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1 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dalla preistoria al XVII secolo, tomo I, Il Mulino, 2005. Capitolo I.
2 ibidem, pp. 12-15.
3 ibidem, pp. 15-19.
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stato o altro regime politico, e le inclinazioni religiose e ideologiche del gruppo o delle classi
dominanti e delle masse. Istituzioni minori sono le libere associazioni, il sistema scolastico, la
struttura familiare e altre agenzie creatrici di valori.
Una delle funzioni sociali svolte dalle istituzioni è di rappresentare un elemento di continuità e di
stabilità, senza il quale la società si disintegrerebbe. Esempi di innovazioni istituzionali sono i
mercati organizzati, la moneta battuta, i brevetti, le assicurazioni e le varie forme d’impresa, tra cui
la moderna società per azioni.
Gli intellettuali marxisti ritengono che l’elemento dinamico è fornito dalla lotta tra le classi sociali
per il controllo dei mezzi di produzione. Il sistema è nel complesso semplicistico e eccessivamente
dogmatico. La “teoria istituzionalista” (meno ideologica a quella dei marxisti) considera lo sviluppo
economico come il prodotto di una tensione o lotta permanente tra l’innovazione tecnologica e le
istituzioni sociali. La tecnologia, secondo tale teoria, è l’elemento dinamico e progressista, mentre
le istituzioni invariabilmente si oppongono al mutamento4 .
Produzione e produttività5 .
La produzione è il processo mediante il quale i fattori di produzione vengono messi in relazione per
produrre i beni e i servizi desiderati dalle popolazioni umane. La produzione può essere misurata in
unità fisiche o in termini di valore (monetari).
La produttività è il rapporto tra il risultato utile di un processo di produzione e i fattori di
produzione in esso impiegati. Essa può essere misurata in unità fisiche o in termini di valori. Per
misurare la produttività totale dei fattori di produzione è necessario ricorrere a misure di valore.
La produttività del capitale è in è parte in funzione della tecnologia che esprime. Inoltre,
determinate combinazioni di fattori di produzione sono in grado di accrescere la produttività.
Un’importante combinazione speciale dei fattori di produzione attiene al concetto di capitale
umano, derivante dall’investimento in conoscenze e abilità o capacità. L’investimento può assumere
la forma di un’educazione o di un addestramento formale di un periodo di apprendistato o di
apprendimento “sul campo”. Le differenze nel livello di capitale umano pro capite tra economie
avanzate e quella arretrate sono notevoli.
Un aumento dei fattori tradizionali di produzione spiega solo in parte l’aumento della produzione
nelle economie avanzate. È cresciuta enormemente la produttività di tutti i fattori di produzione.
Elementi determinati sono stati i processi tecnologici, i miglioramenti organizzativi sia a livello
macroscopico che microscopico (tra cui le economie di scala) e la crescita notevole degli
investimenti in capitale umano.
Nel 1798 Thomas R. Malthus pubblicò il Saggio sul principio della popolazione dove si partiva dal
presupposto che “la passione tra i sessi” avrebbe portato ad una crescita demografica in
progressione geometrica, ma che le disponibilità di cibo sarebbero cresciute in progressione
aritmetica. In assenza di una “costrizione morale”, come il celibato o il matrimonio in tarda età, la
legge dei rendimenti decrescenti e i “freni positivi” sulla popolazione rappresentati dalla guerra
dalla carestia e dalle pestilenze, concludeva, avrebbero condannato la grande maggioranza della
popolazione ad una vita di mera sussistenza.
con prodotti o beni materiali ma comprende uno spettro di servizi tra i quali quelli domestici,
personali, commerciali, finanziari, professionali e pubblici.
Per migliaia di anni l’agricoltura è stata la principale occupazione della grande maggioranza della
razza umana: la produttività era così bassa in origine che per sopravvivere era necessario dedicarsi
alla produzione di generi alimentari. La produttività agricola cominciò a crescere e sempre meno
lavoratori divennero necessari per la produzione di beni di sussistenza. Cominciò così il processo di
industrializzazione che si protrasse dalla fine del Medioevo fino alla metà del XX secolo.
Il passaggio dall’agricoltura alle attività secondarie si svolge lungo due linee principali. Sul
versante dell’offerta, l’accresciuta produttività rese possibile produrre le stessa quantità di prodotti
con meno lavoro. Sul versante della domanda entrò in gioco l’aspetto peculiare del comportamento
umano, definito dalla legge di Engel. Essa afferma che ma mano ce cresce il reddito di un
consumatore, diminuisce la percentuale del reddito destinata all’acquisto di cibo.
Il secondo cambiamento strutturale attualmente in atto, il passaggio relativo della produzione di
beni a quella di servizi, implica un corollario della legge di Engel: man mano che cresce il reddito,
cresce la domanda per ogni genere di merce, ma ad un ritmo inferiore a quello del reddito, mentre la
domanda di servizi e di tempo libero si sostituisce in parte a quella di beni concreti.
I mutamenti tecnologici sono in gran parte responsabili di tali cambiamenti strutturali, nonostante la
forza scatenante immediata sia solitamente la variazione dei prezzi relativi (e dei salari).
LA SECONDA LOGISTICA8
Verso la metà del Quattrocento, dopo una secolo di decadenza e stagnazione, la popolazione
europea ricominciò ad aumentare. All’inizio del Seicento la crescita incontro i soliti ostacoli delle
carestie, delle epidemie e delle guerre, soprattutto della guerra dei Trent’anni, che decimò la
popolazione dell’Europa centrale. La metà del Quattrocento e la metà del Seicento delimitano la
seconda logistica europea: in questi anni si verificarono importanti cambiamenti che modificarono
enormemente l’economia europea. L’immensa espansione degli orizzonti geografici nell’epoca delle
grandi esplorazioni e scoperte marittime, l’individuazione di rotte interamente marittimi tra
Esplorazioni e scoperte11.
Alla fine del Medioevo notevoli progressi tecnologici furono realizzati nella progettazione delle
navi, nella loro costruzione e negli strumenti di navigazione. I cambiamenti riscontrabili in questo
periodo assicuravano maggiore manovrabilità e un miglior controllo della direzione, rendendo
inutili gli uomini ai remi. Le navi divennero più grandi, maneggevoli, più atte a tenere il mare ed
acquistarono maggiori capacità di carico, il che permise di effettuare viaggi più lunghi. La bussola
ridusse di molto il margine di approssimazione insito nella navigazione e la cartografia venne
sviluppata e perfezionata.
Gli italiani, veterani nell’arte della navigazione, continuarono nella loro attività, anche se tramite
finanziamenti e/o spedizioni estere: questo è l caso di Colombo, Caboto, Vespucci, Verrazzano, ecc.
Il principe Enrico, detto il Navigatore, figlio minore del re di Portogallo, si dedicò
all’incoraggiamento dell’esplorazioni della costa africana con l’obiettivo finale di raggiungere
l’Oceano Indiano. A Sagres fondo una sorta di istituto di studi avanzati nel quale fece venire
astronomi, geografi, cartografi e navigatori di ogni nazionalità.
Nel 1488 Dias doppiò il Capo di Buona Speranza, tra il 1497 e il 1499 Vasco da Gama raggiunse a
Calicut circumnavigando l’Africa. Nel 1492 Ferdinando e Isabella di Spagna, sconfitti i mori,
accordarono a Cristoforo Colombo il loro patrocinio alla spedizione oltre l’Atlantico per giungere in
India. Fu merito di Magellano, invece, trovare un passaggio attraverso quel nuovo continente
scoperto da Colombo e chiamato America: lo stretto di Magellano. Il Mare Pacificum in cui finì non
gli portò ricchezze ma solo la morte di lui e di gran parte del suo equipaggio; l’unica nave rimasta
fu la prima a completare la circumnavigazione del globo.
accrebbe le riserve monetarie e contribuì alla crescita dei prezzi. Lo svilimento della moneta deciso
da sovrani senza soldi stimolò l’incremento dei prezzi nominali. La rivoluzione dei prezzi, come
qualsiasi fenomeno inflativo, causò una redistribuzione del reddito e della ricchezza, sia a livello
individuale che di gruppi sociali. Chi godeva di redditi elastici in rapporto ai prezzi (es:
commercianti) se ne avvantaggiò a spese dei salariati e di coloro che disponendo di redditi fissi o in
grado di crescere solo lentamente.
La crescita demografica, pur non provocando l’aumento (assoluto) dei prezzi, svolse probabilmente
un ruolo determinante nel ritardo dei salari, in quanto l’agricoltura e l’industria si rivelarono
incapaci di assorbire la forza lavoro eccedente. Causa determinante della diminuzione dei salari
reali fu il risultato delle interrelazioni tra il comportamento demografico e la produttività agricola.
L’organizzazione delle industrie non mutò rispetto al tardo Medioevo. La figura caratteristica
dell’industriale era quella del mercante-manifatturiere che acquistava la materia prima, la
distribuiva a filatori, tessitori ed altri artigiani che lavoravano a domicilio e metteva sul mercato il
prodotto finale. Grazie alla rapida espansione del commercio, la flotta mercantile olandese aumentò
di dieci volte dal punto di vista numerico ed ancor più in quanto a tonnellaggio tra l’inizio del XVI
secolo e la metà del XVII. La loro efficienza era tale che rifornivano non solo la flotta del proprio
paese ma anche quelle dei suoi rivali.
Le industrie metallurgiche, sebbene l’importanza relativamente secondaria in termini di
manodopera impiegata e di prodotto, stavano acquistando un’importanza strategica a causa del peso
crescente delle armi da fuoco e dell’artiglieria nelle azioni belliche. All’inizio del XVI secolo venne
introdotto l’altoforno che permetteva di fondere e raffinare minerali impuri e colare il fuso in forme
utili, risparmiando tempo sulla lavorazione dei singoli pezzi.
Mentre l’Europa era povera di metalli preziosi, era invece relativamente ricca di metalli utili quali il
rame, il piombo e lo zinco. Le scoperte oltremare, introducendo nuove materie prime, stimolarono
direttamente la nascita di nuove industrie (es: raffinazione dello zucchero e lavorazione del
tabacco).
della società, questa adottò una forma permanente di organizzazione nella quale un azionista poteva
ritirarsi solo dopo aver venduto ad un altro investitore la sua quota.
Si rese necessaria una borsa o mercato (il termine borsa deriva dalla sala delle riunioni dei mercanti
a Bruges, riconoscibile da un0insegna che mostrava tre borsellini). Le merci non venivano
scambiate sul posto, ma tramite transazioni da un magazzino all’altro con pagamento tramite forme
di credito e strumenti finanziari quali la cambiale o per mezzo di trasferimenti bancari. Il 1609 è
l’anno di fondazione della Amsterdamsche Wisselbank, una banca di cambio in cui vi si potevano
depositare fondi e trasferirli da un conto all’altro nei registri.
17 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo VII.
18 ibidem, pp.257-258.
19 ibidem, pp.259-261
8
L’uso del carbone e del coke nei processi di fusione ridusse considerevolmente il costo dei metalli e
ne moltiplicò gli usi, mentre l’applicazione della chimica creò una serie innumerevole di nuovi
materiali “artificiali” o sintetici.
20 ibidem, pp.261-273.
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capitalistica, condannando gran parte delle sue imprese alla proprietà privata o alla condizione
giuridica di società di persone. Il Bubble Act fu infine abrogato nel 1825.
Altra conseguenza della Gloriosa Rivoluzione fu di porre la finanza pubblica del regno sotto lo
stretto controllo del parlamento, il che ridusse notevolmente il peso del debito pubblico e
conseguentemente rese disponibili i capitali per l’investimento privato. Sebbene il sistema tributario
fosse molto regressivo, anch’esso permise l’accumulazione di capitali da investire, soprattutto nelle
infrastrutture e nei trasporti, così da contribuire al processo di industrializzazione.
Il movimento di grosse quantità di beni voluminosi richiedeva un sistema di trasporto affidabile e a
buon mercato. Prima dell’era delle ferrovie, le vie d’acqua rappresentavano le arterie più
economiche ed efficienti. La Gran Bretagna, con la sua natura insulare, godeva di una protezione
naturale contro gli sconvolgimenti e le distruzioni delle guerre continentali. La lunga linea costiera,
gli eccellenti porti naturali e i numerosi corsi d’acqua navigabili eliminavano in gran parte la
necessità di trasporti terrestri. In ogni caso si aprì la costruzione di canali artificiali che sviluppasse
ulteriormente i trasporti commerciali fluviali. Le iniziative di canalizzazione furono organizzate
sotto forma di società private a scopo di lucro, istituite per legge.
21 ibidem, pp.273-288.
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Le innovazioni nella filatura e nella tessitura, insieme alla sgranatrice (macchina per la raccolta del
cotone) furono le più importanti (ma non uniche) innovazioni nell’industria cotoniera. Con la
caduta dei costi di produzione e l’aumento della stessa, una notevole e crescente percentuale del
prodotto fu esportata. I drastici ribassi del prezzo dei prodotti di cotone ebbero riflessi sulla
domanda di tessuti di lana e lino, le cui industrie erano appesantite dalla tradizione e dalle
regolamentazioni, e le caratteristiche fisiche dalla materia prima rendevano più difficile la
meccanizzazione.
Le innovazioni tecniche concernenti l’industria cotoniera, quella siderurgica e l’introduzione della
forza del vapore costituiscono il nocciolo della prima industrializzazione britannica. Mentre James
Watt stava perfezionando la sua macchina a vapore, il suo illustre connazionale Adam Smith
scriveva nella Ricchezza delle nazioni dei grandi aumenti di produttività realizzati in una fabbrica di
spilli attraverso la specializzazione e la divisione del lavoro.
La diffusione tra i ricchi della porcellana fine dalla Cina diffuse tra i ricchi costituì un’altro settore
di imitazione a cui venne applicata il nuovo modello di industria: Wedgwood fu uno dei pionieri del
campo, arrivando ad impiegare macchine a vapore per frantumare e mescolare le materie prime.
Un’altro processo di espansione e diversificazione ebbe luogo anche nell’industria chimica, grazie a
chimici del calibro di Lavoisier. John Roebuck inventò un procedimento economico di produzione
dell’acido solforico, prodotto impiegato soprattutto come sbiancante nelle industrie tessili e
rimpiazzato in seguito dal cloro di Berthollet.
Alle miniere di carbone va la responsabilità delle prime ferrovie britanniche. Nelle miniere il
carbone veniva trasportato su slitte trainate dalla forza umana oppure su vagoni muniti di ruote
trainati da animali su prime forme di binari. All’epoca della locomotiva la Gran Bretagna disponeva
già di binari. La locomotiva a vapore fu il prodotto di un processo evolutivo complesso: a
Trevithick va il merito della prima locomotiva funzionante nel 1801, ma solo nel 1825 viene
inaugurata la tratta Liverpool-Manchester, grazie al disegno e costruzione della locomotive Rocket
da parte di George Stephenson.
22 ibidem, pp.291-297.
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2.3. aumento del livello di vita, che fu nello stesso tempo causa ed effetto della crescita
economica;
2.4. progresso dell’agricoltura, con conseguente maggiore abbondanza e varietà di cibi,
migliorando l’alimentazione;
2.5. l’aumento di produzione di carbon fossile significò abitazioni meglio riscaldate;
2.6. la produzione del sapone fu il segno di una maggior cura dell’igiene personale.
L’emigrazione interna alterò profondamente la distribuzione geografica della popolazione e
produsse due mutamenti considerevoli nella sua distribuzione spaziale:
1. un aumento della densità nel nord-ovest a scapito del sud-est.
2. crescita dell’urbanizzazione.
Le deplorevoli condizioni nelle città urbane erano frutto in parte della crescita estremamente rapida,
dell’inadeguatezza dell’apparato amministrativo, della mancanza di esperienza delle autorità locali
e della conseguente assenza di pianificazione. La rapida espansione delle città dipese interamente
dall’immigrazione delle campagne; a causa delle spaventose condizioni sanitarie, la mortalità
superava la natalità e il tasso di incremento naturale era in realtà negativo. C’è da aggiungere,
tuttavia, che le grandi pressioni economiche obbligavano a trasferirsi in centro e piegarsi a tali
condizioni di vita.
Lo stupore difronte all’impiego-sfruttamento di donne e bambini non è condivisibile, poiché la
presenza femminile e infantile sia nell’agricoltura sia nell’industria domestica era un fenomeno di
lunga tradizione, che il sistema di fabbrica non fece che adottare.
Le fabbriche attrassero gradualmente un numero crescente di addetti, e la tendenza generale dei
salari reali era verso l’altro. Sembra probabile che tra il 1750 e il 1850 si sia verificato un graduale
miglioramento del livello di vita delle classi lavoratrici. Le disuguaglianze della distribuzione del
reddito e della ricchezza, già grandi nell’economia preindustriale, divenne ancor più accentuata
nelle prime fasi dell’industrializzazione
Popolazione25.
La popolazione europea ricominciò a crescere a partire dal 1740 circa. Nel XIX la popolazione
europea raddoppiò in meno di cento anni, e nel XX il mondo nel suo complesso ha superato anche
questi elevato ritmo di crescita.
Prima dei miglioramenti dei trasporti che permisero l’importazione su larga scala di generi
alimentari dagli altri continenti nell’ultimo quarto del XIX secolo, uno dei maggiori limiti alla
crescita demografica era quello posto dalle risorse agricole del continente. La produzione agricola
crebbe enormemente nel corso del secolo anche grazie all’estensione della superficie di terra
coltivata. La produttività agricola aumentò per effetto dell’introduzione di nuove tecniche
scientifiche; una migliore conoscenza della chimica del suolo ed un uso più intenso dei fertilizzanti
fece salire la resa dei terreni. La diminuzione del prezzo del ferro favorì l’uso di attrezzi e strumenti
migliori e più efficienti.
Il basso prezzo dei trasporti facilitò altresì i movimenti migratori della popolazione. Eccetto che nel
caso russo, le migrazioni furono per la maggior parte volontarie. Talvolta gli emigranti cercavano di
sfuggire alle persecuzioni o all’oppressione politica, ma nella maggior parte dei casi la loro
decisione era frutto delle pressioni economiche interne al loro paese e delle speranze di una vita
23 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo VIII.
24 ibidem, p. 299.
25 ibidem, pp. 299-305.
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migliore all’estero. Negli otto anni che seguirono la grande carestia del 1845 più di un milione e
duecentomila persone lasciarono l’Irlanda per gli Stati Uniti o la Gran Bretagna.
L’emigrazione interna, che comportò variazioni regionali nella concentrazione della popolazione, fu
fondamentale per il processo di sviluppo economico ottocentesco. L’urbanizzazione, come
l’industrializzazione, procedette ad un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Molte sono le ragioni
sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. Storicamente, la principale
limitazione alla crescita delle città è stata di natura economica: l’impossibilità di rifornire grandi
masse urbane di quanto è indispensabile per vivere. Con i miglioramenti tecnologici dell’industria
moderna non solo queste limitazioni erano state allentate, ma in alcuni casi considerazioni di
carattere economico richiedevano la crescita della città. Nelle società preindustriali conveniva
trasportare i prodotti finiti dell’industria verso mercati lontani piuttosto che portare cibo e materie
prime in agglomerati urbani per masse di lavoratori. Furono l’introduzione del vapore come fonte di
energia, e l’affermarsi del nuovo sistema di fabbrica a cambiare situazione: quest’ultima in
particolare impose una contrazione della forza lavoro.
Dal momento che l’elettricità è una forma molto versatile di energia, oltre all’illuminazione (Edison
inventa la lampadina) Werner von Siemens inventò il tram elettrico, con conseguenze rivoluzionarie
per i trasporti di massa nelle metropoli in espansione dell’epoca. I motori elettrici vennero ben
presto applicati all’industria.
L’elettricità può essere usata anche per produrre calore, e per questo cominciò ad essere impiegata
nella fusione dei metalli, in particolare l’alluminio. Il petrolio, altra grande fonte di energia che si
affermò nella seconda metà del XIX secolo, inizio ad essere economicamente sfruttato dal 1859 con
le trivellazioni dei pozzi in Pennsylvania. Dapprima usato per l’illuminazione, il petrolio e tutte le
sue funzioni furono in seguito utilizzati per il riscaldamento e lo sviluppo di motori: in questi anni
Otto, Daimler e Benz sperimentavano il loro motore a combustione interna, la cui maggiore
implicazione fu quella nei settori dei mezzi di trasporto leggeri. L’industria automobilistica (di cui
Peugeot, Renault, Citroën, William Morris, Henry Ford) fu una delle maggiori del XX secolo ed è a
lei che dobbiamo lo sviluppo successivo dell’industria aeronautica.
Acciaio28 .
Le innovazioni più importanti dell’industria siderurgica nella seconda metà del XIX secolo
attengono alla produzione dell’acciaio. L’acciaio è una particolare varietà di ferro contenente meno
carbonio rispetto alla ghisa, ma più del ferro battuto, risultando più duro e resistente.
Nel 1856 Henry Bessemer, inventore inglese, brevettò un nuovo metodo per la fabbricazione
dell’acciaio direttamente dalla ghisa fusa, saltando la fase di pudellaggio e assicurando un prodotto
superiore.
L’espansione dell’industria dell’acciaio ebbe un profondo impatto sia sulle altre industrie fornitrici
di materie prime (quali il carbone) che sulle industrie clienti. L’acciaio permise di costruire rotaie
più resistenti, navi più grandi, leggere e veloci e grattacieli.
Trasporti e comunicazioni29.
Il processo di sviluppo economico è riassunto dalla locomotiva a vapore e dalle rotaie di ferro/
acciaio. Esse furono nello stesso tempo un simbolo e uno strumento dell’industrializzazione. Prima
delle ferrovie, le inadeguate infrastrutture di trasporto avevano costituito uno dei maggiori ostacoli
all’industrializzazione sia dell’Europa continentale che degli Stati Uniti. Le ferrovie offrirono un
trasporto più economico, più veloce e più affidabile.
Nel 1830 venne inaugurata la prima tratta ferroviaria al mondo, la Liverpool-Manchester. In seguito
la rete ferroviaria britannica conobbe un rapido sviluppo. La Gran Bretagna possedeva sia le
conoscenze tecniche che i capitali necessari per la loro costruzione; il parlamento, sotto l’influsso
delle idee liberali nel campo della politica economica che avevano prevalso negli ultimi anni,
autorizzò prontamente la formazione di società azionarie private. Ne seguirono accessi frenetici di
speculazione e costruzione (“manie”), inevitabilmente punteggiati da crisi finanziarie.
Il Belgio fu all’avanguardia tra le nazioni europee che per prime si dedicarono alla progettazione e
alla costruzione di ferrovie. Soddisfatto dall’indipendenza appena ottenuta dal regno delle Province
Unite, il governo borghese belga decise di costruire una rete ferroviaria completa a spese dello stato
per facilitare l’esportazione delle manifatture belghe e per attirare il commercio di transito
dell’Europa nordoccidentale.
La Francia e la Germani furono i soli altri paesi del continente a realizzare dei progressi significativi
nelle costruzioni ferroviarie prima della metà del secolo. La Germania, pur divisa in parecchi stati
indipendenti e rivali, riuscì meglio della Francia che, nonostante avesse un governo centrale, fu
ostacolata da dispute parlamentari e conflitti regionali sulla localizzazione delle linee principali.
Il famoso Orient Express, che da Londra e Parigi arrivava a Costantinopoli, effettuò il primo
viaggio nel 1888.
Nella penisola italiana la presenza di piccoli principati causò lenti progressi in fatto di trasporti fino
all’avvento di Cavour negli anni cinquanta.
Per quanto riguarda l’attraversata oceanica che permetteva i commerci tra l’Europa e il continente
americano la tappa fondamentale fu l’istituzione di un servizio transatlantico nel 1838 e la
fondazione della compagnia di navigazione Cunard nel 1840. La vera innovazione si ebbe però con
l’introduzione della propulsione ad elica, del motore compound e dello scafo in acciaio (a distanza
di un decennio l’una dall’altra). Nel 1869 venne aperto il Canale di Suez.
Già all’inizio del XIX secolo si introdussero innovazioni che permisero l’informazione e
l’alfabetizzazione di un numero più consistente di persone. Esempi sono la macchina per la
fabbricazione della carta e la macchina da stampa cilindrica che permisero una sensibile riduzione
del costo di libri e giornali ora alla portata delle masse.
L’inventore e imprenditore italiano Guglielmo Marconi, lavorando sulle scoperte scientifiche di
Maxwell e Hertz, inventò nel 1895 il telegrafo senza fili (radio); già nel 1901 un radiomessaggio
attraversava l’Atlantico.
La chimica30 .
La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti.
Essa aveva prodotto artificialmente la soda, l’acido solforico, il cloro e numerosi composti chimici
pesanti particolarmente importanti nell’industria tessile. Nel 1856 William Perkins sintetizzò
accidentalmente la malva, una sfumatura molto pregiata della porpora. Fu questo l’inizio
dell’industria dei coloranti artificiali, che nello spazio di venti anni mise virtualmente fuori mercato
i coloranti naturali. I coloranti furono il primo prodotto di industrie che poi allargarono i propri
interessi verso i campi della farmaceutica, degli esplosivi, dei reagenti fotografici e fibre sintetiche.
Dopo la rivoluzione della chimica associata al nome del grande chimico francese del Settecento
Antoine Lavoisier, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui zinco, alluminio, nichel, magnesio e
cromo. Oltre alla scoperta, gli scienziati trovarono un modo di impiegare i nuovi materiali e di
ricavarli in regime di economicità.
Istruzione34.
Un aspetto meno considerato dello sviluppo industriale dell’Ottocento fu il progresso dell’istruzione
e la diminuzione dell’analfabetismo. Prima del XIX secolo le istituzioni educative pubbliche erano
praticamente inesistenti. Tutori privati, istituzioni religiose e di carità e talvolta scuole private a
pagamento provvedevano all’istruzione elementare di una fetta della popolazione, soprattuto nelle
città. Molte personalità autorevoli si opponevano a che si insegnasse alle “masse lavoratrici” a
leggere e a scrivere perché ciò era incompatibile con la loro posizione sociale. L’istruzione tecnica
era fornita quasi esclusivamente attraverso il sistema dell’apprendistato. L’istruzione secondaria e
universitaria era riservata, con l’eccezione di coloro che aspiravano a far parte del clero, in gran
parte ai figli delle classi privilegiate. La rivoluzione francese aveva introdotto il principio
dell’istruzione pubblica gratuita, ma rimasto inapplicato. Tuttavia la stessa rivoluzione fu all’origine
di altre innovazioni educative di particolare importanza per l’epoca industriale, come l’introduzione
Relazioni internazionali35.
In Germania, l’unificazione economica raggiunta con lo Zollverein sotto l’egemonia prussiana negli
anni trenta precedette il compimento nel 1871 dell’unificazione politica, e contribuì a porre le
fondamenta della potenza industriale tedesca.
Il XIX secolo fu contraddistinto da conflitti relativamente brevi e limitati. Verso la fine del secolo le
tensioni politiche, esacerbate di quando in quando da rivalità economiche, si fecero più acute
rispetto alla prima metà del secolo tracimando nella rinascita dell’imperialismo europeo. Questa
ripresa dell’imperialismo provocò un grande allargamento del sistema di mercato mondiale, con
l’Europa al suo centro.
MODELLI DI SVILUPPO36
Il processo di industrializzazione ottocentesco fu un fenomeno di dimensione europea,
essenzialmente regionale.
La Gran Bretagna37.
Alla fine delle guerre napoleoniche la Gran Bretagna produceva un quarto della produzione
industriale totale mondiale, classificandosi come maggiore paese industriale del mondo. La sua
posizione di avanguardia nella manifattura e il suo ruolo di massima potenza navale mondiale le
valsero lo status di principale potenza commerciale a livello mondiale.
Dopo il 1870, nonostante continuassero ad aumentare sia il prodotto nazionale che gli scambi
commerciali, essa perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio di altre nazione che si
stavano velocemente industrializzando (Germania e Stati Uniti). Alla vigilia della prima guerra
mondiale la Gran Bretagna era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale ma
controllava solo circa un sesto del commercio complessivo.
Nell’industria del carbone la Gran Bretagna mantenne la sua posizione di capofila in Europa e
produceva un surplus destinato all’esportazione. Per tutto il secolo la produzione britannica pro
capite di carbone fu quasi doppia di quella dei suoi maggiori concorrenti europei, il Belgio e la
Germania.
Le industrie favorite erano quella meccani, quella tessile e quella siderurgica. Dato il ruolo
pionieristico della Gran Bretagna nello sviluppo delle ferrovie, la domanda estera, europea e non, di
consulenti, materiali e capitali britannici costituì un forte stimolo per l’intera economia. Un’altro
stimolo fu l’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali. Il ferro cominciò a sostituire su larga
scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore che di quelle a vela nel corso degli anni
cinquanta, in seguito subentrò l’acciaio.
Il ritmo della crescita industriale nel secolo 1750-1850 fu molto più lento di quanto non avessero
suggerito valutazioni impressionistiche fatte in passato. La Gran Bretagna raggiunse l’apice della
supremazia industriale nei confronti della altre nazioni nei due decenni compresi tra il 1850 e il
1870. I tassi di crescita sono in qualche modo ingannevoli, in quanto in presenza di una ridotta base
statistica incrementi assoluti molto modesti possono tradursi in elevati tassi di crescita. La Gran
Bretagna non poteva conservare indefinitamente la propria posizione di predominio, man mano che
altre nazioni meno sviluppate ma ricche di risorse cominciavano a industrializzarsi. Il declino
relativo della Gran Bretagna era inevitabile anche a causa della rapida crescita demografiche e delle
immense risorse di grandi stati come gli Stati Uniti e la Russia.
35 ibidem, p. 347.
36 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo IX-X
37 ibidem, pp. 350-357.
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Altro possibile causa del declino relativo della Gran Bretagna è il fallimento della strategia
imprenditoriale. L’introduzione tardiva e quasi controvoglia di nuove industrie ad alto tasso
tecnologico, come quella della chimica organica, dell’elettricità, dell’ottica e dell’alluminio,
nonostante molti degli inventori fossero britannici, fu un segno di inerzia imprenditoriale.
Il rallentamento industriale e l’insufficienza della classe imprenditoriale sono fenomeni che possono
essere ascritti entrambi in parte all’arretratezza del sistema educativo britannico. La Gran Bretagna
fu l’ultimo grande paese occidentale ad adottare l’istruzione elementare pubblica per tutti,
presupposto importante per la formazione di una forza lavoro specializzata. Le poche grandi
università inglesi dedicavano scarsa attenzione all’educazione scientifica e meccanica (a differenza
però di quelle scozzesi). Esse contribuivano in tal modo alla perpetuazione dei valori aristocratici
disprezzanti l’attività commerciale e industriale.
Nonostante tutte le vicissitudini, il reddito reale pro capite dei cittadini britannici aumentò, la
distribuzione del reddito divenne leggermente più uniforme, la percentuale di popolazione costretta
a vivere in condizioni di assoluta povertà diminuì nettamente, e il cittadino medio godeva nel 1914
di un tenore di vita che non aveva eguali in Europa.
Il Belgio38 .
La prima regione dell’Europa continentale ad adottare pienamente il modello industriale britannico
fu quella che nel 1830 assunse il nome di regno del Belgio. Il Belgio vantava una lunga tradizione
industriale. Le Fiandre erano state nel Medioevo un centro importante della produzione del panno,
ed era famosa per la lavorazione dei metalli. Bruges e Anversa furono le prime città del nord ad
assimilare le tecniche commerciali e finanziarie italiane nel bassi Medioevo. Le risorse naturali
belghe erano molto simili a quelle britanniche. Il Belgio possedeva giacimenti carboniferi
facilmente accessibili e, nonostante la ridotta dimensione del suo territorio, fu in grado di produrre
più carbone di qualunque altro paese del continente fino a dopo il 1850. Mosselman, e la sua
Société de la vieille montagne, svolse un ruolo primario nella nascita della moderna industria dello
zinco.
A causa della sua posizione geografica, delle sue tradizioni e dei suoi legami politici, la regione che
sarebbe divenuta il Belgio ricevette importanti infusioni di tecnologia, iniziativa imprenditoriale e
capitali stranieri, e godette di una posizione di favore in certi mercati esteri, in particolare quelli
francesi.
William Cockerill, un abile meccanico inizialmente alle dipendenze della famiglia Biolley
(industria della lana) aprì la sua officina per la fabbricazioni di macchine filatrici.
Le miniere di carbone erano le maggiori utilizzatrici delle macchine a vapore, sia costruite sul
modello di Newcomen che su quello di Watt, ed attiravano più di ogni altro settore gli imprenditori
e gli investimenti francesi. Durante la dominazione francese si sviluppò un traffico di notevole
importanza sia per l’industria belga del carbone che per l’industria francese in generale.
La rete di canali ed altre vie d’acqua che collegava la Francia ai bacini carboniferi belgi facilitò
enormemente questo traffico. L’industria cotoniera crebbe invece intorno a Gand, città che vide la
fondazione di diverse fabbriche di calicò nelle quali non si faceva uso di energia meccanica.
Nel 1821 Paul Huart-Chapel introdusse nella sua fonderia vicino Charleroi il procedimento di
pudellaggio e laminatura. In seguito venne costruito un altoforno alimentato dal carbon coke che
entrò finalmente in attività nel 1827. Altri seguirono ben presto quello di John Cockerill, che erano
in società col governo olandese di re Guglielmo I.
I figli di William Cockerill, rilevata la società del padre, iniziarono produrre macchine a vapore
accanto al macchinario tessile. Essi annunciarono il progetto i costruire altiforni a carbon fossile
ottenendo sovvenzioni dal governo olandese. Alla vigilia della rivoluzione belga, la ditta Cockerill
era indiscutibilmente l maggiore impresa industriale dei Paesi Bassi, e probabilmente del
continente. Fu anche una delle prime industrie metallurgiche a integrazione verticale. Come tale
funse da modello per altre imprese di questo fiorente settore industriale.
La rivoluzione belga provocò una depressione economica, durata pochi anni, derivante
dall’incertezza sul carattere e il futuro del nuovo stato. In seguito il Belgio assistette a un boom
economico spiegato da favorevoli condizioni economiche internazionali come 1) la decisione del
governo di costruire una estesa rete ferroviaria a spese dello stato, utile per le industrie del carbone,
siderurgica e meccanica; 2) una importante innovazione istituzionale nel campo delle banche e della
finanza.
Nel 1822 re Guglielmo I aveva autorizzato l’istituzione di una banca azionaria, la Société générale
pour favoriser l’industrie nationale des Pays-Bas (nota dopo il 1830 come Société générale de
Belgique)
Nel 1835 un gruppo rivale di banchieri ottenne l’autorizzazione a fondare un’altra banca a capitale
azionario, la Banque de Belgique, modellata a imitazione della Société Générale ma con il 90% di
capitale francese.
Per tutto il secolo la prosperità del Belgio continuò a fondarsi sulle industrie che ne avevano
determinato la crescita: carbone, ferro (e acciaio), metalli non ferrosi, industria meccanica e, in
grado minore rispetto alla Gran Bretagna, tessili. Nell’industria chimica, l’introduzione del processo
Solvay di produzione del carbonato sodico rese rapida la crescita altrimenti lenta di quest’industria.
Le industrie meccaniche eccellevano nella costruzione all’estero di ferrovie a scartamento ridotto e,
dopo il 1880, di ferrovie e tram elettrici.
Le esportazioni rappresentarono almeno il 50% del prodotto nazionale lordo. Un partner
particolarmente importante era ancora una volta la Francia che importava oltre la metà del carbone
necessario alla sua economia dal Belgio.
L’introduzione del processo Bessemer e del forno a suola per la fabbricazione dell’acciaio, e
l’enorme espansione della domanda determinata dalle ferrovie transcontinentali, l’industria
siderurgica divenne in breve tempo la maggiore industria americana in termini di valore aggiunto.
Fu solo con l’avvento delle centrali elettriche che cominciò il declino dell’industria a base rurale. I
prodotti agricoli continuarono a dominare l’esportazioni americane e nel 1890 gli Stati Uniti erano
la maggiore nazione industriale del mondo.
La Francia40.
Di tutti i paesi della prima ondata industriale, la Francia fu quello con il modello di crescita più
aberrante. Tuttavia, con opportune analisi si evince che, differendo il modello francese di
industrializzazione da quello britannico, soprattutto per quanto riguarda il tasso di crescita
demografico sorprendentemente modesto, ad un livello pro capite la Franca si comportò molto bene.
L’industrializzazione delle altre nazioni dipese in special modo dalle abbondanti riserve di carbone
mentre le caratteristiche dei pochi giacimenti in possesso della Francia rendevano più costoso il loro
sfruttamento.
Nonostante l'handicap di risorse e il complesso fattore politico-istituzionale, scienziati, inventori e
innovatori francesi fecero da pionieri in diverse industrie: energia idraulica (turbine, elettricità),
acciaio (forno a suola), alluminio, automobile e, più recentemente, l’aviazione.
Il settore cotoniero e laniero rappresentava l’industria più importante in termini di numero di addetti
e di valore aggiunto. Le industrie chimica, del vetro, della porcellana e della carta, pure in rapida
crescita, erano senza eguali in quanto a varietà di qualità dei loro prodotti. Nuove industrie
nacquero: l’illuminazione a gas, fiammiferi, fotografia, galvanoplastica, manifattura di gomma
vulcanizzata, ecc. I miglioramenti dei trasporti e delle comunicazioni, che inclusero la costrizione di
una vasta rete di canali, l’introduzione della navigazione a vapore, le prime ferrovie e il telegrafo
elettrico, facilitarono la crescita del commercio interno ed esterno.
La crisi della finanza pubblica e privata paralizzò le costruzioni ferroviarie e le altre opere
pubbliche. Le importazioni si dimezzarono nel 1848, le esportazioni diminuirono leggermente.
Con il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del secondo impero la crescita economica
francese riprese il vecchio corso ad un ritmo accelerato. Le riforme economiche, i trattati di libero
scambio e le leggi liberali sulle società fornirono ulteriori stimoli. Negli anni ottanta le costruzioni
ferroviarie rappresentarono un efficace stimolo per il resto dell’economia, sia direttamente che
indirettamente. L’industria siderurgica completò la transizione al carbon coke negli anni cinquanta e
negli anni sessanta e settanta adottò il processo Bessemer e Martin per un acciaio a buon mercato.
In quel periodo la produzione del carbone e quella del ferro si quadruplicarono.
Nel periodo compreso tra il 1851 e il 1881 la ricchezza e il reddito della Francia crebbero ai
massimi ritmi del secolo. La dura depressione del 1882 fu dovuta al panico finanziario e aggravata
da disastrose epidemie dannose all’industria del vino e della seta, ingenti perdite di investimenti
esteri per colpa di governi inadempienti o del fallimento di imprese ferroviarie, il ritorno su scala
mondiale al protezionismo, le nuove tariffe doganali francesi e l’aspra guerra commerciale con
l’Italia. La Francia tornò a godere di un tasso di crescita pre-crisi in quella che i francesi chiamano
La belle époque.
Aspetti chiave del modello di crescita francese sono:
1. Il basso ritmo di urbanizzazione, la cui causa principale fu la lenta crescita demografica
complessiva. Tra tutte le grandi nazioni industriali, la Francia era quella con la più alta
percentuale di addetti nel settore agricolo. La Francia era il solo paese industrializzato europeo
autosufficiente dal punto di vista alimentare, con un’eccedenza da esportare.
2. La Francia era famosa per la ridotta dimensione delle sue aziende. Esse erano tuttavia ad alto
valore aggiunto (articoli di lusso) e ad elevata dispersione geografica. Invece delle poche
colossali conurbazioni dell’industria pesante tipiche della Gran Bretagna e della Germania, la
La Germania41.
Fra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione la Germania fu l’ultima a mettersi in moto.
Nella prima metà anche del XIX secolo, lo stato politicamente diviso era anche prevalentemente
rurale e agricolo. In Renania, Sassonia, Slesia e nelle città di Berlino esistevano piccole
concentrazioni industriali di tipo artigianale o protoindustriale. Lo stato precario dei trasporti e delle
comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’impero tedesco unificato era la più potente nazione
industriale europea. Possedeva le industrie più grandi e moderne nei settori del ferro e dell’acciaio e
derivati dell’energia elettrica, dei macchinari e dei prodotti chimici. La storia economica tedesca
dell’Ottocento può essere suddivisa in tre periodi abbastanza distinti e quasi simmetrici. Il primo
comprende la costituzione nel 1833 dello Zollverein, il secondo è un periodo di imitazione
consapevole e di prestiti che durò fino al 1870 circa con incremento delle attività dell’industria
moderna, del commercio e della finanza; in poco tempo la Germania raggiunse quella supremazia
industriale che mantiene ancora oggi.
Le influenza esterne, derivanti dalla rivoluzione francese e dalla riorganizzazione dell’Europa
operata da Napoleone, avevano inizialmente carattere legale e intellettuale.
La riva sinistra del Reno, unita politicamente ed economicamente alla Francia sotto Napoleone,
aveva adottato il sistema legale e le istituzioni economiche francesi, conservandole anche dopo il
1815. Persino la Prussia adottò, in forma modificata, molte istituzioni legali ed economiche
francesi: abolì la distinzione tra proprietà nobiliare e non nobiliare dando vita al “libero scambio”.
Una delle più importanti riforme economiche attuate dai funzionari prussiani fu quella che condusse
alla formazione dello Zollverein (unione doganale o tariffaria). Le fondamenta furono poste nel
1818, quando fu decisa l’applicazione di una tariffa unica per tutta la Prussia, con l’obiettivo
primario dell’efficienza amministrativa e di un maggiore gettito fiscale. Aderirono diversi piccoli
stati e, nel 1833, un trattato con gli stati più estesi della Germania meridionale segno la nascita dello
Zollverein.
Lo Zollverein seguì una politica commerciale “liberale”: in primo luogo abolì tutti i dazi interni e le
barriere doganali, creando un “mercato comune” tedesco; in secondo luogo rese possibile la
determinazione di una tariffa comune verso l’estero. Le ferrovie riuscirono nell’intento unificatore
dello Zollverein.
La chiave della rapida industrializzazione tedesca fu la crescita vertiginosa dell’industria del
carbone, e la chiave della crescita di quest’ultima fu il bacino carbonifero della Ruhr. Poco prima
della prima guerra mondiale la Ruhr produceva circa i due terzi del carbone tedesco. Lo
sfruttamento delle miniere, sebbene estremamente redditizio, richiedeva capitali più ingenti,
tecniche più sofisticate ed una maggiore libertà d’impresa. Ciò fu fornito da ditte straniere (francesi,
belghe, britanniche). Dal 1850 la produzione carbonifera della Ruhr crebbe con grande rapidità, e
con essa quella dell’industria siderurgica e dell’acciaio, di quella chimica e delle altre industrie
basate sul carbon fossile. L’impiego del coke nella fusione del ferro fu inaugurato nella Slesia. La
produzione dell’acciaio Bessemer inizio nel 1863, e il procedimento Martin-Siemens fu adottato
poco dopo. Le aziende tedesche adottarono rapidamente la strategia dell’integrazione verticale,
acquistando miniere di carbone e ferro, impianti per la produzione di coke, altiforni, fonderie e
laminatoi, officine meccaniche e così via.
I settori più dinamici dell’industria tedesca erano quelli che producevano beni capitale o prodotto
intermedi ad uso industriale. Ancora più importanti erano le industrie della chimica e quella
elettrica. L’enfasi data in Germania ai beni capitale e intermedi, a relativo scapito dei beni di
consumo, contrasta nettamente con la situazione francese, e contribuisce a spiegare i differenti
modelli di crescita dei due paesi. La crescita delle altre industrie determinò una forte domanda di
prodotti chimici industriali, in particolare alcali e acido solforico. Stimolati dalla nuova letteratura
sull’uso della chimica in agricoltura, la richiesta di fertilizzanti artificiali aumentò. In questo
contesto venne scoperto accidentalmente dal chimico inglese Perkin, il primo colorante sintetico
(malveina). Nell’arco di pochi anni quest’industria, attingendo dal personale e dalle risorse del
mondo universitario, affermò il suo predominio in Europa e nel mondo. Il settore industriale della
chimica organica fu anche il primo nel mondo a organizzarsi con proprie strutture e personale di
ricerca. Determinò di conseguenza l’introduzione di molti nuovi prodotti, e dominò inoltre la
produzione farmaceutica. L’industria elettrica registrò una crescita ancor più rapida di quella
chimica: d’impronta scientifica, l’estrema rapidità dell’urbanizzazione che si verificò proprio nel
periodo di espansione dell’industria le diede ulteriore stimolo. Tra i primi usi dell’elettricità i più
importanti furono l’illuminazione e i trasporti urbani.
Caratteristica notevole delle industrie menzionate era l’imponente dimensione delle aziende.
L’apice era rappresentato dall’industria elettrica Siemens & Schuckert. La dimensione notevole
delle aziende era dettata in qualche misura da economie tecniche di scala. Per alcune attività, che
richiedevano attrezzature costose, era economicamente vantaggioso adottare un grosso volume di
produzione.
Importante caratteristica della struttura industriale tedesca era la prevalenza di cartelli. Tali contratti
o accordi contrari alle norme del diritto consuetudinario britannico o statunitense che vietavano le
associazioni finalizzate a limitare il commercio, nonché alla legge Sherman anti-trust degli Stati
Uniti, erano in Germania perfettamente legali ed anzi applicabili per legge.
La teoria economica elementare insegna che i cartelli limitano la produzione per accrescere i
profitti, ma tale predizione mal si accorda con l’esperienza tedesca di rapida crescita della
produzione anche nelle industrie dominate dai cartelli: la combinazione di cartelli e dazi
protezionistici voluti da Bismarck dopo il 1879 furono in grado di mantenere sul mercato interno
dei pressi artificialmente elevati e di esportare in maniera virtualmente illimitata nei mercati esteri,
persino a prezzi inferiori al costo medio di produzione nei limiti in cui il margine di profitto nelle
vendite compensava la perdita nominale nelle esportazioni.
La Svizzera42 .
La Svizzera fu il primo paese della seconda ondata industriale, nonostante alcuni affermino che in
realtà la Svizzera era più industrializzata della Germania.
Nel 1850 il paese era appena agli inizia dell’età delle ferrovie e non disponeva di una struttura
istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento che si
arrivò all’unione doganale, ad un effettiva unione monetaria, ad un sistema postale centralizzato e
ad uno standard uniforme di pesi e misure. La Svizzera è inoltre povera di risorse naturali ad
eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname, ed è praticamente priva di carbone. Le
montagne precludono la coltivazione e rendono praticamente inabitabile il 25% del suo territorio
nonostante questi svantaggi, gli svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo uno dei
livelli di vita più elevati di tutta Europa, e uno tra i più alti del mondo nell’ultimo quarto di questo
secolo. Il tasso medio d’incremento fu appena inferiore a quelli della Gran Bretagna, del Belgio e
della Germania. La densità di popolazione era inferiore a quella degli altri paesi, ma ciò è in gran
parte spiegabile con la natura del territorio. La Svizzera dipendeva dunque dai mercati
internazionali.
Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto ad una insolita, anche se non unica,
combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Il risultato furono
prodotti di alta qualità, di valore elevato e con un alto valore aggiunto, quali orologi, tessuti di
fantasia, macchinari complessi, formaggi prelibati e cioccolata. L’alta intensità di lavoro
specializzato è connesso al basso livello di analfabetismo nella maggior parte dei cantoni e,
soprattutto, all’elaborato sistema di apprendistato ivi diffuso. Esisteva una forza lavoro abile,
adattabile e disposta a lavorare per salari relativamente bassi. L’Istituto svizzero di tecnologia
contribuì all’istruzione di intelligenze addestrare a trovare soluzioni ai problemi tecnici e a
migliorare i macchinari dell’epoca.
La Svizzera possedeva nel XVIII secolo un’importante industria tessile cotoniera, seconda solo a
quella britannica. La filatura era meccanizzata e si avvaleva del lavoro a buon mercato di donne e
bambini, mentre la tessitura era manuale. Gli svizzeri si concentrarono sui tessuti di alta qualità e su
quelli ricamati (impiego del telaio manuale incorporato a elementi del telaio Jacquard). L’industria
della seta contribuì alla crescita economica svizzera del XIX secolo sia come numero di addetti che
a livello di esportazioni.
Tra le industrie che presero il posto dei tessili nelle esportazioni figuravano l’industria meccanica, la
fabbricazione di prodotti metallici specializzati, di cibi e bevande, di orologi da muro e da polso, di
prodotti chimici e farmaceutici. La Svizzera, priva di carbone e con scarsi giacimenti di minerali
ferrosi, evitò di sviluppare un’industria siderurgica di grandi dimensioni; affidandosi
all’importazione di materie prime dall’estero, sviluppò un’importante industria di trasformazione
dei metalli. L’importanza dell’energia idraulica si tradusse nel business delle ruote idrauliche,
turbine e altri prodotti altamente specializzati e di alto valore.
L’industria casearia, rinomata per il formaggio, si trasformò da un’attività artigianale ad un
processo di fabbrica, espandendo enormemente la produzione totale e quella destinata
all’esportazione. Essa sviluppò inoltre la produzione del cioccolato e quella degli alimenti per
bambini. L’altra industria tradizionale, la manifattura di orologi da muro e da polso, continuò ad
essere caratterizzata dal lavoro manuale di artigiani ad altissima specializzazione e da una minima
divisione del lavoro: la produzione di parti standardizzate ed intercambiabili comportava comunque
l’assemblaggio finale manuale.
L’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione. Dopo la
scoperta dei coloranti artificiali, due piccole ditte di Basilea cominciarono a produrne per rifornire
l’industria locale dei nastri. Esse si accorsero tuttavia ben presto di non poter competere con le
industrie tedesche nella produzione su larga scala dei normali coloranti, propendendo per una
specializzazione su prodotti esotici e di prezzo elevato.
Sebbene le ferrovie abbiano trasformato radicalmente la Svizzera, esse si rivelarono nel complesso
un pessimo affare.
Le linee di tendenza economica di metà Ottocento, comprendenti il declino dell’agricoltura, la
crescita relativa dell’industria e dei servizi e la continua dipendenza dalla domanda internazionale
di servizi finanziari (dalla prima guerra mondiale), si protrasse fino a tutto il XX secolo.
L’impero austro-ungarico43.
Le terre dell’Austria-Ungheria furono sottoposte al dominio della corona asburgica fino al 1918. La
reputazione di arretratezza economica relativamente al XIX secolo è dovuta dal fatto che alcune
porzioni dell’impero erano effettivamente più arretrate (quelle orientali) rispetto alle altre (le
province occidentali: Boemi, Moravia e l’Austria). Nelle province occidentali i primi segni di una
crescita economica moderna possono essere osservati già nella seconda metà del XVIII secolo;
tuttavia la topografia, che rendeva difficili e costosi i trasporti, la scarsità e l’infelice localizzazione
delle risorse naturali erano di ostacolo. Le industrie tessili erano di gran lunga quelle di maggiori
dimensioni. La meccanizzazione cominciò nell’industria cotoniera, per poi diffondersi in quella
laniera nei primi decenni del secolo successivo e in quella del lino con maggiore lentezza.
La Russia imperiale44 .
All’inizio del XX secolo l’impero russo era considerato generalmente una grande potenza anche
grazie all’estensione del suo territorio e della popolazione. In termini economici complessivi la
Russia occupava una posizione ragguardevole: era quinta al mondo in quanto a produzione
industriale totale. Possedeva grandi industrie tessili (produzione di cotone e lino), nonché industrie
pesanti (carbone, ghisa, acciaio). Era seconda al mondo nella produzione petrolifera (dopo gli
USA).
Tuttavia la produzione e il consumo pro capite di carbone (e di altri settori produttivi), nettamente
inferiori persino ai valori austriaci, segnalano l’arretratezza di un’economia ancora prevalentemente
agricola: l’agricoltura dava da vivere ad oltre due terzi della popolazione e produceva più del 50%
del reddito nazionale. Il reddito pro capite era circa un terzo di quello britannico. La produttività era
tremendamente bassa, ostacolata da una tecnologia primitiva e dalla scarsità di capitali. Il servaggio
legalizzato (rimosso nel 1861) come ostacolo istituzionale fu determinante a questo scarsa
produttività.
Gli inizi dell’industrializzazione russa sono stati fatti risalire al regno di Pietro il Grande, se si
eccettua l’industrializzazione degli Urali (iniziative isolate determinate da bisogni contingenti dello
stato russo come, ad esempio, la produzione di armi). Nella prima metà dell’Ottocento
l’industrializzazione divenne un fenomeno più visibile: l’industria più dinamica, e che registrò la
crescita più rapida, fu quella cotoniera, in particolare nella regione di Mosca, seguita a distanza
dalle raffinerie di zucchero (in Ucraina). San Pietroburgo e la Polonia russa vantavano diversi
cotonifici moderni, di grandi dimensioni, nonché fabbriche metallurgiche e meccaniche.
La guerra di Crimea rivelò la cruda realtà dell’arretratezza dell’industria e dell’agricoltura russe,
tanto da dare il via a una serie di riforme tra cui l’emancipazione dei servi (1861). Il governo
incoraggiò un programma di costruzioni ferroviarie sulla base di capitali e tecnologie
d’importazione, e riorganizzò il sistema bancario per permettere l’introduzione di tecniche
finanziarie occidentali. L’efficacia delle nuove politiche divenne evidente alla metà degli anni
ottanta e nel “grande balzo” della produzione industriale (tasso medio di crescita della produzione
di oltre l’8%). Parte del merito di questo grande balzo va attribuito al programma di costruzioni
ferroviarie, in particolare alla transiberiana di proprietà statale, e all’espansione delle industrie
mineraria e metallurgica (dovuta a imprenditori e capitali stranieri).
Il governo cercò di incoraggiare l’industrializzazione in vari modi. Contrasse prestiti all’estero per
finanziare la costruzione di ferrovie statali e garantì le obbligazioni di ferrovie appartenenti a
società private. Ordinò l’equipaggiamento per le ferrovie di proprietà statale unicamente a società
ubicate in Russia) e dispose che le società private facessero altrettanto. Impose alti dazi sulle
importazioni di prodotti di ferro e di acciaio agevolando contemporaneamente l’introduzione di
attrezzature più moderne per la manifattura del ferro e dell’acciaio e per le costruzioni meccaniche.
Al boom dell’industria russa degli anni novanta succedette la crisi dei primi anni del XX secolo, il
cui effetto fu aggravato dall’esito disastroso della guerra russo-giapponese.
Nel mezzo secolo precedente la prima guerra mondiale l’economia russa subì profondi mutamenti
nella direzione di un sistema più moderno e tecnologicamente adeguato; la sua debolezza al
confronto delle economie occidentali più avanzate si acutizzò nel corso della guerra contribuendo
alla sconfitta della Russia e preparando lo scenario della rivoluzione del 1917.
Il Giappone45 .
Nella prima metà del XIX secolo il Giappone mantenne la sua politica di isolamento dalle influenze
straniere, e in particolare occidentali, più efficacemente di ogni altro paese orientale. Dall’inizio del
Seicento il governo Tokugawa aveva proibito il commercio con l’estero e aveva vietato ai
giapponesi di viaggiare all’estero. La società era strutturata in rigide classi sociali o caste, che si
avvicinavano sotto taluni aspetti a quelle feudali dell’Europa medievale. L’organizzazione
dell’economia era notevolmente sofisticata. Nel 1853-4 il commodoro Perry, ammiraglio della flotta
statunitense, entrò con le sue navi nella baia di Tokyo costringendo lo shogun Tokugawa ad
allacciare relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti.
Una clausola chiave di questi trattati ineguali impediva al governo giapponese di imporre tariffe
superiori al 5% ad valorem; gli stranieri inoltre ottennero il diritto di extraterritorialità (non
soggezione alle leggi locali). La debolezza dello shogunato Tokugawa di fronte alle prepotenze
occidentali portò a rivolte xenofobe e ad un movimento ripristinatore dell’imperatore come figura
centrale del governo.
Con l’abdicazione dello shogun, l’imperatore Mutsuhito trasferì la corte imperiale a Tokyo
segnando la nascita del Giappone moderno (restaurazione Meiji ossia “governo illuminato”).
L’epoca Meiji durò dal 1868 alla morte di Mutsuhito nel 1912.
Invece di tentare un’espulsione degli stranieri, il Giappone cooperò con loro ma tenendoli a
rispettosa distanza. Il vecchio sistema feudale fu abolito e sostituito da un’amministrazione
burocratica altamente centralizzata modellata sul sistema francese, con un esercito di tipo prussiano
ed una flotta simile a quella britannica. I metodi industriali e finanziari furono importati soprattutto
dagli Stati Uniti. Uno dei problemi maggiori che il governo dovette in un primo tempo fronteggiare
fu quello finanziario: nel 1873 decretò una tassa sulla terra, stabilita in base alla produttività
potenziale dei terreni agricoli prescindendo dalla quantità del prodotto effettivo. Essa ebbe un
effetto doppiamente benefico: assicurava al governo un’entrata fissa e garantiva che la terra fosse
sfruttata al meglio. In merito ai problemi finanziari, il governo intraprese la creazione di un nuovo
sistema bancario che sostituisse la rete informale di credito dell’epoca Tokugawa. Venne scelto
come modello il National banking system degli Stati Uniti: le banche potevano essere fondate
usando titoli governativi a garanzia dell’emissione di banconote, obbligatoriamente convertibili in
moneta metallica.
Il ministro delle finanze Matsukata, in seguito all’inflazione dovuta all’eccesso di offerta di moneta,
operò nel 1881 una drastica deflazione monetaria al fine di ricostruire completamente la struttura
bancaria. Creò una nuova banca centrale, la Banca del Giappone, modellata sulla Banque Nationale
de Belgique. Essa ottenne il monopolio dell’emissione di banconote, mentre le banche nazionali
persero i loro diritti di emissione e furono trasformate in normali banche commerciali di deposito
sul modello inglese. La Banca del Giappone agiva anche come agente fiscale per conto del tesoro.
Sin dall’epoca della restaurazione Meiji il governo aveva intenzione di introdurre nel paese
praticamente l’intera gamma delle industrie occidentali.
Il riso era la coltivazione di base e la componente principale dell’alimentazione, integrato dal pesce
e dagli altri prodotti marini delle brulicanti acque costiere. Il Giappone possedeva alcuni giacimenti
di carbone e rame che contribuirono sia all’esportazioni che al consumo nazionale. Il settore agrario
fu quello che dovette sopportare il peso di assicurare con le esportazioni le entrate necessarie a
finanziare le importazioni.
L’industria cotoniera giapponese fu completamente spazzata via dai prodotti meccanizzati
provenienti dall’occidente mentre quella della seta sopravvisse, soprattutto nella prima parte della
filiera del prodotto di seta destinata all’esportazione. L’altra grande fonte di esportazioni era il té,
che nei primi anni dell’epoca Meiji fu altrettanto importante della seta.
Il governo usava avviare miniere, fabbriche modello e impianti moderni per poi venderle, quando
cominciavano a funzionare soddisfacentemente, a società e imprese private.
L’industria cotoniera fece registrare i progressi più rapidi, anche grazie all’uso di tecnologie
relativamente semplici e all’impiego di forza lavoro a buon mercato. Le industrie pesanti ebbero
uno sviluppo più lento, permesso da ingenti sussidi e protezioni tariffarie.
La prima guerra mondiale accrebbe naturalmente in misura notevole la domanda dei prodotti di
queste industrie e aprì contemporaneamente nuovi mercati. La guerra fu in effetti una manna per
l’intera economia giapponese. Il disavanzo della bilancia commerciale negli ultimi anni prima della
guerra era stato ingente, ma l’accresciuta domanda del periodo bellico, combinata con la
riconversione della produzione europea a fini militari, permise ai produttori giapponesi di penetrare
rapidamente nei mercati esteri.
Il tasso di crescita annuo del prodotto nazionale lordo fu in media del 3% tra il 1870 e il 1914. L
transazione economica giapponese ebbe anche conseguenze politiche. Nel 1894-94 il Giappone
sconfisse agevolmente la Cina in una breve guerra ed entrò nel novero dei paesi imperialisti
annettendo territorio cinese ed affermando la propria influenza sulla Cina stessa. Inoltre il Giappone
sconfisse la Russia sia in mare che in terra.
SETTORI STRATEGICI46
Agricoltura47.
Uno dei più profondi mutamenti strutturali dell’economia verificatisi nel XIX secolo fu la
diminuzione di peso relativo del settore agricolo. L’agricoltura non cessò di essere importante.
Presupposto di tale declino furono i progressi nella produttività agricola.
46 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XI.
47 ibidem, pp. 433-443.
27
Un’incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in
cinque modi potenziali.
1. Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione (forze lavoro) in grado di
dedicarsi ad occupazioni non agricole.
2. Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a sostenere la
popolazione non agricola.
3. La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle industrie
manifatturiere e dei servizi.
4. Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale il settore agricolo può fornire capitali
da investire al di fuori dell’agricoltura.
5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera
indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie
prime non disponibili in patria.
All’inizio dell’Ottocento l’agricoltura britannica era la più produttiva d’Europa, fatto in stretta
correlazione con la posizione d’avanguardia della Gran Bretagna nello sviluppo del sistema
industriale. L’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate
alimentari e di alcune materie prime e creava un surplus (cerealicolo) destinato per l’esportazione.
Tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta l’agricoltura britannica raggiunse,
contemporaneamente all’industria, il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero
aumentare la produttività in misura addirittura superiore all’introduzione della coltura a rotazione e
delle tecniche ad esse associate. Dopo il 1873 circa, con l’afflusso di grano americano a basso
prezzo, gli agricoltori britannici ridussero l’area coltivata a frumento volgendosi verso prodotti a
più alto valore aggiunto (carne, latticini...) e impiegando spesso il grano importato per
l’alimentazione del bestiame.
Il prospero settore agricolo costituì inoltre un buon mercato per l’industria britannica. La ricchezza
prodotta della terra contribuì in modo considerevole alla creazione di capitale sociale: canali e
strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. Nel complesso, l’agricoltura britannica
svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’industria britannica.
Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu una correlazione piuttosto stretta tra produttività agricola e
successo dell’industrializzazione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti
sostanziali della produttività. Fondamentalmente, una riforma agraria implica un mutamento del
sistema di possesso fondiario: esempi sono il movimento delle recinzioni in Inghilterra, con
conseguente formazione di unità agricole relativamente estese e compatte in luogo del sistema dei
campi aperti, e quella conseguente alla rivoluzione francese, che abolì l’ancien régime e confermò
ai piccoli proprietari indipendenti il possesso delle loro piccolo fattorie.
Non sempre la riforma agraria ebbe effetti benefici, come nel caso della monarchia asburgica. In
Spagna e in Italia i tentativi di riforma agraria entrarono in collisione con le necessità finanziarie dei
governi. La Russia imperiale si distinse per la realizzazione di due tipi molto differenti di riforma
agraria nell’arco di due successive generazioni. L’emancipazione dei servi, decretata con riluttanza
nel 1861 in seguito alla sconfitta nella guerra di Crimea, non mutò alla base la struttura
dell’agricoltura russa. La riforma Stolypin favoriva la proprietà privata della terra e il
consolidamento delle strisce in appezzamenti compatti; questa fece sì che la produttività
dell’agricoltura russa cominciasse a crescere. Il paese fu però ben presto travolto dalla guerra e
dalla rivoluzione.
La Francia possedeva molte aziende agricole moderne (morcellement - frazionamento della
proprietà). Una parte dei risparmi accumulati in agricoltura trovarono naturalmente sbocco in
investimenti industriali o, quanto meno nella realizzazione di infrastrutture. L’industria vinicolo era
una delle voci principali delle esportazioni.
In Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera l’agricoltura era da tempo orientata al mercato. La
produttività di questi tre paesi era ai livelli più alti d’Europa. Una grande varietà caratterizzava la
condizione dell’agricoltura nei vari stati tedeschi e in seguito nel nuovo impero.
28
L’emancipazione dei servi in Prussia in seguito all’editto del 1807 non causò grandi cambiamenti
immediati. Fin quando i contadini rimasero nelle loro proprietà essi continuarono ad adempiere ai
loro obblighi e ad esercitare i diritti consuetudinari.
L’agricoltura contribuì in misura considerevole allo sviluppo economico sia della Danimarca che
della Svezia, ma non della Norvegia (più sviluppata nella silvicultura e pesca).
Il settore primario rappresentò inoltre un mercato per l’industria nazionale e contribuì, per lo meno
in Svezia, dove le ferrovie furono costruite dallo stato, all’accumulazione di capitali attraverso
l’imposizione fiscale. Il modo più spettacolare in cui i settori primari dei paesi scandinavi
contribuirono allo sviluppo economico nazionale fu comunque attraverso le esportazioni.
La monarchia asburgica era contrassegnata, come la Germania, da varianti regionali. La crescita
della produzione agricola, sia totale che per unità di lavoro, fu a quanto pare ragionevolmente
soddisfacente per tutto il secolo in entrambe le metà dell’impero. La metà ungherese dell’impero
“esportava” prodotti agricoli, in particolare frumento e farina, nella metà austriaca in cambio di
manufatti ed anche di investimenti. Il fallimento dell’impero nel suo complesso nello sviluppo di
esportazioni agricole consistenti può essere attribuito essenzialmente a due fattori: le difficoltà di
trasporto e il fatto che il mercato interno assorbiva gran parte della produzione. L’agricoltura austro-
ungarica, come l’industria, rifletteva fedelmente la posizione dell’impero, a metà strada tra
occidente e oriente.
Anche la Russia imperiale rimaneva, alla vigilia della prima guerra mondiale, a grande prevalenza
rurale e agraria. Pur nella sua arretratezza, l’agricoltura russa era in grado di sostenere il popolo
russo e di fornire un’eccedenza esportabile, fatto che si rivelò d’importanza determinante per la
spinta all’industrializzazione che si dispiegò alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Si
pensa che l’esportazione fosse ottenuta a spese dei contadini attraverso una pesante tassazione.
L’agricoltura svolse un ruolo dinamico nel processo di industrializzazione statunitense e nell’ascesa
degli Stati Uniti. Fin dal periodo coloniale l’agricoltura forniva in abbondanza non solo i
commestibili e le materie prime necessari alla popolazione non agricola, ma anche la maggior parte
delle esportazioni statunitensi (tabacco, riso e indaco in cambio di manufatti necessari all’economia
coloniale in espansione). Nella prima metà del XIX secolo il cotone divenne il re delle esportazioni,
con oltre l’80% della produzione destinata all’estero. Il rapido incremento naturale della
popolazione rurale fornì la forza lavoro necessaria per gli impieghi non agricoli. Questa fonte di
manodopera fu integrata da emigranti provenienti dall’Europa.
Negli Stati Uniti non si verificò alcuna riforma agraria di stile europeo; l’economia agricola
beneficiò tuttavia della straordinaria opera di stimolo rappresentata dal trasferimento del demanio
pubblico. Dopo la guerra rivoluzionaria il governo federale ottenne la proprietà di gran parte delle
regioni al di là degli Appalachi. Fin dall’inizio il governo seguì una politica di alienazione a privati
individui a titolo di proprietà assoluta. La politica americana si evolvette gradualmente verso lotti
più ridotti e prezzi più bassi, in una tendenza che culminò nell’Homestead Act del 1862 (accordo di
un lotto a titolo gratuito purché i coloni vi risiedessero e coltivassero la terra per cinque anni).
In nessun altro paese l’agricoltura svolse un ruolo così vitale nel processo di industrializzazione
quanto in Giappone. A dispetto della scarsità di terra arabile, l’agricoltura giapponese fu in grado di
sostentare la popolazione per gran parte del periodo prebellico (con importazione di riso dalle
colonie dopo il 1900) e di fornire la maggior parte delle esportazioni giapponesi. Attraverso la tassa
sulla terra (1873) l’agricoltura finanziò la maggior parte delle spese governative e di conseguenza,
indirettamente, una parte dell’accumulazione di capitali. Nonostante la loro povertà i contadini
giapponesi rappresentavano il mercato più ampio per l’industria del loro paese.
Banche e finanza48.
Il processo di industrializzazione del XIX secolo fu accompagnato da una proliferazione di banche
ed altre istituzioni finanziarie necessarie ad assicurare i servizi finanziari richiesti da un meccanismo
economico considerevolmente cresciuto sempre più complesso. I sistemi bancari differiscono, per
struttura, a seconda della nazionalità. Il settore finanziario può svolge un ruolo positivo, propizio
alla crescita, può essere neutrale o meramente permissivo oppure essere inadeguato, limitando od
ostacolando lo sviluppo industriale e commerciale.
All’inizio del XIX secolo la Banca d’Inghilterra (in realtà la Banca di Londra) era ancora
saldamente in possesso del suo monopolio nel settore delle banche a capitale azionario; le numerose
piccole “casse rurali” delle province erano tutte obbligate ad organizzarsi come società di persone,
rendendole vulnerabili nei momenti di panico e di crisi finanziaria. Alla fine del 1825 il parlamento
emendò la legge per permettere alle altre banche di adottare la forma di società per azioni purché
non emettessero cartamoneta. Il Bank Act del 1844 modellò, invece, la struttura del sistema
britannico fino alla prima guerra mondiale e oltre: la Banca d’Inghilterra cedeva il suo monopolio
come banca a capitale azionario in cambio del monopolio di emissione di cartamoneta. Rimase
essenzialmente un istituto statale, al servizio finanziario del governo; a fine secolo aveva già assunto
consapevolmente le funzioni di banca centrale. Accanto alla Banca d’Inghilterra, il sistema bancario
britannico prevedeva una serie di banche commerciali a capitale azionario che accettavano depositi
dal pubblico e prestavano denaro a imprese commerciali, generalmente a breve termine. Inoltre
esistevano a Londra di banche d’affari private (J.S. Morgan & Co.), le quali si dedicavano
soprattutto a finanziare gli scambi internazionali e al commercio di valuta, ma partecipavano altresì
alla sottoscrizione di emissioni di titoli esteri che inserivano nel listino della Borsa valori di Londra.
Questa istituzione era specializzata quasi esclusivamente in investimenti europei esteri, e lasciavano
alle borse provinciali la funzione di raccogliere capitali per le imprese nazionali.
La Gran Bretagna possedeva: casse di risparmio, società di finanziamento per l’acquisto o la
costruzione di abitazioni, società di mutuo soccorso, ecc.
Il sistema bancario britannico rispose alquanto passivamente alle sollecitazioni provenienti
dall’esterno, senza affrettare né ritardare il processo di sviluppo economico.
Il sistema bancario francese era dominato da un istituto di ispirazione politica i cui affari si
svolgevano soprattutto col governo, vale a dire la Banca di Francia. Creata da Napoleone nel 1800,
essa acquisto ben presto il monopolio dell’emissione di cartamoneta ed altri speciali privilegi.
Come la Banca d’Inghilterra, essa divenne in effetti la Banca di Parigi, e permise ad alcune banche
di emissione di operare nelle maggiori città di provincia. Fino al 1848 la Francia non possedette
altre banche a capitale azionario e niente che equivalesse alle banche di provincia inglesi. Il suo
sistema bancario era meno sviluppato del necessario, in quanto i notai provinciali che svolgevano
alcune funzioni di intermediazione non potevano supplire alla carenza di banche. Vennero così
create a Parigi banche in commandite che non supplirono alla domanda di servizi bancari e
scomparvero in seguito alla rivoluzione del 1848. La Francia aveva comunque, nella prima metà del
XIX secolo, un’altra importante istituzione finanziaria: l’haute banque parisienne, banche d’affari
simile a quelle londinesi, tra cui spiccava la De Rothschild frères. Come a Londra, la principale
attività di queste banche private erano il finanziamento degli scambi internazionali e il commercio
di valuta e lingotti, ma dopo le guerre napoleoniche cominciarono a sottoscrivere prestiti
governativi ed altre obbligazioni, quali i titoli delle società costruttrici di canali e ferrovie.
Napoleone III cercò di ridurre la dipendenza del governo dai Rothschild e dagli altri esponenti della
haute banque con la creazione di nuovi istituti finanziari. Ricordiamo i fratelli Pereire, ex
dipendenti dei Rothschild che avevano deciso di mettersi in proprio. Con la benedizione
dell’imperatore essi fondarono nel 1852 la Sociéte générale de crédit foncier, un istituto di credito
fondiario, e la Société générale de crédit mobilier, una banca d’investimento specializzata nel
finanziamento di costruzioni ferroviarie. Le banche francesi, private e a capitale azionario, svolsero
altresì un ruolo di battistrada nell’incoraggiare gli investimenti esteri francesi.
La Sociéte générale de Belgique e la Banque de Belgique fecero miracoli nel favorire
l’industrializzazione del piccolo stato, ma furono poste in difficoltà dalla stessa ampiezza dei loro
poteri, unita alla loro acuta rivalità. Nel 1850 il governo creò la Banque nationale de Belgique come
banca centrale col monopolio dell’emissione di cartamoneta, permettendo alle altre banche e a
quelle successivamente autorizzate di dedicarsi alle ordinarie funzioni bancarie commerciali e
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d’investimento. Globalmente il sistema bancario belga ebbe un ruolo primario nello stimolo
dell’economia del paese.
In Olanda, in seguito alla sostituzione del regno delle Province Unite alla repubblica olandese, la
Nederlandsche bank si sostituì alla Banca di Amsterdam. Il sistema finanziario olandese
comprendeva diverse solide banche private le cui attività consistevano soprattutto nella
sottoscrizione di prestiti governativi, e i kassiers, cambiavalute e agenti di sconto. Dopo i successi
della Sociéte générale de Belgique e del Crédit mobilier, anche in Olanda si decise la fondazione di
quattro banche autorizzate dal governo che potessero partecipare al decollo industriale del paese.
La Svizzera, che nel XX secolo si è affermata come grande centro finanziario mondiale, era molto
meno importante prima del 1914. Ginevra era stata uno dei centri finanziari chiave dell’Europa
rinascimentale. Tra il 1850-70 furono fondate numerose nuove banche sul modello del Crédit
mobilier francese: la Schweizerische Kreditanstalt, l’Eidgenossische Bank di Berna (Banque
federale suisse) e la Schweizerische Bankgesellschaft (Swiss bank corporation).
Nella prima metà del XIX secolo in Germania non esisteva un vero e proprio sistema bancario. I
numerosi stati sovrani, con i loro distinti sistemi monetari e di coniazione, erano l’ostacolo
all’affermazione di un sistema finanziario unificato. La Prussia, la Sassonia e la Baviera
possedevano banche di emissione monopolistiche, che però erano attentamente controllate dai
governi e si occupavano soprattutto delle finanze statali. Esistevano numerose banche private, ma
esse operavano soprattutto come finanziatrici degli scambi locali e internazionali o
nell’investimento di capitali privati. L’aspetto distintivo del sistema finanziario tedesco fu la
Kreditbanken, banca “universale” o “mista” per azioni, impegnata sia in attività di lungo termine o
in attività bancarie di promozione. Di fronte al rifiuto del governo prussiano di autorizzare statuti di
società per azione per le banche, alcuni ambiziosi promotori ricorsero all’espediente della
Kommanditsgesellschaft (simile alla francese société en commandite), che non richiedeva
l’autorizzazione da parte del governo. La legge e l’euforia indotta dalla vittoria prussiana sulla
Francia nel 1870 portò alla fondazione di oltre cento nuove Kreditbanken prima della crisi del 1873.
La depressione ne eliminò la maggior parte; in seguito un processo di fusione portò ad affermarsi le
quattro «banche-D» con sede a Berlino: Deutsche Bank, Diskonto-Gesellschaft, Dresdner e
Darmstädter. Esse non solo provvidero alla necessità dell’industria tedesca ma facilitarono
l’allargamento del commercio estero tedesco fornendo credito agli esportatori e ai commercianti
stranieri. La struttura finanziaria tedesca fu completata da un’altra importante innovazione
istituzionale, la Reichsbank, fondata nel 1875. Essa era una semplice trasformazione della banca di
stato prussiana, ma con risorse e poteri grandemente riconosciuti. Godeva del monopolio
dell’emissione di cartamoneta e agiva da banca centrale. Era in grado di sostentare le Kreditbanken
in caso di difficoltà, e rese possibile per queste ultime assumere rischi più grandi di quelli che
normalmente sarebbero state disposte a sostenere. All’inizio del XX secolo il sistema bancario
tedesco era probabilmente il più potente al mondo.
L’Austria (o la monarchia asburgica) sviluppò il proprio sistema bancario moderno più o meno sotto
lo stesso periodo della Germania. Essa aveva creato la banca nazionale austriaca già nel 1817, ma
come istituto privilegiato nella gestione del caos della finanza pubblica dopo le guerre
napoleoniche. La prima moderna banca a capitale azionario fu però la Creditanstalt austriaca
(1855). La sua creazione fu una diretta conseguenza della rivalità tra i fratelli Pereire e i Rothschild.
L’economia svedese era relativamente arretrata nella prima metà del XIX secolo, eppure il paese
aveva una lunga tradizione bancaria. La Sveriges riskbank (precorritrice della Banca nazionale
svedese), fondata nel 1656, fu la prima banca ad emettere vera cartamoneta. Nella prima metà
dell’Ottocento sorsero anche alcune banche di emissione private. La Stockholms enskilda bank fu la
prima banca modellata sul modello del Crédit mobilier francese.
Nella prima metà del XIX secolo la Danimarca possedeva una banca centrale, la Nationalbank, di
proprietà privata ma controllata dal governo
La guerra di Crimea denunciò drammaticamente l’arretratezza economica della Russia nei confronti
dell’occidente, e spinse il governo zarista ad una campagna di costruzioni ferroviarie e
all’emancipazione dei servi. Essa condusse inoltre ad una revisione del sistema finanziario e
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bancario. La maggiore istituzione finanziaria era la Banca di stato, fondata nel 1860. Interamente di
proprietà governativa, era sotto l’immediata supervisione del ministro delle finanze e ottenne il
monopolio dell’emissione di cartamoneta in seguito al passaggio della Russia al gold standard nel
1897. La Banca di stato controllava le casse di risparmio statali e creò la Banca fondiaria dei
contadini, la Banca fondiaria dei nobili e la Banca degli zemstva e delle città. Possedeva azioni della
Banca persiana di prestito e sconto e della Banca russo-cinese, fondate per facilitare la penetrazione
russa in quei paesi. Il sistema bancario comprendeva inoltre una varietà di piccoli istituti e,
soprattutto, banche commerciali per azioni. La prima di queste fu la Banca commerciale privata di
San Pietroburgo. Le dodici banche più grandi (la maggior parte con sede a San Pietroburgo)
controllavano circa l’80% delle risorse totali. Aspetto caratteristico di queste banche è la misura
dell’influenza straniera. Molte di esse erano state fondate o erano amministrate da banchieri
francesi, tedeschi, britannici e di altri paesi. Nel 1916 le banche straniere possedevano il 45% del
capitale delle dodici banche maggiori. Le banche per azioni russe, in collaborazione con le loro
associate straniere, contribuirono in misura notevole all’industrializzazione della Russia dopo il
1885, che dovette molto d’altra parte anche a imprenditori e tecnici stranieri.
Negli Stati Uniti il sistema bancario ebbe nel XIX secolo un’evoluzione variegata. Nei primi anni
della repubblica il conflitto tra hamiltoniani, che propugnavano un ruolo forte del governo federale,
e i jeffersoniani, che preferivano lasciare le scelte politiche ai singoli stati, si rifletté in modo
evidente nella storia del sistema bancario. Ebbero dapprima la meglio gli hamiltoniani, che
strapparono al Congresso lo statuto della prima Banca degli Stati Uniti (1791-1811) ma venne
impedito successivamente il suo rinnovo (e quello della seconda B.S.U.). Alcuni stati ammettevano
una libera attività bancaria, altri gestivano banche di proprietà statale, altri ancora cercarono di
proibire del tutto le banche. Nonostante questa apparente confusione, l’economia ebbe a
disposizione i servizi bancari di cui aveva bisogno e continuò nella sua rapida crescita.
Durante la guerra civile il Congresso istituì il National banking system, che permetteva l’esistenza
di banche federali a fianco delle banche statali. Sia le banche statali che quelle federali subivano
un’eccessiva pressione legislativa. Le banche non potevano occuparsi di finanza internazionale: il
volume di import-export era finanziato dall’Europa e dal modesto numero di banche d’affari private
(come J.P. Morgan & Co.) che non erano ostacolate dalle restrizioni che colpivano le banche a
capitale azionario. Il panico finanziario e le depressioni che si verificavano con periodicità vennero
prese in considerazione dal Congresso che si affrettò a istituire il Federal Reserve System nel 1913,
il quale alleggerì le banche nazionali dal compito di emettere banconote e diede loro la libertà di
occuparsi di finanza internazionale.
Negli Stati Uniti il governo federale lasciò la politica ferroviaria agli stati fino alla guerra civile, ma
subito dopo rilasciò vaste concessioni di terre a società private per stimolare la costruzione delle
ferrovie transcontinentali. Il Congresso istituì l’Interstate commerce commission col compito di
regolamentare le ferrovie.
50 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XII.
51 ibidem, pp. 468-471.
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fabbriche, aveva cercato di proteggere l’industria tessile cotoniera della concorrenza britannica. Il
governo di Napoleone III desiderava seguire una politica di amicizia nei confronti della Gran
Bretagna con l’obiettivo di guadagnare status politico e rispetto diplomatico. L’economista Michel
Chevalier convinse l’imperatore dei vantaggi di un trattato commerciale con la Gran Bretagna.
Secondo la costituzione Napoleone non poteva approvare leggi (compito che spettava al
parlamento) ma deteneva il diritto esclusivo di negoziare trattati con potenze straniere, le cui
clausole avevano in Francia forza di legge. Il trattato impegnava la Gran Bretagna a cancellare tutti
i dazi sull’importazione di merci francesi ad eccezione del vino e del brandy, considerati beni di
lusso. La Francia revocò la sua proibizione dell’importazione di prodotti tessili britannici e ridusse i
dazi su un’ampia varietà di merci britanniche rinunciando in tal modo al protezionismo estremo in
favore di una sua forma moderata. Un aspetto importante di questo trattato fu la clausola della
nazione più favorita, vale a dire che se una delle due parti avesse negoziato un accordo con un paese
terzo, la controparte del trattato avrebbe beneficiato automaticamente di qualsiasi tariffa più bassa
eventualmente accordata a quest’ultimo. La Gran Bretagna liberoscambista era priva del potere
contrattuale necessario a poter negoziare con gli altri paesi, fatto che venne aggirato tramite
negoziazione francese e applicazione della clausola della nazione più favorita.
La conseguenza principale del trattato Cobden-Chevalier, e di quelli che seguirono sul modello del
primo, era una riduzione generale delle tariffe. Inoltre ciò impose una riorganizzazione
dell’industria imposta dalla maggiore concorrenza: i trattati in tal modo favorirono l’efficienza
tecnica e aumentarono la produttività.
35
Stati Uniti avevano seguito una politica di dazi contenuti; dopo la guerra civile divennero uno dei
paesi più protezionistici e tali rimasero in larga misura fino a dopo la seconda guerra mondiale.
In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio, e di queste
la più notevole fu la Gran Bretagna. Nel 1887 il parlamento approvò il Merchandise Act, che
imponeva di apporre sui prodotti esteri con il nome del paese d’origine. Nonostante una
diminuzione del tasso di crescita del commercio internazionale conseguente al ritorno al
protezionismo nel 1872, tale tasso si mantenne positivi. Le nazioni di tutto il mondo, e in special
modo quelle europee, dipendevano come non mai dal commercio internazionale.
delle finanze Witte, mentre il governo russo stava prendendo in prestito grosse somme dalla
Francia, Witte decise che il paese doveva adottare il gold standard, cosa che fece nel 1897. Quello
stesso anno il Giappone creò una riserva aurea nella Banca del Giappone e adottò ufficialmente il
gold standard.
All’inizio del XX secolo praticamente tutte le nazioni commerciali avevano aderito al gold standard
internazionale che durò meno di venti anni.
38
Le risorse55.
La crescita demografica senza precedenti del XX secolo, accompagnata dalla crescente ricchezza di
parte del mondo, provocò una pressione senza precedenti sulle risorse mondiali. Nonostante il
verificarsi di occasionali temporanee carenze di alcune merci, in particolare in tempo di guerra,
l’economia mondiale ha risposto ai bisogni in modo ragionevolmente positivo anche grazie alla
crescente interazione dell’economia con la scienza e la tecnologia. Lo sviluppo più importante del
XX secolo in tema di risorse è stato il cambiamento nella natura e nelle fonti dell’energia primaria.
Nel XX secolo il carbone è stato in buona parte sostituito da nuove fonti energetiche, in particolare
dal petrolio e dal gas naturale. Nel XIX secolo, il petrolio era usato allora soprattutto per
l’illuminazione e in via subordinata come lubrificante. Lo sviluppo dei motori a combustione
interna alla fine del XIX secolo ne estese grandemente la possibilità di applicazione, cominciando a
rivaleggiare con il carbone e l’acqua per la produzione di elettricità e per il riscaldamento degli
ambienti. Nella seconda metà del XX secolo esso ha acquistato nuova importanza come materia
prima per la produzione di materie sintetiche e plastiche.
Alla luce della sua fondamentale importanza e dei suoi molteplici impieghi, il petrolio ha acquistato
un grande significato geopolitico. I giacimenti petroliferi sono ampiamente disseminati nel mondo,
ma gran parte della produzione è concentrata in un numero relativamente limitato di aree
geografiche. L’europa possiede riserve di petrolio inferiori a quelle di qualsiasi altra massa
continentale; la produzione di petrolio su larga scala ebbe inizio negli Stati Uniti. Pur rimanendo
uno dei maggiori produttori, gli Stati Uniti sono divenuti un paese importatore netto di petrolio.
53 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XIII.
54 ibidem, pp. 511-520.
55 ibidem, pp. 520-521.
39
Tecnologia56.
Il mutamento tecnologico, principale forza trainante dell’industrializzazione ottocentesca, conservò
inalterato questo ruolo anche nel XX secolo. Il ritmo del mutamento subì un’accelerazione. Se il
segno del successo delle società umane era stato in passato la loro capacità di adattarsi all’ambiente,
nel XX secolo è l’abilità di manipolare l’ambiente e adattarlo alle esigenze della società tramite la
tecnologia fondata sulla scienza moderna.
La velocità degli spostamenti era cambiata sensibilmente già con le locomotive a vapore ma nel XX
secolo si fecero ulteriori passi da gigante con lo sviluppo delle automobili, degli aerei e dei razzi
spaziali. Lo stesso accadde nel campo delle telecomunicazioni: l’invenzione del telegrafo cambiò
radicalmente la tempistica con cui i messaggi potevano essere ricevuti: col telefono, la radio e la
televisione accrebbe incommensurabilmente la convenienza, flessibilità e affidabilità delle
comunicazioni su lunghe distanze.
Il fondamento scientifico dell’industria moderna ha dato come risultato centinaia di nuovi prodotti e
materiali. Nel XX secolo materie plastiche ricavate dal petrolio e da altri idrocarburi hanno
sostituito il legno, la ceramica e la carta in migliaia di impieghi che vanno dai recipienti a basso
peso ai trapani ad alta velocità. L’utilizzazione crescente dell’energia elettrica e meccanica,
l’invenzione di centinaia di congegni in grado di far risparmiare lavoro e lo sviluppo di strumenti di
controllo automatici hanno provocato mutamenti nelle condizioni di vita e di lavoro di portata più
ampia di quelli della rivoluzione industriale inglese. Un esempio importante è l’elaboratore
elettronico: all’inizio del XX secolo erano in uso diversi rudimentali congegni meccanici,
principalmente a fini commerciali, ma l’era dell’elaboratore elettronico non si annunciò che con la
Seconda guerra mondiale. Il suo progresso da allora ha rivaleggiato con la rapidità con cui esso
opera. Senza di esso molte altre conquiste scientifiche, quali l’esplorazione dello spazio, sarebbero
state impossibili.
Nonostante molte scoperte nella chimica e nella biologia siano state stimolate dalle loro
applicazioni commerciali nell’agricoltura, nell’industria e nella medicina, la ricerca di base richiede
per lo più spese così ingenti ed offre prospettive di guadagno immediato così scarse che i governi si
sono trovati obbligati a finanziarla direttamente o indirettamente. Le esigenze della guerra e delle
rivalità nazionali hanno indotto inoltre i governi a dedicare enormi risorse alla ricerca e allo
sviluppo scientifici per fini militari. Uno dei requisiti del progresso scientifico e tecnico è la
presenza di un’adeguata riserva di forza lavoro istruita, o brainpower. La capacità individuale di
inserirsi pienamente nella nuova matrice scientifico tecnologica della civiltà richiede in misura
sempre maggiore un livello di studi universitario o post-universitario. Il XX secolo ha visto il
proliferare di istituti di studi avanzati e di ricerca finanziati da organismi privati e dal settore
pubblico.
L’impiego della tecnologia scientifica ha enormemente accresciuto la produttività del lavoro umano:
in agricoltura, i paesi occidentali hanno ottenuto un’enorme crescita della produttività attraverso
tecniche scientifiche di fertilizzazione, di selezione delle sementi e delle razze da allevamento e di
lotta ai parassiti e attraverso l’uso dell’energia meccanica.
L’aumento della produzione energetica si è verificata in aree d’insediamento europeo ed in forme
che all’inizio del secolo erano ancora in uno stato embrionale. L’Europa, seguita dal Nord America,
è particolarmente dipendente dalle fonti nucleari e geotermiche, fatto prevedibile per delle
economie industriali particolarmente avanzate. L’Asia e l’Africa si concentrano soprattutto su fonti
termiche spesso altamente inquinanti quali le centrali a carbone, mentre quelle a gas naturale sono
più diffuse dell’energia idroelettrica.
Il petrolio e il gas naturale superarono il carbone come fonte di energia intorno al 1960, e negli anni
novanta rappresentavano oltre il 60% della produzione totale mondiale. Il motore a combustione
interna, il più importante consumatore di petrolio, è un’invenzione del XIX secolo, applicato a due
dei più caratteristici congegni tecnologici del XX secolo, l’automobile e l’aeroplano.
Nel 1913 Henry Ford introdusse il principio della produzione di massa con una catena di montaggio
mobile: l’automobile divenne così qualcosa di più di un giocattolo per ricchi. La tecnica di Ford fu
ben presto imitata da altri industriali statunitensi ed europei, e l’industria automobilistica divenne
una delle industrie manifatturiere con il maggior numero di addetti e fornì opportunità senza
precedenti alla mobilità individuale. L’automobile divenne un simbolo dello sviluppo economico
del XX secolo: l’industria automobilistica stimolò la domanda per diverse altre industrie ed ebbe un
profondo impatto sui rapporti sociale e sul costume.
La tecnica della produzione su catena di montaggio fu adottata da altre industrie, tra cui l’industria
aeronautica durante la Seconda guerra mondiale. L’età dell’aeroplano cominciò nel 1903 col volo
dei fratelli Wright. Nella Prima guerra mondiale si scoprirono gli impieghi militari degli aeroplani;
dopo la guerra essi furono impiegati per il trasporto della posta ed in seguito di passeggeri paganti.
Durante la guerra i tedeschi cominciarono a sperimentare la propulsione a getto ed i razzi: i loro
esperimenti crearono le premesse per ulteriori sviluppi sia dell’aviazione che dell’esplorazione dello
spazio. Grazie anche alle esperienze sui motori a reazione e sui razzi militari nel periodo della
Seconda guerra mondiale, il 4 ottobre 1957 gli scienziati sovietici misero in orbita una capsula
intorno alla Terra dando inizio all’era dello spazio.
Uno dei cambiamenti fondamentali che hanno coinvolto tutte le nazioni del XX secolo è il ruolo
enormemente cresciuto del potere pubblico nell’economia. La crescita dello Stato nel XX secolo
deve in parte essere messa in relazione con le necessità finanziarie delle due guerre mondiali e con
altre considerazioni di difesa nazionale. Nel modello sovietico lo Stato assumeva la responsabilità
totale dell’economia attraverso un sistema globale di pianificazione economica e di controllo.
Durante le due guerre mondiali numerosi paesi belligeranti avevano fatto ricorso a controlli molto
estesi e alla partecipazione statale all’economia. Nel periodo tra le due guerre tutti i governi
tentarono di perseguire politiche di risanamento e stabilizzazione dell’economia incorporando per lo
più qualche forma di pianificazione economica, sebbene non globale o coercitiva quale quella
sovietica: per questo motivo i paesi dell’Europa occidentale vennero definiti “a economia mista”.
Le eccezioni sono:
1. Le attività direttamente produttive intraprese da o per conto dello Stato;
2. I trasferimenti, ossia la redistribuzione del reddito per mezzo dell’imposizione fiscale e delle
spese.
Nel XX secolo le industrie di proprietà statale divennero molto più comuni, talvolta a causa del
fallimento dell’impresa privata, talaltra in conseguenza della posizione ideologica del partito
politico al potere. I trasferimenti affondano le proprie radici nel tardo Ottocento, quando Bismarck
introdusse l’assicurazione obbligatoria dei lavoratori contro malattie e infortuni ed un sistema
pensionistico per anziani e disabili. Gli Stati Uniti non adottarono un assicurazione sociale
complessiva fino alle riforme del New Deal. Dopo la Seconda guerra mondiale, sotto forti pressioni
politiche, molti governi democratici estesero considerevolmente i rispettivi sistemi di sicurezza
sociale e gli altri trasferimenti. Per questo motivo essi sono detti “stati assistenziali” o “welfare
states”.
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belligeranti imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sulla distribuzione della forza
lavoro. Questi controlli stimolarono artificialmente taluni settori dell’economia, limitandone
artificialmente degli altri.
Un problema ancor più serio derivò dallo sconvolgimento del commercio estero e dalle forme di
guerra economica cui fecero ricorso i paesi in guerra, in particolare Gran Bretagna e Germania.
Gli scambi commerciali tra la Germania e gli altri naturalmente si interruppero subito, mentre gli
Stati Uniti, ancora in posizione di neutralità, si sforzarono di mantenere relazioni normali. La Gran
Bretagna, forte del suo dominio dei mari, impose immediatamente un blocco dei porti tedeschi;
questi ultimi, incapaci di attaccare frontalmente la flotta britannica, fecero ricorso ai sommergibili
nel tentativo di arrestare l’afflusso in Gran Bretagna di rifornimenti dall’estero. I sommergibili
evitavano il più possibile la flotta britannica e attaccavano i vascelli disarmati, sia neutrali che
britannici, senza distinguere tra navi passeggeri e mercantili. L’affondamento nel 1915 del
transatlantico britannico Lusitania provocò una vibrata protesta statunitense: nel gennaio 1917, al
fine di infliggere perdite economiche ingenti alla Gran Bretagna i tedeschi diedero il via ad una
guerra sottomarina illimitata che costrinse l’America ad entrare in guerra assicurando la vittoria
finale degli Alleati.
Strettamente legata allo svolgimento del commercio internazionale e all’imposizione di controlli
statali, la perdita dei mercati esteri rivelò effetti ancor più durevoli nel tempo. La Germania era
completamente tagliata fuori dai mercati d’oltremare e anche la Gran Bretagna fu costretta a
dirottare risorse dagli impieghi normali alla produzione bellica. Di conseguenza, molti paesi
d’oltreoceano decisero di fabbricare in proprio o acquistare da altri paesi extraeuropei le merci che
in precedenza avevano acquistato in Europa. Diversi paesi latinoamericani e asiatici fondarono
industrie manifatturiere, che protrassero dopo la guerra con dazi elevati. Gli Stati Uniti e il
Giappone conquistarono mercati d’oltremare precedentemente considerati riserva esclusiva delle
manifatture europee.
La guerra sconvolse anche l’equilibrio dell’agricoltura mondiale, determinando un notevole
aumento della domanda di generi alimentari e materie prime e stimolando sia territori già affermati
sia territori ancora vergini (in America Latina). Ciò condusse ad una sovrapproduzione e al crollo
dei prezzi negli anni seguenti la fine delle guerra: molti agricoltori americani, avendo investito in
tempo di guerra nell’aumento della superficie coltivata, quando i prezzi crollarono essi fallirono,
trovandosi nell’impossibilità di estinguere le ipoteche.
Oltre a perdere i mercati esteri, i paesi belligeranti europei subirono un’ulteriore emorragia di
entrate nel settore delle spedizioni marittime e dei servizi. Londra ed altri centri finanziari europei
persero parte delle entrate provenienti dalle attività bancarie e assicurative e da altri servizi
finanziari e commerciali trasferiti durante la guerra a New York o in Svizzera.
Un’altra grave perdita causata dalla guerra fu quella dei profitti derivanti dagli investimenti
all’estero. Prima della guerra la Gran Bretagna, la Francia e la Germania erano i più importanti
investitori. Poiché la Gran Bretagna e la Francia importavano più di quanto non esportassero, i
proventi degli investimenti contribuivano a pagar le importazioni in eccesso. Tutti e due i paesi
furono costretti a cedere parte dei loro investimenti esteri per finanziare l‘acquisto urgente di
materiale bellico.
Un ultimo stravolgimento delle economie nazionali e internazionali derivò dall’inflazione. Le
pressioni finanziarie della guerra costrinsero tutti i paesi coinvolti ad eccezione degli Stati Uniti, ad
abbandonare il gold standard, che nel periodo prebellico era servito a stabilizzare, o quanto meno
sincronizzare, i movimenti dei prezzi. Tutti i paesi in guerra dovettero far ricorso a ingenti prestiti e
all’emissione di cartamoneta per finanziare le operazioni belliche. Ciò determinò una lievitazione
dei prezzi, anche se non tutti nella stessa proporzione. La grande disparità nei prezzi, e
conseguentemente nel valore delle singole monete, rese più difficile la ripresa del commercio
internazionale ed ebbe anche gravi ripercussioni sul piano sociale e politico.
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acconsentendo dopo la guerra ad una riduzione degli interessi sulla restituzione totale del capitale. A
questo punto si riaffacciò la questione delle riparazioni. La Francia e la Gran Bretagna pretesero che
la Germania pagasse non solo i danni arrecati ai civili, ma anche l’intero costo sopportato dai
governi alleati per la prosecuzione della guerra.
I tedeschi avevano cominciato a pagare in contanti e in natura già nell’agosto del 1919, ancor prima
che il trattato di pace fosse firmato, e molto prima che fosse noto il conto definitivo.
Con l’indebolimento delle economie europee e la precarietà dell’economia internazionale la
Francia, la Gran Bretagna e gli altri Alleati avrebbero potuto rimborsare gli Stati Uniti solo se
avessero ricevuto una somma equivalente a titolo di riparazioni. Ma la possibilità della Germania di
pagare le riparazioni dipendeva in definitiva dalla sua capacità di esportare più di quanto importasse
per ottenere la valuta estera o l’oro necessari per effettuare i pagamenti. Le restrizioni economiche
imposte fagli Alleati, insieme con la debolezza interna della repubblica di Weimar, resero tuttavia
impossibile per il governo tedesco ricavare un surplus sufficiente per i pagamenti annuali. Il valore
del marco tedesco cominciò a crollare in maniera disastrosa in conseguenza della forte pressione dei
pagamenti in conto riparazioni: la Germania sospese del tutto i pagamenti comportando le reazioni
di Francia e Belgio che occuparono la Ruhr e assunsero il controllo delle miniere di carbone e delle
ferrovie. I tedeschi risposero con la resistenza passiva: il governo stampò quantità enormi di
cartamoneta per indennizzare gli operai e i datori di lavoro della Ruhr, mettendo in moto un’ondata
d’inflazione incontrollata. Nel novembre 1923 il marco valeva letteralmente meno della carta su cui
era stampato: esso venne ritirato dalle autorità monetarie tedesche e sostituito con la Rentenmark,
equivalente a mille miliardi di vecchi marchi.
Le dannose conseguenze dell’inflazione non poterono essere confinate alla Germania. Tutti gli stati
succeduti alla monarchia asburgica soffrirono allo stesso modo di un’inflazione galoppante. La
Società delle Nazioni promosse un programma di stabilizzazione.
Dawes, banchiere e finanziere americano, raccomandò una graduale diminuzione dei pagamenti
annuali, la riorganizzazione della Reichsbank tedesca ed un prestito internazionale di 800 milioni di
marchi alla Germania. Il cosiddetto Prestito Dawes, i cui fondi furono raccolti in gran parte negli
Stati Uniti, permise alla Germania di riprendere il pagamento delle riparazioni e di tornare al gold
standard nel 1924. A questo prestito fece seguito un secondo afflusso di capitali americani in
Germania sotto forma di prestiti privati alle municipalità e alle grandi società tedesche, che presero
a prestito negli Stati Uniti somme notevoli da impiegare nella modernizzazione tecnica e nella
“razionalizzazione”. La Germania ottenne anche la valuta estera necessaria per pagare le
riparazioni.
L’inflazione causò una drastica redistribuzione del reddito e della ricchezza. La maggioranza dei
cittadini videro i propri risparmi spazzati in breve tempo e subirono un grave peggioramento del
tenore di vita. Ciò li rese sensibili agli appelli di politici estremisti.
Con la guerra la Gran Bretagna perse mercati e investimenti esteri, buona parte della marina
mercantile ed altre fonti estere di reddito. Tuttavia essa dipendeva come non mai dalle importazioni
di prodotti alimentari e materie prime, e si trovò gravata di responsabilità mondiali ancor più
onerose in qualità di paese più forte tra i vincitori europei e come amministratrice di nuovi territori
oltremare. Era necessario esportare, tuttavia le fabbriche e le miniere rimanevano inoperose mentre
la disoccupazione saliva. L’unica soluzione per la disoccupazione fu il sussidio, un sistema di
pagamenti assistenziali inadeguato, molto oneroso per un bilancio già sottoposto a tensioni
eccessive. La politica economica del governo prevedeva un forte ridimensionamento delle spese che
privò la nazione degli interventi di espansione e modernizzazione delle infrastrutture.
La Gran Bretagna aveva abbandonato nel 1914 il gold standard. Considerata la posizione prebellica
di Londra quale centro indiscusso dei mercati finanziari mondiali, esistevano forti pressioni per un
rapido ritorno al gold standard per scongiurare l’ulteriore erosione della sua preminenza finanziaria:
ciò avvenne nel 1925 per decisione del cancelliere dello Scacchiere, Winston Churchill. Per
mantenere la competitività delle industrie britanniche fu necessario comprimere i salari che indusse
ad una redistribuzione del reddito in favore dei possessori di rendite e a spese dei lavoratori.
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Nonostante i problemi britannici, tra il 1924 e il 1929 sembrò che si fosse effettivamente tornati alla
normalità. La riparazione dei danni materiali era un fatto per lo più compiuto, e con l’istituzione
della Società delle Nazioni sembrava che fosse albeggiata una nuova era delle relazioni
internazionali. Le basi della prosperità di Stati Uniti, Francia e Germania dipendeva dal continuo
afflusso spontaneo di fondi dall’America alla Germania.
economie industriali, Stati Uniti in particolare che contagiò il resto del mondo. Per altri le cause
devono essere cercate nel settore reale: un’autonoma contrazione dei consumi e delle spese per
l’investimento che si propagò a tutto il sistema economico e al mondo attraverso il meccanismo
moltiplicatore-acceleratore. Altre spiegazioni prevedevano la precedente depressione agricola,
l’estrema dipendenza dei paesi del Terzo Mondo da mercati instabili, scarsità o cattiva distribuzione
delle risorse mondiali di oro.
Le conseguenze della depressione nel lungo periodo furono:
1. la crescita dell’intervento statale nell’economia,
2. un graduale mutamento di atteggiamento verso la politica economica (“rivoluzione
keynesiana”),
3. i tentativi da parte di paesi latinoamericani e di altre nazioni del Terzo Mondo di sviluppare
industrie che fornissero un’alternativa alle importazioni,
4. l’affermazione di movimenti politici estremistici sia di destra sia di sinistra, in particolare in
Germania.
Dopo la guerra la Gran Bretagna non fu più in grado di svolgere la funzione di guida a livello
mondiale nel campo economico-commerciale-finanziario. Gli Stati Uniti, l’economia dominante,
erano restii ad accettare il ruolo di guida, riluttanza esemplificata dalla politica dell’immigrazione,
da quella tariffaria, da quella monetaria e dall’atteggiamento nei confronti della cooperazione
internazionale.
classe percettrice di rendite, che perse con l’inflazione circa l’80% del proprio potere d’acquisto.
Come in Germania, l’inflazione contribuì alla crescita degli estremismi sia di destra che di sinistra.
Il franco così stabilizzato era stato in pratica svalutato rispetto alle altre valute maggiori. Ciò
stimolò le esportazioni, scoraggiò le importazioni e determinò un afflusso di oro. Per questo la
depressione colpì la Francia più tardi di altri paesi e fu forse meno severa.
Nel 1936 tra partiti politici di sinistra, comunisti, socialisti e radicali, si coalizzarono nel Fronte
popolare, dando vita ad un governo guidato dall’esponente socialista Léon Blum. Il governo del
Fronte popolare nazionalizzò la Banca di Francia e le ferrovie ed emanò una serie di provvedimenti
di riforma in materia di lavoro, come la settimana lavorativa di quaranta ore, l’arbitrato obbligatorio
in caso di conflitti di lavoro e le ferie pagate per i lavoratori dell’industria. Sul fronte più
impegnativo del risanamento economico il Fronte popolare non si rivelò più efficace dei precedenti
governi francesi.
I paesi più piccoli dell’Europa occidentale, fortemente dipendenti dal commercio internazionale,
subirono tutti le conseguenze della depressione ma non tutti allo stesso modo. Negli anni Venti,
quando Gran Bretagna e Francia tornarono al gold standard, molti paesi minori adottarono il
sistema della libera convertibilità con le monete a parità aurea. Le loro banche centrali, invece di
mantenere riserve in oro col quale convertire le rispettive valute nazionali, conservarono al
medesimo fine depositi nelle banche centrali dei paesi più grandi. Dopo l’abbandono del gold
standard da parte della Gran Bretagna nel 1931, molti paesi che con essa avevano intensi scambi
commerciali abbandonarono la parità aurea e allinearono le loro valute alla lira sterlina: nacque il
“blocco della sterlina”. Quando nel 1933 gli Stati Uniti svalutarono il dollaro, gran parte dei loro
partner commerciali cercarono di allineare le rispettive valute al dollaro. In Europa ciò lasciò la
Francia al centro del “blocco dell’oro”, quei paesi cioè che cercavano di conservale la convertibilità
in oro (Svizzera, Belgio e Paesi Bassi). Quando anche i francesi svalutarono il franco spezzandone
il legame con l’oro, lo fecero nell’ambito di una limitata ripresa internazionale. Con l’accordo
monetario tripartito del 1936 i governi britannico, francese e statunitense si impegnarono a
stabilizzare i tassi di cambio tra le rispettive monete per evitare svalutazioni a fini concorrenziali e
per contribuire in altro modo ad una restaurazione dell’economia internazionale.
Anche avvenimenti politici come l’affermazione del fascismo ebbero i loro aspetti economici.
Mussolini, avvalsosi del filosofo Giovanni Gentile per una razionalizzazione del fascismo,
glorificava l’uso della forza, vedeva nella guerra la più nobile delle attività umane, denunciava il
liberalismo, la democrazia, il socialismo e l’individualismo, deificava lo stato come suprema
manifestazione dello spirito umano e guardava con disprezzo al benessere materiale e considerava
le disuguaglianze umane non solo inevitabili ma desiderabili. Mussolini inventò lo stato
corporativo, una delle innovazioni più pubblicizzate e meno riuscite del regime. Esso era l’antitesi
sia del capitalismo che del socialismo. Pur permettendo l’esistenza della proprietà privata, gli
interessi sia dei proprietari che dei lavoratori erano subordinati a quelli più elevati dell’intera
società, rappresentata dallo Stato. Tutte le industrie del paese furono organizzate in dodici
“corporazioni”, l’equivalente delle associazioni di settore. I sindacati precedentemente esistenti
furono soppressi. Tra le funzioni delle corporazioni erano la determinazione dei prezzi, dei salari e
delle condizioni di lavoro e la previdenza sociale. Le corporazioni agirono da associazioni
capitalistiche di settore il cui scopo era di accrescere il reddito degli uomini d’affari e degli
amministratori di partito a spese dei lavoratori e dei consumatori.
Nonostante grandi opere pubbliche e programmi di riarmo, l’Italia soffrì duramente durante la
depressione. Nel tentativo di porvi rimedio il governo fascista italiano creò grandi aziende statali, in
settori chiave dell’economica, il cui interessa andava più al mantenimento di alti livelli
occupazionali che all’aumento dell’efficienza.
Più efficace degli altri paesi occidentali a combattere la depressione fu la Germania nazista, il primo
grande paese industriale a conseguire un completo risanamento tramite un grandioso programma di
opere pubbliche che si fuse gradualmente con un programma di riarmo. Il regime nazista abolì le
contrattazioni collettive tra lavoratori e proprietari sostituendole con comitati di “amministratori”
del lavoro con pieni poteri in materia di determinazione di salari, orari e condizioni di lavoro.
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A differenza del regime totalitario russo, i nazisti non ricorsero ad una massiccia nazionalizzazione
dell’economia: per raggiungere i loro fini si affidarono alla coercizione e ai controlli.
Uno dei principali obiettivi economici dei nazisti era rendere autosufficiente l’economia tedesca
nell’eventualità di una guerra. Ordinarono agli scienziati di inventare nuove forme sintetiche di
prodotti di prima necessità e per l’esercito che potessero essere fabbricate con materie prime
disponibili in Germania. Prima dell’avvento del nazismo, la Germania aveva adottato controlli sui
cambi per evitare la fuga di capitale escogitando complessi controlli finanziari e monetari intesi ad
accrescere il controllo della Reichsbank sui cambi esteri. Furono siglati accordi commerciali con
paesi dell’Europa orientale e dei Balcani che prevedevano il baratto tra manufatti tedeschi e prodotti
alimentari e materie prime, evitando in tal modo il ricorso all’oro o a valute estere di cui c’era
scarsa disponibilità. Tale politica riuscì a legare in modo molto efficace l’Europa orientale
all’economia bellica tedesca.
La Spagna, essendo sfuggita al coinvolgimento nella Prima guerra mondiale, evitò molti dei
problemi e dei dilemmi che assillavano gli altri paesi europei. La sua industria trasse qualche
beneficio dalla domanda bellica, ma il paese era ancora prevalentemente agrario ed afflitto da
un’agricoltura a bassa produttività. Nel 1939 anche la Spagna si ritrovò sotto un regime autarchico
simile a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista.
• Una speciale imposta in natura sulla produzione agricola sostituì le requisizioni obbligatorie.
• Ai contadini fu permesso di vendere le eccedenze ai liberi prezzi di mercato.
• Le piccole industrie furono riprivatizzate ed autorizzate a produrre per il mercato.
• Imprenditori stranieri affittarono impianti esistenti ed ottennero speciali concessioni per
l’introduzione di nuove industrie. Tuttavia i settori dominanti dell’economia rimasero di proprietà
statale e sotto gestione statale.
La Nep prevedeva inoltre:
• un vigoroso programma di elettrificazione,
• la fondazione di scuole tecniche per ingegneri e dirigenti d’industria,
• la creazione di un’organizzazione più sistematica per i settori dell’economia controllati dallo
stato.
Nel 1926-27 i livelli antebellici erano stati sostanzialmente riguadagnati. Alla morte di Lenin, che
non aveva esplicitamente designato un suo successore, i maggiori contendenti a sostituirlo erano
Iosif Stalin e Lev Trockij. Stalin era un fedele seguace di Lenin e dei vecchi bolscevichi: egli si
avvalse della propria carica di segretario generale del Comitato centrale del partito per formare
coalizioni nel partito al fine di neutralizzare i propri rivali, Trockij primo tra tutti. Mentre Trockij
propugnava la rivoluzione mondiale, Stalin finì con lo schierarsi con coloro che preferivano
costruire un forte stato socialista in Unione Sovietica. Nel 1928 il controllo di Stalin sul partito e sul
paese era pressoché assoluto.
Il programma staliniano di “socialismo in un solo paese” implicava un massiccio rafforzamento
dell’industria russa per rendere il paese autosufficiente e potente nei confronti di un mondo
largamente ostile: era necessaria a tal fine una pianificazione economica globale. Tutte le risorse
dello stato sovietico furono mobilitate direttamente o indirettamente verso questa direzione sotto la
supervisione del Gosplan (Commissione statale di pianificazione). Il meccanismo della
pianificazione si sostituì al mercato senza riguardo per i costi, i profitti o le preferenze dei
consumatori. I sindacati furono usati per mantenere la disciplina nei luoghi di lavoro, impedire
scioperi e sabotaggi e stimolare la produttività. L’agricoltura è stata per l’Unione Sovietica uno dei
settori con u problemi più complessi e persistenti. Durante la Nep i contadini avevano rafforzato il
tradizionale attaccamento alla terra e al bestiame di loro proprietà, ma Stalin insistette che essi
dovevano essere organizzati in aziende agricole statali. Lo Stato, proprietario della terra, del
bestiame e delle attrezzature, nominava un dirigente di professione; i contadini che coltivavano la
terra non erano che proletariato agrario.
I costi del piano quinquennale di Stalin furono enormi, specialmente in termini umani. Nella sola
collettivizzazione dell’agricoltura vi furono milioni di morti per fame o giustiziati.
Nel 1933 il governo inaugurò il secondo piano quinquennale, in cui i beni di consumo dovevano
essere particolarmente privilegiati; in realtà il governo continuò a dedicare una quota
considerevolissima delle risorse ai beni capitale e all’equipaggiamento militare. Nonostante i grandi
incrementi della produzione industriale, il paese rimase prevalentemente agrario, e l’agricoltura era
il settore più debole.
Il terzo piano quinquennale, varato nel 1938, fu interrotto dall’invasione tedesca del 1941, e
l’Unione Sovietica ripiombò in qualcosa che somigliava al comunismo di guerra.
La guerra del 1940-45 coinvolse direttamente o indirettamente i popoli di ogni continenti e di quasi
ogni nazione del mondo. A differenza della precedente, che era stata anzitutto una guerra di
posizione, essa fu una guerra di movimento, sulla terra, nell’aria, sui mari.
La tecnologia a base scientifica fu responsabile di molte nuove armi speciali, sia offensive che
difensive: dal radar alle bombe volanti, dall’aereo a reazione alle bombe atomiche. Le capacità
economiche e soprattutto industriali dei belligeranti acquistarono una nuova importanza. L’arma
segreta finale dei vincitori fu l’enorme capacità produttiva dell’economia americana.
I danni alle cose furono molto più ingenti che nella Prima guerra mondiale, a causa soprattutto dei
bombardamenti aerei. Fra i bersagli preferiti furono le infrastrutture di trasporto, in particolare
ferrovie, porti e bacini. Andarono distrutti tutti i ponti sulla Loira e tutti quelli del Reno (tranne
l’unico ponte sopravvissuto usato dagli Alleati per penetrare in Germania).
Tutti i paesi in conflitto fecero ricorso alla guerra economica: la Gran Bretagna impose nuovamente
un blocco ai quali i tedeschi replicarono con una guerra sottomarina illimitata. La Germania poteva
contare sulle risorse dei paesi occupati: nel 1943 si appropriò di oltre il 36% del reddito nazionale
francese e nel 1944 il 30% della sua forza lavoro industriale consisteva in lavoro forzato.
Alla fine della guerra in Europa la produzione industriale e agricola fu minore della metà di quella
di dieci anni prima. La struttura istituzionale dell’economia aveva subito gravi danni.
66 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XV.
67 ibidem, pp. 581-582.
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Piano Marshall. Nel luglio 1947 si incontrarono a Parigi i rappresentanti di sedici nazioni
dell’Europa occidentale, autodefinitisi Commissione di cooperazione economica europea (Ccee).
Nella primavera del 1948 il Congresso approvò il Foreign Assistance Act, che istituiva lo European
Recovery Program (Erp) la cui gestione era affidata alla Economic cooperation adiministration
(Eca). Allo stesso tempo non c’era totale unanimità in Europa sugli obiettivi del programma.
La Gran Bretagna aveva sperato in maggiori aiuti bilaterali da parte degli Stati Uniti, invece di
vederseli incanalati attraverso un’organizzazione europea.
I francesi erano preoccupati dal ruolo che la Germania avrebbe potuto avere nella futura
organizzazione. Dopo la deliberazione del Congresso la Ccee si trasformò nell’Organizzazione
europea per la cooperazione economica (Oece), responsabile, insieme con l’Eca, della distribuzione
degli aiuti americani.
La Germania venne divisa in due stati distinti: la Repubblica federale tedesca e la Repubblica
democratica tedesca. Anche Berlino fu divisa in quattro settori, poi ridotti a due: Berlino Est,
capitale della Rdt, e Berlino Ovest, appartenente alla Rft.
La conferenza di Potsdam aveva previsto lo smantellamento dell’industria degli armamenti e delle
altre industrie pesanti tedesche, il pagamento di riparazione ai vincitori e alle vittime
dell’aggressione nazista, rigorose limitazioni alla capacità produttiva tedesca ed un vigoroso
programma di denazificazione, che prevedeva il processo ai capi nazisti come criminali di guerra.
Le autorità sovietiche smantellarono molte fabbriche nella loro zona e le trasferirono in Russia a
titolo di riparazione. Dopo un breve tentativo delle potenze occidentali di ottenere riparazioni in
natura e di spezzare le grandi concentrazioni industriali esistenti nelle loro zone, esse compresero
che l’economia tedesca doveva essere lasciata integra per contribuire alla ripresa economica
dell’Europa occidentale. Capovolsero la loro politica prendendo misure atte a incoraggiare la
produzione tedesca.
Per stimolare la ripresa economica nel 1948 le potenze occidentali attuarono un riforma della
moneta tedesca, rimpiazzando lo svalutato e disprezzato Reichsmark nazista con il Deutschmark.
La risposta immediata e travolgente divenne nota come Wirtschaftswunder (miracolo economico).
Le merci precedentemente intercettate o vendute al mercato nero riapparvero; le fabbriche ripresero
a produrre e la Germania occidentale cominciò la sua sensazionale rinascita economica. Nel
frattempo la Germania veniva integrata nell’European Recovery Program. Nel maggio del 1949
nasceva la Repubblica federale di Germania. Per non essere da meno, l’Unione Sovietica fondò
subito la cosiddetta Repubblica democratica tedesca, e nel mese di settembre fu tolto il blocco a
Berlino.
Con la Germania Occidentale pienamente integrata nell’Oece e nel Piano Marshall, il risanamento
economico dell’Europa occidentale poteva dirsi completo. Il Piano Marshall si concluse nel 1952
con un successo superiore alle attese.
Una delle più importanti nuove istituzioni fu l’Unione Europea dei Pagamenti (Uep). Uno dei
maggiori ostacoli allo sviluppo del commercio nell’immediato dopoguerra era la scarsità di valuta
estera, dollari in particolare, e la conseguente necessità di un conguaglio bilaterale degli scambi.
Nel giugno 1950, i paesi dell’Oece, forti di una sovvenzione di 500 milioni di dollari da parte degli
Stati Uniti, inaugurarono l’Uep. Questo strumento permise un libero commercio multilaterale
all’interno dell’Oece: si tenevano accurate registrazioni di tutti gli scambi fra paesi europei e alla
fine di ogni mese si tiravano le somme e si operavano le compensazioni. I debiti dei paesi con un
saldo passivo erano segnati su un contro centrale, e se il loro disavanzo era cospicuo una parte di
esso doveva essere pagata in oro o in dollari; ai paesi creditori, invece, erano riconosciuti dei crediti
sul medesimo conto, e in caso di crediti molto ingenti essi ne incassavano una parte in oro o dollari,
cosa che permetteva loro di importare di più dalle aree a moneta forte. Ciò incentivò i paesi
dell’Oece ad aumentare le esportazioni reciproche e a diminuire la propria dipendenza dagli Stati
Uniti e dagli altri fornitori d’oltreoceano. Nei due decenni successivi all’istituzione dell’Uep il
commercio mondiale crebbe ad un tasso medio annuo dell’8%. Gran parte di questa crescita si
verificò naturalmente in Europa, sia a livello intereuropeo che tra i paesi europei e quelli di altri
continenti. L’Uep ebbe tanto successo che, in concomitanza con la crescita globale degli scambi, i
54
paesi dell’Oece furono in grado nel 1958 di tornare alla libera convertibilità delle loro valute e ad
un pieno commercio multilaterale. Nel 1961 l’Oece si trasformò nell’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), alla quale aderirono gli Stati Uniti e il Canada (e in
seguito il Giappone e l’Australia): un’organizzazione di paesi industriali avanzati per coordinare gli
aiuti ai paesi sottosviluppati, cercare accordi su questioni di politica macroeconomica e dibattere
altri problemi di reciproco interesse.
modernizzazione dell’economia e la ristrutturazione della società. Dopo una prima fase in cui fu
tollerata la proprietà privata sia in agricoltura che in maniera limitata nel commercio e
nell’industria, nel 1953 il governo cominciò a incoraggiare la collettivizzazione dell’agricoltura e
intraprese una generale nazionalizzazione dell’industria. Il “grande balzo avanti” si rivelò un
catastrofico fallimento. La popolazione non era in grado di sopportare gli sforzi e i sacrifici richiesti
dai suoi capi, ed una carestia provocata dall’uomo causò la perdita di milioni di vite.
Fin dall’inizio dell’Unione Sovietica aveva accordata alla repubblica popolare cinese assistenza
economica, tecnica e militare, ma i cinesi rifiutarono di conformarsi alle direttive sovietiche. Dopo
la morte di Mao nel 1976 i contatti con l’occidente si intensificarono e nel corso degli anni ottanta il
governo, guidato da Dang Xiaoping, permise una limitata reintroduzione del libero mercato e della
libera impresa.
Il solo stato dichiaratamente socialista alleato dell’Unione Sovietica nell’emisfero occidentale era la
repubblica di Cuba. Fidel Castro, il leader rivoluzionario che rovesciò l’autoritario dittatore
Fulgencio Batista, in un primo momento non si proclamò marxista; ma la politica anticastrista degli
Stati Uniti lo gettò tra le braccia dell’Unione Sovietica, ben felice di trovare una base da cui
diffondere le proprie dottrine nell’emisfero occidentale.
Nel periodo di allargamento dell’organizzazione, l’economia mondiale era molto meno propizia alla
crescita.
Il sistema di tassi fissi di cambio di Bretton Woods decadde il 15 agosto 1971, proprio mentre erano
in corso i negoziati tra Comunità europea e Gran Bretagna. Ciò vanificò i piani per la creazione di
una valuta comune nei sei paesi membri originari, poiché ciascuno dovette affrontare pressioni
speculative contro la propria valuta tali da alterare le parità precedenti. Nel 1973, quando la Gran
Bretagna era ormai entrata nella Comunità europea assieme all’Irlanda e alla Danimarca, il primo
shock petrolifero travolse i piani economici di tutti i paesi membri. Ciascun paese adottò una
propria strategia per neutralizzare gli effetti di un prezzo del petrolio quadruplicato.
Per compensare in parte i britannici del prezzo elevato che avrebbero dovuto pagare per le
importazioni alimentari, furono introdotti i fondi regionali che tuttavia innescarono una
competizione tra paesi membri per l’accesso ai contributi Cee.
75 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XVI.
76 ibidem, pp. 623-628.
60
62
80 L.CAFAGNA. Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, 1990. Capitolo 10, pagg. 281- 322.
64
Una parte rilevante della produzione si concentrava in aziende più grandi e tecnicamente più
aggiornate che cercavano di seguire i rapidi mutamenti tecnologici di altri paesi (benché avessero
un lag di 15-20 anni).
Nell’insieme il quadro è molto limitato rispetto alle industrie tessili di altri paesi europei: meno di
un migliaio di piccole fabbriche (fra seta, cotone, lino e lana) circondate da lavoratori a domicilio e
da lavorazioni preparatorie stagionali (trattura della seta).
Le condizioni che avevano consentito questo sviluppo erano (oltre ai fattori naturali favorevoli alla
seta) fondamentalmente tre:
1. la buona disponibilità di una forza motrice, adatta a imprese di non grandi dimensioni, la quale
era fornita dai numerosi corsi d’acqua lungo le valli alpine;
2. una manodopera molto a buon mercato reclutata in un ambiente di agricoltura povera;
3. la protezione doganale offerta dalle tariffe adottate dai vari Stati italiani dopo la Restaurazione.
Queste condizioni permettevano di compensare l’assai minore produttività delle fabbriche italiane
rispetto a quelle - tecnicamente più progredite - di altri paesi.
Le tecnologie della Rivoluzione industriale attiravano l’interesse di taluni ambienti intellettuali di
avanguardia. In questo contesto emerse una prima sottile schiera di imprenditori sensibili
all’aggiornamento tecnico: sorsero società e istituzioni per promuovere queste conoscenze e si
fondarono, a Milano e a Torino, scuole per formare manodopera qualificata.
L’orientamento di incoraggiare l’innovazione in campo industriale, con il favore di una congiuntura
internazionale ascensiva e di una politica espansiva della spesa pubblica, ottenne in Piemonte, fra il
1848 e il 1859, risultati positivi. La propaganda e l’azione per le ferrovie furono la più importante
bandiera del movimento per la modernizzazione dell’Italia. Le prime ferrovie italiane si costruirono
molto presto: la Napoli-Portici nel 1830, la Milano-Monza nel 1832. Si trattò, tuttavia, di brevissimi
tronchi poco importanti economicamente.
Le produzioni militari, per quel poco che ne veniva richiesto dai singoli piccoli Stati italiani,
insieme alla produzione di attrezzi agricoli, costituivano la base della modesta siderurgia presente in
quelle regioni italiane nelle quali esisteva qualche miniera di ferro: Lombardia, Toscana, Piemonte,
Valle d’Aosta e Calabria.
In Italia, l’assenza di giacimenti di carbon fossile costringeva i produttori a continuare nell’uso del
carbone di legna, limitando gravemente l’utilizzazione delle possibilità offerte dalla nuova tecnica.
Le officine siderurgiche rimasero perciò frazionate e disperse, ciascuna con produzioni limitate.
Nelle regioni in cui si fece qualcosa in campo ferroviario prima dell’Unità, si ebbero anche alcuni
primissimi e limitati accenni di una nuova industria meccanica. Genova, Torino e Milano stavano
lentamente diventando quello che è noto come “triangolo industriale” italiano.
Gli ideali economici più importanti che avevano mosso gli uomini del Risorgimento erano stati la
diffusione in Italia di quel fondamentale simbolo di progresso rappresentato dalle ferrovie da un
lato, e il libero scambio (considerato il principale fattore propulsivo del commercio) dall’altro.
L’accelerata politica ferroviaria, che portò alla costruzione dal 1861 al 1876 di una rete tre volte
superiore a quella del decennio precedente, fu assai scarsa di effetti di linkages sulle attività
industriali: la domanda di rotaie, locomotive, vagoni e ferro per i ponti si rivolse prevalentemente
all’estero. Le uniche frazioni della domanda derivanti dalle costruzioni ferroviarie che si rivolsero
all’offerta domestica furono quelle relative agli aspetti tecnicamente privi di complessità: la
fabbricazione delle traversine di legno e in genere la parte più propriamente stradale.
L’altro cardine della politica economica dei primi governi, l’orientamento verso il libero scambio,
nasceva da un desiderio di intensificare i contatti commerciali con il resto del mondo,
principalmente con l’Europa più avanzata. Per un paese prevalentemente agricolo quale era l’Italia,
l’intensificazione degli scambi significava sopratutto maggiore esportazione di prodotti agrari e
maggiore importazione di prodotti industriali. L’orientamento liberista trovava favore negli
ambienti agrari dei produttori di beni di esportazione.
Finché gli interessi agrari non furono anch’essi seriamente minacciati dalla concorrenza estera
(afflusso a buon mercato di cereali americani) e finché le industrie non ebbero raggiunto quel tanto
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Oltre all’industria cotoniera, beneficiò del nuovo clima che si andava creando anche l’industria
siderurgica. La spinta non venne dalle tariffe doganali quanto da altri impulsi: le prime cospicue
commesse ferroviarie all’industria nazionale, gli ordinativi derivanti dalla formazione di una rete
tranviaria urbana e suburbana nelle maggiori città del Nord (Milano e Torino), la conquista di una
quota del mercato delle attrezzature domandate dallo sviluppo dell’industria tessile. Fa in tempo a
delinearsi solo appena un nuovo corso per la produzione siderurgia, fondato finalmente
sull’abbandono delle linee produttive tradizionali (ghisa e carbone a legna) o interlocutorie (ferro da
rimpasto dei rottami) e nell’avvio della produzione dell’acciaio.
Soltanto dopo la fine del great depression si può finalmente parlare di uno sprunt
dell’industrializzazione italiana. Gli anni che vanno dal 1897 al 1913 vedono il prodotto industriale
italiano indubbiamente accrescersi in proporzioni che non si erano mai avute prima.
Secondo l’ISTAT, la produzione manifatturiera, alla vigilia della Prima guerra mondiale, sarebbe
stata circa il doppio di quella antecedente la grande depressione e il tasso annuo medio di
incremento della produzione industriale si aggirava al 4,3%. Guardando agli incrementi di
occupazione dei singoli settori si constata come i maggiori fra questi riguardino i settori più
caratterizzati come industriali in senso moderno.
In questo periodo avviene quello “sfondamento delle resistenze” allo sviluppo industriale che non
era stato possibile al primo movimento di espansione delineatosi intorno al 1880: con il favore della
congiuntura internazionale, possono avere finalmente effetto i nuovi indirizzi di politica economica
e può trovare più pieno utilizzo quella riserva di attitudini nuove e di nuove e più moderne
propensioni che si era andata formando nel periodo antecedente, e che fino a quel momento erano
rimaste parzialmente paralizzate da una grave recessione. I motivi della mancata riuscita del
movimento degli anni ottanta vanno in gran parte ricercati, nell’orientamento prevalentemente
urbanistico, più che industriale, che gli investimenti extra-agricoli avevano preso in quegli anni (il
boom edilizio conteneva in se stesso una imminente prospettiva di crisi).
L’industrializzazione italiana degli anni 1897-1913 non comportò un drastico spostamento dai
consumi agli investimenti nell’impiego delle risorse. In questo periodo i consumi pro-capite
aumentarono notevolmente, anche se in misura inferiore agli investimenti.
Uno sforzo di industrializzazione comporta una forte pressione sui consumi quando:
I. l’impiego dei fattori produttivi (lavoro e capitali) deve essere spostato dalla produzione di beni
di consumo (per esempio alimentari) alla produzione di beni di investimento,
II. quando una quota dei beni di consumo prodotti deve essere distolta dalle disponibilità interne
per essere esportata in cambio di una importazione di beni di investimento,
III. quando l’importazione di beni di consumo necessari a formare le relative disponibilità interne
venga ridotta per far posto a una importazione di beni di investimento.
In tali casi la diminuita disponibilità di beni di consumo all’interno determina una distribuzione del
reddito prodotto più sfavorevole che in precedenza ai redditi da lavoro.
Nonostante lo spostamento di una parte della forza lavoro dall’agricoltura verso l’industria, la
produzione dell’agricoltura e degli allevamenti aumentò notevolmente nel periodo 1911-13. La
domanda di taluni generi più richiesti (cereali, carni) aumentò in misura superiore all’offerta interna
causando un aumento delle importazioni di generi alimentari, crebbe in forte misura l’esportazione
di generi alimentari pregiati (formaggi, agrumi, frutta secca), la bilancia commerciale per la parte
agricolo-alimentare riuscì a tenersi in pareggio per molti anni e diventò passiva solo verso la fine
del periodo.
L’aumento dei consumi fu generale e non riguardò solo i generi alimentari. Fra i consumi non
alimentari, la parte maggiore spettò ai consumi semplici connessi al nuovo modo di vita derivante
dalla urbanizzazione, in particolare a quelli connessi con il vestiario e l’abitazione.
Il quasi equilibrio esistente fra incremento della domanda di generi alimentari e sviluppo della
produzione agricolo-alimentare fu una delle componenti più importanti che consentirono di
mantenere in attivo la bilancia dei pagamenti nel periodo di espansione e di assicurare una buona
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estensione dei consumi. Vi furono però altri due fattori di grande importanza. Uno di essi fu lo
sviluppo delle industrie esportatrici che permise di contenere entro determinati limiti l’inevitabile
disavanzo commerciale provocato dall’industrializzazione, la quale creava una forte domanda di
fonti di energia, materie prime, semilavorati, macchinari. L’altro fu il compenso apportato al
disavanzo commerciale della bilancia dei pagamenti dagli introiti derivati dalle partite “invisibili”: i
noli, il turismo, ma, soprattutto, le rimesse degli emigranti.
Le industrie esportatrici furono essenzialmente le industrie tessili (quelle tradizionali della seta in
special modo). Con il 1907 i valori delle esportazioni di seta cominciarono a declinare e si parlò di
crisi di questo settore. Milano aveva ormai sostituito Lione come principale mercato europeo.
Notevole sviluppo ebbero anche le esportazioni dell’industria cotoniera che in qualche anno giunse
a coprire un decimo di tutte le esportazioni.
La bilancia commerciale del settore cotoniero si avvicinò al pareggio. Ciò significa che l’aumentato
consumo interno di tessuti di cotone sostanzialmente fu compensato sui conti con l’estero. Ma il
fenomeno marginale (in senso economico) che contribuì in maniera decisiva all’equilibrio dei conti
con l’estero in questo periodo fu quello migratorio. L’emigrazione italiana prese in questi anni
dimensioni imponenti, soprattutto verso le direzioni transatlantiche.
Gran parte dei lavoratori emigrati inviava ogni anno in patria alle famiglie una parte dei propri
guadagni o portava con sé, in caso di rientro, dei risparmi. Si ebbe un attivo di partite “invisibili”
fornito per più di un terzo dal turismo attivo e per oltre la metà dalle rimesse degli emigrati. Il
risparmio degli emigrati fu una forma particolare italiana del contributo dato dai lavoratori
all’industrializzazione e diede luogo a un fenomeno che Marx avrebbe potuto includere fra quelli
che compongono il quadro della “accumulazione primitiva”. Questo triplice apporto - produzione
agricola in espansione, sviluppo delle industrie esportatrici, aumento delle partite attive della parte
non commerciale (soprattutto dovuto alle rimesse degli emigranti) - consentì che lo sforzo di
industrializzazione di questi anni si compisse nonostante la scarsa partecipazione del capitale
straniero e che si realizzasse in una situazione di equilibrio dei conti con l’estero.
L’impatto decisivo dell’industrializzazione italiana si colloca dopo la fine della great depression, ne
consegue che il suo svolgimento ha luogo nel quadro del Second Wind della Rivoluzione industriale
europea, caratterizzato dal superamento del technological Climateric della great depression,
attraverso lo sviluppo di nuove produzioni.
Aspetti tecnologici fondamentali del Second Wind sono l’impiego su larga scala di nuovi materiali
(acciaio e nuovi prodotti della chimica), l'introduzione di nuove fonti di energia e uno straordinario
sviluppo dell’industria meccanica. Sviluppo delle industrie di assemblaggio, la moltiplicazione
delle macchine utensili dotate delle nuove capacità consentite dall’uso dell’acciaio, la nascita
dell’industria dell’automobile.
Lo sforzo di industrializzazione italiana di questo periodo si colloca singolarmente a cavallo tra una
acquisizione dei risultati della prima fase della Industrial revolution e un’adozione soltanto parziale
delle nuove produzioni e degli apporti tecnologici che sono propri di questo Second Wind. Per
queste ragioni lo spurt di questo periodo è limitato. La faccia dell’industrializzazione italiana
ancora rivolta al recupero dei risultati della prima ondata della Rivoluzione industriale è
rappresentata soprattutto dall’industria tessile, la cui importanza risulta chiarissima se si considera
che essa era la sola grande industria esportatrice del paese, che concorreva complessivamente a
formare il 40% circa del valore complessivo della parte attiva della bilancia commerciale dell’Italia
negli anni che precedono la Prima guerra mondiale e quasi il 60% delle esportazioni non alimentari.
Essa restava la principale risorsa di occupazione operaia nel settore manifatturiero.
Il progresso tessile di questi anni si riassume nei seguenti termini:
1. Piena conquista del mercato interno;
2. Netta accentuazione del carattere di industria esportatrice;
3. Sviluppo industriale della tessitura, che era rimasta fino a questo periodo prevalentemente
organizzata con il sistema del putting out, e non soltanto della filatura;
4. Meccanizzazione e elettrificazione sia nelle attività di filatura che di tessitura.
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Dal canto suo la bilancia commerciale cotoniera, limitatamente ai prodotti manufatti, con la fine del
secolo, da passiva diveniva attiva e l’Italia diveniva paese esportatore del cotone.
Nel 1912 l’esportazione di tessuti sul totale delle esportazioni di seta, passava dal 6% (1885) al 17%
(1913), in una situazione di eccezionale espansione delle esportazioni di seta nel loro complesso:
notevolmente cresciuto era il movimento dei tessuti italiani verso l’Inghilterra, ove essi avevano
conquistato posizioni in passato tenute dalla tessitura lionese. Il mutamento radicale intervenuto nel
comportamento industriale dei tessitori serici è illustrato dallo sforzo compiuto per gli investimenti:
la produzione con i telai a mano era praticamente una produzione senza immobilizzi.
Le esportazioni cotoniere erano state, al contrario di quelle seriche, sin dagli inizi prevalentemente
esportazioni di tessuti anziché di filati, essendo diverso il mercato: l’industria italiana della seta,
infatti, era nata come industria fornitrice di semilavorati per l’industria dei paesi industriali; mentre
l’industria italiana del cotone, in quanto esportatrice, nasce come fornitrice del mercato di consumo
di paesi non industriali. Si assiste, per le esportazioni cotoniere, a un fenomeno inverso a quello
verificatosi per la seta. Alquanto diverso è il comportamento dell’industria lino-canapiera, che come
industria esportatrice era nata in Italia con caratteristiche affini a quelle della seta.
Più difficile fu il progresso nel comparto della lana, dove il problema era di riuscire a realizzare un
prodotto di qualità superiore, ciò che richiedeva un impegno tecnico maggiore che non negli altri
comparti tessili. A causa di tali difficoltà tecniche, la bilancia commerciale dei manufatti lanieri non
aveva ancora raggiunto, alla vigilia della Prima guerra mondiale, una posizione attiva.
Notevole fu l’investimento che si realizzò nella filatura del cotone. Prevalse largamente in Italia
l’impiego dei fusi rings su quello dei fusi self-acting. L’uso dei rings, che consentivano un prodotto
di un terzo superiore a quello dei self-actings, permise di realizzare il notevole aumento di
produzione con una manodopera ridotta e una più celere esecuzione del prodotto.
Lo sforzo tecnico principale compiuto dall’industria laniera, con l’aiuto della protezione doganale,
consistette in questo periodo nel promuovere la produzione delle più fini e costose lane pettinate.
Nel quadro generale dell’industria tessile, la fase di lavorazione costituita dalla tintura rimase
indietro. La tintura era legata ai progressi della chimica, e quindi aveva assai più la “faccia” rivolta
sul versante del Second Wind. Nonostante i progressi che si realizzarono, la stragrande parte delle
esportazioni di seta greggia italiana non era tinta e doveva essere esportata verso Francia, Svizzera
o Germania per la tintura. Analoga situazione si poteva registrare, nel comparto cotoniero, per la
mercerizzazione e per la tintura, per le quali occorreva largamente valersi dell’industria tedesca.
L’aspetto dello sviluppo industriale italiano 1896-1914 più sicuramente rivolto sul versante del
Second Wind dell’Industrial Revolution è certamente la nascita di una industria idroelettrica. Verso
questo settore di investimenti si indirizzarono buona parte dei capitali liberati dalla
nazionalizzazione delle ferrovie (1905). Su di essa si concentrò l’interesse delle grandi banche
d’affari formatesi per iniziativa tedesca dopo la grande crisi bancaria degli anni novanta. Nella
costruzioni elettriche fu investito, fra il 1895 e il 1914, un capitale ingente. Questo imponente
sviluppo fu vissuto psicologicamente negli ambienti economici italiani come una liberazione da una
sorta di impotenza industriale cui molti ritenevano ancora soggetta l’Italia, a causa della sua
mancanza di risorse energetiche. La sola produzione idroelettrica veniva a sostituire un quinto
dell’importazione di carbone all’anno. La massima parte della nuova produzione idroelettrica ebbe
come destinazione l’industria. L’industria tessile ne assorbì il quantitativo relativamente maggiore,
seguita dall’industria meccanica. Non troppo rilevante, invece, il consumo della siderurgia.
L’altra grande industria “nuova” che nasce in questo periodo è quella dell’acciaio. L’età dell’acciaio
non è soltanto l’età della produzione, ma anche soprattutto, l’età dell’utilizzazione dell’acciaio: lo
sforzo dell’industrializzazione italiano poté realizzare la prima condizione, in misura meno
soddisfacente l’altra. La scelta tecnologica fondamentale fu l’adozione del forno Martin, che
permetteva di aggirare la grossa inferiorità derivante dalla mancanza, in Italia, di giacimenti di
litantrace. Caratteristica del procedimento Martin era la possibilità, che esso offriva, di utilizzare
rottame, in proporzione anche 50-50, con la ghisa, per la produzione dell’acciaio. Inoltre il
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procedimento Martin era più fungibile. Infine esso consentiva una maggiore elasticità produttiva,
più adatta alle incertezze del mercato in cui si muoveva la produzione italiana.
La siderurgia italiana nacque in stretta connessione con le commesse della marina militare e con la
protezione accordata alla industria cantieristica. Mancava una produzione di ghisa che offrisse il
vantaggio di economie di scala verticali: la produzione di acciaio partì in un primo tempo con
l’impiego di rottami e ghisa d’importazione e fu poi condizionata da questa partenza. In terzo luogo,
forze centrifughe diverse spingevano al frazionamento della produzione, fatto che limitava non solo
la possibilità di usufruire di economie di scala, ma anche la propensione per investimenti capital-
intensive. Il risultato di questo sviluppo dispersivo, che si aggiunse al grave svantaggio di dover
importare il carbone necessario, fu che la vita della siderurgia italiana risultò assai difficile, fino alla
riorganizzazione avvenuta nel dopoguerra.
Il più vero protagonista dell’età dell’acciaio, l’industria meccanica, non conobbe pari progresso. È
relativamente più facile, mediante la protezione doganale, e assicurando alcuni grandi sbocchi,
ferrovie e cantieri navali, favorire la nascita di una siderurgia che non quella di una industria
meccanica. Questa si articola in grande varietà di produzioni, richiede - per specializzarsi - mercati
industriali già vasti, deve essere in grado di misurarsi competitivamente sui mercati internazionali
per raggiungere dimensioni sufficienti ed ha bisogno di numerose maestranze specializzate, quale
difficilmente sono disponibili agli inizi di uno sforzo di industrializzazione. Nonostante la
protezione accordata ai cantieri navali, neanche questo comparto della produzione meccanica
pesante riuscì a dominare il mercato interno. Riuscì invece ad avere il monopolio delle forniture
dell’industria delle costruzioni di materiale ferroviario, e ciò in virtù della nazionalizzazione delle
ferrovie. Per gli urgenti e più massicci ordinativi che furono necessari nei tre anni successivi al
passaggio delle ferrovie di Stato, si dovette ricorrere per il 38% circa all’industria straniera, poiché
si era accumulato un fabbisogno di materiale rotabile di cui non poteva essere dilazionato
l’approvvigionamento e al quale, nell’urgenza, non poteva far fronte unicamente l’industria
nazionale.
Ormai né la cantieristica né le costruzioni ferroviarie costituivano più il nerbo di una meccanica
moderna. Essa era un’industria creativa di beni “nuovi” per eccellenza, sia di beni per la produzione
(motori elettrici, motori a scoppio, macchine utensili, ecc.), sia di beni di consumo destinati a
mutare i caratteri del modo di vivere come la bicicletta e l’automobile. Nell’insieme, l’industria
italiana non fu presente, in questa fase, nel campo dei beni “nuovi” di investimento, salvo qualche
raro promettente inizio come quello delle macchine da scrivere, la cui produzione fu avviata da
Camillo Olivetti a Ivrea nel 1911, o quello delle macchine per tipografi. Si aprirono uno spazio tra i
beni “nuovi” di consumo l’industria della bicicletta e del motociclo ma, soprattutto, quella
dell’automobile. Quest’ultima produzione fu probabilmente uno dei più brillanti e validi esempi di
partecipazione dell’industria italiana al nuovo movimento dell’industria internazionale, ed ebbe, più
in generale, molta importanza nell’aprire la strada al sorgere di una meccanica moderna in Italia,
stimolando l’inventiva in questo campo, creando maestranze specializzate, promuovendo il sorgere
di produzioni collaterali (tra le quali l’industria dell’alluminio). Negli anni immediatamente
precedenti la Prima guerra mondiale il mercato interno era controllato dalla produzione nazionale.
Era un mercato ancora molto ristretto, perché l’automobile era allora - in una società come quella
italiana, ancora lontana dalla mass consumption age - un bene di lusso. Si trattava prevalentemente
di vetture grosse, costruite con sistemi produttivi ancora artigianali, ben diversi da quello che già si
andavano affermando nell’industria americana, dove era già sorta la produzione di serie.
L’industria chimica italiana fu sostanzialmente assente nei due campi che erano stati aperti in questo
settore dalle scoperte della seconda metà dell’Ottocento: la produzione di alcali secondo i nuovi
metodi (Soda Solvay) e la sintesi dei componenti organici, che ebbe le sue più grandi applicazioni
nel campo dei coloranti, degli esplosivi, dei farmaceutici, della fotografia, aprendo la strada - con la
seta artificiale - alle fibre tessili sintetiche.
L’industria chimica italiana degli inizi del secolo fu principalmente un’industria di fertilizzanti per
l’agricoltura: perfosfati, in primo luogo, il cui incremento produttivo è espresso dalla produzione di
acido solforico. Dal 1905 è presente anche la produzione di azotati, e nel 1913 di solfato di
71
La crescita economica italiana degli anni 1896-1913 si svolse in un clima economico internazionale
favorevole: grande importanza ebbe nel processo di crescita l’andamento delle esportazioni, sia
agricole che industriali (soprattutto tessili), decisamente dipendente dal trend ascensivo della
domanda internazionale.
È evidente che il protezionismo fece da ammortizzatore di molti effetti negativi (a spese del
mercato interno, che però si mantenne ugualmente in espansione), derivanti sia da prezzi
internazionali in diminuzione che da prezzi in aumento. Gli investimenti industriali poterono
beneficiare delle diminuzioni di prezzo delle attrezzature meccaniche importate. La sostituzione di
fonti di energia interne (elettricità) a quelle di importazioni (carbone) permise a molte industrie di
sottrarsi agli effetti dei periodici rincari dei prezzi del carbone.
Era vigente in Italia dal 1887 una tariffa doganale fortemente protezionistica. L’azione dello Stato
per promozione dello sviluppo industriale non si limitò, inoltre, alla protezione doganale.
L’industria domestica venne favorita con altre misure di aiuto: gli esempi più importanti furono le
forniture assicurate dalle ferrovie, i premi di navigazione e i compensi di costruzione per le navi
prodotte nei cantieri italiani. Questa legislazione a favore dell’industria cantieristica risaliva
anch’essa agli anni ottanta (1885).
Tali misure, che favorivano in sostanza la meccanica pesante, andavano in parte a compensare i
maggiori oneri che questo settore doveva subire per la protezione doganale alla siderurgia. Restava
escluso da questa possibilità di compenso tutto il resto dell’industria meccanica.
L’industria meccanica a più alto contenuto tecnologico non soffriva tanto per la ancora scarsa
disponibilità di maestranze specializzate e per le dimensioni ancora limitate del mercato dei beni di
investimento industriali. Una protezione doganale dell’industria meccanica che lavorava per le altre
attività dell’industria, avrebbe probabilmente nuociuto di più alle possibilità di attrezzamento delle
altre industrie di quanto avrebbe potuto giovare a questo specifico settore.
La protezione assicurata dallo Stato a molte attività industriali fu un fattore molto importante dello
spurt di questi anni. Lo Stato, però, non si fece imprenditore diretto o finanziatore, e la sua opera di
promozione industriale non assunse queste forme (come sarebbe invece accaduto dopo la Prima
guerra mondiale).
La presenza di una imprenditorialità privata è dimostrata dal fatto che l’industrializzazione di
questo periodo non si svolse prevalentemente in imprese di grandi dimensioni: salvo che per la
siderurgia e qualche rara eccezione, vi fu una prevalenza di imprese di dimensioni piccole o medie.
L’azione degli imprenditori industriali privati in alcuni settori trovò uno speciale sostegno
finanziario, e non soltanto finanziario, nelle banche d’affari. Dopo la crisi bancaria (1889-1893) il
vuoto creatosi nel sistema bancario italiano era stato riempito prontamente dall’iniziativa di
banchieri tedeschi, i quali avevano promosso la fondazione di due nuovi istituti di credito (la Banca
Commerciale Italiana e il Credito Italiano). Questi istituti operavano secondo il modello tedesco
delle banche di deposito e investimento, impegnandosi a fondo nel finanziare la nascita e
l'ingrandimento di imprese industriali in Italia. Queste banche non si limitarono a fornire
direttamente mezzi finanziari, ma aiutarono le imprese a darsi forma di società azionarie, a
concentrarsi e accordarsi quando ciò appariva vantaggioso. Esse hanno operato essenzialmente in
settori nuovi per l’industria italiana, trascurando quasi completamente quelle più tradizionali come
l’industria tessile. E fu soprattutto nelle industri nuove che si affermò la concentrazione e la forma
della società azionaria. Assai limitata rimase la formazione di società per azioni nel settore tessile.
Lo spurt dell’industria italiana degli anni 1896-1913 fu quindi il risultato dell’azione combinata di
agenti diversi, a nessuno dei quali si può attribuire un ruolo esclusivo e nettamente preponderante.
Una parte di essi rientra fra gli agenti tradizionali (imprenditorialità privata), un’altra parte fra quelli
che operano soprattutto in casi storici di industrializzazione ritardata come quello della Germania
(banca mista di deposito e investimento).
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Riesce difficile individuare, nella formazione dell’Italia industriale, un vero e proprio big spurt. Le
cause della scarsa “violenza” della crescita italiana in un singolo periodo - e che sembrano
testimoniare piuttosto uno sviluppo per spurt successivi di limitata entità - devono probabilmente
essere ricercate in due direzioni:
1. Da un lato nel carattere composito degli agenti dello sviluppo, nessuno dei quali operò, in
definitiva, con grande forza e che non determinò, quindi, una grande concentrazione nel tempo;
2. Dall’altro lato nei gravi limiti territoriali che questo sviluppo ebbe.
Si generò una crescita caratterizzata nel medio periodo da alcuni fattori di equilibrio (conti con
l’estero, rapporto fra investimenti e consumi), ma con una prospettiva, nel più lungo periodo, di
squilibri crescenti che si rivelarono chiaramente dopo la Prima guerra mondiale. Vennero allora a
ridursi drasticamente alcune importanti partite compensative nei conti con l’estero (le rimesse degli
emigranti); entrò in periodo climaterico la componente più tradizionale, ed esportatrice (quella
tessile) della struttura industriale italiana; e i limiti tecnologici e territoriali del precedente sviluppo
esplosero in un grave eccesso di capacità produttiva delle industrie pesanti, le quali si trovarono di
fronte a un mercato interno territorialmente limitato de facto (per la scarsità del progresso
economico delle regioni meridionali) e dotato di una struttura ancora prevalentemente arcaica nel
suo mix.
È evidente che la produttività dell’apparato industriale italiano concentrato nelle tre regioni nord-
occidentali era assai maggiore che nel resto del paese: considerando i loro indici di
industrializzazione isolatamente rispetto a quello dell’Italia intera, il divario rispetto ai livelli di
industrializzazione dell’Europa centro-occidentale appare assai minore. In una certa misura, il
processo di industrializzazione delle tre regioni si comportò come quello di un “piccolo paese”
autonomo. Tuttavia il dualismo tra Nord e Sud non si formò nel periodo dell’industrializzazione, ma
approfondì soltanto una profonda differenza preesistente. Secondo il Saraceno81 , l’unificazione
amministrativa non fu accompagnata da un processo di unificazione economica: in realtà le due
Italie continuarono a camminare separatamente lungo i binari precedenti e continuarono ad avere
prevalenti rapporti economici, ciascuna per conto suo, con il resto del mondo.
Secondo Kuznets, «il commercio estero ha, nelle attività economica delle piccole nazioni,
un’importanza maggiore che in quella delle grandi».
Il fatto che la piccola area industriale settentrionale facesse parte di una nazione di più ampie
dimensioni non restò senza influenza sulle sue stesse possibilità di sviluppo:
1. In primo luogo il livello della spesa pubblica capace di dare impulso a produzione industriali,
specie quelle di carattere militare, poté indubbiamente essere più elevato di quanto non avrebbe
consentito una piccola nazione.
2. In secondo luogo, benché il mercato interno fondamentale dei manufatti di consumo fosse
quello delle regioni più ricche, almeno i centri urbani del resto d’Italia ne costituirono
certamente una quota non disprezzabile.
3. Il terzo elemento, quello più importante, corrisponde all’equilibrio dei conti con l’estero, nel cui
quadro si svolge lo sforzo di industrializzazione dei primi anni del nuovo secolo, ricevette un
apporto determinante dalle rimesse degli emigranti, e questi erano per grandissima parte
contadini poveri delle regioni meridionali. L’estrema povertà del Mezzogiorno entrò così come
componente organica nella struttura del processo di sviluppo che si manifesto nel 1896-1913.
2. Permanenze.
Tra le caratteristiche dell’economia italiana, emergono alcune “permanenze”, ovvero elementi del
sistema economico, osservabili e misurabili a livello aggregato, che si mantengono piuttosto stabili
nel tempo.
Dipendenza dall’estero. Sentita da molti come uno dei caratteri distintivi della nostra economia e
come una delle cause del suo ritardato sviluppo, la dipendenza dall’estero va indubbiamente
annoverata tra le “permanenze strutturali” del sistema. L’evoluzione strutturale del sistema
economico italiano è caratterizzata da una diminuzione nella dipendenza della tecnologia estera nel
comparto dei beni strumentali mentre permane quella delle materie prime importate.
82N. ROSSI, G. TONIOLO. Un secolo di sviluppo economico italiano: permanenze e discontinuità, Rivista di storia economica, X,
1993, n.2.
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Importazioni e lavoro sono sostituti con elasticità crescente nel tempo: aumenta l’integrazione
internazionale e si allentano, nel dopoguerra, i vincoli alla mobilità dei prodotti, dei fattori e delle
stesse imprese. In prospettiva, la dipendenza dall’estero non si presenta con connotati di peculiarità.
Va rilevata la non eccezionalità di un pattern commerciale caratterizzato, in una prima fase, da
crescenti importazioni di beni capitali e, successivamente, da una loro sostituzione con prodotti
domestici, a mano a mano che il paese acquisisce le necessarie tecnologie. Per quanto riguarda le
materie prime, se è vero che quasi tutti i paesi di più antica industrializzazione sono assai più ricchi
del nostro in risorse naturali e che questa circostanza costituì per l’Italia uno svantaggio nel XIX
secolo, esso è venuto scemando nei decenni più vicini a noi. La caduta dei costi di trasporto e delle
barriere al commercio internazionale ha consentito a ciascun paese di approvvigionarsi ai costi più
bassi prevalenti sui mercati internazionali. Il “Piano Sinigaglia83 ” diede all’Italia quell’industria
siderurgica ritenuta possibile solo a prezzo di una grande forzatura dei vantaggi comparati.
Economie di scala. Nel corso del secolo, l’economia italiana appare caratterizzata da rilevanti
rendimenti di scala. La maggior efficienza dei fattori della produzione dipende largamente dalla
riallocazione delle risorse tra settori produttivi e non già dai vantaggi di dimensione in senso stretto.
Rendimenti crescenti, nell’aggregato, possono derivare:
I. dall’allargamento del mercato interno,
II. dalla specializzazione conseguente all’apertura internazionale,
III. dal miglioramento del capitale umano,
IV. dall’attività di ricerca e sviluppo condotta da imprese e operatore pubblico,
V. dalla struttura stessa di prelievo e spesa del governo.
Questo quadro della rappresentazione dello sviluppo economico italiano sottolinea, da un lato,
l’importanza della Prima guerra mondiale e, dall’altro, sia il progressivo allargamento del mercato
sia il ruolo delle politiche allocative settoriali e territoriali. È importante, inoltre, l’aumento della
produttività nella sua misura duale (diminuzione dei costi unitari), spiegato in gran parte da
rendimenti di scala prevalenti a livello aggregato.
Il potere di mercato delle imprese. L’analisi empirica genera due ulteriori indicatori aggregati:
• Il potere di mercato delle imprese (mark-up), dato dal rapporto tra prezzo e costo marginale
dell’output del settore privato.
• Il margine di profitto (o profittabilità), consistente in una misura del rapporto tra prezzo e
costo medio totale.
Per tutto il secolo le imprese mantengono, nell’aggregato, un potere di mercato elevato e solo
leggermente decrescente nel tempo, senza alcuna evidente correlazione con il grado di apertura
internazionale del sistema.
La profittabilità del sistema si mantiene, tra il 1895 e il 1913, sui valori più elevati dell’intera
esperienza secolare. Ciò conferma l’ipotesi che la dinamica del costo del lavoro in età giolittiana
fosse eccezionalmente favorevole alla formazione del profitto e, quindi, all’accumulazione. Essa è
elevata negli anni Venti, scende durante la Grande Crisi, risale con la Guerra d’Etiopia. Come
mostrano i dati relativi al mark-up, le imperfezioni di mercato hanno caratterizzato in misura
sostanziale l’intero periodo garantendo cospicui margini di profitto del sistema.
La sottocapitalizzazione dell’economia. È possibile definire come sottocapitalizzazione
un’economia nella quale il prezzo ombra dei beni capitali, definito come la riduzione dei costi
possibile, al margine, a seguito dell’aggiustamento del fattore semifisso, sia superiore al loro prezzo
di mercato. Ciò sta a indicare che lo stock di capitale desiderato dalle imprese è superiore a quello
realizzato. Viceversa nel caso si sovracapitalizzazione.
Dalla metà degli anni ’80 si nota una chiara sovracapitalizzazione. Vi è dunque una prima lunga
fase del nostro sviluppo, compresa tra l’ultimo decennio del XIX secolo e il cosiddetto “miracolo
83 Il piano Sinigaglia per l'industria siderurgica venne approvato dal governo italiano nel 1948. Prendeva il nome dall'ingegnere ed
imprenditore Oscar Sinigaglia e prevedeva un forte aumento della capacità produttiva della siderurgia nazionale, incentrato sulla
ricostruzione dello stabilimento di Genova-Cornigliano e sull'integrazione verticale delle lavorazioni a Piombino ed a Bagnoli. [NdR]
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3. Discontinuità.
Una periodizzazione canonica dello sviluppo italiano. Le fasi dello sviluppo economico italiano
sono disegnate secondo una periodizzazione dell’economia mondiale. Per ciascuno dei singoli
sottoperiodi, il residuo di Solow e il residuo “aggiustato” (ossia depurato sia degli effetti dei
rendimenti di scala sia da quelli della fissità) possono essere come quell’aumento della produttività
che risulta dall’effetto netto sull’efficienza produttiva di tutto ciò che non è ricollegabile a
rendimenti crescenti o all’imperfetto aggiustamento dello stock di capitale alla domanda.
L’evoluzione del puro progresso tecnico mostra un profilo abbastanza familiare: la crescita della
produttività totale dei fattori rimane sostenuta in tutto il primo cinquantennio toccando un tasso di
crescita annuo pari all’1,7% prima della Grande Depressione e assestandosi poi introno allo 0,7%
nel periodo fra le due guerre.
L’impennata delle quotazioni dei prodotti petroliferi intervenuta nel 1974 rende peraltro evidente il
rallentamento della produttività dopo il 1974. L’apporto del progresso tecnico risulta più che
dimezzato nel ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale a causa della presenza di
economie di scala nel sistema. Nel periodo 1974-90, infine, le indicazioni fornite dal residuo di
Solow risultano del tutto stravolte e si manifestano, addirittura, dei segni di crescente inefficienza
nel sistema a partire fagli anni Sessanta.
Nel complesso del secolo, il residuo “aggiustato” spiega solo la metà dell’aumento della
produttività. Il suo contributo è massimo prima della Seconda guerra mondiale e tende
successivamente a ridursi. Dopo il 1970, le inefficienze hanno prevalso, in media, sulle maggiori
efficienze.
La “piena occupazione” come cesura: i primi anni ’60. Un’altra discontinuità va, a priori, ricercata
negli anni della cosiddetta riconversione industriale, a cavallo del 1980. Per alcuni anni le “pure”
efficienze/inefficienze nette tornano a dare un contributo positivo alla crescita. La reale
“discontinuità” va forse ricercata nella prima metà degli anni ’60, quando l’industria si trova per la
prima volta di fronte a una curva di offerta di lavoro sensibilmente inclinata positivamente. Da quel
momento in avanti, non è possibile interpretare aspetti non irrilevanti della crescita e
dell’accumulazione del paese con schemi riferibili a un’offerta illimitata di lavoro à la Lewis84.
Tra la fine degli anni ’50 e la metà del decennio successivo si nota una rottura di trend nell’elasticità
di lungo periodo del lavoro al prezzo del capitale: aumenta fortemente la sostituibilità tra i fattori. In
un contesto di crescente apertura internazionale, ogni aumento di salario non accompagnato da un
eguale aumento della produttività contribuisce alla deindustrializzazione. Con il raggiungimento
84 Il modello di sviluppo a due settori di Lewis è una teoria dello sviluppo economico in cui il surplus di lavoro dal settore agricolo
tradizionale si trasferisce al settore industriale moderno la cui crescita, nel tempo, assorbe il surplus di lavoro, promuove
l’industrializzazione e stimola lo sviluppo sostenuto. [NdR]
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della piena occupazione e con l’adesione al Mercato Comune, la gestione delle imprese e della
politica economica richiedono una radicale innovazione nel metodo e nella stessa mentalità. È
questo il senso ultimo della “discontinuità”.
4. Considerazioni conclusive.
Sviluppo in condizioni di arretratezza: capitalismo senza capitali o senza capitalisti?
Se volessimo ricercare una o più cause che possano aver rallentato la crescita dell’economia italiana
nella prima parte del XIX secolo e, soprattutto, che possano aver determinato la
sottocapitalizzazione dovremmo, in ogni caso, tenere in considerazione l’indubitabile operatività
nel nostro paese di capaci imprenditori industriali. Le manifatture serica, laniera e cotoniera, tanto
importanti nelle prime fasi dello “sviluppo economico moderno” della Penisola, crebbero e
prosperarono grazie all’attività di numerosi “capitani di industria”, piccoli e medi, attenti alle nuove
tecniche e ai nuovi mercati, pronti a reinvestire nell’impresa i profitti che questa generava. Ma è
anche vero che, nell’ultima parte del secolo, quando si trattò di creare un’industria “pesante”
nazionale e di sfruttare le opportunità offerte a un paese relativamente arretrato di trarre vantaggio a
costi relativamente bassi della tecnologia del Second Wind, si faticò a trovare capitali di rischio
disposti a lunghi immobilizzi dall’esito più incerto della norma.
All’inizio di questo periodo è apparso un nuovo tipo di intermediario finanziario: la banca mista,
che assunse su di sé parte dei rischi di impresa, soprattutto nel settore elettrico.
Due permanenze maggiormente peculiari del nostro sistema sono:
• l’elevato potere di mercato delle imprese,
• la tendenza alla sottocapitalizzazione.
Sussidi e commesse conferiscono un potere di mercato a chi li ottiene. Ed è un potere che si
autoalimenta, senza necessariamente ricorrere alla corruzione.
Quanto alla banca mista - e, a fortiori, alla banca capogruppo - uno dei modi con i quali riesce a
diminuire il rischio dell’investimento consiste tipicamente nell’evitare la concorrenza tra le imprese
finanziate tramite fusioni, accordi, cartelli, sapienti divisioni orizzontali e verticali del mercato.
Nel complesso non meraviglia trovare, tra le caratteristiche distintive e “permanenti” del nostro
sistema economico, sino al secondo dopoguerra, alti valori del mark-up. Nell’aggregato, è come se
la cultura italiana abbia creato nel tempo potenti anticorpi contro ogni contagio concorrenziale.
La sottocapitalizzazione costituisce, in parte, l’altra faccia della medesima medaglia. Essa può
essere legata da relazioni causali ambigue con gli interventi incentivanti dei pubblici poteri, la
sostituzione delle banche e dello stesso stato all’imprenditoria privata, i frequenti “salvataggi”.
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85 A.D. CHANDLER. Che cos’è l’impresa? Una prospettiva storica, Archivi e Imprese, IV, luglio-dicembre 1991.
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Il triplice investimento assicurava potenti vantaggi ai first movers: per poter beneficiare di costi
confrontabili, gli eventuali sfidanti dovevano costruire impianti di dimensioni analoghe mentre i
first movers già erano intenti a perfezionare i nuovi processi di produzione.
L’investimento nelle tre direzioni portò alla nascita dell’impresa industriale multi-unità nei settori in
cui maggiori erano i vantaggi di costo ottenibili con le economie di scala e di gamma. Questo tipo
di imprese si concentrò nelle industrie capital-intensive, la cui struttura, dopo un breve periodo di
assestamento, divenne oligopolistica e tale rimase.
Il prezzo restava un’arma concorrenziale importante: queste imprese davano battaglia sul piano
dell’efficienza funzionale e strategica. Il banco di prova era la quota di mercato, e nelle nuove
industrie oligopolistiche quota di mercato e profitti mutavano continuamente.
Una siffatta concorrenza oligopolistica affinò, nel campo specifico delle loro produzioni, le capacità
di manodopera e del personale direttivo. Per la maggioranza, la strategia costante di sviluppo a
lungo termine fu l’espansione in nuovi mercati, o geografici o di prodotto.
Queste attitudini gestionali furono frutto delle esperienze apprese ai diversi livelli della gerarchia.
Fu appunto il fatto di aver creato, mantenuto e sviluppato siffatte capacitò ciò che permise alle
imprese americane e tedesche, nel ventennio precedente la Prima guerra mondiale, di estromettere
rapidamente le ditte inglesi dai mercati internazionali e addirittura dal mercato interno britannico
nella maggioranza delle industrie capital-intensive nate dalla Seconda rivoluzione industriale. E lo
stesso motivo rese possibile alla Germania di riprendere velocemente il proprio posto sui mercati
mondiali dopo dieci anni di guerra, sconfitta e inflazione, fra il 1914 e il 1924, e di riconquistarlo
poi nuovamente negli anni Cinquanta all’indomani di una guerra ancora più devastante.
Così pure fu la cultura dell’organizzazione quella che permise alle imprese giapponesi dapprima di
operare un massiccio trasferimento di tecnologia dall’Occidente al Giappone, poi di sfruttare
appieno le economie di scala e di gamma e di acquisire le capacità organizzative necessarie per
assicurare un vantaggio competitivo sui mercati internazionali.
I sistemi economici che conformemente al modello sovietico affidavano a enti di pianificazione
centrali il compito di coordinare i flussi correnti di beni nei processi di produzione e distribuzione
future, impedirono che i dirigenti delle unità di produzione e distribuzione apprendessero come
coordinare efficacemente i flussi di beni dai fornitori e verso i mercati sulla base di una precisa
conoscenza dei mezzi utilizzabili. La mancata formazione di queste capacità ha avuto un ruolo
centrale nella disgregazione delle economie a pianificazione centralizzata.
La teoria neoclassica vede nell’impresa una persona giuridica con un set di produzione da cui il
manager, agendo razionalmente con piena cognizione, scegliendo lo scenario più suscettibile di
massimizzare i profitti o il valore attuale dell’azienda. La teoria del prepotente/agente fa sua l’idea
neoclassica dell’impresa come set di produzione ma le dà una gerarchia direttiva. La capacità dei
“proprietari” di tenere sotto controllo i manager, ai quali hanno affidato la scelta e l’attuazione dei
progetti di produzione. I problemi del modello dell’“agenzia” sono i problemi dei proprietari alle
prese con l’informazione asimmetrica, la valutazione delle prestazioni e gli incentivi.
La teoria dei costi di transazione è più attinente alla vicenda storica e al concetto-chiave delle
capacità organizzative perché tiene conto dell’investimento nelle attrezzature e nelle qualificazioni.
Nelle nuove industrie a forte intensità di capitale la necessità per l’impresa di assicurare un volume
di produzione costantemente elevato era molto più pressante che nelle vecchie industrie a forte
impiego di manodopera; mentre le imprese dei settori capital-intensive si dotavano d’una propria
rete di distribuzione, quelle delle industrie labor-intensive continuavano ad appoggiarsi a terzi per la
distribuzione dei loro prodotti. Nelle industrie capital-intensive la spinta a internalizzare variava
secondo la fonte degli approvvigionamenti, il carattere della tecnologia produttiva e le dimensioni e
le esigenze dei mercati. Così pure la spinta all’integrazione verticale variò con la crescita del settore
e man mano che le sue imprese leader si espandevano sui mercati più lontani.
Nella Teoria evolutiva dell’impresa espressa da Nelson e Winter nel 1982 (An evolutionary theory
of economic change) veniva posto l’accento non sullo scambio (grado di transazioni) ma sulla
produzione, a differenza dell’ortodossia (neoclassica) e della dottrina dei costi delle transazioni, che
mettono al centro della scena la pattuizione assegnando un ruolo di supporto all’economia della
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produzione e al suo costo. Il concetto centrale di Nelson e Winter è quello della routines: «Nella
teoria evolutiva la peculiarità dei modi in cui le imprese entrano in relazione con i proprietari, i
clienti e i fornitori di input, sono tutte ricondotte sotto il titolo di routines organizzative». La
definizione che essi danno di routine è estremamente flessibile. Le routines sono per essi “le
capacità dell’organizzazione” che a loro volta ne diventano i “geni”.
In un recente articolo Nelson presenta «una teoria emergente delle capacità dinamiche
dell’impresa» dove mette a fuoco tre aspetti dell’impresa, diversi pur se fortemente collegati:
strategia, struttura, e nucleo di capacità.
Secondo Nelson sono la strategia e la struttura a formare le capacità delle imprese, e non le
transazioni cui esse partecipano. La strategia è quella di cui parlano gli studiosi di management: un
insieme di larghi impegni che l’impresa persegue, che definiscono e razionalizzano i suoi obiettivi e
il modo in cui essa intende conseguirli. La struttura, per Nelson, consiste nel modo in cui
un’impresa è organizzata e governata, in cui le decisioni vengono effettivamente prese e attuate;
essa perciò determina largamente ciò che l’impresa fa in concreto, nel largo quadro che la strategia
si è data. L’emergente teoria delle capacità dinamiche dell’impresa riconosce la centralità dei
processi di produzione e distribuzione e dell’apprendimento organizzativo nella creazione, nello
sviluppo e nella trasformazione di quei processi; inoltre dà rilievo alle differenze fra le tecnologia e
le attività delle diverse industrie dei diversi settori.
Sulle ceneri della ditta Bocconi nel 1917 è creata La Rinascente da cui a sua volta per mitosi
nel 1931 ha inizio la Standa. All’inizio del secolo sono presenti tutti (o quasi) gli attori che
domineranno la scena industriale sino ad oggi. In Italia la struttura oligopolistica è ancora più
ristretta data la relativa povertà del mercato interno.
III. Gli attori.
Alexander Gerschenkron postula l’esigenza dei fattori sostitutivi (del semplice imprenditore)
per promuovere l’industrializzazione dei Paesi late comer. Essi sono la banca universale - se il
ritardo è relativamente contenuto - e lo Stato - se il grado di arretratezza è maggiore.
In Italia attorno al 1900 è grande il contributo della banca universale, soprattutto la COMIT e il
Credito Italiano, alla fondazione di interi settori e alle più importanti iniziative industriali. Ma è
soprattutto lo Stato il fattore decisivo, quello al quale la stessa banca guarda come rete
protettiva di ultima istanza. Per l’Italia si è parlato giustamente di “precoce capitalismo di
Stato” nel senso che esso si caratterizza come il maggiore operatore economico-finanziario sin
dall’unificazione: per la creazione di debito pubblico, per la pressione fiscale, per il vasto
processo di privatizzazione de territorio nazionale, tutti strumenti con i quali finanziare
infrastrutture essenziali come le ferrovie, l’apparato amministrativo, le forze armate, le opere
pubbliche. La rivoluzione nelle comunicazioni e nei trasporti, notevole esempio di
globalizzazione, provoca la massiccia immissione sul mercato italiano di prodotti agricoli
provenienti da oltreoceano, “sommergendo” in tal modo il modello di un’Italia esportatrice di
beni del settore primario. Questa ragione, oltre che quelle relative a esigenze di politica
internazionale, porta nel 1884 alla creazione della prima impresa industriale moderna del Paese:
la Terni. È un episodio strategico della storia economica italiana perché alla Terni lo Stato non
concede solo sovvenzioni, commesse, protezionismo: quando tre anni dopo la nascita, nel 1887,
l’impresa è sull’orlo della bancarotta lo Stato provvede al salvataggio utilizzando la Banca
Nazionale, in seguito la Banca d’Italia, con l’emissione di nuove banconote.
Il salvataggio attraverso l’intervento della banca centrale, è attuato quattro volte:
a. nel 1887 viene salvata la Terni:
b. nel 1911 è la volta dell’intero settore industriale della siderurgia;
c. nel 1922 il privilegio tocca alle attività industriali afferenti a due grandi banche, la Banca
Italiana di Sconto e il Banco di Roma;
d. nel 1933 l’ultimo e più grande salvataggio, quello delle imprese legate alle tre grandi banche
miste, la COMIT, il Credito Italiano, il Banco di Roma.
Nel 1933 nasce l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), ovvero lo Stato imprenditore,
ed è la fine della banca mista. Dopo l’Unione Sovietica l’Italia è il Paese che può vantare la
maggiore estensione di proprietà industriale pubblica.
IV. Il capitalismo politico.
La pervasiva presenza dello Stato ha un forte impatto sull’agire imprenditoriale. Mentre nei
Paesi avanzati la crescita è perseguita per ragioni squisitamente economiche, in Italia si assiste
a tentativi di espansione per meglio contrattare con il potere politico. Durante la Prima guerra
mondiale l’Ansaldo si lancia in un folle progetto di integrazione verticale: dalle miniere alla
fabbricazione di tutte le più significative produzioni metalmeccaniche.
Significativo è l’esempio della Terni nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra
mondiale. Vengono meno le ragioni economiche della siderurgia bellica e il suo leader la porta
a operare nel campo della produzione di energia elettrica e in quello elettrochimico. La
siderurgia bellica però viene mantenuta in attività in quanto formidabile strumento di pressione
nei confronti del governo fascista. È un do ut des: la Terni continua a offrire armamenti anche
quando non ha alcuna convenienza economica, ma il governo garantisce buone condizioni per
la fornitura di energia elettrica, un terreno di prezzi amministrati, e buone posizioni all’interno
di cartelli chimici.
L’esempio della Montecatini: per acquisire una duratura supremazia nel fondamentale settore
dei concimi chimici, l’impresa si lancia nella produzione di azoto sintetico (ricavato da acqua,
aria ed elettricità). La società milanese deve effettuare costosissimi investimenti, ovvero la
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costruzione di centrali idroelettriche: ha bisogno del totale controllo del mercato interno, quindi
chiede a Mussolini dazi che costituiscano barriere insuperabili. In cambio di protezione
tariffaria il governo chiede alla Montecatini una serie di salvataggi di aziende in crisi e di tenere
in vita produzioni obsolete, come la lignite, o autarchiche. L’azienda si appesantisce così con un
danno irreparabile nel differente contesto del secondo dopoguerra. È questa l’origine del
fallimento che porta nel 1966 alla disastrosa fusione con la Edison.
V. Il grande capitalismo privato.
Esiste tuttavia una grande industria italiana orientata al mercato. È il caso della Pirelli, che si
consolida e amplia sin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento rispondendo a commesse pubbliche
nel settore dei cavi telegrafici e telefonici. Pirelli tuttavia costruisce ben presto un’impresa che
compete sul mercato internazionale.
La FIAT è senz’altro un’impresa che “nasce bene”. Fra gli azionisti ci sono i migliori nomi
dell’aristocrazia e della borghesia torinese. Tuttavia la FIAT è l’impresa egemone dell’industria
automobilistica italiana già alla vigilia della Prima guerra mondiale grazie a un imprenditore,
Giovanni Agnelli, il primo a comprendere che l’automobile non è un giocattolo per ricchi ma
un tipico prodotto di massa del Second Wind industriale. Agnelli attua una vasta operazione di
integrazione verticale dalle fonderie ai garage per la vendita che dà alla FIAT un incolmabile
vantaggio sugli altri competitori nazionali.
La Falck fabbrica acciaio con una tecnologia flessibile come quella che consente il forno
elettrico e che punta su un mercato “normale” ovvero non legato a commesse militari, per la
meccanica e lo sviluppo urbano.
VI. Il mercato interno.
Questo capitalismo pur orientato al mercato non si trasforma in capitalismo manageriale
all’americana o famigliar-manageriale alla tedesca a causa della ristrettezza del mercato interno.
VII.Il settore elettrico cuore del potere economico.
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il capitalismo industriale italiano sembra regredire
verso forme feudali. Mentre in Italia si celebra un sistema politico ed economico che va verso il
popolo, la realtà dice di interi rami dell’industria governati da un uomo, Agnelli, Pirelli,
Donegani (Montecatini), Falck, ecc. A fine anni Trenta, Stato e famiglie dominano la grande
industria italiana e la loro azione converge nel controllo del settore elettrico, un’industria resa
possibile dall’eccellenza tecnica dei nostri ingegneri ma che finisce per risolversi in un terreno
di sicura rendita.
VIII.Un miracolo che viene da lontano.
Quando inizia la Seconda guerra mondiale, l’Italia è l’unico Paese del Mediterraneo ad aver
raggiunto uno stabile stadio di industrializzazione. Per l’Italia è la Prima guerra mondiale con le
commesse della Mobilitazione industriale il punto di non ritorno al termine del quale la nazione
è fra le otto più industrializzate del mondo. Già negli anni immediatamente precedenti la
Grande Guerra il Paese è autonomo per una produzione essenziale come quella siderurgica,
mentre un’impresa come l’Ansaldo ha impianti che suscitano l’ammirazione degli addetti
militari tedeschi. Il Lingotto è il più moderno impianto automobilistico d’Europa.
Sinigaglia sin dal 1910 espone un lucido programma si sviluppo e specializzazione degli
impianti a ciclo integrale che diano al Paese prodotti siderurgici su vasta scala, di buona qualità
e a basso prezzo. Sinigaglia, a fine degli anni Trenta, realizzerà il primo stabilimento a ciclo
integrale a Cornigliano, presso Genova, un’esperienza che è all’origine dei grandi successi
degli anni Cinquanta.
IX. La grande impresa protagonista del miracolo.
Gli anni a cavallo del 1960 sono ricordati come il periodo del “miracolo economico” italiano.
Gli imprenditori perseguono le economie di scala e di diversificazione (gamma) lanciandosi
nella costruzione di grandi impianti e grandi organizzazioni. Essi vedono l’essenza del proprio
agire imprenditoriale nella produzioni di masse, che rendono accessibili beni essenziali alla
maggioranza dei consumatori.
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Grande “primo attore” di questa fase è Enrico Mattei, fondatore dell’ENI, che realizza a
vantaggio dell’industria settentrionale una fitta rete metanifera mentre attua un’efficace politica
nel settore del petrolio grazie a geniali e rischiosi accordi con i Paesi produttori. Mattei si
avvale della sua posizione in campo metanifero per strappare alla Montecatini la leadership dei
concimi chimici azotati, a vantaggio degli agricoltori italiani. Le economie di scala realizzate
dall’ENI sono imbattibili.
Altro protagonista della scena industriale italiana è Adriano Olivetti, l’imprenditore più
consapevole delle conseguenze sociali dell’industrializzazione ma così concreto da realizzare
nel campo dei prodotti per ufficio una multinazionale capace di acquisire, alla fine degli anni
Cinquanta, una delle maggiori imprese americane del settore, la Underwood.
Importante è notare come non ci sia differenza in questa golden age fra privato e pubblico.
X. Un approdo “giapponese”?.
Un reddito nazionale che in vent’anni (1950-1970) cresce mediamente del 6% annuo; la FIAT
quinta imprese automobilistica mondiale potenzialmente in grado di competere sul mercato
internazionale con l’esperienza acquisita nel segmento delle small cars; la Olivetti che
primeggia sui mercati internazionali con le sue macchine per scrivere e con le sue calcolatrici
tanto da acquisite una corporation americana di primo rango; Enrico Mattei protagonista della
politica petrolifera internazionale; la siderurgia che passa dal nono al sesto posto nel mondo; il
nucleare che vede il Paese all’avanguardia in Europa; la formazione di nuovi settori industriali
come quello degli elettrodomestici e il generale irrobustimento della struttura produttiva,
cosicché i sarti diventano industriali dell’abbigliamento, i falegnami mobilieri, i calzolai
calzaturieri. Tutto questo dava la sensazione che l’Italia potesse spingersi sino alla frontiera
dell’economia mondiale, come il Giappone, un paese certo lontano ma per molti versi vicino
data la periodizzazione del suo sviluppo industriale e l’importanza in esso dal settore pubblico.
La chiave per comprendere i diversi esiti dei due Paesi è nell’elemento politico istituzionale. Il
Giappone, dove la burocrazia è forte mentre debole è la politica, apprende la lezione: nel
secondo dopoguerra si assiste al ritiro dell’intervento pubblico diretto; i grandi ministeri
dirigono la politica industriale grazie a guideline e moral suasion. Lo Stato protegge e sostiene
le grandi imprese ma le obbliga a confrontarsi con il mercato globale.
In Italia lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall’intervento diretto e dedicarsi alla creazione di un
quadro di regole all’interno delle quali la grande impresa potesse prosperare. Sarebbe stata
necessaria quindi un’efficace protezione degli investitori in Borsa, la promozione di investitori
istituzionali, la revisione della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta hausbank, una
legislazione antitrust e un governo impegnato nelle trasformazioni sociali e di conflitto.
XI. Uno stato politicizzato.
Quella italiana è una società che, date le caratteristiche del processo che ha portato alla
formazione dello Stato unitario, si è sempre contrassegnata per la sua frammentazione
localistica tale da non sopportare un rapporto diretto fra Stato e cittadini.
Alla metà degli anni Cinquanta si intravede uno spoil system. E dato il cosiddetto bipartismo
polarizzato che la natura del maggior partito di opposizione, il Partito comunista italiano, rende
inevitabile, si tratta di uno spoil system a senso unico che finisce per rendere irresponsabili
governo e opposizione. Lo Stato imprenditore diviene sempre più uno strumento per il
consenso, ovvero cresce per incrementare l’occupazione sicuro grimaldello del successo
elettorale.
XII.L’approdo mancato.
L’incapacità di raggiungere i risultati del Giappone si concretizza in cinque episodi:
a. La degenerazione dello Stato imprenditore.
b. Il fallimento dei progetti di frontiera tecnologica. È l’Olivetti che dopo l’improvvisa scomparsa
del suo leader non riesce a concretizzare l’occasione della pionieristica produzione di computer,
un iniziativa i cui costi andavano ben oltre le disponibilità di una impresa familiare. È l’abortire
del grande progetto di dotare il Paese di una rete di impianti nucleari.
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