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RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA

Nessuno può perdere, nessuno può vincere?


I piani per disgregare Ucraina e Russia
LA GUERRA
L’Italia riscopre il vincolo americano
CONTINUA
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1/2023 • mensile
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TOULABOR - Turchia: Yasemin TAùKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI
Ucraina: Leonid FINBERG, Mirosłav POPOVI® - Ungheria: Gyula L. ORTUTAY
Rivista mensile n. 1/2023 (gennaio)
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ISCRIZIONI APERTE
LA III EDIZIONE FINO AL 28 FEBBRAIO

DELLA SCUOLA DI LIMES INIZIO LEZIONI


10 MARZO

Stiamo vivendo un cambio di paradigma. La storia ha in trent’anni di vita. Tutte le lezioni sono tenute dalla
ripreso a correre. Sono necessarie nuove chiavi di lettura. Direzione didattica e si avvalgono delle testimonianze
Per capire come cambia il mondo attorno a noi. di esperti provenienti dai paesi in esame e dotati di
Per collocare il nostro paese nelle competizioni conoscenze dirette del tema afrontato, dall’intelligence
internazionali. E per difendere e promuovere i nostri alle Forze armate, dall’alta tecnologia alla cibernetica.
interessi in un pianeta sempre più disordinato.
La Scuola non dura un anno. Stiamo costruendo
La Scuola di Limes è nata per contribuire alla formazione di una comunità, attraverso la rete degli Alumni di Limes.
una nuova cultura e di una nuova sensibilità per la geopolitica Per continuare a confrontarci con chi condivide la passione
nella classe dirigente italiana. Oggi la sua missione è ancora per lo Stato e per i temi che trattiamo.
più rilevante.
La III edizione della Scuola prende il via venerdì 10 marzo
Lo studio dei confitti nello spazio e nel tempo è il sale 2023: 120 ore di lezione, tre fne settimana al mese,
della geopolitica. La nostra Scuola ofre un metodo da marzo a giugno e da settembre a dicembre.
di analisi peculiare, assente nei centri di formazione Con alcune lezioni dal vivo ed esercitazioni per imparare
accademici. Ed essenziale per interpretare le crisi a scrivere e a cartografare analisi geopolitiche.
che determinano il nostro tempo e il posto dell’Italia
nel mondo. La crisi d’identità americana. La competizione È possibile candidarsi inviando curriculum e lettera
Usa-Cina. La Russia in guerra. Il lungo declino degli imperi di motivazione all’indirizzo info@scuoladilimes.it
europei. L’ascesa di nuove potenze, dalla Turchia
al Giappone. E molte altre, sino a un rigoroso esame La Scuola di Limes è aperta a tutti. Da chi già fa parte
strategico dell’Italia, alfa e omega del nostro ragionamento. della classe dirigente a chi aspira a entrarvi. Da chi vuole
acquisire strumenti analitici da integrare nella propria
La Scuola ofre ai partecipanti l’esperienza e l’autorevolezza professione a chi è semplicemente mosso da passione
della vasta rete di analisti e decisori intessuta da Limes e curiosità.
SOMMARIO n. 1/2023

EDITORIALE
7 Come un ladro nella notte (in appendice Agnese ROSSI
Spezzatini di Russia in salsa ucraina, polacca e americana)

PARTE I IL SENSO STRATEGICO DELLA GUERRA UCRAINA

35 Fëdor LUK’JANOV - Un nuovo tipo di guerra mondiale


43 Jeffrey MANKOFF - ‘L’America accelera in Ucraina per non fare
la Guerra Grande’
51 YOU Ji - La Cina si vede così: contro l’America e sopra la Russia
61 Doug BANDOW - Washington gioca col fuoco
69 Nicola CRISTADORO, Germano DOTTORI e Virgilio ILARI - Un anno dopo
Che cosa è diventata la guerra in Ucraina
77 Orietta MOSCATELLI e Mauro DE BONIS - L’imperatore è solo come
il suo impero
89 Igor PELLICCIARI - Dall’operazione speciale alla guerra normale
contro gli ‘amerikani’
99 Mirko MUSSETTI - Qualcosa di nuovo sul fronte del Donbas
109 Anatolij PROKHANOV - La vera posta in gioco per Mosca
117 Fulvio SCAGLIONE - L’Ucraina di domani può spaccare l’Europa
129 Tamila TASHEVA - ‘La Crimea tornerà ucraina’
135 Oleksij ARESTOVYČ - ‘Siamo pronti a negoziare con chiunque
succederà a Putin’
141 Matteo FRIGOLI e Maurizio MARTELLINI - La difesa totale secondo Kiev

PARTE II EUROPEI PERDENTI, TURCO VINCENTE

149 Marco MINNITI - ‘Il mio piano per l’Africa’


155 Fabrizio MARONTA - Le sanzioni tra maschera e volto
171 Heribert DIETER - La Germania riscopre la guerra giusta
177 Elettra ARDISSINO - La paralisi strategica del Regno Unito
187 Olivier KEMPF - La guerra può declassare la Francia
193 Germano DOTTORI - Italiani, allineati e coperti
201 Daniele SANTORO - Il secolo della Turchia?
217 Alessandro POLITI - Non isoliamo i Balcani
225 Dan DUNGACIU e Leonardo DINU - L’unica garanzia di sicurezza
della Moldova è la resistenza dell’Ucraina
235 Antonia COLIBĂŞANU e George SCUTARU - Romania, fronte del porto

PARTE III VIRATE IN CORSO NELL’INDO-PACIFICO

245 Giorgio CUSCITO - La Guerra Grande colpisce


le nuove vie della seta
255 Bernardino REGAZZONI - ‘Ombre cinesi’
263 SATAKE Tomohiko - Toˉkyoˉ prepara il contrattacco
271 Lorenzo Di MURO - Pechino contro Delhi: l’eterna sfda
sul Tetto del mondo
285 Riccardo BANZATO - ‘Rocket man’ si tiene stretti missili e bombe

LIMES IN PIÙ
293 Elio CIRILLO - Leuropa parla inglese per far fnta di esistere

AUTORI
301

LA STORIA IN CARTE a cura di Edoardo BORIA

303
LA GUERRA CONTINUA?

Come un ladro nella notte

1. M AI NELLA STORIA I MASSIMI IMPERI SI SONO TROVATI


contemporaneamente in crisi. Al punto da tutti temere per la propria
esistenza. Condizione intollerabile per chi dalla nascita coltiva una
grandiosa idea di sé. I colossi futano il pericolo prima degli altri. L’aria
rarefatta che si inala alle vette della potenza eccita la sensibilità al de-
clino. Ne fa ossessione. Facile perdere il controllo. E fnire fuori strada,
trascinando con sé rivali, soci e passanti. Se poi i protagonisti dispongo-
no di armi defnitive, tanto evolute da potersi rivoltare contro chi presu-
me di maneggiarle, scatta l’allarme generale. Con l’inevitabile guerra
delle narrazioni. Crolla il principio di realtà. Nulla è certo, tutto è credi-
bile. La comunicazione intossicata disinforma fnanco i decisori che la
producono. Per i mestieranti dell’analisi geopolitica che siamo, recupe-
rare il flo degli eventi, stabilirne la gerarchia e concepirne lo svolgimen-
to futuro è quasi impossibile. Il quasi è di incoraggiamento.
Questa è, se vi pare, la Guerra Grande. Una sola certezza: è appena
cominciata e nessuno può immaginarne la fne. Nemmeno l’inizio è fuori
discussione, acclarato che la sgangherata marcia su Kiev avviata da Pu-
tin il 24 febbraio 2022 si voleva preludio alla parata della vittoria, non
alla prolungata guerra d’attrito fra America e Russia in ripida scalata
verso lo scontro diretto. E tuttavia a quel chiodo sulla parete dobbiamo
fssarci per uno sguardo dall’alto sul sisma che sta ridistribuendo il potere
su scala planetaria. Guerra Grande, appunto, disegnata dai tre protago-
nisti – Stati Uniti, Cina e Russia – in due teatri principali. Con la prima 7
COME UN LADRO NELLA NOTTE

coppia di antagonisti in frizione sempre meno fredda nell’Indo-Pacifco,


mentre russi e americani si affrontano lungo i bordi dell’Eurasia occiden-
tale, fra Mar Nero e Baltico, epicentro Ucraina (carta a colori 1).

2. L’occidentalizzazione del globo è fallita. La trentennale parabola


che dalla vittoria dell’America contro l’Unione Sovietica conduce all’in-
vasione russa dell’Ucraina di fatto atlantica traccia il tramonto di
quell’alba a stelle e strisce che nel dopo-Muro aveva ipnotizzato il mon-
do. Eppure quell’ossimoro logico e geopolitico concepito da febbricitanti
neoconservatori americani altrettanto ossimorici era fno all’altro ieri
senso comune. Oggi quella verità non è creduta tantomeno voluta da
gran parte degli stessi americani. Neanche dal più acuto fra i neocon
viventi, Francis Fukuyama, che all’americanizzazione del mondo ap-
plicò nel 1992 l’etichetta defnitiva: The End of History 1. Ma già nel
2006 spergiurava: «Noi non vogliamo vivere in un mondo nel quale ab-
biamo gli stessi valori universali basati su qualche sorta di americani-
smo globalizzato» 2. La fne della storia siamo noi europei imbambolati
nella contemplazione della nostra civiltà «gentile» mentre fuori la foresta
brucia. La villa nella giungla si congratula con sé stessa mentre la giun-
gla dilaga nella villa.
In carenza di egemoni alternativi, la successione all’utopia dell’Occi-
dente globale, fondativa dell’impero americano, sarà lenta, dolorosa, pre-
caria. La Guerra Grande ne è espressione al grado bellico, capace di terza
guerra mondiale. Ma gli storici non farebbero in tempo a classifcarla tale
visto che probabilmente coinciderebbe con la fne dell’umanità. L’opposto
della fne della storia. La primazia a stelle e strisce è sotto attacco, dall’e-
sterno ma soprattutto da dentro casa, scossa dal dubbio esistenziale: «Chi
siamo?» 3. A sfdarla risorgimento cinese, revanscismo russo e sconcerto dei
satelliti veteroeuropei di Washington, fra cui brilla il Belpaese. Tre vettori
che si ritorcono contro le velleità americane di egemonia planetaria.
Quando in tempo inconoscibile l’alfa a stelle e strisce scolorerà in omega,
scopriremo che insieme alla fatica imperiale del Numero Uno determinan-
te non sarà stata tanto l’arroganza cinese o la disperazione russa, quanto
il cedimento del fronte europeo. Compagnia del bel tempo, spaesata quan-

1. F. FUKUYAMA, The End of History and the Last Man, New York, NY 2006, The Free Press.
L’edizione originale è del 1992, elaborata dal saggio «The End of History?», The National
Interest, estate 1989. Con imprudente omissione del punto interrogativo, per cui l’autore si
morderà pubblicamente le dita.
2. Ivi, p. 344.
8 3. Cfr. S. HUNTINGTON, Who are We? America’s Great Debate, London 2004, Simon & Schuster.
LA GUERRA CONTINUA

do rannuvola, dispersa nella tempesta. Ma senza il Vecchio Continente


l’impero a stelle e strisce non ha senso.
Fin qui l’analisi classica. Utile perché sintetica. Però conftta nei pa-
radigmi otto-novecenteschi cari agli ultimi credenti nell’ordinabilità del
pianeta. Quali politeisti nel tardo antico virante al cristianesimo, costo-
ro immaginano di mettere le brache al mondo come s’usava a Vienna o
a Jalta. Henry Kissinger, ovvero Giuliano l’Apostata, è l’ormai centena-
rio vate controcorrente che insiste, da idealista spacciato per bieco Real-
politiker, sulla possibilità dell’Ordine Mondiale per l’ottima ragione che
è necessario. Nobile utopismo fuori tempo. Nelle storie, cui Kissinger me-
ritoriamente ci esorta, c’è la stagione dell’ordine, quando si consolidano
gli equilibri sanciti dai sedati confitti, e c’è quella del disordine, in cui
si combatte per un ordine altro. La novità è che a differenza della dop-
pia guerra mondiale (1914-45) diffcilmente la collisione dei tre imperi
produrrà un Grundgesetz universale, una costituzione geopolitica con-
cordata fra le potenze. Perché le potenze si svelano straordinariamente
impotenti. Non più in grado di ridurre la complessità del sistema, anche
solo della frazione di sistema, che pretendono governare.
Commuove rileggere l’incipit di Diplomacy, summa del pensiero kis-
singeriano che nel 1994 intuiva, per chi volesse spingersi oltre le righe, il
percorso verso la Guerra Grande. L’emulo di Castlereagh si rendeva for-
se conto delle conseguenze implicite nella sua tesi per cui l’America non
può più dominare il mondo né estraniarsene? Le prime righe di quel
capolavoro scandivano le cadenze della partizione ciclica della storia,
moda che stava scadendo sotto i nostri occhi come il fnale di una gara
a staffetta: «Quasi come per una legge di natura, in ogni secolo sembra
emergere un paese con il potere, la volontà e l’impeto morale e intellet-
tuale di forgiare l’intero sistema internazionale in accordo con i suoi
propri valori. Nel Seicento la Francia del cardinale Richelieu introdusse
l’approccio moderno alle relazioni internazionali, basato sullo Stato na-
zionale e motivato dagli interessi nazionali in quanto scopo ultimo. Nel
Settecento la Gran Bretagna elaborò il concetto dell’equilibrio della po-
tenza, che dominerà la diplomazia europea per i successivi duecento
anni. Nell’Ottocento, l’Austria di Metternich ricostruì il Concerto d’Euro-
pa e la Germania di Bismarck lo smantellò, ridisegnando la diplomazia
europea quale gioco a sangue freddo tra politiche di potenza» 4. L’elenco
culmina con l’affermazione dell’America nel Novecento, superpotenza
ambigua, pendolante fra ambizione di ergersi a faro dell’umanità e ten-
4. H. KISSINGER, Diplomacy, New York 1994, Simon & Schuster, p. 17. 9
COME UN LADRO NELLA NOTTE

tazione di imporre i suoi valori ai refrattari. A forza di oscillare fra mo-


ralismo benigno e spirito guerriero, questa America non si identifca né
con l’uno né con l’altro. Nessun’altra potenza può prenderne il posto. Se
non hai a chi cedere il testimone, due ipotesi: lo tieni fnché puoi o lo
lasci cadere per terra. La Guerra Grande è tutta qui.
Per coglierne senso e possibili derive non possiamo limitarci a legger-
la entro gli assi cartesiani della scienza internazionalistica e nelle ver-
sioni accademiche della distribuzione del potere, depurate d’ogni trac-
cia storica. Modelli sorti nella tardo-ottocentesca età degli standard,
quando forti spiravano vento positivista e fducia nel progresso. Trionfo
di pesi e misure convenzionali, dal diritto internazionale inaugurato
con la prima convenzione di Ginevra (1864) al metro di Sèvres (1872),
dai fusi orari (1884) al meridiano di Greenwich (1885). Regole perfe-
zionate nel secondo Novecento, circonfuse di universalismo tipicamente
occidentale, mite prosecuzione della «missione civilizzatrice» inscritta
nel colonialismo europeo, specie nella laicistica versione francese. Certi-
fcata dalla gerarchia delle potenze prima europee poi americana. A
Washington il merito di aver fuso le dissonanti ermeneutiche geopoliti-
che e le divergenti antologie valoriali che ispiravano europei e america-
ni nel sistema atlantico a guida americana: the West. Ma il rules-based
international order – inglese per Pax Americana – è immangiabile per
the Rest, stragrande maggioranza degli umani. Sicché pare meno attra-
ente persino per noi privilegiati del West europeo, indisposti a imporlo
con la forza delle armi. Di quel paradigma residuano rifessi pavloviani,
per cui attori geopolitici in contrasto s’industriano a legittimare guerre e
altri orrori con arditi riferimenti alla Carta dell’Onu o ad altro materia-
le pieghevole vestito da cosmopolitismo umanitario. Mero abbellimento
dei rapporti di forza.
L’impotenza relativa dei potenti complica l’analisi. Implica di inclu-
dervi i fattori che ostacolano la riduzione della complessità cui tali di-
spute mirano, così eccitando l’entropia del «sistema» – le virgolette a in-
dicarne la decadenza. Su tutti demografa, ambiente ed epidemie diffu-
se (vulgo: pandemie).
Non si gestisce un pianeta di otto miliardi abbondanti di umani,
con più di duecento Stati e diverse migliaia di rilevanti attori informali
o non statuali, come fossimo nel 1914, quando una manciata di imperi
europei si spartiva insieme al nascente colosso americano un mondo
popolato da meno di due miliardi di anime. Di cui oltre metà trattati da
10 subumani, giuste le gerarchie razzistiche omologate all’epoca. Le asim-
LA GUERRA CONTINUA

metrie demografche e le divaricazioni nell’età mediana fra soggetti e


continenti contigui – massimo il caso della faglia euro-africana che di-
vide Caoslandia da Ordolandia a ridosso della nostra frontiera con le
Libie – potranno decidere nel medio periodo di confitti effettivi o latenti.
E ci costringeranno a ritoccare le frontiere fra i due emisferi (carta a
colori 2).
Né le drastiche alterazioni dell’ambiente prodotte dall’uomo e dai
mutamenti climatici o dall’insieme delle loro relazioni si lasciano de-
scrivere con i paradigmi otto-novecenteschi, quando tali urgenze nean-
che si ponevano. Geopolitica consiglia di non cadere nel semplicismo
che vuole «soluzioni globali a problemi globali». Vero il contrario: l’im-
patto asimmetrico del cambio di clima non può che produrre specifche
reazioni contrastive. Si consideri il caso della rotta artica, partita coper-
ta ma centrale nella Guerra Grande, dove la fusione dei ghiacci esalta
l’entusiasmo russo per il futuro controllo della più economica connessio-
ne oceanica fra Asia, Europa e America, mentre scatena le opposte pre-
occupazioni di Pechino e Washington.
Quanto alla «pandemia», ovvero la strage da Covid-19, troppo evi-
denti le ricadute geopolitiche ed economiche, a partire dalla chiusura di
frontiere esterne e interne e dalla costruzione di muri nella gentile, civi-
lissima Europa «unita» e altrove. Meno visibili, però forse più importanti
e duraturi, gli effetti psicologici e culturali dell’«altro virus», contagio
mentale di massa che altera le scelte dei decisori, meno decisivi che nel
passato 5.
Infne, la Guerra Grande è anche calda. E la guerra calda rischia di
sfuggire al calcolo umano grazie all’applicazione dell’intelligenza arti-
fciale (Ai) nelle tecnologie di comando e controllo. Stiamo per varcare
la soglia delle armi autonome. Incompatibili con la strategia. Che senso
avrà la deterrenza nella guerra cibernetica retta dai princìpi dell’intel-
ligenza artifciale se questa sarà sottratta al controllo dell’uomo? Siamo
ancora in tempo per arrestare la deriva? Dalla risposta dipende se l’u-
manità avrà un futuro.
Ragione di più per scandagliare il fronte di guerra ucraino. Teatro
tragicamente sospeso tra antichi e nuovissimi stili bellici. Dove il fattore
umano, sale della geopolitica, è saturo di storia. Di storie incondivisibili
e inconciliabili. Troppo vicino a noi italiani e altri europei, troppo indi-
rizzato verso lo scontro frontale russo-americano e troppo imprevedibile
per non obbligarci a scavarne le radici.
5. Cfr. Limes, «L’altro virus», n. 1/2022. 11
COME UN LADRO NELLA NOTTE

3. Quest’anno i liceali
russi sono chiamati dal
presidente Putin a testimo-
niare il proprio patriotti-
smo partecipando al con-
corso a premi «Novorossija:
da Caterina la Grande ai
nostri giorni». Scocca in-
fatti il duecentoquarante-
Manifesto per il concorso sulla Nuova Russia
simo anniversario del ma-
nifesto con cui la zarina
di stirpe germanica incorporava nell’impero Crimea, penisola di Taman’
e territorio di Kuban’ – nucleo originario della Novorossija (Nuova Rus-
sia), affaccio russo sul Mar Nero (fgura). I giovani patrioti sono esortati
a «immergersi nella storia» per «ricostruire la Russia e riprenderci tutto
quello che è nostro, indipendentemente dall’opinione e dall’opposizione
dei nostri partner occidentali, destinata a durare a lungo». Cinque le
nominations neorusse tra cui scegliere per sfogare la propria creatività:
«Nato dal profondo dell’anima» (bibliografa); «Fermati un attimo» (pit-
tura); «Melodie della Novorossija» (musica); ArchHistory – licenza occi-
dentale sfuggita al correttore; «Destini» (vite di personalità storiche).
Obiettivo: mobilitare gli studenti nello «studio di eventi storici che testi-
moniano la comunanza culturale di Russia e Nuova Russia» 6. Pura pe-
dagogia imperiale.
La Nuova Russia è la posta per cui Putin sta rischiando il suo residuo
d’impero nello scontro con l’«Occidente collettivo» (carta a colori 3). Mito
geopolitico, indefnito nello spazio e nel tempo perché strumentale all’e-
spansione della patria. Metafora territoriale e spirituale. Evocativa delle
regioni affacciate sul Mar Nero strappate da Caterina II agli ottomani
tra 1768 e 1774. Imperniate su Odessa e di lì estese fno alle coste del
Mar d’Azov, abitate da popolazioni di vario ceppo. Ancora nel censi-
mento del 1926 i russi erano netta minoranza (17%), con prevalenza di
ucraini e minoranze tatare, romene, ebraiche. Per la russifcazione del-
la Nuova Russia toccherà attendere l’industrializzazione staliniana de-
gli anni Trenta.
Ma a che valgono le statistiche di fronte alla sacralità della terra che
la Russia vuole rinnovare eponima? La Nuova Russia è avanguardia del

6. Curiosi o nostri lettori in erba interessati a iscriversi al concorso possono consultare il


12 sito www.concurs-history.ru
LA GUERRA CONTINUA

vagheggiato Mondo Russo (Russkij Mir), da scavare nello spazio già so-
vietico per aggruppare sotto Mosca un impero che ridia ferezza al popo-
lo russo. Civiltà prima che nazione. Frantumata via parto cesareo mul-
tiplo della morente madre sovietica, che nella notte fra il 25 e il 26 di-
cembre 1991 abbandonò in Stati altrui 25 milioni di «compatrioti». Ver-
gogna da riparare. Impresa per la quale Putin intende passare alla sto-
ria. Improbabile. Ma senza cogliere il valore identitario del molto opera-
tivo mito neorusso poco si capisce della guerra in Ucraina.
La riconquista della Nuova Russia eleverebbe Putin a erede della
grande Caterina. Con parole sue: «In tempi zaristi ciò che si chiamava
Nuova Russia – Kharkov, Lugansk, Doneck, Kherson, Nikolaev e Odessa
– non era parte dell’Ucraina. Quei territori vennero dati all’Ucraina ne-
gli anni Venti del Novecento dal governo sovietico. Perché? Chissà. (…)
Il centro di quella terra era Novorossijsk, sicché la regione è chiamata
Novorossija». (carta 1) 7.
Cent’anni dopo, la Nuova Russia torna al centro dello scontro fra
Mosca e Washington via Kiev. Se Putin riuscirà a riportarla a casa, avrà
incassato un tattico premio di consolazione, spendibile in casa, che ad-
dolcirà l’arretramento strategico su scala globale cui l’avventura del 24
febbraio l’ha esposto. Se fallirà, passerà alla storia come l’ultimo impera-
tore. E la Federazione Russa sarà umiliata, forse spartita fra potenze
esterne e potentati o mafe domestiche.
Gli strateghi del Cremlino lavorano da anni alla demarcazione del-
lo spazio neorusso, adattabile come ogni leggenda. Dalla poetica del
mito alla prosa geopolitica. Come rivelato da Dmitrij Trenin, analista
flo-occidentale deluso dalla deriva asiatica, già nel 2008 «alcuni am-
bienti non propriamente accademici di Mosca giocavano con l’idea di
ridisegnare radicalmente l’area del Mar Nero settentrionale, per cui l’U-
craina meridionale, dalla Crimea a Odessa, si sarebbe staccata da Kiev
per formare uno Stato cuscinetto flomoscovita, Nuova Russia» (carta 2) 8.
L’idea era e rimane prendere tre piccioni con una fava: chiudere all’U-
craina lo sbocco al mare, per costringerla a rigravitare attorno alla Rus-
sia; rovesciare il declino avviato con il suicidio sovietico ravvivando lo
spirito grande-russo; per poi trattare con la Turchia, guardiana degli
Stretti, un condominio eusino tale da garantire a Mosca l’accesso libero
al Medioceano. L’annessione delle quattro oblast’ ucraine che saldano
alla patria la Crimea – per Putin l’equivalente russo-ortodosso di Geru-

7. V. PUTIN, «Direct Line with Vladimir Putin», kremlin.ru, 17/4/2014.


8. D. TRENIN, Post-Imperium: A Eurasian Story, Moscow 2011, Carnegie Center. 13
COME UN LADRO NELLA NOTTE

1 - LA SECONDA PROVINCIA DI
NOVOROSSIJSK TRA 1796 E 1800

Fonte: G. Turčenko, F. Turčenko, Проект «Новороссия» 1764–2014 гг. (Progetto «Novorossija» 1764-2014)
14
LA GUERRA CONTINUA

salemme – è il primo passo, da consolidare, della marcia su Odessa. Il 21


settembre scorso al Cremlino, nella mesta cerimonia di riammissione in
patria dei territori di Luhans’k, Donec’k, Kherson e Zaporižžja il presi-
dente le ha battezzate «terre storiche della Nuova Russia». Concetto abba-
stanza elastico da potersi estendere a Odessa, fnanco alla Transnistria,
exclave moldova in mano russa dal 1992, in modo da premere sul delta
del Danubio e sulla super-base Nato di Costanza (carta a colori 4).
Putin avrebbe potuto realizzare questo sogno nella primavera del
2014, sullo slancio del colpo di mano in Crimea e della rivolta florussa
(meglio: anti-ucraina) nel Donbas. L’esercito ucraino era allo sbando,
ma al Cremlino prevalse la prudenza. Il comandante supremo della Na-
to in Europa, generale Philip Breedlove, dava per scontato che ripresa la
Gerusalemme russa con il porto di Sebastopoli le avanguardie di Mosca
sarebbero penetrate fno alla Transnistria 9. Il piano era pronto dal feb-
braio e prevedeva che la rivolta nel Donbas e a Odessa sarebbe sfociata
nell’annessione per referendum delle regioni orientali e meridionali
dell’Ucraina. Nuova Russia molto espansa, dunque, per compensare il
previsto crollo del regime di Viktor Janukovy0, ottimisticamente conside-
rato florusso. Processo piuttosto brusco, travestito in forma legalistica
ispirata al modello delle Euroregioni reinterpretato da certi revanscisti
tedeschi, specie bavaresi, dopo la caduta del Muro: regioni transfronta-
liere come ponti per agganciare e recuperare territori perduti nel 1945,
dalla Slesia alla Pomerania ai Sudeti. Mascheramento con allegre tinte
brussellesi di grevi ambizioni pangermaniche 10.
Nella primavera-estate del 2014 il Cremlino aveva sostenuto la ribel-
lione anti-ucraina nel Donbas e a Odessa, con tanto di appello presiden-
ziale agli «insorti della Nuova Russia» 11. Miliziani florussi, agenti di Mo-
sca e «uomini verdi» senza insegne, appena vittoriosi in Crimea, avrebbero
raggiunto l’obiettivo con una operazione speciale di taglia ben minore
rispetto all’infelice blitz del 24 febbraio scorso. Le terre irredente sarebbero
state recuperate alla Grande Madre. I «falchi» rimproverano a Putin di
non aver osato allora l’invasione. Sergej Glaz’ev, una delle menti del pro-

9. L. HARDING, «Russia ready to annex Moldova region, Nato commander claims», The
Guardian, 23/3/2014.
10. Il progetto russo di annessione è in «Novaya Gazeta’s “Kremlin papers” article: Full text
in English», unian.info, 25/2/2015. Per l’uso espansionistico delle Euroregioni da parte
tedesca, specie bavarese, cfr. M. KORINMAN, «Euroregioni o nuovi Länder?», Limes, «L’Europa
senza l’Europa», n. 4/1993, pp. 65-78.
11. N. MACFARQUAR, A.E. KRAMER, «Praising Rebels, Putin Toughens Tone on Ukraine», The
New York Times, 29/8/2014. 15
COME UN LADRO NELLA NOTTE

getto neorusso, ricorda come dopo il ratto della Crimea il presidente rifu-
tasse di scagliare le sue truppe in quell’avventura, pretendendo che fossero
insorti locali a fare la prima mossa 12. Risultato: oggi Putin si trova con «il
culo su due sedie che si stanno allontanando lentamente l’una dall’altra».
Dobbiamo l’elegante metafora a Igor’ Girkin, famigerato colonnello del-
l’Fsb e combattente irredentista antemarcia 13.
Le stenografe mediatiche trascurano che Putin non ha né mai ha
avuto il controllo diretto della partita del Donbas. Il presidente è il rego-
latore supremo delle iniziative affdate zona per zona alla responsabilità
dello specifco kurator, fgura vicariale – variante russa di un modello
tipico degli Stati patrimoniali altamente informali – cui il capo affda
pro tempore la regia delle operazioni sul campo. Missione ardita in quel
groviglio di opportunisti, fanatici, paracapitalisti di ventura, mercenari
e signori della guerra in competizione permanente. L’Ucraina è un cimi-
tero di procuratori russi falliti o liquidati. La disgrazia del primo kurator
dell’avventura neorussa, Vladislav Surkov, scintillante ideologo di cui si
sono perse le tracce, illustra il caos in cui s’è impantanata l’operazione
Nuova Russia. Difatti non ve n’è mai stata una, ma diverse per ispirazio-
ne, qualità, risorse, obiettivi. Tre le principali, di cui nessuna perfetta-
mente allineata con Putin, una addirittura avversa, ma tutte da lui
strumentalizzate quando necessario. Esitazioni e contraddizioni del
Cremlino dallo smacco di Kiev (febbraio 2014) in avanti sono anche
fglie dei contrasti fra le tre correnti neorussiste, identifcabili come ros-
sa, bianca e bruna. Sfumature di ultranazionalismi in armi, dotati di
supplementi d’anima e misticismi assortiti. Tutto molto russo 14.
La corrente rossa è neosovietica. Colora di socialismo le utopie della
Grande Russia. Il suo mentore è Aleksandr Prokhanov, in collaborazio-
ne con Aleksandr Dugin (quest’ultimo infuente anche fra bianchi e
bruni). Il primo, ormai ottantacinquenne, era già noto scrittore e gior-
nalista in età sovietica, più comunista del Partito comunista dell’Urss di
cui infatti rifutava la tessera. La sua Nuova Russia fa leva sul flosovie-
tismo diffuso nel Donbas – semplifcato in florussismo dal mainstream
occidentale – che vorrebbe libero dagli oligarchi. In vista del Quinto
12. Cfr. G. TOAL, Near Abroad. Putin, the West and the Contest over Ukraine and the Cau-
casus, Oxford 2017, Oxford University Press, pp. 249 s.
13. A. BRASCHAYKO, «Chi è Igor Girkin, il “falco” russo condannato per l’abbattimento del
volo MH17», Il Foglio, 17/11/2022.
14. Seguiamo qui l’interpretazione proposta da M. LARUELLE, «The three colors of Novoros-
siya, or the Russian nationalist mythmaking of the Ukrainian crisis», Post-Soviet Affairs, vol.
16 32, n. 1, 2016, pp. 55-74.
1 - TUTTO UN ALTRO MONDO Teatri della Guerra Grande
CAOSLANDIA Epicentri della Guerra Grande
Area di massima concentrazione
dei confitti, del terrorismo
e della dissoluzione degli Stati
Via della seta artica
prossima ventura
russo-americana
erra
Gu FEDERAZIONE RUSSA

o-americana
Mosca
a sin
Sfd
UCRAINA
USA

Washington Pechino
GIAPPONE
CINA
Hawaii (Usa)
INDIA VIE TAIWAN
WAN
TN
AM FILIPPINE
Il triangolo Guam (Usa)
della Guerra Grande MALAYSIA
Guerra russo-americana
Coppia sino-russa in crisi USA
Sfda sino-americana INDONESIA

Avanguardie antirusse
Alleato Nato ambiguo e autocentrato AUSTRALIA
Quad (Usa, Australia, Giappone, India)

IA

FR
AN

AN
M
Basi strategiche Usa per la pressione verso la Cina

CIA
GER
Isole o atolli statunitensi
ITALIA Avanguardie anticinesi
NA Sub-imperi in (ri)formazione
PAG Proiezione Usa
S Tensioni coreane nell’Oceano Pacifco
Paesi dell’EuroQuad
CAOSLANDIA
2 - CAOSLANDIA (VERSUS ORDOLANDIA) Area di massima concentrazione
dei confitti, del terrorismo
LIMES INTERMARIUM e della dissoluzione degli Stati
Linea di faglia tra Nato e Russia
compresa tra il Mar Baltico e il Mar Nero

FEDERAZIONE RUSSA
C AOSLA
FAGLIA MEDITERRANEA N
Confne tra il mondo D
I

A
dell’ordine e Caoslandia

STATI UNITI Corea del Nord


Minaccia balistica e nucleare
FASCIA SAHELIANA CINA
IA Area di crisi
I CONFLITTI NEL MONDO D Nato-Russia
C AO SL A N

CA
OS
LA Area di crisi
Confitti e instabilità siro-irachene ND del Levante
IA
CA

Insurrezione di Boko Haram Area di crisi


OS

(Nigeria, Niger, Ciad, Camerun) LA dei Mari Cinesi


ND
Confitto interno e instabilità in Afghanistan IA
Confitti curdo-turchi (Turchia, Siria, Iraq)
Guerra civile somala SLANDIA
CAO
Terrorismo jihadista in Pakistan
Guerra della droga
Confitti e instabilità nelle Libie
Guerra in Yemen Attori protagonisti:
Instabilità in Sinai Confitto del Tigrè (Etiopia)
STATI UNITI
Guerra in Sud Sudan Confitti nel Centrafrica
Invasione russa dell’Ucraina Guerra nella Repubblica Democratica del Congo FED. RUSSA
Kashmir conteso Instabilità islamista nel Caucaso del Nord
CINA
Instabilità del Balucistan (Pakistan e Iran) Instabilità nel Xinjiang (Cina)
Insorgenza e repressione organizzazioni etniche armate Confitti locali in India Coprotagonisti:
Tensione israelo-palestinese Insurrezioni islamiste/separatiste nelle Filippine e in Malaysia GERMANIA FRANCIA
Guerra civile nel Mali Guerra della droga (basi logistiche dei cartelli messicani della droga)
TURCHIA IRAN
Instabilità nel Sahel Formazioni jihadiste attive (Ǧamā‘a aI-Islāmiyya e Abū Sayyāf) Libia turca GIAPPONE
Gruppi islamisti e mafe del deserto Confitto Armenia-Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh Libia russa
3 - NOVOROSSIJA 2.0 Questa è la Nuova Russia (Novorossija),
BIELORUSSIA per usare la terminologia della Russia zarista;
Kharkiv, Luhans’k, Donec’k, Kherson,
Mykolajiv e Odessa allora non facevano parte dell'Ucraina.
POLONIA VOLINIA Questi territori furono dati all'Ucraina
RIVNE negli anni Venti dal governo sovietico. Come mai? Dio sa!
Černihiv (Vladimir Putin, 2021)
LEOPOLI Rivne ŽYTOMIR ČERNIHIV
SUMY
L’viv (Leopoli) Kiev
SLOV. U C R A I N A Annessioni russe:
Ternopil’
Užgorod TERNOPIL’ KIEV POLTAVA

C
2014
TRAN IVANO- Kharkiv

KHMEL’NY ’KYJ
SCA Vinnycja 2022
UNGH. RPA FRANKIVSK
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Dnipro
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KIROVOHRAD
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ROMANIA DNIPROPETROVS’K

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I
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Zaporižžja
Kryvyj Rih D
ODESSA MYKOLAJIV J A DONEC’K

DOV
TRANSNISTRIA I
SS

A
Mykolajiv R O
(Protettorato russo de facto NOV O ZAPORIŽŽJA
interno alla Moldova) Odessa
KHERSON
BUDŽAK Kherson
(Regione storica ucraina florussa. Repubblica popolare di Luhans’k
Repubblica popolare di Bessarabia mancata) Repubblica popolare di Donec’k
MM aa rr
GAGAUZIA dd ’’ AA zz oo vv
(Regione autonoma moldava florussa)
Delta del CRIMEA
Danubio (Annessa
alla
Fed. Russa)
Sebastopoli FEDERAZIONE RUSSA

BULGARIA M a r N e r o
M a r N e r o
Progetto di una nuova centrale
4 - FORTEZZA TRANSNISTRIA
idroelettrica che ridurrebbe
drasticamente il fusso di acqua Possibili infltrazioni dall’Ucraina
di gruppi ultranazionalisti TRANSNISTRIA
Fium Distretti della
Rozkopyntsi e U C R A I N A
O B L A S T’ DI Transnistria:

D
nes
tr Camenca
ČERN I VCI
Rîbniţa
F Dubăsari
iu

B Grigoriopol
me

Slobozia
Pru

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Rîbnița Kolbasna
Bender
t

S (stoccaggio
S di munizioni) Tiraspol e hinterland
MOLDOVA
A

Dubăsari
R

Ungheni (centrale idroelettrica) O B LA ST’ D I O D E S S A


Nuovo gasdotto
A

dalla Romania Iași Chișinău


alla Moldova
B

Gura Bâcului
Bender Tiraspol (capitale)
I

Dnestrovsc
A

(centrale
termoelet.)
Odessa
O B LA ST’ D I O D ES S A

K IA Possibile
Transinistria ŽA AB ponte aereo
D R ) russo
BU SA ICA tra Tiraspol
E S R e la Crimea
Parti della Transnistria (B STO
governate da Chișinău Giurgiulești
Porto mercantile Isola
Parti della Bessarabia (Moldova) dei Serpenti
governate da Tiraspol
D anubio

Mar Nero
d el

R O M A N I A
ta

l
De
Base aerea Nato
Bucarest Mihail Kogălniceanu
(aeroporto di Costanza)

Costanza
Da
nubio
Ponti di collegamento
sul Fiume Dnestr
Lungo il confne tra
B U L G A R I A Moldova e Transnistria
ci sono dogane mobili
BIELORUSSIA Basi russe
Druž Klincy 1-2-3
POLONIA ba (o Orël Dispositivi navali
l eodotto
) Rečica Zyabrovk Fascia minata attorno
Klimovo
VOLINIA Bovharka FEDERAZIONE RUSSA alla linea di contatto
Przewodów Blocco navale russo
(15/11/22) località Volodymyr RIVNE ČERNIHIV (Mar Nero)
polacca dove è caduto il Pastoyalye Dvory
missile terra-aria “ucraino” Černihiv
Luc’k Rivne SUMY Voronež Oblast’ del Donbas
ŽYTOMYR Černobyl’ Desna
L’viv (Leopoli) )
dotto Žytomyr
Javoriv ž b a (o leo Sumy Belgorod
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Esplosioni e bombardamenti

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Kropyvnyc’kyj

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Ucraina del Sud DNIPROPETROVS'K

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F. P
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Kryvyj Rih Luhans’k

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Battaglia d’attrito per Bakhmut Kamensk-Shakhtynsky
TRANSNISTRIA Zaporižžja

ut
e Soledar DONEC'K
MYKOLAJIV Donec’k
ODESSA

DOV
Incidente di elicottero a Brovary Kuzminsky

A
del 18/01/2023, in cui hanno Tiraspol Mykolajiv Kadamovsky
perso la vita il ministro dell’Interno Kherson Zaporižžja ZAPORIŽŽJA
Odessa
Denys Monastyrs’kyj, il suo vice Melitopol’ Centrali nucleari operative
Evgenij Enin e il segretario di Stato iv N. Kakhovka Mariupol’
č ak
all’Interno Jurij Lubkovič O KHERSON Berdjans’k Centrale nucleare dismessa
Bombardamento di un condominio Territorio controllato dalla Russia
di Dnipro del 14/01/2023 che ha Ma r
d’ A zo v Obiettivi strategici della campagna
causato 44 morti civili Delta del Isola Novoozerne 1 e 2 CRIMEA militare russa
Danubio dei Serpenti
Riconquista ucraina Opuk Territori russi e florussi
Fiolent
Possibile penetrazione Krug Cdaa Rep. Popolare di Luhans’k
di Russia e Bielorussia Sebastopoli
verso Kiev Rep. Popolare di Donec’k
M a r N e r o Crimea
5 - IL FRONTE UCRAINO Transnistria (regione moldava florussa)
Fonti: Liveuamap e autori di Limes aggiornata al 30 gennaio 2023 ore 13
6 - CORIANDOLI DI RUSSIA

6 bis - IDEE UCRAINE PER IL DOPO-RUSSIA


7 - NEL TEATRO INDO-PACIFICO Possibili micce
belliche


1 Isole Paracel contese tra Cina, Taiwan RUSSIA ★ ★
★ Normalizzazione
e Vietnam cinese di Hong Kong
2 Isole Spratly contese tra Cina, Filippine, COREA GIAPPONE Taiwan
Brunei, Malaysia, Taiwan e Vietnam DEL NORD si allontana
MONGOLIA (potenza
3 Bhutan COREA in ascesa) dalla Cina
DEL SUD OCEANO
I 10 dell’Asean PACIFICO Stretti
Alleati (inafdabili) della Cina Malacca

Sec
ir Mar

m Sonda

ond

★ ★

sh Cinese

a
Paesi del Quad Ka Lombok

c
Orientale
a
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tena
Isole Senkaku Balabac
PAKISTAN Mindoro
di isol
e

NE
PA TAIWAN Luzon
L 3 Taiwan
Mar
delle Filippine Tsushima
IN DIA HONG KONG
MYANMAR Hainan Guam
Mare ★
LAOS FILIPPINE
★ perno Usa
★ ★ 1
Arabico ★

Golfo
del Bengala Mar Cinese
THAILANDIA VIETNAM Meridionale
CAMBOGIA
2


★ ★

BRUNEI
USA M A L A Y S I A
SINGAPORE
OCEANO INDIANO
Rotta principale Cina-Europa I N D O N E S I A


Direttrici strategiche cinesi ★ ★

per il dominio dell’Indo-Pacifco:
oltre la seconda catena di isole
e oltre Malacca AUSTRALIA
8 - UNA STRATEGIA ITALIANA PER METÀ SECOLO Medioceano
(Mar Mediterraneo
FEDERAZIONE RUSSA più Mar Rosso)
Berlino Aree di stabilizzazione
e moderata
infuenza italiana
GERM. UCRAINA
Parigi
Rotta balcanica
FRANCIA vo
aje

M
r

ar
Sa
Mar Nero

C
Washington

asp
Roma

io
(asse da aggiornare) ITALIA Kabul
TURCHIA
AFGHANISTAN
SIRIA
TUNISIA
Tensione MAROCCO
permanente
Marocco- Algeria
ALGERIA EGITTO QATAR
LIBIA E.A.U.
Riyad
AREA DI RESPONSABILITÀ
DEL TRIANGOLO STRATEGICO ARABIA SAUDITA

NIGER CIAD SUDAN


MALI Agadez Triangolo strategico
di tensione saheliana Berlino
Fascia Parigi
Bamako
Faglia di “Caoslandia” Gibuti
Unione Europea Roma
GUINEA Perni di co-stabilizzazione
Conakry nordafricana Potenze esterne
Paesi in guerra ETIOPIA infuenti in Nord Africa
Paesi extraeuropei
coinvolti nella gestione
Paesi fortemente instabili del Mediterraneo Arco di confitto
LA GUERRA CONTINUA

2 - PROGETTO RUSSO DI SPARTIZIONE


DELL’UCRAINA (2008)

6 16
7
17
11
10
Kiev
2 24
8 18
5
12 25
3 9
1 19
4 13
23

15 22
14
20

Russia 21
Unione Russa
annesse dalla Russia
Ucraina il 27 settembre 2022
annessa dalla Russia
il 21 marzo 2014
Province disputate
Regioni ucraine
1 Transcarpazia 8 Khmel’nyc’kyi 15 Mykolajiv 21 Crimea
2 Leopoli 9 Vinnycja 16 Cernihiv 22 Zaporižžja
3 Ivano-Frankivs’k 10 Žytomyr 17 Sumy 23 Donec’k
4 Černivci 11 Kiev 18 Poltava 24 Kharkiv
5 Ternopil’ 12 Cerkasy 19 Dnipropetrovs’k 25 Luhans’k
6 Volinia 13 Kirovohrad 20 Kherson
7 Rivne 14 Odessa

Impero: superpotenza rossa d’impronta eurasiatica, derivata ma distin-


ta dalle quattro matrici storiche di Kiev/Novgorod, Moscovia, impero dei
Romanov e Unione Sovietica. Aperta a radicalismi eterodossi, perché la
sua vena rossa deturpa la matrice russa dell’impero. Laboratorio dell’im-
presa è l’Izborskij Club, fondato nel 2012 da Prokhanov, circolo di intel-
lettuali o aspiranti tali disperatamente impegnati a distillare la specifca
ideologia di Stato necessaria alla Federazione Russa per darsi un’iden-
tità e perseguire più alti traguardi. L’Izborskij Club, frequentato anche 17
COME UN LADRO NELLA NOTTE

da Vladimir Medinskij, ex ministro della Cultura e primo negoziatore


russo con Kiev nel marzo 2022, è sempre stato in prima linea nell’avven-
tura neorussa. Nel doppio senso ideale e strategico.
Se Prokhanov ricama con aghi grossi la trama ideologica, Dugin
lavora all’arazzo geopolitico. Il celebre (in Occidente) ispiratore dell’eu-
rasismo – l’altro nome del Mondo Russo – non si perde in distinguo po-
liticheggianti. Va al sodo. Per lui l’annessione della Crimea è lo squillo
di tromba che chiama a raccolta i fautori della Grande Russia. Intesa
reintegrazione delle terre russe (sobiranie russkikh zemel’), riferimento
alla ricostruzione dell’impero dopo l’invasione mongola.
La Nuova Russia quale premessa della rinascita imperiale muove
anche la corrente bianca. Qui la luce viene dalla tradizione ortodossa e
dalla resistenza zarista al colpo di Stato bolscevico, che per cinque anni
rese la vita impossibile ai seguaci di Lenin e Trockij. «Ortodossia, auto-
crazia, nazionalità»: il motto di Nicola I, sul trono dal 1825 al 1855,
distingue questa variante neorussa, che attinge a simboli cosacchi. Nes-
sun dubbio: l’Ucraina è perfda invenzione leniniana – tesi riproposta
dall’ultimo Putin per legittimare l’aggressione del 24 febbraio.
I bianchi sono caso di scuola dell’ossessione russa per la storia pa-
tria, da cui estrarre una nuova idea di Russia. Naturalmente imperiale,
come certifca la bandiera della Nuova Russia adottata il 13 agosto
2014: tricolore bianco-giallo-nero, vessillo dei Romanov fra 1858 e 1883.
Molto del sempre più esplicito orrore di Putin per il bolscevismo dissipa-
tore dell’impero è assimilato dalle tesi bianche. Declinate da personalità
così diverse come il metropolita Tikhon, presunto confessore del presi-
dente (probabile il contrario); Natalija Naro0nickaja, distinta pubblici-
sta ultraconservatrice che si aggira nei saloni parigini dell’Istituto per la
democrazia e la cooperazione, da lei diretto nel palazzo di Rue de Va-
renne 63 bis, caro a Surkov; il «magnate ortodosso» Konstantin Malofeev,
fnanziatore delle milizie irredentiste attive nell’Ucraina orientale.
La vena bruna del neorussismo è ideologica più che territoriale. Nel-
la discutibile approssimazione corrente, che estrapola fascismo e nazi-
smo dai rispettivi contesti per trarne un’etichetta politico-ideologica buo-
na per ogni latitudine, è appunto certifcata neofascista o neonazista.
«Primavera russa», secondo i suoi promotori. Per Nuova Russia s’intende
non tanto un territorio quanto il rinnovamento spirituale della patria in
senso anti-occidentale, anticapitalistico e antiliberale. Con tonalità an-
ti-Putin. Trattato da molle pragmatico che vuole tenere insieme l’inteni-
18 bile, dagli ultranazionalisti ai neoliberisti globalizzanti. Uomo di potere
LA GUERRA CONTINUA

senza princìpi. Fino a ieri manipolato dalla «sesta colonna» occidentali-


sta di Surkov, che nel 2014 lo avrebbe convinto a non attaccare l’Ucrai-
na. Diffusi gli echi antisemiti, che in questi anni hanno attratto centi-
naia di combattenti stranieri, tra cui una manciata di italiani affliati
a Casa Pound e a Forza Nuova. I guerrieri nostrani si sono equamente
divisi fra milizie «neonaziste» ucraine e «neofasciste» russe.
Le milizie neorusse deluse otto anni fa dal mancato appoggio del
Cremlino all’insurrezione contro Kiev hanno rialzato la testa dopo
l’invasione del 24 febbraio. La Nuova Russia, qualsiasi spazio vi s’in-
tenda, torna una proiezione possibile. E se anche Mosca perdesse la
guerra, o addirittura sé stessa, Novorossija resterà rappresentazione
geopolitica disponibile al riuso in contesti anche lontani nel tempo.
Un’occhiata alla letteratura sulla «scienza della Nuova Russia» (Novo-
rossievedenie) e alla ristampa di storie e leggende neorusse conferma
la persistenza di tanto magnetico simulacro, adattabile a punti di vista
ideologicamente opposti. Mito pratico da integrare in una nuova/anti-
ca Idea Russa. Collante di una nazione imperiale che si è messa in
gioco nella guerra in corso. Parole vuote? Nient’affatto. È proprio l’ispi-
razione metafsica, aperta a fungibili declinazioni linguistico-simboli-
che, a imprimere il marchio della potenza alla rappresentazione neo-
russa. Tale vigore potrebbe svelarsi autodistruttivo. È il dramma di ogni
cultura estrema – la russa più di altre – che fa del sacrifcio collettivo
un mortifero ideale di vita.

4. Un giorno questa guerra sarà sospesa. Non fnita. Scontro di civil-


tà fra Occidente e Russia; confitto di emancipazione di una nazione in
sviluppo da un impero in decadenza ma indisponibile ad abdicare al
suo status; sanguinosa partita fra mafe e oligarchie russe e ucraine in
un contesto regionale instabile: basta evocare le principali dimensioni
della guerra in Ucraina, con radici che affondano al 1914 se non molto
più indietro, per escludere la pace dall’orizzonte vicino (carta 3). Gli
amanti delle classifcazioni vorranno includerla nella categoria delle
guerre carsiche, che appaiono in superfcie e poi scompaiono allo sguar-
do ma sottoterra continuano a seguire il proprio corso. Fiumi a scom-
parsa. Dal Kashmir alle Coree, da Cipro ai Balcani, diversi gli esempi.
Nessuno paragonabile al potenziale distruttivo del carsismo russo-ucrai-
no. Per chi alla scienza archivistica antepone l’analitica amatoriale,
proponiamo considerazioni alternative su quale potrà essere il punto di
sospensione del confitto (carta a colori 5). 19
20
3 - LE DIVISIONI STORICHE DELL’UCRAINA

Dn
e
BIELORUSSIA

pr
FED. RUSSA
POLONIA
VOLINIA
COME UN LADRO NELLA NOTTE

Kiev
Kharkiv
Leopoli PODOLIA Dn
epr
DONBAS
SLOV. GALIZIA U C R A I N A
Užhorod Dnipropetrovs’k

UNGH.
Donec’k
MOLDOVA
ROMANIA
pr
e
Dn

Territori sotto il controllo polacco-lituano


dal XIV secolo al 1772
Espansione massima del controllo M a r
polacco-lituano nel XVI secolo Odessa d ’A z o v
Regione sotto il controllo austro-ungarico
nel 1914
Territorio sotto la dominazione ottomana
nel XVII secolo poi conquistato dai cosacchi CRIMEA
Crimea ceduta dall’Urss alla Repubblica
Socialista Sovietica Ucraina nel 1954 Sebastopoli
Limite orientale della frontiera polacca
fra la prima e la seconda guerra mondiale Ma r N ero
Fonte: Le Figaro
LA GUERRA CONTINUA

Sgombriamo il campo dai


pur pensabili esiti apocalittici: f-
ne dell’Ucraina, della Russia, o
di entrambe. In ordine di (im)
probabilità, vista l’asimmetria di
risorse che favorisce i russi ed è
fnora compensata dai massici
aiuti militari, fnanziari e propa-
gandistici che America e associa-
ti stanno offrendo a Kiev. Da non
considerare affatto costanti. Ca-
pita che un paese sostenga una
causa altrui, ma non la prende-
rà mai sul serio come la propria.
Vladimir Putin inaugura una statua Comunque non per sempre. La
dello zar Alessandro III in Crimea (2017) Russia non ha questo problema.
Putin cita Alessandro III: «Abbia-
mo solo due alleati: il nostro esercito e la nostra fotta» (foto). Restiamo
quindi nel campo della sospensione, che si produrrà quando entrambe
le parti la vorranno o dovranno considerare meno inaccettabile dello
scontro senza fne.
La sospensione non ripristinerà lo status quo ante. Anzitutto perché
Mosca e Kiev divergono su quale sia: precedente all’annessione russa
della Crimea, come insistono, in sintonia con la maggioranza degli Sta-
ti, Zelens’kyj e la diplomazia americana, oppure all’invasione del 24
febbraio, tesi cara a Kissinger, altri «realisti» occidentali e fazioni dello
Stato profondo a stelle e strisce incardinate nel Pentagono. Poi perché la
tregua deriverà dalla convinzione di entrambi che dissanguarsi in tan-
te mini-Verdun non abbia senso una volta stabilito che nessuno potrà
prevalere totalmente. La linea di provvisoria partizione, lungo la quale
allineare osservatori internazionali (professione che si annuncia ricca
di futuro per i giovani in cerca di occupazione), non riprodurrà nessu-
na delle due versioni.
Il tracciato violerà i confni internazionalmente riconosciuti. A fa-
vore della Russia e di eventuali staterelli affliati. Paradosso vuole che
quei confni siano stati inventati dai sovietici, per mutevoli volontà di
Lenin, Stalin e Khruš0ëv. L’Ucraina indipendente ha ereditato lo spazio
dipendente creato e adattato more sovietico, formalizzato Stato sovrano
per referendum nel 1991. Lo Stato ha preceduto la nazione. Il mosaico 21
COME UN LADRO NELLA NOTTE

etnoculturale incorniciato negli ex confni amministrativi della Repub-


blica Socialista Sovietica Ucraina è stato dalla nascita teatro di scontri
di potere fra oligarchi e potentati regionali irriducibilmente opposti, con-
centrati soprattutto ma non solo nel Donbas. Il motto dell’Ucraina bol-
scevica era: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Quello informale della
nuova Ucraina in via di emancipazione da Mosca è e sarà: «Ucraini di
tutto il paese, unitevi!».
Il contributo di Putin alla causa nazionale ucraina verrà un giorno
riconosciuto. Nel frattempo, si tratta di stabilire entro quali frontiere si
potrà riunire una popolazione ucraina suffcientemente coesa che nella
resistenza contro l’invasore moscovita e le sue quinte colonne domesti-
che avrà guadagnato i galloni della nazione davvero indipendente e
sovrana. Ammessa nell’impero europeo dell’America. La disputa sull’in-
gresso dell’Ucraina nella Nato è superata perché la Nato è entrata in
Ucraina. Per restarci. Se così non fosse, la sospensione delle ostilità sa-
rebbe impossibile o di brevissima durata, giacché i russi subito ripunte-
rebbero su Kiev, spina rimasta in gola a Putin.
La linea del cessate-il-fuoco non riprodurrà nemmeno i sogni dei
neorussi. Senza Odessa non si dà Nuova Russia. Ma se Putin prendesse
Odessa rischieremmo la terza guerra mondiale. Gli Stati Uniti non po-
trebbero accettare tale umiliazione. Il sempre meno limitato sostegno a
Kiev muterebbe in illimitato o quasi.
Oggi un quinto del territorio ucraino è in mano ai russi. Se nei pros-
simi mesi fosse molto di più o molto di meno, signifcherebbe un passo
verso la guerra totale. Sigillata poi da pace cartaginese, con Kiev cospar-
sa di sale russo o Mosca distrutta da atomiche americane. Ergo: la tre-
gua congelerà una linea del fronte non troppo diversa dall’attuale. La
diplomazia non può sovvertire la sentenza delle armi. Al massimo, ad-
dolcirla per stabilizzarla.
In questo scenario l’Ucraina perderà parte del territorio ereditato
dall’Urss. Poiché di tregua e non di pace stiamo trattando, ciò esclude la
rinuncia per trattato ai confni del 1991, che equivarrebbe ad ammis-
sione di sconftta. In questa guerra di religione nessun leader ucraino
può permettersi di sottoscrivere la rinuncia alla Crimea e al Donbas,
tantomeno il suo omologo russo, che sia Putin o un suo fantomatico
successore liberaldemocratico. Per sostanziare la tregua ed evolvere ver-
so il congelamento del confitto in stile cipriota o coreano – punto di
convergenza fra idealismo e realismo – serve cambio di accento: dalla
22 terra a chi l’abita. Il fattore umano determina alla lunga la vitalità (via-
LA GUERRA CONTINUA

bility in gergo diplomatico) di uno Stato. Quel che l’Ucraina perderebbe


in spazio guadagnerebbe in rientro di profughi e sfollati, dunque in
stabilità e coesione nazionale, condizioni della ricostruzione su serie
fondamenta istituzionali. Premessa della liberazione dalla corruzione
endemica e dall’arbitrio degli oligarchi, senza scivolare verso il consoli-
damento delle prassi autoritarie cui è oggi obbligata dalla guerra. E pe-
gno della integrazione euroccidentale.
Se questa fosse la tregua, a quale scenario postbellico preluderebbe?
L’analista britannico Samir Puri prevede che ne scaturirebbe l’equiva-
lente ucraino delle due Germanie. Certo, «la divisione è prospettiva orri-
bile per l’Ucraina». Ma la cessione della Crimea e del Donbas «preclude-
rebbe al resto dell’Ucraina centrale e occidentale l’ingresso nell’Unione
Europea? Città come Leopoli, Ivano-Frankivs’k e Kiev potranno diventa-
re fulcri cosmopoliti attrattori di fondi europei per la ricostruzione, men-
tre Donec’k, Luhans’k e Mariupol’ resteranno in seno alla Russia?» 15.
Dominic Lieven, aristocratico britannico originario di una famiglia di
principi balto-germanici, storico dell’impero russo e delle vicende ucrai-
ne, è diretto: «Il mio scenario ideale – naturalmente non si avvererà – è
che l’Ucraina riconquisti ogni pollice del suo territorio nei confni del
1991, promuova plebisciti in Crimea e almeno nel Donbas orientale e se,
come probabilmente accadrebbe, al voto vincessero i russi, si liberasse di
quella gente (…) e di quelle terre». In chiaro: «Se gli ucraini dovessero in
qualche modo riprendere la Crimea, questa sarebbe semplicemente una
fonte infnita di pericolo e di confitto. È chiaramente contro l’interesse
dell’Ucraina riconquistare la Crimea. (…) Nel tuo territorio tu vuoi cit-
tadini per quanto possibile fedeli al tuo Stato. L’ultima cosa che vuoi è
una minoranza costantemente insoddisfatta, con un vicino alla lunga
inevitabilmente più potente alla tua frontiera orientale, eccitato dalla
loro presenza. (…) Il Donbas orientale è la più grande rust belt d’Euro-
pa, nella quale si combatte da un sacco di anni. Non penso proprio che
l’Ucraina guadagni molto dal recuperare territori di tal genere. Oggi
nell’Ucraina orientale la maggior parte della popolazione è probabil-
mente pro russa, altrimenti se ne sarebbe andata» 16.
Lo stesso argomento potrebbe valere per i russi. Se il Donbas è un
mucchio di ruggine, perché Mosca dovrebbe accollarselo? Fatto è che
l’aritmetica russa non è l’alfabeto di noi economicisti euroccidentali.

15. S. PURI, Russia’s Road to War with Ukraine, London 2022, Biteback, p. 251.
16. V. TAVBERIDZE, «Dominic Lieven: “It’s Against Ukraine’s Interest to Take Back Crimea”»,
RadioFreeEurope-RadioLiberty, 11/12/2022. 23
COME UN LADRO NELLA NOTTE

Quando la guerra cala il suo sipario di ferro sulle steppe sarmatiche, a


nutrire lo spirito russo restano vodka e mistica. Constata Trenin: «C’è un
sommovimento nella nostra comunità culturale. Sono i primi passi
dell’allontanamento dalla cultura dell’intrattenimento, del consumo,
verso la cultura del servizio e della comprensione di cosa sia la vita, il
destino dell’uomo. Stiamo tornando alla tradizione di casa nostra, che
presta molta più attenzione all’intangibile» 17.
Di sicuro la tregua non è alle viste. Non in Russia, dove Putin spera
di poter sfondare il fronte per imporre all’Occidente le condizioni di un
cessate-il-fuoco che ne sancisca la rinnovata egemonia sui «fratelli»
ucraini. Meno ancora in Polonia e fra i popoli dell’avanguardia anti-
russa estesa tra Scandinavia e Mar Nero. È la falange ultrà. Ben rappre-
sentata nel Forum delle libere nazioni della post-Russia, votato alla «de-
colonizzazione» della Federazione putiniana (vedi l’appendice di Agne-
se Rossi e le relative carte a colori 6 e 6 bis, capolavoro di espressionistico
action mapping). Parola dell’ex ministro degli Esteri polacco, Anna
Fotyga: «Dissolvere la Federazione Russa è molto meno pericoloso che
abbandonarla ai criminali». Tali sono non solo Putin e la sua banda di
«terroristi», ma i regimi russi d’ogni tempo e colore. Quindi, primo scon-
fggere la Russia, poi scomporla in «Stati liberi e indipendenti» 18. E poi?

5. L’incubo del Pentagono è dover combattere su due fronti contro


altrettante potenze nucleari. Poco più che scenario di scuola prima del
24 febbraio, probabilità concreta oggi. A inizio anno il generale a quat-
tro stelle Mike Minihan, capo dell’Air Mobility Command e già viceco-
mandante Usa nell’Indo-Pacifco, ha inviato ai suoi uffciali un memo-
randum in cui annuncia lo scontro con la Cina entro due anni: «Spero
di sbagliarmi. Ma sento che combatteremo nel 2025» 19. Prima dell’inva-
sione russa dell’Ucraina a Washington si indicava la fne del decennio
come «fnestra di (in)opportunità» per il duello con la Cina rossa. Il tem-
po stringe. Ed è proprio il tempo a orientare coloro che, su entrambi i
fronti, considerano inevitabile, fnanco augurabile risolvere la partita
con le armi. Due visioni apocalittiche. Per i falchi americani, in cresci-
ta, tra pochi anni il Numero Due sarà in grado di sfdare e battere gli

17. E. UMERENKOV, «The crisis of half a century is coming to an end – Why Russia clashed
with the West and how it will all end», Komsomolskaya Pravda, 4/1/2023.
18. A. FOTYGA, «The dissolution of the Russian Federation is less dangerous than leaving it
ruled by criminals», Euractiv, 27/1/2023.
19. C. KUBE, M. GAINS, «Air Force general predicts war with China in 2025, tells offcers to
24 prep by fring “a clip” to a target, and “aim for the head”», Nbc News, 28/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

Stati Uniti, sicché va colpito e affondato al più presto. Secondo gli omo-
loghi cinesi, oggi minoritari, occorre profttare della «tempesta» america-
na per colpire Washington prima che si riprenda. Ma proprio mentre
l’Indo-Pacifco si riscalda, cinesi e americani hanno discretamente rico-
minciato a discutere ascoltandosi, dopo anni di insulti e propaganda
(carta a colori 7). Motivo: se l’America attraversa una profonda crisi
d’identità, la Cina è alle prese con una revisione tattica radicale.
Tre anni di Covid-19 mal gestito, di approccio arrogante al resto del
mondo, insieme a crisi delle nuove vie della seta, sofferenze nel mercato
immobiliare e fnanziario, fuga di imprenditori e tensioni domestiche –
da Hong Kong a Taiwan alla lotta fra i gerarchi del Partito – hanno
azzoppato l’economia e demoralizzato la popolazione. L’anno scorso il
pil è cresciuto appena del 3%, ben sotto il livello di guardia. Siccome il
regime sta o cade per il consenso garantito dal benessere o per il suo de-
grado, Xi Jinping è intervenuto secco. Dopo il Congresso di ottobre le
città hanno riaperto alla vita normale, le fabbriche alla produzione
standard. E sono scattate le purghe in ambito politico e diplomatico. I
«lupi guerrieri», specialisti nel distribuire sprezzanti pagelle a europei,
americani e asiatici con il risultato di slabbrare il già tenue tessuto del
soft power sinico, sono stati rimessi in riga. Qualcuno in punizione. Da
novembre Pechino ha ristabilito un canale confdenziale di comunica-
zione con Washington. All’insegna del pragmatismo. Obiettivo: calmare
il gioco e dividere gli avversari. Con qualche ritardo, Xi Jinping sembra
aver aderito alla massima universale per cui i nemici vanno separati
non uniti. Vale per europei e americani, ma anche per i partner asiatici
di Washington, giapponesi e sudcoreani su tutti. Di qui a immaginare il
leader cinese impegnato a spegnere l’incendio in Ucraina molto ne cor-
re, ma il sostegno alla Russia sarà limitato allo stretto necessario. Per
evitarne il collasso.
Xi ha studiato la lezione ucraina e ne ha tratto quattro conclusioni.
Primo: non fdarsi di Putin, che non lo ha correttamente informato
sull’invasione e si è cacciato in una trappola da cui la Russia uscirà al
meglio ridotta in prestigio e potenza, al peggio liquidata. Secondo: gli
Stati Uniti dispongono di un sistema di alleanze a vasto raggio, dotato
di risorse militari, economiche e immateriali in grado di dissuadere chi
osasse sfdarli. Terzo: nel clima di sfrenate sanzioni e deglobalizzazione
incipiente, investimenti stranieri e accesso ai mercati esteri restano vet-
tori essenziali del rilancio economico, ovvero della stabilità domestica.
Quarto: l’invasione di Taiwan è impossibile, oggi, domani e forse sem- 25
COME UN LADRO NELLA NOTTE

pre. Xi sta riannodando i fli con i suoi referenti a Taipei, a cominciare


dal Kuomintang, nella speranza che alle elezioni presidenziali del 2024
si affermi un candidato moderato, non indipendentista.
La Cina non può permettersi di abbandonare la Russia al suo desti-
no. È l’unica potenza su cui puntare per evitare l’accerchiamento, che
la sconftta di Putin e l’eventuale avvento di un regime flo-americano o
comunque anticinese a Mosca renderebbero micidiale. Urge riaggancia-
re i partner economici asiatici per impedire che si offrano chiavi in ma-
no agli Stati Uniti. E insieme rilanciare i commerci con gli europei, tede-
schi in testa. È anche il momento di accelerare la penetrazione in Asia
centrale, a cominciare dal Kazakistan. Lo spazio postsovietico non ac-
cetta di subordinarsi a Mosca. Se poi la Federazione Russa implodesse,
gigantesche steppe si aprirebbero alla Cina anche in Siberia – la memo-
ria delle amputazioni territoriali subite dai Qing resta viva. Infne, lo
strumento militare va ammodernato in velocità giacché tutti riarmano,
nella regione e oltre.
Nei prossimi mesi potremo forse capire se la revisione tattica di Xi
evolverà in strategica. Se dunque la conquista di una sfera d’infuenza
asiatica e il recupero di Taiwan continueranno a orientare la Cina ver-
so lo scontro fnale con gli Stati Uniti, cui subentrare come potenza glo-
bale entro la metà del secolo, o se invece la barra virerà verso qualche
forma di compromesso se non di condominio geopolitico (il mitico G2
caro a Kissinger e associati). La virata dovrebbe passare per l’allenta-
mento o il rovesciamento del sistema di alleanze americane in Asia.
Dunque per il compromesso o l’intesa con India, Giappone e Corea del
Sud. Grado di improbabilità: altissimo. Specie per quanto riguarda gli
arcinemici nipponico e indiano (carta 4).
Durante l’incontro con Giorgia Meloni a Roma, il 10 gennaio, il
primo ministro giapponese Kishida Fumio, informato della disponibilità
italiana a considerare l’invio all’Ucraina del sistema di difesa aerea
Samp-T, gioiello della nostra tecnologia militare condiviso con i soli
francesi, ha lasciato cadere: «Ma quando i cinesi spareranno dalla Ser-
bia contro l’Italia i missili appena installati, voi come vi difenderete?».
Battuta che svela la preoccupazione di T§ky§. Se europei e americani si
concentrano sulla guerra in Ucraina, sguarniscono il fronte asiatico a
vantaggio della Cina. La nuova Strategia di sicurezza nazionale nippo-
nica adotta toni inediti nel prospettare l’imminenza di una guerra in
Asia. Più in concreto, il Giappone sta per raddoppiare le spese per la di-
26 fesa: dall’1 al 2% in cinque anni. Dopo Stati Uniti e Cina, salirebbe sul
LA GUERRA CONTINUA

4 - VULNERABILITÀ INDIANE Confni terrestri dell’India: 15.106,7 km


Coste (isole incluse): 7.516,6 km
Lunghezza in km USH
dei confni con: U K
I ND Passo Karakorum
Bangladesh 4.096 H
Cina 3.488 AFGHANISTAN K
A
Pakistan 3.323 H RA C I N A
KO
Nepal 1.751 I RU T i b e t
Myanmar 1.643 M M
PAKISTAN A
Bhutan 699 Ludhiana L
Afghanistan 106 A
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Surat Kolkata

Oceano Indiano MYANMAR


Mumbai Pune

Hyderabad
Vishakhapatnam
Monsoni Vijayawada
Golfo
Inverno (nord-est) Bangalore del Bengala
Is. Andamane
Estate (sud-ovest) Coimbatore (India)
Laccadive
Zona di convergenza Cochin Confni dell’India
intertropicale Confni disputati
Confne aperto in base al
Luoghi più piovosi al mondo MALDIVE SRI LANKA Trattato di pace del 1950
(11.462 mm all’anno in media) Territori contesi
Fonte: ministero dell’Interno indiano

podio dei tre paesi più militarizzati del pianeta. Nel menu delle commes-
se missili ipersonici, batterie terra-aria e droni.
Washington schiera in Giappone il suo massimo contingente milita-
re all’estero. A ridosso di quello disposto a difesa della Corea del Sud,
imperniato su un quartier generale congiunto che potrebbe allargarsi ai
nipponici, malgrado la diffdenza fra i due principali soci asiatici
dell’impero a stelle e strisce. Americani e giapponesi stanno inoltre rio-
rientando lo schieramento armato verso sud-ovest, centrandolo sulle iso-
le prossime a Taiwan per proteggere l’arcipelago della «provincia ribelle»
dalla minaccia cinese. Punta avanzata Yonaguni – appena 111 chilo-
metri da Taiwan – coperta da Ishigaki e Miyako, con Okinawa perno del 27
COME UN LADRO NELLA NOTTE

fronte meridionale. Le intese con Filippine e Australia confermano che il


Giappone ha decretato «chiusa la stagione del delfno, aperta quella del-
lo squalo», ci assicura un alto uffciale della Marina. Conscio che il suo
paese, più degli stessi Stati Uniti, rischia di combattere contemporanea-
mente contro Cina e Russia – con Mosca lo stato di guerra è congelato
ma vigente dal 1945. Il sottotesto del programma di sviluppo delle Forze
armate (nominalmente di autodifesa) è che T§ky§ non si fda dell’om-
brello americano e si dispone a difendersi da sola.
A scompigliare le carte potrebbe intervenire l’ennesima crisi fra le due
Coree, annunciata dal ripetuto lancio di missili nordcoreani verso le ac-
que prossime alle aree di sovranità di Seoul e T§ky§. L’illusione che la
Corea del Nord rinunci all’arsenale nucleare, cioè si arrenda, è parago-
nabile al dogma per cui Giappone e Corea del Sud non ne produrranno
mai uno proprio. T§ky§ potrebbe allestirlo in pochi mesi, disponendo del
materiale e delle tecnologie necessarie. E costringerebbe Seoul a seguirla.
Gli intrecci transoceanici fra Stati Uniti e alleati asiatici determina-
no la «globalizzazione» di fatto dell’Alleanza Atlantica (il diritto non
seguirà perché fra gente pratica non serve). Sicché il segretario generale
della Nato Jens Stoltenberg è volato a Seoul per implorare il ministro
della Difesa Lee Yong-sup di inviare armi e soprattutto munizioni all’U-
craina, argomentando che la vittoria della Russia spingerebbe la Cina a
seguirne l’esempio. Risposta: no grazie, servono a noi. Per ora.

6. A differenza della geofsica, la geopolitica non dispone di una


teoria dei cicli sismici che consenta di azzardare ipotesi su durata ed
estensione dei terremoti. Ma i lampi di guerra che illuminano di luce
sinistra la collisione delle faglie geopolitiche consentono di coglierne al-
cune tendenze.
La principale è la progressiva unifcazione dei campi di battaglia.
Per i geologi staremmo avvicinando lo stadio cosismico dei terremoti. La
transizione dalla Guerra Grande alla terza guerra mondiale avanza
nella notevole incoscienza o impotenza delle potenze che potrebbero
scongiurarla. Tanto da sospettare che ai vertici di Stati Uniti, Cina e
Russia qualcuno creda che lo scontro fuori tutto sia inevitabile perché se
il suo impero non l’accettasse perderebbe sé stesso. Quando si è convinti
che la guerra sia inaggirabile ci si deve illudere di uscirne trionfatori. E
allestire corrispondenti propagande. Tutto è bianco o nero.
La seconda deriva direttamente dalla prima. Chi è disposto a morire
28 per la patria? Quando studiamo il fattore umano, questa è la domanda
LA GUERRA CONTINUA

chiave. In attesa di produrre una cartografa della (in)disponibilità a bat-


tersi delle principali collettività – indizio dirimente per stabilire chi ha
maggiore o minore probabilità di vincere – una grossolana valutazione
produce cinque risposte, fra loro concatenate: a) per età mediana, benes-
sere diffuso, abitudine alla pace e restringimento dei ceti da cui nelle
guerre novecentesche provenivano i combattenti – contadini e operai –
noi europei occidentali siamo indiziati come meno disponibili al duello;
b) russi e americani, il cui pedigree bellico insieme alla diffusione delle
armi e dell’abitudine a fruirne spicca sugli altri, paiono in vantaggio sui
cinesi, non celebri per spirito guerriero e troppo recentemente giunti ai
piaceri dell’agio per abdicarvi d’un colpo; c) dalla fne della pace nota
come guerra fredda in Ordolandia si sono combattute solo due guerre
vere, entrambe nelle Bloodlands compresse fra gli imperi americano e rus-
so, di dominante ceppo slavo, dove erano infuriati i più aspri combatti-
menti delle due guerre mondiali; d) scocca l’ora dei mercenari e delle
guerre per procura: non volendo/potendo combattere, armiamo chi lo può
e vuole; e) la somma algebrica dei fattori precedenti informa che l’asim-
metria antropologico-culturale fra i soggetti in competizione azzoppa
l’«Occidente collettivo» e lo espone al rischio di eterodirezione da parte
delle compagnie di ventura e delle comunità chiamate a sacrifcarsi in
suo nome. A cominciare dall’ucraina, refrattaria a porre il suo destino
nelle mani dell’amico americano tanto quanto a rinunciare al suo soste-
gno. Sdoppiamento non sappiamo quanto sostenibile.
La terza è che indietro non si torna. Lo status quo ante è irrecupera-
bile. Faremmo bene a mettercelo in testa noi italiani, che con altri euro-
pei fatichiamo a convivere con l’idea che la seconda belle époque è
trascorsa e mai più ritornerà. Legittimo sperare e d’obbligo operare per-
ché non fnisca come con la prima, bruscamente scivolata dalla pace
incantata alla «inutile strage». I russi sanno che i glamurnye nulevye, i
magici primi anni Duemila, sono per l’album dei ricordi. Gli ucraini
versano lacrime e sangue, sorretti dalla forza della disperazione o spin-
ti in diaspora perché non sperano più e non sanno se e quando avranno
ancora diritto a farlo. La nostra incapacità di sintonizzarci con la real-
tà, umanamente comprensibile, ci espone alla prospettiva di cedere di
schianto, come Stato e come nazione, se solo sforati dalla guerra calda.
La quarta e strategica riguarda la crisi di credibilità del presunto
«ombrello americano» che proteggerebbe gli atlantici europei. Serve un
atto di fede per credere gli Stati Uniti disposti a rischiare l’olocausto ato-
mico per difendere ovunque i soci atlantici. Esiste una gerarchia impli- 29
COME UN LADRO NELLA NOTTE

cita nella visione americana dell’Europa. Washington potrebbe ingag-


giare lo scambio nucleare se Mosca distruggesse Londra o anche Parigi.
Ma se il bersaglio fosse tedesco o italiano? Non parliamo dei paesi «mino-
ri», baltici in testa. Quanto all’Ucraina, il punto interrogativo è enorme.
A Kiev sanno, per averlo sperimentato, che le garanzie occidentali han-
no limiti. Risultato: tutti si armano. Chi non ha l’atomica e potrebbe
permettersela, rifette a voce alta sulla necessità di dotarsene. Germania
in testa. I tempi accelerati della guerra cozzano però con le velleità tede-
sche, non diciamo italiane, di dotarsi di eserciti e armi spendibili in
guerra vera. Tacciamo della deterrenza nucleare, non concesso che val-
gano ancora le eleganti equazioni del bipolarismo sovietico-americano.
Deprime ma non sorprende il modo in cui noi italiani affrontiamo l’e-
mergenza. Nei media prevale una comunicazione impressionistica che ri-
duce la guerra a sequenza di orrori. Cronaca nerissima, senza prospettiva
storica né sguardo al futuro. Il defcit strutturale di statualità che comporta
l’inibizione del pensare strategico; l’abitudine condivisa da tre generazioni
a considerare la pace un diritto umano impermeabile alle tempeste in avvi-
cinamento; il fondo ecumenico della nostra società, indisposta ad ammet-
tere l’esistenza di nemici e sorpresa se altri ci considerano tali: tutto cospira
all’inazione o alle manovre borboniche.
In attesa di accedere alla pratica buddhista che trasforma il veleno in
medicina – ancora la maledetta mancanza di tempo – l’Italia potrebbe ri-
scoprire l’arte della diplomazia, in cui eccellevamo. Non siamo in grado di
scrivere l’agenda della tregua. Ma contribuire a un fronte di paesi non solo
europei, con sguardo profondo verso Mediterraneo e Africa, capace di mas-
sa critica dunque di infuenza su americani, russi e cinesi, questo non do-
vrebbe parerci impossibile. Da tempo tracciamo nella mappa della possibile
evoluzione strategica nazionale (carta a colori 8) un quadrilatero che lega
Roma a Berlino, Parigi, Madrid. Siamo diversi, d’accordo, ma meno di altri
atlantici. Partecipiamo della civiltà euroccidentale, chi per nascita chi per
tarda adesione, ma non pretendiamo di averne l’esclusiva. Negli ultimi an-
ni abbiamo tessuto e quasi completato – manca il segmento italo-tedesco,
chiuso in un cassetto dal quale converrebbe estrarlo – una tela di trattati e
accordi bilaterali, pur meno ambiziosi del modello stabilito nel 1963 all’E-
liseo da de Gaulle e Adenauer. È troppo immaginare che l’Italia inviti il
quartetto a costituire un forum permanente per la pace (leggi: tregua) aper-
to a tutti e destinato a suggerire le condizioni minime di una lunga sospen-
sione della guerra? Non sarebbe la soluzione. Ma segno dei tempi sì. Certi
segni arrivano quando meno li aspetti. Come un ladro nella notte.
30
SPEZZATINI DI RUSSIA IN SALSA UCRAINA
POLACCA E AMERICANA
a cura di Agnese ROSSI

Il Forum delle libere nazioni della post-Russia, cornice di dialogo che raccoglie le
istanze indipendentiste di minoranze etniche e realtà regionali russe (e dei loro
simpatizzanti euroatlantici – americani, polacchi e baltici), il 31 gennaio si è riunito
al Parlamento europeo per il suo quinto incontro. Il gruppo ha presentato il proprio
progetto di «decolonizzazione e ricostruzione» della Federazione Russa a Bruxelles,
sponsorizzato dalla componente polacca del Partito dei conservatori e riformisti
europei. Anna Fotyga, eurodeputata e già ministro degli Esteri polacco (Pis, partito
Diritto e giustizia) coinvolta nei lavori del Forum Ɠn dai suoi albori, ne ha ribadito la
missione fondativa: «Come nel caso del Terzo Reich tedesco, la Federazione Russa,
in quanto minaccia esistenziale per l’umanità e l’ordine internazionale, dovrebbe
subire drastici cambiamenti. È ingenuo pensare che la Russia, dopo essere stata
deƓnitivamente sconƓtta, rimarrà all’interno della stessa cornice costituzionale e
territoriale. La comunità internazionale non può assumere una posizione comoda
e deƓlata in attesa degli sviluppi, ma deve intraprendere una (…) rifederalizzazione
dello Stato russo, tenendo conto della storia del suo imperialismo e nel rispetto
dei diritti e dei desideri delle nazioni che lo compongono» 1. Tra i relatori dell’ulti-
mo Forum Ɠgura anche l’analista statunitense di origini polacche Janusz Bugajski,
già consigliere per il dipartimento di Stato e della Difesa cui non per nulla è stato
assegnato l’epiteto di «nuovo Brzezinski». Il suo ultimo libro Failed State. A guide
to Russia’s Rupture è Ɠnito nel mirino della stampa russa 2, additato come breviario
dei piani americani per lo smembramento della Federazione via promozione dei
separatismi etnici.
Dalla sua inaugurazione (lo scorso 8 maggio a Varsavia) a oggi, il Forum è cresciuto
in termini di notorietà e adesioni. La prima mappa prodotta dal gruppo (pubblicata
nel numero 9/22 di Limes) prospettava un’implosione della Russia da cui sarebbero
originati oltre una trentina di Stati diversi, delimitati secondo disparati criteri etnici
e culturali. Ne riproduciamo qui un aggiornamento (carta a colori 6): la variazione
più importante consiste nel ridimensionamento della regione di Mosca a favore
di nuovi progetti etnico-nazionali. Ad esempio, alcuni esponenti delle regioni di
Pskov e Tver’ (antichi principati non rappresentati nella versione precedente) in-
sieme alla regione di Smolensk/Smalandia hanno annunciato la nascita della «Piat-
taforma della Kryvia orientale», raggruppamento nato allo scopo di «integrare i
popoli del Grande Baltico» e inclinante «verso la variante est-europea del percorso
euroatlantico, che implica la conservazione dell’identità e dei fondamenti culturali

1. A. Fotyga, «The dissolution of the Russian Federation is far less dangerous than leaving it ruled by crimi-
nals», Euractiv, 27/1/2023.
2. V. Nikiforova, «V SŠA obnarodovan plan razrušenija Rossii» («Negli Stati Uniti reso pubblico il piano di
distruzione della Russia»), Ria Novosti, 16/9/2022; V. Kornilov, «Time to drop our illusions, the West is wa-
ging a war to destroy Russia», RT, 20/9/2022.
e demografici dei paesi e dei popoli» 3. Nella nuova versione della carta guada-
gnano poi spazio e conƓni speciƓci anche le repubbliche caucasiche di Inguscezia,
Ossezia e Cabardino-Balcaria. A detta dei loro stessi autori, questa mappa-matrice
è aperta a varianti potenzialmente inƓnite. Purché al servizio di un unico obiettivo:
immaginare «strategie per uno smantellamento controllato, costruttivo e non vio-
lento dell’ultimo impero coloniale in Europa» 4.
I separatisti russi e i loro portavoce euroatlantici non sono gli unici a prodursi in
simili esercizi cartograƓci. Su una parete dell’ufƓcio del capo dell’intelligence mili-
tare ucraina Kyrylo Budanov, fotografata da alcuni giornalisti durante un’intervista,
campeggia la carta a colori 6 bis. Tracciate a pennarello, le linee di partizione della
Russia immaginata da Kiev contestano e sostituiscono gli attuali conƓni federali: il
Giappone (Япония) ottiene le contese isole Curili, la Germania (ФРГ) Kaliningrad
(Königsberg), la Finlandia (Ф) la Carelia e una porzione del Nord-Ovest russo. Alla
Cina (Китай, cui corrisponde la lettera К) vanno tutta la Siberia e l’Estremo Orien-
te. Nella parte centrale dell’attuale Federazione dovrebbe poi prendere forma una
«Repubblica centrasiatica», marchiata con la sigla ЦАР (Car). Alla Russia vera e pro-
pria, decapitata della sua testa orientale, resta il territorio segnato dalle lettere РФ
(RF). In corrispondenza del Caucaso si legge «Ičkerija», nome della repubblica se-
paratista cecena proclamata nel 1991 nonché territorio che il parlamento ucraino
ha di recente riconosciuto come «temporaneamente occupato» dai russi 5, ciò che
il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj aveva già fatto per le isole Curili 6. So-
prattutto, nei conƓni ucraini sono ricompresi non solo Donbas e Crimea ma anche
le regioni di Kursk, Belgorod e Kuban’. È stato chiesto a Budanov se la carta rappre-
sentasse i piani di espansione territoriale di Kiev una volta riconquistati i conƓni del
1991. La risposta è stata sibillina: «Ognuno vede ciò che vuole vedere. Forse è solo
un indicatore di massima. O forse no» 7.
Se la prima mappa fraziona il corpo della Federazione lungo le sue linee etniche
e secondo il criterio «autoctono» dei diritti storici, la seconda ricorda i progetti di
partizione dell’Eurasia in sfere d’inŴuenza elaborati da una certa corrente strategi-
ca degli apparati americani 8. Statunitensi, polacchi, ucraini e separatisti etnici im-
maginano geometrie di disgregazione diverse, funzionali alle rispettive proiezioni
geopolitiche. Ciò che più conta rilevare, al netto della plausibilità degli scenari
prospettati, è però proprio la crescente diffusione e risonanza di simili cartograƓe,
segno del recupero della dimensione spaziale nella grammatica delle potenze.
A sancire l’obsolescenza della tesi della Ɠne della storia sta forse anche il ritorno
della geograƓa.

3. Vostočno-Krivskaja Platforma, 16/1/2023, bit.ly/3DmRKDO


4. Dal canale Telegram del Forum, t.me/freenationsrussia
5. «Ukraine’s parliament declares “Chechen Republic of Ichkeria” Russian-occupied territory», Meduza,
18/10/2022.
6. «Ukraine declares Kuril Islands Russian-occupied Japanese territory», Meduza, 7/10/2022.
7. «Interv’ju – Kyrylo Budanov: Naši podrazdelenija zajdut v Krym s oružiem v rukakh» («Intervista a Kyrylo
Budanov: Le nostre unità entreranno in Crimea armi in pugno»), liga.net, 26/12/2022.
8. Si veda ad esempio Z. Brzezinski, «A Geostrategy for Eurasia», Foreign Affairs, vol. 76, n. 5, 1997.
LA GUERRA CONTINUA

Parte I
il SENSO STRATEGICO
della GUERRA UCRAINA
LA GUERRA CONTINUA

UN NUOVO TIPO
DI GUERRA MONDIALE di Fëdor LUK’JANOV

La retorica non scongiura lo scontro totale. Nelle battaglie di


logoramento l’Ucraina esaurirà per prima le forze. La Russia è alla
ricerca della sua autodeterminazione nazionale e si gioca tutto.
L’America ha solo da guadagnare. Si sta aprendo una nuova èra.

1. L A CAMPAGNA MILITARE RUSSA


in Ucraina prosegue ormai da un anno: come spesso accade, le operazioni milita-
ri non sono andate come erano state pianifcate. Lo shock provato nel febbraio
2022 dalla maggior parte dei politici, dei diplomatici, degli analisti sarebbe stato
ancora maggiore se si fossero potute prevedere fn da subito la natura e la durata
di questo confitto. Nel corso dell’ultimo anno è successo ciò che accade sempre:
eventi che un tempo sembravano impensabili sono diventati routine, se non la
norma. Molti dei russi contrari alla guerra hanno lasciato il paese (si parla di cen-
tinaia di migliaia di persone). Chi è rimasto è favorevole alle scelte di Mosca,
conserva una propria indifferenza o riconosce l’entità dei problemi ma ritiene di
dover rimanere assieme al proprio paese anche in questi tempi duri.
Oggi è evidente che l’Ucraina ha preso le distanze dal passato. Si è chiusa un’e-
poca, che non tornerà a prescindere dagli esiti di questo confitto. Non si trattava
solo del post-guerra fredda, anche se ci si riferisce soprattutto agli ultimi trent’anni.
Si trattava di un’èra in cui una guerra tra grandi paesi non era considerata come so-
luzione possibile delle dispute geopolitiche. Più propriamente, si trattava di tutto il
periodo che è seguito al secondo confitto mondiale e che ha assunto prima la forma
della guerra fredda e poi quella del cosiddetto ordine internazionale liberale. Ciò che
questi periodi avevano in comune erano il dominio delle superpotenze (all’inizio
due, poi una) sulla geopolitica mondiale e l’esistenza di un sistema di istituzioni che
escludeva ogni misurazione diretta, frontale dei rapporti di forza.
Della deterrenza di un tempo è rimasta una sola cosa, forse la più importante:
le armi nucleari. Si è preservata la consapevolezza che un confitto tra le maggiori
potenze, tutte dotate della Bomba, conduce molto probabilmente a una guerra
atomica. Questo meccanismo di deterrenza è ancora valido. Senza armi nucleari,
Russia e Nato non intratterrebbero più una guerra ibrida, ma una vera e propria su 35
UN NUOVO TIPO DI GUERRA MONDIALE

larga scala. Tuttavia, in primo luogo, la paura che incute la guerra atomica è chia-
ramente molto minore oggi rispetto a quaranta-cinquanta anni fa. All’epoca si
trattava di un’eventualità da scongiurare in qualsiasi circostanza; ora su queste
circostanze si comincia a rifettere, anche se fnora solo nelle fantasie più cruente
e irresponsabili. In secondo luogo, l’esempio della campagna ucraina dimostra che
il grado di scontro indiretto, anche se apertamente dichiarato, può farsi molto ele-
vato. Si allontana a parole l’eventualità di impiegare mezzi estremi, dando l’impres-
sione che la questione sia esclusa. Non v’è però certezza che non si tratti solo di
un’illusione. Lo spettro della guerra mondiale si profla spiacevole nella retorica di
tutte le parti in gioco.

2. La seconda metà del Novecento ci ha abituati all’idea che la guerra mondia-


le sia impossibile. Le armi nucleari, che incutono timore perché prospettano la di-
struzione del pianeta, hanno disincentivato agli occhi delle potenze che le deten-
gono l’abitudine di chiarire i rapporti di forza attraverso lo scontro militare. Se i
confronti avvengono indirettamente, attraverso terzi, allora non ci sono limiti se
non quelli delle risorse disponibili. Ma in maniera diretta, la questione è esclusa. In
questo senso, l’atomo «non pacifco» era disciplinante. Tuttavia, aveva come con-
troindicazione la desensibilizzazione: nel momento in cui si è convinti che non
scoppierà più una guerra mondiale, si apre un ampio e infnito spazio di manovra
per scaramucce locali più o meno intense. Queste schermaglie hanno il fne di
testare i lati più deboli del concorrente e tramite cui lo si può «smuovere» accumu-
lando punti extra in un duello infnito che non prevede una vittoria per ko (la
vittoria nella guerra fredda, in fn dei conti, è giunta in maniera inaspettata: uno
degli avversari ha semplicemente abbandonato il ring). In questo senso, la guerra
fredda non era meno «ibrida» di quella che vediamo svolgersi oggi sulla scena in-
ternazionale, malgrado a nessuno sia venuto in mente di chiamarla così.
Anche la guerra mondiale, tuttavia, è diventata «mondiale» non nel momento in
cui veniva combattuta, ma dopo, calata in una prospettiva storica. Le mobilitazioni
di massa dell’estate e dell’autunno 1914 non inviavano gli europei sui fronti di una
«guerra mondiale». Inoltre, ottimisticamente, si prevedeva che il confitto sarebbe
durato appena fno a Natale, quando tutti avrebbero fatto ritorno a casa. L’inerzia
della percezione data dalle frequenti guerre ottocentesche e novecentesche, a volte
brutali ma limitate – guerre che andavano a «correggere» gli equilibri di potere –
impedì di credere nella possibilità che scoppiasse uno scontro distruttivo totale.
Tale consapevolezza arrivò gradualmente, con il moltiplicarsi delle perdite, con la
portata sempre maggiore dei combattimenti e delle loro conseguenze.
All’inizio del secolo scorso i politici europei si cullavano nella convinzione che
all’interno del sistema di relazioni stabilito (quel «concerto europeo» esito del Con-
gresso di Vienna, pur a inizio Novecento già fortemente incrinato) sarebbe sempre
stato possibile evitare l’irreparabile, a prescindere da quanto sarebbe costato. Oggi
un ruolo simile è svolto dalla funzione deterrente delle armi nucleari, che esclude
36 una guerra mondiale. Ma cosa signifca?
LA GUERRA CONTINUA

3. Il papa ha defnito il confitto in Ucraina una guerra mondiale che non fnirà
presto, dato che vi si trovano già coinvolte molte «mani» e molti interessi. Il ponte-
fce probabilmente ha ragione. La campagna militare in corso ha tutte le caratteri-
stiche di un’autentica sfda tra grandi potenze. La disponibilità di armi nucleari le
conferisce un carattere speciale, ma questo non rende la lotta meno feroce o fatale.
La forma stessa dello scontro è particolare. Gli Stati Uniti (in quanto leader di un
generico Occidente) sono coinvolti indirettamente ma molto attivamente, mante-
nendo in vita il proprio agente belligerante, l’Ucraina. La Russia conduce le opera-
zioni militari da sé, scontrandosi direttamente con l’agente dell’America sul campo
di battaglia. La Cina rimane in disparte, cercando un equilibrio, ma considera l’esi-
to del confitto un fattore molto importante per il proprio futuro. Nonostante la sua
categorica riluttanza a intervenire, Pechino ritiene che un ipotetico successo degli
Stati Uniti in questo confitto sia svantaggioso per la Cina e si impegnerà perché
non si realizzi.
Tutti e tre i giocatori si stanno giocando il rango nella gerarchia internaziona-
le in vista della prossima fase. Dei tre, la Russia è quella che rischia di più rispet-
to agli altri, perché è direttamente coinvolta e ha effettivamente avviato questa
forma di confitto, senza valutarne correttamente lo sviluppo. Gli Stati Uniti hanno
meno da perdere e più da guadagnare, anche in senso strettamente economico.
L’Europa, altro attore coinvolto in questo confitto, si trova in una posizione par-
ticolare. Non sta lottando per un proprio ruolo futuro, ma per il mantenimento
(impossibile) del precedente modus vivendi. In tutto l’Occidente si ripete lo slo-
gan dell’inammissibilità della revisione dell’attuale «ordine internazionale basato
sulle regole». Tuttavia, per l’America si tratta di difendere il proprio dominio, il
quale, in linea di principio, può venire garantito anche in altri modi. Per l’Europa,
invece, la fne del sistema precedente signifca la scomparsa di una forma di esi-
stenza politica che le aveva garantito un discreto successo a partire dal secondo
Novecento.
Anche ammettendo che il confitto termini come auspica l’Occidente, la por-
tata dei cambiamenti politici, economici e psicologico-culturali nel continente
europeo esclude il ritorno all’età dell’oro dell’integrazione. I principali paesi euro-
pei, uno dopo l’altro, si stanno accorgendo della necessità di potenziare le proprie
capacità come singoli. Non è ancora chiaro fno a che punto queste capacità sa-
ranno congiuntamente europee, così come resta aperta la questione del futuro
dell’Ue. In un certo senso, per l’Europa è ora preferibile che il confitto continui.
La forza maggiore provoca dispute interne e maggiori costi economici, ma funge
anche da collante. Tanto più che le principali linee d’azione sono stabilite da Wa-
shington e l’Ue può permettersi di non scervellarsi sulla propria strategia, per il
momento.
Tutto ciò (non entriamo nel merito del comportamento di altri attori di primo
piano, tra cui l’India, la Turchia, le petromonarchie del Golfo, l’Iran e molti altri
paesi che contano sui dividendi del confitto) conferma il messaggio di papa Fran-
cesco: la portata degli interessi in gioco è quella di una guerra mondiale, che può 37
UN NUOVO TIPO DI GUERRA MONDIALE

continuare nel tempo e persino ampliarsi, anche via armi nucleari. Certamente
queste ultime limitano il quadro, che resta però abbastanza ampio da lasciare spa-
zio a una lunga e feroce battaglia di logoramento.
Cosa signifca tutto questo per la Russia, che ha deliberatamente deciso di
lanciarsi in uno scontro serrato nel febbraio 2022?

4. Dietro a una guerra mondiale, qualsiasi forma essa assuma, si cela un pro-
blema di gerarchia internazionale. I confitti più specifci che si svolgono al suo
interno si inseriscono in un quadro generale. Tuttavia, se uno degli attori attribui-
sce un signifcato storico o addirittura esistenziale a uno di questi singoli confitti,
lo scontro assume una sfumatura particolare, non sempre razionale. Tale è la que-
stione ucraina per la Russia. L’attuale operazione militare speciale include almeno
tre singole campagne, ciascuna con una propria logica e propri retroscena. Per
certi versi si completano a vicenda, per altri si contraddicono. Il fatto che fn dall’i-
nizio dell’operazione era evidente quanto gli obiettivi fossero confusi e i piani
poco chiari è legato proprio a questo.
La motivazione che ha scatenato le azioni militari è stato il mancato rispetto
delle garanzie di sicurezza a lungo termine richieste dalla Russia nel dicembre
2021. Mosca ha raccolto tutte le proprie critiche rispetto all’ordine politico-militare
europeo sorto dopo la guerra fredda e le ha esposte in forma di ultimatum. L’ulti-
matum non è stato accettato e dunque sono state varate delle «misure tecnico-mi-
litari». Tutto questo si inserisce nella logica della guerra mondiale.
La seconda componente della crisi è dovuta al problema della costruzione
statale/nazionale all’interno di uno spazio di civiltà comune che negli ultimi decen-
ni ha subìto degli sconvolgimenti. La questione è legata a circostanze storiche e
culturali, le quali sono notoriamente soggettive e non si prestano a freddi calcoli.
Un fenomeno tanto fragile come il sentimento nazionale e le reazioni sociali che
esso suscita non costituiscono il miglior presupposto per un gioco geopolitico ra-
zionale. Questi primo e secondo livello del confitto sono stati saldamente legati tra
loro sei mesi prima dell’inizio della campagna in un articolo di Vladimir Putin inti-
tolato «Sull’unità storica di russi e ucraini».
La terza questione è di politica interna. In che misura il desiderio di cambiare
radicalmente la natura dello sviluppo della Russia abbia motivato la scelta, lo si
può solo tirare a indovinare. Vladimir Putin torna regolarmente sul tema dell’inde-
bolimento della sovranità tecnologica e della crescente dipendenza dall’estero co-
me risultato del periodo post-sovietico. La leadership russa è convinta che la vec-
chia globalizzazione sia fnita e che stia arrivando un’epoca di autosuffcienza. Di
conseguenza, i legami del passato devono essere tagliati. E non si tratta solo di
troncare rapporti, ma soprattutto di un riorientamento interno, anche per quanto
riguarda le strutture di base e il tessuto sociale.
Una terapia d’urto ha drasticamente fatto voltare la Russia verso il mondo. Ce
38 ne vorrà un’altra per spingerla a invertire la marcia. Alla luce del primo anno di
LA GUERRA CONTINUA

combattimenti, quali sono le possibilità di successo della Russia nelle diverse di-
mensioni del confitto?

5. Se andiamo a ritroso, l’operazione militare speciale ha confermato la vigen-


za di criticità fondamentali nella struttura del paese e la necessità di un suo ammo-
dernamento qualitativo. La modernizzazione dei decenni scorsi è stata «presa in
prestito», cioè è avvenuta in gran parte su basi mutuate dall’estero. I nostri difetti
sarebbero emersi in ogni caso. Dalla qualità del lavoro di alcune istituzioni chiave,
delle pratiche amministrative e dei meccanismi decisionali, fno all’obsolescenza
delle visioni strategiche e alla contraddizione di voler mantenere una linea ideolo-
gica esclusiva, pur dipendendo profondamente dal mondo esterno. Ora questo
insieme di difetti è sotto la luce dei rifettori. È diffcile dire quanto sia possibile far
fronte a tutte queste criticità mentre dall’esterno giungono scosse dagli impatti for-
temente negativi. Quantomeno però i punti deboli sono visibili e si può iniziare ad
affrontarli. Naturalmente, nel momento in cui si impronta un nuovo modello di
sviluppo, quello precedente irrimediabilmente scompare.
Quella ucraina è un’altra questione. Sono tempi bui per l’«unità storica tra rus-
si e ucraini», giacché nella pratica non v’è alcuna unità, semmai una separazione
forzata. Nel corso del 2022 l’essenza del confronto si è ridotta a tal punto che si
cerca solo di individuare lo spartiacque tra le due nazioni. Il concetto in parte vago
di «Mondo Russo», che prevedeva vari modi per raggiungere l’autodeterminazione
(compresa la «denazifcazione» o, in termini americani, il «cambio di regime») ha
perso il suo contenuto nel corso di scontri sanguinosi e operazioni militari su larga
scala. In un certo senso, le cose si sono semplifcate, i mezzitoni sono scomparsi.
Per quanto riguarda le relazioni tra russi e ucraini, l’«ibridità» post-sovietica ha
lasciato il posto alla semplice dicotomia tra gli uni e gli altri. I tragici eventi di que-
sti mesi hanno profondamente acuito la questione dell’autocoscienza nazionale e
delle basi su cui essa si costruisce. Il mezzo ora è chiaro: la forza. E ciò vale per
entrambe le parti in confitto. L’autodeterminazione dell’Ucraina rispetta un copio-
ne classico: le guerre generano le nazioni. Tuttavia, anche la Russia si sta autode-
terminando, defnendo letteralmente dove passano i propri confni, quelli geogra-
fci e quelli mentali. Il territorio ucraino, dove non è mai esistita una linea di demar-
cazione netta tra russi e non russi, è un campo di battaglia naturale e inevitabile.
Da entrambe le parti riecheggiano riferimenti alla «Grande guerra patriottica»
(la seconda guerra mondiale), ma sono asimmetrici. L’Ucraina defnisce sé stessa
attraverso il confronto con la Russia. Quest’ultima parte dal presupposto che non
sta combattendo l’Ucraina in quanto tale – gli atteggiamenti verso il paese vicino
variano molto e spesso in maniera paradossale. Ma piuttosto lotta contro un «Occi-
dente collettivo» che sta dietro a Kiev. Contro questo nemico conduce una «guerra
patriottica» per la propria sopravvivenza nazionale. E, allo stesso tempo, per il
proprio ruolo nella gerarchia mondiale.
È qui che arriviamo al terzo livello. Se valutiamo gli eventi in prospettiva emer-
gono dubbi fondamentali. È vero che retrocedere nella gerarchia mondiale deter- 39
UN NUOVO TIPO DI GUERRA MONDIALE

mina un rischio per la nostra sopravvivenza nazionale? La posizione uffciale è che


sia così, ma sta venendo contestata. La campagna militare russa in Ucraina sta
conducendoci verso un altro «piano»? Un «piano» superiore o inferiore?

6. Si ipotizzava che la Russia, opponendosi risolutamente all’espansione incon-


trollata della Nato e al monopolio dell’Occidente sulla defnizione dell’ordine mon-
diale, si sarebbe assicurata quasi automaticamente un posto nella Premier League
geopolitica. Questo sarebbe stato probabilmente il caso se si fosse concretizzato lo
scenario iniziale: un’operazione rapida ed effcace volta a ridefnire l’Ucraina. Ciò
non è avvenuto e la Russia si è ritrovata invischiata in una prolungata guerra di
logoramento trascinatasi fno a oggi. Il successo è possibile, anche se molto meno
spettacolare del previsto: l’avversario esaurirà per primo le proprie forze e dovrà
nuovamente riconoscere Mosca come interlocutrice. Gli stessi eventi possono però
venire interpretati anche al contrario, cosa che l’Occidente è già intenzionato a
fare: secondo questo punto di vista, la Russia si è allontanata dalla sua posizione
di potenza mondiale, rimanendo impantanata in questioni regionali e perdendo la
capacità di posizionarsi su scala globale. Le turbolenze nello spazio post-sovietico
– scenario di cui è ben chiaro che Mosca non ha tempo di occuparsi, vista la que-
stione ucraina in corso – mostrano quanto sia diminuita la capacità della Russia di
ordinare la parte di mondo a essa più vicina. Pertanto, il confronto con l’Ucraina è
il vero ago della bilancia per la Federazione.
Mosca ha puntato tutto sul collasso della precedente confgurazione mondiale.
La scommessa sembra logica: la crisi dell’intero ordine mondiale è iniziata circa
quindici anni fa e da allora si è notevolmente aggravata. Le questioni ora sono due:
quanto veloce sarà questo processo e quale sarà la relativa funzione della Russia.
Per quanto riguarda la tempistica, il dubbio è se il nostro paese avrà abbastanza
risorse per aspettare il momento in cui uno scossone generale porterà alla modifca
dell’intera agenda internazionale. Quanto invece alla funzione che svolgerà la Rus-
sia, la faccenda è più complessa. I presupposti per la rottura del vecchio ordine
mondiale si erano accumulati da tempo, ma è stata Mosca ad assumersi il ruolo di
ariete. A tal riguardo, non si può dimenticare il destino che è toccato all’Urss: una
volta avviati epocali cambiamenti nei rapporti di forza internazionali, ha fnito per
esserne l’unica vittima.
Il mondo ormai è entrato in un’èra che si annuncia durissima. Dato che tutti gli
attori internazionali puntano a minimizzarne i costi, ognuno cercherà di trasferire
questi costi sugli altri. Le vulnerabilità dovute a fattori interni ed esterni si intrecciano
pericolosamente. La solidità dei sistemi statali è messa alla prova su tutti i fronti. E
determinerà il successo in questi tempi torbidi. La capacità di resistere a forti pres-
sioni e di garantire, contro ogni previsione, uno sviluppo al passo con i tempi costi-
tuisce il fattore decisivo.
Nel triplice confitto in cui la Russia è impegnata – con l’ordine mondiale, con
l’Ucraina e con sé stessa (per il cambiamento) – la terza dimensione è fondamen-
40 tale. È direttamente connessa alla prima: la Russia ha un interesse oggettivo ad
LA GUERRA CONTINUA

accelerare lo smantellamento del vecchio ordine mondiale, ma più a lungo si con-


servano le fondamenta di quest’ordine, più risolutamente questo stesso ordine at-
taccherà coloro che desiderano cambiarlo. La parte più problematica è la seconda.
Non è un caso che i più grossolani errori di calcoli siano stati commessi proprio
nella preparazione della campagna militare.

7. Un secolo fa, nel 1923, il mondo mise la parola fne a un periodo di terribi-
li sconvolgimenti. A Losanna venne frmato un trattato che fssò gli ultimi esiti
della Grande guerra del 1914-18. In Russia la resa del generale Pepeljaev in Estre-
mo Oriente pose fne alle ultime battaglie della guerra civile. Ci fu una pausa di un
decennio e mezzo, che si rivelò preparatoria al secondo round della sfda mondia-
le. Ora è l’opposto: la pausa è terminata. Tuttavia la guerra mondiale, che questa
volta non si presenterà come un unico scontro generale ma come una serie di
scontri distinti, sta prendendo il via. Non sarà questione di un anno o di un bien-
nio: il riassetto si preannuncia di lunga durata e su larga scala.
È nel corso dell’anno appena iniziato, il 2023, che le prospettive del nostro
paese verranno in gran parte determinate. Le dinamiche su tutti e tre i fronti sopra
descritti si chiariranno. Così come le probabilità di vittoria, per come la possiamo
intendere.

(traduzione di Martina Napolitano)

41
LA GUERRA CONTINUA

‘L’America accelera
in Ucraina per non fare
la Guerra Grande’
Conversazione con Jeffrey MANKOFF, ricercatore al Center for Strategic Research
della National Defense University, a cura di Federico PETRONI

LIMES Gli Stati Uniti sono in vantaggio nella competizione strategica con Cina e
Russia?
MANKOFF Per il momento, gli Stati Uniti sono in buona posizione. La guerra in
Ucraina è un fasco strategico per la Russia. Mosca ha perso 180 mila soldati, mi-
gliaia di carri armati e di altri sistemi sofsticati, la sua economia è colpita da san-
zioni che alla lunga incideranno sulla capacità di rigenerare le risorse belliche:
uscirà dal confitto drammaticamente indebolita. Manterrà l’arma nucleare e mezzi
per minacciare i vicini, ma quella minaccia sarà assai ridotta rispetto al preguerra.
Anche la Cina si è indebolita nel corso degli ultimi anni. Il consolidamento del
potere di Xi Jinping è avvenuto a spese del sistema di autoritarismo collettivo co-
struito dai suoi predecessori; così è più facile commettere errori, come la politica
«zero Covid», che ha depresso la crescita e alimentato frustrazioni sociali. Ancora
prima, la Repubblica Popolare stava già entrando nella trappola delle potenze a
medio reddito, il diffcile passaggio dallo sviluppo alla diffusione delle opportunità
e delle capacità tecnologiche. Di fatto, per Pechino è fnita l’èra degli obiettivi faci-
li. Sono anche diminuiti gli investimenti infrastrutturali usati per incoraggiare o
costringere altri paesi a seguire la volontà cinese. Il timore che Pechino usi risorse
fnanziarie per modifcare importanti pilastri del sistema internazionale è oggi me-
no pressante. Tutto questo ha peggiorato l’equilibrio complessivo per la Repubbli-
ca Popolare.
LIMES La Cina in diffcoltà potrebbe essere più pericolosa?
MANKOFF Esatto. Il divario tra Cina e Stati Uniti in questi anni era calato, ma credo
si stia tornando ad allargare. Per questo la dirigenza cinese potrebbe essere spinta
a fare qualcosa per compensare la perdita di iniziativa. Continua a investire pesan- 43
‘L’AMERICA ACCELERA IN UCRAINA PER NON FARE LA GUERRA GRANDE’

temente nelle Forze armate, in particolare nella Marina, con il proposito di ripren-
dere Taiwan. A Washington c’è preoccupazione per questa prospettiva. Se si guar-
da all’equilibrio militare non è più chiaro se gli Stati Uniti, Taiwan e gli alleati siano
in grado di sconfggere un’offensiva cinese.
LIMES Qual è l’obiettivo degli Stati Uniti in questa competizione, se esiste?
MANKOFF Sul fronte indo-pacifco, dissuadere i cinesi dall’attaccare Taiwan nel bre-
ve periodo e nel medio-lungo ridurre gli investimenti militari necessari a Forze
armate in grado di costruire una sfera d’infuenza. Sul fronte europeo, far fallire
l’invasione russa e indebolire Mosca come avversario strategico, rendendola meno
capace di porre minacce ai vicini. Se dovessi trovare il minimo comun denomina-
tore, gli Stati Uniti vogliono impedire a russi e cinesi di avere i mezzi per costruirsi
sfere d’infuenza. Vogliono il fallimento delle aspirazioni neoimperiali della Russia
di Putin e della Repubblica Popolare Cinese.
LIMES Avete i mezzi per conseguire questi obiettivi?
MANKOFF Chiaramente li abbiamo nei confronti della Russia, che uscirà dalla guer-
ra con minore infuenza sui vicini, con la non irrilevante eccezione della Bielorus-
sia. Il concetto di Mondo Russo (Russkij Mir) ne uscirà compromesso. Con la Cina
è più diffcile da dire. C’è un forte consenso interno negli Stati Uniti sulla necessità
di impedire un attacco a Taiwan e nel caso di respingerlo. Ma se si arrivasse alla
resa dei conti, non so se saremmo in grado di prevalere militarmente. Per esempio,
per i cinesi è molto più facile ottenere il controllo delle acque che li separano
dall’isola che per gli americani negarglielo. Per questo il nostro obiettivo primario
è la dissuasione, spiegando che i costi di un’offensiva sarebbero troppo alti. Se i
cinesi attaccassero, avremmo dunque fallito in partenza. Non vuol dire che avrem-
mo automaticamente perso la guerra, ma che sarebbe molto più diffcile combat-
terla rispetto a quella in Ucraina.
LIMES Nel suo ragionamento sullo stato di salute della Cina pesa molto il fattore
della legittimazione popolare del governo. Anche gli Stati Uniti hanno i loro pro-
blemi di consenso.
MANKOFF Sì, uno dei rischi più grandi che corrono gli Stati Uniti è sul fronte interno
e riguarda la fragilità dell’ordine politico americano. Le forze che hanno scatenato
l’insurrezione culminata nell’assalto al Congresso del 2021 si sono affevolite, non
esaurite. Biden è l’ultimo presidente della generazione della guerra fredda. Ha
un’idea degli Stati Uniti, del loro ruolo nel mondo, del rapporto con l’Europa, del
posto del governo federale nel sistema interno che non è più ampiamente condi-
visa tra la popolazione come un tempo. Quando al potere salirà un altro presiden-
te, di qualunque partito, questa idea sarà molto più contestata.
La domanda più ampia riguarda la legittimazione delle istituzioni americane e del
ruolo nel mondo che l’America ha giocato durante e dopo la guerra fredda. Le ali
estreme di entrambi i partiti, sempre più affollate, hanno fgure infuenti che dico-
no che gli Stati Uniti dovrebbero fare di meno nel pianeta e preoccuparsi di più dei
propri problemi domestici. E la discordia sulla struttura interna della politica ame-
44 ricana rischia di generare tensioni che possono velocemente scatenare il caos. In
LA GUERRA CONTINUA

caso di autentica instabilità, la nostra capacità di fare da garanti del sistema inter-
nazionale sarebbe intaccata.
LIMES Se gli americani contestano l’idea di un’egemonia statunitense sembrano
comunque determinati a difendere il loro primato dai rivali.
MANKOFF Sì ma primato per fare cosa? E con quale obiettivo? Questo è il dibattito.
Non gradisco l’espressione «ordine liberale internazionale» perché non è necessaria-
mente liberale né globale. Ma l’idea è che gli Stati Uniti dal 1945 hanno iniziato a
costruire istituzioni e norme pensate per rafforzare il primato americano e per strut-
turare le relazioni tra le nazioni di modo che rifettessero i nostri interessi e i nostri
valori. Nell’ultima generazione, quindi non solo sotto Trump, ci siamo concentrati
sul mantenimento del primato, assicurandoci di disporre della forza militare più ef-
fcace e che la Cina non si costruisse una sfera economica per sfdarci. Tuttavia, la
fede in quel sistema di norme e istituzioni è andata calando.
Con Biden si è assistito a un ritorno di quella tradizione, di cui il presidente è un
prodotto. Ma è un ritorno al futuro, cioè a un mondo che nel frattempo è cambiato
molto. E con esso è cambiata l’America. Biden è un atlantista di ferro, capisce che
avere dalla propria parte un’Europa prospera è il più importante moltiplicatore di
potenza che si possa sperare. Non so se le giovani generazioni, a prescindere dall’o-
rientamento politico, condividano questa profonda convinzione. Spero che la guerra
d’Ucraina possa cambiare qualcosa, mostrando che la Russia è una minaccia concre-
ta per gli interessi nostri e degli europei e che dunque è importante avere un’Europa
in grado di provvedere alla propria sicurezza. I segnali sono incoraggianti: esiste un
supporto piuttosto trasversale in America per continuare a fornire all’Ucraina armi e
denaro per respingere l’aggressione. Per la prima volta molte persone vedono che
l’Europa e la Nato sono rilevanti per la sicurezza nazionale americana.
LIMES Al tempo stesso, molti in Europa dubitano della credibilità degli Stati Uniti.
La vicenda dei carri armati è un buon esempio: i tedeschi hanno preteso che anche
gli americani ne inviassero perché non ritengono suffcienti le garanzie di protezio-
ne di Washington?
MANKOFF Sì. È innegabile che fno al 24 febbraio ci fossero dubbi sull’impegno
americano verso la Nato. Ricordiamo le parole di Angela Merkel: gli europei devo-
no abituarsi ad assumersi responsabilità perché l’America non sarà sempre lì per
noi. La causa di questa posizione ha molto a che vedere con Trump e il suo atteg-
giamento verso l’Europa. Ma Trump è il sintomo di un distacco più profondo, che
si può ripresentare in futuro con un’amministrazione non così legata alla Nato co-
me quella attuale. Di morte cerebrale dell’Alleanza Atlantica non si parla più. Però
gli anni scorsi hanno lasciato ferite che si saneranno solo col tempo e non è scon-
tato che non vengano riaperte.
LIMES A proposito di carri armati: una decisione simbolica, ma segna un cambio di
passo. La guerra russo-ucraina è sempre più una guerra russo-occidentale?
MANKOFF È sempre stata e continua a essere una guerra di prossimità tra la Russia
e l’Occidente, come lo era quella in Afghanistan negli anni Ottanta. Mosca non
minaccia soltanto Kiev, ma pure la sicurezza generale in Europa, dunque gli inte- 45
‘L’AMERICA ACCELERA IN UCRAINA PER NON FARE LA GUERRA GRANDE’

ressi fondamentali degli Stati Uniti. Il tipo di armamenti fornito altera i rapporti di
forza sul terreno, non la natura di questo confitto. Anzi, secondo me il ritmo con
cui abbiamo inviato armi in Ucraina è stato più lento di quello che ci saremmo
potuti permettere. L’approccio dell’aumento calibrato è fondamentalmente reattivo
e non permette agli ucraini di riprendere l’iniziativa. Penso però che stia iniziando
a cambiare, anche se il cambiamento non è ancora maturato. L’importanza della
decisione sui carri sta nel fatto che ora appoggiamo apertamente il tentativo di Kiev
di condurre prossimamente una controffensiva su larga scala.
LIMES Perché gli Stati Uniti hanno necessità di accelerare?
MANKOFF In parte perché il governo ha superato l’iniziale paura di innescare un’e-
scalation. In parte è un’ammissione che più la guerra va avanti e maggiori sono i
costi non solo per l’Ucraina, ma pure per gli europei. In parte infuisce anche la
Cina e la consapevolezza di non potersi permettere il protrarsi della guerra vista la
necessità di tenersi pronti nell’Indo-Pacifco.
LIMES Qual è il dibattito interno all’amministrazione?
MANKOFF Il dibattito ruota attorno ai nostri obiettivi fnali, alle risorse disponibili e
ai rischi. Quanto agli obiettivi, ora la domanda è: aiutare gli ucraini a riprendere i
territori persi dopo il 24 febbraio o quelli persi nel 2014? Oppure imporre soltanto
costi altissimi ai russi senza legarsi a un preciso obiettivo geografco? Biden dice
che la decisione spetta agli ucraini. E questa è la linea pubblica. È tutto da vedere
se aiuteremo Kiev a riprendere la Crimea.
Diversi fattori informano questa reticenza. Anzitutto, una differenza di status im-
portante tra la penisola e gli altri territori occupati: la Russia ha formalmente annes-
so la Crimea, quindi potrebbe percepire diversamente da altre operazioni un ten-
tativo di riconquistarla; se così fosse, sulla base della sua dottrina nucleare, potreb-
be ricorrere all’atomica. Poi, l’aspetto logistico: una cosa è fare grandi manovre
militari nelle piane orientali, un’altra è entrare in una penisola montagnosa e con-
nessa al continente da un istmo strettissimo. Infne, la questione demografca, ossia
la maggioranza russa: è diffcile capire che cosa preferisca visto che vive in regime
di occupazione da nove anni, ma è possibile che in un libero referendum la mag-
gioranza preferisca la Russia all’Ucraina.
Per questo fnora gli Stati Uniti non hanno permesso a Kiev di usare i loro arma-
menti per bersagliare la Crimea. Gli ucraini hanno già colpito la penisola un paio
di volte e il ponte di Ker0’ con l’evidente obiettivo di dimostrare agli americani di
avere le capacità per farlo e che i russi non reagiscono con rappresaglie massicce.
Al punto che oggi il governo di Washington inizia a dibattere se autorizzare Kiev a
colpire la Crimea, ma siamo soltanto all’inizio. E non vuol dire che sosterremo una
riconquista militare della penisola.
L’altra componente del dibattito riguarda i rischi. Biden ha detto più volte che uno
dei suoi obiettivi principali è impedire al confitto di espandersi in territorio Nato,
per tenere uniti gli alleati. Per esempio, la Spagna potrebbe non essere interessata
a difendere la Polonia. Non è una strada che vogliamo testare. Anche per questo,
46 all’inizio la percezione dell’amministrazione era che la Russia avrebbe potuto ve-
LA GUERRA CONTINUA

dere qualunque fornitura d’arma agli ucraini come una provocazione. Oggi abbia-
mo visto che tutte queste linee rosse di Mosca non erano poi così rosse. Ma ecco-
ci davanti a un altro rischio: abituarci troppo all’idea contraria, che nessuna nostra
mossa sia intollerabile e che a un certo punto il Cremlino si senta obbligato ad al-
zare la posta. Il missile della contraerea ucraina caduto in territorio polacco è stato
un episodio pericoloso, che il governo di Varsavia ha gestito bene, senza fretta,
chiarendo l’accaduto. E la Russia per ora ha rispettato l’articolo V del Patto Atlanti-
co, intuendo che siamo determinati a difenderlo. Ma ciò non vuol dire che non ci
saranno altri momenti perigliosi.
LIMES Gli ucraini dicono che dopo i carri riceveranno qualunque tipo di arma.
Concorda?
MANKOFF Non penso sia saggio dare loro tutto ciò che vogliono. Gli interessi ucraini
non sono necessariamente gli stessi di quelli americani. Kiev deve capire di non
essere l’unica preoccupazione degli Stati Uniti. La competizione con la Cina non
sparirà perché l’Ucraina resiste. Washington deve calibrare ciò che può dare agli
ucraini con una robusta posizione dissuasiva nell’Indo-Pacifco. E poi c’è la linea
rossa fondamentale di non portare la guerra in Russia. Se la linea del fronte si sposta
e si avvicina al confne della Federazione, anche l’artiglieria a raggio più corto che
abbiamo già fornito potrebbe colpire il territorio russo. La questione quindi non è
tecnica ma geopolitica: dobbiamo convincere gli ucraini a non bersagliare la Russia.
LIMES Se tra qualche tempo si arriva a uno stallo, agli Stati Uniti può andare bene
che la Russia rinunci a sottomettere l’Ucraina e l’Ucraina rinunci, non formalmente
ma nella sostanza, alla Crimea?
MANKOFF Finché c’è Biden presidente credo che la linea pubblica resterà: «Niente
sull’Ucraina senza gli ucraini». Ma dietro le quinte continueranno le pressioni, già
cominciate, affnché Kiev si dimostri più disponibile a negoziare, specie se si arriva
a uno stallo dai costi insostenibili. Il problema è che una cessione di territori fssa
un terribile precedente, non solo con la Russia ma pure con la Cina. E poi c’è la
questione delle garanzie: come impedire che la guerra ricominci? Non mi piace
questo approccio, ma se l’Europa, a differenza di quest’anno, non riuscisse a schi-
vare la pallottola energetica nell’inverno 2024, potrebbero scatenarsi pressioni po-
polari tali da portare a cambiare politica in Ucraina.
LIMES A proposito di guerra economica. Le sanzioni mordono ma non stanno cam-
biando i calcoli di Putin. Sono un fallimento?
MANKOFF Da tempo critico l’approccio statunitense alle sanzioni: non riusciamo a
spiegare a cosa servono, a parte a dire che stiamo facendo qualcosa, che siamo
tutti dalla stessa parte e a far sostenere ad altri il grosso dei costi. Ma gli obiettivi
strategici sono molto più vaghi. Sin dal 2014. Se lo scopo delle sanzioni era impe-
dire una guerra, hanno chiaramente fallito. Se era far smettere l’aggressione dopo
il 24 febbraio, hanno fallito. Se era innescare proteste contro il regime, hanno fal-
lito e probabilmente continueranno a fallire. Se era indebolire le capacità russe di
rigenerare risorse utili alla guerra, direi che hanno avuto successo e ne avranno
ancora di più se resteranno in vigore. 47
‘L’AMERICA ACCELERA IN UCRAINA PER NON FARE LA GUERRA GRANDE’

LIMES Per ora però i russi compensano la riduzione della qualità delle risorse mili-
tari con la quantità.
MANKOFF È così e più avanti va la guerra più costi avrà, per tutti. Ma se la pensiamo
in termini di competizione strategica, è ovviamente nel nostro interesse avere una
Russia più debole. Se Mosca è costretta a prendere i microchip dei suoi missili
dalle lavatrici è chiaro che le sanzioni stanno avendo un impatto che a un certo
punto avrà costi insostenibili per la sua industria e la sua economia. Non è detto
che ciò cambierà i piani di Putin o che provocherà la sua rimozione dal potere. Ma
nel lungo periodo la posizione russa sarà nettamente indebolita. Quello per me è
il vero obiettivo delle sanzioni. Non è molto d’aiuto per gli ucraini, lo è più per la
Nato e gli Stati Uniti.
LIMES Vi conviene una Russia così dipendente dalla Cina?
MANKOFF Finché Putin è al potere non avremo molta infuenza a Mosca. La nave
sino-russa è salpata molto tempo fa, direi nel 2014. Putin ha riconosciuto che non
si poteva tornare al ruolo di bilanciatore tra Stati Uniti e Cina. Almeno dal 2011, si
è convinto che l’Occidente voglia abbattere il suo regime. Non ha un grande mar-
gine di manovra nei confronti di Pechino. Ma non avremo molto controllo sulle
circostanze che porteranno alla sua fuoriuscita. Quindi non penso che in questo
momento il nostro atteggiamento stia spingendo la Russia verso la Cina perché le
due potenze sono già vicine. Quello che possiamo fare è diminuire il valore di
Mosca come partner di Pechino. È una parte dei motivi dietro le sanzioni.
LIMES Più indebolite la Russia e più la Cina guadagna infuenza nelle sue ex peri-
ferie imperiali, in particolare in Asia centrale. Vi conviene?
MANKOFF L’impero russo-sovietico è in graduale refusso da fne anni Ottanta. Nel-
le ex periferie, Mosca ha mantenuto infuenza politica, economica e sociale anche
dopo la fne dell’Urss. Ma in Asia centrale la classi dirigenti stanno cambiando:
prima erano madrelingua russe, erano un prodotto della scuola sovietica, guarda-
vano a Mosca come risolutrice dei problemi; oggi sono meno legate alla Russia.
Inoltre, la guerra ha accelerato l’erosione dell’effettiva sovranità imperiale di Mosca,
con la non marginale eccezione della Bielorussia. È evidente nel Caucaso, dove gli
scontri tra Armenia e Azerbaigian a differenza del passato non hanno visto un ruo-
lo decisivo della Russia, sostituita da altre potenze. Tutto questo è il frutto di dina-
miche che sfuggono al nostro controllo.
Inoltre, non è chiaro se la penetrazione cinese in Asia centrale sia completamente
contro i nostri interessi. Pechino ha certo un’infuenza predatoria, illiberale e noci-
va per le minoranze che sono scappate dalla Repubblica Popolare. Ma per i gover-
ni locali avere rapporti più diversifcati con Cina, Turchia e Occidente li stabilizza
e li protegge da minacce alla loro indipendenza. Gli Stati Uniti devono essere
modesti in Asia centrale: non è una priorità e non riusciremo mai a pareggiare
l’interesse e le risorse di Pechino per quest’area, così importante per la stabilità dei
suoi confni occidentali. Il che non vuol dire che dobbiamo dimenticarcene: dob-
48 biamo assicurarci che la regione non passi da un egemone all’altro.
LA GUERRA CONTINUA

LIMES Eliminare l’identità imperiale della Russia è un obiettivo del governo degli
Stati Uniti?
MANKOFF Dovrebbe esserlo. È lì la genesi della sfda russa all’ordine a guida ame-
ricana. Perché è la nostra mentalità a non ammettere altri imperi, nemmeno tra i
nostri alleati. Basta vedere come abbiamo facilitato la dissoluzione dell’impero
francese durante la decolonizzazione.
LIMES Avete i mezzi per cambiare questa identità imperiale?
MANKOFF No.
LIMES Allora perché dovrebbe essere un obiettivo qualcosa che non avete i mezzi
per raggiungere?
MANKOFF Non possiamo necessariamente cambiare quel che accade in Russia e
l’idea dei russi di sé stessi e del loro paese. Ma possiamo assicurarci di limitare i
mezzi con cui Mosca conduce una politica imperiale all’estero. E nel tempo questa
limitazione avrà effetti sugli sviluppi interni alla Russia. È un’infuenza indiretta, che
potrà produrre conseguenze nell’arco di alcune generazioni. Quindi non è un
obiettivo di breve periodo.
LIMES Se non è possibile per gli Stati Uniti coesistere con altri imperi, non è nem-
meno possibile un ordine mondiale?
MANKOFF Non penso sia possibile un concerto di potenze à la Kissinger. Finché
Russia e Cina rifutano i loro attuali confni, cercano di espandersi e di sottomette-
re i vicini, non possono stare in un sistema che rifuta questo tipo di logica. Non
vuol dire che ne stanno completamente fuori, visto che fanno parte di alcune isti-
tuzioni internazionali. Ma il sistema non sarà mai in armonia. Non è un caso che i
nostri rapporti con la Turchia, un alleato diffcile ma comunque un alleato, siano
peggiorati proprio quando sono tornate a galla le tracce del suo passato imperiale.
Ankara è una rivale di Mosca, gioca un ruolo importante nella guerra d’Ucraina, è
meno minacciosa di russi e cinesi a causa di mezzi inferiori, sostiene in larga parte
gli interessi americani in Medio Oriente – con l’importante eccezione della Siria. Ma
le sue ambizioni imperiali generano inevitabilmente frizioni con gli Stati Uniti. E
probabilmente nel tempo genereranno tensioni ancor più intense.
LIMES Nel suo recente libro Empires of Eurasia, ha scritto che un impero plasma le
strutture sociali e le istituzioni politiche delle periferie. Quindi anche gli Stati Uniti
sono impero?
MANKOFF Sì, lo sono stati e in un certo senso lo sono ancora. Non ci piace come si
comportano gli altri imperi perché quel diritto lo vogliamo per noi stessi. È ipocri-
ta? Sì, ma a Washington è marginale chi crede davvero che l’America non debba
dire agli altri come gestire i loro affari domestici. Nessuno che abbia una vera in-
fuenza politica pensa che gli Stati Uniti non debbano incoraggiare i paesi stranieri
alla trasparenza, alla democrazia e a tutto il resto. Nemmeno l’amministrazione
Trump ha cambiato questa logica: aveva valori diversi da diffondere, ma sempre di
diffusione si trattava.*

* Le opinioni qui espresse non rifettono quelle del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America. 49
LA GUERRA CONTINUA

LA CINA SI VEDE COSÌ


CONTRO L’AMERICA
E SOPRA LA RUSSIA di YOU Ji
Per Pechino il conflitto in Ucraina è al contempo un rischio
e un’opportunità. L’intesa ‘senza limiti’ con Mosca ha precise
linee di fondo. Il sostegno a Kiev distrae Washington da Taipei.
Il triangolo strategico si surriscalda. Le sfide nell’Indo-Pacifico.

1. L A GUERRA RUSSO-UCRAINA HA INASPRITO


la rivalità tra grandi potenze, che ha assunto la forma di un confronto tra il campo
occidentale guidato dagli Stati Uniti e quello anti-americano promosso dalla Re-
pubblica Popolare Cinese, di cui la Federazione Russa è parte integrante. Resta
diffcile stabilire se Pechino sia stata colta di sorpresa dall’invasione del 24 febbraio
2022. Sicuramente è rimasta delusa, poiché tale iniziativa ha reso sempre più im-
prevedibili le dinamiche geopolitiche globali. I funzionari cinesi non hanno condi-
viso la decisione di Putin di lanciare l’attacco, ma pubblicamente hanno dichiarato
di comprendere le sue motivazioni, sostenendo che Mosca è stata provocata dal
contenimento asfssiante di Washington e dal sostegno all’Ucraina da parte dei
paesi della Nato.
Pechino ha negato di essere stata a conoscenza dell’invasione. Ciò le ha per-
messo di non apparire complice della Russia, ma ha anche portato alla luce le
crepe nella partnership con Mosca. Gli Stati Uniti avrebbero infatti avvisato i propri
alleati prima di dichiarare guerra a un avversario. L’alto grado di autonomia nel
rapporto tra Mosca e Pechino può anche essere considerato un vantaggio, giacché
esclude che una parte diventi un problema per la sicurezza dell’altra. La mancata
notifca preventiva della Russia è quindi un esempio eloquente del modo in cui è
strutturata la relazione. Si tratta di una partnership, non di un’alleanza, poiché en-
trambi i paesi si battono per mantenere la propria autonomia strategica. La Cina,
che ha sempre in mente i propri interessi nazionali, ha quindi deciso di mantener-
si a debita distanza.
Ciò contraddice tuttavia le dichiarazioni di Xi Jinping e Vladimir Putin dello
scorso febbraio, secondo cui la relazione sino-russa sarebbe «senza limiti». Tale
narrazione rifette soprattutto la comune necessità di fronteggiare le pressioni sen-
za precedenti degli Stati Uniti e rappresenta un aggiornamento della «partnership
strategica globale di coordinamento per una nuova èra» che il presidente cinese 51
LA CINA SI VEDE COSÌ: CONTRO L’AMERICA E SOPRA LA RUSSIA

aveva frmato a Mosca nel giugno 2019. Ogni parola di questa formula ricopriva
una funzione precisa. Con «strategica» si sottolineava una forte propensione alla
sicurezza e alla difesa. Il termine «globale» era volto a defnire un ambito di coope-
razione ben più ampio della sola interazione economica. «Partnership» ribadiva che
non si trattava di un’alleanza formale. Infne, «nuova èra» contribuiva a sottolineare
il peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti dopo che Washington aveva iden-
tifcato Cina e Russia come principali avversari strategici 1.
Prima dell’inizio della guerra in Ucraina, Pechino e Mosca si sono regolate su
questi princìpi per sostenersi a vicenda. Ci si può chiedere se la successiva aggiun-
ta dell’espressione «senza limiti» abbia indicato un salto di qualità nella cooperazio-
ne strategica, magari in direzione di un’alleanza segreta. È una formula che, anche
a causa delle sue tempistiche, ha destato particolari attenzioni a livello globale. Ha
forse favorito la decisione di Putin di ordinare l’invasione? I media occidentali sem-
brano propendere per questa logica. Il contenimento sempre più militarizzato di
Washington ha spinto i due paesi ad avvicinarsi ulteriormente. «Senza limiti» po-
trebbe quindi suggerire quali siano le aspettative dei dirigenti cinesi qualora si av-
verasse lo scenario peggiore, ovvero una resa dei conti con gli Stati Uniti. In quel
caso, Mosca dovrebbe tenere impegnate le forze americane in un confitto su due
fronti, arginandole in Europa. Allo stesso modo, non è escluso che la Cina possa
aumentare il proprio contributo se la Russia fosse in una situazione disperata. «Sen-
za limiti» esclude però la cooperazione in una guerra contro uno Stato sovrano,
come confermato dal ministro degli Esteri cinese Qin Gang 2. Anche Putin ha di-
chiarato di non aspettarsi che i due attori concordino su tutto.
La Cina è contraria alla guerra perché pensa che la possa danneggiare. Nel
2021 è stata infatti il primo partner commerciale di Kiev, importando beni preziosi
come grano, ferro e componenti per le attrezzature militari 3. I suoi investimenti nel
paese hanno raggiunto i 9 miliardi di dollari e potrebbero essere andati persi nella
loro interezza. Inoltre, fno all’inizio del 2022 gran parte delle merci cinesi dirette
in Europa passavano attraverso la rete ferroviaria eurasiatica, resa oggi inutilizzabi-
le dalla politica di sanzioni contro Mosca. Un duro colpo per la Belt and Road
Initiative (Bri o nuove vie della seta) 4.
Pechino non intende lasciarsi trascinare nella spirale del duello tra Russia e
Occidente. Per questo motivo il ministero degli Esteri cinese ha presto fornito
un’interpretazione uffciale del signifcato di «senza limiti». La formula si riferisce a
una cooperazione bilaterale di ampio respiro, ma ha precise linee di fondo. Per
esempio, durante il vertice di novembre con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, Xi
Jinping ha rimarcato la propria contrarietà all’utilizzo di armi nucleari in Europa,
accennando alle minacce russe in tal senso 5. Il gesto del presidente cinese va inte-
1. Cfr. «National Security Strategy 2022», The White House, 12/10/2022.
2. Z. HUANXIN, «Envoy at Aspen: Take steps to avoid new Cold War», China Daily, 21/7/2022.
3. Cfr. B. GIRARD, «The cost of the war to the China-Ukraine Relationship», The Diplomat, 30/2/2022.
4. E. WILSON, «War in Ukraine threatens BRI, disrupts China-Europe rail freight», Euromoney, 3/2/2022.
5. A. RINKE, «Xi opposing nuclear weapons in Ukraine was reason enough to visit China, Scholz says»,
52 Reuters, 5/11/2022.
LA GUERRA CONTINUA

so come un tentativo di mettere in guardia Mosca. La dicitura «senza limiti» compor-


ta un certo allineamento di sicurezza contro una minaccia comune, ma riguarda
esclusivamente la cooperazione in tempo di pace. Non serve ad avviare uno sforzo
bellico congiunto. Non è rivolto contro una terza parte come l’Ucraina, né consiste
in una guida pratica per la formulazione della politica cinese verso la Russia.
Pertanto, dal punto di vista di Pechino la formula «senza limiti» rappresenta
un’opportunità e una questione di principio. L’agenda dei dirigenti cinesi verso gli
Stati Uniti e i paesi europei è chiaramente indipendente dal partenariato sino-russo.
Cina e Russia sono entrambe attente a non farsi intrappolare dai possibili avventu-
rismi dell’altra parte. Dall’inizio della guerra in Ucraina, infatti, una delle principali
preoccupazioni della Repubblica Popolare è stata evitare di incorrere nelle sanzio-
ni economiche secondarie dell’Occidente. Una scelta che ha ridimensionato lo
sforzo bellico della Russia. Il rapporto bilaterale con Mosca non è quindi un’allean-
za e non si spinge al di là degli interessi nazionali cinesi. Putin potrebbe pensarla
allo stesso modo.

2. La guerra in Ucraina rappresenta un problema per la Repubblica Popolare,


ma molti commentatori cinesi ritengono che abbia distolto gli Stati Uniti dalla loro
ossessione per la Cina. Potrebbe infatti aver affevolito il ridispiegamento di truppe
e la pianifcazione dell’America nell’Indo-Pacifco. La necessità di Washington di
assistere Kiev con equipaggiamenti bellici ha ritardato consegne di armamenti a
Taipei per oltre 18 miliardi di dollari. È sicuramente uno scenario positivo per Pe-
chino, non importa quanto poco durerà questa defessione. Fintanto che il mondo
occidentale verrà distratto dal compito di contenere la Russia, in Asia ci sarà mag-
giore margine di manovra. I dirigenti cinesi potranno così concentrarsi sull’affron-
tare le sfde più urgenti in patria, come la crescente pressione dovuta al rallenta-
mento dell’economia e la gestione del fusso epidemico dopo la fne della politica
di tolleranza zero.
I paesi europei, direttamente coinvolti nella guerra commerciale e fnanziaria
contro Mosca, rischiano di essere trascinati in una recessione economica. Tale sce-
nario potrebbe costringerli a migliorare i propri legami con la Cina e avrebbe note-
voli conseguenze geopolitiche. Per esempio, dall’inizio della guerra l’Unione Euro-
pea ha perfezionato la sua politica nei confronti della Repubblica Popolare e mode-
rato il suo sostegno alle iniziative degli Stati Uniti. Qualora la riorganizzazione del
sistema veterocontinentale si rivelasse un lungo processo e la Russia restasse il
bersaglio principale, Pechino potrebbe promuovere un ulteriore allentamento delle
pressioni. La visita di alcuni leader europei in Cina alla fne dello scorso anno rap-
presenta un primo segnale. Il cancelliere Scholz non ritiene possibile attuare il disac-
coppiamento economico di cui parlano gli statunitensi ed è sostenuto dalla classe
imprenditoriale tedesca, che nei primi tre trimestri del 2022 ha aumentato del 114%
gli investimenti nella Repubblica Popolare. Anche il presidente francese Emmanuel
Macron ha alzato la voce, rinnovando l’appello all’autonomia strategica continentale
dopo che Washington ha venduto il proprio petrolio a un prezzo distorto. 53
54
L’INDO-PAC Le due ellissi intrecciate (in grigio)
connettono i due oceani facendo perno
Cintura di crescita sull’Asean, spazio decisivo per legare
Connettività del Golfo del Bengala il Giappone all’India, al Medio Oriente
EUROPA dell’Asia (BIG-B)
e all’Europa
meridionale
e occidentale
GIAPPONE
MEDIO
Delhi
ORIENTE y Conn
ett
ala i
and

vit
Duqm INDIA M

àA
Mumbai n

sean
go wa Da Nang
Yan hila ei
Gibuti T aw Ho Chi Minh
D
Colombo O c e a n o P a c i f i c o
LA CINA SI VEDE COSÌ: CONTRO L’AMERICA E SOPRA LA RUSSIA

Mombasa

Nacala
Toamasina

O c e a n o
I n d i a n o

Corridoio industriale Delhi/Mumbai con annesso corridoio commerciale


Ammodernamento della ferrovia Yangon/Mandalay
Corridoio economico Est-Ovest
Corridoio economico meridionale C
Mombasa/Corridoio Nord I N D O - P A
Corridoio Nacala
LA GUERRA CONTINUA

Nel frattempo, a Pechino si dibatte su quale tipo di guerra possa meglio servi-
re gli interessi cinesi. Un confitto di breve durata riporterebbe il mondo rapida-
mente alla normalità e concederebbe alla Repubblica Popolare di riprendere i
propri affari con le altre potenze in tutta tranquillità. D’altra parte, se i combatti-
menti si protraessero a lungo gli Stati Uniti sarebbero costretti a prosciugare ulte-
riormente le loro energie per aiutare l’Ucraina, sottraendo risorse al teatro indo-pa-
cifco. Non è un caso che diversi leader occidentali abbiano già iniziato a fare di-
chiarazioni concilianti per stabilizzare i rapporti con la Cina. La guerra sembra in-
fatti aver conferito a Pechino un ulteriore vantaggio per compensare le pressioni di
Washington.
La cooperazione militare sino-russa sembra essersi complicata. È stata rafforza-
ta in campi come le esercitazioni congiunte, le vendite bilaterali, la ricerca e lo
sviluppo di nuove tecnologie. Nell’esercitazione di fne dicembre 2022, i due paesi
hanno simulato la pratica di un blocco navale nei punti nevralgici del Mar Cinese
Meridionale. Si sono inoltre impegnati in operazioni anti-aeree e antisommergibile.
Eppure, la Repubblica Popolare ha evitato con decisione qualsiasi collaborazione
che potesse associarla allo sforzo bellico in Ucraina. Ha sospeso le forniture alla
Russia di chip per computer Longxin-3, ampiamente utilizzati dall’Esercito popola-
re di liberazione (Epl) per la sua modernizzazione militare. Il confitto russo-ucrai-
no non presenta le stesse opportunità strategiche della guerra americana al terrori-
smo, ma potrebbe nuocere alla postura globale degli Stati Uniti, impegnati ad af-
frontare simultaneamente Cina e Russia 6.
È così che si spiega l’auspicio emotivo di alcuni analisti cinesi che Mosca pos-
sa vincere la guerra. Gli Stati Uniti stanno indirizzando le proprie risorse migliori
per contrastare l’impegno bellico della Russia. Vogliono impedire un potenziale
attacco nucleare contro un paese della Nato. Nonostante la retorica anticinese con-
tinui a essere aspra, negli ultimi mesi le azioni ostili contro Pechino sono notevol-
mente diminuite. Per esempio, è calata la frequenza con cui le navi americane ef-
fettuano operazioni di libertà di navigazione (Fonop) nel Mar Cinese Meridionale.
Inoltre, l’incontro tra il segretario di Stato Antony Blinken e il nuovo ministro degli
Esteri cinese Qin Gang si è contraddistinto per l’utilizzo di toni particolarmente
pacati. L’atmosfera in cui si è svolto il vertice bilaterale di Bali tra Xi e Biden, avve-
nuto lo scorso 15 novembre, ha inoltre ribadito l’intenzione di Washington di non
compromettere eccessivamente i rapporti con Pechino. Il presidente americano si
è congratulato con il suo omologo cinese per aver ottenuto il terzo mandato e ha
confermato il proposito di non interferire nel sistema politico della Repubblica
Popolare, di non cercare una nuova guerra fredda o uno scontro militare, di non
sostenere l’indipendenza di Taiwan e di rispettare il principio «un paese, due siste-
mi». In altri termini, la Casa Bianca intende dare priorità alle sfde più urgenti in
patria, dall’alta infazione alla recessione incombente. E per questo cerca di allen-
tare le tensioni con Pechino.

6. B. GLOSSERMAN, «The invasion of Ukraine is an opportunity for China», Japan Times, 30/3/22. 55
LA CINA SI VEDE COSÌ: CONTRO L’AMERICA E SOPRA LA RUSSIA

3. La Repubblica Popolare considera il confitto in Ucraina nella più ampia


prospettiva della nuova guerra fredda, nella quale si trova costretta a sopportare
l’incessante pressione economica e militare degli Stati Uniti. Dal punto di vista mo-
rale molti cinesi non appoggiano le attività belliche della Russia, ma non sperano
nemmeno che essa perda, poiché pensano che stia combattendo contro l’egemo-
nia a stelle e strisce anche per conto della Cina 7. Nel calcolo di Pechino, messa
alle strette dal rafforzamento di schieramenti ostili come il Quad, la questione di
chi abbia dato avvio ai combattimenti è di secondaria importanza. I dirigenti cine-
si hanno provato a mantenere una buona relazione con i russi anche senza sup-
portare le sue operazioni militari in Ucraina. Il punto principale sta nella scelta tra
l’allinearsi ulteriormente con la Russia e il mantenere una giusta distanza con essa
per proteggere le relazioni economiche con l’Occidente.
L’invasione del 24 febbraio 2022 ha accresciuto le tensioni all’interno del trian-
golo strategico tra Pechino, Mosca e Washington. Il futuro è ricco di incertezze. Gli
Stati Uniti potrebbero considerare una Russia devastata dalla guerra un rivale meno
signifcativo. Lo stesso vale per la Cina, che potrebbe perdere interesse per un
partenariato sempre più oneroso a fronte delle pressioni occidentali. Questo sce-
nario potrebbe avere un impatto tale da mutare la struttura dell’intero sistema in-
ternazionale. Se Mosca venisse paralizzata dal confitto e dalle sanzioni, i cinesi si
troverebbero costretti a mettere in dubbio la sua utilità per bilanciare l’ostilità di
Washington. Potrebbero forse arrivare ad accantonare la partnership in attesa di
tempi migliori? Non sembra probabile, per ora. Lo confermano i toni amichevoli
del vertice tra Putin e Xi del 30 dicembre 2022. L’aumento dell’animosità statuni-
tense stimola i due paesi a costruire legami più stretti 8. Il presidente russo ha infat-
ti invitato a sorpresa il suo omologo cinese in Russia la prossima primavera e Xi ha
accettato volentieri la proposta. Tale visita potrebbe rappresentare il simbolo di
una più stretta relazione sino-russa, ma dal punto di vista di Pechino potrebbe
anche rivelarsi l’occasione per perseguire un’iniziativa di pace a nome di molti
paesi, compresi i membri dell’Alleanza Atlantica.
La Repubblica Popolare deve tenere sempre in considerazione la possibilità di
uno scontro militare nel Mar Cinese Meridionale o nello Stretto di Taiwan. In tal
caso, sarebbe molto utile se la Russia riuscisse a bloccare parte delle forze statuni-
tensi nel teatro europeo. È questa possibilità che determina il calcolo cinese su
quale ruolo recitare nel triangolo strategico. Pechino non vorrebbe assistere a una
sconftta russa causata dalle sanzioni occidentali o dalla sua ineffcienza sul campo
di battaglia. Al tempo di Kissinger il «due contro uno» si rivelò una formula vincen-
te nel gioco trilaterale della guerra fredda. Oggi la Repubblica Popolare si trova di
nuovo in una posizione di relativo favore, malgrado la Russia sia un socio decisa-

7. «Shankou xinzhi, Zhongguo he E Wu zhanzheng: Zhong E gongtong fan Mei guanxi de shenhua
yu juxian» («Yamaguchi Shinji, la Cina e la guerra russo-ucraina: l’approfondimento e i limiti delle
relazioni congiunte sino-russe in funzione anti-americana»), Nids Paper, n. 218.
8. Sul tema si veda B.K. YODER, «Power shift, third-party threats, and credible signals: explaining Chi-
56 na’s successful reassurance of Russia», International Politics, vol. 57, n. 3, 2020.
LA GUERRA CONTINUA

mente più debole 9. Se il confitto in Ucraina portasse il regime di Putin a un lento


collasso, Pechino andrebbe incontro a un testa a testa con Washington che raffor-
zerebbe notevolmente la capacità americana di giocare da una posizione di forza.
Lo ha dichiarato lo stesso Antony Blinken ad Anchorage nel marzo 2021 10.
I dirigenti politici di Pechino non sono così imprudenti da credere che il con-
fitto in Ucraina possa defnitivamente distrarre gli Stati Uniti dall’Indo-Pacifco. In
termini strategici, come ricordato dal segretario alla Difesa statunitense Lloyd Au-
stin, «la Russia è l’obiettivo prioritario, la minaccia acuta, ma la Cina rappresenta la
competizione incalzante» 11. Insomma, la guerra in Ucraina non diminuisce la rile-
vanza della sfda cinese. Washington riesce sempre a trovare una tattica per per-
seguire il contenimento della Repubblica Popolare. Allo stato attuale, il suo obiet-
tivo è paralizzare fatalmente la Russia e subordinare a sé i paesi europei 12. La
maggior parte degli opinionisti internazionali ritiene che gli Stati Uniti siano gli
unici vincitori della guerra in Ucraina. Hanno appianato le linee di faglia continen-
tali. Hanno costretto Francia e Germania a esercitare una maggiore pressione
economica sulla Russia. Hanno fatto una fortuna vendendo le proprie risorse ener-
getiche in Europa a un prezzo più alto. L’America, in ultima analisi, si troverà in
una posizione nettamente più favorevole per dominare la Nato e per dirigerla
contro i propri avversari.
Questo signifca che l’Occidente, una volta soffocata la Russia, potrebbe con-
centrare tutte le proprie risorse contro la Cina. Nella prossima fase della contesa tra
Est e Ovest, Pechino potrebbe trovare sempre più diffcile gestire il suo già avverso
intorno strategico. La sua reazione alla guerra in Ucraina deriva quindi dall’obietti-
vo di difendersi dalla pressione occidentale, non dal proposito di salvaguardare gli
interessi di altri Stati. Compresa la Russia. Il comportamento cinese non è neppure
infuenzato da valutazioni morali o ideologiche. Proprio come nel caso dell’India,
la Repubblica Popolare tiene conto esclusivamente del rapporto costi-benefci 13.
Pechino continuerà a percorrere una linea sottile, aiutando Mosca a controbi-
lanciare la morsa occidentale senza tuttavia mettere a rischio i propri interessi vita-
li. Nel corso dell’ultimo anno la Repubblica Popolare ha aumentato del 40% le
importazioni di prodotti energetici russi, una grande boccata di ossigeno per una
Russia affamata di denaro. Ma si è rifutata di fornirle apparecchiature militari cru-
ciali come i droni. E questo ha gettato un’ombra sulle relazioni bilaterali. Molte
aziende cinesi si sono adeguate al regime di sanzioni occidentali e hanno ridotto i
legami commerciali con Mosca. Se non lo ammettono apertamente è per paura dei

9. Cfr. L. DITTMER, «The strategic triangle: an elementary game-theoretical analysis», World Politics, vol.
33, n. 4, 1981.
10. D. BRUNNSTROM, H. PAMUK, M. MARTINA, «U.S., Chinese diplomats clash in high-level meeting of Biden
administration», Reuters, 19/3/2021.
11. L.J. AUSTIN III, «Secretary of Defense Budget Posture Hearing Opening Testimony at the Senate
Armed Services Committee», U.S. Department of Defense, 7/4/2022.
12. Cfr. M. RYAN, A. TIMSIT, «U.S. wants Russian military “weakened” from Ukraine invasion, Austin
says», The Washington Post, 25/4/2022.
13. «US “understands” India’s position on Ukraine war», Deccan Herald, 12/4/2022. 57
LA CINA SI VEDE COSÌ: CONTRO L’AMERICA E SOPRA LA RUSSIA

possibili contraccolpi, in particolare da parte dei cittadini cinesi, i quali sono in


gran parte favorevoli alla causa russa.
È probabile che Cina e Russia abbiano trovato una certa intesa sulla guerra in
Ucraina. Eppure, la ricerca di autonomia strategica da parte di Pechino ha confer-
mato i sospetti dell’Occidente verso un partenariato percepito come mero «asse di
convenienza» 14. Nel lungo periodo, non è impossibile immaginare uno scenario in
cui il legame sino-russo sarà attenuato. Per esempio, un cambio di regime in Russia
potrebbe spingere Mosca tra le braccia della Nato. La Repubblica Popolare, a quel
punto, si trasformerebbe in un rivale. È questa la ragione per cui la Cina fa affda-
mento soltanto su sé stessa.

4. Mentre il mondo assiste a un confitto sul suolo europeo senza precedenti


dalla fne della seconda guerra mondiale, si intensifca anche la competizione per
plasmare il futuro dell’Indo-Pacifco. La guerra in Ucraina ha alzato la posta in gio-
co tra le grandi potenze e portato alla formazione di coalizioni contrapposte. Gli
Stati Uniti sono in fase offensiva e mobilitano la deterrenza collettiva contro Cina e
Russia. Hanno organizzato con successo un ampio fronte unito contro l’invasione
dell’Ucraina e spinto i loro alleati – per esempio Canada e Australia – a condurre
attività di monitoraggio in prossimità delle regioni costiere della Repubblica Popo-
lare. Ciò ha portato Pechino e Mosca a stringere ulteriormente i loro legami strate-
gici. La nuova guerra fredda si sta surriscaldando e ciò aumenta il pericolo di un
confitto nucleare.
L’approccio di Washington è al contempo collettivo e militarizzato. Lo dimo-
stra perfettamente la Strategia per l’Indo-Pacifco, pubblicata lo scorso maggio
dall’amministrazione Biden. Descrive gli Stati Uniti come la forza trainante e domi-
nante nella regione. Agli occhi degli americani, per contenere Pechino occorre
anzitutto rafforzare le due catene di isole nell’Oceano Pacifco occidentale e fare
ricorso alla Pacifc Deterrence Initiative. Ci sono quindi i quadri di cooperazione in
materia di difesa, come l’Aukus, il Quad e la comunità d’intelligence dei Five Eyes.
Infne, il documento menziona le principali direttrici geopolitiche americane: le
alleanze bilaterali, l’Indo-Pacifc Economic Framework for Prosperity (Ipef), l’e-
spansione della Nato in Asia e gli addestramenti militari multilaterali. Questo siste-
ma forma un vasto ombrello volto a controllare tutta l’Eurasia.
Dalla prospettiva dei dirigenti cinesi il confitto in Ucraina lancia un monito
inequivocabile. Siccome una guerra nucleare tra le grandi potenze del pianeta non
è più un fatto impensabile, occorre fare il possibile per mantenere la pace. La teo-
ria del realismo politico sostiene che per evitare una «mutua distruzione assicurata»
(mad) i principali attori non dovrebbero solo dissuadere gli avversari, ma anche
rispettare le loro capacità di deterrenza 15. È questione di logica. Le parti più debo-

14. B. LO, Axis of Convenience: Moscow, Beijing, and the New Geopolitics, Washington D.C. 2008,
Brookings Institution Press.
58 15. R. JERVIS, «The Dustbin of History: Mutual Assured Destruction», Foreign Policy, 9/11/2002.
LA GUERRA CONTINUA

li del triangolo Cina-Stati Uniti-Russia devono mettere da parte i confitti d’interesse


e pervenire a legami più stretti. Oggi Pechino e Mosca sono ben lungi dallo strin-
gere un’alleanza formale, ma se i loro interessi vitali fossero fatalmente minacciati
potrebbero spingersi oltre, fno a rispondere all’unisono alle provocazioni percepi-
te. La lezione da trarre dalla guerra in Ucraina è che una grande potenza deve ri-
spettare le «linee rosse» delle sue rivali e lasciare spazio al compromesso, per il
bene comune del mondo. Se i limiti verranno calpestati ancora, ne pagheremo
tutti le conseguenze.

(traduzione di Giacomo Mariotto)

59
LA GUERRA CONTINUA

WASHINGTON
GIOCA COL FUOCO BANDOW di Doug

Assuefatti al soccorso americano via Nato, gli europei condannano


Mosca con forti riserve e scarse risorse. L’escalation è disastrosa
anche per gli Usa. Le ipocrisie occidentali. Kiev dovrebbe scegliere:
continuare la guerra senza di noi o finirla, presto, con il nostro aiuto.

1. I
L CONFLITTO TRA UCRAINA E RUSSIA
imperversa da un anno. Scatenare il demone della guerra è stato un crimine ter-
ribile e ingiustifcato, malgrado le molte menzogne e provocazioni dell’Occiden-
te. Tuttavia, i paesi Nato dovrebbero smetterla con le grida di battaglia. America
ed Europa non sono innocenti: Washington e i suoi alleati fanno ciclicamente
guerre contro Stati più deboli e hanno ucciso molte più persone della Russia,
comprese centinaia di migliaia di civili – involontariamente, certo, ma ciò impor-
ta poco ai morti e ai loro cari – in Iraq, Libia, Afghanistan e Yemen. Ci sono
anche le vittime innocenti delle letali sanzioni economiche, sulle quali una fred-
da Madeleine Albright disse: «È un prezzo che vale la pena pagare» 1.
Sinora il sostegno statunitense ed europeo a Kiev ha consentito a Zelens’kyj
di frustrare gli aggressivi intenti russi di conquista o smembramento dell’Ucraina.
Malgrado i benvenuti successi di questo sforzo difensivo, la vittoria resta però
sfuggente. Incerte sono, in particolare, le prospettive delle offensive prospettate
da ambo le parti. Con un sistema informativo così sbilanciato verso l’Ucraina, è
diffcile valutare le affermazioni secondo cui Kiev avrebbe quasi esaurito le sue
riserve di uomini e mezzi, mentre Mosca si appresterebbe a sferrare un attacco
potenzialmente devastante. In ogni caso, la riconquista ucraina di Donbas e Cri-
mea sarebbe possibile solo se Vladimir Putin evitasse l’escalation e accettasse la
sconftta: ipotesi a dir poco fantasiosa.
Mentre scrutano cupi l’incerto futuro, Stati Uniti e alleati continuano a dibatte-
re sui limiti dell’aiuto all’Ucraina. La Germania ha ceduto sull’invio dei carri Leo-
pard, ma la Polonia e altri Stati baltici appaiono molto più propensi a rischiare la

1. «Madeleine Albright justifes the deaths of 500,000 Iraqi children as “worth it”», Cbs (60 minutes),
YouTube, 9/2/1997. 61
WASHINGTON GIOCA COL FUOCO

guerra, presumibilmente certi che l’America combatterebbe con e per loro se il


confitto si allargasse. Nemmeno a Washington, città colma di tracotanza e ipocri-
sia, la prospettiva di un confitto con Mosca suscita grandi entusiasmi.
Vero è che David Petraeus, lo screditato ex direttore della Cia condannato
per aver spifferato segreti alla sua amante, ha proposto un attacco su vasta scala 2
alle forze russe in risposta a qualsiasi uso di armi nucleari contro l’Ucraina da
parte del Cremlino. In pochi però hanno sostenuto quest’idea balzana, che qua-
si certamente provocherebbe rappresaglie foriere di possibili scambi atomici. A
parte alcuni barricaderi in posti come l’Atlantic Council, che pratica lobbismo
uffcioso per Kiev, pochi in America credono che la difesa dell’Ucraina valga una
guerra e men che mai un confitto nucleare.
Ciò non deve sorprendere. L’iniziale promessa di ammettere l’Ucraina (e la
Georgia) nella Nato fu fatta su pressione dell’amministrazione di George W. Bu-
sh, per insipienza e cattiva coscienza specie dopo la distruttiva guerra all’Iraq.
Per fortuna, nessun membro dell’alleanza condivideva la volontà americana di
minacciare una guerra per l’Ucraina, il che portò alla tiepida e vaga promessa di
un ingresso futuro, formulata al vertice di Bucarest del 2008. Nei 14 anni succes-
sivi nessuno dentro la Nato era pronto a scendere in guerra per Kiev: i governi
alleati si dicevano entusiasti all’idea di accogliere l’Ucraina nei loro ranghi, ma si
rifutavano di muovere un dito a tal fne. Nemmeno l’ammasso di truppe russe
al confne ucraino nell’autunno 2021 è valso a cambiare questo stato di cose.
Quando il segretario di Stato Lloyd Austin visitò l’Europa ripeté le stesse, svergo-
gnate e vuote promesse dei suoi predecessori 3.
Nessuno voleva dire la verità a governo e popolo ucraini: che americani ed
europei non volevano battersi contro la Russia per loro. Perché avrebbero dovu-
to? Nessuno degli alleati aveva mai ritenuto Kiev vitale per la propria sicurezza.
In tutta la storia degli Stati Uniti e in quella più recente dell’Europa, l’Ucraina è
stata controllata dall’impero russo nelle sue incarnazioni zarista e sovietica. L’in-
dipendenza ucraina era un prodotto del collasso sovietico, non una causa con-
cepita o coadiuvata da Washington e Bruxelles.
I membri europei della Nato non sembrano nemmeno desiderosi di soste-
nersi a vicenda. Su tredici alleati europei sondati 4 dal Pew Research Center, solo
in tre una maggioranza scenderebbe in guerra per difendere i propri vicini, men-
tre ovviamente tutti i paesi si aspettano che gli Stati Uniti intervengano militar-
mente. Nei trent’anni di indipendenza dell’Ucraina poco o nulla si è fatto anche
solo per portare il paese nella Ue. Dopo l’invasione russa Bruxelles ha svoglia-
tamente acconsentito a un iter d’accesso accelerato, ma lo status di paese candi-
dato è solo il primo passo. Diffcilmente l’Ucraina rispetterà i criteri d’adesione e
2. E. HELMORE, «Petraeus: US would destroy Russia’s troops if Putin uses nuclear weapons in Ukraine»,
The Guardian, 2/10/2022.
3. J. GARAMONE, «Secretary of Defense Travels to Europe to Reassure Front Line States», dipartimento
della Difesa degli Stati Uniti, 17/10/2021.
4. M. FAGAN, J. POUSHTER, «NATO Seen Favorably Across Member States», Pew Research Center,
62 9/2/2020.
LA GUERRA CONTINUA

con ogni probabilità l’entusiasmo europeo scemerà insieme al sostegno per la


causa di Kiev. Tra dieci o vent’anni, verosimilmente, a Bruxelles si starà ancora
discutendo dell’ingresso ucraino nella Ue e nella Nato.
In ogni caso, che l’Europa non ritenga essenziale difendere l’Ucraina lo di-
mostra il fatto che non lo sta facendo. Se davvero agli europei importasse del
paese, non si preoccuperebbero di quali conseguenze comporti inviare armi. La
stessa Washington ha rintuzzato il tentativo ucraino di trascinare la Nato nel con-
fitto dopo l’incidente del missile (ucraino) caduto in Polonia, rinfacciando aspra-
mente a Kiev le sue tattiche disoneste 5.
Purtroppo, la falsa affnità con l’Ucraina ostentata dall’Occidente ha sviato
Mosca. I paesi Nato rifutano di ammettere le loro responsabilità per aver violato
le ripetute promesse 6 alla Russia di non espandere l’alleanza; ignorare gli avver-
timenti russi 7 è stato un imperdonabile azzardo. Putin non è esattamente la
controparte ideale in un negoziato, ma anche gli occidentali hanno dimostrato
che di loro non ci si può fdare. Ora l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ci
informa 8 che gli accordi di Minsk, negoziati per porre fne al confitto nel Donbas,
erano una menzogna: «Un tentativo di guadagnare tempo all’Ucraina. Tempo che
Kiev ha speso per rafforzarsi, come possiamo constatare. L’Ucraina del 2014-15
non era l’Ucraina odierna».

2. La condotta occidentale non giustifca l’invasione russa dell’Ucraina, ma


aiuta a spiegare la risposta di Putin. E gli Stati Uniti, che per due secoli hanno
defnito l’emisfero occidentale sfera d’interesse americano – la Dottrina Monroe
fu originariamente formulata in funzione anti-europea – considerano ora inaccet-
tabile che la Russia agisca come essi hanno agito contro Mosca. Se quest’ultima
avesse rovesciato il governo messicano, inviato suoi emissari a Città del Messico
per installarvi un governo amico 9 e invitato quest’ultimo a entrare nel Patto di
Varsavia, Washington avrebbe probabilmente trasudato isteria e minacce di
guerra. Una crisi dei missili di Cuba al quadrato.
Il confitto ucraino è ancora in pieno svolgimento, ma già si discute dei fu-
turi assetti di sicurezza. Kiev chiede garanzie e l’Occidente avanza idee, fermo il
rifuto di un ingresso ucraino nella Nato. Un anonimo consigliere di Emmanuel
Macron ha dichiarato 10 che la Francia «è pronta a dare garanzie di sicurezza
[all’Ucraina]: se questa venisse attaccata, potremmo valutare i mezzi per assister-
la e consentirle di ripristinare la propria sovranità e la propria integrità territoria-
le». Tradotto: nessuna garanzia.

5. D. BANDOW, «War in Ukraine Reaches a Tipping Point», American Conservative, 24/11/2022.


6. ID., «Not In My Back Yard, But In Yours», American Conservative, 5/5/2022.
7. «2007 Putin Speech and the Following Discussion at the Munich Conference on Security Policy»,
Johnson’s Russia List, 27/3/2014.
8. «Merkel: Minsk agreements were meant to “give Ukraine time”», Al Mayadeen, 8/12/2022.
9. «F*** the EU: Alleged audio of US diplomat Victoria Nuland swearing», ODN News, YouTube.
10. J. HANKE VELA, «Brussels Playbook: French debate – Ukraine’s future – Janša’s notable quotables»,
Politico, 20/4/2022. 63
64
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WASHINGTON GIOCA COL FUOCO

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GRECIA (Aeronautica)

Sigonella (Marina) Baia di Suda SIRIA


MAROCCO Sidi Ahmed (Marina) CIPRO
(Forze speciali - Cia)
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ALGERIA Mar Mediterraneo (Aeronautica - GB)
TUNISIA
ISRAELE
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(Forze speciali - Cia)
Paesi con importanti basi Usa
Paesi con presenza militare in località segrete E G I T T O Il Cairo
LIBIA
Circa 900 soldati americani in Siria (2022) (Congiunta)
LA GUERRA CONTINUA

Mariya Omelicheva, del National War College, ha sottolineato 11 l’avversione


dell’amministrazione Biden a «garanzie giuridicamente vincolanti». Da cui l’idea
di un modello israeliano: «Incentrare la sicurezza ucraina sul principio dell’auto-
difesa come alternativa migliore alla sicurezza collettiva derivante da un’eventua-
le adesione di Kiev alla Nato». Cioè: proseguire l’attuale politica alleata di armare
e addestrare le Forze armate ucraine.
L’Ucraina, comprensibilmente, preferirebbe entrare nell’Alleanza Atlantica.
Qualche mese fa Zelen’skyj ha affermato 12: «Di fatto, siamo già nella Nato. Di
fatto, abbiamo già dimostrato di saper combattere con standard Nato». Perché,
allora, non ammettere Kiev anche di diritto? I membri dell’alleanza, però, scim-
miottano i Borbone, di cui Talleyrand diceva che non imparavano nulla né di-
menticavano nulla. Se la Nato facesse sul serio, avrebbe ammesso l’Ucraina nei
suoi ranghi già l’anno scorso. Invece, nel novembre 2021 l’alleanza collocava
l’ingresso di Kiev in un imprecisato futuro 13: «Ribadiamo fermamente la nostra
politica della porta aperta e quanto deliberato a Bucarest nel 2008 con riferimen-
to a Ucraina e Georgia». Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg è ap-
parso possibilista, ma ha evitato 14 qualsiasi riferimento alla tempistica: «È impor-
tante procedere un passo alla volta», ha detto. Ha anzi affermato che aiutare Kiev
è più facile se questa resta fuori dalla Nato: «L’urgenza, ora, è assicurarci che
l’Ucraina prevalga ed è ciò che stiamo facendo». Inutile cercarvi un senso: gli
alleati non ammetteranno il paese nella Nato perché non lo reputano nel loro
interesse. La commedia continua.
Si tratta di una questione saliente per Washington. Malgrado le pretese eu-
ropee di leadership, la formula della Nato resta «Nord America più gli altri». Fin-
ché l’Europa non prenderà sul serio la difesa – il solo pensiero induce al riso – il
ruolo statunitense resterà decisivo 15, come evidenziano le ultime uscite dell’alle-
anza 16. Stare a ricasco degli Stati Uniti resta il fondamento della difesa europea,
che era e rimane fardello primario di Washington. Pertanto, la posizione statuni-
tense continuerà a orientare la politica europea.
Voci minoritarie in Europa spingono per la guerra, non solo tra i baltici. Un
non lucidissimo opinionista britannico, Simon Tisdall, ha sentenziato 17: «Per
sconfggere la tirannia l’Europa deve battersi, e battersi per vincere. Il nostro
futuro collettivo dipende da questo». Ovviamente, può fare sparate simili perché

11. M.Y. OMELICHEVA, «Fortress Ukraine», Ponars Eurasia, giugno 2022.


12. L. Bayer, «The West’s last war-time taboo: Ukraine joining NATO», Politico, 6/12/2022.
13. «Statement by NATO Foreign Ministers-Bucharest, 29-30 November 2022», Nato, 29/11/2022.
14. M. RYAN, E. RAUHALA, R. DIXON, «Ukraine presses NATO on membership, but alliance gives no gua-
rantees», The Washington Post, 30/11/2022.
15. «Joint Declaration on EU-NATO Cooperation by the President of the European Council, the Presi-
dent of the European Commission, and the Secretary General of the North Atlantic Treaty Organiza-
tion», Nato, 10/1/2023.
16. H. FOY, «Joint Nato-EU declaration enshrines “importance of the transatlantic bond”», Financial
Times, 10/1/2023.
17. S. TISDALL, «Ukraine is fghting for all of us. Now Europe must fght Putin too», The Guardian,
22/1/2023. 65
WASHINGTON GIOCA COL FUOCO

presume che se l’Europa dichiara guerra alla Russia, a combatterla sarà l’Ameri-
ca. Del resto, l’esercito britannico possiede appena 227 carri armati 18. Votato
alla sconftta di Mosca, il governo Sunak ne ha generosamente offerti 14 all’U-
craina 19. Contestualmente, il premier britannico ha però ritrattato il precedente
impegno all’aumento della spesa militare 20. Come stupirsi, allora, se anche la
Germania ridimensioni la sua «svolta» (Zeitenwende)? Se guerra sarà, sarà l’Ame-
rica a fare il grosso del lavoro sporco, con gli europei seduti a guardare.
Anche alcuni negli Stati Uniti premono per uno scontro aperto con la Russia.
Tisdall ha citato Wesley Clark, il comandante della Nato licenziato dall’ammini-
strazione Clinton. Decenni dopo aver ordinato ai suoi subordinati di rischiare la
guerra con Mosca 21 fronteggiando le truppe russe che accorrevano in Kosovo
sulla scia dell’offensiva Nato in Jugoslavia, un Clark in pensione e alquanto con-
fuso – come si evince anche dalle sue tirate guerrafondaie in vari webinar sull’U-
craina – non esiterebbe a rischiare di nuovo una guerra contro il Cremlino.
Joe Biden è più realista e sembra speri ancora di scongiurare il baratro del
confitto con Mosca. Donde la cautela della sua amministrazione nell’evitare l’e-
spansione e l’intensifcazione della guerra. Kiev può decidere i propri obiettivi
bellici, ma non pretendere il sostegno alleato a qualsiasi sua scelta. Non è nell’in-
teresse di nessuno, specie di americani ed europei, venire alle armi con una
potenza nucleare.

3. L’invasione russa dell’Ucraina è stato un atto di aggressione criminale, ma


ciò purtroppo non la rende unica, malgrado le isteriche asserzioni contrarie.
Oltre quarant’anni fa l’Iraq di Saddam Hussein invase l’Iran, innescando otto
anni di carnefcina in cui Washington sosteneva l’aggressore. Morti stimati: oltre
un milione. Il decennio successivo vide i massacri nella Repubblica Democratica
del Congo, in cui si calcola siano morti circa 5,4 milioni di persone 22. Pochi in
America e in Europa si preoccuparono di quell’immane tragedia. Nel 2003 è sta-
ta la volta della gratuita invasione statunitense dell’Iraq sulla scorta delle inesi-
stenti armi di distruzione di massa, con l’acquiescenza – se non il sostegno – di
svariati esecutivi europei.
La guerra russo-ucraina ha scatenato infnite litanie sui due lati dell’Atlantico
perché «si combatte di nuovo sul suolo europeo». L’ordine basato sul diritto, così
spesso evocato, è un costrutto che Washington vìola ogniqualvolta le conviene,
cioè spesso. Il confitto ucraino non ha nulla a che fare con la presunta contrap-

18. S. MANSOOR, «Ukraine Is Getting British Tanks. What Its Military Really Needs Is German Leopard
2s», Time, 19/1/2023.
19. P. WINTOUR, D. SMITH, «UK foreign secretary defends “moral imperative” of sending tanks to Ukrai-
ne», The Guardian, 17/1/2023.
20. J. SCOTT, «Rishi Sunak ducks 3% defence spending commitment - but points to “track record” on
investment», Sky News, 14/11/2022.
21. M. TRAN, «“I’m not going to start Third World War for you”, Jackson told Clark», Guardian, 2/8/1999.
22. «Mortality in the Democratic Republic of Congo: An ongoing crisis», International Rescue Commit-
66 tee, 1/5/2007.
LA GUERRA CONTINUA

posizione democrazie/autocrazie, che vede le prime corteggiare alla bisogna i


peggiori regimi mediorientali e centroasiatici. Come l’Arabia Saudita, che per
otto anni ha condotto una guerra criminale contro lo Yemen con il dichiarato
sostegno di Washington e Londra. Negli ultimi vent’anni, i soli interventi militari
degli Stati Uniti hanno fatto molte più vittime 23 di quante la Russia ne abbia pro-
vocate sinora in Ucraina.
Niente di tutto ciò giustifca le azioni di Putin, ovviamente. Ma la retorica
autocelebrativa dell’Occidente non farà che prolungare questo truculento confit-
to. L’imperativo, per Ucraina e Nato, è porre fne alle ostilità. Più facile a dirsi che
a farsi, purtroppo. Il comprensibile ma semplicistico «sconfggiamo la Russia» è
slogan buono per la guerra, non per la pace e tantomeno per la stabilità. Il de-
siderio di vendetta sull’aggressore è comprensibilmente forte – i cimini della
Russia sono molti e le conseguenze dell’invasione gravi – ma gli alleati occiden-
tali hanno fatto molto per avvelenare le relazioni con Mosca e precipitare le fa-
tali decisioni di Putin. Inoltre, la pretesa di riparazioni e reintegri territoriali
rende il Cremlino meno incline a trattare e più deciso a rilanciare. Cruciale, al
riguardo, è che la Russia resta militarmente superiore all’Ucraina e più disposta
dell’Occidente all’escalation.
I governi sulle due sponde dell’Atlantico insistono che spetti a Kiev decide-
re se e quando trattare; essi non intendono forzarle la mano. Tuttavia, non pos-
sono nemmeno dare a Zelens’kyj un assegno in bianco. Il sostegno dev’essere
condizionato e fnalizzato, in ultima istanza, ad aumentare la sicurezza della
Nato. Questo implica lavorare per porre fne alla guerra il prima possibile, anche
prima di quando governo o popolo ucraino eventualmente desiderino. La Nato
deve imporre a Kiev una scelta: proseguire la guerra per conto proprio o termi-
narla con il suo sostegno.
Che tratti avrebbe una pace? Ricostruire un ordine stabile e reintegrare la
Russia può rivelarsi più diffcile che fermare le ostilità. Nel valutare la situazione
oggi occorre ricordare cosa sarebbe potuto essere. Si ricordi l’amichevole discor-
so di Putin nel 2001 al parlamento tedesco e lo si confronti con la sua acrimonia
alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007. In questo lasso di tempo la
sua visione della Nato è mutata considerevolmente, per l’incapacità (specie) sta-
tunitense di mostrare la minima empatia strategica verso Mosca, come attestano
l’ampliamento della Nato e lo smembramento della Serbia. L’opportunità di ve-
nire a patti è sfumata molto prima che la Russia invadesse l’Ucraina.
Una nuova guerra fredda, tuttavia, non serve a nessuno. La pace punitiva
non funzionò nel 1919 e avrebbe conseguenze simili oggi, dove la principale
alternativa a Putin sono nazionalisti ancor più duri, non liberali flo-occidentali.
Puntare a mantenere la Russia isolata e sanzionata rischia di trasformarla in
un’immensa e iper-armata Corea del Nord, minaccia alla stabilità regionale e alla

23. Per dati e statistiche dettagliate, cfr. l’osservatorio «Cost of war» del Watson Institute for Internatio-
nal and Public Affairs, Brown University. 67
WASHINGTON GIOCA COL FUOCO

pace globale. Stolto sarebbe anche ignorare i seri timori per la sicurezza nazio-
nale nutriti da molti russi infuenti. Con buona pace dei moralisti, non ci sono
soluzioni semplici.
È tempo che gli Stati Uniti impongano la condivisione dell’impegno militare.
Con la nuova maggioranza repubblicana alla Camera dei rappresentanti, l’ammi-
nistrazione Biden dovrebbe fornire l’aiuto militare già autorizzato solo se gli altri
membri della Nato corrispondono altrettanto. Washington dovrebbe inoltre riti-
rare i 20 mila soldati aggiuntivi schierati in Europa dal febbraio 2022, invitando
altri Stati dell’alleanza a compensare l’ammanco. Il governo federale degli Stati
Uniti spende più di quanto incassi e alimenta un debito enorme anche senza
guerre o epidemie virali. L’America non può più permettersi di essere il benefat-
tore dell’Europa, specie a fronte della sfda cinese.
La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina è orribile e deve fnire il prima
possibile. A sopportarne il costo maggiore sono gli ucraini, ma il rischio di esca-
lation e allargamento del confitto minaccia anche gli alleati europei della Nato,
sempre più ostaggi di una guerra per procura contro Mosca. I governi europei
dovrebbero essere franchi con le loro popolazioni e iniziare un serio dibattito sui
crescenti pericoli del sostegno a Kiev.

(traduzione di Fabrizio Maronta)

68
LA GUERRA CONTINUA

Un anno dopo
Che cosa è diventata
la guerra in Ucraina
Tavola rotonda con Nicola CRISTADORO, Germano DOTTORI e Virgilio ILARI
a cura di Lucio CARACCIOLO e Giuseppe DE RUVO

LIMES Di che guerra stiamo parlando?


ILARI Se la limitiamo alla secolare partita fra l’asse russo-tedesco e i suoi nemici
storici (impero britannico, repubblica polacco-lituana e Stati scandinavi), risalirei al
1763, inizio del confitto russo-britannico; o al 1794, fondazione di Odessa e def-
nitiva spartizione russo-tedesca della Polonia. Ma possiamo anche partire dal 1854,
guerra di Crimea (vinta dai russi con la cessione cinese della Manciuria) in cui
nacque il primo Occidente anglo-francese coi satelliti italiano e turco. O dal 1863,
con le insurrezioni polacco-lituane istigate e poi abbandonate da Londra, Parigi e
Roma. O dal 1877, capitolo bulgaro della Questione d’Oriente e data di nascita del
«jingoismo» britannico. O dal 1904, la «guerra mondiale zero», primo confitto per
procura britannico contro la Russia, salvata da Theodore Roosevelt. O dal 1917,
abbandono della Russia da parte delle potenze occidentali e guerra civile estesa
all’intero impero zarista, conclusa col reimbarco antibolscevico dalla Crimea e la
spartizione sovietico-polacca dell’Ucraina. O dall’«antemurale polacco» contro Urss
e Germania di Weimar, concluso con la spartizione nazista-staliniana della Polonia
(1939) e poi con quella sovietico-americana dell’Europa centrale (1945). Oppure,
infne, dal 1991-94, riedizione del 1915-17, saccheggio e abbandono occidentale
della Russia «liberale».
Questo passato pesa nel rancore dei russi verso di noi assai più di quanto riuscia-
mo a percepire. Ma il punto di svolta da cui ha preso avvio il piano inclinato che
ci ha condotti fn qui mi pare quello indicato da John Mearsheimer, ossia il 2003.
L’anno che, parafrasando il giudizio di Benedetto XV sul 1914 1, possiamo chiama-

1. Defnito da quel papa «il suicidio dell’Europa civile». 69


UN ANNO DOPO. CHE COSA È DIVENTATA LA GUERRA IN UCRAINA

re del «suicidio dell’Occidente liberale», in cui gli Stati Uniti decisero l’ingresso
della Cina nel nell’Organizzazzione mondiale del commercio, l’invasione dell’Iraq
e il secondo allargamento della Nato. Con l’effetto di trasformare la Cina nella prin-
cipale minaccia geoeconomica, di spingere Mosca verso Pechino e di offrire a en-
trambe l’occasione di sfruttare il boomerang occidentale della «lunga guerra al ter-
rore» sfondando il settore centrale del containment atlantico dell’Eurasia e dilagan-
do in Medio Oriente e nell’intera Africa. Incoraggiando anche gli altri ex imperi
asiatici (Turchia, Persia e India) a ridiscutere l’egemonia, sedicente «benigna», degli
Stati Uniti. Conseguenze prevedibili, e previste dalla minoranza di politologi realisti
(come George Kennan, Henry Kissinger e John Mearsheimer), ma volutamente
ignorate in ossequio all’ideologia liberal, che ha sostituito il progressismo socioe-
conomico del secolo scorso con un cupo estremismo messianico e distopico che
porta a ignorare e fraintendere non solo le ragioni e gli interessi del resto del mon-
do, ma lo stesso principio di realtà. Quel che noi chiamiamo «guerra russo-ucraina»
è solo un aspetto, vistoso ma non centrale e tanto meno decisivo, di una transizio-
ne storica di cui non è possibile prevedere durata ed esiti.
CRISTADORO Mi viene in mente un parallelismo paradossale tra la guerra condotta
dagli Usa in Vietnam e il confitto tra Russia e Ucraina. Gli Usa, in Vietnam, stavano
per vincere sul piano tattico, ma persero a livello strategico. Allo stesso modo, la
Russia può senz’altro vincere sul campo, anche grazie alla clamorosa superiorità
numerica: i russi, infatti, possono permettersi di sacrifcare quattro soldati per ogni
ucraino che riescono a uccidere, tanto sono impari le forze sul piano quantitativo.
In termini strategici, però, Mosca ha già perso. All’inizio di dicembre, Putin ha te-
nuto un discorso in cui ha affermato di voler continuare l’operazione militare spe-
ciale in Ucraina, sottolineando che «l’annessione di ogni nuovo territorio è un im-
portante risultato». Con queste dichiarazioni, Putin vuole far accettare alla popola-
zione la guerra di lungo periodo. Ciò signifca che la Russia non è in grado di ot-
tenere una vittoria nel breve periodo. Putin, in quello stesso discorso, ha fatto rife-
rimento a Pietro il Grande, sottolineando come egli, al pari dello zar, sia riuscito a
garantire a Mosca il controllo del Mar d’Azov. Da queste premesse, capiamo che
per il presidente russo vincere signifca oramai ottenere il riconoscimento di quei
territori che è riuscito ad annettere. Ma questa è una vittoria esclusivamente tattica.
La sconftta strategica è data dalla sempre più pressante necessità di mantenere il
consenso interno e dall’aver compromesso la propria credibilità internazionale. Su
un punto, però, bisogna essere cauti: per quanto Putin abbia perso prestigio, prima
o poi qualcuno tornerà a fare affari con lui, almeno a livello economico. Pecunia
non olet.
DOTTORI Di guerre in corso a mio avviso ce ne sono almeno due. La prima è quel-
la che si combatte sul campo tra Ucraina e Russia. La seconda è quella che con-
trappone la Russia all’Occidente: ha una dimensione economica e logistica impor-
tante, investendo le forniture energetiche russe all’Europa e gli aiuti militari della
Nato a Kiev. Lo scontro tra ucraini e russi è parte di quello più ampio che coinvol-
70 ge l’intero Occidente. Il legame emergerebbe ancora più chiaramente qualora, in
LA GUERRA CONTINUA

seguito a una crisi militare ucraina, la Polonia decidesse di intervenire direttamente


con il proprio esercito in Ucraina. È uno sviluppo possibile, dato l’andamento del-
le operazioni. La Russia ha fallito il blitz e, dopo la controffensiva ucraina della
scorsa estate, ha adottato una strategia di attrito che mira a consumare la compo-
nente organica dello strumento militare ucraino, sfruttando la superiorità demogra-
fca nazionale di quattro a uno. Questo rapporto numerico permette ai russi di
considerare strategicamente conveniente qualsiasi tattica comporti un tasso di per-
dite proprie inferiore al quadruplo di quelle infitte. È l’attrito nella sua forma più
brutale. Sembra che stia funzionando. Tuttavia non è certo che questo approccio
costosissimo in termini di vite umane non determini una reazione ostile della so-
cietà russa.
Le motivazioni di questa guerra sono diverse per i russi e per gli ucraini: questi
ultimi combattono per la loro libertà e per la loro terra. Sono estremamente moti-
vati. In Russia la situazione è probabilmente differente: la guerra gode di ampio
consenso nelle fasce più anziane della popolazione, meno in quelle più giovani.
Quindi non è detto che si vada fno in fondo: il massacro può essere fermato, an-
che senza che gli obiettivi di guerra russi siano raggiunti. È però fondamentale che
a Mosca nessuno pensi di essere sul punto di una disfatta catastrofca del genere
di quelle subite nel 1917 e nel 1991. Evitarla è l’unico motivo che potrebbe indurre
la Russia a utilizzare le armi nucleari. In un certo senso, tuttavia, Mosca ha già per-
so: volevano impedire l’allargamento della Nato e l’Alleanza Atlantica è sul punto
di accogliere Svezia e Finlandia, Turchia (e non Russia) permettendo. Inoltre, se
non sarà debellata, nessuno potrà negare a Kiev l’accesso alla Nato. L’Ucraina non
rinuncerà infatti al destino euroatlantico che ha iscritto nel preambolo della sua
costituzione: combatte anche per questo.
Tornando alle origini del confitto tra Russia e Occidente, a mio avviso parte da
lontano, dal 2003, quando i neoconservatori americani convinsero George W. Bu-
sh ad attaccare l’Iraq per avviare la democratizzazione del Medio Oriente. Nacque
infatti allora il fronte del No, di cui la Russia era capofla assieme alla Francia e
alla Germania. Lo «spirito di Pratica di Mare» venne meno e di lì a poco iniziarono
le rivoluzioni colorate, che agli occhi di Mosca erano una ritorsione americana per
l’opposizione a Iraqi Freedom. È in quel momento che iniziò a serpeggiare la sf-
ducia reciproca. Seguì l’ingresso nell’Alleanza Atlantica degli ex alleati dell’Urss. E
lo scontro prosegue. L’Occidente, comunque, lo sta vincendo: ha separato la Rus-
sia dall’Europa e di fatto ha sensibilmente ridotto i margini d’iniziativa di cui gli
amici di Mosca disponevano fno al 24 febbraio 2022. Ritengo che i russi non po-
tranno essere reintegrati a pieno titolo nella comunità delle potenze senza essere
prima sconftti e quindi indotti al ripensamento della propria postura.
ILARI Non sono d’accordo. Non è Putin ma la Russia che il 24 febbraio si è gioca-
ta tutto; e lasciamo ai tifosi e ai posteri discettare futilmente quanto a torto e
quanto a ragione. La Crimea non è solo un simbolo: è la chiave indispensabile per
l’accesso a quello che Limes chiama il Medioceano. E la Crimea non può essere
sicura senza il controllo del Mar d’Azov e dunque senza le altre quattro oblast’ 71
UN ANNO DOPO. CHE COSA È DIVENTATA LA GUERRA IN UCRAINA

ucraine che la Russia occupa parzialmente e che si è annessa senza defnirne i


confni. È la Crimea con Azov a fare la differenza tra Moscovia e Russia. I nostri
governi, appiattiti sui media, pretendono di combattere una guerra limitata, e
sempre più chiaramente per procura, contro chi ha scelto di vincere o perire.
Quanto più i russi hanno successo, accrescendo il rischio di scontro diretto con la
Nato, tanto più torna puntualmente a circolare la cinica e vile teoria del salasso
alla Russia in vista di una «sconftta non catastrofca», ridicola e tragica mediana di
sangue tra avanzate e ritirate, con tanti saluti all’eroica e martoriata Ucraina di cui
ci riempiamo ipocritamente la bocca. Ma se la guerra è a morte, non esistono più
mediane, come dice Tolstoj in Guerra e pace: «Si getta la spada, si afferra un ba-
stone e si colpisce fnché il disgusto e la pietà non prevalgono sull’odio e sulla
paura». Su questo punto la propaganda iniziale della Nato e dell’Unione Europea
concordava paradossalmente con la tesi di Mearsheimer: questa è una guerra «a
somma zero», come dicono gli strategologi affascinati dalla teoria dei giochi. Ossia
«se vince Romolo, vuol dire che perde Remo», come diceva la barzelletta disfattista
del 1940-43.
Se lo scontro è fra Washington e Mosca, non tiene il paragone con le altre due
sconftte a cui l’America è sopravvissuta. Queste semmai dimostrano quanto poco
la superiorità militare abbrevi e decida le guerre. Cominciato scherzando, il Vie-
tnam è durato dieci anni e ce ne sono voluti altri otto (più gente eccezionale come
Reagan e Kissinger) per riprendersi e chiudere la guerra fredda. Cominciata con la
trappola afghana che affrettò il collasso dell’Urss, la lunga guerra globale contro il
terrore ha occupato l’intero primo ventennio del XXI secolo. Oggi l’America sem-
bra essere uscita dalla trappola afghana solo per fccarsi in quella ucraina (chiun-
que sia stato a tenderla). Ormai c’è dentro fno al collo e andrà avanti pagando
tutto il prezzo che sarà imposto dalla Russia, prima per non cedere e poi per aver
ceduto. Cercando di scaricarlo il più possibile sui vecchi alleati continentali, vedo-
vi dell’asse geopolitico con la Russia e incapaci – una volta privi di Angela Merkel
– di frenare sul piano inclinato imposto dall’Inghilterra e dai nuovi alleati.
LIMES E la Cina?
ILARI La Cina è il rivale strategico degli Stati Uniti, ma solo in potenza e comunque
ancor meno alternativo di quanto sia stata l’Unione Sovietica. La Cina non potrà
mai essere communis patria, come gli Stati Uniti sono stati durante la guerra fred-
da. Ciò facilita la penetrazione commerciale, ma Pechino sa di non poter sostituire
Washington e non riesco a immaginare che possa neppure desiderarlo.
Ancora una volta il problema siamo noi. Prima abbiamo scelto di conviverci, poi ci
siamo fatti prendere dal panico, sragionando di trappola di Tucidide e altri arzigo-
goli pseudostorici che infarciscono penosamente la letteratura strategico-geopoliti-
ca. Dimenticando che in guerra il fattore decisivo è il tempo e che per tradizione,
struttura e desiderio di riscatto dal secolo delle umiliazioni la Cina guarda più
lontano di noi. La differenza di mentalità si rifette bene nei rispettivi giochi di stra-
tegia: noi faustiani abbiamo gli scacchi, loro confuciani il weiqi (go). La Cina gua-
72 dagna tempo e spazio dal pantano ucraino, che distoglie l’Occidente dal Pacifco,
LA GUERRA CONTINUA

dal Golfo, dall’Africa e dal Sud America, e che accresce la dipendenza della Russia
dalla Cina. E sceneggiando su Taiwan, distoglie l’attenzione dalla rotta artica.
DOTTORI Un anno fa pensavo che i cinesi si sarebbero in qualche modo rafforzati,
magari mediando con la Russia e cercando di ottenere qualcosa da Washington. Mi
sono evidentemente sbagliato. In realtà, Pechino si sente danneggiata dal protrarsi
della guerra e dall’indebolimento russo. I cinesi vedevano nella Russia un alleato
forte, in grado di stabilizzare l’Eurasia, proteggendo così le nuove vie della seta.
Invece, alla fne dei conti, si ritrovano con un partner in diffcoltà, il cui prestigio
politico-militare è stato scosso. Non sottovalutiamo, peraltro, che in America non
tutti sono d’accordo sul fatto che la Cina sia il nemico numero uno: per i repubbli-
cani è certamente così, e in questo senso vanno viste le aperture di Trump alla
Russia. Per i democratici, invece, la Russia è ancora il male assoluto, perché veico-
la un’ideologia radicalmente conservatrice che agli occhi di alcuni ne farebbe la
guida della destra globale, una formazione transnazionale di cui sarebbe parte
forse anche il Partito repubblicano. Parliamo ovviamente di percezioni.
CRISTADORO Noi spesso parliamo della competizione tra queste tre grandi potenze,
ma dobbiamo tenere a mente che hanno tutte enormi problemi interni. Pensiamo
alla tempesta americana e al clamoroso fallimento dell’Afghanistan. La Russia è
frammentata internamente e la guerra la sta distruggendo anche economicamente.
La Cina è stata messa in ginocchio dal Covid, che ne ha mostrato le criticità interne,
svalutandone anche il marchio. Al di là dei contrasti, queste grandi potenze hanno
a che fare con problematiche interne, che non possono essere sottovalutate.
LIMES Come è la situazione sul campo in Ucraina? Dove vogliono arrivare russi e
ucraini? Come potrebbe fnire la guerra?
CRISTADORO Come abbiamo detto, c’è un rapporto di quattro a uno tra attacco e
difesa. Cosa non straordinaria, perché è la condizione numerica di base per fare un
attacco, dato che chi difende è avvantaggiato. I russi hanno questa superiorità nu-
merica, però nella guerra di posizione che si sta svolgendo tra Bakhmut e Donec’k
stanno subendo perdite enormi. Certo, stanno combattendo soprattutto mercenari
e persone appositamente scarcerate, la cui perdita non impatta più di tanto sull’o-
pinione pubblica. Sul campo ci sono diversi contrattacchi locali degli ucraini. So-
stanzialmente, i russi attaccano guadagnando posizioni. Poi, però, si fermano. Al-
lora gli ucraini contrattaccano e i russi ripiegano. È un modello da prima guerra
mondiale, da trincea. In alcune zone, i russi non hanno più logistica medica, per-
ché stanno subendo tantissime perdite che non riescono a gestire. Curare i feriti sta
diventando un problema, non hanno sangue per le trasfusioni.
Per quanto riguarda gli ucraini, è evidente che Kiev voglia ricacciare i russi nei loro
territori, all’altezza di Rostov sul Don. I russi vorrebbero arrivare quantomeno a
Lyman, persa dal generale Lapin che infatti ha subìto un promoveatur ut amoveatur.
È uno snodo logistico fondamentale perché in quel settore la rete viaria (strade e
ferrovie) è importante tanto per i rifornimenti alle truppe impegnate negli scontri
quanto per lo sgombero dei feriti. Al momento, i russi hanno perso quella zona. E
hanno perso anche i territori a sud di Kharkiv e intorno a Kherson. I russi sono 73
UN ANNO DOPO. CHE COSA È DIVENTATA LA GUERRA IN UCRAINA

arrabbiati perché costretti a cedere pezzi di territorio che avevano conquistato e che
servivano per legittimare una sconftta accettabile, facendola passare per vittoria. In
questo momento, oltre al personale precettato d’autorità, Mosca sta mandando al
fronte i mobilitati appartenenti alla «riserva volontaria» (Bars), che però stanno già
subendo numerose perdite, accanto ai mercenari della Wagner. Inevitabilmente, la
Russia dovrà ricominciare a mobilitare. Questa guerra sta facendo tantissime vittime
ed è per questo che si evitano battaglie nei grandi centri abitati, dove le morti au-
mentano esponenzialmente. Nessuno ha le risorse umane necessarie.
Non dimentichiamoci, inoltre, che gli ucraini sono estremamente motivati. Hanno
una fortissima volontà di vendetta. Al contrario, ci sono soldati russi che disertano
e che vengono giustiziati se scoperti.
Sul piano quantitativo, i russi possono mobilitare rapidamente altri trecentomila
uomini. Ma poi bisogna vedere quanti non si presenteranno alla coscrizione, quan-
ti diserteranno. È già successo nell’ultima mobilitazione. In linea teorica, comun-
que, i russi possono arrivare a impiegare anche due milioni di uomini.
Gli ucraini possono mobilitare, con uno sforzo enorme, circa un milione di uomini,
ma più realisticamente fno a seicentomila. È interessante che, per ora, i russi stiano
mobilitando poche donne, mentre ci sono molte donne ucraine al fronte. Ciò,
nuovamente, è sintomo della differente carica motivazionale dei due paesi.
Non è possibile escludere che la guerra termini con uno scenario coreano. Ma
comunque gli ex florussi dovrebbero abbandonare i territori ucraini, perché le
epurazioni saranno estremamente severe. Altrimenti, potrebbe fnire con una bal-
canizzazione, con la creazione di enclave da tutelare col peacekeeping.
ILARI Le perdite russe (che al 15 gennaio la Bbc stimava a oltre 22 mila caduti e
77 mila tra feriti, dispersi, disertori e prigionieri) sono, al momento, composte
per il 36% dalle milizie del Donbas e dalla Wagner. I caduti appartenenti alle
forze regolari della Federazione Russa saranno al massimo 15 mila, per lo più
tratti da aree periferiche e non di etnia russa. L’impatto sul morale dell’esercito
dipende dal successo. Senza contare che l’esperienza del fronte agguerrisce chi
sopravvive. Come disse a luglio un uffciale ucraino: «Adesso i russi stupidi sono
tutti morti».
Sotto il proflo militare, a parità di caduti e feriti, l’Ucraina è in svantaggio di quat-
tro a uno, e il differenziale di patriottismo ed eroismo non può supplire in eterno.
Il suo armamento ex sovietico si sta esaurendo e quello occidentale è insuffcien-
te per mezzi, munizioni e catena logistica. La brutale strategia di bombardamento
aereo e missilistico della rete energetica incide anche sotto il proflo militare. Con
tutto ciò l’Ucraina non è a rischio di essere interamente occupata né ovviamente
spartita come nel 1921. È possibile che l’offensiva russa si concentri su Zaporižžja:
sia perché le riserve ucraine che dovevano sfondare su Berdjans’k tagliando in
due le forze russe e minacciando la Crimea sono state consumate nell’inutile di-
fesa di Bakhmut, sia perché una volta caduta Zaporižžja sarebbe segnata anche la
sorte delle forze ucraine nel Donbas. Se riuscisse nell’intento entro marzo, prima
74 dell’arrivo dei due battaglioni di Leopard, la Russia avrebbe interesse a fermarsi e
LA GUERRA CONTINUA

trattare. Non però l’Ucraina e la Nato, motivo per cui seguirebbe una nuova con-
troffensiva con un maggiore coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica.
DOTTORI Tornerei sul discorso del rapporto quattro a uno. Qui non si tratta di far
valere una superiorità locale per realizzare uno sfondamento o un aggiramento.
Qui si cerca invece di «consumare» letteralmente gli ucraini creando un tritacarne
come a Verdun. Per questo è guerra totale: agli occhi dei russi più anziani è giusto
sacrifcare i giovani, anche tanti, purché muoia il maggior numero di ucraini. Chi
deve andare a combattere, ovviamente, la pensa diversamente: c’è sicuramente
una frattura generazionale, ma non sono i ragazzi a decidere. Se il meccanismo è
questo, e si è disposti a sostenere perdite eccezionali, è chiaro che Mosca pensa
ancora di poter imporre la propria volontà a Kiev.
Restando al paragone con la prima guerra mondiale, non è escluso che al Cremlino
qualcuno punti tuttora alla «vittoria di Hindenburg», cioè alla debellatio di Kiev. E
qui sorge il quesito se l’Occidente lo possa o meno tollerare. Non ci sono certezze.
Tuttavia, alla vigilia dell’attacco russo all’Ucraina, Zelens’kyj era stato abbandonato
al proprio destino. Se «perdessimo» ora la guerra sul campo, avremmo comunque
indebolito sensibilmente la Russia. E non sarebbe la fne della supremazia statuni-
tense: l’America fu sconftta in Vietnam, ma vinse la guerra fredda. Il conto più
salato lo pagherebbe l’Europa, che verrebbe costretta a rinunciare per un periodo
prevedibilmente molto lungo a qualsiasi interazione con la Russia, indebolendosi
economicamente e forse anche geopoliticamente. D’altra parte gli Stati Uniti non
hanno più lo stesso interesse al successo del federalismo europeo che contraddi-
stinse la loro azione ai tempi del Piano Marshall.
LIMES Come si comporterebbe l’Italia in caso di confitto tra Nato e Russia? E come
vi comportereste se foste Zelens’kyj o Putin?
ILARI Possiamo fornire intelligence, forze aeronavali, polizia militare e ad pompam
un paio di battaglioni per insaporire i pasticci di passero e d’elefante sperimentati
nelle «missioni di pace» e nella dozzina di brigate miste che la Nato ha dislocato a
scopo dissuasivo lungo le sue frontiere avanzate. Alla Cernaia i caduti piemontesi
furono 91 e il resto morì di colera. Cercheremmo, come del resto tutti, tranne bal-
tici e polacchi, di farci e fare il minor male possibile. Non vedo perché i russi do-
vrebbero sprecare un missile ipersonico per noi. Ma siamo vulnerabili agli attacchi
informatici, satellitari ed energetici, oltre all’eventuale fall-out nucleare.
Se fossi Zelens’kyj, Putin o Meloni farei esattamente ciò che stanno facendo, non
perché li approvi, ma perché non avrei scelta. Se fossi Biden o Scholz farei Trump
o Merkel. Non vedo Churchill, Roosevelt o Truman in giro da noi. Il resto sono
personaggi insignifcanti e perciò assolutamente intercambiabili.
DOTTORI In Italia non abbiamo molto da offrire, se il problema fosse quello di spie-
gare in Ucraina truppe che ora iniziano a scarseggiare. Non è un limite solo italia-
no. Nessuno possiede più in Europa eserciti di massa potentemente corazzati. Nel
1991 si è smesso di credere all’eventualità di un grande confitto convenzionale nel
nostro continente e si sono adottati modelli di strumento militare adeguati a scena-
ri del tutto diversi: operazioni di polizia internazionale o peacekeeping in terre 75
UN ANNO DOPO. CHE COSA È DIVENTATA LA GUERRA IN UCRAINA

remote. Così, la nostra assicurazione sulla vita è ora più che mai la dissuasione
nucleare. Per questo motivo è grave che sia stata messa in discussione e che nes-
suno creda più all’ipotesi che la Bomba possa essere utilizzata. Ciò nonostante, una
guerra diretta tra la Nato e la Russia mi pare ancora improbabile. Meno irrealistico
è invece un intervento polacco al di fuori della cornice dell’Alleanza Atlantica, nel-
lo scenario estremo di un collasso ucraino. Salvo il caso di massiccia rappresaglia
russa contro gli alleati europei degli Stati Uniti, la Nato ne resterebbe fuori. Comun-
que siamo fortunatamente ancora molto lontani da tutto questo. Peraltro, non
aiuta la causa del negoziato e della tregua la circostanza che Putin e Zelens’kyj
abbiano ingaggiato tra loro un duello personale che andrà avanti fnché uno dei
due non cadrà. Siamo in presenza di uno scontro che riguarda due paesi, ma anche
due leader che non hanno molti margini di compromesso.
CRISTADORO La Nato può intervenire solo se attaccata da un nemico esterno. Se, per
ipotesi, ci fosse un attacco polacco alla Russia, anche autorizzato dagli Usa, la Na-
to non entrerebbe automaticamente in guerra.
Qualora però il confitto si allargasse, l’Italia si comporterebbe da alleato: se doves-
se arrivare l’ordine di partecipare, procederemmo a contribuire con i mezzi, le
unità e gli uomini necessari. Sicuramente ci impegneremmo poi nel peacekeeping,
ma ciò implica una situazione pacifcata.
Anche io ritengo che Putin e Zelens’kyj non possano fare diversamente. Ci sono
troppi punti di non ritorno. Per Putin le cose sono andate troppo per le lunghe,
oramai si è compromesso. Zelens’kyj che altro può fare?

76
LA GUERRA CONTINUA

L’IMPERATORE È SOLO
COME IL SUO IMPERO di Orietta MOSCATELLI e Mauro DE BONIS
Putin si identifica con la Russia quale inviato di Dio per salvarla. Il
timore per l’unità della Federazione supera quello per la campagna
in Ucraina. La rottura con l’Occidente invita a guardare a est, ma
la penetrazione cinese in Asia centrale frustra questa aspirazione.

1. N ELLA NOTTE DEL NATALE ORTODOSSO


al Cremlino è stato celebrato il funerale del «Putin collettivo»: il leader russo si è fat-
to riprendere mentre assiste alla messa in totale solitudine; con lui nella chiesa
dell’Annunciazione lo ieromonaco Iosif dell’eparchia di Sergiev Posad, altri due
prelati e un coro di quattro giovani monaci. Putin ostentatamente «singolo», senza
corte e senza alleati davanti all’iconostasi. Il messaggio è che «il capo dello Stato
assume la responsabilità del destino del paese al cospetto di Dio e di tutto il popo-
lo», dice un consigliere del cosiddetto blocco politico dell’amministrazione presiden-
ziale, responsabile tra l’altro della comunicazione e dell’immagine del potere. Dietro
una simbologia di vago sapore mistico traspare l’allontanamento dal cerchio magico
che per oltre un ventennio ha rappresentato la dimensione collettiva della leader-
ship putiniana. Quel gruppo che siede nel Consiglio di sicurezza della Federazione
Russa, chiamato il 21 febbraio 2022 a sottoscrivere in diretta televisiva la decisione
di invadere l’Ucraina. Pochi giorni dopo, in tv venne trasmesso un incontro al Crem-
lino con imprenditori e oligarchi a capo delle principali realtà economiche del pae-
se, altra componente della gestione collegiale arrivata al capolinea con la guerra.
L’ostentata solitudine è tattica in vista di mesi durissimi e anche frutto di una
crescente insofferenza del capo per compagni di viaggio che non si sono mostrati
all’altezza delle sue ambizioni. Gli avevano prospettato un intervento lampo e a di-
stanza di un anno c’è una feroce guerra di logoramento di cui è impossibile preve-
dere la fne imminente, salvo implosione di una o entrambe le parti belligeranti.
Putin, raccontano in ambito governativo, è preoccupato dalla tenuta interna della
Russia ancora più che dal corso dell’operazione militare speciale in Ucraina. I due
fronti sono ovviamente interconnessi e nei prossimi mesi bisognerà prendere «deci-
sioni molto dure», impossibili da realizzare senza il consenso dell’opinione pubblica,
o quantomeno la sua acquiescenza. I sondaggi dicono che il sostegno all’operazione 77
78
LA GRANDE PARTNERSHIP EURASIATICA
1 BIELORUSSIA
2 UZBEKISTAN
3 KIRGHIZISTAN
4 TAGIKISTAN
5 LAOS
6 THAILANDIA
7 CAMBOGIA FEDERAZIONE RUSSA
8 BRUNEI

Paesi membri
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO

Eaeu Eurasian 1 di Eaeu e Sco


Economic Union Bielorussia
Federazione Russa KA ZAKISTAN Federazione Russa
Armenia MONGOLIA
Kazakistan
Bielorussia Kirghizistan
Kazakistan 2 3
Kirghizistan 4
CINA Sco Shanghai Cooperation
IRAN AFGH. Organization
(Paesi osservatori inclusi)
Asean Association of PAKISTAN Afghanistan
Southeast Asian Nations Bielorussia
INDIA Oceano Pacifico Cina
Brunei
Cambogia 5 Federazione Russa
Filippine MYANMAR 6 VIETNAM FILIPPINE India
Indonesia 7 Iran
Laos SINGAPORE Kazakistan
8 Kirghizistan
Malaysia MALAYS
I
A

Myanmar Mongolia
SINGAPORE
Singapore Pakistan
Thailandia Tagikistan
Oceano Indiano IND
Vietnam ONESIA Uzbekistan
LA GUERRA CONTINUA

speciale è stabile su una maggioranza composita e nel suo insieme obbediente,


mentre le percentuali di approvazione dell’operato presidenziale nel complesso so-
no sempre altissime: su questa divaricazione poggia l’idea del pilota unico al volan-
te. Mesi di misurazioni demoscopiche e gruppi di studio confermano una collettività
russa sostanzialmente inerte, incapace di opporsi e soprattutto non disposta ad ac-
cettare l’idea che la sconftta del proprio paese possa essere una soluzione. Quindi
nell’apparato presidenziale ritengono che ci sia la riserva di sostegno popolare ne-
cessaria per i prossimi sette, dieci mesi, che in un modo o nell’altro saranno decisivi.
O perlomeno così la raccontano a Putin, leader indebolito ma confortato dall’assen-
za di alternative e in ogni caso senza possibilità di ritorno da una impresa bellica in
cui si gioca tutto e tutti, compresa la sopravvivenza della Federazione Russa.
L’orizzonte è quello del 2023, anno elettorale e di vigilia delle presidenziali in
agenda per marzo 2024. Fonti del Cremlino fanno fltrare informazioni sui prepa-
rativi per il secondo appuntamento con le urne, partendo dal presupposto che
Putin si ricandiderà 1. La riforma della costituzione operata nel 2020 permette in
teoria altri due mandati al leader oggi settantenne e in sella da quasi un quarto di
secolo. Putin non ha mai preso posizione al riguardo e non lo farà probabilmente
sino al prossimo dicembre. A quel punto, la situazione in Ucraina dovrà presenta-
re un quadro più chiaro, «equiparabile a una vittoria». Sui termini dell’equazione
nessuno si sbilancia: «Dipende dai prossimi mesi, potete immaginare che la guerra
inizia di nuovo adesso», azzarda un consigliere coinvolto nelle attività preelettorali.
Il confitto però compie un anno. Putin ha gradualmente preso le distanze
anche dai sodali dei tempi del Kgb che hanno condiviso con lui il percorso verso
il precipizio bellico. Anche con i più stretti collaboratori gli incontri sono ridotti al
minimo, perlopiù via Internet. Di rado un passaggio con Nikolaj Patrušev, il segre-
tario del Consiglio di sicurezza, collega e amico da decenni: alla vigilia dell’invasio-
ne avrebbe chiesto di attendere, salvo poi adeguarsi, e con lui Putin discute anco-
ra dei rapporti con la Cina, per niente semplici eppure vitali. Un decisivo contribu-
to fnale verso l’invasione sarebbe arrivato invece dal direttore del Servizio federa-
le di sicurezza (Fsb) Aleksandr Bortnikov, a cui è attribuita l’idea di far partire il
primo contingente per Kiev con un carico di uniformi da parata, perché i russi
sarebbero stati accolti a braccia aperte e nel giro di una settimana si sarebbe potu-
to celebrare. Comprensibilmente, Bortnikov non lo si vede da un po’, e non vi è
traccia di suoi recenti interventi pubblici, comunque rari anche prima della guerra.
Nel cerchio ormai poco magico ci sono possibili reggenti in caso il presidente
dovesse farsi da parte per questioni di salute o nell’eventualità, piuttosto remota, di
un’uscita di scena forzata da proteste di massa. Lo stesso Patrušev potrebbe essere
chiamato (o cercare di piazzare il fglio Dmitrij, dal 2018 ministro dell’Agricoltura)
come pure l’eterno fedelissimo Dmitrij Medvedev. L’ex premier ed ex presidente,
soprattutto ex favorito delle cancellerie occidentali, ha assunto il ruolo di oracolo
di sventura per i nemici della Russia, lasciando tutti nel dubbio su quanto ci creda

1. A. VINOKUROV, «Vybory ne za gorami» («Le elezioni non sono così lontane»), kommersant.ru, 13/1/2023. 79
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO

o quanto si sia adeguato, sperando in un altro giro di giostra al Cremlino. Si tratta


comunque di fgure senza un’agenda propria, guidate dall’assunto che il presiden-
te resterà in sella per un quinto mandato e che il putinismo è abbastanza blindato
da reggere a un improvviso cambio di guardia al vertice.

2. La prospettiva di un Putin V agita e paralizza il sistema. Cresce il malconten-


to e nulla si muove. «C’è uno stato di inerzia totale che riguarda sia l’élite sia l’opi-
nione pubblica, in diverso modo incapaci di agire», sostiene in un colloquio con
Limes Vladimir Gel’man, professore universitario a San Pietroburgo e Helsinki, fne
analista dei meccanismi del potere russo. «Molti capiscono perfettamente che le
cose non vanno come avrebbero dovuto, ma non si va oltre la constatazione, al-
ternative non ce ne sono e non ci saranno fnché Putin sarà al potere. Potrebbe
trattarsi di un periodo ancora lungo». Secondo Gel’man, il passaggio dal Putin col-
lettivo a un Putin sempre più singolo non è mera conseguenza della guerra, ma di
«una evoluzione del sistema che dal 2012 è sempre più marcatamente personalisti-
co, ha gradualmente eliminato ogni dissenso e depotenziato i contrappesi al leader
unico: gli oligarchi, i responsabili regionali, gli apparati amministrativi».
Per Lev Gudkov, sociologo e direttore scientifco del Centro Levada, invece, si
è ben oltre il regime personalistico, anche oltre l’autoritarismo: «Oggi possiamo
dire che in Russia vige di nuovo un regime totalitario. Dal punto di vista ideologico
c’è un irrigidimento su concetti recuperati dai tempi di Stalin, anche la retorica
della lotta con il nemico interno è degli anni Trenta e accompagna misure di re-
pressione contro ogni possibile forma di opposizione, mentre vengono recuperate
istituzioni corporative di natura totalizzante come le organizzazioni per l’infanzia e
la gioventù sul modello sovietico dei Pionieri, il Komsomol e oggi la Junarmija. Ci
sono pochi dubbi sui processi in corso».
Gudkov si dice «allarmato dal livello di passività della popolazione russa, che
non vuole la guerra però in un modo o nell’altro vi partecipa» e consiglia di non
aspettarsi proteste di massa in un prevedibile futuro. Eppure, la possibilità che
dissenso e malcontento trovino canali di sfogo nelle prossime elezioni è studiata
attivamente al Cremlino. Il 10 settembre si vota per i governatori e le assemblee
regionali e municipali di oltre 20 soggetti della Federazione, compresi i territori del
Sud-Est e del Sud ucraino dichiarati annessi a fne settembre e dopo mesi solo
parzialmente sotto il controllo russo. Preoccupano le chiamate alle urne in aree
come le repubbliche di Jacuzia-Sakha e di Altaj o il territorio di Primor’e, dove la
mobilitazione ha fatto afforare nuove tensioni e vecchie incongruenze nel rappor-
to con il centro federale. Si voterà anche per il sindaco di Mosca, partita di massimo
rilievo anche senza considerare che l’attuale primo cittadino è in lista per una
eventuale successione a Putin.
Per il sistema di potere russo le elezioni sono una verifca del funzionamento
della macchina, molto prima di una valutazione del consenso per l’una o l’altra
formazione politica. Le stesse divisioni dell’amministrazione che hanno scritto il
80 copione della notte natalizia sono incaricate di individuare temi elettorali che pos-
LA GUERRA CONTINUA

sano reggere in ogni scenario. Il che signifca applicarsi all’unico tema non passi-
bile di revisioni da qui all’estate, cioè allo scontro con l’Occidente per la sovranità
e l’esistenza stessa della Russia. C’è anche un gruppo di lavoro su un «nuovo corso»
post-bellico incentrato sul rilancio di una «economia sovrana» con cicli produttivi
indipendenti dall’Occidente. Tuttavia si ragiona in termini di grandi categorie uti-
lizzabili in chiave elettorale, i piani concreti per la tanto invocata «nuova idea per
la Russia» latitano.

3. Nessuno, d’altra parte, crede all’imminenza di un armistizio. Questo impone


una radicale modifca dell’ennesimo patto tra Putin e il popolo russo. La macchina
della propaganda uffciale si attrezza per il cambio di registro: la guerra diventa
immanente. Il tradizionale messaggio di Capodanno Vladimir Vladimirovi0 l’ha
pronunciato con uomini e donne in divisa alle sue spalle, i toni da «guerra patriot-
tica» più che da operazione speciale: «Il destino della Russia, la difesa della Patria
sono nostro sacro dovere di fronte agli avi e ai nostri successori», ha detto con
l’espressione grave ispirata da «un anno di eventi davvero cruciali e fatidici» 2. Nella
stessa notte i missili ucraini hanno centrato un dormitorio delle truppe russe a Ma-
kiïvka e le autorità non hanno tentato di coprire la carnefcina, salvo attribuirla al
frenetico utilizzo di cellulari, teoricamente proibito ai soldati. Il bilancio della strage
è stato fssato a 89 morti e ha sdoganato la pubblicazione quotidiana di immagini
dei funerali di caduti al fronte nelle regioni della Federazione. L’immersione nell’at-
mosfera di guerra è promossa da una raffca di iniziative: ai cinema è stato ordina-
to di proiettare documentari sul confitto, al ministero dell’Istruzione di «aggiornare»
in gran fretta i libri per le scuole dell’obbligo. Dai cappelli iperpatriottici di alcuni
deputati spuntano progetti come il divieto di espatrio da affdare alla magistratura,
punizioni e pene detentive per i lavoratori poco effcienti nella produzione di for-
niture militari e premi per chi invece eccelle. Dopo tanti rovesci, lo spirito di mo-
bilitazione è stato confortato dalla conquista di Soledar, nel Donec’k, di incerto
valore strategico, ma inestimabile per l’umore delle truppe e dei russi.
La battaglia per Soledar ha anche portato alla luce del sole lo scontro tra i
vertici della Difesa ed Evgenij Prigožin, il fondatore del gruppo paramilitare Wa-
gner. Talmente palese da far pensare che a Putin non dispiaccia vedere il patron
dei mercenari strapazzare in pubblico il ministro della Difesa Sergej Šojgu e il capo
dello Stato maggiore Valerij Gerasimov, di recente posto al comando delle opera-
zioni militari in Ucraina. La nomina è stata vista come una retrocessione per il ge-
nerale Sergej Surovikin dopo solo tre mesi alla guida del fronte ucraino. Si tratta
piuttosto di una mossa da manuale putiniano: la nuova gerarchia per il teatro bel-
lico sottintende piani per una nuova offensiva, possibilmente su più fronti. Gerasi-
mov come capo di Stato maggiore era già il più alto in grado nel teatro bellico, ora
però è in prima linea, a raccogliere oneri certi e onori tutti da guadagnare. Nel 2014

2. «Novogodnee obraš0enie k graždanam Rossii» («Messaggio di Capodanno ai cittadini russi»), krem-


lin.ru, 31/1/2022. 81
82
IL CORRIDOIO RUSSO-MONGOLO-CINESE Progetti minerari
Progetti condivisi per il Cmrec
Ferrovia principale di collegamento
Tomsk Ferrovie esistenti
Krasnojarsk Progetto per il doppio
FEDERA ZI ON E R USS A binario a scartamento russo
Novosibirsk Ferrovia pianifcata
Ferrovia in costruzione

k al
Altre proposte di progetti ferroviari

Baj
Kuragino

o
Autostrada costruita dalla Cina

ag
L
Posti di blocco
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO

Irkutsk Čita Altri progetti


Tsentralny Kyzyl Ulan-Udė Porti principali
Central’nij Kaa-Khem
Elegest
Mežegej-Vostočnij Nuurstei Ereencav
KAZAKISTAN Kjahta
Arts Suuri Môrôn Manzhouli
Darhan
Ovoot Erdenet Nômrôg
Jilchigbulag Čojbalsan Qiqihar
Ulan Bator Harbin
Huut
M O N G O L I A Čojr Bičil
Sajnšand Changchun
Ürümqi
Miniera di carbone
Tavan Tolgoi Erenhot
Giacimento di carbone Khus
Complesso minerario Giacimento di Shenyang
rame e oro
Gašuun Sukhait
Jining Zhangjiakou Dandong

Datong
CMREC C I N A PECHINO Dalian
China-Mongolia-Russia Economic Corridor Tianjin Golfo di Liaodong
LA GUERRA CONTINUA

avrebbe bocciato l’idea di un intervento diretto in Donbas e all’epoca sì, poteva


essere una passeggiata per i russi, mentre un anno fa si è espresso a favore di una
missione lampo risultata chimera.
Lo scontro tra i vertici dell’esercito e dei volontari a contratto riguarda il peso
che una componente e l’altra avranno una volta terminato il confitto. Questione di
posizioni da occupare: Prigožin si gioca una nomina a livello federale, per tutti si
tratta di risorse da attribuire o accaparrarsi. Ma si tratta ancora prima della collisio-
ne tra diversi approcci alla guerra in corso. Alla Difesa, ministro Šojgu compreso,
prevalgono i sostenitori della via negoziale o comunque di una pausa nel confitto,
mentre wagneriani e alleati pensano che serva la mobilitazione totale, una nuova
offensiva su ampia scala e l’utilizzo di tutte le armi a disposizione, senza escludere
l’extrema ratio nucleare.
Attorno ai duellanti gravitano altri gruppi, con interessi divergenti in tempi di
pace ma posizioni affni sulla campagna militare in Ucraina. Al campo dei pragma-
tici vengono assegnati quasi tutti i tecnocrati, il primo ministro Mikhail Mišustin, il
capo della compagnia petrolifera Igor’ Se0in e anche quello del conglomerato mi-
litare-industriale Sergej 9emezov. Il responsabile della diplomazia Sergej Lavrov è
sospettabile di aver cercato la pensione per evitare il ruolo di ministro degli Esteri
di guerra, ma la funzione lo pone automaticamente tra gli addetti al negoziato e lo
esenta da ulteriori scrutini. Per ostilità senza freni si agita sempre il leader ceceno
Ramzan Kadyrov. Meno teatrali, sul medesimo tono insistono i fratelli Koval’0uk,
miliardari direttamente legati al Cremlino. Anche il presidente della Duma Vja0e-
slav Volodin, numerosi deputati del Partito comunista ed esponenti di Russia Unita
vorrebbe spingere sull’acceleratore.
Putin a volte sembra dare ragione ai moderati, a volte agli oltranzisti. Tutti
convengono che a questo punto non si può tornare indietro e al netto del silenzio
presidenziale nessuno osa alzare la testa oltre il limite ammesso. Nelle ore in cui
infuriavano i combattimenti decisivi per Soledar, il capo dello Stato sarebbe volato
direttamente dalla Baschiria a San Pietroburgo a incontrare il regista delle milizie
Wagner che si aspettava un salto di ruolo per la sua organizzazione, mentre avreb-
be dovuto incassare la richiesta di contenere le rivendicazioni e le invettive contro
l’esercito. Anche in tempi di guerra l’ambiguità resta l’arma preferita del numero
uno in diffcoltà.

4. La solitudine e le diffcoltà del capo del Cremlino fanno il paio con quelle
dell’intera Federazione Russa, paese in guerra chiamato a rimodulare il proprio
posto nel mondo. Sfornito di autentici alleati di peso e tranciati i legami con Euro-
pa e Occidente tutto, l’erede del già impero sovietico si trova giocoforza costretto
a guardare altrove per provvedere al sostentamento delle sue genti e mantenere
alto il proflo di potenza. Svoltare defnitivamente verso oriente appare la soluzione
più naturale, sia perché la Russia è eurasiatica per geografa e storia, sia perché
conta sulla possibile integrazione del macrocontinente ora che l’ordine globale a
guida americana è a parere di molti avviato al tramonto. 83
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO

Cercare in Eurasia e nelle strutture regionali esistenti un’alternativa di sviluppo


è progetto non nuovo. Il confitto ucraino lo ripropone come necessità più che
come scelta. Percorso disseminato di trappole fatali. Nel quadrante orientale Mosca
si presenta indebolita, faccata da un lungo e cruento anno di guerra e da miriadi
di sanzioni occidentali. Il peso diplomatico e di garante della sicurezza è inferiore
a quello misurato prima della campagna ucraina. Il rischio di perdere ulteriore in-
fuenza e autorità nelle aree ex sovietiche, come Caucaso e Asia centrale, è più che
concreto. Inoltre, l’urgenza di ricalibrare la proiezione geopolitica in direzione est
consegna alla Federazione minore potere contrattuale nelle trattative con altri co-
lossi eurasiatici, col rischio di dover svendere per lungo tempo le portanti ricchez-
ze energetiche e restare vittima degli interessi geopolitici della Cina alleata ma non
troppo.
Poco prima della fne dell’anno il presidente Putin ha assegnato ai responsabi-
li per lo sviluppo strategico i compiti per il 2023. L’Occidente ci vuole relegare alla
periferia del mondo, ha chiarito in videoconferenza, ma non sceglieremo l’autoiso-
lamento e l’autarchia. Semmai il contrario. L’obiettivo è imbastire rapporti e coope-
razione con regioni e mercati dinamici e cercare partner promettenti in parti del
pianeta che non siano Occidente. Ma soprattutto Putin ha dettato ai suoi il poten-
ziamento della dimensione eurasiatica del paese per ridurre l’impatto delle sanzio-
ni e snocciolato progetti da realizzare o ultimare utili a creare potenti rotte e corri-
doi tra il mercato russo e quello dei principali attori regionali 3.
Gli approcci a un inevitabile (ri)orientamento verso est, dunque a un’auspica-
bile e profcua integrazione eurasiatica, si colorano di sfumature diverse tra gli
analisti russi e gli addetti ai lavori (al netto di quanti rimpiangono lo sguardo verso
occidente distolto a causa del confitto). Alcuni tengono conto del grado di diffcol-
tà che vive oggi la Federazione, altri saltano l’ostacolo e ripropongono in chiave
dominante la partecipazione della Russia allo sviluppo regionale, sicuramente al
destino dei paesi ex Urss. La maggior parte delle tesi partono da un punto, dipinto
con diverse tonalità: l’ordine mondiale così come lo abbiamo conosciuto fno al
febbraio scorso, se non dall’inizio delle ostilità russo-ucraine nel 2014, è in crisi e
con esso la globalizzazione, tutta da rivedere. Lo scontro generale in atto rende
meno effcienti e sicure le reti di approvvigionamento planetarie e spinge verso
interazioni regionali che possono risultare più protette.
Questo il pensiero di Fëdor Luk’janov, direttore di Russia in Global Affairs,
espresso dopo il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco)
del settembre scorso. Secondo l’esperto russo, lo schema di un ordine mondiale
costruito dall’alto verso il basso sta lasciando il posto al suo contrario, dove ci si
può riunire in comunità regionali per entrare in modo più sicuro nel sistema glo-
bale. La vicinanza tra paesi rende in questo momento l’interazione più affdabile e
protetta. E può permettere all’interconnesso, ideale spazio eurasiatico di far emer-

3. «Zasedanie Sovieta po strategi0eskomu razvitiju i nacional’nym proektam» («Riunione del Consiglio


84 per lo sviluppo strategico e i progetti nazionali»), kremlin.ru, 15/12/2022.
LA GUERRA CONTINUA

IL POTERE DI PUTIN
Putin Presidenziali
Singolo 2024

Elezioni
2023

AMMINISTRAZIONE PRESIDENZIALE (BLOCCO POLITICO)


Sergej Kirienko (Vicecapo di gabinetto)

Putin Collettivo (indebolito)


Consiglio di sicurezza Nikolaj Patrušev (Segretario)
FSB - Servizio di sicurezza Aleksandr Bortnikov (Direttore)
SVR - Intelligence estera Sergej Naryškin (Direttore)
DIPLOMAZIA DI GUERRA: Sergej Lavrov Ministro degli Esteri
GLI OLIGARCHI

DI STATO (ALLINEATI/SILENTI)
LLINEATI/SILENTI) PRIVATI (IN BILICO)
Aleksej Miller Gazprom Oleg Deripaska Basic Element,
Element magnate
ma dell’alluminio
Igor’ Sečin Rosneft Mikhail Friedman Alfa Group, Alfa-Bank, di origini ucraine
German Gref Sberbank Roman Abramovič Agente di collegamento/negoziatore
Sergej Čemezov Rostech

DETENTORI DELLA VALIGETTA NUCLEARE INSIEME A VLADIMIR PUTIN:


Sergej Šojgu (Ministro della Difesa) e Valerij Gerasimov (Capo di Stato maggiore)

I PRAGMATICI IL PARTITO DELLA GUERRA


Primo Ministro Mikhail Mišustin Gruppo Wagner Evgenij Prigožin
Complesso militare Leader ceceno Ramzan Kadyrov
industriale Sergej Čemezov Duma Vjačeslav Volodin (Speaker)
Rosneft Igor Sečin Deputati - falchi (Russia Unita - Partito comunista)

MAGGIORANZA SOSTIENE PUTIN


Il popolo russo MA VORREBBE LA FINE DELLA GUERRA
85
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO

gere un «complesso geoeconomico autosuffciente». Secondo Luk’janov, il summit


Sco di Samarcanda lo dimostra. L’organizzazione può ritrovare slancio con la crisi
del vecchio schema di globalizzazione e i suoi membri sono partner naturali per
una grande associazione regionale, dove il valore dell’integrazione può superare le
storiche rivalità 4.
L’idea di una nuova struttura di cooperazione commerciale ed economica tra
la Federazione Russa e i suoi vicini asiatici ed eurasiatici viene riproposta a inizio
anno da Timofej Borda0ëv. L’analista russo ne individua le condizioni per la messa
a punto nella postura che la maggior parte dei paesi in questione hanno assunto
nei confronti di Mosca dopo l’inizio del confitto in Europa, come il non avvio
delle sanzioni. E immagina l’obiettivo di una possibile indipendenza dall’Occiden-
te e di una Russia ancora attore centrale 5.
Speranza vana se il Cremlino non darà prova di effcienza nello sviluppare
quelle infrastrutture necessarie a reindirizzare i fussi commerciali verso oriente.
Corridoi e rotte economiche lasciate colpevolmente indietro nonostante program-
mi e progetti messi in campo negli ultimi anni. E che ora si rendono più che ne-
cessari se il traguardo resta un’integrazione eurasiatica dove Mosca possa giocare
un ruolo almeno da coprotagonista, e non di pura spalla di Pechino o Delhi.
Nel discorso di dicembre il presidente Putin cita molti di questi progetti e chia-
risce che per ridurre l’impatto delle sanzioni occidentali e allargare il ventaglio
delle esportazioni sarà necessario lo sviluppo di infrastrutture, energetiche e non,
nel Sud e nell’Est del paese. Come il Power of Siberia 2, per portare le forniture di
gas verso oriente fno a 88 miliardi di metri cubi (mc) entro il 2030, o i nuovi im-
pianti di Jamal per arrivare alla produzione di 70 miliardi di mc di gnl sempre entro
fne decennio. Torna sulla modernizzazione delle ferrovie Transiberiana e Bajkal-A-
mur ancora in direzione est, elementi basilari per l’agognato e tardivo sviluppo
della Siberia e dell’Estremo Oriente russo. Non dimentica la dimensione artica
della Federazione, con il potenziamento della via marittima settentrionale. Lo stes-
so vale per quella meridionale, con l’ampliamento del Corridoio di trasporto inter-
nazionale Nord-Sud (Instc) verso il Mar Caspio, rotta essenziale per collegare la
Russia al Medio Oriente ma soprattutto a India, Iran e Asia centrale 6.
Il leader del Cremlino ricorda anche come la costruzione dell’autostrada Mo-
sca-Kazan’ prosegua. Questa collegherà la Federazione a Kazakistan, Mongolia e
Cina. Paesi, gli ultimi due, con i quali la Federazione intende proseguire nel pro-
gramma di corridoio economico dopo che in un incontro del novembre scorso i
leader mongolo e cinese hanno deciso di lavorare con la Russia per intensifcarne
la costruzione, accelerare la modernizzazione del corridoio ferroviario centrale e lo
sviluppo del gasdotto già citato attraverso la Mongolia, il cui inizio lavori è previsto

4. F. LUK’JANOV, «Globalizacija snizu vverkh» («Globalizzazione dal basso verso l’alto»), globalaffairs.ru,
21/9/2022.
5. T. BORDA0ËV, «Azija, Evrazija i evropejskij krizis: itogi 2022 goda» («Asia, Eurasia e crisi europea: i
risultati del 2022»), russiancouncil.ru, 9/1/2023.
86 6. Si veda la nota 3.
LA GUERRA CONTINUA

per il prossimo anno 7. Un passo ulteriore per legare Mosca a Pechino, nella spe-
ranza che il gigante asiatico possa in futuro assorbire le perdite dovute alla rottura
dei rapporti commerciali tra la Federazione e l’Unione Europea. Un rafforzamento
della cooperazione con la Cina che rimane priorità incondizionata della politica
estera del Cremlino, spiega il numero due della diplomazia russa Andrej Rudenko 8.
Col rischio però di diventarne vassalla, viste le turbolenze economiche previste in
arrivo sulla Russia. Oggi però partner irrinunciabile sia per la tenuta fnanziaria sia
per mantenere infuenza sulla regione ex sovietica dell’Asia centrale.

5. Se è vero, come suggerisce Andrej Kortunov, direttore del Russian Interna-


tional Affairs Council, che crollo e defnitiva disgregazione imperiale dell’Urss stan-
no avvenendo soltanto oggi, con relativa sofferenza degli Stati nati dalle ceneri
sovietiche 9, allora la Russia deve prestare molta attenzione all’evoluzione politica,
sociale ed economica di questi paesi. Pena una drastica riduzione dell’infuenza
che Mosca ancora esercita sulle loro élite e sulla loro tenuta fnanziaria.
Fiaccata dalla guerra in Ucraina e costretta a spostare truppe e attenzioni sul
campo di battaglia, la Federazione può trovare enormi diffcoltà nel continuare a
garantire sicurezza nel Caucaso o in Asia centrale, dove rimangono accesi confitti
tra ex paesi sovietici come quelli azero-armeno e kirghizo-tagiko. Mosca può per-
dere il controllo su quelle regioni che occupa da tempo per impedire al paese di
riferimento di entrare a far parte del campo atlantico, come per le «georgiane»
Abkhazia e Ossezia meridionale. Inoltre, il quadro sanzionatorio imbastito dall’Oc-
cidente e le ricadute su Mosca possono sciogliere col tempo il nodo commerciale
che lega questi paesi al Cremlino. Due aspetti, securitario ed economico, che se
trascurati saranno in grado di creare quei vuoti che altre potenze dagli appetiti
eurasiatici possono riempire, o come nel caso della Georgia accendere un nuovo
e impegnativo fronte di guerra.
Rischi e preoccupazioni che molti in Russia tendono a sottovalutare, sicuri di
come i legami, soprattutto economici, che tengono insieme Mosca e le capitali di
tanti paesi ex sovietici siano ancora diffcili da spezzare. Anzi, reputano che solo
una Federazione forte può assicurare difesa e stabilità politica anche a quei gover-
ni che hanno strizzato l’occhio alle sirene occidentali e che ora dovranno rivedere
i loro piani e seguire il Cremlino nei suoi progetti di integrazione eurasiatica 10. Il
vivace sviluppo dei rapporti tra Mosca e Asia è il peggior incubo politico ed eco-
nomico per l’Occidente, sentenzia il viceministro degli Esteri russo. Purché non lo
diventi per la stessa Russia.

7. V. NAMŽILOVA, «Economic Corridor “China-Mongolia-Russia”: Infrastructure in Focus», russiancouncil.


ru, 16/12/2022.
8. N. PORTJAKOVA, «My ne operiruem kategorijami stranovoj “fokusnosti” ili “centri0nosti”» («Non ope-
riamo con le categorie del “focus” o della “centralità” applicati a un singolo paese»), iz.ru, 10/1/2023.
9. A. KORTUNOV, «Russia-Ukraine, India-Pakistan: Two Existential Conficts in Eurasia», russiancouncil.
ru, 10/10/2022.
10. V. SUTYRIN, «The Future of Russia’s Eurasian Project in the Context of Growing Geopolitical Risks»,
valdaiclub.com, 28/11/2022. 87
LA GUERRA CONTINUA

DALL’OPERAZIONE SPECIALE
ALLA GUERRA NORMALE
CONTRO GLI ‘AMERIKANI’ PELLICCIARI di Igor

I russi si adattano al conflitto in Ucraina, da Putin ridipinto


come scontro con l’Occidente guidato da Washington. La
sorprendente capacità di assorbire le sanzioni e l’altrettanto
imprevista incapacità dei militari. L’indifferenza per noi europei.

N EL DICEMBRE 2022 MI SONO


nuovamente recato in Russia. Durante la precedente visita estiva, organizzata per
registrare la percezione locale del confitto, avevo riassunto la situazione in alcuni
appunti di viaggio per Limes 1.
A distanza di sei mesi, che sono sembrati anni, un nuovo giro di 21 interviste
informali condotte nell’arco di tre settimane danno un quadro se possibile ancora
più sorprendente del precedente. Ecco, in sintesi, come evolve la percezione russa
del confitto.

Siamo in guerra con l’America


Per Mosca questa è oramai una guerra contro gli Usa, più che contro l’Ucraina.
In Occidente non è abbastanza considerata l’importanza assunta dal sostegno sta-
tunitense a Kiev nella ridefnizione della percezione russa del confitto. Collocarlo
all’interno dell’ampia cornice della tradizionale contrapposizione con Washington
permette di storicizzarlo come ennesima occasione di uno scontro a puntate tra
eterni duellanti.
Con quattro effetti sulla pubblica opinione.
Primo. Vi è una normalizzazione e un’accettazione dell’azione militare, che
in molti inizialmente aveva creato sentimenti di disagio misti a incredulità perché
condotta contro un paese osmotico alla Russia, in particolare nelle regioni oggetto
dell’invasione. Per molti russi è molto più digeribile e naturale l’idea di uno scon-
tro con gli «amerikani» piuttosto che con un popolo «fratello». Peraltro, a oggi la
campagna di «denazifcazione» rivolge contro l’Ucraina argomenti storico-culturali,

1. I. PELLICCIARI, «Questa è la Russia, voi non capite», Limes, «La Guerra Grande», n. 7/2022, pp. 173-184. 89
DALL’OPERAZIONE SPECIALE ALLA GUERRA NORMALE CONTRO GLI ‘AMERIKANI’

mai etnici. Sarebbe una contraddizione criticare collettivamente gli ucraini mentre
se ne rivendica l’unità con i russi. Non a caso a Capodanno le parole di Vladimir
Putin sono state dirette contro l’Occidente e il suo «uso cinico della popolazione
ucraina».
Secondo. La convinzione che un confitto con gli Usa fosse inevitabile, sicché
era solo questione di tempo prima che scoppiasse, declassa la decisione di inva-
dere l’Ucraina da incomprensibile\incauta a semplice casus belli. Si è attaccato
per difesa, prima che lo facesse l’Ucraina armata da Usa e Canada già dal 2014,
per ammissione dello stesso segretario della Nato Jens Stoltenberg. Qualcuno si
spinge a ipotizzare che le ultime elezioni americane siano state falsate con il voto
postale proprio per fare vincere Joe Biden e arrivare allo scontro con Mosca. Tutti
gli intervistati sono dell’opinione che con Donald Trump alla Casa Bianca non ci
sarebbe stata la guerra.
Terzo. Il sostegno militare all’Ucraina dell’Occidente, e in particolare degli
Usa, riabilita agli occhi dei russi il bilancio e le aspettative di un’invasione militare
che – oramai è chiaro a tutti – non ha preso la piega sperata e anzi sta incontrando
serie diffcoltà. Una cosa è doversi giustifcare per un fallimento (non essere riusciti
a schiacciare la debole Ucraina, subendo peraltro forti perdite), altra vantarsi di
tenere testa alla coalizione dell’intero Occidente, guidata apertamente dagli Stati
Uniti, ovvero dalla principale potenza militare al mondo. Da questa prospettiva,
la missione del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj a Washington è servita a
sostenere tale narrazione e a rafforzare l’idea di trovarsi nel mezzo di una guerra
Usa-Russia, cui il russo medio non solo è preparato mentalmente ma che da sem-
pre è stata raffgurata come un processo lungo e tutt’altro che facile. Dove conta il
risultato fnale, non quello parziale.
In altre parole, ha attecchito una tradizionale cultura storico-bellica russa che
prende in considerazione solo il bilancio conclusivo della guerra e considera il suc-
cesso fnale tanto più importante se ottenuto dopo un percorso sofferto e doloroso,
costellato se serve di battaglie perse (l’ultimo caso è il confitto in Cecenia). Solo la
vittoria defnitiva è «gloriosa» e celebrata con il rito delle parate (radicato nei russi
come quello del ferragosto negli italiani). Un interlocutore mi fa notare che prima
di conquistare Berlino, l’Urss era quasi capitolata davanti alle forze naziste, arrivate
alle porte di Mosca mietendo sul campo vittorie su vittorie e uccidendo milioni e
milioni di sovietici.
Quarto. L’«americanizzazione» della guerra porta a caricarla di temi che poco
hanno a che vedere con l’andamento del confitto e rimandano allo storico scontro
frontale con la cultura dell’Occidente (in particolare quella anglosassone). È un
terreno di confronto polemico al quale i russi sono mediamente abituati. Né sono a
corto di argomenti, forniti da decenni di narrazioni domestiche volte a sottolineare
le ipocrisie dell’Occidente.
Si creano le condizioni per riproporre consolidate rivendicazioni storiche russe
(dal «mito dell’incomprensione» a quello della «difesa contro lo straniero» all’«u-
90 no-contro-tutti») che hanno nobilitato il confitto come espressione del redde ra-
LA GUERRA CONTINUA

tionem in uno scontro identitario tra civiltà. Dove, quasi per nemesi storica, Mosca
si erge a difesa di molti di quei valori «tradizionali» che per settanta lunghi anni
l’ideologia sovietica ha strenuamente negato e combattuto.

Missili d’inverno, carri armati a primavera


Con il passare del tempo, l’escalation militare ha portato a considerare la crisi
come una guerra classica tra Stati, combattuta dai rispettivi eserciti. I colpi messi
a segno dagli ucraini, inizialmente sottaciuti, ora vengono amplifcati dalle narra-
zioni di parte e messi in relazione con gli aiuti militari a Kiev e con le decine di
migliaia di combattenti stranieri nell’esercito ucraino, soldati occidentali sotto men-
tite spoglie arrivati per operare armi tattiche sconosciute agli ucraini (per attivare
ciascuna batteria di missili Patriot servono circa 90 militari che si dà per scontato
saranno stranieri).
Questo sortisce al contempo altri effetti poco considerati in Occidente. In
primo luogo, l’opinione pubblica è oramai assuefatta al ricorso a iniziative militari
e ad armamenti che all’inizio del confitto sarebbero stati diffcilmente accettati, in
particolare se usati contro gli ucraini.
È il caso dei bombardamenti missilistici sulle città ucraine, soprattutto su Kiev
(a lungo risparmiata), intensifcatisi dopo l’estate e considerati inevitabile e «norma-
le» rivalsa in una guerra classica senza esclusione di colpi. Nonché tattica bellica
standard per azioni militari condotte nella stagione invernale inadatta per i combat-
timenti, che invita ad arroccarsi nelle posizioni controllate e a logorare il nemico da
remoto. Missili d’inverno e carri armati a primavera. Eventuali azioni offensive di
terra nei mesi freddi sarebbero circoscritte, rivolte verso obiettivi tattici, per giocare
d’anticipo sull’arrivo di nuove armi dall’Occidente.
Molti degli intervistati considerano punti di rottura che hanno sdoganato ogni
tipo di reazione militare da parte russa episodi come l’affondamento dell’incrocia-
tore Moskva davanti a Odessa (possibile, si dice, solo grazie al determinante aiuto
straniero), il bombardamento del ponte che unisce la Crimea alla Russia, la strage
di reclute intente a festeggiare il Capodanno a Makiivka.
Semmai, il problema diventa conciliare le scelte tattiche di una guerra di logo-
ramento con le narrazioni patriottiche e le aspettative dell’opinione pubblica, che
nell’èra dei social media ha accesso anche alla propaganda della parte opposta.
Viene fatto l’esempio di Kherson, apparentemente tornata in mano ucraina sulla
base di un freddo calcolo militare russo (le perdite e i costi nel difenderla nel cor-
so dell’inverno sarebbero stati molto superiori rispetto alla decisione di lasciarla
prima, per assediarla poi con bombardamenti in vista di una futura campagna per
riprenderla). Questa ritirata tuttavia non è stata spiegata ed è stata percepita dalla
opinione pubblica russa come una scelta inaccettabile, per di più umiliante perché
celebrata dagli ucraini come una vittoria.
Il motivo di questo divario comunicativo sta nel fatto che la gestione opera-
tiva della guerra è nelle mani delle gerarchie militari, restie a svelare le proprie 91
DALL’OPERAZIONE SPECIALE ALLA GUERRA NORMALE CONTRO GLI ‘AMERIKANI’

tattiche belliche e per questo pessime nel gestire i rapporti con il pubblico (il
portavoce dell’esercito è lo stesso Igor’ Konašenkov che nell’aprile 2020, a latere
della missione di aiuti russi all’Italia, sforò l’incidente diplomatico con Roma).
Analogo riserbo circonda la disponibilità di armamenti russa, che tuttavia
non sembra essere agli sgoccioli, come da alcuni mesi vanno invece ripetendo
i servizi di intelligence britannici. L’industria bellica russa, che a differenza di
quella statunitense è pienamente controllata dallo Stato, pare stia funzionando
a pieno ritmo e sopperendo, grazie a forniture esterne in arrivo da paesi amici,
alla fondamentale crisi della componentistica tecnologica oggetto delle sanzioni
occidentali. L’ultimo dei problemi a Mosca sembra sia quello di restare senza
armamenti.

I russi approvano, senza entusiasmo


La crescente assuefazione allo status quo bellico si trasforma nei fatti in un
aumento dei favorevoli all’azione militare russa. Tuttavia, si tratta di un’accetta-
zione passiva, visibile nel calo di manifestazioni spontanee popolari di sostegno
alla guerra, come l’esposizione di simboli patriottico-bellici (ad esempio la «Z»
identifcativa delle Forze armate russe in Ucraina). È espressione di un silen-
zio-assenso già ampiamente diffuso prima dell’estate, la cui crescita a scapito del
dissenso-senza-opposizione avevamo già collegato al protrarsi del confitto.
Il punto è che questo trend si è manifestato ben oltre le previsioni. Le non
poche voci (circa un terzo delle totali) che a giugno 2022 – pur senza contestarlo
– si erano espresse contro il confitto, o almeno si erano dette dubbiose, oggi sono
quasi scomparse. La portata di questo fenomeno non si spiega solo con la crescita
dei sostenitori del silenzio-assenso né tantomeno con la reticenza a parlare degli
interlocutori per timore di incorrere nelle dure pene previste contro chi si oppone
pubblicamente alla guerra. Misure restrittive in tal senso sono state introdotte e ap-
plicate senza sconti dall’inizio della crisi – quindi erano già ampiamente in vigore
al tempo delle interviste condotte nella missione di giugno.
Va piuttosto considerato un aspetto molto interessante, del tutto trascurato in
Occidente: la quasi totalità degli oppositori, attivi o potenziali, non sono più fsi-
camente presenti in Russia. Sono parte dei 2-3 milioni di persone (cifre esatte non
esistono) che si stima siano andati all’estero dall’inizio della guerra, con una forte
impennata del fusso dopo l’annuncio della mobilitazione militare parziale da parte
del Cremlino a fne estate.
Per evitare la chiamata alle armi, ha precipitosamente lasciato il paese un im-
ponente numero di giovani e adulti maschi under-55 ad alto tasso di educazione
e concentrati nelle zone urbane – tutte categorie dove in media i critici verso il
Cremlino sono preponderanti. Poiché le frontiere in uscita – fatto strano per la
Russia – sono state chiuse ai reclutabili con notevole ritardo rispetto all’annuncio
della mobilitazione, è lecito supporre che l’esodo di questi (potenziali) oppositori
92 sia stato tra gli effetti calcolati del provvedimento.
LA GUERRA CONTINUA

Questa ricaduta politica sul piano interno, che di fatto svuota i ranghi del
dissenso, offre una diversa chiave di lettura sull’effcacia di una decisione che
l’Occidente ha ad oggi valutato criticamente solo da una prospettiva militare. Un
apparente paradosso è che alla crescita esponenziale del silenzio-assenso verso il
confitto corrisponde un tangibile calo delle vibrazioni positive e dei toni ottimistici
che l’estate scorsa accompagnavano le vicende belliche. Al netto dello spleen di
cui sempre soffrono nei mesi invernali i russi (popolo molto più meteoropatico di
quanto si creda in Occidente), si tratta di un sentimento non legato tanto ai timori
sull’esito della guerra quanto alla rassegnazione per il suo protrarsi nel tempo. L’u-
nica sensazione comune a tutti – letteralmente – gli intervistati è quella di una crisi
destinata, tra alti e bassi, a durare a lungo. Anche militarmente.
Le menti più politiche fanno notare che all’origine di questa impasse non vi è
solo l’alta posta in gioco ma anche una più banale considerazione. In questa fase
la fne del confitto non servirebbe a nessuno, né agli aggressori né agli aggrediti.
L’escalation militare ha rafforzato e congelato i gruppi dirigenti che gestiscono il
potere a Mosca e a Kiev. Finché la guerra è in corso non ci sono vincitori, né so-
prattutto vinti.
Superata la generale sorpresa iniziale per l’azione militare, lo stato di guerra è
stato oramai metabolizzato, con annesse conseguenze negative. Delle quali nessu-
no si rallegra ma che sono affrontate con l’approccio di chi si prepara a conviverci
piuttosto che a rimuoverne le cause. In altre parole, non saranno le pressioni dal
basso a spingere la leadership russa al cambio di rotta in Ucraina.

Chi sale e chi scende (attorno a Putin)


L’istituzionalizzazione della guerra ha appiattito la vita politica sul fronte interno,
con poche novità. È confermata la crescita del peso dei militari nella leadership russa,
già in atto da quando – fallito il tentativo iniziale di una guerra lampo per ottenere un
cambio di regime a Kiev – si è virato sul piano opposto di una guerra «vera» sul mo-
dello siriano, affdandosi all’esercito professionale. In un paese dove è al comando
l’élite della funzione pubblica che corrisponde alla priorità di governo del momento,
l’attuale centralità dei militari conferma che il confitto è destinato a durare a lungo.
O, peggio ancora, è avvisaglia di una nuova fase storica in cui il ricorso all’opzione
militare torna a essere la prima scelta del Cremlino, dopo quasi due decenni abbon-
danti di prevalenza della diplomazia il ministro degli Esteri Sergej Lavrov (in carica
dal 2004) è la fgura istituzionale in assoluto più visibile dopo Putin. I primi a subirne
le conseguenze sono i diplomatici, che hanno assunto un ruolo più deflato, rientran-
do nel perimetro della stretta azione di competenza ministeriale. Esecutori tecnici di
una politica estera alla cui defnizione contribuiscono meno che in passato.
Per quanto riguarda i frequenti cambiamenti al vertici dell’esercito russo in
Ucraina, questi sarebbero il frutto di decisioni-competizioni interne alle gerarchie
militari, dunque ancora più imperscrutabili e imprevedibili degli avvicendamenti
al Cremlino. Con il professionalizzarsi del confitto, il comando delle operazioni in 93
DALL’OPERAZIONE SPECIALE ALLA GUERRA NORMALE CONTRO GLI ‘AMERIKANI’

Ucraina sarebbe maturato all’interno delle stesse Forze armate, previo il consenso
non solo formale del presidente, che tuttavia non proviene dall’esercito, non ha una
formazione militare né pretende di averla (si fatica a trovare – anche di questi tem-
pi – ritratti uffciali di Putin in uniforme militare). È un aspetto non secondario per
una superpotenza militare in periodo di guerra, dove lo Stato maggiore delle Forze
armate, con a capo un generale da combattimento come Valerij Gerasimov, detta
la linea al ministero della Difesa, retto da Sergej Šoigu, la cui esperienza di gestione
amministrativa e contiguità con il mondo politico ricordano il curriculum dei vertici
militari occidentali.
Per quanto riguarda il Gruppo Wagner, è ancora percepito come un elemen-
to «nuovo» dell’azione militare russa, tradizionalmente statalista e non abituata alla
fgura del contractor di derivazione statunitense. Wagner è un corpo estraneo non
solo all’esercito ma a tutta la mastodontica funzione pubblica russa. Sembrano mol-
to azzardate le ipotesi occidentali che vorrebbero lanciato verso ruoli istituzionali il
suo leader e fondatore Evgenij Prigožin, fgura estranea allo Stato profondo russo.
Piuttosto, c’è da chiedersi il motivo dell’esaltazione che i media di Stato fanno dei
successi di Wagner (come nel caso dell’offensiva a Soledar) o l’ampio spazio che
danno alla prosa violenta e gotica di Prigožin, spesso carica di feroci critiche nei
confronti delle gerarchie dell’esercito.
Questo mainstream istituzionale sarebbe impensabile senza il placet del Crem-
lino. E sortisce effetti non casuali. Sprona le gerarchie militari a ottenere risultati
migliori sul campo, ne responsabilizza pubblicamente le scelte tattiche, ne limita
l’infuenza politica al di fuori della gestione della guerra. Dà inoltre voce alle aspetta-
tive della pancia patriottica e movimentista del paese, insofferente dei tatticismi della
guerra ibrida stile «dottrina Gerasimov», mentre invoca nei confronti di Kiev il pugno
di ferro di sovietica memoria. Il personaggio mediatico Prigožin ripropone una tecni-
ca di comunicazione istituzionale che ruota attorno alla fgura del «superfalco» battito-
re libero (in passato impersonata da Vladimir Žirinovskij), interprete di un linguaggio
volutamente truce e sopra le righe, a marcare la spontaneità di critiche che tuttavia
hanno dei target mirati, concordati con il Cremlino. Diffcile pensare che siano ca-
suali gli strali lanciati da Prigožin contro il rammollito stile di vita occidentale e quei
russi che lo rimpiangono o che vi si sono rifugiati per evitare la chiamata alle armi.
Per quanto riguarda fgura e ruolo del presidente, resto della mia vecchia
convinzione che in Russia l’impero conti più dell’imperatore e che il paese non
sia quella Putinlandia spesso raffgurata in Occidente da quanti sono convinti che
un’uscita di scena dell’attuale inquilino del Cremlino risolverebbe tutto come per
incanto. Illusione irrealistica e pericolosa se, come sembra, Putin si confermerà lea-
der e punto di sintesi per tenere insieme gruppi di potere in stato di competizione
interna permanente.
Il carisma presidenziale comunque resta ancora forte e, altro paradosso, ha
sofferto più ieri per via dell’epidemia (nonostante il successo della scoperta dello
94 Sputnik V) che oggi per via della guerra (nonostante le diffcoltà incontrate nel
LA GUERRA CONTINUA

confitto in Ucraina). A dimostrazione di come – proprio perché non è un militare


– non gli vengono addebitati i problemi al fronte. E chiarito che la guerra contro
gli Usa era inevitabile, nemmeno la scelta di invadere l’Ucraina, decisione che ini-
zialmente aveva sollevato forti dubbi pure tra i putiniani di ferro.

Dove va (e quanto dura) la guerra


Anche in questa missione si fa sentire il fatto che nessuno dei miei intervistati
provenga dalle Forze armate, che si confermano universo parallelo alla società rus-
sa, senza forme di contatto associative sul modello dei veterani statunitensi o degli
alpini italiani che riducano la sensazione di un mondo che vive a parte. Tuttavia, a
quasi un anno dall’inizio della guerra – in Russia come da noi – le questioni militari
sono diventate di dominio pubblico e c’è meno reticenza a esprimere opinioni su
temi su cui prima regnava l’ignoranza.
A radicare la sensazione generale del prolungamento di un confitto destinato
periodicamente a riacutizzarsi è il discorso di Capodanno di Vladimir Putin, cameo
che nei simboli e nella parole racchiude l’attuale cornice dell’«operazione specia-
le». In genere tenuto poco prima dello scoccare della mezzanotte, quest’anno si è
protratto per quasi dieci minuti, atteso da gran parte del paese, impaziente di ap-
prendere più che il bilancio dell’anno passato una previsione per quello a venire.
Con alle spalle tre fle di soldati decorati (e, non a caso, nessun alto uffciale),
Putin come da suo stile ha tenuto un discorso asciutto nella prosa e diretto nel
messaggio, lasciando poco spazio alle interpretazioni. Ha ribadito la determina-
zione russa a proseguire uno scontro inevitabile, provocato dall’Occidente, cui la
Russia non può né intende sottrarsi. I toni del discorso hanno rafforzato i soste-
nitori della tesi per cui sarebbe imminente una seconda mobilitazione di riservisti
con conseguente nuova offensiva di terra su larga scala. Anche in questo caso, si
fa riferimento a tali eventualità senza particolare enfasi, come alle prossime partite
di un campionato ancora lungo da giocare.
Non vi è un’opinione comune su quale possa essere il risultato minimo richie-
sto dal Cremlino per arrivare alla pace. O meglio, a quella che molti raffgurano
come una tregua in una disputa destinata nel medio-lungo periodo a ravvivarsi sul
modello libanese, coreano o palestinese.
Nessuno considera possibile la rinuncia di Mosca ai territori già formalmente
annessi, anche di quelle parti che ancora non controlla militarmente. I confni dello
Stato sono quanto di più sacrale ci sia nel patriottismo russo. In altre parole, per-
ché avvenga la modifca di questi confni, non basta la fne dell’imperatore. Serve
quella dell’impero.

Sanzioni macro
Nella contrapposizione con le narrazioni occidentali, in Russia le sanzioni
restano l’argomento preferito dopo le vicende belliche. Per il loro impatto macro- 95
DALL’OPERAZIONE SPECIALE ALLA GUERRA NORMALE CONTRO GLI ‘AMERIKANI’

economico e per i risvolti che hanno sulla vita quotidiana. Vi è quasi sorpresa nel
constatare che non si sono avverate le previsioni occidentali di default a marzo
2022, a cui i russi – memori del crack del 1998 e in genere pessimisti sul proprio
futuro economico – avevano inizialmente creduto. Grande risalto viene dato sui
media locali a una stima del Fondo monetario internazionale quasi introvabile su
quelli occidentali: la Russia sarebbe diventata la nona economia al mondo con un
pil da 2.100 miliardi di dollari nel 2022, grazie anche a un rublo forte e alle spese
militari, sicché è riuscita a superare Italia, Brasile e Corea del Sud.
Il paradosso è che, rispetto agli annunci fatti dal Cremlino all’indomani dell’in-
vasione dell’Ucraina, si sono avverate le previsioni in campo economico e non
quelle in campo militare. Esattamente il contrario di quanto immaginabile sulla
base della recente storia del paese, a partire dallo stesso crollo dell’Urss, scatenato
dallo spettacolare fallimento dell’economia sovietica. L’impressione è che la tenuta
dell’economia sia l’elemento su cui si basa l’attuale credibilità della leadership del
paese. Per converso, è uno dei motivi che ha portato ad accogliere con maggiore
scetticismo rispetto al passato i ricorrenti proclami catastrofsti sul futuro russo,
economico e non, che continuano ad arrivare dall’Occidente.
Più che facilitare il processo di disgregazione della Russia sul modello dell’Urss,
le sanzioni sembrano avere prodotto un altro paradosso. Molti dei massicci investi-
menti russi riversatisi a oriente sono confuiti nei paesi dell’ex Urss, dando nuovo
impulso a quella cooperazione economica eurasiatica che da tempo Washington
teme possa preludere alla nascita di uno spazio geopolitico sovietico 2.0 a trazione
russa. È il caso dell’Uzbekistan, dove pare oramai siano migliaia le società aperte da
imprenditori russi, spalleggiate dal sistema bancario locale, estraneo alle sanzioni.
Altri effetti positivi sul piano macro-economico si avvertirebbero nel campo f-
nanziario, segnato dal massiccio rientro in patria di grandi e grandissime ricchezze,
invertendo la cronica fuga dei capitali verso l’estero e realizzando così un vecchio
obiettivo strategico della Banca centrale russa. Questo fenomeno viene accompa-
gnato sul piano interno da una comunicazione istituzionale già vista nel 2012-13
in occasione del congelamento dei conti dei correntisti russi nella crisi fnanziaria
cipriota. Esemplifcata al meglio dalle parole dello stesso Putin, rivolte a quanti,
oligarchi e non, hanno avuto le loro ricchezze bloccate all’estero: «Ja že vam go-
voril»: («Ve l’avevo detto», che i vostri soldi fuori dalla Russia non erano al sicuro).

Sanzioni micro
Le sanzioni sono, con diversa intensità, parte integrante della quotidianità rus-
sa degli ultimi due decenni. Al di là della infnita disputa sulla loro effcacia macro-
economica, è nella dimensione micro del commercio al dettaglio che offrono una
prospettiva unica sui cambiamenti nella vita socioculturale del paese.
Dal punto di vista pratico, l’impressione è che non esistano le «sanzioni per-
fette» per colpire il quotidiano e che il commercio – un po’ come l’umidità in un
96 muro – trovi sempre una via alternativa per manifestarsi. Commercio al dettaglio e
LA GUERRA CONTINUA

terziario, insieme al turismo in entrata e in uscita, sono destinatari di una campagna


sanzionatoria occidentale data per scontata da tutti, anche se non a questo livello
di intensità. Per ora, l’impatto resta abbastanza simbolico. Eppure reale e sentito,
perché visibile. Mentre non si registrano disagi nell’approvvigionamento di beni o
servizi al cittadino medio. Piuttosto che essere scintilla di un’improbabile protesta
sociale, è una raffgurazione plastica che funge da memento mori nel rapporto con
l’Occidente. Di quello che oramai è considerato un divorzio, accettato con malin-
conica determinazione.
Non vi è carenza di prodotti negli scaffali. Le forniture di beni di largo consu-
mo sono tornate a essere coperte da produzioni locali o di provenienza asiatica,
con la politica di prezzi calmierati ereditata dai tempi sovietici. Per quanto riguarda
i beni di lusso, si è tornati a vent’anni fa, quando tutto era reperibile su canali di
importazione paralleli ma a prezzi doppi quando non tripli rispetto a quelli oc-
cidentali. Sul notevole incremento della domanda di lusso generata proprio dalle
sanzioni si stanno registrando volumi d’affari enormi di cui benefciano quanti han-
no contatti internazionali e reti distributive domestiche, per riorganizzare i canali di
approvvigionamento dei prodotti.
È un fenomeno che non determina la creazione di nuove micro-élite commer-
ciali quanto la ridefnizione degli equilibri tra quelle macro già dominanti. È il caso
del gruppo Bosco di Ciliegi del proprietario degli storici magazzini Gum sulla
Piazza Rossa, Mikhail Kusnirovi0, diventato grazie alle sanzioni monopolista del-
la vendita della popolarissima alta moda italiana; mentre il gruppo Mercury,
principale distributore di beni di superlusso (orologi, gioielli eccetera), incontra
maggiori diffcoltà nella catena di approvvigionamento per soddisfare la doman-
da di una clientela con alta capacità di spesa che prima comprava sul mercato
retail europeo e ora si rivolge quasi esclusivamente a quello russo.
Interessante è anche che le sanzioni – contro ogni previsione – non abbiano
invertito il trend oramai quindicennale di progressiva contrazione dell’economia
sommersa, una volta vastissima e oggi relegata a sacche residuali.

Rapporti internazionali tra ‘non amici’ e ‘non nemici’


Al pari della politica interna, anche quella estera in tempo di guerra non è
particolarmente ricca di novità. I rapporti internazionali sono oramai tutti giocati a
livello bilaterale a sud e a est di Mosca con paesi amici, lungo consolidate direttrici
geopolitiche eurasiatiche, arabe, africane. Rafforzate da una ftta rete di rapporti
diplomatici non occasionali e preesistenti alla crisi attuale, sono meno esposte ai
richiami occidentali dell’ultimo momento.
Riguardo alla Cina, l’impressione è che il mondo abbia preso coscienza del
legame Mosca-Pechino (che i più in Occidente credevano impossibile) molto tem-
po dopo che questo è stato costituito e cementato. Un diplomatico mi dice: «Noi
e i cinesi siamo molto diversi. Ma in comune abbiamo il rispetto della parola data.
Non tradiamo gli accordi presi». 97
DALL’OPERAZIONE SPECIALE ALLA GUERRA NORMALE CONTRO GLI ‘AMERIKANI’

Per quanto riguarda i paesi «non amici» (defnizione uffciale data a quanti
hanno votato le sanzioni alla Russia), la novità principale sta nei distinguo intro-
dotti verso alcuni, a dimostrazione appunto dell’attività bilaterale svolta negli ultimi
mesi. I rapporti con gli Usa sono al minimo storico. Non ci sono contatti di rilievo,
se non per operazioni singole come gli scambi di prigionieri, che confermano il
clima da guerra fredda.
La stessa apertura pubblica fatta intendere da Sergej Lavrov nei confronti di
John Kerry (i due si dice abbiano evitato che l’attuale confitto esplodesse già nel
2014) non sembra il frutto di una strategia diplomatica verso la chimera di una
Helsinki 2 quanto il banale tentativo di rimettere in piedi un canale di dialogo f-
duciario tra Washington e Mosca. Oggi del tutto assente, al punto che le rispettive
ambasciate sono ridotte a mere basi lunari inattive.
Al netto della degenerazione dei rapporti russo-americani, la tensione con
altri paesi dell’Alleanza Atlantica (Germania e Italia su tutti) pare essere calata ri-
spetto alle punte toccate all’inizio della crisi. Nessuno sembra nutrire speranze su
un cambio di linea politica a Roma sui principali dossier (Ucraina, Libia, energia
eccetera), ma i toni diplomatici più moderati adottati dal governo di Giorgia Meloni
sono visti a Mosca come un passo avanti. Soprattutto dopo la retorica aggressiva
di Mario Draghi.
Infne, è interessante come il protrarsi della guerra abbia creato nello spazio di
mezzo tra alleati e nonamici una terza zona fuida di cosiddetti «non nemici» su cui
convergono quanti cercano di ottenere i notevoli benefci e vantaggi di cui hanno
goduto paesi quali Turchia, Serbia, Ungheria, che sono riusciti a fare coesistere
condanna formale e collaborazione sostanziale nei confronti di Mosca.
Ormai non si parla quasi più di iniziativa multilaterale, a dimostrazione del
calo di interesse russo nei confronti di quello che a lungo è stato il primo piano
su cui la Russia ha puntato per riemergere come superpotenza e contenere il
predominio Usa, in nome della dottrina che ha formulato le linee guida del-
la politica estera post-sovietica, promossa da Evgenij Primakov (fgura ancora
oggi stimatissima e che, dettaglio evocativo, era nato a Kiev nel 1929). Questo
riguarda l’Onu ma anche la Ue, trattata con un disinteresse che rifette la fne
dell’ossessione russa della ricerca di un riconoscimento europeo, culturale oltre
che geopolitico.
Il divorzio dagli europei sta tutto nel commento di un interlocutore sulla de-
cisione russa di abbandonare in via defnitiva il Consiglio d’Europa davanti alla
dura ma prevedibile condanna dell’invasione dell’Ucraina: «A Bruxelles stanno dei
burocrati arricchiti, a Strasburgo solo dei burocrati. Pagare loro lo stipendio per
ottenerne in cambio le critiche – anche no, grazie».
Decisamente, ai russi non interessa più avere il nostro apprezzamento. Sicché
rallentano il battito cardiaco in vista di un altro letargo nei rapporti con l’Occidente.*

98 * Questo articolo è dedicato alla memoria di Franco Frattini.


LA GUERRA CONTINUA

QUALCOSA DI NUOVO
SUL FRONTE DEL DONBAS MUSSETTIdi Mirko

La decisione americana e tedesca di inviare moderni carri armati


pesanti a Kiev prelude al tentativo ucraino di aggirare la tattica
russa, basata sull’attrito. Il caso del sistema antimissile italo-
francese e il rischio che la nostra difesa aerea resti sguarnita.

1. « L A RUSSIA SI ASPETTAVA LA FINLANDIZZAZIONE


dell’Europa, ma deve invece fare i conti con l’atlantizzazione della Finlandia» 1.
Con queste parole pronunciate il 25 gennaio 2023 il presidente degli Stati Uniti Joe
Biden ha riassunto i primi undici mesi di guerra scatenati dal capo di Stato russo
Vladimir Putin. Alludendo al prossimo ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato
(manca la ratifca di Turchia e Ungheria), l’inquilino della Casa Bianca ha ostentato
sia la compattezza dell’Occidente contro il grande rivale atomico dell’America sia
la volontà di proteggere il blocco alleato direttamente a ridosso dei confni della
Federazione Russa.
Nell’atteso discorso del 25 gennaio 2023 il presidente americano ha annun-
ciato poi l’invio nel paese invaso di «31 carri armati Abrams, pari a un battaglione
ucraino», precisando con gonfata magnifcenza che si tratta dei «tanks più potenti
al mondo». Il capo di Stato americano ha quindi ringraziato il cancelliere della
Germania Olaf Scholz per la sofferta decisione di fornire 14 carri armati Leopard-2
e di concedere ai paesi che hanno in dotazione i panzer tedeschi il permesso di
riesportarli in Ucraina.
La deliberazione di Washinghton e Berlino di inviare veicoli da combattimento
pesanti a Kiev è un messaggio precipuamente geopolitico rivolto a Mosca, sebbe-
ne la quantità dichiarata di mezzi non sia tale da modifcare le sorti del confitto.
Con l’intensità attuale, sarebbero necessarie centinaia – forse un migliaio – di carri
armati l’anno per sopraffare l’invasore e sperare nella totale riconquista dei territori
occupati. Qualche dozzina di carri armati moderni non possono di certo fare la
differenza, soprattutto se consegnati in ritardo o con una certa intermittenza dovuta

1. «Remarks by President Biden on Continued Support for Ukraine», ambasciata degli Stati Uniti in
Italia, 25/1/2023. 99
QUALCOSA DI NUOVO SUL FRONTE DEL DONBAS

alla preparazione dei carristi ucraini selezionati, che non può essere in alcun modo
frettolosa. Inoltre, è sbagliato porre troppa speranza in veicoli per loro natura al-
tamente vulnerabili alle moderne tattiche belliche, che contemplano l’impiego di
droni e missili anticarro guidati e spalleggiabili. Abrams e Leopard non possono
essere la panacea che Kiev va cercando.
I carri armati Leopard-2 tanto agognati dalle autorità ucraine sono già stati og-
getto di studio russo in Siria, dove le truppe affliate a Mosca hanno avuto modo di
distruggerne in discreta quantità. La Turchia ha infatti optato per il loro inconsulto
impiego offensivo nel Levante in violazione dei caveat imposti dalla Germania, che
ne vincola l’export alle sole fnalità difensive per l’acquirente. Per la Russia non
si tratta quindi di un’arma ignota. Mosca certamente non si lascia impressionare
dall’alone di invulnerabilità alimentato dai media ucraini e occidentali. In tal senso,
il portavoce del Cremlino Dmitrj Peskov è stato piuttosto chiaro seppur con toni
sconsolati: «Bruceranno nello stesso modo degli altri» 2.
La scelta di inviare carri armati all’Ucraina infastidisce il decisore politico russo
non tanto per l’impatto che potrebbero avere nell’economia del confitto quanto
per la probabile alterazione dei ritmi bellici che tali mezzi potrebbero apportare.
L’uso precipuo di artiglieria signifca guerra lenta; l’impiego virulento di carri armati
presagisce guerra veloce.
Sul piano teorico, la comparsa di tanks moderni potrebbe accelerare il corso
della guerra, sparigliando le carte sul tavolo degli strateghi moscoviti. Fallito il ten-
tativo iniziale di inglobare l’Ucraina mediante una guerra lampo, la Russia ha ini-
ziato a scommettere su un confitto armato lungo dove le sorti si legano all’enorme
disparità demografca e di risorse dei belligeranti. In un confitto lento, la Grande
Madre può alla lunga prevalere sull’ex paese satellite persino perdendo uomini e
asset in un rapporto disonorevole di quattro a uno.

2. La Russia spera di vincere questa guerra di logoramento per esaurimento


delle risorse altrui, senza eccessivo coinvolgimento della propria popolazione. Ma
la comparsa di nuovi carri armati occidentali tornerebbe a dinamizzare il confitto,
richiedendo a Mosca un maggiore dispiegamento di uomini per la tenuta del lun-
ghissimo fronte, che dal basso Dnepr (Kherson) attraversa tutto il quadrante sud-o-
rientale dell’Ucraina fno al bacino del Donec (Donec’k e Luhans’k). L’approccio
paziente di Mosca verrebbe meno per l’intromissione coordinata delle cancellerie
occidentali nel confitto.
Il sopraggiungere dei carri armati euroatlantici in Ucraina potrebbe spingere
la Federazione Russa a intimidire l’Occidente e impedirne il trasferimento al fron-
te, bersagliando con missili a lunga gittata le infrastrutture logistiche ucraine nelle
immediate vicinanze dei confni con Polonia, Slovacchia e Romania – l’Ungheria
non presta il proprio territorio al transito di armi verso la Transcarpazia ucraina – e
aumentando sensibilmente i rischi di un incidente diretto con i paesi della Nato.
100 2. «Kremlin says U.S.-supplied tanks will “burn” in Ukraine», Reuters, 25/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

L’escalation non sarebbe irrefrenabile, come testimonia il caso del missile di Pr-
zewodów, ma allontanerebbe le speranze di profcui negoziati tra le due superpo-
tenze nucleari (Stati Uniti e Russia) protagoniste della guerra per procura.
Nel caso di mezzi particolarmente sofsticati come gli Abrams può rendersi
poi necessaria una maggiore presenza di tecnici militari americani in prossimità
del campo di battaglia, assottigliando di molto la linea che separa una guerra per
procura da uno scontro diretto tra Occidente e Russia. Ecco perché, disdegnando
le parole di Biden del 25 gennaio secondo cui «non si tratta di una lotta contro la
Russia, ma di una lotta per la libertà», Peskov ha preferito andare dritto al punto: «Ci
sono state ripetute dichiarazioni dalle capitali europee e da Washington secondo
cui l’invio di vari sistemi d’arma in Ucraina, compresi i carri armati, non signif-
cherebbe in alcun modo il coinvolgimento dei loro paesi nelle ostilità. Non sono
d’accordo. Mosca percepisce tutto questo come un coinvolgimento diretto nel con-
fitto» 3. La non cobelligeranza sarebbe ormai solo questione di retorica.
L’interesse della Federazione Russa è preservare una superiorità numerica di
carri armati al fronte rispetto alla controparte ucraina/occidentale. Per questa ra-
gione, l’accelerata produzione in serie dei potenti tanks russi T-90M – paragonabili
per prestanza proprio ai Leopard-2 − prevale per i notabili di Mosca sulla messa
in servizio anticipata del carro armato di ultima generazione T-14 Armata (Oggetto
148), attualmente in fase di test.
In una guerra d’attrito la quantità conta spesso più della qualità, sia in termini
di stock (unità immediatamente disponibili) sia in termini di fusso (capacità di
rimpiazzo). Ed è proprio per questo motivo che il Pentagono ha mostrato aperta
riluttanza verso la scelta della Casa Bianca di trasferire a Kiev carri armati Abrams,
suggerendo e sponsorizzando invece l’invio dei tedeschi Leopard 1 (modello vetu-
sto) e 2 (modello aggiornato).
Rimane assai improbabile nel breve periodo assistere a duelli tra T-14 russi
(armi migliori) e Abrams americani (alta mobilità); mentre sarà assai più probabile
assistere al confronto tra i moderni carri armati russi T-90 e i Leopard tedeschi di
pari valore e di più facile utilizzo per i carristi ucraini.
A ogni modo, i trentuno carri armati americani promessi da Biden non po-
tranno giungere in Ucraina prima dell’autunno, secondo un calcolo piuttosto otti-
mistico. La scelta statunitense di fabbricare ex novo gli Abrams sollecitati da Kiev è
sostenuta da diverse ragioni di natura interna e tecnico-operativa. Primo, la fornitu-
ra dei principali mezzi Usa per il combattimento campale diviene un meccanismo
indiretto per sovvenzionare l’industria bellica a stelle e strisce; i nuovi mezzi do-
vranno essere comprati da società nazionali o straniere e poi trasferiti in Ucraina.
Secondo, il Numero Uno – già alle prese con una inaspettata carenza di munizioni
– non ha alcuna intenzione di intaccare le proprie riserve di armamenti, essenziali
per affrontare future crisi in altri emisferi. Terzo, e forse più importante, la produ-
zione dei trentuno Abrams destinati al teatro bellico ucraino terrà conto di apposite

3. «Involvement of US, collective West in confict in Ukraine grows: Kremlin», Tass, 26/1/2023. 101
QUALCOSA DI NUOVO SUL FRONTE DEL DONBAS

modifche e limitazioni, sia per agevolare/accelerare l’addestramento dei carristi


ucraini sia per impedire un involontario trasferimento di tecnologia americana alla
Russia in caso di cattura dei mezzi. A differenza di altri sistemi d’arma sofsticati −
come le batterie Patriot o i lanciarazzi Himars – i carri armati presentano un’elevata
probabilità di cadere in mano nemica in quanto operanti in prima linea, magari a
poche decine di metri dal nemico.
Inoltre, la scelta di fabbricare da zero un numero tutto sommato contenuto di
carri armati Abrams sembra essere un modo pragmatico per avvicinare le opposte
posizioni del dipartimento di Stato (favorevole all’invio) e del dipartimento della
Difesa (contrario), i cui segretari hanno presenziato al succinto discorso di Biden
impettiti alle sue spalle. Antony Blinken può riaffermare il «convinto» sostegno
dell’America all’Ucraina, mentre Lloyd Austin può procrastinare di diversi mesi tutti
i problemi tecnici legati alla consegna e al loro effettivo impiego.
Prima preoccupazione del dipartimento della Difesa in merito al dispiegamen-
to degli Abrams nel teatro del Donbas o sul fronte di Zaporižžja è lo spropositato
consumo di carburante dei motori a turbina multifuel. Il timore principale di Au-
stin è che i tanks americani operanti in prima linea in un paese già alle prese con
carenze di combustibile possano immobilizzarsi per assenza dei rifornimenti di
propellente adeguato, favorendo quindi la loro cattura da parte del nemico russo.
Inoltre, i pesantissimi (68 tonnellate) carri armati americani entrati in servizio negli
anni Ottanta non sono stati concepiti per un impiego precipuo in teatri bellici con-
traddistinti da terreno gelato o fangoso, come nel caso dell’Ucraina.
Se persino la prima potenza militare del mondo nutre dubbi sull’invio di ma-
teriale bellico particolarmente sensibile (sistema antimissile Patriot, carri armati
Abrams), anche le Forze armate di diversi paesi dell’Europa occidentale si do-
mandano se sia il caso di trasferire in Ucraina i sistemi d’arma più preziosi di cui
dispongono comunque in quantità limitata. È il caso dei sistemi terra-aria Samp/T
a corto/medio raggio di produzione italo-francese, che il governo del Belpaese ha
promesso alle autorità di Kiev generando l’irritazione del partner transalpino.
Francia e Italia dispongono di poche batterie. Le cinque in possesso di Roma
sono insuffcienti per l’esaustiva protezione del territorio della penisola. Il dispie-
gamento di una batteria in un paese estero in guerra aggraverebbe ulteriormente la
lacunosa posizione difensiva dell’Italia, a maggior ragione se una seconda batteria
dovesse essere spostata in Repubblica Ceca per onorare l’impegno di proteggere
il fanco orientale della Nato. In caso di distruzione o danneggiamento di una sua
componente, per esempio l’antenna radio, l’elemento dovrebbe essere immedia-
tamente sostituito attingendo da un’altra batteria, riducendo così ipso facto di una
unità i sistemi terra-aria immediatamente operativi nelle disponibilità delle Forze
armate italiane. A questo si aggiunge il fatto che i tempi tecnici per la fabbricazione
di una batteria completa non sono inferiori ai diciotto mesi.
La Francia è gelosa di un sistema operativo che le permette di proteggere i
cieli senza alcun vincolo politico o tecnico estero (Parigi e Roma sono sovrane
102 del software) e per questa ragione vorrebbe evitare il trasferimento di tecnologia
LA GUERRA CONTINUA

preziosa in mani amiche o nemiche che possano praticare reverse engineering (in-
gegneria inversa, studio delle componenti e del funzionamento). Questo il motivo
principale per cui l’insistita richiesta della Turchia di acquistare una batteria Samp/T
è sempre stata rigettata, anche prima della compravendita operata da Ankara del
sistema russo S-400 Triumph. Non solo, l’Esagono teme che le potenze rivali pos-
sano studiare il modo per neutralizzare l’effcace sistema difensivo. Mostrare in un
contesto di guerra non direttamente legato alla sicurezza dello Stato gli ignoti tallo-
ni d’Achille di un sistema d’arma sofsticato comprometterebbe per sempre la sua
prestanza e dunque la sicurezza nazionale. Ecco perché le voci che si sono rincorse
durante l’incontro tra i ministri della Difesa Guido Crosetto e Sébastien Lecornu
del 27 gennaio 2023 relative all’acquisto di 700 missili Aster-30 (commessa di oltre
due miliardi di euro) per i sistemi Samp/T da inviare in Ucraina sono state pronta-
mente smentite dagli interessati. Assumersi la responsabilità di consegnare al paese
dell’Europa orientale i missili prodotti dal consorzio Eurosam signifca ammettere
che gli stessi non potranno essere imbarcati sulle fregate italo-francesi Fremm, che
operano lo stesso sistema missilistico per creare «bolle» difensive. Per proteggere il
territorio altrui, Italia e Francia rischiano di rimanere nude per mare.
Il nervosismo in Russia per le proposte/iniziative di riarmo e sostegno all’U-
craina trapela peraltro in modo sempre più palpabile, al punto che il vicecapo del
Consiglio di sicurezza e già presidente della Federazione Russa Dmitrij Medvedev
ha defnito il ministro italiano Crosetto uno «sciocco raro» 4.
Per superare l’impasse diplomatica e contenere il malumore serpeggiante tra
le Forze armate delle due nazioni neolatine, Roma potrebbe emulare la postura
di Parigi. L’Esagono ha resistito per mesi ai solleciti di Kiev, spiegando che l’unica
batteria Samp/T dispiegabile all’estero è già destinata alla protezione del porto
di Costanza (Romania) e dunque del «corridoio del grano» per l’export di cereali
ucraini; tanto basta. Il Belpaese potrebbe adottare un simile approccio, adducendo
la necessità di inviare il Samp/T promesso all’Ucraina in Kosovo a protezione del
contingente multinazionale Kfor della Nato a guida italiana. La strumentalizzazio-
ne retorica della tensione nel paese dei merli per ovviare all’invio della batteria
a Kiev può rivelarsi una soluzione cinica, ma elegante. Anche se forse non total-
mente apprezzata dagli Stati Uniti, i quali non vedono l’ora di vedere in azione il
moderno sistema italo-francese che garantisce autonomia difensiva ai due alleati
mediterranei, studiandone le prestazioni e alleggerendo le insistite richieste ucraine
per un rapido trasferimento dei missili terra-aria Patriot di produzione statunitense.
Washington si è impegnata al momento per la consegna di una singola batteria,
per la quale un gruppo di circa cento militari ucraini è in fase di addestramento
nella base di Fort Sill (Oklahoma). Troppo poco per la difesa esaustiva dello spazio
aereo ucraino; troppo lungo il periodo di formazione del personale ucraino per
soddisfare le esigenze contingenti.
4. Pagina Telegram di Dmitrij Medvedev. 103
QUALCOSA DI NUOVO SUL FRONTE DEL DONBAS

ROTTA DEL GRANO NEL MAR NERO

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Batteria Samp/T Sebastopoli


Costanza per la protezione
del corridoio del grano CORRIDOIO CONCORDATO PER LE
ESPORTAZIONI ALIMENTARI COMMERCIALI
ATTRAVERSO IL MAR NERO FINO AL BOSFORO
BULGARIA 1 Task Force delle Nazioni Unite per il grano ucraino
1 Task Force delle Nazioni Unite per fertilizzanti russi e cibo

GRANO
M a r N e r o 28% Totale
18.382.020 MAIS
tonn. 46%
6%
6% ALTRO
14%
Farina di girasole
Olio di semi di girasole
Area d’ispezione
settentrionale DESTINAZIONE DEI CARGO (in tonnellate)
3M
TURCHIA
2M
Istanbul
1M
Area d’ispezione
meridionale
Turchia
Italia

Spagna
Cina

Kenya
E.A.U.

Malaysia
Marocco
Afghanistan

Iran
Grecia

Israele

Tunisia
Libano
Indonesia
Iraq

Oman
Paesi Bassi
Arabia Saudita

Etiopia

Irlanda

Pakistan
Portogallo

Sri Lanka
Bangladesh

Bulgaria

Egitto

Georgia

Romania

Vietnam
Germania

Regno Unito
Algeria

Gibuti

Giordania

Somalia
India

Sudan
Corea

Francia

Libia

Yemen
Belgio

104
Fonte: UN Black Sea Grain Initiative Joint Coordination Centre
LA GUERRA CONTINUA

3. I ripetuti annunci occidentali sull’invio di armi sempre più moderne e


potenti all’Ucraina potrebbe in realtà causare un’accelerazione e un’intensifca-
zione delle operazioni belliche russe per sfruttare il lacunoso periodo transitorio
che l’esercito ucraino dovrà affrontare per assimilare le pratiche e gli standard
Nato. Gli assetti militari d’origine sovietica in dotazione a Kiev stanno infatti
esaurendosi e non potranno essere rimpiazzati da una produzione autoctona. Il
problema principale riguarda il munizionamento di qualsiasi tipo, dall’artiglieria
alla contraerea. La saturazione russa dei cieli ucraini con missili anche dozzinali
(come i dismessi To0ka) e droni kamikaze a basso costo di produzione iraniana
(Shahed 136, rinominati Geran-2) hanno sortito l’effetto voluto di assottigliare
le riserve missilistiche terra-aria del paese invaso. La carenza di sistemi d’arma
immediatamente adoperabili dalle Forze armate ucraine è divenuta lampante con
la consegna non concordata a Kiev di 20 vetusti carri armati sovietici T-72B di
proprietà del Marocco, ma temporaneamente dislocati nella Repubblica Ceca per
manutenzione e ammodernamento. Ormai si attinge ad armamenti fuori serie da
ogni dove. La dipendenza di Kiev dalle forniture militari euroatlantiche sta dive-
nendo totale e totalizzante. Presto le chiavi della difesa ucraina e delle contestuali
trattative con Mosca saranno materialmente nelle mani dell’Occidente. In assenza
di risorse proprie, l’Ucraina sarà in grado di difendersi fntantoché l’Occidente lo
vorrà/permetterà o fntantoché gli Stati Uniti non saranno distratti da altre crisi
mondiali.
La Russia vuole martellare le truppe ucraine prima che queste possano es-
sere dotate di adeguato materiale bellico occidentale. E prima che Kiev riesca a
portare a termine il nuovo reclutamento forzoso per rimpolpare le proprie fla nel
Donbas, dove le perdite sono ingenti per entrambi gli schieramenti ma premianti
per i russi, soprattutto attorno alla città di Bakhmut (oblast’ di Donec’k). Ecco
perché in primavera potrebbero sopraggiungere nei territori occupati le centinaia
di migliaia di uomini arruolati dalla Federazione e attualmente sottoposti a adde-
stramento intensivo. Parte di questi soldati è già dislocata in Bielorussia; probabil-
mente per segnalare la presenza moscovita anche sul fronte Nord e indurre Kiev
a immobilizzarvi parte delle truppe, rendendo quindi più ostico qualsiasi tentativo
di riconquista dei territori caduti in mano russa al Sud.

4. Nei prossimi mesi l’Ucraina non dovrà affrontare solo il confuire sul campo
di battaglia di un consistente numero di russi mobilitati, ma anche e soprattutto
testare la tenuta del fronte politico interno. Ovvero la capacità di diramare ordini
insindacabili e immediatamente eseguibili in tutte le dimensioni operative e a tutti
i livelli amministrativi.
La capillare sostituzione ai vertici di alcune cariche statali può essere pre-
ludio di una più vasta lotta per le investiture. Nel suo ultimo anno di mandato,
il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelens’kyj sta ponendo le basi per la sua
riconferma alle urne o per il consolidamento del suo potere in assenza di voto.
Non è da escludere infatti che le elezioni presidenziali del maggio 2024 possano 105
QUALCOSA DI NUOVO SUL FRONTE DEL DONBAS

essere rinviate a causa del confitto che interessa tutto il territorio dell’Ucraina e
rende impossibile l’organizzazione delle sezioni elettorali nelle oblast’ parzialmente
occupate (circa un quinto del territorio nazionale): Kherson, Zaporižžja, Donec’k,
Luhans’k. Con ogni probabilità, chi il prossimo anno siederà nell’uffcio di via
Bankova gestirà non solo i negoziati sul cessate-il-fuoco con la Russia, ma anche i
fondi internazionali – e quindi le priorità politiche e oligopolistiche – destinati alla
ricostruzione di un paese largamente devastato.
Ecco perché l’ex attore di Kryvyj Rih sta attuando un consistente repulisti nel
mezzo di una guerra sanguinosa. La scusa/pretesto più impiegata per adoperare le
sostituzioni subitanee è la corruzione, ma anche l’assenza di zelo e l’alto tradimen-
to. «Se vogliono riposare ora, riposeranno fuori dal servizio civile. I funzionari non
potranno più viaggiare all’estero per vacanza o per qualsiasi altro scopo non go-
vernativo» 5, ha annunciato Zelens’kyj in un videomessaggio notturno, anticipando
alcune sostituzioni nella pubblica amministrazione nazionale e regionale. Il cambio
di passo è stato reso noto dopo che è emerso che il viceprocuratore generale Olek-
sij Symonenko si era concesso una vacanza riposante in Spagna per festeggiare il
Capodanno mentre il paese e la capitale erano sotto le bombe russe.
Persino il viceministro della Difesa V’ja0eslav Šapovalov è stato indotto a ras-
segnare le dimissioni a causa di uno scandalo di corruzione sulla gestione delle
forniture alimentari destinate alle truppe al fronte. Per la medesima ragione, l’in-
fuente ministro della Difesa Oleksij Reznikov deve rispondere alla Rada (par-
lamento monocamerale), rischiando la destituzione e l’incriminazione. Faccenda
piuttosto seria, se si considera che il dicastero da lui presieduto è in assoluto il più
dirimente in tempo di guerra. Zelens’kyj ha poi deposto il viceministro delle Infra-
strutture e dello Sviluppo Vasyl’ Lozyns’kyj, arrestato e accusato di aver ricevuto
una tangente di 400 mila dollari e partecipato a uno schema criminale per trarre
proftto dalla rivendita dei generatori elettrici donati dalle cancellerie occidentali
come rimedio ai frequenti blackout che investono l’intero territorio nazionale.
Anche i viceministri per lo Sviluppo comunitario e territoriale Ivan Lukerja e V’ja-
0eslav Negoda nonché il viceministro per le Politiche sociali Vitalij Muzy0enko si
sono licenziati.
Tra i dimissionari più infuenti vi è anche e soprattutto il vicecapo dell’uffcio
presidenziale Kyrylo Tymošenko, il quale ha postato sui propri profli social la foto
della lettera di dimissioni corredata da sentiti ringraziamenti verso il presidente Ze-
lens’kyj, le Forze armate e i servizi segreti (Sbu). Sempre nella cerchia più ristretta,
si registra l’inaspettata rinuncia all’incarico dell’infuente consigliere presidenziale
Oleksij Arestovy0, colpevole di aver fornito al pubblico una lettura dei fatti (de-
viazione involontaria di un missile russo da parte della contraerea ucraina) legati
alla tragedia di Dnipro (distruzione di un condominio) discostante dalla versione
uffciale (attacco intenzionale russo). Le persone che succederanno ai vertici go-

5. «Offcials will no longer be able to travel abroad for non-governmental purposes: President’s ad-
106 dress», sito web uffciale del presidente dell’Ucraina, 23/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

vernativi sembrano essere tutte molto legate a Andrij Jermak, capo dell’Uffcio
presidenziale di Zelens’kyj.
Il «rimpasto» pervasivo avviene in un contesto già particolarmente diffcile
sotto il proflo amministrativo e securitario, aggravato dalla decapitazione dell’in-
tero vertice del ministero dell’Interno. Il 18 gennaio 2023 sono rimasti uccisi in
un sol colpo il titolare Denys Monastyrs’kyj, il suo vice Evhenij Enin e il segreta-
rio di Stato Jurij Lubkovy0 in un incidente d’elicottero a Brovary, città situata 20
chilometri a est di Kiev. La tragedia è stata subito derubricata a tragico incidente
e l’attenzione mediatica interna si è presto spostata su altri dossier bellici e diplo-
matici, sebbene testimoni oculari abbiano riferito di un’esplosione all’interno del
velivolo. Il danno esteso da impatto al suolo tende poi a escludere la possibilità di
un’avaria al motore dell’elicottero. Ma se di attentato si tratta, la pista delle indagi-
ni diffcilmente condurrebbe ai russi. Mosca infatti non dispone di contraerea nei
dintorni della capitale (nessun testimone ha visto missili) e attuare un sabotaggio
mirato di questo genere è estremamente diffcile per i servizi speciali di qualsiasi
potenza nemica, poiché la scelta del velivolo e il percorso da seguire sono def-
niti in genere all’ultimo momento. A ogni modo, trasportare su un unico mezzo
soggetto a potenziali attacchi l’intero apice dirigenziale di un dicastero è errore
quantomeno grossolano, che non dovrà ripetersi in futuro.
L’incidente di Brovary ha visto la morte degli artefci della riorganizzazione e
dell’inquadramento legale dei gruppi territoriali di autodifesa, che nelle fasi iniziali
del confitto avrebbero potuto gettare nel caos un paese già scosso dall’invasione
inaspettata da più direzioni (nord, est, ovest). Per questo Monastyrs’kyj godeva
di una discreta reputazione all’interno delle Forze armate ucraine, sebbene non
fosse sotto i rifettori quanto i colleghi degli Esteri (Dmytro Kuleba) e della Difesa
(Oleksij Reznikov). In effetti, a Brovary ha perso la vita un potenziale candidato
alla presidenza dell’Ucraina.
Il carismatico capo di Stato non si limita a colpire con una scure legale i dica-
steri, ma adotta sanzioni anche contro gli alti prelati della Chiesa ortodossa ucraina
subordinata al patriarcato di Mosca, che «con il pretesto della spiritualità, sosten-
gono il terrore e la politica di genocidio». Il fronte confessionale è agli occhi di
Kiev una delle sfde cruciali per vincere la guerra cognitiva contro Mosca. Indurre
i fedeli a passare sotto la Chiesa ortodossa autocefala d’Ucraina serve a recidere i
legami culturali con la Russia e a compattare la popolazione contro il grande ne-
mico orientale. Persino la proposta di passare al calendario liturgico gregoriano,
ripudiando quello giuliano adottato dal patriarcato di Mosca, serve a segnalare la
vicinanza collettiva all’Occidente mediante la sincronizzazione delle principali fe-
stività (per esempio, Natale il 25 dicembre anziché il 7 gennaio). Il dispositivo della
propaganda lavora su tutti i livelli e tiene conto degli interessi nazionali, non delle
ataviche tradizioni. Soprattutto in tempi di guerra.
La portavoce del ministero degli Esteri della Federazione Russa Marija Zakha-
rova ha accolto con sentimenti contrastanti le dimissioni di massa (entusiasmo 107
QUALCOSA DI NUOVO SUL FRONTE DEL DONBAS

per le debolezze altrui) e le sanzioni ai religiosi «florussi» (rodimento), irridendo


la «spartizione della torta» come opera di «demoni insaziabili» 6. È sicuro però che
Mosca speri/confdi nell’inasprimento delle rivalità intestine a Kiev, che porterebbe
all’indebolimento complessivo dell’apparato politico-burocratico del paese invaso.
Secondo i calcoli del Cremlino, la stanchezza della guerra, gli scandali interni, la
mortifcazione dei fedeli ortodossi e i contrasti tra autorità potrebbero favorire alla
lunga la destituzione di Zelens’kyj. E quindi la possibilità di intavolare negoziati per
un cessate-il-fuoco che tenga in debito conto i progressi militari russi nel quadrante
sud-orientale dell’Ucraina. Che sia sogno o illusione, il desiderio del Cremlino pare
al momento lungi dall’essere esaudito.
Tutti si preparano a un 2023 di sangue e macerie.

108 6. Pagina Telegram di Marija Zakharova.


LA GUERRA CONTINUA

LA VERA POSTA
IN GIOCO
PER MOSCA PROKHANOV
di Anatolij

Dopo il fracasso iniziale la Russia ha puntato su Est e Sud ucraini,


ma anche lì è andata male. Ora avanza nel Donbas, ma paga
i successi tattici con il danno strategico. L’Ucraina come teatro del
nuovo scontro con l’America per un posto al sole nell’ordine mondiale.

1. A UN ANNO DALL’INIZIO DELL’OPERAZIONE


militare speciale i rapporti di forza tra la Federazione Russa e i suoi rivali risultano
mutati a favore di Mosca dal punto di vista tattico. Sul piano strategico, invece, il
Cremlino ne esce nettamente indebolito. Nonostante l’espansione territoriale nell’ex
Ucraina orientale e meridionale, la Russia deve prendere atto delle proprie debo-
lezze militari, propagandistiche e di intelligence messe in luce da questo scontro
aperto con l’Occidente. Scontro che si consuma ora principalmente nel Donbas,
ma che in futuro potrebbe estendersi ad altri teatri: Indo-Pacifco, Africa subsaha-
riana, Levante, America Latina, Mitteleuropa. Per i decisori russi è necessario inter-
rogarsi su come affrontare queste sfde affnché le conquiste territoriali si traducano
anche in vantaggi geopolitici, cosa fnora avvenuta solo in parte.
Il presupposto da cui partire è che nei primi dodici mesi di confitto l’opera-
zione militare speciale non è andata secondo i piani. Questo primo anno di guerra
può essere suddiviso in tre fasi operative dal punto di vista militare. Dopo che
nelle prime due Mosca ha mancato di centrare gli obiettivi più importanti che si era
prefssata, sta vincendo la terza fase oggi in corso. Resta però incerto quanto tale
vittoria possa considerarsi anche strategica.
La prima fase dell’operazione speciale è iniziata il 24 febbraio 2022, quando i
nostri carri armati hanno varcato le frontiere ucraine e i nostri paracadutisti si sono
lanciati alle porte di Kiev. L’attacco è stato battezzato dal presidente Putin «opera-
zione militare» proprio perché non doveva dare il via alla lunga e pesante guerra
di posizione ora in corso, bensì a un rapido Putsch che avrebbe rimosso Zelens’kyj
sostituendolo con una giunta florussa protetta dal nostro esercito. Questa avrebbe
dovuto porre fne a ogni ambizione dell’Occidente di inglobare l’Ucraina nella
Nato e nei suoi altri sistemi di alleanze.
109
LA VERA POSTA IN GIOCO PER MOSCA

Le indicazioni ai soldati erano molto chiare: di fronte alla nostra avanzata nei
territori ucraini, le forze armate di Kiev si sarebbero in gran parte sfaldate e dilegua-
te. Gli ordini erano dunque di procedere verso il nemico, anche quando questo
sembrava non volersi spostare. La conquista della capitale doveva avvenire nell’arco
di pochi giorni. La fase più diffcile, veniva detto allora, sarebbe iniziata dopo la
destituzione di Zelens’kyj. In quel momento i nostri soldati sarebbero stati chiamati
a garantire manu militari l’insediamento della nuova amministrazione politica flo-
russa, composta principalmente da politici e uomini d’affari leali a Putin. Tra questi
ci sarebbero stati diversi ex membri del Partito delle regioni e del Blocco delle op-
posizioni, nonché persone giunte direttamente dalla Russia e dalla Bielorussia.
Secondo le previsioni, la fase d’insediamento sarebbe stata minacciata dalle
azioni di guerriglia dei gruppi nazionalisti ucraini e dalle componenti di esercito e
intelligence di Kiev contrarie alla nostra presenza. Per questo i nostri uomini, ac-
compagnati dalle loro fonti locali, sarebbero dovuti andare di casa in casa a prele-
vare gli elementi ostili, ponendo così fne anche all’esistenza dei gruppi nazionali-
sti che, consapevoli o meno, promuovono un’agenda flo-occidentale. Si sarebbe
trattato di una operazione militare di polizia battezzata, appunto, di «demilitarizza-
zione e denazifcazione».
Ciò spiega perché tra le truppe russe inviate a Kiev fossero preponderanti i
reparti della Rosvgardija, il corpo militare dotato di un comando posto direttamen-
te sotto il controllo di Putin specializzato nella gestione dell’ordine pubblico, nella
lotta al terrorismo, nella protezione delle sedi istituzionali e nel contrasto alle atti-
vità di guerriglia. Insomma, secondo i calcoli iniziali le operazioni più delicate sa-
rebbero state appannaggio di reparti con funzioni di polizia militare. Molti dei
nostri soldati portarono con sé negli zaini le divise da parata, pronti a marciare
attraverso la capitale ucraina (che fu sovietica e che prima ancora fu la culla della
civiltà russa) per sancirne il ricongiungimento anche simbolico con la madrepatria
e la liberazione dal regime russofobo e flo-occidentale messo al potere nel 2014.
Oggi sappiamo che la presa di Kiev è stata un fallimento. Sono ancora fumose
le motivazioni per cui il presidente Putin si mostrava convinto che avrebbe funzio-
nato. C’è chi dice che l’integrazione di intelligence ed esercito ucraini nelle struttu-
re occidentali fosse più profonda di quanto ci aspettassimo. Altri sostengono che il
presidente russo sia stato mal consigliato dai suoi consulenti, uffciali e non: c’è chi
punta il dito contro Vladislav Surkov – fno al 2020 consigliere uffciale del presi-
dente per i rapporti con Abkhazia, Ossezia del Sud e Ucraina – e contro Viktor
Medved0uk, già deputato ucraino e amico personale di Putin poi fatto arrestare da
Zelens’kyj ed evacuato in Russia con uno scambio di prigionieri. Forse non sapre-
mo mai la verità.
Conosciamo invece con certezza le condizioni in cui si sono trovati i nostri
soldati alle porte della capitale ucraina: le lunghe e lente colonne di carri armati
che avanzavano verso Kiev sono state facile preda dei droni ucraini, principal-
mente Bayraktar Tb2 turchi, che in più occasioni bombardavano il centro delle
110 colonne causando l’isolamento di quanti erano in testa. Questi, privi di riforni-
LA GUERRA CONTINUA

menti, si sono trovati a pochi metri dalle truppe ucraine che a dispetto delle pre-
visioni non si sfaldavano. Molti dei nostri soldati erano stati equipaggiati per
operare in un contesto di guerriglia urbana, non di battaglia campale nelle piatte
e gelide campagne ucraine, dunque non è diffcile capire perché non siano riu-
sciti ad avanzare. Dinamiche analoghe sono avvenute nei dintorni di altre città,
per esempio alle porte di Kharkiv.

2. Fallita la presa di Kiev già nella prima metà di marzo, le nostre truppe han-
no ricevuto l’ordine di abbandonare progressivamente i sobborghi della capitale
ucraina per essere ricollocate soprattutto nel Donbas, nell’Ucraina meridionale e
intorno a Kharkiv, i territori che le Forze armate russe erano parzialmente riuscite
a controllare. L’operazione militare speciale per come era stata inizialmente conce-
pita terminava. Al suo posto iniziava una seconda fase, ma restava vietato chiamar-
la «guerra». Questa fase doveva consistere nel ricongiungere alla Federazione tutto
il Donbas e gran parte dei territori ucraini permeati dalla storia e dalla cultura
russe: le RosR di Kharkiv, Luhans’k, Donec’k, Zaporižžja, Kherson, Mykolajiv e
Odessa, le prime quattro in parte già conquistate.
La fase due rispondeva a esigenze geostrategiche, propagandistiche e identita-
rie. Dal punto di vista geostrategico l’obiettivo restava la fne dello Stato ucraino
flo-occidentale esistito dal 2014 al 2022. Arrivate a Odessa le truppe avrebbero
potuto ricongiungersi con i nostri soldati di stanza nella vicina Transnistria, privan-
do così l’Ucraina dell’accesso al Mar Nero e concentrando in mani russe l’esporta-
zione dei prodotti ucraini verso la Turchia e il Levante. Ciò avrebbe vincolato il
paese a Mosca, perché la sopravvivenza del mercato ucraino sarebbe stata legata
ai corridoi d’esportazione verso i mari caldi concessi dalla Russia e agli aiuti occi-
dentali veicolati principalmente attraverso la Polonia. Ciò avrebbe potuto condizio-
nare gli umori dei popoli europei su cui sarebbe gravato lo sforzo economico e
militare a favore di Kiev. Grandi erano le aspettative dello Stato maggiore russo per
l’autunno caldo dell’Europa occidentale, le cui popolazioni impoverite dal rincaro
di energia e materie prime per via delle sanzioni alla Russia avrebbero chiesto ai
loro governi di non fornire più armi e aiuti all’Ucraina. I successi del nostro eserci-
to avrebbero dovuto mostrare l’inutilità di tali forniture.
Dal punto di vista propagandistico e identitario la conquista del Donbas e
dell’Ucraina meridionale avrebbe dovuto mostrare la forza dei legami tra questi
territori e la Russia, sebbene negli ultimi otto anni Kiev avesse provato a reciderli.
Pensiamo alla rimozione dei simboli russi e sovietici da Odessa o alla simbolica
colonizzazione ucraina messa in atto a Mariupol’ per mano, tra l’altro, di una for-
mazione nazionalista come il Battaglione Azov la cui convivenza con la popolazio-
ne locale era spesso diffcile, se non confittuale. Il ricongiungimento di questi
territori alla Russia sarebbe stato da esempio per le altre popolazioni di lingua e
cultura russe oggi fuori dalla Federazione, non solo in Ucraina. Ciò spiega l’acca-
nimento nel conquistare Mariupol’, nonostante da metà marzo 2022 il Mar d’Azov
fosse già sotto il nostro controllo, il che rendeva la conquista del centro urbano 111
112
LO PSEUDOREFERENDUM RUSSO IN UCRAINA
La carta rifette la situazione sul campo al 2 ottobre 2022

K I E V Kharkiv
P O LTAVA

KH MEL’NYC’ K Y
J
VINNYCJA ČERKASY F. KHARKIV 99%
Izjum LUHANS'K
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F. KIROVOHRAD U C R A I N A Lyman
LA VERA POSTA IN GIOCO PER MOSCA

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58% REP. POPOLARE

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DI LUHANS’K

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MYKOLAJIV REP. POPOLARE
ODESSA DI DONEC’K

M A
Zaporižžja

O V A
Mykolajiv (Enerhodar)
Nova
72% 72%
ZAPORIŽŽJA

N I A
Odessa Kakhovka Percentuale del territorio
Mariupol’ dell’oblast’
Kherson KHERSON occupata dai russi
I primi quattro seggi, uno per ogni entità territoriale del
referendum, sono stati aperti in Russia nella Kamčatka, dove 91% Berdjans’k
sono dislocati molti sfollati provenienti da quelle regioni A
Percentuale voti pro annessione Ma r S
S
98,42% nella Repubblica Popolare di Luhans'k d’A zo v U
R
99,23% nella Repubblica Popolare di Donec'k CRIMEA E
93,11% nell'oblast' di Zaporižžja I O N
F E D E R A Z Controfensiva ucraina
87,05% nell'oblast' di Kherson
Territorio ucraino sotto controllo russo
L’oblast’ di Kherson includerà anche due distretti di Mykolajiv Sebastopoli Repubbliche florusse del Donbas
(città di Sniguriivka e area di Oleksandrivka) che hanno al 23 febbraio, prima dello scoppio
partecipato allo pseudoreferendum M A R N E R O della guerra
Fonti: Liveuamap e autori di Limes
LA GUERRA CONTINUA

irrilevante sul piano militare. I nostri soldati hanno combattuto fno a maggio,
quando l’ultimo soldato di Kiev si è arreso.
Malgrado questa vittoria simbolica, usata dalla nostra propaganda per compat-
tare il popolo russo, la seconda fase dell’operazione speciale ha mancato i suoi
obiettivi strategici più importanti. Dopo avere conquistato anche Sjevjerodonec’k e
Lysy0ans’k liberando così tutta l’oblast’ di Luhans’k, i nostri soldati si sono trovati
ad affrontare una potente controffensiva ucraina che a fne estate ci ha costretto a
una rovinosa ritirata dall’oblast’ di Kharkiv e addirittura alla perdita di territori lun-
go la strada che collega Svatove e Kreminna. Sjevjerodonec’k e Lysy0ans’k restano
vicine ai combattimenti, esposte al fuoco e popolate da gruppi armati flo-ucraini
che realizzano atti di sabotaggio e segnalano all’esercito ucraino le nostre posizio-
ni. I missili americani permettono all’esercito ucraino di colpire le nostre basi con
una certa precisione, risparmiando la popolazione civile se ritenuta non ostile.
A causa delle alte perdite Mosca ha dovuto indire la mobilitazione parziale dei
riservisti dell’esercito, chiamando centinaia di migliaia di uomini da tutta la Russia
a combattere nel Donbas. Poi ha ordinato a gran parte delle truppe di rimanere nel
Donbas, sebbene gli ordini iniziali fossero di trasferirsi nell’Ucraina meridionale
dove avrebbero dovuto sfondare il fronte a Mykolajiv per giungere a Odessa. Le
diffcoltà militari ci hanno imposto di difendere ciò che avevamo faticosamente
conquistato e che rischiavamo di perdere. Lo spostamento delle truppe dal Donbas
alle coste del Mar d’Azov è sempre più rischioso perché la strada che collega Do-
nec’k a Mariupol’ passa in alcuni punti a poca distanza dalle posizioni ucraine. I
missili occidentali consentono all’esercito di Kiev di bersagliare questa via di comu-
nicazione, compromettendo il trasferimento dei nostri mezzi militari. Altre strade
sono diffcilmente percorribili perché non asfaltate e minate dagli ucraini negli otto
anni precedenti.
Le nostre truppe nell’Ucraina meridionale hanno dunque fronteggiato seri pro-
blemi di approvvigionamento, aggravati dalla controffensiva ucraina dell’autunno
2022. Il ponte Antonivs’kyj, principale via di comunicazione tra la sponda Sud del
Dnepr e la città di Kherson (unico importante centro urbano sulla riva da noi con-
trollata), è stato abbattuto dall’artiglieria ucraina rendendo impossibile il trasferi-
mento in città di uomini e mezzi necessari a difenderla. Il nostro esercito è stato
quindi costretto a una progressiva ritirata sull’altra sponda, terminata a fne novem-
bre 2022, che ha segnato il tramonto delle ambizioni – almeno per il momento – di
giungere a Odessa e la fne della seconda fase.

3. La terza fase dell’operazione militare è iniziata con la ritirata da Kherson e


prosegue tuttora. Consiste in due manovre distinte. Una è la difesa dei territori nel
Sud sotto il nostro controllo, cioè le parti delle oblast’ di Kherson e Zaporižžja con-
quistate dal 24 febbraio 2022. Qui sono state costruite enormi linee difensive per
fronteggiare possibili contrattacchi degli ucraini attestati oltre il Dnepr. Sono state
disposte anche centinaia di posti di blocco stradali per mettere in sicurezza il terri-
torio dai gruppi armati flo-ucraini. 113
LA VERA POSTA IN GIOCO PER MOSCA

In queste oblast’ infatti i nostri soldati devono fronteggiare un’emergenza


molto meno marcata, se non assente, nel Donbas: l’ostilità di parti rilevanti della
popolazione che solidarizza con l’esercito di Kiev e con i gruppi armati flo-u-
craini che operano dall’inizio dell’operazione speciale. Si tratta di formazioni
spontanee o create dall’intelligence ucraina, responsabili di omicidi, sabotaggi,
incendi dolosi, attentati con autobombe o altri ordigni contro i nostri militari, i
posti di blocco, gli esponenti delle nuove amministrazioni florusse e le famiglie
che parteggiano per noi, accusate di collaborazionismo. Tra le popolazioni di
queste oblast’ e i cittadini del Donbas non sussistono nette differenze etniche o
linguistiche, ma il loro approccio ai russi è diverso. Non manca chi simpatizza
con noi, ma i gruppi armati non potrebbero agire se non godessero di consensi
tra i locali. Inoltre, l’intelligence ucraina ha infuenzato alcuni gruppi di tatari di
Crimea qui residenti, che mostrano nei nostri confronti una freddezza diffcile da
superare.
Questa diffusa ostilità ha generato un sentimento di sfducia in alcuni nostri
soldati, che si aspettavano di essere accolti come liberatori da una popolazione
oppressa dai nazionalisti ucraini. Anche per questo stanno venendo massiccia-
mente impiegate la Rosgvardija e le Forze speciali cecene, specializzate nelle
operazioni di repressione di gruppi armati ostili e dediti ad azioni terroristiche.
La seconda manovra si sta svolgendo nel Donbas settentrionale, nel Nord
delle regioni di Donec’k e di Luhans’k. Partendo dalle posizioni intorno a Sjevje-
rodonec’k e a Lysy0ans’k, il nostro fronte avanza verso il centro della regione di
Donec’k provando a tagliare in due l’oblast’ per impedire i collegamenti tra le
truppe ucraine poste a ridosso della città di Donec’k e il grosso delle loro forze
concentrato intorno a Slov’jans’k e a Kramators’k. La manovra punta a rompere lo
stallo intorno a Donec’k, la città più importante del Donbas ancora adiacente alle
posizioni degli ucraini, che la bersagliano costantemente.
Per mesi abbiamo provato ad allontanare il nemico dal perimetro urbano, ma
il fronte non si è mosso malgrado le numerose perdite tra le nostre fle. La diffcol-
tà è dettata dal fatto che negli ultimi otto anni l’esercito ucraino ha costruito una
serratissima linea di difesa che cinge la città, fatta di cunicoli labirintici, fortifcazio-
ni e sistemi di videosorveglianza che gli permettono di monitorare i nostri sposta-
menti. Tuttavia, per tenere le posizioni anche i loro soldati stanno subendo nume-
rose perdite. Il nostro esercito sta quindi provando a isolare la zona per privarla dei
rifornimenti e costringere le truppe di Kiev ad arretrare di qualche decina di chilo-
metri, ponendo così fne all’assedio.
Per questa operazione Putin ha deciso di affdarsi al Gruppo Wagner, la com-
pagnia privata controllata da Evgenij Prigožin: un esercito distinto da quello russo
che prende ordini da un vertice estraneo al ministero della Difesa, essendo alle
dirette dipendenze di Prigožin. I suoi uomini hanno esperienze belliche diversif-
cate, venendo impiegati ovunque nel mondo la Russia combatta per promuovere
i propri interessi o necessiti di realizzare azioni militari le cui responsabilità non
114 devono essere direttamente ascrivibili al Cremlino. Come nel Donbas tra il 2014 e
LA GUERRA CONTINUA

il 2015, oppure in Siria. Le truppe del Wagner stanno avanzando nella striscia di
terra che separa Soledar da Bakhmut.
In questo momento la Russia sta dunque vincendo sul piano tattico, sottraendo
terreno all’Ucraina e infiggendole consistenti perdite umane e materiali. L’offensiva
evidenzia quanto Kiev dipenda dal sostegno occidentale e di questo Mosca è con-
sapevole, come anche del fatto che l’arrivo di nuovi armamenti – ed eventualmen-
te truppe – a sostegno dell’esercito ucraino potrebbe risultare determinante.
L’esito di questa terza fase è legato non tanto alle capacità operative degli
ucraini, che pure dimostrano tenacia e capacità organizzative inaspettate, quanto
alla determinazione occidentale nel continuare a sostenere Kiev dal punto di vista
militare, economico e politico. In questo momento la Federazione Russa deve con-
quistare più territorio possibile, a fni strategici ma anche per convincere le opinio-
ni pubbliche occidentali che il loro sostegno all’Ucraina è vano, così da rafforzare
quanti vi si oppongono.
Ormai anche noi riconosciamo apertamente che questo confitto è la manife-
stazione di un più ampio scontro tra Russia e Stati Uniti. Un esito dell’operazione
speciale che soddisf entrambe le parti, russa e occidentale, non porterebbe auto-
maticamente alla ricomposizione degli equilibri internazionali precedenti al 24 feb-
braio 2022. L’ordine prima in vigore è ormai obsoleto, servirà quindi la disponibi-
lità di entrambe le parti a crearne uno nuovo fondato sul rispetto dell’interesse
geopolitico altrui e delle linee rosse da non oltrepassare per garantire una convi-
venza accettabile.
La Russia deve pertanto assumere un approccio realista, riconoscendo che se
neanche questa operazione dovesse concludersi con un accordo soddisfacente, il
nostro collocamento nel nuovo ordine internazionale sarà inevitabilmente meno
favorevole di prima. Con l’operazione in Ucraina volevamo porre sotto scacco
l’Occidente, dando prova della nostra forza militare e della presa emotiva sulla
popolazione ucraina. Il fallimento delle prime due fasi ha invece comportato una
perdita di prestigio: diffcilmente riusciremo a tramutare gli attuali successi nel
Donbas in un vantaggio geostrategico nei confronti dei nostri avversari. Ma ci stia-
mo provando.

115
LA GUERRA CONTINUA

L’UCRAINA DI DOMANI
PUÒ SPACCARE L’EUROPA di Fulvio SCAGLIONE

La guerra imposta da Mosca permette a Zelens’kyj di forgiare il suo


potere sul paese invaso. Controllo sui media, sulla Chiesa ortodossa,
epurazioni, fine di ogni opposizione e utilizzo delle destre sono scelte
temporanee o le democrazie continentali dovranno farci i conti?

1. I GIORNALISTI DI NAŠI GROŠI (I NOSTRI SOLDI),


il sito di giornalismo investigativo con base a Leopoli, sono piuttosto arrabbiati e
non lo nascondono. All’inizio dell’anno il governo ha presentato in parlamento
per la seconda lettura il progetto di bilancio per il 2023 e loro hanno scoperto che
«vogliono ancora aggiungere un miliardo e mezzo di hryvni al Telethon naziona-
le» 1, con un provvedimento che era stato rinviato per le critiche dell’opinione
pubblica già precedentemente alla prima lettura. Si tratta di una cifra folle per una
trasmissione televisiva che pubblicizza in regime di monopolio il punto di vista
delle autorità. I «servi del popolo» 2 pagano così i propri conti, a spese di tutti i
contribuenti ucraini 3.
Una cifra, quella citata da Naši Groši, che in effetti pare cospicua, soprattutto
se confrontata con i 4 miliardi per il ministero dell’Agricoltura o i 5 per il ministero
dell’Energia che l’Ucraina – già prima della guerra in lizza con la Moldova per il
titolo di paese più povero d’Europa, ora piagata da un confitto estremamente di-
struttivo 4 che la costringe di fatto a farsi «mantenere» dall’Europa e dagli Usa – è
riuscita a stanziare. Si sa quale importanza il presidente Zelens’kyj e i suoi attribu-
iscano alla comunicazione e alla propaganda, tanto da attrezzarsi allo scopo ben

1. Il programma televisivo istituito subito dopo l’inizio dell’invasione russa e che trasmette in forma
di telemaratona sulle frequenze di Rada Tv, il canale del parlamento. Ai programmi e alle news con-
tribuiscono a turno 30 diverse televisioni ucraine.
2. Il riferimento è a Servo del popolo, il partito del presidente Zelens’kyj che dal 2019 ha la maggio-
ranza assoluta in parlamento.
3. «V urjadi dodali mil’jardiv na monopol’nyj telemarofon i remont dorih» («Il governo ha aggiunto
miliardi al telethon e alle riparazioni stradali»), nashigroshi.org, 11/1/2022.
4. In una relazione al governo del 3 gennaio 2023, il premier Denys Šmyhal’ stimava i danni di guer-
ra a 700 miliardi di dollari. D. KACHKACHISHVILI, «Ukraine war has caused over $700B in damage to na-
tion’s economy: Premier», aa.com.tr, 4/1/2023. 117
L’UCRAINA DI DOMANI PUÒ SPACCARE L’EUROPA

prima dell’irruzione delle armate russe 5. E quali validi risultati 6 abbiano accompa-
gnato gli sforzi di un gruppo di comando che non ha esitato ad affdarsi anche a
giovanissimi come il trentenne Mykhailo Fedorov, ministro alla Trasformazione
digitale, vicepremier e diretto interlocutore di Elon Musk 7 per le questioni legate
allo sfruttamento della rete di satelliti Starlink che il miliardario ha messo gratuita-
mente a disposizione dell’Ucraina. Ma non è questo il punto.
Il punto è che di questioni come questa, che pure animano la vita politica e
sociale dell’Ucraina, nessuno parla. Perché il paese, oggi, è surgelato nell’immagine
che l’Occidente ha voluto dare di questa guerra e che Kiev, per comprensibilissime
ragioni (cioè, per avere le armi con cui difendersi e il denaro con cui sopravvivere),
si è acconciata a adottare e a promuovere. E che, forse semplifcando, possiamo
sintetizzare così. La Russia invade perché è un paese con l’imperialismo nel dna; è
lo scorpione che morde la rana, anche se questa gli fa attraversare il fume, perché
mordere è nella sua natura. L’Ucraina combatte per la libertà sua e nostra, combat-
te per la democrazia di tutti. Bisogna sostenere l’Ucraina per evitare che l’idea e la
pratica della democrazia vengano erose prima qui e poi chissà dove, con un ragio-
namento che molto somiglia a una riedizione della «teoria del domino» che il pre-
sidente americano Dwight Eisenhower illustrò nell’aprile 1954 8. Teoria che portò a
una lunga serie di interventi militari in tante parti del mondo e che oggi consente
di costruire un effcace parallelo mediatico tra la Russia di Vladimir Putin e l’Unio-
ne Sovietica di Iosif Stalin.
C’è chi va oltre e all’interno della stessa impostazione sottolinea che questa
guerra cambierà l’Europa che – come prevede Andrew A. Michta dell’Atlantic
Council’s Scowcroft Center for Strategy and Security – uscirà rinvigorita da questa
battaglia esistenziale e dall’ascesa di un’Europa nord-orientale che godrà, grazie al
compatto appoggio alla causa ucraina, della dispersione «del concetto un tempo
nebuloso dell’Europa orientale come un ristagno dell’Occidente» 9.
Dentro questo genere di approccio fdeistico c’è spazio solo per l’Ucraina che
combatte. Anche perché l’Ucraina che intanto prova a costruirsi un futuro, a deci-
dere che cosa fare di sé in previsione della fne di una guerra che peraltro è con-
vinta di poter vincere, potrebbe non essere perfettamente allineata a certe speran-
ze o previsioni.
Pensiamo a che cosa avrebbero scritto i giornalisti di Naši Groši, per esempio,
se avessero immaginato quel che sarebbe successo dopo la loro invettiva. Se aves-
sero visto la hotline aperta dagli ispettori generali del dipartimento della Difesa, del
dipartimento di Stato e dell’Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale (Usaid) per
consentire ai cittadini ucraini di denunciare eventuali casi di uso improprio, frode,
appropriazione indebita (e persino di sfruttamento e abuso sessuale) degli aiuti
5. G. GAGLIANO, «Cyber e hacker per difendere l’Ucraina», letteradamosca.eu, 1/3/2022.
6. F. SCAGLIONE, «Guerra in Rete, vince l’Ucraina», ivi, 7/7/2022.
7. «Il piano di Fedorov, fedelissimo di Zelensky e “amico” di Elon Musk», quifnanza.it, 31/7/2022.
8. «Eisenhower explains the Domino theory (1954)», alphahistory.com.
118 9. A.A. MICHTA, «Ukraine: A battle over the future of Europe», politico.eu, 26/12/2022.
LA GUERRA CONTINUA

militari e umanitari in arrivo da Oltreoceano. O se avessero dovuto tenere il conto


delle teste saltate nel corso dell’ennesima purga decisa dal presidente Zelens’kyj,
che accampa l’obiettivo di combattere la corruzione. In pochi giorni sono stati cac-
ciati il viceprocuratore generale Oleksij Symonenko, i procuratori di cinque oblast’
(Zaporižžja, Kirovod, Poltava, Sumy e 9ernihiv), il sindaco della stessa città di Pol-
tava, quattro governatori (delle oblast’ di Dnipro, Zaporižžja, Sumy e Kherson), il
vicecapo dell’amministrazione presidenziale Kyrylo Tymošenko (sodale di Ze-
lens’kyj fn dai tempi del cinema e della tv, sostituito da Oleksij Kuleba, già gover-
natore dell’oblast’ di Kiev e grande appassionato di pallacanestro), quattro vicemi-
nistri (Vasyl’ Lozyns’kyj delle Infrastrutture, V’ya0eslav Negoda e Ivan Lukerya del-
lo Sviluppo territoriale e comunitario, V’ya0eslav Šapovalov della Difesa). Un bel
gruppo di controllori e controllati, tutti insieme appassionatamente. Il caso più
eclatante è stato quello di Šapovalov, che alla Difesa era responsabile dell’assisten-
za logistica alle Forze armate. La sua uscita di scena è arrivata subito dopo che il
giornalista di un sito indipendente, Yurij Nikolov di Zerkalo Nedeli, aveva denun-
ciato dati alla mano gli acquisti a prezzi gonfati di vettovaglie per l’esercito, come
le patate pagate 22 hryvni al chilo quando nei negozi costano 8 o le uova (pagate
17 hryvni invece di 7).
Che l’Ucraina indipendente abbia un problema trentennale di corruzione im-
perante è noto – la lotta al malaffare, peraltro, era stata uno dei temi vincenti della
campagna elettorale di Zelens’kyj nel 2019. E non ci si deve stupire che in tempo
di guerra l’abbondante e rapido affusso di aiuti occidentali e le sbrigative proce-
dure per gestirlo abbiano indotto in tentazione qualche arruffone vecchio e nuovo.
Lozyns’kyj, ad esempio, sarebbe stato colto con le mani nel sacco mentre incassava
una tangente di 400 mila dollari per agevolare una serie di contratti per la ripara-
zione del sistema elettrico, avidità che risulterebbe particolarmente odiosa viste le
diffcoltà che gli ucraini devono affrontare a causa dei continui bombardamenti
russi contro il sistema energetico nazionale. Eppure si ha la sensazione che, al di là
dei singoli casi, in questo presunto repulisti ci sia una discreta quota di cosmesi,
per mostrare al mondo che cambia tutto mentre cambia poco. Primo, saltano solo
i vice. Il vero cerchio magico zelenskiano ancora una volta ne esce indenne. Se-
condo, i governatori e i politici locali quasi mai appartengono a Servo del popolo,
il partito del presidente, che alle elezioni amministrative del 2020 fu sconftto pra-
ticamente ovunque. Terzo, la purga resta la risposta tipica di Zelens’kyj nei momen-
ti di diffcoltà.
Ne abbiamo già parlato su Limes 10 in numeri precedenti, a partire dalla gran-
de purga del luglio 2021 che portò alla rimozione di decine di funzionari dell’am-
ministrazione militare e dei servizi di sicurezza della «vecchia guardia». In perfetta
coincidenza con la sostituzione della procuratrice generale Iryna Venedyktova e
del capo dei servizi di sicurezza (Sbu) Ivan Bakanov e poco prima della nascita
10. F. SCAGLIONE, «Epura et impera, il metodo Zelens’kyj», Limes, «La Guerra Grande», n. 7/2022, pp.
193-199. 119
L’UCRAINA DI DOMANI PUÒ SPACCARE L’EUROPA

del nuovo Servizio per la sicurezza economica, ramo dei servizi segreti affdato
al trentaseienne Kyrylo Budanov, «falco» dalla rapidissima ascesa all’interno degli
apparati zelenskiani. Il repulisti non si è fermato al luglio scorso ma ha alzato la
sua spada di Damocle sul capo di molti altri personaggi diventati improvvisamen-
te, solo per occhi che non vogliono vedere il quadro generale, scomodi: per fare
solo qualche esempio, V’ya0eslav Boguslayev 11, governatore della Banca centrale
Kyrylo Ševcenko 12 e Alena Lebedeva, fglia di un ex ministro ucraino della Difesa,
titolare dell’Aurum Group, importante azienda del settore militare. Tutti accusati
di corruzione o, peggio, di tradimento o di «azioni di fnanziamento connesse con
l’obiettivo di impadronirsi o rovesciare il potere dello Stato», come nel caso di
Lebedeva. Un modo piuttosto effcace per fare spazio a nuove leve di fedelissimi
e piazzarli nei gangli decisivi del sistema politico ed economico ucraino. E intan-
to trasmettere agli ucraini la sensazione di una coerenza e di un’effcienza che, al
di fuori dal settore strettamente collegato alle operazioni militari e alla resistenza
all’aggressione russa, sono lungi dall’essere raggiunte.
Piuttosto prevedibile, quindi, che la strategia venisse applicata anche in questa
fase, con le truppe del Cremlino all’offensiva nel Donbas, l’addensarsi di fosche
previsioni di nuovi e massicci attacchi russi nei prossimi mesi, la richiesta pressan-
te agli Usa e all’Unione Europea di armamenti sempre più potenti. Insomma, con
la consapevolezza che l’Orso russo, dato per bolso e confuso nell’autunno scorso,
nel quadro della controffensiva di Kiev, ha invece ancora carte da giocare.

2. È ovvio che le svolte sul campo di battaglia abbiano avuto una forte in-
fuenza sulla postura della classe dirigente ucraina, dal presidente Zelens’kyj
all’ultimo dei ministri. La controffensiva – che ha consentito a Kiev di ripristinare
il controllo su almeno metà del territorio perso nei primi mesi dell’invasione russa
e di recuperare la città di Kherson, l’unico capoluogo di oblast’ che Mosca fosse
riuscita a conquistare – li ha convinti che la disfatta totale è stata ormai evitata e
che, più o meno mutilata o addirittura totalmente ripristinata nei confni del 1991
al momento della dichiarazione di indipendenza, un’Ucraina autonoma, affranca-
ta dalla tutela del Cremlino e padrona del proprio destino continuerà comunque
a esistere. Chi scrive non ha mai creduto che l’obiettivo del Cremlino fosse la
conquista totale dell’Ucraina 13, al più la conquista da nord a sud della parte del
paese a est del fume Dnepr, com’era quattro secoli fa quando a ovest comanda-
va la Polonia. Resta il fatto che, per strategia cosciente o per necessità imposta, al
momento i russi proprio quello fanno: si attestano sul Dnepr, da usare come
confne naturale, e attaccano nel Donbas per conquistare l’intero territorio ammi-
nistrativo delle regioni di Donec’k e Luhans’k, ovviamente più ampio di quello
11. Amministratore delegato del gruppo Si0, principale produttore ucraino di motori per aerei ed
elicotteri.
12. Costretto a dimettersi per accuse di corruzione, è scappato all’estero e ha poi chiesto asilo politi-
co in Austria.
120 13. F. SCAGLIONE, «Il piano preparato dalla Russia vuole riportare l’Ucraina al 1656», avvenire.it, 9/3/2022.
LA GUERRA CONTINUA

più o meno controllato dalle due ex repubbliche autoproclamate nel 2014 e rese
obsolete dall’annessione alla Russia decretata a fne settembre 2022. Il che confer-
ma quanto si diceva: se anche Mosca riuscisse nel proprio intento, conquistando
Luhans’k e Donec’k con parte della regione di Kherson e di Zaporižžja, restereb-
be pur sempre dall’altra parte un’Ucraina popolosa e vigorosa, aiutata dall’intero
Occidente e con qualche non illusoria speranza di riuscire a farsi accettare sia
nella Ue sia nella Nato.
Zelens’kyj e i suoi operano chiaramente all’interno di questa prospettiva e di
questa convinzione. E altrettanto chiaramente, pur impegnati a combattere una
guerra durissima e sanguinosa, lavorano per costruire l’Ucraina del futuro. E quale
dovrebbe essere, questa Ucraina di domani?
Molto, com’è ovvio, dipende dalla durata della guerra. Volodymyr Zelens’kyj
è stato eletto nella primavera 2019 e poco dopo è stato rinnovato il parlamento.
Entrambi restano in carica cinque anni, quindi la prossima tornata elettorale do-
vrebbe in teoria svolgersi nel 2024, tra poco più di un anno. Tutti ovviamente
pensano e sperano che per quell’epoca la guerra sia già fnita, ma l’ipotesi contra-
ria, o qualcosa che le somigli, non può essere scartata a priori: con un confitto
ancora in corso, o con la legge marziale in vigore, o magari nel pieno di una trat-
tativa con la Russia e con una faticosa ricostruzione da avviare e dirigere, siamo
sicuri che l’architettura politica e sociale dell’Ucraina potrebbe reggere anche l’im-
pegno del rinnovo della massima carica istituzionale e della sede della rappresen-
tanza popolare? E che non troverebbe legittimamente più facile rinviare il voto a
tempi migliori, continuando ad affdarsi al presidente eroe e al parlamento, che è
una catena di trasmissione delle sue decisioni (Servo del popolo, il partito di Ze-
lens’kyj, nel 2019 ha ottenuto 254 dei 450 seggi della Verkhovna Rada, il parlamen-
to monocamerale ucraino, e gode dell’appoggio di una quarantina di altri deputati)
e si è forgiato dalle diffcoltà della guerra?

3. Teoria, dicevamo. Passiamo allora alla pratica, alle decisioni concrete che
l’amministrazione Zelens’kyj ha preso da quando è cominciata l’invasione russa,
cioè da quando ha dovuto impegnarsi per combattere una guerra che, come tutti
dicono, da Mosca a Kiev a Washington passando per Bruxelles, è «esistenziale»,
ovvero deciderà degli equilibri mondiali per chissà quanti decenni a venire. E stia-
mo parlando delle decisioni che poco hanno a che fare con generali e soldati,
carri armati e aerei, missili russi e vittime civili, e che invece sembrano mostrare un
orientamento abbastanza preciso di rimodellamento della società.
Per prima cosa va notato che con pochi tratti di penna su qualche decreto,
approfttando delle leggi emergenziali prima (confitto nel Donbas) e della legge
marziale poi (invasione russa), Zelens’kyj ha messo fuorilegge qualunque forma
organizzata di reale opposizione politica. A destra come a sinistra. Prima della
guerra erano state tacitate con la revoca della licenza e il sequestro dei beni le
televisioni come Zik, Newsone e 112 Ukraine legate ai partiti florussi come Piat- 121
L’UCRAINA DI DOMANI PUÒ SPACCARE L’EUROPA

taforma di opposizione per la vita 14. Poi, a guerra iniziata da venticinque giorni,
sono state sospese le attività di undici partiti. In primo luogo quelle di Piattafor-
ma di opposizione per la vita e Blocco di opposizione. Che erano di certo so-
spettabili di aver sostenuto e magari di sostenere ancora posizioni «florusse», ma
erano anche le uniche forze davvero critiche all’interno del parlamento con i
loro 43 e 6 deputati rispettivamente. Eliminate quelle, la distribuzione dei seggi
in parlamento è diventata ancor più favorevole al già preponderante schiera-
mento zelenskiano.
Ma non basta. La grande maggioranza dei partiti messi al bando con la gene-
rica accusa di essere florussi (che è diventata il passepartout di una miriade di
provvedimenti) non era nemmeno rappresentata in parlamento, e andava dal
partitino personale come il Partito di Šarij 15 al Partito socialista d’Ucraina. Di fatto,
dopo quel provvedimento hanno potuto operare legalmente in Ucraina solo i
partiti governativi di sicura fede zelenskiana e la destra di Svoboda, fondato e
diretto da Oleh Tyahnybok, a suo tempo già fondatore della formazione di ispi-
razione neonazista Partito social nazionalista ucraino. Nel 2004, diventato presi-
dente, Tyahnybok ha ripulito il partito degli elementi più estremisti, portandolo
nel 2012 a ottenere il 10,45% dei voti nelle elezioni politiche e ottenendo così 37
seggi in parlamento, e nel 2014, dopo Jevromajdan e la fuga del presidente Ja-
nukovy0, ad avere un’importante rappresentanza nel primo governo Jacenjuk 16.
Poi il declino, il crollo dei consensi, le dimissioni dei ministri e nel 2019, alle
elezioni che diedero la maggioranza assoluta a Servo del popolo, l’alleanza con
Pravy Sektor e altri partitini ultranazionalisti, portando in parlamento un solo
deputato.
Si produce così, dal punto di vista della pratica democratica, un risultato para-
dossale: un partito pure assurdo come quello di Šarij, che aveva raccolto nel 2019
il consenso del 2,24% dei votanti (327.152 persone, tutte florusse e traditrici?) è
stato cancellato mentre Svoboda e compagni, con il loro 2,16% dei voti (315.568
persone) hanno ricevuto la patente non solo di legalità ma di autentico patriotti-
smo. Ma l’accusa di floputinismo, putinismo o addirittura di tradimento passa co-
me uno schiacciasassi su qualunque altra considerazione. Riesce onestamente dif-
fcile credere che le migliaia di procedimenti aperti per sospetto tradimento corri-
spondano a effettive collusioni con il nemico, anche perché i processi non sono
certo celeri e le sentenze in proposito tardano ad arrivare. Per non parlare poi dei
casi clamorosi come quello di Denys Kireev, fnanziere e membro della prima de-
legazione ucraina che provò a trattare con i russi. Nel febbraio 2022 Kireev è stato
ucciso a colpi d’arma da fuoco nel centro di Kiev. Come si disse allora, da agenti
dei servizi segreti ucraini che cercavano di arrestarlo perché, appunto, colpevole di
14. A. DEL FREO, «Ucraina. Tre reti tv imbavagliate da Zelensky», articolo21.org, 4/2/2021.
15. Dal nome del giornalista e blogger Anatolij Šarij, critico di Zelens’kyj, convinto che la Crimea sia
ucraina e che il Donbas sia russo.
16. Erano di Svoboda il vicepremier Oleksandr Sj0, il ministro delle Politiche agricole Ihor Svaika e il
122 ministro delle Risorse naturali Andrij Mokhnyk.
LA GUERRA CONTINUA

tradimento a favore dei russi. Qualche settimana fa Kireev è stato uffcialmente ri-
abilitato dall’uffcio presidenziale di Zelens’kyj.
Mentre metteva fuorilegge tutti i partiti sgraditi e varava per decreto il canale
unico televisivo che poco piace ai giornalisti di Naši Groši, Zelens’kyj mostrava
tutta la sua astuzia politica nel servirsi della galassia di movimenti di destra, dai
nazionalisti estremi ai neonazisti, tenendoli però ai margini del sistema politico e
decisionale come gli scarsi risultati di Svoboda perfettamente dimostrano. Proprio
in quel periodo, il presidente ucraino parlò in teleconferenza al parlamento greco
facendosi «accompagnare» nel collegamento da due uffciali del Battaglione Azov,
presentati come «esponenti della comunità greca di Mariupol’», la città allora asse-
diata dai russi e difesa, appunto, dai soldati dell’Azov. Una gaffe colossale, visto
che quelli dell’Azov avevano condiviso molte esperienze con Alba Dorata, il mo-
vimento neofascista che la Grecia aveva messo al bando nel 2017, ma che ha in-
dignato solo i greci. D’altra parte Denys Prokopenko, comandante dell’Azov a
Mariupol’, aveva anche ricevuto dal presidente una delle più alte onorifcenze
ucraine, la medaglia dell’Ordine della Croce d’Oro.
Abbiamo fn qui parlato dell’Azov, e si potrebbe parlare anche dei Battaglio-
ni Aidar, Dnepr 1 e Dnepr 2, di Pravy Sektor e di tanti altri movimenti più o
meno piccoli. Potremmo anche ricordare che la Corte suprema ucraina, dopo
cinque anni di pensamenti, nell’autunno dell’anno scorso ha sentenziato che i
simboli della divisione delle SS «Galizia», così spesso ostentati nelle manifestazio-
ni degli ultranazionalisti, non sono nazisti. Per la grande soddisfazione dell’Isti-
tuto ucraino di memoria nazionale, che si era assunto l’onere della «difesa» anche
se la 14° Divisione Waffen Grenadier SS «Galizia» era stata formata da militanti
nazionalisti ucraini nel 1943 su iniziativa del governatore nazista della Galizia
Otto von Waechter ed era poi stata coinvolta in operazioni punitive e massacri
di civili.

4. Ma non bisogna confondere questi epifenomeni con la sostanza. L’Ucrai-


na non è, come dicono al Cremlino e come molti ripetono volentieri anche in
Europa, un «paese nazista». Gli uomini dell’ultradestra nazionalista sono la carne
da cannone o i «volenterosi carnefci» di un’operazione politica e culturale le cui
redini sono fermamente rette da Zelens’kyj e dai suoi, un gruppo dove i qua-
rantenni sono gli anziani e in cui c’è poco spazio per le memorie del tempo che
fu. I fanatici della destra sono in prima linea nello smantellamento dei monu-
menti alle grandi personalità della cultura russa – di cui pubblicano con orgo-
glio persino le mappe 17 – e ricevono gli elogi dell’ormai famoso ministro della
Cultura Oleksandr Tka0enko, ispiratore delle due leggi che nel giugno scorso
hanno proibito la stampa e la diffusione di libri di autori e autrici che dopo il
1991 e la dissoluzione dell’Urss abbiano mantenuto la cittadinanza russa e la
riproduzione di musiche di autori e autrici russi post-sovietici. Quei fanatici

17. t.me/letteradamosca/11674 123


L’UCRAINA DI DOMANI PUÒ SPACCARE L’EUROPA

pensano che le loro azioni servano a far rinascere la mitologica Ucraina del
passato su cui amano fantasticare. Zelens’kyj, invece, sa che servono a far na-
scere l’Ucraina del futuro.
Proprio come succede in ambito ecclesiastico, dove è partita la grande ope-
razione per mettere al bando (una legge apposita è già in discussione in parla-
mento, e ci sono pochi dubbi su come andrà a fnire) la Chiesa ortodossa rus-
sa-patriarcato di Mosca e sequestrarne strutture e proprietà. Il segnale più clamo-
roso ed evidente non è venuto dall’espulsione di due decine di vescovi e sacer-
doti, privati della cittadinanza ucraina. E nemmeno dalla serie infnta di perquisi-
zioni ai danni di chiese, parrocchie, monasteri e seminari della Chiesa stessa, o
dalle 129 chiese sequestrate nel 2022. Un fenomeno così pronunciato da portare
per la prima volta nella storia un metropolita, Antonyj di Volokalamsk, presidente
del dipartimento per le Relazioni esterne del patriarcato di Mosca, a parlare pres-
so il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha poi timidamente invitato le autorità
ucraine ad attenersi alle norme internazionali quando perquisiscono le chiese. A
indicare la strada che viene percorsa sono state le celebrazioni del Natale ortodos-
so nella cattedrale della Dormizione del monastero delle Grotte di Kiev, uno dei
luoghi più cari e sacri al mondo ortodosso. Fondato nel 1051 da un gruppo di
monaci che si ritirò in meditazione e preghiera nelle grotte del Monte Berestov, è
da sempre uno dei cuori pulsanti della Chiesa ortodossa russa, che peraltro nella
religiosità e spiritualità degli ucraini ha sempre trovato un grande serbatoio di
ispirazione e di vocazioni.
Quest’anno i rappresentanti della Chiesa ortodossa russa sono stati espulsi
dalle celebrazioni, che sono invece state affdate al metropolita Epifanij I (per il
mondo Serhij Petrovy0 Dumenko), metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, il giova-
ne (43 anni) capo della Chiesa ortodossa ucraina autocefala, nata nel 2018 in fun-
zione palesemente antirussa sulla spinta del presidente Petro Porošenko, che con-
siderava la Chiesa ortodossa legata al patriarcato di Mosca una minaccia per la si-
curezza nazionale 18. Dal punto di vista del diritto civile e del diritto canonico è
tutto più che in regola. Il grande Monastero delle Grotte, con la sua splendida
cattedrale1 metropolita Antonyj di Volokalamsk 19, è di proprietà dello Stato e il
contratto di afftto con la Chiesa ortodossa russa-patriarcato di Mosca scadeva pro-
prio nel dicembre scorso. E la Chiesa ortodossa ucraina metropolita Antonyj di
Volokalamsk 20 è stata riconosciuta e dotata dell’autocefalia dal patriarca ecumenico
18. L’importanza che Porošenko dava al fattore religioso era in tutta evidenza anche nello slogan
scelto per la campagna elettorale del 2019: «Esercito, lingua e fede».
19. Nel 1990 il complesso è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
20. La nascita uffciale di questa Chiesa, il 15 dicembre 2018, è avvenuta tramite un «concilio di ricon-
ciliazione» con la Chiesa ortodossa ucraina-patriarcato di Kiev (fondata nel 1992 dal metropolita Fila-
ret, ovvero Mykhaylo Antonovy0 Denysenko, nell’Ucraina da poco diventata indipendente) e con la
Chiesa ortodossa autocefala ucraina. La prima nata per opera di colui che era stato il grande preten-
dente al patriarcato nel conclave del 1990 della Chiesa ortodossa russa, che aveva invece eletto Ales-
sio II. La seconda fondata nel 1921 durante la breve indipendenza ucraina, rinata nel 1942 all’ombra
dell’occupazione nazista, sopravvissuta all’estero dopo la vittoria sovietica e defnitivamente ristabili-
124 ta nel 1990 con l’indipendenza dell’Ucraina.
LA GUERRA CONTINUA

Bartolomeo di Costantinopoli, che per questo ha affrontato la rottura totale con il


patriarcato di Mosca e il patriarca Kirill.
Eppure la Chiesa ortodossa russa-patriarcato di Mosca è tuttora la casa spiri-
tuale di milioni di ucraini 21 metropolita, che non per questo sono meno fedeli alla
causa del proprio paese o meno preoccupati per le sue sorti. Ed è piuttosto evi-
dente il desiderio delle autorità di accelerare il processo, che la nascita della nuova
Chiesa nazionale e soprattutto l’invasione russa hanno peraltro già avviato, di so-
stituzione della Chiesa compromessa dai legami con Mosca – e con un patriarca
come Kirill, che fn dal primo momento non ha esitato a giustifcare l’operazione
militare 22 – con una Chiesa non tanto nazionale quanto nazionalista. E poco timo-
rosa di prendere a bordo esponenti di una Chiesa storicamente compromessa con
il nazionalismo più estremo e destrorso. Nei suoi quattro anni di vita, la nuova
Chiesa ortodossa ucraina ha accolto circa 1.500 parrocchie, diocesi o comunità che
hanno abbandonato la Chiesa ortodossa russa 23. Più di 700, però, l’hanno fatto
dopo il 24 febbraio 2022, a conferma che la spinta decisiva è arrivata dall’aggres-
sione decisa dal Cremlino.

5. Chiudiamo questa rassegna con un ultimo esempio tra le decisioni di Ze-


lens’kyj destinate a tracciare i contorni dell’Ucraina di domani. Nel periodo nata-
lizio il presidente ha controfrmato una legge molto discussa, approvata dal par-
lamento dopo anni di discussioni, considerata liberticida sia dall’Unione dei gior-
nalisti ucraini sia dalla Federazione europea dei giornalisti, che l’ha defnita «de-
gna dei peggiori regimi autoritari» 24. Una legge di cui persino Open Democracy,
diffcilmente sospettabile di atteggiamenti anti-ucraini, dice 25 che è una cosa che
nemmeno ai tempi delle presidenze di Ku0ma e Janukovy0 si era mai vista. E
Ku0ma era uno accusato di aver fatto uccidere il giornalista Heorhij Gongadze nel
2000 26. Questa legge affda al Consiglio nazionale per la tv e la radio, cioè a una
commissione statale, il controllo assoluto su tutti i media, con un potere totale di
intervento ed eventualmente di censura. Considerato che già il più potente e se-
guito strumento informativo, la televisione, opera in regime di canale unico stata-
lizzato, la nuova legge somiglia tanto a un tentativo di tirare le redini alla galassia
di siti e canali assortiti che per ora sono sfuggiti ai controlli e che, pur nel gene-
rale sostegno alla causa patriottica e antirussa, hanno mantenuto qualche margine
di autonomia.
21. Sono stati numerosi gli appelli di personaggi pubblici, semplici cittadini e persino soldati impe-
gnati al fronte per la sospensione di quella che molti considerano una «persecuzione» ai danni della
Chiesa ortodossa russa.
22. R. CRISTIANO, «L’omelia di guerra del patriarca Kirill: “Difendiamo i valori dalla deriva Lgbt”», reset.
it, 7/3/2022.
23. «Do Pcu z 24 ljutogo priednalisja š0e ponad 700 parafj» («Più di 700 parrocchie hanno aderito
all’Ocu dal 24 febbraio»), ukrinform.ua, 6/1/2023.
24. «La censura di Zelens’kyj», letteradamosca.eu, 16/12/2022.
25. S. GUZ, «Ukraine’s proposed new media law threatens press freedom», opendemocracy.net, 7/11/2022.
26. A. STABILE, «Ucraina, presidente sotto accusa. Ha fatto uccidere un giornalista», repubblica.it,
18/2/2001. 125
L’UCRAINA DI DOMANI PUÒ SPACCARE L’EUROPA

Nessuno è così ingenuo da non capire quali possano essere i problemi e le


esigenze di una classe politica alle prese con un paese povero, un invasore scate-
nato, la fuga all’estero di milioni di persone, la distruzione delle infrastrutture es-
senziali, l’ineludibile necessità di sacrifcare alla difesa le migliori energie umane,
tecniche e fnanziarie. E il tempo della guerra non è mai il più adatto per badare
alle sottigliezze. Allo stesso modo, però, non sarà irrispettoso chiedersi quanto si-
ano importanti i provvedimenti di cui abbiamo fn qui parlato per vincere la batta-
glia contro la Russia e se non siano piuttosto il tentativo di creare una struttura di
potere tagliata su misura per l’attuale classe dirigente. Che cos’abbiano a che fare
la censura sui media, la discriminazione tra le Chiese, le continue epurazioni per
via poliziesca all’insegna del possibile tradimento, lo sfruttamento delle destre più
becere ed estreme dietro il fragile schermo della dignità nazionale con quei valori
di democrazia e tolleranza così cari all’Europa e di cui l’Ucraina sarebbe addirittura
la prima linea di difesa di fronte al potenziale dilagare dell’autocrazia. E soprattutto
se questi provvedimenti, che oggettivamente avvicinano Kiev più a Mosca che a
Bruxelles, siano temporanei, cioè dovuti allo stato di estrema emergenza e quindi
eventualmente revocabili, o siano invece i tratti con cui l’Ucraina del futuro vorrà
caratterizzarsi e gli strumenti con cui la classe dirigente vorrà governare il paese.
In quel caso, anche l’Europa correrà il rischio di vedere radicalmente alterati i
propri tratti distintivi. Un’Ucraina fortemente nazionalista andrebbe probabilmente
a saldarsi con paesi come i baltici, la Polonia, la Repubblica Ceca, gli Stati dell’Eu-
ropa del Nord, forse anche l’Ungheria, spostando in senso conservatore, sovranista
e iperatlantista gli equilibri politici dell’Unione Europea che già scontano il declino
della Germania, la parziale emarginazione della Francia, la latente ma perenne
crisi dell’Italia. Non a caso ai tempi di Boris Johnson premier il Regno Unito provò
a proporre una sorta di Ue anti-Ue 27 che del comune impegno antirusso faceva la
propria incubatrice.
In questa fase il presidente Zelens’kyj gode di una completa e indiscutibile liber-
tà d’azione. Quella che gli deriva dalla composizione del parlamento, che abbiamo
descritto prima. Ma anche quella che si è guadagnato con una gestione coraggiosa
e astuta del potere, della propria immagine, dei rapporti internazionali. Il tasso di
approvazione, secondo tutte le ricerche più affdabili, veleggia in questi mesi stabil-
mente intorno al 90%, in pratica l’unanimità dei consensi. Non è poco merito ma si
tratta però di un favore popolare che Zelens’kyj si è guadagnato solo con l’arrivo
della guerra. Per dimostrarlo basterà riprodurre le considerazioni dell’osservatorio
Wilson Center di Washington D.C., considerato uno dei più autorevoli think tank del
mondo. Il 2 novembre 2021 il Wilson Center pubblicava un articolo intitolato «Just
Like All the Others: The End of the Zelensky Alternative?» 28, dedicato al crollo dei
consensi (ridotti al 24,7%) per il presidente eletto appena due anni prima. Pochi
27. F. FUBINI, «Il piano segreto di Boris Johnson per dividere l’Ucraina da Russia e Ue: il Commonwe-
alth europeo», corriere.it, 26/5/2022.
28. M.MINAKOV, «Just Like All the Others: The End of the Zelensky Alternative?», wilsoncenter.org,
126 2/11/2021.
LA GUERRA CONTINUA

mesi dopo, il 9 giugno 2022, lo stesso Wilson Center, a frma dello stesso autore,
pubblicava un articolo intitolato «The Three Ages of Zelensky’s Presidency» 29 in cui
si prendeva invece atto del cambio di passo zelenskiano e venivano sottolineati i
crescenti consensi di un presidente poco prima quasi disprezzato.
È una realtà con cui occorre fare i conti. Zelens’kyj, che da politico improvvi-
sato è riuscito a trasformarsi nel leader autorevole di un paese in guerra, rinuncerà
agli strumenti di governo che trovano giustifcazione solo nell’attuale situazione di
crisi? Vincerà la sfda con le diffcoltà enormi di un dopoguerra in un paese che,
deposte le armi, inevitabilmente tornerà alla politica, cioè ai dibattiti e alle divisio-
ni, o sceglierà la scorciatoia dei provvedimenti di emergenza? È una domanda che
dobbiamo porci se abbiamo davvero a cuore il futuro dell’Ucraina e quello dell’Eu-
ropa, ormai strettamente legati a prescindere da qualunque accordo, trattato o
pezzo di carta ci venga presentato nei prossimi anni.

29. ID., «The Three Ages of Zelensky’s Presidency», wilsoncenter.org, 9/6/2022. 127
LA GUERRA CONTINUA

‘La Crimea tornerà ucraina’


Conversazione con Tamila TASHEVA, rappresentante permanente della presidenza
ucraina per la Crimea, a cura di Greta CRISTINI

LIMES Pensate di riprendervi la Crimea?


TASHEVA Un obiettivo fondamentale della proposta di pace formulata dal governo
di Volodymyr Zelens’kyj è il ritorno ai confni ucraini del 1991. Ciò include la libe-
razione della penisola dall’occupazione russa del 2014. A tal fne la nostra tattica è
ibrida: affanca cioè iniziative diplomatiche con il sostegno dei nostri partner inter-
nazionali a mezzi militari. Fino all’invasione russa del 2022 Kiev sperava in una
soluzione negoziale, ma con la sua aggressione Mosca ha vanifcato questa possi-
bilità. L’attacco russo al resto del territorio ucraino è anche il risultato dell’annosa
disattenzione internazionale nei confronti della Crimea.
LIMES È vero che state preparando una controffensiva sulla penisola?
TASHEVA Questa decisione è di competenza dei ministeri della Difesa e degli Esteri.
Certamente l’Ucraina tiene aperta la possibilità di una simile operazione in Crimea
e nelle regioni di Kherson e Zaporižžja. Sono aree strategiche, in quanto fonda-
mentali per rifornire l’esercito russo.
LIMES Di quali armi occidentali avete bisogno?
TASHEVA Di qualsiasi mezzo di difesa e d’attacco, inclusi carri armati e droni. Anche
in vista di una riconquista della penisola. Sul piano diplomatico, l’arma più effcace
resta invece la pressione indotta dalle sanzioni sul presidente Vladimir Putin, sugli
oligarchi e sul settore bancario russi.
LIMES A quali condizioni Kiev potrebbe riaprire il dialogo con il Cremlino?
TASHEVA Dopo i falsi referendum tenutisi nelle quattro oblast’ di Donec’k, Luhans’k,
Kherson e Zaporižžja e l’inserimento di questi territori nell’alveo costituzionale
russo, il presidente ucraino ha proibito qualsiasi contatto diplomatico con la Russia,
tantopiù in relazione alla Crimea. Mosca ha chiuso ogni possibilità di dialogo con-
ducendo una guerra sporca e non convenzionale. Solo quando interromperà le
operazioni e si ritirerà oltre i confni ucraini del 1991 le relazioni potranno ripren- 129
130
TESORI UCRAINI F E D . R U S S A
Livello di concentrazione
delle risorse minerarie per oblast’
B I E L O R U S S I A Molto basso
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‘LA CRIMEA TORNERÀ UCRAINA’

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CRIMEA
Bacino di Dnepr-Donec Bacino carbonifero
Bacino precarpatico Bacino del ferro
Bacino della Crimea
Bacino di manganese
Acciaierie che prima della guerra M a r N e r o
producevano il 50-70% di neon globale BULGARIA Gasdotti russi
LA GUERRA CONTINUA

dere. Ma alle nostre condizioni. Uno scambio indiretto con la Federazione Russa
procede comunque attraverso soggetti terzi come l’Onu o la Turchia, su temi spe-
cifci: l’accordo sul grano, i bambini deportati illegalmente in Russia, lo scambio di
prigionieri, la liberazione dei civili.
LIMES Se i russi vedessero minacciato il loro controllo sulla Crimea userebbero l’ar-
ma nucleare?
TASHEVA Il rischio c’è. Dal punto di vista russo Donec’k, Luhans’k, Kherson e Zapo-
rižžja sono ora soggetti della Federazione, perciò qualsiasi azione militare contro
questi territori equivale a una violazione dello spazio territoriale e costituzionale
russo. Specie da quando l’esercito ucraino ha liberato Kherson, la paura che Mosca
usi armi nucleari tattiche è aumentata in America ed Europa. È emersa l’idea che la
guerra sia per Kiev un’occasione di riprendersi la Crimea anche a costo di vasti
spargimenti di sangue e si è diffusa la percezione che per difendere la penisola
Mosca possa impiegare l’arma atomica. La Russia è però isolata e i suoi principali
partner, come Cina e India, osteggiano l’uso del nucleare. Non crediamo dunque
che Mosca sia davvero intenzionata a ricorrervi.
LIMES I russi esportano cereali e altre materie prime ucraine dai porti della Crimea?
TASHEVA Sì. Dall’inizio della guerra la Federazione Russa esporta dai territori occu-
pati come Zaporižžja, Kherson e Sebastopoli il nostro grano e lo rivende illegal-
mente a terzi. La procura ucraina con giurisdizione sul territorio della Crimea, co-
stretta a trasferire la sua sede a Kiev, ha denunciato per prima questi furti. Il suo
uffcio monitora costantemente i movimenti russi attraverso il Mar Nero.
LIMES A chi sono destinate queste esportazioni?
TASHEVA Ad aziende di altri paesi, specie turche. Kiev non ha mai accusato aperta-
mente la Turchia di acquistare il grano rubato in Ucraina, però ha chiesto ad An-
kara di aprire inchieste sui soggetti coinvolti.
LIMES Queste imprese rivendono poi ad altri paesi?
TASHEVA Sì. In Asia centrale e in Siria, ad esempio, sono state rilevate tracce di tali
scambi. Per strappare questo mercato illegale a Mosca, nell’ultimo anniversario
dell’Holodomor (la grande carestia del 1932-33) Kiev ha avviato un progetto uma-
nitario denominato “Grano dall’Ucraina”. Il programma è operativo da novembre
e vede la partecipazione di diversi partner come Italia, Regno Unito, Stati Uniti,
Giappone, Corea del Sud e Turchia. Questi ultimi comprano da noi il grano per poi
rivenderlo ai paesi dell’Asia centrale, dell’America latina e dell’Africa che fnora lo
acquistavano dalla Russia.
LIMES Se riprendeste il controllo della Crimea, potreste indire un referendum o di-
chiarare la penisola indipendente?
TASHEVA I tatari di Crimea otterranno probabilmente uno status speciale, ma Kiev
non ha intenzione di promuovere alcun referendum né di sostenere l’indipenden-
za della penisola. La Repubblica autonoma di Crimea è parte del territorio ucraino.
Dal punto di vista geografco è strettamente legata alla madrepatria e ne è dipen-
dente per il rifornimento di acqua, gas ed elettricità. Dall’occupazione la Russia ha 131
‘LA CRIMEA TORNERÀ UCRAINA’

infatti avuto grande diffcoltà a sostenerla. La narrazione di Mosca secondo cui la


Crimea fu regalata a Kiev dal presidente russo Nikita Khruš0ëv negli anni Cinquan-
ta del Novecento non è del tutto vera. Omette che la penisola non sarebbe riuscita
a sopravvivere senza un collegamento diretto con il territorio ucraino.
LIMES Chi abita oggi la Crimea?
TASHEVA Stabilire cifre e percentuali precise è diffcile perché l’ultimo censimento
risale al 2001 e Kiev non si fda di quello russo del 2014. Prima dell’occupazione
in Crimea risiedeva un milione e mezzo di persone con passaporto ucraino, di cui
500 mila di etnia tatara: l’Ucraina continua a considerarli suoi cittadini, anche se
hanno ottenuto il passaporto russo. Dal 2015, tra 55 mila e 150 mila persone hanno
lasciato la penisola e Mosca ha favorito il trasferimento di 500-800 mila russi. Dopo
l’invasione del 2022 in Crimea dovrebbero esservi ancora circa 470 mila tatari; mol-
ti uomini arruolabili se ne sono andati. Abbiamo fatto queste stime analizzando le
immatricolazioni delle automobili e i cambi di residenza tramite l’amministrazione
russa. Quando la Crimea sarà di nuovo sotto controllo ucraino, chiederemo ai rus-
si di andarsene. In caso contrario rischiano la deportazione.
LIMES Come comunicate con i locali?
TASHEVA Siamo l’unico organo ad avere un collegamento diretto con la popolazio-
ne. Io sono tatara di Crimea e sento regolarmente parenti, amici e conoscenti che
risiedono ancora nella penisola. Da metà 2020 a fne 2021 abbiamo avuto 9 mila
contatti via lettera, telefono, email, social e canali di messaggistica non monitorabi-
li da Mosca. Nel 2022 ne abbiamo avuti 3 mila, inclusi quelli con le famiglie dei
prigionieri politici. Almeno 158 persone sono in carcere per attività di protesta
contro la guerra, di cui 112 tatari di Crimea.
LIMES Com’è organizzata la resistenza ucraina in Crimea? Kiev partecipa ad azioni
di sabotaggio?
TASHEVA Prima del 24 febbraio 2022 le proteste in Crimea avevano a oggetto i dirit-
ti personali e non avevano carattere flo-ucraino. Dall’inizio della guerra sono inve-
ce a favore di Kiev: sappiamo di almeno 247 processi in corso per crimini ammini-
strativi contro le forze russe. Le persone vengono arrestate perché non hanno
passaporto russo, perché diffondono volantini o promuovono manifestazioni nelle
scuole contro l’invasione. Sui muri compaiono scritte inneggianti alle Forze armate
ucraine, circolano adesivi e francobolli che esprimono dissenso verso Mosca. I re-
sponsabili vengono multati o incarcerati da 10 a 15 giorni. Movimenti come i Par-
tigiani di Crimea (Krymsky Partisany), i Gabbiani combattenti di Crimea (Krymsky
Boyovy Ciayki) e il Nastro giallo (Zhovta Strychka) coordinano le azioni di protesta.
Noi non contribuiamo in alcun modo, ma abbiamo contatti con singoli membri e
trasmettiamo loro informazioni da diffondere. Altri organi, come i servizi di sicurez-
za ucraini, potrebbero invece gestire operazioni insieme a questi gruppi.
LIMES È vero che la mobilitazione dei tatari di Crimea indetta da Mosca non ha
incontrato proteste locali rilevanti?
132 TASHEVA Le manifestazioni in territori sotto il controllo russo sono impedite dalla
LA GUERRA CONTINUA

stretta sorveglianza di Mosca. La chiamata alle armi ha coinvolto in larga parte i


tatari di Crimea e l’unico modo di evitarla era andarsene. Migliaia di uomini si sono
trasferiti in Georgia, Uzbekistan, Kazakistan, Turchia e Unione Europea. Attraverso
quest’ultima potrebbero rientrare in Ucraina, ma è una scelta complicata e dispen-
diosa. Il viaggio in uscita dalla Crimea dura in media una settimana e costa 500-600
dollari a persona. Per questioni di sicurezza, molti decidono di fermarsi all’estero e
attendere la fne della guerra.

(traduzione di Caterina Dell’Asta)

133
LA GUERRA CONTINUA

‘Siamo pronti a negoziare con


chiunque succederà a Putin’
Conversazione con Oleksij ARESTOVY0, già consigliere del capo dell’Uffcio
del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, a cura di Greta CRISTINI

Q UESTA INTERVISTA È STATA RILASCIATA


il giorno prima che Arestovy0 rassegnasse le sue dimissioni a causa di alcune di-
chiarazioni relative all’esplosione del 14 gennaio 2023 nella città di Dnipro, per le
quali si è pubblicamente scusato. Dopo il suo congedo, Arestovy0 ha risposto a ul-
teriori domande di Limes incluse nel colloquio che segue.

LIMES Perché vincerete contro la Russia?


ARESTOVYČ Per la causa che ci guida e per i limiti del nemico. La posta in gioco per
noi è alta ed è parte di una storia lunga quattro secoli: lottiamo per la sopravvivenza
in quanto popolo, per l’indipendenza e per l’affermazione del nostro destino storico.
Tutte volontà che Mosca non ci riconosce. Nessuna delle due parti vuole arrendersi:
secondo gli ultimi sondaggi, almeno il 70% della popolazione russa e il 77% di quel-
la ucraina sostengono il confitto. Dal punto di vista militare, l’esercito russo combat-
te male e non ha una catena di comando effcace, a partire dai suoi generali. La re-
cente cattura russa di Soledar è indicativa: per conquistare una città di circa due
chilometri quadrati i soldati di Mosca hanno impiegato cinque mesi, (dal 2 agosto
2022 al gennaio 2023) e in realtà siamo noi ad aver arretrato la linea del fronte. A
tutto questo va aggiunta la sofferenza economica infitta ai russi con le sanzioni.
LIMES Qual è il vostro obiettivo?
ARESTOVYČ Liberare tutto il territorio ucraino così come riconosciuto nella dichiara-
zione d’indipendenza del 24 agosto 1991, inclusi Crimea e Donbas, e come chiesto
dall’87% della popolazione. Solo il 4% degli ucraini non è disposto a realizzare
questo proposito per via militare.
LIMES Vi state preparando a una guerra senza fne? La Russia può attingere a un ba-
cino demografco più ampio del vostro per sostenere l’arruolamento di nuovi soldati. 135
‘SIAMO PRONTI A NEGOZIARE CON CHIUNQUE SUCCEDERÀ A PUTIN’

ARESTOVYČ Non è tanto una questione demografca quanto di capacità, supporto


logistico e approvvigionamento. Gli ultimi 200 mila russi inviati al fronte sono sol-
dati mobilitati, non più professionisti come agli inizi del confitto. Non possiedono
brigate complete: per una di queste occorre almeno un battaglione di carristi, loro
ne hanno due e anziché 30 carri armati ne hanno dieci. La loro abilità militare è
scarsa: nelle recenti battaglie attorno a piccoli centri come Bakhmut e Soledar, nel
corso di tre mesi hanno perso la vita o sono stati feriti oltre 80 mila soldati russi.
200 mila uomini non sono affatto tanti come può sembrare. Hanno anche un pro-
blema alimentare perché il loro cibo è insuffciente e di pessima qualità. Lo dimo-
stra il fatto che i prigionieri di guerra che catturiamo sono affamati.
Ora il Cremlino intende inviare altre 200 mila persone, se non addirittura 500 mila,
ma non è chiaro dove le troverà, come le equipaggerà, come le vestirà (non ha suf-
fcienti uniformi e indumenti antiproiettile) e come le addestrerà. Mosca non possie-
de un numero di sergenti e uffciali adeguato per preparare le reclute; per 200 mila
uomini ne servirebbero rispettivamente 70 mila e 50 mila. Hanno un grande poten-
ziale di persone da mobilitare, ma non hanno il materiale concreto per armarle e
supportarle. Chi arriverà adesso in prima linea sarà in condizioni ancora peggiori di
chi sta già combattendo. Anche noi abbiamo più reclutati rispetto ai primi giorni, ma
manteniamo una buona catena di comando e le nostre unità di difesa sono in sesto
anche grazie al sostegno occidentale. Dall’inizio dell’invasione i nostri uomini hanno
liberato il 40% dei territori occupati. Non sarà facile, ci aspetta una lotta sanguinosa
e subiremo molte perdite. Ma nel giro di due o tre mesi li annienteremo.
LIMES Come valuta le faide interne al Cremlino?
ARESTOVYČ La Russia non assolve i leader che perdono le guerre, quindi la vita poli-
tica di Vladimir Putin terminerà. In quel momento si porrà una questione di respon-
sabilità nella cerchia attorno al capo che abbiamo già visto nella storia dell’Unione
Sovietica dopo la caduta di Josif Stalin. All’epoca, i suoi fedeli si giustifcarono dichia-
rando di essere stati costretti a sostenerlo. Ora a chi verrà attribuita la colpa? Una ri-
forma fondamentale della struttura del potere moscovita è inevitabile e inizierà da
una lotta tra le élite politico-governative. Ultranazionalisti come Evgenij Prigožin,
fondatore del Gruppo Wagner, e Ramzan Kadyrov, leader ceceno, potrebbero con-
trapporsi a Nikolaj Patrušev, segretario del Consiglio di sicurezza, Sergej Šojgu, mini-
stro della Difesa, e Valerij Gerasimov, capo di Stato maggiore delle Forze armate e
comandante in capo dell’esercito russo in Ucraina. I fattori scatenanti saranno due.
Primo, la presa di consapevolezza che Mosca non ha le capacità militari per vincere
la guerra; quanto potrebbe verifcarsi anche prima dell’estate. Secondo, il timore
delle sanzioni occidentali. Probabilmente il potere andrà prima in mano ai fascisti,
che condurranno il paese a un ulteriore isolamento. Poi forse ai liberali, i quali do-
vrebbero agevolare una riapertura della Russia al mondo attraverso una maggiore
disponibilità a fare concessioni e a negoziare.
LIMES L’Ucraina è disposta a trattare a patto che le truppe russe si ritirino dai terri-
tori occupati, un’opzione diffcilmente praticabile per ora. Sono possibili altre con-
136 dizioni di pace?
LA GUERRA CONTINUA

ARESTOVYČ No. La posizione resta questa perché condivisa dal governo, dalla nostra
popolazione e dagli alleati occidentali, secondo cui è l’Ucraina a decidere come
fnirà il confitto. Ciò per noi include anche la riconquista della Crimea, il persegui-
mento penale dei responsabili e le indennità di guerra. A quel punto negozieremo
con qualsiasi altra persona o organo collettivo che sostituirà Putin.
Siccome Mosca ora non ha intenzione di liberare i nostri territori, le condizioni di
pace saranno defnite dopo un cambio al Cremlino. Ovvero quando chi salirà al
potere comprenderà di dover necessariamente scendere a patti con Kiev se vorrà
ottenere l’abolizione delle sanzioni occidentali.
LIMES L’ipotesi di una disgregazione dello Stato russo è verosimile?
ARESTOVYČ No. Immagino piuttosto una sostituzione della leadership e una struttu-
razione del governo su basi nuove, che permettano di riconoscere gli errori com-
piuti, di non ripeterli e di stabilire nuovi rapporti di amicizia, anche con i vicini, per
i prossimi 20-25 anni.
LIMES Gli Stati Uniti caldeggiano l’idea di trovare un accordo con chi subentrerà a
Putin?
ARESTOVYČ Agli Usa non conviene una frammentazione della Federazione Russa;
Mosca serve a Washington per contenere Pechino. Fino allo scoppio della guerra
questa ragione spingeva gli americani a mantenere i rapporti con Putin. Adesso
però il presidente russo non è più in grado di garantire tale ruolo per il suo paese;
ha offeso e ricattato le potenze occidentali, che ora lo hanno sfduciato. Non esiste
ancora un’idea comune su come sarà il mondo nell’èra post-Putin. Da una guerra
intestina tra gli ambienti politici moscoviti emergerà una persona o un gruppo che
assicurerà alla Russia il corso adeguato per la reintegrazione nella famiglia globale.
LIMES A prescindere dall’esito della guerra, l’Ucraina continuerà a confnare con la
Russia. Come immagina il rapporto tra i due Stati alla fne delle ostilità?
ARESTOVYČ Putin sparirà, la Russia no, quindi occorrerà trovare una forma di intera-
zione. Noi siamo disposti a collaborare e a raggiungere un accordo con chi succe-
derà a Putin, rispettando i reciproci interessi. A patto che il successore del presi-
dente russo riconosca il nostro diritto a una politica autonoma e che non ci consi-
deri parte della propria sfera di infuenza. Altrimenti saremo pronti a un confronto
aperto e duraturo, come avviene fra Israele e paesi arabi. Nel giro di decenni anche
i traumi di guerra si attenuano. A volte guariscono prima di quanto impieghino
persone sagge a salire al governo di certi paesi.
LIMES Quanti sono attualmente i soldati ucraini e quanti di questi sono in fase di
addestramento?
ARESTOVYČ Il totale degli uomini impiegati nel settore militare (compresa la polizia,
la Guardia nazionale eccetera) ammonta a circa un milione e 200 mila persone. I
soldati che compongono le Forze armate ucraine sono invece tra i 600 e i 700 mi-
la, di cui più o meno 200 mila sono al fronte. Vorrei sottolineare che date le fron-
tiere con la Russia, Mar Nero incluso, la Bielorussia e la Transnistria, i cinque sesti
dei confni ucraini sono attualmente circondati da truppe russe. Non posso rivelare
il numero degli uomini che si stanno preparando in Ucraina o all’estero. 137
‘SIAMO PRONTI A NEGOZIARE CON CHIUNQUE SUCCEDERÀ A PUTIN’

LIMES Come viene gestito l’addestramento secondo gli standard Nato?


ARESTOVYČ Oggi l’Ucraina è l’unico paese che combatte una guerra sotto l’egida
dell’Occidente. L’addestramento avviene ad esempio nei paesi baltici, in Gran Bre-
tagna, in Germania e può impiegare dalle poche settimane ai quattro mesi, a se-
conda del tipo di unità. Uno dei vantaggi principali della collaborazione con i
partner occidentali è che non vengono addestrati singoli soldati, bensì interi batta-
glioni, uffciali compresi. Inoltre, non si preparano solo truppe di terra, ma anche
specialisti dell’intelligenza artifciale.
LIMES Il bollettino uffciale dello Stato maggiore ucraino parla di oltre 100 mila sol-
dati russi uccisi fnora. Mosca ha iniziato questa guerra con circa 200 mila uomini.
Se 100 mila sono morti, i feriti dovrebbero essere più del doppio. Come spiega
questi numeri?
ARESTOVYČ Le stime della nostra intelligence si basano su fonti russe, i mobilitati a
Donec’k e Luhans’k non sono conteggiati, quindi i dati reali potrebbero variare.
Penso però che la cifra di 100 mila russi morti sia verosimile, perché include non
solo i soldati al fronte ma anche altro personale militare impegnato nel confitto.
All’inizio dell’invasione, le forze russe erano composte da circa 330 mila uomini
provenienti da varie sottounità, di cui 210 mila dall’Esercito. Gli altri erano uomini
della Guardia nazionale, milizie del Donbas eccetera. Quanto ai feriti, credo che
ammontino a circa 200 mila.
I numeri delle perdite dell’artiglieria sono probabilmente sovradimensionati. Spes-
so, ad esempio, un carro armato distrutto viene conteggiato due volte a seconda di
chi lo sta calcolando.
LIMES Qual è lo stato degli aiuti militari in arrivo dall’Occidente?
ARESTOVYČ In questa fase il supporto riguarda soprattutto l’artiglieria pesante; ne-
cessitiamo di scudi antimissilistici, armi a lunga gittata e difese anti-aeree. Questi
mezzi sono utili sia per la difesa sia per costruire una controffensiva. Anche l’Italia
è coinvolta in tale assistenza. Inizialmente abbiamo lamentato un’insuffcienza del-
le forniture. Ora capiamo che l’Occidente, uscito da decenni di pace in cui l’indu-
stria bellica si era fermata, ha bisogno dei suoi tempi e ci sta consegnando quanto
è nelle sue capacità.
LIMES Quali paesi hanno ecceduto le vostre aspettative?
ARESTOVYČ Non ci attendevamo il forte sostegno militare del governo italiano di
Giorgia Meloni, soprattutto dopo i due precedenti. In particolare quello del Movi-
mento 5 Stelle, alquanto vicino alla Russia. Anche Francia e Germania hanno cam-
biato radicalmente la propria posizione una volta persa ogni fducia in Putin. La
Polonia, i Baltici, gli Stati Uniti e il Regno Unito sono alleati tradizionali. Roma,
Parigi e Berlino ora non sono da meno.
LIMES Le diaspore ucraine nel mondo contribuiscono allo sforzo del paese?
ARESTOVYČ Sì, moltissimo. Hanno raggiunto un livello di infuenza nel campo della
politica e dell’informazione al pari delle lobby, sensibilizzando gli Stati e aiutando
i media stranieri a dare notizie adeguate sul confitto. Inoltre assistono economica-
138 mente i parenti in patria attraverso le rimesse. Con i dieci milioni di connazionali
LA GUERRA CONTINUA

emigrati in Russia, il rapporto viene mantenuto a livello personale, grazie ai con-


tatti con i membri delle famiglie rimasti in Ucraina.
LIMES In relazione all’esplosione avvenuta a Dnipro il 14 gennaio scorso, lei ha
dichiarato che la difesa aerea ucraina avrebbe colpito un missile russo poi precipi-
tato su un edifcio della città. La posizione uffciale del suo governo invece accusa
la Russia di aver bombardato il palazzo. Come spiega questa doppia narrazione?
ARESTOVYČ Ho commesso un errore in base alle informazioni ricevute in quel mo-
mento, sebbene abbia sottolineato più volte che quella versione doveva essere ri-
controllata. Stando alle ultime perizie, confermo che si è trattato di un missile russo
non deviato in alcun modo dalla difesa aerea ucraina.
LIMES Lei ha annunciato di volersi candidare alla presidenza se il presidente Volo-
dymyr Zelens’kyj decidesse di non correre per un secondo mandato. Dobbiamo
aspettarci un regolamento di conti politico nel dopoguerra?
ARESTOVYČ La stampa russa prova incessantemente a creare frizioni all’interno della
politica ucraina, già divisa da lotte domestiche. Al termine del confitto lo scontro
diventerà ancora più pesante.
Io continuerò a lavorare nel campo dell’informazione e della psicologia per contri-
buire alla vittoria dell’Ucraina contro la Russia. Il mio impegno si concentrerà inol-
tre sulla ricostruzione postbellica del paese affnché Kiev diventi un centro per il
progresso della civiltà occidentale. È troppo presto per parlare di una carriera
politica. Discuterò i dettagli solo dopo il nostro trionfo.

(traduzione di Martina Napolitano)

139
LA GUERRA CONTINUA

LA DIFESA TOTALE
SECONDO KIEV di Matteo FRIGOLI e Maurizio MARTELLINI
Per opporsi all’aggressione russa gli ucraini hanno fatto delle
risorse militari e civili un corpo unico. Anche la Russia si avvia a
seguire tale schema. Il senso delle battaglie urbane. Niente spazio
per i compromessi. È lotta per la vita.

1. N EL PENSIERO STRATEGICO SI TENDE A


contemplare le guerre future attraverso concetti applicati alle guerre del passato,
che però potrebbero rivelarsi obsoleti. L’attuale confitto in Ucraina rappresenta
un esempio di questa tendenza. Per varie ragioni legate alla sua natura e alle tat-
tiche utilizzate nel teatro di battaglia.
Nell’èra immediatamente successiva alla guerra fredda, molti esperti strategici
sostennero che l’attenzione globale si fosse spostata dalla guerra ad alta intensità
– implicante l’utilizzo di tutte le risorse disponibili da parte dei belligeranti – ai
confitti a bassa intensità e interni agli Stati.
In effetti, dopo il 1991 un numero considerevole di paesi alle prese con divi-
sioni etniche, insurrezioni e movimenti separatisti fu testimone di un’ondata di
guerre civili. Inoltre, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti e
la successiva «guerra globale al terrore» hanno indotto l’Occidente a riorientare le
proprie dottrine strategiche e capacità militari verso operazioni contro gruppi ter-
roristici transnazionali.
Il contesto dell’invasione russa dell’Ucraina ha creato un cambiamento di larga
portata nel panorama della sicurezza internazionale. La Russia è una potenza revi-
sionista che ha impiegato varie tecniche di sovversione contro i suoi vicini nell’Eu-
ropa orientale e nel Caucaso. Queste vanno da aperte minacce, guerre economi-
che, uso strategico dei fussi migratori contro la sovranità territoriale, sostegno alle
secessioni e alle insurrezioni fno all’invasione su vasta scala. Il revisionismo russo
in Ucraina non è un incidente isolato, è parte del continuum degli obiettivi di po-
litica estera del Cremlino. Ed è uno strumento fondamentale della proiezione della
potenza russa, soprattutto verso gli Stati europei, con lo scopo di creare una pro-
pria sfera di infuenza nello spazio ex sovietico.
141
LA DIFESA TOTALE SECONDO KIEV

Gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina sono ancora da discernere nella


loro piena portata. Ma alcune implicazioni possono già essere osservate: gli Stati
occidentali hanno riaffermato la loro unità strategica adottando una pressoché
identica percezione della Russia di Putin come potenza revisionista; la Nato sembra
pronta ad accogliere la Svezia e la Finlandia, tradizionalmente non allineate; l’Ue
ha accelerato la sua autonomia energetica riducendo nettamente o in alcuni casi
addirittura ponendo fne alla dipendenza dal gas e dal petrolio russi.
Nel complesso, l’invasione del 24 febbraio 2022 si è già rivelata un evento fon-
damentale per la sicurezza nel dopo-guerra fredda, che ridefnirà gli equilibri regio-
nali e globali per decenni a venire. Una tendenza di breve periodo è già osservabile:
l’attacco della Russia all’Ucraina ha innescato una necessaria trasformazione della
Nato, in termini sia di percezione della minaccia sia di capacità operative. L’invasio-
ne russa ha spinto singoli Stati membri o partner (come Regno Unito, Germania,
Svezia e Giappone) a rivedere non solo le proprie strategie di difesa e sicurezza, ma
anche la prontezza organizzativa e materiale delle Forze armate e delle società.
Gli aspetti del confitto condotto dalla Russia sono tipici della guerra ad alta
intensità: distruzione sistematica di aree urbane, ingaggio di infrastrutture civili
critiche basilari per il sostentamento della popolazione, disumanizzazione dell’av-
versario rappresentato come «nazista», denuncia dell’artifciosità dello Stato ucraino.
Tutto ciò evidenzia come il confitto armato tenda ad assumere le caratteristiche
della «guerra totale». Ovvero uno scontro in cui l’apparato delle Forze armate di
uno Stato e la società civile vengono coinvolti nello sforzo bellico come fossero un
corpo unico. Un confitto totale a cui lo Stato ucraino ha reagito impostando una
strategia di «difesa totale».

2. Questi aspetti devono far rifettere sulla natura e sulla gravità del confitto in
atto alle porte d’Europa, sulla strategia di difesa totale intrapresa dall’Ucraina e
sull’impiego sul campo della cosiddetta New generation warfare. Dall’inizio del
confitto lo Stato ucraino è parso giustamente convinto che nonostante la crescente
preparazione delle proprie Forze armate, l’esperienza acquisita nella guerra ibrida
nel Donbas (2014-22) e i trasferimenti di tecnologia militare dall’Occidente, il suo
esercito non possedesse le capacità per opporsi effcacemente a un’aggressione
russa su un fronte esteso senza poter attingere a un notevole serbatoio di risorse
umane da mobilitare e armare. Questa consapevolezza della situazione strategica ha
mosso il parlamento ucraino a adottare nel luglio 2021 la cosiddetta legge sui fon-
damenti della resistenza nazionale. Con tale documento sono state create le basi per
la difesa totale ucraina, cui tutte le componenti dello Stato e della società sono
chiamate a contribuire in caso di una minaccia esistenziale.
Quest’ultimo obiettivo è stato perseguito attraverso tre strumenti: le forze di
difesa territoriale, il movimento di resistenza, un sistema generale di preparazione
dei cittadini.
Nella strategia di difesa totale, il concetto di resistenza è particolarmente im-
142 portante in quanto viene scandito in due modalità operative: la popolazione tutta
LA GUERRA CONTINUA

può parteciparvi, ma allo stesso tempo si istituisce un corpo più ristretto, il movi-
mento di resistenza, dotato di organizzazione, dotazione e fnanziamenti secretati,
con il compito di creare cellule all’interno dei territori ucraini temporaneamente
occupati. La strategia di difesa totale richiede all’Ucraina di resistere all’aggressore
su terra, mare, aria, nonché all’interno dello spazio informatico e informativo invo-
cando il suo «potenziale nel dominio militare, politico, economico, diplomatico,
spirituale e culturale». E impone di impegnarsi in tutte le forme di combattimento,
inclusa la guerra asimmetrica. In particolare, si prefgge l’obiettivo di infiggere al
nemico inaccettabili perdite politiche, economiche, militari o di altro genere, co-
stringendolo a fermare l’escalation e quindi la guerra.
La strategia ha avuto evidenti rifessi sulle tattiche utilizzate dall’esercito ucrai-
no. Quest’ultimo ha infatti combattuto l’avversario russo prevalentemente nelle
città. Il confitto in Ucraina è un confitto per le città piuttosto che uno scontro in
campo aperto. I combattimenti in aree urbane hanno due effetti principali: rendono
qualunque operazione offensiva russa più complessa e danno l’opportunità a for-
me di resistenza irregolare di emergere e colpire. Proprio questa tattica, caratteriz-
zata dalla dispersione della resistenza e da un modello decisionale decentralizzato,
ha permesso alle Forze armate ucraine, posizionate lungo l’immenso fronte, di in-
traprendere iniziative a livello di singolo plotone spesso essenziali per la difesa.
Tali dimensioni del confitto si legano al tipo di minaccia cui lo Stato ucraino
è sottoposto: dal punto di vista di Kiev è una guerra per la sopravvivenza. L’aggres-
sione russa individua come bersagli sia obiettivi militari sia obiettivi civili, compien-
do inoltre atroci crimini di guerra. Per questa caratteristica il confitto tende ad as-
sumere per l’Ucraina una dimensione di totalità, di lotta per la sopravvivenza
contro una minaccia esistenziale. Questa caratteristica viene rifessa nelle tattiche di
difesa totale, di formazione delle forze di difesa territoriale e di emersione di forme
di guerriglia irregolare urbana condotta da cittadini in armi.

3. La Russia incontra a sua volta evidenti diffcoltà operative. Non ha raggiunto


ancora alcun obiettivo strategico. Il modello di confitto a cui si avvicina la guerra
russo-ucraina è quindi quello delle cosiddette «small wars», combattute tra potenze
militarmente superiori e potenze militarmente inferiori, almeno per tre aspetti.
A) Natura del confronto tra potenza superiore e potenza minore: la potenza
superiore non perde la guerra ma non la vince.
B) Guerra periferica: la potenza superiore combatte per uno scopo circoscritto.
C) Asimmetria: il coinvolgimento nella guerra anche per la potenza minore è
totale mentre per la potenza superiore è limitato.
L’informazione russa tende a rappresentare al proprio interno il confitto come
uno scontro con tutto il mondo occidentale, non con la sola Ucraina. L’obiettivo
potrebbe essere quello di portare a un maggiore grado di coinvolgimento l’intera
società russa, rendendo così totale la guerra dal punto di vista russo.
Sul campo di battaglia si sta già assistendo a una forma di guerra che coinvol-
ge tutti i domini, sia attraverso l’utilizzo di tecnologie avanzate sia di tecnologie low 143
LA DIFESA TOTALE SECONDO KIEV

cost di tipo militare e commerciale. Ad esempio, quella russo-ucraina può defnirsi


la guerra con il più vasto utilizzo di tecnologie senza equipaggio, civili e militari,
che stanno giocando un ruolo fondamentale. Entrambe le potenze impiegano ve-
livoli a pilotaggio remoto per l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione; acqui-
sizione dei bersagli e ingaggio in tempo reale – più recentemente, come mini-bom-
bardieri che trasportano esplosivi. Nel confitto hanno avuto un effcace impiego
anche i vascelli senza equipaggio, i quali possono essere utilizzati per la ricogni-
zione marittima, ma anche come vettore di attacco, in chiave kamikaze, esploden-
do a contatto con l’obiettivo. In questo contesto è da sottolineare il diretto utilizzo
di assetti commerciali low cost, ossia droni più o meno tecnologicamente avanzati,
e satelliti come quelli della costellazione Starlink.
Queste caratteristiche del confitto hanno un forte impatto prima di tutto in
termini di costo: con un vascello senza equipaggio, o con un drone suicida, si
possono danneggiare assetti che hanno un costo enormemente superiore al drone
o al vascello stesso. A titolo di esempio, l’Ucraina ha colpito una fregata russa nel
porto di Sebastopoli con un’imbarcazione a pilotaggio remoto. In secondo luogo,
Kiev ha dimostrato come una difesa coordinata può negare la superiorità delle
forze attaccanti, anche con l’utilizzo effcace di assetti low cost/commerciali. Imme-
diatamente dopo l’avvio dell’aggressione russa, il ministero della Difesa ucraino ha
fatto appello ai cittadini affnché donassero i loro droni commerciali o li usassero
per aiutare a difendere la capitale. Utilizzando questi assetti sono state identifcate
le posizioni russe e sono stati compiuti attacchi contro le forze russe.
Infne, il confitto ucraino ha dimostrato un cambio netto nel bilanciamento tra
offesa e difesa a livello tattico: muoversi nel campo di battaglia è estremamente
pericoloso per gli attaccanti.
Sono queste le capacità che hanno permesso all’esercito ucraino di condurre
la Russia allo stallo e di riconquistare progressivamente parte del territorio perso.
Tendenza, quest’ultima, che costa ai russi enormemente in termini di risorse mate-
riali, fnanziarie e umane. Lo stallo blocca l’azione russa ed espone lo Stato russo a
ritorsioni di tipo politico, economico e fnanziario da parte della coalizione di pa-
esi che supportano le Forze armate ucraine. Queste ultime hanno l’obiettivo di
contrastare la capacità dell’industria e del sistema fnanziario russi e di rendere più
diffcoltosa la rigenerazione delle capacità che vengono utilizzate nel confitto. E
per quanto la base industriale, energetica e civile dell’Ucraina venga fsicamente
bersagliata da bombardamenti a lungo raggio, le capacità militari ucraine sono
fondamentalmente delocalizzate, ossia provengono dall’esterno, da paesi Nato che
la Russia non può attaccare.
Le potenze che supportano l’Ucraina sono maggiormente infuenzate dall’an-
damento del confitto, mentre Mosca cerca di presentarlo come una guerra con
l’intero mondo occidentale. L’estensione temporale indefnita della guerra è pro-
prio in funzione di questo scontro geopolitico esistenziale che rende le possibilità
144 di accettare dei compromessi sempre più remota: è evidente come nessuna poten-
LA GUERRA CONTINUA

za direttamente o indirettamente coinvolta nel confitto possa permettersi un esito


diverso dalla vittoria.
Infne, quanto ai possibili futuri confitti nucleari tattici o sub-strategici da par-
te russa: l’«entropizzazione» della guerra russo-ucraina, come la delocalizzazione
delle Forze armate ucraine, l’assenza di obiettivi rilevanti per un contro-attacco
sub-strategico russo e soprattutto lo spostarsi della difesa ucraina onnicomprensiva
nelle città e nei villaggi rendono impossibile la guerra nucleare tattica con ordigni
a bassa intensità. Non è un modello perseguibile, a meno di voler trasformare tut-
ta l’Ucraina in una sorta di 9ernobyl’ estesa e permanente 1.

1. Per approfondimenti si segnalano i testi seguenti: H. SHELEST, «Defend. Resist. Repeat: Ukraine’s
Lessons for European Defence», Ecfr Policy Brief, novembre 2022; E.I. KOTOULAS, W. PUSZTAI, «Geopoli-
tics of the War in Ukraine», Foreign Affairs Institute, giugno 2022; O.C. FIALA, «Resilience and Resistan-
ce in Ukraine», smallwarsjournal.com, 31/12/2022; Per la legge «Sui fondamenti della resistenza na-
zionale» si veda zakon.rada.gov.ua, 2022; «President signed laws on national resistance and increasing
the number of the Armed Forces», President of Ukraine, offcial website; H.I. SUTTON, «Why Ukraine’s
Remarkable Attack On Sevastopol Will Go Down In History», navalnews.com, 17/11/2022; G. WOLO-
SHYN, E. STAKIV, «Ukraine’s “Total Defense”: A Critique», bintel.org.ua, 19/1/2022. 145
LA GUERRA CONTINUA

Parte II
EUROPEI PERDENTI
TURCO VINCENTE
LA GUERRA CONTINUA

‘Il mio piano per l’Africa’


Conversazione con Marco MINNITI, presidente della Fondazione Medor
a cura di Lucio CARACCIOLO e Guglielmo GALLONE

LIMES C’era una volta l’Italia che inventò la Quarta Sponda. Oggi nel Mediterraneo
sembriamo non esserci più. Che succede?
MINNITI Non siamo più capaci di leggere e interpretare cosa avviene nel mondo
perché siamo disabituati a misurare il peso delle parole. Ci troviamo di fronte a
un tornante decisivo dopo il quale nulla sarà come prima. Eppure, non ce ne
stiamo accorgendo.
Partiamo dal confitto in Ucraina. Che è insieme rottura della storia e brusca
svolta della contemporaneità. Innanzitutto, la guerra non è conclusa. Né sappia-
mo quando fnirà perché non ne conosciamo l’orizzonte effettivo. Se qualcuno,
il 24 febbraio 2022, ci avesse detto che il confitto dopo un anno non sarebbe
fnito, non gli avremmo creduto. E invece la convivenza con una guerra lunga,
allargata, sta diventando possibile. Persino l’idea di convivere con un 38° paral-
lelo – la linea che ha permesso di congelare la guerra di Corea – nel cuore d’Eu-
ropa sta diventando l’unica ipotetica soluzione. Parallelamente, l’interconnessio-
ne del nostro mondo non è cambiata. Anzi, neanche quel contrasto icastico tra
lockdown e interconnessione rappresentato dall’epidemia è riuscito a raffredda-
re il sistema globale.
Di qui, le grandi onde d’urto che dall’Ucraina partono e hanno un rifesso, così
come una soluzione, nel Mediterraneo. La prima onda d’urto è quella energetica.
L’Europa risolverà la crisi dell’energia iniziata in Ucraina nel Mediterraneo allargato,
da Algeri al Cairo. Poi c’è la crisi alimentare, di cui non conosciamo l’esito. In Eu-
ropa se si parla di impennata infattiva si pensa ai prezzi del carburante. In Africa
al rincaro dei beni di prima necessità, dal grano al pane. Il rischio di un dramma
irrisolto è la destabilizzazione generale di un’area intera.
Caso di scuola è la Tunisia. L’unico paese dell’Africa settentrionale ad aver attraver-
sato, dopo il 2011, un processo democratico viene ora piegato dalla crisi economi- 149
‘IL MIO PIANO PER L’AFRICA’

ca: l’infazione genera disaffezione politica, quindi tensioni sociali sempre più forti,
con appena l’8% della popolazione che a dicembre si è recato a votare e il reclu-
tamento di tantissimi giovani nelle fle dello Stato Islamico.
LIMES Ecco, le «primavere arabe». Cosa è successo nel 2011?
MINNITI Noi europei abbiamo lasciato un popolo da solo. Ci siamo fermati prima
di raggiungere l’obiettivo. Perciò, abbiamo enormi responsabilità nell’esito falli-
mentare delle «primavere arabe». Non ho alcuna nostalgia del colonnello Muammar
Gheddaf, ma l’intervento militare in Libia su iniziativa franco-britannica è stato
disastroso. E siamo stati incapaci di comprenderlo. Stesso errore commesso in Af-
ghanistan, che si è aggiunto ai precedenti di Iraq e Libia. Tutte esperienze che
hanno trasmesso il messaggio secondo cui le grandi democrazie sono capaci nella
promozione di iniziative militari, ma incapaci di dare continuità politica alle opera-
zioni belliche. La storia della Libia è emblematica. In quell’iniziativa militare le
componenti particolarmente egoistiche, ossia quella britannica e quella francese,
sono emerse quando le truppe di Õaftar hanno circondato Tripoli nel 2019. Di
fronte alla richiesta di aiuto di Fåyiz al-Sarråã, capo del governo formalmente rico-
nosciuto dalle Nazioni Unite e per cui ci eravamo battuti, l’Europa è stata riluttante.
Si è girata dall’altra parte. Lo stesso avviene con la maggior parte delle convenzio-
ni internazionali che sono segnate da grande ambiguità.
Basti pensare alla Conferenza di Berlino del 2020. Sulla carta, si decise l’embargo
di tutte le armi verso la Libia. Nella realtà, ecco le immagini delle navi turche che
consegnano armi sulle coste libiche. Nulla è avvenuto di quanto stipulato. Perché
le grandi conferenze hanno il baco della grande ipocrisia. Insomma, si sa che cer-
ti princìpi sono frmati per essere disattesi. Non esiste solo l’assolutezza del dogma.
Esiste la black diplomacy. L’Europa non ha né l’una né l’altra cosa.
LIMES A differenza delle grandi potenze imperiali.
MINNITI Il problema è proprio questo: nel 2019, con l’ingresso della Turchia in Tri-
politania e della Russia in Cirenaica, abbiamo avuto il coronamento di due sogni
imperiali che si materializzano entrambi sulla Quarta Sponda.
Il primo sogno è quello dei russi. Arrivando in Cirenaica, Vladimir Putin compie il
passo defnitivo di un disegno – imperiale e non neosovietico, necessario distin-
guere – in grado di toccare tre vette: Artico, Siria, Libia. Il tutto senza colpo ferire.
E proprio per l’assenza di una risposta occidentale il disegno è proseguito in Ucrai-
na. Putin ha approfttato del caos e ora persegue il caos. Prima del 24 febbraio, il
presidente russo aveva fatto votare alla Duma l’annessione del Donbas. La protesta
dell’Occidente non era stata sensazionale. Così, di fronte a un processo tattico im-
portante, Putin pensa di poter andare oltre perché tutto può essere preso con la
forza. Soprattutto l’Ucraina. Guerra utile anche per capire quanto, nonostante tutto,
resta fondamentale e strategico il Nord Africa. Per quale ragione la Russia, in evi-
dente diffcoltà militare in Ucraina, dopo una mobilitazione parziale e dopo aver
aumentato di 1,5 milioni gli effettivi delle sue Forze armate, non pensa di ritirare
gli uomini del Gruppo Wagner da Cirenaica, Sahel e Repubblica Centrafricana per
150 spostarli in Donbas? Come mai, prima di aprire una tensione interna col suo popo-
LA GUERRA CONTINUA

HUB GASIERO ALGERINO


Giacimenti di gas

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Gasdotti esistenti

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rete di gas algerino TOG

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del gas algerino

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LIBIA

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Gasdotti strategici algerini


Maghreb-Europe
(Esistente - porta gas algerino
al Marocco, alla Spagna e al Portogallo)

Medgaz NIGER
(Esistente - gasdotto sottomarino)

Galsi
(Progetto di gasdotto verso l’Italia
che è stato rimosso dai progetti
di comune interesse europeo)

Transmed
(Esistente - gasdotto Enrico Mattei)
NIGERIA
Greenstream
(Esistente)

Trans-Sahara
rri
Wa

(Progetto per esportare gas


dalla Nigeria in Europa) Altri gasdotti

lo, Putin non ritira le truppe da altri contesti? Perché la Russia continua a pensare
all’Africa come a un quadrante strategico fondamentale. Perché Putin ritiene che
l’Europa possa essere stretta in una morsa che è la stessa morsa dell’Africa.
LIMES E poi c’è il disegno imperiale turco.
MINNITI Che è parallelo a quello russo. E questo rappresenta un unicum nella sto-
ria, perché prima russi e turchi si ammazzavano. Ora no. Ora russi e turchi compe-
tono e cooperano. Soprattutto in Nord Africa. La dimensione imperiale turca è
importante per capire come essere leader a livello internazionale permetta di esse- 151
‘IL MIO PIANO PER L’AFRICA’

re leader in casa propria. Il presidente Recep Tayyip Erdoãan si sta giocando tutto
sulla dimensione globale di Ankara. Nonostante un’infazione che oscilla tra il 60 e
l’85%, la Turchia non è mai stata messa fnanziariamente alle corde. Perché il suo
ruolo nel mondo è troppo importante. Questa dev’essere una lezione per tutti: il
ruolo geopolitico produce consenso interno. Nel mondo interconnesso l’interesse
nazionale si gioca fuori dai confni nazionali e dentro il contesto internazionale.
Il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina. La Turchia sostiene Kiev vendendole
armi. Ma, unico membro della Nato, non impone sanzioni a Mosca. Poi però non
riconosce l’esito del referendum di annessione del Donbas. E svolge un ruolo stra-
ordinario nel mondo perché è l’unica potenza in grado di dare risonanza alle Nazio-
ni Unite che, altrimenti, non avrebbero avuto alcuna voce in capitolo. Così Ankara
fa frmare alle parti in guerra l’accordo per il grano. Un capolavoro diplomatico.
LIMES All’appello manchiamo noi europei.
MINNITI L’Europa non capisce che nel Mediterraneo allargato si gioca il proprio
ruolo nel mondo. Perché Africa ed Europa sono due entità speculari. Non è pen-
sabile la prosperità dell’Africa senza l’Europa. Non è pensabile un assetto stabile
dell’Europa senza l’Africa.
Entrambe vivono tre crisi tra loro collegate e tra loro risolvibili. Quella energetica,
quella alimentare, ma soprattutto quella demografca. In senso opposto: l’Europa
non fa fgli, l’Africa ne fa tanti. Ed è nella crisi demografca che si gioca il futuro
della cooperazione tra i due continenti. Perché la crescita della popolazione è un
fattore di potenza. Guardiamo alla Cina: i dati più recenti mostrano il primo declino
demografco dal 1963. Pechino si sente più debole, vede il calo come un collasso,
tutti i media internazionali ne parlano. Ma nessuno parla con analoga enfasi della
crisi demografca che da anni attanaglia diversi paesi dell’Europa, dall’Italia alla
Germania e non ultima la Francia. Caso opposto è l’India, che invece sarà sempre
più protagonista grazie all’incremento della popolazione.
Di nuovo, il problema della retorica irrealistica e dell’incapacità di connettere i
problemi. Non dobbiamo parlare di fussi migratori. Si chiama crisi demografca e
si tratta di squilibri demografci. Un problema che l’Europa può risolvere proprio
con l’Africa. Nel mondo interconnesso il fattore umano conta sempre di più. L’Eu-
ropa ha bisogno di materiale umano ma è in crisi di natalità perché il fenomeno
demografco è drammatico e mal governato. Non capiamo che lasciare la gestione
degli spostamenti di esseri umani ai traffcanti signifca consegnare loro le chiavi
delle nostre democrazie. Anche gli Stati Uniti, che hanno scelto il Pacifco come
teatro strategico principale, hanno bisogno di un’Europa autonoma in grado di
occuparsi del Mediterraneo.
Ma l’Europa si sta geopoliticamente suicidando. Anche in Ucraina. Certo, siamo
rimasti uniti di fronte alla guerra. Però, nella mia visione, pensavo che dovessimo
diventare un grande attore internazionale capace di farsi promotore di pace, ad
esempio con un accordo sul grano. L’Europa non è stata capace di farlo perché
non ha colto la centralità del Mediterraneo allargato. Perché tutti gli europei hanno
152 una tattica, ma nessuno ha una visione.
LA GUERRA CONTINUA

LIMES Quindi, che fare?


MINNITI Inizierei da cosa non fare. Il progetto europeo non dev’essere un patto per
le migrazioni perché altrimenti non ce la facciamo, non conquistiamo i cuori e le
menti degli africani. In Africa la possibilità di emigrare è considerata un’aspettativa
vitale, un sogno che neanche l’autocrazia più feroce è in grado di vietare. Se fno
a oggi le cause della migrazione erano economiche e belliche, domani si aggiun-
geranno ragioni legate ai cambiamenti climatici e alla sensazione di essere cittadini
del mondo, pertanto abilitati a spostarsi da un paese all’altro. I movimenti non
sono sopprimibili. Poi, non dobbiamo regalare soldi a pioggia. I piani da cento
miliardi non funzionano. Come testimonia il piano migratorio diviso in due tranche
da tre miliardi stabilito dall’Europa con Turchia e Siria: ha funzionato perfettamen-
te, a differenza di altri. Né dobbiamo pensare di farcela da soli. La parabola fran-
cese nel Sahel è esemplare.
Che fare, dunque. Innanzitutto, bisogna muoversi immediatamente. In Europa si
parla di una strategia per la migrazione da battezzare nel 2024: siamo fuori dal
tempo. Bisogna promuovere subito un piano da qualche miliardo di euro, pochi
ma ben distribuiti, per una stabilizzazione politica e sociale immediata, per la cre-
scita economica e per la prosperità dei popoli. Dobbiamo esigere che il futuro di
questi paesi sia una priorità. È nel nostro interesse. Ciò signifca intervenire in Tu-
nisia non come sta facendo il Fondo monetario internazionale, cioè con un presti-
to, ma con un investimento. Perché il meccanismo del prestito internazionale non
sta funzionando, l’infazione cresce e le trattative si fanno complesse. Dobbiamo
puntare a stabilizzare socialmente la situazione e a mettere i presupposti per una
crescita economica. Prosperità signifca crescita: l’obiettivo non è tenere questi
paesi in condizione di minorità, ma farli sentire degli interlocutori.
Un percorso simile ci consentirà di affrontare il tema delle classi dirigenti africane.
Non col modello interventista usato in Libia, che è fallimentare e anzi ha alimenta-
to una fragilità endemica delle istituzioni non risolta e non risolvibile.
Noi dobbiamo trasmettere questo messaggio: l’Africa non è povera, ma è impove-
rita da classi dirigenti non degne di questo nome. L’Europa non deve muoversi
come una democrazia interventista, deve avere una diplomazia esigente. Prendia-
mo il rapporto tra Italia ed Egitto. Anche Il Cairo sta affrontando un’instabilità eco-
nomica e sociale con un’infazione alta e uno squilibrio nel rapporto tra sterlina
egiziana e dollaro statunitense. L’Italia può avere molte opportunità di investimen-
to in Egitto, ma non deve mai dimenticarsi del caso Regeni. Ecco cosa fa una di-
plomazia esigente: riconosce un ruolo all’Egitto senza dimenticarsi mai di Regeni.
Per questo motivo devono essere le istituzioni democratiche del nostro paese a
parlare con i paesi africani. Non altri attori, pubblici o privati che siano.
LIMES Mettere d’accordo 27 paesi europei è impresa assai diffcile, specie se in
Africa hanno interessi diversi.
MINNITI Sì, in Europa nessuno si muove se si parla di redistribuzione di migranti. Il
recente caso della Ocean Viking è esemplare: Macron ha accolto i rifugiati, è stato
contestato dall’esterno e dall’interno, da destra e da sinistra, senza distinzioni. 153
‘IL MIO PIANO PER L’AFRICA’

Insisto nuovamente sul signifcato delle parole. Dobbiamo parlare di altro: di un


piano per l’Africa da qualche miliardo capace di avere ampio respiro, profondità
strategica e in grado di difendere i confni, così da fornire una prospettiva economi-
ca ai paesi africani e a quelli europei affacciati sul Mediterraneo.
Facciamo un esempio concreto. Italia e Tunisia si mettono d’accordo. Roma stabi-
lisce trentamila ingressi legali in un anno dalla Tunisia. Saranno gestiti attraverso le
ambasciate. Nell’attesa, si mandano insegnanti di sostegno in Tunisia a insegnare
la lingua italiana e altre materie. Ipotizziamo di avere un problema con la mancan-
za di operai siderurgici perché c’è un’alta domanda delle imprese ma l’offerta edu-
cativa è scarsa. Bene, l’educazione dei tunisini comprenderà anche materie legate
a questo settore. Però, Tunisi deve accettare che Roma possa rimpatriare tutte
quelle persone che arrivano illegalmente in Italia. Ecco che l’integrazione diventa
più facile.
Integrazione e sicurezza sono due temi di strettissima attualità, basti pensare alle
campagne elettorali giocate sul tema della sicurezza, ma sono anche due termini
intimamente connessi. Integrare meglio signifca essere più sicuri. L’integrazione
sbagliata genera terrorismo.
Noi non possiamo avere una visione difensiva dell’Europa. Il tema demografco
dev’essere messo al centro della nostra agenda. Anche perché, se non si affronta
questo tema, l’Italia è fnita.

154
LA GUERRA CONTINUA

LE SANZIONI
TRA MASCHERA
E VOLTO MARONTA di Fabrizio

Inutile a fini preventivi, l’embargo occidentale erode la base


economico-industriale della Russia. L’import parallelo e altri
trucchi russi (ma anche europei) per aggirare i divieti. L’impatto
sull’Italia. Che succede se il Cremlino finisce i soldi.

1. L E SANZIONI ALLA RUSSIA FUNZIONANO?


Sì. E no. Dipende da come le si guarda, per dirla con il compianto Pau Donés. E
da cosa si chiede loro. Se all’embargo si chiede(va) di impedire la guerra, o anche
solo di limitarne la durata, la risposta è un rotondo no. Chi riponeva in ciò le pro-
prie speranze è rimasto amaramente deluso.
A questa categoria appartengono, tra gli altri, gli «alti esponenti» dell’ammini-
strazione Biden che lo scorso settembre confdavano alla Cnn 1 il loro disappunto.
L’auspicio iniziale, raccontano, era che le sanzioni inceppassero presto la macchina
da guerra russa, impedendo al Cremlino di sostenere lo sforzo bellico e magari –
nel migliore dei mondi possibili – suscitando un sordo malcontento pubblico,
quando la penuria avesse pesantemente compromesso il tenore di vita dei russi.
Non è andata così. Lo iato tra desideri e realtà scaturisce dal fatto che molti, a
Washington e in altre cancellerie occidentali, sembrano aver gravemente sottosti-
mato due elementi: l’entità degli introiti di Mosca e la disponibilità di alcuni grandi
paesi ad acquistarne gli idrocarburi, principale fonte dei suddetti introiti. Il riferi-
mento è ovviamente a Cina e India, ma anche a soggetti meno ovvi. Su tutti l’Ara-
bia Saudita, che pur essendo un esportatore netto di petrolio in questi mesi di
guerra ha acquistato greggio russo usandolo nelle sue centrali elettriche e liberan-
do così volumi di produzione nazionale per l’esportazione, lucrando sulla differen-
za tra il prezzo d’acquisto (a sconto) del petrolio russo e quello di vendita (a prez-
zo pieno, lievitato inizialmente per lo shock bellico) del proprio. «Le sanzioni
hanno colpito l’economia russa, ma non nella misura sperata e di certo non tanto
da costringere la Russia a negoziare», lamentano gli alti esponenti alla Cnn.

1. N. BERTRAND, K.B. LILLIS, «Russian sanctions slow to bite as US offcials admit frustrations over pace
of pain in Moscow», Cnn, 16/9/2022. 155
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

Ma cosa, esattamente, è andato storto? La lista è lunga.


Primo: complice l’iniziale impennata dei prezzi, nei primi sei mesi di guerra
(marzo-agosto 2022) la Russia ha incamerato quasi 160 miliardi di euro dalla ven-
dita di gas, petrolio e (in misura assai minore) carbone 2. Molto più di quanto la
Casa Bianca si aspettasse. Anche i fertilizzanti di produzione russa – non sanziona-
ti – hanno reso bene: quasi 17 miliardi di dollari tra febbraio e dicembre (+70%
rispetto allo stesso periodo del 2021), smentendo le diffuse previsioni sul crollo
dell’export causa impraticabilità del Mar Nero 3.
Secondo: sotto l’abile direzione di El’vira Nabiullina, la Banca centrale russa è
stata più abile del previsto nel gestire l’impatto delle sanzioni. Questo impatto è
stato inizialmente forte: il sequestro delle riserve (oro e valuta estera) fsicamente
detenute da terzi, punta di diamante dell’apparato sanzionatorio, ha decurtato del
40% circa il tesoro dell’erario russo. Ma la riconosciuta competenza di Nabiullina e
colleghi, insieme all’entità delle riserve ancora nella disponibilità di Mosca (perché
ubicate in patria o presso paesi non compartecipi delle sanzioni), hanno lasciato al
Cremlino una somma suffciente ad assorbire il colpo.
Terzo, e cruciale: le sanzioni puntavano a inceppare l’economia reale russa,
impedendole di funzionare. Inizialmente sembrava fosse così: stante la relativa ar-
retratezza di un’economia poco sofsticata, basata com’è sull’export di materie
prime, in volumi assoluti la Russia fa meno affdamento sulle importazioni rispetto
ad altri paesi di paragonabile taglia economica. Tuttavia, essa dipende dall’estero
per tecnologie cruciali di cui si è vista privata nelle prime settimane di guerra. Pre-
sto, però, gli importatori russi – sostenuti dal Cremlino – si sono dimostrati abili
nell’aggirare gli embarghi settoriali, mentre gli esportatori facevano altrettanto. Ri-
sultato: tra gennaio e settembre 2022 la bilancia commerciale russa registrava un
attivo di quasi 200 miliardi di dollari, circa 120 miliardi in più rispetto allo stesso
periodo del 2021. Le stime per il 2023 indicano un possibile surplus di 100 miliar-
di 4: molto meno, ma non male per un’economia soggetta a sanzioni di ogni tipo.

2. L’aggiramento dell’embargo merita un’analisi a sé, perché è il cuore della


questione. La pratica ha oggi nella Russia l’esempio più attuale e lampante, ma si
estende oltre il caso russo. Quest’ultimo appare per certi versi l’effetto collaterale
del massiccio e crescente ricorso, da parte statunitense, alle sanzioni come stru-
mento coercitivo nella pratica geopolitica degli ultimi decenni 5. Una pratica resa
possibile dalla dimensione dell’economia statunitense, dunque dall’effcacia dis-
suasiva delle sanzioni secondarie. Ma anche dalla centralità del dollaro e dalla
posizione baricentrica di Washington nei circuiti fnanziari globali: strumenti di

2. AA.VV., «Financing Putin’s war: Fossil fuel exports from Russia in the frst six months of the invasion
of Ukraine», Crea, 6/8/2022.
3. E. TERAZONO, «Russian fertiliser export revenue surged 70% in 2022 as prices jumped», Financial
Times, 15/1/2023.
4. AA.VV., «How have sanctions impacted Russia?», Bruegel, 26/10/2022.
5. F. MARONTA, «La madre di tutte le sanzioni è un’arma spuntata», Limes, «La Russia cambia il mondo»,
156 n. 2/2022, pp. 87-99.
LA GUERRA CONTINUA

pagamento elettronico, sistemi di credito interbancario (Swift), agenzie di rating,


dimensione delle Borse valori, peso nelle istituzioni fnanziarie internazionali (Fon-
do monetario, Banca mondiale).
L’uso pervasivo dello strumento sanzionatorio da parte statunitense ha indotto
nel tempo una sorta di adattamento morfologico delle economie sanzionate e dei
soggetti con esse solidali (spesso le due condizioni coincidono) 6. A facilitarlo ha
concorso, paradossalmente, la globalizzazione di stampo americano. L’adozione
del paradigma capitalistico e l’integrazione nelle fliere produttive transazionali ha
sì esposto molte economie all’interdipendenza con l’estero, ma ha anche moltipli-
cato i canali di approvvigionamento e sbocco commerciale. Ciò ha creato sinergie
utili ad attenuare l’impatto degli embarghi, ma soprattutto ha incentivato attori
terzi (Stati, aziende) a solidarizzare con il sanzionato, sfruttandone opportunistica-
mente la condizione per acquisirne a sconto le risorse e vendergli a premio il ne-
cessario. Come da manuale del perfetto capitalista.
Tra gli strumenti usati per aggirare le sanzioni fgurano gli swap valutari, mi-
ranti a prescindere dal dollaro. Tali accordi mettono in relazione diretta le Banche
centrali dei paesi contraenti, evitando loro di usare valute terze (il dollaro) per re-
golare le rispettive pendenze. Tra gli Stati che hanno abbracciato lo strumento c’è
non a caso la Cina, che negli ultimi anni ha stipulato intese valutarie con oltre
sessanta paesi per un interscambio totale di oltre 500 miliardi di dollari. A rilevare
non è l’ovvia presenza di Stati invisi all’America (come la Russia) o ambigui (come
Argentina, Pakistan, Turchia e Sudafrica), bensì quella di alleati come la Corea del
Sud, gli Emirati Arabi Uniti o l’India, che nel 2019 ha pagato con un mix di rubli e
rupie il conto (5 miliardi di dollari) dei missili S-400 acquistati da Mosca, resusci-
tando all’uopo un accordo valutario del 1953. Nel 2020 la Cina ha per la prima
volta regolato oltre metà del suo commercio con la Russia in renminbi e rubli,
sottraendolo ai meccanismi sanzionatori.
Un altro trucco consiste nello sviluppo di circuiti interbancari alternativi allo
Swift, «domiciliato» in Svizzera ed egemonizzato dagli Stati Uniti. Come osservato
all’inizio del confitto 7, il sistema cinese (Cross-Border Interbank Payment System,
Cips) è lungi dal fare vera concorrenza allo Swift: nel 2021 ha gestito transazioni
per appena 12 mila miliardi di dollari, quanto lo Swift elabora in circa tre giorni 8.
Inoltre, il Cips gestisce quasi esclusivamente pagamenti in renminbi, moneta in cui
è espresso meno del 10% delle transazioni internazionali. La mera esistenza del
Davide cinese è tuttavia una vittoria rispetto al Golia occidentale, dato che l’obiet-
tivo di Pechino (e di Mosca) non è fare concorrenza allo Swift, ma disporre di una
valida alternativa. Con circa 1.300 banche di oltre 100 paesi affliate al Cips, l’alter-
nativa esiste e, con tutti i suoi limiti, funziona.
Il terzo, grande arnese nello strumentario antisanzioni sono le valute digitali,
cioè la versione digitale delle monete sovrane, da non confondere con le criptova-

6. Sul tema, cfr. A. DEMARAIS, «The End of the Age of Sanctions?», Foreign Affairs, 27/12/2022.
7. F. MARONTA, op. cit.
8. «Factbox: What is China’s onshore yuan clearing and settlement system CIPS?», Reuters, 28/2/2022. 157
158
SI FA PRESTO A DIRE SANZIONI PAESI BASSI 1 - ESTONIA 7 - ROMANIA SLOVACCHIA
BELGIO 2 - LETTONIA 8 - BULGARIA UNGHERIA
LUSSEMBURGO 3 - LITUANIA 9 - ALBANIA CROAZIA
4 - POLONIA 10 - GRECIA SLOVENIA
5 - GERMANIA 11 - MALTA
6 - REP. CECA 12 - CIPRO
FINLANDIA
SVEZIA

ISLANDA
Alaska NORVEGIA
(STATI UNITI)
DANIMARCA F EDE RA ZIONE RU SSA
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

CANADA REGNO UNITO


IRLANDA
FRANCIA UCRAINA
SVIZZERA
AUSTRIA ITALIA
STATI UNITI SPAGNA
GIAPPONE
PORTOGALLO 12
COREA DEL SUD
TAIWAN

Russia sanzionata
Paesi che hanno imposto GUIANA FR.
sanzioni contro la Russia
PAESI PIÙ ESPOSTI <2% VOLUME DEGLI SCAMBI (dopo l’invasione)
AL COMMERCIO 2%-3% India +310 %
CON LA RUSSIA 3%-6% Turchia +198 %
(prima dell’invasione) >6% Brasile +106 %
Belgio + 81 %
Cina + 64 % AUSTRALIA
Paesi Bassi + 32 %
Giappone + 13 %
Germania - 3 %
Corea del Sud - 17 %
Stati Uniti - 35 %
Svezia - 76 % Dati paragonati NUOVA ZELANDA
Regno Unito - 79 % alla media mensile
del periodo 2017-2021
Fonte: Peterson Institute for International Economics; Eiu
LA GUERRA CONTINUA

lute. Anche in questo campo, la Cina è capofla: circa 300 milioni di cinesi (grosso-
modo la classe media del paese) usano oggi il renminbi digitale in oltre 20 città 9
tra cui ovviamente Pechino, Shanghai e Shenzhen, che da sole fanno 60 milioni di
abitanti. Alle Olimpiadi invernali di Pechino del 2022 i pagamenti potevano essere
effettuati con Visa o moneta (cinese) elettronica. L’anno prima, il governo cinese
aveva stretto accordi con Emirati e Thailandia per regolare le pendenze commer-
ciali con tale strumento. Emesso dalla Banca centrale cinese, il conio digitale è
detenuto in portafogli elettronici archiviati nelle memorie degli smartphone di chi
li usa, dunque gli Stati Uniti non hanno modo di inibirne l’uso. Fatte salve, forse,
vaste operazioni di hackeraggio in stile nordcoreano, che tuttavia presentano serie
controindicazioni d’immagine, legali e diplomatiche (essendo veri e propri atti
d’aggressione).
Oltre a depotenziare le sanzioni, questi e altri metodi creano enormi coni
d’ombra in cui veicolare fussi fnanziari illeciti – evasione, riciclaggio, traffci ille-
gali, terrorismo – sottraendoli allo sguardo delle autorità statunitensi e degli altri
paesi intenti a contrastarli.

3. Nel caso specifco della Russia e della guerra in corso, l’aggiramento delle
sanzioni avviene soprattutto mediante alcuni stratagemmi 10. Il petrolio è esportato
occultandone l’origine. Come? Mescolandolo – in mare aperto o presso porti di
paesi compiacenti – con greggio di altra provenienza, da cui un mix noto come
miscela lituana o turkmena. Se il petrolio russo presente nel mix è inferiore al 50%,
normativamente la miscela non è più di origine russa ed è così sdoganata.
L’esclusione dai principali circuiti di pagamento elettronico (Visa, Mastercard,
American Express) è invece attenuata attraverso il cosiddetto turismo delle carte di
credito. Soggetti russi e bielorussi – persone fsiche e giuridiche – sanzionati apro-
no conti presso banche di paesi non sanzionati (12 mila al marzo 2022 nel solo
Kazakistan) 11: non possono usarne le carte su sistemi e in negozi russi, ma posso-
no pagarci servizi stranieri e abbonamenti online.
Lo schema forse più effcace, tuttavia, è l’import parallelo 12: l’importazione di
beni leciti – nel senso di ammessi al consumo e non contraffatti – senza il consen-
so del produttore. Consenso sovente impossibile da ottenere, essendo a oggi oltre
mille le aziende – di ogni comparto e dimensione – uffcialmente ritiratesi dal mer-
cato russo 13. La scappatoia è squisitamente giuridica e ineliminabile, perché con-
naturata all’estrema ramifcazione dei commerci internazionali. Si chiama «decaden-
za del diritto d’autore» (copyright exhaustion) e prevede che il diritto del fabbrican-

9. A. HULD, «China Launches Digital Yuan App – All You Need to Know», China Briefng, 22/9/2022.
10. «Top Ten Most Common Russian Sanction Evasion Schemes», Integrity Risk International,
10/8/2022.
11. «Citizens of Russia, Belarus open about 12,000 banks accounts in Kazakhstan since Feb 24», Inter-
fax, 8/4/2022.
12. A. PANDEY, «How Russia is dodging Western sanctions», DW, 18/8/2022.
13. «Over 1,000 Companies Have Curtailed Operations in Russia – But Some Remain», Yale School of
Management, 9/1/2023. 159
160
SANZIONI AGGIRATE STRUMENTI FINANZIARI ANTI-SANZIONI STRUMENTI COMMERCIALI ANTI-SANZIONI
PAESI CHE NON APPLICANO Relazione diretta tra banche centrali Export di idrocarburi
LE SANZIONI ALLA FED. RUSSA dei paesi che hanno rapporti con la Federazione Russa Mescolanza di petrolio russo con altri greggi
Sviluppo di circuiti interbancari alternativi provenienti da paesi consenzienti nei porti
Principali paesi che aiutano la Fed. Russa o in mare aperto (miscela lituana o turkmena)
ad aggirare i canali d’import ufciali (Cips, Cross-Border Interbank Payment
in sostituzione dello Swift) Import parallelo
Paesi attraverso cui avvengono Valute digitali Beni leciti ammessi al consumo nella Fed. Russa,
altre operazioni di aggiramento (versione digitale delle monete sovrane) che non hanno più bisogno del consenso del produttore,
importati con una triangolazione attraverso
Turchia, Bielorussia, Armenia o Kazakistan
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

SVIZZERA

F E D E R A Z I O N E R U S S A
Settori industriali russi
BIELORUSSIA in grave crisi per le sanzioni: SAKHALIN II e III
UNGHERIA Mosca - Automobilistico
- Estrazione minerali ferrosi Power of Siberia
BOSNIA ERZ. - Estrazione del carbone (Progetto)
SERBIA KRASNOJARSK
MOLD. Oblast’ di Kemerovo
(cuore del settore JAKUTIA Blagoveščensk
carbonifero russo)
IRKUTSK
C I N A
(maggior benefciario
TURCHIA delle importazioni
GEORGIA di idrocarburi russi)
KAZAKISTAN Centri di produzione
ARMENIA di gas orientati verso
AZERB. COREA DEL NORD
SIRIA il mercato asiatico Paese alleato
Krasnojarsk della Fed. Russa
EGITTO KIRG. Irkutsk
IRAQ SVIZZERA
TAG. Jakutia Centrale per il sistema
IRAN Sakhalin di pagamento internazionale Swift,
Guerra in Ucraina PAK. ma anche connessione
INDIA Giacimenti siberiani di gas economico-fnanziaria per la Fed. Russa
LA GUERRA CONTINUA

te al controllo del proprio prodotto decada con la prima vendita dello stesso. Ogni
ulteriore cessione a titolo oneroso affranca il rivenditore dal rispettare le volontà
del fabbricante sulla destinazione fnale del bene. La ratio è consentire di dirottare
merci dove e quando serve nei complessi mercati internazionali; in pratica, questo
consente alla Russia – o a ad altri sanzionati – di importare ciò che non potrebbe.
Per questo già a maggio 2022 Mosca ha pubblicato una prima lista (poi ampliata)
di beni importabili attraverso schemi paralleli che includeva prodotti strategici co-
me mezzi da guerra, ricambi per auto e treni o componentistica elettronica, ma
anche elettrodomestici, vestiario, calzature, cosmetici. Tra i marchi loro malgrado
(?) coinvolti fgurano molte aziende occidentali arcinote. Con la pubblicazione del-
la lista, il Cremlino autorizzava gli operatori nazionali ad aggirare i canali d’impor-
tazione uffciali, spesso mediante triangolazioni con paesi dello spazio ex sovietico
(in particolare Kazakistan, Armenia e Bielorussia) e con la Turchia. L’ente statistico
russo (Rosstat) calcola che nel 2022 le importazioni parallele abbiano toccato i 16
miliardi di dollari, contro un crollo delle importazioni uffciali che altre stime col-
locano tra il 50% e il 70% 14.
Infne, le società russe sanzionate possono operare ristrutturazioni aziendali
volte a occultare i benefciari ultimi dei beni sanzionati. Caso tipico è quello degli
oligarchi che liquidano i loro asset trasferendoli ad amministratori fduciari. Dal
Chelsea di Abramovi0 in giù (o in su), gli esempi abbondano.
Questo stato di cose concorre a spiegare l’impatto sin qui relativamente con-
tenuto delle sanzioni sulla Russia e sulle controparti fortemente esposte come l’Ita-
lia 15. Sulla carta l’embargo pregiudica oltre il 44% dell’interscambio italo-russo, per
un valore di circa 10 miliardi di euro (rispetto al 2019). Il controvalore dell’export
italiano sanzionato è di circa 4 miliardi di euro, a valere soprattutto su meccanica,
legno-arredo, tessile-abbigliamento, alimentare e beni di consumo. L’impatto reale
nel 2022 non ha però superato il miliardo di euro, mentre per il 2023 dovrebbe
attestarsi sotto i 2 miliardi. Al netto degli aggiramenti, infatti, non tutti i 4 miliardi
di export sanzionato (dalla Ue o dall’America per via secondaria) sono effettiva-
mente bloccati, in ragione dei criteri di deroga.
Situazione simile per l’import sanzionato, pari a circa 6 miliardi di euro (sem-
pre rispetto ai volumi del 2019). L’embargo su greggio e prodotti petroliferi (5 mi-
liardi di euro) ha prodotto effetti marginali (circa 400 milioni) nel 2022, essendo
scattato solo il 5 dicembre. Nel 2023 l’ammanco è potenzialmente ben maggiore,
ma l’impatto effettivo sull’economia italiana andrà calcolato solo e nella misura in
cui i medesimi beni importati da mercati alternativi costeranno di più. Per quanto
riguarda greggio e derivati, la voce più importante, price cap europeo e recessione
asiatica potrebbero continuare a calmierare i prezzi (il Brent, riferimento europeo,
14. Z. DARVAS, C. MARTINS, «Russia’s huge trade surplus is not a sign of economic strength», Bruegel,
8/9/2022.
15. I seguenti dati sono tratti da un rapporto di Awos (A World Of Sanctions) pubblicato in GeoTrade,
n. 4, agosto 2022, «La bomba delle sanzioni», una cui sintesi si trova in «Sanzioni alla Russia: sotto
restrizione il 44% dell’interscambio con l’Italia», Notizie geopolitiche, 20/12/2022. 161
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

LA LISTA DEI DESIDERI


Elenco ufciale russo dei beni ammessi all’import parallelo (e relativi produttori)
BENI PRODUTTORI
Alberi ad alto fusto, piante, bulbi e fori recisi Indipendentemente da marchio e produttore.

Minerali Panasonic, Rio Tinto, Iluka, Scania, Volkswagen, Volvo, Land Rover, Renault,
Porsche, Ferrari, Toyota, Daf, Bugatti (tra gli altri).
Sostanze inorganiche, composti chimici organici, Henkel, EnviroFALK, Edgewell Personal Care, Johnson & Johnson (tra gli altri).
prodotti farmaceutici
Coloranti, pigmenti, tinture, oli essenziali, L’Oréal, Cacharel, Diesel, Oral-B, Gillette, Old Spice, Fiberfrax, Rema, Mato, Gcp
profumeria, cosmetici, saponi, detersivi, cere, Italiana, Bentonorit, Bonderite (tra gli altri).
sostanze proteiche, enzimi, esplosivi, agenti
pirotecnici, altri prodotti chimici
Plastiche, gomme e derivati Fhf, Siemens, Henkel, Thunderfex, Emer, Rema, Michelin, Goodyear,
Bridgestone, Bosch, Vickers, Scania, Chevrolet, BMW, Maserati, Wabco, Volvo,
Daf (tra gli altri).
Pellame e pellicce Indipendentemente da marchio e produttore.
Carta Indipendentemente da marchio e produttore.
Seta, lana, cotone e tessuti derivanti da altre Dessau, Siemens, Mühlen Sohn, Gore, ZAB Zementanlagenbau, più altri
piante, flati artifciali indipendentemente da marchio e produttore.
Vestiario Indipendentemente da marchio e produttore
Calzature, copricapi, ombrelli Indipendentemente da marchio e produttore.
Prodotti in pietra, ceramiche, vetro Eltra, Leko, FLSmidth, Refratechnik Cement, Hermes, Yamaha, Bando,
ContiTech, Land Rover, Hummer, Bentley, Maybach, Smart, Man, Peterbilt,
Kenworth (tra gli altri).
Metalli scuri, rame, alluminio, piombo, zinco, Aeroni, Dms, Griggs Steel, Wabtec, Bosch, Siemens, Scania, Mercedes-Benz,
latta e derivati Volkswagen, Daf, Mitsubishi, Chevrolet, Lamborghini, Wabco, Aleastur,
Asturiana de Aleaciones, Reading Alloys, più altri indipendentemente da
marchio e produttore.
Utensili Wikus, Pryor, Hilti, Knipex, Atlas Copco, Kyocera, Berg, Eltool, Faro, Seco,
Cadillac, Gmc, Lincoln, Subaru, Honda, Volkswagen, Bugatti, più altri
indipendentemente da marchio e produttore.
Altri beni fatti di metalli non pregiati Scania, Bosch, Mitsubishi, Land Rover, Hummer, Dodge, Audi, Porsche, Ferrari,
Peterbilt, Volvo, Kenworth, Freightliner (tra gli altri).
Reattori nucleari, caldaie, unità meccaniche e Trellix, Mtu, Omvl, Valtek, Cummins, Volvo, Scania, Volkswagen, Ecomotive
attrezzature Solutions, Detroit Diesel, Wilo, Lowara, HiRef, Electrolux, Metabo,
Siemens, Tenova, Delonghi, Midrex, Rotofx, Abb, Dessau, Daikin, più altri
indipendentemente da marchio e produttore.
Macchinari elettrici, registratori audio/video, Abb, Siemens, General Electric, Philips, Nippon, Panasonic, Epcos, Traco
videogiochi e loro parti Electronic, Euroquartz, Rockwell, Schneider Electric, Renata, Gauss Magneti,
Energizer, GoPro, Electrolux, De’ Longhi, Apple, Siemens, Scania, Nokia,
Logitech, Bose, Kyocera, Intel, Hp, Daimler, Volkswagen, Lamborghini,
BMW, Maybach, Man, Aston Martin, Scania, Volvo, Xbox, PlayStation (Sony),
Nintendo (tra gli altri).
Motori ferroviari, materiale rotabile, Dellner, Alfred Heyd, ZF Friedrichshafen, Bontatrans Group, Faiveley Transport
162 attrezzature ferroviarie Bochum, WelserProfle, Itt Holdings (tra gli altri).
LA GUERRA CONTINUA

BENI PRODUTTORI
Veicoli terrestri e loro parti Hummer, Mercedes-Benz, Crysler, Bentley, Gm, Cadillac, Maserati, Volkswagen,
Seat, Skoda, Bugatti, Subaru, Audi, Bosch, Vickers, Knorr-Bremse, Volvo, Rolls-
Royce, Porsche, Honda, Nissan, Scania, Man, Daf, Infniti, Jaguar (tra gli altri).
Natanti Indipendentemente da marchio e produttore.
Strumenti ottici, fotografci, di misurazione, Conteg, Hp, Ninebot, Apc, Tripp Lite, Siemens, Schneider Electric,
medici e chirurgici Aic, Powercom, Vertiv, Mercedes-Benz, Jeep, Kenworth, più altri
indipendentemente da marchio e produttore.
Orologi e loro parti Apple, Acer, Samsung, Motorola, Sony, Siemens.
Strumenti musicali Pirastro, Besson, Bulgheroni, Graph Tech, Höfner, Savarez (tra gli altri).
Armi e sistemi d’arma Indipendentemente da marchio e produttore.
Mobili, illuminazione, materiali edili Land Rover, Jeep, Jaguar, Mercedes-Benz, Freightliner, Mack Trucks, Peterbilt
(tra gli altri).
Prodotti fniti vari O.B., Carefree, Lovular, Merries, Moony, Synergetic, più altri
indipendentemente da marchio e produttore.

Fonte: ministero dello Sviluppo economico russo

è passato dai 120 dollari di marzo agli 80 attuali). Molti più danni, insomma, ha
fatto la via crucis dell’economia cinese infitta dalla politica «zero Covid» di Xi Jin-
ping, al cui svelto disconoscimento molti – in Italia e altrove – guardano per discer-
nere l’immediato futuro dell’economia globale.
Il gas rimane fuori dal discorso, in quanto il suo ammanco si deve alla scelta
russa di ridurre drasticamente le forniture via tubo. Ciò nulla toglie all’impatto in-
fattivo della mossa, anche se fnora clima mite, stoccaggi pieni e approvvigiona-
menti alternativi (Nord Africa, Stati Uniti, Qatar) hanno tamponato l’emergenza. Ma
il primo è aleatorio, i secondi diffcilmente ripristinabili in egual misura alle soglie
dell’inverno 2023-24 stante l’indisponibilità del gas russo, i terzi – specie il gnl d’Ol-
treoceano – strutturalmente più cari.
Resta che le sanzioni non sono la cappa impenetrabile che gli estensori spera-
vano. Assomigliano piuttosto a uno scolapasta, dai fori più o meno grandi (a se-
conda dei settori considerati) ma comunque impossibili da tappare tutti. Per questo
il 2 dicembre scorso la Commissione europea ha sentito l’urgenza di proporre
l’armonizzazione delle normative nazionali sulla violazione dei pacchetti sanziona-
tori, da rendere penalmente rilevanti ed egualmente sanzionabili in tutti gli Stati
dell’Unione. Ciò in quanto «è essenziale che le misure restrittive siano pienamente
rispettate e che la loro violazione non paghi» 16. Accompagna la proposta una lunga
«lista dei reati connessi alla violazione delle sanzioni», catalogo di Arsenio Lupin
che bene illustra la sottile arte del contrabbando.

16. «Ukraine: Commission proposes to criminalise the violation of EU sanctions», Commissione euro-
pea, 2/12/2022. 163
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

4. La guerra ucraina stupisce molti: giunta affatto imprevista, si sta protraendo


oltre i tardivi e affannati pronostici. Di fronte allo stallo, Mosca sembra attrezzarsi
a un confitto lungo: guerra d’attrito, in cui nessun contendente riesce a conseguire
una vittoria netta e indisputabile. Al netto di clamorosi collassi del fronte occiden-
tale, torna allora utile interrogarsi sugli effetti a più lungo termine delle sanzioni. Il
cui scopo, da preventivo, diviene punitivo: compromettere strutturalmente l’econo-
mia della Russia, minandone la potenza ma anche la stabilità e la pace sociale.
Volte da monito a castigo, le sanzioni funzionano? Una risposta ragionevole impli-
ca andare oltre le evidenze immediate.
Gli indicatori uffciali non raccontano davvero la guerra: nel 2022 il pil russo
si è contratto del 2%, il bilancio federale è in corposo attivo, alla Borsa di Mosca il
rublo si è rafforzato. Ma ammessa la veridicità di questi dati, essi risultano drogati
dall’impennata (+33% rispetto al bilancio originario 2022) della spesa militare 17. I
200 miliardi di surplus commerciale dei primi mesi di guerra molto devono al
crollo delle importazioni e ai forti rincari di gas e greggio, che da allora sono lar-
gamente rientrati e sul cui eventuale ritorno di famma grava la medesima incer-
tezza che attanaglia i paesi europei (i quali, rispetto a Mosca, nutrono ovviamente
auspici opposti). Ciò vale anche per una voce importante come i fertilizzanti, la
cui produzione fa largo uso di gas e i cui ricavi record rispetto al 2021 (+70%,
malgrado un export quantitativamente inferiore del 10%) sono diffcili da replicare
con un gas più economico.
Depurati del settore oil & gas, i restanti introiti del Cremlino – composti per
oltre il 70% dall’Iva e dall’imposta federale sui proftti aziendali – sono calati di
circa il 5% nel 2022 (rispetto al 2021), mentre il commercio al dettaglio si è con-
tratto di circa il 10% e i trasporti di oltre il 7% (sempre su base annua). Se il rublo
non ha fatto la fne del marco di Weimar, Putin deve ringraziare una Nabiullina
impossibilitata a dimettersi che ha adottato misure draconiane. Queste hanno sì
evitato il collasso della valuta russa, ma ne hanno distrutto la convertibilità metten-
dola in uno stato di «coma indotto», come brutalmente sintetizzato dal Wall Street
Journal 18.
Malgrado l’import parallelo, dati Rosstat alla mano ad accusare il colpo mag-
giore sono comparti strategici che dipendono da componentistica e tecnologie
occidentali. Si tratta delle fliere più grandi, complesse e transnazionali, che rispet-
to alle altre benefciano meno dell’effetto sostitutivo sull’import (il made in Russia
che soppianta i prodotti importati) e fanno più uso di manodopera altamente spe-
cializzata. Questi comparti hanno subìto fessioni che sforano l’80% per l’industria
automobilistica, il 30% per la produzione di locomotive e vagoni merci, il 60% per
le lavatrici, il 50% per autobus e televisioni, il 40% per i telai di veicoli a motore e
i frigoriferi, il 35% per i veicoli merci e i motori a combustione interna, il 25% per

17. V. MILOV, «Beyond the Headlines: The Real Impact of Western Sanctions on Russia», Wilfried Mar-
tens Centre for European Studies, novembre 2022.
18. C. OSTROFF, «How Russia’s Central Bank Engineered the Ruble’s Rebound», The Wall Street Journal,
164 28/3/2022.
LA GUERRA CONTINUA

PRINCIPALI SANZIONI E RESTRIZIONI CONTRO LA RUSSIA

AUSTRALIA CANADA UE GIAPPONE SVIZZERA REGNO UNITO USA

Import
      
di petrolio

Import
 
di gas

Import
   
di carbone

Import
      
di oro

Import di metalli
 
(es. ferro, acciaio)

Export

di metalli

Export di beni
      
di lusso

Import di beni
   
di lusso

Export
     
di tecnologia

Oscuramento
    
media ufciali russi

Export di servizi
avanzati (es. consulenze,      
contabilità)

Restrizioni accesso
    
a fondi Wb e Fmi

Revoca clausola
     
nazione più favorita

Acquisti
      
di debito

Sanzioni a banche private


e rispettivi correntisti  

Accesso allo Swift      

 Annunciato o attuato Non annunciato

Fonte: Castellum AI 165


LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

le pompe idrauliche e i trasformatori, il 20% per i cavi in fbra ottica e le macchine


escavatrici, il 10% per le batterie al piombo 19.
Molte di queste produzioni fanno largo uso di acciaio, pertanto il comparto
siderurgico soffre: malgrado l’incremento della produzione bellica, nel 2022 la do-
manda di acciaio russo è calata del 6% circa (rispetto al 2021) e nel 2023 le stime
variano da +4% a -7% 20 (sempre rispetto ai volumi prebellici), stanti le incertezze
legate alla concorrenza asiatica – dove il rallentamento dell’edilizia cinese contri-
buisce a saturare il mercato – e alla sopravvalutazione del rublo.
Per quanto controintuitivo, il colpo maggiore l’ha però accusato l’industria
estrattiva. Specie quella, vitale, degli idrocarburi. Le esportazioni di gas sono di-
minuite di oltre il 45% su base annua 21 e la compromissione del gasdotto Nord
Stream rende impossibile ripristinare a breve i fussi verso l’Europa (ammesso che
la Russia lo voglia e l’Europa, ma soprattutto l’America, lo accettino). Vero è che
la domanda asiatica – specie cinese – potrebbe assorbire il mancato import euro-
peo. Ma l’infrastruttura dalla Siberia occidentale – sede di gran parte dei giacimen-
ti – in direzione sud-est, alias Power of Siberia, è appena abbozzata e richiede
anni (oltre a miliardi di dollari) per essere completata. Quanto ai prezzi, se il pe-
loso soccorso indiano e cinese degli ultimi mesi in veste di acquisti energetici
sottocosto dalla Russia è indicativo, diffcilmente Mosca spunterà dai compratori
asiatici gli stessi ricavi garantiti dai ricchi acquirenti europei. Situazione simile per
il petrolio, ora sanzionato da Usa e Ue, mentre il carbone russo (sanzionato dall’a-
gosto 2022) ha meno corso sui mercati del Far East, saturi di coke. Risultato:
meno 7% di esportazioni 22.
Nelle moderne economie industriali la divisione tra manifatturiero e agricoltu-
ra non è netta, perché le attività agricole sono altamente meccanizzate e sempre
più automatizzate. Il settore agricolo russo se la passa meglio dell’industria in sen-
so stretto, grazie alla sostituzione delle importazioni – resa possibile anche dalla
vendita illegale delle derrate ucraine sottratte a Kiev, che libera volumi di produ-
zione russa prima destinati all’export rendendoli disponibili per il consumo interno
– e da un abbondante raccolto di frumento. Ma gli agricoltori russi dipendono in
media per il 35% dalle sementi geneticamente modifcate occidentali, dipendenza
che sale al 20% per l’orzo, al 45% per la soia, al 70% circa per patate e girasoli e al
97% per la barbabietola da zucchero 23. Il loro venir meno minaccia la resa dei
terreni, al pari della penuria di ricambi che rischia di pregiudicare l’effcienza del

19. V. MILOV, op. cit.; «Impact of sanctions on the Russian economy», Consiglio europeo, 19/12/2022;
S. ONGENA, A. PESTOVA, M. MAMONOV, «The price of war: Macroeconomic effects of the 2022 sanctions
on Russia», Centre for Economic Policy Research (Cepr), 15/4/2022; H. SIMOLA, «War and sanctions:
Effects on the Russian economy», Centre for Economic Policy Research (Cepr), 15/12/2022.
20. «Estimated steel production in Russia from January 2021 to November 2022», Statista, 9/1/2023;
«Russian steel output expected to grow 4% in 2023 after falling 5.5% in 2022 - strategy of the steel
industry», Interfax, 9/1/2023.
21. «Cumulative gas exports by Gazprom to the far abroad from January to December 2022», Statista,
3/1/2023.
22. G. HOWARD, «Russian coal exports down, tonne-miles up», Seatrade Maritime News, 20/10/2022.
166 23. M. PLOEGMAKERS, «Russia moves to end import dependence on seeds», All About Feed, 15/11/2022.
LA GUERRA CONTINUA

parco macchine agricole, settore dominato dai grandi produttori americani, giap-
ponesi ed europei.

5. A tutto questo fa riscontro la crescita, per sostituzione delle importazioni,


della produzione di farmaci (+12%), vestiario (+6), bibite e tabacco (+4%), cibo e
carta (+2%) 24. Magra consolazione, anche e soprattutto dal punto di vista occupa-
zionale.
Si è parlato molto, e giustamente, dell’impatto sociale della mobilitazione «par-
ziale» ordinata da Vladimir Putin lo scorso ottobre. Diverso, ma non trascurabile,
l’impatto della disoccupazione creata dal regime sanzionatorio, di cui si parla assai
meno anche perché, almeno sinora, è stato in gran parte mascherato.
I settori più colpiti dalle sanzioni sono formidabili serbatoi di lavoro. L’indu-
stria automobilistica russa e il suo indotto generano 3,5 milioni di impieghi, quella
dei minerali ferrosi circa 2,4 milioni (sempre indotto incluso), quella del carbone
100 mila nella sola oblast’ di Kemerovo (cuore del settore), gli altri comparti sopra
elencati centinaia di migliaia (200 mila la sola produzione di veicoli per il trasporto
merci). A dicembre la disoccupazione uffciale russa era al 3,9%, ma a fne giugno
(ultimi dati disponibili) circa il 13% degli impiegati nelle piccole e medie imprese
– oltre 4 milioni di persone – era soggetto a part time, riduzioni di orario o aspet-
tativa non retribuita (quest’ultima riguardava quasi 3 milioni di individui) 25: tre
forme di occultamento della disoccupazione. Il settore più colpito era quello ma-
nifatturiero, che da solo assorbiva un quarto della disoccupazione occulta.
Obiezione: la leva obbligatoria su vasta scala aumenta perversamente l’occupa-
zione, perché porta in fabbrica e nei campi nuove braccia in sostituzione di quelle
al fronte. Contro-obiezione: sì, ma solo se alle braccia in questione si richiede scarso
coordinamento con il cervello. Nel XXI secolo industria e servizi avanzati richiedono
fgure altamente specializzate, non facili da formare e sostituire in corsa. Specie se,
come nel caso russo, molte di queste fgure sono espatriate per sfuggire alla leva (la
minaccia di privarli della cittadinanza non suona invito a rientrare) o sono state re-
clutate. Perché proprio loro? Perché l’esercito russo, disabituato alla mobilitazione di
massa e dunque privo delle relative strutture, si è appoggiato alle grandi aziende, i
cui uffci del personale hanno funto da centri di reclutamento. L’effetto è certifcato
dal ministero dell’Economia russo, secondo cui la mobilitazione ha fatto diminuire
la forza lavoro nazionale di 600 mila unità 26, tra coscritti e fuggiti.
Restando ai cervelli, in molti comparti quelli elettronici sono ormai non meno
importanti di quelli umani. Molti beni prodotti dall’industria russa, dalle auto agli
elettrodomestici passando per le armi, incorporano elettronica d’importazione. Si
tratta quasi sempre di processori non di punta, che tuttavia la Russia è quasi del
24. V. MILOV, op. cit.
25. L. GOSS, «Four million Russians to lose their jobs due to Western sanctions», City A.M., 11/8/2022;
K. SOKOLOVA, «As Western companies disappear from Russia, so do jobs», DW, 5/5/2022; «Russian wor-
kers face new reality as Ukraine war sanctions sap job prospects», Reuters, 14/4/2022; V. MILOV, op.
cit.; «Four worrying signs for the Russian economy», The Bell, 20/12/2022.
26. «The “partial mobilisation” of Russian SMEs», Riddle, 11/10/2022. 167
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

tutto incapace di produrre da sé. Quel poco di produzione nazionale è stata vero-
similmente compromessa 27 visto che componentistica, materie prime (di cui la
Russia dispone, ma che vanno raffnate) e macchinari sono di provenienza statuni-
tense, europea e asiatica.
Mosca non ha risparmiato gli sforzi per tenere in piedi canali d’importazione
parallela della microelettronica. Tra marzo e ottobre il paese ha importato compu-
ter e relativa componentistica per 2,6 miliardi di dollari, quasi 800 milioni dei
quali di produttori occidentali 28: soprattutto le americane Intel, Amd (Advanced
Micro Devices), Texas Instruments e Analog, oltre alla tedesca Infneon, i cui com-
ponenti sono sistematicamente rinvenuti nei resti delle armi più sofsticate usate
dai russi in Ucraina. A garantire questo fusso è una galassia di importatori oscuri
operante da Cina (Hong Kong), Turchia e altri paesi non sanzionanti. Ma in alcuni
casi anche dalla Ue, come appurato in relazione a un intermediario che agiva da
Tallinn (Estonia).
Eppure, malgrado gli sforzi la Russia accusa scarsità di schede video, memorie,
processori e componentistica cruciale per le telecomunicazioni, tanto che nel 2022
il mercato dei computer usati è esploso 29. A risultare penalizzate non sono solo
l’industria bellica, quella dell’auto e la miriade di altre fliere civili che incorporano
microelettronica, ma anche le infrastrutture nazionali: dalle reti di telecomunicazio-
ni (la cui manutenzione diviene più diffcile e onerosa) al settore bancario, che
banalmente fatica a manutenere e aggiornare i bancomat. La penuria non riguarda
infatti solo l’hardware, ma anche i software proprietari di norma associati ai sistemi
informatici complessi.

6. Mosca ha smesso di fornire dati dettagliati sul suo commercio internaziona-


le, ma le dogane russe stimano che l’importazione uffciale di beni non rimpiazza-
bili – spesso ad alto contenuto tecnologico – sia scemata di oltre il 10%: abbastan-
za per compromettere interi comparti manifatturieri e dei servizi. Di questo am-
manco, si stima che le importazioni parallele riescano a compensare non più del
10-20% 30. Il resto è coperto con surrogati di minor qualità, soprattutto cinesi, o è
mancante. In un caso e nell’altro, qualità e quantità della produzione – in una pa-
rola: la produttività – ne risentono.
L’import parallelo, peraltro, non è pienamente assimilabile a quello uffciale.
Procurarsi prodotti «di marca» per vie traverse è complesso, aleatorio e normalmen-
te più costoso, il che alimenta l’infazione. Questa nel 2022 si è attestata uffcial-
mente appena sotto un non trascurabile 12% 31, ma di norma Rosstat tende a sotto-
27. S. BRYEN, «Russia’s long-time chips failure coming home to roost», Asia Times, 25/8/2022.
28. S. STECKLOW, D. GAUTHIER-VILLARS, M. TAMMAN, «The supply chain that keeps tech fowing to Russia»,
Reuters, 13/12/2022.
29. I. KOSHELEVA, «The secondary market of electronics is waiting for a boom in Russia», Andro News,
11/4/2022; A. NARDELLI, B. BASCHUK. M. CHAMPION, «Putin Stirs Worry That Russia Is Stripping Home-Ap-
pliance Imports for Arms», Time, 29/10/2022; «Prices and demand for used electronics have risen in
Russia», GizChina, 18/3/2022.
30. V. MILOV, op. cit.
168 31. «Russian infation at 0.24% in frst nine days of 2023», Reuters, 11/1/2022.
LA GUERRA CONTINUA

stimare gli aumenti dei prodotti di base e a sottorappresentare il cibo nel suo pa-
niere statistico, pertanto è probabile che il dato reale sia ben maggiore. Riprova ne
è che malgrado il miracoloso deprezzamento del dollaro sul rublo alla Borsa di
Mosca, i prezzi al consumo – anche dei beni importati – non sono calati in misura
proporzionale. Segno che il valore reale della divisa russa è sostanzialmente mino-
re. Dove invece il rublo artifcialmente forte fa la differenza, in negativo, è nel
commercio estero: nel 2022 le esportazioni di prodotti non energetici sono calate
di circa il 17% in volume 32, sebbene i principali acquirenti – Cina, Bielorussia, Ka-
zakistan, Turchia – non applichino sanzioni.
Resta la domanda delle domande: quanti soldi ha il governo russo? Risposta:
pochi per compensare il deterioramento strutturale della sua posizione economi-
co-fnanziaria; abbastanza per continuare la guerra in una logica (lucidamente
folle) del tutto per tutto. La spia è l’ammontare del Fondo sovrano russo, i cui da-
nari – frutto pressoché esclusivo dei proventi di gas e petrolio accumulati in passa-
to – sono conservati sui conti del ministero delle Finanze presso la Banca centrale.
A inizio ottobre 2022 il fondo totalizzava quasi 11 mila miliardi di rubli, pari a 166
miliardi di dollari al cambio reale, che è di circa 15 centesimi di dollaro per rublo 33.
Di questi, tuttavia, «solo» 113 miliardi (di dollari) sono effettiva liquidità, il resto
essendo investito in azioni, obbligazioni e altri asset fnanziari di grandi aziende
russe, diffcilmente disinvestibili senza perdite secche sul valore nominale e senza
aggravare la posizione degli emettitori.
Al ritmo attuale di spesa – per esigenze belliche e per compensare i danni
delle sanzioni – è plausibile che la liquidità del fondo si esaurisca in 18-24 mesi,
ma se il confitto si intensifca (specie con il ritorno della bella stagione) e le con-
dizioni socioeconomiche interne si aggravano, il depauperamento può accelerare.
Al che Mosca può scegliere: disinvestire la porzione azionario-obbligazionaria,
emettere debito, stampare moneta. O un mix delle tre opzioni. In ogni caso, con
notevoli controindicazioni. Rispettivamente: aggravamento della crisi industriale;
drastico aumento del debito (il premio di rischio sui titoli russi sarebbe elevato,
ammesso e non concesso che la Cina, unico paese in grado di acquistarne grandi
quantità, si presti all’esercizio), avvitamento dell’infazione.
Vista dall’Ovest, ce n’è abbastanza per considerare probabile se non imminen-
te il collasso del fronte interno russo: rivolte di piazza e cambio di regime, che visti
i precedenti storici (1917, 1991) implicherebbe forse il collasso dello Stato russo.
Tuttavia, se la Russia è Occidente – i russi stessi si arrovellano sul tema – lo è a
modo suo. In totale assenza di opposizione, di spazi di dissenso per una cittadi-
nanza critica e organizzata, di élite dirigenti estranee al sistema putiniano, e stante
la popolarità di un confitto ritenuto giusto dai più perché venduto e accettato co-
me guerra difensiva contro un «Occidente collettivo» sprezzante e minaccioso, non
stupirebbe se il Cremlino proseguisse imperterrito per la sua strada. Una strada

32. «Russia’s non-energy exports in 10 months down 1.5% in value terms – Manturov», Interfax,
26/12/2022.
33. Quotazione al 15/1/2022 tratta da bloomberg.com 169
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO

che, se percorsa fno in fondo, promette di sacrifcare per decenni l’economia rus-
sa sull’altare della guerra.
A Washington non sono in molti, da un lato all’altro dello spettro politico, a
strapparsi le vesti per questo. Nella misura in cui quella in corso è ormai una con-
clamata guerra tra Nato e Russia, l’America appare proiettata verso un redde ratio-
nem che contempla come fne strategico il ridimensionamento strutturale della
potenza russa. Costi quel che costi. Nell’intervista alla Cnn citata in apertura, un’al-
tra voce dell’amministrazione offriva una visione diversa, più realista e meno naïve,
delle sanzioni: «Volevamo degradare le capacità economiche e industriali russe.
Pertanto, fn dall’inizio abbiamo concepito questo esercizio come uno sforzo a lun-
go termine»34. Parafrasando Keynes, nel lungo periodo tuttavia potremmo essere
tutti morti.

170 34. N. BERTRAND, K.B. LILLIS, op. cit.


LA GUERRA CONTINUA

LA GERMANIA RISCOPRE
LA GUERRA GIUSTA DIETER di Heribert

L’invasione russa ha rotto il tabù del pacifismo tedesco. Media, politica


e pubblico sostengono a spada tratta Kiev, emblema della nobile
causa. La parabola dei Verdi. I dolori di Scholz. Le eccezioni Linke e
AfD. Il monito di Schmidt sui rischi dell’idealismo giace inascoltato.

1. L A GUERRA D’UCRAINA HA PRODOTTO


sconvolgimenti in molti paesi europei. Svezia e Finlandia hanno chiesto di entrare
nella Nato, scelta a lungo ritenuta non idonea agli interessi di sicurezza dei due
paesi. Ma forse il cambiamento più signifcativo lo stiamo osservando in Germania,
la cui politica estera è stata plasmata dal rifuto della violenza e della forza militare
sin dal 1945 e ancor più dal crollo dell’Unione Sovietica. L’invasione russa dell’U-
craina ha provocato una svolta repentina: tutt’a un tratto, i pacifsti del giorno pri-
ma si sono ritrovati a discutere nel dettaglio le caratteristiche di questa o quell’arma
e la relativa utilità agli ucraini. In questi mesi di guerra la Germania è stata pervasa
da un’euforia guglielmina per il militarismo che ricorda il clima del 1914.
Vi sono ovviamente numerose ragioni per condannare l’aggressione russa.
Ma è sbagliato concludere, come fatto dal ministro degli Esteri tedesco Annalena
Baerbock, che il 24 febbraio 2022 «ci siamo svegliati in un mondo diverso» 1. I
confitti armati sono stati a lungo assenti dal teatro europeo, ma agli abitanti del
Medio Oriente, ad esempio, il mondo non è mai parso pacifco. La retorica della
nuova èra serve a giustifcare la rimilitarizzazione della politica estera tedesca. Lo
shock del 24 febbraio si deve in gran parte alla ferma convinzione di molti tedeschi
che il mondo fosse diventato post-nazionale e cosmopolita. L’approccio normativo
era pericolosamente visto come specchio fedele delle relazioni internazionali, non
come il mero assunto programmatico che in realtà era.
Da un giorno all’altro, il dibattito pubblico tedesco è stato monopolizzato dai
fautori delle soluzioni militari. Ironicamente, le posizioni si sono invertite. Molti
verdi, che non hanno mai indossato una divisa, hanno iniziato a sostenere con en-
tusiasmo l’invio di armi all’Ucraina, mentre gli ex generali consigliano un approccio

1. J. SÜSSMANN, «Wir alle sind heute Morgen fassungslos, aber wir sind nicht hilfos», Die Zeit, 24/2/2022. 171
LA GERMANIA RISCOPRE LA GUERRA GIUSTA

più cauto e sottolineano i rischi dell’escalation. Erich Vad, a lungo consigliere mili-
tare di Angela Merkel, è rapidamente assurto a campione di un approccio pruden-
te. Nel gennaio 2023 ha ammonito: i carri armati consentono a Kiev di attaccare la
Russia, che resta la maggiore potenza nucleare del pianeta 2.
Ma cos’è ad aver causato questo rapido mutamento del clima politico e me-
diatico tedesco? La società tedesca è cambiata radicalmente nell’ultimo secolo? L’at-
tuale politica estera di Berlino rifette una lettura romantica, irrealistica del mondo
che enfatizza gli obiettivi morali al punto da trascurare tutti gli altri? Molti tedeschi
considerano inopportuno, se non inaccettabile, fnanche sollevare il quesito. Per
molti la Germania di oggi è affatto diversa da quella del passato: società multi-
culturale dove i diritti di qualsiasi minoranza – per quanto piccola – sono tutelati,
paese che sostiene con passione l’integrazione europea e magnifca i benefci del
post-nazionalismo. Eppure, questo stesso paese non si fa scrupolo di distinguere i
richiedenti asilo in base all’origine etnica, mentre sul fronte della politica energetica
non ritiene utile consultare i partner europei, fguriamoci altri. Nella società tedesca
tali questioni non sono granché discusse.

2. Fin dall’inizio della guerra in Germania c’è stato notevole sostegno ai rifugiati
ucraini, che sono stati trattati in modo diverso dagli altri: hanno il medesimo accesso
dei tedeschi allo Stato sociale, possono lavorare o benefciare di generosi sussidi. I
richiedenti asilo di altri paesi, come la Siria, hanno molti meno diritti. Diffcile trovare
una formula che renda presentabile questa politica: semplicemente, ucraini e siriani
sono di etnie diverse e i primi sono trattati meglio dei secondi, che vengono discri-
minati perché non appartengono a un paese europeo. La società tedesca preferisce
gli ucraini agli arabi: molti tedeschi rigetterebbero con decisione tale assunto, ma dal
febbraio 2022 è il proflo etnico a guidare la politica tedesca dell’accoglienza.
Ciò è importante in quanto altrove i politici tedeschi insistono che non debba-
no sussistere discriminazioni di sorta. L’eccezionale sostegno agli ucraini ha diverse
ragioni. Molti tedeschi li ritengono ovviamente le vittime innocenti dell’aggressione
di Mosca, altri nutrono una profonda antipatia per i russi e il loro presidente, ma
l’elemento etnico ha un suo non indifferente peso.
La Germania ha poi accantonato il suo multilateralismo al momento di perse-
guire politiche economiche senza particolare riguardo per le conseguenze su altri
paesi. In particolare, il ministro dell’Economia Robert Habeck (Verdi) non ha preso
in minima considerazione le ricadute delle sue politiche sui paesi europei e non.
Nell’estate 2022 la Germania ha messo le mani su tutto il gas naturale liquefatto
(gnl) che poteva e Stati estremamente poveri come il Bangladesh – che non ha
nulla a che spartire con questa guerra e che dipende dal gnl per la propria gene-
razione elettrica – si sono dovuti arrendere al superiore potere di spesa tedesco.
Dacca ha dovuto fronteggiare un’acuta crisi energetica che ha obbligato la sua
forente industria tessile a un blocco temporaneo. Tanti saluti al sacrosanto dovere,
172 2. E. VAD, «Was sind die Kriegsziele?», Emma, 12/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

più volte ribadito da Berlino in passato, di considerare gli effetti delle politiche
nazionali sui paesi terzi, specie se vulnerabili.
Il dibattito tedesco sull’Ucraina non esclude posizioni contrarie all’uso mas-
siccio della forza militare, ma queste trovano poco spazio sui media principali
(stampa, tv, internet) dove predomina il militarismo. Vad, il generale che propugna
la de-escalation, sostiene che i media non stiano facendo un buon lavoro perché
esibiscono un’eccessiva uniformità di opinioni. Il governo non dice certo ai giorna-
listi cosa pubblicare o dire, ma il livello di autocensura è elevato 3: molti giornalisti
hanno scelto di schierarsi e le voci fuori dal coro sono rare.
Situazione simile si riscontra nel mondo universitario, dove si assiste a strani
paragoni come la frequente analogia tra l’invasione dell’Ucraina a opera di Putin e
l’attacco alla Russia voluto da Hitler. Alcuni, come l’ex leader dei Verdi Ralf Fücks,
bollano quella ucraina come «guerra di annientamento» 4. Il richiamo al nazismo
serve a schierare l’opinione pubblica con l’Ucraina, facendo leva sulla responsabi-
lità storica dei tedeschi e sul loro conseguente dovere di evitare un altro confitto
prolungato in Europa. Ma è un paragone sensato?
Secondo lo storico Ulrich Herbert, assolutamente no. Nella seconda guerra
mondiale le forze naziste uccisero milioni di ebrei e slavi in Europa orientale; in
Ucraina vi sono state fnora migliaia di vittime, ma la situazione è diversa. Herbert
afferma senza mezzi termini che il paragone serve a far sentire i tedeschi moral-
mente responsabili per le sorti dell’Ucraina. I fautori dell’analogia storica affermano
inoltre che, rifutando di impegnarsi a fondo, i politici tedeschi rischiano di causare
la caduta di Kiev e di mettere a repentaglio l’intera Europa. Di nuovo Herbert ri-
futa la tesi, vedendovi una grossolana esagerazione delle capacità politico-militari
della Germania 5. Il sociologo Hartmut Rosa ha criticato gli appelli «da salotto»
all’escalation, denunciando la sorprendente assenza nel dibattito tedesco delle vit-
time di questo confitto. Ha anche evidenziato che le ultime guerre combattute in
nome della giustizia e di un mondo migliore (Afghanistan, Iraq, Libia) sono state
dei completi fallimenti 6.
Studiosi e militari hanno criticato la mancanza di una strategia tedesca, evi-
denziando che crescenti forniture di armi in assenza di obiettivi defniti sono puro
militarismo 7. Per lo studioso Wolfgang Merkel, quanti in Germania sostengono che
i negoziati debbano iniziare solo quando tutti i territori occupati dalla Russia siano
stati riconquistati da Kiev dovrebbero specifcare quante vite sacrifcare allo sco-
po 8. Si discute molto poco del fatto che la Germania attaccò la Russia zarista nella
prima guerra mondiale e l’Urss nella seconda e che pertanto dovrebbe ponderare
bene ciò che fa oggi contro Mosca.

3. Ibidem.
4. R. FÜCKS, «Krieg in der Ukraine: Das Ungeheuerliche nicht hinnehmen», Ukraineverstehen, 5/1/2023.
5. S. REINECKE, «Mit Hitler hat das nichts zu tun», Die Tageszeitung, 1/7/2022.
6. H. ROSA, «Ukrainekrieg: Haltet ein!», Der Spiegel, 23/7/2022.
7. E. VAD, op. cit.
8. W. MERKEL, «Ohne Bemühungen um eine Verhandlungslösung wird der Ukrainekrieg weiter eska-
lie-ren», Der Tagesspiegel, 6/7/2022. 173
LA GERMANIA RISCOPRE LA GUERRA GIUSTA

3. Il panorama politico tedesco è cambiato molto dallo scoppio della guerra.


Una maggioranza al parlamento federale vede con favore un più ampio coinvol-
gimento del paese nel confitto: la coalizione di governo formata da socialdemo-
cratici (SPD), Verdi e Liberal-democratici va incrementando il ruolo di Berlino in
questa guerra. L’eccezione è costituita dal cancelliere Olaf Scholz, che insieme ad
alcuni esponenti della SPD è riluttante ad accrescere il già considerevole impegno
tedesco. La Germania, infatti, fornisce da tempo armi e aiuti fnanziari, oltre a
ospitare numerosi rifugiati ucraini. L’approvazione, nel gennaio 2023, dell’invio di
carri armati Leopard II è un ulteriore, notevole salto: si tratta come noto di veicoli
pesanti equipaggiati con armi di grosso calibro a notevole gittata. Poco dopo il via
libera della coalizione alla fornitura, l’esponente dei Verdi Katrin Göring-Eckart ha
twittato #Leopard’s freed (il leopardo è libero), aggiungendo gaia: «Ora speriamo
di poter aiutare rapidamente l’Ucraina nella sua lotta contro l’attacco russo, per la
libertà sua e dell’Europa» 9.
Il Partito democratico-cristiano (CDU), principale forza d’opposizione, sostiene
appieno il crescente ruolo della Germania e ha più volte chiesto che il paese faccia
di più. In parlamento siedono invece due partiti contrari a sostenere maggiormente
Kiev: la Sinistra (Linke) e Alternativa per la Germania (AfD). Sahra Wagenknecht,
esponente del primo, è tra le voci più critiche e ha come bersaglio prediletto i Ver-
di. Nell’ottobre 2022 li ha defniti «il partito più pericoloso al parlamento tedesco»
in quanto ipocriti, avulsi dalla realtà, disonesti e incompetenti 10. Parole dure, ma è
pur vero che i Verdi hanno abbandonato un estremo per abbracciarne un altro: da
acritici oppositori di qualsiasi impegno militare della Germania a campioni della
spesa militare e del ricorso allo strumento bellico, in barba a qualsiasi considera-
zione democratica e agli orientamenti dell’opinione pubblica. Nel settembre 2022
il ministro degli Esteri Baerbock ha affermato che il governo tedesco continuerà a
sostenere l’Ucraina «a prescindere da ciò che dicano i miei elettori» 11. Non stupisce:
Baerbock è l’incarnazione di un cosmopolitismo astratto che prescinde in parte o
in tutto dagli orientamenti delle singole società.
Il contrasto tra i Verdi delle origini e quelli attuali è sorprendente. Sorti come
forza «ecologista, sociale, non violenta ed espressione della democrazia diretta»,
ebbero il primo ripensamento nel 1999 quando l’allora ministro degli Esteri Joseph
Fischer sostenne la partecipazione della Germania alla missione Nato in Kosovo.
Il 13 maggio di quell’anno, un infuocato congresso di partito ratifcò (con 444
voti favorevoli contro 318) la decisione. Oggi polemiche e crisi di coscienza sono
acqua passata: secondo un recente sondaggio, quattro elettori dei Verdi su cinque
sostengono la consegna all’Ucraina dei carri armati di fabbricazione tedesca. Le
percentuali relative agli elettorati di SPD, Liberal-democratici e CDU sono minori,
9. Tweet del 24/1/2023.
10. «Wagenknecht nennt Grüne “gefährlichste Partei” – Scharfe Kritik von Parteikollegen», Die Welt,
22/10/2022.
11. «Baerbock nach Ukraine-Versprechen heftig in der Kritik – Ministerium sieht Video “sinnentstel-
174 lend geschnitten”», Merkur, 3/9/2022.
LA GUERRA CONTINUA

ma comunque superiori al 60%. L’unica eccezione è AfD, dove i favorevoli alle for-
niture di armi pesanti a Kiev non superano il 20% 12. Nel bacino elettorale dei Verdi
c’è persino una maggioranza relativa (46%) favorevole all’utilizzo di tanks tedeschi
per riconquistare la Crimea (soluzione rigettata dal 40%).
Perché degli ex pacifsti sono così inclini a (far) combattere (gli altri)? Una
possibile spiegazione sta nell’entusiasmo con cui storicamente i Verdi perseguono
i loro obiettivi politici: si tratti di immigrazione, lotta al cambiamento climatico o
tutela delle minoranze, le posizioni del partito sono sempre state massimaliste.
«Ultima generazione», gruppo radicale che chiede il rapido cambiamento delle
politiche energetiche anche a costo di una signifcativa deindustrializzazione della
Germania, prende ispirazione dai politici verdi e dai loro scenari apocalittici.
Il confitto in Ucraina ha scioccato molta parte della società tedesca. A oltre
trent’anni dalla fne della guerra fredda, i tedeschi credevano sinceramente che il
mondo fosse entrato in una fase di non violenza e cooperazione armoniosa. Se la
si guarda da questa prospettiva, l’aggressione russa è stata un fulmine a ciel sere-
no. Per la maggioranza di non occidentali che popola questo mondo, la realtà è
diversa: in molti paesi africani, asiatici e latinoamericani l’insistenza dell’Occidente
sull’adesione a un «ordine internazionale basato sul diritto» suona ingenua o falsa,
comunque autoreferenziale. Nella loro ottica l’aggressione da parte dell’Occidente
è la norma, non l’eccezione. In India, ad esempio, il governo di Delhi continua a
diffdare degli appelli ad applicare norme e standard occidentali. Questa incom-
prensione tra i paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico) e molte economie in via di sviluppo è in parte alimentata proprio dal
tipo di politiche che i governanti tedeschi amano promuovere.

4. Baerbock e i Verdi seguono ciò che defniscono un approccio alla politica


estera basato sui valori. Rispetto all’approccio basato sugli interessi, quello valoria-
le mira a migliorare la condizione degli altri popoli in base a due capisaldi: esiste
un insieme di valori che è – o dovrebbe essere – condiviso dall’intera umanità; la
politica estera e quella economica sono strumenti utili alla diffusione dei suddetti
valori. Il fne ultimo è la creazione di una società globale con valori uguali e con-
divisi, la cui pace è salvaguardata da un elaborato sistema legale 13. I sostenitori di
tale approccio si sentono investiti di una missione, una crociata volta ad avverarne
la visione. I margini di dissenso sono esigui: dal momento che i valori sono univer-
sali, il loro rigetto – anche parziale – è intollerabile.
Per i realisti il quadro è diverso. Essi non enfatizzano la posizione normativa,
bensì l’incessante lotta per il potere e l’infuenza a livello internazionale. In tale
ottica c’è poco spazio per il messianismo: Henry Kissinger, teorico e pratico della
scuola realista, ha sempre criticato le battaglie ideologiche dell’Occidente contro
12. «Die Stimmung kippt: Mehrheit für Genehmigung von Panzerlieferungen – besonders in einer
Partei», Der Stern, 20/1/2023.
13. R. CZADA, «Realismus im Aufwind? Außen- und Sicherheitspolitik in der “Zeitenwende”», Leviathan,
vol. 50, n. 2, pp. 216-238. 175
LA GERMANIA RISCOPRE LA GUERRA GIUSTA

la Russia e ha sostenuto che per Mosca l’Ucraina non sarà mai un paese come gli
altri 14. Il realismo distingue tra l’esportazione della democrazia liberale e la sua
difesa in patria: giudica dannosa la prima e necessaria la seconda 15.
In Germania i realisti si contano ormai sulle dita di una mano. La politica estera
è guidata da considerazioni normative: il mondo non è valutato con sobrietà per
ciò che è, ma enfaticamente per come dovrebbe essere. Nella guerra in corso la
posizione di Baerbock è normativa, pertanto gli appelli a una pace negoziata sono
regolarmente ignorati. La diplomazia non ha grande corso nell’odierna politica
estera tedesca. Il giurista Reinhard Merkel ha suscitato polemiche quando a fne
dicembre 2022 ha criticato il rifuto dei negoziati, affermando che se anche l’Ucrai-
na vincesse la guerra (non impossibile, visto l’ingente aiuto occidentale), l’enorme
distruzione infittale ne renderebbe vana la vittoria 16. Nessun politico tedesco di
spicco, tuttavia, condivide tale posizione. Il presidente Frank-Walter Steinmeier
e i ministri, compreso il nuovo titolare della Difesa Boris Pistorius, preferiscono
ispezionare i campi di battaglia ucraini e non avanzano alcuna proposta di pace.
A lungo i tedeschi hanno rifutato il coinvolgimento della Germania in un con-
fitto militare, ma l’invasione russa dell’Ucraina ha rotto questo tabù. Oggi la Ger-
mania sta tornando a posizioni militaristiche, forgiando nuovamente i suoi vomeri
in spade 17. Fatte salve l’estrema sinistra e l’estrema destra, l’intero spettro politico
– inclusa tutta la coalizione di governo e il maggior partito d’opposizione – sta
contribuendo alla guerra con armi, denaro e sostegno morale. Il paese ha inoltre
abbandonato l’approccio post-nazionale in favore di una postura «Germany frst»,
come evidenzia la politica energetica.
Queste circostanze spingono a chiedersi quanto drastica e strutturale, in pro-
spettiva, sia la svolta tedesca. Si dice che l’ex cancelliere Helmut Schmidt abbia sem-
pre considerato al Germania una «nazione a rischio» 18. Il pericolo cui Schmidt allu-
deva è la tendenza del paese a concepire la politica in una dimensione prettamente
morale. Ma l’assenza dell’elemento realista, inclusa un’analisi dei rischi connessi al
coinvolgimento in cause apparentemente giustifcate, è rischioso. Troppo spesso
Berlino ha combattuto «guerre giuste». Un’importante lezione della storia è che anche
le guerre più giustifcate portano spesso benefci molto inferiori ai costi.

(traduzione di Fabrizio Maronta)

14. H. KISSINGER, «The right outcome for Ukraine», The Washington Post, 6/3/2014.
15. R. CZADA, op. cit.
16. R. MERKEL, «Verhandeln heißt nicht kapitulieren», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 28/12/2022.
17. «A risk-averse Germany enters an age of confrontation», The Economist, 19/3/2022.
176 18. E. VAD, op. cit.
LA GUERRA CONTINUA

LA PARALISI STRATEGICA
DEL REGNO UNITO ARDISSINO
di Elettra

La guerra d’Ucraina palesa l’irrealtà di uno storico obiettivo


di Londra: essere il tutore dell’America. Il caotico dopo-Brexit
consuma la classe dirigente, costretta a schiacciarsi sugli Usa
e a cercare una tregua con l’Ue. L’asse con la Polonia è monco.

L A GUERRA IN UCRAINA È SCOPPIATA


nel bel mezzo di una profonda crisi di identità britannica. Dal 2016, Londra ha
tentato ripetutamente di riorientare la propria politica estera e di darsi un nuovo
ruolo globale nel dopo-Brexit. Ma, consumata da varie crisi interne, non ci è mai
riuscita. Ora, a quasi un anno dall’inizio del confitto, il Regno Unito ha innestato
una sorta di «pilota automatico strategico». L’apparato statale è guidato a grandi
linee dagli interessi statunitensi: supporto fnanziario e militare all’Ucraina e diff-
denza crescente verso la Cina. Così, Londra si sta trovando incapace di defnire (e
quindi di perseguire) interessi propri in Europa. E anche nei confronti di Pechino
la posizione britannica rimane incerta. Di conseguenza, il paese sta perdendo ra-
pidamente il suo storico posto tra i protagonisti della geopolitica mondiale, ritiran-
dosi sempre più nel ruolo di comparsa, rischiando alla lunga l’irrilevanza.
È vero che i britannici sono tuttora i principali soci di minoranza dell’impero
americano, alleati di fducia degli Stati Uniti. È anche vero che il Regno Unito non è
stato l’unico paese europeo ad aver dovuto circoscrivere i propri margini di manovra
per allinearsi alle direttive di Washington dopo lo scoppio della guerra – si pensi
alla Germania. Tuttavia, lo smarrimento strategico in cui si trova Londra è per certi
versi più profondo. Facciamo tre constatazioni. Primo, quest’anno i britannici paiono
più lontani che mai dal ruolo che sognano da decenni, ossia quello di tutori degli
americani. Secondo, i tre primi ministri succedutisi a Downing Street nel 2022 hanno
tre concezioni del ruolo del paese nel mondo molto diverse tra loro. Terzo, il Regno
Unito non è stato in grado di sviluppare un progetto di cooperazione con la Polonia,
malgrado gli interessi di entrambi – soprattutto per quanto riguarda Russia, Europa
e Germania – sembrino combaciare quasi perfettamente.
La paralisi strategica britannica non si risolverà nel 2023. La classe dirigente è
consumata da una miriade di crisi domestiche, tra economia in tracollo e separa- 177
LA PARALISI STRATEGICA DEL REGNO UNITO

tismi che bollono a fuoco lento in Scozia e in Irlanda del Nord. L’attenzione del
primo ministro Rishi Sunak è volta rigorosamente all’interno. La situazione si pro-
lungherà probabilmente ben oltre le prossime elezioni parlamentari, in program-
ma per il 2024.

Più studente che tutore


Uno degli indizi principali che ci permette di cogliere il senso di smarrimento
strategico britannico è il fatto che, dal 24 febbraio, il Regno Unito è stato incapace
di svolgere il ruolo storico in cui si immagina almeno dalla seconda guerra mon-
diale: quello di consigliere supremo, di tutore della superpotenza americana. Lon-
dra è invece fnita a interpretare il ruolo di studente – o, più banalmente, di segua-
ce – di Washington.
Il Regno Unito non si è certo tirato indietro nel supporto materiale all’Ucraina.
Nelle settimane precedenti la guerra, i suoi servizi di intelligence sono stati gli uni-
ci a spalleggiare quelli americani, che già da fne 2021 avevano previsto che Putin
avrebbe invaso 1. Mentre fno agli ultimissimi giorni prima dell’aggressione i servizi
segreti dei maggiori Stati membri dell’Unione Europea contraddicevano sistemati-
camente gli avvertimenti statunitensi. Poi, tra febbraio e novembre 2022, Londra ha
inviato aiuti umanitari, fnanziari e militari a Kiev per oltre 7 miliardi di dollari, più
di qualsiasi membro dell’Ue 2. Inoltre, le frequenti visite al presidente ucraino Vo-
lodymyr Zelens’kyj da parte dell’ex primo ministro Boris Johnson hanno avuto la
funzione di segnalare agli Stati Uniti l’impegno britannico sul fronte orientale euro-
peo, fra l’altro ben prima rispetto a Francia, Germania e Italia, i cui leader si sono
recati a Kiev soltanto due mesi dopo Johnson.
Infne, il Regno Unito ha inviato militari in Ucraina per addestrare l’esercito
locale, tra cui anche membri delle forze speciali 3. Non solo: gli apparati di intelli-
gence britannici sarebbero stati tra i primi a capire che la volontà della popolazio-
ne ucraina di combattere per il proprio paese era molto superiore a quanto stima-
va Washington appena prima dell’inizio dei combattimenti, e che quindi un pro-
lungamento della guerra era più sostenibile di quanto si aspettassero gli statuniten-
si. Non è soltanto un segnale di superiori capacità rispetto a quelle degli altri paesi
europei. È anche indice di un legame di fducia con gli americani molto più stretto
di quello tra gli stessi americani e il resto del continente europeo.
Tuttavia, al di là del supporto materiale e delle visite a Zelens’kyj, sono man-
cati momenti di chiara leadership britannica. Per esempio, il Regno Unito non è
riuscito a plasmare gli obiettivi degli statunitensi in Ucraina, tuttora diffcilmente

1. G. FALCONBRIDGE, «Britain’s spy chief claims intelligence scoop on Putin’s invasion of Ukraine», Reu-
ters, 25/2/2022.
2. A. ANTEZZA ET AL., «The Ukraine Support Tracker», Kiel Working Papers, n. 2218, Kiel Institute for the
World Economy, giugno 2022.
3. T. ROGAN, «Guided by British special forces, Ukraine is escalating the “deep battlespace” fght
178 against Russia», Washington Examiner, 19/8/2022.
LA GUERRA CONTINUA

discernibili. Non è chiaro se l’amministrazione Biden intenda concludere la fase


attiva della guerra entro la fne del 2023 o se voglia invece costruire la campagna
elettorale delle prossime presidenziali attorno a un messaggio anti-autocratico e
dunque portare avanti il confitto a oltranza. In ogni caso, gli Stati Uniti non hanno
cercato e non stanno cercando i consigli del Regno Unito per defnire il proprio
approccio all’Ucraina.
Inoltre, i britannici hanno compiuto passi falsi tattici anche gravi. Per esempio,
a invasione appena cominciata l’allora ministro degli Esteri Liz Truss ha dichiarato
alla Bbc che avrebbe appoggiato la partenza di cittadini britannici per combattere
in Ucraina come volontari 4, posizione che avrebbe probabilmente portato il paese
molto vicino al rischio di un confitto diretto contro la Russia. Johnson è stato ob-
bligato a rettifcare quelle dichiarazioni, di cui il ministro degli Esteri russo Sergej
Lavrov aveva approfttato per giustifcare il cambio di postura nucleare di Mosca,
annunciato da Putin qualche ora dopo l’intervista di Truss 5.

Primi ministri allo sbaraglio


Il secondo indizio che palesa l’assenza di una bussola geostrategica britannica
è il fatto che i tre primi ministri in carica nel 2022 hanno avuto vedute molto diver-
se sull’orientamento del Regno Unito. Questo indica che né il Partito conservatore,
storico interprete dell’interesse nazionale inglese prima e britannico poi, né gli
apparati non eletti come il ministero della Difesa, il Foreign Offce e l’Mi6 siano
stati in grado di formulare una visione coesa e univoca.
Il fatto che i tories si siano fatti interpreti di tre approcci diversi in un lasso di
tempo così breve non sorprende. Dal 2016, il partito è dilaniato in sottogruppi
nemici, le cui rivalità nascono dal Brexit ma toccano ogni aspetto della politica
estera e non solo. Sotto lo stesso ombrello convivono ultraoltranzisti anti-europeisti
ed ex Remainer; falchi e colombe sulla Cina; fanatici del mercato libero e socialde-
mocratici. Diffcile dunque aspettarsi una linea comune dai dirigenti politici. Se gli
apparati non eletti avessero avuto le idee chiare, però, molto probabilmente sareb-
bero stati capaci di imporsi su una classe politica così allo sbaraglio, dirigendo le
scelte compiute dal partito nel corso del 2022. Così evidentemente non è stato.
Vediamo dunque quali sono state, e come sono differite, le posizioni di John-
son, Truss e Sunak.
Il primo ha cercato di farsi campione naturale della storica fazione del suo
partito che da sempre immagina il Regno Unito tutore e braccio destro degli Stati
Uniti e psicologicamente lontano dall’Europa continentale. Possessore di passapor-
to statunitense fno a qualche anno fa, Johnson è sempre stato profondamente at-
lantista. Per quanto riguarda l’Ue, avendo costruito la sua fortuna politica sul Brexit,
ha voluto posizionare il Regno Unito in stato di tensione permanente nei confron-

4. «Liz Truss backs people from UK who want to fght», Bbc, 27/2/2022.
5. M. O’CONNOR, D. FAULKNER, «Russia blames Liz Truss and others for nuclear alert», Bbc, 28/2/2022. 179
180
INSTALLAZIONI MILITARI BRITANNICHE NEL MONDO 5 British Army Germany
Mar Glaciale Artico GERMANIA
6 GIBILTERRA
7 Raf
Troödos - CIPRO
8 Raf
Akrotiri - CIPRO
9 Raf Jssu
Ayios Nikolaos - CIPRO
Regno
Unito
1 Portsmouth 5
LA PARALISI STRATEGICA DEL REGNO UNITO

1 British Army Training Unit


Sufeld - CANADA 7 8 9
Oceano
2 British Army Training 6
and Support Unit Pacifico
BELIZE 14
Oceano 11
3 Raf 12
ISOLA DI ASCENSIONE Atlantico 13 10 British Army Training Unit
2 KENYA
4 Raf
Mount Pleasant 11 HMS Jufair
ISOLE FALKLAND 17 BAHREIN
10 16 12 Raf
15 Al Udeid - QATAR
Oceano 3
Pacifico 13 Uk Joint Logistics
Oceano Support Base
OMAN
Indiano
Andamento spese militari britanniche 14 British Gurkhas Nepal
NEPAL
Anno fscale Spesa di base
(milioni di £) 15 Struttura di supporto navale
2015/16 34.734 DIEGO GARCIA
2016/17 34.681 16 British Defence Singapore
2017/18 35.804 Support Unit
2018/19 37.331 Mar Mediterraneo SINGAPORE
4
2019/20 39.374 Asse atlantico 7 CIPRO 9 17 British Army Jungle Warfare
2020/21 41.019 8 Training School
2021/22 45.900 Asse indo-pacifco BRUNEI
Fonte: https://www.statista.com/statistics/298490/defense-spending-united-kingdom-uk/
LA GUERRA CONTINUA

ti di Bruxelles. In Ucraina, tentando in parte di raccogliere l’eredità del suo idolo


d’infanzia Winston Churchill, ha perseguito una linea massimalista volta a ottenere
la vittoria totale di Kiev e la restituzione da parte della Russia di tutti i territori oc-
cupati dal 24 febbraio e possibilmente anche da prima. Parte dell’oltranzismo di
Johnson era sicuramente dimostrativo e destinato al pubblico britannico più che
dettato da una vera strategia. Ciononostante, è indubbio il tentativo di giocare la
carta dell’eroe di guerra, dell’interprete della special relationship che trascina la
superpotenza nel grande confitto dalla parte del Bene, in vero stile churchilliano.
Non dimentichiamo però anche importanti punti di rottura tra gli interessi
americani e quelli britannici così come intesi da Johnson, in primis sulla Cina. No-
nostante il chiaro deterioramento dei rapporti tra Washington e Pechino dal 2018
in poi, Johnson è stato fno agli ultimi giorni del suo governo uno dei politici bri-
tannici più morbidi verso la Repubblica Popolare. Laureato in lettere classiche a
Oxford, si dice che nutra profondo rispetto per i grandi imperi del passato, tra cui
quello cinese. Nel 2021 si è autodefnito sinoflo 6. I conservatori non gli hanno
certo permesso di prendere in mano le redini del rapporto con Pechino. In barba
al premier, il Regno Unito è stato uno dei primi paesi europei a escludere l’azienda
di telecomunicazioni cinese Huawei dagli appalti per la rete nazionale 5G 7. Resta
comunque il fatto che Johnson ha mantenuto un margine di idiosincrasia nella sua
concezione dell’orientamento strategico britannico, non piegandosi totalmente alla
visione del mondo a stelle e a strisce come ha fatto invece il suo successore.
Se Johnson voleva essere Churchill, Truss è stata una Thatcher mancata. Nel
suo brevissimo interregnum a Downing Street, l’ex ministro degli Esteri si è prefs-
sata di allineare totalmente Londra a Washington. Per quanto riguarda la Cina, ha
promesso di denominare uffcialmente Pechino una «minaccia» per la prima volta
nella storia del Regno Unito 8. Truss ha reso inoltre evidente il suo flo-atlantismo
oltranzista in ambito economico. Appena diventata premier ha tentato di attuare un
programma di riforme fscali di matrice ultraliberista, che però le si è ritorto contro,
scatenando un forte ribasso della sterlina e degli altri asset britannici sui mercati
internazionali. È stata la pietra tombale del suo governo.
Remainer convertita all’ala dura del Brexit dopo il referendum del 2016, Truss
aveva ottenuto la fducia dei conservatori anti-europeisti e aveva ventilato posizio-
ni estremamente provocatorie nei confronti di Bruxelles. Per esempio, ancora
nelle vesti di ministro degli Esteri del governo Johnson aveva proposto un mecca-
nismo legislativo che avrebbe dato all’esecutivo il potere di revocare alcuni aspet-
ti dell’accordo commerciale tra Ue e Regno Unito sui controlli frontalieri ai beni
destinati all’Irlanda del Nord 9. Se impiegato, questo strumento avrebbe sicuramen-

6. P. WINTOUR, «Boris Johnson declares he is “fervently Sinophile” as UK woos China», The Guardian,
21/2/2021.
7. L. BAKER, J. CHALMERS, «As Britain bans Huawei, U.S. pressure mounts on Europe to follow suit»,
Reuters, 14/7/2020.
8. T. DIVER, D. NICHOLLS, «Liz Truss to declare China a ‘threat’ to the UK», 11/10/2022.
9. L. TRUSS, «Liz Truss: we have a duty to fx the problems of the Northern Ireland protocol», Financial
Times, 26/6/2022. 181
LA PARALISI STRATEGICA DEL REGNO UNITO

te scatenato una protesta violentissima a Bruxelles. È tuttavia improbabile che


Truss fosse effettivamente disposta ad attuarlo. Una mossa del genere avrebbe
infatti indisposto l’amministrazione Biden, da sempre attenta alla questione nordir-
landese. Piuttosto, la sua intenzione era forse quella di aumentare i margini di
manovra in caso di una futura amministrazione statunitense più isolazionista e
meno pronta a occuparsi di affari europei, come per esempio una presieduta da
Trump o da un suo erede. Può darsi che Truss sperasse di poter essere ancora in
carica quando questo momento sarebbe arrivato. Non è andata così.
In ultima analisi, a Truss per essere una Thatcher è mancato, fra le altre cose,
un Reagan, un capo di Stato statunitense allineato alla sua visone politica che la
spalleggiasse. Non è da escludere che l’assenza di un’amministrazione amichevole
a Washington abbia accelerato considerevolmente i tempi della sua caduta.
Sunak, il terzo primo ministro britannico del 2022, è un tecnico paracadutato
a capo del governo per pilotare il paese fuori dalla crisi politica, economica e so-
ciale causata dall’inaffdabilità di Johnson e peggiorata dall’inettitudine di Truss.
Come Mario Monti in Italia nel 2012, Sunak ha dovuto mettere in gioco tutta la sua
credibilità istituzionale per tamponare la crisi di fducia dei mercati nei confronti
dei conti pubblici britannici, che se lasciata correre avrebbe anche potuto portare
a una rottura sistemica all’interno delle istituzioni fnanziarie del Regno Unito. Nel
contempo, ha ereditato un fronte interno in sfacelo.
Dato questo grave contesto – e data anche la stoffa professionale di Sunak, ex
banchiere e investitore nella City, senza alcuna formazione militare o diplomatica
– la questione della direzione geostrategica del Regno Unito ha preso un posto
secondario nell’attuale governo. Certo, il supporto britannico all’Ucraina non è
venuto a mancare. Tuttavia, il taglio che il premier ha voluto dare ai rapporti con
Cina e Ue è decisamente più economicista rispetto a quello dei suoi predecessori.
Ha ammorbidito notevolmente i toni riservati a Pechino, descrivendo per esempio
l’approccio britannico alla Repubblica Popolare come «pragmatismo saldo» (robust
pragmatism) 10. E per quanto riguarda il tanto sofferto vicinato europeo, ha espres-
so chiaro interesse per il progetto di Comunità politica europea lanciato da Emma-
nuel Macron 11 e sta cercando una soluzione durevole alla questione nordirlandese,
intraprendendo la strada del compromesso con Bruxelles con più decisione rispet-
to ai suoi predecessori.
D’altra parte, un orientamento prevalentemente economicista ha senso per
un paese come il Regno Unito, che si trova sull’orlo di una recessione probabil-
mente molto più lunga e diffcile rispetto a quella che affronteranno i paesi dell’Ue
o gli Stati Uniti. Sunak dovrà prima di tutto ristabilire l’ordine sul fronte interno,
poi gradualmente ricostruire le risorse economiche necessarie per ricreare con-
senso pubblico e coesione sociale. E solo successivamente muoversi verso una

10. S. BLEWETT, «Sunak pledges “robust pragmatism” not “grand rhetoric” with foreign policy», The In-
dependent, 27/11/2022.
182 11. R. SUNAK, «PM speech to the Lord Mayor’s Banquet», discorso del 28/11/2022.
LA GUERRA CONTINUA

ridefnizione delle priorità britanniche nel mondo che vadano oltre le relazioni
commerciali.
In questo contesto, risulta diffcile immaginarsi che i due anni che rimangono
a Sunak prima delle elezioni basteranno agli apparati non eletti e ai conservatori
per ridefnire una strategia nazionale che resti nei parametri dell’Alleanza Atlantica
ma che stabilisca e persegua anche interessi nazionali non strettamente economici.
D’altra parte il Labour, primo partito d’opposizione e probabile vincitore delle
prossime elezioni, non è mai stato particolarmente ferrato in ambito strategico.
Dalla fne della seconda guerra mondiale, forse l’unica decisione di vero peso ge-
opolitico presa da un governo «rosso» è stata la partecipazione britannica alla guer-
ra americana in Iraq sancita da Tony Blair.
Ci possiamo quindi aspettare abbastanza poco da un governo capitanato da
Keir Starmer, l’attuale leader laburista. Secondo Starmer, il partito ha un’anima mol-
to più europeista rispetto ai conservatori e sarà pertanto ben posizionato per tro-
vare alleati nell’amministrazione pubblica, anch’essa tendenzialmente Remainer.
Tuttavia, la classe dirigente laburista ha poco spessore strategico ed è improbabile
che prenderà decisioni signifcative o di rottura in questo ambito. Ci vorrà dunque
molto tempo, probabilmente almeno una legislatura completa, prima che i tories
possano tornare al governo pronti a reinterpretare l’identità britannica nel mondo
e ridefnire l’orientamento strategico del Regno Unito in tutti i suoi aspetti.

L’asse polacco-britannico
Un altro ambito in cui si è osserva una preoccupante assenza di iniziativa riguar-
da i rapporti con la Polonia. I tentativi dei governi Johnson e Truss di formalizzare
un asse strategico tra Varsavia e Londra, costruito non solo sull’oltranzismo antirusso
ma anche sull’anti-europeismo, sono stati abbandonati da Sunak, che sta cercando
di ristabilire un rapporto costruttivo con l’Ue fondato sugli scambi commerciali.
Regno Unito e Polonia sono entrambi oltranzisti nei confronti della Russia in
Ucraina, anche se la matrice di questa posizione è leggermente diversa. Mentre
Varsavia è nemica atavica di Mosca, Londra cerca di fortifcare la sua posizione
come alleato principale degli Stati Uniti. In altre parole, dal punto di vista polacco
la Russia andrebbe resa permanentemente incapace di vessare i suoi vicini, mentre
il Regno Unito non ha una chiara idea di chi sia il principale nemico, suo o dell’or-
dine internazionale che difende. Una falla importante, conseguenza naturale
dell’assenza di una bussola strategica. In ogni caso, i due governi si sono palese-
mente dati corda a vicenda per quanto riguarda il raggiungimento di obiettivi
massimalisti in Ucraina. Per esempio, ai primi di gennaio 2023 hanno fatto circo-
lare la notizia di essere pronti a fornire carri armati a Kiev 12. Un assenso implicito
di Washington è necessario, come dimostra il fatto che nel marzo 2022 la Polonia
12. S. PFEIFER, B. HALL, J.P. RATHBONE, H. FOY, «UK weighs supplying Ukraine with Challenger tanks»,
Financial Times, 9/1/2023. 183
LA PARALISI STRATEGICA DEL REGNO UNITO

ha dovuto accantonare l’idea di trasferire MiG all’Ucraina di fronte alla ferma op-
posizione americana. In ogni modo, l’oltranzismo romantico-ideologico di John-
son e Truss – che evidentemente ha sostenitori negli apparati anche dopo la loro
dipartita – ben si è sposato con l’oltranzismo strategico dei polacchi.
Ad accomunare Londra a Varsavia non è solo il massimalismo verso Mosca. A
guidarle sono governi di destra anti-europeista, che hanno reso il confronto con
Bruxelles un cavallo di battaglia elettorale. Dunque, il senso di un asse polacco-bri-
tannico dal punto di vista di Londra sarebbe anche stato quello di disporre un ca-
vallo di Troia all’interno del Consiglio europeo che avrebbe potuto fungere da al-
leato in futuri scontri con l’Ue su questioni relative al Brexit, in primis quella sui
controlli frontalieri nordirlandesi.
E qui nascono i problemi. Perché dopo il passaggio di testimone da Truss a
Sunak le priorità a Downing Street sono cambiate in senso più economicistico,
privilegiando i rapporti commerciali. Il nuovo primo ministro non vuole irritare più
di tanto Bruxelles e la Germania. Ma anche le condizioni esterne sono cambiate. Il
passaggio al Congresso statunitense dell’Infation Reduction Act, un’enorme misura
fscale che garantisce sussidi al settore delle energie rinnovabili, ha riaperto la pos-
sibilità che Ue e Stati Uniti si ritrovino a lungo termine con politiche industriali
concorrenti 13. Il Regno Unito rischierebbe di essere tagliato fuori dall’uno e dall’al-
tro mercato. Meglio quindi non dare troppo fastidio ai burocrati della Commissione
europea. In quest’ottica, un’intesa Londra-Varsavia basata anche sul confronto con
Bruxelles non è l’idea migliore. D’altra parte anche i polacchi si augurano che pri-
ma o poi il Regno Unito ritorni nell’Ue, dato che la Francia non sta riuscendo a
controbilanciare la Germania come lo facevano i britannici. Le manovre per trova-
re un’intesa probabilmente continueranno, anche grazie agli obiettivi comuni in
Ucraina, ma al rallentatore. Durante il governo Sunak probabilmente non vedrà
ancora la luce un vero e proprio asse.

Le crisi interne
La ragione principale per cui sia il Partito conservatore sia gli apparati non
eletti si trovano impossibilitati ad accordarsi su una nuova e coesa direzione è il
fatto che, a partire dal 2016, le crisi interne hanno consumato praticamente tutta
l’attenzione della classe dirigente: prima il Brexit, poi l’emergenza Covid, ora il
caro energia aggravato dalla guerra in Ucraina. Nei prossimi 12-24 mesi è molto
probabile che questa situazione non cambierà granché.
La prima crisi interna è quella economica. Secondo le ultime previsioni della
Bank of England 14, il pil calerà nel 2023 e avrà solo una lievissima ripresa nel 2024.
Il programma fscale del governo Sunak prevede importanti aumenti di tasse e tagli
alla spesa pubblica, con effetti profondamente negativi su occupazione e consumi
13. «Why EU leaders are upset over Biden’s Infation Reduction Act», France 24, 16/12/2022.
184 14. C. GILES, «BoE outlines two bleak scenarios for taming infation», Financial Times, 3/11/2022.
LA GUERRA CONTINUA

delle famiglie britanniche. E dunque verosimilmente sui tassi di gradimento eletto-


rale dei tories. In altre parole, il tentativo di Sunak di calmare i mercati dopo la
crisi di ottobre si ripercuoterà sulle probabilità che i conservatori restino al governo
dopo il voto del 2024.
La seconda crisi è quella del consenso sociale. La valanga di scioperi che ha
travolto vari settori pubblici (persino gli operatori delle ambulanze) a partire da
dicembre, e che continua tuttora, ha paralleli storici inquietanti. Nell’inverno 1978-
79 un’ondata di scioperi provocò ad esempio il crollo del governo laburista in ca-
rica. Finora, i disordini sono rimasti a livelli piuttosto inferiori a quelli registrati oltre
cinquant’anni fa. Tuttavia, segnalano che il malessere dei lavoratori britannici ha
toccato picchi ancora non raggiunti in Europa continentale.
La terza crisi è quella dei separatismi in Irlanda del Nord e Scozia, anche se
delle tre sembra in questo momento essere la meno urgente. Il Partito nazionale
scozzese rivendica il diritto di organizzare un secondo referendum per l’indipen-
denza dal Regno Unito, negato dal parlamento di Westminster, che detiene il po-
tere legale in questo ambito. In realtà, però, la battaglia tra secessionisti e conser-
vatori è un gioco di ombre. La stessa Nicola Sturgeon, leader dei nazionalisti
scozzesi, sa che non sarebbe nel suo interesse organizzare un referendum almeno
per i prossimi tre-quattro anni. Secondo gli ultimi sondaggi, il voto a favore dell’in-
dipendenza è in vantaggio con un margine abbastanza esiguo, tra gli 0 e i 5 punti
percentuali 15. Troppo poco per garantire la vittoria. Se gli indipendentisti perdes-
sero una seconda volta sarebbe inconcepibile chiedere un terzo quesito almeno
per qualche decennio. Molto meglio per Sturgeon non insistere troppo.
La questione del separatismo serpeggia pure in Irlanda del Nord, ma anche
questo problema verrà a maturazione nel lungo periodo. Nel 2022, l’agenzia stati-
stica locale ha confermato che la popolazione cattolica (tendenzialmente separati-
sta, nel senso che punterebbe all’unifcazione con la Repubblica d’Irlanda) è ora
uffcialmente maggioranza 16. I protestanti fedeli al Regno Unito sono dunque in
minoranza. In teoria, questo potrebbe portare a un referendum sull’indipendenza
perché secondo l’accordo di pace del Venerdì Santo tra repubblicani cattolici e
unionisti protestanti siglato nel 1998 il Regno Unito sarebbe obbligato a concede-
re una consultazione in merito «nel caso fosse chiaro che la maggioranza della
popolazione lo desiderasse» 17. Sembra però abbastanza improbabile che la que-
stione si smuova nei prossimi anni. In primo luogo, è molto diffcile che un gover-
no statunitense sia favorevole all’unifcazione dell’Irlanda del Nord con la Repub-
blica d’Irlanda. Certo, l’amministrazione Biden ha sempre giocato a favore degli
interessi di Dublino sul Brexit, ma sarebbe esagerato pensare che Washington
possa spingersi a stravolgere il delicatissimo equilibrio che prevale nell’Ulster dal-
la fne della trentennale guerra civile. Per non parlare del fatto che se gli Stati

15. «Scotland – Potential second independence referendum», Politico, 11/1/2023.


16. R. CARROLL, «Catholics outnumber Protestants in Northern Ireland for frst time», The Guardian,
22/9/2022.
17. A. PAUN, J. SARGENT, «Irish Reunifcation», Institute for Government, 22/5/2018. 185
LA PARALISI STRATEGICA DEL REGNO UNITO

Uniti si sbilanciassero a favore dell’unifcazione farebbero infuriare il Partito con-


servatore, storico alleato (anche se inaffdabile) degli unionisti a Belfast. Infne,
non è nemmeno chiaro se sia negli interessi di Dublino riprendersi una regione
povera e agitata come l’Irlanda del Nord.
In secondo luogo, è probabile che nemmeno i nordirlandesi cattolici abbiano
interesse a spingersi tanto in là, anche se la posta in palio è centrare l’obiettivo
storico dei loro antenati. La maggior parte della popolazione ulsteriana è restia a
cambiare gli equilibri della pace raggiunta con grande diffcoltà nel 1998 e ancora
percepita come estremamente precaria. Lo si desume dal fatto che i partiti interco-
munitari come Alliance hanno registrato un’impennata di consenso alle elezioni
per il parlamento locale nel maggio 2022 18. Segno che non vi è grande entusiasmo
per rivoluzionare lo status quo, che d’altra parte porterebbe con ogni probabilità
alla riapertura di antiche e dolorosissime ferite. Un passato a cui i giovani nordir-
landesi, sia cattolici sia protestanti, non vogliono tornare.

Conclusione
Da oltre sei anni, il Regno Unito si trova a un crocevia ma ancora non ha scel-
to quale strada prendere. Il Brexit ha incrinato il rapporto con i paesi dell’Europa
continentale e a lungo termine renderà più diffcile per i britannici giocare un ruo-
lo di punta nelle questioni geopolitiche europee. Anche se l’impegno dimostrato in
Ucraina ha fornito un’occasione di redenzione, almeno agli occhi degli Stati Uniti.
Allo stesso tempo, la superpotenza guarda sempre più all’Indo-Pacifco, geograf-
camente distante dal Regno Unito e fuori dal suo raggio di proiezione militare.
Politici e apparati britannici sono confusi e stanchi, chiamati a rispondere a crisi
interne sempre più pressanti. Il probabile vincitore della prossima tornata sarà il
Labour, un partito storicamente debole in politica estera. È facile che si produca un
governo non dotato di grande profondità diplomatica e geopolitica. Bisognerà
quindi probabilmente aspettare fno al 2029, se non oltre, per assistere a un vero
rinnovamento dell’orientamento britannico e al ritorno del Regno Unito come atto-
re dotato di qualche margine di indipendenza sul palcoscenico globale. Forse ap-
pena in tempo per una grande crisi a Taiwan.

186 18. «NI election results 2022: Who are the Alliance Party and what do they stand for?», Bbc, 8/5/2022.
LA GUERRA CONTINUA

LA GUERRA
PUÒ DECLASSARE
LA FRANCIA di Olivier KEMPF
Macron sostiene l’Ucraina con armi e sanzioni. Al contempo,
parla con Putin. È la tradizionale ricerca di una terza via tra
Mosca e Washington. Parigi continua a professarsi alleata, non
allineata agli Stati Uniti. Ma non importa più a nessuno.

P ER MOLTI LA GUERRA D’UCRAINA È


scoppiata il 24 febbraio 2022. Tuttavia, l’osservatore attento sa che è iniziata nel
2014, con il ratto della Crimea da parte dei russi, seguito dalla ribellione del Donbas
e dagli scontri del 2015 che hanno disegnato una durevole linea del fronte. Per
otto anni, il confitto è stato apparentemente congelato. Ma ciò non signifca che
non ci fosse, soltanto che i combattimenti si svolgevano al di sotto della soglia
d’attenzione degli stranieri.
È in questa prospettiva di lungo periodo che occorre analizzare la posizione
francese nella guerra d’Ucraina. Non si possono comprendere le dichiarazioni del
presidente Emmanuel Macron se non si tiene a mente questo retroterra cronologi-
co. Altrettanto importante ci sembra l’aspirazione di Parigi a una strategia mondia-
le autonoma e distinta che supera di molto la sua gestione del confitto ucraino.
Tenendo conto di queste considerazioni, cercheremo di rispondere a una do-
manda: la guerra d’Ucraina ha contribuito a declassare la Francia o le ha invece
permesso di mantenere la sua posizione internazionale?

Un’eccezione strategica persistente


Malgrado un’evidente perdita d’infuenza, la Francia continua a benefciare di
un proflo strategico eccezionale, nel senso originario dell’aggettivo. Ciò non vuol
dire che sia una superpotenza – sarebbe assurdo sostenerlo. Resta però una grande
potenza sotto molti aspetti: la sua economia si mantiene nelle alte gerarchie globa-
li; dispone ancora di territori in tutti i continenti; la sua cultura e la sua lingua con-
servano una grande diffusione pur senza il lustro d’un tempo; la sua rete diploma-
tica è fra le prime tre al mondo; controlla la seconda Zona economica esclusiva del 187
LA GUERRA PUÒ DECLASSARE LA FRANCIA

pianeta. Sul piano militare, è una potenza nucleare riconosciuta dal trattato di non
proliferazione e le sue armate sono viste come le migliori d’Europa, dotate di un’e-
sperienza operativa continuativa (e autorizzata dal sistema istituzionale) e sapien-
temente modernizzate, in modo da disporre di una forza completa di uno o più
campioni per ogni capacità.
Questo insieme di caratteristiche basterebbe da solo a distinguere la Francia.
Eppure, conviene precisare la sua situazione: a differenza degli altri paesi europei,
la dissuasione nucleare le garantisce una completa «indipendenza» strategica. Per-
sino l’arsenale atomico del Regno Unito dipende in parte dagli Stati Uniti. E notia-
mo di passaggio che gli accordi di Lancaster House del 2010 contengono disposi-
zioni di cooperazione in materia di nucleare militare che permettono ai britannici
di accedere ad alcune installazioni francesi per i test, garantendo loro in tal modo
una certa autonomia in questo settore.
Ora, questa indipendenza strategica genera automaticamente una postura
molto diversa da quella degli altri paesi europei: a differenza di questi ultimi, la
Francia non ha bisogno dell’ombrello nucleare americano garantito dall’Alleanza
Atlantica. Essa conserva margine di scelta là dove i suoi partner continentali non
ne hanno. Può militare per un’«autonomia europea» là dove gli altri la ritengono
un piccolo accessorio, visto che l’essenziale della loro sicurezza è garantito dalla
Nato e dal rapporto con gli Stati Uniti. In ambito strategico, esiste dunque una
vera e propria eccezione francese. Ciò spiega in gran parte il sentimento di Parigi,
spesso dato per scontato, di essere differente. Constatiamo però che dal 24 feb-
braio anche la Germania ha dato più volte questa impressione, sia pure in modi
assai diversi.
Questa eccezione della Francia ben spiega alcune sue posizioni. Lo storico
può riconoscervi la lontana eredità della ricerca da parte di de Gaulle di una terza
via fra i due blocchi. È in questa chiave che possiamo comprendere la nozione di
«potenza degli equilibri» (notare il plurale) articolata da Macron nella sua allocuzio-
ne agli ambasciatori il 1° settembre 2022: «Indipendenza non è equidistanza. Ho
letto ciò che si sarebbe potuto dire quando parlavo di Francia potenza degli equi-
libri. Noi siamo indipendenti, vale a dire che abbiamo gli Stati Uniti come alleati,
una grande democrazia con la quale condividiamo valori e interessi comuni, ma da
cui non vogliamo dipendere. Abbiamo la Cina, un rivale sistemico, con la quale
non condividiamo i nostri valori democratici, ma con la quale dobbiamo continua-
re ad agire per trovare risposte a sfde comuni – clima, biodiversità – e con la
quale vogliamo continuare a parlare per cercare di contribuire a regolare alcune
crisi regionali e alcuni elementi di destabilizzazione. La Francia e l’Europa devono
dunque costruire questa indipendenza anche geopolitica rispetto al duopolio che
va costituendosi» 1.

1. «Discours du Président Emmanuel Macron à l’occasion de la conférence des ambassadrices et des


188 ambassadeurs», 1/9/2022.
LA GUERRA CONTINUA

La Francia e il conflitto ucraino


Questa ambizione generale si manifesta da tempo nel confitto tra la Russia e
l’Ucraina. Al vertice di Bucarest del 2007 la Francia, insieme alla Germania, si op-
pone all’idea promossa da George W. Bush che la Nato risponda favorevolmente
alla domanda di adesione di Kiev. All’epoca, le nazioni alleate si accordano sul
principio che la repubblica ex sovietica non può aderire nell’immediato, ma soltan-
to in un non meglio specifcato futuro.
Nella rivolta di Jevromajdan del 2013-14, quando si contano i primi morti tra i
manifestanti di piazza, i ministri degli Esteri di Polonia, Germania e Francia avviano
sul posto negoziati col presidente Viktor Janukovi0 e i rappresentanti dell’opposizio-
ne. Il 21 febbraio 2014 viene siglata un’intesa. La sera stessa il capo di Stato fugge
all’estero. Nel frattempo inizia l’occupazione russa della Crimea. In aprile si autopro-
clamano indipendenti le repubbliche secessioniste di Luhans’k e Donec’k, che a
maggio inaugurano un confitto armato con il governo di Kiev. A settembre viene
frmato un primo accordo a Minsk tra Russia e Ucraina. I combattimenti riprendono
nel gennaio 2015 e a febbraio viene siglato un secondo accordo nella capitale bielo-
russa, negoziato da Angela Merkel e François Hollande – da quel momento i collo-
qui a quattro saranno noti come «formato Normandia». Questa seconda intesa preve-
de lo stop agli scontri e un programma di uscita dal confitto in tredici punti. Malgra-
do i tentativi, la diplomazia non produce svolte e i combattimenti proseguono spo-
radici per anni, evolvendo in una sorta di guerra congelata a bassa intensità.
Per sette anni, la Francia, con la Germania, patrocina i negoziati tra russi e
ucraini sotto il titolo degli «accordi di Minsk II». Le due parti giocano sulle ambigui-
tà del testo per non avanzare. Più tardi, i responsabili dichiareranno che quegli
accordi avevano come obiettivo quello di «dare tempo a Kiev»: così si esprimeran-
no l’ex presidente ucraino Petro Porošenko nel giugno 2022 (Deutsche Welle),
Merkel il 7 dicembre (die Zeit) e l’ex capo di Stato francese Hollande il 28 dicembre
(The Kyiv Independent) 2.
Questo retropensiero strategico delle due potenze europee non deve nascon-
dere che entrambe cercano di conservare il dialogo con la Russia. Nel febbraio
2022, Macron tenta di impedire lo scoppio del confitto recandosi personalmente a
Mosca. Lo fa mettendosi in una posizione che la Francia cerca spesso di assumere:
quella della potenza alleata (dell’Ucraina ma anche del blocco occidentale) che
riesce comunque a mantenere una certa distanza e dunque a fare da intermediario.
Dopo l’inizio della guerra, Parigi esprime continuamente il proprio sostegno a
Kiev. Tuttavia, molti osservatori le rimproverano due cose: un appoggio diretto
debole e d’apparenza e parole sensibili nei confronti di Mosca, che scatenano rea-
zioni oltraggiate. Un esempio è quando, il 9 maggio 2022, Macron dichiara davan-
ti al Parlamento europeo (nell’anniversario della resa tedesca nella seconda guerra
mondiale) che non bisogna «umiliare la Russia». Espressione ripetuta in giugno in

2. T. PROUVOST, «Hollande: “There will only be a way out of the confict when Russia fails on the
ground”», The Kyiv Independent, 28/12/2022. 189
LA GUERRA PUÒ DECLASSARE LA FRANCIA

un’intervista con alcuni quotidiani regionali: «Non bisogna umiliare la Russia per-
ché il giorno in cui i combattimenti cesseranno, potremo costruire un cammino di
uscita attraverso vie diplomatiche. Io sono convinto che è questo il ruolo della
Francia, essere una potenza mediatrice. (…) Penso, e gliel’ho detto, che Vladimir
Putin abbia commesso un errore storico e fondamentale, per la sua gente, per lui
stesso e per la Storia. Nondimeno, la Russia resta un grande popolo» 3.
Tali affermazioni suscitano ondate di proteste, fra cui quelle del ministro degli
Esteri ucraino Dmytro Kuleba: «Gli appelli a non umiliare la Russia non possono
che umiliare la Francia». Osserviamo che il discorso di Macron riprende in parte la
propaganda moscovita, tanto più che il presidente francese non ha esitato a evo-
care la nozione dei «popoli fratelli» russo e ucraino, cosa che ha profondamente
irritato Kiev 4.

Una via equilibrata è possibile?


Come spiegare la durevolezza della posizione francese? Semplicemente con la
perpetuazione dell’approccio tipicamente parigino della terza via e con la ripetizio-
ne del discorso «alleati ma non allineati». Macron pensa all’architettura di sicurezza
europea che dovrà essere costruita dopo la guerra. Il processo passerà per dei
negoziati e comporterà dunque una transazione: dovendo transigere, occorrerà
concedere politicamente qualcosa a Mosca. Perciò il presidente ha continuato a
inviare segnali alla Russia per incitarla ad aprire le trattative. Ciò spiega la sua te-
nacia nel parlare regolarmente con Putin, il tutto uffcialmente in accordo con Kiev.
Inoltre, la posizione francese discende dalla promozione di un’autonomia stra-
tegica europea che Macron ha messo al centro del proprio disegno di politica este-
ra sin dalla sua ascesa alla presidenza nel 2017. Essa, ancora una volta, discende
dall’idea dell’indipendenza che abbiamo esposto. E urta in modo più frontale che
mai i rifessi condizionati dei vicini della Francia – in sostanza, quando Macron pen-
sa alla «sicurezza europea», i suoi partner continentali pensano alla «sicurezza occi-
dentale». Quest’ultima passa automaticamente attraverso la Nato che, com’è eviden-
te, a sua volta rafforza la crisi stessa. Ricordiamoci che non molto tempo fa si dibat-
teva dell’utilità dell’Alleanza, in seguito alla questione trumpiana, al gioco sporco dei
turchi e alle rifessioni di Macron sulla morte cerebrale dell’organizzazione.
La Nato ha chiaramente ritrovato un ruolo con la guerra d’Ucraina e tutti gli
alleati si sono raccolti in buon ordine dietro agli americani. Per esempio acquistan-
do armamenti a pioggia da Washington, come ha fatto la Germania di Scholz, che
ha speso una buona parte dei cento miliardi di euro extra per la difesa per com-
prare F-35. Ancora, nel vertice del giugno 2022 gli alleati hanno adottato un nuovo
documento strategico e aperto la procedura di adesione di due nuovi membri,

3. «Exclusif. Emmanuel Macron à La Dépêche du Midi: “La réforme des retraites entrera en vigueur
dès l’été 2023”», La Dépêche du Midi, 3/6/2022.
4. Vedi per esempio O. SCHMITT, «“Il ne faut pas humilier la Russie”. La formule et ses implications
190 politico-stratégiques», Le Rubicon, 16/6/2022.
LA GUERRA CONTINUA

Svezia e Finlandia, tradizionalmente neutrali ma che la minaccia moscovita ha spin-


to nel girone atlantico. Inciso: la Turchia non ha ancora permesso l’entrata dei due
paesi nordici – nuovi problemi covano 5.
Questo riallineamento europeo agli Stati Uniti costituisce a tutti gli effetti una
cattiva notizia per le ambizioni dell’Eliseo e spiega la sua ostinazione nel cercare
una terza via d’equilibrio. In effetti, la Francia ha sempre guardato all’Ucraina attra-
verso il prisma della propria politica verso la Russia.
In ogni caso, Parigi ha voluto dimostrare di essere un alleato esemplare. Non
ha mai ceduto sulle sanzioni nonostante le riluttanze di alcuni partner europei. E
ha partecipato al rafforzamento del fanco orientale della Nato in Estonia e in Ro-
mania, dove ha schierato un battaglione blindato e meccanizzato che dovrebbe
restare in loco per diversi anni. Ma queste decisioni sono sempre state viste come
dovute, insuffcienti a riequilibrare le dichiarazioni di apparente sostegno ad alcune
posizioni russe. Infne, chi riteneva che Parigi non avesse fornito abbastanza armi
a Kiev si è dovuto ricredere davanti all’evidenza dei numeri: 18 cannoni Caesar sui
78 in dotazione all’Esercito francese, veicoli Vab, missili anticarro Milan, obici Trf1,
radar Crotale e, di recente, i blindati Amx-10Rc. Senza parlare dell’aiuto, poco visi-
bile, in termini di informazioni, guerra cibernetica e formazione.

Un’inversione in corso?
La politica dell’equilibrio passa per il sostegno al negoziato, dunque dalla pre-
sunzione che quest’ultimo fosse possibile. In molti l’hanno creduto, almeno fno
all’autunno. Gli ucraini, certo, hanno conseguito importanti successi (presa di Izjum,
ritirata russa da Kherson), ma nello stesso tempo Putin ha indurito la sua posizione
con l’annessione delle quattro oblast’, la mobilitazione parziale di 300 mila uomini e
l’uso da gennaio in poi della parola «guerra» al posto di «operazione militare speciale».
Soprattutto, all’arrivo dell’inverno i russi hanno stabilizzato il fronte e hanno
dato l’impressione di poter logorare le posizioni ucraine, come a metà gennaio
2023 ha confermato la caduta di Soledar. Inoltre, nessuno dei belligeranti ha perso
o ha guadagnato tanto da avere incentivi ad aprire un negoziato. Più probabile,
quali che siano le variazioni marginali del fronte, che la guerra si perpetui in un
tempo molto lungo. L’ora della discussione sembra passata.
In questo quadro, osserviamo una recente evoluzione da parte di Parigi. È
passata per l’organizzazione nella capitale francese della conferenza di sostegno
all’Ucraina del 13 dicembre, che ha messo a disposizione fondi per affrontare l’e-
mergenza umanitaria ma anche per la ricostruzione del paese, e per l’annuncio, a
inizio gennaio 2023, dell’invio dei «carri leggeri» (parole dell’Eliseo) Amx-10Rc cita-
ti in precedenza. Questa comunicazione è intervenuta mentre Parigi e Berlino di-
scutevano da diverse settimane di una risposta comune da dare all’Ucraina. L’an-
nuncio in solitaria della Francia è stato anche un modo per forzare le reticenze

5. O. KEMPF, «L’Otan, renaissance ou simple répit?», La Vigie, n. 196, 6/7/2022. 191


LA GUERRA PUÒ DECLASSARE LA FRANCIA

tedesche. Vero, l’indomani Scholz ha comunicato l’invio di veicoli corazzati Mar-


der, ma pochi giorni dopo i polacchi hanno diramato l’intenzione di mandare a
Kiev carri Leopard 2, operazione per la quale serve l’autorizzazione del governo di
Berlino. «Una compagnia di carri d’assalto Leopard sarà trasmessa nel quadro di
una coalizione in via di formazione», ha spiegato il presidente polacco Duda (gira
voce che la Finlandia abbia lo stesso intento). Pure Londra ha comunicato di voler
inviare dodici carri Challenger. La pressione è tale che la Germania dovrebbe ce-
dere. È evidente che Parigi ha innescato un movimento europeo non insignifcan-
te che conforta il suo approccio.

Conclusione
Tenuto conto di questi elementi, possiamo affermare che la guerra d’Ucraina
ha declassato la Francia?
Diciamo anzitutto che la crisi non è fnita e che, come da proverbio francese,
è alla fne della fera che si conta lo sterco. A oggi il bilancio è negativo per la
Russia e positivo per gli Stati Uniti. Per l’Unione Europea le cose si fanno più am-
bigue. Ha mantenuto la propria unità senza grandi diffcoltà, malgrado le classiche
divisioni interne. Ha rapidamente approvato delle sanzioni e le ha man mano raf-
forzate 6. Subisce però evidenti contraccolpi economici in ambito energetico e per
via dell’infazione. La sua posizione strategica si è piuttosto indebolita: la bussola
pubblicata in primavera, sotto la presidenza francese, è insipida. Perché l’insieme
degli europei è allineato all’Alleanza Atlantica. Il resto del mondo non si fa molti
problemi e rifuta di immischiarsi nella guerra d’Ucraina, vista come «affare occi-
dentale». Non è certo che l’Europa ne tragga vantaggi.
Parigi ha perseguito i propri obiettivi al rischio di apparire contraddittoria. Non
è una novità: basti ricordare le critiche degli alleati al generale de Gaulle in occa-
sione del ritiro francese dalle strutture di comando della Nato oppure la posizione
di Chirac nella guerra in Iraq nel 2003. Ma tale apparente continuità è ingannevole:
in questi precedenti, la Francia trovava in cambio un certo numero di appoggi
oppure convinceva alcune capitali della propria indipendenza. Ecco la differenza
con la situazione odierna: le critiche sono rimaste, ma nessuno crede davvero all’e-
quilibrio francese. Alleata e non allineata? Benissimo. Ma alla fne cambia qualcosa?
La maggior parte dei partner della Francia risponde: no.
In questo sta il declassamento relativo: la Francia pesa ancora in Europa – chi
lo dubita? – ma la sua aura è impallidita, come quella degli altri occidentali. Mentre
nel XX secolo le guerre civili europee erano divenute questioni mondiali, questa
nuova guerra civile europea non trascina più con sé l’ordine globale. È una que-
stione che va ben al di là del rango della Francia.

(traduzione di Federico Petroni)

192 6. O. KEMPF, «L’UE et l’Ukraine», Hermès, novembre 2022.


LA GUERRA CONTINUA

ITALIANI
ALLINEATI
E COPERTI DOTTORI di Germano

La guerra ha compresso i margini di manovra dell’Italia, costretta a


schierarsi senza ambiguità. L’attacco russo all’Ucraina ha cancellato
l’illusione che Roma potesse mediare tra Oriente e Occidente. Draghi
e Meloni si sono uniformati alla linea euroatlantica.

1. L’
ITALIA RITIENE DI AVERE, PER
propria cultura politico-strategica, una vocazione al dialogo e alla mediazione. Non
sono state poche né brevi le fasi della sua recente storia nel corso delle quali i suoi
governanti di turno hanno accarezzato il sogno di fare del nostro paese un ponte
tra Oriente e Occidente. È successo, ad esempio, durante la guerra fredda, quando
Roma sviluppò una propria Ostpolitik nei confronti dei regimi d’Oltrecortina che,
se non poteva competere con quella di Bonn, fece comunque arricciare il naso
alle amministrazioni americane del tempo. I diari segreti di Giulio Andreotti attesta-
no in più punti quanto fosse diffcile svolgere un’azione internazionale di questo
tipo senza suscitare sospetti. Vi si dà conto delle frequenti interlocuzioni con l’am-
basciata americana di via Veneto, nell’ambito delle quali il defunto statista demo-
cristiano si preoccupava di rassicurare il maggiore alleato circa l’effettiva portata
delle nostre iniziative 1. A questa tradizione si sarebbe fatto appello anche dopo il
crollo del Muro di Berlino e non solo nei confronti di Mosca, ma altresì in scacchie-
ri molto più lontani. A un certo punto, Lamberto Dini immaginò per il nostro pae-
se addirittura un ruolo da battistrada per conto di Washington nei confronti dei
regimi con i quali risultava più diffcile o inopportuno per gli Stati Uniti avviare dei
rapporti diretti, come la Corea del Nord, la Libia o l’Iran: allo scopo di acquisire
benemerenze, provavamo a proporci come facilitatori di intese successive 2.

1. G. ANDREOTTI, I diari segreti 1979-1989, Milano 2020, Solferino. La lettura rivela l’ampiezza e l’im-
portanza dei contatti intrattenuti dallo scomparso statista democristiano, che incontrava pressoché
regolarmente tanto l’ambasciatore sovietico quanto quello statunitense. Di quest’ultimo registrava
puntualmente l’inquietudine per quanto accadeva in Italia. Ma Andreotti non si limitava a rassicurare:
a volte, specialmente a Gardner, spiegava con pazienza ciò che apprendeva grazie alla propria rete
di amicizie internazionali e all’assidua frequentazione dei vertici della Chiesa cattolica. Cercò tra l’altro
di contribuire alla soluzione della crisi degli ostaggi americani a Teheran.
2. Cfr. M. ANSALDO, «Dini ai nordcoreani: Fate come la Cina», la Repubblica, 30/3/2000. 193
ITALIANI, ALLINEATI E COPERTI

Più in generale, cercavamo di volgere a favore dell’Italia la nostra ritrosia a


individuare avversari e nemici sul palcoscenico della politica internazionale, fn-
gendoci amici di tutti, per ritagliarci una funzione nobile che fosse in grado di
elevare il prestigio del nostro paese e della sua diplomazia. In alcune circostanze
funzionò, in altre invece no, risolvendosi anzi in un danno d’immagine ogni qual
volta le nostre ambiguità seminassero dubbi circa l’affdabilità dell’Italia. La diffe-
renza degli esiti non dipendeva tanto dalla caratura di coloro che momento per
momento declinavano questa politica, quanto dal contesto in cui tentavano di
farlo. In pratica, uno Stato incardinato nel sistema di sicurezza occidentale poteva
operare alla stregua di un paese neutrale soltanto quando il clima fosse comples-
sivamente disteso e in qualche modo fuido: una situazione nella quale la polariz-
zazione si attenuava e sfumava la contrapposizione schmittiana amico-nemico.
Credendo che la storia fosse davvero fnita, negli anni della cosiddetta Seconda
Repubblica ipotizzammo di poter fungere da avvocati della Russia in Occidente e
successivamente, quando le cose avrebbero iniziato a mettersi male, di difendere
l’Occidente presso i russi. Investimmo sulla riconciliazione tra Mosca e Washin-
gton, ospitando nel 2002 a Pratica di Mare il vertice che avrebbe sancito il punto
di massimo avvicinamento tra l’Alleanza Atlantica e la Federazione Russa, nel con-
vincimento che potesse essere il punto di partenza per una progressiva integrazio-
ne del Cremlino nel nostro mondo. Non capimmo, quella volta, di essere stati
soltanto comprimari in un processo che aveva avuto la sua origine non nelle nostre
trame diplomatiche, ma nella necessità americana di ottenere la collaborazione di
Mosca nella campagna militare contro il terrorismo internazionale e in quella, sim-
metrica, della Russia, di farsi perdonare gli eccessi delle sue guerre cecene. Di qui
l’evidente sbigottimento che l’aggressione russa all’Ucraina, il 24 febbraio 2022,
avrebbe determinato a tutti i livelli nel nostro paese, ponendo in luce i limiti di un
certo modo di intendere la presenza dell’Italia sulla scena internazionale.

2. Allo sbigottimento si sommava il disappunto. Anche questa volta, infatti,


avevamo provato a interporre i nostri buoni uffci ricorrendo ad audaci escamotage
diplomatici che avrebbero dovuto indurre il presidente russo a sospendere o pro-
crastinare a tempo indeterminato la propria decisione di invadere l’Ucraina. Cosa
ritenevamo dovesse esser fatto lo aveva affermato con decisione l’allora presidente
del Consiglio Mario Draghi nella sua conferenza stampa di fne anno, il 22 dicem-
bre 2021: «Dobbiamo mantenere il presidente Putin in stato di ingaggio» – ovvero
ancorato a un tavolo negoziale. Tra l’altro ottenendo da quest’ultimo un immedia-
to riscontro a stretto giro di posta 3. Facendo leva sul ministro degli Esteri Sergej
Lavrov, probabilmente contrario all’avventura militare alla quale si stava risolvendo
l’uomo forte del Cremlino, eravamo persino riusciti a organizzare una missione in
extremis per il nostro premier, che avrebbe dovuto aver luogo proprio il giorno in
cui sarebbe stato scatenato l’attacco. Avevamo fatto sapere a tutti, anche con inter-
194 3. Cfr. «Ue-Russia: Draghi, dobbiamo mantenere stato “ingaggio” con Putin», Agenzia Nova, 22/12/2021.
LA GUERRA CONTINUA

venti parlamentari dell’allora titolare della Farnesina Luigi Di Maio, che mentre l’I-
talia ribadiva la sua adesione alla politica della «porta aperta», riconoscendo il dirit-
to sovrano di chiunque a chiedere l’adesione alla Nato, Roma avrebbe comunque
tenuto conto dell’articolo 10 del Patto Atlantico, che subordina l’accettazione di
ogni richiesta alla valutazione dell’effettivo contributo alla difesa collettiva da parte
dello Stato richiedente.
Per preparare la visita di Draghi, il 17 febbraio 2022 Di Maio si era anche re-
cato a Mosca: un fatto che aveva generato sensazione a Washington, come prova
la circostanza che a una conferenza stampa svoltasi il giorno dopo presso la Casa
Bianca un giornalista avesse chiesto al viceconsigliere per la Sicurezza nazionale
Daleep Singh se il premier italiano fosse o meno sul punto di rompere il fronte
antirusso a causa della diffcoltà di Roma a sostenere le sanzioni che avrebbero
potuto colpire il gas 4.
L’Italia sembrava dunque addirittura in bilico: altro elemento che contribuisce
a rendere razionalmente incomprensibile la scelta di Putin di ricorrere alla forza,
insensata anche qualora fosse stata coronata da successo, per via delle conseguen-
ze negative che la Russia avrebbe inevitabilmente dovuto sopportare in termini di
sanzioni e isolamento internazionale. Di contro, alla vigilia del riconoscimento
unilaterale dell’indipendenza delle due repubbliche separatiste sorte nel Donbas, il
Cremlino aveva a portata di mano la «vittoria di Sunzi», ovvero quella raggiunta
senza sparare un colpo che dovrebbe essere perseguita da ogni stratega saggio.
Giova oggi ricordare a questo proposito come, proprio mentre l’intelligence ame-
ricana e quella britannica paventavano come imminente l’attacco russo, Stati Uniti,
Gran Bretagna e Canada avessero abbandonato Zelens’kyj al suo destino ritirando
da Kiev tutti i propri consiglieri militari e dimostrando al presidente ucraino i limi-
ti dell’opzione euroatlantica che il suo paese aveva deciso di percorrere. Mosca
pareva altresì sul punto di concedere a Draghi, il banchiere e politico europeo
occidentale forse più vicino agli ambienti democratici della East Coast americana,
il privilegio di portare a casa un accordo che avrebbe scongiurato la guerra, divi-
dendo al loro interno la Nato e l’Unione Europea.

3. Proprio dallo sbilanciamento verso Mosca, legato al tentativo di evitare il


confitto e ricavare prestigio al paese e al suo presidente del Consiglio pro tempore,
l’Italia sarebbe stata inesorabilmente costretta, già all’indomani della controversa
decisione russa di riconoscere come entità indipendenti le sedicenti repubbliche di
Luhans’k e Donec’k, ad attuare una spettacolare inversione a U. Sostanzialmente,
un anno fa sarebbe accaduta una cosa molto simile a quella che si era verifcata nel
novembre 2011 quando, con lo spread a 500 punti base, a Silvio Berlusconi era
succeduto a Palazzo Chigi Mario Monti, che aveva scelto quale ministro degli Esteri

4. Cfr. «Press Briefng by Press Secretary Jen Psaki, Deputy National Security Advisor for Cyber and
Emerging Technology Anne Neuberger, and Deputy National Security Advisor for International Eco-
nomics and Deputy NEC Director Daleep Singh», White House, 18/2/2022. Singh dette peraltro una
risposta assai elusiva. 195
ITALIANI, ALLINEATI E COPERTI

l’ambasciatore d’Italia a Washington, Giulio Terzi di Sant’Agata, e chiamato alla testa


del dicastero della Difesa l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, che presiedeva allora il
Comitato militare della Nato. Senza modifcare questa volta la compagine di gover-
no, essendone impraticabile l’avvicendamento nelle more della crisi epidemica,
sarebbe stato lo stesso Draghi a pilotare la svolta, uniformandosi immediatamente
alla scelta di interrompere tutti i contatti di alto livello con la Federazione Russa
fatta il 22 febbraio 2022 dal segretario di Stato americano Antony Blinken 5.
Intervenendo infatti alla Camera e al Senato per rendere un’informativa sui più
recenti sviluppi, il ministro Di Maio enunciava il giorno dopo la stessa linea adot-
tata dagli Stati Uniti, proprio mentre a Mosca si defniva come un dossier ancora
aperto quello concernente la visita di Draghi al Cremlino. Seguivano quindi lo
stizzito comunicato del ministero degli Esteri russo sulla diplomazia dei cocktail
italiana e, in un crescendo rossiniano, la dichiarazione televisiva con la quale Di
Maio aveva sottolineato come tra Putin e qualsiasi animale esistesse un abisso e
quello atroce fosse proprio il leader russo. In parlamento, il premier riconobbe a
sua volta come fosse stato fatto qualche sbaglio in passato. E tracciò la rotta che
avrebbe portato l’Italia a schierarsi con l’Ucraina e contro gli aggressori.
Roma avrebbe altresì aderito all’imposizione e all’applicazione delle sanzioni
decretate contro Mosca dall’Unione Europea. Inoltre, il 28 febbraio 2022 il Consi-
glio dei ministri varava il decreto legge che avrebbe autorizzato il governo a forni-
re all’Ucraina fno al 31 dicembre scorso anche gli aiuti militari necessari alla sua
difesa. È sulla base di questo provvedimento che sarebbero stati emanati successi-
vamente cinque decreti interministeriali aventi a oggetto proprio l’invio di materia-
li d’armamento a Kiev.
Un sesto atto amministrativo di questo tipo era in corso di defnizione al mo-
mento in cui il nuovo ministro della Difesa, Guido Crosetto – subentrato a Lorenzo
Guerini, nel frattempo tornato alla presidenza del Comitato parlamentare per la
sicurezza della Repubblica (Copasir) – si presentava il 13 dicembre scorso alle as-
semblee di Camera e Senato per comunicare la volontà del governo Meloni di
prorogare di un anno la politica di sostegno militare alla resistenza ucraina, chie-
dendo altresì su questa scelta un pronunciamento favorevole delle aule di Monte-
citorio e Palazzo Madama, che sarebbe giunto con numeri più alti di quelli assicu-
rati dall’attuale maggioranza di centro-destra.
I dibattiti svoltisi nei due rami del parlamento sono stati sostanzialmente iden-
tici, sfociando nell’esame di ben cinque atti d’indirizzo di tenore analogo tanto alla
Camera quanto al Senato. Per facilitare la massima convergenza tra i gruppi, si sa-
rebbe fatto ricorso ancora una volta alla tecnica del voto per parti separate delle
singole proposte di risoluzione: un meccanismo attraverso il quale si permette a
ogni deputato o senatore di non votare una o più parti sgradite dei singoli dispo-
sitivi, permettendone però l’approvazione complessiva.

5. H. PAMUK, S. LEWIS, «U.S. Blinken cancels meeting with Lavrov, says Russian moves are “rejection of
196 diplomacy”», Reuters, 23/2/2022.
LA GUERRA CONTINUA

Alla conta, avrebbero superato il vaglio di Montecitorio e Palazzo Madama sia


il testo presentato dai gruppi dell’attuale maggioranza di centro-destra che quelli
depositati dal Partito democratico e dai parlamentari appartenenti ad Azione/Italia
Viva, l’aggregazione guidata da Carlo Calenda e Matteo Renzi: tutti accomunati dal
sostegno al governo nella propria azione di appoggio all’Ucraina, anche con la
fornitura di aiuti militari fno alla fne di questo 2023. Sono stati invece bocciati i
documenti sottoposti alle assemblee parlamentari rispettivamente dall’Alleanza
Verdi e Sinistra, che chiedeva un drastico cambio di approccio, e dal Movimento
Cinque Stelle, che invece esigeva il passaggio a un’autorizzazione circostanziata
delle Camere per ogni futuro decreto concernente l’invio di armi o munizioni.
Nel corso del dibattito, i pentastellati avevano anche sollevato la questione
relativa alla secretazione della composizione dei pacchetti di aiuti, evidenziando
come almeno la Germania si fosse dissociata da questa prassi. Nel corso della sua
replica ai singoli interventi, Crosetto avrebbe comunque confermato tanto l’opzio-
ne in favore della segretezza sulla composizione delle consegne quanto l’impegno
del governo ad aggiornare i partiti sui dettagli sensibili delle forniture attraverso la
sede «protetta» del Copasir. Stando peraltro a indiscrezioni raccolte dalla stampa,
confermate informalmente dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, a prendere
prossimamente la via di Kiev sarà almeno una delle cinque batterie di Samp/T in
dotazione al nostro Esercito. Informazioni vengono anche dai russi, che non per-
dono occasione di farci sapere quando e quali materiali di fabbricazione od origine
italiana cadono nelle loro mani sul campo di battaglia 6. È certo inoltre da altre
fonti aperte che gli ucraini abbiano ricevuto dal nostro paese dei semoventi
PhZ2000, dei lanciatori multipli di razzi Mlrs e pezzi d’artiglieria.

4. L’Italia continuerà quindi ad applicare le sanzioni imposte contro Mosca e a


sostenere Kiev nei modi e nelle forme che saranno decisi dall’Alleanza Atlantica e
dall’Unione Europea, malgrado questa linea crei malumori in qualche settore del
sistema politico che pure la sostiene e non sia gradita da buona parte della nostra
opinione pubblica, più sensibile di altre ai richiami del pacifsmo o al pregiudizio
ideologico anti-americano 7.
6. Il 25 aprile 2022, ad esempio, tal Maria Dubovikova, nota anche sotto il nome di Maria Al Makah-
leh, una frma russa di Al Arabiya che si autodefnisce «analista ed esperta indipendente di media», ha
pubblicato su Twitter la fotografa di una cassa di munizioni da mortaio che sarebbe stata rinvenuta
nel garage degli uffci dell’Osce a Mariupol’, con i dettagli leggibili relativi al deposito italiano di
provenienza (Villabona), alla data d’imballaggio e all’aeroporto italiano di partenza (Pratica di Mare).
Più recentemente, il 19 gennaio scorso, in un tweet l’ambasciata russa in Italia ha dato notizia di
missili Milan fabbricati in Italia sottratti agli ucraini e riassegnati ai miliziani della Repubblica Popola-
re di Donec’k. Il giorno dopo lo stesso account pubblicava inoltre in un altro tweet le immagini di un
Iveco Lmv 4x4 italiano, più noto come Lince, utilizzato dall’esercito ucraino e «distrutto durante l’o-
perazione militare speciale», aggiungendo il seguente commento: «La sorte dei mezzi militari trasferiti
al regime di Kiev è prevedibile e poco invidiabile».
7. I sondaggi, pur nella loro diversità, convergono sul fatto che le forniture militari al governo di Kiev
non piacciono agli italiani: secondo una rilevazione di Lab21.01 risalente agli inizi dello scorso no-
vembre, i contrari all’invio di altre armi all’Ucraina erano ormai il 53,2%, contro il 46,8% di favorevo-
li. Secondo un altro sondaggio, condotto da Iai e Laps in ottobre, gli italiani contrari sarebbero addi-
rittura il 57%. 197
ITALIANI, ALLINEATI E COPERTI

Alla prosecuzione del confitto, che secondo i critici del governo sarebbe per-
messa anche dalle forniture di armi garantite all’Ucraina, molti tra l’altro riconduco-
no anche la recente lievitazione dei costi dell’energia, che invece dipende in misu-
ra non trascurabile dalle conseguenze della massiccia iniezione di liquidità decre-
tata dalla Fed e dalla Bce nel biennio 2020-21 per contrastare gli effetti economici
dell’epidemia. Altri lamentano invece la perdita delle occasioni di guadagno causa-
ta dall’interruzione degli scambi con la Russia. Periodicamente, qualcuno pubblica
anche delle stime sull’entità degli ammanchi di fatturato che sarebbero imputabili
alla posizione assunta dall’Italia nella guerra, peraltro senza mai interrogarsi sul
costo che il nostro paese avrebbe potuto e potrebbe pagare adottando un atteggia-
mento diverso. Sarebbe invece importante farlo, per comprendere meglio la vera
natura del «vincolo esterno» che comprime la sovranità del nostro paese quando
siano in questione delle scelte di campo di particolare importanza.
Gli interessi e la loro magnitudine in effetti non ammettono deroga: soltanto
in questo 2023 l’Italia dovrà infatti rinnovare titoli del suo debito pubblico in sca-
denza per oltre 410 miliardi di euro e a questa cifra si aggiungeranno altri 105 mi-
liardi ulteriori di nuovo indebitamento 8. Visto che ci troviamo in un’area monetaria
governata da una Banca centrale indipendente cui è vietato di coprire i defcit
degli Stati con l’emissione di carta moneta, questi soldi dovranno essere interamen-
te reperiti sul mercato, rivolgendoci ai risparmiatori piccoli e grandi di tutto il mon-
do che acquistano i nostri titoli, direttamente o per il tramite di investitori più
grandi, a un tasso d’interesse che dipende dal merito di credito della Repubblica.
Per convincerli a comprare senza corrispondere una remunerazione esorbitante, è
essenziale proteggere la reputazione del paese e la politica estera è uno dei criteri
che concorrono a determinarla.
Basta poco per perdere la fducia delle Borse: è suffciente un attacco coordi-
nato condotto da poche ma infuenti testate aventi risonanza globale – come New
York Times, Washington Post, Financial Times ed Economist (si ricorderà certa-
mente l’«unft», «inadatto», riservato a Berlusconi da una sua celebre copertina) – a
far scappare i potenziali compratori, spingendo lo spread alle stelle e avvicinando
il Tesoro italiano allo spettro del default che porterebbe al collasso del paese, com-
portando il blocco di ogni servizio pubblico, dagli ospedali alle scuole, dai tribu-
nali ai presidi di polizia. È per questa stringente ragione, e non per servilismo, che
specialmente in tempo di crisi l’interesse nazionale italiano non può essere defni-
to in modo divergente rispetto a quelli delle più forti potenze fnanziarie e media-
tiche del pianeta di cui siamo alleati senza che sia pagato un prezzo insostenibile.
Tale circostanza spiega perché, mentre infuria una guerra che coinvolge la Russia
nella posizione di Stato aggressore, i margini d’azione e iniziativa dell’Italia siano
scomparsi. Noi non siamo l’Ungheria, che ha un debito sovrano al 75% del pil e

8. Le cifre si rinvengono nello stato di previsione del bilancio dello Stato per il 2023 approvato dal
parlamento lo scorso 28 dicembre. Il ricorso al mercato è autorizzato per ben 516,82 miliardi di euro,
cifra che corrisponde a oltre un quarto del prodotto interno lordo. La spesa pubblica complessiva sarà
198 pari a oltre 1.183 miliardi, ovvero quasi il 60% del pil italiano.
LA GUERRA CONTINUA

vanta la possibilità di praticare una politica monetaria indipendente, e se del caso


disinvolta, di cui è manifestazione un’infazione che tende ormai al 20% annuo.
Con un debito ormai al 150% del suo pil servito interamente dal risparmio privato
mondiale, l’Italia non può permettersi giri di valzer à la Orbán. Il precedente del
2011 è stato metabolizzato da tutti coloro che furono protagonisti di quella stagio-
ne e si trovano oggi di nuovo nella stanza dei bottoni. E infatti, dopo le comunica-
zioni rese da Guido Crosetto in parlamento, il decreto legge emanato per protrarre
il sostegno militare all’Ucraina fno alla fne del 2023 è stato approvato da Senato e
Camera senza alcun problema. Anche se sono stati chiamati in causa alti princìpi
morali, peraltro non di rado ignorati in altri contesti, a decidere in questa direzione
è stata la ragion di Stato, che imporrà la prosecuzione di questa politica fnché non
tornerà la pace.

199
LA GUERRA CONTINUA

IL SECOLO
DELLA TURCHIA? di Daniele SANTORO

La guerra in Ucraina offre a Erdoãan l’occasione di emanciparsi


dalla morsa euroamericana. L’Anatolia come connettore
commerciale ed energetico fra Asia, Europa e Africa. L’intesa
tattica con Mosca. Ma la partita esistenziale è con la Grecia.

1. I
L 28 OTTOBRE 2022, ALLA VIGILIA DEL
novantanovesimo anniversario della fondazione della repubblica, Recep Tayyip
Erdoãan ha proclamato uffcialmente l’avvento del «secolo della Turchia», declinan-
do contestualmente «spirito, flosofa ed essenza» di una «visione» che si annuncia
compiutamente imperiale. Perché si vuole volta innanzitutto a lenire le piaghe dei
perseguitati, a proteggere gli oppressi, a governare equanimemente le molteplici
anime dell’impero in gestazione. «Il musulmano che viene emarginato a causa
della sua fede, il curdo che viene discriminato per la sua lingua, l’alevita che viene
oppresso in ragione della sua identità, i fgli cristiani ed ebrei di queste terre che
sono esposti all’ingiustizia» 1. Con l’obiettivo di ricomporre le innumerevoli faglie
anatoliche, compattare l’elemento umano del nucleo territoriale dell’impero, miti-
gare le vulnerabilità antropologiche della Turchia. Per poi esportare nelle periferie
imperiali tale modello di giustizia, che il presidente turco immagina intrinsecamen-
te attraente per le masse arabe e balcaniche orfane di uno Stato che sappia tute-
larne le necessità primarie e incoraggiarne le aspirazioni. Nemesi ottomana in
piena regola.
La visione del «secolo della Turchia» è l’ultima manifestazione ideale delle ine-
stirpabili ambizioni imperiali dei turchi repubblicani, che grazie alle dinamiche in-
nescate dalla guerra russo-americana in Ucraina hanno infne assunto una tangibi-
le dimensione geopolitica. Dalla prospettiva di Ankara il confitto ucraino è stato
testimonianza epifanica dell’ineluttabile destino imperiale, l’atteso evento trasfor-
mativo che ha permesso alla repubblica fondata da Mustafa Kemal di liberarsi
dalle redini con le quali europei e americani ne imbrigliarono le aspirazioni dopo
le due guerre mondiali. La Turchia attendeva con angoscia tale opportunità quan-

1. «Erdoãan declares “Century of Turkey vision”, signaling new constitution», Duvar, 28/10/2022. 201
IL SECOLO DELLA TURCHIA?

tomeno dagli anni Ottanta, come dimostra ad esempio l’incosciente spregiudicatez-


za con la quale si è gettata nella mischia delle «primavere arabe». E soprattutto la
disinibita determinazione con cui Erdoãan è risorto dalle potenzialmente esiziali
sconftte subite in Egitto e in Siria. Testimoniata dalla stretta di mano a Doha con il
rivale egiziano al-Sîsî e dall’annunciato proposito di legittimare il siriano al-Asad.
A differenza della fne della guerra fredda e delle «primavere arabe», il confitto
ucraino ha fnalmente permesso alla Turchia di valorizzare i fondamentali geopo-
litici sviluppati con costanza negli scorsi decenni. In primo luogo la potenza mili-
tare, reifcata negli ormai leggendari droni da combattimento Bayraktar Tb2. Status
symbol prima ancora che strumenti bellici. Ma i velivoli a pilotaggio remoto ago-
gnati dalle Forze armate di mezzo mondo – tanto che il presidente turco lamenta
di non poterne produrre a suffcienza per soddisfare la crescente richiesta – sono
solo la punta dell’iceberg anatolico, la cui massa è composta dai sistemi d’arma di
produzione autoctona (missili, radar, artiglieria «intelligente», veicoli corazzati, siste-
mi di difesa aerea) che hanno permesso alla Turchia di imporsi sui campi di batta-
glia afro-eurasiatici, dal Nord Africa al Caucaso passando per il Levante. E di ali-
mentare la tumultuosa crescita delle esportazioni di armamenti, tanto che tra il
2012 e il 2021 Ankara ha fatto registrare il maggior tasso di crescita relativa
dell’export di armi. Riducendo in modo altrettanto pronunciato le importazioni,
quindi la dipendenza dai rivali 2. Tendenza destinata ad assumere carattere struttu-
rale in virtù della sempre più impetuosa dinamicità dell’industria bellica anatolica,
ormai in grado di produrre fregate, missili a lungo raggio, aerei da guerra senza
pilota. E nel prossimo futuro anche carri armati (Altay) e aerei da guerra di quinta
generazione (Tf-x).
La dinamicità dell’industria bellica è conseguenza diretta degli impressionanti
progressi in campo scientifco-tecnologico, che hanno per esempio consentito l’ap-
plicazione ad ampio raggio dei sistemi a pilotaggio remoto – vedi l’entrata in ser-
vizio delle navi da superfcie senza pilota (Ulaq) – e lo sviluppo del prototipo di
automobile volante (Cezeri), i cui primi esemplari per scopi ricreativi dovrebbero
essere commercializzati nel prossimo biennio. Così come della costante crescita del
potenziale industriale, commerciale e infrastrutturale, al netto della contingente
crisi monetaria. Lo scorso anno l’export turco ha fatto segnare un nuovo record
assoluto, aumentando del 13% rispetto al 2021 3. Nel giorno del novantanovesimo
anniversario della fondazione della repubblica Erdoãan ha inaugurato la fabbrica
nella quale verrà prodotta la prima automobile made in Türkiye (Togg) 4. Inoltre,
le scoperte di ingenti giacimenti di gas nel Mar Nero 5 e di petrolio nel Sud-Est
anatolico 6 – alle quali va aggiunto il rinvenimento della seconda maggior riserva di
2. D. SOYALTIN-COLLELA, T. DEMIRYOL, «Unusual middle power activism and regime survival: Turkey’s dro-
ne warfare and its regime-boosting effects», Third World Quarterly, 10/1/2023.
3. «Turkey’s exports hit record $254 bln in 2022 -Erdogan», Reuters, 2/1/2023.
4. B. ÜNVEREN, «Turkey launches TOGG car, Erdogan’s prestige project», dw.com, 30/10/2022.
5. «Turkey’s natural gas fnd in Black Sea now comes to 710 bcm -Erdogan», Reuters, 26/12/2022.
6. S. NADIG, «Turkish Petroleum discovers oil worth $12bn in Mount Gabar», Offshore Technology,
202 15/12/2022.
LA GUERRA CONTINUA

terre rare nella provincia di Eskiúehir 7 – permetteranno ad Ankara di ridurre già nel
breve periodo la dipendenza energetica dall’estero, con inevitabili effetti sul saldo
della bilancia commerciale. Anche in considerazione del ruolo sempre più centrale
che la Turchia è destinata ad assumere nel mercato del gas in conseguenza della
potenziale realizzazione nella Tracia orientale dello hub energetico proposto dal
presidente russo Vladimir Putin. Le cospicue risorse – non solo e non tanto econo-
miche – convogliate nello sviluppo di infrastrutture strategiche (ferrovia Baku-Tbli-
si-Kars, alta velocità nell’occidente anatolico, Marmaray) hanno poi permesso ad
Ankara di divenire snodo logistico quasi imprescindibile tra Cina ed Europa e di
aumentare proporzionalmente il suo potere di interdizione geopolitico. Che Er-
doãan intende accrescere ulteriormente mediante la realizzazione di Canale
Istanbul, esplicitamente citato nel discorso sul «secolo della Turchia».
I progressi materiali sono stati alimentati e hanno a loro volta alimentato la
pervasività del soft power anatolico, il cui potere di fascinazione ha permesso ad
Ankara di generare un marchio originale e perfettamente distinguibile. Dotato di
recente di un logo che intende manifestare l’autonomia strategica raggiunta dalla
Turchia. O meglio Türkiye, toponimo che Erdoãan ha imposto alle Nazioni Unite
in sostituzione di Turkey 8. Uffcialmente per ragioni di ambigua omonimia ornito-
logica 9, concretamente come esibizione di nazionalismo imperiale. Il cui successo
è testimoniato dalla decisione del dipartimento di Stato – dietro formale richiesta
dell’ambasciata turca a Washington – di accogliere la variazione toponomastica 10.
Viziata a monte da una (solo apparente) contraddizione strutturale. Türkiye è infat-
ti tarda turchizzazione del toponimo Turchia, con il quale i mercanti italiani battez-
zarono l’Anatolia nel XII secolo e che nelle sue varianti divenne di uso comune in
Europa. Talmente estraneo alla tradizione turca che ancora vent’anni dopo la fon-
dazione della Repubblica di Turchia (Türkiye Cumhuriyeti) era largamente diffusa
la pronuncia «Türkiya», tanto che nel 1950 la Grande Assemblea Nazionale dovette
approvare un’apposita legge sulla pronuncia del nome dello Stato. «In verità – scri-
ve ølber Ortaylı, massimo storico turco vivente – battezzare così il nostro paese è
stato piuttosto bizzarro, perché a chiamarlo con questo nome non furono i nostri
antenati ma gli italiani, che lo conoscevano benissimo. I nostri antenati lo chiama-
vano terra di Roma (øklim-i Rum), il loro obiettivo era conquistare l’impero roma-
no». In altri termini, «quella che gli italiani chiamavano Turchia per i nostri antena-
ti era Roma» 11. Il logo della potenza anatolica – che si immagina imperiale – origi-
na dunque dalla vittoria del colonialismo toponomastico occidentale, che simbo-
leggia la transizione dall’impero (Roma) allo Stato nazionale (Turchia). Sconftta
che nella coscienza anatolica è tuttavia al contempo passaggio vitale che ha per-
messo ai turchi di preservare la loro indipendenza, dal momento che la fne dell’im-

7. «Turkey touts discovery of world’s 2nd-largest rare element reserve», Daily Sabah, 12/7/2022.
8. «Turkey wants to be called Türkiye in rebranding move», bbc.com, 2/6/2022.
9. «Why Turkey is now ‘Turkiye”, and why that matters», Trt Word, 13/12/2021.
10. C. CHUNG, «For the State Department, Now It’s Türkiye, Not Turkey», The New York Times, 5/1/2023.
11. ø. ORTAYLI, Türklerin Tarihi (Storia dei turchi), østanbul 2016, Timas Yayınları, pp. 19-21. 203
204
L’ACCORDO MARITTIMO TRA TURCHIA E LIBIA T U R C H I A
M ar M edit er rane o G R ECI A
Rifornimenti di armi,
miliziani dalla Siria
TU NISIA e logistica dalla Turchia
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IL SECOLO DELLA TURCHIA?

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libico e alleati (Haftār)
Kufra Appoggiato da:
NIG ER E.A.U., Egitto, Russia e Francia
Gna - Governo di accordo nazionale
Area di forti scontri e alleati (al-Sarrāğ)
Appoggiato da: Turchia, Italia, Usa,
EUNAVFORMED IRINI Regno Unito, Algeria, Qatar
Grecia e Italia si alternano ogni sei mesi al CIA D
comando in mare della missione Ue incaricata
di applicare l’embargo sulle armi alla Libia, che Milizie locali (tebu e tuareg)
sconta però l’ostilità turca e una componente S UDAN
navale sottodimensionata. Brigate di Misurata
LA GUERRA CONTINUA

pero non implicava automaticamente la nascita di uno Stato in grado di preservare


la propria sovranità. Türkiye esprime dunque un concetto estraneo alla tradizione
turca, che per necessario interesse i turchi hanno fatto proprio fno a renderlo il
tratto distintivo della propria identità geopolitica. Esempio da manuale di turchiz-
zazione, processo culturale alla base dei successi imperiali conseguiti negli ultimi
due millenni dagli eredi degli unni.
Il marchio turco non guadagna peraltro popolarità solo nel dår al-Islåm o
nelle Afriche profonde. Una delle conseguenze più notevoli della guerra in Ucraina
è che le dinamiche da essa innescate hanno costretto le opinioni pubbliche e i
governi dei paesi europei a riconoscere il superiore rango geopolitico della Tur-
chia, arbitro attivo ed esibizionista in un confitto nel quale i satelliti americani del
Vecchio Continente non hanno mai toccato palla.
I successi – e i fallimenti – della Turchia non possono essere ascritti unicamen-
te a Erdoãan, interprete ma non artefce delle dinamiche che hanno provocato
l’ascesa geopolitica dei discendenti degli ottomani. Queste ultime precedono l’av-
vento del presidente turco e sopravvivranno alla sua morte (politica). Ma in quan-
to incarnazione dello spirito turco, del destino manifesto simboleggiato dall’allego-
ria mitologica di Kızıl Elma, la fgura del Reis è oggi il più effcace strumento di soft
power forgiato nella fucina geopolitica anatolica. La retorica e le apparizioni di
Erdoãan scatenano un turbinio di variegati e contrapposti sentimenti nel resto
dell’umanità. Timore negli europei, preoccupazione negli americani, invidia nei
russi, curiosità nei cinesi, rispetto nei musulmani, ammirazione negli africani. Im-
pulsi il cui comune denominatore è la consapevolezza che i voleri del «dittatore»,
del «sultano» o della «guida del mondo islamico» non possono essere (più) ignorati.
Perché la fgura di Erdoãan – feticcio geopolitico che può suscitare disprezzo o
venerazione, ma non indifferenza – riverbera gli istinti e le ambizioni di una collet-
tività che in nome del patriottismo imperiale e dell’innata consapevolezza di non
poter sfgurare nel quotidiano confronto con i propri antenati ha non solo affron-
tato e superato prove potenzialmente letali, ma usato la sofferenza (in)direttamen-
te provocata dalle proprie grandiose aspirazioni per irrobustire le difese immunita-
rie e generare la resistenza necessaria ad alzare ulteriormente il livello della sfda
al resto del mondo.
Ed è proprio questo prezioso elemento umano la base della piramide che
culmina nelle vittorie militari ottenute grazie ai sofsticati droni da combattimento
e nella centralità geopolitica suggellata dalla guerra in Ucraina. L’origine del decen-
nale processo che ha permesso alla Turchia di affermarsi infne come potenza
globale a tutto tondo. Ankara è ancora incapace di competere alla pari con le
grandi potenze, ma è in grado di proiettare infuenza e interessi nell’intero pianeta.
Dall’Antartide alla Siberia, dalla Scandinavia alle Afriche profonde. Divenendo con-
testualmente il punto di riferimento informale delle medie potenze revisioniste,
come dimostrano ad esempio i rapporti sempre più intimi sviluppati con il Regno
Unito sotto il proflo commerciale, industriale e militare. E riuscendo a volgere a
proprio vantaggio la sua crescente indispensabilità per le grandi potenze, propo- 205
IL SECOLO DELLA TURCHIA?

nendosi a seconda delle circostanze come camera di compensazione, piattaforma,


sentinella, avamposto. Con il proposito di usare le necessità tattiche altrui per ali-
mentare i propri disegni strategici.

2. Il Caucaso meridionale è il contesto nel quale si sono manifestate in modo


più nitido la capacità di pianifcazione strategica della Turchia e l’abilità con la
quale Ankara, a differenza del passato, riesce a destreggiarsi con successo nella
competizione tra grandi potenze. È stata la combinazione di queste due attitudini
a permettere ai turchi di imporre la strategia del Corridoio centrale, rotta ferroviaria
che collega la Cina all’Europa lungo il percorso più breve, attraverso la steppa ka-
zaka, il Caspio, il Caucaso, l’Anatolia e il Bosforo. L’affermazione di tale direttrice
infrastrutturale è una delle conseguenze più strategiche della guerra ucraina, che
ha reso parzialmente inservibile il Nuovo ponte terrestre eurasiatico. Costringendo
la Repubblica Popolare e i paesi europei a esplorare rotte commerciali che aggirino
lo spazio russo-bielorusso. La capacità del Corridoio centrale è per il momento
pari a una frazione di quella della rotta settentrionale, ma le dinamiche innescate
dall’invasione russa dell’Ucraina e la determinazione con la quale Turchia, Azerbai-
gian e Kazakistan intendono potenziare la direttrice panturca ha aumentato enor-
memente l’appetibilità di quest’ultima per entrambi i poli dell’Eurasia. Tanto che
Pechino è stata indotta a integrare di fatto il Corridoio centrale nelle nuove vie
della seta, sostituendo con tale rotta il passaggio mediano imperniato sulla piatta-
forma iraniana. Dinamica che ha consentito ad Ankara di posizionarsi al centro del
grande gioco logistico eurasiatico 12.
La Turchia ha iniziato a immaginarsi in tale condizione geopolitica in tempi
non sospetti. Già nel 1997 a Istanbul si tenne una conferenza dal titolo «Vie della
seta 2000» nella quale – alla presenza dell’allora presidente della Repubblica Sül-
eyman Demirel – vennero delineati alcuni dei grandiosi progetti infrastrutturali poi
realizzati da Erdoãan 13. Contestualmente, Ankara si pose il problema di come so-
stanziare le proprie ambizioni eurasiatiche, individuando due obiettivi prioritari:
raggiungere una posizione egemonica nel Caucaso legando a sé l’Azerbaigian e
attirare l’attenzione della Cina. In entrambi i casi la Turchia ha giocato partite di
lungo periodo non prive di rischi, iniziate quasi in contemporanea.
Il 10 ottobre 2009 i presidenti turco e armeno Abdullah Gül e Serž Sargsyan
frmarono a Zurigo dei protocolli sulla normalizzazione delle relazioni bilaterali
che non facevano menzione della questione del Nagorno Karabakh. Quattro
giorni dopo i due capi di Stato assistettero insieme alla partita di calcio tra Tur-
chia e Armenia, valida per le qualifcazioni ai Mondiali sudafricani, che si dispu-
tava a Bursa. Prima dell’inizio del match la polizia vietò agli ultras turchi di in-
12. T. ELDEM, «Russia’s War on Ukraine and the Rise of the Middle Corridor as Third Vector of Eurasian
Connectivity», Swp Comment n. 64, ottobre 2022.
13. U. ERGUNSÜ , «øpek Yolu’nun Yeniden Canlandırılması ve Türkiye - Çin Halk Cumhuriyeti øúbirliãine
Etkileri» («La rivitalizzazione della via della seta e i suoi effetti sulla cooperazione tra Turchia e Repub-
206 blica Popolare Cinese»), Türkiye Yazarlar Birliãi, 31/10/2017.
LA GUERRA CONTINUA

trodurre nello stadio bandiere azerbaigiane. Baku reagì in modo manifestamente


nervoso ai due eventi. Il presidente ølham Aliyev minacciò di tagliare i fussi di
gas verso l’Anatolia e ordinò la rimozione della bandiere turche dal sacrario dei
soldati ottomani morti durante la guerra d’indipendenza del 1918. L’Azerbaigian
percepiva nitidamente il rischio di essere abbandonato dalla Turchia e di dover
combattere in solitudine la vitale battaglia contro il nemico armeno. Sentimento
che creava il contesto ideale per l’ingresso in scena di Erdoãan, il quale in occa-
sione della visita a Washington del dicembre 2009 fece saltare la normalizzazio-
ne turco-armena e rilanciò la cooperazione con Baku. Con un caveat implicito
rispetto al passato: in assenza di un progressivo ma costante allineamento delle
rispettive strategie nazionali, Ankara si riservava di giocare la carta armena con-
tro la repubblica sorella. È sulla base di questo presupposto che nell’ultimo de-
cennio l’Azerbaigian ha iniziato a gravitare con sempre maggiore intensità
nell’orbita anatolica. Dinamica suggellata dalla profonda cooperazione militare a
sua volta culminata nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, in conseguenza
della quale l’Azerbaigian ha (ri)conquistato il territorio irredento e la Turchia ha
conquistato l’Azerbaigian.
Pochi mesi prima della frma dei protocolli di Zurigo, nel luglio 2009, Er-
doãan apriva la partita con la Cina defnendo in termini di «genocidio» la repres-
sione da parte di Pechino delle proteste uigure scoppiate a Ürümqi qualche
giorno prima. Iperbole geopolitica che permise all’allora primo ministro turco –
che stavolta vestì i panni del poliziotto cattivo, lasciando indossare quelli del
poliziotto buono al ministro degli Esteri Ahmet Davutoãlu – di attirare l’attenzio-
ne dei cinesi, di renderli consapevoli della potenziale capacità di Ankara di in-
trodursi nelle dinamiche interne al Xinjiang/Turkestan orientale, ventre molle
della Repubblica Popolare. Intenzione ribadita negli anni successivi mediante il
trasferimento di qualche migliaio di uiguri dalla «culla della civiltà turca» all’Ana-
tolia, e da qui in Siria. Migrazione che mandò su tutte le furie Pechino, preoccu-
pata dalla prospettiva che la Turchia, al momento opportuno, avrebbe potuto
invertire il fusso e spedire i combattenti uiguri induriti dal jihåd siriano in Afgha-
nistan, da dove avrebbero potuto destabilizzare il Xinjiang. Come i protocolli di
Zurigo, anche l’intrusione nel Turkestan orientale era una mossa tattica volta al
perseguimento di un fne strategico di natura diametralmente opposta rispetto
alle implicazioni immediate dell’iniziativa. Attirata l’attenzione di Pechino, Er-
doãan smussò ben presto la retorica anticinese per poi abbandonare gli uiguri al
proprio destino. Veicolando il messaggio che l’obiettivo della Turchia era svilup-
pare profcue relazioni di collaborazione con la Cina, ma che in assenza di reci-
procità la Repubblica Popolare avrebbe pagato un conto particolarmente salato.
Sulla base di queste premesse, a partire quantomeno dal fallito golpe del 15 lu-
glio 2016 la cooperazione sino-turca ha guadagnato un impeto senza preceden-
ti. Tanto che nel giugno 2021, alla vigilia del primo faccia a faccia tra Erdoãan e
Biden, Xi Jinping arrivò a inflare nelle tasche del presidente turco quasi quattro
miliardi di dollari per rafforzarne la posizione negoziale nei confronti dell’omo- 207
208
I colli di bottiglia
LA MARCIA TURCA 1
1 Kerč’
Tar Mar Nero
Ma an 2 Bosforo
rs to 2
axl
2 3 Ankara
Bis ok
k( Mar 3 Dardanelli
er t
a MA 1 Aliağa (İzmir) TURC HI A Caspio
LT Konya 4 Gibilterra
4 5 A)
TUN. 3 6 7 8 5 Stretto di Sicilia
IL SECOLO DELLA TURCHIA?

Sfax
6 Mare di Creta
Tājūrā’
Oceano Tripoli 4 5 Misurata
6 7 Dodecaneso
Atlantico al-Watiyya
. 9 8 Golfo di Alessandretta
ALG ER IA 9 Canale di Suez

LI BIA 10 Bāb al-Mandab

Ma
r
Ramo atlantico

Ro
Ramo indo-pacifco
M A LI ss o
Corridoio del Mediterraneo centrale
Sawákin 9
NIG ER
Dakar 7 SENEGAL
SUDA N
GAMBIA 10

S O MA LIA
Infrastrutture costruite o controllate dalla Turchia E T IO PIA
1 Porto di Aliağa Origine del corridoio afro-oceanico Oceano
2 Porto di Taranto della Turchia Indiano
3 Porto di Malta Sbocchi oceanici dell’Anatolia
4 Aeroporto internazionale di Mitiga (Tripoli) Snodi imprescindibili del corridoio 8 Mogadiscio
5 Aeroporto militare e base navale di Misurata afro-oceanico della Turchia KE NYA
6 Base aerea di al-Watiyya Paesi di rilevanza strategica per il
corridoio afro-oceanico della Turchia
7 Aeroporto internazionale Blaise Diagne di Dakar
Arco d’interdizione mediterraneo
8 Aeroporto internazionale e porto commerciale di Mogadiscio della Turchia - Zee turca
9 Progetto di base militare turca sul Mar Rosso Arco d’interdizione mediterraneo TA NZAN IA
Centri di addestramento delle Forze armate libiche della Turchia - Zee libica
LA GUERRA CONTINUA

logo americano 14. In quella fase, la marcia turco-azerbaigiana veniva già scandi-
ta dallo slogan «un solo esercito» 15. E da alcuni mesi i treni merci avevano preso
a fare la spola tra Çerkezköy (Tekirdaã) e Xi’an 16.
Al momento dell’invasione russa dell’Ucraina la Turchia aveva dunque già
creato i presupposti strategici di un’iniziativa che per compiersi pienamente aveva
tuttavia bisogno di uno scossone geopolitico in grado di smuovere defnitivamente
gli attori coinvolti. In primo luogo la Cina, forzata dagli eventi ad avvalersi del
Corridoio centrale, dunque a riconoscere ad Ankara un ruolo sempre più cardina-
le nel proprio progetto imperiale. Ma a garantire il successo dell’iniziativa è stata
soprattutto la capacità della Turchia di inserirsi con successo nelle contese tra gran-
di potenze, di interpretare correttamente la natura dell’impatto della guerra su
queste ultime. Ankara ha innanzitutto colto il desiderio degli Stati Uniti di aprire un
secondo fronte con la Russia, offrendosi come avanguardia americana nel Caucaso
meridionale e consentendo alla superpotenza di estromettere i russi dal proprio
cortile di casa. Contestualmente, Erdoãan ha approfttato delle frizioni tra Mosca e
Pechino generate dall’impatto delle sanzioni sui commerci eurasiatici, proponen-
dosi alla Cina come alternativa per ridurre la dipendenza infrastrutturale dalla piat-
taforma russa. E solleticando la brama cinese di incunearsi nell’impero americano
offrendo a Pechino l’opportunità di sviluppare rapporti sempre più strategici con
un paese membro della Nato. Consapevole che gli Stati Uniti lasciano fare perché
convinti che l’aumento dell’infuenza turca in Asia centrale porterà inevitabilmente
Ankara e Pechino alla rotta di collisione nel medio periodo, tanto che gli strateghi
washingtoniani spingono strumentalmente i turchi a proiettarsi verso la «Cina occi-
dentale» fn dagli anni Novanta 17. A differenza di quanto avvenuto tra il 2011 e il
2016 in Siria – dove è rimasta schiacciata nello scontro tra Usa e Russia – nel Cau-
caso meridionale la Turchia è riuscita a manipolare a proprio vantaggio le grandi
potenze e i loro interessi, rendendosi indispensabile a cinesi e americani e premu-
randosi di compensare i russi su un altro fronte.

3. Da almeno quindici anni la Siria è il laboratorio nel quale Ankara testa i


propri approcci regionali. È stata la riconciliazione con al-Asad a far germogliare la
politica degli «zero problemi con i vicini». È stato lungo il medio corso dell’Eufrate
che si sono palesati i limiti dell’alleanza mediorientale con gli Stati Uniti, infrantasi
a causa della riluttanza americana a rovesciare il regime di Damasco come promes-
so a Erdoãan da Obama e del successivo ricorso della superpotenza al Pkk quale
agente di prossimità nell’oriente siriano. Ed è stato sempre in Siria che ha preso
forma la cooperazione competitiva tra Ankara e Mosca, tuttora uno dei fattori fon-
damentali della geopolitica eurasiatica.
14. «Erdogan says Turkey has raised FX swap deal with China to $6 bln», Reuters, 13/6/2021.
15. «“øki Devlet, Tek Ordu”ya Doãru: Kardeú Tugay» («La brigata fraterna: verso i “due Stati, un solo
esercito”»), savunmasanayi.org, 5/9/2021.
16. «1st China-bound freight train departs on 12-day journey from Istanbul», Daily Sabah, 4/12/2020.
17. G. FULLER, I.O. LESSER, P. HENZE, J.F. BROWN, Turkey’s New Geopolitics: From The Balkans To Western
China, Boulder 1993, Westview Press. 209
IL SECOLO DELLA TURCHIA?

Le manovre levantine sono dunque il prisma attraverso il quale scrutare la


traiettoria strategica della Turchia. È in quest’ottica che si può apprezzare l’impor-
tanza della tentata riconciliazione con il regime di al-Asad, dinamica che indipen-
dentemente dal suo esito avrà ripercussioni che prescinderanno dallo specifco
contesto siriano. Il processo è stato avviato lo scorso settembre con l’incontro a
Damasco tra il capo dei servizi segreti turchi Hakan Fidan e la sua controparte si-
riana ‘Alî Mamlûk e consolidato a dicembre dal primo faccia a faccia dal 2011 tra i
ministri della Difesa dei due paesi, avvenuto a Mosca e mediato da Sergej Šojgu. A
gennaio il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuúoãlu ha inoltre annunciato che
a febbraio incontrerà il suo omologo siriano 18, alimentando una tendenza che nel-
le intenzioni di Ankara è apparentemente destinata a culminare in una «storica»
stretta di mano tra al-Asad ed Erdoãan, il quale in più occasioni si è detto disponi-
bile a chiudere la faida con il capo del regime damasceno.
Mentre la marcia russa su Kiev si risolveva in un’ingloriosa disfatta era convin-
zione comune che la Turchia avrebbe approfttato delle diffcoltà ucraine di Mosca
soprattutto nel campo di battaglia siriano, costringendo il Cremlino ad approvare
l’ennesima incursione a cavallo dell’Eufrate. O addirittura sfdando la Russia, for-
zandola a esporre la propria debolezza. A maggio dello scorso anno Erdoãan ali-
mentò tale impressione annunciando un’imminente operazione di terra a Manbiã
e ancora a novembre – mentre i droni e gli F-16 turchi bombardavano le postazio-
ni del Pkk nell’alta Siria – l’ingresso dei Mehmetçik nella sacca che separa i posse-
dimenti neo-ottomani a ovest e a est dell’Eufrate sembrava solo questione di tem-
po. Il presidente turco ha invece tirato il freno a mano, scegliendo strumentalmen-
te di tenere in debito riguardo gli interessi e le preoccupazioni di Mosca. Investi-
mento che nel medio periodo può produrre dividendi molto più cospicui dell’an-
nessione di un ulteriore pezzetto di territorio siriano.
La mossa conservativa di Ankara è fglia di una lettura propriamente strategica
delle dinamiche in corso al proprio confne meridionale. I turchi sono perfettamen-
te consapevoli che la presenza militare russa e americana in Siria ha natura contin-
gente e che tanto Mosca quanto Washington nutrono seri dubbi sull’affdabilità dei
regimi di prossimità ai quali intendono affdarsi per mantenere la presa sulle rispet-
tive sfere d’infuenza una volta ritirati i contingenti militari. L’amministrazione curda
del Nord-Est fa acqua da tutte le parti ed è destinata a collassare non appena gli
americani smetteranno di difenderla fsicamente, anche e soprattutto a causa delle
faide interne. Sorte analoga a quella di cui i russi temono possa essere vittima il
regime di al-Asad, che ha vinto la guerra ma che a causa del dissesto economico e
sociale provocato dalla stessa sembra strutturalmente incapace di vincere la pace.
La riconciliazione con il presidente siriano è dunque un astuto tentativo di ap-
profttare della debolezza della Russia senza indisporre ulteriormente Putin, anzi
delineando una prospettiva di cooperazione in grado di soddisfare i rispettivi inte-
ressi. La ripresa delle relazioni economiche turco-siriane e del fusso di investimenti

210 18. «Turkish foreign minister says he could meet Syrian counterpart in early February», Reuters, 12/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

turchi verso la Siria – di cui Ankara nel 2011 era primo partner commerciale – sareb-
be in grado di aumentare esponenzialmente le possibilità di sopravvivenza del regi-
me. Permettendo alla Russia di continuare a disporre di un governo amico nel Le-
vante e degli avamposti militari di ¡ar¿ûs e Õumaymøm con il minimo dispendio di
energie. E consentendo alla Turchia di tornare a proiettare in Siria un’infuenza
egemonica, di rifare di al-Asad il governatore arabo di un vilayet di fatto turco. A
condizioni molto più stringenti rispetto a dodici anni fa.
Tale prospettiva preoccupa non poco gli americani, consapevoli che la propria
intransigenza siriana nei confronti della Turchia riposa sulla rivalità tra Ankara e
Damasco e sulla conseguente inconciliabilità delle posture turca e russa di medio
periodo. La rappacifcazione tra Erdoãan e al-Asad indebolirebbe dunque la posi-
zione di Washington, soprattutto perché la normalizzazione turco-siriana non po-
trebbe prescindere da un accordo volto a combattere più o meno congiuntamente
gli agenti di prossimità della superpotenza a est dell’Eufrate. In un contesto nel
quale gli Stati Uniti hanno opzioni molto limitate, non potendo bilanciare l’intesa
turco-russa arruolando l’altro escluso, l’Iran. A sua volta consapevole di non poter
oscillare tra Washington e Mosca come Ankara, travolto dalle convulsioni interne
e dunque costretto a fare buon viso a cattivo gioco, a elemosinare le briciole dal
tavolo di Erdoãan e Putin. Stimolare la reazione della superpotenza è d’altra parte
uno degli obiettivi insiti nell’accennata riconciliazione con al-Asad, mediante la
quale la Turchia punta a indurre gli americani a rivedere la propria politica siriana.
Per scongiurare l’allineamento turco-russo nel Levante. E soprattutto per evitare
che tale allineamento evolva in un’intesa più strutturale, come lascia ad esempio
intendere la proposta di Putin di creare nella Tracia orientale uno hub energetico
che permetterebbe ai turchi di (ri)vendere agli europei il gas russo che transitava
attraverso Nord Stream.
Naturalmente la Turchia non intende mettere tutte le uova anatoliche nel pa-
niere di al-Asad. Anche in caso di scenografca stretta di mano a Mosca tra Erdoãan
e il presidente siriano, è alquanto improbabile che Ankara e Damasco raggiungano
un accordo reciprocamente soddisfacente sulle questioni più spinose: rimpatrio dei
profughi, sorte dei territori conquistati dalle Forze armate turche, azioni congiunte
contro il Pkk, modalità della ricostruzione. Nel caso in cui il processo di riconcilia-
zione si arenasse, l’intesa turco-russa sulla cogestione della Siria salterebbe e ver-
rebbe meno anche la minaccia all’infuenza americana nell’Oriente siriano. Ma la
Turchia resterebbe comunque in vantaggio.
Nella sua dimensione minimalista la tentata riconciliazione con al-Asad è infatti
un espediente tattico per mettere i russi con le spalle al muro. Putin riconosce ormai
da anni la legittimità delle preoccupazioni turche e la necessità di Ankara di allonta-
nare la minaccia terroristica dal proprio confne, ma continua a chiedere strumental-
mente a Erdoãan di affdare al regime damasceno il compito di «ripulire» il territorio
siriano dal Pkk. Nell’illusione che il presidente turco non si sarebbe potuto spingere
a normalizzare i rapporti con il suo rivale regionale per eccellenza. Bevendo l’amaro
calice assadiano, Erdoãan intende dunque prendere i russi in contropiede. Consape- 211
212
Bosnia

Kosovo Mar
Macedonia M ar N er o
C as pi o
del Nord İstanbul GEORGIA
(capitale della confederazione) Batumi
IL SECOLO DELLA TURCHIA?

Albania ARM AZERBAIGIAN


ENI AZERBAIGIAN
Ankara A

T U R C H I A

Nahçivan
(Regione autonoma
M ar M edi ter r an eo CIPRO NORD
dell’Azerbaigian)
SIRIA Corridoio
Punto di contatto di Zangezur
delle Zee turca e libica IRAQ

Golfo
L I B I A Persico
(Riunifcata)

Stati Uniti di Turchia


Territori del Patto nazionale
Mar Stati “confederati”
Rosso Stati satellite
Accordo marittimo Estensione della sovranità
Turchia-Tripoli
marittima nella “Patria blu”

2053 - STATI UNITI DI TURCHIA


LA GUERRA CONTINUA

vole che in caso di fallimento del processo di riconciliazione Putin non avrebbe più
pretesti per impedire ad Ankara di completare la zona di sicurezza al confne tur-
co-siriano, che in ragione dell’evoluzione dei rapporti di forza tra Turchia e Russia
innescata dalla guerra in Ucraina potrebbe assumere dimensioni ben più ampie di
quelle fnora pubblicizzate dal Reis. In caso contrario i russi dovrebbero assumersi
la responsabilità di rompere l’intesa tattica con i turchi. In una fase in cui non pos-
sono permetterselo, stante la crescente dipendenza dalla Turchia. Piattaforma vitale
per aggirare le sanzioni occidentali, sentinella delle vie d’acqua che per Mosca rap-
presentano l’unica via d’uscita dal contenimento americano, snodo sempre più fon-
damentale dei fussi di gas provenienti dalla Federazione.
Indipendentemente dall’esito della tentata riconciliazione con al-Asad, Ankara
riuscirà dunque ad avanzare i propri interessi in Siria senza compromettere l’intesa
tattica con la Russia. Volgendo ulteriormente a proprio favore i rapporti di forza
con Mosca e riservandosi di poter continuare a oscillare tra americani e russi (e
cinesi) nei quadranti di prevalente interesse strategico. A eccezione dell’unico in
cui la posta in gioco è realmente vitale.

4. «Non pensate che se militarizzate le isole ce ne staremo seduti con le mani


in mano. Stai attento Mitsotakis, se fai qualcosa di sbagliato quei pazzi dei turchi
(ùu çılgın Türkler) reagiranno» 19. L’ennesima provocazione lanciata da Erdoãan
alla Grecia lo scorso 20 gennaio rivela la determinazione con la quale Ankara in-
tende conferire concretezza geopolitica alla dottrina della Patria blu, la crescente
disponibilità turca a ricorrere allo strumento militare per costringere i greci ad ac-
cettare una sistemazione più equa nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Annun-
ciata in termini inequivoci dal presidente turco a dicembre. «Se dici Tayfun (missi-
le balistico di produzione anatolica con gittata pari a 561 km, n.d.a), ai greci si
accappona la pelle. Dicono che colpirà Atene. Eee… certo che la colpirà» 20. L’e-
scalation retorica tra Turchia e Grecia prosegue ininterrottamente dallo scorso lu-
glio, quando a seguito della visita a Washington del premier greco Mitsotakis – che
entrò a gamba tesa nell’accennata riconciliazione turco-greca chiedendo agli ame-
ricani di non cedere gli F-16 ad Ankara – Erdoãan ha preso a minacciare quotidia-
namente il rivale egeo. Ricordando ai dirimpettai che i turchi arriveranno «di notte,
all’improvviso».
L’esuberante retorica del presidente turco è però anche indice di frustrazione,
sintomo della consapevolezza che nella vitale contesa con la Grecia la Turchia non
può ricorrere agli stessi espedienti tattici che le hanno permesso di estendere con
successo il proprio raggio d’azione imperiale nel Caucaso e in Nord Africa, nei
Balcani e in Medio Oriente, nelle Afriche profonde e in Asia centrale. Nella decisi-
va partita che si gioca nei mari di prossimità Ankara non può avvalersi della capa-
cità di destreggiarsi nella competizione tra grandi potenze, di manipolare le loro

19. «Cumhurbaúkanı Erdoãan’ın “Çılgın Türkler yürür” sözleri Yunan medyasına damga vurdu» («Le
parole di Erdoãan sui “pazzi turchi” sono state marchiate sui media greci»), Yeni ùafak, 21/1/2023.
20. «Erdoãan: Atina rahat durmazsa vururuz» («Se Atene non sta calma, colpiremo»), Sözcü, 11/12/2022. 213
IL SECOLO DELLA TURCHIA?

relative debolezze. La controversia egeo-mediterranea è questione interna all’impe-


ro americano, chiama direttamente in causa le dissestate relazioni bilaterali tra
Turchia e Stati Uniti, che hanno tracciato nelle acque della Patria blu il limite all’e-
spansionismo dell’ex alleato. Laddove in termini sostanziali a preoccupare gli ame-
ricani non sono la conquista degli spazi marittimi contesi con la Grecia o l’annes-
sione di qualche isola da parte della Turchia in quanto tali. Il problema sono le
implicazioni strategiche di tali dinamiche, che assesterebbero un colpo potenzial-
mente esiziale alla Nato. E verrebbero interpretate dentro e fuori dall’impero ame-
ricano come avvisaglia di guerre di successione.
Oggi sono le mire di Ankara nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale – più che
le intime relazioni turco-russe – a motivare gli ormai ciclici bracci di ferro tra
turchi e americani, che nella fase attuale hanno come posta in gioco la consegna
degli F-16 chiesti da Erdoãan nell’ottobre 2021. Compensazione per l’esclusione
della Turchia dal programma degli F-35 che malgrado l’apparente buona fede
dell’amministrazione Biden ha innescato una crisi quasi peggiore di quella che
avrebbe dovuto contribuire a risolvere, stante la perdurante opposizione del
Congresso a concedere ai turchi gli agognati – e nel breve periodo indispensabi-
li – aerei da guerra. È del tutto improbabile che la controversia si appiani prima
delle elezioni turche del 14 maggio. I media imperiali – dall’Economist al Wa-
shington Post – sono già entrati in campagna elettorale ed è palesemente invero-
simile che gli americani sovvenzionino la marcia presidenziale di Erdoãan con-
sentendogli di esibire i velivoli nei comizi anatolici. In ogni caso, gli F-16 verran-
no consegnati all’Aeronautica turca contestualmente alla cessione degli F-35 alla
Grecia. Vanifcando l’iniziativa di Ankara. Che di rimando continua a mettersi di
traverso all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato per segnalare alla superpo-
tenza la capacità di imporre il proprio volere anche all’interno dell’impero ame-
ricano. Facilitata nel compito dall’incomprensibile stoltezza del governo svedese,
il quale anziché smussare i toni della contesa come Helsinki – che a fne gennaio
ha approvato la prima licenza di esportazione di armamenti alla Turchia dal
2019 21 – benedice improbabili olocausti coranici e dissacrazioni della fgura di
Erdoãan.
Infne, probabilmente entro l’estate, l’Aeronautica turca riceverà gli F-16 e Sve-
zia e Finlandia entreranno nella Nato. Ma le relazioni turco-americane continueran-
no a essere soggette a scossoni di magnitudo imprevedibile. Perché Washington è
consapevole che i turchi non stanno scherzando, che il proposito di rimodulare i
confni terracquei con la Grecia – presupposto indispensabile per volgersi in po-
tenza marittima, idealmente oceanica – non nasconde un bluff. E perché Ankara è
specularmente cosciente che in questo caso deve andare a vedere le carte della
superpotenza, dare una prova di forza che sveli l’effettiva (in)disponibilità degli
Stati Uniti a sostanziare – anche militarmente – il contenimento del proprio espan-
sionismo imperiale sui mari. Operazione che richiede un’abbondante dose di luci-

214 21. «Finland OKs 1st military exports to Türkiye since 2019 amid NATO row», Daily Sabah, 25/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

da follia, non a caso richiamata da Erdoãan nella stilettata retorica riflata ai greci il
20 gennaio. E il momento propizio si avvicina.
Il 29 ottobre 2023 ricorre il centenario della repubblica, evento di cui il presi-
dente turco ha gonfato a dismisura l’importanza geopolitica. Creando aspettative
che non si può permettere di disattendere, facendolo paradossalmente coincidere
con l’attesa resurrezione dell’impero. La quale a sua volta si traduce inevitabilmen-
te nell’abiura del trattato di Losanna del 1923. Da anni sconfessato pubblicamente
dai vertici dello Stato turco, che rinnegano ormai apertamente la costituzione geo-
politica della repubblica di cui sono rappresentanti. Nella consapevolezza che il
battesimo del «secolo della Turchia» non potrà che essere celebrato al funerale di
Losanna.

215
LA GUERRA CONTINUA

NON ISOLIAMO
I BALCANI POLITI di Alessandro

Sullo sfondo della guerra in Ucraina, il riaccendersi delle tensioni


tra Belgrado e Prishtina pone l’urgenza di una crisi irrisolta.
Nonostante i progressi restano ostacoli e un degrado sociopolitico
da affrontare. La Russia non può interferire più di tanto.

1. « LA DIFFERENZA TRA PATRIOTTISMO E


nazionalismo è semplice. Il primo ama la madrepatria, capisce le altre, a volte com-
batte per la libertà di altre. Il secondo no: disprezza, odia e opprime». Il discorso
tenuto dal presidente serbo Aleksandr Vu0i© sul piano franco-tedesco per far avan-
zare la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Prishtina del 23 gennaio scorso
può essere interpretato come l’ennesima abile giravolta di un nazionalista 4.0, ma
in realtà segna un altro passo in avanti nella liberazione della Serbia dalle potenti
seduzioni del suo nazionalismo passato. È chiaro che sottolinea la protezione dei
cittadini serbi e della Serbia, che parla del Kosovo come di «Kosovo e Metohija» (la
locuzione standard per sottolineare l’appartenenza del Kosovo alla Serbia), che
vuole aprire al dibattito parlamentare e possibilmente a un referendum lo svolgi-
mento successivo delle trattative in modo da avere un buon pretesto per bloccarle.
Ma c’è anche una frase rivelatrice di quanta acqua sia passata sotto i ponti dal 1999:
«Abbiamo un periodo diffcile davanti e avremo bisogno di più sforzo e lavoro per
superarlo nel miglior modo possibile. È molto importante mostrare che vogliamo
pace, che vogliamo farla in futuro. Vi ricordo che Miloševi© pensò sino all’ultimo
che nessuna bomba sarebbe caduta: gli ci vollero molti giorni per comprendere
che davvero le bombe cadevano su tutta la Serbia» 1.
È un punto del discorso che fa capire in modo chiaro la necessità di essere
concreti e pragmatici di fronte a richieste pressanti dei maggiori partner politici ed
economici della Serbia, evitando di chiudersi in realtà parallele sconnesse dalla
situazione internazionale. Il nome dell’allora presidente Slobodan Miloševi© (morto
durante il processo all’Aia per crimini di guerra nel 2006) riporta a qualunque
ascoltatore serbo il suo discorso incendiario dalla torre del Gazimestan (il monu-

1. A. VU0I©, «Il piano per il Kosovo e Metohija è stato accettato da tutti i membri Ue», Rts, 23/1/2023. 217
NON ISOLIAMO I BALCANI

mento eretto sul luogo della battaglia di Kosovo Polje del 1389) nel seicentenario
della sanguinosa disfatta medievale. Il discorso che rivendicava il Kosovo come
culla imprescindibile della nazione e dell’identità serbe, contribuendo al fatale
cammino verso la guerra nel 1998-1999.
Il fascino forte della disfatta gloriosa che semina e segna per sempre il destino
ineluttabile di una nazione, costruendone l’identità, non è certo patrimonio di quel
paese soltanto. I francesi hanno la débâcle di Alesia (52 a.C.), migliorando poi il
mito nazionalista con la vittoria di Orleans (8 maggio 1429). I tedeschi hanno usa-
to la vittoria nell’imboscata di Teutoburgo (9 d.C.) come mattone per la costruzione
del loro nazionalismo e anche il fascismo si è ben guardato dal fare del massacro
di Canne (216 a.C.) il suo culto nazionalista, preferendo la vittoria contro il «barba-
ro infdo» Annibale a Zama (202 a.C.).
Bisogna continuare a constatare asciuttamente che nel XIX secolo sono state
gettate le basi di quei nazionalismi che hanno insanguinato per almeno un quarto
di millennio il mondo, costruendo miti identitari proiettati in un passato eroico e
praticamente avulso dalla storia concreta. Una coalizione disparata di galli non fa
un’orda di protofrancesi, le quadrate legioni non sono i soldati con le stellette, così
come una variopinta schiera di signori del tardo medioevo provenienti da Albania,
Bosnia, Epiro, Bulgaria, Grecia, Ungheria e anche Serbia non crea un esercito di
sempiterni serbi. Del resto è interessante notare che – passata la febbre nazionalista
fomentata da Miloševi© il giorno della celebrazione della battaglia, con un milione
stimato di presenti – dal 2017 si riuniscono poche centinaia di persone in un’atmo-
sfera da scampagnata sempre meno carica di simboli guerreschi, attorno a un mo-
numento assai poco curato per il resto dell’anno.
È certo che il preambolo della costituzione serba del 2006 contiene esplicita
menzione della provincia autonoma di Kosovo e Metohjia come parte integrante
della Serbia, sia pure dotata di sostanziale autonomia in linea di principio. Un
emendamento costituzionale, specie sulle materie più importanti (preambolo inclu-
so), deve essere approvato dai due terzi dell’Assemblea nazionale e può richiedere
un referendum popolare. Non è una strada agevole, ma nemmeno impossibile.
Ovviamente il mito di Kosovo Polje implica l’inalienabilità della culla della
nazione, circostanza fortemente e comprensibilmente emotiva che la storia si è
incaricata più volte di smentire: l’Italia non è meno italiana senza Nizza e Savoia,
la Germania resta tedesca anche senza l’Alsazia, la Lorena, la Slesia e la Prussia
Orientale e la Russia, più volte nella sua storia, si è dimostrata capacissima d’igno-
rare le sue radici secolari nel principato di Kiev. Nonostante le proprie ricorrenti
crisi, l’Unione Europea, nella quale tanto Belgrado quanto Prishtina vogliono en-
trare, è riuscita a sgretolare in molti paesi le croste nazionaliste, rendendo le fron-
tiere molto meno rilevanti rispetto al passato e permettendo a decisori politici e
popolazioni, grazie alla libertà di circolazione, di sganciarsi da pezzi di terra intrisi
di sangue per secoli, a favore di un’identità più mutevole e molto più resiliente di
quanto immaginassero le precedenti generazioni.
218
LA GUERRA CONTINUA

2. Al di là delle propagande, la questione del Kosovo è un affare di una transi-


zione di sovranità da un’entità politica a un’altra, duramente contestata. Nonostante
i paralleli del governo russo nelle sue schermaglie propagandistiche per sostenere
le sue varie entità de facto, il Kosovo non è ancora pienamente riconosciuto.
Il suo pieno riconoscimento ha tre ostacoli importanti: il primo è l’unanimità
dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Cina e Russia sono
contro o per motivi territoriali interni o per scelta politica), il secondo è la maggio-
ranza di 9 membri su 15 del Consiglio (tra permanenti e non) e il terzo il consenso
di 128 Stati sui 192 rappresentati nell’Assemblea Generale. Tra i paesi membri
dell’Unione europea ce ne sono 5 che, per motivi di politica interna, non vogliono/
possono riconoscere Prishtina (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna) e
quattro di questi sono anche membri della Nato. Tra le repubbliche succedute
all’ex Jugoslavia, la Bosnia-Erzegovina (a causa della Repubblica Srpska) e la Ser-
bia stessa non possono o non vogliono riconoscere il Kosovo. Dulcis in fundo,
Belgrado svolge un’attiva campagna, appoggiata dalla diplomazia russa, per indur-
re alcuni Stati a ritirare il riconoscimento a Prishtina e naturalmente contesta appe-
na può i dati sui riconoscimenti accordati alla controparte.
In parole povere, senza il pieno riconoscimento il Kosovo resta un paese so-
speso dove ancora contano una risoluzione del Consiglio di Sicurezza (la 1244,
datata 1999) e un coevo accordo tecnico-militare tra Kfor (Kosovo Force) e gover-
no serbo. La prima era una risoluzione che governava la transizione del nuovo
paese dalla guerra a un’amministrazione internazionale verso il pieno autogoverno.
Il secondo è un accordo che gestiva il ritiro delle forze serbe dal territorio del Ko-
sovo sotto la supervisione della Kfor e che resta ancora valido per i rapporti tra
quest’ultima e le Forze armate serbe lungo una linea di demarcazione che non può
ancora essere un confne internazionale riconosciuto.
A partire dal 2013 è stato lanciato da Bruxelles, sino a ieri con discreto succes-
so, un dialogo di normalizzazione tra Belgrado e Prishtina che però ha conosciuto
progressi parziali, ostacoli concreti e una battuta d’arresto l’anno scorso. Come in
tutti i dialoghi, si comincia dalla parte più facile per poi arrivare a quella più diff-
cile da far digerire alle proprie opinioni pubbliche.
I progressi parziali sono tutt’altro che trascurabili:
• libertà di movimento di persone e automezzi lungo la linea di demarcazione;
• scambio di documenti catastali e certifcati anagrafci tra le due amministrazioni;
• riconoscimento reciproco dei diplomi universitari;
• fne degli embarghi commerciali e accettazione di bolli delle istituzioni in
Kosovo per gli affari doganali;
• gestione integrata dei valichi tra i territori delle due entità politiche;
• uffci di collegamento dei due governi presso le missioni Ue;
• rappresentanza delle istituzioni in Kosovo nelle organizzazioni regionali;
• accordi per la trasmissione di energia elettrica;
• accordi per la creazione di un prefsso del Kosovo nella rete telefonica in-
ternazionale; 219
220
SVIZZERA L’ITALIA NELLA GUERRA
AUSTRIA
UNGHERIA CONTRO MILOŠEVIĆ
FRIULI
LOMBARDIA Aviano V. G.
Istrana SLOVENIA Zagabria
Vicenza Rivolto
Ghedi Sombor
VENETO CROAZIA Novi Sad
Villafranca
NON ISOLIAMO I BALCANI

Piacenza di Verona ROMANIA


EMILIA-ROMAGNA Banja Luka Batajnica Pančevo
Belgrado Smederevo
FRANCIA Cervia
BOSNIA-ERZ. SERBIA Požarevac
Rimini Valjevo
Sarajevo Čačak Kragujevac
Ancona Uzice Kraljevo Alcuni efetti dei bombardamenti
Mostar della Nato in Serbia e in Kosovo
Le 19 basi utilizzate per gli ITALIA MARCHE Kuršumlija Niš avvenuti tra aprile e giugno 1999
attacchi contro la Serbia nel 1999 Novi Pazar
(alcune solo per la logistica, per Grdelička Sombor
Mare Adriatico MONTENEGRO Distruzione di un ponte sul Danubio
le informazioni meteorologiche LAZIO KOSOVO Priština di collegamento tra Vojvodina
e per la copertura radar) e Croazia e di un deposito
Prizren
Portaerei Koriša di carburante
Pratica di Mare Amendola Garibaldi MACEDONIA Belgrado
DEL NORD Colpiti edifci governativi,
Grazzanise la sede del Partito comunista, la tv
Gaeta Pink, la tv di Stato, l’amb. cinese,
SARDEGNA Gioia del Colle PUGLIA un ospedale e la torre
ALBANIA della televisione
CAMPANIA Brindisi Novi Sad
Decimomannu Mar Tirreno Colpite rafnerie, la torre della
GRECIA televisione e tre ponti sul Danubio
Mar Ionio Kragujevac
Distruzione della fabbrica
automobilistica Zastava (Fiat)
Niš
Colpita la sede della 3ª armata serba
Trapani - Birgi Priština
Distrutta la torre della televisione,
SICILIA un quartiere residenziale e una
Repubblica Serba prigione
Sigonella
Confni marittimi Koriša
Colpita colonna di profughi kosovari
LA GUERRA CONTINUA

• integrazione del personale poliziesco, giudiziario e della pubblica istruzione


del Nord del Kosovo nelle istituzioni di Prishtina;
• smantellamento in linea di principio delle strutture parallele serbe nel Kosovo
settentrionale (alcune amministrative, altre di sicurezza a livello semiclandestino).
Ciononostante, tutti questi passi servono per arrivare a una piena normalizza-
zione politica con reciproco riconoscimento, conditio sine qua non per l’ingresso
di entrambi nell’Ue. La Serbia ha già cominciato il cammino di avvicinamento con
il negoziato sui vari capitoli dell’acquis europeo, ma segna il passo sulle questio-
ni più politiche. Il Kosovo invece è al palo anche per la presenza di Stati europei
che non lo riconoscono, anche se recentemente la presidenza ceca ha avanzato
la proposta concreta di liberalizzare i visti Schengen per i cittadini di Prishtina a
partire dal 1° gennaio 2024, adeguandoli a tutti gli altri paesi dei Balcani. L’ultima
crisi ha costituito un serio scacco perché i kosovari serbofoni si sono ritirati da
tutte le strutture delle istituzioni in Kosovo, sospendendo un importante risultato
raggiunto.

3. Gli ostacoli concreti hanno purtroppo anche un combinato disposto che


rinvia al problema dell’uovo e della gallina: sono i paesi dei Balcani occidentali a
non fare abbastanza riforme per entrare nell’Unione Europea oppure sono l’Unio-
ne Europea e i suoi governi a non avere tutta questa fretta di ammetterli? Allargare
non è una passeggiata, non porta necessariamente subito vantaggi ai membri pre-
esistenti e non è garanzia di rafforzamento generale (il che vale anche per la Nato,
ci piaccia o no). L’allargamento rapido agli ex paesi del Patto di Varsavia ha lascia-
to strascichi perduranti visibili a tutti e l’amaro in bocca sul potere democratizzante
ed etico-normativo dell’Unione in diversi casi; è inutile fare la lista delle reciproche
recriminazioni perché ben nota, ma non basta un’interfaccia grafca democratica
per superare un sistema operativo sovietico-nazionalista nelle teste di esponenti
politici formati in altri tempi. Quando l’ex presidente della Commissione Jean-Clau-
de Juncker lasciava intendere con riferimento ai Balcani che «non vogliamo impor-
tare i loro problemi» è ragionevole che pensasse a quanto già successo. È però al-
trettanto vero, prove empiriche alla mano, che un purgatorio ventennale non
avrebbe facilitato la riforma di classi dirigenti e società e, soprattutto, che non
avrebbe favorito ipso facto l’approfondimento delle strutture europee, come le
bocciature francese e olandese del trattato per una costituzione europea mostrano
in modo abbastanza chiaro (2005).
Le riforme necessarie, qualunque sia il governo, sono particolarmente diffci-
li da introdurre e soprattutto da applicare quando parti non trascurabili delle élite
post-jugoslave hanno spesso fatto del nazionalismo e della cattura dell’apparato
governativo i loro cavalli di battaglia. Il caso delle ricorrenti crisi tra Kosovo e
Serbia rifette un interessante scambio di ruoli e tensioni, gestiti in modo confit-
tualmente cooperativo verso il mantenimento di uno status quo, scomodo ma ben
conosciuto. A questo proscenio visibile del teatro bisogna aggiungere le quinte 221
NON ISOLIAMO I BALCANI

mafose, che troppo spesso godono di una contiguità assai compenetrante con i
governi. La Kfor a guida italiana e i carabinieri della Msu (Mononational Speciali-
zed Unit) non hanno troppe diffcoltà a vedere la fligrana: anche in città divise
come Mitrovicë/Kosovska Mitrovica, la collaborazione e divisione di zone e atti-
vità criminali interetniche tra padrini funziona molto bene, come documentato
per tutta la regione da ampia letteratura investigativa e scientifca. Del resto chi
analizzava la guerra di dissoluzione della Jugoslavia senza una griglia mafosa,
non capiva metà del confitto e il problema persiste anche nella comprensione di
guerre più oscure o più eroiche a seconda dei capricci politico-mediatici.
L’ultima crisi sulle targhe sembra pretestuosa e pare essere stata condotta in
modo forse troppo deciso dai due contendenti. In realtà ha fondamento in due
esigenze: affermare la sovranità delle istituzioni per Prishtina e proteggere la
minoranza serba per Belgrado. Le targhe automobilistiche sono un segno chiaro
di controllo del territorio ed è abbastanza ovvio che a Prishtina si vogliano tar-
ghe con una sigla kosovara, anziché con sigla serba per i residenti serbofoni
kosovari nel nord del paese. Altrettanto evidente è che Belgrado non voglia
targhe kosovare che implichino una sovranità non riconosciuta; meno evidente
è che, per ragioni geografche, i valichi del Kosovo settentrionale siano assai
utili per traffci illeciti interetnici e che l’ambiguità delle targhe male non faccia
agli «affari».
D’altro canto, la Serbia osserva che l’istituzione di una associazione/comunità
delle municipalità serbe (10 in tutto il paese) con ampia autonomia locale è stata
rinviata tenacemente da Prishtina per nove lunghi anni; in effetti sarebbe assai
produttivo se si cominciasse a creare una situazione di tipo altoatesino nei quattro
comuni in cui i serbi sono maggioranza. Le obiezioni a Prishtina sono che Belgra-
do esercita un ferreo controllo sulle enclave serbe; le strutture parallele di sicurez-
za sono state messe in quiescenza, ma non smantellate (come le ultime tensioni
dimostrano, con blocchi stradali tutt’altro che improvvisati – i locali ne hanno
mappe come per gli autovelox); simili associazioni in passato sono state strumen-
to d’ingerenza anche sovversiva in Bosnia. L’attuale premier Albin Kurti sembra
sottovalutare la presenza della Kfor, che fa una differenza capitale rispetto alla
Bosnia-Erzegovina prebellica.

4. È abbastanza prevedibile che, durante questa sventurata guerra in Ucraina,


la psicosi del nemico sia diffusa e faccia letteralmente vedere doppio. Da una par-
te c’è una consistente parte della popolazione anziana nello spazio euroatlantico
che ha vissuto la terza guerra mondiale (ipocritamente detta guerra fredda) con le
sue ossessive cacce al comunista e la paura delle quinte colonne di Mosca, dall’al-
tra ci sono élite in alcuni paesi che hanno compiuto nelle loro teste il passaggio
senza discontinuità dall’oppressore sovietico all’eterno nemico russo, ancor più
facile se sono rimaste «paranoidi alla sovietica» dentro. Il problema non sono le
222 comprensibili cicatrici dei passati decenni, ma i miraggi che offuscano un retto
LA GUERRA CONTINUA

intendimento del mondo di oggi; quindi anche nei Balcani ci deve essere la zampa
del feroce Orso russo.
Perciò si parla del tentato colpo di Stato in Montenegro, dell’infuenza russa
sulle Chiese ortodosse locali, delle forniture di Gazprom a prezzo di favore, delle
mene del soft power moscovita nelle società, media e classi politico-affaristiche lo-
cali, delle vendite di armi alla Serbia, della possibile presenza di basi d’intelligence
russe, del supporto al leader serbo-bosniaco Milorad Dodik nei suoi tentativi di
spaccare la Bosnia-Erzegovina e della discordia seminata occultamente tra Atene e
Skopje nella controversia sul nome della Macedonia del Nord.
Quasi tutte cose che realmente sono accadute (con qualche dubbio ragione-
vole sul tentato golpe montenegrino), incluse alcune interessanti campagne nel
settore cibernetico. Al quadro si può aggiungere, per esempio, il sostegno tenace
al governo illiberale ed etnicista di Nikola Gruevski in Macedonia del Nord, fno
alla sua caduta spettacolare in parlamento, che ha fruttato un dividendo politico
non meno importante delle sponde apertamente neutraliste di Belgrado o decisa-
mente florusse della Repubblica Srpska. Inoltre, la presenza di mafosi e oligarchi
russi flogovernativi con radici e interessi nel riciclaggio di denaro ha continuato a
non essere trascurabile e probabilmente si è rafforzata durante il confitto ucraino
per aggirare le sanzioni.
Tirando le somme, si vede però un quadro strategico differente dalle paranoie.
La Russia era presente sul terreno dentro la Kfor (il cui stemma per metà è in ciril-
lico) sino al 2003, ma da allora, compreso che non c’erano grandi ritorni, il gover-
no russo ha usato i Balcani per dare il massimo fastidio col minimo costo, senza
speciali rischieramenti o investimenti. Ancora oggi chi è sul terreno riferisce pun-
tualmente che i russi possono combinare piuttosto poco, a dispetto dell’immagine
tenebrosa dei loro servizi d’intelligence.

5. I Balcani occidentali sono stati la comoda fnzione per isolare i paesi dell’a-
rea da due realtà cui appartengono pienamente: l’Europa, che si è occupata di
questa zona dai tempi della Questione orientale (1804), e i Balcani in senso geo-
politico, che includono ovviamente Grecia, Turchia, Bulgaria e Romania. Infatti, la
Nato Defense College Foundation considera i Balcani e il Mar Nero come una
singola regione geopolitica, e non semplicemente per la guerra russo-ucraina.
L’area dei Balcani ancora non pienamente integrata, per le ragioni già esposte,
è stata tenuta in sospeso ed è certamente molto e sempre più stabile nel comples-
so rispetto alla fne delle campagne di dissoluzione della Jugoslavia: basti pensare
che la Nato è arrivata in Kosovo con 55 mila soldati e adesso ne conta 3.700 circa
con il compito di rinforzare, se necessario, la missione Eufor in Bosnia-Erzegovina,
forte di 1.100 unità.
La recente crisi delle targhe automobilistiche (dicembre 2022) è l’ultima di
una serie ricorrente, ma non sarebbe saggio trattare questi fenomeni come acces-
si di febbre ciclici e passeggeri perché, insieme alla fragilità di sicurezza, progre- 223
NON ISOLIAMO I BALCANI

disce il degrado sociopolitico, sinora scarsamente affrontato. È il momento di


completare l’opera perché l’Europa non può permettersi di ghettizzare un focola-
io persistente ai suoi confni tanto a sud-est quanto a sud (Libia e Sahel, solo per
essere prudenti), quando è purtroppo ancora in corso la guerra in Ucraina e
mentre i rischi per la pace vanno energicamente prevenuti nell’Indo-Pacifco. La
sicurezza dell’Europa, come quella della Nato, non può accettare un discorso tra
fgli presunti eletti in corsia preferenziale e fgliastri di fatto, perché la sua forza
non è solo nelle armi (da rinsaldare) ma nella sua ampia connettività soft che ha
permesso di cicatrizzare in 78 anni i disastri di almeno mezzo millennio di guerre
sul nostro suolo.

224
LA GUERRA CONTINUA

L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA


DELLA MOLDOVA
È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA
La neutralità disarma Chi șinău di fronte al vicino conflitto. Il
separatismo transnistriano e la crisi socioeconomica interna ne
fanno uno Stato fallito. La possibilità di unione con la Romania e
l’ingresso nell’Ue non sono una scelta, ma il male minore.
di Dan DUNGACIU e Leonardo DINU

1. P RIMA CHE L’UCRAINA VENISSE INVASA,


i principali problemi di sicurezza nella regione del Mar Nero derivavano dai con-
fitti congelati nelle repubbliche ex sovietiche: Azerbaigian (Nagorno Karabakh),
Georgia (Abkhazia e Ossezia del Sud), Moldova (Transnistria) e dal 2014 Ucraina
(Donec’k e Luhans’k). Quando attriti simili si sono prodotti in aree di giurisdizione
russa, non sono rimasti affatto «congelati»: bollati come attività terroristica, sono
stati violentemente repressi dalle autorità federali come nel caso delle due guerre
cecene 1. Al di fuori dei suoi confni, è però nell’interesse di Mosca generare e
mantenere latenti simili focolai di tensione allo scopo di esercitare un’infuenza su
Stati sovrani (o su spazi strategici) attraverso il controllo di una loro parte (la zona
di confitto). Il «congelamento» di tali crisi ha così accresciuto la capacità russa di
ingerenza diretta o indiretta nelle dinamiche dei paesi ex sovietici, volta principal-
mente a tenerli lontani dallo spazio euroatlantico. Nel 2014 la stessa tattica è stata
replicata con le regioni separatiste del Donbas, facendo leva proprio sui contenzio-
si irrisolti nell’area 2.
Nei calcoli di Mosca, questo uso strategico dei confitti congelati doveva servi-
re a creare una zona cuscinetto tra sé e l’Occidente (Nato), dunque a conquistare
profondità difensiva in quell’area enorme e priva di barriere naturali che già fran-
cesi e tedeschi attraversarono per invadere lo spazio russo. Tale era la posta in
gioco anche nel caso ucraino. Con gli accordi di Minsk, il Cremlino puntava a una
federalizzazione dell’Ucraina, de facto o de iure: sfruttando le regioni separatiste
come leva geopolitica, la Russia avrebbe così potuto manovrare le politiche di si-
curezza e la politica estera di Kiev.
1. D. DUNGACIU, J. GODZIMISKI, «Russia and Frozen Conficts in the Black Sea Region», New Strategy
Center, Norwegian Institute for International Affairs, 19/10/2020.
2. D. DUNGACIU, The Geopolitical Black Sea Encyclopaedia, Newcastle upon Tyne 2020, Cambridge 225
Scholars Publishing.
L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA

Per Chișinău era previsto uno scenario analogo. Con la differenza che, di per
sé, la Repubblica Moldova non è un tassello strategico per Mosca: troppo lontana,
troppo diffcile da controllare e troppo piccola. In ottica russa, il caso moldavo
doveva piuttosto servire da esempio riuscito di pacifcazione attraverso la federa-
lizzazione forzata, a dimostrare che lo stesso processo poteva essere replicato in
Ucraina. La guerra iniziata il 24 febbraio scorso è anche conseguenza di questo
calcolo errato del Cremlino, che sta cercando ora di risolvere per vie militari ciò
che non è riuscito a ottenere al tavolo dei negoziati. Indipendentemente dall’esito
del confitto in corso, la Moldova è tuttavia destinata a restare uno Stato fallito dal
punto di vista socioeconomico e un problema irrisolto da quello geopolitico.
Uffcialmente la Moldova è uno Stato neutrale, ma nei fatti non c’è nessuno
che garantisca tale neutralità, né ci sarà mai. Nel testo costituzionale è affermata la
«neutralità permanente» del paese, che ripudia «il dispiegamento di truppe militari
di altri Stati sul suo territorio». Modifche relative alla disposizione di neutralità po-
tranno essere valutate «solo in seguito alla loro approvazione attraverso referen-
dum, con il voto della maggioranza dei cittadini iscritti alle liste elettorali». Nel 1994,
momento in cui la costituzione entrava in vigore senza alcuna consultazione popo-
lare, le truppe russe – mai menzionate nel testo – si trovavano già illegalmente sul
territorio moldavo. In pratica, la costituzione è stata violata dal primo istante della
sua adozione. Fino a oggi, visto che la Russia mantiene circa 1.500 soldati in Trans-
nistria, divisi tra le truppe deputate al «mantenimento della pace» e quelle inquadra-
te nel cosiddetto Gruppo operativo delle forze russe, a difesa dei depositi di muni-
zioni di Cobasna/Kolbasna. L’articolo costituzionale che rifuta la presenza di con-
tingenti stranieri è servito solo a tenere la Nato il più lontano possibile dai confni
moldavi e a impedire la cooperazione con le forze dell’Alleanza, mentre gli effetti
su un eventuale ritiro delle truppe russe sono stati nulli. Lo status di neutralità san-
cito dalla Costituzione, benché non garantito da nessuno, ha comunque indotto
Chișinău a disinvestire nelle politiche di difesa.
I problemi della Moldova sono radicati molto più a fondo della congiuntura
che attraversa ora. Questa piccola repubblica è di fatto in crisi dal primo momen-
to in cui è apparsa sulla mappa. Dal giorno della sua indipendenza (27 agosto
1991), Chișinău ha sempre dovuto fare affdamento su aiuti esterni per sopravvive-
re (rimesse, prestiti, sovvenzioni). Ciò cui assistiamo oggi in seguito all’invasione
russa dell’Ucraina è solo l’esacerbarsi di una crisi che non è mai veramente scom-
parsa. Prima di affrontare la questione della sicurezza militare della Moldova, oc-
corre discutere la situazione socioeconomica di un paese che ha tutte le caratteri-
stiche di uno Stato fallito.

2. Dal punto di vista demografco, la Moldova registra il tasso più alto di spo-
polamento in Europa, pur non essendo più stata in guerra dal 1992. Villaggi e
piccole città si sono svuotati. Se nel 1991 la popolazione era di 4 milioni e 364
226 mila abitanti (inclusi quelli della Transnistria, circa 731 mila), ora il paese ne conta
LA GUERRA CONTINUA

AUTOIDENTIFICAZIONE DEGLI ABITANTI DELLA REGIONE


SEPARATISTA DELLA TRANSNISTRIA (in %)

QUALE IDENTITÀ DESCRIVE MEGLIO


A QUALE ETNIA RITIENI DI APPARTENERE? L’INTERA POPOLAZIONE DELLA TRANSNISTRIA?

Transnistriana 37,3 Russa 42,3

Russa 35,7 Transnistriana 35,7

Moldava 14 Moldava 12

Ucraina 7,4 Ucraina 3,8

Bulgara 2,4 Mix di un certo num. di etnie 2

Altre 1,4 Altre 0,4

Non sa/non risponde 1,8 Non sa/non risponde 3,8

Fonte: Cojocari, Dungaciu, Cupcea 2019

2 milioni e 900 mila 3. In 30 anni i cittadini moldavi sono diminuiti di un milione e


mezzo, toccando una quota simile a quella del 1955. Un tale tasso di spopolamen-
to è unico nella storia della Bessarabia (la regione storica da cui è originata la
Moldova). Tra le cause vanno annoverate povertà ed emigrazione economica (per-
manente e temporanea) ma anche un tasso di crescita naturale negativo.
La situazione dell’economia è ancora più drammatica. Come afferma l’analista
economico di Bucarest Petrișor Peiu, oggi Chișinău sta affrontando la sua terza re-
cessione in soli 7 anni 4. Il pil moldavo stimato per il secondo trimestre del 2022 (64,3
miliardi di lei moldavi 5) è diminuito, in termini reali, dell’1,3% e nel primo semestre
dello stesso anno è stata registrata una contrazione del 6,3%. L’estrema vulnerabilità
dell’economia moldava è dovuta all’elevato grado di dipendenza dall’esterno, in
termini sia commerciali sia di assistenza fnanziaria. Tale vulnerabilità aumenta con
l’aggravarsi del disavanzo commerciale, che ha quasi raggiunto i 2,5 miliardi di euro
nei primi sette mesi dell’anno, registrando importazioni per 5,1 miliardi ed esporta-
zioni per 2,6 miliardi. In altre parole, per ogni euro esportato si fanno importazioni
del valore di due euro. Il dramma di queste cifre è evidente se si guarda allo stesso
periodo (gennaio-luglio) di cinque anni fa, in cui il defcit commerciale era di soli
1,35 miliardi di euro: circa la metà di quanto totalizzato quest’anno.

3. V. IONIță, «În ultimii 5 ani Moldova a cunoscut cel mai mare exod al populației din istoria sa» («Ne-
gli ultimi cinque anni la Moldova ha conosciuto il più grande esodo di popolazione della sua storia»),
13/7/2021.
4. P. PEIU, «În Basarabia abandonată de București, nu va mai exista niciun colac de salvare pentru mult
timp de acum înainte» («Nella Bessarabia abbandonata da Bucarest, non ci sarà un’ancora di salvezza
per molto tempo a venire»), Gândul, 26/9/2022.
5. Un euro vale circa 20 lei moldavi. 227
228
IPOTESI SCENARIO DELLA CADUTA DI ODESSA

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L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA

Avanzata dell’Esercito da Kherson Fuoco missilistico dalle


verso Mykolajiv navi da guerra russe FED. RUSSA
Presa della città con l’ausilio Accerchiamento e presa Crimea
bio Delta del
u Danubio dell’aviazione navale di Odessa
Dan
e ISOLA DEI SERPENTI Sbarco navale e attacco aereo Probabile avanzamento
Fium russo verso Romania
R O M A N I A Nord del fume Nistru testa di ponte e delta del Danubio
per la presa di Odessa
Tentativo di riconquistare
l’Isola dei Serpenti
LA GUERRA CONTINUA

Arriviamo così all’indicatore più importante: il tasso di infazione, misura del


degrado senza precedenti del potere d’acquisto e del tenore di vita in Moldova.
Negli ultimi 12 mesi il tasso di infazione annualizzato è aumentato del 30,2%, con
conseguente aumento dei prezzi medi di consumo: il costo dei prodotti alimentari
è cresciuto di quasi un terzo, quello dei beni non alimentari del 20% e quello dei
servizi forniti alla popolazione del 44%. La rapidità e la drasticità con cui si sono
aggravati i parametri infativi sono motivo di preoccupazione quotidiana tra i mol-
davi. Inoltre, l’elettricità è diventata più costosa di circa 2,7 volte e il gas naturale
di quasi l’80% 6. Persino l’Ucraina, paese devastato dalla guerra, ha un tasso di in-
fazione annualizzata pari al 26,6% 7, dunque inferiore a quello della Moldova,
mentre in Russia si attesta all’11,9% 8. Neanche gli Stati baltici, scossi indirettamente
dal confitto e pure soggetti ad alti livelli di infazione (tra il 17,5 e il 22% 9), arriva-
no alle cifre registrate da Chișinău.
Chișinău, infne, è priva di una vera politica di sicurezza. L’unica garanzia di
cui dispone è la resistenza dell’Ucraina. Si pensi a quando nella primavera 2022 si
temeva che i russi raggiungessero Odessa. In quel caso le forze di Mosca si sareb-
bero trovate di fronte una popolazione non ostile, su cui anzi l’idea di Mondo
Russo (Russkij Mir) esercita una certa presa. Ciò può esser detto anche delle regio-
ni di Bugeac/Budjak (Ucraina), della Transnistria e persino nella stessa Moldova,
dove circa la metà della popolazione nutre simpatie florusse. Se le truppe della
Federazione fossero davvero arrivate a Odessa il fronte sarebbe crollato facilmen-
te: la Transnistria sarebbe stata spinta a schierarsi apertamente con Mosca e la
Moldova non sarebbe stata in grado di frenare l’eventuale avanzata dei russi, che
avrebbero raggiunto senza problemi il fume Prut. In quel periodo, Chișinău ha
adottato un atteggiamento molto cauto nei confronti della guerra, suscitando irri-
tazione nelle autorità di Kiev. In seguito il registro è cambiato: ora le autorità mol-
dave professano totale solidarietà all’Ucraina e hanno perfno sollevato la necessi-
tà di un potenziamento delle forze militari. Obiettivo per cui comunque il governo
non dispone di suffcienti fondi e che potrebbe essere conseguito solo ricorrendo
a un supporto esterno, ciò che però contravverrebbe al principio di neutralità.

3. La terza città più grande dell’Ucraina, Odessa, è anche l’unico porto in acque
profonde del paese. Prima dell’invasione militare russa, da qui passava circa il 65%
del commercio marittimo dell’Ucraina nonché il 70% del volume totale delle sue
importazioni ed esportazioni 10. Attualmente è l’unico porto che esporta cereali sul
mercato internazionale, in attuazione dell’accordo umanitario marittimo tra Russia e

6. B. NIGAI, «Rata infației în decembrie 2022 a constituit 30%» («Il tasso di infazione nel dicembre 2022
è stato pari al 30%»), radiomoldova.md, 11/1/2023.
7. O. HARMASH, «Ukraine’s 2022 infation hits 26.6%, but lower than forecast», Reuters, 10/1/2023.
8. «Russian monthly infation was 0.78% in December – Rosstat», Reuters, 13/1/2023.
9. B. OJA, H. WRIGHT, «Estonia’s infation fell to 17.5 percent in December», ERR News, 6/1/2023; «Latvia
Infation Rate», tradingeconomics.com; «Lithuania Infation Rate», tradingeconomics.com
10. C.A. COSTEA, «The strategic importance of the port of Odessa, Romanian Centre for Russian Stu-
dies», Romanian Centre for Russian Studies, 25/3/2022. 229
L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA

Ucraina mediato dalle Nazioni Unite e dalla Turchia (Black Sea Grain Initiative 11). Da
un punto di vista strategico, Odessa è anche un nodo di comunicazioni stradali e
ferroviarie verso altre regioni del paese, verso la capitale Kiev e verso la Moldova.
Considerati gli obiettivi iniziali dell’invasione militare russa e quelli energetici degli
ultimi mesi, non si può escludere che in caso di ripresa di un’offensiva militare su
larga scala Mosca scelga di colpire le infrastrutture economiche e i canali di esporta-
zione marittima di merci, bersagliando il porto cittadino di Odessa e le coste regio-
nali adiacenti (Mykolajiv/Nikolaev e Bugeac/Budjak). In questo caso, la Russia non
solo otterrebbe il pieno controllo della costa ucraina dal Mar d’Azov alle foci del
Danubio, ma si assicurerebbe anche un corridoio strategico verso la regione separa-
tista della Transnistria e verso Kiev. La riconquista dell’Isola dei Serpenti nei primi
giorni dell’invasione è indicativa in tal senso.
Le truppe russe potrebbero prendere Odessa con una vasta azione armata
combinata coinvolgendo le forze di terra di Kherson, che dovrebbero prima impa-
dronirsi della città di Mykolajiv con operazioni di sbarco navale e aereo tra gli
estuari di Tylihul e Kuyalnik, per poi stabilire teste di ponte a nord della riva orien-
tale del fume Nistru/Dnestr e infne accerchiare Odessa. Queste manovre andreb-
bero coadiuvate da artiglieria e aviazione navale e richiederebbero il supporto
diretto del fuoco missilistico delle navi da guerra russe. A seconda del successo
dell’operazione di accerchiamento, i russi potrebbero poi valutare di dirigersi ver-
so la regione di Bugeac/Budjak al fne di raggiungere le foci del Danubio.
D’altra parte, il porto cittadino di Odessa è molto diffcile da conquistare. Non
solo per la confgurazione della costa e per le caratteristiche fsiche del terreno
nelle vicinanze della città, ma anche in ragione delle misure adottate dall’Ucraina
per difendere la linea costiera: difesa tattica anti-aerea, opere permanenti di inge-
gneria e fortifcazioni interrate. Nonostante il rinfoltimento del 22° Corpo d’Armata
russo in Crimea (subordinato alla Flotta del Mar Nero), il riarmo dell’Aeronautica e
il potenziamento delle difese aeree qui dispiegate, le perdite umane e materiali
sarebbero elevatissime per la Federazione e avrebbero un impatto psicologico e
mediatico estremamente negativo sia sulle le forze russe sia sull’opinione pubblica
e sullo stesso Putin. È quindi improbabile che Mosca si lanci in una vasta operazio-
ne aeronavale e terrestre per l’occupazione di Odessa e delle regioni adiacenti.
Piuttosto, continuerà a mantenere il suo blocco navale e a controllare le rotte ma-
rittime commerciali dell’Ucraina, che passano per quel porto.

4. La Transnistria è rimasta per ora neutrale nella guerra d’Ucraina. Il governo


moldavo avrebbe potuto approfttare del contesto bellico e del sostegno di Kiev per
premere su Tiraspol’ affnché smilitarizzasse l’area dai soldati russi. Invece i toni si
sono distesi: Chișinău è arrivata a sostenere che nella regione separatista esistano un
campo della pace e uno della guerra e che con il primo si possa perfno discutere.
Distinzioni semplicemente inesistenti prima che scoppiasse la guerra, quando le

230 11. «Infographic – Ukraine grain exports explained», Consiglio dell’Unione Europea, 4/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

LA ROMANIA A STELLE E STRISCE Progetto Nato di condotta


militare per combustibili
Progetti di autostrada Via
Carpathia e ferrovia Rail2Sea
POLONIA Rzeszów da Costanza a Danzica
“Porta di Focşani”, storica linea
U C R A I N A difensiva tra i fumi Siret e Danubio
Fium nei pressi della città di Focşani
eD
nes Transnistria
t r
SLOVACCHIA
Košice

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Debrecen

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R O M A N I A MOLDOVA
UNGHERIA Oradea

Fiume
Emanoil Ionescu
1
Câmpia Turzii
Siret
Arad
Sibiu Focșani
Lugoj
Isola dei
F. D an u bio
Timișoara Serpenti

Pitești Mihail Kogălniceanu


3
Cernavodă
F iume Danubio Costanza
BUCAREST
nubio
2 Deveselu e Da
Calafat um
S E R B I A F
i

Mar Nero
1 Base militare Emanoil Ionescu, SOFIA
B U L G A R I A
ospita caccia e droni americani
KOSOVO
2 Base militare di Deveselu, sede
dello scudo missilistico Nato Svilengard
3 Base aerea Mihail Kogălniceanu Plovdiv
CentraleMnucleare
A C E D diO Cernavodă
NIA
Isola strategica
D E L ucraina.
N O R DLe forze TURCHIA
russe l’hanno catturata nel
febbraio 2022, per poi ritirarsi GRECIA Mar
nel giugno successivo di Marmara
Alessandropoli
Basi Nato bulgare
ALBANIA Salonicco
Porto militare
Mar Egeo
Direttrici d’infuenza romene TURCHIA
verso Balcani, Grecia e Ucraina
231
L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA

autorità d’Oltre Nistru erano considerate agenti al soldo di Mosca. Chișinău continua
peraltro a sovvenzionare le élite economiche di Tiraspol’: tutto il gas venduto dalla
Federazione Russa alla Moldova viene infatti inviato in Transnistria, dove l’impianto
di Cuciurgan lo trasforma in energia elettrica e lo vende… alla Moldova. In pratica,
nonostante la guerra e il separatismo promosso dalle autorità transnistriane, il rap-
porto tra Chișinău e Tiraspol prosegue senza ostacoli, anzi forse meglio di prima.
Il formato 5+ 2 per la regolamentazione del confitto transnistriano, di cui fan-
no parte Moldova, Transnistria, Ucraina, Russia e Osce (e anche, con status di
ospiti, Stati Uniti e Unione Europea) non è di fatto mai stato ripudiato dai moldavi.
Ciò signifca che a guerra fnita questa cornice negoziale potrà essere riattivata e
che Mosca potrà sfruttare una eventuale partecipazione ai lavori del format per ri-
guadagnare dignità sul piano internazionale. In caso gli ucraini vincessero, è tutta-
via improbabile che accetterebbero di sedere al fanco dei russi.
Anche nel caso ideale in cui i soldati russi si ritirassero e nel territorio separa-
tista si instaurasse un regime di autonomia, la Transnistria rimarrebbe comunque
un problema per la Moldova. Per almeno tre ragioni di carattere politico, prima
ancora che economiche o di sicurezza. Anzitutto, la regione ha sviluppato negli
ultimi 30 anni una forte identità locale. In un sondaggio del 2019 12, il 38% degli
abitanti si defnisce «transnistriano» e il 36% «russo», mentre solo il 14% si identifca
come «moldavo». In secondo luogo, la popolazione della regione non è flo-euro-
pea, nonostante le illusioni di alcuni politici di Chișinău: nelle ultime elezioni pre-
sidenziali ha votato per Maia Sandu il 14% degli elettori transnistriani (4.413 citta-
dini). Ciò vuol dire che l’ingresso della popolazione della Transnistria nel campo
elettorale moldavo farebbe pendere la bilancia elettorale verso il polo flo-orienta-
le almeno per il prossimo decennio, mettendo così a repentaglio il percorso di
integrazione europea di Chișinău. In tal modo, Mosca acquisirebbe per altro un’im-
portante leva di infuenza nel processo. Questo senza contare il debito di quasi 8
miliardi di dollari contratto dalla Moldova per aver fornito gas alla Transnistria 13
negli ultimi trent’anni né i problemi di corruzione e criminalità organizzata che
l’integrazione di questo territorio separatista porterebbe al paese.
Infne, nella prospettiva di negoziati fnali per il confitto ucraino, il dossier
transnistriano potrebbe essere evocato per risolvere il problema dello status ambi-
guo di alcuni territori dell’Ucraina: c’è quindi la possibilità che la soluzione delle
autonomie territoriali, rifutata da Kiev nell’ambito degli accordi di Minsk, venga
ripresa facendo leva sul precedente della Moldova.

5. Abbiamo insistito sulla situazione di crisi permanente della Moldova perché


è essenziale in qualsiasi discussione relativa a una potenziale unione (Unirea) con la

12. T. COJOCARI, D. DUNGACIU, R. CUPCEA, «Perceptions, attitudes and values of the population from the
left bank of Dniester river», Black Sea University Foundation (Funm) e Cbs-Axa Sociological Investi-
gation and Marketing Centre, 2019.
13. P. REMLER, «Transdniestria, Moldova, and Russia’s War in Ukraine», Carnegie Endowment for Inter-
232 national Peace, 2/8/2022.
LA GUERRA CONTINUA

Romania, questione che si pone soprattutto in tempi di crisi. La nostra tesi è che la
prospettiva di un’unione sia per i cittadini moldavi al massimo una soluzione in ne-
gativo: la situazione è peggiorata a tal punto che il ricongiungimento con la Romania
sul modello tedesco e il conseguente ingresso nell’Ue e nella Nato sono visti come
male minore. Una popolazione che per il 70% vede il futuro dei propri fgli al di
fuori della Moldova 14 è una popolazione che non crede più in questo Stato.
In Romania, circa il 75% degli abitanti si esprime a favore dell’unione con la
Moldova. Si tratta tuttavia di una sorta di posizione politica di rito, che la popola-
zione romena abbraccia senza avere una vera consapevolezza dell’effettiva situa-
zione geopolitica di Chișinău e delle conseguenze economiche di tale progetto 15. I
sondaggi condotti in Moldova rivelano invece che i suoi abitanti sarebbero favore-
voli alla prospettiva unionista per il 35-40%: è l’unico tasso in costante crescita
dagli anni Novanta, anche se di fatto non è supportato da dichiarazioni unioniste
da parte di Chișinău o di Bucarest. Questo orientamento è motivato da diversi fat-
tori. Un ruolo importante è giocato dal cambio generazionale: rispetto ai primi
giorni di indipendenza della repubblica, oggi si sta affermando una generazione
che non nutre più le fobie sovietiche della precedente. Inoltre – e questo è l’ele-
mento più importante – l’aumento delle simpatie unioniste è sintomo del fallimen-
to della Repubblica Moldova come progetto politico. Negli ultimi 30 anni Chișinău
ha sperimentato i regimi più disparati: governi di sinistra, florussi, flo-europei,
coalizioni Est-Ovest con rappresentanti di entrambe le correnti. Nessuno di questi
ha funzionato, nessuno è riuscito a proporre un programma nazionale di successo.
Neanche l’esenzione dai visti per i cittadini moldavi può essere considerata una
vera vittoria, perché gran parte di loro (oltre un milione 16) possedeva già un pas-
saporto romeno – dunque europeo – con cui poter circolare e stabilirsi nel Vecchio
Continente. La reintegrazione della regione transnistriana non c’è stata, le truppe
russe non hanno lasciato il paese, la prosperità non è arrivata. La Moldova è rima-
sta un paese diviso tra Oriente e Occidente.
Lo stesso riconoscimento dello status di paese candidato all’ingresso nell’Ue è
percepito positivamente solo dalla metà dei cittadini. È per altro diffusa la sensa-
zione che il merito principale non sia da attribuire a Chișinău ma alla guerra in
Ucraina. Uno studio del 2019 sulla sociologia dell’unionismo moldavo 17 evidenzia
come la prospettiva di un ricongiungimento con la Romania sia in realtà percepita
con diverse sfumature dalla popolazione locale. Una parte di essa propende ad
esempio per un «unionismo potenziale»: non voterebbe per l’unione ma la ritiene

14. V. IONIță, op. cit.


15. D. DUNGACIU, P. PEIU, Reunirea, București-Chișinău 2018, Libris.
16. M. NECșUțU, «Peste 100.000 de cetățeni ai Republicii Moldova așteaptă cetățenia română. Statistici
ofciale despre deținătorii cetățeniei statului vecin» («Circa 100 mila cittadini della Repubblica Moldova
stanno aspettando la cittadinanza romena. Statistiche uffciali sui titolari della cittadinanza nello Stato
vicino»), anticorupție.md, 8/6/2022.
17. D. DUNGACIU, «Sociological Evaluations: Potential Unionism, Passive Unionism, Unionism of the
Heart and Unionism of the Mind», in D. DUNGACIU, V. MANOLACHE (a cura di), 100 Years since the Great
Union of Romania, Newcastle upon Tyne 2019, Cambridge Scholars Publishing. 233
L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA

plausibile in un orizzonte di 10-20 anni. C’è poi un «unionismo passivo», quello di


un 35% che sicuramente non voterebbe per l’unione ma neanche protesterebbe
violentemente se dovesse concretizzarsi (solo il 4% dichiara che scenderebbe in
strada e sarebbe pronto alla violenza). Per circa un 40% si può poi parlare di «unio-
nismo del cuore», che sintetizza le posizioni di coloro che si unirebbero convinta-
mente a Bucarest; una fetta considerevole degli intervistati si esprime infne per
una sorta di «unionismo della mente», dichiarandosi a favore dell’unione «se gli
stipendi, le pensioni, o le indennità aumentassero di tre-quattro volte».

6. Il quadro ricostruito non è dei migliori. Le sorti di Chișinău dipendono esclu-


sivamente dall’Ucraina. La Moldova non dispone di alcun progetto di sicurezza
autonomo e rischia di sparire dalla mappa europea, sia che la Russia raggiunga
Odessa e continui verso i fumi Nistru e Prut sia che la guerra fnisca prima che le
truppe di Mosca vengano ritirate dall’Ucraina.
Inoltre, data la sua fondamentale ambiguità strategica dovuta alla questione
della Transnistria, nel caso di vittoria russa in Ucraina Chișinău potrebbe diventare
una pericolosa vulnerabilità. Il rischio è che per risolvere i confitti congelati le
autorità moldave accettino – se non ora, dopo le elezioni – soluzioni favorevoli
alla Russia (autonomia territoriale, federalizzazione) poi replicabili in Ucraina.
Il ricongiungimento con la Romania dipende anzitutto dagli sviluppi della
guerra in corso e dagli equilibri interni moldavi. Se Kiev non ottiene una vittoria
totale (il ritiro delle truppe russe da tutta l’Ucraina), ogni possibilità di integrazione
europea per Kiev e Chișinău andrà in frantumi e la regione rimarrà un’area cusci-
netto in gran parte controllata da Mosca. In questo caso, l’opinione pubblica inter-
nazionale sarà ancora più diffdente rispetto al futuro di questa repubblica. Gli
sconvolgimenti innescati dalla guerra e il venir meno della prospettiva di integra-
zione europea rischiano di portare a un ulteriore deterioramento della situazione
politica e socioeconomica interna. Questo insieme di fattori manterrà la questione
unionista all’ordine del giorno, non necessariamente come progetto positivo ma in
quanto soluzione negativa: la Romania è ciò che resta alla Moldova quando tutto
il resto le viene portato via.

234
LA GUERRA CONTINUA

ROMANIA
FRONTE
DEL PORTO COLIBășANU e George SCUTARU
di Antonia

Scali commerciali e basi militari sul Mar Nero sono un tassello


fondamentale della guerra. Bucarest invoca la Nato contro
un ritorno russo sull’Isola dei Serpenti. Il ruolo della Turchia.
Il grano ucraino è ostaggio delle mine.

1. IL MAR NERO HA SVOLTO UN RUOLO


strategico per i russi negli ultimi 250 anni. L’espansione verso sud, iniziata all’epo-
ca di Caterina la Grande, portò la Russia fno al Mar Nero e la spinse a consolidare
la propria posizione nella regione, a controllare il delta del Danubio, a guadagnare
un accesso ai mari caldi, a cercare di conquistare gli Stretti e ad aumentare la pro-
pria infuenza nei Balcani. Nel XVIII secolo il principe Grigorij Potëmkin fu il primo
governatore delle terre nel Sud dell’Ucraina, chiamate Nuova Russia (Novorossija):
nome che tuttora fgura nei piani espansionistici di Mosca. Potëmkin fu anche fau-
tore del ruolo della Russia nei Balcani, nel Caucaso e verso il Mediterraneo 1. Il
mito della Terza Roma e la santa missione di proteggere l’ortodossia furono il fon-
damento della politica d’espansione russa nell’Europa sud-orientale fno all’abdica-
zione di Nicola II, nel 1917.
Dall’epoca di Caterina la Grande a oggi, la Crimea è stata la base principale
della fotta russa del Mar Nero e l’avamposto destinato a proiettare gli interessi
strategici dell’impero zarista oltre gli Stretti. La Russia ha sempre mirato a limitare
l’infuenza di altri paesi nel bacino eusino, trovando nella Turchia un partner mal-
grado le molte rivalità. Con il trattato di Hünkâr øskelesi del 1833 – la cui clausola
segreta consentiva alla Russia di ostacolare l’ingresso agli Stretti delle navi di altre
potenze – e con la convenzione di Montreux del 1936, tuttora in vigore, gli zar di
San Pietroburgo, i leader sovietici e poi russi hanno inteso fare del Mar Nero un
condominio russo-turco, se non un lago russo.
Oggi l’obiettivo di Mosca resta limitarvi la presenza della Nato, approfttando
della ritrosia di Ankara a coinvolgere maggiormente gli Stati Uniti nella regione e
delle scarse capacità navali di Romania e Bulgaria. Il regime speciale d’accesso
1. N. GVOSDEV, «Russia’s strategy in the Black Sea Basin», War on the Rocks, 2/8/2018. 235
ROMANIA, FRONTE DEL PORTO

delle navi militari di Stati non rivieraschi al Mar Nero è disciplinato dalla conven-
zione di Montreux, che prevede limiti di stazza e riduce la permanenza a un mas-
simo di 21 giorni. Per questo la presenza di navi Nato nel Mar Nero è limitata e a
rotazione, quindi dispendiosa e laboriosa. In tempi di guerra – come ora – la Tur-
chia ha chiuso gli Stretti alle navi militari, perciò l’accesso al Mar Nero di navi Nato
provenienti da Stati non rivieraschi è impossibile 2.
Peculiarità della regione del Mar Nero è la presenza di confitti congelati: la
Transnistria nella Repubblica di Moldova; il Donbas in Ucraina: Abkhazia e Ossezia
del Sud in Georgia; il Nagorno Karabakh al confne tra Armenia e Azerbaigian.
Contese destabilizzanti che possono causare in qualsiasi momento confitti armati,
come accaduto nel 2020 in Nagorno Karabakh e oggi in Ucraina. Iniziati o diretti
dalla Russia, questi confitti e sono stati mantenuti dormienti da Mosca per fungere
da strumenti di pressione sugli Stati interessati. Tali paesi sono rimasti nella sfera
d’infuenza russa, come l’Armenia; o hanno sperimentato sviluppi democratici len-
ti e tortuosi infuenzati dalla Russia, come la Repubblica di Moldova; o ancora sono
stati vittime di aggressione diretta quando Mosca non è più stata in grado di in-
fuenzarli, come la Georgia nel 2008 o l’Ucraina nel 2014 e nel 2022.
Altra specifcità è la scarsa coesione tra gli stati Nato che si affacciano sul Mar
Nero. La Romania ha una postura flo-americana e vuole una maggiore presenza
dell’Alleanza Atlantica nella regione, consapevole della propria inferiorità militare
rispetto alla Russia. La Turchia ha un atteggiamento ambivalente verso la Russia,
avendo interessi complementari o antagonisti nel Caucaso, in Asia centrale, in Me-
dio Oriente e in Nordafrica. Il neo-ottomanismo del presidente Erdoãan ha fatto sì
che Ankara abbia adottato una politica di equilibrio piuttosto che di confronto, con
atteggiamenti benevoli verso Mosca o Putin, anche a costo di infastidire Washin-
gton. La Bulgaria ha legami tradizionali con la Russia di natura storica, culturale,
linguistica e religiosa. Popolo slavo-ortodosso resosi indipendente dai turchi nel
XIX secolo grazie al sostegno e al coinvolgimento militare russo, i bulgari conser-
vano forti sentimenti positivi verso Mosca anche oggi, dopo l’invasione dell’Ucrai-
na 3. Un sondaggio condotto nell’ottobre 2022 mostra che il 48% dei bulgari non
sostiene né Ucraina né Russia in questo confitto, il 23% parteggia per Kiev e il 21%
circa per Mosca. Se nel Baltico la Polonia agisce all’unisono con le omonime re-
pubbliche, nel Mar Nero i tre Stati Nato raramente sono disposti a una vera coope-
razione, soprattutto se antirussa.

2. L’Isola dei Serpenti è un afforamento roccioso di appena 17 ettari situato di


fronte al delta del Danubio, a soli 37 km dal porto romeno di Sulina, a 143 da Odes-
sa e a 270 da Sebastopoli. I greci la chiamavano Leuke, i romani Isola Bianca perché
da lontano si potevano vedere le candide rovine del tempio di Achille, che leggen-
2. S. CELAC, D. DUNGACIU, G. SCUTARU, E. SIMION, «Russian Policy in the Black Sea Region», New Strategy
Center, Norwegian Institute of International Affairs (Nupi)¸ 24/11/2022.
3. M. YORDANOV, «Close to Half of Bulgarians Back Neither Russia nor Ukraine in War – Poll», Bulga-
236 rian News Agency, 10/11/2022.
LA GUERRA CONTINUA

Mare rivendicato

M
Limite delle Zee

OL
frutto di un accordo dalla Russia
UCRAINA

DO
bilaterale Mare rivendicato
dall’Ucraina

VA
Limite d’equidistanza
virtuale Nuova rivendicazione
2014
4 della Russia
201
Crimea
FEDERAZIONE
ROMANIA RUSSA
Abkh
azia
BULGARIA
GEORGIA
M a r N e r o

TURCHIA
Aree di libera
navigazione disturbate
IL PICCOLO GRANDE MAR NERO dalla Federazione Russa
Accordo tra Bulgaria Decisione della Corte Accordo tra Turchia Scambio di note tra Accordo tra Turchia
e Turchia (4/12/1997) int. di giustizia tra e Urss (23/6/1978) Turchia e Urss e Georgia (14/7/1997)
Romania e Ucraina (tra il 23/12/1986
(3/2/2009) e il 6/2/1987)
Fonte: Black Sea News e Confits

de greche volevano sepolto qui dopo aver perso la vita nell’assedio di Troia. L’isola
fu governata da romani, bizantini, genovesi, turchi, russi (per un breve periodo) e
di nuovo dai turchi, poi dalla Romania tra il 1878 e il 1947, quando fu presa
dall’Urss. Nel 1991 divenne parte dell’Ucraina. La Romania ne ha riconosciuto im-
plicitamente l’assetto territoriale con il trattato bilaterale romeno-ucraino del 1997.
I negoziati tra i due paesi per la delimitazione della piattaforma continentale e
delle Zone economiche esclusive (Zee) nel Mar Nero sono proseguiti anche dopo,
ma senza esito. Romania e Ucraina hanno quindi portato la questione alla Corte
internazionale di giustizia dell’Aia. Tra il 2004 e il 2009 Kiev e Bucarest hanno pre-
sentato varie proposte di condivisione dell’area contesa (11 mila kmq), tutte incen-
trate sullo statuto dell’Isola dei Serpenti: abitata con risorse proprie secondo gli
ucraini, roccia per i romeni. Lo statuto dell’isola era importante per l’assegnazione
della contesa piattaforma continentale. Nel 2009 la Corte internazionale si è pro-
nunciata a favore della Romania, che ha ricevuto 9.700 kmq a fronte dei 2.300 as-
segnati all’Ucraina. Il modo civile con cui i due paesi hanno risolto la spinosa
controversia rappresenta un punto di riferimento a livello internazionale 4.
A sud dell’isola la Romania ha scoperto importanti riserve di gas naturale, sti-
mate in 200 bcm (miliardi di m3). Il giacimento maggiore, Neptun Deep, situato 150
4. A. COLIBășANU, L. DINU, J. GODZIMIRSKI, G. SCUTARU, «How the Snake Island Matters in the context of
the 2022 War in Ukraine?», New Strategy Center, Norwegian Institute of International Affairs (Nupi)¸
24/11/2022; «11 years since romania’s trial to the hague, which brought Romania 9,700 km2 of conti-
nental shelf and exclusive economic zone», Romanian Ministry of Foreign Affairs, 3/2/2020. 237
ROMANIA, FRONTE DEL PORTO

km al largo e vicino alle Zee di Bulgaria e Turchia, ha riserve stimate di 100 bcm.
Bucarest è sul punto di iniziare la costruzione dell’infrastruttura necessaria a sfrut-
tare il gas di Neptun Deep, la cui estrazione dovrebbe iniziare nel 2027. Dall’agosto
2022 ha inoltre iniziato a estrarre gas naturale dal giacimento offshore Ana, a sud
dell’isola, e nei prossimi 8-10 anni preleverà 1 bcm/anno 5. La Romania consuma
ogni anno 12 bcm 6, la Repubblica di Moldova 1,1 (escludendo la Transnistria) 7, la
Bulgaria 3,2 8. L’erario romeno incamererebbe circa 26 miliardi di dollari 9 solo dal-
lo sfruttamento di Neptun Deep: cifra pari al bilancio della difesa di 5 anni. Dopo
la chiusura del giacimento olandese di Groningen nel 2022, la Romania è diventa-
ta il maggiore produttore di gas naturale dell’Unione Europea 10, il che le conferisce
un vantaggio strategico e aiuta l’Ue a ridurre il potere di ricatto della Russia. Il fatto
che queste risorse energetiche romene si trovino a sud dell’Isola dei Serpenti, alcu-
ne nell’area assegnata alla Romania dalla Corte internazionale di giustizia, porta
Bucarest a temere che se la Russia rioccupasse l’isola potrebbe disconoscere l’arbi-
trato del 2009. Mosca usa spesso false argomentazioni legali o interpretazioni cap-
ziose per giustifcare i suoi abusi, come i referendum con cui ha annesso la Crimea
nel 2014 e le regioni dell’Ucraina meridionale nel 2022.
Questo comportamento rientra nell’arsenale della guerra ibrida che la Russia
sta portando avanti contro l’Occidente. Esempio eloquente ne è il blocco di por-
zioni del Mar Nero con il pretesto di condurre esercitazioni navali, alcune reali e
altre fttizie, onde impedire la libera navigazione. Si tratta di una pratica legale, ma
se utilizzata ripetutamente determina effetti negativi sul commercio marittimo. A
partire dal 2017 e fno all’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, la Russia vi ha
fatto spesso ricorso. Nell’estate del 2009, ad esempio, bloccò circa un terzo della
superfcie totale del Mar Nero.
La guerra scatenata da Mosca ha esposto le compagnie di navigazione ope-
ranti nel Mar Nero a nuovi rischi, che hanno fatto lievitare i costi di assicurazione,
trasporto, movimentazione e produzione dei beni movimentati. Qualsiasi nuovo
progetto in grado di ridurre la dipendenza energetica dell’Ue dalla Russia, come
quello della Romania nell’area in questione, sarà dunque più costoso e nel caso
specifco richiederà a Bucarest di investire più risorse per scoraggiare possibili
aggressioni di Mosca nella propria Zee.

5. A. FILIP, «Investiția record din Marea Neagră a fost inaugurată. “Ana” și “Doina” vor asigura Român-
iei 90% din consumul de gaze» («L’investimento record nel Mar Nero è stato inaugurato. “Ana” e “Doi-
na” assicureranno alla Romania il 90% dei consumi di gas»), Observator, 28/6/2022
6. S. OZON, «Cum a ratat România șansa de a deveni cel mai mare producător de gaze naturale din UE.
Istoria scandaloasă a Legii Offshore» («Come la Romania ha perso l’occasione di diventare il più gran-
de produttore di gas naturale nell’Ue. La storia scandalosa della legge Offshore»), ziare.com, 19/3/2022.
7. P. PODOLEANU, «Tabloul gazelor în Republica Moldova: Consumatorii casnici și-au crescut simțitor
cantitățile utilizate în ultimii ani» («Tabella del gas nella Repubblica Moldava: negli ultimi anni i con-
sumatori domestici hanno aumentato signifcativamente le quantità utilizzate»), Agora, 1/11/2021.
8. «Bulgaria Energy Information», Enerdata.
9. S. OZON, op. cit.
10. «România ar putea deveni cel mai mare producător de gaze naturale din UE. 5 miliarde de lei/an în
plus la buget, doar din Marea Neagră» («La Romania potrebbe diventare il più grande produttore di gas
238 naturale dell’Ue. 5 miliardi di lei all’anno in più per l’erario solo dal Mar Nero»), Wall-Street.ro, 19/5/2022.
LA GUERRA CONTINUA

Giacimenti ofshore Concessioni ofshore


MAR NERO, QUADRANTE Petrolio
NORD-OVEST Gas
OMV PETROM

F. Nist
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XIX Neptun West

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um U C R A I N A EXXONMOBIL

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Braila ISOLA DEI SERPENTI


Delta del FED. RUSSA
o

Danubio
D anubi

Sulina Crimea
Base aerea Nato
Mihail M a r
Kogălniceanu
Fi u m e N e r o
Cernavoda
Costanza
Sebastopoli
Canale artifciale
Danubio-Mar Nero
BULGARIA
Confne marittimo attuale (Zee)
Confne reclamato dalla Romania
Confne reclamato dall’Ucraina
Limite delle acque territoriali (12mn)
Porti principali
Rotte strategiche per l’export
di grano ucraino
Centrale nucleare romena

UCRAINA
MOLD.
TURCHIA ROMANIA FEDERAZIONE
Crimea RUSSA
Istanbul
BULGARIA Mar Nero Ossezia del Sud
Abkhazia
GEORGIA
ARM. AZERB.
TURCHIA
Nagorno
Karabakh 239
Fonte: Hague Justice Portal, Petroleum Economist
ROMANIA, FRONTE DEL PORTO

La Russia conosce l’importanza strategica dell’Isola dei Serpenti sotto il pro-


flo militare ed economico, non a caso l’ha conquistata il primo giorno dell’inva-
sione e l’ha tenuta fno al 30 giugno, scacciata dagli intensi bombardamenti e
dagli attacchi con droni condotti dagli ucraini. L’isola è stata un importante avam-
posto nella costituzione del blocco navale con cui Mosca ha cercato di soffocare
l’economia ucraina, che ha così perso 170 milioni di dollari al giorno. La fornitu-
ra di missili Harpoon da parte degli alleati occidentali, l’affondamento dell’incro-
ciatore Moskva il 14 aprile 2022, il ritiro dei russi dall’Isola dei Serpenti il 30 giu-
gno 2022 hanno per ora scongiurato uno sbarco russo sul delta del Danubio o a
Odessa 11. I negoziati tra Turchia, Russia, Ucraina e Onu hanno permesso a Kiev
di riprendere le esportazioni di cereali attraverso il corridoio marittimo Odessa-I-
stanbul. La seconda rotta delle esportazioni ucraine – l’unica durante il blocco – è
stata quella che si avvaleva dei porti ucraini di Reni e Izmajil e di quelli romeni
di Galati e Brăila sul Danubio e di Sulina e Costanza sul Mar Nero. Sfruttando
tutti i mezzi di trasporto – stradali, ferroviari, fuviali – i porti romeni sul Mar Ne-
ro continuano a reindirizzare l’export ucraino: 14 milioni di tonnellate di cereali
via Romania al 15 gennaio 2023, rispetto alle 16 milioni di tonnellate del corrido-
io Odessa-Istanbul 12.
Il maggior pericolo per la libertà di navigazione è rappresentato in questo
momento dalle mine. L’area antistante i porti di Sulina e Costanza ne è piena e un
incidente è sempre possibile, anche perché le tempeste hanno danneggiato gli
sbarramenti di mine che proteggono la costa ucraina e gli ordigni galleggiano alla
deriva, come constatato dalle Marine romena, bulgara e turca. Un incidente si è
verifcato l’8 settembre, quando un dragamine romeno ha colpito una mina duran-
te le manovre notturne per neutralizzarla. L’esplosione ha causato lievi danni alla
nave, che ha raggiunto la riva con l’equipaggio incolume 13. La Marina romena ha
in servizio attivo 3 dragamine 14 in missione permanente per mettere in sicurezza i
trasporti tra il delta del Danubio e i porti romeni, ma anche il tratto del corridoio
Odessa-Istanbul che passa per la Zee romena.
Il Mar Nero ha infatti due porte d’ingresso: il Bosforo e il delta del Danubio.
Se la Russia rioccupasse l’Isola dei Serpenti, controllerebbe uno dei due accessi e
potrebbe ostacolare tutto il traffco navale in uscita o in entrata da esso attraverso
il braccio di Sulina 15. L’isola è a 167 km dalla base aerea di Mihail Kogălniceanu,
dove si trova il grosso delle truppe americane dispiegate in Romania. L’equipaggia-
mento Sigint (Signal Intelligence) collocabile dai russi sull’isola potrebbe monitora-
re la base aerea di Borcea – da cui gli aerei Nato svolgono missioni di polizia aerea
11. A. COLIBășANU, G.A. CROWTHER, J. HICKMAN, G. SCUTARU, «The Strategic Importance of Snake Island»,
New Strategy Center, 27/9/2022.
12. Dialogo degli autori con rappresentanti del ministero dei Trasporti della Romania.
13. C. GAVRILAS, «Dragorul maritim avariat de explozia unei mine, de 33 de ani în serviciul Armatei» («Il
dragamine danneggiato dall’esplosione di una mina, da 33 anni al servizio delle Forze armate»), Ade-
vărul, 10/9/2022.
14. «Divizionul Nave» («Divisione Navi»), Forze navali della Romania.
240 15. A. COLIBășANU, G.A. CROWTHER, J. HICKMAN, G. SCUTARU, op. cit.
LA GUERRA CONTINUA

– e il traffco navale presso i porti romeni di Sulina e Costanza. Inoltre, i russi po-
trebbero utilizzare l’isola per attività di disturbo e alterazione dei segnali Gnss
(Global Navigation Satellite System) 16, causando incidenti nei giacimenti offshore
collocati nella Zee romena.
Il controllo ucraino dell’isola è dunque fondamentale, mentre per Mosca l’atol-
lo rappresenta un avamposto da cui strozzare l’economia di Kiev, faccandone così
la resistenza militare. Visto che al momento oltre il 30% del territorio ucraino è
minato 17 e che tra le maggiori insidie all’attività marittima fgurano le mine, l’attivi-
tà economica è già diminuita. Questo pone seri dilemmi all’Ue, la cui industria è
stata danneggiata dalla crisi dell’economia ucraina e dal rincaro di energia e mate-
rie prime, ma anche dalla crisi in cui versa la produzione di fertilizzanti, di cui
prima della guerra Kiev era grande esportatrice. A ciò si aggiungono il rischio di
nuove ondate di rifugiati e la crisi alimentare che incombe sui paesi (molti africani)
importatori di cibo ucraino, essenziale per la loro stabilità e – di rifesso – per quel-
la europea.

3. Riteniamo pertanto molto probabile che alla vigilia di un armistizio o di una


soluzione diplomatica della guerra la Russia tenti ancora di occupare l’Isola dei
Serpenti, da cui Mosca potrebbe compiere azioni di disturbo e monitoraggio anche
in tempo di pace: ispezioni abusive di navi mercantili, interdizione di aree con il
pretesto di esercitazioni militari, interferenza nello sfruttamento del gas offshore a
danno della Romania e della Ue. Il Mar Nero sarà presto attraversato per 1.100 km
da un cavo sottomarino da 1.000 GW che porterà elettricità dall’Azerbaigian all’Eu-
ropa attraverso la Georgia 18; parallelamente a esso dovrebbe correre un cavo in
fbra ottica per aumentare la connettività tra il Caspio e lo spazio Ue 19. Il progetto
servirà non solo gli Stati Ue, ma anche i Balcani e la Repubblica di Moldova, ridu-
cendone la dipendenza dalla Russia. L’infrastruttura raggiungerebbe la costa rome-
na a Costanza, 175 chilometri a sud dell’Isola dei Serpenti. La consegna di ulteriori
sistemi antinave e anti-aerei occidentali all’Ucraina servirà anche a impedire uno
nuovo sbarco russo sull’Isola dei Serpenti, ma la Nato e gli Stati Uniti devono anche
sostenere la Romania schierandovi sistemi antinave fno al 2026, quando l’america-
na Raytheon consegnerà a Bucarest quattro nuovi sistemi di difesa costiera.
L’Unione Europea deve poi fornire a Romania e Bulgaria dragamine e caccia-
mine per aumentare la sicurezza delle navi che trasportano cereali ucraini nel Mar
Nero occidentale. Queste navi non sono mezzi offensivi. Ankara può essere per-

16. A. COLIBășANU, L. DINU, J. GODZIMIRSKI, G. SCUTARU, op. cit.


17. Secondo le informazioni uffciali del servizio ucraino per le situazioni di emergenza, «In Ukraine,
30% of territory mined – State Emergency Service», Ukrinform, 18/11/2022.
18. «Acord strategic la București pentru un cablu submarin / Iohannis: Un document crucial și ambițios
/ Von der Leyen: Un proiect plin de posibilități» («Accordo strategico a Bucarest per un cavo sottoma-
rino / Iohannis: un documento cruciale e ambizioso / Von der Leyen: un progetto ricco di possibilità»),
Hotnews, 17/12/2022.
19. O. DESPA, «Cablul electric dintre România și Georgia care ar putea rezolva o parte din problemele
energetice ale UE» («Il cavo elettrico tra Romania e Georgia che potrebbe risolvere parte dei problemi
energetici dell’Ue»), Europa Liberă, 11/10/2022. 241
ROMANIA, FRONTE DEL PORTO

suasa a sostenere un simile approccio, tenendo presente che ha interesse al buon


funzionamento del corridoio Odessa-Istanbul. Nel 2022 l’Italia si è detta disponibi-
le ad aiutare la Romania e a inviare due cacciamine, Turchia permettendo, ma ciò
era prima dell’apertura del corridoio Odessa-Istanbul. Una missione umanitaria
europea per sminare il Mar Nero e tutelarne la navigazione commerciale dimostre-
rebbe la volontà politica di sostenere la sicurezza alimentare a livello mondiale, di
aiutare l’Ucraina e di garantire la sicurezza di Romania e Bulgaria. Fornirebbe an-
che una importante base di cooperazione con la Turchia. L’articolo 18, lettera d,
della convenzione di Montreux prevede che, con il consenso ddi Ankara, navi
militari di Stati non affacciati sul Mar Nero, in missione umanitaria e di stazza mas-
sima non superiore a 8 mila tonnellate, attraversino gli Stretti 20. La disposizione
aspetta solo di essere applicata.

242 20. «1936 Convention Regarding the Regime of the Straits», 20/7/1936.
LA GUERRA CONTINUA

Parte III
VIRATE in CORSO
nell’ INDO-PACIFICO
LA GUERRA CONTINUA

LA GUERRA GRANDE COLPISCE


LE NUOVE VIE DELLA SETA di Giorgio CUSCITO

Sedate le lotte di potere nel Partito comunista e abolita la tattica


zero Covid, la Cina rilancia la Bri per non subire i contraccolpi
della guerra ucraina. Il traballante soft power sinico, la trappola
del debito e la crisi di Taiwan fiaccano il piano di Xi.

1. L A REPUBBLICA POPOLARE CINESE STA


riconfgurando i propri piani di politica domestica ed estera nel tentativo di volge-
re a proprio favore il triangolo con Stati Uniti e Federazione Russa. Eppure le cre-
scenti fragilità interne del fu Impero del Centro, quelle di diversi partner della Belt
and Road Initiative (Bri o nuove vie della seta), l’effcace contenimento imposto da
Washington nell’Indo-Pacifco e il facco soft power di Pechino in Europa riducono
le possibilità di successo. Non è certamente lo scenario desiderato dal presidente
Xi Jinping, che proprio nei prossimi mesi vorrebbe celebrare il decimo anniversario
della Bri 1, lanciata nel 2013 per forgiare un ordine internazionale alternativo a
quello guidato dagli Stati Uniti.
La tattica di Xi per il 2023 è complessa. La priorità è rimettere in moto l’econo-
mia cinese potenziando commercio e investimenti. Così da stimolare i connazionali
e le aziende private a riacquisire fducia in sé stessi e nel Partito comunista dopo la
recente abolizione della politica zero Covid. I lockdown serrati e il monitoraggio
costante della popolazione imposti fno a due mesi fa per contenere l’epidemia han-
no avuto gravi ripercussioni sulla Repubblica Popolare. Nel 2022 il pil è cresciuto
solo del 3%, cioè due punti e mezzo in meno rispetto a quanto preventivato da
Pechino. Il tasso di disoccupazione giovanile si è attestato attorno al 20%. Quello di
fertilità e il numero di matrimoni sono diminuiti. Inoltre, i casi di depressione sono
diventati più frequenti, al punto da destare la preoccupazione del Partito. Infne, la
Repubblica Popolare ha registrato il suo primo declino demografco in sessant’anni.
Che l’umore della popolazione non fosse dei migliori lo si è compreso già a
novembre, quando in diverse città del paese (Pechino, Shanghai, Chongqing e

1. «2023 gong jian “yidai yilu”: Shi nian zhengcheng zai chufa» («La costruzione congiunta di “Una
cintura, una via”: il viaggio ricomincia dieci anni dopo»), Guanming ribao, 28/1/2023. 245
LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA

Wuhan) sono scoppiate manifestazioni di protesta contro la rigida e spesso confu-


sionaria gestione dell’epidemia. Il caso specifco che ha innescato i disordini è
stata la morte di una decina di persone a causa di un incendio scoppiato in un
palazzo sotto quarantena a Ürümqi, nel turbolento Xinjiang. A Shanghai, alcune
persone hanno persino chiesto esplicitamente le dimissioni di Xi, che era stato
confermato per la terza volta leader del paese durante il XX Congresso del Partito
comunista svoltosi a ottobre.
Pechino sostiene che i contagi gravi da Covid-19 abbiano già raggiunto il pic-
co e che a breve il paese uscirà dall’emergenza. Tuttavia non si può escludere che
gli imponenti fussi migratori interni alla Repubblica Popolare tipici del capodanno
lunare accrescano ulteriormente il numero di decessi. E che quindi gravino sul la-
cunoso sistema sanitario cinese, alimentando le tensioni tra governo e popolazione
nell’anno del coniglio.
La combinazione di tali fattori è una potenziale sciagura per il Partito, visto che
una popolazione giovane, in salute e fduciosa è cruciale per affrontare le sfde
future. A cominciare dal duello con l’America, che potrebbe sfociare nella guerra
per Taiwan.
Il secondo proposito della Cina per il nuovo anno è rafforzare la propria im-
magine all’estero. La lista di fattori che l’hanno danneggiata è lunga: l’epidemia di
Covid-19, il cui primo focolaio è scoppiato a Wuhan nel 2019; la non brillante
competizione militare e tecnologica con Washington; le tensioni con Taipei, più
che mai contraria all’unifcazione; la cosiddetta «amicizia senza limiti» instaurata con
la Russia poche settimane prima che questa invadesse l’Ucraina; la «trappola del
debito» generata dalla Bri; i persistenti episodi di protesta e di violenza verifcatisi
in alcuni paesi ospitanti attività economiche cinesi.
Ricucire cosmeticamente le relazioni con gli Stati Uniti avrebbe effetti positivi
sulla gestione di buona parte di questi dossier. In particolare, Pechino ha bisogno
di porre un freno alle effcaci sanzioni americane volte all’esclusione della Repub-
blica Popolare dalla fliera dei semiconduttori e di continuare a esportare merci in
Europa.
Il Vecchio Continente resterà la principale meta della Bri. Non solo come fon-
te di opportunità economiche, ma in quanto porzione decisiva della sfera d’in-
fuenza americana e teatro in cui albergano alcune delle principali potenze al
mondo. Il governo cinese tenterà di rilanciare la sintonia con i paesi veteroconti-
nentali, che però sono sempre più guardinghi verso la presenza della Repubblica
Popolare in settori cruciali (semiconduttori, 5G, porti) per il rispettivo interesse
nazionale e non vedono di buon occhio l’«amicizia» sino-russa.
Pechino non è soddisfatta dei rapporti con Mosca. L’attuale fragilità delle rotte
terrestri passanti per i territori coinvolti dalla guerra in Ucraina sta spingendo il
governo cinese a valorizzare nuovi percorsi. In particolare, quelli che riguardano
l’Asia centrale e il Medio Oriente. Cionondimeno, Xi non volterà apertamente le
spalle al presidente russo Vladimir Putin, giacché necessita del suo supporto in
246 funzione anti-americana.
LA GUERRA CONTINUA

2. Sul piano statistico i risultati della Bri non paiono così negativi. Il progetto
coinvolge 150 paesi e 32 organizzazioni internazionali. Nel 2022 il commercio tra
questi e la Repubblica Popolare è cresciuto del 20,4% 2 e lungo le rotte ferroviarie
dirette verso l’Europa sono stati trasportati 1,6 milioni di teu (unità equivalente a
venti piedi, misura standard dei container), circa il 10% in più rispetto al 2021.
Eppure non tutti i percorsi hanno avuto la stessa rilevanza. Circa 750 mila teu
sono passati per il corridoio Cina-Asia centrale-Asia occidentale. Si tratta di un in-
cremento annuo del 18,5%. Potrebbe essere un indizio del fatto che Pechino stia
ridimensionando il ruolo delle altre due rotte terrestri della Bri (il corridoio econo-
mico Cina-Mongolia-Russia e il Nuovo ponte terrestre Asia-Europa) reputate geo-
politicamente instabili a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca.
Neanche il corridoio Cina-Pakistan pare affdabile. Lo scorso dicembre nuove
proteste anticinesi si sono verifcate presso il porto pakistano di Gwadar, che do-
vrebbe consentire alla Repubblica Popolare di accedere all’Oceano Indiano evitan-
do lo Stretto di Malacca, collo di bottiglia presidiato dagli Stati Uniti. Negli ultimi
due anni, il Pakistan è stato teatro di diversi attentati terroristici contro lavoratori
cinesi. Il più emblematico è quello sferrato nell’aprile 2022 all’Istituto Confucio di
Karachi. Pechino aveva da poco scelto di puntare sulla città portuale per schivare
gli attentati jihadisti in Balucistan 3.
Neanche l’idea di allacciare l’Afghanistan al corridoio sino-pakistano sta dando
i frutti sperati. Dopo il ritiro dei soldati americani e della Nato dalla «tomba degli
imperi» nel 2021, Pechino ha promesso ai taliban investimenti e sostegno sul piano
internazionale. In cambio, ha chiesto loro di impedire il ritorno di estremisti di et-
nia uigura, minoranza musulmana e turcofona che abita nel Xinjiang. Come risul-
tato, a gennaio la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas Company ha ottenuto
il permesso di estrarre petrolio nel bacino dell’Amu Darya. Eppure lo scorso dicem-
bre Pechino ha invitato tutti i suoi connazionali ad abbandonare il paese dopo che
alcuni militanti dello Stato Islamico hanno condotto un attentato contro l’hotel
Longan di Kabul, di proprietà cinese. Segno che non sarà così semplice operare in
Afghanistan.
La Repubblica Popolare ha intensifcato le attività in Asia centrale a inizio 2022,
quando Xi ha presieduto un incontro in teleconferenza con i leader di Kazakistan,
Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan (i cosiddetti C5) per festeggia-
re i trent’anni di relazioni diplomatiche tra Pechino e le repubbliche centrasiatiche.
In quell’occasione il leader cinese ha annunciato di voler accrescere lo scambio
commerciale con i C5 da 50 a 70 miliardi di dollari entro il 2030 e fornire loro aiu-
ti del valore di 500 milioni per l’attuazione di programmi di sostentamento.
Poi lo scorso settembre Xi si è recato a Samarcanda. Erano due anni e mezzo
che non lasciava la Cina, complice l’epidemia di Covid e le lotte di potere nel Par-
tito. Nella capitale uzbeka il suo scopo non era solo mostrare a Putin il disappunto

2. Y. ZHANG, «BRI, other China-led visions high on 2023 agenda», China Daily, 26/12/2023.
3. Cfr. G. CUSCITO, «Soft power e nuove vie della seta: i bersagli cinesi dell’attentato in Pakistan», lime-
sonline.com, 29/4/2022. 247
248
LA QUARTA CRISI DELLO STRETTO
Limite della piattaforma Aree delle esercitazioni Mar
continentale rivendicato condotte dalla Cina Cinese
dalla Cina 1995-1996
Orientale
Confni marittimi tra la Cina 2022
e gli arcipelaghi taiwanesi
Isole Senkaku
(GIAPPONE, rivend.
I

da Cina e Taiwan)
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Yonaguni I A
LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA

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(GIAPPONE)

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Isole Pescadores
(TAIWAN) O C E A N O
P A C I F I C O

Taiwan e suoi arcipelaghi


Mar
Rivendicazioni di Taiwan
Cinese Canale di Bashi Lancio di missili balistici
Acque territoriali da parte dell’Esercito
Meridionale
Confni marittimi Z e e f i l i p p i n a popolare di liberazione
il 4 agosto 2022
Infrastrutture a Taiwan Isole Batan
(FILIPPINE) I punti di lancio, i percorsi
Basi aeree/aeroporti di volo e i punti di atterraggio
Basi navali/porti sono approssimativi
Fonte: chinapower.csis.org
Isole Paracel
1 - LA MARINA CINESE NELL’INDO-PACIFICO Contese tra Cina,
Taiwan e Vietnam
Anti-Access/Area Denial (A2/AD) GIAPPONE
Strategia cinese di interdizione dello spazio Isole Spratly
Contese tra Cina,
Prima catena di isole COREA Filippine, Brunei,
(comprende i bacini contesi dell’Asia DEL NORD Tōkyō Malaysia, Taiwan
orientale, funzionali per Pechino a difendere MONGOLIA e Vietnam
la Cina continentale e bloccare la proiezione COREA
di potenza aeronavale Usa) DEL SUD Possibili basi
Flotta militari cinesi
Seconda catena di isole Pechino del Teatro
(racchiude gli spazi marittimi dell’Oceano settentrionale Basi navali
Pacifco ove la Cina punta a estendere principali
la propria infuenza con la creazione
di una Marina d’alto mare) Qingdao
Gittata massima dei missili
cinesi anti-nave basati a terra Flotta
Limite aree di competenza delle C I N A Shanghai del Teatro
fotte cinesi orientale
Ningbo Stretto
di Miyako
PAKISTAN
TAIWAN
NEPAL Guangzhou OCEANO
BHUTAN Stretto
di Luzon PACIFICO
BANGLADESH Zhanjiang Hong Kong

MYANMAR Guam (Usa)


INDIA LAOS Yulin
Nuova base FILIPPINE
Flotta
per sottomarini del Teatro
nucleari meridionale
THAILANDIA VIETNAM
CAMBOGIA

ia PAPUA
SRI LANKA igl NUOVA
m GUINEA
00
1.3
OCEANO INDIANO MALAYSIA
MALDIVE SINGAPORE

I N D O N E S I A AUSTRALIA
2 - DI CHI È TAIWAN?
Z H E J I A N G
Nanchang Amami
Mar Tokuno
Wenzhou Cinese
Orientale

I
E
J I A N G X I Okinawa

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Isole Senkaku O C E A N O

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(GIAPPONE, rivend. P A C I F I C O

A
C I N A Fuzhou da Cina e Taiwan)

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F U J I A N E
143 km Miyako L O
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Hsinchu Taipei S
Xiamen 108 km I P Keelung City

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Taipei City

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Taichung
Yonaguni I A

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G U A N G D O N G 155 (GIAPPONE) G Lienchiang TAIWAN Taoyuan
km

di
Chaozhou

to
Guangzhou REP. DI CINA Hsinchu New Taipei City

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(TAIWAN) Yilan
Tainan Miaoli

tre
Kaohsiung

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Kowloon Quemoy Taichung City
Macao
Hong Kong Changhua 1
Penghu Nantou

15
Canale di Bashi Hualien

6k
Yunlin

m
E Chiayi City Chiayi
Isole Pratas Isole Batan (FILIPPINE)
Arcipelago

IN
(TAIWAN, rivendicate dalla Cina)
Tainan

P
della Repubblica di Cina Mar Canale di Balintang City
(TAIWAN) Babuyan Kaohsiung City Taitung

IP
Cinese Calayan
TAIWAN Meridionale Dalupiri Fuga Camiguin
Pingtung

FIL
ISOLE MATSU
QUEMOY Limite della piattaforma
continentale rivendicato Laoag Taitung
Isola di Luzon
PESCADORES dalla Cina LE CONTEE DELLA
Acque contese tra Tuguegarao REP. DI CINA
LANYU Confni marittimi Giappone e Cina FILIPPINE (TAIWAN)
Popolazione totale del paese: Le montagne
3 - NUCLEI GEOPOLITICI A FORMOSA di Taiwan
23.264.640 (2022) 3.997
Composizione etnica di Taiwan 2.500
Fonte: www.taiwan.gov.tw Personale militare:
2,5% 1.800
Aborigeni 1% Cinesi continentali 1.826.000 (di cui 169.000 soldati in attività 1.200
Isole Ryūkyū e 1.657.000 in riserva)
austronesiani Macao, Hong Kong e stranieri (Giappone) 500
Fonte: Archivio statistico della Repubblica di Cina (2022) 0 metri
e Military Balance (2022)
Han (inclusi hoklo,
hakka e altri cinesi
96,5% provenienti dalla
terraferma)
Lanyu
TA I WA N (Taiwan)
Isole Batan
Taipei (Filippine)
M a r C i n e s e
O r i e n t a l e Taoyuan Yu Shan
Hsinchu 3.997 m
Sede di Taiwan Semiconductor
Canale di Bashi

Manufacturing Company (Tsmc)

S
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e di Ch Tainan
Wenzhou Matsu t ianan
Kaohsiung
to
(Taiwan) Maggior porto
d per trafco container
i
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Z H E J I A N G a
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a n Isole Pescadores
Fuzhou M a r C i n e s e
(Taiwan)
M e r i d i o n a l e

F U J I A N Quemoy
C I N A (Taiwan) Confni marittimi
Nanping Nuclei geopolitici
Xiamen
di Taiwan
Potenziali punti di sbarco
Nuova Taipei di un eventuale attacco della
Rep. Pop. Cinese
4 - USA CONTRO CINA Misawa
Anti-Access/Area Denial (A2/Ad) PRESENZA MILITARE PERSONALE
Strategia cinese di interdizione dello spazio COREA GIAPPONE
USA NEL PACIFICO MILITARE DEL NORD
Prima catena di isole Yakota
(Spazio dove la Cina intende bloccare Hawaii 41.008 COREA
la proiezione di potenza statunitense Giappone 55.666 DEL SUD Tōkyō
acquisendo adeguate capacità militari) Yokosuka
Corea del Sud 25.726 Osan sede della 7°
Seconda catena di isole Guam 6.290 fotta Usa
(Strategia cinese, molto ambiziosa, Pechino Iwakuni
di creare una Blue Water Navy Singapore 203
per estendere la propria infuenza Principali basi aeree Usa
Thailandia 106 Kunsan
nell’Oceano Pacifco)
Australia 792 Jinae-gu
Gittata massima dei missili Principali basi navali Usa
+ 2.200 marines a rotazione
cinesi antinave basati a terra
nella base di Darwin Sasebo Principali basi dell’Esercito Usa
Filippine 187 + truppe a rotazione Shanghai
Hong Kong 13 Isole Senkaku

Fonte: dipartimento della Difesa Usa (marzo 2022)


Giappone Okinawa
Malaysia 18 (rivendicate da Cina
Indonesia 31 C I N A e Taiwan)
Isole Ryūkyū
PAKISTAN India 47 Giappone
Taiwan 30 TAIWAN
NEPA
L Guangzhou
Basa Fort Magsaysay
Hong Kong Subic
Isole Paracelso Base con libero Guam (Usa)
MYANMAR Cina accesso per gli Usa
INDIA (rivendicate da
LAOS FILIPPINE
Taiwan e Vietnam)
THAILANDIA Isole Spratly Mactan Benito Ebuen
Cina, Filippine,
Malaysia, Taiwan, Lumbia
CAMBOGIA Vietnam
iglia

U-Tapao A. Bautista
VIETNAM
00 m
1.3

Isole contese
BRUNEI

Paese ambiguo
MALAYSIA
Paesi pro-Cina Singapore Darwin
Paesi parte del contenimento anticinese

Paesi equidistanti I N D O N E S I A AUSTRALIA


©Limes
Fonte: Defense Manpower Data Center, U.S. Department of Defense
LA GUERRA CONTINUA

per il protrarsi della guerra alle porte dell’Europa. La trasferta serviva anche a get-
tare le basi per nuovi accordi con i C5. Peraltro, proprio durante quel viaggio il
leader cinese ha espresso esplicito sostegno alla sovranità e all’indipendenza del
Kazakistan, evidentemente in funzione antirussa. Poi a gennaio la Repubblica Po-
polare e il Turkmenistan hanno elevato i loro rapporti al livello di «partnership
strategica complessiva», frmato accordi di cooperazione nell’ambito delle nuove
vie della seta e parlato espressamente del progetto ferroviario che dovrebbe riguar-
dare i due paesi, il Kirghizistan e il Turkmenistan.
L’aumento della presenza cinese nei C5 può avere delle controindicazioni.
Innanzitutto rappresenta un elemento di frizione con Mosca, per nulla interessata
a rinunciare alla propria infuenza in Asia centrale. Inoltre, può spingere la Cina
ad accrescere la collaborazione con la Turchia, le cui ambizioni panturaniche ri-
guardano anche questa parte di mondo. Pechino e Ankara fanno affari da tempo
ma non hanno rapporti idilliaci. Il governo guidato dal presidente Recep Tayyip
Erdoãan si oppone a fasi alterne alla repressione degli uiguri (musulmani e turco-
foni) nel Xinjiang. Mentre quello cinese non gradisce l’intraprendenza turca e
russa in Libia, dove le aziende della Repubblica Popolare stentano a tornare dopo
l’evacuazione del 2011.

3. A ogni modo, per Pechino le rotte marittime contano sempre di più di quel-
le terrestri. Non potrebbe essere altrimenti, visto che oltre l’80% del commercio
mondiale avviene su acqua. Soprattutto, la Repubblica Popolare sa che per com-
petere sul piano geostrategico con gli Usa ha bisogno di allontanare la linea di
difesa dalla costa, di trasformare il Mar Cinese Meridionale nel proprio cortile di
casa e di accedere al Pacifco libera dal costante pattugliamento americano. L’anel-
lo di congiunzione tra questi tre elementi è Taiwan, considerata il punto di accesso
geografcamente e storicamente migliore all’oceano lungo la prima catena di isole
che si staglia dal Giappone all’Indonesia.
Taipei non intende accettare l’unifcazione pacifca con la Repubblica Popola-
re. Anzi, con il supporto americano si sta attrezzando per respingere un’eventuale
offensiva dell’Esercito popolare di liberazione (Epl). Il quale nel frattempo conti-
nua a condurre esercitazioni sempre più vicino alle coste taiwanesi sulla falsariga
di quelle attuate lo scorso agosto, dopo la visita a Formosa della speaker della
Camera statunitense Nancy Pelosi.
Qualcosa bolle in pentola sul fronte propagandistico cinese. Secondo il quoti-
diano nipponico Nikkei, Wang Huning, ideologo del Partito comunista, potrebbe
essere incaricato di sviluppare un nuovo tipo di rapporto tra Pechino e Taipei. Il
piano sarebbe logico, visto che i taiwanesi hanno rifutato l’unifcazione a cavallo
dello Stretto tramite la formula «un paese, due sistemi», che ormai garantisce solo
formalmente autonomia a Hong Kong e Macao 4. Se confermato, il ruolo di Wang

4. K. NAKAZAWA, «Analysis: Xi puts top brain in charge of Taiwan unifcation strategy», nikkei.com,
26/1/2023. 249
LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA

potrebbe diventare cruciale con l’avvicinarsi della sfda tra Partito progressista de-
mocratico (Ppd, contrario all’unifcazione) e Kuomintang (Kmt, più flo-Pechino)
alle presidenziali del 2024. Tuttavia, la vittoria del Kmt alle elezioni locali di novem-
bre non è automatico preludio al trionfo su scala nazionale. Diversamente da
quanto accaduto recentemente alle urne, la posta in gioco non sarà la gestione
politica del territorio ma l’indipendenza de facto di Taiwan, argomento capace di
catalizzare la coesione di tutta la popolazione.
Pechino continuerà a esibire i muscoli per mostrare che è pronta a tutto per
ottenere l’unifcazione. In più, fnanzierà progetti infrastrutturali (civili e militari) in
paesi bagnati dal Mar Cinese Meridionale e dal Pacifco. Basti pensare alla ristrut-
turazione in corso della base militare di Ream in Cambogia, la quale un tempo
ospitava soldati americani e presto potrebbe fare lo stesso con quelli dell’Epl. Op-
pure all’accordo di sicurezza siglato con le Isole Salomone, che pure potrebbero
diventare sede di un avamposto militare della Repubblica Popolare. Il proposito di
Pechino è guadagnare partner nelle acque rivierasche, accerchiare Taiwan e con-
trobilanciare la presenza di Washington in Oceania.
Al momento questa parte di mondo resta nella quasi totale disponibilità statu-
nitense. Lo scorso maggio nove paesi insulari del Pacifco (Papua Nuova Guinea,
Figi, Micronesia, Vanuatu, Niue, Samoa, Kiribati, Tonga e le stesse Isole Salomone)
hanno rifutato di stipulare un’intesa economica e militare multilaterale con Pechi-
no. Segno che pur incassando il denaro cinese non vogliono rinunciare all’ombrel-
lo securitario dell’America, dell’Australia e agli investimenti del Giappone. Intendo-
no infatti preservare i rapporti con i tre attori che insieme all’India costituiscono il
dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad), il cui scopo è arginare la Repubblica
Popolare nell’Indo-Pacifco in sinergia con la Nato.
È in tale ambito che la scorsa estate Washington e T§ky§ hanno organizzato
con i paesi della regione rispettivamente l’incontro dei Partner del Pacifco blu (Par-
tners in the Blue Pacifc, Pbp) e il Simposio dei leader anfbi del Pacifco. Il fatto che
al secondo evento Taiwan partecipasse in qualità di osservatore è diretta conseguen-
za dell’importanza geostrategica attribuita all’isola da parte del paese del Sol Levante.
Per inciso, il riarmo nipponico prosegue lento ma incessante. Lo scorso dicem-
bre T§ky§ ha aggiornato la sua strategia di sicurezza nazionale per dotarsi della
capacità di «contrattacco» e potenziare le operazioni spaziali e cibernetiche. Il Giap-
pone non è ancora sul punto di riformare la costituzione pacifsta ma, complice lo
scoppio della guerra in Ucraina, ha compreso che non può più puntare solo sul
sostegno degli Stati Uniti per gestire l’ascesa militare cinese, la minaccia missilistica
della Corea del Nord e le insolute tensioni con la Russia attorno alle isole Curili.
Tale dinamica induce la Repubblica Popolare a rivitalizzare il rapporto con le
Filippine, il cui arcipelago si sviluppa a sud di Taiwan. A gennaio Pechino e Mani-
la hanno frmato un accordo per allentare le tensioni legate alle dispute marittime
e accrescere la cooperazione economica. In ballo ci sono investimenti cinesi pari a
23 miliardi di dollari. Ciò non stravolge lo stato delle relazioni bilaterali. Le attività
250 militari dell’Epl attorno agli atolli contesi con le Filippine nell’arcipelago delle
LA GUERRA CONTINUA

Spratly e quelli nello Stretto di Luzon rappresentano una minaccia alla sicurezza di
Manila. Il governo guidato dal neopresidente Ferdinand Romualdez Marcos jr. non
si fda di Pechino e non rinuncerà alla protezione degli Stati Uniti ora che questi
promettono nuove strutture militari e investimenti nella rete 5G locale.
La presenza cinese resta consistente pure in Indonesia ed è fnalizzata all’indi-
viduazione di rotte marittime alternative a quella pakistana. In base a un accordo
bilaterale siglato a dicembre, China Harbour Engineering Company amplierà il
porto di Dumai. Lo scalo marittimo è ubicato sull’isola di Sumatra, si affaccia sullo
Stretto di Malacca e ospita la Marina indonesiana. Giacarta considera gli investi-
menti cinesi utili a migliorare i collegamenti infrastrutturali tra le 17 mila isole sotto
la sua sovranità e quindi ad assicurare l’unità del paese. Cionondimeno, gli indo-
nesiani non accolgono sempre positivamente la presenza della Repubblica Popo-
lare. Basti pensare alle furiose proteste di cui sono stati protagonisti alcuni operai
impegnati in attività estrattive sull’isola di Sulawesi per conto di Jiangsu Delong
Nickel Industry. Queste vicende, al pari degli attentati, possono dissuadere gli stes-
si cinesi dall’operare in contesti pericolosi.

4. A ovest di Malacca i piani della Cina sono altrettanto complessi. La crisi


economica e politica scoppiata nel 2022 nello Sri Lanka ha posto l’accento sugli
effetti negativi che le nuove vie della seta possono avere sui paesi meno abbienti.
Sia chiaro, le diffcoltà singalesi non sono state determinate solo dall’accumulo di
debito verso la Repubblica Popolare, visto che tra i creditori coinvolti vi sono an-
che Giappone e India. Sul declino dello Sri Lanka hanno pesato anche le scelte
economiche errate del governo di Colombo, guidato fno a pochi mesi fa dalla
famiglia Rajapaksa.
Pechino ha proposto al nuovo esecutivo singalese una moratoria di due anni
per la restituzione del debito e promesso che lo appoggerà affnché ottenga un
prestito di 2,9 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale. Lo Sri Lanka
è posta in gioco nel duello in corso tra Cina e India per mare e per terra, come
provano anche gli ennesimi scontri tra rispettive Forze armate sulla catena hima-
layana avvenuti a metà dicembre.
La vicenda singalese ha avuto ripercussioni sulle nuove vie della seta in Africa,
dove si registra con maggiore frequenza la perplessità dei governi locali ad accet-
tare investimenti particolarmente onerosi o poco trasparenti da parte di Pechino. È
il caso dell’Uganda, che ha recentemente cancellato un accordo da oltre due mi-
liardi di dollari per la costruzione del tratto ferroviario tra la capitale Kampala e la
città keniana di Maleba.
Gibuti, pur essendo particolarmente indebitata, si conferma perno del piano
cinese in Africa. Non è più «solo» sede dell’unica base navale uffciale dell’Epl all’e-
stero e fulcro dei percorsi infrastrutturali (ferrovie, strade, cavi in fbra ottica) tran-
scontinentali, diretti verso l’Europa via Mediterraneo. A gennaio il piccolo paese
collocato sul Corno d’Africa ha persino siglato un’intesa per la costruzione di uno
spazioporto da parte di Hong Kong Aerospace Technology (Hkatg). Il progetto 251
LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA

(del valore di un miliardo di dollari) include la costruzione di sette rampe di lancio


per satelliti e tre per test missilistici. Se, come previsto, l’accordo verrà formalizzato
a marzo, Hktag otterrà la gestione della struttura per 35 anni 5. La vicenda collima
con i piani della Repubblica Popolare per diventare contemporaneamente potenza
marittima e spaziale.
L’espansione di questo genere di operazioni da parte della Cina in Africa non
è di facile riuscita. Soprattutto ora che diversi paesi (vedi Etiopia e Nigeria) sono
meno propensi ad accogliere investimenti della Repubblica Popolare in settori ad
alto contenuto tecnologico. Senza contare che nel 2021 gli Stati Uniti sono interve-
nuti direttamente per sconsigliare la Guinea Equatoriale dall’accogliere una base
militare cinese. L’opposizione americana dipende dalla necessità di prevenire il
moltiplicarsi di strutture dell’Epl sulla sponda africana rivolta sull’Atlantico, in pros-
simità dell’Europa.
La presenza della Repubblica Popolare nel Vecchio Continente è sempre più
ingombrante. Al netto dell’immutata sintonia con l’Ungheria, la piattaforma di coo-
perazione tra Pechino e i 17 paesi dell’Europa centrale e orientale (ribattezzata
17+1) ha perso sostanza. In particolare dopo che Lituania, Estonia e Lettonia hanno
abbandonato l’iniziativa. I tre paesi baltici ritengono gli investimenti cinesi meno
attraenti del passato e temono la penetrazione della Repubblica Popolare via Artico
di concerto con la Russia. Vilnius ha persino accolto un uffcio di rappresentanza
taiwanese sul suolo nazionale e stretto i rapporti con Taiwan Semiconductor Com-
pany (Tsmc) per potenziare le attività lituane nel campo dei microprocessori.
Il dossier tecnologia è dirimente pure in altri paesi. Washington sta pressando
l’Olanda affnché restringa l’accesso della Repubblica Popolare ai prodotti del co-
losso Asml. La Germania ha bloccato due tentativi di acquisizione di aziende tede-
sche di semiconduttori da parte cinese e si vocifera che possa ospitare un impian-
to di Tsmc. Ciò non signifca che Berlino smetterà di fare affari con Pechino. Il
recente incontro tra Xi e il cancelliere Olaf Scholz ha confermato la sintonia sino-te-
desca sul piano commerciale, in primis nel settore automobilistico.
Infne, il rapporto tra Italia e Repubblica Popolare si è decisamente raffredda-
to. L’adesione di Roma alle nuove vie della seta nel 2019 non ha prodotto consi-
stenti risultati economici. Semmai ha accresciuto la tensione con Washington, ri-
sentita per l’appoggio di un alleato al progetto geopolitico del governo rivale. Nel
giro di tre anni l’Italia ha corretto la rotta usando a piene mani il golden power
contro investimenti cinesi in ambiti quali microchip, 5G, droni, robotica e agroali-
mentare. Ora Roma è al lavoro per mettere a frutto i quattro miliardi di euro stan-
ziati per il potenziamento dell’industria nazionale dei semiconduttori in collabora-
zione con attori stranieri, come l’americana Intel.
In questo contesto, i fari puntati sulle cosiddette «stazioni cinesi d’Oltremare»
dislocate nel nostro e in altri cinquanta paesi non giovano certamente al soft power
pechinese. Di fatto gli apparati di sicurezza di Pechino usano queste strutture (undi-
5. «Space in Africa: Djiboutian Government signs MoU with HKATG to Build a USD 1 billion Space-
252 port in Djibouti», hkatag.com, 10/1/2023.
LA GUERRA CONTINUA

ci in Italia) per monitorare e in caso rimpatriare membri della diaspora cinese. Atti-
vità che sottintendono una raccolta informativa su vasta scala nei paesi ospitanti.

5. Nei prossimi mesi la Cina intensifcherà gli sforzi all’estero per convincere i
governi stranieri che non è sua intenzione giungere allo scontro con gli Stati Uniti
e che le nuove vie della seta possono produrre ancora effetti benefci.
I tentativi di dialogo con Washington e le potenze europee non determineran-
no la fne della collaborazione sino-russa. Semmai Pechino continuerà a stringere
i rapporti energetici e militari con Mosca per imporsi come partner di maggioranza.
Allo stesso tempo potrebbe incoraggiare il Cremlino a giungere quantomeno a un
cessate-il-fuoco con l’Ucraina, attore su cui la Repubblica Popolare in passato pun-
tava come fonte di armi e beni agricoli.
Inoltre, Xi ha promesso di voler dare sostanza a due progetti per ora fumosi:
l’Iniziativa di sicurezza globale e quella di sviluppo globale. La prima pare di par-
ticolare rilevanza. Alla sua base vi è il concetto di sicurezza «indivisibile» (usato
anche dalla Russia), secondo cui nessun paese può rafforzare la propria a danno
di quella altrui. Apparentemente la Repubblica Popolare vuole creare insieme a
Mosca un nuovo consesso fnalizzato alla legittimazione dei propri obiettivi geopo-
litici. A cominciare dall’unifcazione con Taiwan.
Il successo dei piani di Pechino non è scontato, anche perché nel 2023 potreb-
bero assumere forme più defnite la Partnership for Global Infrastructure and In-
vestment (Pgii) e la Global Gateway. Cioè i piani infrastrutturali abbozzati rispetti-
vamente da Stati Uniti e Unione Europea per strappare partner alle nuove vie
della seta e ridimensionare l’affato globale di Pechino. Il loro successo dipenderà
dalla quantità di denaro messa effettivamente sul piatto e dai requisiti economici e
politici richiesti ai potenziali partecipanti.
Per l’ennesima volta, lo stato dell’arte assegna all’Italia un ruolo di rilievo. Il
memorandum di adesione dell’Italia alla Bri sarà effcace fno al 2024. Dopo di ciò
si rinnoverà automaticamente, salvo un esplicito cambio di posizione da parte di
Roma. Il tessuto imprenditoriale nostrano preserva ancora un forte interesse per il
mercato della Repubblica Popolare e il monitoraggio delle attività cinesi nelle in-
frastrutture critiche della penisola ha ridotto signifcativamente i rischi per il nostro
interesse nazionale - e americano. Tuttavia, la fne della partecipazione italiana alle
nuove vie della seta non è impossibile. Lo scorso settembre (poco prima di essere
eletta) proprio l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva detto che
avrebbe voluto abbandonare il progetto cinese 6. Se così fosse, l’Italia arrecherebbe
un signifcativo danno al soft power di Pechino in uno dei momenti più delicati
della presidenza di Xi.

6. «Meloni says would pull out of China’s Belt & Road scheme», ansa.it, 23/9/2023. 253
LA GUERRA CONTINUA

‘Ombre cinesi’
Conversazione con Bernardino REGAZZONI, già ambasciatore di Svizzera presso
la Repubblica Popolare Cinese, a cura di Lucio CARACCIOLO e Giorgio CUSCITO

LIMES Come è stata la sua esperienza da ambasciatore nella Repubblica Popolare


Cinese?
REGAZZONI Quando sono arrivato all’inizio del 2019 il momento era febbrile. La
Cina era considerata una sorta di Eldorado, un paese delle meraviglie dove tutto
sembrava perfetto. Effettivamente per certi versi la Repubblica Popolare lascia sen-
za fato, soprattutto dal punto di vista infrastrutturale. Basti pensare ai grattacieli di
Shanghai o ai treni ad alta velocità. Lo sviluppo avvenuto dai tempi di Deng Xiao-
ping fno all’epidemia di Covid-19 è evidente a tutti. In quanto diplomatico acco-
glievo una delegazione dopo l’altra.
Lo scenario è cambiato con lo scoppio dell’epidemia. Il numero di vittime è stato
contenuto attraverso durissimi lockdown, ma la variante omicron ha fatto saltare il
banco. Pechino ha adottato la politica «zero Covid», in vigore fno a pochi mesi fa.
Ritengo che tale approccio sia stato mantenuto così a lungo innanzitutto per moti-
vi politici e ideologici. Sono stato esposto quotidianamente a una propaganda
martellante, che sottolineava la superiorità del sistema cinese (comunista) su quel-
lo occidentale. Pechino affermava di potersi prendere cura di tutti e accusava gli
occidentali di lasciar morire le persone per strada. Quando nel 2021 sono tornato
in Europa dopo diciannove mesi di isolamento in Cina, temevo veramente di tro-
vare una situazione del genere! Sono ironico fno a un certo punto. La propaganda
era così intensa che per il cittadino medio cinese era facile crederci.
Ciononostante, soprattutto nel 2020, ho svolto diversi viaggi all’interno della Repub-
blica Popolare. Ho visitato in totale ventuno province su trentuno, Tibet incluso. Poi
la diffusione di omicron ha complicato tutto. È diventato diffcile spostarsi. La vita era
scandita dai codici Qr, i quali registravano gli esiti dei tamponi (fatti ogni quarantot-
to ore), tenevano traccia dei contatti positivi e dovevano essere scannerizzati per
entrare in ogni edifcio pubblico. Inoltre, l’economia procedeva a rilento. Questi 255
‘OMBRE CINESI’

problemi hanno raggiunto il culmine nella primavera 2022. Non ho vissuto in prima
persona il lockdown di Shanghai – era impossibile andarci – ma so che il console
generale svizzero assegnato alla città ha vissuto momenti davvero diffcili.
LIMES Perché le misure non sono state allentate prima?
REGAZZONI Pechino voleva mostrare la superiorità del proprio sistema. Da questo
punto di vista, l’apertura attuale è sconcertante, anche perché è avvenuta improv-
visamente. Il 16 ottobre, durante il XX Congresso nazionale del Partito comunista
cinese (Pcc) – il presidente Xi Jinping rivendicava la superiorità della politica «zero
Covid». L’improvviso cambio di atteggiamento è diffcile da spiegare e da giustif-
care. Certo ci sono state delle proteste estese, ma non credo siano state decisive. Il
fattore economico ha pesato maggiormente. Nel 2021 il tasso di crescita del pil
cinese è stato dell’8%. L’anno dopo è stato pari solo al 3%, due punti e mezzo in
meno rispetto a quanto previsto da Pechino. Non si può escludere un terzo possi-
bile motivo dietro al cambio di rotta: il governo potrebbe essersi reso conto che il
suo sistema non è poi così perfetto.
LIMES Che percezione ha avuto del cinese medio?
REGAZZONI Come dice il mio amico Marco Müller (produttore e critico cinematogra-
fco, n.d.r.), i cinesi sono i «mediterranei dell’Asia»: sono molto simpatici, fanno
rumore, amano contrattare e – nonostante la barriera linguistica – è facile instaura-
re una comunicazione con loro. Sono persone pratiche, quindi non fatico a crede-
re che il progresso garantito dal Pcc negli ultimi quarant’anni gli sia parso in fn dei
conti un buon affare. Stanno molto meglio di prima, e quindi sopportano.
Però ci sono due problemi fondamentali.
Il primo è il rallentamento della crescita economica, che rende diffcile investire in
occupazione giovanile. Nel marzo 2022 il Partito ha ammesso che è prioritario su-
perare questa diffcoltà. Del resto, secondo dati uffciali la disoccupazione tra le
nuove generazioni ha raggiunto il 20%. Una forte pressione grava sui «fgli unici»,
su cui si concentrano l’attenzione e le speranze delle famiglie. Questo fattore ri-
schia di far scricchiolare il sistema su cui la Cina si regge da quarant’anni.
Il secondo problema è che l’ideologia di Xi pervade la quotidianità del paese. Il
patto sociale su cui si fonda la stabilità non si impernia solo sul benessere registra-
to da Deng in poi, ma anche sulla garanzia di una relativa libertà, economica e
ideologica, concessa a chi non si occupa di politica. Con Xi, questo principio sta
venendo meno. Vale un esempio apparentemente banale: nelle sale da concerto,
la musica classica è ormai defnita semplicemente «occidentale» e le esibizioni sono
spesso seguite dall’esecuzione di melodie cinesi. Insomma, il Partito entra dapper-
tutto. E non sempre viene accolto positivamente.
LIMES Quanto hanno infuito le lotte interne al Pcc sullo stravolgimento della ge-
stione del virus? Il fatto che Xi si sia assicurato il terzo mandato ha permesso di
andare oltre la tattica «zero Covid»?
REGAZZONI Col senno di poi è facile dirlo, perché effettivamente i due eventi sono
avvenuti a distanza di poche settimane. Personalmente, non conosco alcun sinolo-
256 go che abbia una fonte di prima mano sulle lotte interne al Pcc. Alcuni giornalisti
LA GUERRA CONTINUA

che in passato si occupavano di Unione Sovietica mi hanno detto che bene o ma-
le nel Partito comunista dell’Urss si riusciva a trovare qualche fonte che aiutasse a
ricostruire le discussioni in seno al Comitato centrale. In Cina, fno a una decina di
anni fa, si sapeva che certi giornali erano più vicini a specifche correnti del Pcc.
Oggi invece i quotidiani ripetono tutti esattamente le stesse cose. Non sono gior-
nali in senso stretto, ma organi di propaganda. Inoltre, è impossibile avere contat-
ti diretti con qualcuno ai vertici: si può al massimo inferire, cercare di collegare gli
elementi. L’uscita di scena dell’ex presidente Hu Jintao durante il XX Congresso del
Partito è stata simbolica. Ne sapremo le reali ragioni tra qualche anno o decennio,
oggi possiamo solo fare ipotesi. Insieme a Hu sono stati fatti fuori gli ultimi rima-
sugli della Lega della gioventù comunista (Lgc), ma probabilmente quest’ultima era
fnita già prima del XX Congresso. È indubbio che all’interno del Partito ci sia un’a-
la mercantilistica e meno ideologica, però è ridotta ai minimi termini. Per capirlo
basta leggere le biografe dei politici che siedono con Xi nel nuovo comitato per-
manente del Politburo: tutti hanno fatto carriera con lui nel Fujian o nello Zhejiang.
Sono suoi fedelissimi. Insomma, ai vertici del Pcc non c’è più alcun tipo di dibatti-
to, c’è omogeneità totale. Almeno così pare.
Alcuni sostengono che l’allentamento delle misure anti-Covid fosse già nel cassetto
da un po’ di tempo e che sarebbe stato implementato a partire da marzo. Forse
l’esito del Congresso ha spinto Xi ad anticipare queste misure, ma non ritengo ci
sia stato un dibattito interno. Nei tre anni e mezzo che ho passato in Cina non ho
visto nulla che potesse assomigliare a qualcosa del genere. Al contrario, ho assisti-
to a un controllo sempre più forte da parte della leadership. Avere a che fare con
il linguaggio dei funzionari del ministero degli Esteri cinese è stata una delle espe-
rienze più frustranti della mia carriera: sapevo in anticipo le parole che mi avreb-
bero detto.
LIMES Quindi è fnito il periodo in cui, in alcune occasioni come le cene, i funzio-
nari potevano aprirsi di più?
REGAZZONI Penso che quella fase sia fnita. Bisogna poi considerare che, in qualità
di ambasciatore, incontravo al massimo i viceministri. Poi, lavorando sodo, un pa-
io di volte l’anno si poteva interloquire con funzionari di livello superiore, con i
quali il dialogo può talvolta essere più aperto. I funzionari che si incontrano abi-
tualmente pensano in primo luogo a non compromettersi. Nessuno è mai stato
nemmeno ironico. Tuttavia un dialogo fnisce per instaurarsi, per quanto formale.
LIMES In quanto svizzero, lei come era visto?
REGAZZONI È diffcile dirlo. Le relazioni sono buone. Per il resto, la cultura cinese è
indiretta, raramente si dicono le cose schiettamente. Anche in Sri Lanka all’inizio
pregavo i miei collaboratori locali di dirmi apertamente di no, senza girarci troppo
attorno. La loro risposta era: «Yes, sir». Fa parte della cultura asiatica, lo comprendo.
Però ho rilevato che le persone esposte all’Occidente si aprono di più, sono più
dirette. È anche capitato che qualcuno mi dicesse: «Non ce la facciamo più». Non
in maniera drammatica, sempre con il sorriso. Spesso poi si scopre che queste
persone hanno anche il passaporto di un altro paese. 257
‘OMBRE CINESI’

LIMES Le è mai capitato di imbattersi in qualche manifestazione di dissenso?


REGAZZONI Non personalmente. Bisogna sottolineare che quando si verifcano esse
sono legate a questioni strettamente pratiche. Anche a Shanghai lo scorso aprile la
gente non protestava contro la privazione della libertà, ma perché il lockdown era
organizzato male. La parola più utilizzata è stata «incompetenza». Questo genere di
manifestazioni non mette in discussione il sistema nella sua totalità.
LIMES Le periferie cinesi sono molto diverse da Pechino?
REGAZZONI Dal punto di vista economico, gli enti territoriali sono piuttosto autono-
mi. Ad esempio, gestiscono interamente il mercato immobiliare e affttano ai priva-
ti ampie porzioni di terra a fni edilizi. Questa è la loro fonte primaria di introiti e
l’immobiliare costituisce il 28% del pil cinese. Esistono zone economiche speciali a
regime economico agevolato. Tuttavia, nel complesso il segretario locale del Parti-
to non può prendere decisioni importanti indipendentemente dal governo centra-
le. La leadership ha imposto alle periferie uniformità di comportamento.
Forse fno al lockdown la municipalità di Shanghai aveva dei margini di autonomia
in virtù della sua peculiare mentalità mercantilistica. La differenza tra l’atmosfera
pratica ed economicista di questa megalopoli e quella più governativa di Pechino
è tangibile. Tuttavia, ora anche Shanghai sembra esser stata «normalizzata».
LIMES Che differenze ci sono tra gli abitanti delle grandi metropoli e quelli delle
campagne?
REGAZZONI In primo luogo, vi è un aspetto materiale. Salta subito all’occhio che ci
sono dei livelli di sviluppo molto diversi nell’entroterra cinese. Nelle campagne la
popolazione è molto «rurale». Non si può defnirli «poveri» dato che secondo il Pcc
la povertà assoluta è stata uffcialmente eliminata. All’ambasciata abbiamo prodotto
un interessante studio su tale argomento 1. A ogni modo, ho sempre viaggiato con
una guida e non mi è mai capitato di assistere a situazioni di povertà estrema.
LIMES Il Partito è riuscito a infondere un senso d’appartenenza anche nelle periferie?
REGAZZONI Il Pcc è onnipresente. In qualsiasi organizzazione o posto di lavoro
(credo anche nelle ambasciate) c’è obbligatoriamente un suo nucleo. Ciò permette
al Partito di esercitare un controllo capillare sulla società. I suoi membri sono circa
97 milioni su 1,4 miliardi di abitanti. È senza dubbio un’élite, nella quale si entra
per cooptazione. Esiste una zona grigia in virtù della quale chi non si occupa di
politica può bene o male perseguire i suoi interessi, ma non si riscontra uno scol-
lamento tra popolo e Partito. Anche perché – e questo vale persino per gli amba-
sciatori – se si vuole sollecitare una decisione di qualsiasi genere ci si deve rivol-
gere (soprattutto nelle province) al segretario locale del Partito o al sindaco, che
spesso è il suo vice. Quindi è nell’interesse di tutti, diplomatici compresi, mantene-
re un buon rapporto con tali fgure. Funziona così anche nei ministeri. Non a caso,
il viceministro più importante è quello che si occupa degli affari del Pcc. All’epoca
di Deng, il Partito era sempre il decisore di ultima istanza ma interveniva solo nel-

1. Lo studio, disponibile sul sito dell’ambasciata svizzera in Cina, a cui fa riferimento l’ambasciatore è B.
258 BIKALES, Refections on Poverty Reduction in China, ambasciata di Svizzera, Pechino 2021.
LA GUERRA CONTINUA

le questioni più importanti. Oggi invece il Pcc si è sdoppiato: i suoi funzionari si


occupano anche di questioni amministrative.
LIMES Che percezione hanno i cinesi degli occidentali e in particolare degli ameri-
cani?
REGAZZONI Senza dubbio provano una qualche forma di ammirazione verso l’Occi-
dente, in particolare per il suo sistema educativo. La fglia di Xi ha studiato a Har-
vard e pare sia ancora lì. Ciò però vale soprattutto per i cinesi che sono stati espo-
sti alla nostra cultura. Invece è innegabile che la propaganda e il nazionalismo
abbiano fatto presa su coloro che sono di estrazione sociale più umile e che hanno
subìto meno il soft power dell’Occidente.
A ogni modo non si riscontra più quell’ammirazione verso l’America che poteva
esserci fno a qualche tempo fa. Anzi, sta crescendo il sentimento nazionalistico.
Da ultimo, in particolare le classi dirigenti si considerano ormai superiori all’Occi-
dente. Questa convinzione viene continuamente esposta e rimarcata anche ideolo-
gicamente, come nel caso della gestione del Covid-19. Il sistema della Repubblica
Popolare è intrinsecamente convinto della propria preminenza.
LIMES Ha avvertito un cambio di atteggiamento nei confronti dell’America?
REGAZZONI Sono stato tre anni e mezzo in Cina. È un tempo troppo breve per
cogliere un cambio di comportamento di lungo periodo. Senza dubbio ho perce-
pito chiaramente il duello sino-statunitense. L’orgoglio nazionalistico, anche gra-
zie alla propaganda, è entrato nei rifessi incondizionati di buona parte della po-
polazione. Non in maniera aggressiva, perché ciò non fa parte dell’attitudine ci-
nese. Però ho notato degli atteggiamenti particolari nei confronti degli occidenta-
li. Durante la prima ondata dell’epidemia di Covid, i cinesi erano convinti che il
virus venisse dall’Ovest e spesso notavo che quando li incrociavo per strada
cambiavano marciapiede, convinti che potessi contagiarli. Magari non pensavano
nemmeno all’origine del virus, ma – in quanto europeo – speculavano che fossi
«indisciplinato» e che quindi li avrei potuti esporre al contagio. Insomma, il clima
di competizione con l’Occidente è fortemente presente. Tale atmosfera si respira
quotidianamente. Nella mente dei cinesi è chiara l’idea per cui il «grande gioco» è
quello tra Washington e Pechino, con Russia e Unione Europea nel ruolo di atto-
ri minori.
Sino a poco tempo fa l’Occidente ha osservato in maniera abbastanza ingenua la
Repubblica Popolare. Prima dell’epidemia, alle nostre latitudini ci si limitava a de-
fnirla «pragmatica» e a sottolineare la funzionalità del suo sistema. Effettivamente il
paese aveva già quei problemi che poi sono stati resi più evidenti dalla diffusione
del Covid a fne 2019. L’Occidente li ha ignorati, forse per pigrizia intellettuale.
LIMES Taiwan è presente nel dibattito pubblico?
REGAZZONI Ho letto uno studio fatto a Singapore secondo cui la retorica cinese su
Taiwan dai tempi di Jiang Zemin a oggi non è cambiata più di tanto. In generale,
questo dossier è sempre stato ben presente nelle menti dei decisori cinesi. Oggi
Pechino afferma addirittura che non rinuncerà mai all’uso della forza nei confronti
dell’isola. Ancora una volta, siamo stati noi occidentali a collocare tale problema in 259
‘OMBRE CINESI’

un futuro indefnito. Nel discorso tenuto in occasione del centenario del Partito
(1921-2021), Xi ha fatto riferimento al «grande risorgimento della nazione» per ben
ventiquattro volte in un’ora. Quella espressione si riferisce al defnitivo superamen-
to del «secolo dell’umiliazione» iniziato con le guerre dell’oppio (1839-1860) e con-
clusosi con la fondazione della Repubblica Popolare (1949). Tale obiettivo implica
il «recupero» di Taiwan. Quando sento la propaganda intestardirsi molto su un te-
ma, tendo a non sottovalutarlo. Ovviamente, tutto ciò non implica che vi sia – a
livello di opinione pubblica – un vero dibattito al riguardo. Il cinese medio ne
parla piuttosto poco, ma sa quale è il piano del governo.
LIMES Come ha percepito i rapporti tra Cina e Russia?
REGAZZONI Ero a Pechino il 4 febbraio 2022, quando i due paesi si sono giurati
«amicizia senza limiti». Invito tutti a rileggersi la dichiarazione congiunta che stabi-
lisce i termini del partenariato sino-russo. Esso prevede un ridimensionamento del
multilateralismo per come lo conosciamo. In particolare, insiste sul fatto che cia-
scuno Stato deve essere lasciato libero di seguire la propria strada verso la sicurez-
za e lo sviluppo, indipendentemente dal rispetto del multilateralismo classico. I
valori sottesi alla Carta delle Nazioni Unite vengono completamente relativizzati.
Sotto questo aspetto, rimane un’oggettiva convergenza d’interessi tra Russia e Cina.
Ci sono però due elementi che vanno sottolineati. Primo, entrambi i paesi si con-
siderano azionisti di maggioranza del loro rapporto: Mosca per ragioni storiche,
dovute anche all’infuenza avuta dall’Urss sulla Repubblica Popolare durante la
guerra fredda; Pechino per ragioni innanzitutto materiali. Secondo, il confitto in
Ucraina incide su tale relazione. A mio parere, il 4 febbraio Putin ha raccontato a
Xi una mezza verità sull’invasione. Probabilmente il presidente russo ha detto al
suo omologo cinese che l’operazione militare sarebbe stata breve – una settimana
o poco più – e facilmente realizzabile. Magari Putin pensava davvero che sarebbe
andata così. L’Ue ha chiesto alla Cina di condannare l’invasione russa. A nome
della Svizzera, ho invitato Pechino a far ragionare il Cremlino, a esercitare su di
esso un’infuenza in virtù della loro amicizia. A quel punto, per la prima volta ho
sentito ciò che poi è stato ripetuto ad infnitum: che non erano loro i responsabili
dell’invasione e che, se proprio avessimo voluto trovarli, avremmo dovuto cercarli
in Ucraina e in America.
Sicuramente l’invasione ha messo in imbarazzo i cinesi, ma non credo che questa
faccenda avrà ripercussioni profonde sul rapporto tra Mosca e Pechino. Anche al
vertice di Samarcanda avvenuto lo scorso settembre non è stato Xi a esprimere
turbamenti. Semmai è stato Putin ad affermare che la Russia avrebbe risposto alle
preoccupazioni cinesi. Le sue parole hanno generato un certo clamore mediatico,
ma è cambiato veramente poco o addirittura nulla nelle relazioni sino-russe. Ho
capito fn dai primissimi giorni che non ci sarebbe stato alcun tentativo cinese di
infuenzare la Russia in questa guerra. Figuriamoci di svolgere il ruolo di mediato-
re. Pechino sarà anche rimasta sorpresa dalla mossa di Putin, ma non si metterà
mai contro Mosca. Alla fne, ai cinesi fa anche comodo vedere i russi imbarcarsi in
260 imprese che danno fastidio agli americani.
LA GUERRA CONTINUA

LIMES Che impatto hanno sulla Svizzera le sanzioni imposte alla Russia?
REGAZZONI Dal primo giorno di guerra, gli americani hanno verifcato minuziosa-
mente che tutti applicassero le sanzioni. Joe Biden ha addirittura affermato che
«anche la Svizzera» le aveva adottate. Quell’«anche» non ci ha fatto piacere, ma
senza dubbio ci siamo comportati come dovevamo. Abbiamo preservato la nostra
neutralità e sottolineato allo stesso tempo l’importanza per la Svizzera di una coo-
perazione internazionale rafforzata in materia di sicurezza anche in termini di inte-
roperabilità con la Nato. Volevo aggiungere una cosa: mi hanno colpito le parole
molto dure verso la Germania di un recente editoriale di Limes, in cui si sottoline-
ava la strutturale tendenza tedesca a interagire con la Russia, quasi Berlino fosse il
ventre molle dell’Europa. L’aiuto tedesco all’Ucraina resta pur sempre il secondo
più importante in Europa, dopo quello del Regno Unito.
LIMES Come può crollare un regime come quello cinese?
REGAZZONI Ormai nella Repubblica Popolare vi è una totale sovrapposizione tra
Stato e Partito, ancora più radicale che in Unione Sovietica. Come dicevo, il regime
basa la sua legittimità sulla crescita economica. Negli ultimi quarant’anni, questa ha
permesso a molti cinesi di uscire dalla povertà e ad alcuni persino di arricchirsi.
Non bisogna sottovalutare nemmeno il clamoroso sviluppo infrastrutturale degli
ultimi decenni. Dati i miglioramenti della loro condizione materiale, gli abitanti
della Repubblica Popolare hanno sostenuto sinceramente il regime. Se si dovesse
rompere questo equilibrio, la legittimità del Partito, dunque dello Stato, potrebbe
venire meno.
LIMES Il crollo del Pcc potrebbe generare la nascita di molte Cine? Oppure potreb-
be emergere un altro regime con ambizioni imperiali?
REGAZZONI Fatico a immaginare una Cina senza Pcc, ma in sua assenza potrebbe
subentrare un altro partito, comunista o no, con caratteristiche diverse in grado di
tenere insieme il paese.
A ogni modo, stiamo facendo troppe speculazioni. Pechino deve evitare che il
rallentamento della crescita metta in discussione il patto sociale, ma non vedo una
grande domanda di democrazia. Certamente Taiwan può essere un fattore destabi-
lizzante e iniziare una guerra può essere un azzardo. La problematicità di questo
argomento sta nel fatto che, se Pechino dovesse recuperare l’isola, il dominio ame-
ricano nel Pacifco verrebbe ridimensionato drasticamente. Pur non mirando a
vaste guerre di conquista, l’espansione attuale della Repubblica Popolare nel Mar
Cinese Meridionale è un fattore destabilizzante. Certo, l’azzardo fa parte della sto-
ria. Non bisogna dimenticare che il potere pechinese ha una forte connotazione
imperiale. Spesso in Occidente si traduce Zhongguo (il nome della Cina) con l’e-
spressione «Impero di Mezzo», ma per loro signifca «Impero al Centro» del mondo.
Mondo che peraltro li interessa relativamente poco. Si sentono ancora in qualche
modo circondati dai barbari.
LIMES Quanto è esportabile tale sistema? La Cina può avere un soft power parago-
nabile a quello americano? 261
‘OMBRE CINESI’

REGAZZONI No, la Cina non dispone di soft power. Nemmeno in luoghi dove i suoi
investimenti sono consistenti, come l’Africa. Inoltre, non vuole esportare il proprio
sistema. A Pechino sono contenti se qualcuno decide di adottarlo, ma niente di più.
In ogni caso, non signifca che la Repubblica Popolare non voglia crearsi basi di
approvvigionamento economico ovunque nel mondo. Anzi, questo è un suo obiet-
tivo. Ha bisogno di radicarsi all’estero visto che non è autosuffciente e dipende
particolarmente dal commercio con l’America.
Fino a qualche anno fa pensavamo che ciò avrebbe reso impossibile qualsiasi for-
ma di confitto. Oggi dobbiamo certamente essere più cauti, ma tale vincolo rima-
ne ancora molto forte: anche gli Usa hanno bisogno della Cina sul piano economi-
co. Sia chiaro, tali dinamiche sono sempre condizionate dalla politica. Valse anche
per il lancio della politica di riforma e apertura promossa da Deng. In un regime
come quello cinese la politica assume molteplici forme. Spazia dalla dimensione
economica a quella di Machtpolitik (politica di potenza, n.d.r.) passando – ed è
fondamentale ricordarlo – per quella ideologica.
Nella Repubblica Popolare questi tre elementi sono sempre stati interconnessi. Con
la diffusione dell’epidemia di Covid sono diventati più visibili, come del resto i
problemi che da tempo affiggono il sistema cinese.

262
LA GUERRA CONTINUA

TOˉKYOˉ PREPARA
IL CONTRATTACCO di SATAKE Tomohiko

L’assertività della Cina e l’invasione russa dell’Ucraina spingono il


Giappone a rientrare nella storia. La nuova Strategia di sicurezza
nazionale prevede la risposta alle offensive nemiche, ma per ora il
paese del Sol Levante non vuole riformare la costituzione pacifista.

1. I L RIACCENDERSI DELLA COMPETIZIONE


tra Stati Uniti, Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese pone la sicurezza
del Giappone seriamente a rischio. In precedenza, le maggiori preoccupazioni
strategiche derivavano soprattutto dai missili della Corea del Nord e dalle «zone
grigie», ovvero da quelle crisi non assurte allo status di guerra. Le crescenti tensioni
nello Stretto di Taiwan e l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca spingono T§ky§
a non escludere la possibilità di confitti convenzionali su larga scala o addirittura
nucleari. Sempre più spesso gli analisti giapponesi osservano che «i problemi di
Taiwan sono problemi del Giappone» e che «l’Ucraina di oggi potrebbe essere l’A-
sia di domani».
A ciò si aggiunga che il contesto securitario in cui il paese del Sol Levante
opera è diventato più complesso a causa dello sviluppo di tecnologie avanzate e
della rilevanza delle dimensioni cibernetica, spaziale ed elettromagnetica. Inoltre,
alcuni paesi non esitano a utilizzare mezzi economici per imporre i loro interessi.
Anche gli attacchi alle infrastrutture critiche, la guerra dell’informazione attraverso
i social media, la carenza di energia e i cambiamenti climatici sono diventati impor-
tanti minacce.
È in questa cornice che nel dicembre 2022 il governo giapponese ha rilasciato
i «tre documenti»: la Strategia di sicurezza nazionale, la Strategia di difesa nazionale
e il Programma di rafforzamento della difesa. Questi testi contengono normative
rivoluzionarie, che superano storici tabù. Infatti prevedono l’aumento delle spese
militari fno al 2% del pil, lo sviluppo della «capacità di contrattacco» e l’introduzio-
ne della «difesa cibernetica attiva». Sebbene l’articolo 9 della costituzione del Giap-
pone e il trattato securitario tra quest’ultimo e gli Stati Uniti restino i due pilastri
della politica di sicurezza nipponica, i cambiamenti portati dai documenti sopraci-
tati sono decisivi. Di fatto, determinano l’affrancamento dalla cosiddetta dottrina 263
TOˉKYOˉ PREPARA IL CONTRATTACCO

Yoshida, cioè la politica adottata dall’eponimo primo ministro dopo la fne della
seconda guerra mondiale.

2. La dottrina Yoshida si basava sul pieno rispetto dell’articolo 9 della costitu-


zione nipponica, che include l’«atto di rinuncia alla guerra». T§ky§ decise così di
affdarsi all’ombrello di sicurezza americano previsto dal trattato siglato con Wa-
shington. Inoltre, Yoshida Shigeru pose le basi dell’atteggiamento economicista del
Giappone. Cioè concentrò gli sforzi sull’accrescimento del benessere piuttosto che
sulle attività importanti per la difesa e la sicurezza nazionale.
La dottrina non fu dettata solo dalla necessità di ricostruire il sistema economi-
co dopo la guerra, ma anche dal forte sentimento antimilitarista della popolazione.
A causa della terribile sconftta subita, la maggioranza dei giapponesi non voleva
più impegnarsi in attività belliche. Ciò li ha portati a venerare l’articolo 9 e a svilup-
pare forte avversione nei confronti della violenza, dell’esercito e delle armi nucle-
ari. Perciò Yoshida e i suoi successori non misero mai in discussione quel passo
della costituzione. Inoltre, respinsero ogni pressione americana a favore del pieno
riarmo del Giappone anche dopo che la guerra di Corea intensifcò il duello tra
America e Unione Sovietica in Asia.
Nel 1954 nacquero le Forze di autodifesa giapponesi (Fad). All’estero esse
erano considerate Forze armate a tutti gli effetti, eppure non avevano una capacità
offensiva e potevano intervenire solo per difendersi. Infatti non furono dispiegate
lontano dai confni nazionali.
Tuttavia, pur mantenendo un basso proflo, il Giappone iniziò a rafforzare si-
lenziosamente le Fad. Grazie alla crescita economica degli anni Sessanta, il budget
per la Difesa raddoppiava ogni anno. Alla fne di quel decennio, il primo ministro
Sat§ Eisaku – che paradossalmente vinse il premio Nobel per la pace grazie all’a-
desione del paese al trattato di non proliferazione nucleare – disse agli Stati Uniti
che il Giappone doveva possedere armi nucleari. Sato era inoltre un fervente so-
stenitore della restituzione di Okinawa da parte americana e sottolineava la neces-
sità di forgiare una «difesa autonoma» (jisyu boei).
L’occasione per implementarla realmente si presentò tra la fne degli anni Ses-
santa e l’inizio degli anni Settanta, quando il presidente statunitense Richard Nixon
annunciò la dottrina Guam. Questa prevedeva che gli alleati si assumessero mag-
giori responsabilità in materia di sicurezza, senza mettere in dubbio l’ombrello
americano. In una tale congiuntura, il nazionalista e futuro primo ministro Nakaso-
ne Yasuhiro propose un massiccio Piano per la ricostruzione della difesa naziona-
le e invocò anche la revisione della dottrina Yoshida, affermando che la difesa
autonoma dovesse essere prioritaria rispetto al trattato nippo-americano.
Tuttavia, il piano di Nakasone fallì a causa dell’infazione e del rallentamento
della crescita economica del Giappone causati dalla crisi petrolifera del 1973. Inol-
tre, alcuni politici del Partito liberaldemocratico e dell’opposizione erano contrari
alla strategia del primo ministro perché preoccupati dalle possibili reazioni – nazio-
264 nali e internazionali – che l’implementazione della difesa autonoma avrebbe potu-
LA GUERRA CONTINUA

to generare. L’occasione per rafforzare le capacità autonome giapponesi venne


meno del tutto dopo il riavvicinamento sino-statunitense del 1972 e il complessivo
clima di distensione.
Nel 1976, T§ky§ rilasciò le prime Linee guida per un programma di difesa
nazionale. Esse si basavano ancora sul concetto di «capacità difensiva di base». In
sostanza, il Giappone sarebbe stato in grado di resistere solo a un’invasione su
scala ridotta, mentre in caso di situazioni più complesse si sarebbe dovuto affdare
all’aiuto degli Usa. Allo stesso tempo, vennero annunciate diverse restrizioni alle
capacità di difesa. Non si poteva dedicare più dell’1% del pil alle spese militari.
Inoltre, fu bloccata la vendita di armi a paesi comunisti, sotto embargo o impegna-
ti in confitti. Sostanzialmente, il piano di Nakasone fu assorbito dalla dottrina
Yoshida.
Ovviamente qualcuno continuava a sostenere che il Giappone, ormai superpo-
tenza economica, dovesse perseguire anche una politica di sicurezza più autonoma.
Un esempio in tal senso fu la Strategia olistica di sicurezza nazionale elaborata alla
fne degli anni Settanta da un gruppo di esperti guidati da †hira Masayoshi. Il docu-
mento, pubblicato nel 1980, intendeva spingere il paese a perseguire i suoi obiettivi
strategici non solo militarmente, ma anche attraverso mezzi economici, energetici e
alimentari così da farsi trovare pronto qualora il sistema americano fosse collassato.
Secondo quel testo, il Giappone doveva rafforzare le sue capacità belliche per
diventare più autonomo e assumersi la responsabilità di tutelare attivamente l’ordi-
ne internazionale. A tal fne, era necessario aumentare del 20% le spese militari.
Inoltre, alcuni esperti ritenevano che il Giappone dovesse avere capacità difensive
maggiori rispetto a quelle rese possibili dalle Linee guida per un programma di
difesa nazionale, perché l’invasione sovietica dell’Afghanistan aveva posto fne al
periodo di distensione. Tuttavia, queste posizioni non furono ascoltate e non si
concretizzarono fno alla fne della guerra fredda.

3. Il crollo dell’Unione Sovietica non ha avuto un signifcato univoco per il Giap-


pone. Quell’evento e il conseguente ridimensionamento dell’impegno americano in
Estremo Oriente hanno obbligato il paese del Sol Levante ad assumere un ruolo più
importante nella regione, a contibuire più attivamente al mantenimento dell’ordine
internazionale – con mezzi militari e non – e a gestire in questi nuovi termini l’alle-
anza con gli Stati Uniti. La prima guerra del Golfo, la crisi dei missili nucleari in Corea
del Nord e quella dello Stretto di Taiwan spinsero il Giappone a una postura più
decisa per salvaguardare la sua sicurezza domestica e garantire la stabilità globale.
Nel 1992, le Fad parteciparono per la prima volta a operazioni internazionali di man-
tenimento della pace. Nel 1995, offrirono supporto logistico agli Usa, sebbene il
Giappone non fosse sotto attacco. Nel 1996, T§ky§ e Washington dichiararono con-
giuntamente che la loro alleanza non aveva più come unico scopo la sicurezza
nipponica, piuttosto mirava a garantire l’ordine nel Pacifco.
Tuttavia, il collasso dell’Unione Sovietica e l’avvio della «fase unipolare» a gui-
da americana crearono un ambiente estremamente favorevole anche al manteni- 265
TOˉKYOˉ PREPARA IL CONTRATTACCO

mento della dottrina Yoshida. Nei primi anni Duemila, le missioni e le capacità
delle Fad aumentarono. In particolare, nel 2001 navi giapponesi si spinsero nell’O-
ceano Indiano per svolgere operazioni di supporto alla Marina americana e a quel-
le degli alleati impegnati nella guerra al terrorismo. Quattro anni dopo, le Forze di
autodifesa svolsero operazioni umanitarie e di salvataggio nell’ambito della rico-
struzione post-bellica in Iraq.
Queste attività erano ancora inquadrabili all’interno della dottrina Yoshida. Le
Fad non erano impegnate in combattimento e dunque non «usavano la forza» all’e-
stero. All’epoca l’obiettivo era mantenere e consolidare l’alleanza nippo-america-
na. Operando in Afghanistan o in Iraq, T§ky§ intendeva assicurarsi l’impegno Usa
a difesa del paese del Sol Levante e mostrare come quest’ultimo fosse pronto a
dare il suo contributo alla sicurezza globale. Così il Giappone affrontò la Repub-
blica Popolare Cinese e la Corea del Nord attraverso il trattato di sicurezza nip-
po-americano e contestualmente contenne le spese per la Difesa in una fase eco-
nomica stagnante.
Fatta eccezione per i costi di mantenimento delle basi americane tra il 2002 e
il 2012 T§ky§ ha ridotto ogni anno le spese per la Difesa nonostante l’ascesa di
Pechino e l’aggressività di P’y$ngyang. Il paese del Sol Levante credeva di poter
rispondere adeguatamente alla pressione di questi attori ospitando strutture statu-
nitensi e rinnovando il suo attivismo internazionale, senza dover ampliare le pro-
prie capacità militari. Di fatto, contava ancora sulla solida alleanza con la superpo-
tenza americana.

4. Questa strategia, che consisteva sostanzialmente nello sviluppo della dottri-


na Yoshida, ha cominciato a cambiare verso la fne del primo decennio degli anni
Duemila, quando la Cina ha iniziato seriamente a mettere in questione il predomi-
nio a stelle e strisce. Le Linee guida per un programma di difesa nazionale del 2010
parlavano apertamente e per la prima volta di «cambiamento nella bilancia mon-
diale del potere». Fermo restando che gli Usa avrebbero continuato «a essere una
forza decisiva per la stabilità e la pace mondiale», il documento affermava chiara-
mente che il Giappone doveva rafforzarsi per rispondere a una congiuntura inter-
nazionale sempre meno favorevole.
Le Linee guida del 2010 hanno determinato l’abbandono della «capacità difen-
siva di base» risalente al 1976 e l’introduzione di quella «dinamica». Con questa
espressione si intendeva la necessità di aumentare le attività delle Fad in alcuni
ambiti, con particolare riferimento alle operazioni di sorveglianza e di intelligence
in tempo di pace. Tali attività dovevano essere svolte soprattutto nelle «zone grigie»,
ovvero in teatri non pacifcati e sicuri e in quelli non apertamente confittuali.
Insediatosi nel 2012, il governo di Abe Shinz§ ha implementato una serie di
riforme, tra cui il parziale riconoscimento del diritto all’autodifesa e l’istituzione dei
nuovi Tre princìpi di esportazione di equipaggiamento difensivo. L’amministrazio-
ne Abe ha interrotto la riduzione delle spese militari iniziata nel 2002 e rilanciato il
266 Quad, il dialogo quadrilaterale di sicurezza tra Giappone, Stati Uniti, Australia e
LA GUERRA CONTINUA

India. Scopo: costruire un sistema di alleanze pluristratifcato in grado di opporsi


all’ascesa della Repubblica Popolare.
Intanto, l’espansionismo e l’attivismo militare di Pechino sono cresciuti oltre le
aspettative. Il budget militare cinese, che nel 2010 era meno del doppio di quello
giapponese, è quadruplicato. Da quando nel 2012 T§ky§ ha nazionalizzato le
isole Senkaku, il numero di navi della Repubblica Popolare entrate nelle loro ac-
que territoriali è aumentato ogni anno e le attività militari in quell’area sono diven-
tate costanti.
Nonostante i ripetuti avvertimenti da parte dell’Occidente, Pechino ha milita-
rizzato il Mar Cinese Meridionale ed esteso la sua infuenza politica, economica e
militare nel Sud-Est asiatico, in Asia centrale, in Medio Oriente, in Europa e in
Africa attraverso le nuove vie della seta. Parallelamente all’attivismo cinese, la Rus-
sia ha invaso la Crimea, è intervenuta nella guerra civile in Siria e ora si oppone
chiaramente al sistema trainato dall’Occidente.
Come reazione a questi sviluppi, la Strategia di sicurezza nazionale americana
del 2018 ha evidenziato il «ritorno della competizione tra grandi potenze». Washin-
gton ha rinunciato all’integrazione di Cina e Russia nell’ordine internazionale libe-
rale e ha affermato di esser pronta a rispondere qualora avessero provato a modi-
fcare lo status quo. Ovviamente, i decisori giapponesi che criticavano l’approccio
«leggero» dell’ex presidente Barack Obama nei confronti della Cina hanno accolto
con favore il cambio di passo statunitense.
Contestualmente, T§ky§ ha cercato di non entrare direttamente nella compe-
tizione tra Usa, Repubblica Popolare e Russia: nel summit sino-giapponese del
2018, Abe e il presidente cinese Xi Jinping hanno concordato di passare «dalla
competizione alla cooperazione», collaborando con paesi terzi e in alcune inizia-
tive legate alle nuove vie della seta. Inoltre, il primo ministro nipponico ha incon-
trato il presidente russo Vladimir Putin ben ventisette volte per discutere dello
stato dei Territori del Nord (le isole Curili meridionali, n.d.r.) e di cooperazione
economica.
Dietro agli incontri con Mosca e Pechino non c’era solo il fatto che Abe voles-
se lasciare un’eredità politica. C’entrava anche il bisogno strategico di mantenere
buone relazioni con il Cremlino per evitare una guerra con Russia e Cina allo stes-
so tempo. Nonostante le intenzioni nipponiche, le due potenze eurasiatiche hanno
continuato a rafforzare la loro collaborazione per sfdare l’ordine vigente. Anche a
causa della vicinanza al Giappone, Mosca e Pechino hanno intensifcato i legami
militari svolgendo esercitazioni congiunte su base annua. Sotto questo aspetto,
l’invasione russa dell’Ucraina ha «risvegliato» T§ky§. Riconoscendo che quanto ac-
cade oggi in quel paese potrebbe accadere domani in Asia, il governo guidato da
Kishida Fumio si è unito all’Occidente nel supporto a Kiev e ha partecipato alle
sanzioni contro Mosca. Kishida ha anche chiesto un «radicale rinforzo delle capa-
cità di difesa», inaugurando così un potenziamento della politica di sicurezza che
non si vedeva dai tempi di Abe. Il Giappone non può più considerare la competi-
zione tra grandi potenze come qualcosa che non la riguarda. 267
TOˉKYOˉ PREPARA IL CONTRATTACCO

5. La nuova Strategia di sicurezza nazionale riconosce che dalla fne della secon-
da guerra mondiale la congiuntura geopolitica non è mai stata così complessa e
pericolosa. Prendendo atto che la globalizzazione e l’interdipendenza non garanti-
scono pace e sviluppo, T§ky§ vuole rafforzarsi in ogni ambito: dalla diplomazia alla
difesa, passando per la tecnologia e l’intelligence. Viene anche sottolineata l’impor-
tanza della «autonomia strategica» nipponica e la sua «indispensabilità» per quanto
riguarda la sicurezza economica globale.
Il governo giapponese articola in sette aree le capacità di difesa: la resistenza a
un attacco; l’integrazione tra difesa aerea e contraerea; l’automatizzazione; lo svolgi-
mento di operazioni ibride; le funzioni di comando, controllo e intelligence; il dispie-
gamento mobile e protezione della nazione; sostenibilità e resilienza. Il piano preve-
de l’identifcazione di attività per migliorare le Fad nell’arco di cinque o dieci anni,
anche in termini di approvvigionamento di armi ed equipaggiamento.
Il cambiamento più radicale previsto dai «tre documenti» è senza dubbio la
«possibilità di contrattacco». Con questa espressione si intende che, in caso di lan-
cio missilistico verso il Giappone da parte di un nemico, T§ky§ può rispondere
per prevenire ulteriori aggressioni mentre si protegge dai vettori in arrivo attraver-
so la sua rete di difesa. In passato l’attacco a basi rivali non era propriamente in-
costituzionale, ma la scelta politica del governo è sempre stata quella di non
possedere i mezzi per condurlo.
Tuttavia, la crescente minaccia missilistica proveniente dalla Corea del Nord,
quelle derivanti dall’uso di droni e missili da crociera e lo svantaggio nei confronti
della Cina nel campo dei vettori terra-aria di medio raggio hanno fatto comprende-
re al Giappone che bisogna possedere una capacità di contrattacco per complicare
i calcoli degli avversari e ritardarne quanto più possibile un’offensiva.
Inoltre, la guerra in Ucraina ha palesato a T§ky§ la necessità di rafforzare le
sue infrastrutture, in particolare le basi militari maggiormente vulnerabili. Secondo
una teoria, le riserve di munizioni dell’esercito giapponese potrebbero esaurirsi
dopo soli due mesi di guerra effettiva. Per questo la strategia di difesa nazionale
prevede di dotare prima possibile il paese di un numero suffciente di rifornimenti,
aumentando la capacità di produrli autonomamente e rendendo sicuri i depositi.
Inoltre, il Giappone sta sviluppando un sistema in virtù del quale tutto l’equipag-
giamento sarà sempre disponibile per le operazioni, fatta eccezione per il carbu-
rante, la progettazione e la manutenzione. Dato che l’attuale congiuntura storica
non è fatta di «zone grigie» ma di un effettivo ritorno dell’uso della forza, è sempre
più necessario che le Fad siano «pronte a combattere» indipendentemente dalla
protezione americana.
La Strategia di sicurezza nazionale sottolinea anche che per il Giappone è vi-
tale collaborare con alleati e partner per «raggiungere un nuovo ordine internazio-
nale». Ciò è in linea con il proposito nipponico di garantire un «Indo-Pacifco libero
e aperto». Il documento propone alcune linee guida per coinvolgere il resto del
pianeta in tale progetto: la creazione di una zona di commercio libero ed equo; il
268 miglioramento dei legami tra gli attori regionali; il potenziamento delle capacità a
LA GUERRA CONTINUA

livello di governi nazionali e organizzazioni internazionali; maggiori sforzi per as-


sicurare la sicurezza marittima. Inoltre, il testo afferma che il rapporto economico
e diplomatico con i paesi in via di sviluppo nel «Sud del mondo» debba essere ul-
teriormente rinsaldato.
Insomma, i «tre documenti» costituiscono il punto più alto di una politica di
sicurezza che il Giappone stava cercando di portare avanti già a partire dal 2010.
Ovviamente, tali innovazioni sono state rese più urgenti dal clima di crescente in-
sicurezza internazionale. In questo senso, il piano assume un signifcato epocale
nella storia giapponese del dopoguerra. L’aumento delle spese militari, il rafforza-
mento della capacità di difendersi autonomamente e la ricerca di sicurezza per
mezzo dell’economia suggeriscono che il Giappone abbia defnitivamente supera-
to la dottrina Yoshida, basata sull’alleanza con gli Usa e sulla priorità del pil rispet-
to alla sicurezza.
Sotto altri punti di vista, questo progetto sembra però rimanere ancora nel
solco della strategia nipponica classica. Per esempio, gli attacchi preventivi non
sono permessi e sembra evidente che il contrattacco non avverrà mai lontano dal
Giappone.
Del resto è diffcile per le Fad colpire basi nemiche senza l’aiuto americano.
Almeno per quanto riguarda le attività di rilevamento e puntamento del bersaglio.
In questo senso, la nuova Strategia di sicurezza mira a promuovere l’autonomia di
T§ky§ ma sempre nel quadro dell’alleanza con gli Stati Uniti. Lo scopo è consoli-
dare la capacità di deterrenza di tale relazione anziché romperla.

6. In breve, il Giappone mantiene la postura fondamentale che vige sin dalla


seconda guerra mondiale, ma intende perseguire attivamente i suoi interessi strate-
gici e securitari. La sfda futura sarà l’implementazione concreta dei «tre documenti».
A tal fne, il governo sta rafforzando l’approccio «Tutto il Giappone», che richiede
l’appoggio e la cooperazione non solo dei ministeri degli Esteri e della Difesa, ma
anche di dicasteri e agenzie che hanno in qualche modo a che fare con il potere
nazionale. Pure il settore privato sembra seguire la linea del governo.
Gli ostacoli da superare sono molti. Bisogna ancora stabilire le risorse econo-
miche necessarie per rilanciare la Difesa. A ogni modo, anche se il Giappone do-
vesse portare le spese militari al 2% del pil, non è detto che riesca a mantenere
questo livello in futuro. Inoltre, ci vorrà del tempo per costruire un sistema e un
consenso tali da rafforzare e utilizzare il potere della nazione. Da ultimo, il governo
deve rivedere e, se necessario, eliminare regolamentazioni o restrizioni che impe-
discono al Giappone di mettere a frutto le sue capacità. Se riuscirà a risolvere tali
problemi, il paese del Levante si libererà davvero dell’eredità della seconda guerra
mondiale.

(traduzione di Giuseppe De Ruvo)


(traduzione di Giuseppe De Ruvo)

269
LA GUERRA CONTINUA

PECHINO CONTRO DELHI


L’ETERNA SFIDA
SUL TETTO DEL MONDO DI MURO
di Lorenzo

Sulle vette dell’Himalaya s’intensificano le scaramucce fra indiani e


cinesi, divisi da inconciliabili idee sull’assetto dell’Asia. La tensione
sul prossimo Dalai Lama. L’avvicinamento dell’India agli Stati Uniti
prosegue, ma non significa allinearsi. Nervi scoperti sul Kashmir.

1. M ENTRE IN EUROPA ORIENTALE


imperversa la guerra per procura tra America e Russia, Cina e India continuano a
fronteggiarsi lungo il confne conteso più esteso al mondo. Sulle cime dell’Hima-
laya, i due colossi asiatici sono impegnati in una partita di risiko in territori imper-
vi quanto strategici. Sfda tendenzialmente quiescente per oltre quattro decenni
che si è riaccesa gradualmente negli ultimi quindici anni, sino allo scontro che a
metà 2020 nel Ladakh – a colpi di mazze e altri strumenti medievali – ha mietuto
vittime per la prima volta dal 1975. Da allora, Pechino e Delhi hanno ammassato
truppe e assetti militari alla frontiera di fatto (Lac, nell’acronimo inglese) e hanno
continuato a pungolarsi. L’ultimo episodio ha avuto luogo nel dicembre 2022 all’al-
tra estremità della frontiera (Arunachal Pradesh), preceduto da incontri ravvicinati
di cui i due contendenti si rimpallano la responsabilità.
Siamo nel quadrante principale della Guerra Grande, l’Indo-Pacifco, arena
primaria dello scontro fra la superpotenza a stelle e strisce e lo sfdante cinese. Qui
l’America intende arginare l’estroversione del rivale facendo perno anche sull’India.
Senza rischiare l’apertura di un secondo fronte oltre a quello orientale, nel quale
sconta la pressione di Washington e alleati, Pechino intende invece mostrare a
Delhi quale sia il suo posto nell’erigendo ordine sinocentrico dell’Asia. Rafforzando
al contempo la presa su aree strategiche come il Tibet, la cui stabilità passerà per
la successione al 14º Dalai Lama ormai ottantasettenne e per la postura dell’India,
dove la massima carica religiosa (e politica) buddhista è in esilio dal 1959.
Sono almeno due fattori a pesare nei calcoli della Cina. Primo, lo iato crescen-
te tra le proprie disponibilità economico-tecnologico-militari e quelle indiane. Fin-
ché, come negli anni Novanta, pil e livello di ammodernamento erano simili, Pe-
chino ha tenuto un proflo basso. Non è un caso che l’assertività della Repubblica
Popolare sia aumentata nell’ultimo quindicennio, a partire dal terremoto fnanzia- 271
PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO

rio del 2008 che scuote l’Occidente e soprattutto con l’ascesa del nuovo timoniere
Xi Jinping. Tanto nel Mar Cinese Meridionale quanto lungo i confni. Secondo, la
percezione dell’India quale paese che rifugge una guerra aperta ma che ha il po-
tenziale per minare, come già sta facendo, i piani cinesi nella regione e non solo.
Sotto la guida (dal 2014) di Narendra Modi, fgura carismatica che ormai ha assun-
to tratti mistici, l’India sta infatti attraversando nevralgiche trasformazioni con l’o-
biettivo di diventare entro il 2047 un attore geopolitico di statura mondiale.
Tibet e America sono variabili costanti nei rapporti sino-indiani. Ma ciò che
realmente conta non sono i confni in sé quanto le configgenti traiettorie geopoli-
tiche di due Stati civiltà. La Repubblica Popolare intende primeggiare in Asia, obiet-
tivo che passa per il controllo dei Mari Cinesi ma pure per la stabilità dei suoi
confni sud-orientali. L’India si sente accerchiata dalla Cina. Malgrado l’asimmetria
economico-militare e malgrado i due paesi abbiano collaborato e continuino a
farlo specie sul piano commerciale, è in atto una competizione aperta che coinvol-
ge il Sud-Est asiatico, l’Asia meridionale, l’Africa orientale e l’Oceano Indiano. Delhi
valuta le mosse di Pechino in Pakistan, Sri Lanka, Maldive, Bangladesh e lungo la
Lac come funzionali a tenerla in scacco nel suo intorno strategico.
In tal senso, l’Indo-Pacifco comincia sull’Himalaya. Quanto accade sul Tetto del
mondo rileva soprattutto in quanto termometro di equilibri più articolati. È strumen-
to con cui Pechino vuole ricordare al vicino meridionale chi abbia il coltello dalla
parte del manico. I fatti del Ladakh hanno portato alla Cina il vantaggio pratico di
aver reso terra di nessuno aree a sovranità contestata ma fno a tre anni fa pattuglia-
te dagli indiani. Eppure i cinesi potrebbero aver vinto la battaglia ma perso la guerra,
posto che quanto avvenuto nel bel mezzo della prima ondata di Covid ha pressoché
azzerato qualsiasi possibilità – ammesso esistesse – che gli indiani accettassero, o
quantomeno non avversassero attivamente, le ambizioni della Cina. Nei circoli stra-
tegici cinesi l’India resta minaccia di secondo piano rispetto agli Usa e alla loro stra-
tegia per un Indo-Pacifco «libero e aperto». Cionondimeno l’India costituisce una
sfda per i piani cinesi, anche in ragione della sinergia tra Delhi e Washington.
Il ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar ha ribadito più volte
che i rapporti con Pechino «dipendono dallo stato delle frontiere». Concetto che va
legato a un altro punto che rimarca spesso il capo della diplomazia indiana, giudi-
cato dai cinesi tra i più flo-americani nell’establishment dell’India. Ovvero che la
creazione dell’ordine globale multipolare anelato da Delhi è a sua volta funzione
di un ordine asiatico multipolare. In cui non sia la Cina a dettare legge e l’India
abbia il suo posto al sole.
La posta in gioco alle frontiere non è dunque meramente territoriale. Afferisce
alla «autonomia strategica» dell’India a fronte del «risorgimento della nazione cinese»
marchio di Xi Jinping. In altri termini, agli assetti geopolitici dell’Asia.

2. L’ultimo tentativo di demarcare i territori contesi risale a oltre vent’anni fa. E


manca un’intesa persino sull’estensione della disputa, giacché secondo la Cina ri-
272 guarda duemila chilometri mentre per l’India oltre tremila.
LA GUERRA CONTINUA

Nonostante gli accordi del 1993, 1996 e 2005 – centrati sull’astensione dall’uso
della forza, sul rispetto della Lac e sulla creazione di meccanismi per la risoluzione
delle controversie – negli ultimi dieci anni in particolare le frizioni si sono inasprite.
Come testimoniano gli incidenti del 2013, 2014, 2015 e 2020 nel Ladakh, del 2017
e del 2021 nell’Arunachal Pradesh, nel Sikkim eccetera.
Ma sono stati i sanguinosi scontri di tre anni fa a convincere Delhi a liberarsi
della sua tradizionale prudenza nei riguardi di Pechino. Crisi che si è tradotta
nell’accelerazione dei progetti infrastrutturali su entrambi i versanti della frontiera
e in nuove tensioni come quelle dell’agosto 2021 a Barahoti (Uttarakhand) e del
mese successivo nell’area di Tawang (Arunachal Pradesh), preludio di quanto av-
venuto a dicembre. L’India ha inviato alla Cina segnali inequivocabili. Ha consoli-
dato la cooperazione con gli Usa, gli altri membri del Quad (Giappone e Australia)
e i paesi sud-estasiatici. Ha richiamato alla stabilità nei Mari Cinesi e lanciato strali
contro le nuove vie della seta. Ha operato una stretta contro la penetrazione delle
aziende cinesi nei comparti sensibili della sua economia. Ha approvato nuove re-
gole di ingaggio che cancellano il divieto di usare armi da fuoco entro due chilo-
metri dalla Lac, lungo la quale peraltro ha piazzato altri 50 mila uomini, che oggi
ammonterebbero a circa 200 mila. Il più numeroso dispositivo mai schierato ai
confni settentrionali, secondo Jaishankar.
A fne novembre il capo dell’Esercito indiano, generale Manoj Pande, aveva
confermato che non c’è stata alcuna smobilitazione da parte cinese, descrivendo la
situazione come «stabile ma imprevedibile». In questa cornice, che si riaccendesse
la disputa sull’Arunachal Pradesh – «Tibet meridionale» per la Cina, che ne rivendi-
ca la sovranità – e dunque su Tawang, vista la sua rilevanza strategica e simbolica,
era solo questione di tempo.
Partiamo dalla geografa, che ha giocato un ruolo cruciale nel plasmare l’evo-
luzione della geopolitica del subcontinente indiano e le sue interazioni con la Cina.
Il subcontinente è separato dal resto dell’Asia da ostacoli naturali ben defniti, mol-
to più di quelli che dividono Asia ed Europa. A nord, lungo le due direttrici sud-o-
vest e nord-est si estende la più imponente catena montuosa del mondo, l’Hima-
laya, che poi si congiunge al Karakorum e che continua fno ad aprirsi nell’Hin-
dukush. Dietro il Karakorum e l’Himalaya si staglia il più vasto altopiano al mondo,
il Tibet. L’orografa ha plasmato storicamente le comunicazioni tra India e Cina,
rendendole complicate in ambito civile e quasi impossibili in quello militare, se si
escludono la spedizione anglo-indiana in Tibet nel 1904 e la breve guerra sino-in-
diana del 1962. Nonostante le scaramucce e i tentativi di guadagnare posizioni a
detrimento dell’avversario, le caratteristiche del teatro himalayano scoraggiano – se
non impediscono – un’invasione su larga scala. Un cambio di paradigma vi sareb-
be soltanto nel caso in cui l’India controllasse il Tibet, poiché potrebbe minacciare
direttamente il nucleo geopolitico della Repubblica Popolare. Oppure se i cinesi
mettessero le mani sul Nepal o sull’Arunachal Pradesh.
Nell’ottica di Pechino, Tibet e Xinjiang sono regioni che assolvono alla fonda-
mentale funzione di scudo a protezione del nucleo geopolitico cinese e di ponte 273
274
IL PROGETTO KALADAN
Lhasa Aeroporti internaz.li
ANCHE L’INDIA HA IL DILEMMA DI MALACCA C I N A Capitale aho
n Altri aeroporti
Bimstec N Progetti di aeroporti
E P Città importante CINA
e a McM
Iniziativa per la cooperazione tecnica ed economica A Thimphu Città
T
Thi
Thimphu Lin CINA
multisettoriale del Golfo del Bengala Delhi L
NEPAL BHUTAN
Tinsukia
Kathmandu BHUTAN
Kunming MYANMAR
Paesi che fanno parte del Bimstec Kanpur
INDIA Corridoio strad.
Capitale Est-Ovest
BANGLADESH BANGLADESH Silchar Ferrovia strategica
Città Moreh
MYANMAR INDIA
Base militare indiana cca Dacca AgartalaV I E T N Kalewa
Aizawl A M
Vishakhapatnam: comando navale Calcutta Da Mandalay Calcutta Hanoi
I N D I A Lawngtlai
no

orientale e principale base per sottomarini Mandalay


c hi di

Port Blair: comando militare interforze


G

Prog. stradale strategico


n

L AOS
Naypyidaw lungo la frontiera con
To olfo

Base militare navale statunitense Sittwe Tratta marittima Sittwe


F. Kaladan



★ ★

(539 km) Vientiane avamposti militari
di grande importanza Kyaukpyu
Porto costruito e/o gestito dall’India


Vishakhapatnam Yangon
★ ★

Porto costruito e/o gestito dalla Cina T H A I L A N D I A
PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO

Sottomarini cinesi LAOS


Golfo del Bengala
Bangkok
Bangalore CAMBOGIA V I E T.
ISOLE ISOLE Phnom Penh
LACCADIVE ANDAMANE
Port Blair
Madurai Golfo di Ho Chi Minh
alk Confne marittimo India-Sri Lanka Mare delle
. di P Thailandia
Oceano Indiano Andamane

Str
Trincomalee
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ISOLE SRI LANKA NICOBARE
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MALDIVE Colombo
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★ ★

Hambantota
di

Sabang
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Diego Garcia Banda Aceh


al

MALAYSIA
ac
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INDONESIA
a
LA GUERRA CONTINUA

verso l’Asia meridionale e centrale. Ma se capovolgiamo la prospettiva, anche per


Delhi la contesa alle frontiere è affare strategico. Perché l’Himalaya scherma anche
il suo nucleo geopolitico, ossia la pianura indo-gangetica. Qui nel corso dei millen-
ni sono prosperate le principali civiltà del subcontinente indiano e qui si sono in-
sediate le potenze esterne che lo hanno invaso. Insomma, per avere qualsiasi
pretesa di dominio sul subcontinente è imprescindibile dominare tale fertilissima
regione, ancora oggi quella con la più alta densità abitativa dell’India.
Henry Kissinger sostiene che nel 1971, con l’indipendenza del Bangladesh,
Pechino temeva che come Delhi aveva smembrato il Pakistan avrebbe potuto se-
parare il Tibet dalla Repubblica Popolare. Oggi la situazione sul campo è molto
diversa, ma per il Partito comunista cinese (Pcc) resta imperativo preservarne il
controllo. Perciò teme che il Dalai Lama si reincarni nella comunità tibetana in
India, magari proprio a Tawang. Area di primaria importanza strategica e cultura-
le-identitaria. Tawang ospita il secondo monastero più importante del buddhismo
(religione nata nell’India nord-orientale), costruito per volontà del 5º Dalai Lama
nel XVII secolo; ha dato i natali al 6º Dalai Lama; ha offerto rifugio all’attuale Dalai
Lama Tenzin Gyatso dopo la repressione della rivolta tibetana da parte delle forze
della Cina maoista nel 1959. Ed è proprio dal distretto di Kameng – via Passo di
Bum La – che l’esercito cinese è penetrato in territorio indiano durante il confitto
del 1962, occupando Tawang e spingendosi fn quasi alle pianure dell’Assam.
La tensione nella zona è destinata a esacerbarsi anche alla luce della succes-
sione del Dalai Lama. I cinesi hanno messo in chiaro che la prossima guida tibeta-
na dovrà essere approvata dal Pcc, motivo per cui Tenzin Gyatso nel 2014 ha va-
gheggiato la possibilità che non vi sia alcuna reincarnazione dopo aver formalmen-
te ceduto le sue prerogative terrene al capo del governo tibetano in esilio nel 2011,
sicché quand’anche il nuovo Dalai Lama fosse nominato da Pechino qualsiasi suo
atto sarebbe nullo. Intanto, parallelamente agli attriti con i cinesi, gli indiani hanno
ricominciato a usare la carta tibetana come strumento di pressione. Ma l’incidente
alle frontiere dello scorso dicembre, avvenuto pochi giorni dopo il primo saluto
pubblico post-2020 fra Modi e Xi a Bali, mette a nudo i limiti dell’India. Che ha
tentato di circoscrivere la penetrazione cinese nei settori strategici della sua econo-
mia, di ridurre (invano) lo squilibrio commerciale, di consolidare i rapporti con gli
Occidenti a guida americana. Ad esempio, ha effettuato le esercitazioni annuali
congiunte con gli americani Yudh Abhyas per la prima volta a meno di 100 km
dalla Lac (Auli, Uttarakhand) lo scorso novembre e ha svolto il primo addestramen-
to congiunto con l’Aeronautica nipponica sul suolo giapponese a dicembre. Sulla
scia dell’incidente di Tawang, ha poi anticipato il test di un missile balistico a rag-
gio intermedio nel Golfo del Bengala che la stampa indiana ha ribattezzato «China
killer». Delhi tuttavia sa che, in caso di confitto, dovrà fare affdamento unicamen-
te su sé stessa. Anche se potrà probabilmente contare sul supporto americano in
termini di intelligence e di specifche forniture militari, come nel 2020.
Altrettanto cruciale è l’area del Doklam, protagonista di uno stallo armato di
oltre un mese nel 2017. Ubicato tra la frontiera con il Sikkim e con il Bhutan, il 275
PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO

Doklam è in prossimità del corridoio di Siliguri, strettoia fra Nepal e Bangladesh


che collega il Nord-Est indiano al resto del paese e che a est si apre nell’Arunachal
Pradesh.
Quanto al Kashmir, ripartito e conteso fra India, Cina e Pakistan, è un ponte
che collega l’Asia meridionale a quella centrale. Ecco perché è al centro delle pre-
occupazioni degli strateghi cinesi e indiani sin dagli anni Cinquanta. Tra i motivi
scatenanti la guerra del 1962 c’era difatti la costruzione da parte cinese di un’auto-
strada (G219) nell’Aksai Chin – dopo il confitto controllato da Pechino – per con-
nettere il Xinjiang al Tibet. Ovvero la creazione di un’infrastruttura che avrebbe
alterato gli equilibri in questo quadrante. Analogamente, la crisi del 2020 si svilup-
pa neanche sei mesi dopo la decisione indiana di scindere quello che fno ad allo-
ra era lo Stato di Jammu e Kashmir in due Territori dell’Unione (Ladakh, Jammu e
Kashmir), così dotandoli di un’autonomia ridimensionata. Aree a maggioranza mu-
sulmana in cui Delhi sta cercando di incentivare l’emigrazione da altre parti dell’In-
dia per alterarne la demografa, specularmente a quanto approntato dalla Cina in
Tibet e Xinjiang. Interventi rispettivamente propedeutici a mitigare le faglie interne
all’Unione e ad assimilare al canone han le minoranze della Repubblica Popolare.
Per il Kashmir pakistano passa inoltre il Corridoio economico Cina-Pakistan.
Direttrice delle nuove vie della seta (Belt and Road Initiative, Bri) utile a connette-
re il Xinjiang all’Oceano Indiano occidentale aggirando Malacca, collo di bottiglia
su cui vigilano americani, indiani e altri paesi parte del contenimento anticinese.

3. La Repubblica Popolare vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. Vorreb-


be scoraggiare l’India dal rafforzare i rapporti con gli Usa. Vorrebbe che Delhi ac-
cettasse un ruolo subordinato nel nuovo ordine regionale sinocentrico, compreso
lo sviluppo della Bri nell’Indo-Pacifco, con il suo corredo geopolitico-economi-
co-militare. Così da potersi concentrare sul fronte Est e su Taiwan, dove sconta la
pressione degli americani e dei loro alleati. Senza concedere in cambio granché.
Inutile specifcare quanto ciò sia inaccettabile per Delhi. Ecco perché la Cina sta
normalizzando le scaramucce di confne. Mettendo pressione al vicino ma senza
tagliare i ponti, anzi mostrandosi pronta a riprendere la cooperazione in altri am-
biti. Per raggiungere un equilibrio in cui l’India percepita come minaccia sia tenuta
in scacco senza innescare una guerra aperta che, quand’anche convenzionale,
comprometterebbe il risorgimento nazionale facendo gli interessi degli Stati Uniti.
Ciò al netto di un dibattito interno che vede attualmente minoritaria la posizio-
ne di quanti ritengono che questo approccio potrebbe essere controproducente.
Alimentando l’avvicinamento di Delhi a Washington, in campo sia militare sia eco-
nomico. Complicando ulteriormente l’implementazione delle nuove vie della seta
in Asia meridionale e sud-orientale. Incrementando la possibilità che, anche inci-
dentalmente, le frizioni tracimino in una guerra che concretizzerebbe l’incubo stra-
tegico di dover gestire più fronti al contempo. Quindi complicando nettamente i
piani di «riunifcazione» con Taiwan. Senza contare che, sebbene militarmente l’am-
276 modernamento bellico metta la Cina 15 anni avanti all’India, la guerra d’Ucraina è
LA GUERRA CONTINUA

solo l’ultima conferma che lo squilibrio di forze non è sinonimo di prevedibilità


delle operazioni sul campo.
L’obiettivo della Cina, speculare a quello indiano, è rinsaldare la presa sulle
sue periferie. Il vantaggio strategico di Pechino è palese: Delhi dista 400 km dalla
Lac, Pechino 4 mila. Un cambiamento dello status geopolitico del Tibet altererebbe
sostanzialmente questo equilibrio. Perciò da quando ha rimesso le mani sulla re-
gione tibetana, e in particolare dopo gli anni Ottanta, Pechino ha cercato di legitti-
mare e sostanziare le sue rivendicazioni in campo economico, storico e culturale.
Ad esempio derubricando i legami tra tibetani e popolazioni della pianura in-
do-gangetica, accusando l’India di volersi intestare i privilegi coloniali britannici e
di sobillare la causa indipendentista tibetana. L’India aveva riconosciuto la sovrani-
tà cinese nel 1954 con la speranza che sarebbe stata salvaguardata l’autonomia del
Tibet e dunque che questo continuasse a svolgere il ruolo di cuscinetto che gli
avevano assegnato i britannici.
La tattica della Cina, come sperimentato dai paesi rivieraschi del Mar Cinese
Orientale e Meridionale, si basa sulla graduale militarizzazione dell’area. Operazio-
ni in «zona grigia» che lentamente ma costantemente alterano lo status quo senza
valicare linee che equivarrebbero a una dichiarazione di guerra.
Sicché i cinesi negli ultimi vent’anni e a ritmi ancor più sostenuti dopo il 2020
hanno messo in campo massicci progetti infrastrutturali con la realizzazione di
strade, ferrovie, ponti, avamposti militari, insediamenti civili (quelli previsti dalla
Regione autonoma del Tibet nel 2017 sono 628). Anche in territori rivendicati da
India, Nepal, Bhutan. Nel 2021 hanno poi approvato una legge sui confni che tra
le altre cose prevede l’edifcazione di «infrastrutture di frontiera». Mosse che, nel
Xinjiang come in Tibet, si accompagnano alla sinizzazione coatta di uiguri, tibetani
e altre minoranze.
Per capire la portata degli investimenti cinesi, stando ai dati uffciali il sistema
stradale tibetano è cresciuto del 50% tra 2015 e 2020. Nel Xinjiang occidentale sono
in costruzione almeno otto strade che collegheranno la famigerata autostrada G219
al confne con il Ladakh indiano. Mentre all’altra estremità della frontiera nel 2021
è stato completato un sistema di tunnel e strade che connette il Tibet orientale –
dove ha sede l’aeroporto a uso duale di Nyingchi – alla contea frontaliera di Medog
ed è stata inaugurata la prima linea ferroviaria ad alta velocità tra la stessa Nyingchi
e Lhasa, capitale del Tibet.
Contestualmente la Repubblica Popolare ha iniziato ad alzare la voce sul piano
diplomatico. Nel 2006, pochi giorni prima della visita di Hu Jintao, l’ambasciatore
cinese in India dichiarava che l’Arunachal Pradesh è «territorio cinese sin dall’anti-
chità». Da lì in poi Pechino si è rifutata di concedere visti a funzionari locali, ha
criticato puntualmente le visite di leader indiani e stranieri in loco, ha «standardiz-
zato» (leggi: rinominato) in caratteri cinesi tra 2017 e 2021 16 località nello Stato
indiano – centri residenziali, corsi d’acqua, passi di montagna. Primo presidente a
visitare il Tibet dal 1990, Xi Jinping ha lanciato nel 2017 il progetto per «fortifcare»
la regione, invitando gli abitanti a gettare radici nelle aree di frontiera per diventa- 277
PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO

re «guardiani del territorio cinese» e promettendo che la Repubblica Popolare


«schiaccerà» i separatismi. Intento di cui è emblematica la nomina di Wang Jun-
zheng, responsabile per le politiche di inculturazione forzata degli uiguri nel
Xinjiang, a segretario di partito in Tibet nel 2021.
Soprattutto, gli strateghi cinesi hanno iniziato a considerare la possibilità che
gli indiani traggano vantaggio da un’operazione contro Taiwan. Timore che oggi
assume rinnovata rilevanza in virtù dell’offensiva anticinese di Washington e della
convergenza tra quest’ultima e Delhi. Lo ha ribadito l’estate scorsa il capo delle
operazioni navali degli Stati Uniti, ammiraglio Mike Gilday, defnendo gli scontri
alle frontiere sino-indiane «strategicamente importanti» perché obbligano i cinesi a
concentrarsi non solo a est ma a «guardarsi le spalle a sud». Probabilmente anche
per questo Pechino si è fatta più aggressiva, per mostrare che nonostante l’impe-
gno nello Stretto non concederà alcunché su altri fronti strategici.
Altro proposito della Cina è costringere gli indiani a fssarsi sulla terra, disto-
gliendoli dai tentativi di dotarsi di un dispositivo navale capace di tenere testa alla
proiezione indo-pacifca cinese. La Marina indiana sconta tradizionalmente la quo-
ta minore di fnanziamenti nell’ambito delle spese militari, anche perché salari e
pensioni dell’Esercito (il più numeroso al mondo) gravano enormemente sul bilan-
cio. Da qui la riforma del sistema di reclutamento militare (Agnipath), le diffcoltà
nel piano relativo all’ammodernamento del comparto sottomarino, il posponimen-
to della costruzione di una seconda portaerei Made in India dopo l’Ins Vikrant del
2022, la revisione dell’obiettivo di arrivare a 200 (ora 175) navi da guerra entro il
2027.

4. L’instabilità ai confni rende per l’India sempre più complicato scegliere tra
burro e cannoni. Dal suo insediamento Modi ha infatti cercato di trovare un acco-
modamento con l’ingombrante vicino. Per questo ha incontrato Xi 18 volte prima
dei fatti del 2020 e per questo in occasione della prima visita del presidente cinese
nel 2014 ha voluto accoglierlo nel suo Stato natale (Gujarat). Del pari, inizialmente
ha fatto esercizio di prudenza verso la questione tibetana, ha negato la partecipa-
zione dell’Australia alle esercitazioni Malabar (con Usa e Giappone) e l’istituziona-
lizzazione del Quad, organismo che gli indiani si sono più volte premurati di def-
nire «non diretto contro un paese in particolare». Così come ha tentato di ricucire
anche a seguito della crisi del Doklam nel 2017 con i vertici bilaterali di Wuhan
(2018) e di Chennai (2019) e invitando i propri funzionari di partito a non presen-
ziare alle commemorazioni per il 60º anniversario dell’esilio del Dalai Lama.
Ma il nazionalismo indù, insieme allo sviluppo socioeconomico, asse fonda-
mentale del governo Modi, è arma a doppio taglio. Ciò che i cinesi comprendono
e sfruttano. Tanto che sulla scia delle critiche piovute dalle opposizioni il premier
indiano è stato costretto a sbandierare che «non si è verifcata alcuna perdita di
territorio» a opera dei cinesi nel Ladakh. Posto che nel 2019 il ministro dell’Interno
aveva affermato in parlamento che il Kashmir è parte integrante dell’India, compre-
278 se le zone sotto il controllo di Pechino e Islamabad.
LA GUERRA CONTINUA

La geopolitica impone all’India di estendere il proprio dominio fno alle bar-


riere naturali che separano fsicamente il subcontinente dal resto dell’Asia. Solo
allora potrà concentrarsi pienamente sui mari, creando una Marina che permetta di
proiettare infuenza oltre i settemila chilometri di coste e mettere in sicurezza le
rotte che attraversano l’Oceano Indiano, per le quali passa il 95% del suo inter-
scambio con l’estero. Precondizioni: forgiare un’identità panindiana che mitighi la
disomogeneità interna ed evitare l’emergere di un egemone regionale, pericolo
oggi rappresentato dalla Cina. Quest’ultimo caposaldo è alla base della convergen-
za con gli americani. Anche perché Delhi è consapevole che l’eventuale presa di
Taiwan muterebbe gli equilibri di potenza indo-pacifci spianando la strada alla
Cina per proiettarsi pienamente verso sud, via mare (intorno di Malacca) e via ter-
ra (Nepal, Bhutan e Lac, ma anche Myanmar e Pakistan).
Le amministrazioni Trump e Biden hanno infatti descritto la relazione con
l’India come la più importante per gli Usa nel XXI secolo, ma non è tutto rose e
fori. Gli indiani diffdano dell’America, stando a un sondaggio di Morning Consult
di inizio 2023 percepita seconda (22%) minaccia militare dopo la Cina (43%) – pe-
raltro, una quota complessivamente maggioritaria ritiene Nato (18%) e Usa (26%)
primi responsabili di quanto accade in Ucraina. Per metterla nei termini dell’ex
ambasciatore in Cina Vijay Gokhale, l’India «è troppo grande, ha troppa storia e
identità quale grande civiltà per essere agganciata a qualcun altro». Eppure, la mi-
naccia cinese e i vantaggi economico-tecnologici della cooperazione con l’Occi-
dente stanno spingendo gli indiani a intendersi con gli americani. Questione hima-
layana compresa.
Guarda caso, parallelamente alla crescente assertività cinese, nel 2008-09 l’India
inizia ad acquistare dall’America velivoli militari da trasporto C-17 e C-130J, da rico-
gnizione P-8I e nel 2015 elicotteri Ch-47 e obici M-777. Analogamente, la riesuma-
zione del Quad a trazione americana coincide nel 2017 con la crisi del Doklam, con
la visita del Dalai Lama a distanza di anni a Tawang e al palazzo presidenziale a
Delhi. Mentre nel 2018 viene formalizzato il dialogo strategico bilaterale nel formato
2+2 (ministri degli Esteri e della Difesa) e nel 2019 viene frmato l’accordo militare
Comcasa. Dopo lo scontro nel Ladakh del 2020 nuovo cambio di passo: si tiene il
primo vertice Quad a T§ky§ (cui seguirà l’anno successivo la prima riunione a livel-
lo di leader), l’Australia è riammessa alle esercitazioni Malabar e viene siglato un
altro fondamentale accordo militare (Beca) con gli Usa. Come riassume il documen-
to declassifcato dall’amministrazione Trump a fne 2021, Washington intende acce-
lerare l’ascesa dell’India affnché questa funga da «fornitore di sicurezza regionale e
major defense partner», assicurandole sostegno militare, diplomatico e informativo
«per affrontare sfde continentali come la disputa di confne con la Cina». Così nel
2019 l’ambasciatore americano in India viene invitato al Tawang Festival, visita che
Alice Wells, assistente segretario di Stato per l’Asia meridionale, descrive quale evi-
denza del «supporto risoluto degli Usa alla sovranità indiana». Nel 2020 viene poi
sanzionato il Tibetan Policy and Support Act, il quale stabilisce che l’autorità ultima
in materia di successione del Dalai Lama è la leadership spirituale tibetana. 279
280
IL CONFINE SINO-INDIANO
Auli - esercitazioni annuali
Confne rivendicato X I N J I A N G congiunte Usa-India
dall’India (Yudh Abhyas) nel 2022
Gilgit Passo Tra 2020 e 2022 si sono

K ar a
ko del verifcati scontri e incidenti
ru Karakorum in diverse località lungo la

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PAKISTAN Lac (Line of actual control),
tra cui Ladakh orientale,

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Passo Lanak La Uttarakhand e Arunachal

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PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO

Area del Doklam, confne


Barahoti I conteso fra Cina e Bhutan

UTTARAKHAND M Aeroporto
Lhasa di Mainling Medog
(Nyingchi) Passo Geluo
A Fiume Brahmaputra
ARUNACHAL Shankou
Passo PRADESH
Delhi L Bum La
NEPAL A Passo Diphu
Y A Passo Dulong Shankou
BHUTAN Tawang
Kathmandu Passo Se La
Thimphu ASSAM

Corridoio
MYANMAR
I N D I A
di Siliguri

0 200 km 400 Aree


contese
BANGLADESH
LA GUERRA CONTINUA

Sotto Biden la musica non cambia. Nel 2022 la speaker della Camera Nancy
Pelosi ha ricevuto a Washington il capo del governo tibetano in esilio Penpa Tse-
ring e dopo gli scontri del dicembre 2022 Donald Lu, successore di Wells, ha criti-
cato apertamente le mosse della Cina alle frontiere, affermando che «non abbiamo
visto la Repubblica Popolare fare passi in buona fede per risolvere il confitto.
Piuttosto il contrario, abbiamo visto mosse aggressive, da ultimo negli Stati dell’In-
dia nord-orientale».
L’India sta cercando di recuperare il terreno perduto nei confronti della Re-
pubblica Popolare. Di questo lavorio è emblematico l’Arunachal Pradesh, che
compare nelle mappe ferroviarie solo nel 2014, ben 67 anni dopo l’indipendenza.
Qui sono state costruite e sono in costruzione linee ferroviarie e stradali (oltre
tremila chilometri nello scorso quinquennio), aeroporti ed eliporti. Particolarmen-
te rilevante la Transarunachal Highway, ad oggi completata al 60%, che parte
dall’ultimo avamposto settentrionale indiano (Dhola) nell’area di Tawang per
giungere a Kanubari. Come pure la Arunachal Frontier Highway, che correrà lun-
go la linea McMahon. Trasformando l’Arunachal Pradesh tradizionalmente neglet-
to, per motivi economici e perché i governi indiani temevano che lo sviluppo
infrastrutturale del Nord-Est indiano avrebbe agevolato i cinesi nel caso di un’ag-
gressione. Tale politica ha subìto una revisione nell’ultimo ventennio ma è soltan-
to da metà anni Dieci che i progetti hanno vissuto un abbrivio. Nel novembre
2022, a Itanagar (capitale dell’Arunachal Pradesh) Modi ha dichiarato che il gover-
no «considera i villaggi delle aree di frontiera come i primi villaggi del paese» e
che il Nord-Est dell’India è all’alba di un’èra di speranza e opportunità. Messaggio
diretto alla popolazione locale quanto ai cinesi.
Sempre nell’Arunachal Pradesh, lo scorso 3 gennaio il ministro della Difesa
Singh ha inaugurato il ponte sul fume Siyom, affuente del Brahmaputra, insie-
me ad altre 27 infrastrutture strategiche dislocate tra Ladakh, Jammu e Kashmir,
Arunachal Pradesh, Sikkim, Punjab, Uttarakhand e Rajasthan. Tutti Stati e Terri-
tori dell’Unione che confnano con Cina e Pakistan. Come hanno reso noto fon-
ti del dicastero della Difesa indiano dopo gli scontri di Tawang, «Pechino dovrà
imparare ad accettare strade e ferrovie indiane vicino alla Lac». Anche il Ladakh
è al centro di progetti che, per esempio, hanno portato in dote nell’ultimo bien-
nio infrastrutture per ospitare 20 mila uomini e 450 mezzi di terra a ridosso del-
la frontiera.
Espulsi da mille chilometri quadrati nel Ladakh tre anni fa – pressoché sulla
linea rivendicata nel 1959 da Pechino, mai riconosciuta da Delhi – gli indiani si
sentono sempre più sotto pressione anche nei quadranti centrale e orientale della
frontiera. Quanto impone di spingere sull’acceleratore dell’ammodernamento mi-
litare. L’India è attualmente il terzo paese per spese belliche, stando al Sipri rad-
doppiate tra 2011 e 2021. Spese che tuttavia sono mal ripartite e lontane da quel-
le cinesi (circa un terzo). Il problema, accentuato dalle operazioni di Mosca in
Ucraina, è anzitutto la dipendenza dalle forniture russe. Perciò l’India punta sia a
diversifcare le importazioni, sfruttando soprattutto i rapporti con Usa, Francia e 281
PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO

Israele, sia a strutturare l’industria della difesa domestica. Due obiettivi che ri-
schiano di rallentare la rincorsa al nemico cinese. Problema che fa il paio con la
retorica governativa, che per salvaguardare l’aura di uomo forte di Modi ha por-
tato quasi il 70% degli indiani (sondaggio Stimson del 2022) alla convinzione di
sconfggere la Repubblica Popolare in caso di guerra.
Gli indiani sanno bene che slogan come quello recitato dal ministro degli Este-
ri cinese durante la sua prima visita in India dopo due anni, per cui la Cina rispet-
ta il «tradizionale ruolo regionale dell’India», sono destinati a restare lettera morta.
E infatti già nel 2014 l’allora capo della diplomazia indiana Sushma Swaraj asseriva
senza mezzi termini che «perché l’India acconsenta alla politica “una sola Cina”, la
Cina deve riaffermare la sua politica “una sola India”».
L’inverno dei rapporti sino-indiani è comprovato dal fatto che sono ormai
quindici anni che tale formula diplomatica non compare nei comunicati uffciali
indiani. Come anche dal trattamento riservato da Delhi al Dalai Lama, cui ad
esempio la scorsa estate è stato concesso l’utilizzo di un velivolo dell’Aeronautica
pochi giorni dopo la visita di Pelosi a Taiwan che ha scatenato la quarta crisi del-
lo Stretto. Il sentire anticinese è ormai trasversale allo spettro politico indiano,
tanto che Modi ha subìto critiche riguardo al suo approccio alla Cina sia per boc-
ca del leader del Partito del congresso Rahul Gandhi sia delle frange hindutva più
estremiste. Ed è diffuso anche tra la popolazione, come dimostra un recente son-
daggio che rileva come il 58% degli indiani abbia ridotto l’acquisto di prodotti
Made in China e il 59% dismesso applicazioni cinesi, di cui centinaia messe al
bando dal governo dopo il 2020. Da ultimo, il servizio di intelligence interno ha
creato un dipartimento (China Coordination Centre) incaricato di collaborare con
gli altri apparati per investigare sulle aziende cinesi che operano in India al fne
di plasmare l’opinione pubblica, penetrare il tessuto economico, acquisire e trafu-
gare dati privati e industriali.

5. La crisi himalayana è diffcilmente sanabile non solo perché l’area ha per


India e Cina rilevanza strategica ma soprattutto perché è funzione degli equilibri
geopolitici in feri nell’Indo-Pacifco.
A eccezione del breve confitto del 1962, storicamente tra i due giganti asiatici
non si sono verifcati scontri signifcativi. E benché oggi i due eserciti si provochino
sulle vette dell’Himalaya, Pechino e Delhi hanno evitato un’escalation di cui l’unica
vincitrice sarebbe l’America. Tuttavia i ramoscelli d’ulivo retorici non hanno pro-
dotto risultati sostanziali. Proprio perché la rivalità è fglia delle rispettive traiettorie
nazionali e della sfda tra la superpotenza a stelle e strisce e il suo principale sf-
dante. E infatti, mentre i cinesi invitano gli indiani a non cadere nella «trappola
geopolitica» tesa dagli americani e a normalizzare i rapporti bilaterali al netto della
questione dei confni, Delhi pone come precondizione la restaurazione dello status
quo ante alle frontiere. Tema verso cui fnora la Cina non ha dato segno di nutrire
alcun interesse. Anzi, la questione viene usata per ricordare all’India chi sia attual-
282 mente in posizione di forza, per indurla a più miti consigli.
LA GUERRA CONTINUA

Gli indiani non intendono piegarsi ad alcuno. Ma a differenza della Repubbli-


ca Popolare l’America offre loro un ruolo rilevante nell’ordine indo-pacifco. Sem-
plicemente, nell’ultimo quindicennio Pechino si è rifutata di trattare il vicino su un
piano di parità. L’India ha dunque rinsaldato la convergenza con gli Usa e i suoi
soci indo-pacifci, su tutti il Giappone, ma anche europei, a partire dalla Francia.
Per formare un deterrente contro la Cina ma soprattutto per alimentare il suo svi-
luppo, sia in termini civili sia militari. Dandosi tempo e modo di acquisire le capa-
cità necessarie a competere con Pechino (e non solo). Anche ai confni, riducendo
il gap infrastrutturale e bellico accumulato nell’ultimo ventennio.
La sfducia reciproca, nel quadro della fuidità geopolitica globale, sarà la cifra
del nuovo modus vivendi tra Cina e India.

283
LA GUERRA CONTINUA

‘ROCKET MAN’
SI TIENE STRETTI
MISSILI E BOMBE di Riccardo BANZATO
Che P’y$ngyang rinunci al programma nucleare in cambio di
aiuti economici è irrealistico. Atomiche e vettori sono la polizza
sulla vita dei Kim. I precedenti storici. Le ombre cinesi e giapponesi.
L’audace iniziativa di Yoon resterà sulla carta.

1. I L 27 APRILE 2018 MOON JAE-IN,


presidente della Repubblica di Corea (Corea del Sud) cammina mano nella mano
con Kim Jong-un, leader supremo della Repubblica Popolare Democratica di Corea
(Corea del Nord) attraverso la Linea di demarcazione militare stabilita in seguito
all’armistizio del 27 luglio 1953, confne di fatto che divide le due Coree da allora.
L’incontro riporta alla memoria di precedenti che tanto fecero sperare in un riavvi-
cinamento tra le due realtà politiche sorte a cavallo del 38° parallelo. Il primo ri-
manda al giugno 2000 quando, durante il summit tenutosi dal 13 al 15 giugno, il
presidente sudcoreano Kim Dae-jung incontra l’allora leader nordcoreano Kim
Jong-il, padre dell’attuale. Inedito faccia a faccia tra rispettivi leader dalla divisione
della penisola tenutosi a P’y$ngyang. Il secondo riecheggia quello storico incontro,
di cui è fglio. Roh Moo-hyun, successore alla Casa Blu (sede del governo sudco-
reano) di Kim Dae-jung, incontra Kim Jong-il di nuovo nella capitale nordcoreana
nell’ottobre 2007.
Una visibile differenza tra il vertice del 2018 e i due precedenti è il luogo: per
la prima volta viene scelto il lato sudcoreano di Panmunj$m, villaggio al confne
delle due Coree dove venne frmato l’armistizio e che da allora, per metonimia, è
identifcato come Area di sicurezza congiunta. La scelta segue un commento fatto
nel giugno 2000 dal sudcoreano Kim Dae-jung, allora 17 anni più vecchio dell’o-
mologo nordcoreano, il quale fece notare come spettassero al più giovane l’onere
e la responsabilità di visitare il più vecchio. Nell’etica confuciana, fondamento
della cultura coreana classica e – a mio parere – moderna, pietà fliale e rispetto
per gli anziani sono tra i pilastri che reggono prassi, riti e comportamenti sociali.
Sarebbe stato dunque appropriato per il leader nordcoreano contraccambiare la
visita. Nell’aprile 2018 Kim Jong-un diventa così il primo leader del Nord a visitare
il Sud dai tempi della guerra di Corea. Moon fa il primo passo e stringe la mano a 285
‘ROCKET MAN’ SI TIENE STRETTI MISSILI E BOMBE

Kim Jong-un, chiedendo quando avrà la possibilità di visitare la Corea del Nord.
«Perché non ora?», risponde sornione Kim che lo prende per mano e lo porta ad
attraversare la linea di demarcazione dove insieme i due leader ripetono più volte
un rito di passaggio nel territorio altrui. Secondo molti osservatori, è un momento
di profonda rilevanza storica e pregno di simbologia, signifcato e aspettative per
un futuro di riconciliazione tra due paesi in guerra da oltre sessant’anni.
Molti videro nella visita di Kim Jong-un la prova che il giovane leader fosse
diverso da padre e nonno, che avesse la seria intenzione di aprire il Nord a una
genuina cooperazione con il Sud. La giovane età, l’aver frequentato scuole svizze-
re, la partecipazione della delegazione olimpica nordcoreana alle Olimpiadi inver-
nali di P’y$ngchang sotto lo sguardo di Kim Yo-jong – potente e fdata sorella del
leader, presente alla cerimonia di apertura – sembravano delineare una nuova èra
nelle relazioni intercoreane. Gli atleti del Nord e del Sud marciarono insieme all’a-
pertura dei Giochi e una squadra mista di hockey femminile prese parte alla com-
petizione. Artisti nordcoreani, tra cui l’orchestra Samjiy$n, poterono esibirsi e la
nave Man Gyong Bong 92 che li trasportò fu la prima imbarcazione nordcoreana
ad approdare nella Repubblica di Corea dal 2002. Il primo aprile gruppi di k-pop
sudcoreano portarono a P’y$ngyang una rappresentazione dal titolo La primavera
sta arrivando, a indicare la speranza di una nuova stagione tra le due Coree dopo
un lungo inverno di astio e provocazioni. Il concerto si svolse sotto gli occhi entu-
siasti di Kim Jong-un e moglie; le performance che seguirono, a cui parteciparono
oltre 150 artisti sudcoreani, furono le prime ospitate in Corea del Nord dal 2005. La
consueta propaganda reciprocamente denigratoria, da ambo i lati, fu sospesa e il
«telefono rosso» tra Seoul e P’y$ngyang, muto da quasi due anni, fu ripristinato per
facilitare le comunicazioni fra i governi.
Tutto questo aiutò a spianare il terreno per il vertice del 2018. La dichiarazione
conclusiva suonava forse troppo ottimistica nei toni e negli intenti per essere reali-
stica, soprattutto a fronte della situazione geopolitica in Asia orientale. I due paesi si
impegnavano infatti a cessare le ostilità e a frmare un trattato di pace che sostituis-
se l’armistizio del 1953. La guerra di Corea sarebbe terminata uffcialmente di lì a un
anno. Ancor più audace la promessa di collaborare per raggiungere in tempi brevi
la riunifcazione della penisola e la sua denuclearizzazione, cominciando dalla ces-
sazione di tutte le attività militari lungo la fascia di confne. Al summit seguirono
varie riunioni ad alto livello e un ulteriore incontro (26 maggio) tra i due leader, per
preparare quello tra Kim Jong-un e il presidente americano Donald Trump. Tale
incontro ebbe luogo il 18 giugno a Singapore e sebbene già emergesse l’inconcilia-
bilità delle posizioni di Nord e Sud, che determinerà il fallimento dei negoziati al
summit di Hanoi del febbraio 2019, il vertice Kim-Trump fu celebrato dal governo
(sudcoreano) di Moon come un grande successo. Cinque giorni dopo Seoul sospen-
deva le esercitazioni militari con Washington previste a settembre, da sempre moti-
vo di nervosismo e rappresaglie da parte di P’y$ngyang. In agosto viene organizza-
to un incontro sul monte Kumgang, in Corea del Nord, tra le famiglie divise dall’ar-
286 mistizio del 1953, mentre a settembre Kim ospita Moon a P’y$ngyang e promette di
LA GUERRA CONTINUA

INFRASTRUTTURE STRATEGICHE IN COREA DEL SUD


Linea del cessate-il-fuoco

Diga della Pace


Sokcho
KYONGGI Ch’unch’ŏn
Pa’ju Kangnŭng
Jnch’on Seoul KANGWON
Wŏnju
Suwŏn P’yŏngch’ang
Yongin
P’yŏngt’aek Diga Ch’ungch’ŏng
Hanul (Uljin)
Ch’ŏnan CH’UNGCH’ONG
Asan SETT.
Ch’ŏngju Andong M a r e d el l’ E st
CH’UNGCH’ŎNG
MERIDIONALE Sejong KYONGSANG
Taejŏn SETTENTR.
P’ohang
COREA DEL SUD
M a r Gi a l l o
Kyŏngju
Chŏnju Taegu
CHŎLLA SETT. Ulsan
KYŎNGSANG MERID.
Hanbit
(Yŏnggwang) Ch’angwŏn Pusan
Kwangju Chinju
CHŎLLA MER. ea
or
Mokp’o Yŏsu
C
di
to
r et
Impianti nucleari St
Aeroporti
Dighe
Ferrovie ad alta velocità Cheju City
CHEJU
Città a statuto autonomo GI A PP ON E

prendere in considerazione lo smantellamento del suo arsenale nucleare. Ma come


sempre i segnali di apertura nordcoreani vengono fraintesi, con una visione ecces-
sivamente ottimistica che non tiene conto della situazione geopolitica regionale.

2. L’arsenale atomico di P’y$ngyang è l’unico sicuro deterrente che ha Kim per


scoraggiare attacchi da parte di potenze ostili nell’area e oltreoceano. L’idea che il
leader nordcoreano vi rinunci è irrealistica e non coglie i processi logico-razionali
che muovono le scelte strategiche di qualsiasi leader al comando del paese. Con
grande scorno del governo Moon, nell’estate 2019 P’y$ngyang conduce una nuova
serie di test missilistici e l’anno successivo taglia di nuovo tutte le linee di comuni-
cazione con Seoul. Il 13 giugno le fervide speranze di ripristinare un fruttuoso
dialogo intercoreano vengono seppellite dalle macerie dell’Uffcio per le relazioni
tra i due paesi, ubicato a Kaes$ng, fatto brillare dal regime nordcoreano. L’avvento
del Covid-19, nell’inverno dell’anno successivo, rilega il dialogo con il Nord in
fondo all’agenda politica di Moon. Nel maggio 2022 termina il mandato quinquen- 287
‘ROCKET MAN’ SI TIENE STRETTI MISSILI E BOMBE

nale del presidente sudcoreano e le successive elezioni portano alla Casa Blu il
conservatore Yoon Suk-yeol.
Nell’agosto 2022, a tre mesi dall’insediamento, Yoon Suk-yeol mostra il suo
approccio alla questione nordcoreana con l’«audace iniziativa», strategia mirante
alla graduale denuclearizzazione della penisola. Sulle orme di molti suoi predeces-
sori d’orientamento conservatore, Yoon propone a P’y$ngyang aiuti economici in
cambio della progressiva rinuncia all’arsenale nucleare. L’approccio denuncia una
volta di più la profonda incomprensione delle priorità di P’y$ngyang. Per quanto
disperato sia il bisogno di aiuti, vista la disastrosa situazione economica con cui il
Nord versa da anni, la dinastia Kim non intende mettere a repentaglio in alcun
modo la sopravvivenza propria e del regime. Lo sviluppo economico è di grande
rilevanza, ma è subordinato alla preservazione del regime e della nazione e in tal
senso l’unica vera garanzia per P’y$ngyang è la deterrenza nucleare.
Da qui la secca risposta della ieratica Kim Yo-jong alle profferte del Sud: «Non
tutto può essere scambiato o negoziato. Pensare di barattare la cooperazione eco-
nomica con il nostro onore, l’arma nucleare, è il grande sogno, la speranza, il
piano di Yoon. Un piano semplicistico e infantile. Nessuno è disposto a scambiare
il proprio destino per un pezzo di torta di mais». Kim Yo-jong affda queste parole
a un comunicato stampa del 18 agosto 2022 intitolato «Non avere sogni assurdi»,
replica al discorso commemorativo pronunciato da Yoon tre giorni prima per il
giorno della Liberazione (dalle truppe del Nord).
Il 2022 ha visto un record di lanci missilistici da parte del regime nordcoreano:
ne sono stati contati 65. Yoon ha ribadito di voler rafforzare l’alleanza militare con
gli Stati Uniti e ha condannato i test missilistici di Kim, rifutando qualsiasi compro-
messo in merito. Dalla fne degli anni Novanta i governi di Seoul, conservatori e
liberali, hanno tentato invano di indurre P’y$ngyang ad abbandonare il programma
di sviluppo dell’arma nucleare. Storicamente i governi di stampo liberale, come
quelli di Kim Dae-jung (1998-2003), Roh Moo-hyun (2003-2008) e Moon Jae-in
(2017-2022), hanno scelto di offrire aiuti economici ed umanitari incondizionati,
come segno distensivo e viatico di dialogo. Gli esecutivi conservatori di Lee Myung-
bak (2008-2013) e Park Geun-hye (2013-2017) hanno invece vincolato gli aiuti alla
verifcabile limitazione o sospensione del programma missilistico e nucleare nor-
dcoreano. Considerando che dal 2006 P’y$ngyang ha condotto sei test nucleari
(2006, 2009, 2013, gennaio e settembre 2016, 2017), pare evidente lo scarso inte-
resse dei Kim per qualsivoglia compromesso in materia. Il possesso di un arsenale
atomico era, è e resterà il pilastro della politica di sicurezza nordcoreana.
L’«audace iniziativa» non porta dunque nulla di nuovo. Essa ricalca la politica
di Lee Myung-bak fnalizzata a riequilibrare lo sviluppo economico delle due Coree
tramite cospicui aiuti di Seoul in cambio della rinuncia all’arsenale atomico di Pyon-
gyang. Nell’approccio politico di Yoon emerge lo iato con il precedente governo
Moon, che ha sempre favorito posizioni più morbide e di compromesso cercando
anzitutto di instaurare e mantenere il dialogo con il leader nordcoreano. Esempio
288 della politica di Yoon è la ripresa delle esercitazioni militari con gli Stati Uniti nelle
zone di confne, tra i fattori scatenanti le rappresaglie nordcoreane sotto forma di
LA GUERRA CONTINUA

INFRASTRUTTURE STRATEGICHE IN COREA DEL NORD


F E D.
Aeroporti Hoeryŏng RU S SA
Dighe
Sŏnbong
Ferrovie Rajin
HAMGYŎNG
SETT.
CINA
Cheongjin

Diga Yunfang
Man’po Hyesan
Kanggye
Ch’osan RYANGGANG
CHAGANG Kimch’aek
Diga Supung
Diga Taipingwan HAMGYŎNG MERID. Tanch’ŏn
COREA
Shinŭiju Hamhŭng
P’YŎNGAN D E L N O R D
SETT.

P’YŎNGAN
MERID.
Anju Mare dell’Est

Mar Giallo P’yŏngyang


Wŏnsan
HWANGHAE Goseong
Namp’o SETT.
Sariwŏn KANGWŎN Linea del cessate-il-fuoco
Diga Imnam
HWANGHAE
MER. Diga Hwanggang
Haeju
Kaesŏng 38° parallelo
COREA
Seoul DEL SUD

test missilistici. Yoon non manca di sottolineare come questi test rappresentino una
minaccia non solo per Seoul, ma anche per T§ky§ e Washington, a conferma che
nella sua visione strategica il contenimento di P’y$ngyang passa per l’allineamento
con lo storico alleato statunitense, ma anche con il Giappone. Il fatto che il Nord
abbia testato anche missili a lungo raggio in grado di colpire le basi americane nel
Pacifco e che diversi vettori abbiano sorvolato lo spazio aereo giapponese rafforza
nei due alleati di Seoul la convinzione che Moon abbia ragione.
Nel dicembre 2022 cinque droni nordcoreani hanno violato – primo caso dal
2017 – lo spazio aereo sudcoreano per almeno cinque ore, fno a raggiungere
(sembra) la zona Nord di Seoul dove si trova la dimora presidenziale. L’incapacità
delle Forze armate sudcoreane di abbatterli e di rispondere prontamente all’intru-
sione ha evidenziato la vulnerabilità del Sud ad attacchi non convenzionali e ha
dimostrato che P’y$ngyang, malgrado le disastrose condizioni economiche, resta
militarmente temibile e capace di colpire inaspettatamente con i mezzi più dispa-
rati. Yoon ha pertanto ordinato di creare una nuova unità militare operante con
droni e di rafforzare le difese contro questo genere di armi, affnché la nazione «si
prepari a una guerra con superiorità schiacciante» con l’obiettivo di pacifcare la 289
penisola e l’area limitrofa.
‘ROCKET MAN’ SI TIENE STRETTI MISSILI E BOMBE

3. Oggi le prospettive di un disgelo tra le due Coree paiono quantomeno ale-


atorie. La situazione è di nuovo estremamente tesa, le provocazioni in campo
propagandistico ma soprattutto militare sono continue. Il fallimento di Seoul nell’in-
durre P’y$ngyang ad abbandonare il nucleare vanno ricercati, come visto, in fatto-
ri strutturali e come tali diffcilmente modifcabili. Le testate nucleari non servono
ai Kim solo come deterrente contro possibili tentativi di rimozione del loro regime
da parte (in particolare) di Washington o Seoul, ma anche a scoraggiare possibili
colpi di mano da parte cinese.
Nelle analisi statunitensi ed europee la percezione reciproca di Cina e Corea
del Nord è spesso fraintesa. Sebbene in passato i due paesi abbiano condiviso il
canone comunista e il comune nemico capitalista, la convivenza non è mai stata
facile e P’y$ngyang ha tentato costantemente di escludere, o quantomeno di atte-
nuare, l’ingerenza cinese oltre il fume Yalu che segna il confne tra i due paesi. I
libri di storia ci ricordano come in tempi antichi le dinastie imperiali cinesi abbiano
cercato di incorporare, o almeno di controllare, i sovrani coreani. Da quando Mao
fonda la Repubblica Popolare nell’ottobre 1949, Pechino ha tentato a più riprese di
limitare autonomia e indipendenza nordcoreane, promovendo una relazione di
dipendenza. Nell’etica confuciana comune ai due paesi il fratello minore ha il do-
vere di ascoltare e rispettare il maggiore, ma il Grande timoniere e i suoi gli eredi
hanno sempre cercato in P’y$ngyang un fratellino mite e disciplinato. Viste le mire
di Xi Jinping nel Mar Cinese Meridionale e verso Taiwan, Kim punta invece i propri
missili non solo verso est e sud ma anche verso ovest e nord.
La Corea del Nord si vede dunque circondata da paesi ostili o potenzialmente
tali. Nel 2023 il Giappone aumenterà la spesa militare del 26% e cerca da anni di
rivedere la propria costituzione per svincolarsi dal pacifsmo impostogli dall’Ame-
rica nel 1945. Anche in questo caso, i manuali di storia ricordano ai nordcoreani i
tempi non troppo lontani (1910-1945) in cui l’impero del Sol Levante occupò l’in-
tera penisola coreana, facendone una colonia. Più di recente altri eventi – segnata-
mente il rovesciamento dell’iracheno Saddam Hussein nel 2003 a opera degli Stati
Uniti e del libico Gheddaf nel 2011 da parte di una zelante coalizione euro-statu-
nitense – hanno evidenziato a P’y$ngyang come sia poco prudente rinunciare al
programma nucleare. Fidarsi è bene, non fdarsi è molto meglio.
Da ultimo l’invasione dell’Ucraina (priva di arsenale nucleare) da parte della
Russia, che di atomiche ne ha in abbondanza, ha rafforzato in Kim e nei suoi ge-
nerali la convinzione che solo il deterrente nucleare può assicurare la sopravviven-
za e la sicurezza del regime. Fatto salvo un rivolgimento della situazione geopoli-
tica in Asia orientale, nessun aiuto economico – per quanto cospicuo – farà cam-
biare idea al leader nordcoreano. P’y$ngyang continuerà a perseguire il program-
ma nucleare, rafforzandolo ed ampliandolo, anche a costo di sacrifcare un’econo-
mia già a pezzi e una popolazione malnutrita che da anni vive di stenti e ogni
giorno deve far fronte all’incubo di una persistente, eterna inedia.

290
LA GUERRA CONTINUA

LEUROPA PARLA INGLESE


PER FAR FINTA DI ESISTERE CIRILLO di Elio

Il multilinguismo europeo è un dato di fatto, ma gli slogan di


Bruxelles sono sempre in inglese. La lingua di Shakespeare come
maschera per interessi di parte. O come surrogato di esistenza e
neutralità dell’Unione. La passività italiana.

1. C ON L’ESPRESSIONE «MULTILINGUISMO
europeo» ci si riferisce alla pluralità di lingue che vengono parlate nel Vecchio
Continente. Da questo dato di fatto può essere derivata quella che chiameremo
«politica del multilinguismo», in virtù della quale la pluralità di lingue non è sem-
plicemente constatata come «fatto», ma proposta come «valore» da promuovere
normativamente. In generale, l’obiettivo del multilinguismo è tenere vivo il proli-
ferare di una ricca molteplicità di codici di comunicazione, cercando di tenere al-
lenata la capacità degli individui di servirsi di lingue diverse per comunicare e
comprendersi. In tutti i report europei sul tema del multilinguismo si insiste infatti
sull’importanza di una società quanto più possibile ricca di competenze linguisti-
che differenziate.
Ma c’è anche una terza accezione del termine. Il multilinguismo europeo può
anche designare una «pratica istituzionale» oggettiva, per cui è d’obbligo che tutti i
trattati e i documenti legislativi – nonché la Gazzetta Uffciale – siano tradotti nelle
lingue uffciali degli Stati membri. Inoltre, la traduzione simultanea in tutte le lingue
uffciali dell’Unione durante i dibattiti in parlamento deve sempre essere garantita 1.
Il multilinguismo è quindi un «fatto oggettivamente osservabile», uno «scopo da
perseguire» e una «pratica istituzionale» consolidata.
I vantaggi, i problemi e le conseguenze del multilinguismo nel Vecchio Conti-
nente sono discussi da decenni. Il dibattito, di gran complessità giuridico-flosofca,
si è fatto particolarmente caldo a partire dal 2002, quando la questione linguistica
fu affrontata dal Consiglio europeo di Barcellona. In quell’occasione si iniziarono
a delineare politiche linguistiche comuni, attraverso la creazione di un quadro eu-
ropeo di riferimento per le lingue e l’introduzione dell’insegnamento «di almeno

1. Art. 167 del regolamento del Parlamento europeo. 293


LEUROPA PARLA INGLESE PER FAR FINTA DI ESISTERE

due lingue straniere sin dall’infanzia» 2. Rapidamente, il tema divenne oggetto di


dibattito, fno a quando – in occasione dell’Anno europeo del dialogo intercultura-
le (2008) – la Commissione istituì un Gruppo di intellettuali per il dialogo intercul-
turale 3, incaricato di defnire il contributo del multilinguismo. La Commissione
avvertiva infatti un predominio sregolato della lingua inglese, accresciutosi enor-
memente sul fnire degli anni Novanta. È proprio per rispondere a questo predo-
minio che venne avviata una profonda ridiscussione delle politiche linguistiche
comunitarie.
Lo sforzo, teso a valorizzare le lingue uffciali di ciascuno Stato membro, ha
sollevato negli anni gli scetticismi di diverse voci dell’opinione pubblica, anche
perché ha un costo burocratico non indifferente: si stima che l’Ue spenda ogni
anno 1,1 miliardi di euro per servizi di traduzione e interpretariato. A oggi, essen-
dosi defnitivamente consumato il Brexit, molti intellettuali consigliano all’Ue di
usare l’inglese come lingua di comunicazione preferenziale. Alcuni propongono
addirittura di renderla lingua uffciale dell’Unione.
I sostenitori del multilinguismo – come fatto, scopo e pratica istituzionale – si
scontrano dunque con i fautori della lingua franca, specifcamente inglese. Ma,
oltre alle questioni legali ed economiche, la questione ha anche un risvolto geopo-
litico: è possibile leggere lo stato attuale dell’Unione Europea e i rapporti di forza
interni all’Ue attraverso il prisma del «multilinguismo». Alcune osservazioni potran-
no anche permetterci di comprendere la percezione che l’Italia ha di sé stessa
quale membro dell’Unione.

2. La diversità linguistica e culturale è un elemento costitutivo, difeso come


valore e rispecchiato nella pratica istituzionale, che caratterizza la Cee sin dalla sua
nascita.
L’importanza attribuita alla questione linguistica si evince dalla formulazione
dell’articolo 217 del trattato di Roma del 1957 4: «Il regime linguistico delle istituzio-
ni della Comunità è fssato (…) dal Consiglio, che delibera all’unanimità». I nego-
ziati del Consiglio hanno dato origine al regolamento 1/1958 nel quale, all’articolo
1, si legge che le lingue «uffciali» e le lingue «di lavoro» delle istituzioni dell’Unione
devono essere l’olandese, il francese, il tedesco e l’italiano, ovvero le lingue uffcia-
li dei sei Stati fondatori. Con l’allargamento dell’Unione, le lingue di tutti i nuovi
membri sono state progressivamente aggiunte.
A oggi, le lingue europee uffcialmente riconosciute, per cui è dunque prevista
traduzione simultanea nelle sedute del parlamento, sono 24 5. Il multilinguismo
inteso come pratica istituzionale prevede inoltre che tutti i trattati e i documenti

2. Cfr. «Conclusioni della presidenza, Consiglio europeo di Barcellona (15 e 16 marzo 2002)», p. 19, §
44 punto 2.
3. G. TAVONI, «Il Multilinguismo: ostacolo o vantaggio?», Giornale di informazione sociale, 22/5/2014.
4. Corrispondente all’attuale articolo 342 del Tfue.
5. Bulgaro, ceco, croato, danese, estone, fnlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, let-
tone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese,
294 tedesco e ungherese.
LA GUERRA CONTINUA

legislativi siano tradotti nelle 24 lingue. L’impresa è notevole, nonché unica. Orga-
nizzazioni sovranazionali come l’Onu o la Nato, ad esempio, hanno selezionato un
numero limitato di idiomi da usare all’interno dei propri apparati: la prima ha sele-
zionato sei lingue 6, a fronte di 193 Stati facenti parte, la seconda soltanto due 7.
Tale scelta è stata fatta nonostante la Nato sia linguisticamente «più estesa» dell’Ue,
includendo sotto la sua egida un paese come la Turchia.
Ma torniamo al regolamento 1/1958. Fondamentale è l’articolo 2, in cui si af-
ferma che i cittadini dell’Ue hanno il diritto di comunicare con qualsiasi istituzione
usando una lingua uffciale di loro scelta e hanno il diritto di ricevere risposta nel-
la medesima lingua. Sullo stesso punto insiste anche il trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea (Tfue) all’articolo 20 (paragrafo 2 punto d), in cui viene san-
cito che i cittadini dell’Unione hanno «il diritto di presentare petizioni al Parlamen-
to europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli
organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una rispo-
sta nella stessa lingua». È evidente che i diritti sanciti in queste righe abbiano lo
scopo di difendere e incoraggiare l’attiva partecipazione dei cittadini al progetto
europeo, evitando che si interpongano discriminazioni di tipo linguistico.
Il regolamento 1/1958 prescrive inoltre che i regolamenti e gli altri documenti
di carattere generale debbano essere pubblicati in ciascuna delle lingue uffciali
(articolo 4) e che lo stesso provvedimento debba applicarsi alla Gazzetta Uffciale
dell’Unione Europea (articolo 5). È chiaro dall’articolo 5 come l’intenzione dei legi-
slatori dell’Ue fosse quella di permettere a tutti i cittadini di essere a conoscenza
delle attività delle istituzioni.
Tuttavia, se si vogliono capire le ragioni profonde del multilinguismo come
pratica istituzionale, bisogna leggere le due righe più rilevanti in materia, poste
paradossalmente a chiosa del regolamento stesso: «Il presente Regolamento è ob-
bligatorio in tutti i suoi elementi e “direttamente applicabile” in ciascuno degli
Stati membri». Questa conclusione contiene la ragione implicita della difesa del
multilinguismo come «pratica istituzionale». I regolamenti e alcune norme comuni-
tarie sono infatti «direttamente applicabili» all’interno degli ordinamenti degli Stati
membri: essi non vincolano semplicemente i governi di quegli Stati – come succe-
de per gli ordinamenti Onu o di altre organizzazioni internazionali – ma anche i
singoli cittadini e tutti i residenti sul territorio dell’Ue. Sovrapponendosi alle leggi
interne dei singoli Stati 8 e scalzandole in caso di confitto.
Ora, se tutti gli atti dell’Ue non venissero redatti nelle 24 lingue uffciali indi-
cate dall’articolo 55, n. 1 Tue, ci si troverebbe nella situazione in cui un cittadino,
assoggettato a una legislazione direttamente applicabile a lui, sarebbe titolare di
diritti e doveri espressi in una lingua che potrebbe risultargli incomprensibile. Si
potrebbe pensare di redigere tutti i documenti in inglese, lingua globale per eccel-
6. Francese, inglese, spagnolo, cinese, russo, arabo.
7. Inglese e francese.
8. Cfr. U. DRAETTA, Elementi di diritto dell’Unione Europea. Parte istituzionale, ordinamento e struttu-
ra dell’Unione Europea, Milano 2009, Giuffrè, pp. 282-283. 295
LEUROPA PARLA INGLESE PER FAR FINTA DI ESISTERE

lenza. Ma questa soluzione – visto che, ad esempio, l’86,6% degli over-65 italiani
non conosce l’inglese 9 – appare totalmente insoddisfacente. Tradurre è dunque
una condizione necessaria affnché tutti siano messi nella condizione di capire, per
poter rispettare e benefciare della legislazione europea.
Una seconda ragione per sostenere il multilinguismo come pratica istituziona-
le riguarda il principio di trasparenza del processo decisionale. All’articolo 1, com-
ma 2 del Trattato sull’Unione Europea è richiesto che le decisioni nell’ambito
dell’Ue vengano prese «nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile
ai cittadini». Perché ciò sia garantito, i diversi organi comunitari devono impegnar-
si a minimizzare l’impatto negativo dovuto a eventuali ostacoli linguistici. Questi
pregiudicherebbero infatti la comprensione del materiale cui si ha diritto di accesso
per vigilare sul lavoro delle istituzioni 10.
La terza ragione riguarda il concetto di «democraticità». I cittadini, infatti, non
solo possono votare, ma possono anche candidarsi alle elezioni europee. Se l’in-
glese diventasse la lingua uffciale dell’Ue e non fosse conseguentemente più ga-
rantita la traduzione simultanea durante le sedute del parlamento, una fetta enorme
della popolazione europea diverrebbe ineleggibile de facto – per insuffcienti com-
petenze linguistiche – mentre i cittadini di un paese anglofono (come l’Irlanda)
sarebbero avvantaggiati. Perché la democraticità delle istituzioni rimanga intatta,
dunque, coloro che vengono eletti devono essere in grado di svolgere i compiti cui
sono stati demandati indipendentemente dalla conoscenza delle lingue straniere.
In questo contesto, il multilinguismo funge da garante dei valori democratici dell’Ue
e, in particolare, del Parlamento europeo.
Fra i più rilevanti documenti in cui si sottolinea l’importanza attribuita alla
questione del multilinguismo, si devono inoltre ricordare la Carta dei diritti fonda-
mentali dell’Unione Europea 11 e il trattato sul funzionamento dell’Unione Europea
(Tfue). Nella Carta, è l’articolo 21, comma 1 a vietare «qualsiasi forma di discrimi-
nazione», fra cui si annoverano esplicitamente quelle fondate sulla lingua; su que-
sta linea battono anche l’articolo 207 § 4 e l’articolo 165 § 2 Tfue, in cui si legge che
«l’azione dell’Unione è intesa (…) a sviluppare la dimensione europea dell’istruzio-
ne, segnatamente con l’apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati mem-
bri». L’obiettivo è chiaro: favorire un maggior scambio e una migliore comprensio-
ne reciproca fra cittadini appartenenti a diverse comunità nazionali. L’apprendi-
mento di una lingua personale adottiva 12 va visto in questa luce. Inoltre, le com-
petenze linguistiche aumentano le possibilità di lavorare, studiare e viaggiare in
tutta Europa. Vi sono anche vantaggi commerciali ed economici: «Se la società
prospera è una società multilingue, un’economia competitiva è un’economia poli-
glotta» 13, nella quale le imprese europee sono in grado di muoversi con successo
9. «L’uso della lingua italiana, dei dialetti e delle lingue straniere», Istat. Report e Ricerche, 2015.
10. Cfr. art. 15, n. 2 e n. 3 (co. 3), Tfue.
11. Art. 22: «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica».
12. Su questo, cfr. Language rich Europe, British Council, Cambridge 2012, Cambridge University Press.
13. Cfr. M. C. LUISE, «Plurilinguismo e multilinguismo in Europa: per una Educazione plurilingue e
296 interculturale», LEA - Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, n. 2/2013, p. 531.
LA GUERRA CONTINUA

anche nel mercato mondiale «grazie alle competenze interculturali e plurilingui dei
loro addetti» 14. Le competenze linguistiche stimolano la creatività e l’innovazione,
promuovendo fessibilità e know-how 15.
Senza il multilinguismo come pratica istituzionale, l’idea stessa di «forum euro-
peo» crollerebbe. Esso rappresenta perciò un carattere «sostanziale» dell’Unione.
Nonostante ciò, esiste anche un’altra linea di pensiero. In molti, infatti, riten-
gono che l’uso dell’inglese come lingua uffciale dell’Unione potrebbe ridurre i
problemi e garantire una maggiore integrazione.

3. Sono stati gli anni del Brexit a far rinascere il dibattito circa la possibilità di
utilizzare l’inglese come lingua uffciale dell’Ue. Tale posizione è stata espressa da
diverse personalità di spicco. Per quanto le argomentazioni siano variegate, è pos-
sibile suddividerle in due tipologie, a seconda che l’uso dell’inglese venga ritenuto
garanzia di maggiore competitività commerciale e di semplifcazione della macchi-
na istituzionale o catalizzatore del processo di formazione dell’identità comune
europea.
Fra le argomentazioni del primo tipo va inserita quella di Mario Monti 16, che
nel 2017 ha affermato che l’adozione dell’inglese come lingua uffciale dell’Ue «aiu-
terebbe noi europei a diventare più competitivi utilizzando meno lingue». La pro-
posta, sorda al valore sentimentale e identitario che ogni parlante attribuisce alla
propria lingua madre, ha anche indispettito un membro dell’ambasciata francese
presente all’evento. Del resto, la francofonia è considerata da Parigi utile strumen-
to geopolitico. In generale, la proposta di Monti tradisce un certo economicismo,
nella misura in cui subordina di fattori identitari, comunque presenti nell’Unione,
a esigenze mercantilistiche.
Fra le argomentazioni del secondo tipo si annoverano quelle di Joachim Gau-
ck, Jürgen Habermas e Philippe Van Parijs. Il primo – nel 2013, quando era presi-
dente della Repubblica Federale Germania – ha sostenuto in un discorso sul futuro
del progetto europeo che all’Ue manca una lingua franca 17. Introdurla permette-
rebbe la creazione di un’«agorà europea» in cui le persone riuscirebbero a dialoga-
re alla pari, confrontandosi sui problemi comuni, uscendo dalla propria ottica na-
zionale. Gauck sembra considerare l’inglese la lingua franca naturale. Nello stesso
discorso, appellandosi ai cittadini inglesi, l’ex presidente tedesco afferma che «più
Europa non può signifcare un’Europa senza di voi» 18. Sembra qui affacciarsi un’i-
dea romantica, lasciata implicita e semplicemente allusa, secondo cui l’inglese do-
vrebbe diventare lingua uffciale dell’Unione in virtù del fatto che è culturalmente
la più adatta a esprimere i valori universali alla base del progetto europeo. Si affac-
cia l’idea che la paternità flosofca, culturale, valoriale e politica dell’odierna strut-
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. P. DALLISON, «Mario Monti: EU should adopt English post Brexit», Politico, 21/11/2017.
17. J. GAUCK «Rede von Bundespräsident zu Perspektiven der europäischen Idee», derbundespräsident.
de, 22/2/2013.
18. Ibidem. 297
LEUROPA PARLA INGLESE PER FAR FINTA DI ESISTERE

tura dell’Unione Europea sia in gran parte riconducibile all’insostituibile contributo


della cultura democratica degli inglesi, incarnatasi nella loro lingua.
Sulla questione dell’identità linguistica è intervenuto anche Habermas 19, soste-
nendo la necessità di individuare una lingua comune europea. La posizione di
Habermas è flosofcamente strutturata, perché si basa sull’idea che l’identità cultu-
rale non sia presupposta alla discussione pubblica, ma che si formi attraverso
quest’ultima. L’adozione di una lingua comune semplifcherebbe la creazione di
un’opinione pubblica comunitaria e renderebbe più agevole la formazione di un’i-
dentità culturale europea. Quella habermasiana è una posizione impeccabile in
abstracto, ma non si cura di proporre una soluzione concreta al quadro in esame.
Habermas si esprime infatti a favore dell’inglese come lingua comune tralasciando
i problemi pratici che tale scelta comporterebbe.
Philippe Van Parijs – flosofo belga che ha molto lavorato sul tema delle giusti-
zia linguistica – sostiene invece che l’inglese sia destinato a trionfare come lingua
franca poiché permette di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. L’inglese
è parlato da moltissime persone in tutto il mondo ed è la lingua con cui si produce
gran parte della cultura di massa. Se un francese e un italiano si trovassero a comu-
nicare fra loro, per il principio del massimo risultato con il minimo sforzo sceglie-
rebbero di comunicare con la lingua che entrambi conoscono meglio: ovvero l’in-
glese. Essi continuerebbero dunque ad allenare quella lingua, che si confermerebbe
come scelta migliore anche in futuro. Siamo davanti a un meccanismo che si auto-
alimenta. Van Parijs sostiene, inoltre, che l’Ue dovrebbe profttare di questa dinami-
ca spontanea, soprattutto dopo il Brexit: «L’inglese, infatti, potrà ora rivendicare una
nuova neutralità, poiché la sua scelta non sarà più vista come un vantaggio impor-
tante per uno dei grandi Stati membri dell’Unione» 20. Ma la proposta di Van Parijs è
ben più di un timido invito. Gli europei, a suo dire, dovrebbero «reimpossessarsi»
dell’inglese. «Smettiamola di associare l’inglese alla bandiera britannica» 21: l’inglese
non è altro che una lingua continentale 22. Scrive Van Parijs con sarcasmo: «Il Brexit
è visto da una parte degli inglesi come il modo per concretizzare lo slogan «Give us
back our country!». Per noi è una bella occasione per risponder loro, senza privarli
di nulla che sia loro: «Give us back our language!» 23. Questa operazione, secondo
Van Parijs, consentirebbe dunque di creare la famosa «agorà europea», generando
così una più solida identità comune, e permetterebbe di privare l’Inghilterra del suo
miglior prodotto, la lingua globale: l’inglese dovrebbe essere utilizzato per perse-
guire gli obiettivi identitari e di proiezione geopolitica dell’Unione.
19. J. HABERMAS, «Remarks on Dieter Grimm’s “Does Europe Need a Constitution?”», European Law
Journal, n. 3/1995, pp. 303-307.
20. P. VAN PARIJS, Belgium. Une utopie pour notre temps, Bruxelles 2018, Académie royale de Belgique,
p. 68.
21. Ibidem.
22. Lingua «imposta con due invasioni consecutive provenienti dal continente europeo, dirette contro
la popolazione della più grande delle isole che costeggiano le sue coste», cfr. ibidem. Il riferimento è
ovviamente all’invasione sassone del V secolo e alla dominazione normanna dell’isola durante l’XI
secolo.
298 23. Ivi, p. 69.
LA GUERRA CONTINUA

Per quanto suggestive, queste proposte sono prive di sostanza e di reale appli-
cabilità. Infatti, non solo il continente europeo è fondato sulla diversità culturale e
linguistica (multilinguismo come «fatto»), ma la struttura democratica dell’Unione
necessita del multilinguismo (come «pratica istituzionale»). È per questo che il mul-
tilinguismo deve essere considerato come un valore da promuovere («scopo»). Inol-
tre, un approccio multilingue può generare un vantaggio competitivo in termini di
fessibilità, know-how e possibilità di aprirsi verso nuovi mercati. Esso potrebbe
infatti donare all’Unione proiezione geopolitica in scenari remoti, che tuttora parla-
no lingue europee diverse dall’inglese.

4. Dal piano normativo, tuttavia, siamo ora chiamati a scendere al piano fat-
tuale. Sebbene enunciato come principio, il multilinguismo è infatti costantemente
disatteso nella pratica: solo istituzioni come il Parlamento europeo e poche altre se
ne avvalgono realmente, mentre il Consiglio o il Tribunale optano per il monolin-
guismo o per il bilinguismo francese e inglese 24.
In un articolo precedente abbiamo ricostruito la lunga genesi dello slogan Green
Deal, mostrando come l’inglese si presti a un uso sloganistico che permette ad alcu-
ni paesi europei di nascondere i loro interessi geopolitici dietro alla maschera
dell’Ue 25. Nell’approcciarsi all’opinione pubblica, dunque, ecco che il principio del
co-drafting e della equipollenza delle diverse lingue sembra vacillare. C’è solo l’in-
glese: lingua di comunicazione preferenziale del vertice che solo dopo viene tradot-
ta per rendere comprensibili all’opinione pubblica europea le intenzioni dei decisori.
Parrebbe dunque di essere davanti a un’ambiguità nell’atteggiamento euro-
peo. Se viene promosso il multilinguismo, perché discorsi uffciali, slogan e comu-
nicati vengono spesso proposti solo in inglese? Che senso ha parlare di «atteggia-
mento europeo» se il vertice parla in una lingua che non appartiene a nessuno
degli Stati membri? Su un punto Van Parijs ha ragione. Ora che la Gran Bretagna è
uscita dall’Ue sarà più facile per qualsiasi paese «impossessarsi» dell’inglese, anche
per obiettivi di proiezione geopolitica. Cosa che sta già accadendo.
Ma è sul peculiare caso italiano che dobbiamo concentrarci in conclusione. Se
è vero che la lingua preferenziale del vertice Ue è l’inglese, è anche vero che pae-
si come Francia e Germania spesso traducono gli slogan europei nelle proprie
lingue nazionali. È il caso, ad esempio, del piano di salvataggio implementato
dall’Ue per fronteggiare la crisi economica causata dal Covid-19. Sebbene sia stato
scelto un nome inglese – Next Generation Eu – è anche vero che la maggior parte
degli Stati membri ha declinato nella propria lingua la versione nazionale del pia-
no: si veda la Francia, col France Relance, e la Germania, dove si è parlato di
Aufbauplan e di Wiederaufbaufonds.
24. Sul tema, si veda D. COSMAI, The language of Europe: multilingualism and translation in the EU
institutions: practice, problems and perspectives, Bruxelles 2014, Éditions de l’Université de Bruxelles,
pp. 39 ss.
25. Cfr. E. CIRILLO, «Quando l’inglese si fa maschera: il Green “New Deal”», Limes, «Il triangolo sì», n.
4/2021, pp. 269-276. 299
LEUROPA PARLA INGLESE PER FAR FINTA DI ESISTERE

Di che cosa si è parlato, in Italia, prima di affdarci alla sigla Pnrr? Di Recovery
Fund. Slogan che non è uscito da Bruxelles, ma che è stato foggiato direttamente
in inglese da noi stessi 26. Diffcile ricostruirne la genesi: l’invenzione di un giorna-
lista? L’ha detto un ministro? Non siamo riusciti a determinare chi sia stato il primo
a usare questa espressione. Certo è che moltissimo si è dibattuto e scritto intorno
al «nostro» Recovery Fund. O «Found», come si ostinano a pronunciare alcuni.
Per l’Italia il problema ha due facce: chi fa comunicazione, infatti, compie l’er-
rore di presentare l’Ue come un’entità dotata di capacità decisionale sovrana e
autonoma. Affermare, con pronunciato anglismo, che «l’Europa ha fatto il Recovery
Fund» signifca dotare Bruxelles di una sovranità che semplicemente non possiede.
Ciò, ovviamente, porta chi di questa retorica è destinatario a percepire l’Ue come
un’autorità esterna e indipendente e non come un forum di paesi di cui facciamo
effettivamente parte. La scelta di non tradurre certe espressioni idiomatiche (auste-
rity, Green Deal) o addirittura di foggiare nuovi anglismi per denominare progetti
comunque già battezzati in inglese (Recovery Fund per dire Next Generation Eu)
sono segnali palesi della nostra postura passiva. Diventare più consapevoli di qua-
le sia la nostra posizione in Europa, di quali siano i vincoli esterni e quali i nostri
interessi è per noi compito ineludibile e fondamentale.
L’inglese si fa maschera. Qualsiasi progetto europeo che giunge alle orecchie
dei cittadini italiani viene immediatamente vestito di dignitoso nome british, e così
santifcato. Eccola la compatta, coesa e globale volontà dell’Unione. Raggiunta, f-
nalmente, grazie alla lingua di Shakespeare.

26. Sul sito inglese della Commissione europea, alla pagina dedicata, leggiamo: «NextGenerationEU
breakdown. Recovery and Resilience Facility (RRF): €723.8 billion, of which: loans €385.8 billion, of
which: grants €338.0 billion». Sulla corrispondente pagina italiana, leggiamo: «Ripartizione di NextGe-
nerationEU. Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza: 723,8 miliardi di euro, di cui: prestiti
385,8 miliardi di euro, di cui: sovvenzioni 338,0 miliardi di euro». Non solo l’espressione «Recovery
Fund» non ricorre in tutta la pagina, ma la parola «fund» (fondo) è scorretta per designare questo tipo
300 di facility, che si compone di sovvenzioni e prestiti.
ELETTRA ARDISSINO - Analista per Greenmantle, si occupa di politica e macroeconomia
europea. Alumna della Scuola di Limes (classe 2022).
OLEKSIJ ARESTOVY0 - Già consigliere del capo dell’Uffcio del presidente ucraino Vo-
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Ronald Reagan, autore di Foreign Follies: America’s New Global Empire.
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Foreign Studies di Seoul. Si occupa di relazioni tra Cina, Giappone, Corea del Nord
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za di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopolitica e di
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302 Pubblica amministrazione dell’Università di Macao.
La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA

1. Il concetto di immaginario geopolitico è causticamente sintetizzato in que-


sta freddura che riporta un dialogo tra due russi: «È vero che gli Stati Uniti sono
inferiori a noi tecnicamente, economicamente e militarmente?». «In teoria, sì. Ma
vallo un po’ a far capire agli americani!» (In teoria. Le risposte di Radio Erivan (200
storielle sovietiche), Bompiani, 1970).
Risale all’epoca della guerra fredda ma non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno in
Russia la pensasse ancora così. In ogni caso, con «immaginario geopolitico» si inten-
de una visione collettiva dominante in dotazione a ogni comunità umana tramite la
quale essa interpreta la propria e altrui consistenza nel panorama internazionale.
Spesso ha valore offensivo, accompagnando progetti espansionistici. A volte, invece,
riveste carattere difensivo. Nel comportamento russo di questi ultimi tempi sembra-
no presenti entrambi. L’immaginario nazionale ha infatti prodotto un’autorappre-
sentazione in cui la Russia è stata costretta a invadere l’Ucraina a causa dell’insop-
portabile prossimità con un nuovo confnante decisamente ingombrante, cioè gli
Stati Uniti, giunti ai limiti della steppa via Nato. In casi come questo la collettività
nazionale elabora un proprio spazio politico enfatizzando le minacce esterne e la
circostanza che la consistenza effettiva possa risultare molto lontana dal reale livello
di pericolosità non toglie loro importanza. La reazione non risponderà infatti alla
realtà ma alla sua percezione.
A livello di percezione pubblica, dunque, Russia e Stati Uniti sono realmente
vicine. Come lo sono, d’altra parte, anche rimanendo allo stretto dato geografco.
Oggi divise solo da un mare (lo Stretto di Bering), un tempo condividevano addi-
rittura il medesimo continente. Accadeva quando la Russia era in possesso dell’A-
laska, come ricorda la fgura 1, signifcativamente intitolata America Russa. Nel
1867 gli Stati Uniti investirono 7,2 milioni di dollari (circa 120 milioni di oggi) per
comprarsela. Agli occhi di un’opinione pubblica come quella americana che giudi-
ca tutto in base al ritorno economico, la spesa sembrò un cattivo affare. Poi venne
rivalutata, prima grazie all’oro e poi al rinvenimento del più grande giacimento di
petrolio e gas naturale dell’intero Nord America. Per non dire dei vantaggi strate-
gici che tale mossa ha portato. Ma quelli in genere non vengono mai capiti dalle
opinioni pubbliche, non solo da quella americana.
Fonte: C. Magrini, «America Russa (America Nord Ovest)», da Francesco
Costantino Marmocchi, Il Globo. Atlante di Carte geografche compilate da F.C. Marmoc-
chi per servire di corredo al suo corso di Geografa Commerciale, Paolo Rivara fu Giacomo
editore, Genova 1858.

2. Un comandamento della guerra psicologica impone di adottare la prospettiva


culturale dell’avversario nell’allestire i prodotti della propaganda. I fallimenti america-
ni in Iraq, Afghanistan e in generale nella guerra al terrorismo sono stati anche dovu-
ti all’incapacità di produrre campagne mediatiche persuasive nei confronti delle masse 303
islamiche. Senza pretendere di conquistarne cuori e menti, sembrava almeno alla por-
tata riuscire a strappare loro qualche simpatia. E invece niente. Eppure gli americani
avevano dimostrato di essere maestri nel genere già durante la seconda guerra mon-
diale. Nell’opuscolo lanciato sul Giappone (fgura 2), il cui testo chiude con l’incontro-
vertibile asserzione che «due passeri non possono scacciare venti aquile americane», si
ricorre palesemente allo stile narrativo della cultura nipponica, dove è molto frequen-
te l’uso di metafore zoologiche. Si vedono dei bombardieri americani B-29 attaccare il
Giappone su cui svolazzano degli uccelli impauriti, alcuni già a terra colpiti.
Fonte: volantino, Offce of War Information, 1945 circa (collezione Cornell
University).

3. Nella storia della cartografa, la collocazione della produzione topografca


nell’ambito degli uffci militari ha condizionato il suo apparato di segni privilegian-
do quelli di utilità per le esigenze di movimento dei soldati. La fgura 3 è riepiloga-
tiva dei segni uffcialmente in uso presso il principale ente cartografco dello Stato
italiano. Si noti la quantità di quelli funzionali all’attraversamento di corsi d’acqua.
Fonte: Tavole dei segni convenzionali in uso presso l’Istituto Topografco Militare per le
carte topografche alla scala 1:50000 e di 1:25000, Firenze 1880, tav. IV.

4-5. «Il territorio non è la causa della guerra. (…) Ciò che il territorio assicura
è un’alta percentuale di probabilità che se l’intrusione avviene seguirà la guerra»
(Robert Ardrey, L’imperativo territoriale, Giuffrè, 1984, p. 290). Questo accade per-
ché il potere esiste solo quando si manifesta e si esprime su un territorio. Non vale
solo per gli Stati. Allo stesso modo, anche la mafa e le gang di strada occupano un
territorio, si impegnano a difenderlo e puntano a ingrandirlo. Non a caso, la succi-
tata affermazione dell’etologo ricalca quella del reporter di mafa: «Il territorio è
sacro per i mafosi. Uno sgarbo fuori dalla propria giurisdizione può scatenare
faide, rappresaglie e scontri armati» (Giovanni Tizian, Atlante illustrato di Cosa no-
stra, Rizzoli, 2019, p. 26). La fgura 4-5 suddivide il territorio della Provincia di
Trapani nei quattro mandamenti in cui la mafa se l’è spartito. Il più meridionale è
quello di Castelvetrano, dove era rifugiato Matteo Messina Denaro, che Forbes
aveva inserito nella lista dei dieci latitanti più ricercati al mondo. Curiosamente, la
mafa ha suddiviso il territorio riprendendo non solo il modello rigido dello Stato
(autorità completa ed esclusiva su un territorio delimitato da confni lineari) ma le
sue stesse partizioni amministrative: ogni comune a una famiglia, ogni provincia a
una commissione (o cupola). Forse quest’organizzazione speculare del territorio si
deve a un’insospettabile carenza di fantasia, o più plausibilmente al fatto che due
poteri irriducibilmente concorrenti che si fronteggiano sullo stesso territorio ten-
dono ad adottare la medesima visione del campo di battaglia. In ogni caso ogni
potere, di qualsiasi forma e caratura morale, condivide l’esigenza di suddividere il
territorio per controllarlo.
Fonte: Giovanni Tizian, «Provincia di Trapani», da Atlante illustrato di Cosa
nostra, Rizzoli, 2019, pp. 126-127.
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RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA

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RIVISTA MENSILE - 11/2/2023 - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA

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