Nel Seicento l’europa visse un periodo di forte crisi generale, e sintomi evidenti furono l’arresto
della crescita demografica e la stagnazione economica. Le difficoltà economiche, aggravate anche
dalla guerra e dalle epidemie, portano a tensioni sociali come la ribellione contadina.
Questo periodo viene detto “secolo di recessione” (fase economica negativa). Non con tutti gli stati la
stagnazione (blocco del sistema economico) coincise con un effettivo regresso economico, come fu
con l’Europa centromeridionale e mediterranea, travolta da una vera e propria crisi del settore
manifatturiero e agricolo. Infatti, l’Europa nordoccidentale seppe reagire positivamente alle
difficoltà, modernizzando i sistemi produttivi e ponendo le basi per uno sviluppo economico e
commerciale. Questo portò alla nascita di un sistema produttivo di tipo capitalistico. Il Seicento fu un
secolo complesso, detto “di ferro” per le continue guerre. Fu anche l’epoca dell’espansione coloniale
europea, dell’affermazione dell’assolutismo e del costituzionalismo.
Le guerre non causarono alla popolazione solo mortalità, devastazioni, epidemie e carestie, ma anche
una profonda instabilità economica. In particolare, alle nuove epidemie di peste contribuirono: le
pessime condizioni igieniche, gli spostamenti di truppe mercenarie appestate, e il peggioramento
del regime alimentare. Anche in Italia, a causa dei cattivi raccolti, la situazione portò a una carestia,
a cui seguì una terribile epidemia (1629-31). Altra causa della stagnazione demografica è da
attribuire all’innalzamento dell’età matrimoniale, poiché, per le varie epidemie, le coppie
decidevano di rimandare a tempi migliori il matrimonio e la procreazione.
Altro fattore fu la diminuzione delle rese agricole, conseguenza dello squilibrio tra popolazione e
risorse. Aumentando infatti la popolazione aumenta anche lo squilibrio, che causa carestie e
catastrofi demografiche. Ma il problema era anche da attribuire alla scarsità di terre fertili e
all’arretratezza dei mezzi di produzione.
Un altro motivo della crisi agraria fu il processo di polarizzazione della ricchezza, ovvero la
tendenza dei proprietari di non fare investimenti per migliorare il terreno o incrementare la
produttività. Questo fenomeno era connesso anche con altri aspetti dell’economia del tempo, come
l’aumento dei prezzi agricoli, che portò ad un calo dei consumi, fino a che spinsero i proprietari a
non investire in miglioramenti tecnici e produttivi. Alcuni, addirittura, aumentarono
ulteriormente i canoni d'affitto dei terreni, innescando in questo modo un processo di
rifeudalizzazione, che accrebbe il clima di instabilità e tensione sociale.
Tuttavia ci furono anche aspetti positivi di questa situazione: nel Nord Italia furono introdotte nuove
agricolture, come mais e riso; si diffuse l’allevamento dei bachi di seta a scopi industriali;
aumentarono i campi destinati all’allevamento e si diffuse la mezzadria. Nel Sud Italia l’economia
rimase invece legata alla coltivazione estensiva dei cereali. I baroni, proprietari terrieri, aggravarono
la situazione aumentando il prezzo di questi prodotti a danno delle popolazioni rurali (parassitismo),
e molte popolazioni contadine si diedero così al banditismo. L’Italia era divenuta un paese
sottosviluppato importatore di manufatti e servizi ed esportatore di materie prime.
Anche la Spagna attraversò un periodo di decadenza economica, soprattutto a causa della politica
assolutistica ed espansionistica di Filippo II, che aveva colpito i ceti più produttivi del Paese. A
questo si aggiunsero:
● i costi pagati per la partecipazione alla Guerra dei Trent’anni;
● la diminuzione dell’afflusso di argento e del volume degli scambi con il Nuovo Mondo;
● la tendenza di un gran numero di spagnoli ad abbandonare l’attività agricola e artigianale ed
entrare nelle file della burocrazia statale o arruolarsi nell’esercito.
Tuttavia, causa principale della decadenza fu la mentalità della classe dominante, contraria a
investimenti produttivi e al cambiamento del sistema politico. Tutte le attività tese al guadagno erano
infatti considerate disonorevoli.
Questa cattiva gestione delle finanze e la mancanza degli investimenti produttivi portarono al
ristagno economico spagnolo. Inoltre, per sostenere la politica estera, il nuovo sovrano Filippo IV
d’Asburgo aumentò l'imposizione fiscale, che colpì tutti i territori sotto il dominio spagnolo, come
anche la Catalogna e il Portogallo, che insorsero nel 1640: si dichiararono indipendenti. Anche le
province italiane furono colpite dal carico fiscale imposto dalla Spagna, e la situazione degenerò: i
contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre e il popolo esplodeva in continue rivolte
contro le troppe tasse.
Rivolta celebre fu quella di Napoli (1647-48), scoppiata in seguito all’introduzione della gabella
(tassa sulla frutta e sulla verdura). Fu guidata dal “Masaniello”, e ben presto si trasformò da
tafferuglio in moto antifeudale e antibaronale. Masaniello fu infine assassinato, ma i tumulti non
cessarono: la lotta contadina e cittadina divenne una lotta antispagnola. Un’assemblea popolare creò
la repubblica, ma la sommossa fu soffocata dall’esercito spagnolo, che recuperò il controllo della
città, e la situazione ritornò com’era prima. L’episodio dimostrò anche l’indifferenza
dell’aristocrazia alle sofferenze dei ceti popolari, che fino a quel momento era rimasta legata alla
corona spagnola.
In seguito alla pace di Cateau-Cambrésis, la Spagna ottenne il predominio sui Regni di Napoli,
Sicilia, Sardegna, sul Ducato di Milano e sullo Stato dei presìdi. I primi 3 furono assegnati a 3
viceré, e il ducato di Milano ad un governatore. In ogni provincia si riunivano assemblee di
rappresentanti della nobiltà, del patriziato cittadino e del clero, che attenuavano il potere del Supremo
consiglio d’Italia, con sede a Madrid. Per amministrare i territori spagnoli in Italia, la Spagna si
appoggiò ai ceti privilegiati, che in cambio dell’esenzione fiscale e privilegi, assicurarono fedeltà e
tranquillità alla Spagna: questo spiega anche la scarsa presenza militare spagnola in Italia. Infine,
alla Chiesa furono riconosciuti il diritto di asilo (l’istituzione può tutelare chiunque si rifugi presso di
essa) e la manomorta (i beni di proprietà ecclesiastica erano inalienabili e non soggetti a tassazione).
Il Ducato di Milano rappresentava per la Spagna un nodo strategico, un ponte per l’Europa
centrale e per le Fiandre. La città non fu soggetta a rivolte ed era governata da un governatore
spagnolo e da un gran cancelliere. Tuttavia nel Seicento, Milano vide decadere la sua prosperità
economica e la popolazione subì un drastico calo demografico, che iniziò a ricrescere lentamente nel
XVII secolo, grazie allo spostamento della produzione agricola e manifatturiera dalla capitale alle
campagne circostanti.
Il regno di Sicilia era già un possedimento dei re di Aragona. Il viceré era affiancato dalla figura del
consultore, ed il Parlamento era composto dai 3 Bracci feudale, ecclesiastico e demaniale, e aveva il
compito di controllare i rapporti tra i ceti dirigenti siciliani e la Corona spagnola. Con la
trasformazione di molti terreni a latifondo, il baronato rafforzò i poteri feudale a spese delle masse
contadine. Il Regno di Sardegna era di competenza del Consiglio di Aragona. La Corona Spagnola vi
costituì la Reale udienza, che assisteva il viceré nelle funzioni di governo e fungeva da supremo
tribunale. Ne facevano parte soprattutto esponenti dell’alta borghesia che avevano compiuto studi
universitari, il cosiddetto “ceto togato”. Dal punto di vista economico il vicereame rimase ai margini
dello sviluppo imperiale spagnolo.