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Le economie preindustriali erano contrassegnate dalla preponderanza del settore agricolo, che occupava circa l’80%
della popolazione, definendo così un paese molto sottosviluppato. Anche le tecniche utilizzate in coltivazione erano
arretrate e scarsamente produttive.
L’allevamento è altrettanto arretrato, condotto specialmente sulle terre comunali dove esiste il diritto di pascolo. La
coltura fondamentale è quella cerealicola, accompagnata da quella della patata e del mais. Così è sufficiente che il
raccolto in una cattiva annata agraria venga a mancare, perché si abbia la crisi tipica dell’età preindustriale;
la crisi di Ancien Régime: la carestia riduce l’offerta di cibo, il suo prezzo aumenta, la popolazione cittadina ne risente.
L’indebolimento causa malattie; le epidemie si propagano e il tasso di mortalità aumenta.
Nel settore ‘’industriale’’ la situazione non è più felice, e d’altra parte, rimane legata al mondo agricolo. Ovunque, ma
soprattutto dove si è lontani dai mercati, i contadini producono da sé, e quasi totalmente per il proprio consumo, gli
oggetti di prima necessità. Accanto a questa produzione contadina vi è quella degli artigiani che offrono le loro merci
ai mercanti imprenditori che forniscono ai primi la materia prima, ritirando così il prodotto finito (albori del
capitalismo).Le industrie minerarie e siderurgiche hanno scarsa importanza; l’unica industria più importante è quella
tessile.
Nell’economia preindustriale uomini, merci e capitali circolano poco e non si formano mercati omogenei, dove le
merci affluiscano liberamente e regolarmente con prezzi che siano determinati in rapporto domanda-offerta, a causa
dello scarso grado di integrazione geografica, dovuto alle pessime condizioni dei mezzi di comunicazione. Le vie più
usate, meno costose e più sicure per trasportare merci, sono quelle d’acqua, marittime o interne. Queste saranno
continuamente migliorate, dando anche inizio all’era dei canali. Molto meno importante era il trasporto via terra,
appunto per le pessime condizioni delle strade, che dove esistevano erano poco curate. Lentezza e impossibilità di
trasportare considerevoli quantità di merci rendevano il costo dei trasporti elevatissimo, e di conseguenza, gli
interventi di soccorso alle regioni colpite ad es. da carestie, era impossibile.
Il solo settore che dava segni di vitalità per i lauti guadagni che consentiva, nonostante i forti rischi, era quello del
commercio internazionale, che rappresentava la via più semplice perché un’economia passasse dallo stato
preindustriale a quello industriale. Infatti grazie alle esportazione dei pochi prodotti che eccedevano la domanda
interna e all’importazione di quelli la cui produzione era insufficiente, era possibile offrire più beni e più servizi sul
mercato interno e accrescerne il valore del prodotto nazionale. In tal modo si aveva un miglioramento del livello di
vita, e si spingevano i produttori interni a specializzarsi e ricorrere a forme di organizzazione e innovazione del tutto
nuove, realizzando economie di produzione. Dalle economie immobili si passerà ben presto a forme capitalistiche.
È solo dal XVIII secolo che questa situazione inizia a mutare, con meccanismi non del tutto chiari; è certo però che c’è
una differenza sostanziale tra una società industrializzata e una preindustriale: nella prima vi è uno sviluppo sostenuto
nel lungo periodo sia nella popolazione che nella produzione.
Il saggio (tasso) di sviluppo della popolazione dipende dal saggio di incremento naturale, vale a dire dalla differenza tra
il tasso di natalità e quello di mortalità (T N – T M ). Nell’economia preindustriale i tassi lordi di natalità (nati vivi su 1000
abitanti in un anno) variano in genere tra il 35-50%. I tassi di mortalità oscillano tra il 30-40%. Perciò se non si avessero
fattori catastrofici, come guerre, carestie o epidemie, il tasso di incremento naturale varia tra il 5-10%.
[ciò vale a dire che si ha una crescita annua della popolazione tra lo 0,5 e l’1% nelle economie preindustriali]
Se lo consideriamo nel lungo periodo, l’incremento demografico fu il risultato non tanto dell’aumento della natalità
quanto della diminuzione della mortalità. Nei paesi dove la rivoluzione industriale si verificò, le grandi epidemie
scomparvero e la mortalità odinaria si ridusse. La crescita della popolazione fu però inferiore a quella della produzione
e questo significò un aumento pro capite, il che pose in essere nei diversi paesi un processo cumulativo:
più aumentava la ricchezza, più aumentava la possibilità di formazione del surplus che invece di essere consumato
veniva investito e contribuiva ulteriormente alla crescita del reddito.
La trappola maltusiana, cioè il circolo vizioso per cui nei secoli dei secoli un aumento della popolazione aveva
invariabilmente significato un aumento della miseria, era stata rotta.
I risultati dell’aumento del reddito pro capite possono essere visti in modo sintetico attraverso indici come
l’aspettativa di vita e la quota di reddito assorbito dalla spesa per il vitto.
- In un’economia preindustriale: l’aspettativa di vita alla nascita era meno di 30 anni; i ¾ del reddito personale
è destinato all’acquisto di derrate alimentari
- In un’economia industrializzata: l’aspettativa di vita supera i 70 anni; non esiste più la fame e la spesa per le
derrate alimentari non supera ¼ della spesa media personale.
A cosa si deve la diminuzione della mortalità a quel tempo risulta ancora oggi non chiaro, ma è certo che un ruolo
importante lo ebbe il miglioramento della medicina e dell’alimentazione, che contribuì a rendere la popolazione
meno esposta alle malattie e più difficilmente fu colpita da gravi epidemie.
Un aumento della popolazione significava una maggiore domanda dei prodotti agricoli e di materie prime; ciò
significava dal canto suo o un perfezionamento dei metodi agricoli, o un forte ampliamento delle terre destinate alla
coltura; ma meglio ancora, una combinazione delle due cose, che avrebbe fatto aumentare l’occupazione anche nelle
città, data la superflua manodopera che si sarebbe creata nel settore agricolo.
È con il nome di Rivoluzione agraria che si indicano le grandi trasformazioni nella tecnica e nelle usanze agrarie che in
tutta Europa segnarono l’avvento dei metodi della coltivazione contemporanea. Lo sviluppo agricolo è infatti la
condizione necessaria per aversi industrializzazione. Aumento della popolazione e urbanesimo furono anche elementi
che contribuirono a una radicale trasformazione nella politica granaria inglese. Londra infatti, divenne il mercato più
grande del paese e non poteva essere più rifornito da campagne circostanti, ma doveva essere fatto dall’intero paese
(creando di fatto un mercato omogeneo nazionale).
Nella prima metà del ‘700 la curva delle esportazioni dei cereali inglesi è in continua ascesa e questo fa capire che ci si
trova innanzi ad un aumento della produzione che riceve sempre nuovi stimoli da una domanda che si eleva
continuamente. Raggiunto il picco, agli anni ’60 del ‘700, la curva inverte il suo andamento. I prezzi interni aumentano,
le esportazioni cedono il passo alle importazioni. Questa inversione di tendenza non rallenta l’opera di trasformazione
in agricoltura diretta ad aumentare la produttività e trasformare in seminative tutte quelle terre non coltivate.
Per ottenere il primo fine si fa ricorso a perfezionamenti della tecnica agraria, si mutano cioè i sistemi di rotazione
triennale (con la perdita di 1/3 delle terre coltivabili poiché venivano tenute a maggese) e si introducono nuove
colture.
Sull’esempio degli agricoltori olandesi, si aboliva il maggese sostituendolo con piante foraggere e al tempo stesso,
aumentare la disponibilità di concime e riposando il terreno.
Le riforme di questi innovatori furono attuate quando i proprietari terrieri iniziarono ad interessarsi al miglioramento
delle loro terre, introducendo anche la rotazione quadriennale inglese: grano, ravizzone, avena, trifoglio.
Il movimento per il rinnovamento dell’agricoltura europea doveva attraversare 3 tappe obbligatorie: liberazione della
persona lavoratore, o emancipazione dei servi; la liberazione della proprietà dalle restrizioni legali; una maggiore
libertà d’uso della terra.
1) In Inghilterra l’emancipazione legale dei lavoratori era già avvenuta. A seguito della peste nera lo stato servile finì
completamente nel ‘500. Rimasero alcune restrizioni alla libertà di movimento come lo Statuto dell’apprendistato che
ostacolava il libero movimento da un impiego a un altro o la Legge sul domicilio che tendeva a immobilizzare gli operai
nelle loro parrocchie di nascita.
2) la liberazione delle proprietà dalle restrizioni legali. Se vi è una perfetta mobilità nel trasferimento della terra,
questa tende a diventare possesso di quei coltivatori che possono pagare i più alti prezzi per farne un uso produttivo.
Le uniche restrizioni che rimasero furono quelle create con cause vincolanti testamentarie:
-Maggiorascato: istituto col quale, per assicurare integrità del patrimonio, questo veniva dichiarato indivisibile e
trasmesso nell’ambito della stessa famiglia al maschio, di maggiore età, di grado più vicino al defunto;
-Fidecommesso: chi era istituito erede di un patrimonio aveva l’obbligo di trasmetterlo integro ad altra persona.
Nel XVIII secolo queste istituzioni furono attenuate, destando l’interesse di molte persone facoltose, che in un modo o
nell’altro si appropriavano della terra, vista come fonte di profitto e di potere sociale. Vi investirono grandi capitali
attuando i nuovi sistemi agrari e costruendo edifici dedicati all’allevamento, alla conservazione,ecc.
3) Infine la maggiore libertà di uso della terra fu il passaggio che permise il compimento definitivo di questa
trasformazione economica, e condusse alla quasi totale scomparsa delle terre incolte d’uso comune e delle terre
aperte.
LE ENCLOSURES
Le enclosures o appoderamenti, costituirono il passo decisivo verso il trionfo della grande proprietà. Grazie a queste,
vennero recintate le proprietà comune, trasformandole in proprietà private. Questo movimento può essere
considerato come una fase del processo che condusse a una maggiore mobilità della terra.
Prima di queste, il sistema dei campi aperti prevedeva la divisione dei seminativi di ogni villaggio in tre zone, 2
coltivate e 1 a maggese. Ad ogni coltivatore venivano assegnate annualmente delle strisce di terreno, non formanti un
unico appezzamento, ma disperse tra quelle degli altri. I prati erano tenuti in comune e tutti avevano il diritto di
pascolo. Questo sistema di assegnazione a rotazione dei terreni impediva qualunque iniziativa sul piano individuale e
qualsiasi miglioramento nelle tecniche.
Perché poteva aversi progresso occorreva una concentrazione della proprietà, che si ebbe prima per accordo
volontario, poi per legge del Parlamento (Enclosures Acts).
Nel XIX secolo tutti i campi aperti erano stati appoderati e si era avuto il riordinamento della proprietà. Le
conseguenze furono profonde e a farne le spese furono specialmente i proprietari di piccoli appezzamenti che erano
privi di mezzi per adeguarsi alla moderna agricoltura; la maggior parte si trasformò in braccianti o abbandonò la
campagna. Dal punto di vista economico emerse che il sistema dei campi aperti comportava ingenti perdite sotto tutti
i punti di vista: infatti, il sistema comportava perdita di lavoro e di tempo, poiché le strisce affidate ai lavoratori erano
frammentarie (le operazioni preparatorie e finali richiedevano molto tempo) e tutti facevano la stessa cosa allo stesso
tempo, impedendo l’uso efficiente della terra.
L’aumento della popolazione quindi imponeva un diverso, più efficace, modo di produzione. La domanda poteva
essere soddisfatta solo da produzione interna e questa poteva aumentare in 2 modi:
- Ampliando l’estensione dei terreni da coltivare utilizzando le terre incolte;
- Migliorando la produttività dei terreni coltivati, grazie ai mutamenti nelle rotazioni, ai migliori metodi di
coltivazione, e l’impiego di nuovi strumenti.
L’insieme dei mutamenti condusse ad una riorganizzazione dell’agricoltura e a nuovi metodi di vita, ma ci furono pro e
contro, soprattutto i gravi costi sociali e l’estinzione dei proprietari-coltivatori; le enclosures privarono i piccoli
affittuari del diritto di pascolo favorendo il fenomeno dell’affitto contro pagamento.
I proprietari cominciarono a dare in affitto le loro tenute ad affittuari. I primi fornivano gli investimenti permanenti, i
secondi il capitale circolante. Poiché l’affitto aveva durata molto lunga l’affittuario coltivava la terra con cura per
aumentarne la rendita. Ma in questa rapporto bilaterale poteva talvolta subentrare una terza parte: il lavoratore
agricolo. Questi rappresentavano il costo sociale di questo sistema e, infatti, erano dei lavoratori salariati (alle
dipendenze dell’affittuario o del proprietario terriero) senza nessuna speranza di poter divenire proprietari o
affittuari.
La situazione ora era mutata. Grazie agli appoderamenti, agli interventi in favore delle vie e i mezzi di comunicazione,
che aprivano nuovi mercati ai produttori, ci fu un aumento generale della produzione. Nonostante questa continuasse
ad aumentare, l’andamento dei prezzi continuava al rialzo. Questo fenomeno è spiegato con l’aumento della
popolazione e col fatto che qualche cattivo raccolto poteva far variare il rapporto domanda-offerta nel brevissimo
periodo; a ciò vanno aggiunte le guerre napoleoniche e l’inflazione derivante dal Restriction Act
(sospensione dell’obbligo di conversione di biglietti di banca in oro).
• Il lavoro veniva svolto nella casa (cottage) del lavoratore, da qui il nome di cottage industry, e coinvolgeva
l’intera famiglia.
• L’influenza del capitale in questo stadio della produzione industriale era molto ridotta, in quanto l’unico
strumento che richiedesse un certo investimento era il telaio, mentre per altre fasi della lavorazione si
usavano strumenti a basso costo. Il prestito per l’acquisto del telaio era facilmente ottenibile.
• L’azienda non rappresentava l’unica occupazione, in quanto il lavoratore non interrompeva il suo rapporto
con la terra, aggiungendo l’agricoltura al suo reddito.
Questo tipo di organizzazione della produzione fu chiamato sistema domestico. Idealmente l’operaio-maestro era
proprietario del locale dove lavorava e degli arnesi, acquistava la materia prima e disponeva del prodotto finito. Da
questo tipo ideale ci si allontanò quando i filatori invece di acquistare la lana, la ricevevano da ricchi mercati, ed erano
pagati a cottimo per filarla. Si ha quindi una prima trasformazione; da imprenditori a lavoratori a pagamento per un
altro imprenditore (il mercante). Quest’ultimo iniziò a possedere i telai ai quali lavoravano i tessitori e, anche se
raramente, iniziò a radunare i lavoratori in un unico edificio.
Dall’industria domestica si passa così al putting out system , la cui caratteristica essenziale è attribuire ai lavoratori,
che lavorano nelle loro case, le singole fasi di lavorazione. Al centro di questo processo vi è la figura del mercante
imprenditore che organizza e dirige l’intero processo produttivo e cura la commercializzazione del prodotto.
(accenno di organizzazione capitalistica) Il sistema domestico presentava notevoli difetti, tra i più importanti:
- Produzione diseguale di quantità e qualità;
- Condizioni di lavoro cattive, eccessive, con paghe basse;
- Sistema di produzione molto decentrato da impedire il controllo sulla produzione stessa;
- Forti perdite di tempo e di manodopera nell’assegnazione delle merci ai diversi stadi di produzione;
- Incapacità del sistema di reagire con prontezza alla domanda di mercato che si ampliava.
Nell’ultima parte del ‘700 il sistema domestico venne sostituito da quello della fabbrica. La trasformazione grazie a 2
momenti:
1. Mutamenti dell’organizzazione seppur con scarse variazioni nei metodi produttivi. Uno dei miglioramenti
apportati al sistema domestico fu la riunione delle operazioni sotto il controllo del mercante capitalista.
Tuttavia il mercante imprenditore era interessato fondamentalmente all’economia che poteva conseguire e
poco si curava di regolare il lavoro o migliorarne la tecnica; al lavoratore era interamente affidato il compito
della produzione.;
2. Il miglioramento della tecnica produttiva .Una nuova tappa si ebbe nel miglioramento dei metodi di scambio,
che fu raggiunta quando la proprietà dei mezzi di produzione e dei locali passò ai mercanti imprenditori. A
questo punto le spese di produzione gravavano su di loro e quindi furono in grado di regolare la produzione e
di conseguenza veniva a mutare il prezzo. Occorreva perciò ridurre i costi di produzione, riducendo i salari.
Ma alla riduzione del costo, in Inghilterra, vi si giunse con l’invenzione delle macchine. Da qui la tecnica
produttiva sarebbe migliorata.
Il perché la rivoluzione industriale avviene in Inghilterra sta anche nel fatto che questa godeva di certi vantaggi, come
il possesso delle materie prime indispensabili grazie alle colonie; ingenti capitali; sistema idrografico sviluppato. Poiché
le merci dovevano vendersi su larga scala con necessità di ridurne i costi, si richiedeva l’uso di macchine. In più, in
Inghilterra era disponibile un considerevole capitale liquido nelle mani di quel ceto mercantile ricco e dotato di spirito
d’impresa, incline ad operare sul piano internazionale grazie alla potenza navale e coloniale.
Londra divenne il mercato più importante e il maggiore centro finanziario del mondo. Il ruolo del commercio estero fu
estremamente importante per l’accelerazione della rivoluzione; i tassi d’interesse crollarono e il capitale veniva
investito maggiormente nella realizzazione di fabbriche. Questo insieme di cose portò ad una forte organizzazione
industriale, innovativa per l’uso di macchine e accentrata per quanto ne riguarda il controllo.
LE INNOVAZIONI
Un altro gruppo di fattori, altrettanto importanti, fu quello delle innovazioni apportate alla tecnica produttiva. Le
industrie più rappresentative di questo processo sono quelle tessili, siderurgiche ed estrattive. Le invenzioni
considerato come elementi fondamentali della rivoluzione industriale, possono essere divise in due categorie:
1. Macchine capaci di effettuare quei lavori che prima erano eseguiti a mano;
2. Macchine generatrici di energia, idraulica o a vapore, in sostituzione di quella umana o animale.
La prima industria ad essere meccanizzata fu quella del cotone. I due rami principali, filatura e tessitura, avevano gravi
problemi di velocità di produzione. Lo squilibrio fu accentuato quando si introdusse la ‘’navetta volante’’ (John Kay),
grazie alla quale un solo tessitore compiva il lavoro di due su una trama più grande.
Nel 1764 si introdusse la macchina filatrice Jenny (Thomas Hargreaves); con questa si potevano far girare 8 fusi
producendo più filo a bassa qualità. Fu usata dagli artigiani.
Nel 1769 la macchina waterframe (Richard Arkwhright) permetteva la produzione di filo sottile e di qualità, ma era
una macchina ingombrante e manovrabile solo con forza idraulica. Fu usata nelle fabbriche.
La situazione si era capovolta, vi era più filo che tessitura.
Nel 1765 si brevettò il telaio meccanico (Edward Cartwright), che permetteva ad una sola persone di tessere una
quantità tripla rispetto al telaio a mano.
Altrettanto importanti furono le innovazioni nell’industria siderurgica. La domanda era elevata e l’offerta non era
capace di adeguarsi. Nella metà del XVIII secolo si introdussero miglioramenti come l’utilizzo del carbone minerale
anziché quello di legna, sostituendo i classici forni con le fornaci o altiforni, che utilizzavano come combustibile il coke
(distillato di carboni fossili) che permetteva di ottenere temperature più elevate. Contemporaneamente s’erano avuto
progressi nella produzione della ghisa, del ferro e dell’acciaio, trovando il modo di dare al prodotto la forma
desiderata. Le conseguenze di questi mutamenti furono:
I nuovi processi moltiplicarono le richieste di carbone, ma l’estrazione presentava 2 gravi ostacoli: l’invasione delle
acque nelle cave e la presenza di grisou (miscele di gas all’interno della miniera), che comportava pericolo di
esplosione. L’applicazione delle scoperte scientifiche permise l’utilizzo della macchine a vapore per il primo problema;
per il secondo furono utilizzate lampade di sicurezza. Il consumo passò dalle poche migliaia di tonnellate del 1700 ai
28 milioni del 1830.Cosa significò quindi in conclusione la rivoluzione industriale? Significò quell’insieme di
cambiamenti economici che sono impliciti quando si ha il passaggio da un’economia preindustriale, ad una fase molto
avanzata, dove produzione pro capite e livelli di vita sono relativamente alti. Questa trasformazione ebbe le sue basi in
una serie di mutamenti collegati nell’organizzazione economica e nella tecnologia.
Da essa nacque un sistema nuovo che implicò anche profonde alterazioni nella struttura della società. Dal lato politico
mise in evidenza la nuova classe media, che eliminò i residui feudali. Dal lato sociale ebbe altri effetti, come il
mutamento dell’Inghilterra da paese rurale a paese in industriale, favorendo il formarsi di una classe di dipendenti
salariati, creando scissione capitale-lavoro.
1.5 ECONOMIA INDUSTRIALE E CICLI ECONOMICI
Il grande sviluppo dell’economia permesso dalla rivoluzione industriale ha portato elementi positivi e negativi.
Grazie alla meccanizzazione sempre maggiore, la produzione dei paesi industriali è continuamente salita, mentre le
strutture base si modificavano. La forza lavoro occupata nell’agricoltura diminuiva a favore del settore secondario e
poi, più tardi, a favore di quello terziario dei servizi. L’espansione ha portato con sé aspetti negativi come: frequenti
crisi, ossia periodi di contrazione delle attività economiche che mettono in difficoltà l’intero sistema.
Lo scoppio di una crisi avveniva quasi sempre allo stesso modo: si ha un periodo di congiuntura favorevole,
caratterizzato da un forte incremento della domanda e da un rialzo dei prezzi; sollecitati da ciò i produttori iniziano a
produrre di più ampliando gli impianti e costruendone di nuovi.
Per fare ciò occorrono investimenti e, nella maggio parte dei casi, i capitali vengono presi a prestito dalle banche.
Spesso però la crescita della produzione raggiunge un punto limite aldilà del quale risulta eccessiva rispetto alla
richiesta; il rapporto domanda-offerta si inverte e si ha la classica crisi da sovrapproduzione: le merci rimangono
invendute; i prezzi scendono, molte industrie chiudono.
Se prendiamo in considerazione il periodo che va dalla fine dell’800 al 1940, notiamo come esso sia caratterizzato da
crisi che si susseguono a livelli regolari. Periodi di prosperità si alternano a periodi di depressione e queste fluttuazioni
nell’economia si presentano ciclicamente.
Tuttavia, queste variazioni nel ritmo di sviluppo non impediscono che il trend di lungo periodo dell’economia sia
orientata verso l’espansione.
Se esaminiamo il lungo periodo notiamo come il trend relativo alla produzione sia rimasto all’aumento, mentre quello
dei prezzi ha spesso avuto delle inversioni di tendenza; se guardiamo invece il breve e medio periodo, notiamo come i
prezzi e quantità abbiano oscillato con ritmo ciclico attorno ai trend di riferimento.
I CICLI
Questi fenomeni ciclici, l’alternarsi dei periodi di prosperità con alti livelli di reddito ed occupazione e di periodi di
depressione con redditi bassi e vasta disoccupazione, sono stati oggetto di studio per comprenderne le cause e
suggerirne eventuali rimedi.
Secondo Mitchell, il ciclo economico può essere definito come una fluttuazione nell’attività economica globale.
Siccome però la manifestazione più completa di questa attività è data dal reddito nazionale reale, al quale è legato il
livello di occupazione, si può dire che il ciclo economico è una fluttuazione nel livello di reddito e dell’occupazione. A
queste fluttuazioni possono associarsi altre serie statistiche, ad es. quelle dei prezzi all’ingrosso. Graficamente:
Nel movimento si possono distinguere 4
fasi:
Per Schumpeter, bisogna invece fissare l’attenzione non sui due punti di svolta superiore o inferiore, ma sui punti di
flesso che si riscontrano laddove la curva è intersecata con la linea di trend. È in questi punti che si verifica un
cambiamento fondamentale nel ritmo di aumento o di diminuzione del reddito e dell’occupazione. Secondo
Schumpeter che stabilisce un preciso rapporto tra innovazioni e andamento ciclico (che attribuisce a 4 fattori
principali: spese militari, sviluppo e mutamenti della popolazione, risparmi, innovazioni); sono quindi i flessi e non i
punti di svolta i punti essenziali del ciclo. Perciò le 4 fasi dovrebbero chiamarsi:
1) Prosperità;
2) Recessione;
3) Depressione;
4) Ripresa.
flesso
Chi per primo svolse una trattazione sistematica del fenomeno fu Clément Juglar.
Fu il primo a scoprire che le crisi, che egli riteneva di natura monetaria, bancaria e finanziaria, si inserivano in
meccanismi determinanti a funzionamento ciclico, che ai periodi di prosperità si sarebbero seguiti automaticamente
periodi negativi. Le crisi si collocavano come punti di inversione di tendenza in una serie di onde successive di
espansione e depressione.
Per lungo tempo si ritenne che esistesse un solo tipo di ciclo, finchè Joseph Kitchin studiando le statistiche dei tassi
d’interesse e i prezzi all’ingrosso in Inghilterra e USA, rilevò, nel 1923, l’esistenza di un ciclo più breve, 2-4 anni, a cui si
sovrapponeva quello di Juglar.
Entrambi questi cicli si iscrivono nei movimenti di lungo periodo dei prezzi la cui analisi è dovuta a Kondrat’ev, il quale
nel 1935 stabilì l’esistenza di onde successive, della durata di circa 40 anni comprendenti una fase di rialzo e una fase
di ribasso dei prezzi e dei tassi d’interesse.
Quindi i cicli più utilizzati sono 3 (in ordine anche di iscrizione, dato che l’ultimo racchiude i primi):
- Kirchin: analisi breve periodo (2-4 anni);
- Juglar: analisi medio periodo (8-12 anni);
- Kondrat’ev: analisi lungo peirodo (40-50 anni).
Il ciclo di Kondrat’ev comprende una fase positiva, contrassegnata dal rialzo dei prezzi, dei tassi d’interesse e della
produzione (fase A) e una fase negativa, contrassegnata da ribasso dei prezzi, dei tassi di interesse, e della produzione
(fase B).
1) Fase A dal 1790 al 1815: quella della rivoluzione industriale, nella quale l’economia è in un periodo di
espansione;
2) Dalla Restaurazione alle rivoluzioni del 1848, l’andamento si inverse, l’economia entra in una fase B;
3) Tra 1850 e 1870 trionfa il libero scambio e si ha nuovamente espansione economica, grazie alla scoperta di
giacimenti auriferi in California e Australia, i quali determinano un aumento dei prezzi. Quindi una fase A;
4) A partire dal 1873, l’andamento muta di nuovo. Si ha una forte depressione fino al 1896. Si torna in una fase
B. I prezzi crollano per la diminuzione dell’oro. Il libero scambio cede il posto al protezionismo e si riapre la
corsa al colonialismo;
5) Sul finire del secolo c’è la scoperta di nuove miniere d’oro in Africa e in Alaska; è l’epoca della Belle Epoque. È
una fase A.
6) Il dopoguerra, con le crisi del ’21 e del ’29 fa entrare nuovamente l’economia in una fase B, che terminerà
con lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Dopo questo diviene difficile utilizzare il ciclo di Kondrat’ev in quanto il problema dominante del secondo dopoguerra
è stato il rialzo dei prezzi e l’inflazione e le politiche governative di stampo keynesiano hanno sempre mirato a
mantenere produzione e occupazione, anche a scapito della stabilità dei prezzi a livelli elevati.
Fino alla metà del secolo l’Europa occidentale vide il susseguirsi di ottime annate mentre la curva dei prezzi assumeva
un andamento discendente e per le grandi estensioni di terreno seminato a grano, questo significava una forte offerta
sul mercato; la produzione di oro diminuì in quantità insufficiente ai bisogni del commercio. Queste condizioni
rivalutarono l’oro e, di conseguenza, il potere di acquisto della moneta aurea era aumentato, comportando un effetto
deflazionistico e quindi, una diminuzione dei prezzi.
Per ridurre i danni che la discesa dei prezzi apportava ai grandi proprietari e agli affittuari, il Parlamento inglese (dove
dominavano esponenti delle classi agrarie) adottò una politica protezionistica imponendo la proibizione delle
importazioni fino a che il prezzo del frumento non toccasse una certa cifra (82 scellini il quarter).
Gli effetti di questo protezionismo furono molto discussi e il governo fu costretto a intervenire molte volte.
Tra il 1828 e il 1832 si ricorse allora ad una nuova politica introducendo il sistema della scala mobile. Si partiva dal
presupposto di assicurare ai produttori un prezzo che coprisse le spese di produzione più un certo utile; per far ciò si
ponevano in rapporto 2 elementi: il prezzo del grano e il dazio di importazione.
Poiché il prezzo del grano doveva restare il più possibile costante, nel caso in cui fosse salito, il dazio veniva ridotto in
modo da favorire le importazioni dall’estero, aumentando l’offerta e facendo diminuire il prezzo; nel caso in cui il
prezzo del grano fosse diminuito, il dazio all’importazione veniva elevato per evitare un’importazione che potesse
diminuire ulteriormente i prezzi. Nella realtà questo sistema presentava delle complicazioni:
I malumori contro le leggi sul grano, che favorivano i proprietari terrieri e danneggiavano industriali e operai,
andarono aumentando.
Animatore dell’opposizione al protezionismo granario, considerato dannoso allo sviluppo del paese, fu l’economista
Davide Ricardo. Secondo le sue tesi, il continuo aumento della popolazione avrebbe richiesto la messa a coltura di
un’estensione sempre maggiore di terreni, fino ad includere quelli di pessima qualità. In tal modo la rendita sarebbe
dipesa dalla diversa fertilità dei terreni e dalla concorrenza che si facevano gli affittuari per assicurarsi i terreni
migliori.
L’incremento della popolazione comportava un aumento della domanda di cereali il cui prezzo, determinato
essenzialmente dalla quantità di lavoro necessario a produrli, si sarebbe elevato a causa della maggior quantità di
lavoro richiesto per aumentare la produzione (Teoria del valore del lavoro. Il valore di scambio di una merce = totale
del lavoro incorporato.)
Di qui la necessità di elevare i salari, ma riguardava solo i salari nominali, senza alcun miglioramento nelle condizioni
della classe operaia, ma con danneggiamento degli industriali (+ salario per comprare + grano).
I prezzi dei prodotti industriali, che a loro volta erano determinati dalla quantità di lavoro richiesta per produrli, non
richiedeva quantità addizionali di lavoro, come quella granaria; conseguenza: prezzi fermi e salari in aumento avrebbe
portato ad una diminuzione continua dei profitti, fino ad annullare lo spirito imprenditoriale.
Nel pensiero di Ricardo, la salvaguardia dei profitti industriali, permetteva lo sviluppo della produzione nazionale; di
qui la necessità del libero scambio, della libera importazione del grano che avrebbe permesso di non porre a coltura
terre meno fertili e avrebbe ridotto il circolo vizioso della riduzione dei profitti.
3.2 IL LIBERO SCAMBIO
L’abolizione della legislazione protettiva dei grani fu chiesta formalmente dall’ Anti Corn Law League formata nel
1838. Gli argomenti che portavano a sostegno delle tesi abolizionistiche erano riprese da Ricardo; in parte erano di
tipo umanitario – la necessità di alimenti a buon mercato che avrebbero consentito al popolo un più elevato tenore di
vita – in parte di tipo interessato – il prezzo del grano tenuto artificialmente alto costringeva gli industriali ad elevare i
salari e aumentare i costi di produzione. Lo sviluppo dell’industria inglese aveva comportato l’insufficienza di
assorbimento della produzione industriale da parte del mercato interno: era necessario volgersi all’esportazione verso
mercati esteri.
In Parlamento, con l’ascesa al potere di Robert Peel, le cose iniziarono a mutare. All’inizio del suo mandato (1842)
questo rimise in vigore l’imposta sul reddito, che colpiva con un’aliquota del 10% tutte le entrate superiori alle 200
sterline e, si servì di questa fonte d’entrata per ridurre o abolire i dazi di importazione di numerosi prodotti, con
vantaggio del commercio inglese con l’estero.
Nel 1846 le leggi sul grano saranno abrogate, in parte perché Peel riteneva che si dovesse governare con il consenso
dei governanti, in parte perché fu convinto sul piano economico. La vittoria dell’Anti Corn Law League fu la prima
notevole vittoria della borghesia sull’aristocrazia terriera e dell’industria sull’agricoltura. L’abrogazione delle leggi
significò 2 cose:
- Costituì il riconoscimento formale che la Gran Bretagna si era trasformata da paese agricolo in paese
commerciale e industriale la cui economia era basata essenzialmente sulle esportazioni;
- Spinse ad effettuare nuovi miglioramenti nell’agricoltura.
La libera importazione del grano impedì al prezzo del grano di salire anche quando la scoperta dei giacimenti auriferi
di California e Australia fece diminuire sensibilmente il potere di acquisto della moneta e che provocò un forte
aumento dei prezzi;ma nemmeno vi furono dei deprezzamenti sensibili mentre il sistema economico faceva
aumentare i consumi e la domanda.
L’affermazione del sistema fabbrica in Inghilterra fu però lento anche se la produzione industriale andava ad assumere
un ruolo sempre più incisivo nell’economia nazionale; il tipico lavorato inglese nel 1830, non era però ancora
diventato l’operaio del grandissimo stabilimento completamente meccanizzato, ma ci volle del tempo perché questa
trasformazione avvenisse e solo il 1870, convenzionalmente, concluse la transizione almeno per le industrie principali.
Se si eccettuano le cotoniere, le industrie che usavano macchine nel 1830 erano relativamente piccole come le
macchine stesse. Anche nei settori dove c’erano grandissimi stabilimenti, i piccoli produttori indipendenti
continuavano a contrastare il predominio della fabbrica, la quale non era ancora di rilevanti dimensioni, ma che
continuò ad attirare lavoratori domestici fino al 1870, quando divenne predominante in tutti i settori industriali.
Questa serie di mutamenti ebbe riflessi nel resto del mondo; negli anni intorno al 1830 l’Inghilterra andava
trasmettendo all’Europa e ai paesi oltreoceano, sia per influenza diretta che attraverso l’esempio, nuovi metodi di
produzione, nuove politiche economiche e nuovi atteggiamenti in campo sociale, adatti a favorire un rapido sviluppo
dell’economia. Era di fatto il motore dello sviluppo che imprimeva la sua spinta soprattutto mediante l’espansione del
commercio internazionale e l’esportazione di tecnici e capitali.
Ovunque si affermasse il sistema fabbrica significava avere in conclusione una direzione centrale con lavoratori
concentrati in edifici attrezzati con macchinari e organizzati su vasta scala.
L’industria che maggiormente progredì in questo periodo fu la tessile e, tra i suoi settori, specialmente quello
cotoniero, il cui sviluppo si può identificare nelle importazioni di cotone greggio, nella manodopera e all’entità delle
esportazioni e al largo impiego dei macchinari (sicuramente il più rilevante fu il telaio meccanico, il quale rivoluzionò
completamente tale settore).
Anche nell’industria della lana si verificarono dei mutamenti, ma furono molto minori di quelli della cotoniera.
All’introduzione delle macchine ed ai miglioramenti nella tecnica corrispose un processo di concentrazione
dell’industria: quella cotoniera si fissò nel Lancashire e quella laniera nello Yorkshire; la scelta non fu casuale, ma fu
dovuta alla presenza di favorevoli condizioni ambientali – presenza di forza idraulica, di carbone, clima adatto – e
questa localizzazione premise:
Lo sviluppo dell’industria cotoniera grazie all’introduzione delle macchine permise anche un notevole aumento del
numero di operai; al contrario, nell’industria laniera, dove la domanda era più rigida, l’introduzione delle macchine
significò disoccupazione per molti operai.
Nel ramo siderurgico dell’industria, si ebbe una forte espansione grazie ai miglioramenti apportati al procedimento di
fusione dei minerali di ferro. Dapprima vi fu l’impiego del coke, poi importanti mutamenti nei processi meccanici e
nella tecnica delle fornaci ad aria calda; soltanto verso il 1830 la grande richiesta di ferro e di acciaio per usi civili
(ferrovie, acquedotti, gas) fece salire la produzione in maniera fortissima; parallelamente aumentò in maniera
continua la produzione di ghisa e l’esportazione del ferro e manufatti secondari.
Grazie alla forte riduzione dei costi si ottenne il processo Bessemer, (era basato sul potere di purificazione di un
potente getto d’aria fatto passare attraverso il metallo fuso in modo da bruciarne tutte le impurità) che permise la
grande produzione dell’acciaio.
Le industrie siderurgiche si concentrarono nel Galles meridionale e nello Staffordshire, dove erano presenti grandi
giacimenti carboniferi i quali erano vitali per i bisogni di tale industria. A partire dal 1831 la produzione sale in maniera
vertiginosa: la domanda di carbone è sempre più sollecitata dallo sviluppo delle ferrovie ma, anche l’esportazione del
carbone ebbe un forte aumento, infatti l’Inghilterra arrivò ad esportare, nel 1870, il 10% della sua produzione, mentre
il consumò di carbone passò dai 20 milioni del 1830 ai 100 milioni di tonnellate nel 1870.
Circa le direttrici dei traffici anche dopo il 1830 l’Inghilterra era orientata soprattutto verso l’America e l’Europa;
quest’ultima fornì 1/3 delle importazioni della Gran Bretagna e costituì il 40% delle sue esportazioni (quindi la GB
assorbiva il 40% delle esportazioni europee), mentre il Nord America, incluse le Indie occidentali, costituivano uno
sbocco >1/3 delle esportazioni. Nel volume delle importazioni inglesi le materie prime salirono, tra il 1800 e 1830 dal
40 al 70%; al contrario nelle esportazioni i manufatti salirono dall’83 al 96%.
Le importazioni continuarono ad allargare il divario, in termini monetari, con le esportazioni; ma le esportazioni
invisibili coprirono il deficit, lasciando un saldo positivo che si attestava sui 7 milioni di sterline nel decennio 1850-60.
Gli effetti negativi del bimetallismo portarono tutti i paesi a convertirsi al sistema del gold standard fino alla 1°GM.
Se con l’introduzione del gold standard si era stabilito un sistema monetario stabile, occorreva però mettere ordine
nel sistema bancario inglese tanto più che l’Inghilterra ricopriva un ruolo centrale nell’economia internazionale. La
base su cui esso poggiava – centinaia di banche private a Londra e nelle province – indebolita da numerosi fallimenti,
si rafforzò con i provvedimenti legislativi del 1826 e 1833, i quali permisero la fondazione di banche in forma di SpA.
Nel 1841 ne esistevano più di 100 in Inghilterra e Galles; oltre queste vi erano più di 300 banche private molto antiche
come Child o Hall e altre recenti come Rotschild e Baring. Al vertice del sistema c’era la Banca d’Inghilterra, istituita
nel 1694, che divenne ben presto la banca centrale.
Nel 1837, vi fu una crisi relativa al problema dell’emissione monetaria. La Banca d’Inghilterra, accusata di aver
provocato la crisi con eccessiva emissione di biglietti convertibili, si difese osservando:
- Che non era possibile fino a che i biglietti erano convertibili in oro;
- Che ben 280 banche emettevano senza controlli o restrizioni i famosi biglietti di banca.
La controversia portò ad un dibattito tra economisti, i quali si divisero in 2 scuole di pensiero: la banking school e
la currency school, i cui principi erano sostenuti già da Ricardo.
La banking school sosteneva il principio che le banche dovessero stabilire l’emissione di banconote a seconda delle
necessità del commercio; l’obbligo di dover cambiare i biglietti in oro costituiva una garanzia più che idonea ad evitare
un’eccessiva emissione, in quanto i biglietti emessi in eccedenza rispetto alle necessità del commercio, sarebbero
tornati alla banca.
La currency school riteneva che la convertibilità da sola era garanzia insufficiente e che la libertà di emissione
posseduta dalle banche era causa immediata di crisi commerciali; per tali motivi l’ammontare dei biglietti doveva
essere in funzione dell’oro esistente nel paese e l’emissione delle banconote strettamente legate alla riserva metallica
della Banca d’emissione.
La tesi della currency school prevalse e fu alla base del Bank Charter Act del 1844, che ancorò rigidamente l’emissione
dei biglietti di banca alla riserva aurea e divise la Banca d’Inghilterra in due dipartimenti:
- Quello che teneva la riserva d’oro, argenti, titoli di stato ed emetteva le banconote nella misura prescritta;
- Quello che esercitava attività bancaria normale.
A parte una modesta circolazione fiduciaria basata sui titoli di stato, la carta moneta doveva essere interamente
coperta dalla riserva metallica. Un altro passo per la riorganizzazione del sistema bancario inglese lo si ebbe col Joint
Stock Bank Act, promulgato anch’esso nel 1844.
Con questo provvedimento fu imposto a coloro che volevano fondare una banca l’obbligo di un capitale minimo di
100mila sterline e della richiesta di un’autorizzazione (Letters patent) per l’emissione di azioni. In più dovevano
pubblicare regolarmente i bilanci, emettere azioni non inferiori a 100 sterline ed erano illimitatamente responsabili.
Con questi atti l’attività bancaria fu resa più responsabile, il credito meglio organizzato e diffuso.
L’avvento del governo Canning, fautore di una politica più liberale, permise alcune novità. Si ebbero le leggi sulle
fabbriche e l’abrogazione del Combination Act nel 1824-25. Da quel momento i sindacati, Trade Unions, iniziarono ad
avere un ruolo sempre più importante nella vita della nazione improntando la loro azione all’ottenimento di migliori
condizioni economiche.
Infine la nuova legge elettorale del 1832, e successivamente quelle del 1867 e 1885, eliminarono la disposizione che
alcuni collegi disabitati (rotten boroughs, borghi putridi) potessero eleggere deputati alla Camera dei Comuni, mentre
città ricche e popolose non potevano avere rappresentanti in Parlamento.
Inoltre la nuova legge elettorale Reform Bill, estese il diritto di voto a chiunque avesse un reddito minimo di 10
sterline, dando così forza politica alla borghesia e a nuovi distretti; attribuì una funzione più importante alle città
industriali e limitò il ruolo dei collegi dominati dall’aristocrazia terriera.
In questo scenario nacquero diversi movimenti di tipo idealistico come quello di Robert Owen , il quale elaborò una
dottrina sociale: voleva mutare la vecchia società grazie ad una miriade di comunità fondate su principi genuinamente
sociali e riteneva che grazie ad esse, nuove strutture avrebbero potuto sostituirsi a quelle esistenti senza bisogno di
ricorrere alla rivoluzione.
Tra il 1832 e il 1834 l’owenismo ebbe largo favore tra gli operai, ma poi l’insoddisfazione popolare, specialmente forte
tra gli operai dell’Inghilterra settentrionale, portò per effetto delle continue agitazioni nelle zone industriali e del
perdurare della miseria, al fiorire del Cartismo (1838). I cartisti reclamavano l’estensione dei diritti politici alle classi
che ne erano rimaste escluse dalla legge del 1832, il suffragio universale maschile, il voto segreto, il rinnovo annuale
del Parlamento, la remunerazione degli eletti, diritti che saranno poi concessi nel 1867 e 1884.
I 6 punti del People’s Charter erano puramente politici, ma il movente ed il vero carattere del Cartismo erano sociali.
Dopo il 1842 il movimento andò mano mano a spegnersi, anche perché la maggiore importanza che andava
assumendo la battaglia per il libero scambio gli tolse spazio.. Tuttavia esso ebbe degli effetti. Fu proprio l’ombra del
Cartismo che accelerò il varo dei Factory Acts, la legge sul lavoro nelle fabbriche, che introdusse i limiti d’orario circa il
lavoro dei bambini e degli adolescenti e che istituì un corpo di ispettori statali destinati a vigilare sull’attuazione delle
nuove norme; l’abrogazione delle Corn Laws; la legge sulle miniere e le condizioni dei minatori e infine la legge sulla
salute pubblica (Public Health Act) del 1848, rafforzata poi dal Sanitary Act del 1866, che fu votata dal Parlamento
quando si compere che anche l’igiene era un tema di pubblico interesse e che fu premessa ad imponenti lavori
pubblici per il risanamento delle città inglesi.
L’agricoltura era il settore economico predominante, pur in presenza di un progresso industriale al nord che accentuò
lo squilibrio con la parte meridionale, che fu percepita come un fattore di debolezza (Questione meridionale).
Tra le tensioni sociali si ricorda il fenomeno del brigantaggio che sconvolse il sud dal 1861 al 1865; questo fenomeno
fu una vera e propria insurrezione contadina che coinvolse migliaia di uomini per rivendicare il diritto alla terra
sottratta dal nuovo Stato. Contro di essi, lo stato appunto, intervenne con leggi speciali come la legge Pica, che
prevedeva la fucilazione per l’uso di armi da fuoco, e altre condanne.
Il compito di unificazione nazionale fu assunto dalla Destra storica (di ispirazione liberal moderata) che governò dal
1861 al 1876. Si ispirava al pensiero di Cavour ed era composta principalmente dall’aristocrazia e dalla borghesia.
L’opposizione era formata dalle due Sinistre – la parlamentare, liberal progressista, guidata da Agostino Depretis e dai
democratici mazziniani e garibaldini tra i quali Crispi e Zanardelli; la mazziniana ebbe però scarsa influenza perché si
impediva ai suoi esponenti di entrare in Parlamento.
Iniziare la costruzione del nuovo Stato dal punto di vista economico-finanziario non era un compito facile. Gli Stati
confluiti nella nuova unità nazionale avevano caratteristiche tutte differenti l’uno dall’altro. Partendo dalle tariffe
doganali, si decise di estendere quelle del regno di Sardegna a tutto il territorio e, entro il 1865, venne unificato il
sistema amministrativo e adottato un codice civile unico; per risolvere il caos monetario si adottò un’unica moneta: la
lira italiana adottando anche un sistema bimetallico basato sul rapporto di 15,5 argento a 1 parte di oro e nel 1865 si
aderì all’Unione Monetaria Latina.
Il sistema bancario non si articolò subito su una banca centrale di emissione che assolvesse alle funzioni essenziali di
tutte le banche centrali. Infatti gli istituti di emissione esistenti negli antichi Stati italiani si opposero a questo
privilegio, che comportava notevoli utili soltanto alla Banca Nazionale Sarda ed ottennero di conservarla.
In tal modo in Italia vi furono 5 banche di emissione nel 1861: Banca Nazionale Sarda (del Regno d’Italia poi), Banca
Nazionale Toscana e Toscana di Credito, Banco di Napoli e Banco di Sicilia, che conserveranno il privilegio di emissione
fino al 1926. A queste vi si aggiunse la Banca Romana, che fu però liquidata nel 1893 a seguito di uno scandalo.
Tra questi istituti bancari il posto centrale fu tuttavia occupato rapidamente dalla Banca Nazionale, la quale estese in
tutto il territorio delle filiali e che assunse una posizione di predominanza con l’introduzione del corso forzoso e del
privilegio d’inconvertibilità. Agli altri istituti fu concesso che la loro carta circolasse a corso legale entro i limiti
assegnati alla loro attività con l’obbligo di ricambiare i loro biglietti, a chi ne facesse richiesta, con biglietti della Banca
Nazionale. In questa maniera, pur essendovi una pluralità di banche, la Banca Nazionale assumeva le funzioni di banca
centrale.
Un altro problema fondamentale per i governi italiani fu quello relativo alla finanza pubblica. Il problema inizialmente
fu risolto accollando al nuovo Stato i debiti pubblici degli antichi il che costituì una cifra pari a 2.444 milioni di lire.
Poiché non era possibile colmare la differenza tra entrate e uscite ricorrendo alle imposte, il governo non potè fare
altro che ricorrere a continui prestiti. Nel quadriennio 1861-65 il debito pubblico aumentò di 2.660 milioni, ma poiché
per la debolezza della finanza statale i titoli emessi al valore nominale di 100 lire, erano poi ceduti ai sottoscrittori ad
un valore reale di 70 lire, ci furono almeno 3 conseguenze:
- Lo Stato incassò solo 1.800 milioni sui titoli venduti;
- L’interesse nominale del 5% risultò essere in realtà del 7%;
- Il settore agricolo e industriale, che avevano bisogno di capitali, ne rimasero privi;
Inoltre questi prestiti furono in larghissima percentuale piazzati sui mercati finanziari esteri e comportò
progressivamente grossi pagamenti all’estero sugli interessi dei titoli (fuga di capitale); questo espose la valutazione
dei titoli stessi alle forti oscillazioni dei mercati internazionali e di conseguenza a grave minaccia il credito dello Stato
che poteva diminuire a seguito delle speculazioni.
Nonostante tutti questi problemi, in questi anni l’Italia ebbe un incremento dello sviluppo economico (spese militari,
edilizie, costruzioni ferroviarie) che comportò una notevole espansione del credito. A questa situazione favorevole si
abbattè la crisi del 1865-66, che colpì alcune iniziative come quelle relative alla coltivazione del cotone; a sua volta
l’industria della seta fu colpita a causa delle condizioni ambientali, mentre il settore agricolo dei cereali cominciava ad
avvertire la concorrenza estera.
La crisi diventò grave e nel 1866 il governo decretò il corso forzoso, ossia l’inconvertibilità delle banconote in oro. Per
riequilibrare le entrate e le uscite dello Stato era necessario aumentare le entrate. Si ricorse a vari mezzi. Prima di
tutto all’imposizione fiscale sia aggravando i vecchi tributi che introducendone di nuovi. L’imposta di ricchezza mobile
fu estesa anche agli interessi del debito pubblico e nel 1868 fu introdotta la tassa sul macinato (abolita gradualmente).
Poi si cercò di procurare entrate perseguendo una politica di beni demaniali, ecclesiastici – ossia confiscati alla Chiesa
– e delle ferrovie statali a compagnie private. Le operazioni di vendita ebbero alterna fortuna. Quelle dei beni
demaniali ed ecclesiastici procedettero con estrema lentezza e lo Stato incassò meno del previsto. Si dovette ricorrere
ad un ente che anticipava denaro allo Stato in cambio del diritto di vendere i beni alle condizioni più favorevoli e
all’emissione di titoli, da parte dello Stato, che potevano essere utilizzati per pagare le proprietà acquistate. Con
questa operazione lo Stato ottenne immediatamente fondi a costo di notevoli perdite.
La vendita delle ferrovie statali fu rapida e rese allo stato 200 milioni. Tuttavia il vantaggio fu di breve durata perché la
crisi in cui versavano le ferrovie indusse lo stato a rilevarle di nuovo (possedeva 6mila km su circa 10mila).
Grazie all’incremento delle entrate la situazione finanziaria a partire dal 1867-68 comincia a migliorare: il disavanzo si
riduce dal 25,7% al 2,4% nel 1876.
Il risanamento della finanza statale ed il miglioramento della bilancia commerciale, dovuto agli effetti del corso
forzoso che aveva ostacolato le importazioni e incoraggiato le esportazioni, consentono di pensare ad un ritorno alla
convertibilità. Per evitare di aversi una nuova fuga di capitali si ritenne opportuno ricorrere ad un prestito in oro e
argento; nell’83 si ritornò alla convertibilità solo per l’argento, mentre l’oro era destinato alle riserve dell’istituto di
emissione. L’operazione ebbe successo, l’abolizione del corso forzoso fece sparire la differenza di cambio e ci fu una
rivalutazione del 10% della lira italiana, con aumento dei costi interni, aumento delle importazioni e diminuzione delle
esportazioni. Si ebbe dunque un momento di crisi, temprato dalla discesa dei prezzi internazionali, ma i benefici
furono maggiori dei danni subiti. Il capitale straniero affluì in Italia determinando un forte rialzo delle quotazioni dei
titoli, toccando per un breve tempo un massimo di 101,60 nel 1886, con un tasso di sconto sceso al 4%.
7.3 FERROVIE E MARINA
Tra i numerosi problemi che l’Unità aveva comportato, prioritario era il sistema delle comunicazioni stradali,
ferroviarie e portuali. Al momento dell’unificazione, in tutta la penisola vi erano 1623km ( e 1400km in costruzione) di
ferrovia funzionante, quasi tutta concentrata in Piemonte e in Lombardia e scarsamente al Sud. Il governo dovette
preoccuparsi di creare una rete organica e capillare per creare un mercato unico nazionale e rafforzare l’unità.
Inizialmente lo Stato si preoccupò direttamente di costruire ferrovie ma nel 1865 furono vendute a 4 compagnie
private con larga partecipazione di capitale straniero. Le costruzioni ferroviarie attraversarono non poche controversie
fino a che, nel 1905 lo Stato riassunse l’esercizio e proprietà di quasi tutte le ferrovie.
Unitamente alle comunicazioni ferroviarie bisognò preoccuparsi di quelle navali. L’estensione delle coste italiane era
così grande che aveva sempre dato vita a movimenti di cabotaggio (movimenti di piccole imbarcazioni per commercio
costiero). Ma l’esigenza era quella di creare una forte marina mercantile che potesse soddisfare le esigenze nazionali e
far risparmiare i noli che erano pagati agli armatori stranieri. L’unione delle marine degli antichi stati, ponevano la
flotta italiana al terzo posto in Europa. La politica del governo di favore verso gli armatori condusse ad un notevole
aumento del tonnellaggio; ma intorno al 1870 il vapore prese il sopravvento sulla vela e la marina mercantile italiana,
costituita in larga parte da velieri, iniziò ad entrare in crisi.
Questa crisi comportò la necessità di sostituire le navi a vela con quelle a vapore; ciò significava costruire in ferro e
acciaio ma i pochi cantieri in grado di costruire le navi richieste avevano costi elevati con risultati non sempre
soddisfacenti. In più l’industria armatoriale italiana proprio in questa fase in cui effettuava il passaggio al vapore, fu
colpita prima dal calo dei noli causata dalla crisi iniziata nel 1874 e in particolare causata dalla guerra commerciale con
la Francia.
Per far fronte e tale crisi lo Stato intervenne con forti sovvenzioni; le costruzioni navali aumentarono fino a toccare
63.000 tonnellate nel 1900 e numerose compagnie di navigazione sorsero in questo periodo (Navigazione Generale
Italiana, Lloyd Italiano, Lloyd sabaudo). L’aiuto dello Stato fu determinante per dotare la nazione di una flotta che
arrivò a contare nel 1914 un tonnellaggio a vela di 337.000 e a vapore di 934.000.
7.4 LE INDUSTRIE
Ferrovie e marina furono molto importanti per lo sviluppo dell’industria in Italia specialmente per la metallurgica e
meccanica, che fino alla prima guerra mondiale ebbero uno sviluppo fortissimo, che rappresentarono unite, nel 1914,
il più importante settore dell’industria. Però bisogna comunque ricordare che l’agricoltura rimane il settore di maggior
importanza in Italia, almeno fino agli anni ’30 del XX secolo. Data l’importanza dell’agricoltura e dato che
generalmente le prime industrie che si formano sono proprio quelle della trasformazione alimentare e tessile non
deve sorprendere che anche in Italia fu così. Le industrie di questo genere, alimentarono forti correnti di esportazioni
e contribuirono fino al 1920 al reddito nazionale più di qualunque altro settore.
Altrettanto antiche erano le industrie tessili che si adattarono abbastanza rapidamente alla meccanizzazione e al
sistema di fabbrica perché, come avveniva in Inghilterra, gli investimenti non erano elevati e la manodopera non
doveva essere necessariamente specializzata.
Mentre lana e seta avevano antica tradizione in Italia, il cotone iniziò a lavorarsi nell’800 e ben presto divenne il ramo
principale dell’industria. Poiché l’industria tessile utilizzava forza idraulica come forza motrice, nell’Italia preunitaria si
crearono delle zone dove questa si allocò (Nord: Biellese, Veneto, Lombardia; Sud: Valle del Liri, Terra di Lavoro, per la
lana; nell’Irno, nel salernitano, il cotone). Dopo l’unificazione la meccanizzazione progredì soprattutto nel Nord, il
quale poteva giovarsi della ricchezza d’acqua e dalla vicinanza dei grandi mercati: Lombardia e Piemonte accolsero la
maggior parte dei cotonifici.
Quando il governo italiano per gli effetti della depressione del 1873-96 si convertì al protezionismo, l’industria
cotoniera ebbe notevoli vantaggi in quanto le fu riservato il mercato nazionale. L’espansione continuò e, dopo aver
anche superato la crisi del 1907, proseguì tanto da essere un’industria di notevole rilievo fino allo scoppio della guerra.
Abbastanza simile, benché più lenta nell’evoluzione e nella meccanizzazione, per la resistenza dell’artigianato, e meno
rilevante nelle esportazioni è l’industria laniera, anch’essa concentrata in massima parte nel Nord (Veneto,Piemonte,
Lombardia). L’incremento di questa industria permise al paese di divenire autosufficiente e di dar vita anche ad un
modesto commercio di esportazione. L’industria della seta non ebbe tale sviluppo: malattia del baco, concorrenza
internazionale e artigianato non permisero di svilupparsi.
Le industrie metallurgiche e meccaniche ebbero un forte impulso dalle costruzioni ferroviarie e marittime anche se in
Italia fu inferiore rispetto agli altri paesi per la presenza dei capitali stranieri in questi settori. Le industrie metal
meccaniche sono state fondamentali nello sviluppo economico dei paesi europei, ma nell’Italia appena unita esse
erano di dimensioni trascurabili rispetto ad altri Stati (nel 1901 rappresentavano il 12% della produzione
manifatturiera).
Nel 1861 l’Italia produsse poche migliaia di tonnellate di ghisa d’altoforno e poche migliaia di tonnellate di ferro
laminato, in confronto alle milioni di tonnellate dell’Inghilterra. Alla base di questa situazione di inferiorità vi era, oltre
a fattori come la scarsità di capitali e arretratezza delle tecnica, anche la mancanza delle materie prime: ferro e
carbone. Di fronte alle produzioni europee l’Italia poteva infatti contare su di una produzione di ferro che dal 1861
(83mila tonnellate) toccò nel 1914 le 700mila tonnellate, mentre in altri paesi si parlava di milioni.
L’intervento dello Stato fu anche qui decisivo. Fu grazie alla sua azione, esternatasi in aiuti finanziari molto consistenti
e con l’imposizione di altissimi dazi all’importazione, che l’industria metallurgica ebbe il suo punto di forza nell’Ilva
(1905). Nel Mezzogiorno, la legge speciale per Napoli (1904) ebbe come conseguenza la costruzione della grande
acciaieria di Bagnoli. Le produzioni di ghisa, ferro e acciaio salirono in maniera esponenziale.
L’industria meccanica al momento dell’Unità era quasi esclusivamente artigianale: facevano eccezione solo alcune
industrie come le officine di Pietrarsa a Napoli e l’Ansaldo a Genova. Furono le spese militari che, a partire dal 1884
permisero lo sviluppo di una serie di industrie come la Armstrong, la Breda, ecc. Oltre questo tipo di industria va
ricordato che si svilupparono gradualmente altri settori della meccanica, come l’industria ciclistica (Bianchi, Legnano);
a questa seguì l’industria della macchina da scrivere e da stampa (Olivetti, Nebiolo, ecc.) e infine l’industria
automobilistica (Fiat, Lancia, Alfa Romeo, ecc), che però passò dallo stadio artigianale a quello industriale solo durante
la guerra.
Di grande importanza fu poi lo sfruttamento della forza idraulica ai fini dell’elettricità. La produzione di kilovattore,
che era di 3 milioni nel 1881-90 salì a 752 nel 1901-10, da cui 611 centrali idroelettriche e 141 da centrali
termoelettriche. Minore importanza ebbe l’industria chimica. La produzione italiAna di acido solforico, di solfato di
rame e di fertilizzanti,esportati in grezzo fuso, sarebbe potuta essere ben maggiore se fossero sorti degli stabilimenti
chimici di trasformazione. Tra queste vanno ricordate la Pirelli e la Montecatini (1872 e 1888).
7.5 LA POLITICA COMMERCIALE
Questo sviluppo industriale comportò un notevole aumento del commercio estero per la necessità di importare
materie prime (carbone, acciaio, ferro), e per le maggiori esportazioni (prodotti agricoli).
A mano a mano che l’industria si va sviluppando si avverte la necessità di un mutamento nella politica economica
italiana che fin dall’Unità aveva adottato un indirizzo libero – scambista.
L’inchiesta industriale terminata nel 1874, pone in luce la necessità di protezione all’economia del paese che
permetteva all’industria italiana di assicurarsi il mercato nazionale, protezione che sarà resa ancora più necessaria
dalla discesa internazionale dei prezzi iniziata nel 1873 e durata fino al 1896. Perciò nel 1878 il governo italiano
approva la riforma delle tariffe doganali che comporta una serie di aumenti fino al 20%, sostituisce i dazi ad valorem
(sul valore dichiarato dall’importatore) con dazi specifici che colpiscono indipendentemente le merci in misura fissa.
Questo provvedimento favorì le industrie tessili (in particolare quella cotoniera).
A partire dagli anni 1878-80 la discesa dei prezzi comincia a colpire duramente l’economia italiana. Gli indici della
media dei prezzi delle merci importate precipitano da 109 (1880) a 70 (1887) lire. Ancora più grave la discesa in
agricoltura. Di fronte a questa situazione si invoca una maggiore protezione doganale e nel 1887, dopo l’inchiesta
Ellena, venne approvata una tariffa generale che proteggeva moderatamente l’agricoltura e in maniera elevata
l’industria. Questa tariffa, che comportava dazi fino al 200-300% fu mitigata da alcuni trattati; in particolare quello con
la Francia fu difficile da raggiungere, in quanto, la condotta del governo Crispi condusse ad una guerra commerciale
aspra che terminerà nel 1898, arrecando gravi danni. Questo insieme di cose fu aggravato dalla depressione acuta
avutasi tra il 1888 e il 1893.
Uno degli indizi più drammatici della crisi del paese negli anni di guerra commerciale è l’aumento dell’emigrazione:
negli anni 1876-78 questa aveva una media di circa 20mila che salirono vertiginosamente, toccando la media di
129mila unità del 1887. Dal 1888 la media rimane pressoché alta (134mila). Naturalmente furono le regioni più povere
ad avere il maggior numero di emigranti, dato il fatto che era difficile resistere alla crisi agraria e commerciale. La crisi
oltre che sull’agricoltura incise anche sull’industria nonostante la protezione dei provvedimenti del 1878 e 1887:
l’industria più colpita fu quella siderurgica con conseguenze sul settore edilizio e ferroviario. Le produzioni nei diversi
settori calarono in maniera differente (es. il ferro calò progressivamente; l’acciaio ebbe un crollo del 300% circa) così
come le importazioni si dimezzarono.
7.6 IL SETTORE BANCARIO
La grave depressione iniziata nel 1887 colpì fortemente anche il sistema bancario. Le maggiori banche italiane si erano
impegnate in prestiti a lunga scadenza ad alcuna industrie. Queste operazioni, abbastanza comuni, erano molto
rischiose, in quanto le banche immobilizzavano i loro fondi per lungo tempo e finivano per dipendere dall’andamento
delle imprese stesse. Gli eccessivi investimenti, in particolare nel settore edilizio, cominciarono a porre in difficoltà
alcune banche; nonostante l’aiuto della Banca Nazionale, si ha il crollo di numerose banche (Banco Sconto e Sete,
Banca Tiberina, Credito Mobiliare, Banca Generale).
Il crollo più grave e clamoroso fu quello della Banca Romana. I continui crediti concessi da questa condussero
all’apertura dell’Inchiesta Alvisi-Biagini nel 1889. A fine inchiesta, nel 1892, scoppiò lo scandalo: si era accertato che la
Banca Romana non solo aveva superato i limiti di emissione che le erano stati concessi, ma aveva anche proceduto alla
stampa di 2 serie di biglietti aventi lo stesso numero in modo da raddoppiare, in maniera occulta, l’emissione. Questo
scandalo ebbe merito di portare al riordino di tale settore bancario.
La Banca Nazionale assorbì la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito, trasformandosi nel 1893 nella
Banca d’Italia; la Banca Romana fu liquidata; gli istituti di emissione ridotti a 3 (Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banco
di Sicilia). Il vuoto lasciato dai fallimenti fu coperto dalle banche sopravvissute alla crisi e da nuove banche, sviluppate
con capitale e modello tedesco (abbiamo casse di risparmio postali e credito cooperativo).
Dopo lo scandalo della Banca Romanda si ha nel 1893 un ritorno di Crispi al governo (sostituendo Giolitti). Si assiste ad
una politica di reazione, con leggi che restringono la libertà di associazione, cancellano circa 800mila elettori dalle liste
elettorali, osteggiano l’attività dei partiti. Questa svolta reazionaria però non ebbe successo, come anche l’azione volta
alla revisione dei contratti agrari e alla divisione dei latifondi a favore dei contadini. La questione morale, una
campagna contro Crispi per le sue responsabilità nella questione della Banca Romana, colpì duramente l’uomo
politico, la cui definitiva caduta fu conseguenza della fallimentare campagna coloniale da lui voluta; nel 1896 Crispi
rassegnò le dimissioni.
A partire dagli anni ‘90 cominciò a porsi il problema della disoccupazione in quanto una volta spezzato il legame con
la terra molti operai dipesero per il loro mantenimento solo dal salario che ricevevano e ciò provocò la formazione di
una solidarietà di classe e lo sviluppo di spirito di associazione e difesa degli interessi comuni. Perciò cominciarono ad
aversi le prime rivendicazioni, come la giornata di lavoro di 8 ore. Pensiero sociale e nascita di organizzazioni operaie
sono 2 frutti dell’evoluzione dell’economia.
Mentre nel decennio successivo all’unificazione il laissez faire aveva imperato tra gli economisti italiani, a partire dagli
anni ’70 venne messo in dubbio da alcuni di essi (come Cusumano e Messedaglia), i quali ispirandosi alle idee di
Schmoller e Wagner (fondatori del socialismo della cattedra) iniziarono a chiedere un intervento dello Stato nei
problemi economici e sociali, invocando una politica protezionistica che aumentasse la produzione e diminuisse la
disoccupazione.
Di carattere più radicale era l’idea di Bakunin, grande leader anarchico che ottenne vasti consensi. Egli riteneva
indispensabile distruggere tutte le istituzioni esistenti che impedivano l’edificazione di una società migliore e più
giusta. Ma i contrasti tra questo e Marx indebolirono il movimento dei lavoratori italiani.
Nel frattempo, i maggiori esponenti del socialismo (Costa, Bignami, Kuliscioff) propugnavano la fondazione di unioni
operaie; il diritto allo sciopero; la regolazione degli orari; il miglioramento delle condizioni di lavoro; la distribuzione
delle terre non coltivate. Nelle elezioni del 1882 furono eletti alla Camera Costa e Maffei e nel 1885, 12 deputati
socialisti a cui vi si aggiunse anche Turati.
Altrettanto importante fu il movimento di pensiero sociale-cattolico che ebbe il suo maggiore esponente in Giuseppe
Toniolo e che riallacciava la sua azione all’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (cioè la prima presa di posizione della
Chiesa nella questione sociale), la quale invocava maggiore giustizia nel mondo lavorativo.
Mentre il pensiero sociale si andava sviluppando, i lavoratori italiani avevano cominciato ad organizzarsi in
associazioni. La cosa non fu facile perché fino al 1889 i sindacati furono proibiti, mentre gli scioperi erano sempre
praticamente illegali. Ma dal 1889 in poi mutarono le leggi sui sindacati e gli scioperi; cominciarono ad essere
organizzati i primi sindacati nazionali e contemporaneamente si formavano le leghe contadine, estendendo il
movimento cooperativo sia tra produttori che consumatori.
Il ricorso agli scioperi aumentò in maniera notevole e, pur se tra gravi contrasti, la voce dei lavoratori veniva portata in
Parlamento dagli esponenti socialisti, radicali, repubblicani e, infine dai cattolici (quando finì la proibizione di
partecipare alla vita politica).
I risultati dell’azione a favore dei lavoratori furono le leggi dell’86 sull’orario di lavoro dei fanciulli, la riduzione della
giornata lavorativa per le donne, la concessione di ferie pagate e sull’assicurazione sociale obbligatoria come sugli
infortuni e l’istituzione di Cassa Nazionale di previdenza per invalidità e vecchiaia.
Queste misure furono importanti perché introdussero il principio che i datori di lavoro e lo Stato avevano il dovere di
intervenire a tutela delle condizioni di vita e di lavoro degli operai. Nonostante i progressi ottenuti, l’Italia non era
riuscita a migliorare la ‘’questione meridionale’’, anzi, il divario tra Nord e Sud si era aggravato, dando vita ad una
fortissima emigrazione.
Nel Patto coloniale tra la madrepatria Inghilterra e le colonie era previsto che queste ultime non dovessero fare
concorrenza con le proprie produzioni, bensì dovevano costituire un complemento per l’economia della madrepatria.
Inizialmente, dato il numero ridotto degli abitanti, le limitazioni del patto coloniale non furono avvertite dai coloni ma
successivamente(dopo il 1750) con l’aumento degli abitanti i vincoli economici iniziarono ad avvertirsi quando
l’economia iniziò a svilupparsi. I motivi economici furono alla base di un processo che portò alla dichiarazione
d’indipendenza del 1776 e alla nascita degli Stati Uniti D’America (1876). Il 3 Settembre 1783 il Trattato di Versailles
riconobbe l’indipendenza delle tredici colonie americane dall’Inghilterra; il 17 Settembre 1787 la costituzione
americana fu adottata dalla convenzione di Filadelfia. Il 4 Maggio 1789 entrò in funzione il primo governo federale
sotto la presidenza di George Washington.
L’indipendenza politica però non poteva eliminare improvvisamente le conseguenze della lunga soggezione
economica delle ex colonie verso la madrepatria e, nonostante ci fossero molte risorse, l’industrializzazione non potè
avviarsi prima di qualche decennio.. L’insufficienza quantitativa e qualitativa della manodopera, la scarsezza di
capitale, e altri fattori, contribuirono a mantenere uno stato di subordinazione dell’economia americana. La nascente
industria statunitense trovò difficoltà gravi a fronteggiare la forte concorrenza di quella inglese che possedeva un
solido sistema bancario che era specializzato nel finanziamento del commercio internazionale. Un esame del
commercio mostra che gli Stati Uniti, nonostante fossero indipendenti, non poterono fare a meno delle importazioni
inglesi; al contrario la Gran Bretagna poteva rivolgersi ad altri mercati per rifornirsi.
La messa in valore delle terre delle grandi pianure centrali e il progressivo spostamento dei confini verso occidente
sono in diretto rapporto con quest’afflusso di europei. Inoltre ci fu un impulso psicologico che diede vita al mito del
pioniere agricoltore, che ha il gusto dell’avventura e non esita ad abbandonare la sua terra per cercare fortuna nei
nuovi territori a occidente: la sua convinzione di compiere una missione civilizzatrice è conforme al Manifest Destiny,
espressione usata da uomini politici per indicare che gli Stati Uniti sono chiamati ad affermare il loro dominio sul
continente. Siamo di fronte alla ‘’teoria della frontiera*’’, formulata da Turner, secondo il quale la civiltà americana
doveva spostare in avanti la frontiera: in poche parole erano i primi segnali di imperialismo. I propagatori del Manifest
Destiny sostenevano che, dopo aver colonizzato il continente, gli Stati Uniti dovevano espandere la loro influenza
politica al resto del mondo.
*Teoria della Frontiera: è un'ipotesi avanzata dallo storico Frederick Jackson Turner nel 1893 secondo cui l'origine
delle caratteristiche democratiche, innovative, violente e distintive del carattere americano sia stata rappresentata
dal far west. Turner ha insistito sul processo, il confine della frontiera in movimento e l'impatto che ebbe sui pionieri
che lo attraversavano. Nella sua tesi afferma che la frontiera creò libertà, "spezzando i limiti dell'abitudine, offrendo
nuove esperienze, istituendo nuove istituzioni ed attività."
Nel 1848 sconfitto il Messico, gli Stati Uniti che avevano annesso già il Texas, annettono il Nuovo Messico, lo Utah, il
Nevada, la California e l’Arizona. All’espansione territoriale è accompagnata quella economica nel 1850-1860 in cui il
settore industriale ha un vero e proprio boom con l’espansione delle industrie tessili, metallurgiche, delle calzature e
dei beni strumentali. Fino al 1860 l’attività industriale negli Stati Uniti seguì due direzioni principali, da un lato a nord-
ovest si ebbe il diffondersi delle industrie per la trasformazione dei prodotti agricoli e delle materie prime; dall’altro
lato invece nell’est si ebbe lo sviluppo dell’industria leggera. Il ruolo trainante fu giocato dall’industria tessile e
ferroviaria: fu la domanda delle compagnie ferroviarie a stimolare la crescita dell’industria metallurgica. Molto
importante fu la costruzione di una rete ferroviaria che favoriva gli scambi e permetteva l’entrata in nuovi mercati di
sbocco oltre che una più rapida comunicazione con l’ovest. Dalla creazione della prima linea ferroviaria nel 1830
furono investiti nelle costruzioni ferroviarie circa 1.250 milioni di dollari provenienti da investimenti esteri e da
capitali privati americani, portando la rete ferroviaria a 50mila km nel 1914.
Con l’aumento dell’industrializzazione ci fu ovviamente una diminuzione della produzione agricola: in 60 anni la quota
relativa all’agricoltura calò dal 72% del 1839 al 33% del 1899, al contrario l’industria di trasformazione portava la sua
quota dal 17 al 53%.
8.3 CRISI DELL’UNIONE AMERICANA
Durante lo sviluppo dell’economia, le differenze economiche tra Nord e Sud si accentuarono maggiormente con
divergenze di interessi e divergenze tra idee sociali e fra tipi di civiltà. Il punto di rottura si ebbe nel 1861 quando i
rappresentanti di undici Stati del Sud riuniti in Congresso decidono di abbandonare l’Unione Americana e di fondare
una Confederazione indipendente. Dopo 4 anni di dure guerre i nordisti riuscirono a sconfiggere i sudisti e li
obbligarono a rientrare nell’Unione. I fattori fondamentali della crisi furono di natura economica.
L’economia del Sud, una volta basata sulla produzione di tabacco, indaco e riso, dopo le guerre di indipendenza, grazie
all’invenzione della sgranatrice di Eli Whitney, iniziò a basarsi sulla produzione del cotone grazie al quale avrebbe
permesso di ottenere utili superiori. La coltura del cotone compì progressi giganteschi; lo schiavismo e la piantagione
accompagnano l’estensione della coltura, e perciò il Sud fu chiamato ‘’terra del cotone’’.Si formò un’aristocrazia
terriera, e i valori preminenti sono quelli dell’onore e del conservatorismo.
Nel Nord invece l’agricoltura era basata sulla coltura di cereali e sull’allevamento del bestiame; man mano che
l’urbanesimo progrediva, si mettevano in primo piano i valori del progresso e del mutamento sociale dove trionfavano
gli ideali borghesi.
Da una parte troviamo una società gerarchicamente costituita dominata da grandi piantatori, al Nord invece abbiamo
una società fondata sulla piccola impresa e la libertà del lavoro (free labor system). Grazie all’utilizzazione della forza
idraulica e del vapore, si diffondono al Nord le attività industriali. Negli Stati del Sud invece, i piantatori investirono i
loro capitali in terre e schiavi e dato che il loro benessere è largamente assicurato dalla vendita del cotone, non si
interessarono né dello sfruttamento delle risorse minerarie né della creazione di industrie. Infine al Nord si erano
concentrate le attività creditizie e le industrie armatoriali.
Per quanto riguarda la politica economica, al Nord dopo l’industrializzazione erano diventati sostenitori di una politica
protezionistica che era essenziale per lo sviluppo industriale poiché doveva proteggere i produttori interni dalla
concorrenza estera, invece il Sud, che vendeva cotone all’estero, non tollerava una politica protezionistica che gli
impediva di acquistare dal mercato i prodotti di cui aveva bisogno e lo costringeva a vendere prima il cotone per
ottenere crediti esteri.
Un altro punto di frizione tra Nord e Sud furono i limiti in cui il governo federale poteva sovvenzionare i miglioramenti
interni. Il Nord mirava a stabilire vie di comunicazione dall’est all’ovest attraverso dei canali in modo da collegare
regioni industriali e regioni agricole, invece il Sud si opponeva poiché comportava per il bilancio federale un forte peso
che avrebbe dovuto sostenere senza trarne alcun vantaggio.
Agli interessi materiali divergenti si aggiunsero quelli morali, il cui aspetto essenziale era la schiavitù. I motivi dei
promotori della campagna antischiavista erano stati il sentimento umanitario e la convinzione che l’Unione americana
tollerando la schiavitù infrangesse la ‘’Legge di Dio’’.
Il problema per gli Stati del Sud era quello di riuscire a mantenere il posto tenuto fin dall’origine nel governo
dell’Unione, posto che veniva minacciato dall’evoluzione della vita economica americana e giocava a loro sfavore
anche l’aumento della popolazione dato che i nuovi arrivati si stabilivano quasi tutti al Nord dove trovavano
disponibilità di terre e possibilità di lavoro: nel 1860 la popolazione del Sud fu di poco superiore ai 9 milioni contro i 22
degli Stati del Nord. Alla Camera dei rappresentanti i seggi venivano attribuiti in base agli abitanti e, dunque, i
deputati del Nord erano in grande maggioranza. Per questo motivo gli Stati del Sud si sforzarono di mantenere
immutata la posizione al Senato dove ogni Stato, indipendentemente dagli abitanti, ha due rappresentanti ed era
composto da 22 Stati; undici di essi ammettevano la schiavitù garantendo l’equilibrio del Senato.
Ma con la continua espansione e l’entrata al Senato del Kansas nel 1845 l’equilibrio viene rotto a favore del Nord, la
situazione poi nel 1856 si fa critica con la fondazione del partito repubblicano che tra i punti del suo programma aveva
l’abolizione della schiavitù; con la vittoria delle elezioni presidenziali del 1860 da parte del repubblicano Abrahm
Lincoln, la Carolina del Sud, stato cotoniero per eccellenza, decide di prendere l’iniziativa e organizzare la secessione.
1) Homestead Act: si poteva richiedere una quarter section( circa 160 acri) di terreno demaniale e dopo 5 anni,
dimostrando di aver vissuto su quel terreno, si poteva ottenere la proprietà pagando una tassa minima. Molti
agricoltori, dopo la guerra, poterono stabilirsi nell’ovest.
2) Morril Land Grant Act: con questa legge si dispose che ogni Stato ottenesse 30mila acri di terreno pubblico
per ciascuno dei rappresentanti al Congresso e che i redditi di questi terreni dovessero essere usati per
l’istruzione agricola, tecnica e militare.
Per il finanziamento della guerra si ricorse da entrambe le parti ai tre mezzi classici: imposte, prestiti ed emissione di
carta moneta. Al Nord si emise, nel 1862, carta moneta per 450 milioni a causa delle basse entrate fiscali e del difficile
collocamento dei titoli di Stato. Con il Legal Tender Act fu autorizzata l’emissione di banconote dette greenbacks e il
loro valore oscillò tra lo 0,39 e lo 0,69 del dollaro oro. Mentre l’economia del Nord si espandeva, quella del Sud
attraversava un periodo di crisi e arrivò rapidamente sull’orlo del crollo a causa della mancanza di macchine, operai
specializzati, materie prime e il blocco navale. Le condizioni della vita economica del Sud rappresentarono un grave
problema quando si trattò di finanziare la guerra poiché c’erano poche liquidità sia nelle banche che presso i grandi
piantatori. Per finanziarie la guerra anche il Sud ricorse a prestiti, imposti e cartamoneta; tra il 1861 e il 1864 venne
emessa carta moneta per 1 miliardo di dollari col risultato inevitabile della svalutazione e di una grande inflazione.
La ricostruzione causò pesi gravi. Mentre il debito pubblico confederale veniva annullato, il Sud dovette accollarsi la
sua parte del debito nazionale. Dall’impoverimento dei grandi piantatori derivò la rivoluzione nel regime della
proprietà fondiaria: costretti a vendere in parte o in tutto le loro piantagioni per pagare tasse e debiti, essi fornirono
migliaia di piccoli agricoltori il modo di ampliare i loro fondi a basso costo. In tutto il Sud l’ estensione media delle
fattorie scese mentre gli ex schiavi ritornano al lavoro in qualità di coloni o mezzadri. I primi segnali positivi si ebbero
nel decennio 1870-1880 quando l’industria tessile iniziò a riprendersi grazie al basso costo della manodopera, alla
forza idraulica e alle materie prime esistenti. Mentre il Sud cercava di ricostruire faticosamente la propria economia il
Nord continuava a svilupparsi; il partito repubblicano non incontrò più alcuna opposizione e la guerra gli offrì
l’occasione di mettere in atto il suo programma: imposizione di dazi protettivi, miglioramenti alle comunicazioni
interne, distribuzione gratuita di terre.
I dazi protettivi furono inseriti con la Tariffa Morril che con disposizioni successive furono aumentati tanto che nel
1865 passarono in media dal 18% al 47%, così le industrie del nord poterono disporre del mercato interno. Poi per
incoraggiare ulteriormente gli affari il Congresso abolì l’imposta sul reddito insieme ad altre imposte introdotte
durante la guerra sul ferro ed il carbone. Fu incoraggiata la costruzione delle ferrovie transcontinentali. Nel 1860-70 il
numero delle fabbriche crebbe dell’80% e la rivoluzione industriale si era compiuta.
Con i National Banking Acts del 1863-1864 il Congresso regolò l’attività bancaria: insieme alle banche nazionali,che si
costituivano con l’autorizzazione del governo federale, c’erano le banche statali regolate dalle leggi dei singoli Stati.
Nel 1865 il Congresso sottopose ad una tassa del 10% annuo il valore medio delle emissioni delle banche statali
mentre quelle nazionali erano colpite da una tassa pari al 1%. Si ebbero due effetti: le banche statali chiesero di
diventare banche nazionali ed essere assoggettate ad una normativa più rigida, le emissioni di banconote delle banche
statali si ridussero velocemente fino a scomparire nel 1879, ma il punto debole del sistema bancario americano era la
mancanza di un unico istituto di emissione e l’esistenza di numerose banche aventi questo privilegio, il che, esponeva
il sistema bancario ad essere preda delle crisi.
Dopo la crisi nel 1907 tutta l’organizzazione fu ridiscussa e nel 1913 con l’istituzione del Federal Reserve System,
formato da 12 banche dette Federal Reserve Banks, ognuna operante in uno dei dodici distretti bancari in cui venne
diviso il paese, aveva il privilegio dell’emissione che venne tolto alle banche nazionali.
A guerra finita, il governo arrestò l’emissione dei greenbacks e decise di ritirarne una parte della circolazione. Ma
poiché i prezzi, specie quelli agricoli erano in diminuzione, gli agricoltori dettero vita ad un vasto movimento antiritiro:
il ritiro della cartamoneta avrebbe infatti comportato un effetto deflazionistico che avrebbe colpito gli agricoltori in
particolare. Così biglietti vennero lasciati in circolazione per un ammontare tra i 300-350 milioni di dollari fino al 1914.
Il trust era una combinazione di società anonime che ponevano le loro azioni nelle mani di fiduciari che dirigevano gli
affari di tutte e i vantaggi erano evidenti: combinazioni su larga scala, controlli e amministrazione accentrata,
utilizzazione comune di brevetti, migliore disponibilità del capitale e maggior forza nei confronti delle organizzazioni
operaie. Questa concentrazione modificò la concorrenza, praticata fra grandi imprese mentre il piccolo artigiano del
periodo prebellico scomparve. Il periodo del boom fu quello dal 1880-1890 in cui il numero delle imprese e il valore
della produzione raddoppiarono così come il numero di operai.
Anche il reddito pro capite aumentò rapidamente infatti passò dai 215 dollari per abitante nel 1869-1878 per giungere
agli oltre 1000 dollari del 1914. Il fenomeno della concentrazione e l’influenza sempre maggiore dei trusts nel mercato
nazionale suscitarono forti reazioni da parte dell’opinione pubblica e indussero il Congresso a reagire.
Nel 1890 lo Sherman Anti Trusts Act dichiarò illegali tutti i contratti, accordi che miravano a limitare il commercio e
tutti i monopoli, ma la legge ebbe scarsi effetti che provocò molte proteste nei confronti dell’allora presidente
Theodore Roosevelt, che non riuscì a modificare la realtà della situazione.
1) Salari elevati a causa della scarsa manodopera che induce a ricorrere in maggior parte alla meccanizzazione.
2) Ondata di immigrati che costituisce una manodopera ignorante e non qualificata che si accontenta di salari
minori e giornate di lavoro più lunghe, apre il periodo più scuro e penoso del movimento operaio che va fino
al 1875-80; infatti la pressione degli immigrati sul mercato del lavoro fa ribassare i salari e le giornate di
lavoro.
3) A partire dal 1880 le condizioni migliorano, i salari reali aumentano raddoppiando e poi si stabilizzano fino al
1914, la giornata lavorativa scende dalle 12 alle 10 ore e poi alle 8 ore, durata che sarà estesa a tutti i settori
alla vigilia della prima guerra mondiale. Le cattive condizioni dei lavoratori fecero nascere le prime
organizzazioni e l’azione sindacale assunse due forme principali:
- tentare di organizzare, educare e assimilare questa massa di lavoratori. Azione tentata dalla prima
organizzazione operaia, cioè i Cavalieri del Lavoro;
- creare un’ organizzazione più selettiva, nazionalista che comprendeva solo operai americani e difendere i
privilegi della minoranza dei lavoratori qualificati minacciati dalla concorrenza proveniente dall’estero e
questa sarà la politica seguita dalla Federazione americana dal lavoro. Grazie all’azione di queste
organizzazioni le condizioni dei lavoratori migliorarono, ma tuttavia restarono indifesi ancora per molti anni
contro le crisi.
9. L’IMPERO RUSSO
9.1 LA LIBERAZIONE DEI SERVI
Nella metà del XIX secolo l’economia russa poteva essere definita arretrata. Nel 700 una caratteristica comune con i
paesi europei era la grande incidenza del settore agricolo nella vita economica però c’erano delle caratteristiche di
natura fisica e culturale che differenziavano il settore agricolo da quello di altri paesi. La vita nelle campagne era
condizionata dal lungo inverno russo e quindi la produzione si limitava solo a pochi mesi; la difficile coltivazione del
suolo e le immense distanze, con l’aggravante della mancanza di una buona rete di comunicazione, rendeva difficile la
formazione di un mercato nazionale. Dal punto di vista industriale erano presenti delle risorse ma erano assai disperse
e, data la grande distanza a cui erano situate, non si era ancora in grado di sfruttarle se non in minima parte a causa
dell’arretratezza delle tecniche in uso.
La struttura sociale era composta da zar, signori e servi ed era a carattere feudale. La classe dominante era costituita
dalla nobiltà terriera che si impossessava del surplus dei contadini e mentre negli altri paesi europei i vincoli feudali
erano quasi spariti, in Russia le condizioni dei cittadini andavano ad aggravarsi sempre di più. A partire dal 400
vennero assoggettati ad obblighi maggiori e la servitù divenne la loro condizione abituale. I servi potevano
appartenere allo Stato come alla Chiesa o alla famiglia imperiale o i nobili: quelli appartenenti allo Stato, alla Chiesa e
alla famiglia imperiale erano più fortunati perché in genere le loro obbligazioni erano soddisfatte con un canone
d’affitto per le terre; invece quelli che appartenevano alla nobiltà vivevano in condizioni peggiori perché i signori
avevano su di loro diritto di vita e di morte e potevano essere venduti e divisi dalle famiglie.
Ad eccezione di quelli che lavoravano come domestici, la maggior parte erano contadini appartenenti a comunità di
villaggio, i Mir, che controllavano la distribuzione e l’utilizzazione delle terre coltivabili e riscuotevano tasse, canoni e
le prestazioni dovute dai suoi membri. Contrariamente agli altri stati europei in cui le comunità andavano sparendo, il
Mir era stato rafforzato dallo Stato che lo usava come strumento di governo.
Il commercio e l’industria avevano una scarsa rilevanza, i contadini adempivano alle loro obbligazioni in natura o con
le corvèes; avevano poche merci da vendere e ricorrevano al baratto. La nobiltà era a corto di denaro e il ceto
intermedio (commercianti e industriali) era debole e poco considerato e mancava proprio la classe media
individualista e indipendente fondata sul possesso della proprietà mobiliare. La classe dominante temeva le rivolte
contadine come quella condotta da Pugacèv (1773-74) che aveva fatto tremare la struttura dell’impero. Nella vita
russa erano presenti due soli protagonisti: nobili e servi, lo sviluppo dell’economia dovette essere affidato al sostegno
statale in mancanza di una classe che fornisse spirito imprenditoriale, inventiva e capitale per finanziare le innovazioni.
La sconfitta nella guerra di Crimea 1854-1856, ad opera di nazioni lontane, fece comprendere ai governanti russi che
le cose dovevano cambiare. La conquista della Crimea fece emergere tutta l’arretratezza del paese, sia in campo
bellico che in campo industriale ed economico.
Sulla spinta delle riflessioni della sconfitta e sulla base di una considerazione fondamentale per il mantenimento dello
stato di cose tradizionali, la struttura sociale non poteva essere conservata senza ispirarsi in qualche modo
all’occidente, e infatti lo zar e i ministri diedero vita a una riforma che si basava sull’emancipazione dei servi, dovuta a
due motivi fondamentali: la paura di nuove rivolte e la debolezza che l’istituto della servitù mostrava. Tra tutti quelli
che lavoravano nel mercato era diffusa la consapevolezza che il libero lavoro remunerato era molto più vantaggioso di
quello servile e infatti nelle zone maggiormente industrializzate i proprietari terrieri esoneravano i contadini dagli
obblighi feudali mediante il pagamento di un canone di riscatto detto obrok: una somma fissa di contanti che
permetteva loro di svolgere qualsiasi attività lavorativa.
Dopo un iter lungo 5 anni,nel 1861 vennero emanati i decreti di emancipazione ma non ci volle molto ai contadini per
capire che rappresentavano un inganno. Tuttavia però questo fu una legge fondamentale che ebbe un’influenza
decisiva sui fatti che si verificarono fino al crollo dell’autocrazia zarista. L’ideale del governo era quello di conciliare gli
interessi contrastanti di contadini e proprietari ed erano dei propositi nobili ma che erano inficiati dalla
preoccupazione di mantenere intatte le prerogative dei proprietari.
Grazie ai decreti il servo non esiste più, ora è un libero cittadino che poteva sposarsi liberamente, possedere
proprietà, e nessuno poteva comprarlo. ma per tutte queste nuove libertà dovette pagare un prezzo altissimo: l’ex
servo si trovò assoggettato ad una dipendenza finanziaria ed economica perché la terra rimaneva al proprietario e se
voleva la terra doveva pagarla e ad un prezzo molto alto.
Gli appezzamenti di terra di cui i contadini disponevano prima della riforma erano abbastanza adeguati e l’ipotesi
migliore era quella che prevedeva che potessero aversi degli accordi spontanei tra le parti. Date le grandi disparità che
c’erano tra le diverse regioni del paese, vennero promulgate delle norme per i minimi e i massimi valevoli per l’intero
paese ai quali dovevano far riferimento le nuove distribuzioni delle terre. In molte provincie, il proprietario poteva
conservare molta parte della sua terra, anche se le distribuzioni non risultavano in regola con le norme stabilite dal
governo.
Le terre che venivano distribuite non diventavano proprietà dei contadini fino a che non venivano riscattate; il riscatto
fu la seconda caratteristica fondamentale della riforma. Le terre potevano essere riscattate su richiesta dei contadini
in due modi:
- Effettuando un servizio gratuito di 30 40 giorni l’anno nelle proprietà padronali;
- l’obrok pagato al proprietario veniva capitalizzato nella misura del 6% e il 100 a cui il 6 era riferito diveniva
allora l’equivalente del valore di riscatto.
Successivamente interveniva lo Stato che versava al proprietario l’80% del riscatto con certificati, che davano il 6%
d’interesse, negoziabili in borsa mentre il restante 20% andava a carico del contadino. Se invece l’attribuzione della
terra era fatta su richiesta del proprietario allora questo riceveva soltanto certificati fino all’80% del valore del terreno
a cui aveva rinunciato; in entrambi i casi però le somme anticipate dallo Stato dovevano essere rimborsate dai
contadini in un tempo massimo di 49 anni dalla data del versamento e con più del 6,5% di interesse.
Per ottenere questo scopo ci si avvalse del mir, che con la riforma fu reso responsabile oltre del pagamento delle
terre anche del pagamento delle rate del riscatto. Vennero istituiti degli organi di autogoverno dei contadini stessi
formati dai capifamiglia e anziani che venivano eletti; vennero istituiti anche dei tribunali che si interessavano solo
delle cause che riguardavano i contadini e avevano giurisdizione su raggruppamenti di comunità, chiamati cantoni.
Questo riguardò i servi dei nobili che erano circa 21 milioni; i servi dello Stato ebbero un trattamento migliore dalla
riforma: l’appezzamento medio di un contadino di una proprietà privata era stato di 9 acri, quello dei servi dello Stato
fu di 23 acri; gli obblighi erano minori mentre per gli altri aspetti non c’erano differenze sostanziali.
Gli effetti di queste leggi furono oltre 647 moti contadini nei primi 4 mesi che seguirono la riforma e furono proprio le
condizioni alle quali venne concessa l’emancipazione alla base delle rivolte, infatti i contadini possedevano meno terre
di quante ne avessero prima e in termini generali persero 1/5 della terra e molto spesso anche il più redditizio.
Alla base della rivolta c’era il riscatto perché <<nascondeva un’aliquota di riscatto personale>> e cosi l’ex servo non
solo pagava la terra, ma anche la libertà dal proprietario: il contadino aveva finito per pagare molto di più di quanto
non avesse ricevuto. Si calcolò che meno del 50% degli ex servi avesse un quantità adeguata di terreno con condizioni
di vita gravi che aumentarono per 2 motivi: per il rapido aumento della popolazione rurale e per lo sviluppo delle
industrie, soprattutto quella tessile, che diede un pesante colpo all’economia delle classi rurali che durante la pausa
imposta dall’inverno, filavano e tessevano per conto di mercanti imprenditori.
Nemmeno i proprietari in termini finanziari se la passavano meglio perché la maggior parte delle terre erano coperte
da ipoteche bancarie. Così una gran parte dei fondi ricevuti come indennizzo finiva alle banche, quindi sia i proprietari
che i contadini rimasero delusi dalla riforma e i nobili videro diminuire le proprietà costantemente.
I più sfortunati tra gli ex servi furono gli 11 milioni che non rientrarono nell’assegnazione delle terre, cioè quelli che
erano addetti alle fabbriche, alle miniere o nelle dimore in qualità di domestici. Le condizioni di quelli che lavoravano
la terra si aggravarono perché gli oneri concessi all’emancipazione li costringevano ad indebitarsi, e può sembrare
paradossale, ma è proprio grazie a questa situazione che la Russia potè avere una bilancia commerciale fortemente
attiva e pagare i debiti contratti all’estero nella seconda metà dell’800: i contadini per poter pagare i debiti erano
costretti a vendere il grano, che veniva esportato in Europa occidentale, e la Russia diventò il Granaio d’Europa, ma
solo al prezzo di impoverire i suoi abitanti. La pressione economica dei contadini era così forte che erano costretti a
vendere anche il grano che avrebbero dovuto consumare. Nella seconda metà dell’800 in Russia non ci furono
miglioramenti a differenza degli altri paesi europei e un livello di vita così basso impedì lo sviluppo di un mercato
interno e la riforma stimolò l’urbanizzazione della Russia che attrasse capitali stranieri nel paese.
Però la Russia dovette aspettare gli anni 90 per entrar a far parte delle grandi nazioni industriali, grazie alla politica del
suo primo ministro Witte. Come nel settore agricolo anche in quello industriale erano differente da quello degli altri
paesi europei: inizialmente l’industria russa era formata da fabbriche statali, gestite dallo Stato insieme ai mercanti , e
da fabbriche appartenenti ai nobili la cui caratteristica comune è che tutti si basavano sul lavoro servile e le produzioni
erano scadenti, con l’eccezione dell’industria del ferro degli Urali che nel XVIII secolo era la maggiore d’Europa e
riforniva l’Inghilterra. Poi c’era l’industria domestica e artigianale, l’industria kustar, che era molto diffusa ed era
formata dai contadini che durante l’inverno si dedicavano alla lavorazione del legno o la confezione delle stoffe.
Il primo settore in cui fu introdotta l’industria moderna su larga scala fu quello tessile e in particolare l’industria
cotoniera per due motivi:
1) la tariffa protezionistica introdotta nel 1822 che garantì agli industriali il monopolio del mercato interno
2) introduzione di filati di cotone inglesi che erano di qualità superiore e di costo inferiore di quelli asiatici
Tra il 1820 e il 1840 il valore dei tessuti inglesi importati discese, mentre aumentò l’importazione di filati
dall’Inghilterra. Nel 1843 in Russia vi erano 40 stabilimenti cotonieri. Grazie all’aiuto di capitali, tecnici e macchinari
inglesi, l’industria cotoniera si sviluppò rapidamente e nel 1860 contava 60 stabilimenti e 42 mila operai. Alla vigilia
della prima guerra mondiale le piantagioni di cotone nel Turkestan e della Transcaucasia diedero all’industria russa
oltre 500milioni di libre di cotone grezzo.
La grande espansione cotoniera continuò tanto che nel 1891-95: il sistema fabbrica sconfisse il lavoro domestico,
aggravando la condizione di vita dei contadini, i lavoratori nelle fabbriche aumentarono a 242 mila. Tutti i settori
tessili, grazie agli aiuti statali e interventi di capitali esteri si espansero e, negli anni 70, nacquero fabbriche moderne
mentre il mercato interno venne riservato ai fabbricanti russi da una tariffa altissima. Molto importante anche
l’industria della lana che si espanse rapidamente soprattutto a seguito delle guerre napoleoniche; anche nei confronti
di questa industria il governo fu prodigo di aiuti imponendo alti dazi all’importazione dei tessuti di lana.
Erano molto sviluppate anche le industrie della raffinazione dello zucchero e del legno, le prime però erano sottoposte
ad un rigido controllo, infatti era lo Stato a decidere la quantità di zucchero da vendere all’estero e quella da vendere
all’interno e a quale prezzo e quanto dovesse essere accantonato come riserva; invece la seconda oltre ad essere una
rilevante voce della bilancia commerciale russa era particolarmente importante per il rifornimento delle materie
prime alle segherie e all’industria della carta.
Nel settore dell’industria pesante ci fu un risorgere dell’industria del ferro, che era situata negli Urali, era stata una
delle più importanti del XVIII secolo. Nel 1790 la produzione di ghisa era di circa 130 milioni di tonnellate, più del
doppio della Gran Bretagna, ma la prima meta del’800 ci fu un periodo di decadenza anche in questo settore infatti
perché le innovazioni introdotte dalla Gran Bretagna non furono introdotte dalla Russia. Ci furono numerosi tentativi
per introdurre i nuovi sistemi di fusione, di puddellaggio e di laminazione con il coke, i forni a fuoco aperto e altri
sistemi ma fallirono tutti perché non si riuscì ad insegnare ai servi l’uso delle nuove macchine e, anche perché il coke
non era disponibile negli Urali e quindi l’industria siderurgica russa rimase arretrata.
Fu l’unione di imprenditori come Hughes, che creò un grande complesso industriale che produceva carbone, ferro e i
binari, ed i Pustachov che permisero, tra il 1870 e il 1886, di porre le basi per una grande industria siderurgica. Un
ulteriore miglioramento si ebbe grazie ai provvedimenti adottati dal governo che elevò i dazi sui prodotti di ferro e
sulle rotaie precisando che per almeno 12 anni non ci sarebbero state riduzioni sui dazi stessi e nel giro di pochi anni
furono impiantate 13 grandi ferriere nel bacino del Donetz. Nel 1901 la Russia aveva superato la Francia per
produzione di ghisa, anche l’industria meccanica aveva fatto notevoli progressi e le officine erano in grado di produrre
700 locomotive e 25mila vagoni l’anno. L’altra industria base per lo sviluppo del settore industriale era quella
carbonifera che si espanse lentamente per via dell’abbondanza del legname che veniva utilizzato come combustibile,
però a poco a poco la produzione aumentò grazie agli investimenti francesi e belgi nel bacino del Donetz dove si iniziò
l’estrazione del carbone su vasta scala; l’industria conobbe notevoli fenomeni di concentrazione tanto che un trust, il
Produgal, riuniva 18 ditte e controllava il 60% dell’intera produzione russa e oltre il bacino del Donetz, erano in attività
quello polacco, quello degli Urali, e dopo la costruzione della ferrovia transiberiana, i giacimenti della Siberia. Ebbe
grande importanza anche l’industria petrolifera quando due famosi industriali svedesi, Robert e Ludwig Nobel
iniziarono, nel 1873, lo sfruttamento dei campi petroliferi, specialmente quelli di Baku, con tecniche perfezionate:
furono perforati nuovi pozzi utilizzando trivelle a vapore e create raffinerie per la distribuzione del petrolio greggio,
facendo rapidamente aumentare la produzione.
Sin dagli ultimi decenni del XIX secolo l’industria si affermò definitivamente quale attività economica dominante,
grazie alle innovazioni che trasformarono la struttura tradizionale dei paesi occidentali, sia sul piano tecnologico che
su quello organizzativo. Alla cosiddetta “ seconda rivoluzione industriale”, si accompagnò una forte espansione
dell’economia, interrotta da crisi circoscritte ma significative perché, segnalarono i primi sintomi di una strozzatura del
processo di sviluppo: la più rilevante fu quella del 1907 provocata dalla sovrapproduzione in alcuni settori industriali a
causa di investimenti eccessivi e di una politica di credito facile praticata da parte delle banche. Superati gli effetti
recessivi, la crescita proseguì provocando tuttavia, l’incrinarsi dei vecchi equilibri e l’accentuarsi di nazionalismi e
rivalità economiche e politiche tra gli Stati, per la conquista di zone di influenza nei paesi nuovi, ricchi di risorse e,
contemporaneamente, mercati essenziali di sbocco. Le grandi potenze si posero sulla strada dell’imperialismo e si
ebbero profonde trasformazioni nella vita economica e sociale creando un clima di tensione.
I progressi nei trasporti. Le comunicazioni si svilupparono grazie alla scoperta di nuovi mezzi di trasporto,
all’elettrificazione e all’ulteriore progresso della rete ferroviaria, che passò da 223.000 nel 1890 a 342.000 km nel 1913
in Europa; da 268.000 402.000 km negli Stati Uniti. Crebbero anche i trasporti marittimi. Infine, il costo di produzione
delle navi diminuì grazie alla riduzione del prezzo dell’acciaio, mentre l’uso del motore diesel migliorò l’efficienza della
navigazione marittima. L’impiego del petrolio permise economia di spazio e di personale e ridusse la frequenza e la
durata degli scali.
Mutamenti della struttura organizzativa. La sviluppo dell’industria pesante, l’aumento della produzione di massa,
l’adozione di nuove tecnologie, si accompagnarono a un profondo mutamento nella struttura organizzativa della
produzione e alla realizzazione di consistenti economie di scala. Al fine di ridurre i costi e la concorrenza, si accentuò il
processo di concentrazione delle imprese, si moltiplicarono i trust e cartelli. Sorsero le società multinazionali che,
effettuavano investimenti diretti in imprese destinate a svolgere attività di produzione e di commercializzazione in vari
paesi del mondo. La limitazione della concorrenza e la diffusione di trusts, cartelli e multinazionali, ebbero come
effetto il mantenimento dei prezzi a livelli elevati, consentendo ai produttori di ricavare ampi margini di profitto a
danno dei consumatori. Il capitalismo liberale dunque scompariva, cedendo il posto ad un capitalismo di tipo
oligopolistico o monopolistico.
Incremento demografico. L’incremento demografico favorì l’espansione dell’economia mondiale: la popolazione
aumentò dal 1896 al 1914 di 200 milioni in tutto il mondo. All’aumento della popolazione si accompagnò la crescita
dell’emigrazione oltremare, che consentì il popolamento e la valorizzazione di terre vergini e disabitate. Dai paesi più
ricchi, partirono flussi di capitali destinati allo sfruttamento delle ricchezze naturali dei paesi nuovi. Per far fronte ai
bisogni emergenti, la coltura dei cereali si estese notevolmente il Nord America e in America latina come nei paesi di
nuovo insediamento (Australia e Nuova Zelanda). Infine fu estesa l’estrazione di materie prime dal sottosuolo: dal
carbone minerale al ferro, dal rame al petrolio.
Lo sviluppo del commercio internazionale e l’attenuazione del protezionismo. La messa a coltura di nuove terre, il più
ampio sfruttamento delle risorse del sottosuolo, lo sviluppo industriale e la stabilità monetaria, provocarono un
notevole incremento del commercio internazionale. A stimolarlo furono i paesi europei costretti ad importare merci
prima dagli altri continenti: l’espansione degli scambi fu favorita ulteriormente dai trattati di commercio che, stipulati
in questi anni, attenuarono le rigide misure protezionistiche adottate in passato.
Il sistema bancario europeo altamente concentrato, costituiva uno strumento efficace per effettuare pagamenti
internazionali e investimenti di capitali. Alla vigilia della prima guerra mondiale la Gran Bretagna, la Germania e la
Francia figuravano come principali paesi creditori.
Ma se vincoli molto stretti legavano i paesi europei, che costituivano ormai uno spazio economico unificato grazie alla
libera convertibilità delle monete e alla libera circolazione di uomini merci e capitali, contraddizioni profonde
delimitavano la solidarietà economica. Molti fattori contribuirono a sviluppare un clima di crescente insicurezza e di
tensioni (nazionalismi, corsa agli armamenti, rivalità imperialistiche); vi si aggiunsero le crisi economiche periodiche
che causarono il malcontento del proletariato industriale, direttamente colpita. Di conseguenza il marxismo trovò
terreno fertile per la sua diffusione e ispirò l’azione dei partiti socialisti europei che si opponevano ai metodi
imperialisti adottati dal governo occidentali ai fini dell’espansione, ed individuavano nella struttura capitalistica
dell’economia la causa fondamentale della crescente competitività tra gli Stati. Il consolidarsi di organizzazioni
autonome della classe operaia, sul piano sindacale su quello politico, l’uso sempre più frequente dello sciopero,
caratterizzarono l’ascesa in Europa del movimento operaio nel ventennio precedente la grande guerra.
Il movimento operaio
Come nel resto d’Europa, anche in Gran Bretagna il movimento operaio acquistò in questi anni maggior vigore. Nel
1900 le Trade Unions si associarono, rafforzando il loro potere contrattuale con gli imprenditori, e sostennero la
creazione di un partito politico autonomo: il partito laburista, fondato nel 1906, e la classe operaia conquistò un gran
numero di seggi alla Camera dei Comuni. Da quel momento il partito laburista influì profondamente sull’azione del
governo che, varò un ampio programma di riforme nel campo della legislazione sociale. Fu assicurata la libertà di
sciopero, mentre i sindacati furono esonerati da ogni responsabilità per i danni derivanti dall’astensione dal lavoro; fu
ridotta la giornata lavorativa ad 8 ore per i minatori e vennero concesse pensioni per la vecchiaia. Quanto al problema
del finanziamento della politica sociale, il governo introdusse importanti innovazioni che avrebbero ispirato la finanza
pubblica per tutto il XX secolo. Il People’s budget, che fu opera del ministro George Lloyd, collocò alla base della
tassazione le imposte dirette (sia la tassa sul reddito che quella di successione) in funzione di aliquote progressive.
Con l’ascesa del partito laburista azione dello Stato divenne più incisiva e fu superata la linea politica dei conservatori.
Il movimento operaio ebbe un importante ruolo nella storia inglese perché permise di gettare le basi del Welfare
State.
L’espansione all’estero
La Germania, divenuta potenza industriale, vide crescere sia le esportazioni di prodotti finiti sia le importazioni di
materie prime. Il successore di Bismarck, Caprivi, favorì gli scambi con l’estero e concluse con i paesi dell’Europa
occidentale una serie di trattati in cui si applicò la clausola della nazione più favorita. Il commercio estero conobbe
complessivamente un notevole sviluppo: 7.683 milioni nel 1890 contro i 22 milioni di marchi del 1913. Le riserve d’oro
della Reichsbank aumentarono Arrivando a 1mld e 200mln di marchi nel 1914. All’espansione dell’economia si
accompagnò un più intenso processo di formazione del risparmio: il saggio di accumulazione del capitale raggiunse il
3,4% annuo negli anni compresi tra il 1896 e il 1913. Di conseguenza, non solo diminuì la dipendenza dei capitali
stranieri, ma aumentarono gli investimenti di capitali all’estero, specialmente in azioni di compagnie ferroviarie, in
compagnia minerarie e commerciali,ecc. Si stimava che, nel 1914, gli investimenti tedeschi all’estero, ammontassero a
22-25 miliardi di marchi, dei quali oltre la metà erano impiegati in Europa e nell’impero ottomano.
Se la bilancia commerciale era passiva, il deficit era compensato dalle partite invisibili: interessi su investimenti,
pagamenti per i servizi bancari, assicurativi e marittimi. Le esigenze connesse allo sviluppo obbligarono la Germania a
reperire nuove fonti di materie prime e nuovi mercati di sbocco ed a ricercare zone di influenza economica
nell’America del sud, nell’Africa meridionale e in Asia minore. Per attuare una politica espansionistica, occorreva
trasformare il paese in grande potenza navale al fine di contrastare la Gran Bretagna. A partire dal 1898, grazie alla
collaborazione dell’ammiraglio Tirpitz, l’imperatore dette avvio ad un ampio programma di costruzioni navali e
concesse agevolazione all’industria cantieristica, sicché ben presto le forze navali tedesche raggiunsero i 2/3 di quelle
inglesi. La Germania si trasformò in una grande potenza economica e finanziaria e il suo programma di espansione finì
col costituire una terribile minaccia dell’equilibrio politico ed economico internazionale.
Il mercato interno
All’ampliamento dell’impero coloniale fa riscontro la ristrettezza del mercato interno per la scarsa sollecitazione della
domanda. La crescita della popolazione fu estremamente lenta. La causa principale è da ritenersi la riduzione della
natalità, con le conseguenze che furono il peggioramento della qualità biologica della popolazione e la scarsa
disponibilità di manodopera che fu in parte colmata dall’immigrazione di lavoratori stranieri ma privi di preparazione
tecnica. La congiuntura mondiale favorevole fu uno stimolo all’espansione dell’economia: in agricoltura crebbe la
meccanizzazione e l’aumento dei rendimenti; il processo di meccanizzazione si accentuò anche nell’attività industriali,
mentre l’elettricità e il motore a scoppio rivoluzionarono i trasporti. Particolare sviluppo ebbe l’industria
automobilistica: nel 1914 sorsero la Renault e la Citroen; nacque infine l’industria cinematografica.
Per quanto riguarda i settori tradizionali, l’industria pesante crebbe, grazie all’impiego del processo che il Gilchrist-
Thomas. Per quanto riguarda il campo del credito, sorsero nuove banche d’affari: il Crédit Agricole; la Banque
Française pour le commerce et l’industrie (1901) fondata per iniziativa di capitalisti tedeschi e francesi, operava anche
all’estero, specie in Turchia e Brasile; il Crédit Mobilier Français, (1902) con capitali tedeschi; la Banque de l’Union
Parisienne (1904). Poiché le imprese provvedevano alle loro esigenze di capitali prevalentemente attraverso
l’autofinanziamento, le banche finirono con l’orientare la clientela verso l’investimento in titoli esteri. Dei 45 miliardi
di franchi investiti all’estero tra il 1900 e il 1914, ¼ venne destinato alla Russia.
Nonostante i progressi registrati, l’agricoltura manteneva un ruolo rilevante nell’economia: la popolazione rurale nel
1910 costituiva il 56% della popolazione; lo sviluppo industriale fu modesto, rallentato dal ristagno della popolazione e
il prevalere degli interessi agrari ma, ebbe un peso notevole la carenza di materie prime, per le quali si dipendeva dalle
importazioni con notevole aggravio di costi di produzione. Si accusavano le conseguenze della perdita dell’Alsazia e
della Lorena, centri importanti dell’industria tessile e mineraria. Quanto all’organizzazione della produzione,
prevalevano l’artigianato e l’industria a domicilio; si fece ricorso ai cartelli nei settori del ferro e dell’acciaio, per
controllarne la produzione e i prezzi, ma essi rappresentavano soltanto un 1/10 della produzione totale.
Il commercio estero
Quanto al commercio estero, i dazi della tariffa Méline all’importazione furono inaspriti tra il 1894 ed il 1900 sui
prodotti agricoli e nel 1910 su tutte le merci. Si tornò ad adottare un’elevata protezione che difese gli interessi degli
agricoltori e degli industriali, non incoraggiò il commercio nè lo sviluppo della marina mercantile, come non diede
impulso all’industria navale. Tra il 1895 e il 1905, il valore complessivo del commercio estero aumentò soltanto del
16%, contro un incremento molto superiore delle altre nazioni.
Il deficit della bilancia commerciale era la conseguenza del rallentamento delle esportazioni. Produttrice
prevalentemente di articoli di lusso, la Francia a fine secolo vendeva con difficoltà all’estero, dove la domanda si
orientava verso la produzione in serie e a buon mercato. La bilancia dei pagamenti risultava attiva, perché il disavanzo
commerciale era compensato dalle esportazioni invisibili: turismo, servizi, interessi per i capitali investiti all’estero.
Il movimento operaio
Rispetto agli altri paesi europei il movimento operaio assunse caratteristiche diverse in Francia. Agli inizi del XX secolo
l’agricoltura era caratterizzata dalla presenza di una vasta classe media di piccoli proprietari indipendenti; l’evoluzione
della grande industria era poco pronunciata ed era ancora assai diffuso l’artigianato, sicché i lavoratori salariati
rappresentavano una percentuale modesta della popolazione. I sindacati riconosciuti legalmente nel 1884 e le Bourses
du Travail (1888), non svolsero un’azione particolarmente incisiva, mentre la Confédération Générale du Travail
(1895), si rivelô estremamente debole e scarsamente rappresentativa. Il socialismo era diviso agli inizi del 900, tra
corrente riformista il cui esponente era Millerand, e orientamento rivoluzionario. Guidati da Jean Jaurés, i socialisti
fondarono nel 1905 un partito unificato, nel quale i riformisti ebbero il sopravvento.
La loro partecipazione al governo della terza Repubblica consentì di realizzare alcune conquiste del campo della
legislazione sociale. Tra queste si ricordano: la giornata lavorativa di 8 ore, una giornata di riposo settimanale,
l’abolizione del sistema di retribuzione in natura, la pensione volontaria di anzianità.
La sinistra socialista e i sindacati non vollero collaborare con il governo. Ispirandosi alle idee che il sindacalista
rivoluzionario George Sorel , espresse nella <<riflessione sulla violenza>>: essi rivendicavano la validità dello sciopero
generale e dell’action directe nelle fabbriche, mediante boicottaggio e sabotaggi. Fedeli alla matrice rivoluzionaria, i
sindacati avversarono i sostenitori dell’imperialismo che, sempre più numerosi, ispiravano l’azione del governo. Tra i
fautori dell’espansionismo coloniale vi erano i produttori alla ricerca di materie prime, gli esportatori e gruppi
finanziari. Il movimento nazionalista si rafforzò con l’aggravarsi della situazione europea e in conseguenza
dell’aggressiva politica attuata dalla Germania di Guglielmo II. L’Action Française , portavoce della destra autoritaria
sfociò nel 1913 nell’elezione di Raymond Poincaré alla presidenza della Repubblica. Col nuovo governo, il nazionalismo
ebbe il sopravvento sul liberalismo.
La rivoluzione industriale
Elettricità, siderurgia e meccanica costituirono i settori trainanti dell’industria italiana, verso i quali si orientarono
cospicui investimenti. L’impiego dell’energia elettrica compensò la scarsa disponibilità di carbon fossile. Una volta
superate le difficoltà nell’istallazione degli impianti e nel trasporto a distanza di energia, il consumo di kilowattora
arrivo a più di 2,5 miliardi di lire nel 1914, mentre il capitale dell’anonime elettriche salì a circa mezzo miliardo di lire
nel 1914. Nonostante questi sforzi, e all’aumentare della popolazione, l’Italia non riuscì a liberarsi dalle importazioni di
carbon fossile. Quanto all’industria siderurgica, essa aveva ricevuto grande impulso dalla protezione accordata con la
tariffa doganale del 1887 e dalle commesse statali. Grazie gli ordinativi della marina militare si affermò la società Terni
(1884); qualche anno dopo sorse l’Elba (1899), che ebbe in concessione di giacimenti di ferro dell’isola. Con il sostegno
dei principali istituti di credito, la Terni riuscì ad assumere il controllo dell’Elba, ad accordarsi con altre società del
settore e fondare la società Ilva che creò un grande impianto a Bagnoli. L’Ilva divenne un trust, strettamente legato
alle banche e allo Stato e dominò la siderurgia italiana. La produzione nel 1914 raggiunse 1 milione di tonnellate. I
costi di produzione tuttavia si mantennero elevati soprattutto a causa delle tecniche riguardanti il processo
produttivo: l’impiego del processo Martin-siemens, più costoso rispetto a quello Tomas-Gilchrist.
L’industria meccanica, scarsamente protetta dalla tariffa doganale ebbe uno sviluppo più contenuto. Fu decisiva per la
sua evoluzione e la nazionalizzazione delle ferrovie, che rappresentò il movimento conclusivo di una crisi profonda. Le
società private avevano conseguito risultati poco soddisfacenti; la proposta dell’esercizio statale delle ferrovie fu
portato in Parlamento e nel 1905 fu decisa la nazionalizzazione che diede grande impulso al settore costruttivo.
Quanto all’industria cantieristica, questa si assicurò le commesse statali e usufruì di premi di navigazione e compensi
speciali. Grazie agli incentivi, l’Ansaldo divenne un grande complesso e, nel 1903, si trasformò in società anonima.
Infine con la fondazione da parte di Giovanni Agnelli nel 1899 della Fiat di Torino, si posero le basi dell’industria
automobilistica. Nel campo dei tessili, l’industria cotoniera, fortemente protetta, si avvalse dell’impiego di elettricità e
assunse dimensioni di rilievo soprattutto in Lombardia, Piemonte e nel Veneto. Si ridusse il ruolo dell’industria della
seta della lana, dove prevaleva ancora l’impresa di tipo familiare. La domanda crescente di fertilizzanti da parte
dell’agricoltura e di materie prime necessarie all’industria dietro un impulso al settore chimico in cui primeggiava la
Montecatini. Infine anche l’industria della gomma crebbe notevolmente: alla guida del settore vi fu la Pirelli, prima
società italiana a realizzare investimenti in altri paesi europei. Lo sviluppo industriale fu promosso dalla classe
imprenditoriale di nuova formazione: famiglie cospicue si poseranno alla guida di grandi complessi, arrecando un
contributo fortemente innovativo alla produzione.
Lo sviluppo dell’agricoltura
La ripresa economica interessò anche l’ agricoltura e il settore zootecnico. L’aumento dei prezzi della domanda a
livello mondiale, la riduzione della concorrenza americana e la diffusione del credito agrario insieme alle bonifiche,
incoraggiarono la produzione. La cerealicoltura si sviluppò nella pianura padana dove i progressi tecnici furono
sensibili e si estese l’uso dei concimi chimici: la produzione arrivò a 48 milioni di quintali nel quadriennio 1911-1914.
Tuttavia le condizioni favorevoli alla meccanizzazione e alla diffusione dell’agricoltura intensiva erano presenti
dall’Italia settentrionale, dove era più facile l’accesso al credito e dove vennero realizzate importanti opere di bonifica.
Il sud non conobbe mutamenti significativi e il resto ancorato alla cerealicoltura estensiva.
Allo sviluppo partecipò fondamentalmente l’Italia settentrionale, verso la quale si orientarono i capitali ed in
particolare l’area del cosiddetto triangolo industriale: Torino, Milano e Genova; questo fu favorito anche dalle migliori
vie di comunicazioni interne. La politica governativa era <<settentrionalista e industrialista >>, nonostante che Giolitti
avesse curato i rapporti con gli agrari, attento a non alterare troppo bruscamente gli equilibri per garantirsi una solida
base elettorale.
Di conseguenza, il dualismo presente nel paese tra il Nord e il sud - carente di risorse, la cui economia è fondata sul
latifondo - non scomparve ma si accentuò. Fu in questi anni che la critica meridionalistica si rinnovò e ad essa fornì un
contributo fondamentale Francesco Saverio Nitti, che alle concezioni liberiste propose per il Mezzogiorno una politica
governativa finalizzata alla promozione dello sviluppo industriale. Ispirandosi alla proposta di Nitti, lo Stato attuò il
cosiddetto intervento straordinario riguardanti le regioni sottosviluppate. La legge per Napoli nel 1904 prevedeva una
serie di misure di intervento: la creazione di una rete di infrastrutture col sostegno statale e, a favore dell’iniziativa
privata, agevolazioni fiscali e doganali, crediti a tassi agevolati e fornitura di forza motrice a prezzi di costo. Tra il 1906
e il 1914 questa legislazione speciale fu estesa a tutto il sud ma, furono interventi volti a riparare qualche guasto, ma
che non riuscirono a risolvere quella ‘’questione meridionale’’. L’emigrazione dal sud è il segno più evidente delle
crescenti difficoltà in cui si dibatteva la popolazione, proprio mentre nelle regioni settentrionali l’industrializzazione e
la generale espansione economica provocarono un diffuso benessere e assicuravano un miglioramento delle
condizioni di vita.
La guerra libica
L’Italia si pose sulla strada dell’imperialismo. Tra il 1911 al 1912 Giolitti, incoraggiato dai nazionalisti, promosse la
conquista della Libia. Furono anche gli interessi economici a giocare un ruolo importante nel colonialismo: il Banco di
Roma aveva effettuato cospicui investimenti in Libia e gli industriali, che ambivano a rafforzarsi con le forniture
belliche, incoraggiarono l’impresa. La guerra si concluse felicemente, ma il bilancio fu pesante, mentre l’aumento della
spesa pubblica può provocò un forte disavanzo nel bilancio statale, un deficit che si protrasse fino allo scoppio della
prima guerra mondiale. Le spese militari, furono pari al 20% nel periodo 1897-1901; salirono a circa 30 % nel 1907-12
e al 47% nel 1913.
Il movimento operaio
Anche in Italia aumentarono i fermenti sociali e si rafforzarono le organizzazioni sindacali che sostenevano le
rivendicazioni della classe contadina e le proteste del proletariato industriale emergente, soggetto ad estenuanti orari
di lavoro nelle fabbriche e allo sfruttamento. Proliferarono le organizzazioni dei lavoratori: rappresentavano gli
interessi della categoria la Federazione Nazionale dei Lavoratori della terra (Federterra, 1901) e la confederazione
generale del lavoro (CGL). Il clima di tensione sfociò in agitazioni sociali che culminarono nello sciopero generale del
1904. Anche il confronto politico divenne più vivo. Nel partito socialista si aprì un ampio dibattito tra la linea moderata
di Filippo Turati, di corrente riformista, e quella rivoluzionaria, facente capo ad Arturo Labriola, il cui obiettivo era il
sovvertimento e la destabilizzazione del governo vigente. All’azione sindacale promossa dei socialisti, si aggiunse
quella condotta dalle organizzazioni cattoliche che, attraverso l’Opera dei Congressi, acquistarono consapevolezza dei
problemi delle masse subalterne e ne sostennero le rivendicazioni. Nacque la democrazia cristiana, come movimento
sociale politica delle masse nell’osservanza dei principi cristiani. Tra gli iniziatori del movimento vi fu il sacerdote
Romolo Murri, che espresse il suo programma riformista nel giornale “Cultura sociale”; A questo gruppo di
democratici apparteneva Luigi Sturzo che avrebbe fondato nel 1919 il Partito Popolare italiano. Le lotte sindacali di
questi anni ebbero grande rilevanza ai fini della conquista di un’adeguata legislazione sociale. In primo luogo sorsero
le assicurazioni sociali. Nel 1898 furono creati l’Istituto nazionale assistenza infortuni sul lavoro (Inail) e la cassa
nazionale di previdenza per invalidità e vecchiaia. Nel 1912 fu fondato l’Istituto nazionale assicurazioni, che assunse il
monopolio dell’assicurazione sulla vita e il periodo si concluse con la conquista del suffragio universale maschile.
I conflitti sociali e le tensioni politiche finirono col minare la stabilità del governo Giolitti che concluse la sua età.
L’incremento demografico
L’aumento della popolazione derivante dall’eccedenza delle nascite sulle morti, dipese soprattutto dall’immigrazione,
che raggiunse punte massime nel 1907 e nel 1913. Complessivamente, in 10 anni emigrarono circa 9 milioni di europei
negli Stati Uniti ed erano, prevalentemente inglesi, irlandesi e tedeschi che componevano una manodopera
specializzata. Dopo di allora provenivano soprattutto italiani, ebrei, polacchi, austroungarici e russi, che furono attratti
dalle possibilità di occupazione della città. Lì essi esercitavano l’artigianato, il commercio o si impiegavano come
manovalanza generica nell’industria, dove ricevevano salari più elevati per orari di lavoro più brevi che nel loro paese
di origine e, offrivano un rilevante apporto alla edificazione della nuova società americana. Le zone di migrazione di
prevalente concentrazione furono Philadelphia, Boston, la zona dei grandi laghi e la California.
Lo sviluppo dell’agricoltura
L’aumento della popolazione e i progressi compiuti nei trasporti consentirono di valorizzare nuove terre. Grazie a
metodi più evoluti, la coltivazione si estese dalle regioni fertili alle terre aride, mentre l’impiego delle moderne
tecnologie assicurò il passaggio definitivo dall’agricoltura estensiva a quelle intensiva. Le terre acquistarono un
maggior valore e la produzione agricola fu soggetta ad una forte pressione dovuta alla crescita dei consumi.
Nonostante l’aumento della produzione, a stento si riuscì a far fronte alla domanda interna. Alimentarono le correnti
di esportazione i prodotti tradizionali, come il cotone e il tabacco e la frutta della California.
Lo sviluppo dell’industria
Non minore fu la crescita della produzione industriale: fra il 1898 e il 1910 la produzione del carbone raddoppiò;
quella di ferro e di rame aumentarono rispettivamente dell’80 e del 150%; la petrolifera del 150%; la manifatturiera
raddoppiò. Progredirono gli investimenti nei nuovi settori - elettricità, comunicazioni telefoniche, ferrovie - e nelle
costruzioni navali. In questo periodo si svilupparono i sindacati operai americani, che ottennero il più ampio
riconoscimento da parte dei datori di lavoro. Alla diffusione dei sindacati si accompagnava il progresso tecnologico,
che aumentava una disoccupazione valutata pari al 2% ogni 5 anni. Tutta via questa fu riassorbita negli anni successivi.
L’America entrò ufficialmente in guerra nel 1898 in seguito all’esplosione nel porto dell’Avana che costò agli americani
la corazzata Maine. Le ostilità durarono soltanto 10 settimane e si conclusero col successo americano : le perdite
furono scarse e costi limitati. La pace con la Spagna negoziata alla Conferenza di Parigi, riconosceva la Repubblica di
Cuba sotto il protettorato di Washington e stabiliva lo smantellamento dell’impero spagnolo e l’annessione agli Stati
Uniti di alcuni insediamenti nel Pacifico. Il brillante esito della guerra fece acquisire al governo la consapevolezza del
livello di potenza raggiunto: fu uno stimolo al rafforzamento dell’esercito e della marina e, soprattutto, fece trapelare
l’opportunità di realizzare comunicazioni più rapide con il Pacifico. Dopo l’insediamento nel Pacifico, all’attenzione
americana si rivolse alla Cina ed al suo ampio mercato. Sconfitta dal Giappone, la Cina, rappresentata dalla debole
dinastia Manciù, era diventata preda delle potenze europee, che si contendevano privilegi economici e concessioni
territoriali. In previsione di una loro più consistente presenza, gli Stati Uniti annunciarono la politica della <<porta
aperta>>, che si fondava sul principio del reciproco rispetto degli interessi costituiti da parte delle nazioni interessate
a nuovi insediamenti nel territorio cinese.
Gli strumenti di espansione furono soprattutto quelli delle zone di influenza economica e politica, attraverso la
<<diplomazia del dollaro>> :con aiuti finanziari, elargiti da banche americane a governi in deficit o mediante contratti
di concessione e investimenti effettuati nel settore pubblico e privato, gli Stati Uniti acquisirono gradualmente una
funzione di controllo sulla legislazione, sulle risorse di bilancio e sulla politica finanziaria di un numero crescente di
Stati.
Fino allo scoppio della prima guerra mondiale si erano incominciate a delineare soltanto le prime fasi dell’espansione
che trova invece la sua massima espressione nel dopoguerra. L’elevata protezione costituiva certamente un ostacolo
all’inserimento dell’economia statunitense nel mercato mondiale. Inoltre il Taylorismo e il Fordismo, con i loro principi
fondati sull’organizzazione scientifica del lavoro, ispiravano la classe imprenditoriale a porsi sulla strada dell’efficienza
della razionalizzazione della produzione. Si diffusero i metodi della ‘’catena di montaggio’’ e delle
‘’parti intercambiabili’’ cosicché, le moderne produzioni di massa diedero particolare impulso alla concentrazione e
all’ampliamento delle dimensioni aziendali. Tutto ciò conduce alla formazione di imprese dotate di una propria
organizzazione amministrativa integrata sia verticalmente che orizzontalmente: nascevano quindi i trust, che
controllavano i due terzi del capitale industriale del paese (es. Standard Oil Company, United States Steel Company). Si
svilupparono le holdings, che partecipavano all’attività produttiva indirettamente, tramite il possesso di titoli emessi
dalle imprese. Evidentemente la legislazione antitrust, che risaliva allo Sherman act del 1890 era rimasta lettera morta
e di conseguenza le tendenze monopolistiche mantenevano i prezzi industriali ad alti livelli.
3.2 IL SISTEMA MONETARIO INTERNAZIONALE: DAL GOLD STANDARD AL GOLD EXCHANGE STANDARD
Durante la guerra il sistema monetario internazionale crollò perché i paesi belligeranti avevano sospeso la
convertibilità in oro dei biglietti (a causa della riduzione del rapporto tra riserve auree e massa monetaria), dando
avvio all’inflazione. a guerra finita il problema più urgente era la ricostruzione del sistema monetario e il ritorno alla
convertibilità. Su richiesta del governo britannico fu redatto, nel 1918, il Cunliffe Report, che auspicava il ritorno al
gold standard: richiamandosi a Ricardo, gli autori del rapporto sostennero la validità della teoria classica dell’equilibrio
automatico della bilancia dei pagamenti, secondo la quale i deficit delle eccedenze con l’estero erano eliminati
automaticamente da meccanismi di mercato:
in caso di eccedenza nei conti con l’estero (esempio: più esportazioni che importazioni) loro affluiva copiosamente sul
mercato interno. Ne derivava un aumento della quantità di moneta in circolazione e il rialzo dei prezzi; la pressione
inflazionistica scoraggiava le esportazioni e, incoraggiando le importazioni, provocava l’eliminazione dell’avanzo.
Al contrario, in caso di deficit negli scambi con l’estero, l’uscita di oro comportava una diminuzione della quantità di
moneta e il ribasso dei prezzi; la pressione deflazionistica favoriva le esportazioni e scoraggiava le importazioni, in tal
modo il disavanzo veniva annullato.
L’equilibrio con l’estero fu l’obiettivo prioritario per ristabilire automaticamente una libera economia di mercato e un
sistema aureo. Con la Conferenza Finanziaria internazionale di Bruxelles, l’importanza del ritorno all’oro fu
sottolineato da molte nazioni, ma questo doveva essere attuato per gradi, perché avrebbe avuto inevitabilmente
effetti deflazionistici: la massa monetaria alla fine della guerra risultava enormemente dilatata; la deflazione non era
auspicabile, perché avrebbe normalmente intralciato la ricostruzione.
La successiva Conferenza Monetaria internazionale di Genova nel 1922, ribadì i rischi del ritorno all’oro e raccomandò
una diversa soluzione: l’adozione del gold exchange standard (sistema a cambio aureo). Nel nuovo sistema
monetario, alle riserve auree, detenute dalle banche centrali e diventate insufficienti a garantire la massa monetaria
in circolazione, sarebbe stata affiancata una riserva in divise-chiave (La divisa a chiave e ogni titolo di credito pagabile
su piazza estere e quindi in moneta estera, che seppe come mezzo di pagamento per regolare i debiti e crediti fra Stati
diversi).
La divisa-chiave si distingueva dalla divisa periferica, perché quest’ultima era garantita da una riserva non
necessariamente aurea, ma costituita da divise-chiave, sicché la divisa periferica era convertibile solo indirettamente
in oro. Ampliando i valori di riferimento della moneta in circolazione (oro e divise-chiave) si sarebbe economizzato
l’oro che scarseggiava sul mercato evitando la deflazione. Sempre al fine di economizzare l’oro, si raccomandò di
escluderlo dalla circolazione monetaria interna, e di riservare la convertibilità alle transazioni internazionali, in lingotti
e per somme elevate.
Al gold exchange standard si sarebbe affiancato dunque il Gold bullion standard auspicato nel 1810 da Ricardo.
I paesi europei gradualmente aderirono al Gold exchange standard , agganciando le rispettive monete all’oro e alle
divise internazionali, dollaro e sterlina. Rispetto al gold standard ottocentesco il nuovo sistema presentava molto
differenze:
1) innanzitutto le monete d’oro scomparvero dalla circolazione, aumentarono le riserve delle banche centrali, e d’altra
parte la creazione di moneta veniva affidata alle emissioni fiduciarie delle banche nazionali.
2) molti paesi furono costretti a ripiegare su tale sistema, il quale consentiva riserve anche in divise estere.
Se con il nuovo sistema si ridusse la pressione sull’oro, si accentuò quella sulle divise convertibili. Inoltre, l’adozione
del gold exchange standard era ritenuta provvisoria in attesa di un definitivo ritorno all’oro: i centri finanziari
internazionali erano continuamente esposti ad un’eventuale improvvisa richiesta di conversione in oro delle divise,
che non sempre potevano fronteggiare.
3) Un’ ulteriore debolezza del nuovo gold standard fu costituita dalla scelta poco oculata dei tassi di cambio, per cui
alcune monete risultarono sopravvalutate e altre sottovalutate. Ciascun paese, una volta fissata la parità aurea, non
prendeva in considerazione un’eventuale aggiustamento, ritenuto lesivo del proprio prestigio.
Nonostante innumerevoli problemi, la stabilità dei cambi, ufficialmente ripristinata, consentì la ripresa degli scambi
commerciali e delle relazioni finanziarie, dando avvio ad un nuovo sviluppo dell’economia mondiale.
Alla vigilia della prima guerra mondiale la sterlina costituiva l’unica divisa accettata in pagamento nelle transazioni
internazionali. Robert Triffin ha posto in rilievo l’importanza della sterlina rispetto all’oro e ha constatato che, se l’oro,
nel corso del XIX secolo, avesse avuto il ruolo ad esso attribuito da sostenitori del gold standard, ne sarebbe derivato
un rallentamento dello sviluppo economico dei paesi capitalistici. Il sistema monetario ottocentesco, non consistette
mai nell’impiego esclusivo dell’oro come mezzo di pagamento, poiché i bisogni di finanziamento del commercio
mondiale erano tanto cresciuti, con lo sviluppo industriale, da richiedere ulteriori strumenti di pagamento: sul
mercato interno, il credito bancario; la sterlina, in campo internazionale.
Secondo le stime della Società delle Nazioni, il volume dei biglietti e dei depositi bancari, nel 1913, rappresentava
l’83% e l’oro soltanto il 10 della circolazione monetaria complessiva. Già prima della conferenza di Genova,
l’accumulazione delle divise, come liquidità internazionale, costituiva realtà. Il che significava che non aveva trovato
riscontro nei fatti la teoria classica; era la sterlina che aveva funzionato come strumento di riserva e di pagamento
nelle transazioni internazionali. Triffin sostenne che il sistema monetario ottocentesco si basava sulla moneta
fiduciaria; più che è un gold standard fu quindi uno Sterling exchange standard, perché Londra aveva costituito nel XIX
secolo centro finanziario mondiale. Inoltre, gli squilibri della bilancia dei pagamenti dell’ottocento venivano eliminati
grazie la manovra del tasso di sconto* attuata dalla banca centrale. Il rialzo del tasso di sconto a Londra, ovvero il
maggior costo del denaro: a) attirava i capitali stranieri; b) tratteneva a Londra i capitali depositati; c) frenava nuovi
prestiti esteri a breve termine.
D’altro canto, il maggior costo del denaro poteva comportare un rallentamento dell’attività economica e una
diminuzione dei prezzi. I paesi detentori di materie prime e di prodotti agricoli si affrettavano a liquidare i loro stocks a
vantaggio dell’Inghilterra. La politica monetaria restrittiva finiva col condurre al miglioramento dei termini di scambio
a vantaggio della Gran Bretagna; le riserve d’oro potevano essere limitate rispetto alla quantità di sterline emessa,
poiché la manovra del tasso di sconto consentiva di sanare eventuali squilibri con l’estero.
*(Il tasso ufficiale di sconto è il tasso, fissato ufficialmente dalla banca centrale, in base al quale essa effettua prestiti
al sistema bancario, mediante il risconto dei titoli contenuti nel portafoglio dei vari istiuti di credito. Il tasso ufficiale di
sconto costituisce il principale parametro per la fissazione del costo del denaro, ossia del tasso in base al quale il
sistema bancario, a sua volta, concede prestiti agli operatori economici)
C’erano altri meccanismi di riequilibrio della bilancia dei pagamenti, come i movimenti a lungo termine dei capitali.
I paesi nuovi potevano finanziare il deficit della loro bilancia dei pagamenti grazie ai capitali che ricevevano da paesi
industrializzati,i quali si avvalevano dei capitali esuberanti; i paesi debitori colmavano i deficit senza dover pagare in
oro, il che avrebbe comportato la riduzione del ritmo delle importazioni. Tuttavia per i paesi debitori, questa
situazione di equilibrio, poteva essere fortemente scossa: si poteva verificare il ritiro dei capitali in caso di recessione
con la conseguenza della ricomparsa del disavanzo.
Alla vigilia della prima guerra mondiale gli Stati Uniti aspiravano a sostituirsi a Londra nelle operazioni finanziarie. la
guerra offrì l’occasione per attuare questi propositi: per far fronte alle emergenti esigenze, i paesi europei furono
costretti a liquidare i crediti a lungo termine negli Stati Uniti e a chiedere prestiti per pagare le importazioni. Londra
era rimasta paralizzata, e perciò l’unica piazza appetibile rimase New York, prendendo prestiti in dollari. Ciò fu
possibile, perché il Federal Reserve act aveva conferito alle Member Banks le possibilità di compiere operazioni di
accettazione di tratte straniere, ossia di riservare i capitali a breve termine per il commercio internazionale. Alla
ricerca di nuovi clienti, i banchieri di New York offrivano capitali a condizioni vantaggiose e, per sostenere la
concorrenza inglese, aumentarono contemporaneamente l’offerta di capitali a lungo termine. Durante il conflitto il
dollaro fu ampiamente utilizzato come valuta internazionale. L’adozione del gold exchange standard comportò che la
divisa-chiave per eccellenza fosse il dollaro a cui si affiancò la sterlina.
Tutto questo accadeva in un periodo delicato a causa della crisi della produzione: il settore tessile era minacciato da
crescenti consumi di fibre artificiali e l’industria del cotone aveva perduto sbocchi sul mercato europeo a causa della
concorrenza; in difficoltà erano anche le industrie pesanti che avevano avuto un’eccessiva espansione in tempo di
guerra; l’industria del carbone fu messa in crisi dal persistere di sistemi di estrazione antiquati e per la concorrenza
tedesca così come quella di energia elettrica e petrolifera. Segnali di progresso si registravano nelle industrie nuove:
l’automobilistica, la chimica, Le apparecchiature elettriche.
L’espansione dell’economia inglese fu stentata per una serie di fattori: effetti del ritorno al gold standard,
rivalutazione della sterlina, concorrenza, difficoltà di modernizzazione, elevato tasso di disoccupazione e così via.
Gli effetti di questa debolezza si avvertirono sul mercato internazionale: se il commercio mondiale dopo il 1925
superava il livello prebellico, le esportazioni inglesi non lo avevano raggiunto. Ad accentuare gli squilibri del sistema
concorreva la circostanza che la sterlina risultava sopravvalutata; le autorità britanniche cercarono di porre rimedio
alle conseguenze della sopravvalutazione, attraverso il livellamento dei prezzi verso il basso sul mercato interno:
essi praticarono perciò una riduzione dei salari monetari, ma l’operazione non ebbe l’esito deflazionistico sperato
perché I salari e costi risultarono meno flessibili del periodo prebellico e, la conseguenza immediata fu una grave crisi
sociale, accompagnata dagli scioperi, il quale ricordiamo quello dei minatori del 1926 che scioperarono per sei mesi
senza ottenere risultati. L’equilibrio interno in Inghilterra, finì dunque per essere sacrificato all’equilibrio con l’estero:
l’attività industriale fece le spese della difesa della tradizione della sterlina. Ad accrescere la debolezza inglese va
considerato che molti paesi, che avevano adottato il gold exchange standard, detenevano a Londra fondi, come
riserva, o investiti a scopo di speculazione. Il rapporto McMillan, redatto nel 1931, faceva rilevare che il debito estero
a breve termine della Gran Bretagna era superiore allo stock di oro della Banca d’Inghilterra e la situazione si
presentava estremamente pericolosa perché, da un momento all’altro, i paesi detentori di sterline avrebbero potuto
chiedere la conversione in oro dei loro crediti e la banca non sarebbe stata in grado di farvi fronte.
Le probabilità di disinvestimento delle sterline erano quasi nulle nell’ottocento per via del gold standard e della
posizione di Londra. Il gold exchange standard nel 1922 si presentava come un sistema fortemente instabile a causa
del decentramento finanziario internazionale; ciò significava che in caso di emorragia d’oro dall’Inghilterra, la
tradizionale manovra del tasso di sconto sarebbe apparsa come segno premonitore dell’indebolimento della sterlina,
non consentendo di arrestare il processo di spostamento dell’oro da Londra su un’altra piazza in grado di offrire
maggiori sicurezze. In questo contesto, la Gran Bretagna era incapace di mantenere sotto controllo il sistema
monetario.
Trassero vantaggio dall’inflazione di industriali, che videro deprezzare gli impegni già contratti e ampliare la
produzione, ricorrendo a prestiti a breve termine che rimborsarono in moneta svalutata; i commercianti apportarono
aumenti ai prezzi in misura superiore all’inflazione; gli agricoltori investirono in macchine; lo Stato poté fare a meno di
accrescere la pressione fiscale sui possidenti. D’altro canto, duramente colpiti furono gli operai per il dilagare della
disoccupazione e l’erosione del loro potere di acquisto, e le classi medie: risparmiatori, detentori di redditi fissi e
piccoli imprenditori. Nei primi tempi dell’inflazione, il rialzo del corso della valuta fu più rapido dell’incremento dei
prezzi sul mercato interno. Ne approfittarono gli stranieri, che aumentarono i loro investimenti in Germania
soprattutto in compagnie societarie e in abitazioni. La produzione aumentò e raggiunse nel 1922 quasi quelle del
1913; l’incremento riguardò la produzione di beni necessari alla costruzione di infrastrutture e le nuove tecnologie, in
cui furono investiti i profitti eccezionali.
In secondo momento, il rialzo dei prezzi fu più rapido rispetto alla caduta del valore del marco all’estero, perché il
pubblico aspettandosi che il valore della moneta si riducesse ulteriormente, se ne liberava al più presto. I prezzi
crebbero tanto velocemente, che la moneta esistente divenne insufficiente ad effettuare gli acquisti di merci. Se si
assume la media annua dei prezzi all’ingrosso pari a 1 nel 1913, salì a 2,45 del 1918 e il 1262 miliardi di marchi nel
1923. Di conseguenza la moneta cartacea fu rifiutata nelle transazioni, i prezzi cessano di essere espressi e il mercato
si paralizzò; ad entrare in circolazione furono le monete straniere il baratto. Ad accentuare la crisi monetaria fu la
Francia che nel 1923 occupò la Ruhr per costringere la Germania a pagare le riparazioni di guerra. Ne derivò il
definitivo crollo del marco e la consapevolezza che la Germania non avrebbe mai potuto pagare se non si fosse attuato
un programma radicale. Si istituì a tal fine un comitato, presieduto dal generale Dawes.
Schacht restituì alla Reichsbank il privilegio dell’emissione e al Rentenmark sostituì il Reichsmark , un biglietto di
banca con un contenuto aureo pari a quello anteguerra, garantito dalle riserve della Banca centrale in oro e in divisa e
straniere, per il quale il cambio era fissato nella proporzione di un nuovo marco per 1000 miliardi di vecchi marchi.
Dopo il risanamento monetario e l’adesione al gold exchange standard, la Germania firmò nel 1925 il trattato di
Locarno ed entrò nella Società delle Nazioni.
Da quel momento essa avviò una politica di intesa che servì a far ristabilire la fiducia nella ripresa della sua economia e
a far affluire nuovamente capitali stranieri nel paese.
La Germania fu il primo paese in Europa ad adottare la <<razionalizzazione>> della produzione che, secondo la
definizione della Conferenza Economica mondiale di Ginevra del 1927, comprendeva <<l’organizzazione scientifica del
lavoro, la standardizzazione dei materiali e dei prodotti, la semplificazione dei processi, il miglioramento dei sistemi di
trasporto e di smercio>>. Fu introdotto il sistema della lavorazione in serie sul modello di Ford, che consentì di ridurre
i costi di produzione e aumentare la produttività. Alla più efficace organizzazione produttiva si accompagnò un intenso
processo di concentrazione industriale: le imprese meno efficienti scomparvero, mentre si diffusero trust e cartelli
creando così veri e propri giganti industriali che riuscirono a snellire i processi produttivi. Questi grandi gruppi
industriali esercitarono un potere è un’influenza considerevoli nel paese e costituirono l’ossatura della struttura
nazista. Il progresso industriale si registrò, più che nel settore dei beni di consumo, nel campo dei beni industriali: sin
dal 1927 la Germania era in testa alla produzione mondiale; il reddito nazionale passò, tra il 1925 e il 1929, da 60 a 76
miliardi di marchi, con l’aumento annuo del 6%; risultati che vennero realizzati, in parte, grazie ai prestiti esteri di cui il
paese fu beneficiario. Nel campo della politica sociale viene istituita la previdenza contro la disoccupazione e fu
fondata la magistratura del lavoro.
Alla vigilia della grande crisi la Germania aveva guadagnato la capacità produttiva prebellica; tuttavia, le basi erano
precarie per via dell’indebitamento estero, inoltre, la bilancia commerciale restò in deficit e l’agricoltura progredì
soltanto grazie ad aiuti forniti dal governo ai grandi proprietari terrieri. L’inflazione e il successivo risanamento
monetario avevano provocato danni irreparabili e impoverito pesantemente buona parte della popolazione che finì
con l’avversare la Repubblica di Weimar e sostenere l’avvento di Hitler.
Nel frattempo la ricostruzione aveva proceduto con grande velocità, tanto che nel 1925 poteva considerarsi conclusa:
ferrovie e canali erano stati ricostruiti e in netta ripresa risultava anche l’agricoltura. Ad espandersi fu soprattutto la
produzione industriale che, nel 1925, superava le cifre anteguerra. La struttura produttiva aveva conosciuto una
profonda trasformazione e modernizzazione in campo metallurgico e soprattutto, nei nuovi settori, quali elettricità,
alluminio e chimica; al progresso tecnologico si erano associate forme di concentrazione economica e finanziaria, di
cui costituiscono esempi significativi le società Peugeot, Renault e Citroen e i grandi gruppi, come Saint Gobain, nel
campo chimico. Nella siderurgia e in campo estrattivo si erano costituiti importanti cartelli: la conseguenza della
maggiore efficienza industriale del paese fu l’aumento delle esportazioni che superarono per la prima volta le
importazioni.
L’indebitamento da parte dello Stato e la conseguente inflazione furono il risultato di una scelta politica volta a
sostenere l’economia. Il deprezzamento della moneta giovò alla ripresa, la flessione subita dal franco rese conveniente
l’indebitamento da parte degli industriali, mitigò l’urto della depressione e incoraggiò la spesa interna. In ogni caso, si
trattò di una scelta coraggiosa, che fece rischiare alla Francia di pagare la politica finanziaria inflazionistica con il
collasso della moneta stessa; ma ciò non accadde e fu il gabinetto di destra di Raymond Poincaré a ricondurre la
situazione monetaria del paese alla stabilità.
Il risanamento monetario.
La prima fase del programma di risanamento consistette nel porre la Francia in regime di gold exchange standard
(legge del 1926), stabilizzando il franco e fissando il cambio della sterlina a 12,25 Fr. L’operazione fu possibile perché
gli avanzi della bilancia commerciale erano stati trattenuti in valuta estera, così utilizzate come riserva dalla banca
centrale. Contemporaneamente si attuò una politica di deflazione, attraverso l’aumento del tasso di sconto,
l’inasprimento delle imposte e il consolidamento del debito fluttuante a un tasso di interesse vantaggioso. Gli effetti
della politica di austerità furono il risanamento della finanza pubblica e l’attivo del bilancio statale; tuttavia,a questi
obiettivi si accompagnarono forti tensioni sociali.
La seconda fase del programma di stabilizzazione, affrontato da Poincaré con la collaborazione di Emile Moreau
(Governatore della Banca di Francia), si basò sulla legge di agosto del 1926, che autorizzava la Banca di Francia ad
acquistare oro e divise straniere al corso di mercato con biglietti appositamente emessi, in modo da consentire
all’Istituto di fornire moneta cartacea e di ricostruire la propria riserva aurea assicurata una copertura alla
circolazione. Il programma di risanamento fu di facile attuazione, perché il pubblico riacquistò fiducia nel franco e i
capitali investiti all’estero rientrarono nel paese; era opinione diffusa che il tasso di cambio fosse inferiore all’effettiva
possibilità di assestamento del franco e, di conseguenza, si verificò un vero e proprio drenaggio d’oro che si accentuò
grazie alla progressiva crescita delle esportazioni. Le riserve d’oro della Banca di Francia aumentarono
progressivamente arrivando a 3257 milioni di dollari nel 1932.
L’opera di risanamento si concluse con la legge del 1928, che rese il franco convertibile in oro, garantendo la
convertibilità soltanto il lingotti (gold buillon standard). Col franco Poincaré la svalutazione era legalmente
riconosciuta, perché la moneta fu stabilizzata con una perdita dell’80% rispetto al suo valore prebellico. Una volta
adottato il gold standard, le sterline precedentemente accumulate vennero trasformate in oro; la Francia ritrovò in
breve tempo una notevole prosperità economica e, nel 1929, deteneva diversi primati mondiali nella produzione, dei
quali in settori più recenti. L’espansione dell’economia francese si prolungò fino al 1931 e non fu arrestata perché la
Francia, non avendo commesso l’errore di ripristinare la vecchia parità, poté giovarsi della sottovalutazione della
moneta, alla quale si accompagnarono l’attivo del bilancio statale (registrato sin dal 1924) e gli avanzi della bilancia
commerciale e quella dei pagamenti.
Le spese di guerra furono molto elevate e il debito pubblico passò tra il 1914 e il 1918 da 16 a circa 61 miliardi di lire
mentre tra il 1914 e il 1920 il rapporto del debito pubblico col Pil passò dall’81 al 125%. L’inflazione, provocata
dall’aumento della circolazione cartacea, in seguito alla sospensione della convertibilità della moneta, avviò la
speculazione, provocò la rovina dei ceti medi e aggravò le condizioni del proletariato. La penuria di riserve di materiali
condusse all’istituzione del controllo dei cambi*. Alla fine del conflitto le condizioni economico-sociali dell’Italia erano
disastrose: deficienza di prodotti alimentari, carenza di mezzi finanziari, impossibilità di riconvertire l’industria,
disoccupazione vastissima e disordini sociali. Fu in questo clima che Mussolini riuscì a scalare la piramide del potere.
*(il controllo sui cambi è lo strumento di politica economica con cui lo Stato esercita un controllo sulle negoziazioni in
oro e in valuta estera. Ad esso si ricorre per influenzare il valore internazionale della moneta, sottraendola alle
fluttuazioni del mercato libero e mantenendone il corso ad un livello prefissato. Una volta attivato, la valuta non è più
interamente convertibile, ma soltanto nei limiti fissati dall’autorità monetaria. Lo Stato dunque interviene
direttamente sulla bilancia dei pagamenti, operando sia sulla massa di valuta estera richiesta, sia sul trasferimento dei
capitali)
L’avvento di Mussolini.
La vittoria mutilata, così definita causa delle condizioni di pace insoddisfacenti per l’Italia, provocò un diffuso
malcontento nella popolazione. Il ritiro delle truppe dall’Albania, la perdita di Fiume, la decisione degli Alleati di non
concedere le isole del Mediterraneo, costituirono un duro colpo per le aspirazioni nazionalistiche. D’altro canto, le
risorse per far fronte alla ricostruzione, misero il governo italiano in posizione di soggezione agli Alleati.
L’Italia fu soggetta a quella crisi di riconversione degli anni 1920-21, che coinvolse anche gli altri paesi europei.
L’industria, dopo il boom del periodo bellico, che aveva fatto ampliare notevolmente le sue dimensioni e aveva
provocato la sua concentrazione, fu travolta da una crisi di sovrapproduzione: i grandi complessi industriali risentirono
pesantemente della recessione. Alla fine del 1921 l’Ilva fallì e, nello stesso anno, crollò l’Ansaldo, la quale trascinò con
sé la Banca Italiana di Sconto, l’istituto dal quale aveva ricevuto cospicui capitali. La crisi si diffuse a tutta l’economia e
la disoccupazione si accentuò con il malcontento della classe operaia e delle agitazioni dei contadini, preoccupati per il
rialzo del costo della vita e la diminuzione dei salari reali.
Questi passarono all’occupazione di fabbriche e terre incolte che vennero, per una certa parte, concesse legalmente
dal governo Nitti nel 1919. Tuttavia, queste agitazioni non portarono a riforme agrarie o provvedimenti a favore della
classe operaia. Va ricordato che in quegli anni, la rivoluzione russa e l’ideologia marxista ebbero una notevole
influenza su gran parte dell’opinione pubblica. Nel 1919 Antonio Gramsci (insieme a Togliatti, Terracini e Tasca) creò
un periodico, “L’Ordine Nuovo”, di ispirazione marxista e nel 1921 fondò il Partito Comunista, arrecando una
profonda scissione nella cultura di sinistra. Ad aggravare la situazione italiana fu l’instabilità politica per la debolezza
dei ministeri che si alterarono al governo del paese. Fu dalla condizione di disordine, economico, sociale e morale, che
Mussolini ebbe la forza per dare il colpo di grazia allo Stato liberale e per realizzare, con la marcia su Roma (ottobre
1922), un governo autoritario e nazionalista, che riuscì a cogliere la fiducia della gran massa di scontenti e delusi e che
fondò il suo programma sulla restaurazione dell’autorità statale. Postosi in luce dal 1914, Mussolini aveva manifestato
la sua posizione interventista e aveva fondato il giornale “Popolo d’Italia” sul quale avrebbe trovato spazio per la sua
propaganda. Nel 1919 fondò i Fasci di combattimento: si trattava di una formazione politica il cui programma
rivendicava il socialismo nazionalistico; nel 1921 ebbe vita il Partito Nazionale Fascista. I fasci raccolsero consensi
ovunque e per ristabilire l’ordine, Mussolini si avvalse delle squadre d’azione: queste cominciarono a commettere atti
di violenza e ad utilizzare sistemi terroristici contro i partiti di sinistra, identificati come nemici diretti dello Stato. Col
definitivo consolidamento del regime, il fascismo fu un movimento di destra estremista, che si è dato una dottrina con
il filosofo Giovanni Gentile. Questo rinnegò l’individualismo liberale e democratico e ad esso contrappose l’efficacia
della solidarietà collettiva: a suo avviso, i diritti e le aspirazioni dell’individuo dovevano essere subordinati agli
interessi ed ai valori della comunità nazionale.
Il periodo liberista.
Con il sostegno di buona parte dei liberali e dei cattolici e, con la protezione dei grandi proprietari fondiari, si ha l’inizio
della prima fase del fascismo, ossia quella “liberale”, con Alberto De Stefani al ministero delle finanze.
Fu riformato il sistema tributario. Le imposte introdotte durante la guerra vennero quasi tutti abolite , l’imposta sul
patrimonio venne alleggerita, mentre fu abolita quella di successione nell’ambito del nucleo familiare; fu revocato
l’obbligo della nominatività per i titoli azionari e fu posto fine al blocco dei fitti. Questi sgravi vennero bilanciati con
l’introduzione di nuove imposte dirette: di ricchezza mobile sui salari e sui redditi agrari; aumenti considerevoli alle
imposte indirette e si istituì la tassa sugli scambi.
Già con queste riforme il fascismo saldava il debito politico contratto con i ceti industriali e proprietari. Profittando
anche della fase di espansione dell’economia mondiale, De Stefani attuò una serie di riforme volte a: ridurre la spesa
pubblica, liberare l’iniziativa privata dai controlli statali, incoraggiare l’investimento. L’ondata liberista proseguì con la
riduzione dei dazi doganali su alcuni prodotti, mentre fu soppresso il dazio sul grano, nella considerazione che le
importazioni erano scoraggiate dall’elevatezza del cambio, a causa della svalutazione subita dalla lira. Il settore di
punta divenne l’elettrico, stimolato dalle applicazioni dell’elettricità nel sistema ferroviario, nella siderurgia e
nell’industria chimica. In complesso venne stimolata l’industrializzazione che divenne slogan (produttivismo) del
fascismo. I risultati di questa politica si raccolsero in breve tempo.
La produzione industriale, posto l’indice generale del 1922 pari a 100, salì a 116 nel 1923 e 157,3 nel 1925.
Ai promettenti risultati conseguiti in campo industriale si aggiunsero buoni raccolti che fecero aumentare la
produzione agricola. Il reddito nazionale a prezzi correnti salì da 96.658 milioni nel 1922 a 136.937 milioni di lire nel
1925. Progredirono i trasporti interni e si ridusse il deficit della bilancia commerciale per la crescita delle esportazioni.
I progressi conseguiti fecero acquistare al regime una rapida popolarità, ma questa situazione così favorevole non
poteva durare a lungo, perché il sistema produttivo era fortemente instabile. la necessità di beni alimentari e di
materie prime, come il carbone si mantenne altissima alimentando le importazioni. La politica liberista di de Stefani
finì col dare impulso ai settori produttivi che non avrebbero potuto,nel lungo periodo, conseguire la realizzazione di un
avanzo della bilancia commerciale. A compromettere ulteriormente la possibilità di esportazione contribuì la perdita
dei mercati orientali, ormai acquisiti dalla Germania. Al deficit della bilancia commerciale si aggiunse quella della
bilancia dei pagamenti, per l’insufficienza degli introiti, e soprattutto perché si ridussero le rimesse degli emigranti.
L’emigrazione diminuì verso quei paesi che avevano completato la ricostruzione e si ridussero anche i flussi migratori
verso gli Stati Uniti.
Quanto al bilancio statale, le drastiche economie della spesa pubblica e l’aumento delle entrate, conseguito grazie al
maggior gettito dell’imposta di ricchezza mobile, consentirono la riduzione del disavanzo e il raggiungimento, nel
1924, del pareggio. Ma le condizioni della lira erano di estrema debolezza, e a provocare il suo progressivo svilimento,
contribuirono: l’eccessiva espansione del credito, il regolamento dei debiti di guerra, le passività della bilancia
commerciale dei pagamenti. Alla diminuzione della potere di acquisto della lira si accompagnarono l’aumento dei
prezzi, e il rialzo del costo della vita. La corsa all’investimento sfociò nel 1925 in un boom speculativo. Per frenare
l’ascesa del fenomeno, il governo intervenne con dei provvedimenti che vietarono le contrattazioni; si arginò
l’inflazione creditizia mediante l’aumento del tasso di sconto dal 5 al 7%. Queste misure preludevano al mutamento
generale della politica economica del regime: Mussolini si convinse dell’opportunità dell’abbandono della politica
liberista per un più esteso intervento dello Stato in economia. Si disfece di De Stefani e nominò alle finanze Giuseppe
Volpi. Si concluse ufficialmente la prima fase del fascismo.
1. Evitare che si verificasse una fuga generale della lira e il suo deprezzamento totale;
2. Restaurare e consolidare la fiducia nella moneta al fine di incrementare la tendenza al risparmio e assicurare
alla classe imprenditrice la principale fonte di approvvigionamento di capitali;
3. Incoraggiare l’investimento in Italia il capitale internazionale;
4. Eliminare il clima di incertezza creato dall’inflazione;
5. Attenuare l’onerosità delle importazioni dovuta alla svalutazione.
Una volta decisa la lotta all’inflazione, furono adottate ulteriori misure tese a conseguire la stabilizzazione. Lo Stato
restituì parte del suo debito alla Banca d’Italia per ricostruirne le riserve auree; la Banca d’Italia, a sua volta, contrasse
sconti e anticipazioni, sicché le banche ordinarie dovettero ridurre le operazioni di sconto: tutti desideravano disporre
di denaro contante, una volta che questo tendeva rivalutarsi. Inoltre si verificò una corsa ai rimborsi dei buoni del
tesoro ordinari: tra l’agosto e l’ottobre del 1926 furono rimborsati i titoli per 2 miliardi di lire. Poiché il tasso di
interesse praticato a breve termine era elevato, il Tesoro aveva difficoltà a far fronte alla scadenza ulteriori pagamenti
e Volpi decise così il consolidamento del debito fluttuante, che ammontava a 20 miliardi di lire: con decreto del 1926
i possessori di buoni del tesoro furono invitati a convertirli in cartella di un prestito consolidato al 5%, a più lunga
scadenza e al prezzo di 87,50 per ogni 100 lire nominali (Prestito Littorio). Nel 1927 si crearono molti disagi.
Grazie alla nuova politica finanziaria la moneta acquistò valore: nel 1927, il corso del cambio con il dollaro fu di 18 lire
circa e con la sterlina di 88. Il rafforzamento della moneta consentì a Volpi di firmare nel 1927, la legge di
stabilizzazione della lira. L’operazione comportò una rivalutazione della moneta: la parità aurea fu determinata in
ragione di 7,9 g di oro per ogni 100 lire, il che equivaleva a un cambio di 19 lire rispetto al dollaro e di 92,46 rispetto
alla sterlina. Con questo tasso di cambio -la cosiddetta <<quota 90>> - l’Italia entrò nel sistema del gold exchange
standard.
Alla Banca d’Italia veniva fatto obbligo di convertire i biglietti in oro e di possedere una riserva metallica o equiparata,
non inferiore al 40% della circolazione dei biglietti. Le misure complessivamente adottate ebbero effetti depressivi
sull’economia: il prezzo del grano scese come la sua produzione; l’indice generale della produzione si ridusse; le
importazioni e le esportazioni si ridussero con la conseguenza che la bilancia dei pagamenti fece registrare un
crescente passivo; la disoccupazione aumentò. Persistere, dopo il 1925, con la svalutazione della lira e l’inflazione
interna avrebbe potuto comportare profondi turbamenti e compromettere la sopravvivenza del regime. Si preferirono
la deflazione e la rivalutazione della lira che rappresentò una presa d’atto delle difficoltà di un ulteriore sviluppo
dell’economia, dipendente dalla domanda estera. Si ritenne più opportuno orientare la struttura produttiva verso la
domanda interna, riducendone il grado di apertura all’economia internazionale.
L’altro settore trainante dell’economia statunitense fu quello dell’energia elettrica che raddoppiò la sua produzione e
con essa crebbe quella di apparecchi elettrici sia ad uso industriale, che domestico. Queste condizioni favorevoli
fecero sì che gli Stati Uniti producessero nel 1929 i 4/10 di tutto il carbone, 7/10 del petrolio, 1/3 dell’energia
idroelettrica, la metà dell’acciaio e tutto il gas naturale al mondo. Favorì la crescita economica la politica degli alti
salari praticata dalla classe imprenditoriale, sull’esempio fornito da Henry Ford nell’industria automobilistica: tra il
1922 e il 1929 furono portati aumenti ai salari da consentire un generale incremento del potere d’acquisto. Lo
sviluppo fu anche incoraggiato dall’aumento degli investimenti, grazie alla crescita di depositi bancari e alla facilità di
ricorso al credito. Istituti bancari, alimentati da rimborsi dei debiti di guerra, potevano concedere oltre al credito
interno, prestiti a tutto il mondo, a breve e a lungo termine. In questo periodo si diffuse il sistema di vendita rateale,
che semplificò il commercio degli articoli più costosi.
Si possono tuttavia individuare elementi di debolezza nello sviluppo. Innanzitutto, la politica commerciale americana
fu caratterizzata da profonde contraddizioni: gli Stati Uniti continuavano ad estendere crediti al mercato mondiale per
sostenere la domanda dei prodotti agricoli industriali e garantirsi un notevole flusso di esportazioni. Essi, tuttavia,
praticavano il protezionismo che impediva ai paesi stranieri di esportare e di restituire i debiti contratti. Quanto
all’agricoltura, durante il conflitto, per far fronte alla domanda dei paesi belligeranti, si era fatto ricorso alla
meccanizzazione, che aveva aumentato la produzione; ma nel dopoguerra la caduta della domanda, per la ripresa dei
concorrenti europei, orientò i prezzi dei prodotti agricoli verso il ribasso. Vi era infine, la pericolosità legata la
dipendenza dell’equilibrio economico internazionale dai prestiti americani. Quando il flusso dei prestiti si interruppe,
in occasione della crisi della borsa di New York, non si potè evitare la depressione e la sua diffusione in tutti i paesi del
mondo.
3.8 LA FRAGILITA’ DEL CAPITALISMO GIAPPONESE
Il Giappone non partecipò al generale sviluppo di questi anni. Dopo il crollo delle esportazioni, a causa della crisi del
1920-21, il Giappone vide ridurre vertiginosamente la produzione ed i prezzi. La depressione colpì l’industria e
soprattutto l’agricoltura, che dava occupazione a metà della popolazione attiva. La ripresa fu stentata, e ritardata dal
grave terremoto che colpì Tokyo nel 1923; il governo fu costretto ad affrontare un programma di ricostruzione ed
espansione del credito, che provocò il progressivo deprezzamento dello yen e, nel 1927, una grave crisi bancaria.
Ad accrescere le difficoltà si aggiunsero le condizioni dei trattati di pace imposte dagli Stati Uniti, che comportarono
una vera battuta d’arresto all’imperialismo nipponico. Con il trattato Versailles si era riconosciuto al Giappone i
territori tedeschi dello Shantung, ma d’altra parte gli Stati Uniti, preoccupati per l’espansione giapponese in Cina,
imposero al Giappone condizioni vessatorie nella conferenza di Washington. Sottoposto alla pressione diretta degli
Stati Uniti che minacciano un conflitto armato, il Giappone si rassegnò a cedere. Accettò, dunque:
a) Il mantenimento per la durata di 10 anni dello status quo nei possedimenti insulari del Pacifico;
b) il rispetto della sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale e amministrativa dello Stato cinese;
c) l’accordo sugli armamenti.
L’imperialismo giapponese si era forgiato sul modello dei paesi avanzati del mondo occidentale, ma in realtà, il suo
potere contrattuale con quest’ultimi era molto inferiore. Il Giappone era ancora troppo povero per potersi impegnare
una politica colonialista, in condizioni di parità con le altre potenze. Consapevole di questa inferiorità, il governo si
orientò verso due direzioni: il ricorso ai prestiti esteri, per sostenere il costo dell’espansione coloniale e, la pressione
militare, per mantenere privilegi una volta conquistati i territori. Il capitalismo giapponese era un capitalismo senza
capitale.
La situazione era aggravata dalla scarsezza di materie prime e dal basso potere d’acquisto del mercato interno. Il
ricorso ai mercati esteri era indispensabile: per ricevere prestiti; acquistare materie prime; vendere prodotti.
Le opportunità di investimento sul mercato interno erano assai modeste, per cui gran parte dei prestiti vennero
impiegati dal Giappone nel continente asiatico. Di conseguenza, fu inevitabile, da parte del Giappone, difendere i
propri interessi economici, ricorrendo alla pressione militare che non trovò consensi in Occidente.
È essenziale ricordare che un ulteriore dipendenza dei mercati esteri viene dal fatto che, negli anni 20, il Giappone non
era riuscito ancora a creare un mercato nazionale di beni di consumo, nonostante la presenza dei grandi Zaibatsu (che
costituivano dei veri e propri imperi). La causa dell’immobilismo dell’economia della società giapponese era
essenzialmente politica: L’oligarchia Meiji aveva teso alla conservazione di un regime a base rurale, e il compromesso
che l’emergente borghesia volle realizzare con i signori feudali al potere, non consentì di distruggere la struttura
medievale dell’agricoltura. Il che significava che, a distanza di più di mezzo secolo dalla liberazione, la classe contadina
ancora numerosa, non aveva realizzato conquiste soddisfacenti ed era tuttora spossessata dalla oligarchia dominante,
attraverso un’imposta fondiaria vessatoria, che assorbiva il suo potere di acquisto.
Fino all’inizio del 1928 l’aumento dei corsi delle azioni seguì l’incremento dei profitti. Ciò non accadde più nello stesso
anno, quando si entrò in una fase decisamente speculativa: si comprava per rivendere, senza preoccuparsi della bontà
dei titoli, e se si pagassero o meno i dividendi e, all’aumento della domanda di acquisto, si accompagnò quello delle
quotazioni. A favorire le speculazioni contribuirono le dichiarazioni ottimistiche di molti uomini d’affari e dei
rappresentanti delle holding companies e degli investment trusts, ossia di quelle società di portafoglio, che
possedendo pacchetti azionari e obbligazionari, avevano tutto l’interesse al rialzo dei corsi.
In estate del 1928 si registrarono i primi segnali della crisi: furono venduti più di 5 milioni di azioni e le quotazioni
diminuirono di 23 punti; nello stesso periodo fu in corso la campagna elettorale presidenziale: Hoover promise al
paese la prosecuzione della prosperità e, con questa dichiarazione, contribuì ad un ulteriore spinta dell’aumento dei
corsi. Non fu soltanto il clima di euforico ottimismo ad alimentare la speculazione, ma anche l’inflazione monetaria
provocata dalla politica del denaro a buon mercato; accogliendo una richiesta di alcuni paesi preoccupati per la
continua emorragia d’oro dall’Europa verso gli Stati Uniti, il Federal Reserve nel 1927 aveva ridotto il tasso di sconto
ed acquistato sul mercato un gran quantitativo di titoli di Stato, per far calare i tassi di interesse. I venditori di titoli
pubblici vennero da quel momento a disporre di maggiore liquidità, che utilizzarono investendo nel modo più
proficuo, ossia in titoli azionari.
All’inflazione monetaria si aggiunsero le facilitazioni creditizie, concesse dal sistema e rese disponibili dal particolare
tipo di organizzazione del credito esistente. Le banche prendevano in prestito al 5% presso la Federal Reserve bank, e
a loro volta prestavano a brevissimo termine, anche al 12% ai bill brokers: gli intermediari finanziari. Questi ultimi
facevano credito ai clienti che ambivano ad acquistare azioni, non chiedendo alcuna garanzia ma, spesso questa era
l’ammontare del 30% dell’intero prestito.È evidente che, in caso di ribasso del mercato borsistico, i brokers avrebbero
immesso sul mercato i titoli in garanzia contribuendo così ad accentuare la fase calante della borsa. Il totale dei
prestiti a brevissimo termine e destinati prevalentemente al mercato borsistico ammontò nel 1928 a più di 7 miliardi.
Se da una parte aumentava la liquidità, dall’altra cresceva l’emissione di azioni; durante i primi mesi del 1929 il
governo federale avvertì la pericolosità della situazione. L’unico mezzo di cui disponeva per ridurre la massa
monetaria era l’aumento del tasso di sconto che, nonostante gli effetti recessivi che questa manovra avrebbe potuto
comportare, fu attuata lo stesso e non conseguì gli effetti sperati, perché la liquidità resto elevata.
Si giunse all’apice dell’espansione il 24 ottobre del 1929 (il giovedì nero): scoppiò il panico per l’improvvisa vendita di
circa 13 milioni di azioni, a fronte di una domanda nulla. Il ribasso dei corsi variò tra i 12 e i 25 punti. Per arrestare la
caduta, le grandi banche di New York intervennero acquistando titoli e riuscendo a stabilirne la fiducia per qualche
giorno ma, il 28 ottobre si andò incontro al disastro totale.
In pochi mesi nel 1929, l’indice del corso dei titoli passo da 381 a 198, risalì in un breve periodo per poi cadere in
interrottamente fino all’estate del 1932. L’indice Dow Jones, corrispondente alla media delle evoluzioni delle
quotazioni di 30 principali titoli trattati a Wall Street, cadde da settembre 1929 al 1933 da 364,9 a 62,7 dollari; le
obbligazioni da 141,9 passarono a 28 dollari. Con la crisi della borsa di New York si concludeva, alla fine del 1929, la
prima fase di un processo deflazionistico che avrebbe continuato a svilupparsi negli anni successivi coinvolgendo
l’intera economia: in breve tempo il reddito nazionale degli Stati Uniti si ridusse del 40%
L’immediata reazione alla crisi fu il protezionismo. Furono inasprite le tariffe doganali: negli Stati Uniti, la
legge Howley-Smoot del 1930 elevava i dazi in maniera variabile dal 26 al 50%. Alla crisi economica si aggiunse la crisi
monetaria internazionale, che prolungò la depressione. Agli inizi del 1931 Austria e Germania avevano annunciato di
voler costituire un’unione doganale; alla notizia del progetto seguirono inquietudini e preoccupazioni da parte degli
ambienti finanziari internazionali e, di conseguenza, i creditori stranieri si affrettarono a ritirare i fondi investiti in quei
paesi. In Austria il Credit-Anstalt di Vienna fallì, mentre le riserve in oro e in divisa della Banca nazionale d’Austria
scesero di colpo; in Germania subirono forti perdite le grosse banche berlinesi, che accentravano più della metà
dell’indebitamento bancario con l’estero. A ritirare i fondi non furono soltanto i creditori esteri, ma gli stessi
depositanti tedeschi, mentre la Reichsbank perdeva oro. Il cancelliere Bruening dichiarò che la Germania non era più
in grado di rispettare le scadenze delle riparazioni fissate dal piano Young; questo rifiuto più fu poi sanzionato il 20
giugno dalla <<moratoria Hoover>>, che proponeva la sospensione per la durata di 1 anno di tutti i debiti
intergovernativi, ma intanto le riserve continuavano ad assottigliarsi, mentre tutte le banche tedesche avevano
perduto liquidità. A nulla valse la restrizione del credito con l’aumento del tasso di sconto; fu necessario il blocco di
tutti i crediti esteri. Le conseguenze furono particolarmente disastrose per la Gran Bretagna. Molti capitali inglesi a
breve termine restarono congelati nelle banche tedesche; si accentuò il clima di incertezza internazionale e la corsa
all’oro e, quindi, al disinvestimento delle sterline da parte delle banche. A poco servì il prestito concesso alla Banca
d’Inghilterra dalla Banca di Francia, né il rialzo del tasso di sconto: la Banca d’Inghilterra perse ben 32 milioni di
sterline-oro e nel 1931 fu inevitabile la sospensione dei pagamenti in oro e l’abbandono del gold standard: da quel
momento la sterlina fluttuò liberamente, svalutandosi del 40% mentre lo stock monetario della Banca centrale diminuì
di centinaia di milioni di sterline.
Le ripercussioni dell’abbandono del gold standard da parte inglese furono enormi: la caduta della sterlina annunciò il
collasso del sistema monetario internazionale e la scomparsa del gold exchange standard. Dopo l’Inghilterra, molti
paesi abbandonarono il gold standard e alla fine del 1932 avevano svalutato le monete rispetto all’oro. Altri paesi,
legati all’Inghilterra continuarono a mantenere a Londra una quota delle loro riserve; dopo aver anch’essi svalutato,
agganciarono le loro monete alla sterlina, fissandone il cambio: si costituiva così l’area sterlina, che comprendeva
quei paesi per i quali funzionava uno Sterling exchange standard.
Alla fine del 1931 si potevano distinguere tre gruppi di paesi: quelli legati al gold standard; quelli ancorati alla sterlina
e i paesi che avevano liberamente svalutato. La nuova situazione monetaria comportò ulteriori ostacoli: nei paesi che
avevano svalutato, il livello dei prezzi dall’esportazione era al di sotto di quelli dei paesi del gold standard e, di
conseguenza, si ridussero le esportazioni dei paesi del blocco oro e aumentò il deficit delle rispettive bilance dei
pagamenti; fedele al gold standard erano rimasti gli Stati Uniti, Germania, Francia e Italia, che furono costretti ad
adottare misure eccezionali per mantenere in equilibrio importazioni ed esportazioni. Tra i provvedimenti più
importanti vanno ricordati: 1) il controllo dei cambi; 2) l’aumento delle tariffe doganali; 3) l’estensione del sistema dei
contingenti d’importazione. Per trovare delle soluzioni alla crisi si pensò di convocare una Conferenza Economica
Mondiale a Londra nel 1933, per capire come far lievitare i prezzi e avviare la ripresa.
Data l’impossibilità di attribuire un valore preciso al dollaro, poiché il governo statunitense abbandonò il gold
standard poco prima, fallì anche questo tentativo di cooperazione internazionale. Da quel momento i paesi
ripiegarono sulla politica interna, diretta a stimolare la domanda a spese di più severe restrizioni al commercio
internazionale. A questa scelta si accompagnarono pesanti tensioni politiche, come l’invasione della Manciuria,
l’avvento di Hitler in Germania, l’attacco italiano in Abissinia.
Diminuì la capacità dei paesi produttori di beni primari di importare manufatti, per cui si ridussero le possibilità di
esportazioni dei paesi industrializzati. Il processo recessivo assunse un carattere cumulativo, perché la depressione del
mercato dei beni primari finì col intensificare la flessione dell’economia internazionale.
In conclusione, l’origine della crisi va ricercata negli Stati Uniti, il paese che aveva un ruolo guida nell’economia
mondiale. Il ritiro dei prestiti esteri da parte statunitense e la pressione dei prestiti inglesi inflissero un duro colpo al
resto del mondo. Furono danneggiati i paesi già indebitati che furono costretti ad una politica di austerità, che
avrebbe provocato la diminuzione della loro domanda di importazione.
Un secondo evento ancor più catastrofico, la crisi di Wall Street, comportò la definitiva flessione dell’economia
globale. A provocare la crisi furono le diminuite opportunità di investimento nell’industria e il contrarsi della spesa per
i consumi, impedendo qualsiasi tentativo di ripresa. La depressione dell’economia statunitense generò un ulteriore
netta contrazione dei prezzi dei paesi esteri e della domanda d’importazione, i cui effetti ricadono pesantemente su
tutto il mondo. Il crollo dell’indice dei prezzi colpi i paesi produttori di beni primari e dei paesi industriali.
Alla crisi <<congiunturale>>, effetto del crack della borsa, fece da sfondo una <<deflazione strutturale>>, conseguenza
dell’eccessiva potenzialità produttiva che l’agricoltura e l’industria avevano raggiunto a livello mondiale.
A rafforzare la coesione tra i paesi dell’area sterlina il governo britannico intervenne incoraggiando la creazione di
banche statali nei dominions, alle quali forniva consigli ed esperti, sicché la Banca d’Inghilterra assunse, nell’ambito
del Commonwealth, il ruolo di superbanca centrale.
La politica interna
Dopo il 1931 la politica inglese interna mutò radicalmente. Il governo avviò una politica di espansione del credito. Il
tasso ufficiale di sconto fu di stimolo agli investimenti specie nel settore siderurgico che si modernizzò. Il governo
affrontò con decisione anche il problema della disoccupazione: la crisi e il ristagno economico che ad essa era seguito
avevano infatti colpito in modo particolare le industrie di esportazione (miniere del Galles meridionale, della contea di
Durham, della Scozia occidentale, industrie tessili del Lancashire). Il governo assunse misure sociali: con il
Development and Improvement Act del 1934, l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione fu estesa a favore
di quasi tutti lavoratori. Inoltre, provvide al trasferimento dei lavoratori disoccupati in zone prospere; si eseguirono
lavori pubblici e si istituirono centri di addestramento per i lavoratori.
Lo Stato, a partire dal 1937, cominciò ad incoraggiare con aiuti finanziari l’attività industriale: col sistema del Trading
Estates dette in affitto terreni ed edifici agli imprenditori e favorì la concentrazione industriale nei settori del carbone,
del ferro, dell’acciaio e delle ferrovie. L’insieme delle misure poste in essere dal governo inglese fece sì che l’indice
della produzione industriale ritornò sin dal 1934 al livello del 1929; le esportazioni dei prodotti metallurgici
aumentarono e diminuì il deficit della bilancia commerciale.
Il diffondersi dei nazionalismi ed i maggiori controlli al commercio estero, provocarono una notevole riduzione degli
scambi internazionali e la Gran Bretagna risentì di tale contrazione generale del commercio mondiale. La bilancia dei
pagamenti mantenne costantemente passiva.
del lavoro. Nel 1935 fu varato un vero e proprio programma di previdenza sociale che dispose pensioni per la
vecchiaia, assicurazioni per disoccupati e sussidi agli inabili. Nel 1935, il National Labor Relationships Act consentì ai
lavoratori il diritto di costituire unioni sindacali e istituì un Labor Relations Board, un ufficio che avrebbe giudicato le
vertenze di lavoro. La successiva legge del 1938 -il Fair Labor standard act - fissò la settimana lavorativa in 40 ore, il
salario minimo e si vietò il lavoro minorile.
La politica agricola
Roosevelt, tramite il Federal Farm Relief Board, attuò una politica di stoccaggio per promuovere l’ascesa dei prezzi dei
prodotti agricoli e il miglioramento della condizione di vita dei contadini. Istituì la Farm Credit Administration, un ente
che assicurava prestiti a tasso agevolato ai contadini e la Farm Security Administration, che finanziava i fittavoli per
l’acquisto di terre. Con l’Agricultural Adjustment Act del 1933, il governo si impegnò a versare delle indennità agli
agricoltori ma, nel 1936, la corte suprema dichiarò incostituzionale questa misura perché provocava la distruzione
delle risorse naturali del paese.
Il governo aggirò la proibizione facendo votare dal Congresso un’altra legge, con la quale si promettevano premi agli
agricoltori che avessero contribuito alla conservazione del suolo, lasciando la terra incolta o piantandola a leguminose,
perché in entrambi casi sarebbe conseguito un miglioramento della qualità del terreno.L’effetto veramente inatteso fu
l’incremento di produttività: tra il 1932 e il 1939 il prodotto per lavoratore aumentò e la produzione agricola con
questo: il surplus agricolo restò elevato. Il governo fu costretto ad intervenire, fissando dei limiti minimi ai prezzi e
corrispondendo agli agricoltori anticipi sul raccolto, consentendo loro la restituzione in natura dei prestiti contratti.
Il livello dei prezzi dei prodotti agricoli americani aumentò al di sopra di quello mondiale, scoraggiando le esportazioni.
Il governo fu costretto ad intervenire nel 1938, sussidiando le vendite all’estero;grazie a queste misure gli agricoltori
videro migliorare notevolmente il loro reddito.
Nel Trattato sulla riforma monetaria, Keynes abbandonò la concezione classica del gold standard, e sostenne
l’obiettivo fondamentale del governo che non doveva essere il mantenimento di una riserva pregiata, ma doveva
consistere in un’oculata politica da parte della banca centrale, volta al rigoroso controllo dell’emissione; Keynes
inoltre anticipava le sue teorie sul risparmio, l’investimento e la preferenza alla liquidità. La ricerca degli strumenti
necessari al superamento della crisi era condizionata per Keynes, al presupposto della <<difesa dell’iniziativa
individuale e della libertà personale>>.
Secondo Keynes, in un’economia matura si assiste alla progressiva <<diminuzione della propensione marginale al
consumo>> (la preferenza a consumare quote di reddito addizionali), e della <<efficienza marginale del capitale>> (la
redditività dell’investimento di capitali addizionali), mentre aumenta <<la preferenza alla liquidità>> (il desiderio di
moneta contante). Di conseguenza si andrebbe incontro ad una crisi profonda e alla disoccupazione, se non si
intervenisse.Quali sono gli strumenti per Keynes?
1. Una politica monetaria che influisca sul tasso d’interesse attraverso operazioni di mercato aperto e variazioni
del tasso di sconto. Ponendo in circolazione una maggiore quantità di moneta e mantenendo al più basso
livello possibile il tasso di interesse, la banca centrale consentirebbe una riduzione della <<preferenza alla
liquidità>>, in quanto l’unità monetaria risulterebbe deprezzata.
2. Queste misure potrebbero comportare una rinuncia al gold standard e provocare una situazione
inflazionistica. Ma in un’economia ristagnante, l’aumento della circolazione monetaria provocherebbe
l’espansione della domanda, nel senso di stimolarla sull’attività produttiva;
3. Una politica fiscale non più tesa alla realizzazione dell’equilibrio del bilancio statale, ma tale da consentire
l’attuazione di un programma di lavori pubblici che, pur se inutili nell’immediato, e se pur tali da provocare
un deficit, comportino:
a) La riduzione dell’occupazione;
b) Far crescere la domanda grazie alla redistribuzione del reddito
I mezzi finanziari liquidi verrebbero attratti da occasioni di investimento nuove; la crescita del potere di acquisto fa
ampliare i consumi e stimola l’offerta; gli imprenditori possono sfruttare la capacità produttiva inutilizzata, garantendo
la migliore utilizzazione del capitale.
La cosiddetta <<nuova economia>> ha segnato una tappa fondamentale nella storia del capitalismo, perché con
questa si è riusciti ad arginare la recessione e salvare <<il mondo capitalista>>.
Quanto al New Deal, molti economisti l’hanno denunciato per l’incoerenza delle misure adottate e le incertezze che
l’hanno caratterizzato, sicchè ha finito per perdere il valore di politica anticiclica.
Il governo intervenne anche in agricoltura, con la creazione di un Office Nationale Interprofessionel du Blé (ONIB), il
quale fissava il prezzo minimo del grano e si impegnava a pagare un premio agli agricoltori. La politica di questo
governo subì l’influenza di Jacques Duboin, autore della teoria dell’abbondanza, in base alla quale la crisi
dell’economia mondiale era da ritenersi effetto del sottoconsumo generalizzato, e non della sovrapproduzione;per
superare la crisi, secondo Duboin , occorreva che lo Stato intervenisse con ogni mezzo possibile al fine di rilanciare il
potere d’acquisto.
Nonostante le riforme, l’economia francese si dibatteva nelle difficoltà e la disoccupazione incominciò a diminuire solo
nel 1937. La politica salariale diede risultati deludenti, perché la condizione di instabilità del paese, l’aumento del
potere d’acquisto dei lavoratori più che tradursi in un incremento della domanda, provocò l’accentuarsi della
tendenza alla tesaurizzazione. L’elevamento salariale comportò un incremento dei costi di produzione che non tutti
poterono affrontare; essi si trasferirono perciò in un rialzo dei prezzi, che risultarono superiori a quelli mondiali.
Ne risentirono le esportazioni e l’inflazione comportò un elevamento del costo della vita superiore all’aumento dei
salari. Piuttosto che attenuarsi, le tensioni sociali si aggravarono: le forze conservatrici sabotarono la politica di Blum,
i capitali fuggirono all’estero e, se la disoccupazione diminuì fu soltanto per cause come: 1) contrazione dell’offerta di
manodopera sul mercato e crollo dell’emigrazione; 2) la lunga depressione, che fece tornare alla campagna molti
disoccupati.
L’esperienza del Fronte Popolare servì a ridurre le distanze tra le varie categorie sociali e ad assicurare alla classe
operaia una migliore condizione di vita. Fallito il Fronte Popolare, la <<ripresa liberale>> avvenne nel 1938, col
Gabinetto Daladier. Con la collaborazione di Paul Reynaud, Edouard Daladier introdusse profondi cambiamenti nella
politica economica del paese. Ridusse le spese capitali, compensò gli effetti della legge delle 40 ore con il sistema
dell’ammissione di ore supplementari retribuite e procedette nel 1938 ad un’ulteriore svalutazione del franco, il cui
nuovo valore venne fissato pari a 27,6 mg di oro. Il risultato di questa misura fu estremamente positivo: la produzione
cominciò ad aumentare; le esportazioni registrarono un incremento del 17%; i capitali rifugiati all’estero rientrarono e
crebbero le riserve d’oro della Banca di Francia.
La crisi finanziaria del 1931 rese sempre più difficile l’adempimento dell’obbligazione da parte tedesca, e perciò il
presidente Hoover propose una moratoria di un anno sui rimanenti pagamenti rateali. Il problema delle riparazioni si
sarebbe chiuso definitivamente nel 1932, quando la Conferenza tenuta a Losanna deliberò che, a partire dal 1935, la
Germania avrebbe dovuto versare 3 miliardi di marchi-oro secondo precise modalità. Tuttavia l’accordo non entrò in
vigore e i pagamenti non furono mai saldati.
Al fine di fronteggiare la crisi, il governo tedesco assunse una serie di misure: sospensione della convertibilità in oro
senza svalutazione del marchio; controllo dei cambi delle importazioni; elevamento del tasso di sconto;
incoraggiamento del credito straniero breve termine; austerità del bilancio e riduzione dei salari. Pur se accompagnata
da provvedimenti tesi a promuovere la ripresa industriale, la politica deflattiva di Bruening comportò inevitabilmente
crisi e disoccupazione. Posto =100 l’indice della produzione industriale nel 1913, questa crollò a 59 nel 1932. Grandi
società come la Siemens e la Borsig, medie e piccole imprese, furono costrette a ridimensionare la loro attività e a
licenziare impiegati e operai. La percentuale dei disoccupati aumentò e alle difficoltà economiche si aggiunsero quelle
sociali e politiche: un clima di tensione e di scontento si diffuse nel paese, mentre la struttura sociale si andava
sgretolando, guadagnò terreno Hitler che salì al potere.
Alla fine della prima guerra mondiale il potere, in Germania fu assunto dai socialdemocratici, che fondarono la
Repubblica di Weimar. Questa non era certo rappresentativa dell’effettiva aspirazione del popolo. La classe
imprenditoriale avversò il nuovo governo e la fragilità della Repubblica si accentuò con l’occupazione della Ruhr da
parte francese. A compromettere definitivamente la sua stabilità fu la depressione degli anni 30, la quale fece
guadagnare terreno ai movimenti estremisti; i nazisti riuscirono a raccogliere il successo elettorale. Hitler, che assunse
il potere, riuscì ad avere il consenso dei ceti medi, che aspiravano ad ottenere dal nuovo regime un miglioramento
delle loro condizioni di vita; degli industriali che erano preoccupati dall’avanzare del comunismo; e dei ceti poveri.
Cancelliere dal 1933 e a capo di un governo di coalizione, Hitler ottenne dal Parlamento i pieni poteri e, collocandosi
alla guida di un governo che accentrava il legislativo e l’esecutivo, poteva così gettare le basi per uno Stato totalitario.
All’avvento di Hitler al potere, le condizioni dell’economia tedesca erano particolarmente gravi: l’indice della
produzione era sceso da 100 a 58, gli investimenti erano diminuiti a pochi miliardi, la bilancia dei pagamenti era
costantemente passiva e la disoccupazione in aumento. Grazie alla collaborazione di Schacht e della Reichsbank, Hitler
si convinse della necessità di promuovere la ripresa produttiva del paese, evitando inflazione e svalutazione del
marco, ed assicurando stabilità ai prezzi interni e i salari. Un obiettivo che si poteva perseguire soltanto mediante
rigidi controlli statali. La politica economica di Hitler fu infatti essenzialmente dirigista e il suo programma si fondò su
tre punti fondamentali: 1) corporativismo, 2) pianificazione, 3) autarchia.
Abolito il diritto di sciopero e dichiarato il blocco dei salari, nel 1933 Hitler soppresse i sindacati e istituì il Fronte
Tedesco del Lavoro, del quale facevano parte imprenditori, professionisti, lavoratori e aveva essenzialmente funzione
assistenziale ed era escluso da qualsiasi azione di resistenza e di difesa dei diritti dei lavoratori. Soppressi i partiti
politici nel 1934, Hitler istituì le Corporazioni, ossia associazioni di imprenditori, dirette da funzionari hitleriani, il cui
compito consisteva nel coordinare le tecniche di produzione e di ricerca. Tramite queste, il governo indicava i livelli
produttivi da raggiungere; i prezzi di acquisto delle materie prime e di vendita dei prodotti finiti.
La pianificazione
Il primo Piano Quadriennale del 1933, ebbe lo scopo di porre fine alla disoccupazione, mediante l’attuazione di un
ampio programma di lavori pubblici: strade e ferrovia principalmente. Nel contempo, al fine di stimolare gli
investimenti privati, furono concessi sussidi agli industriali e fu resa obbligatoria la cartellizzazione, per consentire allo
Stato un più ampio controllo sulla produzione. Tra il 1933 e il 1936, i 2/3 della produzione erano regolati dallo Stato.
L’agricoltura era retta da un Dipartimento dell’alimentazione, che comprendeva i produttori, i commercianti, le
associazioni cooperative e tutte le categorie interessate. Il Dipartimento avrebbe assicurato stabilità degli affitti, i
giusti prezzi, l’aumento della produzione. Al fine di incoraggiare la piccola proprietà, furono costituiti i poderi
<<ereditari>>, che non potevano essere alienati o disposti in altro modo. Il proprietario doveva appartenere alla
‘’razza ariana’’ ed essere produttore diretta. Alla successione, il podere sarebbe passato al figlio maggiore.
Si cercò di stimolare la produzione grazie ad una serie di misure (dazi doganali, sussidi, bonifiche, drenaggi).
La politica agraria posta in essere da Hitler non consentì di realizzare risultati soddisfacenti, perchè la classe contadina
non disponeva dei mezzi necessari ad aumentare la redditività del terreno, né era in grado di fornire garanzie per un
ricorso al credito. Tuttavia, il primo Piano Quadriennale, che comportò un’elevata spesa pubblica, consentì di
raggiungere l’obiettivo fondamentale: la riduzione della disoccupazione.
Il secondo Piano, avviato nel 1937, sotto la guida di Goering, si propose di realizzare l’autarchia, ossia l’autosufficienza
economica del paese riguardo i generi alimentari, le materie prima e i prodotti finiti. Fu promossa la ricerca scientifica
e, grazie ai risultati conseguiti nel settore chimico, le materie prime d’importazione vennero sostituite con i surrogati.
Fu particolarmente incoraggiata la produzione alimentare e furono aumentati i prezzi dei prodotti agricoli, con il
risultato che i prezzi interni superavano quelli mondiali, a danno dei consumatori.
A far crescere la produzione industriale, fu il programma di riarmo. Col secondo Piano Quadriennale l’economia
tedesca servì definitivamente a riarmare l’esercito per prepararsi ad una nuova guerra.
Il riarmo
La teoria dello <<spazio vitale>> fu esposta nel libro Mein Kampf, uno scritto programmatico in cui il Fuhrer espresse
tutto il suo odio nei confronti degli ebrei e fece apologia della razza ariana. La Germania, per Hitler, sovrappopolata,
dotata di una capacità di produzione elevata rispetto alle possibilità di consumo aveva tutto il diritto all’espansione e
alla conquista dei territori vicini, per assicurarsi lo spazio e le risorse necessarie. Il cosiddetto spazio vitale avrebbe
consentito la riunificazione del Reich delle popolazioni di origine tedesca e dei territori compresi nell’Europa centrale
orientale e in gran parte dell’Asia. Destinate tutte le risorse al riarmo, la produzione industriale tedesca crebbe
enormemente: nel 1939 l’indice della produzione dei beni strumentali arrivo a 256. La Germania nazista, diede un
tipico esempio di deficit spending: la spesa pubblica aumentò da circa 7000 milioni nel 1928 a 21 mila milioni di
marchi nel 1938; la sola spesa per gli armamenti rappresentava il 35% del reddito nazionale. Nonostante gli sforzi
compiuti per realizzare l’autosufficienza, la Germania continuò a dipendere dall’estero per alcuni prodotti. Con accordi
bilaterali essa si procurò materie prime e generi alimentari, fornendo in cambio prodotti finiti. Fu minima l’attività di
scambio con i paesi ostili al regime nazista dell’Europa accidentale, del Commonwealth e del Nord America. Il
sostegno e gli incoraggiamenti che Hitler fornì alla produzione capitalistica comportarono una profonda
trasformazione del capitalismo tedesco in uno oligopolista. Su queste basi si riprodusse, in Germania, una situazione
molto simile a quella di un’economia di guerra: le risorse furono orientate alla produzione di mezzi di distruzione;
stava in piedi l’attività privata, ma la libera iniziativa fu completamente asservita alle decisioni del gruppo dirigente
hitleriano; con l’espansione in Europa centrale ebbe avvio la <<politica di potenza>> nel 1938.
1. Il decreto-legge del 1932 stabilì la possibilità da parte dei rappresentanti del 70% della produzione di un
determinato ramo, di chiedere l’intervento dello Stato per imporre la disciplina dell’intero settore:
cartellizzazione coatta.
2. Con la legge di gennaio del 1933 fu stabilito che gli industriali non potessero ampliare i loro impianti o posso
venire dei nuovi senza una speciale autorizzazione governativa. la legge serviva a evitare che il nome iniziale,
entrassero nei settori già consolidati e di indirizzare il risparmio verso i settori della politica governativa
intendi la potenziare
In campo industriale, i consorzi obbligatori coprirono gran parte del mercato e soffocarono la competitività, andando
a scapito dell’efficienza industriale. Il processo di concentrazione di questi anni ebbe effetti negativi sull’economia
italiana: l’eccessiva protezione della classe imprenditoriale avvenne a spese della collettività.
Con una legge del 1934, si procedette a un assetto definitivo delle funzioni delle Corporazioni. Nel 1936 vennero
attribuiti ad esse poteri molto più ampi: la disciplina e il controllo sui consorzi; il controllo su nuovi impianti industriali;
la distribuzione di materie prime; la costituzione della compagnia per la valorizzazione dell’Africa; la possibilità di
collaborare con il fisco.
L’autarchia
Nel 1936 Mussolini precisò i criteri che avrebbe dovuto ispirare la politica economica del paese. La finalità suprema
doveva essere l’autarchia, ossia l’autosufficienza economica, mediante un controllo esercitato dallo Stato sulle attività
economiche. L’agricoltura sarebbe rimasta affidata all’iniziativa privata, ma lo Stato sarebbe intervenuto
nell’organizzazione del credito, degli ammassi, e la promozione di opere di bonifica. I privati avrebbero esercitato la
piccola e media industria e il commercio interno, mentre nei settori del commercio estero, lo Stato sarebbe
intervenuto in vari modi: gestendo direttamente, o tramite l’IRI, oppure dando vita a società miste.
Nell’industria si cercò di potenziare i rami legati alla guerra. Per far fronte alla crescente domanda di petrolio, furono
intensificate le ricerca nel sottosuolo italiano; l’Agip costruì raffinerie per trattare il petrolio dell’Iraq; mediante
l’Ufficio Combustibili Liquidi, lo Stato diresse la produzione e la distribuzione dei carburanti; venne creata l’Azienda
Nazionale Idrogenizzazione combustibili (Anic) che costruì impianti adibiti alla lavorazione di petroli, ligniti, asfalti, ecc.
Furono costituiti inoltre, l’Ente Nazionale Metano e l’Azienda Carbone Italiana e potenziato lo sfruttamento dei
giacimenti minerari nazionali. Il settore chimico restò dominato dall’iniziativa privata: la Montecatini, che aveva
assunto dimensioni rilevanti, provvedeva allo sviluppo di fertilizzanti e di prodotti farmaceutici. Per iniziativa dell’IRI
fu sviluppata la produzione di cellulosa e, nel 1935, fu istituito l’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta. Nel
settore chimico-tessile fu intensificata la produzione di fibre tessili artificiali.
I risultati della politica dell’autarchia furono sostanzialmente la ripresa della produzione industriale: posto =100
l’indice nel 1929, questo era progressivamente diminuito negli anni fino a raggiungere nuovamente un indice
accettabile pari a 98,4 nel 1937, mentre diminuì la disoccupazione. Ma sin dall’avvio dell’ impresa etiopica e il
programma autarchico fecero aumentare paurosamente il deficit del bilancio statale.
Sospesa la convertibilità della moneta, assicurò la ripresa delle esportazioni e della produzione industriale mediante la
svalutazione dello yen. Ridotto il tasso di sconto, al fine di far assicurare il pieno impiego, provocò un sensibile
incremento della spesa pubblica, finanziandola da una parte con l’aumento della pressione fiscale, con prestiti e
agevolazioni creditizie dall’altra.
I titoli del debito pubblico, collocati presso il sistema bancario, consentirono di potenziare la produzione senza creare
inflazione: si ebbe in Giappone un tipico esempio di reflazione: il governo potè spendere ingenti somme per la ripresa
senza che si cadesse dell’inflazione cumulativa, perché le banche ordinarie posero in essere una politica
estremamente prudente. Aumentò in misura rilevante il debito pubblico che raggiunse nel 1937 ben 11.893 milioni di
yen. Grazie a questa politica la produzione industriale ricevette un notevole incremento: posto =100 l’indice nel 1929,
salì a 169 nel 1937; anche le esportazioni aumentarono passando da 100 nel 1929 a 168 nel periodo 1936-38. La
ripresa si accompagnò ad un profondo mutamento della struttura della produzione, a causa delle modificazioni subite
dal mercato internazionale. Le misure protezionistiche adottate dagli altri paesi resero più difficili le esportazioni dei
prodotti giapponesi abitualmente venduti all’estero, come i tessili (seta grezza e cotonate), nonostante che i prezzi
all’esportazione fossero caduti molto al di sotto dei prezzi mondiali.
Ad espandersi furono i settori industriali legati alla guerra: si ridusse il tessile e crebbero i settori metallurgico,
meccanico e chimico. Le nuove esigenze connesse con l’armamento provocarono la trasformazione dell’intera
struttura dell’economia, il cui tessuto produttivo era caratterizzato dalla prevalenza di piccole e medie imprese, poco
adatte ai nuovi programmi di riarmo. A partire dal 1932, lo Stato dette particolare impulso alle concentrazioni
industriale e favorì, con sovvenzioni, i potenti gruppi economico-finanziari (Zaibatsu) tra i cui figuravano Mitsui e
Mitsubishi. La sfera di influenza di questi si estendeva dal settore finanziario a buona parte delle attività produttive e
assunsero un’influenza politica sempre più incisiva. Ulteriori sforzi furono compiuti al fine di ridurre la dipendenza
dall’economia dall’estero: nel 1930 infatti gli investimenti di capitali stranieri erano molto elevati.
Grazie alla nuova politica, il movimento commerciale con l’estero si intensificò notevolmente: il valore delle
esportazioni, diminuito dal 1929, raggiunse nuovamente nel 1936, i 2.700 milioni di yen. Mutò radicalmente la
struttura del commercio estero: la partecipazione dei tessili all’ammontare delle esportazioni si ridusse; aumentò
invece quella dei metalli, macchinari e strumenti. Crebbero anche le esportazioni di altri prodotti; il risultato
complessivo fu una maggiore diversificazione del commercio di esportazione.
(Reflazione: s’intende una politica monetaria diretta a far uscire il sistema produttivo da condizioni di stagnazione
senza imboccare la via dell’inflazione. Si parla di reflazione, quando l’offerta di moneta è tesa a difendere la
stabilità dei prezzi e non ad imprimere un rialzo.)
Per quanto riguarda la destinazione, le esportazioni giapponesi invasero mercati riservati all’Occidente, soprattutto
dopo che da parte di molti paesi venne inasprita la protezione contro il Giappone. Il valore delle esportazioni,
aumentò verso l’America centrale e meridionale ad esempio; diminuirono invece le esportazioni verso gli Stati Uniti.
Quanto alle composizioni del commercio di esportazione si rileva che: seta greggia, pesce in scatola, tè, ceramiche
erano acquistati dagli Stati Uniti; macchinari e altri beni strumentali dal Manchukuò e dalla Cina settentrionale; tessili
e beni di consumo a buon mercato, dal resto dell’Asia e dall’Africa. L’invasione del mercato internazionale a prezzi
competitivi, sollevò preoccupazioni nel mondo occidentale. La Società delle Nazioni e l’ufficio internazionale del
lavoro, su sollecitazione dell’Inghilterra, promossero una campagna d’opinione denigratoria nei confronti del
Giappone. Le particolari condizioni di sfruttamento del lavoro, a loro avviso, avrebbero consentito di economizzare sui
costi di produzione e di vincere sulla concorrenza. La replica del governo giapponese fu durissima, criticò aspramente
il capitalismo occidentale e i mezzi di cui si era avvalso per la sua affermazione nel mondo: lo sfruttamento del lavoro
nell’industria tessile del Lancashire, il colonialismo britannico e così via. Il boom dell’economia giapponese cominciava
a costituire un elemento di profonda incrinatura nei rapporti internazionali.
È da rilevare che l’agricoltura non partecipò all’espansione. La conseguenza fu un ampio trasferimento di manodopera
dalla campagna alle città, col risultato che i salari si mantennero bassi, a tutto vantaggio della classe imprenditoriale
che alleggerì i costi di produzione. La crescente offerta di manodopera fu conseguenza anche della sorprendente
crescita della popolazione che aveva toccato i 71 milioni di abitanti nel 1937. Raggiunto il pieno impiego al principio
del 1936, Takahashi decise di interrompere il processo di reflazione e di ridurre la spesa pubblica; ma l’esercito, ormai
consolidatosi al potere, non accettò limiti alle spese per gli armamenti: causò una sommossa militare nel febbraio del
1936, che si concluse con l’assassinio di Takahashi e l’assunzione del potere dei suoi oppositori. D’altro canto, le
misure di rappresaglia adottate sul mercato internazionale a difesa dalla concorrenza giapponese, rendendo assai più
arduo un ulteriore aumento delle esportazioni e, ponendo in crisi il settore produttivo, alimentarono in Giappone la
propaganda nazionalista e fecero crescere i consensi attorno ad un’espansione armata.
Varie sono le spiegazioni dell’imperialismo giapponese:
1.Sul piano capitalistico, il Giappone accusava il ritardo rispetto alle grandi potenze;
2. autosufficiente per quanto riguardava i generi alimentari, dipendeva dall’estero per molte materie prima
fondamentali;
3. la crescita e l’alta densità avevano messo sotto pressione le risorse;
4. la solidarietà del Giappone verso i popoli non bianchi contro gli indoeuropei;
5. la volontà di creare una sfera di influenza in aree contigue;
6. la reazione del mondo occidentale all’espansione commerciale giapponese, mediante l’elevamento di barriere.
L’economia giapponese negli anni 30 risultava estremamente rafforzata. Contribuì alla sua espansione la condizione di
disuguaglianza della società, di cui è testimonianza la distribuzione del reddito nazionale: il 15% delle famiglie
riscuoteva il 52% del reddito nazionale. Nonostante la relativa scarsità della ricchezza, il risparmio era estremamente
elevato. Alla vigilia della guerra con la Cina, le risorse del paese erano state completamente sfruttate e lo sviluppo
dell’industria di armamenti era avvenuto alle spese della produzione civile, sicché l’ulteriore crescita delle spese
militari non poteva che essere causa di inflazione. Dopo l’assassinio di Takahashi, aumentò ulteriormente la spesa
pubblica; prezzi e salari cominciarono a crescere, mentre il processo inflazionistico fu incoraggiato da una riduzione
dei tassi di sconto. Per far fronte alla guerra ed attuare i necessari spostamenti di risorse, il governo intervenne con
drastici controlli della produzione e provocò l’asfissia dell’industria cotoniera. Attraverso l’Ufficio di razionalizzazione
industriale, lo Stato destinò tutte le risorse alle esigenze di guerra.
Il ritiro nel 1933 dalla società delle nazioni, che aveva condannato l’invasione della Manciuria, il patto anti-Comintern
interne firmato con la Germania, volto a combattere l’influenza comunista in Cina, il conflitto apertosi con
quest’ultima nel 1937 fecero sì che, ormai schierato con i paesi dell’Asse, il Giappone si allontanasse dall’esperienza
liberale e sempre più forti fossero le sue simpatie verso il nazionalsocialismo
Si imponeva in tutti i settori il problema della ricostruzione. L’Europa aveva un’estrema necessità di beni, ma si
trovava nell’impossibilità di acquistarli, perché le sue riserve auree risultavano quasi esaurite e le monete si erano
svalutate, mentre i prodotti da vendere erano scarsi. Inoltre non potevano ricorrere a ulteriori prestiti perché molti
paesi erano già fortemente indebitati. La ricostruzione dell’economia nei paesi danneggiati dal conflitto avvenne con
successo e rapidamente, grazie alla cooperazione internazionale, che si realizzò con l’intervento di istituzioni
finanziarie appositamente create e con gli aiuti americani, consentendo di acquisire stabilità nel sistema monetario
internazionale.
finanziari: il fondo monetario internazionale FMI (International monetary fund) e la Banca internazionale per la
ricostruzione e lo sviluppo BIRD (International Bank for Reconstrucion and Development).
Il FMI sorse con i seguenti obiettivi: incoraggiare la cooperazione monetaria internazionale, favorire la stabilità dei
cambi, collaborare alla fondazione di un sistema multilaterale e contribuire all’eliminazione delle restrizioni di cambio.
Ciascun paese partecipava al capitale del fondo con una quota versata per il 25% in oro o in dollari e per il resto in
divise nazionali. La quota costituiva il limite massimo di utilizzo di risorse a breve termine che il fondo avrebbe potuto
porre a disposizione dei paesi nella valuta desiderata, mediante la tecnica del <<tiraggio>> o prelievo. I paesi avevano
diritto a ricevere dalla nuova istituzione un prestito in valuta estera, con cui saldare i propri debiti, in cambio della
propria valuta. L’ammontare di moneta del paese membro detenuta in eccesso rispetto alla sottoscrizione iniziale
stava ad indicare il suo indebitamento nei confronti della nuova istituzione (tranches di credito). I paesi facenti parte
del FMI avrebbero dovuto assumere seguenti impegni:
1. Fissare la parità aurea della propria moneta, definendo nel potere di acquisto in termini di oro, pur non
rendendo convertibili in oro le rispettive monete. L’oro assumeva il ruolo internazionale di comune
denominatore;
2. Una volta dichiarata la parità, eventuali modifiche sarebbero state autorizzate dall’istituto soltanto entro i
limiti del 10%. Svalutazioni ulteriori potevano essere considerate in casi eccezionali, quando si fossero
presentati squilibri permanenti della bilancia dei pagamenti.
Con il fondo si costituiva così un sistema monetario internazionale basato sulla stabilità dei cambi. Impegnato a
difendere la parità delle proprie monete, le banche centrali erano costrette ad intervenire acquistando o vendendo le
valute secondo le circostanze, in modo che le oscillazioni quotidiane non si allontanassero dall’1% della parità
ufficialmente dichiarata. Politiche economiche appropriate dovevano essere adottate al fine di consentire il costante
equilibrio delle bilance dei pagamenti. La politica attuata dal FMI Fu completamente dominata dagli Stati Uniti, che
contribuirono alla sua dotazione con la maggiore quota (ben 2.750 milioni di dollari su un capitale totale di 7.700
milioni). La contabilità del Fondo era tenuta in dollari e molti paesi incominciarono ad esercitare i rispettivi <<diritti di
prelievo in dollari>>.
Con la creazione del FMI, si finì con l’istituzionalizzare il gold exchange standard che aveva funzionato nel periodo
prebellico, poiché la sua azione fu volta ad assicurare un sistema monetario fondato sulla convertibilità delle monete
in dollari e sulla stabilità dei cambi.
La Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (o banca mondiale), un istituto internazionale di credito
mobiliare con sede a Washington, sorse con i seguenti compiti:
1. Aiutare la ricostruzione e lo sviluppo delle economie degli Stati membri distrutti dalla guerra, mediante
prestiti a governi, enti pubblici o imprese private;
2. Promuovere l’investimento di capitali privati in territori stranieri, garantendo il prestito, oppure partecipando
direttamente agli investimenti;
3. Concedere prestiti a fini produttivi, per il finanziamento di progetti d’interesse generale.
La BIRD come il FMI, era retta da un consiglio di governatori, composto dai ministri delle Finanze o dai governatori
delle banche centrali dei (90) paesi membri. Il capitale iniziale fu di 10mld di dollari, il cui 20% venne effettivamente
versato in oro (2%) e in moneta nazionale (18%), mentre il restante 80% costituiva una garanzia cui la Banca avrebbe
fatto ricorso per necessita. I primi prestiti furono destinati all’Europa, ma già nel 1947 furono domandati prestiti per
cifre superiori ai 2 mld di dollari, quando le riserve erano ancora a 700 mln di dollari, di sottoscrizione statunitense.
Alla deficienza di capitali si sopperì ricorrendo all’emissione di obbligazioni, collocate sui mercati ricchi e garantite
dalle quote di capitale sottoscritte e non versate dai paesi membri.
Entrato in vigore il piano Marshall, con la funzione di aiutare le economie colpite dalla guerra la Banca Mondiale, a
partire dal 1948, cominciò a destinare fondi alla promozione dello sviluppo economico delle aree depresse. Tra i
principali beneficiari furono i paesi dell’Africa che videro migliorare le loro esportazioni di prodotti minerari ed
agricoli; i paesi dell’America latina, oltre che il miglioramento dei trasporti, la BIRD destinò risorse per lo sviluppo
dell’energia elettrica, dell’agricoltura e potenziando le opere di irrigazione. Il FMI e la BIRD finirono con l’integrare le
loro funzioni. Attenuando la instabilità del corso dei cambi, il Fondo forniva sicurezza alle prospettive d’investimento a
lungo termine realizzate attraverso la Banca mondiale che, sua volta, tendeva a ridurre le cause di squilibrio della
bilancia dei pagamenti e quindi a contenere l’impegno finanziario del Fondo.
Il GATT
Contemporaneamente al prestito in dollari, furono negoziati tra Stati Uniti e Gran Bretagna accordi commerciali,
ratificati alla Conferenza Internazionale sul Commercio e sull’Occupazione che, nel 1947 si riunì a Ginevra. Il General
Agreement on tariffs and Trade, GATT (accordo generale sulle tariffe e sul commercio), entrato in vigore nel 1948, si
fondava sulla clausola della nazione più favorita, e si proponeva di agevolare l’espansione del commercio
internazionale. Al fine di pervenire ad una progressiva riduzione delle barriere doganali, il GATT fissava le politiche
commerciali dei paesi partecipanti. Esso prevedeva una clausola di salvaguardia, ossia il ripristino di improvvise misure
restrittive da parte di un paese nei confronti delle importazioni, quando queste avessero potuto arrecare pregiudizio
alla sua economia. Gli accordi sulle tariffe sono ancora oggi vigenti e vengono periodicamente aggiornati.
Il Piano Marshall ha avuto una grande rilevanza politica oltre che economica. Con esso si riuscì ad ovviare alla penuria
di dollari avvertita in Europa ed a sostenere, contemporaneamente, l’economia americana. Ma grazie a questo gli
Stati Uniti rafforzarono la loro influenza politica in Europa e, ad ispirare il Piano furono certamente anche le
preoccupazioni destate dalla supremazia sovietica nell’Europa orientale e i timori creati dalla politica estera di Stalin.
Infine vi era la consapevolezza che, mentre l’area sovietica si era fortemente consolidata e su di essa non poteva
essere esercitata alcuna influenza, l’Unione Sovietica aveva ancora ampie possibilità di intervento su quella
occidentale, grazie alla partecipazione dei partiti comunisti e alle coalizioni di governo. Il piano Marshall rappresentò
un momento importante della cosiddetta guerra fredda.
Dal 1948 al 1951 gli aiuti raggiunsero i 12 miliardi di dollari divisi tra Gran Bretagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio,
Austria; mentre alla Germania occidentale furono elargiti 1.500 milioni di dollari sotto forma di doni: per il 90% erano
beni, il restante 10% in dollari. All’attuazione del Piano si accompagnarono serie difficoltà, perché il funzionamento del
sistema fu di ostacolo alla questione dei pagamenti intereuropei: data l’assenza di convertibilità delle monete, gli
scambi erano necessariamente legati ad un rigido sistema di accordi bilaterali. Al fine di creare un sistema di
pagamenti multilaterali, nel 1950 fu creata l’Unione Europea dei Pagamenti, UEP, con sede a Basilea. I paesi membri di
questa unione erano vincolati da accordi di clearing, ossia di compensazione automatica dei saldi creditori e debitori.
Questa funzione veniva effettuata dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, presso la quale si costituì un fondo,
alimentato da versamenti degli Stati membri in oro e in divise e da un prelevamento sui fondi Marshall. Alla fine di
ogni mese la Banca effettuava le compensazioni e tramutava automaticamente i surplus registrati per alcuni paesi in
crediti ai debitori. L’UEP operò fino al 1958 quando si sostituì ad essa l’Accordo Monetario Europeo (AME)**. L’UEP
svolse una funzione di grande rilevanza, che consentì la ricostruzione dell’Europa in un periodo in cui l’oro
scarseggiava e le monete erano inconvertibili. Con la creazione dell’OECE e UEP, s’inaugurava la cooperazione tra i
paesi europei, indispensabile a promuovere la ricostruzione delle rispettive economie.
In contrapposizione al piano Marshall si costituì nel gennaio del 1949, il Comecon*** (consiglio di mutua assistenza
economica). Grazie a questa organizzazione l’Unione Sovietica rafforzò il suo controllo sui paesi dell’est europeo, ai
quali elargì aiuti finanziari per far fronte ai loro problemi. Il colpo di Stato in Cecoslovacchia, l’erezione del muro di
Berlino, l’istituzione del Comecon, costituirono le tappe fondamentali che condussero all’area comunista ad un
definitivo isolamento dalla influenza occidentale.
*(Nel 1961 l’OECE fu sostituita dall’OCSE [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico], un organismo
internazionale, con sede a Parigi, comprendente paesi europei ed extraeuropei. L’attività dell’OCSE consiste
nell’elaborare studi e proposte, da sottoporre ai governi, finalizzati allo sviluppo economico ed al progresso dei livelli di
occupazione dei paesi membri)
**(L’AME prevedeva che restasse in vigore il sistema di compensazione dall’UEP, ma il regolamento dei saldi doveva
effettuarsi in oro o in monete convertibili)
***(ne restò esclusa la Jugoslavia a causa della rottura tra Stalin e Tito)
Il progresso tecnologico creò sicuramente nuove occasioni di investimento sia nel settore pubblico, che in quello
privato; sollecitò la domanda di beni rari o nuovi e contribuì al sorgere delle cosiddette <<società opulente>>, dove i
bisogni anticipavano la capacità di produzione. I tassi di sviluppo del prodotto interno lordo nei paesi occidentali, a
partire dal 1950 si discostano notevolmente da quelli del passato, per raggiungere il livello più elevato nei decenni
1950-60 e il 1960-70. Basta considerare che il tasso di sviluppo del PIL in Italia in quegli anni fu pari al 5,9% contro
l’1,3% registrato nel periodo 1913-50 e, in Germania negli stessi anni, si toccò il 7,6% contro l’1,2%.
Va tenuto presente che la domanda di investimenti pubblici e privati fu sorretta dall’incremento demografico. La
diminuzione della mortalità, in costante progresso, e la riduzione della fecondità, che procedette assai più lentamente,
sono alla base della cosiddetta <<esplosione demografica>>, che ha caratterizzato la storia della popolazione mondiale
nel secondo dopoguerra.
3.L’associazione Europea del Libero Scambio (EFTA – European Free Trade Association)
Falliti i negoziati per la creazione di una zona di libero scambio fra tutti i paesi dell’OECE, l’Inghilterra assunse
l’iniziativa della creazione di un’organizzazione internazionale per rimuovere gli ostacoli al commercio e proporre una
stretta collaborazione tra gli Stati. L’obiettivo dell’EFTA era quello di sopprimere in 10 anni le barriere doganali per i
prodotti industriali degli Stati dell’Europa che non erano entrati nel MEC: Regno Unito, paesi scandinavi, Svizzera,
Austria, Portogallo. Ma i 6 paesi della CEE accumularono rapidamente un notevole vantaggio rispetto alla Gran
Bretagna: dal 1961 al 1970 il volume dell’esportazione della CEE crebbe al tasso annuo del 10%, contro l’aumento del
6,3% delle esportazioni dei paesi dell’EFTA. Di qui l’aspirazione di questi ultimi ad accedere al MEC, che si realizzò
soltanto a partire dal 1972, quando furono ammessi Danimarca, Irlanda e Regno Unito.
4. L’Euratom (CEEA)
Contemporaneamente alla firma del trattato della CEE del 1957, fu sottoscritto a Roma un altro trattato tra quei 6
paesi, che diedero vita all’Euratom, nome convenzionale della Comunità Europea dell’Energia Atomica. Scopo di
questa comunità era di promuovere l’utilizzazione pacifica dell’energia atomica e di sviluppare l’industria nucleare. A
tal fine i compiti essenziali della CEEA consistevano nell’incoraggiare la ricerca a prezzi di concorrenza; nel facilitare la
costruzione di centrali nucleari e formare i tecnici.
La nazionalizzazione*
La gravità della situazione economica rese illusoria la possibilità di una ripresa spontanea dell’economia, nella
considerazione che l’iniziativa privata era incapace di affrontare investimenti con dinamismo necessario per la
crescita. Apparve necessario l’intervento dello Stato voluto dai partiti di sinistra, il cui ruolo politico era divenuto
sempre più incisivo. Il persistere dei disordini sociali e delle difficoltà della ricostruzione condusse alle dimissioni De
Gaulle, nel 1946, e l’avvento al potere di un socialista, Félix Gouin, che formò un governo composto da rappresentanti
dei 3 partiti di maggioranza: i comunisti, socialisti e cattolici. Il nuovo governo provvisorio restò in carica durante la
prima metà del 1946, dopo aver accordato aumenti salari ed aver riportato la settimana lavorativa a 40 ore, decise col
sostegno dei sindacati di operare una serie di nazionalizzazione nei settori chiave della produzione.
In campo energetico furono nazionalizzate il gas, elettricità, le società carbonifere; nei trasporti le ferrovie, con la
creazione nel 1937 della Société Nationale des Chemins de Fer, le compagnie di aviazione, dopo la loro fusione nell’Air
France. Inoltre, nel settore automobilistico furono nazionalizzate le officina Renault e in quello del credito, la banque
de France e le grandi banche di deposito (Crédit Lyonnais, Société Générale,Comptoir Nationale d’Escompte de Paris,
Banque Nationale pour commerce e l’industrie, ecc.). Le banche di affari, sfuggite alla nazionalizzazione, furono
sottoposte rigorosi controlli da parte di un Consiglio Nazionale del credito, di nuova istituzione che, con la
collaborazione della Banca di Francia avrebbe sorvegliato su tutte le attività bancarie. Il ricorso alla nazionalizzazione
significò la realizzazione di una riforma strutturale di grande importanza per la più attiva partecipazione dello Stato
nella vita economica.
*(intervento con cui lo Stato, mediante un provvedimento legislativo, trasferisce alla collettività nazionale (o anche a
enti gestori che sono persone giuridiche di diritto pubblico) la proprietà, piena o parziale, o almeno il controllo, di
determinate industrie private, o l’esercizio di certe attività (relative, per es., a servizî pubblici essenziali o a fonti di
energia o a situazioni di monopolio) di preminente interesse generale.)
La pianificazione
Alle nazionalizzazioni si associò la pianificazione, che ebbe un ruolo fondamentale nell’opera di ricostruzione e nella
promozione dello sviluppo dell’economia. Il primo Piano, predisposto da un’équipe diretta da Jean Monnet, avrebbe
dovuto avere un’esecuzione nel periodo compreso tra il 1946 e il 1950 ma fu poi prorogato, quando terminarono gli
aiuti Marshall (1952).
I pianificatori erano consapevoli della necessità di promuovere un rinnovamento tecnologico nella considerazione che
gli impianti industriali erano già antiquati dopo la guerra e l’occupazione. Obiettivo principale del Piano Monnet
consisteva nell’elevare la produzione industriale ad un livello del 25% superiore a quello del 1929, con particolare
riguardo ai settori pilota come l’energia, l’acciaio, trasporti e cemento. Le risorse per realizzare questo ampio
programma vennero in piccola parte dal risparmio e dall’autofinanziamento, e in parte maggiore dallo Stato,
attraverso un Fonds de Modernisation et d’Equipement. Per far fronte all’ingente spesa pubblica si ricorse alle entrate
fiscali, all’aumento della circolazione fiduciaria e agli aiuti americani: fra il 1947 il 1952 la Francia ricevette circa 5
miliardi di dollari.
Grazie agli incentivi ricevuti, la produzione crebbe e il suo livello nel 1953 risultava poco distante dagli obiettivi del
Piano. All’aumento della produzione si accompagnò il pieno impiego, mentre il bilancio e la bilancia dei pagamenti
raggiunsero quasi il pareggio.
Dopo quello di Monet, furono varati altri (4) Piani che contribuirono ad assicurare all’economia una crescita rilevante.
Ad esso si associò una sensibile incremento demografico: a partire dal 1949 la popolazione, dai 40 milioni arrivò nel
1969 a superare 50 milioni. Il PIL aumentò a un saggio medio annuo del 4,4% dal 1950 al 1960 fino a toccare quasi il
6% tra il 1960 il 1970. La produzione industriale tra il 1950 - 1970 ebbe un incremento medio del 7% all’anno, mentre
il commercio con l’estero progredì.
Durante la IV Repubblica, il governo francese affrontò un programma di potenziamento e di rinnovamento della
struttura produttiva del paese, mentre nulla fece nei confronti dell’inflazione. Fu con la Repubblica di de Gaulle (1958-
1968) che vennero varati i piani di Pinay-Rueff e di Giscard d’Estaing tesi al contenimento dell’inflazione. Essi
prevedevano un complesso di misure deflazionistiche per conseguire la stabilità monetaria: venne ridotta la spesa
pubblica e fu sorpresa l’indicizzazione dei salari, furono imposte limitazioni alle banche, fu alzato il tasso di sconto e fu
ripristinata la convertibilità della moneta.
Monnet e i riformatori francesi ebbero coscienza della necessità di una ripresa immediata ma anche di un
rinnovamento a lungo termine dell’economia. Il ricorso alla pianificazione costituì la testimonianza di una vera e
propria rivoluzione nel modo in cui la classe politica francese operò le sue scelte in campo economico perché, a
differenza del passato, diede la priorità ad un progetto di modernizzazione della struttura produttiva del paese.
Il piano Monnet era ritenuto dai suoi stessi ideatori un programma semplicemente “indicativo” delle linee di sviluppo
e degli obiettivi da realizzare. Esso era “flessibile”, ossia suscettibile a continue ‘’revisioni’’ e ‘’adattamenti’’. Monnet
dichiarò infatti di essersi proposto il fine di realizzare una pianificazione flessibile nei suoi metodi e limitata nei suoi
obiettivi. Il piano non sopprimeva dunque il mercato, ma ne compensava le carenze: esso funzionava <<da regolatore
al regolatore imperfetto che è il mercato>>.
Una volta definiti gli obiettivi del Piano, il governo si impegnava ad adattare ad essi la sua politica di bilancio, del
credito, fiscale, dei prezzi. Le imprese private attraverso rappresentanti alla pianificazione, avevano tutto l’interesse a
riferirsi ad esso; lo Stato, a sua volta, orientava il settore privato a conformarsi al Piano, assicurando agli imprenditori
una serie di vantaggi. Il caso francese costituisce il primo esempio di pianificazione flessibile e indicativa, da non
confondere quello ‘’autoritaria’’ e ‘’obbligatoria’’, dove il piano era imperativo, specie in Unione Sovietica.
L’orientamento liberale ebbe il sopravvento nel maggio del 1947, con il IV governo presieduto da Alcide De Gasperi,
che si costituì con l’esclusione di comunisti e socialisti. La politica di ricostruzione, con ministri liberali come Luigi
Einaudi (allora governatore della Banca d’Italia) al Bilancio e Gustavo Del Vecchio al Tesoro, fu da quel momento è
affidata alle forze di mercato.
I primi effetti di questa soluzione politica furono l’elargizione di un prestito da parte americana e l’missione dell’Italia
al FMI e alla Banca Mondiale. Intervennero poi gli aiuti concessi dal piano Marshall, che ammontarono ad una somma
pari a 1.470 milioni di dollari, corrispondente all’11% dell’intero programma ERP. Nel complesso tra il 1944 e il 1952,
l’Italia ricevette aiuti per un totale di 3.166 milioni di dollari e investimenti per 465 milioni di dollari.
Più tardi, nel rapporto redatto da Paul Hoffman, gli stessi americani avrebbero riconosciuto che gli obiettivi verso il
quale aveva puntato Einaudi erano gli opposti di quanto proponeva l’ERP. Gli aiuti Marshall, fornivano l’Italia nelle
materie di cui scarseggiava, intervenendo proprio al fine di ridurre il disavanzo della bilancia dei pagamenti, e di
contenere la pressione inflazionistica. Nel suo rapporto, Hoffman proponeva, al governo italiano, la completa
<<revisione del sistema tributario>>, la costituzione di <<un’autorità di piano>>, e la <<preparazione di un bilancio
nazionale degli investimenti>>.
Alla luce dei successi conseguiti, la politica economica italiana mutò a partire dal 1950, quando vennero considerati
come obiettivi prioritari un più rigoroso programma di investimenti e la lotta contro la disoccupazione, nonché i
radicali provvedimenti a favore del Mezzogiorno.
La riforma fondiaria
L’assenza di investimenti in agricoltura durante il conflitto e la carenza di manodopera, avevano provocato un pauroso
calo della produzione. A partire dal dopoguerra, grazie all’aumento del tasso di natalità, la popolazione conobbe un
aumento rilevante: da 45 milioni nel 1945 si passò a 55 milioni nel 1970. Ma tale evoluzione si accompagnò a notevoli
disparità regionali: il tasso di natalità era molto elevato al Sud; fu molto contenuto al Nord. La pressione demografica
nel Mezzogiorno, insieme alle condizioni di arretratezza, provocarono una diffusa disoccupazione. Si prospettò la
necessità di un intervento da parte dello Stato a favore delle regioni sottosviluppate, che si realizzò con la riforma
fondiaria, varata attraverso tre leggi successive: la legge Sila (1950), contenente provvedimenti a favore della Calabria;
la cosiddetta <<legge stralcio>> (1950), che estese la riforma ad altri territori; la legge Sicilia (1950), che intervenne
con opportune misure a favore dell’isola.
La riforma fondiaria consistette nell’esproprio dei terreni posseduti in eccedenza al valore imponibile di 30.000 lire,
nell’indennizzo dei proprietari in titoli del debito pubblico al 5%, per un valore corrispondente agli accertamenti fiscali
già espletati. Lo Stato finanziò al 60% lavori di viabilità, di elettrificazione, d’irrigazione e la costruzione di abitazioni e
anticipò i fondi agli agricoltori per l’acquisto di semenze. I contadini sarebbero divenuti proprietari degli appezzamenti
(dopo 30 anni), compresi i miglioramenti apportati dallo Stato.
Tuttavia i risultati della riforma furono modesti. Le famiglie ricevettero quote di terra troppo piccole e spesso gli
assegnatari, scoraggiati dai risultati conseguiti, rivendevano le loro quote: nel 1960 il 40% dei destinatari aveva
abbandonato i fondi; soltanto una piccola percentuale (in zone costiere, pianeggianti e fertili come la piana di
Metaponto), riuscì a conseguire risultati produttivi soddisfacenti. In complesso, nonostante le agevolazioni concesse
con la riforma, l’agricoltura non conobbe progressi rilevanti e l’Italia continuò a dipendere dall’estero.
La politica regionale
Al fine di colmare gli squilibri regionali, fu ravvisata l’opportunità di una politica specifica per il Sud, la cui economia
risultava particolarmente depressa. Dopo un vivace dibattito, con la legge del 10 agosto 1950, fu istituita la Cassa per il
Mezzogiorno, un organismo autonomo, destinato ad effettuare “opere straordinarie di pubblico interesse per il
Mezzogiorno“. Alla creazione della Cassa diede un contributo fondamentale Donato Menichelli, tra le figure più
rappresentative della politica economica del dopoguerra. La Cassa ricevette una dotazione di 1.000 miliardi di lire, e
doveva avere una durata decennale. Nel 1957 la scadenza fu dilazionata e il programma di intervento venne ampliato.
Il nuovo istituto utilizzò anche prestiti contratti con istituzioni internazionali (Banca Europea degli investimenti* e
Banca mondiale) e, negli anni 1950-80, investì nel Mezzogiorno, 20.000 miliardi di lire.
Nei primi anni di attività l’azione della cassa si svolse nel campo delle infrastrutture, dove furono realizzate opere di
bonifica, d’irrigazione e costruzione di strade; soltanto dopo il 1960 crebbero gli stanziamenti a favore
dell’industrializzazione. All’opera della Cassa a favore del Sud si associò quella svolta direttamente dallo Stato, che
attuò una politica di incentivi, agevolazioni creditizie, sgravi fiscali e commesse. Aiuti consistenti vennero elargiti
attraverso la Cassa contributi a fondo perduto, a favore dell’imprenditoria meridionale, mentre altri istituti di credito
speciale concessero prestiti all’industria a tassi agevolati:
- L’istituto per lo sviluppo economico del mezzogiorno (ISVEIMER);
- L’istituto regionale per il finanziamento all’industria in Sicilia (IRFIS);
- Credito Industriale Sardo (CIS)
*(La Banca Europea degli Investimenti (BEI), con sede a Lussemburgo, fu creata col trattato di Roma del 1957, con
capitale sottoscritto dagli stati membri della Comunità. È un istituto finanziario che effettua prestiti per progetti di
investimento in campo industriale, energetico e infrastrutturale all’interno dei paesi della Comunità)
L’economia italiana, una volta attuata la ricostruzione, conobbe una consistente espansione fino al 1963. Allo sviluppo
contribuirono alla scelta di politica economica di quegli anni, che condussero a configurare un sistema di “economia
mista”, in cui si contemperavano le istanze liberiste con quelle interventiste, provenienti dalla classe dirigente.
Tuttavia, alcune considerazioni critiche vanno avanzate al modello di crescita emergente. Più che le piccole e medie
imprese locali, il sistema combinato di intervento dello Stato finì col privilegiare i grandi complessi industriali
settentrionali e le imprese pubbliche, che moltiplicarono i loro investimenti nelle regioni meridionali e colpirono la
concorrenza locale. Con il suo intervento il governo non riuscì a promuovere un consistente sviluppo dell’economia
meridionale: le piccole e medie imprese restarono scarsamente efficienti, il problema della disoccupazione non trovò
soluzioni e restò assai ampio il divario tra Nord e Sud.
Il ciclo 1963-1970
Il quadro dell’economia italiana mutò profondamente a partire dal 1963, anno in cui la direzione del governo fu
assunta da una coalizione di centro-sinistra (alleanza tra democrazia cristiana e partito socialista Italiano); si verificò
una brusca inversione del processo di sviluppo seguita da una profonda recessione. La causa di questo improvviso
cambiamento va individuata nella accentuarsi della pressione salariale, che provocò una redistribuzione del reddito
dai profitti ai salari. Il ridursi della disoccupazione e le migrazioni interne dei lavoratori avevano consolidato i
sindacati, la cui forza contrattuale era aumentata. Grazie all’azione di questi, i lavoratori dettero vita, tra il 1960 e il
1963, a numerosi scioperi e conseguirono congrui aumenti salariali. I costi di produzione crebbero e con essi i prezzi*.
Sul mercato estero, dove vigeva il sistema di cambi fissi, gli imprenditori italiani non poterono aumentare i prezzi di
vendita sicché si videro seriamente compromessi nella loro attività per la caduta dei profitti. Col contrarsi delle
vendite all’estero, aumentò di conseguenza il disavanzo della bilancia commerciale e di quella dei pagamenti.
*(La crescita salariale diventa un fattore destabilizzante quando il salario per addetto aumenta più rapidamente del
prodotto per addetto. La divaricazione tra salario produttività, comportando la caduta dei profitti, induce le imprese ad
imporre prezzi più elevati per ripristinare i margini di profitto attesi.)
Contrario alla svalutazione, per sanare il deficit nei conti con l’estero, il governo dovette ricorrere ai prestiti: a suo
favore intervennero gli Stati Uniti nel 1964, con 1 miliardo e il FMI con 225 milioni di dollari. L’inflazione, generata
dall’aumento dei salari, le maggiori difficoltà all’esportazione e l’aumento delle importazioni, fecero aumentare il
clima di sfiducia e di disagio che si era incominciato a diffondere nel 1962,quando fu decisa la nazionalizzazione della
produzione di energia elettrica e venne fondato l’Enel. Per arrestare l’inflazione e ridurre il disavanzo intervennero le
autorità monetarie: nell’estate del 1963 la Banca d’Italia apporto restrizioni creditizie e invitò gli istituti bancari ad
arrestare il loro indebitamento. Alla stretta creditizia fece seguito nel 1964 una serie di provvedimenti fiscali:
l’aumento delle imposte indirette e l’incremento dell’aliquota dell’imposta generale sull’entrata (IGE). Nonostante le
misure adottate, la caduta degli investimenti fu in arrestabile: da 2.500 miliardi nel 1963 a 1.500 miliardi nel 1965.
La ripresa fu stentata e solo nel 1969 gli investimenti nell’industria raggiunsero il livello del 1960. La crescita della
spesa pubblica compensò di poco le carenze di investimento nel settore privato. La pubblica amministrazione
concesse rilevanti aumenti retributivi, e ciò incise profondamente sulla distribuzione del reddito, perché 1/3
dell’occupazione dipendente riguardava il settore pubblico; ne derivò un rallentamento nella formazione del risparmio
e degli investimenti. Se nel 1969 la fase acuta della depressione poteva ritenersi superata, restavano rilevanti squilibri
nell’economia italiana: il divario tra Nord e Sud, la disoccupazione, la conflittualità sindacale che sfociò nell’autunno
caldo.
A partire dal 1965 questo equilibrio si ruppe, perché le crescenti spese di guerra impedirono di mantenere sotto
controllo il sistema: l’aumento dei prezzi si aggirò intorno al 4,2% annuo, raggiungendo circa il 6% nel 1970. Per la
prima volta dopo il New Deal, nel 1971, fu necessario ricorrere alla sospensione della convertibilità del dollaro e alla
sua svalutazione (10%).
Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si erano sostituiti dalla Gran Bretagna nel posto dominante. La politica
degli “aiuti“ da essi intrapresa, fu rivolta non solo all’Europa ma anche ad altri molti paesi in Asia, Africa, America del
Sud. Alle varie forme di intervento attuate dal governo statunitense, vanno aggiunti gli investimenti effettuati dai
privati all’estero, nei paesi comunisti compresi, bisognosi della più avanzata tecnologia. Tenacemente fedeli al
protezionismo, ma preoccupati dall’essere esclusi dal mercato europeo, dopo la costituzione della CEE, essi mirarono
a fissare un accordo con i paesi europei, che comportasse la riduzione delle misure restrittive al commercio.
Dopo l’avvento al potere dei Democratici e per iniziativa del presidente John Kennedy, con il suo Trade Expansion
Act del 1962, gli Stati Uniti e i paesi della CEE stabilirono concessioni reciproche, volte a promuovere lo sviluppo degli
scambi commerciali tra le due grandi aree economiche.
L’iniziativa rientrò nel quadro delle riunioni periodiche di aggiornamento del GATT, e comportò la reciproca riduzione
delle misure protezionistiche sui prodotti industriali. La caratteristica peculiare di questo accordo (Kennedy Round) nel
1967, fu la riduzione dei dazi doganali, concertata per la prima volta in termini generali, piuttosto che sulle singole voci
della tariffa doganale. L’accordo consentì, per i prodotti essenziali, la perfetta unificazione del mercato tra le
economie sviluppate del mondo occidentale.
Le riserve auree del governo americano invece si ridussero da 22 a 17 miliardi di dollari dal 1958 al 1962, toccando il
fondo a 10,5 miliardi nel 1968. L’Europa che aveva sofferto della ‘’penuria di dollari’’, finì con averne in abbondanza, e
gli Stati Uniti, non riuscendo più a compensare il deficit, e con l’avvento al potere dei Repubblicani e del presidente
Nixon nel 1969, sospesero la convertibilità del dollaro e nel 1971 lo svalutarono del 10%, nella speranza di far
riacquistare competitività sui mercati esteri alle merci americane. Nel contempo si istituì una sovrattassa del 10%
all’importazione.
Quanto all’economia, il governo e il sistema bancario finanziarono con opportuni incentivi la ricostruzione delle
industrie di base e il loro intervento dette avvio all’inflazione, che fu arrestata nel 1949, con restrizioni creditizie che
consentirono di stabilizzare la moneta e di ricondurre al pareggio il bilancio statale. Grazie a questo complesso di
riforme, l’opera di ricostruzione dell’economia si realizzò in breve tempo: posto pari a 100 l’indice della produzione
industriale nel 1936, crollò a 37 nel 1947 e toccò quota 84 nel 1950. Le forniture speciali diedero nuova impulso alla
produzione che, in un solo anno, aumento del 52%, mentre la bilancia commerciale e quella dei pagamenti divennero
favorevoli.
Nel 1951 fu ripristinata la sovranità del governo giapponese: da quel momento il paese avrebbe conosciuto
un’espansione costante e, nonostante l’aumento della popolazione il tenore di vita della stessa migliorò sia nelle
campagne che nei centri urbani.
Fondata inizialmente sui tessili (filatura del cotone in particolare) l’industria giapponese aveva riservato un posto
sempre più ampio alla siderurgia, alla meccanizzazione e alla chimica. La guerra accelerò il declino dell’industria
cotoniera e lo spostamento degli investimenti in quella pesante. Povero di materie prime, il Giappone ricorse
all’estero per acquistare risorse energetiche e minerali e dovette trovare nuovi mercati per i suoi prodotti finiti.
Nel 1960 era il principale costruttore di navi al mondo, grande fornitore di attrezzature elettroniche, di autoveicoli, di
prodotti chimici e farmaceutici.
Un indice della sua espansione industriale è dato dal consumo di energia elettrica che, pari a 30 milioni di kilowattora
nel 1937, arrivò a 99 nel 1959. Con un tasso di crescita pari al 15% all’anno tra il 1952 e il 1971 -contro il 5,7% nel
periodo 1885-1940- e con un PNL pari al 1968 a 133 miliardi di dollari, il Giappone si colloco tra le economie più forti al
mondo dopo Stati Uniti e Unione Sovietica.
Ma la politica economica di questa grande potenza, fondata sul mantenimento di un mercato interno fortemente
protetto e sulla conquista di sbocchi all’estero per i suoi prodotti, creò pesanti tensioni internazionali. Fin dall’inizio,
Nixon ingiunse al Giappone di liberalizzare il regime delle importazioni e il movimento dei capitali e di limitare le sue
esportazioni, divenute altamente competitive. Non mancarono problemi anche all’interno del paese: al miracolo
economico si accompagnarono contraddizioni sociali che ebbero una notevole influenza sul corso degli eventi
successivi.