges, riconoscibile da un0insegna che mostrava tre borsellini). Le merci non venivano
scambiate sul posto, ma tramite transazioni da un magazzino all’altro con pagamento tramite forme
di credito e strumenti finanziari quali la cambiale o per mezzo di trasferimenti bancari. Il 1609 è
l’anno di fondazione della Amsterdamsche Wisselbank, una banca di cambio in cui vi si potevano
depositare fondi e trasferirli da un conto all’altro nei registri.

L’ALBA DELL’INDUSTRIA MODERNA17


All’inizio del Settecento diverse regioni europee (occidentali) avevano sviluppato discrete
concentrazioni di industria rurale in gran parte nel settore tessile. Tale processo di espansione e
trasformazione occasionale di industrie è definito protoindustrializzazione. La prima applicazione
del termine si è avuta per l’industria del lino delle Fiandre (attività rurale, svolta nelle case di
campagna dalle unità familiari, organizzata da imprenditori che ne esportavano la produzione). Lo
stesso termine è stato successivamente affinato ed esteso sia geograficamente che cronologicamente
fino a comprendere altre industrie dalle caratteristiche analoghe. L’industria cotoniera del
Lancashire fu vista come preludio ad un vero e proprio sistema di fabbrica.
Caratteristiche essenziali di un’economia protoindustriale sono una forza lavoro dispera,
solitamente rurale, organizzata da imprenditori urbani (mercanti-manifatturieri) che la riforniscono
di materia prima e smerciano il prodotto in mercati lontani. Differenza significativa è l’accento
posto sui mercati lontani. La protoindustrializzazione fa riferimento in primo luogo alle industrie
dei beni di prima necessità, in particolare tessili. Prima esistevano già altre industrie di grandi
dimensioni e ad alta concentrazione di capitale (manufactures royales francesi) situate generalmente
in grandi strutture simili a fabbriche dove maestri artigiani lavoravano sotto la supervisione di un
sovrintendente o di un imprenditore, ma non vi si impiegava energia meccanica18 .

Caratteristiche dell’industria moderna19 .


Una delle differenze più ovvie tra la società protoindustriale e la moderna società industriale è il
forte ridimensionamento in quest’ultima del ruolo relativo dell’agricoltura e l’enorme crescita della
produttività agricola moderna, che la mette in grado di sostentare una numerosa popolazione non
agricola. A ciò consegue un’elevata percentuale di forza lavoro impiegata nel settore terziario.
Dall’inizio del XVII secolo (in Gran Bretagna) alla prima metà del XX secolo, la caratteristica
saliente della trasformazione strutturale dell’economia fu l’ascesa del settore secondario,
riscontrabile sia sulla base della forza lavoro impiegata che dei livelli di produzione. La Gran
Bretagna è stata definita la “prima nazione industriale”.
Le caratteristiche della nascita dell’industria moderna sono:
1. l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica;
2. l’industrializzazione di nuove fonti di energia inanimata (combustibili fossili);
3. l’impiego diffuso di materiali che normalmente non si trovano in natura;
Tratti conseguenti dell’industrializzazione furono :
a. l’estensione delle dimensioni delle imprese nella maggior parte delle industrie;
b. l’utilizzazione di macchine e dell’energia meccanica per l’esecuzione di compiti svolti in
precedenza molto più lentamente e laboriosamente dal lavoro umano e degli animali;
c. la sostituzione della legna e del carbone di legna col carbon fossile come combustibile e
nell’introduzione della macchina a vapore nell’industria mineraria, manifatturiera e dei
trasporti.

17 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo VII.
18 ibidem, pp.257-258.
19 ibidem, pp.259-261
8

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

L’uso del carbone e del coke nei processi di fusione ridusse considerevolmente il costo dei metalli e
ne moltiplicò gli usi, mentre l’applicazione della chimica creò una serie innumerevole di nuovi
materiali “artificiali” o sintetici.

Rivoluzione industriale vs. graduale processo di industrializzazione20.


Il termine “rivoluzione industriale” indica quel periodo della storia britannica che vide
l’introduzione delle macchine ad energia meccanica nell’industria tessile, l’innovazione della
macchina a vapore di James Watt e il “trionfo” del sistema di fabbrica nel processo di produzione.
In realtà la parola “rivoluzione” implica la subitaneità di cambiamento che, in realtà, non è tipica
dei processi economici. I cambiamenti non furono soltanto industriali, ma anche sociali ed
intellettuali. A sostegno di questa tesi il Cameron-Neal riporta le tesi di Ashton, secondo cui il
sistema relazionale chiamato capitalismo ebbe origine prima del 1760 e raggiunse il suo pieno
sviluppo più tardi del 1830.
Già dalla fondazione da parte di Francis Bacon della Royal Society abbiamo testimonianza
dell’intenzione di usare i metodi, le sperimentazioni e le applicazioni scientifiche a scopi
utilitaristici. La propensione a sperimentare e a innovare si diffuse in tutti gli strati della società,
compresa la popolazione agricola, tradizionalmente più conservatrice e diffidente nei confronti
dell’innovazione.
L’Inghilterra fu la prima nazione a industrializzarsi su grande scala, fu altresì una delle prime ad
accrescere la propria produttività agricola, in gran parte grazie alla sperimentazione per tentativi di
nuove colture e nuove rotazioni. La più importante innovazione agricola prima dell’introduzione
dell’agricoltura scientifica (XIX secolo) fu probabilmente lo sviluppo della cosiddetta agricoltura
convertibile, che prevedeva l’alternanza di campi coltivati e pascoli temporanei in luogo di arativi e
pascoli permanenti con il duplice vantaggio di ripristinare la fertilità del suolo con rotazioni più
efficaci e di permettere l’allevamento di una qualità ingente di bestiame.
Una condizione importante per il miglioramento delle rotazioni e l’allevamento selettivo fu la
recinzione e il consolidamento dei campi. Le recinzioni più note furono quelle realizzate sulla base
di leggi parlamentari tra il 1760 e la fine delle guerre napoleoniche, che diedero origine a una
letteratura di protesta. All’inizio si pensava che le recinzioni avessero “spopolato” le campagne; in
realtà le nuove tecniche di coltivazione ad esse associate accrebbero l’offerta di lavoro. La crescente
produttività dell’agricoltura inglese permetteva a quest’ultima di sostenere una popolazione sempre
maggiore secondo standard nutritivi via via più elevati. Dal 1660 al 1760, essa produsse un surplus
per l’esportazione, prima che il tasso di crescita demografica superasse quello di crescita della
produttività. L’orientamento dell’agricoltura verso il mercato fu un aspetto di un processo generale
di commercializzazione dell’intera nazione. La commercializzazione interagì con la nascente
organizzazione finanziaria della nazione. Le origini del sistema bancario britannico sono oscure, ma
sappiamo che negli anni successivi alla Restaurazione del 1660 diversi grandi orefici londinesi
cominciarono a svolgere le funzioni di banchieri. Rilasciavano ricevute di deposito che circolavano
come banconote e concedevano prestiti a imprenditori degni di credito. La fondazione della Banca
d’Inghilterra nel 1694. La Zecca reale era estremamente inefficiente: a causa della penuria di
moneta spicciola molti industriali, mercanti e pubblicani rilasciavano titoli cartacei e metallici che
supplivano alla mancanza di una circolazione monetaria locale.
L’euforia suscitata dalla Gloriosa rivoluzione portò alla creazione nell’ultimo decennio del
Seicento, di numerose società per azioni, alcune delle quali per regio decreto e con la concessione
di monopoli come la Banca d’Inghilterra.
Nel 1720 scoppio la bolla speculativa connessa alla Compagnia del Mare del Sud, quando il
parlamento su sollecitazione della Compagnia approvò il Bubble Act. La legge proibiva la
costituzione di società per azioni senza l’espressa autorizzazione del parlamento, che si rivelò
riluttante ad accordare autorizzazioni in tal senso. L’Inghilterra fece il suo ingresso nella
“rivoluzione industriale” con uno sbarramento legale contro la forma azionaria dell’organizzazione

20 ibidem, pp.261-273.
9

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

capitalistica, condannando gran parte delle sue imprese alla proprietà privata o alla condizione
giuridica di società di persone. Il Bubble Act fu infine abrogato nel 1825.
Altra conseguenza della Gloriosa Rivoluzione fu di porre la finanza pubblica del regno sotto lo
stretto controllo del parlamento, il che ridusse notevolmente il peso del debito pubblico e
conseguentemente rese disponibili i capitali per l’investimento privato. Sebbene il sistema tributario
fosse molto regressivo, anch’esso permise l’accumulazione di capitali da investire, soprattutto nelle
infrastrutture e nei trasporti, così da contribuire al processo di industrializzazione.
Il movimento di grosse quantità di beni voluminosi richiedeva un sistema di trasporto affidabile e a
buon mercato. Prima dell’era delle ferrovie, le vie d’acqua rappresentavano le arterie più
economiche ed efficienti. La Gran Bretagna, con la sua natura insulare, godeva di una protezione
naturale contro gli sconvolgimenti e le distruzioni delle guerre continentali. La lunga linea costiera,
gli eccellenti porti naturali e i numerosi corsi d’acqua navigabili eliminavano in gran parte la
necessità di trasporti terrestri. In ogni caso si aprì la costruzione di canali artificiali che sviluppasse
ulteriormente i trasporti commerciali fluviali. Le iniziative di canalizzazione furono organizzate
sotto forma di società private a scopo di lucro, istituite per legge.

Tecnologia industriale e innovazioni21.


Due innovazioni che possono annoverarsi tra quelle di impatto fondamentale
sull’industrializzazione sono:
1. l’introduzione del procedimento di fusione del metallo ferroso con il carbon coke (che liberò
l’industria siderurgica dalla dipendenza esclusiva dal carbone di legna),
2. l’invenzione della macchina a vapore atmosferica, un nuovo potente motore primo che integrò e
infine rimpiazzò come fonte inanimata di energia i mulini a vento e l’acqua.
Nel 1709 Abraham Darby sottopose il carbone ad un processo molto simile a quello mediante il
quale gli altri proprietari di ferriere ricavavano il carbone dal legname: riscaldò il carbone in un
contenitore chiuso per eliminare le impurità in forma di gas, e dal processo ottenne come residuo il
coke, una forma quasi pura di carboni, che poi utilizzò come combustibile nell’altoforno per
produrre ghisa grezza. Il procedimento di pudellaggio e laminazione di Cort, liberò alfine
definitivamente la produzione di ferro dalla dipendenza dal carbone di legna.
Nel 1698 l’ingegnere Thomas Savery, ufficiale dell’esercito, ottenne il brevetto per una pompa a
vapore applicabile nelle miniere. Importanti migliorie furono poi fatte da Thomas Newcomen fino
alla costruzione, da parte sua, della prima pompa a vapore atmosferica usata per azionare ruote
idrauliche e per l’approvvigionamento idrico pubblico. Il fatto che il consumo di combustibile
fosse troppo elevato in rapporto al lavoro prodotto fu ovviato da James Watt. Questo offrì alla
macchina a vapore una serie di nuove possibilità applicative come la macinatura del grano e la
filatura del cotone. Le industrie tessili erano già giunte alla ribalta nell’era “preindustriale”
britannica con il sistema della produzione a domicilio; la manifattura dei tessuti di cotone venne
introdotta nel Lancashire nel XVII secolo.
Tra il 1760 e il 1770 vennero inventati diversi apparecchi per la filatura meccanica:
• la “jenny” o giannetta di James Hargreaves,
• il filatoio idraulico brevettato da Richard Arkwright;
• la mula di Samuel Compton, che combinava elementi della jenny e del filatoio idraulico. Era in
grado di produrre un filato più sottile e più resistente di qualunque altra macchina.
Nel 1785 Edmund Cartwright brevettò un telaio meccanico, ponendo l’inizio della sostituzione
massiccia dei tessitori manuali con le nuove macchine da lavoro. Le innovazioni tecniche furono
accompagnate da un rapido incremento della domanda di cotone testimoniato dalla crescente
importazione di materie prime (il cotone non era coltivato internamente). Fonti di
approvvigionamento furono l’India e il Levante, le isole caraibiche britanniche e gli stati americani
del Sud.

21 ibidem, pp.273-288.
10

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Le innovazioni nella filatura e nella tessitura, insieme alla sgranatrice (macchina per la raccolta del
cotone) furono le più importanti (ma non uniche) innovazioni nell’industria cotoniera. Con la
caduta dei costi di produzione e l’aumento della stessa, una notevole e crescente percentuale del
prodotto fu esportata. I drastici ribassi del prezzo dei prodotti di cotone ebbero riflessi sulla
domanda di tessuti di lana e lino, le cui industrie erano appesantite dalla tradizione e dalle
regolamentazioni, e le caratteristiche fisiche dalla materia prima rendevano più difficile la
meccanizzazione.
Le innovazioni tecniche concernenti l’industria cotoniera, quella siderurgica e l’introduzione della
forza del vapore costituiscono il nocciolo della prima industrializzazione britannica. Mentre James
Watt stava perfezionando la sua macchina a vapore, il suo illustre connazionale Adam Smith
scriveva nella Ricchezza delle nazioni dei grandi aumenti di produttività realizzati in una fabbrica di
spilli attraverso la specializzazione e la divisione del lavoro.
La diffusione tra i ricchi della porcellana fine dalla Cina diffuse tra i ricchi costituì un’altro settore
di imitazione a cui venne applicata il nuovo modello di industria: Wedgwood fu uno dei pionieri del
campo, arrivando ad impiegare macchine a vapore per frantumare e mescolare le materie prime.
Un’altro processo di espansione e diversificazione ebbe luogo anche nell’industria chimica, grazie a
chimici del calibro di Lavoisier. John Roebuck inventò un procedimento economico di produzione
dell’acido solforico, prodotto impiegato soprattutto come sbiancante nelle industrie tessili e
rimpiazzato in seguito dal cloro di Berthollet.
Alle miniere di carbone va la responsabilità delle prime ferrovie britanniche. Nelle miniere il
carbone veniva trasportato su slitte trainate dalla forza umana oppure su vagoni muniti di ruote
trainati da animali su prime forme di binari. All’epoca della locomotiva la Gran Bretagna disponeva
già di binari. La locomotiva a vapore fu il prodotto di un processo evolutivo complesso: a
Trevithick va il merito della prima locomotiva funzionante nel 1801, ma solo nel 1825 viene
inaugurata la tratta Liverpool-Manchester, grazie al disegno e costruzione della locomotive Rocket
da parte di George Stephenson.

Varianti regionali e aspetti sociali della prima industrializzazione22.


In Scozia si vide un passaggio da un’economia familiare arretrata alla grande industria migliore di
quello propriamente inglese. Nonostante avesse come unica risorsa naturale il carbone (e in poca
quantità) l’accelerazione del ritmo della vita economica della Scozia è dovuta al suo ingresso
nell’impero britannico (1707) che le diede accesso non solo ai mercati inglesi, ma anche a quelli
delle sue colonie. La popolazione scozzese era insolitamente colta per l’epoca e il precoce sistema
bancario (indipendente da quello inglese e immune da regolamentazioni governative) permetteva
agli imprenditori scozzesi un accesso al credito e ai capitali relativamente semplice.
L’Irlanda, in contrasto con la Scozia, non riuscì quasi ad industrializzarsi. Il fatto è che la
popolazione irlandese, come quella britannica divenne più che doppia tra la metà del Settecento e il
1840, ma senza un’apprezzabile urbanizzazione e industrializzazione. Allorché la disastrosa carestia
di patate la colpì, a metà degli anni quaranta, la morte per fame e l’emigrazione privarono l’Irlanda
in meno di un decennio di un quarto della sua popolazione.
Che la crescita demografica non fosse esclusivamente legata al processo d’industrializzazione è
documentato dal fatto che si trattò di un fenomeno generale europeo, non limitato alla Gran
Bretagna e alle altre nazioni che si stavano industrializzando. L’industrializzazione fu quanto meno
un elemento propizio alla crescita continua della popolazione. Possiamo dare solo possibili
spiegazioni dei meccanismi della crescita che si verificò nel XVII secolo:
1. Crescita del tasso di natalità dipesa dalla riduzione dell’età matrimoniale;
2. Decremento del tasso di mortalità dovuto a diversi fattori interrelati:
2.1. l’introduzione della pratica dell’inoculazione contro il vaiolo e della vaccinazione;
2.2. progresso delle conoscenze mediche e costruzione di nuovi ospedali;

22 ibidem, pp.291-297.
11

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

2.3. aumento del livello di vita, che fu nello stesso tempo causa ed effetto della crescita
economica;
2.4. progresso dell’agricoltura, con conseguente maggiore abbondanza e varietà di cibi,
migliorando l’alimentazione;
2.5. l’aumento di produzione di carbon fossile significò abitazioni meglio riscaldate;
2.6. la produzione del sapone fu il segno di una maggior cura dell’igiene personale.
L’emigrazione interna alterò profondamente la distribuzione geografica della popolazione e
produsse due mutamenti considerevoli nella sua distribuzione spaziale:
1. un aumento della densità nel nord-ovest a scapito del sud-est.
2. crescita dell’urbanizzazione.
Le deplorevoli condizioni nelle città urbane erano frutto in parte della crescita estremamente rapida,
dell’inadeguatezza dell’apparato amministrativo, della mancanza di esperienza delle autorità locali
e della conseguente assenza di pianificazione. La rapida espansione delle città dipese interamente
dall’immigrazione delle campagne; a causa delle spaventose condizioni sanitarie, la mortalità
superava la natalità e il tasso di incremento naturale era in realtà negativo. C’è da aggiungere,
tuttavia, che le grandi pressioni economiche obbligavano a trasferirsi in centro e piegarsi a tali
condizioni di vita.
Lo stupore difronte all’impiego-sfruttamento di donne e bambini non è condivisibile, poiché la
presenza femminile e infantile sia nell’agricoltura sia nell’industria domestica era un fenomeno di
lunga tradizione, che il sistema di fabbrica non fece che adottare.
Le fabbriche attrassero gradualmente un numero crescente di addetti, e la tendenza generale dei
salari reali era verso l’altro. Sembra probabile che tra il 1750 e il 1850 si sia verificato un graduale
miglioramento del livello di vita delle classi lavoratrici. Le disuguaglianze della distribuzione del
reddito e della ricchezza, già grandi nell’economia preindustriale, divenne ancor più accentuata
nelle prime fasi dell’industrializzazione

LO SVILUPPO ECONOMICO DELL’OTTOCENTO23


Il XIX secolo vide il trionfo definitivo dell’industrialismo come sistema di vita in Europa, in
particolare nell’Europa occidentale. Le forme dell’industria moderna si diffusero al di là del Canale
delle Manica e del Mare del Nord nel Belgio, in Francia, in Germania. Le trasformazioni assunsero
forme differenti nelle diverse regioni e nazioni24 .

Popolazione25.
La popolazione europea ricominciò a crescere a partire dal 1740 circa. Nel XIX la popolazione
europea raddoppiò in meno di cento anni, e nel XX il mondo nel suo complesso ha superato anche
questi elevato ritmo di crescita.
Prima dei miglioramenti dei trasporti che permisero l’importazione su larga scala di generi
alimentari dagli altri continenti nell’ultimo quarto del XIX secolo, uno dei maggiori limiti alla
crescita demografica era quello posto dalle risorse agricole del continente. La produzione agricola
crebbe enormemente nel corso del secolo anche grazie all’estensione della superficie di terra
coltivata. La produttività agricola aumentò per effetto dell’introduzione di nuove tecniche
scientifiche; una migliore conoscenza della chimica del suolo ed un uso più intenso dei fertilizzanti
fece salire la resa dei terreni. La diminuzione del prezzo del ferro favorì l’uso di attrezzi e strumenti
migliori e più efficienti.
Il basso prezzo dei trasporti facilitò altresì i movimenti migratori della popolazione. Eccetto che nel
caso russo, le migrazioni furono per la maggior parte volontarie. Talvolta gli emigranti cercavano di
sfuggire alle persecuzioni o all’oppressione politica, ma nella maggior parte dei casi la loro
decisione era frutto delle pressioni economiche interne al loro paese e delle speranze di una vita

23 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo VIII.
24 ibidem, p. 299.
25 ibidem, pp. 299-305.
12

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

migliore all’estero. Negli otto anni che seguirono la grande carestia del 1845 più di un milione e
duecentomila persone lasciarono l’Irlanda per gli Stati Uniti o la Gran Bretagna.
L’emigrazione interna, che comportò variazioni regionali nella concentrazione della popolazione, fu
fondamentale per il processo di sviluppo economico ottocentesco. L’urbanizzazione, come
l’industrializzazione, procedette ad un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Molte sono le ragioni
sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. Storicamente, la principale
limitazione alla crescita delle città è stata di natura economica: l’impossibilità di rifornire grandi
masse urbane di quanto è indispensabile per vivere. Con i miglioramenti tecnologici dell’industria
moderna non solo queste limitazioni erano state allentate, ma in alcuni casi considerazioni di
carattere economico richiedevano la crescita della città. Nelle società preindustriali conveniva
trasportare i prodotti finiti dell’industria verso mercati lontani piuttosto che portare cibo e materie
prime in agglomerati urbani per masse di lavoratori. Furono l’introduzione del vapore come fonte di
energia, e l’affermarsi del nuovo sistema di fabbrica a cambiare situazione: quest’ultima in
particolare impose una contrazione della forza lavoro.

Risorse e sviluppo-diffusione della tecnologia26.


L’Europa industriale non beneficiò, a confronto con l’Europa preindustriale, di un magico aumento
della quantità o qualità delle risorse naturali. In seguito al cambiamento tecnologico e alla pressione
dell’accresciuta domanda, risorse precedentemente sconosciute o di scarso valore acquisirono
un’importanza enorme e persino critica.
Nel XIX secolo le regioni europee provviste di ricchi giacimenti di carbon fossile divennero i siti
primari dell’industria pesante. Grazie all’introduzione dell’energia idroelettrica, le regioni
abbondantemente provviste di acqua (come Svizzera, Svezia, Italia, ecc.) ottennero un nuovo
vantaggio relativo.
Secondo Simon Kuznets (premio Nobel), un’epoca economica viene determinata e foggiata dalle
applicazioni e ramificazioni di un’“innovazione epocale”. L’epoca economica attuale (moderna)
ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, e l’innovazione epocale ad essa associata fu
l’“applicazione estesa della scienza ai problemi della produzione economica”. L’invenzione, dal
punto di vista tecnologico, definisce una novità brevettabile di natura meccanica, chimica o
elettrica. Di per se stessa, l’invenzione non ha un particolare significato economico. Lo assume solo
quando è inserita in un processo economico - quando cioè diventa innovazione. Con «diffusione» si
intende il processo attraverso il quel un’innovazione si propaga in un’industria, da un’industria
all’altra e a livello internazionale superando le frontiere geografiche.
La superiorità industriale conquistata dalla Gran Bretagna nel primo quarto del XIX secolo dipese
dai pregressi tecnologici verificatisi in due industrie fondamentali, l’industria cotoniera e quella del
ferro, sostenuti da un uso generalizzato del carbon fossile come combustibile industriale e
dall’impiego crescente della macchina a vapore come fonte di energia meccanica.

Materie prime e produzione di energia27 .


Nonostante i fondamentali contributi resi da Watt all’evoluzione della tecnologia del vapore, le sue
macchine avevano parecchie limitazioni come motori primi per l’industria. La loro efficienza
termica era piuttosto bassa.
I fenomeni elettrici erano stati oggetto di osservazione fin dall’antichità, ma ancora nel XVIII
secolo l’elettricità era considerata una semplice curiosità. Verso la fine del secolo le ricerca di
Benjamin Franklin in America e degli italiani Galvani e Volta (inventore della pila voltaica), ne
innalzarono lo status da gioco da salotto a oggetto di ricerca di laboratorio. Importanti sviluppi
furono dovuti a Faraday, Ampere e Oersted. Partendo dalle loro scoperte (soprattutto l’induzione
elettromagnetica) Samuel Morse sviluppo il telegrafo elettrico.

26 ibidem, pp. 305-309.


27 ibidem, pp. 310-315.
13

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Dal momento che l’elettricità è una forma molto versatile di energia, oltre all’illuminazione (Edison
inventa la lampadina) Werner von Siemens inventò il tram elettrico, con conseguenze rivoluzionarie
per i trasporti di massa nelle metropoli in espansione dell’epoca. I motori elettrici vennero ben
presto applicati all’industria.
L’elettricità può essere usata anche per produrre calore, e per questo cominciò ad essere impiegata
nella fusione dei metalli, in particolare l’alluminio. Il petrolio, altra grande fonte di energia che si
affermò nella seconda metà del XIX secolo, inizio ad essere economicamente sfruttato dal 1859 con
le trivellazioni dei pozzi in Pennsylvania. Dapprima usato per l’illuminazione, il petrolio e tutte le
sue funzioni furono in seguito utilizzati per il riscaldamento e lo sviluppo di motori: in questi anni
Otto, Daimler e Benz sperimentavano il loro motore a combustione interna, la cui maggiore
implicazione fu quella nei settori dei mezzi di trasporto leggeri. L’industria automobilistica (di cui
Peugeot, Renault, Citroën, William Morris, Henry Ford) fu una delle maggiori del XX secolo ed è a
lei che dobbiamo lo sviluppo successivo dell’industria aeronautica.

Acciaio28 .
Le innovazioni più importanti dell’industria siderurgica nella seconda metà del XIX secolo
attengono alla produzione dell’acciaio. L’acciaio è una particolare varietà di ferro contenente meno
carbonio rispetto alla ghisa, ma più del ferro battuto, risultando più duro e resistente.
Nel 1856 Henry Bessemer, inventore inglese, brevettò un nuovo metodo per la fabbricazione
dell’acciaio direttamente dalla ghisa fusa, saltando la fase di pudellaggio e assicurando un prodotto
superiore.
L’espansione dell’industria dell’acciaio ebbe un profondo impatto sia sulle altre industrie fornitrici
di materie prime (quali il carbone) che sulle industrie clienti. L’acciaio permise di costruire rotaie
più resistenti, navi più grandi, leggere e veloci e grattacieli.

Trasporti e comunicazioni29.
Il processo di sviluppo economico è riassunto dalla locomotiva a vapore e dalle rotaie di ferro/
acciaio. Esse furono nello stesso tempo un simbolo e uno strumento dell’industrializzazione. Prima
delle ferrovie, le inadeguate infrastrutture di trasporto avevano costituito uno dei maggiori ostacoli
all’industrializzazione sia dell’Europa continentale che degli Stati Uniti. Le ferrovie offrirono un
trasporto più economico, più veloce e più affidabile.
Nel 1830 venne inaugurata la prima tratta ferroviaria al mondo, la Liverpool-Manchester. In seguito
la rete ferroviaria britannica conobbe un rapido sviluppo. La Gran Bretagna possedeva sia le
conoscenze tecniche che i capitali necessari per la loro costruzione; il parlamento, sotto l’influsso
delle idee liberali nel campo della politica economica che avevano prevalso negli ultimi anni,
autorizzò prontamente la formazione di società azionarie private. Ne seguirono accessi frenetici di
speculazione e costruzione (“manie”), inevitabilmente punteggiati da crisi finanziarie.
Il Belgio fu all’avanguardia tra le nazioni europee che per prime si dedicarono alla progettazione e
alla costruzione di ferrovie. Soddisfatto dall’indipendenza appena ottenuta dal regno delle Province
Unite, il governo borghese belga decise di costruire una rete ferroviaria completa a spese dello stato
per facilitare l’esportazione delle manifatture belghe e per attirare il commercio di transito
dell’Europa nordoccidentale.
La Francia e la Germani furono i soli altri paesi del continente a realizzare dei progressi significativi
nelle costruzioni ferroviarie prima della metà del secolo. La Germania, pur divisa in parecchi stati
indipendenti e rivali, riuscì meglio della Francia che, nonostante avesse un governo centrale, fu
ostacolata da dispute parlamentari e conflitti regionali sulla localizzazione delle linee principali.
Il famoso Orient Express, che da Londra e Parigi arrivava a Costantinopoli, effettuò il primo
viaggio nel 1888.

28 ibidem, pp. 315-318.


29 ibidem, pp. 318-326.
14

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Nella penisola italiana la presenza di piccoli principati causò lenti progressi in fatto di trasporti fino
all’avvento di Cavour negli anni cinquanta.
Per quanto riguarda l’attraversata oceanica che permetteva i commerci tra l’Europa e il continente
americano la tappa fondamentale fu l’istituzione di un servizio transatlantico nel 1838 e la
fondazione della compagnia di navigazione Cunard nel 1840. La vera innovazione si ebbe però con
l’introduzione della propulsione ad elica, del motore compound e dello scafo in acciaio (a distanza
di un decennio l’una dall’altra). Nel 1869 venne aperto il Canale di Suez.
Già all’inizio del XIX secolo si introdussero innovazioni che permisero l’informazione e
l’alfabetizzazione di un numero più consistente di persone. Esempi sono la macchina per la
fabbricazione della carta e la macchina da stampa cilindrica che permisero una sensibile riduzione
del costo di libri e giornali ora alla portata delle masse.
L’inventore e imprenditore italiano Guglielmo Marconi, lavorando sulle scoperte scientifiche di
Maxwell e Hertz, inventò nel 1895 il telegrafo senza fili (radio); già nel 1901 un radiomessaggio
attraversava l’Atlantico.

La chimica30 .
La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti.
Essa aveva prodotto artificialmente la soda, l’acido solforico, il cloro e numerosi composti chimici
pesanti particolarmente importanti nell’industria tessile. Nel 1856 William Perkins sintetizzò
accidentalmente la malva, una sfumatura molto pregiata della porpora. Fu questo l’inizio
dell’industria dei coloranti artificiali, che nello spazio di venti anni mise virtualmente fuori mercato
i coloranti naturali. I coloranti furono il primo prodotto di industrie che poi allargarono i propri
interessi verso i campi della farmaceutica, degli esplosivi, dei reagenti fotografici e fibre sintetiche.
Dopo la rivoluzione della chimica associata al nome del grande chimico francese del Settecento
Antoine Lavoisier, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui zinco, alluminio, nichel, magnesio e
cromo. Oltre alla scoperta, gli scienziati trovarono un modo di impiegare i nuovi materiali e di
ricavarli in regime di economicità.

Contesto istituzionale e fondamenti giuridici31.


Lo sviluppo economico può avvenire in una molteplicità di contesti istituzionali. Determinanti
ambienti legali e sociali sono più propizi di altri al progresso materiale. Lo scenario istituzionale in
cui si svolse l’attività economica nell’Europa del XIX secolo assicurava ampie opportunità
all’iniziativa individuale, lasciava libertà di scelta in campo occupazionale non ostacolando la
mobilità geografica e sociale, si fondava sulla proprietà privata e lo stato di diritto e poneva
l’accento sull’uso della ragione e della scienza nel perseguimento di fini materiali. Istituzione
cardine era il sistema giuridico noto come diritto comune (“comune” nel senso che esso era stato
patrimonio comune sovrapponendosi a leggi e consuetudini puramente locali). Le caratteristiche
distintive del diritto comune erano la sua natura evolutiva, il suo affidasi alle consuetudini e a
precedenti nei limiti in cui questi venivano recepiti da decisioni legali scritte, la sua flessibilità.
Assicurava la protezione alla proprietà e agli interessi privai contro le ruberie dello stato e allo
stesso tempo padroneggiava l’interesse pubblico dall’arbitrio privato.
Il diritto comune divenne il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’impero
britannico nel momento in cui questi conquistarono l’indipendenza o l’autonomia. Sul continente fu
invece istituito un sistema giuridico più razionale ereditato dalla tradizione francese post-
rivoluzionaria arricchita da quel manifesto che prende nome di Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino. Tale sistema giuridico venne poi incorporato nei Codici napoleonici.
La sintesi napoleonica raggiunse il suo culmine nella grande opera di codificazione del diritto
d’impresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’impero. I Codici, classico compromesso tra
il diritto romano, così come questo era stato adattato alle necessità e alle consuetudini locali, e la

30 ibidem, pp. 327-328.


31 ibidem, pp. 329-333.
15

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

nuova legislazione rivoluzionaria, preservarono nondimeno i principi fondamentali della


rivoluzione: uguaglianza di fronte alla legge, laicità dello stato, libertà di coscienza, libertà
economica. Il più importante codice fu il Code civil, che trattava la proprietà come un diritto
assoluto, sacro e inviolabile, e sanzionava espressamente la libertà contrattuale, conferendo ai
contratti validi forza di legge. Riconosceva la cambiale e le altre forme di scritture commerciali, ed
autorizzava esplicitamente il prestito ad interesse.
Un altro dei codici napoleonici di particolare importanza per lo sviluppo economico fu il Code de
commerce, promulgato nel 1807 e rappresentante la prima normativa di carattere generale che
avesse mai regolato le forme d’impresa. Il Code de Commerce distingueva tre tipi principali di
organizzazione commerciale:
1. La società semplice, i cui soci sono individualmente e solidamente responsabili dei debiti della
ditta;
2. Le sociétés en commandite, società di persone in cui il socio o i soci accomandatari assumono
una responsabilità illimitata per gli affari della società, mentre il socio o i soci accomandanti
rischiano esclusivamente il capitale sottoscritto;
3. Le sociétés anonymes, società a responsabilità limitata nel senso americano, nella quale tutti i
soci sono responsabili nei limiti delle quote conferite. Il termine “anonime” è espressione
dell’impossibilità dei nomi dei singoli individui di figurare nella denominazione ufficiale della
ditta.
Tutte le società anonime dovevano essere autorizzate espressamente dal governo, mentre per
l’accomandita, forma preferita d’impresa, bastava una semplice registrazione presso un pubblico
notaio.

Pensiero economico e politica economica32.


L’epoca delle guerre napoleoniche assistette a quello che sotto vari aspetti fu l’apogeo del
nazionalismo e dell’imperialismo economico dei secoli precedenti, con il tentativo britannico di
blocco continentale e la risposta di Napoleone attraverso il sistema continentale.
Negli anni sessanta e settanta del XVIII secolo i fisiocrati (les économistes) avevano cominciato a
propugnare i meriti della libertà economica e della concorrenza. Nel 1776 Adam Smith pubblico
nella Ricchezza delle nazioni quella che doveva diventare una dichiarazione di indipendenza
economica dell’individuo. La maggior preoccupazione di Smith nel suo libro è quella di dimostrare
che l’abolizione di restrizioni vessatorie e “irragionevoli” all’impresa privata favorirebbe la
concorrenza economica e ciò, a sua volta, porterebbe al massimo grado la “ricchezza delle nazioni”.
A Thomas Malthus e David Ricardo dobbiamo la continuazione del filone letterario noto come
“economia politica classica”. Tuttavia alcune delle riforme realizzate nel Regno Unito dovettero più
agli utilitaristi guidati da Jeremy Bentham che agli economisti classici.
Oltre al libero scambio, i principi del liberismo economico sollecitavano una limitazione del ruolo
del governo nell’economia. Nel suo nome fu rivisto e semplificato il sistema tributario, e furono
abrogate le leggi sull’associazione, sulla navigazione e sull’usura. Secondo Smith e il suo “sistema
di libertà naturale”, il governo aveva solo tre funzioni da svolgere: (1) il compito di proteggere la
società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti; (2) il compito di proteggere per
quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia o oppressione di ogni altro membro
(equa amministrazione della giustizia); (3) il compito di creare e mantenere certe opere pubbliche e
certe istituzioni pubbliche, che non potranno mai essere create e mantenute dall’interesse di
un’individuo, o di un piccolo numero di individui.
Questa descrizione idealizzata del ruolo del governo fece nascere il mito del laissez.faire. Il
bersaglio principale degli economisti classici era il vecchio apparato giuridico che regolava
l’economia, che nel nome dell’interesse nazionale creava frequentemente sacche di privilegio e
monopoli, interferendo con la libertà individuale e la ricerca della ricchezza.

32 ibidem, pp. 334-336.


16

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Struttura e conflitti di classe33 .


Dal punto di vista sociale, l’Europa dell’ancien régime era organizzata in tre ordini: la nobiltà, il
clero e il “Terzo Stato”. In cima alla piramide sociale si trovava la classe dominante dei proprietari
terrieri, che comprendeva anche non nobili oltre agli strati più alti del clero e alla nobiltà in blocco.
Il fondamento economico del loro potere politico era la proprietà della terra. L’alta borghesia era
composta da grandi mercanti, alti funzionari statali e professionisti (avvocati, notai, ecc.) mentre la
piccola borghesia era costituita da artigiani, commercianti al dettaglio ed altri dediti ad attività di
prestazione di servizi. Sul fondo erano i contadini, i lavoratori delle industrie domestiche e i
braccianti.
Karl Marx profetizzò, a metà del XIX secolo, la polarizzazione da lui osservata nelle società
industriali avanzate dell’epoca sarebbe continuata fino a che solo due classi sarebbero rimaste, la
classe dominante dei capitalisti (che a suo parere avrebbe assorbito e rimpiazzato l’aristocrazia) e il
proletariato industriale. Gradualmente, tutte le classi intermedie sarebbero state spinte nel
proletariato fino a quanto quest’ultimo non si sarebbe sollevato in un moto rivoluzionario per
rovesciare la classe capitalista dominante. In realtà, gli sviluppi storici anziché produrre due classi
reciprocamente antagoniste, produssero un enorme sviluppo della classe media impiegatizia,
artigianale e di imprenditori indipendenti grazie alla diffusione dell’industrializzazione.
L’atteggiamento della maggior parte dei paesi occidentali nei confronti dei sindacati ha attraversato
tre fasi:
I. Proibizione o repressione: legge Le Chapelier - Combination Acts e disposizioni legislative
analoghe;
II. Abrogazione delle leggi sulle associazioni in Gran Bretagna, ma con tolleranza limitata verso i
sindacati. Era permessa la loro costituzione ma venivano perseguitati in caso di azioni aperte
(scioperi);
III. Riconoscimento a operai e operaie del pieno diritto di organizzarsi e di dedicarsi ad attività
collettive (solo in alcuni stati, e gradualmente). In Gran Bretagna il movimento sindacale fu
coinvolto in un più ampio movimento politico detto cartismo, il cui scopo era di ottenere il
diritto di voto ed altri diritti politici per coloro che ne erano privi.
In Gran Bretagna, tuttavia, il sindacato raccoglieva esclusivamente gli operai specializzati. I
sindacati francesi riuscirono a dar vita ad una Confederazione generale del lavoro (Cgt) nazionale e
apolitica nel 1895. Il movimento sindacale tedesco fu fin dall’inizio associato a partiti e campagne
politiche. Qui i sindacati liberali attiravano soprattutto operai specializzati, mentre i sindacati
socialisti (o liberi) attiravano la maggior parte dei lavoratori. I sindacati dei Paesi Bassi, della
Svizzera e dell’impero austro-ungarico seguirono il modello tedesco. Nei paesi arretrati dell’Europa
meridionale prevalse il modello francese mentre in Russia e negli altri paesi dell’Europa orientale i
sindacati rimasero illegali fino a dopo la prima guerra mondiale.

Istruzione34.
Un aspetto meno considerato dello sviluppo industriale dell’Ottocento fu il progresso dell’istruzione
e la diminuzione dell’analfabetismo. Prima del XIX secolo le istituzioni educative pubbliche erano
praticamente inesistenti. Tutori privati, istituzioni religiose e di carità e talvolta scuole private a
pagamento provvedevano all’istruzione elementare di una fetta della popolazione, soprattuto nelle
città. Molte personalità autorevoli si opponevano a che si insegnasse alle “masse lavoratrici” a
leggere e a scrivere perché ciò era incompatibile con la loro posizione sociale. L’istruzione tecnica
era fornita quasi esclusivamente attraverso il sistema dell’apprendistato. L’istruzione secondaria e
universitaria era riservata, con l’eccezione di coloro che aspiravano a far parte del clero, in gran
parte ai figli delle classi privilegiate. La rivoluzione francese aveva introdotto il principio
dell’istruzione pubblica gratuita, ma rimasto inapplicato. Tuttavia la stessa rivoluzione fu all’origine
di altre innovazioni educative di particolare importanza per l’epoca industriale, come l’introduzione

33 ibidem, pp. 337-342.


34 ibidem, pp. 343-345.
17

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

di scuole specializzate nelle materie scientifiche e nell’ingegneria come l’École polytechnique e


l’École normale supérieure. Queste istituzioni non solo fornivano un’istruzione avanzata ma erano
impegnate anche nella ricerca.

Relazioni internazionali35.
In Germania, l’unificazione economica raggiunta con lo Zollverein sotto l’egemonia prussiana negli
anni trenta precedette il compimento nel 1871 dell’unificazione politica, e contribuì a porre le
fondamenta della potenza industriale tedesca.
Il XIX secolo fu contraddistinto da conflitti relativamente brevi e limitati. Verso la fine del secolo le
tensioni politiche, esacerbate di quando in quando da rivalità economiche, si fecero più acute
rispetto alla prima metà del secolo tracimando nella rinascita dell’imperialismo europeo. Questa
ripresa dell’imperialismo provocò un grande allargamento del sistema di mercato mondiale, con
l’Europa al suo centro.

MODELLI DI SVILUPPO36
Il processo di industrializzazione ottocentesco fu un fenomeno di dimensione europea,
essenzialmente regionale.

La Gran Bretagna37.
Alla fine delle guerre napoleoniche la Gran Bretagna produceva un quarto della produzione
industriale totale mondiale, classificandosi come maggiore paese industriale del mondo. La sua
posizione di avanguardia nella manifattura e il suo ruolo di massima potenza navale mondiale le
valsero lo status di principale potenza commerciale a livello mondiale.
Dopo il 1870, nonostante continuassero ad aumentare sia il prodotto nazionale che gli scambi
commerciali, essa perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio di altre nazione che si
stavano velocemente industrializzando (Germania e Stati Uniti). Alla vigilia della prima guerra
mondiale la Gran Bretagna era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale ma
controllava solo circa un sesto del commercio complessivo.
Nell’industria del carbone la Gran Bretagna mantenne la sua posizione di capofila in Europa e
produceva un surplus destinato all’esportazione. Per tutto il secolo la produzione britannica pro
capite di carbone fu quasi doppia di quella dei suoi maggiori concorrenti europei, il Belgio e la
Germania.
Le industrie favorite erano quella meccani, quella tessile e quella siderurgica. Dato il ruolo
pionieristico della Gran Bretagna nello sviluppo delle ferrovie, la domanda estera, europea e non, di
consulenti, materiali e capitali britannici costituì un forte stimolo per l’intera economia. Un’altro
stimolo fu l’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali. Il ferro cominciò a sostituire su larga
scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore che di quelle a vela nel corso degli anni
cinquanta, in seguito subentrò l’acciaio.
Il ritmo della crescita industriale nel secolo 1750-1850 fu molto più lento di quanto non avessero
suggerito valutazioni impressionistiche fatte in passato. La Gran Bretagna raggiunse l’apice della
supremazia industriale nei confronti della altre nazioni nei due decenni compresi tra il 1850 e il
1870. I tassi di crescita sono in qualche modo ingannevoli, in quanto in presenza di una ridotta base
statistica incrementi assoluti molto modesti possono tradursi in elevati tassi di crescita. La Gran
Bretagna non poteva conservare indefinitamente la propria posizione di predominio, man mano che
altre nazioni meno sviluppate ma ricche di risorse cominciavano a industrializzarsi. Il declino
relativo della Gran Bretagna era inevitabile anche a causa della rapida crescita demografiche e delle
immense risorse di grandi stati come gli Stati Uniti e la Russia.

35 ibidem, p. 347.
36 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo IX-X
37 ibidem, pp. 350-357.
18

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Altro possibile causa del declino relativo della Gran Bretagna è il fallimento della strategia
imprenditoriale. L’introduzione tardiva e quasi controvoglia di nuove industrie ad alto tasso
tecnologico, come quella della chimica organica, dell’elettricità, dell’ottica e dell’alluminio,
nonostante molti degli inventori fossero britannici, fu un segno di inerzia imprenditoriale.
Il rallentamento industriale e l’insufficienza della classe imprenditoriale sono fenomeni che possono
essere ascritti entrambi in parte all’arretratezza del sistema educativo britannico. La Gran Bretagna
fu l’ultimo grande paese occidentale ad adottare l’istruzione elementare pubblica per tutti,
presupposto importante per la formazione di una forza lavoro specializzata. Le poche grandi
università inglesi dedicavano scarsa attenzione all’educazione scientifica e meccanica (a differenza
però di quelle scozzesi). Esse contribuivano in tal modo alla perpetuazione dei valori aristocratici
disprezzanti l’attività commerciale e industriale.
Nonostante tutte le vicissitudini, il reddito reale pro capite dei cittadini britannici aumentò, la
distribuzione del reddito divenne leggermente più uniforme, la percentuale di popolazione costretta
a vivere in condizioni di assoluta povertà diminuì nettamente, e il cittadino medio godeva nel 1914
di un tenore di vita che non aveva eguali in Europa.

Il Belgio38 .
La prima regione dell’Europa continentale ad adottare pienamente il modello industriale britannico
fu quella che nel 1830 assunse il nome di regno del Belgio. Il Belgio vantava una lunga tradizione
industriale. Le Fiandre erano state nel Medioevo un centro importante della produzione del panno,
ed era famosa per la lavorazione dei metalli. Bruges e Anversa furono le prime città del nord ad
assimilare le tecniche commerciali e finanziarie italiane nel bassi Medioevo. Le risorse naturali
belghe erano molto simili a quelle britanniche. Il Belgio possedeva giacimenti carboniferi
facilmente accessibili e, nonostante la ridotta dimensione del suo territorio, fu in grado di produrre
più carbone di qualunque altro paese del continente fino a dopo il 1850. Mosselman, e la sua
Société de la vieille montagne, svolse un ruolo primario nella nascita della moderna industria dello
zinco.
A causa della sua posizione geografica, delle sue tradizioni e dei suoi legami politici, la regione che
sarebbe divenuta il Belgio ricevette importanti infusioni di tecnologia, iniziativa imprenditoriale e
capitali stranieri, e godette di una posizione di favore in certi mercati esteri, in particolare quelli
francesi.
William Cockerill, un abile meccanico inizialmente alle dipendenze della famiglia Biolley
(industria della lana) aprì la sua officina per la fabbricazioni di macchine filatrici.
Le miniere di carbone erano le maggiori utilizzatrici delle macchine a vapore, sia costruite sul
modello di Newcomen che su quello di Watt, ed attiravano più di ogni altro settore gli imprenditori
e gli investimenti francesi. Durante la dominazione francese si sviluppò un traffico di notevole
importanza sia per l’industria belga del carbone che per l’industria francese in generale.
La rete di canali ed altre vie d’acqua che collegava la Francia ai bacini carboniferi belgi facilitò
enormemente questo traffico. L’industria cotoniera crebbe invece intorno a Gand, città che vide la
fondazione di diverse fabbriche di calicò nelle quali non si faceva uso di energia meccanica.
Nel 1821 Paul Huart-Chapel introdusse nella sua fonderia vicino Charleroi il procedimento di
pudellaggio e laminatura. In seguito venne costruito un altoforno alimentato dal carbon coke che
entrò finalmente in attività nel 1827. Altri seguirono ben presto quello di John Cockerill, che erano
in società col governo olandese di re Guglielmo I.
I figli di William Cockerill, rilevata la società del padre, iniziarono produrre macchine a vapore
accanto al macchinario tessile. Essi annunciarono il progetto i costruire altiforni a carbon fossile
ottenendo sovvenzioni dal governo olandese. Alla vigilia della rivoluzione belga, la ditta Cockerill
era indiscutibilmente l maggiore impresa industriale dei Paesi Bassi, e probabilmente del
continente. Fu anche una delle prime industrie metallurgiche a integrazione verticale. Come tale
funse da modello per altre imprese di questo fiorente settore industriale.

38 ibidem, pp. 363-370.


19

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

La rivoluzione belga provocò una depressione economica, durata pochi anni, derivante
dall’incertezza sul carattere e il futuro del nuovo stato. In seguito il Belgio assistette a un boom
economico spiegato da favorevoli condizioni economiche internazionali come 1) la decisione del
governo di costruire una estesa rete ferroviaria a spese dello stato, utile per le industrie del carbone,
siderurgica e meccanica; 2) una importante innovazione istituzionale nel campo delle banche e della
finanza.
Nel 1822 re Guglielmo I aveva autorizzato l’istituzione di una banca azionaria, la Société générale
pour favoriser l’industrie nationale des Pays-Bas (nota dopo il 1830 come Société générale de
Belgique)
Nel 1835 un gruppo rivale di banchieri ottenne l’autorizzazione a fondare un’altra banca a capitale
azionario, la Banque de Belgique, modellata a imitazione della Société Générale ma con il 90% di
capitale francese.
Per tutto il secolo la prosperità del Belgio continuò a fondarsi sulle industrie che ne avevano
determinato la crescita: carbone, ferro (e acciaio), metalli non ferrosi, industria meccanica e, in
grado minore rispetto alla Gran Bretagna, tessili. Nell’industria chimica, l’introduzione del processo
Solvay di produzione del carbonato sodico rese rapida la crescita altrimenti lenta di quest’industria.
Le industrie meccaniche eccellevano nella costruzione all’estero di ferrovie a scartamento ridotto e,
dopo il 1880, di ferrovie e tram elettrici.
Le esportazioni rappresentarono almeno il 50% del prodotto nazionale lordo. Un partner
particolarmente importante era ancora una volta la Francia che importava oltre la metà del carbone
necessario alla sua economia dal Belgio.

Gli Stati Uniti39.


Nel 1870 la popolazione era cresciuta tanto da superare quella di qualsiasi altro paese europeo
(esclusa la Russia). Reddito e ricchezza crebbero ancor più rapidamente della popolazione. Fin
dall’epoca coloniale la scarsità di manodopera in rapporto alla terra e alle altre risorse avevano
comportato salari più elevati ed un più alto tenore di vita rispetto all’Europa attirando immigranti
europei.
L’abbondanza di terra e la dovizia di risorse naturali contribuiscono a spiegare come mai gli Stati
Uniti vantassero redditi pro capite più alti dell’Europa. L’elevato tasso di crescita è per lo più
dovuto al rapido progresso tecnologico e alla crescente specializzazione regionale. La continua
scarsità e l’alto costo della manodopera incentivavano l’impiego di macchine che permettessero di
risparmiare manodopera sia in agricoltura che nell’industria. Gli agricoltori americani, nonostante
non avessero tecniche di rese efficienti come quelle europee e si avvalessero di macchinari poco
costosi, erano in grado di ottenere rese molto più elevate per unità di lavoro.
Alexander Hamilton, primo segretario del Tesoro, era del parere che dovessero favorire le
manifatture con tariffe protettive. Thomas Jefferson, primo segretario di stato e terzo presidente,
preferiva “incoraggiare l’agricoltura e il commercio al servizio di quella”.
L’industria del cotone nel New England si affermò negli anni venti e divenne la maggiore industria
americana. Oltre a questa, lo sviluppo della manifattura dei fucili con parti intercambiabili pose le
basi per la produzione industriale di massa.
L’unico accesso praticabile alle regioni dell’interno era rappresentato dai fiumi. Per porre rimedio a
questa deficienza gli stati e le municipalità, in collaborazione con iniziative private, intrapresero un
grande programma di “miglioramenti interni” tramite la costruzione di strade a pedaggio e canali.
Causa del fallimento economico dei canali fu la comparsa sulla scena di un nuovo concorrente, le
ferrovie, per la cui costruzione gli Stati Uniti dipesero fortemente dalla tecnologia, dalle attrezzature
e dai capitali britannici. Nel 1840 la rete ferroviaria ultimata superava quella di tutto il continente
europeo. Le ferrovie furono importanti in America non solo in quanto fornitrici di un servizio di
trasporto ma anche per i collegamenti ascendenti con altre industrie, in particolare quella siderurgia
e dell’acciaio.

39 ibidem, pp. 357-362.


20

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

L’introduzione del processo Bessemer e del forno a suola per la fabbricazione dell’acciaio, e
l’enorme espansione della domanda determinata dalle ferrovie transcontinentali, l’industria
siderurgica divenne in breve tempo la maggiore industria americana in termini di valore aggiunto.
Fu solo con l’avvento delle centrali elettriche che cominciò il declino dell’industria a base rurale. I
prodotti agricoli continuarono a dominare l’esportazioni americane e nel 1890 gli Stati Uniti erano
la maggiore nazione industriale del mondo.

La Francia40.
Di tutti i paesi della prima ondata industriale, la Francia fu quello con il modello di crescita più
aberrante. Tuttavia, con opportune analisi si evince che, differendo il modello francese di
industrializzazione da quello britannico, soprattutto per quanto riguarda il tasso di crescita
demografico sorprendentemente modesto, ad un livello pro capite la Franca si comportò molto bene.
L’industrializzazione delle altre nazioni dipese in special modo dalle abbondanti riserve di carbone
mentre le caratteristiche dei pochi giacimenti in possesso della Francia rendevano più costoso il loro
sfruttamento.
Nonostante l'handicap di risorse e il complesso fattore politico-istituzionale, scienziati, inventori e
innovatori francesi fecero da pionieri in diverse industrie: energia idraulica (turbine, elettricità),
acciaio (forno a suola), alluminio, automobile e, più recentemente, l’aviazione.
Il settore cotoniero e laniero rappresentava l’industria più importante in termini di numero di addetti
e di valore aggiunto. Le industrie chimica, del vetro, della porcellana e della carta, pure in rapida
crescita, erano senza eguali in quanto a varietà di qualità dei loro prodotti. Nuove industrie
nacquero: l’illuminazione a gas, fiammiferi, fotografia, galvanoplastica, manifattura di gomma
vulcanizzata, ecc. I miglioramenti dei trasporti e delle comunicazioni, che inclusero la costrizione di
una vasta rete di canali, l’introduzione della navigazione a vapore, le prime ferrovie e il telegrafo
elettrico, facilitarono la crescita del commercio interno ed esterno.
La crisi della finanza pubblica e privata paralizzò le costruzioni ferroviarie e le altre opere
pubbliche. Le importazioni si dimezzarono nel 1848, le esportazioni diminuirono leggermente.
Con il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del secondo impero la crescita economica
francese riprese il vecchio corso ad un ritmo accelerato. Le riforme economiche, i trattati di libero
scambio e le leggi liberali sulle società fornirono ulteriori stimoli. Negli anni ottanta le costruzioni
ferroviarie rappresentarono un efficace stimolo per il resto dell’economia, sia direttamente che
indirettamente. L’industria siderurgica completò la transizione al carbon coke negli anni cinquanta e
negli anni sessanta e settanta adottò il processo Bessemer e Martin per un acciaio a buon mercato.
In quel periodo la produzione del carbone e quella del ferro si quadruplicarono.
Nel periodo compreso tra il 1851 e il 1881 la ricchezza e il reddito della Francia crebbero ai
massimi ritmi del secolo. La dura depressione del 1882 fu dovuta al panico finanziario e aggravata
da disastrose epidemie dannose all’industria del vino e della seta, ingenti perdite di investimenti
esteri per colpa di governi inadempienti o del fallimento di imprese ferroviarie, il ritorno su scala
mondiale al protezionismo, le nuove tariffe doganali francesi e l’aspra guerra commerciale con
l’Italia. La Francia tornò a godere di un tasso di crescita pre-crisi in quella che i francesi chiamano
La belle époque.
Aspetti chiave del modello di crescita francese sono:
1. Il basso ritmo di urbanizzazione, la cui causa principale fu la lenta crescita demografica
complessiva. Tra tutte le grandi nazioni industriali, la Francia era quella con la più alta
percentuale di addetti nel settore agricolo. La Francia era il solo paese industrializzato europeo
autosufficiente dal punto di vista alimentare, con un’eccedenza da esportare.
2. La Francia era famosa per la ridotta dimensione delle sue aziende. Esse erano tuttavia ad alto
valore aggiunto (articoli di lusso) e ad elevata dispersione geografica. Invece delle poche
colossali conurbazioni dell’industria pesante tipiche della Gran Bretagna e della Germania, la

40 ibidem, pp. 370-380.


21

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Francia possedeva industrie molto diversificate, disseminate in cittadine, villaggi e persino in


aperta campagna.
3. La dispersione era determinata in parte dalla natura delle fonti energetiche a disposizione. Per
ovviare alla scarsità e all’alto costo del carbone, la Francia si affidò all’energia idraulica che,
anche grazie all’introduzione della turbina, rimase concorrenziale rispetto al vapore fino alla
metà del secolo. Le caratteristiche dell’acqua come fonte di energia ponevano però forti
limitazioni al suo impiego. I siti migliori erano generalmente molto distanti dai centri abitati.
Essa contribuì all’imposizione del modello di sviluppo francese.

La Germania41.
Fra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione la Germania fu l’ultima a mettersi in moto.
Nella prima metà anche del XIX secolo, lo stato politicamente diviso era anche prevalentemente
rurale e agricolo. In Renania, Sassonia, Slesia e nelle città di Berlino esistevano piccole
concentrazioni industriali di tipo artigianale o protoindustriale. Lo stato precario dei trasporti e delle
comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’impero tedesco unificato era la più potente nazione
industriale europea. Possedeva le industrie più grandi e moderne nei settori del ferro e dell’acciaio e
derivati dell’energia elettrica, dei macchinari e dei prodotti chimici. La storia economica tedesca
dell’Ottocento può essere suddivisa in tre periodi abbastanza distinti e quasi simmetrici. Il primo
comprende la costituzione nel 1833 dello Zollverein, il secondo è un periodo di imitazione
consapevole e di prestiti che durò fino al 1870 circa con incremento delle attività dell’industria
moderna, del commercio e della finanza; in poco tempo la Germania raggiunse quella supremazia
industriale che mantiene ancora oggi.
Le influenza esterne, derivanti dalla rivoluzione francese e dalla riorganizzazione dell’Europa
operata da Napoleone, avevano inizialmente carattere legale e intellettuale.
La riva sinistra del Reno, unita politicamente ed economicamente alla Francia sotto Napoleone,
aveva adottato il sistema legale e le istituzioni economiche francesi, conservandole anche dopo il
1815. Persino la Prussia adottò, in forma modificata, molte istituzioni legali ed economiche
francesi: abolì la distinzione tra proprietà nobiliare e non nobiliare dando vita al “libero scambio”.
Una delle più importanti riforme economiche attuate dai funzionari prussiani fu quella che condusse
alla formazione dello Zollverein (unione doganale o tariffaria). Le fondamenta furono poste nel
1818, quando fu decisa l’applicazione di una tariffa unica per tutta la Prussia, con l’obiettivo
primario dell’efficienza amministrativa e di un maggiore gettito fiscale. Aderirono diversi piccoli
stati e, nel 1833, un trattato con gli stati più estesi della Germania meridionale segno la nascita dello
Zollverein.
Lo Zollverein seguì una politica commerciale “liberale”: in primo luogo abolì tutti i dazi interni e le
barriere doganali, creando un “mercato comune” tedesco; in secondo luogo rese possibile la
determinazione di una tariffa comune verso l’estero. Le ferrovie riuscirono nell’intento unificatore
dello Zollverein.
La chiave della rapida industrializzazione tedesca fu la crescita vertiginosa dell’industria del
carbone, e la chiave della crescita di quest’ultima fu il bacino carbonifero della Ruhr. Poco prima
della prima guerra mondiale la Ruhr produceva circa i due terzi del carbone tedesco. Lo
sfruttamento delle miniere, sebbene estremamente redditizio, richiedeva capitali più ingenti,
tecniche più sofisticate ed una maggiore libertà d’impresa. Ciò fu fornito da ditte straniere (francesi,
belghe, britanniche). Dal 1850 la produzione carbonifera della Ruhr crebbe con grande rapidità, e
con essa quella dell’industria siderurgica e dell’acciaio, di quella chimica e delle altre industrie
basate sul carbon fossile. L’impiego del coke nella fusione del ferro fu inaugurato nella Slesia. La
produzione dell’acciaio Bessemer inizio nel 1863, e il procedimento Martin-Siemens fu adottato
poco dopo. Le aziende tedesche adottarono rapidamente la strategia dell’integrazione verticale,

41 ibidem, pp. 380-389.


22

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

acquistando miniere di carbone e ferro, impianti per la produzione di coke, altiforni, fonderie e
laminatoi, officine meccaniche e così via.
I settori più dinamici dell’industria tedesca erano quelli che producevano beni capitale o prodotto
intermedi ad uso industriale. Ancora più importanti erano le industrie della chimica e quella
elettrica. L’enfasi data in Germania ai beni capitale e intermedi, a relativo scapito dei beni di
consumo, contrasta nettamente con la situazione francese, e contribuisce a spiegare i differenti
modelli di crescita dei due paesi. La crescita delle altre industrie determinò una forte domanda di
prodotti chimici industriali, in particolare alcali e acido solforico. Stimolati dalla nuova letteratura
sull’uso della chimica in agricoltura, la richiesta di fertilizzanti artificiali aumentò. In questo
contesto venne scoperto accidentalmente dal chimico inglese Perkin, il primo colorante sintetico
(malveina). Nell’arco di pochi anni quest’industria, attingendo dal personale e dalle risorse del
mondo universitario, affermò il suo predominio in Europa e nel mondo. Il settore industriale della
chimica organica fu anche il primo nel mondo a organizzarsi con proprie strutture e personale di
ricerca. Determinò di conseguenza l’introduzione di molti nuovi prodotti, e dominò inoltre la
produzione farmaceutica. L’industria elettrica registrò una crescita ancor più rapida di quella
chimica: d’impronta scientifica, l’estrema rapidità dell’urbanizzazione che si verificò proprio nel
periodo di espansione dell’industria le diede ulteriore stimolo. Tra i primi usi dell’elettricità i più
importanti furono l’illuminazione e i trasporti urbani.
Caratteristica notevole delle industrie menzionate era l’imponente dimensione delle aziende.
L’apice era rappresentato dall’industria elettrica Siemens & Schuckert. La dimensione notevole
delle aziende era dettata in qualche misura da economie tecniche di scala. Per alcune attività, che
richiedevano attrezzature costose, era economicamente vantaggioso adottare un grosso volume di
produzione.
Importante caratteristica della struttura industriale tedesca era la prevalenza di cartelli. Tali contratti
o accordi contrari alle norme del diritto consuetudinario britannico o statunitense che vietavano le
associazioni finalizzate a limitare il commercio, nonché alla legge Sherman anti-trust degli Stati
Uniti, erano in Germania perfettamente legali ed anzi applicabili per legge.
La teoria economica elementare insegna che i cartelli limitano la produzione per accrescere i
profitti, ma tale predizione mal si accorda con l’esperienza tedesca di rapida crescita della
produzione anche nelle industrie dominate dai cartelli: la combinazione di cartelli e dazi
protezionistici voluti da Bismarck dopo il 1879 furono in grado di mantenere sul mercato interno
dei pressi artificialmente elevati e di esportare in maniera virtualmente illimitata nei mercati esteri,
persino a prezzi inferiori al costo medio di produzione nei limiti in cui il margine di profitto nelle
vendite compensava la perdita nominale nelle esportazioni.

La Svizzera42 .
La Svizzera fu il primo paese della seconda ondata industriale, nonostante alcuni affermino che in
realtà la Svizzera era più industrializzata della Germania.
Nel 1850 il paese era appena agli inizia dell’età delle ferrovie e non disponeva di una struttura
istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento che si
arrivò all’unione doganale, ad un effettiva unione monetaria, ad un sistema postale centralizzato e
ad uno standard uniforme di pesi e misure. La Svizzera è inoltre povera di risorse naturali ad
eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname, ed è praticamente priva di carbone. Le
montagne precludono la coltivazione e rendono praticamente inabitabile il 25% del suo territorio
nonostante questi svantaggi, gli svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo uno dei
livelli di vita più elevati di tutta Europa, e uno tra i più alti del mondo nell’ultimo quarto di questo
secolo. Il tasso medio d’incremento fu appena inferiore a quelli della Gran Bretagna, del Belgio e
della Germania. La densità di popolazione era inferiore a quella degli altri paesi, ma ciò è in gran
parte spiegabile con la natura del territorio. La Svizzera dipendeva dunque dai mercati
internazionali.

42 ibidem, pp. 393-398.


23

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto ad una insolita, anche se non unica,
combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Il risultato furono
prodotti di alta qualità, di valore elevato e con un alto valore aggiunto, quali orologi, tessuti di
fantasia, macchinari complessi, formaggi prelibati e cioccolata. L’alta intensità di lavoro
specializzato è connesso al basso livello di analfabetismo nella maggior parte dei cantoni e,
soprattutto, all’elaborato sistema di apprendistato ivi diffuso. Esisteva una forza lavoro abile,
adattabile e disposta a lavorare per salari relativamente bassi. L’Istituto svizzero di tecnologia
contribuì all’istruzione di intelligenze addestrare a trovare soluzioni ai problemi tecnici e a
migliorare i macchinari dell’epoca.
La Svizzera possedeva nel XVIII secolo un’importante industria tessile cotoniera, seconda solo a
quella britannica. La filatura era meccanizzata e si avvaleva del lavoro a buon mercato di donne e
bambini, mentre la tessitura era manuale. Gli svizzeri si concentrarono sui tessuti di alta qualità e su
quelli ricamati (impiego del telaio manuale incorporato a elementi del telaio Jacquard). L’industria
della seta contribuì alla crescita economica svizzera del XIX secolo sia come numero di addetti che
a livello di esportazioni.
Tra le industrie che presero il posto dei tessili nelle esportazioni figuravano l’industria meccanica, la
fabbricazione di prodotti metallici specializzati, di cibi e bevande, di orologi da muro e da polso, di
prodotti chimici e farmaceutici. La Svizzera, priva di carbone e con scarsi giacimenti di minerali
ferrosi, evitò di sviluppare un’industria siderurgica di grandi dimensioni; affidandosi
all’importazione di materie prime dall’estero, sviluppò un’importante industria di trasformazione
dei metalli. L’importanza dell’energia idraulica si tradusse nel business delle ruote idrauliche,
turbine e altri prodotti altamente specializzati e di alto valore.
L’industria casearia, rinomata per il formaggio, si trasformò da un’attività artigianale ad un
processo di fabbrica, espandendo enormemente la produzione totale e quella destinata
all’esportazione. Essa sviluppò inoltre la produzione del cioccolato e quella degli alimenti per
bambini. L’altra industria tradizionale, la manifattura di orologi da muro e da polso, continuò ad
essere caratterizzata dal lavoro manuale di artigiani ad altissima specializzazione e da una minima
divisione del lavoro: la produzione di parti standardizzate ed intercambiabili comportava comunque
l’assemblaggio finale manuale.
L’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione. Dopo la
scoperta dei coloranti artificiali, due piccole ditte di Basilea cominciarono a produrne per rifornire
l’industria locale dei nastri. Esse si accorsero tuttavia ben presto di non poter competere con le
industrie tedesche nella produzione su larga scala dei normali coloranti, propendendo per una
specializzazione su prodotti esotici e di prezzo elevato.
Sebbene le ferrovie abbiano trasformato radicalmente la Svizzera, esse si rivelarono nel complesso
un pessimo affare.
Le linee di tendenza economica di metà Ottocento, comprendenti il declino dell’agricoltura, la
crescita relativa dell’industria e dei servizi e la continua dipendenza dalla domanda internazionale
di servizi finanziari (dalla prima guerra mondiale), si protrasse fino a tutto il XX secolo.

L’impero austro-ungarico43.
Le terre dell’Austria-Ungheria furono sottoposte al dominio della corona asburgica fino al 1918. La
reputazione di arretratezza economica relativamente al XIX secolo è dovuta dal fatto che alcune
porzioni dell’impero erano effettivamente più arretrate (quelle orientali) rispetto alle altre (le
province occidentali: Boemi, Moravia e l’Austria). Nelle province occidentali i primi segni di una
crescita economica moderna possono essere osservati già nella seconda metà del XVIII secolo;
tuttavia la topografia, che rendeva difficili e costosi i trasporti, la scarsità e l’infelice localizzazione
delle risorse naturali erano di ostacolo. Le industrie tessili erano di gran lunga quelle di maggiori
dimensioni. La meccanizzazione cominciò nell’industria cotoniera, per poi diffondersi in quella
laniera nei primi decenni del secolo successivo e in quella del lino con maggiore lentezza.

43 ibidem, pp. 405-410.


24

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

L’industrializzazione austriaca è una caso di crescita pigra ma laboriosa (carattere graduale ma


cumulativo).
Oltre alla difficile conformazione del territorio, anche le istituzioni sociali erano avversi allo
sviluppo economico: il servantaggio perdurò fino al 1848, quando la sua abolizione consentì ai
contadini di ottenere la libera proprietà della terra con il versamento delle tasse direttamente allo
stato. Altro ostacolo istituzionale ad una più rapida crescita economica fu la politica commerciale
estera della monarchia, che rimase rigidamente protezionistica per tutto il secolo, facilitando in tal
modo il progetto prussiano di sua esclusione dallo Zollverein. Le tariffe elevate limitavano non solo
le importazioni ma anche le esportazioni, in quanto le industrie protette, caratterizzate da costi di
produzione elevati, non erano in grado di competere nei mercati mondiali (accesso limitato a fonti
di approvvigionamento).
Una delle ragioni fondamentali della lenta crescita e dell’ineguale diffusione dell’industria moderna
furono i livelli di istruzione e di analfabetismo, caratteristiche fondamentali del capitale umano. Nel
complesso dell’impero, esisteva una stretta correlazione tra livelli di analfabetismo, livelli di
industrializzazione e redditi pro capite.
Nonostante gli ostacoli naturali e istituzionali, industrializzazione e crescita economica
caratterizzarono la realtà austriaca per tutto l’Ottocento. In Ungheria, dopo che questa parte
dell’impero ottenne l’autonomia e un proprio governo con il Compromesso del 1867, la produzione
industriale crebbe a ritmi ancor più elevati. I trasporti giocarono un ruolo cruciale nello sviluppo
economico dell’impero: l’Austria-Ungheria disponeva di un ridotto numero di canali ma il corso del
Danubio, in seguito all’avvento della navigazione fluviale a vapore, consentì il collegamento con i
mercati e i centri industriali più importanti. L’effetto delle ferrovie fu di consolidare la già avviata
divisione geografica del lavoro all’interno dell’impero.
Il commercio della farina permise all’Ungheria di avviare l’industrializzazione. La produzione
industriale ungherese consisteva però per la maggior parte di beni di consumo, in particolare
prodotti alimentari, che comprendevano, oltre alla farina, zucchero di barbabietola raffinato, frutta
conservata, birra e alcolici. Essi rappresentavano la risposta ungherese all’enfasi austriaca e boema
sui prodotti tessili. Nella regione alpina esisteva un’industria siderurgica alimentata dal carbone di
legna, mentre la Boemia aveva una tradizione metallurgica sia nei metalli ferrosi che in quelli non
ferrosi. Mentre la prima scomparve a causa dell’avvento del carbon coke, in Boemi e nella Slesia
austriaca (più ricche di carbone) le industrie metallurgiche cominciarono a svilupparsi, anche
verticalmente. Inoltre sorsero diverse industrie chimiche.
La produzione di carbone in Austria consisteva per due terzi di lignite di qualità inferiore, inadatta
agli impieghi in metallurgia, quella ungherese di un quarto.

La Russia imperiale44 .
All’inizio del XX secolo l’impero russo era considerato generalmente una grande potenza anche
grazie all’estensione del suo territorio e della popolazione. In termini economici complessivi la
Russia occupava una posizione ragguardevole: era quinta al mondo in quanto a produzione
industriale totale. Possedeva grandi industrie tessili (produzione di cotone e lino), nonché industrie
pesanti (carbone, ghisa, acciaio). Era seconda al mondo nella produzione petrolifera (dopo gli
USA).
Tuttavia la produzione e il consumo pro capite di carbone (e di altri settori produttivi), nettamente
inferiori persino ai valori austriaci, segnalano l’arretratezza di un’economia ancora prevalentemente
agricola: l’agricoltura dava da vivere ad oltre due terzi della popolazione e produceva più del 50%
del reddito nazionale. Il reddito pro capite era circa un terzo di quello britannico. La produttività era
tremendamente bassa, ostacolata da una tecnologia primitiva e dalla scarsità di capitali. Il servaggio
legalizzato (rimosso nel 1861) come ostacolo istituzionale fu determinante a questo scarsa
produttività.

44 ibidem, pp. 422-426.


25

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Gli inizi dell’industrializzazione russa sono stati fatti risalire al regno di Pietro il Grande, se si
eccettua l’industrializzazione degli Urali (iniziative isolate determinate da bisogni contingenti dello
stato russo come, ad esempio, la produzione di armi). Nella prima metà dell’Ottocento
l’industrializzazione divenne un fenomeno più visibile: l’industria più dinamica, e che registrò la
crescita più rapida, fu quella cotoniera, in particolare nella regione di Mosca, seguita a distanza
dalle raffinerie di zucchero (in Ucraina). San Pietroburgo e la Polonia russa vantavano diversi
cotonifici moderni, di grandi dimensioni, nonché fabbriche metallurgiche e meccaniche.
La guerra di Crimea rivelò la cruda realtà dell’arretratezza dell’industria e dell’agricoltura russe,
tanto da dare il via a una serie di riforme tra cui l’emancipazione dei servi (1861). Il governo
incoraggiò un programma di costruzioni ferroviarie sulla base di capitali e tecnologie
d’importazione, e riorganizzò il sistema bancario per permettere l’introduzione di tecniche
finanziarie occidentali. L’efficacia delle nuove politiche divenne evidente alla metà degli anni
ottanta e nel “grande balzo” della produzione industriale (tasso medio di crescita della produzione
di oltre l’8%). Parte del merito di questo grande balzo va attribuito al programma di costruzioni
ferroviarie, in particolare alla transiberiana di proprietà statale, e all’espansione delle industrie
mineraria e metallurgica (dovuta a imprenditori e capitali stranieri).
Il governo cercò di incoraggiare l’industrializzazione in vari modi. Contrasse prestiti all’estero per
finanziare la costruzione di ferrovie statali e garantì le obbligazioni di ferrovie appartenenti a
società private. Ordinò l’equipaggiamento per le ferrovie di proprietà statale unicamente a società
ubicate in Russia) e dispose che le società private facessero altrettanto. Impose alti dazi sulle
importazioni di prodotti di ferro e di acciaio agevolando contemporaneamente l’introduzione di
attrezzature più moderne per la manifattura del ferro e dell’acciaio e per le costruzioni meccaniche.
Al boom dell’industria russa degli anni novanta succedette la crisi dei primi anni del XX secolo, il
cui effetto fu aggravato dall’esito disastroso della guerra russo-giapponese.
Nel mezzo secolo precedente la prima guerra mondiale l’economia russa subì profondi mutamenti
nella direzione di un sistema più moderno e tecnologicamente adeguato; la sua debolezza al
confronto delle economie occidentali più avanzate si acutizzò nel corso della guerra contribuendo
alla sconfitta della Russia e preparando lo scenario della rivoluzione del 1917.

Il Giappone45 .
Nella prima metà del XIX secolo il Giappone mantenne la sua politica di isolamento dalle influenze
straniere, e in particolare occidentali, più efficacemente di ogni altro paese orientale. Dall’inizio del
Seicento il governo Tokugawa aveva proibito il commercio con l’estero e aveva vietato ai
giapponesi di viaggiare all’estero. La società era strutturata in rigide classi sociali o caste, che si
avvicinavano sotto taluni aspetti a quelle feudali dell’Europa medievale. L’organizzazione
dell’economia era notevolmente sofisticata. Nel 1853-4 il commodoro Perry, ammiraglio della flotta
statunitense, entrò con le sue navi nella baia di Tokyo costringendo lo shogun Tokugawa ad
allacciare relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti.
Una clausola chiave di questi trattati ineguali impediva al governo giapponese di imporre tariffe
superiori al 5% ad valorem; gli stranieri inoltre ottennero il diritto di extraterritorialità (non
soggezione alle leggi locali). La debolezza dello shogunato Tokugawa di fronte alle prepotenze
occidentali portò a rivolte xenofobe e ad un movimento ripristinatore dell’imperatore come figura
centrale del governo.
Con l’abdicazione dello shogun, l’imperatore Mutsuhito trasferì la corte imperiale a Tokyo
segnando la nascita del Giappone moderno (restaurazione Meiji ossia “governo illuminato”).
L’epoca Meiji durò dal 1868 alla morte di Mutsuhito nel 1912.
Invece di tentare un’espulsione degli stranieri, il Giappone cooperò con loro ma tenendoli a
rispettosa distanza. Il vecchio sistema feudale fu abolito e sostituito da un’amministrazione
burocratica altamente centralizzata modellata sul sistema francese, con un esercito di tipo prussiano
ed una flotta simile a quella britannica. I metodi industriali e finanziari furono importati soprattutto

45 ibidem, pp. 426-432.


26

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

dagli Stati Uniti. Uno dei problemi maggiori che il governo dovette in un primo tempo fronteggiare
fu quello finanziario: nel 1873 decretò una tassa sulla terra, stabilita in base alla produttività
potenziale dei terreni agricoli prescindendo dalla quantità del prodotto effettivo. Essa ebbe un
effetto doppiamente benefico: assicurava al governo un’entrata fissa e garantiva che la terra fosse
sfruttata al meglio. In merito ai problemi finanziari, il governo intraprese la creazione di un nuovo
sistema bancario che sostituisse la rete informale di credito dell’epoca Tokugawa. Venne scelto
come modello il National banking system degli Stati Uniti: le banche potevano essere fondate
usando titoli governativi a garanzia dell’emissione di banconote, obbligatoriamente convertibili in
moneta metallica.
Il ministro delle finanze Matsukata, in seguito all’inflazione dovuta all’eccesso di offerta di moneta,
operò nel 1881 una drastica deflazione monetaria al fine di ricostruire completamente la struttura
bancaria. Creò una nuova banca centrale, la Banca del Giappone, modellata sulla Banque Nationale
de Belgique. Essa ottenne il monopolio dell’emissione di banconote, mentre le banche nazionali
persero i loro diritti di emissione e furono trasformate in normali banche commerciali di deposito
sul modello inglese. La Banca del Giappone agiva anche come agente fiscale per conto del tesoro.
Sin dall’epoca della restaurazione Meiji il governo aveva intenzione di introdurre nel paese
praticamente l’intera gamma delle industrie occidentali.
Il riso era la coltivazione di base e la componente principale dell’alimentazione, integrato dal pesce
e dagli altri prodotti marini delle brulicanti acque costiere. Il Giappone possedeva alcuni giacimenti
di carbone e rame che contribuirono sia all’esportazioni che al consumo nazionale. Il settore agrario
fu quello che dovette sopportare il peso di assicurare con le esportazioni le entrate necessarie a
finanziare le importazioni.
L’industria cotoniera giapponese fu completamente spazzata via dai prodotti meccanizzati
provenienti dall’occidente mentre quella della seta sopravvisse, soprattutto nella prima parte della
filiera del prodotto di seta destinata all’esportazione. L’altra grande fonte di esportazioni era il té,
che nei primi anni dell’epoca Meiji fu altrettanto importante della seta.
Il governo usava avviare miniere, fabbriche modello e impianti moderni per poi venderle, quando
cominciavano a funzionare soddisfacentemente, a società e imprese private.
L’industria cotoniera fece registrare i progressi più rapidi, anche grazie all’uso di tecnologie
relativamente semplici e all’impiego di forza lavoro a buon mercato. Le industrie pesanti ebbero
uno sviluppo più lento, permesso da ingenti sussidi e protezioni tariffarie.
La prima guerra mondiale accrebbe naturalmente in misura notevole la domanda dei prodotti di
queste industrie e aprì contemporaneamente nuovi mercati. La guerra fu in effetti una manna per
l’intera economia giapponese. Il disavanzo della bilancia commerciale negli ultimi anni prima della
guerra era stato ingente, ma l’accresciuta domanda del periodo bellico, combinata con la
riconversione della produzione europea a fini militari, permise ai produttori giapponesi di penetrare
rapidamente nei mercati esteri.
Il tasso di crescita annuo del prodotto nazionale lordo fu in media del 3% tra il 1870 e il 1914. L
transazione economica giapponese ebbe anche conseguenze politiche. Nel 1894-94 il Giappone
sconfisse agevolmente la Cina in una breve guerra ed entrò nel novero dei paesi imperialisti
annettendo territorio cinese ed affermando la propria influenza sulla Cina stessa. Inoltre il Giappone
sconfisse la Russia sia in mare che in terra.

SETTORI STRATEGICI46
Agricoltura47.
Uno dei più profondi mutamenti strutturali dell’economia verificatisi nel XIX secolo fu la
diminuzione di peso relativo del settore agricolo. L’agricoltura non cessò di essere importante.
Presupposto di tale declino furono i progressi nella produttività agricola.

46 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XI.
47 ibidem, pp. 433-443.
27

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Un’incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in
cinque modi potenziali.
1. Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione (forze lavoro) in grado di
dedicarsi ad occupazioni non agricole.
2. Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a sostenere la
popolazione non agricola.
3. La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle industrie
manifatturiere e dei servizi.
4. Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale il settore agricolo può fornire capitali
da investire al di fuori dell’agricoltura.
5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera
indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie
prime non disponibili in patria.
All’inizio dell’Ottocento l’agricoltura britannica era la più produttiva d’Europa, fatto in stretta
correlazione con la posizione d’avanguardia della Gran Bretagna nello sviluppo del sistema
industriale. L’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate
alimentari e di alcune materie prime e creava un surplus (cerealicolo) destinato per l’esportazione.
Tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta l’agricoltura britannica raggiunse,
contemporaneamente all’industria, il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero
aumentare la produttività in misura addirittura superiore all’introduzione della coltura a rotazione e
delle tecniche ad esse associate. Dopo il 1873 circa, con l’afflusso di grano americano a basso
prezzo, gli agricoltori britannici ridussero l’area coltivata a frumento volgendosi verso prodotti a
più alto valore aggiunto (carne, latticini...) e impiegando spesso il grano importato per
l’alimentazione del bestiame.
Il prospero settore agricolo costituì inoltre un buon mercato per l’industria britannica. La ricchezza
prodotta della terra contribuì in modo considerevole alla creazione di capitale sociale: canali e
strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. Nel complesso, l’agricoltura britannica
svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’industria britannica.
Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu una correlazione piuttosto stretta tra produttività agricola e
successo dell’industrializzazione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti
sostanziali della produttività. Fondamentalmente, una riforma agraria implica un mutamento del
sistema di possesso fondiario: esempi sono il movimento delle recinzioni in Inghilterra, con
conseguente formazione di unità agricole relativamente estese e compatte in luogo del sistema dei
campi aperti, e quella conseguente alla rivoluzione francese, che abolì l’ancien régime e confermò
ai piccoli proprietari indipendenti il possesso delle loro piccolo fattorie.
Non sempre la riforma agraria ebbe effetti benefici, come nel caso della monarchia asburgica. In
Spagna e in Italia i tentativi di riforma agraria entrarono in collisione con le necessità finanziarie dei
governi. La Russia imperiale si distinse per la realizzazione di due tipi molto differenti di riforma
agraria nell’arco di due successive generazioni. L’emancipazione dei servi, decretata con riluttanza
nel 1861 in seguito alla sconfitta nella guerra di Crimea, non mutò alla base la struttura
dell’agricoltura russa. La riforma Stolypin favoriva la proprietà privata della terra e il
consolidamento delle strisce in appezzamenti compatti; questa fece sì che la produttività
dell’agricoltura russa cominciasse a crescere. Il paese fu però ben presto travolto dalla guerra e
dalla rivoluzione.
La Francia possedeva molte aziende agricole moderne (morcellement - frazionamento della
proprietà). Una parte dei risparmi accumulati in agricoltura trovarono naturalmente sbocco in
investimenti industriali o, quanto meno nella realizzazione di infrastrutture. L’industria vinicolo era
una delle voci principali delle esportazioni.
In Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera l’agricoltura era da tempo orientata al mercato. La
produttività di questi tre paesi era ai livelli più alti d’Europa. Una grande varietà caratterizzava la
condizione dell’agricoltura nei vari stati tedeschi e in seguito nel nuovo impero.

28

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

L’emancipazione dei servi in Prussia in seguito all’editto del 1807 non causò grandi cambiamenti
immediati. Fin quando i contadini rimasero nelle loro proprietà essi continuarono ad adempiere ai
loro obblighi e ad esercitare i diritti consuetudinari.
L’agricoltura contribuì in misura considerevole allo sviluppo economico sia della Danimarca che
della Svezia, ma non della Norvegia (più sviluppata nella silvicultura e pesca).
Il settore primario rappresentò inoltre un mercato per l’industria nazionale e contribuì, per lo meno
in Svezia, dove le ferrovie furono costruite dallo stato, all’accumulazione di capitali attraverso
l’imposizione fiscale. Il modo più spettacolare in cui i settori primari dei paesi scandinavi
contribuirono allo sviluppo economico nazionale fu comunque attraverso le esportazioni.
La monarchia asburgica era contrassegnata, come la Germania, da varianti regionali. La crescita
della produzione agricola, sia totale che per unità di lavoro, fu a quanto pare ragionevolmente
soddisfacente per tutto il secolo in entrambe le metà dell’impero. La metà ungherese dell’impero
“esportava” prodotti agricoli, in particolare frumento e farina, nella metà austriaca in cambio di
manufatti ed anche di investimenti. Il fallimento dell’impero nel suo complesso nello sviluppo di
esportazioni agricole consistenti può essere attribuito essenzialmente a due fattori: le difficoltà di
trasporto e il fatto che il mercato interno assorbiva gran parte della produzione. L’agricoltura austro-
ungarica, come l’industria, rifletteva fedelmente la posizione dell’impero, a metà strada tra
occidente e oriente.
Anche la Russia imperiale rimaneva, alla vigilia della prima guerra mondiale, a grande prevalenza
rurale e agraria. Pur nella sua arretratezza, l’agricoltura russa era in grado di sostenere il popolo
russo e di fornire un’eccedenza esportabile, fatto che si rivelò d’importanza determinante per la
spinta all’industrializzazione che si dispiegò alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Si
pensa che l’esportazione fosse ottenuta a spese dei contadini attraverso una pesante tassazione.
L’agricoltura svolse un ruolo dinamico nel processo di industrializzazione statunitense e nell’ascesa
degli Stati Uniti. Fin dal periodo coloniale l’agricoltura forniva in abbondanza non solo i
commestibili e le materie prime necessari alla popolazione non agricola, ma anche la maggior parte
delle esportazioni statunitensi (tabacco, riso e indaco in cambio di manufatti necessari all’economia
coloniale in espansione). Nella prima metà del XIX secolo il cotone divenne il re delle esportazioni,
con oltre l’80% della produzione destinata all’estero. Il rapido incremento naturale della
popolazione rurale fornì la forza lavoro necessaria per gli impieghi non agricoli. Questa fonte di
manodopera fu integrata da emigranti provenienti dall’Europa.
Negli Stati Uniti non si verificò alcuna riforma agraria di stile europeo; l’economia agricola
beneficiò tuttavia della straordinaria opera di stimolo rappresentata dal trasferimento del demanio
pubblico. Dopo la guerra rivoluzionaria il governo federale ottenne la proprietà di gran parte delle
regioni al di là degli Appalachi. Fin dall’inizio il governo seguì una politica di alienazione a privati
individui a titolo di proprietà assoluta. La politica americana si evolvette gradualmente verso lotti
più ridotti e prezzi più bassi, in una tendenza che culminò nell’Homestead Act del 1862 (accordo di
un lotto a titolo gratuito purché i coloni vi risiedessero e coltivassero la terra per cinque anni).
In nessun altro paese l’agricoltura svolse un ruolo così vitale nel processo di industrializzazione
quanto in Giappone. A dispetto della scarsità di terra arabile, l’agricoltura giapponese fu in grado di
sostentare la popolazione per gran parte del periodo prebellico (con importazione di riso dalle
colonie dopo il 1900) e di fornire la maggior parte delle esportazioni giapponesi. Attraverso la tassa
sulla terra (1873) l’agricoltura finanziò la maggior parte delle spese governative e di conseguenza,
indirettamente, una parte dell’accumulazione di capitali. Nonostante la loro povertà i contadini
giapponesi rappresentavano il mercato più ampio per l’industria del loro paese.

Banche e finanza48.
Il processo di industrializzazione del XIX secolo fu accompagnato da una proliferazione di banche
ed altre istituzioni finanziarie necessarie ad assicurare i servizi finanziari richiesti da un meccanismo
economico considerevolmente cresciuto sempre più complesso. I sistemi bancari differiscono, per

48 ibidem, pp. 444-459.


29

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

struttura, a seconda della nazionalità. Il settore finanziario può svolge un ruolo positivo, propizio
alla crescita, può essere neutrale o meramente permissivo oppure essere inadeguato, limitando od
ostacolando lo sviluppo industriale e commerciale.
All’inizio del XIX secolo la Banca d’Inghilterra (in realtà la Banca di Londra) era ancora
saldamente in possesso del suo monopolio nel settore delle banche a capitale azionario; le numerose
piccole “casse rurali” delle province erano tutte obbligate ad organizzarsi come società di persone,
rendendole vulnerabili nei momenti di panico e di crisi finanziaria. Alla fine del 1825 il parlamento
emendò la legge per permettere alle altre banche di adottare la forma di società per azioni purché
non emettessero cartamoneta. Il Bank Act del 1844 modellò, invece, la struttura del sistema
britannico fino alla prima guerra mondiale e oltre: la Banca d’Inghilterra cedeva il suo monopolio
come banca a capitale azionario in cambio del monopolio di emissione di cartamoneta. Rimase
essenzialmente un istituto statale, al servizio finanziario del governo; a fine secolo aveva già assunto
consapevolmente le funzioni di banca centrale. Accanto alla Banca d’Inghilterra, il sistema bancario
britannico prevedeva una serie di banche commerciali a capitale azionario che accettavano depositi
dal pubblico e prestavano denaro a imprese commerciali, generalmente a breve termine. Inoltre
esistevano a Londra di banche d’affari private (J.S. Morgan & Co.), le quali si dedicavano
soprattutto a finanziare gli scambi internazionali e al commercio di valuta, ma partecipavano altresì
alla sottoscrizione di emissioni di titoli esteri che inserivano nel listino della Borsa valori di Londra.
Questa istituzione era specializzata quasi esclusivamente in investimenti europei esteri, e lasciavano
alle borse provinciali la funzione di raccogliere capitali per le imprese nazionali.
La Gran Bretagna possedeva: casse di risparmio, società di finanziamento per l’acquisto o la
costruzione di abitazioni, società di mutuo soccorso, ecc.
Il sistema bancario britannico rispose alquanto passivamente alle sollecitazioni provenienti
dall’esterno, senza affrettare né ritardare il processo di sviluppo economico.
Il sistema bancario francese era dominato da un istituto di ispirazione politica i cui affari si
svolgevano soprattutto col governo, vale a dire la Banca di Francia. Creata da Napoleone nel 1800,
essa acquisto ben presto il monopolio dell’emissione di cartamoneta ed altri speciali privilegi.
Come la Banca d’Inghilterra, essa divenne in effetti la Banca di Parigi, e permise ad alcune banche
di emissione di operare nelle maggiori città di provincia. Fino al 1848 la Francia non possedette
altre banche a capitale azionario e niente che equivalesse alle banche di provincia inglesi. Il suo
sistema bancario era meno sviluppato del necessario, in quanto i notai provinciali che svolgevano
alcune funzioni di intermediazione non potevano supplire alla carenza di banche. Vennero così
create a Parigi banche in commandite che non supplirono alla domanda di servizi bancari e
scomparvero in seguito alla rivoluzione del 1848. La Francia aveva comunque, nella prima metà del
XIX secolo, un’altra importante istituzione finanziaria: l’haute banque parisienne, banche d’affari
simile a quelle londinesi, tra cui spiccava la De Rothschild frères. Come a Londra, la principale
attività di queste banche private erano il finanziamento degli scambi internazionali e il commercio
di valuta e lingotti, ma dopo le guerre napoleoniche cominciarono a sottoscrivere prestiti
governativi ed altre obbligazioni, quali i titoli delle società costruttrici di canali e ferrovie.
Napoleone III cercò di ridurre la dipendenza del governo dai Rothschild e dagli altri esponenti della
haute banque con la creazione di nuovi istituti finanziari. Ricordiamo i fratelli Pereire, ex
dipendenti dei Rothschild che avevano deciso di mettersi in proprio. Con la benedizione
dell’imperatore essi fondarono nel 1852 la Sociéte générale de crédit foncier, un istituto di credito
fondiario, e la Société générale de crédit mobilier, una banca d’investimento specializzata nel
finanziamento di costruzioni ferroviarie. Le banche francesi, private e a capitale azionario, svolsero
altresì un ruolo di battistrada nell’incoraggiare gli investimenti esteri francesi.
La Sociéte générale de Belgique e la Banque de Belgique fecero miracoli nel favorire
l’industrializzazione del piccolo stato, ma furono poste in difficoltà dalla stessa ampiezza dei loro
poteri, unita alla loro acuta rivalità. Nel 1850 il governo creò la Banque nationale de Belgique come
banca centrale col monopolio dell’emissione di cartamoneta, permettendo alle altre banche e a
quelle successivamente autorizzate di dedicarsi alle ordinarie funzioni bancarie commerciali e

30

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

d’investimento. Globalmente il sistema bancario belga ebbe un ruolo primario nello stimolo
dell’economia del paese.
In Olanda, in seguito alla sostituzione del regno delle Province Unite alla repubblica olandese, la
Nederlandsche bank si sostituì alla Banca di Amsterdam. Il sistema finanziario olandese
comprendeva diverse solide banche private le cui attività consistevano soprattutto nella
sottoscrizione di prestiti governativi, e i kassiers, cambiavalute e agenti di sconto. Dopo i successi
della Sociéte générale de Belgique e del Crédit mobilier, anche in Olanda si decise la fondazione di
quattro banche autorizzate dal governo che potessero partecipare al decollo industriale del paese.
La Svizzera, che nel XX secolo si è affermata come grande centro finanziario mondiale, era molto
meno importante prima del 1914. Ginevra era stata uno dei centri finanziari chiave dell’Europa
rinascimentale. Tra il 1850-70 furono fondate numerose nuove banche sul modello del Crédit
mobilier francese: la Schweizerische Kreditanstalt, l’Eidgenossische Bank di Berna (Banque
federale suisse) e la Schweizerische Bankgesellschaft (Swiss bank corporation).
Nella prima metà del XIX secolo in Germania non esisteva un vero e proprio sistema bancario. I
numerosi stati sovrani, con i loro distinti sistemi monetari e di coniazione, erano l’ostacolo
all’affermazione di un sistema finanziario unificato. La Prussia, la Sassonia e la Baviera
possedevano banche di emissione monopolistiche, che però erano attentamente controllate dai
governi e si occupavano soprattutto delle finanze statali. Esistevano numerose banche private, ma
esse operavano soprattutto come finanziatrici degli scambi locali e internazionali o
nell’investimento di capitali privati. L’aspetto distintivo del sistema finanziario tedesco fu la
Kreditbanken, banca “universale” o “mista” per azioni, impegnata sia in attività di lungo termine o
in attività bancarie di promozione. Di fronte al rifiuto del governo prussiano di autorizzare statuti di
società per azione per le banche, alcuni ambiziosi promotori ricorsero all’espediente della
Kommanditsgesellschaft (simile alla francese société en commandite), che non richiedeva
l’autorizzazione da parte del governo. La legge e l’euforia indotta dalla vittoria prussiana sulla
Francia nel 1870 portò alla fondazione di oltre cento nuove Kreditbanken prima della crisi del 1873.
La depressione ne eliminò la maggior parte; in seguito un processo di fusione portò ad affermarsi le
quattro «banche-D» con sede a Berlino: Deutsche Bank, Diskonto-Gesellschaft, Dresdner e
Darmstädter. Esse non solo provvidero alla necessità dell’industria tedesca ma facilitarono
l’allargamento del commercio estero tedesco fornendo credito agli esportatori e ai commercianti
stranieri. La struttura finanziaria tedesca fu completata da un’altra importante innovazione
istituzionale, la Reichsbank, fondata nel 1875. Essa era una semplice trasformazione della banca di
stato prussiana, ma con risorse e poteri grandemente riconosciuti. Godeva del monopolio
dell’emissione di cartamoneta e agiva da banca centrale. Era in grado di sostentare le Kreditbanken
in caso di difficoltà, e rese possibile per queste ultime assumere rischi più grandi di quelli che
normalmente sarebbero state disposte a sostenere. All’inizio del XX secolo il sistema bancario
tedesco era probabilmente il più potente al mondo.
L’Austria (o la monarchia asburgica) sviluppò il proprio sistema bancario moderno più o meno sotto
lo stesso periodo della Germania. Essa aveva creato la banca nazionale austriaca già nel 1817, ma
come istituto privilegiato nella gestione del caos della finanza pubblica dopo le guerre
napoleoniche. La prima moderna banca a capitale azionario fu però la Creditanstalt austriaca
(1855). La sua creazione fu una diretta conseguenza della rivalità tra i fratelli Pereire e i Rothschild.
L’economia svedese era relativamente arretrata nella prima metà del XIX secolo, eppure il paese
aveva una lunga tradizione bancaria. La Sveriges riskbank (precorritrice della Banca nazionale
svedese), fondata nel 1656, fu la prima banca ad emettere vera cartamoneta. Nella prima metà
dell’Ottocento sorsero anche alcune banche di emissione private. La Stockholms enskilda bank fu la
prima banca modellata sul modello del Crédit mobilier francese.
Nella prima metà del XIX secolo la Danimarca possedeva una banca centrale, la Nationalbank, di
proprietà privata ma controllata dal governo
La guerra di Crimea denunciò drammaticamente l’arretratezza economica della Russia nei confronti
dell’occidente, e spinse il governo zarista ad una campagna di costruzioni ferroviarie e
all’emancipazione dei servi. Essa condusse inoltre ad una revisione del sistema finanziario e
31

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

bancario. La maggiore istituzione finanziaria era la Banca di stato, fondata nel 1860. Interamente di
proprietà governativa, era sotto l’immediata supervisione del ministro delle finanze e ottenne il
monopolio dell’emissione di cartamoneta in seguito al passaggio della Russia al gold standard nel
1897. La Banca di stato controllava le casse di risparmio statali e creò la Banca fondiaria dei
contadini, la Banca fondiaria dei nobili e la Banca degli zemstva e delle città. Possedeva azioni della
Banca persiana di prestito e sconto e della Banca russo-cinese, fondate per facilitare la penetrazione
russa in quei paesi. Il sistema bancario comprendeva inoltre una varietà di piccoli istituti e,
soprattutto, banche commerciali per azioni. La prima di queste fu la Banca commerciale privata di
San Pietroburgo. Le dodici banche più grandi (la maggior parte con sede a San Pietroburgo)
controllavano circa l’80% delle risorse totali. Aspetto caratteristico di queste banche è la misura
dell’influenza straniera. Molte di esse erano state fondate o erano amministrate da banchieri
francesi, tedeschi, britannici e di altri paesi. Nel 1916 le banche straniere possedevano il 45% del
capitale delle dodici banche maggiori. Le banche per azioni russe, in collaborazione con le loro
associate straniere, contribuirono in misura notevole all’industrializzazione della Russia dopo il
1885, che dovette molto d’altra parte anche a imprenditori e tecnici stranieri.
Negli Stati Uniti il sistema bancario ebbe nel XIX secolo un’evoluzione variegata. Nei primi anni
della repubblica il conflitto tra hamiltoniani, che propugnavano un ruolo forte del governo federale,
e i jeffersoniani, che preferivano lasciare le scelte politiche ai singoli stati, si rifletté in modo
evidente nella storia del sistema bancario. Ebbero dapprima la meglio gli hamiltoniani, che
strapparono al Congresso lo statuto della prima Banca degli Stati Uniti (1791-1811) ma venne
impedito successivamente il suo rinnovo (e quello della seconda B.S.U.). Alcuni stati ammettevano
una libera attività bancaria, altri gestivano banche di proprietà statale, altri ancora cercarono di
proibire del tutto le banche. Nonostante questa apparente confusione, l’economia ebbe a
disposizione i servizi bancari di cui aveva bisogno e continuò nella sua rapida crescita.
Durante la guerra civile il Congresso istituì il National banking system, che permetteva l’esistenza
di banche federali a fianco delle banche statali. Sia le banche statali che quelle federali subivano
un’eccessiva pressione legislativa. Le banche non potevano occuparsi di finanza internazionale: il
volume di import-export era finanziato dall’Europa e dal modesto numero di banche d’affari private
(come J.P. Morgan & Co.) che non erano ostacolate dalle restrizioni che colpivano le banche a
capitale azionario. Il panico finanziario e le depressioni che si verificavano con periodicità vennero
prese in considerazione dal Congresso che si affrettò a istituire il Federal Reserve System nel 1913,
il quale alleggerì le banche nazionali dal compito di emettere banconote e diede loro la libertà di
occuparsi di finanza internazionale.

Il ruolo dello stato49 .


Il comportamento statale all’interno di un’economia può attuarsi attraverso diverse correnti di
pensiero, tra le quali le principali sono:
• Il laissez-faire, che significa che lo stato, oltre a promulgare e far rispettare le leggi penali, si
astiene rigorosamente da ogni interferenza nell’economia.
• Il concetto marxista secondo il quale il governo agisce da “comitato esecutivo” della classe
dominante (la borghesia).
Il governo può svolgere una varietà di ruoli nelle questioni economiche. La funzione fondamentale
del governo nella sfera economica è la determinazione del contesto legale dell’iniziativa economica.
Essa può variare da una politica radicale di «non ingerenza» ad una di totale controllo statale. Il
peccato cardinale non è l’intervento o il non intervento, bensì l’ambiguità: le “regole del gioco”
dovrebbero essere chiare, inequivocabili e applicabili. Esse includono, come minimo, la definizione
dei diritti (di proprietà o altro) e delle responsabilità (contrattuali, legali, ecc.). Il furto è un crimine
sia nella libera impresa che nelle società socialiste.
La seconda grande tipologia di intervento dello Stato nell’economia comprende le attività di
promozione non immediatamente produttive (dazi, esenzioni fiscali, rimborsi, sussidi, ecc.) tra cui

49 ibidem, pp. 459-465.


32

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

le funzioni di regolamentazione, che vanno dai provvedimenti volti a proteggere la salute e la


sicurezza di specifici gruppi di lavoratori al controllo dettagliato dei prezzi, dei salari e della
produzione. Lo scopo di queste norme può essere quello di favorire la crescita - proibendo o
regolando, ad esempio, i monopoli privati - ma più spesso l’obiettivo non è in rapporto con la
crescita, e l’intenzione è di eliminare le ingiustizie o lo sfruttamento.
Lo stato si può impegnare in attività direttamente produttive, che possono andare da iniziative
benevole come la fornitura di servizi educativi all’assunzione totale da parte dello stato della
proprietà e del controllo di tutte le risorse produttive, come nell’ex Unione Sovietica.
La Gran Bretagna è generalmente considerata la patria del laissez-faire, o del minimo intervento
dello stato nell’economia.
Esempio di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come
società esclusivamente commerciale, all’inizio dell’Ottocento era divenuta padrona dell’India, “uno
stato nello stato”. Dopo la rivolta dei sepoys del 1857, quando una milizia indigena si ribellò contro
i propri ufficiali, l’opinione pubblica pretese lo scioglimento della Compagnia, le cui funzioni di
governo furono assunte dall’Ufficio indiano. Alcuni anni dopo, nel 1875 il primo ministro tory
Disraeli fece del governo un azionista di una delle maggiori imprese private dell’epoca rilevando le
azioni della Compagnia del canale di Suez, società di diritto francese, appartenute al kedivé
d’Egitto, giustificando tale iniziativa appellandosi a ragioni di difesa nazionale.
In nessun settore la Gran Bretagna era in maggiore ritardo rispetto agli altri paesi occidentali che
nel pubblico sostegno all’istruzione. L’Education Bill del 1870 assicurava il sostegno statale alle
scuole private ed ecclesiastiche esistenti che rispondessero a certi requisiti minimi. Solo nel 1891
l’istruzione divenne, almeno in principio, gratuita e universale fino all’età di dodici anni.
I paesi del continente avevano per la maggior parte una lunga tradizione di paternalismo statale o
étatisme. In diversi di essi lo stato era proprietario di foreste, miniere e persino imprese industriali.
Queste ultime producevano equipaggiamento militare e navale, ma non solo: i francesi avevano le
loro manifactures royales che fabbricavano porcellana, cristalli, tappezzerie ecc.. Nel XVII secolo,
man mano che diventava evidente la superiorità della tecnologia britannica in determinate industrie,
i governi incoraggiarono i tentativi di appropriarsi di tale tecnologia con lo spionaggio o altro
mezzi. Sia la Francia che la Prussia intrapresero la fusione di ghisa grezza mediante carbon coke in
altiforni di proprietà statale.
Gli stati furono obbligati a modificare la loro tradizione di paternalismo nel corso
dell’industrializzazione. In Prussia la modalità di controllo statale sulle miniere della Ruhr
(Direktionsprinzip - principio di direzione) ostacolava lo sfruttamento dei giacimenti carboniferi
nascosti a nord della ricca regione tedesca; nel 1865 si decise la sostituzione del Direktionsprinzip
con l’Inspektionsprinzip (principio di ispezione), in base al quale gli ingegneri statali si limitavano
ad ispezionare le miniere per motivi di sicurezza.
Il rapido sviluppo della tecnologia dei trasporti, in particolare quella delle ferrovie, comportò il
coinvolgimento di tutti i governi. I britannici fecero il meno possibile, lasciando la promozione, la
costruzione e la maggior parte dei dettagli gestionali all’iniziativa privata. Tuttavia si valutò
necessaria la promulgazione di una legge sulle ferrovie nel 1844 che precisasse principi e regole di
base. Venne introdotta una clausola che prevedeva la rilevazione delle ferrovie allo scadere delle
concessioni sul diritto di transito (utilizzata solo dopo la seconda guerra mondiale).
Negli altri paesi i governi mostrarono un interesse molto maggiore per le ferrovie, come nel caso
del Belgio che intraprese la costruzione e la conduzione per proprio conto di una rete ferroviaria di
base. In Francia ebbe la meglio la proprietà privata, ma con numerose clausole condizionali che
lasciarono ampio spazio all’iniziativa statale. Dopo la proclamazione dell’impero tedesco, Bismarck
istituì l’Ufficio imperiale delle ferrovie, la cui funzione era di rilevare le società private e di
impiegare consapevolmente le ferrovie come strumento di politica economica, concedendo ad
esempio tariffe di favore alle merci destinate all’esportazione.
La politica ferroviaria dell’impero austro-ungarico oscillò, come quella russa, da una tendenza
iniziale favorevole alla proprietà e alla gestione statali ad una preferenza per le società private per
poi tornare sulla tesi statalista.
33

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Negli Stati Uniti il governo federale lasciò la politica ferroviaria agli stati fino alla guerra civile, ma
subito dopo rilasciò vaste concessioni di terre a società private per stimolare la costruzione delle
ferrovie transcontinentali. Il Congresso istituì l’Interstate commerce commission col compito di
regolamentare le ferrovie.

LA CRESCITA DELL’ECONOMIA MONDIALE50


Sebbene il commercio di lunga distanza sia esistito dagli albori della civiltà, la sua importanza è
cresciuta enormemente e rapidamente nel corso del XIX secolo. Su scala mondiale il volume pro
capite del commercio estero era nel 1913 oltre venticinque volte superiore a quello del 1800. Per
tutto il secolo l’Europa controllò almeno il 60% del totale delle importazioni che delle esportazioni.
Crebbe altresì rapidamente, con l’emigrazione e gli investimenti esteri, il movimento internazionale
delle persone e dei capitali.
I principali ostacoli che rallentavano il flusso del commercio internazionale erano, dal punto di vista
“naturale”, l’alto costo dei trasporti, in particolare quelli terrestri (ovviato dall’avvento della
ferrovia e dal miglioramento della navigazione culminato con il piroscafo transoceanico) e, dal
punto di vista “artificiale”, i dazi sulle importazioni e le esportazioni nonché in qualche caso gli
espliciti divieti di importare certi tipi di merce, anche se al volgere del secolo si verificò un “ritorno
al protezionismo” che determinò l’introduzione in molti paesi di dazi più alti sulle importazioni.

La Gran Bretagna: first mover verso il libero scambio51 .


A favore del libero scambio troviamo l’eloquente trattato di Adam Smith La ricchezza delle nazioni.
La perorazione di Smith a favore del libero scambio internazionale fu una conseguenza della sua
analisi dei vantaggi derivanti dalla specializzazione e dalla divisione del lavoro tra le nazioni oltre
che tra gli individui. Sia l’argomentazione di Smith che quella di Ricardo si fondavano su ragioni
puramente logiche: per avere effetti pratici in politica dovevano riuscire a convincere gruppi
consistenti di individui influenti. Per coincidenza nello stesso periodo conquistarono posizioni di
preminenza nel partito tory al governo diversi uomini che intendevano modernizzare e semplificare
le arcaiche procedure governative. Huskisson, in qualità di ministro del commercio, semplificò e
ridusse notevolmente il dedalo di restrizioni e tasse che ostacolavano lo sviluppo del commercio
internazionale. Fulcro e simbolo del sistema protezionistico del Regno Unito erano le cosiddette
Corn Laws, le leggi sul grano che imponevano dazi sulle importazioni. Il primo ministro, sir Robert
Peel, decise un’ampia revisione del sistema fiscale che prevedeva l’abolizione delle tasse sulle
esportazioni, l’eliminazione o riduzione di molte tasse sulle importazioni e l’introduzione di
un’imposta sul reddito per compensare la diminuzione delle entrate. In quel periodo la carestia di
patate in Irlanda ridusse alla fame l’intera popolazione irlandese e Peel presentò un progetto di
legge per l’abrogazione delle leggi sul grano approvato nel 1846. È con l’abrogazione delle Corn
Laws che cominciò a prendere forma quello che sarebbe stato, almeno fino al 1914, il moderno
sistema politico britannico. I whigs, noti in seguito come liberali, divennero il partito del libero
scambio, mentre i tories, noti anche col nome di conservatori, rimasero il partito degli interessi
fondiari e, in seguito, dell’imperialismo.
Dopo il 1860 rimasero solo pochi dazi sulle importazioni, applicati esclusivamente per motivi di
bilancio su prodotti non britannici (brandy, vino, tabacco, caffè, te, ecc.). Nonostante molte delle
tariffe fossero state completamente eliminate, l’aumento degli scambi totali fu tale che le entrate
doganali furono maggiore che in passato.

L’età del libero scambio.


Il secondo grande stadio nel movimento verso il libero scambio fu un importante trattato
commerciale, il trattato anglo-francese o Cobden-Chevalier del 1860. La Francia aveva seguito
tradizionalmente una politica protezionistica. Il governo francese, su istanza dei proprietari di

50 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XII.
51 ibidem, pp. 468-471.
34

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

fabbriche, aveva cercato di proteggere l’industria tessile cotoniera della concorrenza britannica. Il
governo di Napoleone III desiderava seguire una politica di amicizia nei confronti della Gran
Bretagna con l’obiettivo di guadagnare status politico e rispetto diplomatico. L’economista Michel
Chevalier convinse l’imperatore dei vantaggi di un trattato commerciale con la Gran Bretagna.
Secondo la costituzione Napoleone non poteva approvare leggi (compito che spettava al
parlamento) ma deteneva il diritto esclusivo di negoziare trattati con potenze straniere, le cui
clausole avevano in Francia forza di legge. Il trattato impegnava la Gran Bretagna a cancellare tutti
i dazi sull’importazione di merci francesi ad eccezione del vino e del brandy, considerati beni di
lusso. La Francia revocò la sua proibizione dell’importazione di prodotti tessili britannici e ridusse i
dazi su un’ampia varietà di merci britanniche rinunciando in tal modo al protezionismo estremo in
favore di una sua forma moderata. Un aspetto importante di questo trattato fu la clausola della
nazione più favorita, vale a dire che se una delle due parti avesse negoziato un accordo con un paese
terzo, la controparte del trattato avrebbe beneficiato automaticamente di qualsiasi tariffa più bassa
eventualmente accordata a quest’ultimo. La Gran Bretagna liberoscambista era priva del potere
contrattuale necessario a poter negoziare con gli altri paesi, fatto che venne aggirato tramite
negoziazione francese e applicazione della clausola della nazione più favorita.
La conseguenza principale del trattato Cobden-Chevalier, e di quelli che seguirono sul modello del
primo, era una riduzione generale delle tariffe. Inoltre ciò impose una riorganizzazione
dell’industria imposta dalla maggiore concorrenza: i trattati in tal modo favorirono l’efficienza
tecnica e aumentarono la produttività.

Un’altra conseguenza dell’integrazione dell’economia internazionale provocata da un commercio


più libero fu la sincronizzazione della dinamica dei prezzi al di là delle frontiere nazionali. Con lo
sviluppo dell’industrializzazione e del commercio internazionale le fluttuazioni dei prezzi
cominciarono ad essere più spesso legate allo “stato del commercio” (alle oscillazioni della
domanda), divennero di natura ciclica e furono trasmesse di paese in paese attraverso i canali
commerciali. Causa delle fluttuazioni sono complesse interazioni di fattori monetari e “reali”. In
pressoché tutti gli stati europei, nonché negli Stati Uniti, i prezzi raggiunsero il culmine all’inizio
del secolo, verso la fine delle guerre napoleoniche. Le cause furono sia reali che monetarie.
Nel 1873, dopo un boom durato diversi anni, un panico finanziario colpì Vienna e New York per poi
propagarsi rapidamente nella maggior parte dei paesi industrializzati o in via di industrializzazione.
La susseguente caduta dei prezzi durò fino alla metà o alla fine degli anni novanta, e divenne nota in
Gran Bretagna come “Grande Depressione”. La depressione che seguì il panico del 1873 fu
probabilmente la più grave e la più generale che si fosse mai verificata fino a quel momento nel
mondo industriale.
Otto von Bismarck, creatore e cancelliere del nuovo impero tedesco, dal momento che gli
industriali della Germani occidentale reclamavano a gran voce una protezione tariffaria, decise di
“accedere” alla richiesta, denunciò i tratta commerciali dello Zollverein con la Francia ed altre
nazioni e diede la sua approvazione ad una nuova legge tariffaria del 1879 che introdusse il
protezionismo sia per l’industria che l’agricoltura. Il primo grande passo sulla strada del “ritorno al
protezionismo”.
Nel 1881 gli interessi protezionistici francesi riuscirono ad ottenere una nuova legge tariffaria che
reintroduceva esplicitamente il principio del protezionismo; venne approvata la legge Méline che,
pur accordando protezione ad alcuni settori dell’agricoltura e conservando la protezione industriale
della tariffa del 1881, essa conteneva diversi elementi condivisi dai partigiani del libero scambio.
Tra il 1887 e il 1898 tra l’Italia e la Francia vi era una “guerra tariffaria” che arrecò gravi danni al
commercio di entrambi gli stati. Lo stesso accadde tra Germania a Russia tra il 1892-4.
L’Austria-Ungheria, che aveva una lunga tradizione di protezionismo, negoziò dei trattati con la
Francia ed alcuni altri paesi ma conservò un grado di protezione più elevato degli altri e ritornò
rapidamente all’ultraprotezionismo. La Russia non era mai entrata nella rete di trattati commerciali
inaugurata dal trattato Cobden-Chevalier e nel 1891 introdusse dazi virtualmente proibitivi. Gli

35

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Stati Uniti avevano seguito una politica di dazi contenuti; dopo la guerra civile divennero uno dei
paesi più protezionistici e tali rimasero in larga misura fino a dopo la seconda guerra mondiale.
In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio, e di queste
la più notevole fu la Gran Bretagna. Nel 1887 il parlamento approvò il Merchandise Act, che
imponeva di apporre sui prodotti esteri con il nome del paese d’origine. Nonostante una
diminuzione del tasso di crescita del commercio internazionale conseguente al ritorno al
protezionismo nel 1872, tale tasso si mantenne positivi. Le nazioni di tutto il mondo, e in special
modo quelle europee, dipendevano come non mai dal commercio internazionale.

Il gold standard internazionale52.


L’altro grado di integrazione raggiunto dall’economia mondiale nella seconda metà del XIX secolo
dipese criticamente da un’adesione generale al gold standard internazionale. Nel corso della storia
diverse merci hanno svolto la funzione di standard monetario, ma la maggior preminenza è sempre
stata detenuta dall’oro e dall’argento. La funzione di uno standard monetario è di definire l’unità di
conto di un sistema monetario, l’unità in cui tutte le altre forme di moneta sono convertibili.
Durante le guerre napoleoniche la Banca d’Inghilterra, con l’autorizzazione del governo, “sospeso il
pagamento” - rifiutò cioè di pagare oro e argento in cambio delle proprie banconote - per cui, a
stretto rigore dei termini, il paese non aveva alcuno standard monetario; aveva una cartamoneta
inconvertibile ovvero un “corso forzoso”. Secondo le disposizioni della legge parlamentare
istitutrice di questo gold standard dovevano essere osservate tre condizioni:
1. La Zecca reale era obbligata a comprare e vendere quantità illimitate di oro a prezzo fisso.
2. La Banca d’Inghilterra era tenuta a convertire a richiesta le sue passività monetarie (banconote,
depositi) in oro.
3. Nessuna restrizione poteva essere imposta sull’importazione o sull’esportazione di oro.
L’oro serviva da base ultima o riserva dell’intera provvista monetaria della nazione. La quantità di
oro che la Banca d’Inghilterra custodiva nei suoi forzieri determinava la quantità di credito che essa
poteva accordare sotto forma di banconote e depositi; questi a loro volta (conservati come riserva
delle altre banche di emissione o deposito) determinavano l’ammontare di credito che queste ultime
potevano concedere. Il movimento di entrata e uscita dell’oro dal paese determinava fluttuazioni
nella riserva totale di moneta, che a sua volta causava delle oscillazioni nella dinamica dei prezzi.
La maggior parte degli altri paesi adottò uno standard argenteo o bimetallico; a causa della sua
pisizione di preminenza della Gran Bretagna nel commercio mondiale, quasi tutti i paesi furono
coinvolti dalle sue fluttuazioni economiche. La Francia tentò di creare un’alternativa al gold
standard internazionale nella forma dell’Unione monetaria latina. La scoperta dell’oro in California
e Australia (rendendo l’oro più economico dell’argento) convinse la Francia a passare di fatto ad un
standard argenteo, e convinse il Belgio, la Svizzera e l’Italia a seguirla nel 1865. L’obiettivo era
quello di mantenere stabili i prezzi. L’anno seguente l’Italia ricorse al corso forzoso della
cartamoneta.
Con la scoperta di nuovi giacimenti di argento, i prezzi relativi dell’oro e dell’argento si
modificarono in senso inverso, e le nazioni facenti parte dell’Unione monetaria latina si trovarono
sommerse dall’afflusso di argento a buon mercato. Piuttosto che tollerare la conseguente inflazione
dei prezzi, esse limitarono i loro acquisti di argento per poi eliminarli del tutto, ritornando ad un
gold standard puro.
Sulla base dell’indennità di guerra estorta alla Francia dopo la vittoria della guerra franco-prussiana,
il governo tedesco adottò una nuova unità di conto, il marco aureo, e istituì la Reichsbank come
banca centrale e unica agenzia di emissione. Dato il peso della Germania nel commercio
internazionale (in crescita), altri paesi aderirono al movimento verso il gold standard.
La Russia aveva adottato nominalmente lo standard argenteo per tutto il XIX secolo, ma a causa
della precaria posizione finanziaria del governo, aveva fatto ricorso a ingenti emissioni di
cartamoneta inconvertibile. Nel quadro dello sforzo di industrializzazione promosso dal ministro

52 ibidem, pp. 481-485.


36

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

delle finanze Witte, mentre il governo russo stava prendendo in prestito grosse somme dalla
Francia, Witte decise che il paese doveva adottare il gold standard, cosa che fece nel 1897. Quello
stesso anno il Giappone creò una riserva aurea nella Banca del Giappone e adottò ufficialmente il
gold standard.
All’inizio del XX secolo praticamente tutte le nazioni commerciali avevano aderito al gold standard
internazionale che durò meno di venti anni.

Movimenti migratori e investimenti internazionali.


Nel XIX secolo si verificò un considerevole aumento del movimento internazionale di uomini e
capitali, gli altri due fattori di produzione oltre alla terra. L’emigrazione avvenne anche entro i
confini europei, ma la sua dimensione più significativa fu quella transoceanica.
La seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX registrarono una massiccia emigrazione
dall’Italia e dall’Europa orientale. Gli italiani si diressero verso gli Stati Uniti ma anche in America
Latina, in particolare in Argentina. Gli emigranti provenienti dall’Austria-Ungheria, dalla Polonia e
dalla Russia si rivolsero soprattutto agli Stati Uniti. Nel complesso questo immenso fenomeno
migratorio ebbe effetti benefici: alleggerì le pressioni demografiche nei paesi di provenienza degli
emigranti, allentando la tendenza al ribasso dei salari reali, e fornì ai paesi ricchi di risorse ma
poveri di manodopera nei quali si stabilirono un afflusso di lavoratori volenterosi a salari più elevati
di quelli che avrebbero potuto ottenere nei paesi d’origine.
L’esportazione di capitali, l’investimento estero, rafforzò ulteriormente l’integrazione
dell’economia internazionale. Le risorse disponibili per essere investite all’estero derivarono dal
sensazionale aumento della ricchezza e del reddito provocato dall’applicazione delle nuove
tecnologie. A differenza dell’investimento in patria, quello estero richiede risorse speciali generate
dal commercio e dai pagamenti esteri. Esistono due principali categorie di fondi che possono essere
impiegati negli investimenti internazionali: quelli derivanti da una bilancia commerciale favorevole
e quelli frutto di esportazioni “invisibili” quali i servizi di spedizione, i profitti delle attività
bancarie e assicurative internazionali, le rimesse degli emigrati e gli interessi e i dividendi di
precedenti investimenti esteri.
La principale motivazione dell’investimento estero è l’aspettativa da parte dell’investitore di una
saggio di profitto più elevato che in patria. I meccanismi dell’investimento estero insistono in una
serie di strumenti istituzionali per il trasferimento di fondi da un paese all’altro: mercati dei cambi,
delle azioni e dei titoli, banche centrali, banche private e azionarie d’investimento, agenti di
cambio, ecc.
Per la Gran Bretagna, che aveva avuto per la maggior parte del secolo una bilancia commerciale
sfavorevole, gli investimenti esteri furono resi possibili quasi esclusivamente dalle esportazioni
invisibili. Inizialmente queste erano costituite dai proventi della marina mercantile britannica ma,
col passare del tempo, un contributo via via più cospicuo alla formazione di questa eccedenza venne
dalle attività bancarie e assicurative internazionali e dagli investimenti esteri. Dopo il 1870, i profitti
derivanti da precedenti investimenti fornirono le risorse sufficienti a coprire tutti i nuovi
investimenti, oltre a un’eccedenza sufficiente a finanziare il deficit della banca commerciale.
La Francia figurava al secondo posto in quanto a investimenti esteri: inizialmente del XX secolo la
Francia si indebito con l’estero (Gran Bretagna e Olanda) per saldare le pesanti riparazioni dopo la
sconfitta di Napoleone. I capitalisti britannici contribuirono a finanziare alcune delle prime ferrovie
francesi. Si stabilizzò però ben presto una considerevole eccedenza delle esportazioni negli scambi
commerciali grazie alla quale la Francia ricavò il grosso delle risorse per i suoi investimenti esteri.
Dopo l’alleanza franco-russa del 1894 i francesi, incoraggiati attivamente dal loro governo,
investirono somme enormi nell’acquisto di titoli russi pubblici e privati tuttavia il governo
bolscevico di Lenin ripudiò tutti i debiti, pubblici e privati, contratti sotto il regime zarista.
La Germania presenta il caso interessante di un paese che si trasformò nel corso del secolo da
debitore netto a creditore netto. Disuniti e poveri all’inizio dell’Ottocento, gli stati tedeschi
avevamo pochi debiti con l’estero e meno crediti. Nei decenni centrali del secolo le province
occidentali beneficiarono dell’afflusso di capitali francesi, belgi e britannici, che contribuirono alla
37

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

nascita di industrie possenti e all’avvio di un boom di eccedenze delle importazioni necessarie a


ripagare i capitali esteri e ad accumulare investimenti. Il governo tedesco cercò talvolta di valersi
dell’investimento estero privato come di un’arma in politica estera.
I paesi industrializzati minori, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera, beneficiari di investimenti esteri nel
corso del secolo, erano diventati alla fine del secolo creditori netti come la Germania.
L’Austria, la metà occidentale della monarchia asburgica, aveva investimenti in Ungheria e anche
nei Balcani, ma nel complesso l’impero era debitore netto. Fra i paesi beneficiari di investimenti
esteri gli Stati Uniti erano di gran lunga il maggiore; i capitali esteri, in primo luogo britannici,
contribuirono alla costrizione di ferrovie, allo sfruttamento delle risorse minerarie e al
finanziamento dei ranches degli allevatori. Dopo la guerra civile gli investitori americani
cominciarono ad acquistare obbligazioni estere e le società private americane cominciarono a
investire direttamente all’estero in una serie di operazioni industriali, commerciali e agricole.
In Europa il paese che beneficiò dei maggiori investimenti esteri fu la Russia. La rete ferroviaria
russa fu costruita soprattutto con capitali esteri, incanalati nell’acquisto di titoli privati e
obbligazioni governative garantite dal governo. Gli stranieri, soprattutto banche, investirono
ingentemente anche nelle banche russe a capitale azionario e nelle grandi industrie metallurgiche
del Donbass, di Krivoj Rog e di altre località. Dopo il 1917 gli investitori persero tutto.
Gli Sterminati continenti dell’Asia e dell’Africa parteciparono solo marginalmente all’espansione
commerciale del XIX secolo, fino a quando non vi furono costretti dalla potenza militare
dell’occidente.

38

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

PANORAMA DELL’ECONOMIA MONDIALE53


Popolazione54.
L’economia mondiale del XX secolo assunse dimensioni nuove e senza precedenti. Nel XIX secolo
la popolazione europea era più che raddoppiata, mentre la popolazione mondiale, con esclusione
delle aree colonizzate degli europei, era cresciuta di poco più del 20%. Nel XX secolo, la crescita
demografica europea rallentò, mentre quella del resto del mondo raggiunse ritmi mai visti. La causa
di questo tremendo incremento numerico è stata la diminuzione complessiva della mortalità, la
diffusione della tecnologia occidentale nei campi dell’igiene e della sanità pubblica, dell’assistenza
medica e della produzione agricola. Tra la diminuita mortalità infantile, il maggiore input di lavoro
e la crescita del prodotto pro capite esiste una correlazione di lungo periodo: il processo di
urbanizzazione continuò nel XX estendendosi nelle altre regioni del mondo. La crescita delle città è
stata determinata in primo luogo dall’emigrazione interna, con la popolazione in sovrappiù nelle
aree rurali e nelle città di provincia che inseguiva le più ampie opportunità e le maggiori libertà
offerte dalla vita e dalle luci della città. Continuò il fenomeno dell’emigrazione internazionale: alle
motivazioni, quali pressioni economiche in patria e opportunità offerte da paesi esteri del XIX
secolo, nel XX secolo si aggiunse l’oppressione politica conseguente a guerre e rivoluzioni.
Inoltre nel XX secolo si affermò l’emigrazione forzata, determinata dalla creazione conseguente
alla Prima guerra mondiale di stati-nazione separati in cui il diritto di cittadinanza era formulato
sulla base della maggioranza etnica che l’abitava, che comportò l’espulsione di determinati gruppi
etnici minoritari.
La prima guerra mondiale interruppe parzialmente il flusso migratorio internazionale per qualche
tempo. La depressione degli anni trenta e la seconda guerra mondiale fece contrarre ulteriormente la
marea immigratoria. In seguito l’Europa occidentale si è trasformata da punto di partenza per
l’emigrazione internazionale ad asilo per i rifugiati politici soprattutto a cominciare dalla
rivoluzione russa del 1917.

Le risorse55.
La crescita demografica senza precedenti del XX secolo, accompagnata dalla crescente ricchezza di
parte del mondo, provocò una pressione senza precedenti sulle risorse mondiali. Nonostante il
verificarsi di occasionali temporanee carenze di alcune merci, in particolare in tempo di guerra,
l’economia mondiale ha risposto ai bisogni in modo ragionevolmente positivo anche grazie alla
crescente interazione dell’economia con la scienza e la tecnologia. Lo sviluppo più importante del
XX secolo in tema di risorse è stato il cambiamento nella natura e nelle fonti dell’energia primaria.
Nel XX secolo il carbone è stato in buona parte sostituito da nuove fonti energetiche, in particolare
dal petrolio e dal gas naturale. Nel XIX secolo, il petrolio era usato allora soprattutto per
l’illuminazione e in via subordinata come lubrificante. Lo sviluppo dei motori a combustione
interna alla fine del XIX secolo ne estese grandemente la possibilità di applicazione, cominciando a
rivaleggiare con il carbone e l’acqua per la produzione di elettricità e per il riscaldamento degli
ambienti. Nella seconda metà del XX secolo esso ha acquistato nuova importanza come materia
prima per la produzione di materie sintetiche e plastiche.
Alla luce della sua fondamentale importanza e dei suoi molteplici impieghi, il petrolio ha acquistato
un grande significato geopolitico. I giacimenti petroliferi sono ampiamente disseminati nel mondo,
ma gran parte della produzione è concentrata in un numero relativamente limitato di aree
geografiche. L’europa possiede riserve di petrolio inferiori a quelle di qualsiasi altra massa
continentale; la produzione di petrolio su larga scala ebbe inizio negli Stati Uniti. Pur rimanendo
uno dei maggiori produttori, gli Stati Uniti sono divenuti un paese importatore netto di petrolio.

53 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XIII.
54 ibidem, pp. 511-520.
55 ibidem, pp. 520-521.
39

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Tecnologia56.
Il mutamento tecnologico, principale forza trainante dell’industrializzazione ottocentesca, conservò
inalterato questo ruolo anche nel XX secolo. Il ritmo del mutamento subì un’accelerazione. Se il
segno del successo delle società umane era stato in passato la loro capacità di adattarsi all’ambiente,
nel XX secolo è l’abilità di manipolare l’ambiente e adattarlo alle esigenze della società tramite la
tecnologia fondata sulla scienza moderna.
La velocità degli spostamenti era cambiata sensibilmente già con le locomotive a vapore ma nel XX
secolo si fecero ulteriori passi da gigante con lo sviluppo delle automobili, degli aerei e dei razzi
spaziali. Lo stesso accadde nel campo delle telecomunicazioni: l’invenzione del telegrafo cambiò
radicalmente la tempistica con cui i messaggi potevano essere ricevuti: col telefono, la radio e la
televisione accrebbe incommensurabilmente la convenienza, flessibilità e affidabilità delle
comunicazioni su lunghe distanze.
Il fondamento scientifico dell’industria moderna ha dato come risultato centinaia di nuovi prodotti e
materiali. Nel XX secolo materie plastiche ricavate dal petrolio e da altri idrocarburi hanno
sostituito il legno, la ceramica e la carta in migliaia di impieghi che vanno dai recipienti a basso
peso ai trapani ad alta velocità. L’utilizzazione crescente dell’energia elettrica e meccanica,
l’invenzione di centinaia di congegni in grado di far risparmiare lavoro e lo sviluppo di strumenti di
controllo automatici hanno provocato mutamenti nelle condizioni di vita e di lavoro di portata più
ampia di quelli della rivoluzione industriale inglese. Un esempio importante è l’elaboratore
elettronico: all’inizio del XX secolo erano in uso diversi rudimentali congegni meccanici,
principalmente a fini commerciali, ma l’era dell’elaboratore elettronico non si annunciò che con la
Seconda guerra mondiale. Il suo progresso da allora ha rivaleggiato con la rapidità con cui esso
opera. Senza di esso molte altre conquiste scientifiche, quali l’esplorazione dello spazio, sarebbero
state impossibili.
Nonostante molte scoperte nella chimica e nella biologia siano state stimolate dalle loro
applicazioni commerciali nell’agricoltura, nell’industria e nella medicina, la ricerca di base richiede
per lo più spese così ingenti ed offre prospettive di guadagno immediato così scarse che i governi si
sono trovati obbligati a finanziarla direttamente o indirettamente. Le esigenze della guerra e delle
rivalità nazionali hanno indotto inoltre i governi a dedicare enormi risorse alla ricerca e allo
sviluppo scientifici per fini militari. Uno dei requisiti del progresso scientifico e tecnico è la
presenza di un’adeguata riserva di forza lavoro istruita, o brainpower. La capacità individuale di
inserirsi pienamente nella nuova matrice scientifico tecnologica della civiltà richiede in misura
sempre maggiore un livello di studi universitario o post-universitario. Il XX secolo ha visto il
proliferare di istituti di studi avanzati e di ricerca finanziati da organismi privati e dal settore
pubblico.
L’impiego della tecnologia scientifica ha enormemente accresciuto la produttività del lavoro umano:
in agricoltura, i paesi occidentali hanno ottenuto un’enorme crescita della produttività attraverso
tecniche scientifiche di fertilizzazione, di selezione delle sementi e delle razze da allevamento e di
lotta ai parassiti e attraverso l’uso dell’energia meccanica.
L’aumento della produzione energetica si è verificata in aree d’insediamento europeo ed in forme
che all’inizio del secolo erano ancora in uno stato embrionale. L’Europa, seguita dal Nord America,
è particolarmente dipendente dalle fonti nucleari e geotermiche, fatto prevedibile per delle
economie industriali particolarmente avanzate. L’Asia e l’Africa si concentrano soprattutto su fonti
termiche spesso altamente inquinanti quali le centrali a carbone, mentre quelle a gas naturale sono
più diffuse dell’energia idroelettrica.
Il petrolio e il gas naturale superarono il carbone come fonte di energia intorno al 1960, e negli anni
novanta rappresentavano oltre il 60% della produzione totale mondiale. Il motore a combustione
interna, il più importante consumatore di petrolio, è un’invenzione del XIX secolo, applicato a due
dei più caratteristici congegni tecnologici del XX secolo, l’automobile e l’aeroplano.

56 ibidem, pp. 522-530.


40

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Nel 1913 Henry Ford introdusse il principio della produzione di massa con una catena di montaggio
mobile: l’automobile divenne così qualcosa di più di un giocattolo per ricchi. La tecnica di Ford fu
ben presto imitata da altri industriali statunitensi ed europei, e l’industria automobilistica divenne
una delle industrie manifatturiere con il maggior numero di addetti e fornì opportunità senza
precedenti alla mobilità individuale. L’automobile divenne un simbolo dello sviluppo economico
del XX secolo: l’industria automobilistica stimolò la domanda per diverse altre industrie ed ebbe un
profondo impatto sui rapporti sociale e sul costume.
La tecnica della produzione su catena di montaggio fu adottata da altre industrie, tra cui l’industria
aeronautica durante la Seconda guerra mondiale. L’età dell’aeroplano cominciò nel 1903 col volo
dei fratelli Wright. Nella Prima guerra mondiale si scoprirono gli impieghi militari degli aeroplani;
dopo la guerra essi furono impiegati per il trasporto della posta ed in seguito di passeggeri paganti.
Durante la guerra i tedeschi cominciarono a sperimentare la propulsione a getto ed i razzi: i loro
esperimenti crearono le premesse per ulteriori sviluppi sia dell’aviazione che dell’esplorazione dello
spazio. Grazie anche alle esperienze sui motori a reazione e sui razzi militari nel periodo della
Seconda guerra mondiale, il 4 ottobre 1957 gli scienziati sovietici misero in orbita una capsula
intorno alla Terra dando inizio all’era dello spazio.

Istituzioni e relazioni internazionali: il ruolo del potere pubblico57 .


La struttura istituzionale dell’economia mondiale è alla fine del XX secolo molto differente da
quella che era all’inizio del secolo: mutamenti nelle relazioni internazionali, nelle istituzioni
nazionali e all’interno dei singoli paesi, quali il ruolo dello stato, la natura e la dimensione
dell’impresa e il ruolo dell’istruzione.
L’economia mondiale fino al 1914 è stata dominata, letteralmente e metaforicamente, dall’Europa e
dagli Stati Uniti. In termini politici, gli imperi d’oltremare delle nazioni dell’Europa occidentale -
soprattutto Gran Bretagna, Francia e Germania - ma anche Olanda, Belgio, Danimarca e Italia -
sommati all’enorme territorio della Russia imperiale assicuravano loro il controllo di oltre i tre
quarti della superficie terrestre. Dal punto di vista economico, l’Europa e gli Stati Uniti erano
responsabili di oltre metà della produzione e del commercio internazionale.
La Prima guerra mondiale e le concomitanti rivoluzioni russe del 1917 alterarono alla radice questa
struttura. L’Unione Sovietica sostituì la Russia zarista con una nuova forma di organizzazione
economica. Scomparve l’impero asburgico, al cui posto sorsero diversi stati nazionali nuovi o
ampliati, con economie depauperate e in competizione reciproca. La Germania perse il suo impero
d’oltremare oltre ad una parte consistente del proprio territorio e della propria popolazione. I
restanti imperi europei sfruttavano le rispettive colonie con accresciuto fervore nazionalistico.
In Asia il Giappone, che controllava un piccolo impero prebellico, lo estese trasformandosi in
rilevante potenza economica. La partecipazione giapponese alla prima guerra mondiale era stata
motivata principalmente dal desiderio di strappare alla Germania i possedimenti nel Pacifico e le
concessioni in Cina. I giapponesi approfittarono altresì delle rivoluzioni russe per estendere la loro
influenza sulla Manciuria, dove insediarono un regime fantoccio (Manchukuo). Nel 1937 essi
provocarono un “incidente” militare e diedero inizio ad una guerra non dichiarata ma effettiva alla
Cina: conquistarono le città principali e ottennero il controllo dell’intera linea costiera.
La Seconda guerra mondiale portò sulla sua scia una radicale riorganizzazione delle relazioni
internazionali, con importanti conseguenze economiche. L’Europa perse la sua egemonia sia
politica che economica. La rivalità tra le due nuove superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione
Sovietica, si sostituì alla secolare litigiosità delle grandi potenze europee tradizionali. L’Europa
rimase divisa più nettamente e profondamente tra oriente e occidente di quanto non lo fosse mai
stata: un blocco orientale dominato dai sovietici ed un gruppo occidentale di paesi prevalentemente
democratici, in gran parte legati politicamente ed economicamente agli Stati Uniti.

57 ibidem, pp. 531-537.


41

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Nell’immediato dopoguerra le vecchie nazioni imperiali cercarono di mantenere o reimporre la


propria autorità sui vecchi possedimenti d’oltremare, ma le nuove realtà politiche ed economiche le
privarono ben presto delle loro illusioni.
Il Giappone, devastato dai bombardamenti americani e soprattutto dallo scoppio delle due bombe
atomiche, dovette subire circa cinque anni di occupazione militare americana, durante i quali
rifondò radicalmente quasi tutte le maggiori istituzioni (con eccezione della dinastia imperiale)
sotto la supervisione delle autorità americane, trasformandosi in paese realmente democratico. Lo
scoppio della guerra in Corea rappresentò per il Giappone un potente stimolo economico che fu
messo a buon frutto. Nel volgere di pochi decenni il Giappone divenne la seconda economia
mondiale al di fuori del blocco sovietico.
La decolonizzazione e la creazione di nuovi stati, combinati con i tentativi di modernizzazione e di
conseguimento di uno sviluppo economico sostenuto messi in atto da altri paesi del Terzo Mondo,
hanno introdotto un elemento nuovo nelle relazioni economiche internazionali. Al confronto Est-
Ovest se ne è aggiunto uno Nord-Sud (paesi sviluppati contro paesi sottosviluppati). Numerose
nuove organizzazioni internazionali sono state istituite almeno in parte per facilitare un dialogo
costruttivo e per scongiurare aperte ostilità (Croce rossa internazionale, Unione postale universale).
La Società delle Nazioni, istituita dal trattato di Versailles del 1919 doveva garantire la pace
mondiale e di conseguenza la prosperità. La mancata ratifica del trattato da parte del Senato
americano e la mancata adesione degli Stati Uniti alla Società condannarono quest’ultima al
fallimento. La sua sezione economica raccolse e pubblicò utili dati statistici e bollettini tecnici e
introdusse metodi contabili standardizzati. L’Organizzazione internazionale del lavoro sopravvisse
allo scioglimento della Società, divenendo una subagenzia delle Nazioni Unite. L’Organizzazione
delle Nazioni Unite, succeduta alla Società delle Nazioni, ha avuto una storia leggermente più
fortunata come baluardo della pace ed ha istituito diverse agenzie specializzate in questioni
economiche e affini.

Uno dei cambiamenti fondamentali che hanno coinvolto tutte le nazioni del XX secolo è il ruolo
enormemente cresciuto del potere pubblico nell’economia. La crescita dello Stato nel XX secolo
deve in parte essere messa in relazione con le necessità finanziarie delle due guerre mondiali e con
altre considerazioni di difesa nazionale. Nel modello sovietico lo Stato assumeva la responsabilità
totale dell’economia attraverso un sistema globale di pianificazione economica e di controllo.
Durante le due guerre mondiali numerosi paesi belligeranti avevano fatto ricorso a controlli molto
estesi e alla partecipazione statale all’economia. Nel periodo tra le due guerre tutti i governi
tentarono di perseguire politiche di risanamento e stabilizzazione dell’economia incorporando per lo
più qualche forma di pianificazione economica, sebbene non globale o coercitiva quale quella
sovietica: per questo motivo i paesi dell’Europa occidentale vennero definiti “a economia mista”.
Le eccezioni sono:
1. Le attività direttamente produttive intraprese da o per conto dello Stato;
2. I trasferimenti, ossia la redistribuzione del reddito per mezzo dell’imposizione fiscale e delle
spese.
Nel XX secolo le industrie di proprietà statale divennero molto più comuni, talvolta a causa del
fallimento dell’impresa privata, talaltra in conseguenza della posizione ideologica del partito
politico al potere. I trasferimenti affondano le proprie radici nel tardo Ottocento, quando Bismarck
introdusse l’assicurazione obbligatoria dei lavoratori contro malattie e infortuni ed un sistema
pensionistico per anziani e disabili. Gli Stati Uniti non adottarono un assicurazione sociale
complessiva fino alle riforme del New Deal. Dopo la Seconda guerra mondiale, sotto forti pressioni
politiche, molti governi democratici estesero considerevolmente i rispettivi sistemi di sicurezza
sociale e gli altri trasferimenti. Per questo motivo essi sono detti “stati assistenziali” o “welfare
states”.

42

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Forme d’impresa, organizzazioni sindacali e istituzioni informali58 .


Le società a responsabilità limitata dalle azioni, o società di capitali moderna, era un’entità già ben
radicata nei paesi industriali avanzati all’inizio del XX secolo, ma era usata per lo più solo nelle
industrie di grandi dimensioni. Nelle altre attività (commercio, produzione artigianale, servizi e
agricoltura) prevaleva l’impresa familiare. La tendenza di lungo termine favoriva però la diffusione
della forma d’impresa delle società per azioni in ambiti di attività sempre più ampi. Grandi imprese
multiunitarie, le “catene” di negozi, giunsero a dominare la vendita al dettaglio.
Uno sviluppo correlato fu la comparsa di imprese conglomerate, grandi società finalizzate alla
produzione e alla vendita di un gran numero di prodotti, dai beni capitale più voluminosi a beni di
consumo quali cosmetici e articoli d’alta moda. Questo sviluppo fu facilitato dall’avvento di società
finanziarie (holding companies), la cui attività consiste esclusivamente nel possedere (e
amministrare) altre società. Sebbene la forma d’impresa della società di capitali fosse nata
inizialmente per venire incontro alle necessità della produzione di massa dettate dalla tecnologia, e
favorisse di conseguenza la costituzione di unità organizzative sempre più ampie, essa poteva essere
adattata anche ad attività su scala più limitata. La tendenza all’impiego della forma organizzativa
della società di capitali permetteva alle imprese di competere con successo con l’impresa
multinazionale.
All’inizio del XX secolo il diritto dei lavoratori di organizzarsi e contrattare collettivamente era
riconosciuto nella maggior parte dei paesi occidentali, ed in alcuni di essi le organizzazioni dei
lavoratori detenevano un potere considerevole nel mercato del lavoro.
In Europa occidentale l’oscillazione del numero di iscritti ai sindacati è stata simile a quella
statunitense. Una grossa differenza è che in Europa i sindacati sono molto più nettamente
identificati con specifiche forze politiche che non negli USA.
Nei paesi totalitari come Germani, Italia e Unione Sovietica il regime in carica abolì tutti i partiti
politici concorrenti così come i sindacati.
Accanto alla proliferazione di istituzioni formali istituite per legge nei singoli paesi o create da
trattati internazionali a livello sopranazionale, il XX secolo ha assistito all’affermazione di una
varietà crescente di istituzioni informali.

DISINTEGRAZIONE DELL’ECONOMIA INTERNAZIONALE59.


I mutamenti economici fondamentali si verificano normalmente nell’arco di lunghi periodi di
tempo. Le conseguenze dei mutamenti demografici, delle risorse, della tecnologia e persino delle
istituzioni. I mutamenti politici, invece, possono verificarsi in maniera piuttosto improvvisa,
portando eventualmente nella loro scia repentini mutamenti economici. Fu questo il caso della
Prima guerra mondiale.

Conseguenze economiche della prima guerra mondiale60 .


La distruttività concentrata della “Grande Guerra” superò quella di qualunque altro avvenimento
della storia fino alle massicce incursioni aeree e alle bombe atomiche della Seconda guerra
mondiale. Nel corso del 1915-18 gran parte dei danni furono subiti dalla Francia settentrionale, dal
Belgio, da una area dell’Italia nord-orientale e dai campi di battaglia dell’Europa orientale.
Ancor più nocive per l’economia, nel lungo periodo, della distruzione materiale, furono
l’interruzione e la disorganizzazione delle normali relazioni economiche i cui effetti non cessarono
con la fine delle ostilità.
Fino al 1914 l’economia aveva funzionato liberamente e nel complesso in modo efficiente.
Nonostante alcune restrizioni sotto forma di tariffe protezionistiche, monopoli privati e cartelli
internazionali, il grosso dell’attività economica, sia nazionale che internazionale, era regolata dal
libero mercato. Durante la guerra i governi di ciascuno stato belligerante ed alcuni dei paesi non

58 ibidem, pp. 538-542.


59 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XIV.
60 ibidem, pp. 544-548.
43

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

belligeranti imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sulla distribuzione della forza
lavoro. Questi controlli stimolarono artificialmente taluni settori dell’economia, limitandone
artificialmente degli altri.
Un problema ancor più serio derivò dallo sconvolgimento del commercio estero e dalle forme di
guerra economica cui fecero ricorso i paesi in guerra, in particolare Gran Bretagna e Germania.
Gli scambi commerciali tra la Germania e gli altri naturalmente si interruppero subito, mentre gli
Stati Uniti, ancora in posizione di neutralità, si sforzarono di mantenere relazioni normali. La Gran
Bretagna, forte del suo dominio dei mari, impose immediatamente un blocco dei porti tedeschi;
questi ultimi, incapaci di attaccare frontalmente la flotta britannica, fecero ricorso ai sommergibili
nel tentativo di arrestare l’afflusso in Gran Bretagna di rifornimenti dall’estero. I sommergibili
evitavano il più possibile la flotta britannica e attaccavano i vascelli disarmati, sia neutrali che
britannici, senza distinguere tra navi passeggeri e mercantili. L’affondamento nel 1915 del
transatlantico britannico Lusitania provocò una vibrata protesta statunitense: nel gennaio 1917, al
fine di infliggere perdite economiche ingenti alla Gran Bretagna i tedeschi diedero il via ad una
guerra sottomarina illimitata che costrinse l’America ad entrare in guerra assicurando la vittoria
finale degli Alleati.
Strettamente legata allo svolgimento del commercio internazionale e all’imposizione di controlli
statali, la perdita dei mercati esteri rivelò effetti ancor più durevoli nel tempo. La Germania era
completamente tagliata fuori dai mercati d’oltremare e anche la Gran Bretagna fu costretta a
dirottare risorse dagli impieghi normali alla produzione bellica. Di conseguenza, molti paesi
d’oltreoceano decisero di fabbricare in proprio o acquistare da altri paesi extraeuropei le merci che
in precedenza avevano acquistato in Europa. Diversi paesi latinoamericani e asiatici fondarono
industrie manifatturiere, che protrassero dopo la guerra con dazi elevati. Gli Stati Uniti e il
Giappone conquistarono mercati d’oltremare precedentemente considerati riserva esclusiva delle
manifatture europee.
La guerra sconvolse anche l’equilibrio dell’agricoltura mondiale, determinando un notevole
aumento della domanda di generi alimentari e materie prime e stimolando sia territori già affermati
sia territori ancora vergini (in America Latina). Ciò condusse ad una sovrapproduzione e al crollo
dei prezzi negli anni seguenti la fine delle guerra: molti agricoltori americani, avendo investito in
tempo di guerra nell’aumento della superficie coltivata, quando i prezzi crollarono essi fallirono,
trovandosi nell’impossibilità di estinguere le ipoteche.
Oltre a perdere i mercati esteri, i paesi belligeranti europei subirono un’ulteriore emorragia di
entrate nel settore delle spedizioni marittime e dei servizi. Londra ed altri centri finanziari europei
persero parte delle entrate provenienti dalle attività bancarie e assicurative e da altri servizi
finanziari e commerciali trasferiti durante la guerra a New York o in Svizzera.
Un’altra grave perdita causata dalla guerra fu quella dei profitti derivanti dagli investimenti
all’estero. Prima della guerra la Gran Bretagna, la Francia e la Germania erano i più importanti
investitori. Poiché la Gran Bretagna e la Francia importavano più di quanto non esportassero, i
proventi degli investimenti contribuivano a pagar le importazioni in eccesso. Tutti e due i paesi
furono costretti a cedere parte dei loro investimenti esteri per finanziare l‘acquisto urgente di
materiale bellico.
Un ultimo stravolgimento delle economie nazionali e internazionali derivò dall’inflazione. Le
pressioni finanziarie della guerra costrinsero tutti i paesi coinvolti ad eccezione degli Stati Uniti, ad
abbandonare il gold standard, che nel periodo prebellico era servito a stabilizzare, o quanto meno
sincronizzare, i movimenti dei prezzi. Tutti i paesi in guerra dovettero far ricorso a ingenti prestiti e
all’emissione di cartamoneta per finanziare le operazioni belliche. Ciò determinò una lievitazione
dei prezzi, anche se non tutti nella stessa proporzione. La grande disparità nei prezzi, e
conseguentemente nel valore delle singole monete, rese più difficile la ripresa del commercio
internazionale ed ebbe anche gravi ripercussioni sul piano sociale e politico.

44

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Conseguenze economiche della pace61.


La pace di Parigi, come la sistemazione postbellica venne chiamata, invece di tentare di risolvere i
gravi problemi economici causati dalla guerra finì in realtà per inasprirli. I pacificatori non volevano
che accadesse questo: il loro errore fu che essi semplicemente non tennero conto delle realtà
economiche. Dai trattati di pace emersero due grandi categorie di difficoltà economiche: la crescita
del nazionalismo economico e i problemi monetari e finanziari.
I singoli trattati presero il nome dei sobborghi di Parigi, in cui vennero firmati. Il più importante fu
il Trattato di Versailles con la Germania. Esso restituiva l’Alsazia-Lorena alla Francia e autorizzava
i francesi ad occupare per quindici anni la valle carbonifera della Saar. Inoltre privava la Germania
del 13% del territorio prebellico e del 10% della sua popolazione del 1910. Le colonie africane e nel
Pacifico erano già state occupate dagli Alleati, che se ne videro confermato il possesso. La
Germania dovette cedere la marina da guerra, grosse quantità di armi e munizione e accettare
limitazioni alle proprie forze armate, l’occupazione alleata della Renania e altre condizioni dannose
e/o mortificanti. L’aspetto più umiliante di tutti fu la famosa clausola della “responsabilità della
guerra”. L’articolo 231 del trattato di Versailles, che dichiarava che lo stato tedesco accettava «le
responsabilità della Germania e dei suoi alleati per le vittime e i danni [...] causati dalla guerra.[...]».
Secondo il celebre libro “Le conseguenze economiche della pace” John Maynard Keynes prevedeva
conseguenze disastrose dai risarcimenti monetari richiesti alla Germania non solo per la Germania
stessa ma per tutta l’Europa.
L’impero austro-ungarico prebellico aveva adempiuto ad una preziosa funzione economica
permettendo l’esistenza di una larga area di libero scambio nel bacino del Danubio. I nuovi stati nati
dallo smembramento dell’impero, timorosi del dominio delle grandi potenze, affermarono il proprio
carattere nazionale nella sfera economica ponendosi l’obiettivo dell’autosufficienza: ciò impedirono
la ripresa economica dell’intera regione e ne accrebbero l’instabilità.
Durante la guerra civile la Russia scomparve dall’economia internazionale riemergendo in seguito
sotto il regime sovietico: lo stato divenne l’unico compratore e venditore negli scambi
internazionali valutando strategicamente le necessità e i vantaggi delle compravendite.
In occidente, paesi che precedentemente avevano dipeso in misura notevole dal commercio
internazionale introdussero una varietà di restrizioni tra cui tariffe protezionistiche,
contingentamenti e divieti di importazione. Contemporaneamente cercarono di stimolare le
esportazioni per mezzo di sussidi o provvedimenti analoghi.
La Gran Bretagna, leader del libero scambio internazionale, aveva imposto dazi come strumento
della finanza di guerra e per risparmiare spazio sulle navi. I dazi rimasero anche dopo la guerra
come politica protezionista ufficiale.
Gli Stati Uniti, che già prima della guerra avevano dazi relativamente elevati, li portarono alla fine
delle ostilità a livelli mai visti: tra il 1921 e il 1930 l’istituzione dei tassi passò principalmente
attraverso l’Emergency Tariff Act (1921), il Fordney McCumber Tariff Act (1922) e la Smoot-
Hawley Tariff (1930) creando i presupposti per quello che viene definito “neomercantilismo” e le
cui conseguenze nefaste comprendono le ritorsioni delle altre nazione i cui interessi venivano
pregiudicati.
Tale esagerato nazionalismo economico ebbe l’effetto opposto a quello che i suoi proponenti si
prefiggevano di raggiungere: livelli di produzione e di reddito più bassi invece che più elevati. I
disordini monetari e finanziari provocati dalla guerra e aggravati dai trattati di pace condussero col
tempo ad un completo collasso dell’economia internazionale. Al cuore di questi disordini era il
problema delle riparazioni che coinvolgeva i debiti di guerra interrelati e l’intero meccanismo della
finanza internazionale. L’insistenza degli statisti americani di trattare ogni questione isolatamente
senza riconoscere le reciproche relazioni fu determinante per i disastri che conseguirono.
Tra gli alleati europei i prestiti erano stati solamente nominali. Essi si aspettavano che sarebbero
stati cancellati alla fine della guerra, e consideravano naturalmente nella stessa luce i prestiti
americani. Gli Stati Uniti, invece, vedevano nei prestiti un’iniziativa commerciale. Pur

61 ibidem, pp. 548-558.


45

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

acconsentendo dopo la guerra ad una riduzione degli interessi sulla restituzione totale del capitale. A
questo punto si riaffacciò la questione delle riparazioni. La Francia e la Gran Bretagna pretesero che
la Germania pagasse non solo i danni arrecati ai civili, ma anche l’intero costo sopportato dai
governi alleati per la prosecuzione della guerra.
I tedeschi avevano cominciato a pagare in contanti e in natura già nell’agosto del 1919, ancor prima
che il trattato di pace fosse firmato, e molto prima che fosse noto il conto definitivo.
Con l’indebolimento delle economie europee e la precarietà dell’economia internazionale la
Francia, la Gran Bretagna e gli altri Alleati avrebbero potuto rimborsare gli Stati Uniti solo se
avessero ricevuto una somma equivalente a titolo di riparazioni. Ma la possibilità della Germania di
pagare le riparazioni dipendeva in definitiva dalla sua capacità di esportare più di quanto importasse
per ottenere la valuta estera o l’oro necessari per effettuare i pagamenti. Le restrizioni economiche
imposte fagli Alleati, insieme con la debolezza interna della repubblica di Weimar, resero tuttavia
impossibile per il governo tedesco ricavare un surplus sufficiente per i pagamenti annuali. Il valore
del marco tedesco cominciò a crollare in maniera disastrosa in conseguenza della forte pressione dei
pagamenti in conto riparazioni: la Germania sospese del tutto i pagamenti comportando le reazioni
di Francia e Belgio che occuparono la Ruhr e assunsero il controllo delle miniere di carbone e delle
ferrovie. I tedeschi risposero con la resistenza passiva: il governo stampò quantità enormi di
cartamoneta per indennizzare gli operai e i datori di lavoro della Ruhr, mettendo in moto un’ondata
d’inflazione incontrollata. Nel novembre 1923 il marco valeva letteralmente meno della carta su cui
era stampato: esso venne ritirato dalle autorità monetarie tedesche e sostituito con la Rentenmark,
equivalente a mille miliardi di vecchi marchi.
Le dannose conseguenze dell’inflazione non poterono essere confinate alla Germania. Tutti gli stati
succeduti alla monarchia asburgica soffrirono allo stesso modo di un’inflazione galoppante. La
Società delle Nazioni promosse un programma di stabilizzazione.
Dawes, banchiere e finanziere americano, raccomandò una graduale diminuzione dei pagamenti
annuali, la riorganizzazione della Reichsbank tedesca ed un prestito internazionale di 800 milioni di
marchi alla Germania. Il cosiddetto Prestito Dawes, i cui fondi furono raccolti in gran parte negli
Stati Uniti, permise alla Germania di riprendere il pagamento delle riparazioni e di tornare al gold
standard nel 1924. A questo prestito fece seguito un secondo afflusso di capitali americani in
Germania sotto forma di prestiti privati alle municipalità e alle grandi società tedesche, che presero
a prestito negli Stati Uniti somme notevoli da impiegare nella modernizzazione tecnica e nella
“razionalizzazione”. La Germania ottenne anche la valuta estera necessaria per pagare le
riparazioni.
L’inflazione causò una drastica redistribuzione del reddito e della ricchezza. La maggioranza dei
cittadini videro i propri risparmi spazzati in breve tempo e subirono un grave peggioramento del
tenore di vita. Ciò li rese sensibili agli appelli di politici estremisti.
Con la guerra la Gran Bretagna perse mercati e investimenti esteri, buona parte della marina
mercantile ed altre fonti estere di reddito. Tuttavia essa dipendeva come non mai dalle importazioni
di prodotti alimentari e materie prime, e si trovò gravata di responsabilità mondiali ancor più
onerose in qualità di paese più forte tra i vincitori europei e come amministratrice di nuovi territori
oltremare. Era necessario esportare, tuttavia le fabbriche e le miniere rimanevano inoperose mentre
la disoccupazione saliva. L’unica soluzione per la disoccupazione fu il sussidio, un sistema di
pagamenti assistenziali inadeguato, molto oneroso per un bilancio già sottoposto a tensioni
eccessive. La politica economica del governo prevedeva un forte ridimensionamento delle spese che
privò la nazione degli interventi di espansione e modernizzazione delle infrastrutture.
La Gran Bretagna aveva abbandonato nel 1914 il gold standard. Considerata la posizione prebellica
di Londra quale centro indiscusso dei mercati finanziari mondiali, esistevano forti pressioni per un
rapido ritorno al gold standard per scongiurare l’ulteriore erosione della sua preminenza finanziaria:
ciò avvenne nel 1925 per decisione del cancelliere dello Scacchiere, Winston Churchill. Per
mantenere la competitività delle industrie britanniche fu necessario comprimere i salari che indusse
ad una redistribuzione del reddito in favore dei possessori di rendite e a spese dei lavoratori.

46

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Nonostante i problemi britannici, tra il 1924 e il 1929 sembrò che si fosse effettivamente tornati alla
normalità. La riparazione dei danni materiali era un fatto per lo più compiuto, e con l’istituzione
della Società delle Nazioni sembrava che fosse albeggiata una nuova era delle relazioni
internazionali. Le basi della prosperità di Stati Uniti, Francia e Germania dipendeva dal continuo
afflusso spontaneo di fondi dall’America alla Germania.

La Grande Depressione (1929-33)62.


A differenza dell’Europa, gli Stati Uniti uscirono dalla guerra più forti che mai. Essi erano passati
da paese debitore netto a creditore netto, avevano strappato ai produttori europei nuovi mercati sia
in patria che all’estero e godevano di una bilancia commerciale estremamente favorevole. La nuova
prosperità era distribuita in modo estremamente ineguale tra le classi medie urbane da un lato e i
lavoratori di fabbrica e gli agricoltori dall’altro.
Nel 1928 le banche e gli investitori americani cominciarono a limitare gli acquisti di titoli tedeschi e
di altri paesi per investire i propri fondi sul mercato azionario di New York. Durante il boom
speculativo del “great bull market” numerosi individui con redditi modesti furono tentati
dall’acquisto di titoli a credito. L’Europa stava già avvertendo la tensione provocata dalla
cessazione degli investimenti americani all’estero e persino l’economia americana aveva smesso di
crescere.
Il 24 ottobre del 1929 (“giovedì nero”) un ondata di vendite per panico nel mercato azionario fece
crollare i prezzi dei titoli e cancellò milioni di dollari che esistevano solo sulla carta. Una seconda
ondata di vendite si ebbe il 29 ottobre (“martedì nero”). Le banche richiesero il pagamento dei
prestiti effettuati, obbligando altri investitori a gettare le proprie azioni sul mercato a qualunque
prezzo si potesse spuntare. Gli americani che avevano investito in Europa bloccarono ogni ulteriore
investimento e vendettero quanto possedevano per riportare in patria i capitali. Il ritiro dei capitali
dall’Europa continuò per tutto il 1939, sottoponendo l’intero sistema finanziario a tensioni
insopportabili.
Il crollo del mercato azionario non fu la causa della depressione, che era già iniziata, ma un chiaro
segnale di depressione. Nel primo trimestre del 1931 il commercio estero complessivo era crollato a
meno di due terzi di quello corrispondente al periodo del 1929. Il pagamento in conto riparazioni
della Germania fu posticipato di un anno. Molti paesi abbandonarono il gold standard: in assenza di
un sistema internazionale concordato, i valori delle valute oscillarono incontrollabilmente spinti
dalle variazioni dell’offerta e della domanda, e influenzati dalle fughe di capitali e dagli eccessi di
nazionalismo economico che si riflettevano in variazioni tariffarie di ritorsione. Gli scambi
internazionali caddero drasticamente tra il 1929 e il 1932, inducendo analoghe contrazioni della
produzione manifatturiera, dell’occupazione e del reddito pro capite.
Una delle caratteristiche fondamentali delle scelte di politica economica del 1930-31 era stata
l’unilateralità della loro applicazione: le decisioni di sospendere il gold standard e di imporre dazi e
contingenti erano state prese dai governi nazionali senza consultazioni o accordi internazionali.
Nel frattempo le riparazioni e i debiti di guerra caddero nel dimenticatoio. L’ultimo grande tentativo
di dar vita ad una cooperazione internazionale che ponesse termine alla crisi economica fu la
Conferenza monetaria mondiale del 1933 proposta ufficialmente dalla Società delle Nazioni.
L’ordine del giorno prevedeva accordi per ripristinare il gold standard, ridurre le tariffe e i
contingenti sulle importazioni e mettere in atto altre forme di cooperazione internazionale ma la
cooperazione fallì con la nuova presidenza Roosevelt.
Per fronteggiare l’emergenza, Roosevelt dispose inizialmente la chiusura delle banche per otto
giorni, affinché il sistema bancario fosse in grado di riorganizzarsi, e formulò i “provvedimenti dei
cento giorni” in cui si costituivano le misure di emergenza per puntellare l’economia nazionale (tra
cui l’abbandono del gold standard).
Le cause che provocarono la depressione sono tuttora controverse. Per alcuni la causa fu prima di
tutto monetaria: una drastica diminuzione della quantità di denaro disponibile nelle maggiori

62 ibidem, pp. 558-564.


47

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

economie industriali, Stati Uniti in particolare che contagiò il resto del mondo. Per altri le cause
devono essere cercate nel settore reale: un’autonoma contrazione dei consumi e delle spese per
l’investimento che si propagò a tutto il sistema economico e al mondo attraverso il meccanismo
moltiplicatore-acceleratore. Altre spiegazioni prevedevano la precedente depressione agricola,
l’estrema dipendenza dei paesi del Terzo Mondo da mercati instabili, scarsità o cattiva distribuzione
delle risorse mondiali di oro.
Le conseguenze della depressione nel lungo periodo furono:
1. la crescita dell’intervento statale nell’economia,
2. un graduale mutamento di atteggiamento verso la politica economica (“rivoluzione
keynesiana”),
3. i tentativi da parte di paesi latinoamericani e di altre nazioni del Terzo Mondo di sviluppare
industrie che fornissero un’alternativa alle importazioni,
4. l’affermazione di movimenti politici estremistici sia di destra sia di sinistra, in particolare in
Germania.
Dopo la guerra la Gran Bretagna non fu più in grado di svolgere la funzione di guida a livello
mondiale nel campo economico-commerciale-finanziario. Gli Stati Uniti, l’economia dominante,
erano restii ad accettare il ruolo di guida, riluttanza esemplificata dalla politica dell’immigrazione,
da quella tariffaria, da quella monetaria e dall’atteggiamento nei confronti della cooperazione
internazionale.

Tentativi diversi di ricostruzione63.


Quando Roosevelt entrò in carica come trentesimo presidente l’industria era praticamente ferma,
mentre il sistema bancario era sull’orlo del collasso totale. La legge forse più caratteristica
dell’intero periodo fu il National Industrial Recovery Act. Esso istituì una National Recovery
Administration (NRA) con il compito di sovrintendere alla stesura di “norme di concorrenza leale”
per ogni industria da parte dei rappresentanti delle industrie stesse.
L’Nra aveva sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia. Era
essenzialmente un sistema di pianificazione economica privata (autogoverno industriale), con
supervisione governativa per salvaguardare l’interesse pubblico e garantire il diritto del mondo del
lavoro di organizzarsi e contrattare collettivamente.
Nel 1935 l’Nra fu dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema: Roosevelt raggiunse lo stesso
obiettivo con l’approvazione di nuove leggi ma, nel caso dell’industria, preferì dare inizio ad una
campagna “antitrust”. Il risanamento industriale fu deludente e nel 1937 l’economia entrò in una
nuova fase di recessione. Per quanto alcune delle riforme del New Deal fossero importanti di per se
stesse, il sistema del New Deal nel complesso non fu più efficace nell’affrontare la depressione di
quanto lo fossero i programmi attuati contemporaneamente in Europa.
Nessuna nazione occidentale aveva sofferto per la guerra più della Francia. Gran parte dei
combattimenti sul fronte occidentale aveva avuto luogo nella sua regione più ricca. Oltre metà della
produzione industriale francese d’anteguerra era localizzata nell’area devastata dalla guerra che era
inoltre una delle regioni agricole più importanti: da qui si ebbe la pretesa della Francia che la
Germania pagasse la guerra.
Facendo assegnamento sulle riparazioni tedesche per affrontare le spese, il governo francese
intraprese immediatamente un esteso programma di ricostruzione materiale delle aree danneggiate
dalla guerra, che ebbe immediatamente l’effetto di stimolare l’economia a nuovi record produttivi.
Quando le riparazioni tedesche non si concretizzarono nella cifra prevista, i metodi approssimativi
impiegati per finanziare la ricostruzione imposero il loro pedaggio. Il problema si aggravo con la
costosa e inutile occupazione della Ruhr. Il franco si deprezzò più nei primi sette anni di pace che
durante la guerra. Un governo di coalizione stabilizzò nel 1926 il franco a circa un quinto del suo
valore prebellico attuando drastiche economie e rigidi aumenti tributari provocando l’ostilità della

63 ibidem, pp. 564-571.


48

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

classe percettrice di rendite, che perse con l’inflazione circa l’80% del proprio potere d’acquisto.
Come in Germania, l’inflazione contribuì alla crescita degli estremismi sia di destra che di sinistra.
Il franco così stabilizzato era stato in pratica svalutato rispetto alle altre valute maggiori. Ciò
stimolò le esportazioni, scoraggiò le importazioni e determinò un afflusso di oro. Per questo la
depressione colpì la Francia più tardi di altri paesi e fu forse meno severa.
Nel 1936 tra partiti politici di sinistra, comunisti, socialisti e radicali, si coalizzarono nel Fronte
popolare, dando vita ad un governo guidato dall’esponente socialista Léon Blum. Il governo del
Fronte popolare nazionalizzò la Banca di Francia e le ferrovie ed emanò una serie di provvedimenti
di riforma in materia di lavoro, come la settimana lavorativa di quaranta ore, l’arbitrato obbligatorio
in caso di conflitti di lavoro e le ferie pagate per i lavoratori dell’industria. Sul fronte più
impegnativo del risanamento economico il Fronte popolare non si rivelò più efficace dei precedenti
governi francesi.
I paesi più piccoli dell’Europa occidentale, fortemente dipendenti dal commercio internazionale,
subirono tutti le conseguenze della depressione ma non tutti allo stesso modo. Negli anni Venti,
quando Gran Bretagna e Francia tornarono al gold standard, molti paesi minori adottarono il
sistema della libera convertibilità con le monete a parità aurea. Le loro banche centrali, invece di
mantenere riserve in oro col quale convertire le rispettive valute nazionali, conservarono al
medesimo fine depositi nelle banche centrali dei paesi più grandi. Dopo l’abbandono del gold
standard da parte della Gran Bretagna nel 1931, molti paesi che con essa avevano intensi scambi
commerciali abbandonarono la parità aurea e allinearono le loro valute alla lira sterlina: nacque il
“blocco della sterlina”. Quando nel 1933 gli Stati Uniti svalutarono il dollaro, gran parte dei loro
partner commerciali cercarono di allineare le rispettive valute al dollaro. In Europa ciò lasciò la
Francia al centro del “blocco dell’oro”, quei paesi cioè che cercavano di conservale la convertibilità
in oro (Svizzera, Belgio e Paesi Bassi). Quando anche i francesi svalutarono il franco spezzandone
il legame con l’oro, lo fecero nell’ambito di una limitata ripresa internazionale. Con l’accordo
monetario tripartito del 1936 i governi britannico, francese e statunitense si impegnarono a
stabilizzare i tassi di cambio tra le rispettive monete per evitare svalutazioni a fini concorrenziali e
per contribuire in altro modo ad una restaurazione dell’economia internazionale.
Anche avvenimenti politici come l’affermazione del fascismo ebbero i loro aspetti economici.
Mussolini, avvalsosi del filosofo Giovanni Gentile per una razionalizzazione del fascismo,
glorificava l’uso della forza, vedeva nella guerra la più nobile delle attività umane, denunciava il
liberalismo, la democrazia, il socialismo e l’individualismo, deificava lo stato come suprema
manifestazione dello spirito umano e guardava con disprezzo al benessere materiale e considerava
le disuguaglianze umane non solo inevitabili ma desiderabili. Mussolini inventò lo stato
corporativo, una delle innovazioni più pubblicizzate e meno riuscite del regime. Esso era l’antitesi
sia del capitalismo che del socialismo. Pur permettendo l’esistenza della proprietà privata, gli
interessi sia dei proprietari che dei lavoratori erano subordinati a quelli più elevati dell’intera
società, rappresentata dallo Stato. Tutte le industrie del paese furono organizzate in dodici
“corporazioni”, l’equivalente delle associazioni di settore. I sindacati precedentemente esistenti
furono soppressi. Tra le funzioni delle corporazioni erano la determinazione dei prezzi, dei salari e
delle condizioni di lavoro e la previdenza sociale. Le corporazioni agirono da associazioni
capitalistiche di settore il cui scopo era di accrescere il reddito degli uomini d’affari e degli
amministratori di partito a spese dei lavoratori e dei consumatori.
Nonostante grandi opere pubbliche e programmi di riarmo, l’Italia soffrì duramente durante la
depressione. Nel tentativo di porvi rimedio il governo fascista italiano creò grandi aziende statali, in
settori chiave dell’economica, il cui interessa andava più al mantenimento di alti livelli
occupazionali che all’aumento dell’efficienza.
Più efficace degli altri paesi occidentali a combattere la depressione fu la Germania nazista, il primo
grande paese industriale a conseguire un completo risanamento tramite un grandioso programma di
opere pubbliche che si fuse gradualmente con un programma di riarmo. Il regime nazista abolì le
contrattazioni collettive tra lavoratori e proprietari sostituendole con comitati di “amministratori”
del lavoro con pieni poteri in materia di determinazione di salari, orari e condizioni di lavoro.
49

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

A differenza del regime totalitario russo, i nazisti non ricorsero ad una massiccia nazionalizzazione
dell’economia: per raggiungere i loro fini si affidarono alla coercizione e ai controlli.
Uno dei principali obiettivi economici dei nazisti era rendere autosufficiente l’economia tedesca
nell’eventualità di una guerra. Ordinarono agli scienziati di inventare nuove forme sintetiche di
prodotti di prima necessità e per l’esercito che potessero essere fabbricate con materie prime
disponibili in Germania. Prima dell’avvento del nazismo, la Germania aveva adottato controlli sui
cambi per evitare la fuga di capitale escogitando complessi controlli finanziari e monetari intesi ad
accrescere il controllo della Reichsbank sui cambi esteri. Furono siglati accordi commerciali con
paesi dell’Europa orientale e dei Balcani che prevedevano il baratto tra manufatti tedeschi e prodotti
alimentari e materie prime, evitando in tal modo il ricorso all’oro o a valute estere di cui c’era
scarsa disponibilità. Tale politica riuscì a legare in modo molto efficace l’Europa orientale
all’economia bellica tedesca.
La Spagna, essendo sfuggita al coinvolgimento nella Prima guerra mondiale, evitò molti dei
problemi e dei dilemmi che assillavano gli altri paesi europei. La sua industria trasse qualche
beneficio dalla domanda bellica, ma il paese era ancora prevalentemente agrario ed afflitto da
un’agricoltura a bassa produttività. Nel 1939 anche la Spagna si ritrovò sotto un regime autarchico
simile a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista.

Le rivoluzioni russe e l’Unione Sovietica64.


La Russia imperiale entrò nella Prima guerra mondiale prevedendo una rapida vittoria sulle Potenze
Centrali. All’inizio del 1917 l’economia era nel caos. All’inizio di marzo scoppiarono a Pietrogrado
scioperi e sommosse. I dirigenti degli scioperanti e dei soldati si unirono ai rappresentati dei vari
partiti socialisti in un Soviet (consiglio) dei rappresentanti degli operai e dei soldati. Un comitato
della Duma (il parlamento) decise di formare un governo provvisorio che ottenne l’abdicazione
dello zar. Il nuovo regime proclamò immediatamente la libertà di parola, di stampa e di religione,
annunciò che avrebbe realizzato riforme sociali e ridistribuito la terra.
Lenin, leader della fazione bolscevica dei partiti socialisti, fece ritorno a Pietrogrado affermando
rapidamente la propria autorità sul soviet e cominciando una campagna inesorabile contro il
governo provvisorio. Lenin formò un nuovo governo, chiamato Consiglio dei commissari del
popolo. La rivoluzione d’ottobre fu seguita da circa quattro anni di atroci conflitti intestini e guerre
civili. Nel marzo del 1918 il governo pose fine alla guerra con la Germania col trattato di Brest-
Litovsk. Nel tentativo di sopravvivere e mantenere il potere, i bolscevichi, che ora si chiamavano
comunisti, introdussero una drastica politica che fu detta comunismo di guerra. Essa comprendeva:
• la nazionalizzazione dell’economia urbana,
• la confisca e la distribuzione della terra ai contadini,
• un nuovo sistema giuridico
• l’introduzione nel governo di un partito unico, la “dittatura del proletariato”, guidato da Lenin.
Nel 1922 Lenin decise di creare una federazione, almeno di nome, contro il parere dello specialista
in problemi delle nazionalità, il georgiano russificato Iosif Stalin. In quell’anno nacque l’Unione
delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS - CCCP Союз Советских Социалистических
Республик). L’economia dopo la firma del Trattato di Riga (pace con la Polonia) era però nel caos:
la politica del comunismo di guerra, col suo forte elemento di terrore, non poteva servire da
fondamento per l’economia nel lungo termine. La produzione industriale era crollata e la politica
agricola non aveva dato buoni risultati. I contadini, di cui i bolscevichi avevano legittimato le
occupazioni di terre, rifiutavano di consegnare i loro prodotti a prezzi artificialmente bassi imposti
dal governo.
Di fronte alla prospettiva della paralisi economia e all’eventualità di una grande rivolta contadina,
Lenin capovolse radicalmente gli indirizzi precedenti con la cosiddetta Nuova Politica Economica
(NEP), un compromesso con i principi capitalistici dell’economi che Lenin definì “un passo indietro
per andare avanti”.

64 ibidem, pp. 571-577.


50

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

• Una speciale imposta in natura sulla produzione agricola sostituì le requisizioni obbligatorie.
• Ai contadini fu permesso di vendere le eccedenze ai liberi prezzi di mercato.
• Le piccole industrie furono riprivatizzate ed autorizzate a produrre per il mercato.
• Imprenditori stranieri affittarono impianti esistenti ed ottennero speciali concessioni per
l’introduzione di nuove industrie. Tuttavia i settori dominanti dell’economia rimasero di proprietà
statale e sotto gestione statale.
La Nep prevedeva inoltre:
• un vigoroso programma di elettrificazione,
• la fondazione di scuole tecniche per ingegneri e dirigenti d’industria,
• la creazione di un’organizzazione più sistematica per i settori dell’economia controllati dallo
stato.
Nel 1926-27 i livelli antebellici erano stati sostanzialmente riguadagnati. Alla morte di Lenin, che
non aveva esplicitamente designato un suo successore, i maggiori contendenti a sostituirlo erano
Iosif Stalin e Lev Trockij. Stalin era un fedele seguace di Lenin e dei vecchi bolscevichi: egli si
avvalse della propria carica di segretario generale del Comitato centrale del partito per formare
coalizioni nel partito al fine di neutralizzare i propri rivali, Trockij primo tra tutti. Mentre Trockij
propugnava la rivoluzione mondiale, Stalin finì con lo schierarsi con coloro che preferivano
costruire un forte stato socialista in Unione Sovietica. Nel 1928 il controllo di Stalin sul partito e sul
paese era pressoché assoluto.
Il programma staliniano di “socialismo in un solo paese” implicava un massiccio rafforzamento
dell’industria russa per rendere il paese autosufficiente e potente nei confronti di un mondo
largamente ostile: era necessaria a tal fine una pianificazione economica globale. Tutte le risorse
dello stato sovietico furono mobilitate direttamente o indirettamente verso questa direzione sotto la
supervisione del Gosplan (Commissione statale di pianificazione). Il meccanismo della
pianificazione si sostituì al mercato senza riguardo per i costi, i profitti o le preferenze dei
consumatori. I sindacati furono usati per mantenere la disciplina nei luoghi di lavoro, impedire
scioperi e sabotaggi e stimolare la produttività. L’agricoltura è stata per l’Unione Sovietica uno dei
settori con u problemi più complessi e persistenti. Durante la Nep i contadini avevano rafforzato il
tradizionale attaccamento alla terra e al bestiame di loro proprietà, ma Stalin insistette che essi
dovevano essere organizzati in aziende agricole statali. Lo Stato, proprietario della terra, del
bestiame e delle attrezzature, nominava un dirigente di professione; i contadini che coltivavano la
terra non erano che proletariato agrario.
I costi del piano quinquennale di Stalin furono enormi, specialmente in termini umani. Nella sola
collettivizzazione dell’agricoltura vi furono milioni di morti per fame o giustiziati.
Nel 1933 il governo inaugurò il secondo piano quinquennale, in cui i beni di consumo dovevano
essere particolarmente privilegiati; in realtà il governo continuò a dedicare una quota
considerevolissima delle risorse ai beni capitale e all’equipaggiamento militare. Nonostante i grandi
incrementi della produzione industriale, il paese rimase prevalentemente agrario, e l’agricoltura era
il settore più debole.
Il terzo piano quinquennale, varato nel 1938, fu interrotto dall’invasione tedesca del 1941, e
l’Unione Sovietica ripiombò in qualcosa che somigliava al comunismo di guerra.

Aspetti economici della Seconda guerra mondiale65 .


La Seconda guerra mondiale fu di gran lunga la più massiccia e distruttiva delle guerre. Per taluni
aspetti rappresentò un’estensione ed un’intensificazione di caratteristiche che si erano già
manifestate nella Prima guerra mondiale, quali il crescente ricorso alla scienza come fondamento
della tecnologia militare, lo straordinario grado di reggimentazione e pianificazione dell’economia e
della società e l’uso raffinato e sofisticato della propaganda sia all’interno che all’estero.

65 ibidem, pp. 578-580.


51

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

La guerra del 1940-45 coinvolse direttamente o indirettamente i popoli di ogni continenti e di quasi
ogni nazione del mondo. A differenza della precedente, che era stata anzitutto una guerra di
posizione, essa fu una guerra di movimento, sulla terra, nell’aria, sui mari.
La tecnologia a base scientifica fu responsabile di molte nuove armi speciali, sia offensive che
difensive: dal radar alle bombe volanti, dall’aereo a reazione alle bombe atomiche. Le capacità
economiche e soprattutto industriali dei belligeranti acquistarono una nuova importanza. L’arma
segreta finale dei vincitori fu l’enorme capacità produttiva dell’economia americana.
I danni alle cose furono molto più ingenti che nella Prima guerra mondiale, a causa soprattutto dei
bombardamenti aerei. Fra i bersagli preferiti furono le infrastrutture di trasporto, in particolare
ferrovie, porti e bacini. Andarono distrutti tutti i ponti sulla Loira e tutti quelli del Reno (tranne
l’unico ponte sopravvissuto usato dagli Alleati per penetrare in Germania).
Tutti i paesi in conflitto fecero ricorso alla guerra economica: la Gran Bretagna impose nuovamente
un blocco ai quali i tedeschi replicarono con una guerra sottomarina illimitata. La Germania poteva
contare sulle risorse dei paesi occupati: nel 1943 si appropriò di oltre il 36% del reddito nazionale
francese e nel 1944 il 30% della sua forza lavoro industriale consisteva in lavoro forzato.
Alla fine della guerra in Europa la produzione industriale e agricola fu minore della metà di quella
di dieci anni prima. La struttura istituzionale dell’economia aveva subito gravi danni.

LA RICOSTRUZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE (1945-73)66


Alla fine del conflitto tutti i paesi belligeranti ad eccezione della Gran Bretagna e dell’Unione
Sovietica erano stati sconfitti militarmente e occupati dal nemico.
La Gran Bretagna, pur non occupata, subì danni gravissimi dai bombardamenti aerei delle sue
popolose città e dall’acuta scarsità di cibo e di altri prodotti di prima necessità. Prima della guerra le
importazioni europee erano state superiori alle esportazioni, e la differenza era stata pagata
dall’Europa con i proventi derivanti dagli investimenti esteri e dai servizi di trasporto e finanziari.
Dopo la guerra, gli investimenti esteri liquidati, i mercati finanziari sconvolti e i mercati d’oltremare
dei manufatti europei conquistati dagli americani, sull’Europa incombeva la tetra prospettiva di
poter provvedere solamente alle necessità di base della sua popolazione. Vincitori e vinti erano
accomunati dalla loro povertà. Le necessità più urgenti erano gli aiuti di emergenza e la
ricostruzione.
Gli aiuti, provenienti in gran parte dall’America, vennero attraverso due canali principali. Durante
l’avanzata degli eserciti alleati attraverso l’Europa occidentale, essi distribuirono razioni di
emergenza e medicinali alle provate popolazioni civili. L’altro canale dei soccorsi fu la United
nations relief and rehabilitation administration (Unrra).
Dopo il 1947 l’opera dell’Unrra fu proseguita dall’Organizzazione internazionale per i rifugiati,
l’Organizzazione mondiale della sanità ed altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite, nonché
da organismi ufficiali o di volontariato dei singoli paesi. A differenza dell’Europa, gli Stati Uniti
uscirono dalla guerra più forti che mai. Sfuggite ai guasti diretti della guerra, le loro industrie e la
loro agricoltura trassero vantaggio dalla forte domanda bellica, che permise un pieno uso della
capacità produttiva, la modernizzazione tecnologica e l’espansione. Molti economisti e funzionari
statali americani temevano che alla guerra sarebbe seguita una grave depressione, ma dopo
l’abolizione del razionamento e dei prezzi controllati, che durante la guerra avevano mantenuto i
prezzi ad un livello artificiosamente basso, la domanda fino allora repressa di beni resi scarsi dalla
guerra determinò un’inflazione postbellica che nel 1948 aveva portato al raddoppio dei prezzi.
L’inflazione tenne in movimento le ruote dell’industrie e permise agli Stati Uniti di concedere gli
aiuti economici necessari per la ricostruzione dell’Europa e degli altri paesi devastati dalla guerra e
colpiti dalla miseria67.

66 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XV.
67 ibidem, pp. 581-582.
52

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Pianificazione dell’economia postbellica68.


Uno dei compiti più urgenti che attendevano i popoli europei dopo il soddisfacimento dei bisogni
legati alla sopravvivenza era il ripristino della normalità nella giustizia, nell’ordine pubblico e
nell’amministrazione statale.
La stessa enormità dell’impresa della ricostruzione richiedeva un ruolo dello stato nella vita
economica e sociale molto più ampio che non nel periodo prebellico. Alla ricostruzione poteva
essere applicata anche tutta l’esperienza che l’apparato burocratico aveva accumulato durante la
guerra.
La conseguenza fu una diffusa domanda da parte dell’opinione pubblica di riforme politiche, sociali
ed economiche. Nella sfera economica la risposta a questa domanda assunse la forma della
nazionalizzazione di settori chiave dell’economia, quali i trasporti, la produzione di energia e
segmenti del sistema bancario; l’estensione del sistema previdenziale e dei servizi sociali e
l’assunzione da parte dello Stato di maggiori responsabilità per il mantenimento di livelli economici
soddisfacenti. Negli stessi Stati Uniti fu approvato nel 1946 l’Employment Act che istituiva il
comitato dei consiglieri economici del presidente e obbligava il governo federale a mantenere alti
livelli occupazionali. Nel 1941 Roosevelt e Churchill avevano firmato la Carta Atlantica, che
impegnava i rispettivi paesi nel tentativo di ripristinare un sistema mondiale di scambi multilaterali
in luogo del bilateralismo degli anni Trenta (fu in realtà solo una dichiarazione di buoni intenti).
Nel 1944, alla conferenza internazionale di Bretton Woods, furono poste le fondamenta di due
grandi istituzioni internazionali. Al Fondo Monetario Internazionale (FMI) veniva attribuita la
responsabilità di gestire il sistema dei tassi di cambio tra le varie monete mondiale ed inoltre di
finanziare eventuali squilibri a breve termine nei pagamenti tra i vari paesi. La Banca internazionale
per la ricostruzione e lo sviluppo, nota anche come Banca Mondiale, doveva concedere prestiti a
lungo termine per la ricostruzione delle economie devastate dalla guerra e, in seguito, per lo
sviluppo delle nazioni più povere. Queste due istituzioni divennero operative nel 1946.
I partecipanti alla conferenza di Bretton Woods avevano previsto inoltre la creazione di
un’Organizzazione internazionale per il commercio che avrebbe dovuto formulare le regole di
scambi equi fra le nazioni. Ulteriori conferenze furono organizzate a questo fine, ma il meglio che si
poté ottenere fu un molto più limitato Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General
Agreement on Tariffs and Trade, GATT), firmato a Ginevra nel 1947. I firmatari si impegnavano a
estendere reciprocamente la clausola della nazione più favorita (cioè a non discriminare nei
confronti degli altri paesi), a cercare di ridurre i dazi, a non ricorrere a restrizioni quantitative
(contingenti), abolendo quelli già esistenti, e a consultarsi prima di ogni importante cambiamento
politico. Nel 1944, infine, il Gatt è stato sostituito dalla World Trade Organization (Wto).

Il Piano Marshall e i “miracoli” economici69.


Verso la metà o la fine del 1947 buona parte dei paesi dell’Europa occidentale, era tornata ai livelli
prebellici di produzione industriale. Nel caos monetario e finanziario degli anni Trenta praticamente
tutti i paesi europei e molti altri extraeuropei avevano adottato controlli sui cambi; le loro valute
non erano cioè convertibili in altre se non su autorizzazione concessa dalle autorità monetarie.
Il rimedio alla scarsità di merci poteva essere trovato soprattutto oltreoceano, ma per acquistare
occorrevano dollari. Il denaro concesso dagli Stati Uniti sotto forma di aiuti e sovvenzioni per il
risanamento contribuì ad alleviare questa penuria di dollari nei primi due anni del dopoguerra.
La crescente “guerra fredda” tra gli Stati Uniti e l’URSS e il ruolo dei partiti comunisti nella vita
politica di diversi paesi dell’occidente europeo, in particolare la Francia e l’Italia, davano alle
autorità americane motivo di preoccupazione sulla stabilità politica dell’Europa occidentale.
Il 5 giugno 1947 il generale Marshall, nominato segretario di stato dal presidente Truman,
annunciava che se i paesi europei avessero presentato una richiesta di assistenza congiunta e
coerente, il governo statunitense avrebbe risposto in modo soddisfacente. Fu questa l’origine del

68 ibidem, pp. 583-585.


69 ibidem, pp. 585-592.
53

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Piano Marshall. Nel luglio 1947 si incontrarono a Parigi i rappresentanti di sedici nazioni
dell’Europa occidentale, autodefinitisi Commissione di cooperazione economica europea (Ccee).
Nella primavera del 1948 il Congresso approvò il Foreign Assistance Act, che istituiva lo European
Recovery Program (Erp) la cui gestione era affidata alla Economic cooperation adiministration
(Eca). Allo stesso tempo non c’era totale unanimità in Europa sugli obiettivi del programma.
La Gran Bretagna aveva sperato in maggiori aiuti bilaterali da parte degli Stati Uniti, invece di
vederseli incanalati attraverso un’organizzazione europea.
I francesi erano preoccupati dal ruolo che la Germania avrebbe potuto avere nella futura
organizzazione. Dopo la deliberazione del Congresso la Ccee si trasformò nell’Organizzazione
europea per la cooperazione economica (Oece), responsabile, insieme con l’Eca, della distribuzione
degli aiuti americani.
La Germania venne divisa in due stati distinti: la Repubblica federale tedesca e la Repubblica
democratica tedesca. Anche Berlino fu divisa in quattro settori, poi ridotti a due: Berlino Est,
capitale della Rdt, e Berlino Ovest, appartenente alla Rft.
La conferenza di Potsdam aveva previsto lo smantellamento dell’industria degli armamenti e delle
altre industrie pesanti tedesche, il pagamento di riparazione ai vincitori e alle vittime
dell’aggressione nazista, rigorose limitazioni alla capacità produttiva tedesca ed un vigoroso
programma di denazificazione, che prevedeva il processo ai capi nazisti come criminali di guerra.
Le autorità sovietiche smantellarono molte fabbriche nella loro zona e le trasferirono in Russia a
titolo di riparazione. Dopo un breve tentativo delle potenze occidentali di ottenere riparazioni in
natura e di spezzare le grandi concentrazioni industriali esistenti nelle loro zone, esse compresero
che l’economia tedesca doveva essere lasciata integra per contribuire alla ripresa economica
dell’Europa occidentale. Capovolsero la loro politica prendendo misure atte a incoraggiare la
produzione tedesca.
Per stimolare la ripresa economica nel 1948 le potenze occidentali attuarono un riforma della
moneta tedesca, rimpiazzando lo svalutato e disprezzato Reichsmark nazista con il Deutschmark.
La risposta immediata e travolgente divenne nota come Wirtschaftswunder (miracolo economico).
Le merci precedentemente intercettate o vendute al mercato nero riapparvero; le fabbriche ripresero
a produrre e la Germania occidentale cominciò la sua sensazionale rinascita economica. Nel
frattempo la Germania veniva integrata nell’European Recovery Program. Nel maggio del 1949
nasceva la Repubblica federale di Germania. Per non essere da meno, l’Unione Sovietica fondò
subito la cosiddetta Repubblica democratica tedesca, e nel mese di settembre fu tolto il blocco a
Berlino.
Con la Germania Occidentale pienamente integrata nell’Oece e nel Piano Marshall, il risanamento
economico dell’Europa occidentale poteva dirsi completo. Il Piano Marshall si concluse nel 1952
con un successo superiore alle attese.
Una delle più importanti nuove istituzioni fu l’Unione Europea dei Pagamenti (Uep). Uno dei
maggiori ostacoli allo sviluppo del commercio nell’immediato dopoguerra era la scarsità di valuta
estera, dollari in particolare, e la conseguente necessità di un conguaglio bilaterale degli scambi.
Nel giugno 1950, i paesi dell’Oece, forti di una sovvenzione di 500 milioni di dollari da parte degli
Stati Uniti, inaugurarono l’Uep. Questo strumento permise un libero commercio multilaterale
all’interno dell’Oece: si tenevano accurate registrazioni di tutti gli scambi fra paesi europei e alla
fine di ogni mese si tiravano le somme e si operavano le compensazioni. I debiti dei paesi con un
saldo passivo erano segnati su un contro centrale, e se il loro disavanzo era cospicuo una parte di
esso doveva essere pagata in oro o in dollari; ai paesi creditori, invece, erano riconosciuti dei crediti
sul medesimo conto, e in caso di crediti molto ingenti essi ne incassavano una parte in oro o dollari,
cosa che permetteva loro di importare di più dalle aree a moneta forte. Ciò incentivò i paesi
dell’Oece ad aumentare le esportazioni reciproche e a diminuire la propria dipendenza dagli Stati
Uniti e dagli altri fornitori d’oltreoceano. Nei due decenni successivi all’istituzione dell’Uep il
commercio mondiale crebbe ad un tasso medio annuo dell’8%. Gran parte di questa crescita si
verificò naturalmente in Europa, sia a livello intereuropeo che tra i paesi europei e quelli di altri
continenti. L’Uep ebbe tanto successo che, in concomitanza con la crescita globale degli scambi, i
54

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

paesi dell’Oece furono in grado nel 1958 di tornare alla libera convertibilità delle loro valute e ad
un pieno commercio multilaterale. Nel 1961 l’Oece si trasformò nell’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), alla quale aderirono gli Stati Uniti e il Canada (e in
seguito il Giappone e l’Australia): un’organizzazione di paesi industriali avanzati per coordinare gli
aiuti ai paesi sottosviluppati, cercare accordi su questioni di politica macroeconomica e dibattere
altri problemi di reciproco interesse.

Una crescita senza precedenti70.


Il quarto di secolo successivo alla seconda guerra mondiale vide il periodo più lungo di crescita
ininterrotta dei paesi industrializzati, e al ritmo più elevato mai raggiunto nel corso della storia il
tasso di crescita medio del prodotto nazionale loro per unità di lavoro fu tra il 1950 e il 1973 di
circa il 4,5%. La crescita fu particolarmente rapida in quei paesi che disponevano di un’abbondante
riserva di manodopera, risultato della contrazione della popolazione agricola (Giappone, Italia e
Francia)
Negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna, paesi che alla fine della guerra avevano i redditi
pro capite più elevati, la crescita fu più lenta che non nell’Europa occidentale continentale. I paesi
del gruppo industriale con redditi pro capite relativamente modesti - Italia, Austria, Spagna, Grecia
e Giappone - crebbero più velocemente della media.
L’espressione “miracolo economico” venne applicata per la prima volta al ragguardevole balzo in
avanti compiuto dalla Germania Occidentale dopo la riforma del 1948.
Gli aiuti americani svolsero un ruolo determinante nell’innescare la ripresa economica, sostenuta in
seguito dall’Europa con alti livelli di risparmi e investimenti. Vi furono momenti in cui la
concorrenza tra spesa per i consumi e spesa per investimenti determinò forti pressioni
inflazionistiche.
Negli anni della depressione e della guerra si era costituita una riserva di innovazioni tecnologiche
che attendeva per essere essa a frutto soltanto il capitale e il lavoro qualificato. Le economie
europee in realtà avevano ristagnato per un’intera generazione.
La modernizzazione tecnologica perciò accompagnò e contribuì in modo rilevante al cosiddetto
miracolo economico.
Altri fattori importanti furono l’atteggiamento e il ruolo della pubblica amministrazione. Furono
nazionalizzate alcune industrie di base, redatti programmi economici e assicurata un’ampia gamma
di servizi sociali.
Nelle economie miste o assistenziali che divennero una caratteristica delle democrazie occidentali
lo Stato si assumeva il compito di assicurare la stabilità generale, un clima favorevole alla crescita
ed un minimo di protezione per gli individui economicamente deboli e sfavoriti, ma lasciava il
compito di produrre i beni e i servizi desiderati dalla popolazione prevalentemente a imprese
private. A livello internazionale buona parte del merito per la bontà dei risultati economici va al
grado elevato di collaborazione intergovernativa.
I bassi livelli di analfabetismo e l’abbondanza di istituzioni scolastiche specializzate, dai giardini
d’infanzia alle technische Hochschulen, dalle università agli istituti di ricerca, assicuravano il
personale qualificato e il brainpower necessari per applicare efficacemente la nuova tecnologia.
La sopravvalutazione del dollaro, inoltre, permetteva i produttori europei di rimpiazzare le
importazioni americane in Europa, di fare una serrata concorrenza ai prodotti americani nei mercati
dei paesi terzi e persino di penetrare nel mercato statunitense. Quando gli Stati Uniti svelarono
unilateralmente il dollaro, nell’agosto del 1971, a gran parte dei paesi europei occorse oltre un
decennio per adeguarsi ai nuovi scenari commerciali internazionali.

70 ibidem, pp. 592-595.


55

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

La formazione del blocco sovietico71.


L’Unione Sovietica subì i danni più ingenti della guerra. Le devastazioni avevano colpito grandi
aree di fertilissima terra coltivabile ed alcune delle regioni più intensamente industrializzate.
L’Unione Sovietica si affermò come una delle due superpotenze del dopoguerra, pur rimanendo un
paese povero in termini pro capite, grazie all’immensità del suo territorio e della sua popolazione.
Per risanare l’economia devastata e risospingere la produzione ad alti livelli il governo varò nel
1946 il quarto piano quadriennale. Essa poneva l’accento sull’industria pesante e sugli armamenti,
con particolare attenzione all’energia atomica.
Nell’immediato dopoguerra, Stalin decise di apportare diversi cambiamenti nelle alte sfere del
governo e dell’economia, procedendo ad una drastica epurazione del personale dei ministeri
incaricati alla supervisione e del controllo dell’industria e dell’agricoltura.
Stalin morì nel 1953. Dopo due anni di “direzione collettiva” e di continui cambiamenti di
schieramento all’interno della massima dirigenza del partito comunista, il leader supremo divenne
Nikita Chruščëv. Egli pronunciò un discorso in cui denunciava Stalin come un tiranno spietato,
morboso e quasi folle; tuttavia mise debitamente in evidenza che il dispotismo staliniano era
un’aberrazione di una politica essenzialmente corretta.
Il governo intraprese una campagna ufficiale di “destalinizzazione”, ma la natura essenziale del
sistema economico sovietico non mutò. Nel 1955 il governo annunciò il completamento del piano
quinquennale e l’inaugurazione del successivo. L’industria pesante sovietica continuò ad accrescere
la produzione ma rimase ben lontana dall’obiettivo dichiarato di raggiungere quella statunitense.
L’industria dei beni di consumo, a cui nella pianificazione sovietica veniva sempre assegnata una
bassa priorità, continuò a procedere a rilento, affliggendo i consumatori con la scarsità delle merci e
una produzione di bassa qualità.
L’agricoltura sovietica rimase per tutto il dopoguerra in una situazione quasi permanente di crisi,
nonostante i massicci sforzi del governo di stimolarne la produttività. Il sistema delle ferrovie
collettive non offriva incentivi adeguati ai contadini che concentravano i propri sforzi nei piccoli
appezzamenti privati.
Dal 1954 Chruščëv diede l’avvio a progetti per la la messa a coltura di grandi distese di terre aride
dell’Asia sovietica e per aumentare la produzione di mais ma non ebbero successo. Chruščëv e i
suoi pianificatori non riuscirono ad avere la meglio sul tempo avverso, la cattiva conduzione
burocratica, la carenza di fertilizzanti e soprattutto la mancanza di entusiasmo dei contadini: la
Russia, storicamente esportatrice di cereali, era caratterizzata da carenza di generi alimentari e si
trovò costretta ad importarlo dai paesi occidentali pagando in oro.
Nel gennaio del 1949, spronata dai successi iniziali dello European Recovery Program, l’Unione
Sovietica creò il Consiglio di aiuto economico reciproco (Comecon) nel tentativo di dare maggiore
coesione alle economie dei suoi satelliti dell’Est europeo. Vi entrarono a far parte l’Albania, la
Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia, e la Germania Orientale. Sebbene
il suo obiettivo dichiarato fosse di coordinare lo sviluppo economico dei paesi comunisti e di
promuovere tra di essi una più efficiente divisione del lavoro, l’Unione Sovietica se ne servì per
accrescere la dipendenza economica dei paesi satelliti. Non si sviluppò un sistema di scambi
multilaterali come in Europa occidentale e gran parte dei commerci sia con l’Unione Sovietica che
tra gli altri paesi rimasero bilaterali, più o meno come era accaduto con la Germania nazista durante
la Seconda guerra mondiale.
La repubblica popolare cinese, pur non appartenendo al blocco sovietico, fu per breve tempo alleata
dell’Unione Sovietica. Nel corso del conflitto i comunisti cinesi collaborato con il leader
nazionalista Jiang Jieshi nella resistenza ai giapponesi e nel 1949 proclamarono formalmente la
repubblica popolare cinese con capitale Pechino sotto la guida di Mao Zedong.
Forti delle moderne tecniche di dittatura di un partito unico, i comunisti estesero rapidamente il loro
dominio all’intero paese, raggiungendo un grado di potere centralizzato che non aveva eguali nella
lunga storia del dispotismo cinese. Consolidato il controllo politico, il nuovo governo intraprese la

71 ibidem, pp. 596-606.


56

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

modernizzazione dell’economia e la ristrutturazione della società. Dopo una prima fase in cui fu
tollerata la proprietà privata sia in agricoltura che in maniera limitata nel commercio e
nell’industria, nel 1953 il governo cominciò a incoraggiare la collettivizzazione dell’agricoltura e
intraprese una generale nazionalizzazione dell’industria. Il “grande balzo avanti” si rivelò un
catastrofico fallimento. La popolazione non era in grado di sopportare gli sforzi e i sacrifici richiesti
dai suoi capi, ed una carestia provocata dall’uomo causò la perdita di milioni di vite.
Fin dall’inizio dell’Unione Sovietica aveva accordata alla repubblica popolare cinese assistenza
economica, tecnica e militare, ma i cinesi rifiutarono di conformarsi alle direttive sovietiche. Dopo
la morte di Mao nel 1976 i contatti con l’occidente si intensificarono e nel corso degli anni ottanta il
governo, guidato da Dang Xiaoping, permise una limitata reintroduzione del libero mercato e della
libera impresa.
Il solo stato dichiaratamente socialista alleato dell’Unione Sovietica nell’emisfero occidentale era la
repubblica di Cuba. Fidel Castro, il leader rivoluzionario che rovesciò l’autoritario dittatore
Fulgencio Batista, in un primo momento non si proclamò marxista; ma la politica anticastrista degli
Stati Uniti lo gettò tra le braccia dell’Unione Sovietica, ben felice di trovare una base da cui
diffondere le proprie dottrine nell’emisfero occidentale.

Economia della decolonizzazione72 .


La Seconda guerra mondiale inflisse un colpo mortale all’imperialismo europeo. Alcune di esse
proclamarono immediatamente l’indipendenza; altre videro la nascita di partiti indipendentisti che
si battevano contro il dominio coloniale.
Nell’immediato dopoguerra le potenze imperiali ripresero temporaneamente il controllo della
maggior parte delle ex colonie, ma la debolezza causata dalla guerra, la forza crescente dei
movimenti indipendentisti locali e il ruolo ambivalente degli Stati Uniti condussero ad un graduale
abbandono dei poteri imperiali, di fronte all’eventualità di affrontare i costi e gli incerti di una
guerra, rinunciarono sempre più spesso volontariamente al loro dominio.
L’India negli anni sessanta e settanta approfittò della “rivoluzione verde” in agricoltura ed è
attualmente pressoché autosufficiente dal punto di vista alimentare. Possiede inoltre più industrie
dei suoi vicini.
Singapore è molto urbanizzata, alfabetizzata e relativamente ricca. Posta alla confluenza di grandi
vie commerciali, ha sviluppato un’economia sofisticata simile a quella di Hong Kong, il cui
caposaldo è il commercio, i servizi bancari e finanziari correlati e persino alcune industrie.
L’ex colonia italiana della Libia fu il primo paese africano ad ottenere l’indipendenza.
La Gran Bretagna pose formalmente termine al suo protettorato sull’Egitto nel 1922, ma conservò il
controllo della questioni militari e delle relazioni con l’estero. Nel 1952 si instaurò una dittatura
militare mascherata da repubblica. Nel 1956 il dittatore espulse le ultime truppe britanniche e
nazionalizzò il Canale di Suez.
La Tunisia e il Marocco ottennero alla fine la piena indipendenza dalla Francia, che cercò invece di
rafforzare il controllo sull’Algeria.
Tutti e tre i paesi nordafricani sono prevalentemente agrari, con un agricoltura di tipo mediterraneo,
ma oltre a questo possiedono importanti risorse minerarie. In particolare, il petrolio e il gas naturale
scoperti in Algeria poco dopo l’indipendenza hanno dato a questo paese sia i mezzi per sviluppare
l’industria che quelli per svolgere un certo ruolo nella politica mondiale. L’Algeria esporta negli
Stati Uniti grandi quantità di gas naturali liquido.
Alla metà degli anni sessanta tutte le ex potenze coloniali europee, ad eccezione del Portogallo,
avevano concesso l’indipendenza a quasi tutte le loro dipendenze asiatiche e africane. Molti dei
nuovi stati fecero almeno finta di rispettare le forme democratiche, ed alcuni di essi cercarono
coraggiosamente di raggiungere una vera democrazia. Non esistevano le basi sociali ed economiche
per democrazie stabili e vitali. Molte delle ex colonie caddero sotto regimi monopartitici, influenzati
spesso dai comunisti russi o cinesi. Alcuni piombarono nell’anarchia e nella guerra civile.

72 ibidem, pp. 606-613.


57

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

I travagli del Terzo Mondo73.


In molti casi le ex colonie cercarono di imitare il successo apparente dell’America Latina nella
costruzione di un’indipendenza economica oltre che politica nei confronti degli ex padroni
coloniali.
I programmi latinoamericani fallirono quasi invariabilmente per diversi motivi: la piccolezza dei
mercati interni, sia per dimensioni che per potere d’acquisto, che non giustificava l’utilizzazione dei
metodi di produzione più economici; un’insufficiente cooperazione a livello regionale e, a
differenza del Giappone, la mancanza del capitale umano necessario per fare un uso efficace della
nuova tecnologia d’importazione e, a maggior ragione, per svilupparne una propria.

Le origini dell’Unione Europea74.


Il sogno di un’Europa unita è antico quanto l’Europa stessa. Il concetto europeo che si sviluppò dal
Congresso di Vienna del 1815 fu un tentativo di coordinare la politica ai livelli più alti del governo.
La Società delle nazioni fu un concerto dei vincitori europei della Prima guerra mondiale. Tutti i
tentativi fallirono per l’incapacità dei sedicenti unificatori di conservare il monopolio del potere di
coercizione e la riluttanza dei soggetti a sottomettersi volontariamente alla loro autorità. Al
frazionamento dell’Europa contribuirono nei tempi più antichi la difficoltà di comunicazione. Poi
l’idea del nazionalismo si insediò così profondamente nel pensiero europeo, in particolare dopo la
rivoluzione francese, che la sovranità, vale a dire la suprema autorità e potestà, divenne quasi
sinonimo di nazionalità.
È importante avere ben chiara la distinzione tra organizzazioni internazionali e soprannazionali. Le
organizzazioni internazionali dipendono dalla cooperazione volontaria dei loro membri e non
possiedono un reale potere di coercizione. Le organizzazioni sopranazionali richiedono che i loro
membri cedano almeno una parte della loro sovranità e possono costringerla a uniformarsi alle
proprie disposizioni.
Sia la Società delle Nazioni che le Nazioni Unite sono esempi di organizzazioni internazionali. In
Europa l’Oece e la maggior parte delle organizzazioni postbelliche degli stato sono state
internazionali piuttosto che sopranazionali. Proposte di vari tipi di organizzazioni sopranazionali
europee sono divenute via via più frequenti a partire dal 1945 e scaturiscono da due motivazioni
distinte. Il motivo politico è radicato nella convinzione che solo attraverso un’organizzazione
sopranazionale la minaccia di una guerra tra le potenze europee può essere permanentemente
estirpata. Alcuni sostenitori dell’unità politica europea credono inoltre che se le nazioni europee
vogliono riconquistare l’antico ruolo negli affari mondiali esse devono essere in grado di parlare
con una sola voce e disporre di risorse e di un capitale umano paragonabile a quello degli Stati
Uniti. Il motivo economico si fonda sulla tesi che mercati più ampi promuovano la specializzazione
e la concorrenza, e di conseguenza una produttività più elevata ed un più alto tenore di vita.
I due motivi si fondano nella considerazione che la forza economica è la base della potenza politica
e militare e che un’economia europea pienamente integrata renderebbe le guerre intraeuropee meno
probabili se non impossibili. L’idea della sovranità nazionale è radicata così profondamente che la
maggior parte delle proposte pratiche di organizzazione sopranazionale hanno previsto
l’unificazione economica come prerequisito dell’unificazione politica.
Nel 1950 il ministro degli Esteri francese Robert Shuman propose l’integrazione delle industrie del
carbone e dell’acciaio della Francia e della Germania Occidentale per motivazioni sia politiche che
economiche. Il carbone e l’acciaio erano il cuore dell’industria moderna, in particolare quella degli
armamenti, e tutti i segni indicavano una ripresa dell’industria tedesca. Il Piano Schuman era un
artificio per mantenere l’industria tedesca sotto sorveglianza e controllo.
Il trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), siglato nel 1951
prevedeva:

73 ibidem, pp. 613-614.


74 ibidem, pp. 615-621.
58

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

1) l’eliminazione delle tariffe e dei contingenti in materia di scambi intracomunitari di minerale


ferroso, carbone, coke e acciaio,
2) una tariffa esterna comune sulle importazioni da altri paesi,
3) controlli sulla produzione e sulle vendite.
Per finanziare la propria attività la comunità fu autorizzata ad imporre una tassa sulla produzione
alle imprese che ricadevano nella sua giurisdizione. Sviluppi quali la guerra di Corea, l’istituzione
della Nato (North Atlantic Treaty Organization) nel 1949 e la rapida ripresa economica della
Germania avevano dimostrato l’importanza di includere i contingenti tedeschi in una forza militare
dell’Europa occidentale.
Nel 1957 i partecipanti al Piano Schuman siglarono a Roma due altri trattati che istituivano la
Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) per lo sviluppo di usi pacifici per l’energia
atomica e, più importante, la Comunità economica europea (Cee), o Mercato comune.
Il trattato per il Mercato comune prevedeva la graduale eliminazione dei dazi sull’importazione e
delle limitazioni quantitative su tutti gli scambi tra i paesi membri e l’introduzione di una tariffa
esterna comune dopo un periodo di transizione da dodici a quindici anni. I membri della comunità si
impegnavano ad attuare politiche comuni nei trasporti, in agricoltura, nella previdenza sociale e in
altri settori cruciali della politica economica e a permettere il libero movimento di persone e capitali
all’interno dei confini della comunità.
Una delle clausole più importanti del trattato fu che esso non poteva essere denunciato
unilateralmente e che, dopo un certo stadio del periodo di transizione, le ulteriori decisioni
sarebbero state prese da una maggioranza qualificata piuttosto che all’unanimità.
Sia il trattato del Mercato comune che quello per l’Euratom istituirono alte commissioni per
sovrintendere al proprio funzionamento e fusero gli altri organi sopranazionali con quelli della
Ceca. Il trattato del Mercato comune entrò in vigore il 1° gennaio 1958. Nelle fasi preliminari dei
trattati di Roma altri paesi furono invitati ad aderire al Mercato Comune. Dopo la firma del trattato
istitutivo del Mercato comune la Gran Bretagna, i paesi scandinavi, la Svizzera, l’Austria e il
Portogallo crearono l’Associazione europea di libero scambio (EFTA). Il trattato istitutivo dell’Efta
prevedeva unicamente l’eliminazione delle tariffe sui prodotti industriali tra i paesi firmatari. Non
erano compresi i prodotti agricoli, non si parlava di una tariffa esterna comune ed ogni membro
poteva ritirarsi in qualsiasi momento.
Nel 1961 la Gran Bretagna rese nota la sua disponibilità di entrare nel Mercato comune a certe
condizioni. E attuata, questa mossa avrebbe comportato l’ingresso anche della maggior parte dei
paesi appartenenti all’Efta. Nel 1946 il presidente francese de Gaulle pose un vero e proprio veto
all’accoglimento della Gran Bretagna. Dopo le dimissioni di de Gaulle nel 1969, il governo
francese assunse un atteggiamento più moderato sulla questione dell’ammissione della Gran
Bretagna, che aveva dalla sua altri paesi del Mercato comune. Nel 1972 fu approvata l’ammissione,
a far data dal 1° gennaio 1973, di Gran Bretagna, Eire, Danimarca e Norvegia. La Norvegia, che
aveva fatto richiesta di ammissione ed era stata accettata, sottopose però la questione al giudizio di
un referendum popolare, che diede esito negativo.
I sostenitori dell’unità europea avevano in mente molto più che un semplice mercato comune o
un’unione doganale. Per loro il Mercato comune non era che il preludio agli Stati Uniti d’Europa.
Dopo la firma dei trattati di Roma cominciarono a parlare di “Comunità europee” e, dopo la fusione
delle alte commissioni nel 1965, di “Comunità europea”.
Dalla fusione delle assemblee generali nacque il parlamento europeo. In un primo momento i suoi
componenti venivano eletti dai parlamentari degli stati membri e sedevano in raggruppamenti
nazionali. Esso ebbe un potere esclusivamente consultivo fino a quando la comunità non ottenne
con propri dazi doganali una fonte di entrate indipendente. Da quel momento in poi il parlamento
ebbe un limitato controllo sul bilancio. Nel 1979 i membri del parlamento furono eletti direttamente
dal popolo e presero posto nell’assemblea come raggruppamenti di partiti piuttosto che secondo le
nazionalità.
Negli anni cinquanta e sessanta, all’epoca dell’istituzione della comunità, l’economia mondiale era
forte e in espansione, e ciò rafforzò l’ottimismo per la nuova iniziativa facilitandone lo sviluppo.
59

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Nel periodo di allargamento dell’organizzazione, l’economia mondiale era molto meno propizia alla
crescita.
Il sistema di tassi fissi di cambio di Bretton Woods decadde il 15 agosto 1971, proprio mentre erano
in corso i negoziati tra Comunità europea e Gran Bretagna. Ciò vanificò i piani per la creazione di
una valuta comune nei sei paesi membri originari, poiché ciascuno dovette affrontare pressioni
speculative contro la propria valuta tali da alterare le parità precedenti. Nel 1973, quando la Gran
Bretagna era ormai entrata nella Comunità europea assieme all’Irlanda e alla Danimarca, il primo
shock petrolifero travolse i piani economici di tutti i paesi membri. Ciascun paese adottò una
propria strategia per neutralizzare gli effetti di un prezzo del petrolio quadruplicato.
Per compensare in parte i britannici del prezzo elevato che avrebbero dovuto pagare per le
importazioni alimentari, furono introdotti i fondi regionali che tuttavia innescarono una
competizione tra paesi membri per l’accesso ai contributi Cee.

L’ECONOMIA MONDIALE ALL’INIZIO DEL XXI SECOLO75.


Overview76.
L’anno 2001 ha segnato non solo l’inizio del XXI secolo ma anche la conclusione del primo
decennio di operatività di un’economia veramente globale. Dopo il crollo definitivo dell’Unione
Sovietica nel 1991 quasi ogni nazione del mondo ha recepito la necessità di adattare le proprie
politiche e strutture economiche alle esigenze del mercato globale emergente. Il presidente russo
Boris Elcin proclamò anche il definitivo fallimento dell’esperimento comunista delle economie a
pianificazione centralizzata ed essenzialmente autosufficienti. Da quel momento forze di mercato
sono dilagate nel pianeta: progressi sensazionali nella tecnologia informatica e delle
telecomunicazioni e nuove possibilità di investimento e di crescita.
Capitale, lavoro e mercati rispondono con l’instabilità dei prezzi e con sconcertanti spostamenti
quantitativi anche per effetto della globalizzazione.In tutti i paesi industrializzati sorgono barriere
non tariffarie con la nuova motivazione della tutela dei diritti umani e dell’ambiente. Ciò che ha
contribuito all’affermarsi di questa nuova economia globale è il successo economico dell’Europa
occidentale che si è ripresa in modo rapido e definitivo dalle devastazioni della Seconda guerra
mondiale.
Il boom giapponese fu in realtà più lungo e robusto della lunga espansione economica postbellica
europea. Dalla fine degli anni quaranta all’inizio degli anni settanta il tasso di crescita del Pnl
giapponese superò il 10% annuo. Nel 1966 quella giapponese era divenuta la seconda economia al
mondo, posizione che conserva ancora oggi. Solo negli anni novanta il Giappone conobbe un
prolungato rallentamento e una crescente sfiducia nei confronti delle sue istituzioni economiche.
Tra i fenomeni e/o caratteristiche che permisero al Giappone di diventare leader nell’introduzione
di nuove tecnologie, nei campi dell’elettronica e della robotica possiamo annoverare:
- rimonta tecnologica,
- alto livello del capitale umano,
- alti livelli di risparmio e investimento,
- classe manageriale sofisticata e consapevole dell’alta redditività delle funzioni di R&D,
- direzione di governo stabile e duratura,
Altri paesi asiatici, come Corea del Sud, e Taiwan, ebbero tassi di crescita estremamente alti sia
della produzione totale che del commercio con l’estero. Il loro successo è dovuto principalmente a:
- alti tassi di risparmio;
- popolazione istruita;
- governi stabili sostenitori di una crescita stimolata delle esportazioni;
- disposizione di quantità elastiche di manodopera;
- fabbriche modello costruite da multinazionali giapponesi e americane.

75 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XVI.
76 ibidem, pp. 623-628.
60

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

L’urbanizzazione e il lavoro di fabbrica ebbero anche l’effetto di ridurre in modo notevolmente


rapido i tassi di fertilità, provocando in tal modo una brusca crescita della percentuale di
popolazione appartenente alle fasce di età più produttive.
Ciò non si è verificato invece in America Latina, i cui paesi trovarono difficile passare da
un’industrializzazione mirata alla riduzione delle importazioni ad una guidata invece delle
esportazioni. Gli shock petroliferi degli anni settanta peggiorarono sempre più le bilance
commerciali, in particolare quelle di Argentina, Brasile e Messico. Per finanziare i disavanzi, i
governi latinoamericani trovarono facile credito presso banche internazionali traboccanti di
petroldollari depositati dai paesi membri del cartello dell’Opec.
L’Argentina arrestò la sua spirale inflativa istituendo un comitato valutario che rese pienamente
convertibile il peso in dollari Usa. Con l’innalzarsi a livelli senza precedenti della produzione e
degli scambi commerciali mondiali, la situazione africana incombe come una fosca nube
all’orizzonte. I nuovi stati emersi dalla fine del colonialismo europeo mancavano delle risorse,
naturali e soprattutto umane, per far fronte alle complessità di un’economia moderna. Gli sforzi
volti allo sviluppo dell’economia furono ostacolati anche da circostanze politiche tra cui rivalità
etniche, colpi di stato, dominio di regimi monopartitici con svariate gradazioni di controllo
dittatoriale.
L’estrema eterogeneità etnica e linguistica del continente africano ha ostacolato la costruzione degli
istituti giuridici dei diritti di proprietà e del diritto contrattuale che sono indispensabili per ricavare
benefici dal capitalismo basato sul mercato. I paesi più poveri e a più lenta crescita del mondo
continuano a essere quelli dell’Africa, il continente più flagellato da malattie, guerre civili, genocidi
e instabilità politica.
Regione che ha visto ingigantire il proprio ruolo economico nella seconda metà del XX secolo è
l’Asia sudoccidentale o Medio Oriente per l’importanza economica assunta dal petrolio. Nel 1970
l’Opec rappresentava oltre un terzo della produzione energetica mondiale totale. L’Opec agì come
cartello aumentando bruscamente il prezzo del greggio, azione che fu poi ripetuta nel corso dello
stesso decennio, col risultato di far decuplicare il prezzo mondiale. Dato l’alto grado di dipendenza
dal petrolio raggiunto dall’economia mondiale, l’effetto sulle economie dei paesi altamente
industrializzati e in via di sviluppo fu devastante. I paesi in via di sviluppo si trovarono di fronte a
disavanzi molto più cospicui nella loro bilancia dei pagamenti e furono costretti ad indebitarsi
ulteriormente, mentre i paesi industriali conobbero la “stagflazione”, la stagnazione della
produzione e dell’occupazione associata ad un aumento inflazionistico dei prezzi.
Nel 1985, il dollaro Usa venne svalutato sui mercati internazionali attraverso l’azione concentrata
delle banche centrali delle economie industrializzate. L’anno seguente il prezzo del petrolio era
caduto in maniera sensazionale, il dollaro era debole e l’inflazione era stata riportata sotto controllo
in tutto il mondo industrializzato. Nonostante la riduzione del prezzo del petrolio, la domanda non
crebbe con la stessa rapidità della produzione complessiva, determinando una situazione assai
diversa da quella degli anni cinquanta e sessanta.

Il crollo del blocco sovietico77.


Nella seconda metà del 1989 i regimi comunisti dell’Europa orientali sono caduti paese dopo paese.
La rivolta di massa nelle terre già dominate dai comunisti fu determinata da una mescolanza di
motivi politici ed economici: i regimi di quei paesi erano stati imposti dall’Unione Sovietica senza
il consenso della popolazione e le condizioni di vita avevano da allora subito un progressivo
deterioramento. Le masse avevano mostrato in varie occasioni il loro malcontento. L’Unione
Sovietica aveva fatto ricorso in precedenza alla forza delle armi per reprimere la ribellione, ma ciò
non accadde nel 1989.
La Polonia, il cui popolo era profondamente malcontento della situazione comunista che la
opprimeva, vide nella nuova federazione sindacale indipendente dallo stato e dal partito comunista,
Solidarność, l’opportunità per attuare quelle riforme economiche che avrebbero dovuto realizzare la

77 ibidem, pp. 629-640.


61

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

transizione da un’economia pianificata ad una capitalistica di mercato tramite la cosiddetta “terapia


d’urto” inaugurata nel gennaio del 1990, dal nuovo governo, con misure deflazionistiche combinate
con la liberalizzazione dei prezzi e la rimozione di barriere commerciali.
Uno degli avvenimenti più spettacolari del 1989 fu l’abbattimento del muro di Berlino, simbolo
della caduta del blocco orientale. Il muro era stato costruito attorno a Berlino Ovest dal governo
tedesco orientale nel 1961 per impedire la fuga in occidente della popolazione. Esso rimase in piedi
come simbolo della tirannia comunista e della repressione.
Da quel momento gli avvenimenti si sono svolti con grande rapidità. Le autorità tedesco-
occidentali, colte di sorpresa non meno di quelle orientali, presero misure di emergenza per
accogliere il massiccio afflusso di rifugiati ma cercarono anche di persuadere i tedeschi orientali a
rimanere dov’erano. Nel luglio del 1990 fu creata un’unione economica e monetaria con la
Repubblica democratica tedesca che venne infine incorporata nella Repubblica federale tedesca.
L’urgenza politica di portare a termine la riunificazione rapidamente, prima che la dirigenza russa
cambiasse idea, ispirò un gesto economicamente costoso, la conversione alla pari della valuta della
Germania Est (Ostmark) in quella della Germania Ovest (Deutschemark).
Il tasso di disoccupazione salì alle stelle e l’onere dei sussidi di disoccupazione per i lavoratori
tedesco-orientali andò ad aggiungersi alla spesa per la ricostruzione delle decadenti e obsolete
infrastrutture della Germania Est. L’aumento delle aliquote fiscali a carico dei lavoratori tedesco-
occidentali, deciso per finanziare la riunificazione con la Germania Est provocò una crescita dei
tassi di disoccupazione nella Germania Ovest. Il fardello economico perdurante della riunificazione
tedesca rallentò la crescita economica della Germania negli anni novanta con effetti in ricaduta su
tutti gli altri paesi europei.
La stessa Yugoslavia, pur non essendo un satellite dell’Unione Sovietica, visse anni di agitazione
accompagnati da tentativi di riforme politiche ed economiche: migliaia di civili innocenti furono
massacrate nel nome della “pulizia etnica”.
La Russia era fortemente indebolita economicamente e politicamente: nel 1964 i conservatori della
gerarchia comunista deposero Chruščëv, mettendo al suo posto Brežnev, sotto di cui l’economia
sovietica entrò in stagnazione e ovunque regnavano l’inefficienza e la corruzione.
Quando Michail Gorbačëv giunse al potere nel 1985 l’economia era in crisi. Gorbačëv
indubbiamente capì che l’Unione Sovietica non era più in grado di imporre la propria volontà ai
recalcitranti ex paesi satelliti. Ciò di cui essa aveva più bisogno era di riformarsi, e da qui nacque il
programma di Gorbačëv imperniato sulla perestrojka (ristrutturazione) e la glasnost (trasparenza).
Sebbene Gorbačëv ponesse l’accento soprattutto sulla perestrojka, fu la glasnost ad avere un effetto
più immediato. Glasnost, nel contesto sovietico, significava maggiore libertà di espressione, la
possibilità di discutere e dibattere sia le politiche ufficiali che le loro alternative e persino la
possibilità di agire indipendentemente dal partito e dallo stato nelle questioni pubbliche. Una delle
giustificazioni della glasnost era di suscitare l’iniziativa e l’entusiasmo della popolazione per i
compiti posti dalla perestrojka, o ristrutturazione dell’economia. Gorbačëv descriveva la perestrojka
come una “combinazione di centralismo democratico e autonomia amministrativa”, una vera e
propria contraddizione in termini.
Molte attività economiche che in precedenza si erano svolte sul mercato nero o grigio (artigianato
privato, commercio al minuto, fornitura di vari servizi personali) furono rese legittime, purché i
produttori lavorassero anche a tempo pieno nelle imprese statali. L’Unione sovietica permise inoltre
l’ingresso di capitali esteri in joint ventures con imprese di proprietà statale.
Nonostante il fallimento del colpo di stato ordito dal vicepresidente di Gorbačëv, il capo del Kgb e
il ministro della Difesa, la visione gorbacioviana del futuro dell’Unione Sovietica fu frantumata da
Elcin, divenuto presidente della Repubblica russa. Elcin sperimentò una varietà apparentemente
infinita di riformatori politici ed economisti, tuttavia l’insolvenza dichiarata nell’agosto del 1998
sulle obbligazioni in rubli possedute dai cittadini russi rese evidente a tutto il mondo che il tentativo
della Russia di trasformarsi in democrazia capitalista era sfociato nella formazione di una
cleptocrazia da Terzo Mondo.

62

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

L’evoluzione dell’Unione Europea78 .


La stessa Comunità europea si stava trasformando: all’inizio degli anni settanta il primo ministro
belga Tindemans preparò un rapporto che prevedeva il completamente dell’unione entro il 1980.
Il rapporto non trovò mai pratica attuazione: il movimento per il “rilancio” dell’Europa riprese sotto
la leadership di Jacques Delors, ex funzionario del governo francese e convinto sostenitore
dell’unità europea, che divenne presidente della Commissione della Comunità europea nel 1985.
Il Consiglio europeo decise in linea di principio di procedere ad un’unione più stretta e, nel febbraio
1986, fu siglato l’Atto Unico Europeo che richiedeva alla Comunità di adottare oltre trecento
provvedimenti per rimuovere le barriere fisiche, tecniche e fiscali al fine di portare a completamento
il mercato interno entro il 31 dicembre 1992. La Comunità europea divenne una comunità senza
frontiere.
Il Sistema monetario europeo (Sme), con il suo connesso meccanismo dei tassi di cambio, era stato
istituito nel 1979, ma la coordinazione delle politiche monetarie rimase uno dei principali ostacoli
sulla strada del completamento dell’unione economica. Nel 1991 la Comunità decise di creare una
propria banca centrale (1994), seguita da una moneta unica (1999), ma una crisi dei tassi di cambio
nel settembre del 1992 costrinse il Regno Unito e l’Italia ad uscire dallo Sme e fece differire altre
misure. Al posto di una banca centrale fu istituito nel 1994 a Francoforte un suo possibile
precursore, l’Istituto monetario europeo.
Nel dicembre del 1991 il Consiglio d’Europa, riunito a Maastricht, in Olanda, siglò un nuovo
trattato che intendeva creare un’unione sempre più stretta tra i popoli europei. Il nuovo trattato mutò
il nome della Comunità europea in Unione Europea, accrebbe i poteri del parlamento europeo
chiamato ad “azioni congiunte” nella politica estera e di difesa con lo scopo finale di una politica
estera e di sicurezza comune, e introdusse il principio della “sussidiarietà” in base al quale le
decisioni dovevano essere prese “al livello più vicino possibile ai cittadini”.
Nel 1993 avvenne la creazione di un’area economica europea attraverso la fusione della Comunità
europea con i paesi membri dell’Associazione europea di libero scambio (eccetto la Svizzera).

Limiti dello sviluppo79.


Nel 1972 un gruppo di ricerca associato al Massachusetts Institute of Technology pubblicò I limiti
dello sviluppo, libro che affermava che l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello
sviluppo entro i prossimi cento anni richiamandosi alle cinque linee di tendenza più importanti:
• l’industrializzazione sempre più accelerata,
• la rapida crescita demografica,
• la diffusa sottoalimentazione,
• il depauperamento delle risorse non rinnovabili, e
• il deterioramento dell’ambiente.
La crescita della popolazione mondiale ha continuato anche in concomitanza con l’inizio
dell’accelerazione del tasso di crescita del reddito pro capita, dopo i 1985. L’elemento comune che
spiega il successo dei paesi attualmente più industrializzati (o in via di sviluppo) è l’accresciuta
importanza del commercio con l’estero per ciascuno dei paesi coinvolti. L’FMI calcola che il
prodotto interno lordo sia cresciuto ad una media di oltre il 3,6% annuo.
La “corsa” tra popolazione e risorse conduce a due problemi correlati, il tasso di utilizzazione (e di
esaurimento) delle risorse e l’ineguaglianza nella distribuzione delle medesime. Non c’è dubbio che
il mondo, in particolare i paesi ricchi, stiano utilizzando le risorse a ritmi che non hanno precedenti
nella storia. Ciò è di per se stesso un indice del suo “successo” nel dominio dell’ambiente e nella
soluzione del problema economico, ma ha anche suscitato timori di un esaurimento totale delle
risorse.

78 ibidem, pp. 640-642.


79 ibidem, pp. 643-647.
63

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

PROFILO DELLA STORIA INDUSTRIALE ITALIANA80.


L’influenza della Rivoluzione industriale sull’economia prevalentemente agricola delle diverse
regioni italiane ebbe due importanti ordini di manifestazione:
1. Materiale: riguarda il potenziamento di correnti di scambio con il resto del mondo. Si tratta di
un ampliamento considerevole di un tradizionale flusso di esportazioni di prodotti primari da
alcune regioni settentrionali italiane: seta greggia e filatoiata, per le filature e le tessiture di
Francia, Gran Bretagna, Germania e Svizzera.
2. Informativa-culturale: insieme di suggestioni e di impulsi ad “imitare” il progresso dei paesi in
corso di sviluppo industriale.
La produzione serica, derivante dall’allevamento del baco da seta e dalla coltura del gelso, era
concentrata soprattutto nelle regioni dell’Italia settentrionale, in specie Piemonte e Lombardia.
Benché la domanda europea tendesse già allora a rivolgersi verso Oriente (Bengala, Cina e
Giappone), una notevole quota di questa domanda poteva trovare soddisfazione nel Continente
stesso, in quelle poche aree privilegiate che consentivano, per l’esistenza di condizioni climatiche
adatte, di produrre la seta. Queste zone avevano curato la diffusione di piantagioni di gelsi, e
avevano avviato le attività di prima trasformazione del prodotto dell’allevamento: trattura e
torcitura. La tessitura era affermata invece su scala più larga in Francia. Le tecniche relative agli
stadi iniziali del ciclo tessile serico erano state, in Italia, all’avanguardia rispetto al resto d’Europa.
Gli stabilimenti di torcitura della seta davano lavoro stagionalmente alle famiglie contadine. In
questi opifici sparsi per le campagne e dotati di attrezzature modeste si formò la prima educazione
al lavoro industriale di una manodopera che venne poi utilizzata in altre produzioni.
L’interesse commerciale per questo prodotto sorto in taluni paesi importatori, contribuì a favorire un
afflusso, nell’Italia del Nord, di imprenditori svizzeri e tedeschi che dovevano avere un grande
ruolo nell’avviare le prime iniziative industriali anche in altri campi. Da parecchi punti di vista la
diffusione della produzione serica servì a formare “economie esterne” per un ulteriore sviluppo
industriale. La seta può essere considerata il primo “settore traente” dello sviluppo economico
italiano dell’Ottocento. Per circa un secolo, dalla Restaurazione alla Prima guerra mondiale, le
esportazioni di seta furono la prima voce delle esportazioni dell’intero territorio italiano (un terzo
del valore complessivo).
Di minore importanza restò per lungo tempo il ramo finale del settore serico: quello della tessitura.
La domanda alla quale l’economia italiana fu in grado di rispondere su larga scala riguardò solo un
prodotto per il quale vi era una posizione di oligopolio naturale e non vi erano battaglie competitive
da condurre, e per il quale il rapporto commerciale si stabiliva con il settore produttivo estero. Lo
stesso mercato interno italiano di beni finali non offriva, per un prodotto di qualità come il tessuto
di seta, dimensioni sufficienti. La lavorazione intermedia della torcitura ebbe uno sviluppo limitato,
localizzato soprattutto in Piemonte, in virtù di una politica mercantilistica che proibiva
l’esportazione della seta allo stato greggio.
Geograficamente, l’industria cotoniera si concentrò fra Piemonte e Lombardia, quella liniera nella
sola Lombardia, mentre per la lana vi fu un maggiore decentramento regionale (Piemonte, Veneto,
Toscana). Il Mezzogiorno aveva un piccolo nucleo cotoniero (Salerno) e uno laniero, molto protetti
dai dazi doganali. Tranne che per il lino, e parzialmente per la lana, le materie prime utilizzate da
queste produzioni non erano di provenienza domestica. La gran parte degli stessi prodotti finiti,
consumati all’interno, erano di importazione, nonostante la protezione doganale di cui godevano.
La fase produttiva del settore tessile, che per prima cominciò a prendere caratteri industriali (negli
opifici) con l’uso di forza motrice centralizzata e di macchinari meccanici, fu quella della filatura.
Negli altri rami si ebbero progressi soprattutto per il cotone e per il lino, meno per la lana, che era
tecnicamente di più difficile trattamento, e per la quale i singoli mercati regionali consentivano una
domanda troppo limitata e povera. La tessitura continuò ad avere prevalente carattere artigianale,
anche se in gran parte sotto il controllo di mercanti-imprenditori. Qualche impresa cominciava a
prendere dimensioni di più notevole ampiezza, ma la produttività era assai bassa.

80 L.CAFAGNA. Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, 1990. Capitolo 10, pagg. 281- 322.
64

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Una parte rilevante della produzione si concentrava in aziende più grandi e tecnicamente più
aggiornate che cercavano di seguire i rapidi mutamenti tecnologici di altri paesi (benché avessero
un lag di 15-20 anni).
Nell’insieme il quadro è molto limitato rispetto alle industrie tessili di altri paesi europei: meno di
un migliaio di piccole fabbriche (fra seta, cotone, lino e lana) circondate da lavoratori a domicilio e
da lavorazioni preparatorie stagionali (trattura della seta).
Le condizioni che avevano consentito questo sviluppo erano (oltre ai fattori naturali favorevoli alla
seta) fondamentalmente tre:
1. la buona disponibilità di una forza motrice, adatta a imprese di non grandi dimensioni, la quale
era fornita dai numerosi corsi d’acqua lungo le valli alpine;
2. una manodopera molto a buon mercato reclutata in un ambiente di agricoltura povera;
3. la protezione doganale offerta dalle tariffe adottate dai vari Stati italiani dopo la Restaurazione.
Queste condizioni permettevano di compensare l’assai minore produttività delle fabbriche italiane
rispetto a quelle - tecnicamente più progredite - di altri paesi.
Le tecnologie della Rivoluzione industriale attiravano l’interesse di taluni ambienti intellettuali di
avanguardia. In questo contesto emerse una prima sottile schiera di imprenditori sensibili
all’aggiornamento tecnico: sorsero società e istituzioni per promuovere queste conoscenze e si
fondarono, a Milano e a Torino, scuole per formare manodopera qualificata.
L’orientamento di incoraggiare l’innovazione in campo industriale, con il favore di una congiuntura
internazionale ascensiva e di una politica espansiva della spesa pubblica, ottenne in Piemonte, fra il
1848 e il 1859, risultati positivi. La propaganda e l’azione per le ferrovie furono la più importante
bandiera del movimento per la modernizzazione dell’Italia. Le prime ferrovie italiane si costruirono
molto presto: la Napoli-Portici nel 1830, la Milano-Monza nel 1832. Si trattò, tuttavia, di brevissimi
tronchi poco importanti economicamente.
Le produzioni militari, per quel poco che ne veniva richiesto dai singoli piccoli Stati italiani,
insieme alla produzione di attrezzi agricoli, costituivano la base della modesta siderurgia presente in
quelle regioni italiane nelle quali esisteva qualche miniera di ferro: Lombardia, Toscana, Piemonte,
Valle d’Aosta e Calabria.
In Italia, l’assenza di giacimenti di carbon fossile costringeva i produttori a continuare nell’uso del
carbone di legna, limitando gravemente l’utilizzazione delle possibilità offerte dalla nuova tecnica.
Le officine siderurgiche rimasero perciò frazionate e disperse, ciascuna con produzioni limitate.
Nelle regioni in cui si fece qualcosa in campo ferroviario prima dell’Unità, si ebbero anche alcuni
primissimi e limitati accenni di una nuova industria meccanica. Genova, Torino e Milano stavano
lentamente diventando quello che è noto come “triangolo industriale” italiano.

Gli ideali economici più importanti che avevano mosso gli uomini del Risorgimento erano stati la
diffusione in Italia di quel fondamentale simbolo di progresso rappresentato dalle ferrovie da un
lato, e il libero scambio (considerato il principale fattore propulsivo del commercio) dall’altro.
L’accelerata politica ferroviaria, che portò alla costruzione dal 1861 al 1876 di una rete tre volte
superiore a quella del decennio precedente, fu assai scarsa di effetti di linkages sulle attività
industriali: la domanda di rotaie, locomotive, vagoni e ferro per i ponti si rivolse prevalentemente
all’estero. Le uniche frazioni della domanda derivanti dalle costruzioni ferroviarie che si rivolsero
all’offerta domestica furono quelle relative agli aspetti tecnicamente privi di complessità: la
fabbricazione delle traversine di legno e in genere la parte più propriamente stradale.
L’altro cardine della politica economica dei primi governi, l’orientamento verso il libero scambio,
nasceva da un desiderio di intensificare i contatti commerciali con il resto del mondo,
principalmente con l’Europa più avanzata. Per un paese prevalentemente agricolo quale era l’Italia,
l’intensificazione degli scambi significava sopratutto maggiore esportazione di prodotti agrari e
maggiore importazione di prodotti industriali. L’orientamento liberista trovava favore negli
ambienti agrari dei produttori di beni di esportazione.
Finché gli interessi agrari non furono anch’essi seriamente minacciati dalla concorrenza estera
(afflusso a buon mercato di cereali americani) e finché le industrie non ebbero raggiunto quel tanto
65

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

di spessore da permettere agli industriali di giocare la carta dell’occupazione operaia come


argomento di pressione nei confronti delle autorità politiche, le correnti protezionistiche non ebbero
molta popolarità nel paese.
Lenti e moderati furono i progressi dell’industria italiana fin verso il 1880. Essi si avvalsero
soprattutto del maggiore spazio offerto da un mercato interno ingrandito dall’unificazione e
alquanto tonificato dalla maggiore spesa pubblica che accompagnò la costituzione dello Stato
unitario. Circostanze che favorirono il progresso furono l’adozione del corso forzoso della carta
moneta e il boom economico, entrambe conseguenze delle guerre. Il corso forzoso, alterando il
corso dei cambi, operò di fatto come una svalutazione della lira, favorendo i prodotti italiani rispetto
agli esteri mentre il boom economico significò soprattutto una transitoria riduzione della pressione
competitiva delle produzioni straniere sul mercato nazionale.
Nel campo tessile, una parte della nobiltà terriera fu attirata a impiegare capitali nell’industria nella
forma azionaria, e alcune banche cominciarono a interessarsi a investimenti industriali.
La successiva crisi, iniziatasi nel 1873, causò il fallimento di numerose banche che avevano
contribuito al consolidamento delle industrie. Da qui in poi si sperimentò la concentrazione e si
avviò la ricerca di nuove forme di finanziamento esterno per le industrie.
Fra il 1860 e il 1880 nel campo delle ferrovie e delle opere pubbliche vi furono progressi
abbastanza rilevanti per lo sviluppo industriale. I progressi più rilevanti si registrano nel settore
tessile: la filatura della seta compie una sua piccola rivoluzione, la produzione si fa parzialmente
importatrice di greggio e si sposta nettamente sulla fase finale della filatura (torcitura). La quota
della seta completamente filata sulle esportazioni complessive di questo prodotto sale dal 17%
all’80%. L’incremento della filatura della seta, in questo periodo, si concentrò fortemente in
Lombardia, mentre quello della filatura cotoniera in Piemonte, dove era pure il maggiore nucleo
della produzione laniera (Biella).
I mutamenti nell’atteggiamento degli imprenditori mostrarono una maggiore apertura
all’assimilazione dei progressi tecnologici, una maggiore attenzione alla qualità della produzione e
una maggiore aggressività sul piano politico.
Nel campo della siderurgia si assistette alla crisi dell’antieconomica produzione di ghisa e carbone
di legna: le ferriere italiane sostituirono in parte la lavorazione di ghisa di importazione e in parte la
lavorazione del rottamene. La produzione di ferro appare, fra il 1860 e il 1880, all’incirca triplicata:
ma si tratta di una produzione a ciclo non completo e in gran parte di ripiego e di qualità inferiore.
Resta del tutto assente la componente acciaio. Timida è ancora la crescita del settore meccanico,
che rimane limitata alle officine che svolgono un lavoro marginale per le ferrovie e a quelle che
lavorano per scopi militari.
Nel campo dell’industria alimentare si assiste ai primi tentativi di industrializzazione: sorge la
prima unità di un futuro grosso complesso zuccheriero e Francesco Cirio fonda la sua industria di
conserve alimentari (1875).
Nasce per iniziativa di Pirelli l’omonima industria della gomma (1872). Inizia a tentarsi la
produzione di concimi e altre lavorazioni chimiche.
La fisionomia economica del Paese resta prevalentemente agricola e l’esercizio di un’attività
industriale costituisce ancora ciò che i sociologi chiamano un “comportamento deviante”. Questo
limitato sviluppo si mantiene rigidamente concentrato nelle tre regioni Nord-occidentali del paese
(che godevano di un agricoltura molto più progredita e dei vantaggi della vicinanza con paesi
europei già industriali). Le tre città capoluogo di queste regioni - Milano, Genova e Torino -
vengono acquistando la fisionomia di centri urbani moderni, in notevole contatto commerciale con
paesi industriali.
A Milano le principali ditte europee produttrici di macchinari formano una “testa di ponte”
commerciale verso il mercato potenziale che esse vedono nell’annunciarsi della industrializzazione
italiana. Gli anni dal 1860 al 1880 si possono considerare un prolungamento del progresso iniziatosi
intorno al 1830: un cinquantennio in cui, nell’ambiente economico delle regioni nord-occidentali
dell’Italia, si preparano le condizioni favorevoli per l’affermarsi dell’industrializzazione futura.

66

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Le attività industriali ricavano qualche innegabile beneficio dall’unificazione politica dell’Italia.


Ma, poiché la politica economica rimane ancorata al presupposto liberistico di una divisione
internazionale del lavoro in cui l’Italia ha un posto eminentemente agricolo, questi benefici sono
molto limitati.
Intorno al 1880 cambia notevolmente il quadro generale della politica economica. Vengono adottate
tariffe doganali protezionistiche. Si attuano interventi diretti di sostegno nel settore ferro-
meccanico, creando quote di privilegio per la meccanica italiana nelle commesse ferroviarie (legge
Baccarini, 1882), agevolando la caratteristica nazionale (legge del 1885), e promuovendo il sorgere
di un complesso siderurgico integrale a Terni (1886), destinato a rifornire la marina militare. Viene
dato impulso allo sviluppo edilizio delle grandi città. Si varano in questi anni i primi provvedimenti
di legislazione sociale.
In questi anni si riduce il peso di una delle più sfavorevoli condizioni per lo sviluppo dell’industria
italiana: la caduta dei noli riduce il prezzo del carbone importato e ne fa aumentare l’importazione.
Contemporaneamente si forma una maggiore disponibilità di capitali privati per gli investimenti
extra-agricoli. Concorrono a determinare questa maggiore disponibilità la grande crisi
internazionale e la fine del corso forzoso. La crisi agraria, delineatasi verso il 1876 con l’aumento
delle importazioni di cereali nord-americani, provocò una diminuzione di convenienza a investire in
capitali fondiari. Essa rimosse l’ostilità degli ambienti agrari verso il protezionismo doganale,
favorendo la formazione di un “blocco di interessi industriale-agrario” per più alte tariffe. Creò
infine un’ulteriore disponibilità di manodopera e spinse in basso il costo delle sussistenze. La fine
del corso forzoso (1880) provocò, a sua volta, un nuovo afflusso di capitali stranieri, specialmente
francesi. Gli effetti positivi furono limitati poiché:
1. i nuovi capitali disponibili, assai più che verso l’industria manifatturiera, si orientarono verso gli
investimenti urbanistici. E così fu per la manodopera che abbandonava le campagne.
2. i provvedimenti di incoraggiamento e sostegno nazionale (protezionismo, forniture di Stato) si
trovarono di fronte a una congiuntura estremamente sfavorevole proprio quando stavano per
cominciare a dare i loro frutti.
Il sistema bancario italiano venne quasi completamente sconquassato dalle conseguenze di una
paralizzante crisi della attività edilizia, nella quale esso era fortemente impegnato. Il promettente
slancio che sembrava fosse stato impresso alle industrie manifatturiere, sia dai nuovi orientamenti
economici, sia, di riflesso, dallo sviluppo dell’urbanizzazione, fu frenato in quasi tutti i settori.
Contrariamente ad altri settori, l’industria del cotone ebbe un ritmo di sviluppo pressoché
ininterrotto, senza risentire sostanzialmente degli anni di crisi intorno al 1890. I fattori di tale
sviluppo possono essere individuati negli effetti della protezione doganale, nell’esistenza di canali
di finanziamento autonomi rispetto al nucleo centrale del sistema bancario, nell’intraprendenza sui
mercati esteri dell’imprenditorialità formatasi in questo settore.
La protezione doganale garantì finalmente all’industria cotoniera il mercato interno, il quale era in
espansione specie a causa della urbanizzazione. L’esistenza di una autonoma fonte di finanziamento
esterno deriva dalla lenta formazione su basi locali, in forma spesso cooperativa, di una rete di
banche minori nelle zone tessili, le quali restarono sostanzialmente immuni dalla crisi che colpì le
banche maggiori, compromesse fortemente dalla speculazione edilizia.
La corrente di esportazioni venne a crearsi soprattutto verso l’America Latina, sulla scia della vasta
ondata di emigrazione che in quegli anni cominciò a muoversi dall’Italia.
Emerse chiaramente, in questo periodo, che nel settore cotoniero si era venuto formando, in una
certa area dell’Italia del Nord, il più consistente nucleo di imprenditorialità media del paese, dovuta:
1. a buona capacità di collocare le eccedenze produttive in zone marginali di lontani mercati;
2. alla propensione ad accordare preminenza agli aspetti commerciali dell’impresa, rispetto a quelli
tecnologici e organizzativi (forte presenza di individualismo e riluttanza a fusioni fra imprese).
La produttività cresce notevolmente: aumenta il peso della produzione cotoniera su quella mondiale
ma tale produzione continua ad essere rivolta prevalentemente verso manufatti di qualità più
grossolana.

67

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Oltre all’industria cotoniera, beneficiò del nuovo clima che si andava creando anche l’industria
siderurgica. La spinta non venne dalle tariffe doganali quanto da altri impulsi: le prime cospicue
commesse ferroviarie all’industria nazionale, gli ordinativi derivanti dalla formazione di una rete
tranviaria urbana e suburbana nelle maggiori città del Nord (Milano e Torino), la conquista di una
quota del mercato delle attrezzature domandate dallo sviluppo dell’industria tessile. Fa in tempo a
delinearsi solo appena un nuovo corso per la produzione siderurgia, fondato finalmente
sull’abbandono delle linee produttive tradizionali (ghisa e carbone a legna) o interlocutorie (ferro da
rimpasto dei rottami) e nell’avvio della produzione dell’acciaio.

Soltanto dopo la fine del great depression si può finalmente parlare di uno sprunt
dell’industrializzazione italiana. Gli anni che vanno dal 1897 al 1913 vedono il prodotto industriale
italiano indubbiamente accrescersi in proporzioni che non si erano mai avute prima.
Secondo l’ISTAT, la produzione manifatturiera, alla vigilia della Prima guerra mondiale, sarebbe
stata circa il doppio di quella antecedente la grande depressione e il tasso annuo medio di
incremento della produzione industriale si aggirava al 4,3%. Guardando agli incrementi di
occupazione dei singoli settori si constata come i maggiori fra questi riguardino i settori più
caratterizzati come industriali in senso moderno.
In questo periodo avviene quello “sfondamento delle resistenze” allo sviluppo industriale che non
era stato possibile al primo movimento di espansione delineatosi intorno al 1880: con il favore della
congiuntura internazionale, possono avere finalmente effetto i nuovi indirizzi di politica economica
e può trovare più pieno utilizzo quella riserva di attitudini nuove e di nuove e più moderne
propensioni che si era andata formando nel periodo antecedente, e che fino a quel momento erano
rimaste parzialmente paralizzate da una grave recessione. I motivi della mancata riuscita del
movimento degli anni ottanta vanno in gran parte ricercati, nell’orientamento prevalentemente
urbanistico, più che industriale, che gli investimenti extra-agricoli avevano preso in quegli anni (il
boom edilizio conteneva in se stesso una imminente prospettiva di crisi).

L’industrializzazione italiana degli anni 1897-1913 non comportò un drastico spostamento dai
consumi agli investimenti nell’impiego delle risorse. In questo periodo i consumi pro-capite
aumentarono notevolmente, anche se in misura inferiore agli investimenti.
Uno sforzo di industrializzazione comporta una forte pressione sui consumi quando:
I. l’impiego dei fattori produttivi (lavoro e capitali) deve essere spostato dalla produzione di beni
di consumo (per esempio alimentari) alla produzione di beni di investimento,
II. quando una quota dei beni di consumo prodotti deve essere distolta dalle disponibilità interne
per essere esportata in cambio di una importazione di beni di investimento,
III. quando l’importazione di beni di consumo necessari a formare le relative disponibilità interne
venga ridotta per far posto a una importazione di beni di investimento.
In tali casi la diminuita disponibilità di beni di consumo all’interno determina una distribuzione del
reddito prodotto più sfavorevole che in precedenza ai redditi da lavoro.
Nonostante lo spostamento di una parte della forza lavoro dall’agricoltura verso l’industria, la
produzione dell’agricoltura e degli allevamenti aumentò notevolmente nel periodo 1911-13. La
domanda di taluni generi più richiesti (cereali, carni) aumentò in misura superiore all’offerta interna
causando un aumento delle importazioni di generi alimentari, crebbe in forte misura l’esportazione
di generi alimentari pregiati (formaggi, agrumi, frutta secca), la bilancia commerciale per la parte
agricolo-alimentare riuscì a tenersi in pareggio per molti anni e diventò passiva solo verso la fine
del periodo.
L’aumento dei consumi fu generale e non riguardò solo i generi alimentari. Fra i consumi non
alimentari, la parte maggiore spettò ai consumi semplici connessi al nuovo modo di vita derivante
dalla urbanizzazione, in particolare a quelli connessi con il vestiario e l’abitazione.
Il quasi equilibrio esistente fra incremento della domanda di generi alimentari e sviluppo della
produzione agricolo-alimentare fu una delle componenti più importanti che consentirono di
mantenere in attivo la bilancia dei pagamenti nel periodo di espansione e di assicurare una buona
68

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

estensione dei consumi. Vi furono però altri due fattori di grande importanza. Uno di essi fu lo
sviluppo delle industrie esportatrici che permise di contenere entro determinati limiti l’inevitabile
disavanzo commerciale provocato dall’industrializzazione, la quale creava una forte domanda di
fonti di energia, materie prime, semilavorati, macchinari. L’altro fu il compenso apportato al
disavanzo commerciale della bilancia dei pagamenti dagli introiti derivati dalle partite “invisibili”: i
noli, il turismo, ma, soprattutto, le rimesse degli emigranti.
Le industrie esportatrici furono essenzialmente le industrie tessili (quelle tradizionali della seta in
special modo). Con il 1907 i valori delle esportazioni di seta cominciarono a declinare e si parlò di
crisi di questo settore. Milano aveva ormai sostituito Lione come principale mercato europeo.
Notevole sviluppo ebbero anche le esportazioni dell’industria cotoniera che in qualche anno giunse
a coprire un decimo di tutte le esportazioni.
La bilancia commerciale del settore cotoniero si avvicinò al pareggio. Ciò significa che l’aumentato
consumo interno di tessuti di cotone sostanzialmente fu compensato sui conti con l’estero. Ma il
fenomeno marginale (in senso economico) che contribuì in maniera decisiva all’equilibrio dei conti
con l’estero in questo periodo fu quello migratorio. L’emigrazione italiana prese in questi anni
dimensioni imponenti, soprattutto verso le direzioni transatlantiche.
Gran parte dei lavoratori emigrati inviava ogni anno in patria alle famiglie una parte dei propri
guadagni o portava con sé, in caso di rientro, dei risparmi. Si ebbe un attivo di partite “invisibili”
fornito per più di un terzo dal turismo attivo e per oltre la metà dalle rimesse degli emigrati. Il
risparmio degli emigrati fu una forma particolare italiana del contributo dato dai lavoratori
all’industrializzazione e diede luogo a un fenomeno che Marx avrebbe potuto includere fra quelli
che compongono il quadro della “accumulazione primitiva”. Questo triplice apporto - produzione
agricola in espansione, sviluppo delle industrie esportatrici, aumento delle partite attive della parte
non commerciale (soprattutto dovuto alle rimesse degli emigranti) - consentì che lo sforzo di
industrializzazione di questi anni si compisse nonostante la scarsa partecipazione del capitale
straniero e che si realizzasse in una situazione di equilibrio dei conti con l’estero.
L’impatto decisivo dell’industrializzazione italiana si colloca dopo la fine della great depression, ne
consegue che il suo svolgimento ha luogo nel quadro del Second Wind della Rivoluzione industriale
europea, caratterizzato dal superamento del technological Climateric della great depression,
attraverso lo sviluppo di nuove produzioni.
Aspetti tecnologici fondamentali del Second Wind sono l’impiego su larga scala di nuovi materiali
(acciaio e nuovi prodotti della chimica), l'introduzione di nuove fonti di energia e uno straordinario
sviluppo dell’industria meccanica. Sviluppo delle industrie di assemblaggio, la moltiplicazione
delle macchine utensili dotate delle nuove capacità consentite dall’uso dell’acciaio, la nascita
dell’industria dell’automobile.
Lo sforzo di industrializzazione italiana di questo periodo si colloca singolarmente a cavallo tra una
acquisizione dei risultati della prima fase della Industrial revolution e un’adozione soltanto parziale
delle nuove produzioni e degli apporti tecnologici che sono propri di questo Second Wind. Per
queste ragioni lo spurt di questo periodo è limitato. La faccia dell’industrializzazione italiana
ancora rivolta al recupero dei risultati della prima ondata della Rivoluzione industriale è
rappresentata soprattutto dall’industria tessile, la cui importanza risulta chiarissima se si considera
che essa era la sola grande industria esportatrice del paese, che concorreva complessivamente a
formare il 40% circa del valore complessivo della parte attiva della bilancia commerciale dell’Italia
negli anni che precedono la Prima guerra mondiale e quasi il 60% delle esportazioni non alimentari.
Essa restava la principale risorsa di occupazione operaia nel settore manifatturiero.
Il progresso tessile di questi anni si riassume nei seguenti termini:
1. Piena conquista del mercato interno;
2. Netta accentuazione del carattere di industria esportatrice;
3. Sviluppo industriale della tessitura, che era rimasta fino a questo periodo prevalentemente
organizzata con il sistema del putting out, e non soltanto della filatura;
4. Meccanizzazione e elettrificazione sia nelle attività di filatura che di tessitura.

69

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Dal canto suo la bilancia commerciale cotoniera, limitatamente ai prodotti manufatti, con la fine del
secolo, da passiva diveniva attiva e l’Italia diveniva paese esportatore del cotone.
Nel 1912 l’esportazione di tessuti sul totale delle esportazioni di seta, passava dal 6% (1885) al 17%
(1913), in una situazione di eccezionale espansione delle esportazioni di seta nel loro complesso:
notevolmente cresciuto era il movimento dei tessuti italiani verso l’Inghilterra, ove essi avevano
conquistato posizioni in passato tenute dalla tessitura lionese. Il mutamento radicale intervenuto nel
comportamento industriale dei tessitori serici è illustrato dallo sforzo compiuto per gli investimenti:
la produzione con i telai a mano era praticamente una produzione senza immobilizzi.
Le esportazioni cotoniere erano state, al contrario di quelle seriche, sin dagli inizi prevalentemente
esportazioni di tessuti anziché di filati, essendo diverso il mercato: l’industria italiana della seta,
infatti, era nata come industria fornitrice di semilavorati per l’industria dei paesi industriali; mentre
l’industria italiana del cotone, in quanto esportatrice, nasce come fornitrice del mercato di consumo
di paesi non industriali. Si assiste, per le esportazioni cotoniere, a un fenomeno inverso a quello
verificatosi per la seta. Alquanto diverso è il comportamento dell’industria lino-canapiera, che come
industria esportatrice era nata in Italia con caratteristiche affini a quelle della seta.
Più difficile fu il progresso nel comparto della lana, dove il problema era di riuscire a realizzare un
prodotto di qualità superiore, ciò che richiedeva un impegno tecnico maggiore che non negli altri
comparti tessili. A causa di tali difficoltà tecniche, la bilancia commerciale dei manufatti lanieri non
aveva ancora raggiunto, alla vigilia della Prima guerra mondiale, una posizione attiva.
Notevole fu l’investimento che si realizzò nella filatura del cotone. Prevalse largamente in Italia
l’impiego dei fusi rings su quello dei fusi self-acting. L’uso dei rings, che consentivano un prodotto
di un terzo superiore a quello dei self-actings, permise di realizzare il notevole aumento di
produzione con una manodopera ridotta e una più celere esecuzione del prodotto.
Lo sforzo tecnico principale compiuto dall’industria laniera, con l’aiuto della protezione doganale,
consistette in questo periodo nel promuovere la produzione delle più fini e costose lane pettinate.
Nel quadro generale dell’industria tessile, la fase di lavorazione costituita dalla tintura rimase
indietro. La tintura era legata ai progressi della chimica, e quindi aveva assai più la “faccia” rivolta
sul versante del Second Wind. Nonostante i progressi che si realizzarono, la stragrande parte delle
esportazioni di seta greggia italiana non era tinta e doveva essere esportata verso Francia, Svizzera
o Germania per la tintura. Analoga situazione si poteva registrare, nel comparto cotoniero, per la
mercerizzazione e per la tintura, per le quali occorreva largamente valersi dell’industria tedesca.

L’aspetto dello sviluppo industriale italiano 1896-1914 più sicuramente rivolto sul versante del
Second Wind dell’Industrial Revolution è certamente la nascita di una industria idroelettrica. Verso
questo settore di investimenti si indirizzarono buona parte dei capitali liberati dalla
nazionalizzazione delle ferrovie (1905). Su di essa si concentrò l’interesse delle grandi banche
d’affari formatesi per iniziativa tedesca dopo la grande crisi bancaria degli anni novanta. Nella
costruzioni elettriche fu investito, fra il 1895 e il 1914, un capitale ingente. Questo imponente
sviluppo fu vissuto psicologicamente negli ambienti economici italiani come una liberazione da una
sorta di impotenza industriale cui molti ritenevano ancora soggetta l’Italia, a causa della sua
mancanza di risorse energetiche. La sola produzione idroelettrica veniva a sostituire un quinto
dell’importazione di carbone all’anno. La massima parte della nuova produzione idroelettrica ebbe
come destinazione l’industria. L’industria tessile ne assorbì il quantitativo relativamente maggiore,
seguita dall’industria meccanica. Non troppo rilevante, invece, il consumo della siderurgia.
L’altra grande industria “nuova” che nasce in questo periodo è quella dell’acciaio. L’età dell’acciaio
non è soltanto l’età della produzione, ma anche soprattutto, l’età dell’utilizzazione dell’acciaio: lo
sforzo dell’industrializzazione italiano poté realizzare la prima condizione, in misura meno
soddisfacente l’altra. La scelta tecnologica fondamentale fu l’adozione del forno Martin, che
permetteva di aggirare la grossa inferiorità derivante dalla mancanza, in Italia, di giacimenti di
litantrace. Caratteristica del procedimento Martin era la possibilità, che esso offriva, di utilizzare
rottame, in proporzione anche 50-50, con la ghisa, per la produzione dell’acciaio. Inoltre il

70

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

procedimento Martin era più fungibile. Infine esso consentiva una maggiore elasticità produttiva,
più adatta alle incertezze del mercato in cui si muoveva la produzione italiana.
La siderurgia italiana nacque in stretta connessione con le commesse della marina militare e con la
protezione accordata alla industria cantieristica. Mancava una produzione di ghisa che offrisse il
vantaggio di economie di scala verticali: la produzione di acciaio partì in un primo tempo con
l’impiego di rottami e ghisa d’importazione e fu poi condizionata da questa partenza. In terzo luogo,
forze centrifughe diverse spingevano al frazionamento della produzione, fatto che limitava non solo
la possibilità di usufruire di economie di scala, ma anche la propensione per investimenti capital-
intensive. Il risultato di questo sviluppo dispersivo, che si aggiunse al grave svantaggio di dover
importare il carbone necessario, fu che la vita della siderurgia italiana risultò assai difficile, fino alla
riorganizzazione avvenuta nel dopoguerra.
Il più vero protagonista dell’età dell’acciaio, l’industria meccanica, non conobbe pari progresso. È
relativamente più facile, mediante la protezione doganale, e assicurando alcuni grandi sbocchi,
ferrovie e cantieri navali, favorire la nascita di una siderurgia che non quella di una industria
meccanica. Questa si articola in grande varietà di produzioni, richiede - per specializzarsi - mercati
industriali già vasti, deve essere in grado di misurarsi competitivamente sui mercati internazionali
per raggiungere dimensioni sufficienti ed ha bisogno di numerose maestranze specializzate, quale
difficilmente sono disponibili agli inizi di uno sforzo di industrializzazione. Nonostante la
protezione accordata ai cantieri navali, neanche questo comparto della produzione meccanica
pesante riuscì a dominare il mercato interno. Riuscì invece ad avere il monopolio delle forniture
dell’industria delle costruzioni di materiale ferroviario, e ciò in virtù della nazionalizzazione delle
ferrovie. Per gli urgenti e più massicci ordinativi che furono necessari nei tre anni successivi al
passaggio delle ferrovie di Stato, si dovette ricorrere per il 38% circa all’industria straniera, poiché
si era accumulato un fabbisogno di materiale rotabile di cui non poteva essere dilazionato
l’approvvigionamento e al quale, nell’urgenza, non poteva far fronte unicamente l’industria
nazionale.
Ormai né la cantieristica né le costruzioni ferroviarie costituivano più il nerbo di una meccanica
moderna. Essa era un’industria creativa di beni “nuovi” per eccellenza, sia di beni per la produzione
(motori elettrici, motori a scoppio, macchine utensili, ecc.), sia di beni di consumo destinati a
mutare i caratteri del modo di vivere come la bicicletta e l’automobile. Nell’insieme, l’industria
italiana non fu presente, in questa fase, nel campo dei beni “nuovi” di investimento, salvo qualche
raro promettente inizio come quello delle macchine da scrivere, la cui produzione fu avviata da
Camillo Olivetti a Ivrea nel 1911, o quello delle macchine per tipografi. Si aprirono uno spazio tra i
beni “nuovi” di consumo l’industria della bicicletta e del motociclo ma, soprattutto, quella
dell’automobile. Quest’ultima produzione fu probabilmente uno dei più brillanti e validi esempi di
partecipazione dell’industria italiana al nuovo movimento dell’industria internazionale, ed ebbe, più
in generale, molta importanza nell’aprire la strada al sorgere di una meccanica moderna in Italia,
stimolando l’inventiva in questo campo, creando maestranze specializzate, promuovendo il sorgere
di produzioni collaterali (tra le quali l’industria dell’alluminio). Negli anni immediatamente
precedenti la Prima guerra mondiale il mercato interno era controllato dalla produzione nazionale.
Era un mercato ancora molto ristretto, perché l’automobile era allora - in una società come quella
italiana, ancora lontana dalla mass consumption age - un bene di lusso. Si trattava prevalentemente
di vetture grosse, costruite con sistemi produttivi ancora artigianali, ben diversi da quello che già si
andavano affermando nell’industria americana, dove era già sorta la produzione di serie.
L’industria chimica italiana fu sostanzialmente assente nei due campi che erano stati aperti in questo
settore dalle scoperte della seconda metà dell’Ottocento: la produzione di alcali secondo i nuovi
metodi (Soda Solvay) e la sintesi dei componenti organici, che ebbe le sue più grandi applicazioni
nel campo dei coloranti, degli esplosivi, dei farmaceutici, della fotografia, aprendo la strada - con la
seta artificiale - alle fibre tessili sintetiche.
L’industria chimica italiana degli inizi del secolo fu principalmente un’industria di fertilizzanti per
l’agricoltura: perfosfati, in primo luogo, il cui incremento produttivo è espresso dalla produzione di
acido solforico. Dal 1905 è presente anche la produzione di azotati, e nel 1913 di solfato di
71

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

ammonio, ma la produzione interna non soddisfaceva la domanda e si era costretti a ricorrere


ancora alle importazioni.

La crescita economica italiana degli anni 1896-1913 si svolse in un clima economico internazionale
favorevole: grande importanza ebbe nel processo di crescita l’andamento delle esportazioni, sia
agricole che industriali (soprattutto tessili), decisamente dipendente dal trend ascensivo della
domanda internazionale.
È evidente che il protezionismo fece da ammortizzatore di molti effetti negativi (a spese del
mercato interno, che però si mantenne ugualmente in espansione), derivanti sia da prezzi
internazionali in diminuzione che da prezzi in aumento. Gli investimenti industriali poterono
beneficiare delle diminuzioni di prezzo delle attrezzature meccaniche importate. La sostituzione di
fonti di energia interne (elettricità) a quelle di importazioni (carbone) permise a molte industrie di
sottrarsi agli effetti dei periodici rincari dei prezzi del carbone.
Era vigente in Italia dal 1887 una tariffa doganale fortemente protezionistica. L’azione dello Stato
per promozione dello sviluppo industriale non si limitò, inoltre, alla protezione doganale.
L’industria domestica venne favorita con altre misure di aiuto: gli esempi più importanti furono le
forniture assicurate dalle ferrovie, i premi di navigazione e i compensi di costruzione per le navi
prodotte nei cantieri italiani. Questa legislazione a favore dell’industria cantieristica risaliva
anch’essa agli anni ottanta (1885).
Tali misure, che favorivano in sostanza la meccanica pesante, andavano in parte a compensare i
maggiori oneri che questo settore doveva subire per la protezione doganale alla siderurgia. Restava
escluso da questa possibilità di compenso tutto il resto dell’industria meccanica.
L’industria meccanica a più alto contenuto tecnologico non soffriva tanto per la ancora scarsa
disponibilità di maestranze specializzate e per le dimensioni ancora limitate del mercato dei beni di
investimento industriali. Una protezione doganale dell’industria meccanica che lavorava per le altre
attività dell’industria, avrebbe probabilmente nuociuto di più alle possibilità di attrezzamento delle
altre industrie di quanto avrebbe potuto giovare a questo specifico settore.
La protezione assicurata dallo Stato a molte attività industriali fu un fattore molto importante dello
spurt di questi anni. Lo Stato, però, non si fece imprenditore diretto o finanziatore, e la sua opera di
promozione industriale non assunse queste forme (come sarebbe invece accaduto dopo la Prima
guerra mondiale).
La presenza di una imprenditorialità privata è dimostrata dal fatto che l’industrializzazione di
questo periodo non si svolse prevalentemente in imprese di grandi dimensioni: salvo che per la
siderurgia e qualche rara eccezione, vi fu una prevalenza di imprese di dimensioni piccole o medie.
L’azione degli imprenditori industriali privati in alcuni settori trovò uno speciale sostegno
finanziario, e non soltanto finanziario, nelle banche d’affari. Dopo la crisi bancaria (1889-1893) il
vuoto creatosi nel sistema bancario italiano era stato riempito prontamente dall’iniziativa di
banchieri tedeschi, i quali avevano promosso la fondazione di due nuovi istituti di credito (la Banca
Commerciale Italiana e il Credito Italiano). Questi istituti operavano secondo il modello tedesco
delle banche di deposito e investimento, impegnandosi a fondo nel finanziare la nascita e
l'ingrandimento di imprese industriali in Italia. Queste banche non si limitarono a fornire
direttamente mezzi finanziari, ma aiutarono le imprese a darsi forma di società azionarie, a
concentrarsi e accordarsi quando ciò appariva vantaggioso. Esse hanno operato essenzialmente in
settori nuovi per l’industria italiana, trascurando quasi completamente quelle più tradizionali come
l’industria tessile. E fu soprattutto nelle industri nuove che si affermò la concentrazione e la forma
della società azionaria. Assai limitata rimase la formazione di società per azioni nel settore tessile.
Lo spurt dell’industria italiana degli anni 1896-1913 fu quindi il risultato dell’azione combinata di
agenti diversi, a nessuno dei quali si può attribuire un ruolo esclusivo e nettamente preponderante.
Una parte di essi rientra fra gli agenti tradizionali (imprenditorialità privata), un’altra parte fra quelli
che operano soprattutto in casi storici di industrializzazione ritardata come quello della Germania
(banca mista di deposito e investimento).

72

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Riesce difficile individuare, nella formazione dell’Italia industriale, un vero e proprio big spurt. Le
cause della scarsa “violenza” della crescita italiana in un singolo periodo - e che sembrano
testimoniare piuttosto uno sviluppo per spurt successivi di limitata entità - devono probabilmente
essere ricercate in due direzioni:
1. Da un lato nel carattere composito degli agenti dello sviluppo, nessuno dei quali operò, in
definitiva, con grande forza e che non determinò, quindi, una grande concentrazione nel tempo;
2. Dall’altro lato nei gravi limiti territoriali che questo sviluppo ebbe.
Si generò una crescita caratterizzata nel medio periodo da alcuni fattori di equilibrio (conti con
l’estero, rapporto fra investimenti e consumi), ma con una prospettiva, nel più lungo periodo, di
squilibri crescenti che si rivelarono chiaramente dopo la Prima guerra mondiale. Vennero allora a
ridursi drasticamente alcune importanti partite compensative nei conti con l’estero (le rimesse degli
emigranti); entrò in periodo climaterico la componente più tradizionale, ed esportatrice (quella
tessile) della struttura industriale italiana; e i limiti tecnologici e territoriali del precedente sviluppo
esplosero in un grave eccesso di capacità produttiva delle industrie pesanti, le quali si trovarono di
fronte a un mercato interno territorialmente limitato de facto (per la scarsità del progresso
economico delle regioni meridionali) e dotato di una struttura ancora prevalentemente arcaica nel
suo mix.
È evidente che la produttività dell’apparato industriale italiano concentrato nelle tre regioni nord-
occidentali era assai maggiore che nel resto del paese: considerando i loro indici di
industrializzazione isolatamente rispetto a quello dell’Italia intera, il divario rispetto ai livelli di
industrializzazione dell’Europa centro-occidentale appare assai minore. In una certa misura, il
processo di industrializzazione delle tre regioni si comportò come quello di un “piccolo paese”
autonomo. Tuttavia il dualismo tra Nord e Sud non si formò nel periodo dell’industrializzazione, ma
approfondì soltanto una profonda differenza preesistente. Secondo il Saraceno81 , l’unificazione
amministrativa non fu accompagnata da un processo di unificazione economica: in realtà le due
Italie continuarono a camminare separatamente lungo i binari precedenti e continuarono ad avere
prevalenti rapporti economici, ciascuna per conto suo, con il resto del mondo.
Secondo Kuznets, «il commercio estero ha, nelle attività economica delle piccole nazioni,
un’importanza maggiore che in quella delle grandi».
Il fatto che la piccola area industriale settentrionale facesse parte di una nazione di più ampie
dimensioni non restò senza influenza sulle sue stesse possibilità di sviluppo:
1. In primo luogo il livello della spesa pubblica capace di dare impulso a produzione industriali,
specie quelle di carattere militare, poté indubbiamente essere più elevato di quanto non avrebbe
consentito una piccola nazione.
2. In secondo luogo, benché il mercato interno fondamentale dei manufatti di consumo fosse
quello delle regioni più ricche, almeno i centri urbani del resto d’Italia ne costituirono
certamente una quota non disprezzabile.
3. Il terzo elemento, quello più importante, corrisponde all’equilibrio dei conti con l’estero, nel cui
quadro si svolge lo sforzo di industrializzazione dei primi anni del nuovo secolo, ricevette un
apporto determinante dalle rimesse degli emigranti, e questi erano per grandissima parte
contadini poveri delle regioni meridionali. L’estrema povertà del Mezzogiorno entrò così come
componente organica nella struttura del processo di sviluppo che si manifesto nel 1896-1913.

81 Pasquale Saraceno (1903 – 1991) è stato un economista italiano.


Laureato nel 1929 presso l'Università Commerciale Luigi Bocconi è stato Docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano e in quella di Venezia, fu uno dei maggiori meridionalisti cattolici. Fu consulente di diversi ministri democristiani e
sostenitore della programmazione tramite l'IRI (dove fu assunto nel 1933). Influenzò la politica di intervento nel Mezzogiorno e,
dopo aver fondato nel 1946 l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno (Svimez), fu tra i più convinti sostenitori
della costituzione della Cassa del Mezzogiorno.
Saraceno non negava la validità dell'economia di mercato ma riteneva che questa non fosse capace da sola di correggere gli
squilibri socio economici sorti in seguito al passaggio da un'economia semiautarchica a una di mercato. Per questo era necessaria
la creazione di aziende pubbliche di produzione che sostituissero o integrassero l'iniziativa privata. È stato anche rappresentante
italiano nella Commissione Economica per l'europa di Bruxelles e Consigliere della Banca Europea degli investimenti.
73

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

PROFILO DELLA STORIA INDUSTRIALE ITALIANA82.


A fine Ottocento, il tenore di vita del lavoratore italiano assomigliava molto più a quello dei suoi
antenati medievali che a quello degli attuali pronipoti: i consumi privati annui sono cresciuti, in un
secolo, di otto volte. L’aumento dei consumi alimentari e del tenore di vita della grande
maggioranza della popolazione si è tradotto, in un tempo relativamente breve, in un’autentica
rivoluzione nelle “statistiche vitali”. I consumi della classe operaia, le statistiche vitali, l’istruzione
media offrono un’approssimazione dell’andamento del “tenore di vita” probabilmente migliore di
quella ricavabile dall’osservazione del reddito pro capite.
Sulla base sia delle condizioni di partenza sia delle previsioni formulate di volta in volta dagli
osservatori dovrebbe bastare, in via teorica, a definire “storia di un successo” i risultati economici
ottenuti nell’ultimo secolo. L’innegabile successo italiano si appanna un po’ e appare non priva di
fondamento la ricerca di fattori che abbiano impedito all’economia italiana di espandere
ulteriormente la propria frontiera delle possibilità produttive.

1. Misurazione della produttività totale dei fattori.


L’analisi della performance di un sistema economico si incentra, solitamente, sulla misurazione
dell’efficienza del sistema produttivo e della sua evoluzione nel tempo e nello spazio, e quindi sulla
valutazione della cosiddetta produttività totale dei fattori. La crescita della produttività totale dei
fattori è tradizionalmente rappresentata dalla crescita del prodotto (o dei costi totali) al netto del
contributo dei singoli fattori di produzione (o dei prezzi dei fattori e del prodotto), ovvero
dall’elasticità del prodotto all’indicatore della tecnologia o, alternativamente, dall’elasticità dei costi
rispetto alla stessa variabile. Solow ha mostrato che queste grandezze residuali corrispondono a
variazioni dell’efficienza produttiva (al progresso tecnico, in senso molto lato) se condizioni
concorrenziali caratterizzano il mercato dei prodotti, e se sono assenti forme di rigidità di breve e di
lungo periodo (per esempio, rendimenti di scala crescenti).
Nelle caratteristiche strutturali dell’economia italiana, per un dato stock di capitale pubblico e
privato, lavoro e importazioni non energetiche sembrano essere fattori sostituti nel corso dell’intero
secolo. Il grado di sostituibilità non appare di dimensioni particolarmente significative nel caso
delle importazioni energetiche. Inoltre, variazioni in aumento dello stock di capitale privato
inducono, tra il 1890-1990, a riduzioni dell’occupazione ma anche maggiori impieghi degli altri
fattori di produzione. Al contrario, incrementi dello stock di capitale pubblico tendono a generare
nuova occupazione deprimendo, invece, in misura sensibile, gli impieghi degli altri fattori
produttivi.
Il capitale privato, nel lungo periodo, rimane un sostituto del lavoro e un complemento degli altri
fattori produttivi, mentre la relazione fra capitale privato e capitale pubblico indica un rilevante
grado di complementarietà. Va sottolineato tuttavia che questa relazione tende a decrescere in
misura rilevante nel corso del secolo, fin quasi a dimezzarsi.

2. Permanenze.
Tra le caratteristiche dell’economia italiana, emergono alcune “permanenze”, ovvero elementi del
sistema economico, osservabili e misurabili a livello aggregato, che si mantengono piuttosto stabili
nel tempo.
Dipendenza dall’estero. Sentita da molti come uno dei caratteri distintivi della nostra economia e
come una delle cause del suo ritardato sviluppo, la dipendenza dall’estero va indubbiamente
annoverata tra le “permanenze strutturali” del sistema. L’evoluzione strutturale del sistema
economico italiano è caratterizzata da una diminuzione nella dipendenza della tecnologia estera nel
comparto dei beni strumentali mentre permane quella delle materie prime importate.

82N. ROSSI, G. TONIOLO. Un secolo di sviluppo economico italiano: permanenze e discontinuità, Rivista di storia economica, X,
1993, n.2.
74

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Importazioni e lavoro sono sostituti con elasticità crescente nel tempo: aumenta l’integrazione
internazionale e si allentano, nel dopoguerra, i vincoli alla mobilità dei prodotti, dei fattori e delle
stesse imprese. In prospettiva, la dipendenza dall’estero non si presenta con connotati di peculiarità.
Va rilevata la non eccezionalità di un pattern commerciale caratterizzato, in una prima fase, da
crescenti importazioni di beni capitali e, successivamente, da una loro sostituzione con prodotti
domestici, a mano a mano che il paese acquisisce le necessarie tecnologie. Per quanto riguarda le
materie prime, se è vero che quasi tutti i paesi di più antica industrializzazione sono assai più ricchi
del nostro in risorse naturali e che questa circostanza costituì per l’Italia uno svantaggio nel XIX
secolo, esso è venuto scemando nei decenni più vicini a noi. La caduta dei costi di trasporto e delle
barriere al commercio internazionale ha consentito a ciascun paese di approvvigionarsi ai costi più
bassi prevalenti sui mercati internazionali. Il “Piano Sinigaglia83 ” diede all’Italia quell’industria
siderurgica ritenuta possibile solo a prezzo di una grande forzatura dei vantaggi comparati.
Economie di scala. Nel corso del secolo, l’economia italiana appare caratterizzata da rilevanti
rendimenti di scala. La maggior efficienza dei fattori della produzione dipende largamente dalla
riallocazione delle risorse tra settori produttivi e non già dai vantaggi di dimensione in senso stretto.
Rendimenti crescenti, nell’aggregato, possono derivare:
I. dall’allargamento del mercato interno,
II. dalla specializzazione conseguente all’apertura internazionale,
III. dal miglioramento del capitale umano,
IV. dall’attività di ricerca e sviluppo condotta da imprese e operatore pubblico,
V. dalla struttura stessa di prelievo e spesa del governo.
Questo quadro della rappresentazione dello sviluppo economico italiano sottolinea, da un lato,
l’importanza della Prima guerra mondiale e, dall’altro, sia il progressivo allargamento del mercato
sia il ruolo delle politiche allocative settoriali e territoriali. È importante, inoltre, l’aumento della
produttività nella sua misura duale (diminuzione dei costi unitari), spiegato in gran parte da
rendimenti di scala prevalenti a livello aggregato.
Il potere di mercato delle imprese. L’analisi empirica genera due ulteriori indicatori aggregati:
• Il potere di mercato delle imprese (mark-up), dato dal rapporto tra prezzo e costo marginale
dell’output del settore privato.
• Il margine di profitto (o profittabilità), consistente in una misura del rapporto tra prezzo e
costo medio totale.
Per tutto il secolo le imprese mantengono, nell’aggregato, un potere di mercato elevato e solo
leggermente decrescente nel tempo, senza alcuna evidente correlazione con il grado di apertura
internazionale del sistema.
La profittabilità del sistema si mantiene, tra il 1895 e il 1913, sui valori più elevati dell’intera
esperienza secolare. Ciò conferma l’ipotesi che la dinamica del costo del lavoro in età giolittiana
fosse eccezionalmente favorevole alla formazione del profitto e, quindi, all’accumulazione. Essa è
elevata negli anni Venti, scende durante la Grande Crisi, risale con la Guerra d’Etiopia. Come
mostrano i dati relativi al mark-up, le imperfezioni di mercato hanno caratterizzato in misura
sostanziale l’intero periodo garantendo cospicui margini di profitto del sistema.
La sottocapitalizzazione dell’economia. È possibile definire come sottocapitalizzazione
un’economia nella quale il prezzo ombra dei beni capitali, definito come la riduzione dei costi
possibile, al margine, a seguito dell’aggiustamento del fattore semifisso, sia superiore al loro prezzo
di mercato. Ciò sta a indicare che lo stock di capitale desiderato dalle imprese è superiore a quello
realizzato. Viceversa nel caso si sovracapitalizzazione.
Dalla metà degli anni ’80 si nota una chiara sovracapitalizzazione. Vi è dunque una prima lunga
fase del nostro sviluppo, compresa tra l’ultimo decennio del XIX secolo e il cosiddetto “miracolo

83 Il piano Sinigaglia per l'industria siderurgica venne approvato dal governo italiano nel 1948. Prendeva il nome dall'ingegnere ed
imprenditore Oscar Sinigaglia e prevedeva un forte aumento della capacità produttiva della siderurgia nazionale, incentrato sulla
ricostruzione dello stabilimento di Genova-Cornigliano e sull'integrazione verticale delle lavorazioni a Piombino ed a Bagnoli. [NdR]
75

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

economico”, durante la quale le imprese avrebbero tratto convenienza dall’installazione di uno


stock di capitale, pubblico e privato, superiore a quello effettivamente osservato.
La sottocapitalizzazione degli anni ’90, tipica di un’economia sottosviluppata, venga in parte
assorbita durante le fasi di forte accumulazione che caratterizza l’età giolittiana. La guerra conduce
a un eccessivo utilizzo della capacità produttiva che viene nuovamente allentato con la cresciuta
degli investimenti che caratterizza gli anni di De Stefani.
Sino alla Prima guerra mondiale i prezzi ombra del capitale pubblico e privato seguono il medesimo
andamento a indicare che entrambi i comparti contribuiscono sia alla notevole sottocapitalizzazione
iniziale sia al successivo processo di adeguamento.
Gli anni ’50 sono caratterizzati da carenza di capitale privato il cui prezzo ombra cresce a un tasso
più che doppio rispetto a quello del capitale pubblico e del deflatore degli investimenti.
Tra il 1960 e il 1982 la capacità produttiva del sistema appare sostanzialmente adeguata. Gli stock
di capitale pubblico e privato sono in equilibrio. Successivamente si nota una considerevole
sovracapitalizzazione del comparto privato accompagnata da una carenza di capitale pubblico.

3. Discontinuità.
Una periodizzazione canonica dello sviluppo italiano. Le fasi dello sviluppo economico italiano
sono disegnate secondo una periodizzazione dell’economia mondiale. Per ciascuno dei singoli
sottoperiodi, il residuo di Solow e il residuo “aggiustato” (ossia depurato sia degli effetti dei
rendimenti di scala sia da quelli della fissità) possono essere come quell’aumento della produttività
che risulta dall’effetto netto sull’efficienza produttiva di tutto ciò che non è ricollegabile a
rendimenti crescenti o all’imperfetto aggiustamento dello stock di capitale alla domanda.
L’evoluzione del puro progresso tecnico mostra un profilo abbastanza familiare: la crescita della
produttività totale dei fattori rimane sostenuta in tutto il primo cinquantennio toccando un tasso di
crescita annuo pari all’1,7% prima della Grande Depressione e assestandosi poi introno allo 0,7%
nel periodo fra le due guerre.
L’impennata delle quotazioni dei prodotti petroliferi intervenuta nel 1974 rende peraltro evidente il
rallentamento della produttività dopo il 1974. L’apporto del progresso tecnico risulta più che
dimezzato nel ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale a causa della presenza di
economie di scala nel sistema. Nel periodo 1974-90, infine, le indicazioni fornite dal residuo di
Solow risultano del tutto stravolte e si manifestano, addirittura, dei segni di crescente inefficienza
nel sistema a partire fagli anni Sessanta.
Nel complesso del secolo, il residuo “aggiustato” spiega solo la metà dell’aumento della
produttività. Il suo contributo è massimo prima della Seconda guerra mondiale e tende
successivamente a ridursi. Dopo il 1970, le inefficienze hanno prevalso, in media, sulle maggiori
efficienze.
La “piena occupazione” come cesura: i primi anni ’60. Un’altra discontinuità va, a priori, ricercata
negli anni della cosiddetta riconversione industriale, a cavallo del 1980. Per alcuni anni le “pure”
efficienze/inefficienze nette tornano a dare un contributo positivo alla crescita. La reale
“discontinuità” va forse ricercata nella prima metà degli anni ’60, quando l’industria si trova per la
prima volta di fronte a una curva di offerta di lavoro sensibilmente inclinata positivamente. Da quel
momento in avanti, non è possibile interpretare aspetti non irrilevanti della crescita e
dell’accumulazione del paese con schemi riferibili a un’offerta illimitata di lavoro à la Lewis84.
Tra la fine degli anni ’50 e la metà del decennio successivo si nota una rottura di trend nell’elasticità
di lungo periodo del lavoro al prezzo del capitale: aumenta fortemente la sostituibilità tra i fattori. In
un contesto di crescente apertura internazionale, ogni aumento di salario non accompagnato da un
eguale aumento della produttività contribuisce alla deindustrializzazione. Con il raggiungimento

84 Il modello di sviluppo a due settori di Lewis è una teoria dello sviluppo economico in cui il surplus di lavoro dal settore agricolo
tradizionale si trasferisce al settore industriale moderno la cui crescita, nel tempo, assorbe il surplus di lavoro, promuove
l’industrializzazione e stimola lo sviluppo sostenuto. [NdR]
76

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

della piena occupazione e con l’adesione al Mercato Comune, la gestione delle imprese e della
politica economica richiedono una radicale innovazione nel metodo e nella stessa mentalità. È
questo il senso ultimo della “discontinuità”.

4. Considerazioni conclusive.
Sviluppo in condizioni di arretratezza: capitalismo senza capitali o senza capitalisti?
Se volessimo ricercare una o più cause che possano aver rallentato la crescita dell’economia italiana
nella prima parte del XIX secolo e, soprattutto, che possano aver determinato la
sottocapitalizzazione dovremmo, in ogni caso, tenere in considerazione l’indubitabile operatività
nel nostro paese di capaci imprenditori industriali. Le manifatture serica, laniera e cotoniera, tanto
importanti nelle prime fasi dello “sviluppo economico moderno” della Penisola, crebbero e
prosperarono grazie all’attività di numerosi “capitani di industria”, piccoli e medi, attenti alle nuove
tecniche e ai nuovi mercati, pronti a reinvestire nell’impresa i profitti che questa generava. Ma è
anche vero che, nell’ultima parte del secolo, quando si trattò di creare un’industria “pesante”
nazionale e di sfruttare le opportunità offerte a un paese relativamente arretrato di trarre vantaggio a
costi relativamente bassi della tecnologia del Second Wind, si faticò a trovare capitali di rischio
disposti a lunghi immobilizzi dall’esito più incerto della norma.
All’inizio di questo periodo è apparso un nuovo tipo di intermediario finanziario: la banca mista,
che assunse su di sé parte dei rischi di impresa, soprattutto nel settore elettrico.
Due permanenze maggiormente peculiari del nostro sistema sono:
• l’elevato potere di mercato delle imprese,
• la tendenza alla sottocapitalizzazione.
Sussidi e commesse conferiscono un potere di mercato a chi li ottiene. Ed è un potere che si
autoalimenta, senza necessariamente ricorrere alla corruzione.
Quanto alla banca mista - e, a fortiori, alla banca capogruppo - uno dei modi con i quali riesce a
diminuire il rischio dell’investimento consiste tipicamente nell’evitare la concorrenza tra le imprese
finanziate tramite fusioni, accordi, cartelli, sapienti divisioni orizzontali e verticali del mercato.
Nel complesso non meraviglia trovare, tra le caratteristiche distintive e “permanenti” del nostro
sistema economico, sino al secondo dopoguerra, alti valori del mark-up. Nell’aggregato, è come se
la cultura italiana abbia creato nel tempo potenti anticorpi contro ogni contagio concorrenziale.
La sottocapitalizzazione costituisce, in parte, l’altra faccia della medesima medaglia. Essa può
essere legata da relazioni causali ambigue con gli interventi incentivanti dei pubblici poteri, la
sostituzione delle banche e dello stesso stato all’imprenditoria privata, i frequenti “salvataggi”.

Condizioni di partenza “path-dependence”.


A partire dagli anni ’60, i fattori di ritardo e di rallentamento della crescita, a parità di altre
condizioni, sono evidenziati dal basso valore medio del residuo aggiustato che, nella misura duale,
assume addirittura valori positivi intorno al 1970. È possibile attribuire il cambiamento di segno del
“residuo aggiustato” in gran parte all’operatore pubblico nella duplice veste di produttore di servizi
e di istituzioni intese in un’accezione lata comprendente l’interazione tra i diversi soggetti sociali e i
modi di composizione dei relativi conflitti.
Si potrebbe ipotizzare che le “condizioni di arretratezza” relative di partenza - dalle quali sono
derivati anche benefici in termini di crescita - abbiano influito sulla struttura istituzionale,
disegnando regole adatte a un’economia caratterizzata da elevata sottooccupazione. Il
raggiungimento della piena occupazione, attorno a metà degli anni ’60, postulava profonde
innovazioni nella gestione delle imprese, delle relazioni industriali, della politica economica, della
società nel suo complesso. Si può pensare che la maggioranza degli operatori privati abbia adeguato
propri comportamenti alla nuova situazione. Non altrettanto sarebbe avvenuto per il complesso
delle istituzioni e delle regole di governo, troppo condizionate dalla struttura ereditata dal passato.
Si tratta di quell’insieme di permanenze culturali, ideologiche, sociali, politiche che ha fatto sì che
l’Italia abbia “sempre pagato prezzi esagerati per diventare normale”.

77

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

CHE COS’È L’IMPRESA? UNA PROSPETTIVA STORICA85.


I tratti comuni fondamentali riscontrabili nella storia collettiva di gran parte delle più importanti
società industriali sono che improvvisamente negli ultimi due decenni del XIX secolo fa la sua
comparsa un nuovo tipo di azienda e che per tutto il secolo ventesimo queste imprese si
concentrano in industrie aventi le medesime caratteristiche.
Le prime imprese industriali del genere nacquero non appena realizzate le reti di trasporto e di
comunicazione moderne, reti che a loro volta erano costruite, gestite, estese e coordinate da grandi
imprese a struttura gerarchica. I nuovi sistemi ferroviari, telegrafici, di navigazione a vapore e di
trasmissione per cavo resero possibile, a un livello assolutamente senza precedenti, un flusso
costante e programmato di merci e di informazioni attraverso l’economia dei singoli paesi e
internazionale.
Le nuove possibilità di produrre beni a ritmi e in volumi grandemente accresciuti generarono
un’ondata di innovazioni tecnologiche che dilagò per l’Europa occidentale e gli Stati Uniti durante
l’ultimo ventennio del secolo determinando la “Seconda rivoluzione industriale”.
Nacquero nuove attività industriali mentre le vecchie si trasformarono. Nella chimica nuovi
procedimenti permisero di ottenere per sintesi coloranti, medicinali, fibre e fertilizzanti. Le più
rivoluzionarie fra le nuove tecnologie furono quelle che servivano a generare e trasmettere
elettricità per scopi di illuminazione, trazione urbana e forza motrice industriale. Queste nuove
industrie trainarono la crescita economica ed ebbero un ruolo essenziale nella rapida conversione
delle economie commerciali, agricole e rurali in moderne economie industriali urbane. Le imprese
di nuova formazione che crearono e svilupparono queste attività iniziarono quasi subito a competere
sul mercato internazionale.
Le imprese di questi settori presentavano delle differenze rispetto a quelle dei settori tradizionali
come il tessile, la pelletteria, l’industria cantieristica, ecc. Erano ad assai più alta intensità di
capitale, cioè il rapporto fra capitale e lavoro per unità di prodotto era in esse molto più elevato. E
potevano sfruttare molto più efficacemente le economie di scale e di gamma (scope). Nelle nuove
industrie capital-intensive i grandi impianti offrivano vantaggi di costo rispetto ai piccoli
stabilimenti. Salendo di scala efficiente minima, al crescere del volume lavorato il costo unitario di
lungo periodo calava molto più rapidamente di quanto non avvenisse nelle vecchie industrie ad alta
intensità di manodopera. Molte aziende traevano beneficio, altresì, dalle economie di gamma.
Questi vantaggi di costo potenziali si potevano conseguire pienamente solo a patto di mantenere
nell’impianto un flusso costante di materiali tale da assicurare una efficace utilizzazione delle
capacità dell’impianto stesso. Se il volume di flusso realizzato scendeva al di sotto della capacità, i
costi unitari effettivi salivano allora rapidamente. I due dati decisivi per la determinazione del costo
e del profitto erano (come sono tuttora) il tasso di capacità utilizzata e il volume della produzione,
ovvero la quantità effettivamente lavorata in un dato periodo di tempo. Nelle industrie capital-
intensive il volume di prodotto necessario per stare dentro la scala efficiente minima richiedeva un
accurato coordinamento: l’impegno costante di una équipe o gerarchia direttiva. Le economie
potenziali di scala e di gamma sono date dalle caratteristiche materiali degli impianti produttivi; le
economie effettive di scala e di gamma, che si misurano col volume prodotto, sono di natura
organizzativa.
Queste imprese nelle nuove industrie ad alta intensità di capitale sfruttavano tutte i vantaggi di costo
della scala e della diversificazione. L’investimento in attrezzature produttive abbastanza grandi da
sfruttare tali vantaggi non bastava da solo: occorrevano altre due serie di investimenti. Gli
imprenditori dovevano creare un’organizzazione commerciale e distributiva di dimensione
nazionale e poi internazionale; dovevano reclutare squadre di capi di livello medio e basso per
coordinare il flusso di prodotti lungo le linee di produzione e distribuzione, e gruppi di dirigenti
d’alto livello per controllare le operazioni correnti e predisporre quelle future.
Le imprese che per prime fecero la triplice serie di investimenti - nel campo industriale,
commerciale e dirigenziale - raggiunsero rapidamente una posizione dominante nei rispettivi settori.

85 A.D. CHANDLER. Che cos’è l’impresa? Una prospettiva storica, Archivi e Imprese, IV, luglio-dicembre 1991.
78

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Il triplice investimento assicurava potenti vantaggi ai first movers: per poter beneficiare di costi
confrontabili, gli eventuali sfidanti dovevano costruire impianti di dimensioni analoghe mentre i
first movers già erano intenti a perfezionare i nuovi processi di produzione.
L’investimento nelle tre direzioni portò alla nascita dell’impresa industriale multi-unità nei settori in
cui maggiori erano i vantaggi di costo ottenibili con le economie di scala e di gamma. Questo tipo
di imprese si concentrò nelle industrie capital-intensive, la cui struttura, dopo un breve periodo di
assestamento, divenne oligopolistica e tale rimase.
Il prezzo restava un’arma concorrenziale importante: queste imprese davano battaglia sul piano
dell’efficienza funzionale e strategica. Il banco di prova era la quota di mercato, e nelle nuove
industrie oligopolistiche quota di mercato e profitti mutavano continuamente.
Una siffatta concorrenza oligopolistica affinò, nel campo specifico delle loro produzioni, le capacità
di manodopera e del personale direttivo. Per la maggioranza, la strategia costante di sviluppo a
lungo termine fu l’espansione in nuovi mercati, o geografici o di prodotto.
Queste attitudini gestionali furono frutto delle esperienze apprese ai diversi livelli della gerarchia.
Fu appunto il fatto di aver creato, mantenuto e sviluppato siffatte capacitò ciò che permise alle
imprese americane e tedesche, nel ventennio precedente la Prima guerra mondiale, di estromettere
rapidamente le ditte inglesi dai mercati internazionali e addirittura dal mercato interno britannico
nella maggioranza delle industrie capital-intensive nate dalla Seconda rivoluzione industriale. E lo
stesso motivo rese possibile alla Germania di riprendere velocemente il proprio posto sui mercati
mondiali dopo dieci anni di guerra, sconfitta e inflazione, fra il 1914 e il 1924, e di riconquistarlo
poi nuovamente negli anni Cinquanta all’indomani di una guerra ancora più devastante.
Così pure fu la cultura dell’organizzazione quella che permise alle imprese giapponesi dapprima di
operare un massiccio trasferimento di tecnologia dall’Occidente al Giappone, poi di sfruttare
appieno le economie di scala e di gamma e di acquisire le capacità organizzative necessarie per
assicurare un vantaggio competitivo sui mercati internazionali.
I sistemi economici che conformemente al modello sovietico affidavano a enti di pianificazione
centrali il compito di coordinare i flussi correnti di beni nei processi di produzione e distribuzione
future, impedirono che i dirigenti delle unità di produzione e distribuzione apprendessero come
coordinare efficacemente i flussi di beni dai fornitori e verso i mercati sulla base di una precisa
conoscenza dei mezzi utilizzabili. La mancata formazione di queste capacità ha avuto un ruolo
centrale nella disgregazione delle economie a pianificazione centralizzata.
La teoria neoclassica vede nell’impresa una persona giuridica con un set di produzione da cui il
manager, agendo razionalmente con piena cognizione, scegliendo lo scenario più suscettibile di
massimizzare i profitti o il valore attuale dell’azienda. La teoria del prepotente/agente fa sua l’idea
neoclassica dell’impresa come set di produzione ma le dà una gerarchia direttiva. La capacità dei
“proprietari” di tenere sotto controllo i manager, ai quali hanno affidato la scelta e l’attuazione dei
progetti di produzione. I problemi del modello dell’“agenzia” sono i problemi dei proprietari alle
prese con l’informazione asimmetrica, la valutazione delle prestazioni e gli incentivi.
La teoria dei costi di transazione è più attinente alla vicenda storica e al concetto-chiave delle
capacità organizzative perché tiene conto dell’investimento nelle attrezzature e nelle qualificazioni.
Nelle nuove industrie a forte intensità di capitale la necessità per l’impresa di assicurare un volume
di produzione costantemente elevato era molto più pressante che nelle vecchie industrie a forte
impiego di manodopera; mentre le imprese dei settori capital-intensive si dotavano d’una propria
rete di distribuzione, quelle delle industrie labor-intensive continuavano ad appoggiarsi a terzi per la
distribuzione dei loro prodotti. Nelle industrie capital-intensive la spinta a internalizzare variava
secondo la fonte degli approvvigionamenti, il carattere della tecnologia produttiva e le dimensioni e
le esigenze dei mercati. Così pure la spinta all’integrazione verticale variò con la crescita del settore
e man mano che le sue imprese leader si espandevano sui mercati più lontani.
Nella Teoria evolutiva dell’impresa espressa da Nelson e Winter nel 1982 (An evolutionary theory
of economic change) veniva posto l’accento non sullo scambio (grado di transazioni) ma sulla
produzione, a differenza dell’ortodossia (neoclassica) e della dottrina dei costi delle transazioni, che
mettono al centro della scena la pattuizione assegnando un ruolo di supporto all’economia della
79

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

produzione e al suo costo. Il concetto centrale di Nelson e Winter è quello della routines: «Nella
teoria evolutiva la peculiarità dei modi in cui le imprese entrano in relazione con i proprietari, i
clienti e i fornitori di input, sono tutte ricondotte sotto il titolo di routines organizzative». La
definizione che essi danno di routine è estremamente flessibile. Le routines sono per essi “le
capacità dell’organizzazione” che a loro volta ne diventano i “geni”.
In un recente articolo Nelson presenta «una teoria emergente delle capacità dinamiche
dell’impresa» dove mette a fuoco tre aspetti dell’impresa, diversi pur se fortemente collegati:
strategia, struttura, e nucleo di capacità.
Secondo Nelson sono la strategia e la struttura a formare le capacità delle imprese, e non le
transazioni cui esse partecipano. La strategia è quella di cui parlano gli studiosi di management: un
insieme di larghi impegni che l’impresa persegue, che definiscono e razionalizzano i suoi obiettivi e
il modo in cui essa intende conseguirli. La struttura, per Nelson, consiste nel modo in cui
un’impresa è organizzata e governata, in cui le decisioni vengono effettivamente prese e attuate;
essa perciò determina largamente ciò che l’impresa fa in concreto, nel largo quadro che la strategia
si è data. L’emergente teoria delle capacità dinamiche dell’impresa riconosce la centralità dei
processi di produzione e distribuzione e dell’apprendimento organizzativo nella creazione, nello
sviluppo e nella trasformazione di quei processi; inoltre dà rilievo alle differenze fra le tecnologia e
le attività delle diverse industrie dei diversi settori.

GRANDE E PICCOLA IMPRESA NELLA STORIA DELL’INDUSTRIA ITALIANA86 .


L’Italia è un paese di piccole e medie imprese. Fra le nazioni avanzate, l’Italia ha un vero e proprio
record con oltre il 60% della forza lavoro che si concentra in imprese con un numero di addetti
inferiore a 50.
I. Il modello dei paesi avanzati.
A fine Ottocento, sotto l’avvento della Seconda rivoluzione industriale, si inizia ad affermare
un complesso di innovazioni caratterizzato da alta intensità di capitale, di energia e processo
produttivo continuo e veloce. Sono le produzioni di massa che colpiscono in particolare quattro
settori: metallurgia, meccanica, chimica e industria elettrica.
Settori come quelli menzionati subiscono le conseguenze di questa grande svolta. Essi
divengono il motore dello sviluppo. Perché questa opportunità tecnologia si traduca in realtà
economica è necessario un triplice investimento:
a. in impianti alla giusta dimensione di scala,
b. in legame fra produzione e distribuzione tale da rendere fluido il rapporto fabbrica-mercato,
c. nell’ampia assunzione e promozione del management.
Se questa mossa riesce, l’impresa acquista il diritto a una lunga sopravvivenza da first mover.
II. L’Italia e la Seconda rivoluzione industriale.
A cavallo del 1900 questo modello è constatabile anche nell’evoluzione del sistema economico
italiano. Anche da noi la prima grande impresa è un’impresa ferroviaria, la Strade ferrate
meridionali, ovvero la cosiddetta Bastogi dal nome del suo fondatore. Nel 1905 quando le
ferrovie vengono nazionalizzate essa riversa gli indennizzi nell’emergente settore elettrico
restando quindi una potenza finanziaria di prima grandezza nel panorama economico italiano.
Nel 1962, nazionalizzata a sua volta l’industria elettrica, la Bastogi dirige le sue risorse verso la
chimica. Nel 1884 nasce la Edison, la più grande impresa elettrica italiana. Nel 1888 è fondata
la Montecatini una delle più importanti imprese chimiche in Italia.
Già nel 1872 era nata la Pirelli. Nel 1899 viene fondata la FIAT che alla vigilia della Prima
guerra mondiale produce la metà degli autoveicoli italiani per raggiungere subito dopo il
conflitto il controllo di quasi il 90% del mercato. Si costruisce a cavallo del XX secolo, la
grande siderurgia con la Terni, l’Elba, l’Ilva, la Piombino e la Falck; mentre la grande
meccanica negli stessi anni ha come protagonista di assoluto rilievo l’Ansaldo e la Breda.
Nel contempo si profilano il predominio settoriale l’Italcementi e l’Olivetti.

86 F.AMATORI. La storia dell’impresa come professione, Venezia. Marsilio, 2008.


80

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Sulle ceneri della ditta Bocconi nel 1917 è creata La Rinascente da cui a sua volta per mitosi
nel 1931 ha inizio la Standa. All’inizio del secolo sono presenti tutti (o quasi) gli attori che
domineranno la scena industriale sino ad oggi. In Italia la struttura oligopolistica è ancora più
ristretta data la relativa povertà del mercato interno.
III. Gli attori.
Alexander Gerschenkron postula l’esigenza dei fattori sostitutivi (del semplice imprenditore)
per promuovere l’industrializzazione dei Paesi late comer. Essi sono la banca universale - se il
ritardo è relativamente contenuto - e lo Stato - se il grado di arretratezza è maggiore.
In Italia attorno al 1900 è grande il contributo della banca universale, soprattutto la COMIT e il
Credito Italiano, alla fondazione di interi settori e alle più importanti iniziative industriali. Ma è
soprattutto lo Stato il fattore decisivo, quello al quale la stessa banca guarda come rete
protettiva di ultima istanza. Per l’Italia si è parlato giustamente di “precoce capitalismo di
Stato” nel senso che esso si caratterizza come il maggiore operatore economico-finanziario sin
dall’unificazione: per la creazione di debito pubblico, per la pressione fiscale, per il vasto
processo di privatizzazione de territorio nazionale, tutti strumenti con i quali finanziare
infrastrutture essenziali come le ferrovie, l’apparato amministrativo, le forze armate, le opere
pubbliche. La rivoluzione nelle comunicazioni e nei trasporti, notevole esempio di
globalizzazione, provoca la massiccia immissione sul mercato italiano di prodotti agricoli
provenienti da oltreoceano, “sommergendo” in tal modo il modello di un’Italia esportatrice di
beni del settore primario. Questa ragione, oltre che quelle relative a esigenze di politica
internazionale, porta nel 1884 alla creazione della prima impresa industriale moderna del Paese:
la Terni. È un episodio strategico della storia economica italiana perché alla Terni lo Stato non
concede solo sovvenzioni, commesse, protezionismo: quando tre anni dopo la nascita, nel 1887,
l’impresa è sull’orlo della bancarotta lo Stato provvede al salvataggio utilizzando la Banca
Nazionale, in seguito la Banca d’Italia, con l’emissione di nuove banconote.
Il salvataggio attraverso l’intervento della banca centrale, è attuato quattro volte:
a. nel 1887 viene salvata la Terni:
b. nel 1911 è la volta dell’intero settore industriale della siderurgia;
c. nel 1922 il privilegio tocca alle attività industriali afferenti a due grandi banche, la Banca
Italiana di Sconto e il Banco di Roma;
d. nel 1933 l’ultimo e più grande salvataggio, quello delle imprese legate alle tre grandi banche
miste, la COMIT, il Credito Italiano, il Banco di Roma.
Nel 1933 nasce l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), ovvero lo Stato imprenditore,
ed è la fine della banca mista. Dopo l’Unione Sovietica l’Italia è il Paese che può vantare la
maggiore estensione di proprietà industriale pubblica.
IV. Il capitalismo politico.
La pervasiva presenza dello Stato ha un forte impatto sull’agire imprenditoriale. Mentre nei
Paesi avanzati la crescita è perseguita per ragioni squisitamente economiche, in Italia si assiste
a tentativi di espansione per meglio contrattare con il potere politico. Durante la Prima guerra
mondiale l’Ansaldo si lancia in un folle progetto di integrazione verticale: dalle miniere alla
fabbricazione di tutte le più significative produzioni metalmeccaniche.
Significativo è l’esempio della Terni nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra
mondiale. Vengono meno le ragioni economiche della siderurgia bellica e il suo leader la porta
a operare nel campo della produzione di energia elettrica e in quello elettrochimico. La
siderurgia bellica però viene mantenuta in attività in quanto formidabile strumento di pressione
nei confronti del governo fascista. È un do ut des: la Terni continua a offrire armamenti anche
quando non ha alcuna convenienza economica, ma il governo garantisce buone condizioni per
la fornitura di energia elettrica, un terreno di prezzi amministrati, e buone posizioni all’interno
di cartelli chimici.
L’esempio della Montecatini: per acquisire una duratura supremazia nel fondamentale settore
dei concimi chimici, l’impresa si lancia nella produzione di azoto sintetico (ricavato da acqua,
aria ed elettricità). La società milanese deve effettuare costosissimi investimenti, ovvero la
81

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

costruzione di centrali idroelettriche: ha bisogno del totale controllo del mercato interno, quindi
chiede a Mussolini dazi che costituiscano barriere insuperabili. In cambio di protezione
tariffaria il governo chiede alla Montecatini una serie di salvataggi di aziende in crisi e di tenere
in vita produzioni obsolete, come la lignite, o autarchiche. L’azienda si appesantisce così con un
danno irreparabile nel differente contesto del secondo dopoguerra. È questa l’origine del
fallimento che porta nel 1966 alla disastrosa fusione con la Edison.
V. Il grande capitalismo privato.
Esiste tuttavia una grande industria italiana orientata al mercato. È il caso della Pirelli, che si
consolida e amplia sin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento rispondendo a commesse pubbliche
nel settore dei cavi telegrafici e telefonici. Pirelli tuttavia costruisce ben presto un’impresa che
compete sul mercato internazionale.
La FIAT è senz’altro un’impresa che “nasce bene”. Fra gli azionisti ci sono i migliori nomi
dell’aristocrazia e della borghesia torinese. Tuttavia la FIAT è l’impresa egemone dell’industria
automobilistica italiana già alla vigilia della Prima guerra mondiale grazie a un imprenditore,
Giovanni Agnelli, il primo a comprendere che l’automobile non è un giocattolo per ricchi ma
un tipico prodotto di massa del Second Wind industriale. Agnelli attua una vasta operazione di
integrazione verticale dalle fonderie ai garage per la vendita che dà alla FIAT un incolmabile
vantaggio sugli altri competitori nazionali.
La Falck fabbrica acciaio con una tecnologia flessibile come quella che consente il forno
elettrico e che punta su un mercato “normale” ovvero non legato a commesse militari, per la
meccanica e lo sviluppo urbano.
VI. Il mercato interno.
Questo capitalismo pur orientato al mercato non si trasforma in capitalismo manageriale
all’americana o famigliar-manageriale alla tedesca a causa della ristrettezza del mercato interno.
VII.Il settore elettrico cuore del potere economico.
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il capitalismo industriale italiano sembra regredire
verso forme feudali. Mentre in Italia si celebra un sistema politico ed economico che va verso il
popolo, la realtà dice di interi rami dell’industria governati da un uomo, Agnelli, Pirelli,
Donegani (Montecatini), Falck, ecc. A fine anni Trenta, Stato e famiglie dominano la grande
industria italiana e la loro azione converge nel controllo del settore elettrico, un’industria resa
possibile dall’eccellenza tecnica dei nostri ingegneri ma che finisce per risolversi in un terreno
di sicura rendita.
VIII.Un miracolo che viene da lontano.
Quando inizia la Seconda guerra mondiale, l’Italia è l’unico Paese del Mediterraneo ad aver
raggiunto uno stabile stadio di industrializzazione. Per l’Italia è la Prima guerra mondiale con le
commesse della Mobilitazione industriale il punto di non ritorno al termine del quale la nazione
è fra le otto più industrializzate del mondo. Già negli anni immediatamente precedenti la
Grande Guerra il Paese è autonomo per una produzione essenziale come quella siderurgica,
mentre un’impresa come l’Ansaldo ha impianti che suscitano l’ammirazione degli addetti
militari tedeschi. Il Lingotto è il più moderno impianto automobilistico d’Europa.
Sinigaglia sin dal 1910 espone un lucido programma si sviluppo e specializzazione degli
impianti a ciclo integrale che diano al Paese prodotti siderurgici su vasta scala, di buona qualità
e a basso prezzo. Sinigaglia, a fine degli anni Trenta, realizzerà il primo stabilimento a ciclo
integrale a Cornigliano, presso Genova, un’esperienza che è all’origine dei grandi successi
degli anni Cinquanta.
IX. La grande impresa protagonista del miracolo.
Gli anni a cavallo del 1960 sono ricordati come il periodo del “miracolo economico” italiano.
Gli imprenditori perseguono le economie di scala e di diversificazione (gamma) lanciandosi
nella costruzione di grandi impianti e grandi organizzazioni. Essi vedono l’essenza del proprio
agire imprenditoriale nella produzioni di masse, che rendono accessibili beni essenziali alla
maggioranza dei consumatori.

82

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

Grande “primo attore” di questa fase è Enrico Mattei, fondatore dell’ENI, che realizza a
vantaggio dell’industria settentrionale una fitta rete metanifera mentre attua un’efficace politica
nel settore del petrolio grazie a geniali e rischiosi accordi con i Paesi produttori. Mattei si
avvale della sua posizione in campo metanifero per strappare alla Montecatini la leadership dei
concimi chimici azotati, a vantaggio degli agricoltori italiani. Le economie di scala realizzate
dall’ENI sono imbattibili.
Altro protagonista della scena industriale italiana è Adriano Olivetti, l’imprenditore più
consapevole delle conseguenze sociali dell’industrializzazione ma così concreto da realizzare
nel campo dei prodotti per ufficio una multinazionale capace di acquisire, alla fine degli anni
Cinquanta, una delle maggiori imprese americane del settore, la Underwood.
Importante è notare come non ci sia differenza in questa golden age fra privato e pubblico.
X. Un approdo “giapponese”?.
Un reddito nazionale che in vent’anni (1950-1970) cresce mediamente del 6% annuo; la FIAT
quinta imprese automobilistica mondiale potenzialmente in grado di competere sul mercato
internazionale con l’esperienza acquisita nel segmento delle small cars; la Olivetti che
primeggia sui mercati internazionali con le sue macchine per scrivere e con le sue calcolatrici
tanto da acquisite una corporation americana di primo rango; Enrico Mattei protagonista della
politica petrolifera internazionale; la siderurgia che passa dal nono al sesto posto nel mondo; il
nucleare che vede il Paese all’avanguardia in Europa; la formazione di nuovi settori industriali
come quello degli elettrodomestici e il generale irrobustimento della struttura produttiva,
cosicché i sarti diventano industriali dell’abbigliamento, i falegnami mobilieri, i calzolai
calzaturieri. Tutto questo dava la sensazione che l’Italia potesse spingersi sino alla frontiera
dell’economia mondiale, come il Giappone, un paese certo lontano ma per molti versi vicino
data la periodizzazione del suo sviluppo industriale e l’importanza in esso dal settore pubblico.
La chiave per comprendere i diversi esiti dei due Paesi è nell’elemento politico istituzionale. Il
Giappone, dove la burocrazia è forte mentre debole è la politica, apprende la lezione: nel
secondo dopoguerra si assiste al ritiro dell’intervento pubblico diretto; i grandi ministeri
dirigono la politica industriale grazie a guideline e moral suasion. Lo Stato protegge e sostiene
le grandi imprese ma le obbliga a confrontarsi con il mercato globale.
In Italia lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall’intervento diretto e dedicarsi alla creazione di un
quadro di regole all’interno delle quali la grande impresa potesse prosperare. Sarebbe stata
necessaria quindi un’efficace protezione degli investitori in Borsa, la promozione di investitori
istituzionali, la revisione della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta hausbank, una
legislazione antitrust e un governo impegnato nelle trasformazioni sociali e di conflitto.
XI. Uno stato politicizzato.
Quella italiana è una società che, date le caratteristiche del processo che ha portato alla
formazione dello Stato unitario, si è sempre contrassegnata per la sua frammentazione
localistica tale da non sopportare un rapporto diretto fra Stato e cittadini.
Alla metà degli anni Cinquanta si intravede uno spoil system. E dato il cosiddetto bipartismo
polarizzato che la natura del maggior partito di opposizione, il Partito comunista italiano, rende
inevitabile, si tratta di uno spoil system a senso unico che finisce per rendere irresponsabili
governo e opposizione. Lo Stato imprenditore diviene sempre più uno strumento per il
consenso, ovvero cresce per incrementare l’occupazione sicuro grimaldello del successo
elettorale.
XII.L’approdo mancato.
L’incapacità di raggiungere i risultati del Giappone si concretizza in cinque episodi:
a. La degenerazione dello Stato imprenditore.
b. Il fallimento dei progetti di frontiera tecnologica. È l’Olivetti che dopo l’improvvisa scomparsa
del suo leader non riesce a concretizzare l’occasione della pionieristica produzione di computer,
un iniziativa i cui costi andavano ben oltre le disponibilità di una impresa familiare. È l’abortire
del grande progetto di dotare il Paese di una rete di impianti nucleari.

83

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)


lOMoARcPSD|18457935

Storia Economica - 30067

c. Le conseguenze della nazionalizzazione dell’energia elettrica. È il risultato della decisione


caldeggiata dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli di indennizzare le aziende e non
gli azionisti. Carli pensava di ripetere l’operazione del 1905 quando gli indennizzi della
nazionalizzazione delle ferrovie si erano riversati nell’emergente industria elettrica. Ora si
pensava alla chimica ma il contesto competitivo era ben diverso né esisteva una Borsa per
sanzionare i comportamenti negativi degli imprenditori né un hausbank tale da indirizzarli
correttamente. Il risultato più rilevante di questo snodo è la disastrosa fusione fra la Montecatini
e la Edison.
d. La crisi delle grandi famiglie che si verifica diffusa negli anni Sessanta fra vecchie e nuove
dinastie industriali.
e. Il “lungo autunno”. È il periodo che inizia con la vertenza FIAT del settembre 1969. È un
periodo di importanti conquiste sociali, ma anche di tragici conflitti come la diffusione del
terrorismo. Ciò che risalta è l’incapacità di incanalare politicamente e istituzionalmente
giustificate rivendicazioni, alla maniera tedesca con la cogestione.
Una vera e propria fortuna per l’Italia è rappresentata dalla piena adesione al progetto europeo,
dall’accordo di Maastricht. Esso porta non solo alla moneta unica ma anche all’instaurazione di
regole, come l’antitrust, il rafforzamento della Consob, la legge sulle SIM, la nuova legge
bancaria, la legge sulla corporate governance. La grande impresa è irrimediabilmente
depotenziata.
XIII.La scoperta della piccola impresa.
L’Italia degli anni Settanta è un mistero. Sembra afflitta da tutti i mali e da tutte le crisi ma
continua a crescere seconda solo al Giappone fra i Paesi dell’OCSE. Si riscopre allora la
piccola impresa, spesso organizzata nella forma del distretto industriale - un territorio definito
dedicato alla produzione di un bene per la quale viene realizzata una divisione del lavoro sia
orizzontale sia verticale. Sono i distretti, che indirizzano le proprie risorse vero la produzione di
beni per la persona e per l’abitazione, a essere protagonisti nell’ascesa del “made in Italy”. I
distretti si formano in un processo di lungo periodo dove è forte il ruolo giocato dalla tradizione
corporativa: etica del lavoro, grandi abilità manuali, spirito imprenditoriale, antica consuetudine
di raffinata domanda urbana, attitudine al commercio internazionale.
Decisivo è l’apporto di un’istituzione come la famiglia per aziende nelle quali padroni e operai
sono spesso parenti. In primo piano è la comunità locale, per cui la concorrenza è bilanciata da
un senso di solidarietà. Altrettanto importanti sono le istituzioni locali, sia con interventi
positivi (istruzione e costruzione di infrastrutture), ma anche con la tolleranza verso
comportamenti discutibili come l’evasione fiscale. I distretti fioriscono in aree o fortemente
“rosse” o a netta prevalenza cattolica.
Tra le tante virtù non possono nascondersi lati oscuri come:
• la sottocapitalizzazione,
• la sclerosi produttiva,
• la volatilità dei mercati in cui i distretti operano (mercati soprattutto di beni voluttuari),
• la diffusa piaga dell’evasione fiscale.
XIV.Il quarto capitalismo.
Dai distretti emergono non di rado imprese che in essi creano precise gerarchie. Tali attori
vengono definiti “quarto capitalismo” perché non possono identificarsi né con la grande
impresa privata né con quella pubblica né con la piccola impresa.
Due le caratteristiche fondamentali: grande abilità tecnica di origine addirittura artigianale (si
pensi a Luxottica), oppure una straordinaria capacità commerciale. La formula del successo di
questo quarto capitalismo è la concentrazione su una nicchia, ma a livello globale.
In realtà questo nuovo protagonista deve affrontare due nodi irrisolti. Il primo riguarda quella
che oggi viene definita governance, ovvero il modo in cui si rende armonico il rapporto fra
proprietà, controllo e gestione d’impresa. Il quarto capitalismo è nettamente dominato da
imprese famigliari, con tutti i problema che questo assetto comporta. Il secondo riguarda i
settori in cui esso opera, ovvero quelle produzioni che non sono certo quelle di frontiera.
84

Scaricato da Ferrandi Nicolò (hk87pwpws9@privaterelay.appleid.com)

Potrebbero piacerti anche