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RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA

L’Italia in lotta per non retrocedere


A CHE
Un capo sistemico per contare di più
Con queste Regioni lo Stato non c’è CI SERVE
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DRAGHI
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RIVISTA MENSILE - 9/4/2021 - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA
RIVISTA MENSILE - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA

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Rivista mensile n. 3/2021 (marzo)
ISSN 2465-1494

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SOMMARIO n. 3/2021

EDITORIALE
7 Non di solo Draghi
(in appendice: Fabrizio MARONTA - Quando America
parlò perché Europa intendesse)

PARTE I L’ITALIA IN LOTTA PER NON RETROCEDERE

43 Federico PETRONI - Un euronucleo per l’Italia


53 Dario FABBRI - L’Italia di Draghi alla prova della realtà
63 Fabrizio MARONTA - Il piano è rifare lo Stato
77 Igor PELLICCIARI - Nella partita dei vaccini l’Italia
è in fuorigioco
89 Sabino CASSESE - ‘Lo Stato arcipelago non funziona’
93 Fabio MINI - Ultima o penultima spiaggia?
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105 Rosario AITALA - Se l’Italia matura


115 Massimo LIVI BACCI - Come curare il trauma demografco
125 Alberto DE SANCTIS - La deriva non è un destino
133 Gianfranco VIESTI - Il benessere del Nord dipende
dalla crescita del Sud
141 Luca DI SCIULLO - Un’integrazione strategica per rilanciare
l’Italia nel Mediterraneo di casa

PARTE II ITALIA/ITALIE

153 Lorenzo NOTO - Il ponte sullo Stretto esiste già


si chiama Calabria
165 Luca BERGAMO - ‘Roma è ancora caput mundi,
ma se l’è scordato’
177 Marco Valerio SOLIA - Altro che città Stato, Milano
torni capitale morale

PARTE III SORVEGLIANTI SPECIALI

185 Fabrizio AGNOCCHETTI - Il vento keynesiano di Washington


riallinea Francia e Italia contro le follie della Germania
191 Lars FELD - ‘In Germania ci fdiamo di Draghi
ma temiamo possa fallire’
199 Luca STEINMANN - Di Draghi Berlino non si fda
209 YOU Ji e WU Xiangning - La Cina tende la mano a Draghi
215 Eric R. TERZUOLO - Visto da Washington, Draghi
è raro ma non unico

AUTORI
221

LA STORIA IN CARTE a cura di Edoardo BORIA


223

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A CHE CI SERVE DRAGHI

Non di solo Draghi

D
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1. IVIDIAMO I CAPI IN TRE CATEGORIE: ORDINARI, SISTEMICI,


folli di Dio. Al grado massimo sono responsabili del governo di uno
Stato, di altro soggetto o comunità geopolitica. L’omologia fnisce qui.
A distinguerli sono i cambi di paradigma, che ne rivelano insieme
carattere ed effettivo potere. Nel terzo caso, anche il rovesciamento
mistico della logica umana.
I primi sono gestori della normalità. Per loro vale il grado, di cui
tendono a innamorarsi, non la funzione. I meno intelligenti non si
rendono conto dell’inerzia delle strutture che ne condizionano le
scelte. Adorano la routine in cui presumono di contare. Godono
dell’illusione di comandare. Di fronte agli sconvolgimenti rifutano
l’ostacolo. Si nascondono o abdicano. La marea imprevista li som-
merge. Avanti il prossimo. Gli scaltri, non così rari, capiscono e si
adeguano. Profttano al meglio degli esigui margini di manovra di
cui dispongono. E ne sono gratifcati. Passata la tempesta, sperano di
riscoprirsi ammessi nello strato alto delle non troppo rinnovate gerar-
chie. Verifca empirica dell’umana quindi burocratica inclinazione
alla continuità.
I secondi sono personalità d’eccezione. Per proprio speciale valore
e perché disposti a governare lo stato d’eccezione. Fiutano in anticipo
le crisi. Colgono subito i mutamenti di fase e le variazioni tattiche. 7
NON DI SOLO DRAGH

Percepiscono le frequenti alterazioni nel sentimento delle comunità


che rappresentano. Usano dell’emergenza per sollecitare le strutture a
superiore sforzo, legando l’urgenza alla prospettiva. Le motivano ad
agire fuori degli schemi. Pronti a cambiare le regole del gioco prima
di essere giocati. Così contribuiscono a orientare la transizione, a
inclinarne l’esito. Fissano obiettivi che sanno di non poter pienamen-
te raggiungere perché compressi entro equazioni ipercomplesse. San-
no che quando un sistema s’avvita in crisi si spalancano fnestre di
opportunità normalmente serrate o socchiuse. Imperdibili occasioni
di agire mentre si è agiti. Sono perciò convinti, spesso a ragione, di
lasciare traccia nella storia. Loro vera, gloriosa ambizione.
I terzi sono gli stolti in Cristo. Mistici asceti d’un mondo rovescia-
to. In Russia li chiamano jurodivyj, pazzi di Dio. Straccioni che s’ag-
girano in mezzo alla gente fngendosi pazzi (fno a diventarlo) e
traggono potere dalla mortifcazione del corpo. Alcuni credenti li
suppongono dotati di superiori carismi, capaci di miracoli. Di pref-
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gurare l’avvenire. Dostoevskij racconta come quei santi dementi po-


tessero umiliare lo zar. Sull’esempio di Cristo. Nella catechesi di Bene-
detto XVI, annunciando la Croce e con essa il pane eucaristico Gesù
esprime «il suo modo assolutamente nuovo di essere re, un modo total-
mente contrario alle aspettative della gente» 1. Peccato che nella vita
terrena i folli di Dio si siano talvolta svelati messi del demonio. Di si-
curo i più potenti fra i capi d’ogni tempo.
La premessa serve a interpretare il caso italiano fuor di retorica
corrente. Nell’ora più buia del dopoguerra, sembreremmo affdati a
un «Messia». Metafora che, con o senza virgolette, spesso ricorre per
qualifcare Mario Draghi. Nessuno più dell’interessato rifuterà tale
blasfemia pop. Espressione malaugurante dell’aria del tempo. Degna
però di considerazione in un’analisi da dentro dell’Italia d’oggi. Il
dovere di sobrietà non ci autorizza a espungere le iperboli che corro-
no nella cacofonia dei media asociali.
In tale congiuntura la rivista italiana di geopolitica si trova a
considerare la fgura del capo, fosse solo per la sua percezione pubbli-
ca, come non abbiamo mai dovuto quando battevano le ore del tem-
po ordinario. Esercizio nel caso indispensabile per individuare, nell’o-

8 1. Benedetto XVI, «Udienza Generale. Piazza San Pietro. Mercoledì, 24 maggio 2006», vatican.va
A CHE CI SERVE DRAGHI

ceano delle permanenze, le nuove onde che alterano le correnti geo-


politiche attorno e dentro l’Italia.
Draghi è capo sistemico dotato dei mezzi d’un capo ordinario
assediato dalle stolte aspettative di chi lo vorrebbe «Messia». Responsa-
bilità massima, poteri minimi, attese sinceramente o dolosamente so-
vrumane.
Per otto anni, tra 2011 e 2019, il capo del nostro governo s’è rive-
lato, da presidente della Banca centrale europea, eccellente capo si-
stemico. In quanto pilota dell’unico vero centro di potere nell’Unione
Europea, è stato durante quel mandato fra i massimi leader conti-
nentali. Talvolta superiore ai capi di Stato e di governo con cui trat-
tava e che dalle scelte della Bce sommamente dipendevano. Nella di-
vertente fctio dell’indipendenza delle banche centrali, neanche abi-
tassero altre galassie, simile gerarchia sarebbe esclusa. I fatti raccon-
tano di relazioni frequenti, fnanco intime. Oltre a consultarsi con
lui, la cancelliera tedesca, il presidente del Consiglio italiano, persino
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il signore dell’Eliseo chiedevano a Draghi consigli sul che fare. Né lui


si faceva pregare. Spendendo con misura e senso del tempo il capitale
di credibilità accumulato nei centri di potere americani ed europei,
nelle istituzioni nazionali e internazionali come nell’alta fnanza
privata. La sua biografa è troppo e troppo poco nota per pretendere di
aggiungervi qualcosa. Salvo osservare il paradosso per cui l’enigma-
tico esponente delle élite transnazionali è chiamato oggi a salvare il
suo Stato nazionale. A conferma, mai ce ne fosse bisogno, che Draghi
non è alieno ma italiano. Per nascita, prima formazione – molto
cattolico-romana, dunque umanistica, alla scuola dei gesuiti, con
giovanili simpatie per il socialismo liberale 2 – e sentimento. Questa la
piattaforma di lancio nel mondo anglo-americano e veterocontinen-
tale che lo ha consacrato per quel che oggi è. Se è vero che siamo quel
che siamo stati, a quell’accumulazione originaria il capo sistemico
d’uno dei più scassati sistemi al mondo vorrà abbeverarsi.
Alla riuscita di questo esperimento – scalata di sesto grado supe-
riore – siamo interessati perché sarebbe la nostra. Per intendere la
magnitudine del compito, d’obbligo uno sguardo al contesto.

2. Così nell’intervista condotta in italiano e poi tradotta in tedesco di Giovanni di Lorenzo


a Mario Draghi: «Wenn du deinen Mut verlierst, hast du alles verloren», Die Zeit, 15/1/2015. 9
NON DI SOLO DRAGH

2. Viviamo l’alba d’una rivoluzione geopolitica. La sfda fra Stati


Uniti e Cina non si chiuderà con pareggio a tavolino. La pace fra i
duellanti sarà siglata solo dopo la guerra. Calda o fredda, ingaggiata
sui campi e sui mari di battaglia o giocata con le sole armi della pres-
sione tecnologica, economica e psicologica. Comunque decisiva.
Avremo un vinto e un vincitore. O due perdenti.
Anche noi italiani saremo vinti o vincitori. Le dimensioni del con-
fitto escludono il privilegio della neutralità. Tutti gli attori del sistema
scopriranno a guerra fnita di quanti gradi sarà deviata la loro orbi-
ta nella gerarchia delle potenze. La manovra è in corso. Perché Wa-
shington e Pechino sono ciascuna a suo modo in logica di guerra:
somma zero.
Conftti nell’emergenza virale e nei suoi angosciosi derivati, noi
italiani restiamo in modalità di sopravvivenza, come e più dei soci
euroatlantici (carta a colori 1; carta 1). Sguardo basso e guardia alta.
Tanto da occluderci la vista della sfda in cui siamo coinvolti. Così
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non possiamo cogliere la traiettoria che stiamo percorrendo in stato


di semincoscienza. Tantomeno valutiamo l’importanza dell’Italia
quale posta in gioco nient’affatto trascurabile nel duello dei colossi.
Non ci siamo ancora emancipati dal sonno della ragione strategica,
terapia indottaci per oltre settant’anni dall’egemone a stelle e strisce
onde curare le esorbitanti velleità di potenza nostre e degli altri attori
continentali. Il bagno nel Lete, fume dell’oblio, imposto agli ex pa-
droni del mondo è cifra dell’impero europeo a stelle e strisce. Drastico
quanto gradevole calmante, che per decenni ha escluso dalla compe-
tizione Germania e Italia, gettate insieme al Giappone nell’onirico
frmamento della post-storia. Mentre riduceva seccamente la taglia –
meno l’autocoscienza – di Francia e Regno Unito.
Il paradigma fssato nel 1945 ed elevato a superiore potenza dopo
il collasso sovietico del 1991 è stato recentemente incrinato da tre
vettori. Il defcit di credibilità degli Stati Uniti, fglio della crisi d’iden-
tità sfociata nella tempesta domestica e dell’incertezza nella gestione
dell’impero, fra introversione e ricerca di nemici su cui scaricare l’e-
lettricità accumulata 3. La sistematica penetrazione cinese nello spa-
zio euroatlantico, favorita dalla percezione del declino americano

10 3. Vedi Limes, «Tempesta sull’America» n. 11/2020 e «L’impero nella tempesta», n. 1/2021.


A CHE CI SERVE DRAGHI

diffusa dal suo stesso centro e introiettata dalle élite continentali.


L’allineamento tattico fra Mosca e Pechino, prodotto dagli Stati Uniti
con il colpo di mano a Kiev (2014), che invece di liquidare la Russia
ha offerto all’isolata Cina una spalla tale da impedire a Washington
di completarne l’accerchiamento. È la prima volta dalla seconda
guerra mondiale, quando gli Usa duellarono con il Terzo Reich – pur
indebolito dall’alleato italiano – e con il Giappone, che gli americani
affrontano simultaneamente due grandi potenze (Cina e Urss erano
molto più lontane di Cina e Russia anche prima di divorziare). Senza
poter contare a occhi chiusi sui principali soci europei. Anzi.
Di qui la controffensiva a tutto campo, fra blandizie pubbliche e
minacce esplicite o sotto traccia, scatenata dall’amministrazione Bi-
den. Culminata il 26 marzo nella virtuale partecipazione del presi-
dente americano al Consiglio europeo. Accolto con distante simpatia.
Quanto questo incida sulla vena «sovranista» di Francia e Germania
resta da stabilire. Angela Merkel, comunicando a Biden che «anche
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noi abbiamo i nostri interessi», ha ripreso lo slogan macroniano della


«sovranità europea». Ovvero francese per i francesi e tedesca per i te-
deschi. Implicita negazione dell’egemonia americana in Europa. Nel
primo caso espressa con la punta di arroganza che distingue chi del-
la grandeur ha fatto la propria cifra. Nell’altro meccanica, quasi irri-
fessa reazione all’interminata penitenza infitta dagli yankees alla
patria della Kultur.
Eppure le acque atlantiche, ghiacciate nel quadriennio trumpiano
dopo la freddezza degli anni di Obama, stanno ricominciando a fui-
re. Europei e americani si riparlano. Si scoprono diversi da quando
avevano quasi smesso di farlo. Consapevoli che la tensione nel triango-
lo degli opposti – Usa versus Cina e Russia – obbliga a scegliere. Vale
anche per noi. A meno di non abbandonarci ai gorghi di superiori
correnti, dovremo riabituarci a decidere. Esercizio per cui non siamo
allenati. Le nostre (non) scelte si rifetteranno sulla struttura intima
della nazione, di qui sulle istituzioni della Repubblica. Urge fssare i
termini della partita in corso. Come geopolitica impone, riprendiamo
in mano la carta che disegna il campo delle forze in movimento.

3. La sfda fra America e strana coppia russo-cinese corre fra i


due estremi della massa eurasiatica, connessi dall’Atlantico all’Indo- 11
12
1 - IL COVID-19 NEI PAESI NATO/UE AUSTRIA 496.464
SLOVACCHIA 337.960
SLOVENIA 200.579
UNGHERIA 524.196
ISLANDA CROAZIA 251.674
6.083
NON DI SOLO DRAGH

MONTENEGRO 84.163
ALBANIA 117.474
NORVEGIA MACED. DEL NORD 112.930
80.734

REGNO UNITO SVEZIA

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4.276.799 712.527
CANADA
915.644 ESTONIA 86.086

IRLANDA DANIMARCA LETTONIA 93.959


226.741 221.763
STATI UNITI LITUANIA 205.644
29.451.578 1.178.444 PAESI BASSI GERMANIA POLONIA
808.283 BELGIO 2.583.772 1.917.527
57.926 LUSSEMBURGO REP. CECA 1.402.420
FRANCIA
4.131.882
ROMANIA
PORTOGALLO 862.681
814.257
SPAGNA BULGARIA 278.557
3.183.704

TURCHIA
Contagi registrati al 15 marzo 2021 2.879.390
3.223.142 ITALIA
Da 6.083 a 496.464
da 524.196 a 915.644 MALTA CIPRO
26.748 GRECIA 39.651
da 1.178.444 a 4.276.799 222.281

29.451.578
Fonte: Center for Systems Science and Engineering at Johns Hopkins University
A CHE CI SERVE DRAGHI

Pacifco via Medioceano nostrano. Il profondo Est, quello affacciato


sull’incrocio fra Mar Cinese Orientale e Mar Cinese Meridionale, dove
Stati Uniti e Repubblica Popolare si sforano, studiano e provocano,
preparandosi allo scontro diretto. L’Ovest di casa nostra, ossia l’Euro-
mediterraneo (Asia anteriore per i russi). Qui la frontiera è soprattut-
to terrestre e corre dalla penisola scandinava, con la sua proiezione
artica, fno alle calde acque dello Stretto di Sicilia, fronte a Caoslan-
dia (carta a colori 2). A contatto con l’Orso moscovita. Più inaggira-
bile fornitore energetico che minaccia per tedeschi, italiani ed altri
europei centro-occidentali. Nemico irrinunciabile per gli Stati Uniti.
Da Washington costretto con le spalle al muro. Quasi alle mura del
Cremlino. Diavolo necessario, legittimante la pres(enz)a americana
sul nostro continente. La Russia ha da restare impero del Male, non
importa chi ne sia lo zar, quale il regime. Certamente non democra-
tico, altrimenti l’impero evaporerebbe in quella nuvola di micro-Rus-
sie che ogni polacco o svedese dabbene sogna prima di spegnere la
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luce. Per non confondersi: l’evocazione della «democrazia in Russia»,


ossimoro geopolitico per eccellenza, non ha altro scopo che questo.
Più i soldati russi arretrano – scarrellando verso est di venti gradi in
vent’anni (1994-2014) per 1717 chilometri, da Berlino a Sebastopoli
– più vanno trattati da Armata Rossa in pulsione espansiva, nemme-
no Putin delirasse di marciare su Praga e Varsavia per riaccollarsi
l’intenibile impero esterno che rovinò l’Urss. Una frustrata superpo-
tenza nucleare in modalità di sopravvivenza non è però l’ideale per
chi, come gli europei, ne condivide la porzione più calda del medesi-
mo quadrante geostrategico.
Intanto il Drago si traveste da mercante per inflarsi sotto la pelle
del Vecchio Continente, penetrandone il ventre molle orientale e me-
ridionale. Italia in testa. Sedotti dal formidabile mercato cinese, son-
diamo i limiti della pazienza americana per scoprire, in ritardo, che
il magro pasto mandarino non è gratis. Giacché qualsiasi relazione
economica o culturale con una vera potenza ha prezzo geopolitico.
Se hai a che fare con Pechino, come con Washington o con Mosca,
non puoi scindere di netto il commercio dagli altri fattori di potenza,
militare incluso. Le favole sulla «potenza civile» te le puoi raccontare
nel salotto di casa, non sul ring dei pesi massimi. Perfno noi italiani
cominciamo a prenderne atto. Forse. 13
NON DI SOLO DRAGH

Eccoci nell’occhio di un ciclone che investe la nostra penisola su


ogni lato. Illuderci di goderne lo spettacolo scambiandoci nella pe-
nombra segni d’intelligenza con l’amministratore del sistema euroat-
lantico e profumate mercanzie con il suo nemico esistenziale ci espo-
ne a rappresaglie asimmetriche. Su entrambi i fronti. Ma specialmen-
te per opera di chi detiene le chiavi di casa nostra. E che per decenni
ha sperimentato la nostra disposizione al servilismo e al tradimento.
Norma il primo, eccezione il secondo. L’irrifessa adesione italiana
alle nuove vie della seta cioè all’impero cinese, che Roma presumeva
valesse il pezzo di carta su cui era stampata ma reputava necessaria
a incassare chissà quali investimenti sinici, è bollata tentato tradi-
mento dal nostro principale. Gli apparati d’Oltreatlantico l’hanno re-
gistrata e depositata nell’armadio dei veleni. Pronti a esibircela quan-
do ci scoprissero prossimi alla ripetizione. La mite rappresaglia che ne
è conseguita non signifca condiscendenza, solo disprezzo. Con quel
retrosapore agrodolce che lascia in bocca la sorpresa del raggiro
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

subìto da chi non si stima ma cui si continua a voler bene senza ri-
cordare perché. Insieme, coscienza che una punizione più dolorosa
avrebbe rischiato di schiantare la propria piattaforma strategica nel
Mediterraneo e consegnarla ai cinesi, ai russi o al caos. Con rifessi
destabilizzanti sull’intera Nato. Quanto ai signori di Pechino, vacci-
nati contro la leggendaria inaffdabilità di un paese che considerano
parente per costituzione geopolitica – nel loro immaginario siamo
Roma più che Italia, godibile reincarnazione in sedicesimo di un im-
pero solo tre millenni più giovane del loro – aspettano la prossima
occasione. Verrà.
Se alziamo lo sguardo per cogliere la dinamica delle forze che
premono intorno e dentro di noi – la porta di casa è sempre socchiu-
sa, basta spingere – cogliamo l’altezza della posta in gioco. Gli Stati
Uniti considerano l’Europa proprietà inalienabile (carta 2). L’infltra-
zione cinese e la persistente infuenza russa non consentono tolleran-
za. Gli europei debbono schierarsi. Finita la ricreazione. Ma scaduta
anche la fase storica segnata dalla perfetta coincidenza degli interes-
si vitali di euroccidentali e americani. L’Occidente della guerra fred-
da è fnito con la guerra fredda. Ne restano le istituzioni atlantiche,
non l’anima. Rispetto ad allora, il vincolo americano è apprezzato a
14 intensità rovesciata dai soci europei. Quanto più geografcamente
A CHE CI SERVE DRAGHI

orientali tanto più geopoliticamente atlantici, consegnati cuore e


mente all’agognata protezione americana, di cui non sono affatto
sicuri; quanto più culturalmente occidentali (non troppo atlantici)
tanto meno confdenti nell’ombrello a stelle e strisce. Fra spinte e con-
trospinte – vincoli commerciali ed energetici con Cina e Russia, obbli-
ghi strategici verso gli Stati Uniti – il cambio di paradigma in atto ci
scopre in incoerenti pulsioni verso l’una o l’altra sponda. Non siamo
più dove eravamo né sappiamo dove stiamo andando (carta 3). Tan-
tomeno presso quale attracco getteremo l’àncora. Eppur ci muovia-
mo. Meglio: siamo mossi.

4. L’Italia non è protagonista della geopolitica europea. È però


fattore che i primattori in Europa – tutte le potenze mondiali, nessu-
na esclusa – non possono espungere dalle rispettive equazioni. Siamo
«nazione di secondo ordine» e insieme «peso determinante». La prima
defnizione è di Camillo Benso conte di Cavour, da presidente del
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

Consiglio e ministro degli Esteri del Regno di Sardegna che avrebbe


presto allargato e ribattezzato Italia, pronunciata alla Camera il 6
febbraio 1855  4. La seconda appartiene a Dino Grandi, capo della
diplomazia italiana dal 1929 al 1932, poi calciato dal Duce a Lon-
dra: «In tre anni ha sbagliato tutto. Si è fatto imprigionare dalla Lega
delle Nazioni, ha praticato una politica pacifsta e societaria» (la ven-
detta di Grandi sarà servita fredda nella notte tra il 24 e il 25 luglio
1943) 5. Formule di cui proveremo a sostenere l’attualità. A conferma
che le nazioni serie – lo siamo, a nostra insaputa e contro apparente
volontà – obbediscono a strategie di lungo periodo, da adattare alle
circostanze visibili e alle correnti profonde della storia. Però correg-
gendo un testo scritto, non attribuendosi libertà di scarabocchio su
foglio bianco. Chi cura il giardino del Belpaese deve manutenerlo,
evitare di ripiantumarlo in continuazione. Finendo per sfgurarlo.
Parrebbe controintuitivo stabilire determinante un paese di ran-
go subordinato. Giusto, in tranquillo tempo di pace. Ma non più vero

4. C. BENSO conte di CAVOUR, intervento alla Camera dei deputati del Regno di Sardegna,
tornata del 6/2/1855.
5. D. GRANDI, discorso al Gran Consiglio del Fascismo, 2/10/1930, in ID., La politica estera
dell’Italia (1929-1932), vol. I, Roma 1985, Bonacci, pp. 277-327. Cit. in A. PREST, «Dino
Grandi a Palazzo Chigi: la politica del peso determinante», Università degli Studi di Milano,
facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali, 16/5/2017, academia.edu 15
16
2 - EUROPA COME PARTE DELL’IMPERO STATUNITENSE

FINLAN.
NON DI SOLO DRAGH

NORVEGIA
AUSTRALIA
SVEZIA EST.

DANIM. LETT. RUSSIA


CANADA PAESI BASSI

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
REGNO UNITO BELGIO LIT.
LUSS.
(Principale
alleato militare)
BIELORUSSIA

USA 9.500 POLONIA


UCRAINA
GERMANIA (Territorio conteso tra
Tentativo di indebolimento Oceano Atlantico REP. CECA Stati Uniti e Russia)
STATI UNITI
dell’Unione Europea SLOVACCHIA REGNO UNITO
perché considerata FRANCIA CANADA
parte della sfera SVIZZ. AUSTRIA
d’infuenza tedesca (Alleato UNGH. AUSTRALIA
sentimentale) SLOV. ROMANIA NUOVA ZELANDA
Nord Italia CROAZIA
PORTOGALLO Five Eyes, principale
organizzazione
SPAGNA Mar Nero spionistica
MONT. del mondo
BULGARIA
ITALIA ALB.
MAC. DEL NORD
Kerneuropa Alleati indispensabili
degli Usa
Il presidente Biden Possibile teatro del GRECIA TURCHIA
9.500 ha congelato il piano futuro scontro tra
dell’amministrazione Stati Uniti e Russia NUOVA
Trump di ritirare fno Poznań: quartier generale MALTA ZELANDA
a 9.500 militari Usa europeo del V Corpo d’armata
dalla Germania Usa, riattivato a fne 2020
Mar Mediterraneo
Polonia e Romania, Paesi che hanno frmato
paesi chiave per il un Mou con la Cina (+ Cipro)
contenimento della Russia Paesi Nato ©Limes
1 - VECCHIE E NUOVE Faglie preesistenti
(prima del Covid-19)
FRATTURE ITALIANE Trentino- AUSTRIA Prestazioni sanitarie -
Alto Adige livelli essenziali di assistenza
SVIZZERA
>85%
Bolzano
Valle
d’Aosta Friuli- >75%
Venezia SLOVENIA
Giulia 73-63%
Aosta Lombardia Trento Veneto
Verona 60%
Piemonte
FRANCIA

Milano C 60% ma con integrazioni

RO
Torino fnanziate in proprio

AZ
dalle Regioni

IA
Emilia - Fonte: Gimbe 2010-17
Bologna Romagna
Liguria Prodotto interno lordo
Media nazionale=100
Firenze
Pil superiore al 110%
Toscana
Marche Pil che sfora il 60%
Perugia
Umbria Presenza di lavoratori
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

in nero superiore al 10%:


1,3 milioni
(Tot. Italia 3 milioni)
Rieti Molise
Abruzzo Fonte: Istat 2002-2017
ROMA
Mar Ionio
Lazio Puglia
Bari
Napoli
Basilicata
Sardegna Campania
Mar Tirreno

Calabria

Palermo
Prime 10 province
per numero di contagi
Faglie nuove (durante l’epidemia di Covid-19) da Covid-19 (9/3/2021)
Sicilia Catania Milano 215.573
Controlli doganali; Accentramento su Roma
semi-sospensione della di sanità, istruzione, mobilità, Roma 175.408
libera circolazione welfare, coordinamento Napoli 170.282
industriale e politiche Torino 139.803
Province maggiormente fscali d’emergenza Brescia 76.156
colpite dal Covid-19
Isole in regime Bologna 68.821
Capoluoghi di Regione di semi-isolamento Treviso 66.935
e Provincia con maggior a causa della riduzione Varese 65.987
incremento di mortalità dei collegamenti aerei Verona 65.728
sulla media storica e marittimi
Padova 64.880
Fonte: elaborazioni su dati del ministero della Salute
2 - LA SICILIA ALLA DERIVA Golfo di Italia in crisi
Taranto esistenziale
S ardegna
Ponte sullo Stretto,
necessità strategica
Cagliari Capo Carbonara Calabria
Via della seta
Gioia Tauro marittima
Verso Gibilterra Zona controllata
ORDOLANDIA Palermo da milizie amazigh
Messina Reggio Calabria (berberi)
C A O S L A N D I Favignana
A S I TA L I A Capo Spartivento al-Haṭṭ
Strada litoranea

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
tr
S i c i l i a Sigonella
Biserta
e Mazara del Vallo Reticolato lungo
il confne Tunisia/Libia
tt Niscemi
Augusta
o Direttrici migratorie
Capo Bon
d Basi Usa in Italia
Tunisi
Pantelleria i Portopalo di Capo Passero
S Radar italiani
ic La Valletta
il
Linosa MALTA O L A N D I A
ia O R D
Lampione S L A N D I A
Lampedusa C A O Verso Suez
TUNISIA

ALGERIA
nel caos Tratto della rotta dei tre oceani:
Atlantico-Indiano-Pacifco
Pro

a
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er

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us
sa
rdol turca
ve
O
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o Or
Pro
vers iezione do
ra M A R M E D I T E R R A N E O lan
Ben Guerdane wā dia
Zu Tripoli
al-Hatt Limite delle acque interne libiche non riconosciuto dall’Italia
(la linea) Tripolitania Cirenaica
turca Misurata Golfo della Sirt e r us s a
3 - A CHE CI SERVE DRAGHI Impero Europeo
dell’America
FINLANDIA
NORVEGIA
Migrazioni
verso l’Italia

SVEZIA Stretti medioceanici


Tallinn FEDERAZIONE RUSSA da tenere aperti
REGNO EST.
UNITO Riga Confne con Caoslandia
IRLANDA Mosca
DANIMARCA Genova e Trieste,
Vilnius
possibili hub italiani
delle nuove vie della seta
Berlino PPO
OLONIA
POLONIA

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
OCEANO ATLANTICO Varsavia Nuove vie della seta in crisi
Francoforte
Bruxelles sul Meno ga UCRAINA
UUCR
CRA
CRRAIINAA
Pra Asse del nuovo Est
Parigi a Cuscinetto
CCus
Cu
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cin
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all’Impero
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Mo sbru iV en Brati pe Eu
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FRANCIA
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tn o Lu della Russia
Tre Caspio
Trieste
PORT. Genova Mar Nero
SPAGNA
USA
Roma
ITALIA
ITA
IIT
TTAALIA T U R C H I A
Pseudoalleato
Pseudoallea
con ambizioni
bi i i iimperiali
Stretto di Gibilterra
Roma-Parigi-Francoforte
(Rapporto speciale ma non paritario)
ALGERIA MALTA
Atene/Pireo Controllo del territorio in Libia
Roma-Bruxelles TUNISIA (hub cinese)
(Rapporto secondario) Esercito nazionale libico (Enl)
O LI a Mar Mediterraneo legato ai russi

ATT
Roma-Berlino RIP at
T s ur Governo di accordo

R IT
(Rapporto decisivo ma teso) si

O
Mi ga nazionale (Gna)
n Canale di Suez

FR
e
Aree desertiche

Roma-Washington irt Be controllato dai turchi

AN
CO S UK
(Legati a flo doppio) - ITA BR Presenza militare turca (Tripolitania)
L TO EGITTO
5 Roma-Mosca IAN LIBIA Presenza militare russa (Cirenaica)
O DA
(Rapporto ambiguo) GE STI R E Missioni italiane in Libia
Rotte di connessione
4 - L’ESPANSIONE DELLE MAFIE con l’Europa del Nord
Smistamento di cocaina
S V I Z Z E R A A U S T R I A e crack
Rotte della droga
re

TRENTINO-
r
sta ie

Contrabbando di sigarette
Ao int-P

ALTO ADIGE FRIULI-


SLOVENIA Maggior centro italiano
Sa

LOMBARDIA VENEZIA
Como GIULIA di raccolta, compostaggio
VALLE Rot e smaltimento di rifuti
ta

Tri
D’AOSTA Vercelli Brescia VENETO bal urbani dal Centro-Sud

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CROAZIA o di
PIEMONTE BOSNIA
EMILIA-ROMAGNA

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TOSCANA MARCHE
a

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Brasile
Colombia Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Perugia
UMBRIA
Messico
Viterbo Rieti
ABRUZZO
LAZIO Grecia
ROMA
Hub di smistamento Frosinone MOLISE
stupefacenti e mercato Latina
di forte consumo. Caserta PUGLIA
Opportunità di relazioni Napoli
CAMPANIA BASILICATA
SARDEGNA

Brasile Amantea
Cile Colombia
“Case madri” delle mafe italiane Pizzo CALABRIA
Calabro
Calabria (’ndrangheta)
Gioia Tauro
Campania (camorra) Australia
Sicilia (Cosa Nostra)
Puglia (Sacra corona unita) SICILIA
MILANO Paesi con
Livello d’innesto Nel periodo di lockdown legami storici Canada
delle mafe le maggiori infltrazioni con la
nelle Regioni mafose si sono registrate ‘ndrangheta
Altissimo nei settori:
- edilizia “Locali” della ‘ndrangheta
Molto alto - servizi funerari e cimiteriali venuti alla luce nelle
Alto - pulizie e sanifcazioni indagini del 2020
- produzione dei dispositivi
Medio di protezione Consigli comunali sciolti
“Locali”: cellule
Minimo - smaltimento rifuti speciali dell’organizzazione che nel 2020 per infltrazione
(presenza non stabile) - ristorazione e alberghiero comprendono più ‘ndrine mafosa
Fonte: relazione primo semestre 2020 Dia - Direzione investigativa antimafa
5 - IL SENSO GEOPOLITICO
GERMANIA DEL SUD Confne Nord-Sud
Roma
Capitale nazionale extraterritoriale
LICHT. AUSTRIA Napoli
SVIZZERA Capitale del SudUNGHERIA
decaduta
La “nuova” provincia meridionale:
TRENTINO - centri minori avvantaggiati
ALTO dal declino di Napoli
ADIGE FRIULI -
VENEZIA Fulcri in ascesa dal Sud policentrico
VALLE GIULIA SLOVENIA
Confne di Stato
D’AOSTA
Confni regionali
LOMBARDIA VENETO Valle dell’Etna
PIEMONTE CROAZIA
Spina dorsale del Sud
Fulcro economico, demografco e
EMILIA - ROMAGNA infrastrutturale. Importante presenza
LIGURIA della criminalità organizzata.
BOSNIA -
Terre di mezzo ERZEGOVINA
FRANCIA
Scarsa incidenza demografca.
Importanza economica e dotazione
infrastrutturale medio-basse. Media
TOSCANA incidenza criminale.
Territori marginali
MARCHE Scarsa incidenza demografco-economica.
Scarsa dotazione infrastrutturale,
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
UMBRIA specialmente viaria. Incidenza criminale
medio-bassa.
ABRUZZO
L’Aquila
Sulmona Termoli
Roma Avezzano MOLISE
Isernia
Campobasso
LAZIO Foggia
Benevento Bari
Caserta
Avellino Melf PUGLIA
Napoli Salerno Brindisi
Potenza Matera
CA

M Battipaglia Taranto
PA BASILICATA
NIA
SARDEGNA

Mar Tirreno
Cagliari CALABRIA

Eo lie
ole
Is

Gioia Tauro
Appendice marginale Messina
Palermo
Scarsa incidenza demografco-economica.
Bassa dotazione infrastrutturale. Alta
proiezione criminale.
SICILIA Catania
Regno di Sicilia
Autonomia statutaria. Alta incidenza Augusta
demografca. Media incidenza economica. Siracusa
Dotazione infrastrutturale medio-bassa.
ALGERIAMarginalità geografca. Posizione strategica Pantelleria
TUNISIA
(rotte migratorie, reti energetiche e delle
tlc). Alta proiezione criminale.
Nord remoto
Autonomia statutaria. Bassa incidenza MALTA
economico-demografca. Scarsa incidenza Linosa Mar Mediterraneo
criminale. Dotazione infrastrutturale
medio-bassa. Marginalità geografca. Lampedusa
Forte identità territoriale e capacità
organizzativa della diaspora.
6 - CUORE E PERIFERIA VENETI Repubblica di Venezia alla massima
espansione (XV-XVI secolo)
Sacro romano impero Estensione della «lingua veneta»
Confederazione Svizzera
Pieve di Cadore “Cuore del Veneto”
e
ig
Ad Belluno Udine Confne del Sacro romano impero
Pordenone Gorizia
Vescovato
di Trento Repubblica di Venezia Palmanova C a r n i o l a Marchesato del Monferrato
F. Monfalcone
Bergamo Bassano P Principato di Massa e Carrara
Ducato iav
e

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
di Milano Trieste Stato dei Presidi
Brescia Treviso
Vicenza Mestre Caorle
Milano Fiume
Verona Padova Venezia ia
D

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Pavia Cremona Maucat

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va i Rovigno
Piacenza Pola
Parma F. Po I m p e r o o t t o m a n o

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Ducato
di Parma, Piacenza Modena
Rep. di Bologna

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Genova e Guastalla

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Ducato Ravenna
Genova di Modena

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Rep. di lm Sarajevo
Lucca San Marino a
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Firenze Ancona
Livorno Spalato

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Arezzo
Mar

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Granducato BRAZZA

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Stato Mare Adriatico E r z e g o v i n a
Tirreno di Tosc ana della Chiesa LESINA

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Perugia LISSA
Grosseto U m b r i a CURZOLA Montenegro
Ragusa
Cattaro
Regno di Napoli
L a z i o
Dulcigno
7 - LA FAGLIA FISCALE-SANITARIA
Paesi dell’Unione Europea
Paesi dell’area euro

Faglia fscale-sanitaria
Nazioni dell’austerità (formiche)
Nazioni della redistribuzione (cicale)
Prima l’economia
FINLANDIA
Fulcri del contagio della
seconda ondata NORVEGIA
SVEZIA
Prima i confni (ipereconomicista)
Dall’economia alla salute
Dalla salute ESTONIA
a salute ed economia
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PAESI BASSI
BELGIO LETTONIA
IRLANDA DANIMARCA LITUANIA
REGNO
UNITO

Tensione frontaliera GERMANIA POLONIA

LUSSEMBURGO
REP. CECA
SLOVACCHIA
FRANCIA
AUSTRIA
UNGHERIA
ITALIA ROMANIA
CROAZIA
PORTOGALLO

BULGARIA
SLOVENIA
SPAGNA

GRECIA

MALTA
Balcani “balcanici”
8 - GEOPOLITICA DEI VACCINI
Svalbard
36% Percentuale di popolazione per cui (Norvegia)
è suúciente il numero di dosi
somministrate Groenlandia
(primi 18 paesi) (Danimarca)
Germania
7,1%

Islanda
23,8% Federazione Russa

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Regno Unito 3,6%
Canada
7,1% 1
EUROPA 2
7,3% Mongolia
Stati Uniti 34 1 Bielorussia
7,4% 7,1% 8,7%
Turchia 5 Giappone 2 Slovacchia
20,5% 54,5% 6 Iraq Iran Afgh. Cina e Ungheria
Marocco 78 3 Bosnia-Erz.
10,3% Algeria Pak. 3,1% Corea del Sud 4 Serbia
Messico Egitto Arabia 5 Azerbaigian
2,4% Rep. Dominicana S. Om. 9 10 Taiwan 6 Cipro
Guatemala Belize Senegal 11
Bahrein 2% 12 7 Israele
El Salvador Gambia India 13 14 Filippine 8 Giordania
Costa Rica Venezuela Guinea Nigeria 9 Bangladesh
Principali impianti Sierra Leone Uganda Emirati Maldive 15
Panamá Colombia Guinea Eq. 10 Myanmar
di produzione Costa d’Avorio Arabi Uniti Singapore 11 Laos
Ecuador Ghana Gabon Kenya 36%
Moderna Brasile Ruanda Indonesia 12 Thailandia
Perú Seychelles 1,8% 13 Cambogia
AstraZeneca Angola 14 Vietnam
Pfzer-BioNTech Bolivia 4,4% Malawi Maurizio 15 Malaysia
Namibia Zimbabwe
Johnson & Johnson Paraguay
Gamaleja (Sputnik V) Sudafrica Australia
Sinopharm Uruguay
24,2%
Sinovac Cile Vaccini occidentali Vaccini orientali
Possibili o futuri impianti di produzione Paesi proprietari dei brevetti Paesi proprietari dei brevetti Nuova Zelanda
Argentina Usa: Pfzer-BioNtech, Moderna Cina: Sinopharm, Sinovac, CanSino
Gamaleja (Sputnik V)
Regno Unito: Oxford-Astrazeneca Fed. Russa: Gamaleja (Sputnik V)
Sinopharm Paesi che ricevono
Paesi che utilizzano i vaccini Paesi che utilizzano i vaccini vaccini sia occidentali
Sinovac occidentali orientali sia orientali
Fonte: Bloomberg Covid Vaccine Tracker, al 25/3/2021
A CHE CI SERVE DRAGHI

3 - L’OCCIDENTE VISTO DALL’ITALIA


L’Occidente secondo l’Italia CUORE DELL’OCCIDENTE
SECONDO L’ITALIA
Norvegia Francia
Svezia
Finlandia Usa Italia
Islanda 1-Germania
2-Polonia
Danimarca 3-Rep. Ceca
Canada Regno Unito 4-Slovacchia Spagna
Irlanda 1 32 5-Austria
Benelux 6 57849 6-Svizzera
Usa Francia Italia 7-Slovenia
Spagna 8-Croazia
Portogallo 9-Ungheria
10-Romania
11-Bulgaria
12-Grecia

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Australia

Nuova Zelanda

quando il cielo si rannuvola perché i grandi si scontrano in partita


esistenziale. Il paese di «secondo ordine» conta se una o entrambe le
parti in confitto lo considerano rilevante giusti i propri interessi. Non
per benevolenza. Puro calcolo. Poco importa che l’attore in questione
si senta o vanti (a noi italiani piace) minore. Vale la percezione dei
duellanti. Spostare un non strepitoso peso su un piatto oppure l’altro
della bilancia può decidere la partita. La quantità marginale può
determinare l’esito del confitto fra colossi. Purché si spenda. Se non
lo fa, sarà esclusa dalla redistribuzione della rendita da vittoria,
chiunque si affermi nello scontro. E sarà emarginata nell’ordine di
pace che seguirà. Punita quale nemico occulto, pavido per di più.
Seguiamo dunque Cavour, mentre argomenta la necessità della
convenzione militare anglo-franco-sarda del 10 aprile 1855, deputa-
ta a sbarrare ai russi la strada per Costantinopoli. È la guerra di Cri-
mea, in cui il conte vuole impegnare un contingente non così simbo- 17
NON DI SOLO DRAGH

lico (18 mila uomini) a fanco degli occidentali, sperando di poterne


staccare la cedola quando si deciderà dell’Unità d’Italia. Accadrà.
Argomento in tre tempi.
Primo. La guerra del Mar Nero è di interesse nazionale. Perché «se
avesse per conseguenza di condurre le aquile vittoriose dello czar in
Costantinopoli, evidentemente la Russia acquisterebbe un predominio
assoluto sul Mediterraneo ed una preponderanza irresistibile nei Consi-
gli dell’Europa. Ebbene, signori, sia l’una che l’altra conseguenza non
possono fare a meno che riputarsi altamente fatali agli interessi del Pie-
monte e dell’Italia. Infatti, quando la Russia fosse padrona di Costanti-
nopoli, lo sarebbe anche del Mediterraneo. (…) Il mar Nero, fatto russo
mediante la chiusura del Bosforo, le chiavi del quale sarebbero date in
mano all’autocrata, diventerebbe in certo modo la rada di Sebastopoli,
allargata con proporzioni gigantesche». E all’italianissima obiezione per
cui il Mediterraneo invece che due padroni – Inghilterra e Francia – ne
avrebbe tre (sottinteso: non ce ne importa di meno) Cavour oppone che
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se la Russia acquistasse «irresistibile infuenza nei Consigli d’Europa


(…), il nostro paese, le nostre istituzioni, la nostra nazionalità correreb-
bero gravissimo pericolo». Pietroburgo si metterebbe di traverso e impe-
direbbe la nascita di uno Stato nazionale italiano di tono liberale.
Secondo. L’Italia non può rimanere neutrale. Qui Cavour applica
«il sistema che in matematica si chiama dimostrazione all’assurdo».
Provare cioè a dimostrare l’utilità della neutralità. Ipotesi così falsif-
cata: «Onde una nazione di secondo ordine possa rimanere neutrale
senza pericolo, quando le potenze di primo ordine sono impegnate in
una gran guerra, si richiede a parer mio una condizione assoluta, ed
è che la neutralità di quella nazione non torni né a danno né a van-
taggio più dell’una che dell’altra parte belligerante». Ma la neutralità
sarda favorirebbe lo zar: «Noi non potevamo rimanere neutrali senza
indirettamente, ed in modo assolutamente indipendente dalla nostra
volontà, incagliare grandemente le operazioni delle potenze occiden-
tali, senza in certo modo fare un benefcio alla Russia, senza essere i
segreti alleati di questa potenza».
Terzo. La neutralità «ci farebbe adunque perdere la simpatia delle
potenze occidentali, indisponendole contro di noi, essendoché in po-
litica si è sempre indisposti contro quella potenza che ci fa del male,
18 anche senza volerlo.»
A CHE CI SERVE DRAGHI

Ascoltiamo ora la voce


di Grandi, che parla nella
seduta del Gran Consiglio
del Fascismo, il 2 ottobre
1930 (foto): «La nazione
italiana non è ancora ab-
bastanza potente, politica-
mente, militarmente ed eco-
nomicamente, da potersi
considerare come una na-
zione protagonista della vi-
ta europea. (…) Ma è tutta-
via abbastanza forte per
Dino Grandi costituire con il suo apporto
politico e militare il peso
determinante alla vittoria dell’uno o dell’altro dei protagonisti del
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dramma europeo». E l’anno dopo chiarifca: «Noi non siamo ancora


i protagonisti della vita dell’Europa. Ma i protagonisti non possono
fare senza di noi. L’Italia è chiamata, e lo sarà più il giorno in cui
l’attrezzatura militare della nazione sarà compiuta, a decidere della
vittoria o della sconftta. La politica dell’Italia è la politica del peso
determinante» 6.
Che cosa ci resta di questa idea di Sardegna poi d’Italia? Molto.
Certo non siamo più cavouriana nazione in feri né grande potenza
per status nel sistema versagliese. Ma nella rivoluzione geopolitica in
corso i duellanti ci riscoprono chiave dell’Euromediterraneo (carta 4).
Ovvero di uno dei due teatri decisivi della partita senza appello che li
oppone, per cui ciascuno convoca a sé tutte le risorse esterne di cui
può disporre. Italia compresa.
Se così non fosse, insensato parrebbe il tentativo cinese di pene-
trarci o addirittura attrarci nella propria sfera d’infuenza – perché
questo ci venne proposto. Altrettanto incomprensibile sarebbe il secco
richiamo americano al Patto atlantico cui da paese debellato fummo
tuttavia ammessi per volontà francese e contro parte cospicua della
nostra classe dirigente, spontaneamente neutralista perché universa-
6. Cit. in G. MAMMARELLA, P. CACACE, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai nostri
giorni, Roma-Bari 2006, Laterza, p. 100. 19
20
Capo Palinuro Maratea
4 - LA CENTRALITÀ DELLO STRETTO DI SICILIA Z1 Z2
CALABRIA

SARDEGNA Z3 Cetraro
NON DI SOLO DRAGH

M a r T i r r e n o N
73 MN
7M

86 MN
12
MN
Capo Carbonara
52

A
Ustica
Y Stromboli

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
173 MN
Capo Vaticano
Salina W
159 M
N V 80 MN Z 4 Vibo Valentia
Alicudi Lipari N
31 MN

136
MN Isole Eolie M
X 34

28 MN
S. Vito Lo Capo S Capo Gallo N U Messina
R 48 M

96 MN
O Isole Egadi Villa
T Milazzo

105 MN
Canale di Sardegna

138
S. Giovanni
Palermo
I T A L I A

MN
S Marettimo Trapani
Favignana Cefalù
t r Marsala
M A R M E D I T E R R A N E O N
e 126 MN S I C I L I A
B La Galite Cap Blanc Sciacca Catania

N
MN
t t
45 MN C 78
o M

61 M
P.to S. Leone Mar Ionio
Bizerte 57 MN D d
Capo Bon MN Licata
i67 Siracusa
46 M
E N Q S 122 MN L Ragusa
Kelibia 39 MN Pantelleria Marzamemi
122 MN
i c
ALGERIA P K J Capo Passero
i l
M N
TUNISIA
i a
MN

124

MN
51 MN

1
45

82
35 M
N Gozo
74 MN

Linosa Malta I
MN Miglia nautiche F MALTA Valletta
1 miglio nautico equivale a 1,852 km Isole Pelagie H
Monastir G
Porti turistici
79 MN 101 MN
Lampedusa
Fonte: Portolano Cartografco
A CHE CI SERVE DRAGHI

lista (marxista o cattolica in questo caso importava poco). Almeno


altrettanto irrazionale dovremmo qualifcare la scelta tedesca di sal-
varci dalla bancarotta l’estate scorsa, aprendoci la borsa del Recovery
Fund. Qui, più della stabilità del fronte mediterraneo, conta la di-
mensione economica. Vale l’interdipendenza italo-germanica assi-
curata dall’industria del nostro Nord, con aziende di produttività
paragonabile a quelle della Baviera. Specie grazie ai «campioni na-
scosti» di meccanica, farmaceutica, elettrotecnica oltre ad alcuni sta-
bilimenti d’alta tecnologia duale. L’interscambio commerciale fra
Lombardia e Germania supera quello fra Italia e Giappone. Infne,
non per importanza: il ritorno di famma della Francia, che sta a suo
modo giocando con noi nelle partite della doppia emergenza epide-
mica ed economica, a cos’altro si deve se non alla nostra centralità
sistemica nell’Eurozona, più la necessità di bilanciare le incursioni
turche nel mare già nostro? Spetta a Roma trarre proftto da questa
contingenza, partecipando da peso (co)determinante, nel perimetro
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

dell’impero americano, alla partita euromediterranea. Qui la prima


linea è disegnata dal triangolo con Francia e Germania, spazio clas-
sico della nostra geopolitica ben prima che ci facessimo Italia. Ne
tratteremo in profondità nel prossimo volume, di cui anticipiamo il
titolo: «Il Triangolo sì». Sintesi dell’esplorazione geopolitica avviata nel
numero precedente gettando scandaglio alla frontiera con Caoslan-
dia. Provvisorio coronamento della trilogia tricolore 7.
Fermiamo il punto. Nella partita fra Stati Uniti e Cina/Russia dob-
biamo schierarci. A partire dai nostri interessi, che impongono di
scongiurare, fn quando possibile, una guerra guerreggiata che si
combatterebbe presso, forse dentro le nostre frontiere. E non illudia-
moci: non sarebbe limitata. Troppo illimitati sono i mezzi a disposi-
zione dei belligeranti. Scegliendo il nostro campo euroccidentale (ci
mancherebbe!) potremmo far uso del peso determinante per mitigare,
insieme ad altri soci europei, l’avventurismo che sembra prevalere a
Washington. Palese nella pervicacia con cui crea e unisce nemici
ovunque possibile, contro la loro stessa volontà. Minacciando senza
necessità né criterio fendenti a destra e a manca. Con gli immarce-
scibili neoconservatori che negli apparati americani vorrebbero vira-

7. Il primo volume della trilogia è il numero 2/2021 di Limes, «L’Italia al fronte del caos». 21
NON DI SOLO DRAGH

re lo scontro di potenza con Cina e Russia (più magari Iran e Corea


del Nord) in guerra di religione – follia alla quale noi europei abbia-
mo già sacrifcato nei secoli andati.
Questo esercizio tattico ci impone consapevolezza strategica. Di
chi siamo e di che cosa vogliamo. Recuperiamo il senso del limite. Da
fne Ottocento al fascismo – estrema febbre del Risorgimento – ci rap-
presentammo più di quanto fossimo. Fu catastrofe. Nella Prima Re-
pubblica trovammo l’equilibrio tra volontà propria e rappresentazio-
ne altrui. Anche per merito di americani e sovietici che ci imposero le
coordinate entro cui muoverci, talvolta sapientemente eccedute. Da
trent’anni vaghiamo nella nebbia, urtando ogni possibile ostacolo,
subendo o sacrifcando a vanvera. Preoccupati solo di non essere
espulsi dai sempre meno elitari club cui siamo tesserati per asse eredi-
tario o mera cortesia (è noto che non vi si decide nulla, ma quant’è
bello esserci). Siamo pacifci, paciosi e pacieri, però pronti alla morte
stretti a coorte se qualcuno intendesse espellerci dai consessi mar-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

chiati G e numeri variabili, con tendenza alla successione di Fibo-


nacci. Salvo tacervi, per rispetto della nostra presunta ininfuenza.
Dining power. Vocazione che ci commuove e rende feri.
Faremmo però torto all’intelligenza delle nostre classi dirigenti se
ne trattassimo il gusto per la petitesse, perfetto opposto della grandeur
transalpina, da rifuto delle responsabilità. Nevrosi semplice. No. È
miscela composta, retaggio d’antiche frustrazioni, memoria delle tra-
gedie che seguirono i tentativi goff e criminali di esibirci pari a chi
combatte in categorie di peso troppo superiore al nostrano. Ma è così
diffcile essere non più e non meno di quel che siamo?

5. Ogni soggetto, non solo geopolitico, denuncia iato fra valore


potenziale e valore corrente. In tale classifca l’Italia è leader mondia-
le. Nessun paese trattiene in sé risorse materiali e simboliche tanto
superiori a quante ne impiega. Perché lo Stato che dovrebbe usarne a
benefcio della collettività non funziona. Ha il motore in folle. Maci-
na e consuma potenza anziché trasmetterla alla società di cui si vuo-
le servente e da cui deriva formale autorità. Se fossimo in contesto
latinoamericano o africano saremmo a tutti gli effetti Stato fallito. O
non pervenuto. La pertinenza a un superiore sistema di riferimento ci
22 tiene a galla. Ma sarebbe pericoloso scambiarla per assicurazione
A CHE CI SERVE DRAGHI

gratuita e permanente sulla vita. Eppure l’abbiamo creduto e alcuni


continuano a crederlo contro ogni evidenza. Il vincolo esterno che
avrebbe dovuto surrogare il cronico defcit di statualità ha contribui-
to ad accentuarla perché chi si confessa irresponsabile non ispira f-
ducia nel mercato delle nazioni.
Quasi esattamente dieci anni fa il governatore della Banca d’Ita-
lia ammoniva: «Una nostra tentazione atavica, ricordata da Alessan-
dro Manzoni, è di attendere che un esercito d’Oltralpe risolva i nostri
problemi. Come in altri momenti della nostra storia, oggi non è così.
È importante che tutti i cittadini ne siano consapevoli. Sarebbe una
tragica illusione pensare che interventi risolutori possano giungere
da fuori. Spettano a noi» 8. Parola di Mario Draghi. Oggi spetta a lui
dimostrare questa tesi. Specialmente impegnativa per colui che a Ma-
astricht e dintorni, da direttore generale del Tesoro, sposò la tesi del
vincolo esterno proposta nella versione più stringente dal suo mento-
re, Guido Carli. Ma, come Draghi ama ricordare convocando il nu-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

minoso John Maynard Keynes: «When facts change, I change my


mind. What do you do sir?» 9. E non c’è dubbio che the facts they are
a-changin’. Come le economie, gli economisti hanno i loro cicli. Non
è tempo di dogmi, ma di coraggiosi adattamenti volti a scongiurare il
collasso della nazione.
Il presidente del Consiglio è certo consapevole di quanto disperata
sia l’impresa di raddrizzare la barca italiana. Con altrettanta sicu-
rezza stabiliamo che questo non è né potrà mai essere compito di un
solo uomo che nell’illusoria stanza dei bottoni si scopre uomo solo.
Draghi è capo sistemico anche perché appare capo carismatico, nel
senso weberiano del termine. Carisma è il nome della grazia divina in
San Paolo, tratta da una certa idea di sé stesso. Carismatico è l’uomo
non comune. Dotato di innati poteri. Rivoluzionario capace di riorien-
tare la storia. Insomma mago. Ogni carisma, come ogni magia, preten-
de conferme continue. Specie se il carismatico agisce in ambiti di go-
verno abbastanza aperti – il nostro è spalancato, checché ne pensino i
suoi intimi custodi, amanti del visibilissimo potere occulto  10 – e nel
8. M. DRAGHI, «L’Italia e l’economia internazionale, 1861-2011», bancaditalia.it, bit.ly/3uamNM5
9. M. DRAGHI, «Incertezza e responsabilità», intervento al 41° Meeting di Rimini, meetingri-
mini.org
10. Cfr. Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto, raccolte da G. SALVAGGIULO,
Milano 2020, Feltrinelli. 23
NON DI SOLO DRAGH

tempo metaforico che ci pervade, antiscientifco e soggettivo come mai.


Ci vuole poco a fnire capro espiatorio. A quel punto la solitudine, stig-
ma della relativa impotenza del leader, s’arrovescia sulla massa. Inve-
ste la comunità di cui fa – facciamo – parte. La disgrazia di Draghi
non sarebbe solo sua. Sarebbe la disgrazia dell’Italia. Con ciò avvertia-
mo il lettore che la nostra analisi, che si dovrebbe avalutativa, non
potrà qui rispondere appieno alla regola che vogliamo imporci. Gliela
dobbiamo comunque.
Scansiamo le leggende nere e le ipocrite apologie che investono
questa personalità non ordinaria. Draghi interessa qui nella dimen-
sione sistemica. Ovvero nel contesto di un regime peggio che bloccato.
Affitto da dinamica degenerativa, al suo interno e nell’ambiente
esterno. Siamo bomba atomica a orologeria. Paese sistemico in nega-
tivo. Dotato di moneta pertinente ad altri diciotto Stati, condivide con
i soci del Triangolo – Francia e Germania – l’esorbitante privilegio di
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

poter da solo distruggere la moneta «unica». Perciò siamo potenziale


superpotenza negativa. Il nostro fallimento può innescare una rea-
zione a catena che coinvolgerebbe per decrescenti gradi d’intensità
Italia, Eurozona, Europa tutta, non marginalmente America e resto
del mondo. Giacché il vincolo esterno agisce nei due sensi. Su di noi
per gli altri e per noi sugli altri. I piani B e C sigillati nelle casseforti
degli attori che contano considerano estrema ma non impensabile
l’ipotesi di tagliare l’ormeggio all’Italia e lasciarci affogare in splendi-
da solitudine (perfno quest’atto, ispirato al motto «meglio una fne
orribile che un orrore senza fne», si ripercuoterebbe comunque sul
suo austero esecutore).
Il «Draghi sistema» è il vincolo esterno cogestito dall’interno. Per la
prima volta il capo del governo di Roma si trova a giocare nelle due
metà del campo. Anzitutto nella nostra, da italiano. Le sciocchezze
sul suo carattere «unitalian», tipiche di certa italofobia nordica, enfa-
tizzate nella nuvola del provincialismo nostrano, sono smentite dalla
sua biografa professionale. Salvando l’euro, Draghi ci ha risparmia-
to la bancarotta. Se nel 2011 al vertice della Bce fosse arrivato un
tedesco, com’era previsto, staremmo a raccontare un’altra storia, per
noi spiacevole. In chiaro: le sue relazioni specialissime con il Gotha
della fnanza e della politica mondiale sono per l’Italia risorsa, non
24 problema. Ascoltato in campo esterno anche da chi non ne condivide
A CHE CI SERVE DRAGHI

l’approccio, l’ex presidente della Banca centrale europea può parzial-


mente compensare l’universale fama d’inaffdabilità di cui soffre la
non-struttura che si trova a presiedere.
Draghi è l’ultimo chirurgo prima della trojka, ammesso e non
concesso faccia senso imporre simile bardatura all’Italia, cavallo
troppo bizzoso per farsi domare alla greca. Oltre a somministrare
una terapia fnanziaria ed economica d’inedite dimensioni, questo
governo è chiamato in parallelo a superare l’emergenza epidemica,
esasperata dall’allarmismo di troppe agenzie e di quasi tutti i media.
Di qui treni di paura e segni d’insofferenza collettiva forse destinati a
stravolgere la vita associata ben dopo la sedazione della minaccia
virale. Mai come in tali contingenze i cittadini pretendono soluzioni
che solo lo Stato può offrire. E nessun altro Stato nell’Europa che vale
è peggio attrezzato del nostro per corrispondere a tanta aspettativa.
Torna alla mente la sentenza di Bismarck, commentando il suo in-
contro con Crispi: «Io avevo dietro di me lo Stato e l’esercito, lui non
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

aveva nulla» 11.
Non c’è tempo per la rassegnazione né per reinventare lo Stato da
cima a fondo. Quel poco che ci resta impone azione parallela. Im-
provvisare in velocità il possibile mobilitando le forze disponibili con
l’ambizione di tracciare un sentiero verso l’oggi impossibile per avvi-
cinarlo in futuro. Il primo segmento, di breve periodo, è caricato di
fatto e nel pubblico immaginario sul «Draghi simbolo». L’altro, neces-
sariamente lungo, da però scandire in tappe verifcabili, misurerà il
lascito strutturale di questo esperimento – il «Draghi sistema».
Quanto all’immediato, qualcosa si muove. La formazione di que-
sto governo, volutamente estraneo a qualsiasi formula politica, irri-
tuale in quanto coerente al dettato costituzionale (articolo 92), si de-
ve alla convergenza di dinamiche domestiche ed esogene necessitate
dal superpotere negativo dell’Italia. Intesa che corrisponde allo stato
di eccezione in cui versiamo. La scelta del Quirinale caduta sul più
stimato esponente della nostra esigua nobiltà di Stato, che ha già un
posto nella storia per aver salvato l’euro con tre parole (non solo: vedi
appendice con grafco) deriva più dai suoi talenti politico-diplomatici
allenati nelle paritarie relazioni con la dozzina di decisori di primo
11. Cit. in C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari 2000, Laterza,
p. XVI. 25
NON DI SOLO DRAGH

rango mondiale che dai suoi talenti tecnici. La provvisoria quarante-


na cui si sono assoggettati i cosiddetti partiti, pallidi eredi delle forze
politiche che surrogarono l’atavica carenza di Stato rifondando l’Ita-
lia dopo l’8 settembre e guidandola per il mezzo secolo seguente, e la
formazione di un «gabinetto di guerra» composto da sovraministri di
fatto e consiglieri di personale fducia del presidente, confermano il
cambio di fase. Riesca o fallisca, l’esperimento Draghi traccia cesura.
In nazioni più strutturate il suo successo implicherebbe transizione
verso nuova forma di governo (il parallelo con il passaggio francese
dalla Quarta alla Quinta Repubblica è improprio ma evocativo).
Qualcosa di simile potrebbe non immediatamente accadere da noi.
La carenza di Stato ci obbliga a esplorare sentieri mai battuti, con
tutti i rischi del caso, ma anche opportunità ieri impensabili. Esiste
un’alternativa meno avventurosa? Nel contesto internazionale verso
cui siamo responsabili probabilmente no. L’Italia non è variabile in-
dipendente.
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Questo esecutivo si vuole garanzia ai mercati e alle potenze per


noi decisive: Stati Uniti, Germania e Francia. Il credo neokeynesiano
dell’ex presidente della Banca centrale europea, rafforzato in tempo
di Covid-19 dall’esaltazione del «debito buono», piace ad americani e
francesi, mentre i tedeschi temono a ragione che la spesa larga possa
diventare legge permanente, volgendo l’eccezione sanitaria in norma
di politica fscale. Conforta Washington perché defazione selvaggia,
sfarinamento dell’Italia e accelerazione della disintegrazione comu-
nitaria aprirebbero nel suo impero europeo autostrade a cinesi e rus-
si. Eccita Parigi, la cui vocazione alla «sovranità europea» (altro
bell’ossimoro, ma vale il sottotesto francese) impone di rianimare l’I-
talia, leva per scongiurare il ritorno all’austerità con cui Berlino con-
trolla le velleità geopolitiche dell’Esagono perché restino tali. Inquieta
dunque la Bundesrepublik, dove la gratitudine a Draghi per aver
scongiurato l’implosione dell’Eurozona non compensa il timore che
Roma e Parigi vogliano ormai codifcarne un’altra, in avanzata pre-
disposizione. Immangiabile per l’ortodossia ordoliberista e per i ri-
sparmiatori tedeschi spaventati dal «conte Draghila» che violandone
la morale ne succhia le ricchezze (carta a colori 3).
«Draghi sistema» è la vera sfda che in ogni caso, funzioni o falli-
26 sca, cambierà l’Italia o ne accompagnerà la fne. Contrariamente
A CHE CI SERVE DRAGHI

alla vulgata, non siamo Stato debole senza vera nazione. Siamo na-
zione senza Stato effciente. In fase di rapida proliferazione delle ma-
fe, metastasi accelerata dalla povertà delle istituzioni e dai limiti di
liquidità di un paese patrimonialmente ricco. Con la ’ndrangheta,
originaria della più sfortunata regione d’Italia, ramifcata nella Pe-
nisola (carta a colori 4). E nel mondo, da regina fra le superpotenze
del crimine organizzato.
Se non arginata, la deriva delle istituzioni sfbrerà la nazione.
Già si percepiscono gravi sintomi di sofferenza: allargamento della
forbice Nord-Sud nel contesto della divaricazione europea, favorita
anche dall’autogestione di fondamentali Regioni ordinarie, quali
Lombardia e Veneto, quasi separatismo di fatto (grafco e carte a co-
lori 5, 6 e 7); declassamento dei ceti medi; serio scollamento sociale;
pericolo di violenza diffusa, specie quando scadrà l’effetto di ristori e
palliativi. E quando scopriremo che la «manna» del Next Generation
Eu peserà a lungo sulle spalle della prossima generazione.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

Sabino Cassese considera l’Italia paradigma dello «Stato ad am-


ministrazione disaggregata», opposto dello «Stato ad amministrazione
compatta» descritto dal suo maestro, Massimo Severo Giannini. In
sessant’anni, «l’amministrazione da unitaria è divenuta differenzia-
ta, da gerarchica frammentata, da uniforme diversifcata». L’ipertro-
fa normativa impedisce di stabilire dove sia il potere, dove la respon-

REDDITO PRO CAPITE DELLE REGIONI ITALIANE RISPETTO ALLA MEDIA EUROPEA
(PPS, numero indice, UE-27=100), ultimo dato disponibile.
154, 9
128, 2
127,3

119, 5
125

109,7
110,7

105, 8

103,6
103, 2
103,9

96,4
100

93,2
85,1
84,1
73,4

69,5
70,1

62,7

58,8
56,2
61
Basilicata
Piemonte
Emilia-Romagna

Puglia
Veneto

Marche

Umbria
Lazio

Friuli-Venezia Giulia
P.A. Bolzano

Toscana
Valle d'Aosta

Liguria

Sicilia
Italia

Calabria
P.A. Trento

UE27

Abruzzo

Molise

Campania
Sardegna
Lombardia

Fonte: rielaborazione The European House – Ambrosetti su dati Eurostat, 2020 27


NON DI SOLO DRAGH

sabilità. Chi dovrebbe amministrare rinuncia a farlo perché comun-


que violerà almeno una legge illeggibile, a scelta fra le decine entro
cui il suo caso può confgurarsi. Siamo «adhocrazia» 12. Questo Stato
non fa, quindi non investe. E viceversa. Altro che cicala. È dominio
di formiche perverse o disperate. Questo esecutivo dovrà fare miraco-
li per spendere una quota rilevante dei duecento miliardi a nostra
teorica disposizione, per i quali dobbiamo produrre al volo progetti
realistici e presto attuabili (il ponte sullo Stretto sarà, se mai, affare di
dopodomani). Urgono procedure speditive. Quando la nave affonda,
lo stile con cui si pompa via l’acqua dalle stive conta relativamente.
Ammesso ci riesca – e sarebbe davvero «miracolo italiano» – Draghi
potrebbe avviare la riforma strutturale dello Stato. A cominciare dal
riaccentramento quindi responsabilizzazione dei poteri, senza di che
non disporremo della macchina necessaria per riconnettere Stato e na-
zione, quindi competere sulla scena mondiale. La prestazione offerta
dalle Regioni nell’emergenza infettiva, tanto più inaccettabile e offen-
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siva nel caso delle più ricche, ne comprova la pericolosità per la coesio-
ne nazionale. E per il principio di eguaglianza che distingue la costi-
tuzione mentre fonda il comune sentire della nazione. Questa emer-
genza strutturale non può essere trascurata con il pretesto d’urgenze
sanitarie ed economiche. Il commissariamento delle Regioni in campo
sanitario parrebbe minimo sindacale. La loro abolizione per ricostitui-
re i poteri locali su base di dipartimenti macroprovinciali corrispon-
denti a territori più compatti e radicati potrebbe incardinarsi nell’ordi-
ne del giorno della prossima legislatura (la carta 5 suggerisce un pro-
getto di tal fatta, già curato dalla Società Geografca Italiana).
È da quando esistiamo come Italia, anzi dalla gestazione sarda
dello Stato unitario, che trasciniamo questa disputa, caricata di in-
sopportabili teoremi ideologici e d’inconfessabili mercimoni sottoban-
co. Un breve tuffo nel passato ci aiuterà a defnirne i termini.

6. L’Italia nasce Sardegna allargata. Lo Stato dei Savoia è lo stam-


po nel quale viene modellato un popolo che non è ancora nazione.
Paradosso vuole che la nazione si riconosca e si consolidi in lunghi
decenni per virtù propria più che per adesione allo Stato. La divarica-
12. S. CASSESE, «Lo Stato ad amministrazione disaggregata», Rivista trimestrale di diritto pub-
28 blico, n. 2/2020, pp. 467-474.
A CHE CI SERVE DRAGHI

5 - LE 36 ’REGIONI’ ITALIANE 1 DEL TANARO


LA GRANDE TORINO
2
3 VALLE D’AOSTA
4 VALSESIA / PIEMONTE SETTENTRIONALE
5 LA GRANDE MILANO
12
6 INSUBRIA
14 7 LIGURIA
6 11 PADANIA OCCIDENTALE / LE CITTÀ DEL PO
8
3
4 9 DEL GARDA
13 PADANIA ORIENTALE / DEL DELTA
9 10
2
5 11 TRENTINO / DOLOMITIA
8 12 ALTO ADIGE
10
1 13 VENETO
7 15 14 FRIULI / IULIA
16 15 EMILIA / LA GRANDE BOLOGNA
17
16 ROMAGNA
18
17 TIRRENIA
18 LA GRANDE FIRENZE
21

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
19 20

24
22

23 27

25 28
35 26
30 29

36

31

32

34
33
19 ETRURIA 28 PUGLIA
20 UMBRIA 29 SALENTO
21 MARCHE 30 BASILICATA
22 ROMA CAPITALE 31 CALABRIA
23 CIOCIARIA 32 DELLO STRETTO
24 ABRUZZO 33 SICILIA IONICA
25 NAPOLETANO 34 SICILIA OCCIDENTALE
26 CAMPANIA 35 SARDEGNA SETTENTRIONALE
27 DAUNIA 36 SARDEGNA MERIDIONALE 29
Fonte: elaborazione su carta e dati della Società Geografca Italiana
NON DI SOLO DRAGH

zione fra società e istituzioni, cifra del caso italiano, è inscritta nella
reciproca diffdenza fra élite e popolo. Le oligarchie liberali post-uni-
tarie, specie quando formate nel culto di Hegel, intendono educare e
cementare in regime piemontese masse spesso analfabete, nei secoli
rette da regimi diversamente autoritari. Al meglio, paternalistici. Nel-
le parole di un intellettuale patriottico, Nicola Marselli, occorre «gitta-
re, per un certo tempo, gl’Italiani nella medesima forma», fn quando
«ch’eglino avessero una certa identità di pensare e di sentire intorno
ai problemi fondamentali della cosa pubblica, che approvassero in-
sieme certe nuove istituzioni» 13.
Lo stesso Cavour scrive, poco prima di battezzare l’Italia unita:
«Tutte le questioni relative al futuro ordinamento interno non (han-
no) alcuna reale importanza immediata a confronto della suprema
e urgente necessità di fare l’Italia per costituirla poi (tondo nostro)» 14.
Continuità che involverà in attardante continuismo. Difatti il Regno
di Sardegna si converte il 17 marzo 1861 in Regno d’Italia sullo slan-
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cio di regie annessioni obliquamente plebiscitate, non esattamente a


furor di popolo. Lo Statuto albertino (1848-1946) volge tout court in
italiano. La numerazione sarda del monarca resta tale: Vittorio Ema-
nuele II rifuta di rinominarsi I. La prima legislatura unitaria (18
febbraio 1861) s’intitola ottava perché non di parlamento nuovo si
tratta, ma d’estensione del precedente.
L’organizzazione politica e amministrativa dello Stato, che si sa
gracile, assediato dagli intrighi dei monarchi spodestati sobillati dal-
le potenze reazionarie ma anche dalle velleità di garibaldini e maz-
ziniani, è coerente al primum vivere. Altro che momento costituente.
La subitanea scomparsa del gran conte (6 giugno 1861) lascia il li-
beralismo moderato orfano del suo riferimento, pragmaticamente
orientato al «giusto mezzo». L’architettura del «nuovo» Stato sarà
quindi centralistica, d’eredità franco-napoleonica. Nel contesto stret-
tamente oligarchico che, diffdandone, nega al popolo italiano il di-
ritto di voto: alle prime elezioni, il 27 gennaio 1861, su 22 milioni di
abitanti votano in 239.853, poco più della metà dei 418.850 aventi
diritto. Lo stampo centralistico prevarrà per tutto il tempo del Regno e

13. Cit. in A. CARACCIOLO, Stato e società civile. Problemi dell’unifcazione italiana, Torino
1960, Einaudi, pp. 69-70.
30 14. Cit. in R. ROMEO, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Roma-Bari 1984, Laterza, p. 862.
A CHE CI SERVE DRAGHI

per i primi decenni della Repubblica, fno alla fondazione delle Re-
gioni a statuto ordinario, nel 1970. Noi italiani il continuismo l’ab-
biamo nel sangue. La continuità, intesa esprit de suite, coscienza di
tradizioni distillate, custodite e aggiornate nelle grandi scuole, è al-
tra cosa.
In questo contesto si consuma e risolve nel giro di un anno, fra
1860 e 1861, la disputa intorno alla struttura amministrativa dell’I-
talia unita. Di tono schiettamente identitario. Geopolitica pura. Per i
più non c’è spazio per regionalismi autentici, fguriamoci utopie fe-
deraliste. L’alternativa è fra centralismo «illuminato» e regionismo
amministrativo, non politico. Protagonisti della disputa: sul primo
fronte Bettino Ricasoli, successore di Cavour, sull’altro due ministri
dell’Interno, prima Luigi Farini poi Marco Minghetti, usi al pragma-
tismo cavouriano e sensibili al fascino del britannico self-government.
Punto di convergenza: nello Stato unitario nessun altro ente di dirit-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

to interno può partecipare di caratteri statali, come accade invece


nelle federazioni, dalla Svizzera agli Stati Uniti. Il dissenso verte sul
grado di «discentramento» funzionale di poteri periferici comunque
in capo al centro. Insomma: può l’Italia fdarsi dei novelli italiani in
prova, lasciando loro laccio lungo nella gestione degli spazi subna-
zionali, compreso l’infdo, brigantesco Meridione, poco disposto a ve-
stire i panni del liberalismo unitario, oppure no?
Si assume la persistenza di «due Italie», o meglio di diverse specie
di italiani (attuali e potenziali), mentre si litiga su modi e tempi della
loro assimilazione nel corpo della nazione in gestazione. Per il roma-
gnolo Farini e per l’emiliano Minghetti serve scommettere sulla tradi-
zione delle libertà comunali, da riproporre su scala regionale onde
dar fato di popolo allo Stato delle annessioni. Confdando nella soda
amministrazione di ogni giorno. Per Ricasoli, intransigente barone
toscano mentalmente incastellato a Brolio, il bisogno supremo è uni-
fcare subito. Con le buone o con le cattive. Gli enti regionali sarebbe-
ro nient’altro che i vecchi Stati preunitari riverniciati e niente affatto
debellati (carta 6): «Il sistema regionale di governo (è) (…) la distru-
zione d’ogni governo» 15.

15. Cfr. E. Passerin D’ENTRÈVES, La formazione dello Stato unitario, a cura di N. RAPONI, Roma
1993, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, pp. 242-243. 31
NON DI SOLO DRAGH

6 - L’ITALIA PRE-UNITARIA (1858)

SVIZZERA I M P E R O
D ’
AU
S
Bolzano T

R
IA
Trento Belluno
Lombardia
Savoia Aosta Lecco Veneto
Como
Biella Brescia Vicenza Trieste
Novara Milano
Torino REGNO LOMBARDO-VENETO (AUS.) Venezia
Mantova
Asti
D U CPAR

Parma
DI

TO
O D TO D I
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Genova
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MA Romagna
ST
CA
E

Cuneo DU I M Ravenna
Contea
G

D
A

La Spezia S. MARINO
TO

di Nizza
Linea gotica (1944)
N

Monaco Pesaro
Nizza Firenze
PONTI F I C I

Linea isoglossa
O

Massa-Senigallia
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

GRANDUCATO Ancona
DI TOSCANA Marche
D

Grosseto Ascoli
I

Teramo
A
S

Viterbo b
ru
Lazio
A

zz
o
R

Roma
Campobasso
D

Velletri
Pontecorvo
E

Pu
Benevento gl
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G

Sassari Napoli
N

Potenza
Lecce
A

REGNO
Sardegna
DELLE

DUE SICILIE
Cagliari Cosenza
br i a
la
Ca

Palermo Messina Reggio

Marsala Si c i l i a
Catania

Modica

32
A CHE CI SERVE DRAGHI

C’è forte in Ricasoli, come in gran parte della prima classe diri-
gente italiana, il senso della missione civilizzatrice. Il Sud terra da
redimere. Affato illuministico che traligna in colonialismo interno,
nelle intenzioni dei nordisti destinato a incivilire e aprire al progresso
liberale quell’«Affrica» (Farini). Impresa che impegna robusti contin-
genti militari nella nostra prima guerra civile, nascosta nei sussidiari
scolastici quale «guerra al brigantaggio». Da allora valgono speculari
le equazioni centralismo = autoritarismo versus regionalismo = demo-
crazia partecipata. Semplicismi talvolta dolosi che continuano a in-
cidere nelle vertenze intorno all’organizzazione territoriale dello Sta-
to. Ideologia che informerà fnanco la riforma pseudofederalista del
titolo V della costituzione (2001) – forse il colpo più grave inferto
dalla democrazia italiana a sé stessa. E tuttora risuona nelle aspre
dispute sui poteri di Stato, Regioni, Comuni.

7. L’accento sulla (ri)forma di Stato può parere fuori tempo e


Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

fuori luogo. Non lo è. Scindere terapia d’urgenza, anzitutto sul fronte


vaccinale scaduto a campo di battaglia per l’infuenza fra potenze
(carte 7,8,9; carta a colori 8), e riassetto della macchina pubblica
equivale ad accelerare il declino.
Sono trent’anni che la Repubblica Italiana è priva di costituzione
materiale. Termine con cui s’intendono i princìpi irrinunciabili per-
ché sostanziali su cui si fonda lo Stato. Base che ne garantisce e le-
gittima l’unità. Postulati che se rinnegati inducono la fne della na-
zione e dello Stato. Sotto specie prima di anomia – di cui
l’«amministrazione disaggregata» è prologo – poi forse del tentativo di
riorganizzare quello spazio giusti diversi princìpi. Non necessaria-
mente determinati da forze endogene. Sicuramente non da queste
soltanto. È quanto ci accadde nell’immediato dopoguerra. Sulle rovi-
ne del fascismo l’Italia risorse, come osservato nel 1945 da Costanti-
no Mortati, non già a partire dall’Assemblea costituente ma dalla
costituzione materiale disegnata per somma algebrica degli interessi
delle potenze vincitrici, meno per convergenze interne alla rinascen-

16. Cfr. P. CRAVERI, L’arte del non governo. L’inesorabile declino della Repubblica italiana,
Venezia 2016, Marsilio, p. 32. Dove si richiama il fondamentale studio del 1945 di C. MOR-
TATI, «La Costituente», in ID., Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello
Stato, Milano 1972, Giuffrè. Qui vedi in particolare p. 63. 33
NON DI SOLO DRAGH

Europa Liechtenstein
7a - PFIZER/BIONTECH Islanda Austria
Norvegia Ungheria
Svezia Francia
Alaska Finlandia Spagna
(Usa) Irlanda Portogallo
EUROPA Danimarca Italia
Canada Estonia Malta
BioNTech Lettonia Vaticano
(Magonza, Germania)
Lituania Slovenia
Pfzer (New York, Usa) Paesi Bassi Croazia
Usa
Giappone Belgio Serbia
Messico Lussemburgo Romania
Portorico Corea
del Sud Germania Bulgaria
Costa Rica Libano Polonia Macedonia d.N.
Panama Malaysia Rep. Ceca Albania
Guiana Francese Israele
Giordania Slovacchia Grecia
Colombia Svizzera Cipro
Ecuador Kuwait
Arabia S. Australia
Cile Bahrein
Qatar
Paesi dove viene E.A.U.
distribuito il vaccino Oman Nuova Zelanda

7b - MODERNA Europa
Islanda Svizzera
Norvegia Liechtenstein
Svezia Austria
Alaska Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Finlandia Ungheria
(Usa) Irlanda Francia
EUROPA Danimarca Spagna
Canada Estonia Portogallo
Lettonia Italia
Moderna Lituania Malta
Usa (Cambridge, Usa) Paesi Bassi Vaticano
Belgio Slovenia
Portorico Lussemburgo Croazia
Guatemala Qatar Germania Romania
Polonia Bulgaria
Honduras Rep. Ceca Grecia
Guiana Francese Ruanda
Slovacchia Cipro

Riunione

Paesi dove viene


distribuito il vaccino
Europa Rep. Ceca
7c - ASTRAZENECA Islanda Slovacchia
Norvegia Ucraina
Svezia Moldova
Finlandia Ungheria
Irlanda Francia
EUROPA Regno Unito Spagna
Danimarca Portogallo
AstraZeneca Estonia Italia
(Cambridge, Regno Unito) Mongolia
Lettonia Vaticano
Afghanistan Lituania Slovenia
Marocco Nepal Corea Paesi Bassi Croazia
Messico Algeria India 6 Belgio Serbia
Rep. Dominicana 5 del Sud
Egitto Lussemburgo Romania
Belize 4 Cambogia Germania Bulgaria
Guatemala 12 Kuwait Polonia Grecia
El Salvador Brasile Arabia S. Serum Institute
of India(Pune, India) Liechtenstein Cipro
Trinidad e Tobago 3 E.A.U. Austria
Guyana Oman Malta
Suriname Maurizio
Guiana Francese Riunione
Argentina
1 - Costa d’Avorio 4 - Sri Lanka
2 - Ghana 5 - Bangladesh
34 3 - Angola 6 - Myanmar India, paese produttore
A CHE CI SERVE DRAGHI

8a - GAMALEJA (SPUTNIK V)
Gamaleja
Russia
(Mosca, Russia)
1
2
34
5
Iran 1 - Bielorussia
Algeria 2 - Ungheria
Messico Venezuela Laos
3 - Bosnia-Erzegovina
Guinea 4 - Serbia
5 - Montenegro

Bolivia
Paraguay

Argentina

Paesi sede delle aziende


produttrici dei vaccini
8b - SINOPHARM
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Ungheria
Serbia (Pechino, Cina)
Cina Sinopharm
Marocco 12
Egitto
Laos
Senegal Cambogia
E.A.U.
Guinea Eq.
Perú Pakistan
Bolivia Zimbabwe

Argentina
1 - Giordania
2 - Iraq
Paesi dove viene
distribuito il vaccino
8c - SINOVAC

Turchia
Azerbaigian
(Pechino, Cina)
Cina Sinovac
Messico
Thailandia Filippine
Singapore
Brasile
Indonesia

Cile

35
36
9 - ... E GLI ALTRI VACCINI Mar Glaciale Artico
NON DI SOLO DRAGH

Alaska
(USA) RUSSIA

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Vektor
BIELORUSSIA (Kol'covo)

Johnson & Johnson


STATI UNITI (New Brunswick)
CINA CanSino
(Tianjin)
Oceano Atlantico
INDIA
Portorico
(Usa) Bharat Biotech
(Hyderabad) Oceano Pacifico

Oceano Pacifico

ZIMBABWE
Oceano Indiano

SUDAFRICA

Paesi dove si utilizza il vaccino Janssen (Johnson & Johnson)


Paesi dove si utilizza il vaccino del Centro Vektor
Paesi dove si utilizza il vaccino CanSino
Paesi dove si utilizza il vaccino Bharat Biotech
A CHE CI SERVE DRAGHI

te politica nazionale. La costituzione formale si sarebbe infatti rive-


lata «trattato di pace fra Stati diversi»  16. Costituzione materiale fu
molto più il trattato di pace del 1947, che tuttora indirizza la nostra
collocazione strategica. Le forze politiche che produssero la Carta del
1948 dopo aver sottoscritto con stridor di denti il dettato dei vincitori
erano certamente italiane ma altrettanto evidentemente inscritte nel
superiore equilibrio della guerra fredda, che tagliando la nazione ne
derivava identifcazioni confittuali.
Quei partiti di massa su cui la democrazia italiana crebbe dal
1946 al 1992 erano il vero nucleo dello Stato. Ciascun primattore con
la sua idea di patria e/o di ecumene sovranazionale. Più che a Pa-
lazzo Chigi (governo), era a piazza del Gesù (Dc) e a via delle Botte-
ghe Oscure (Pci) che si determinava la politica nazionale ed estera,
l’una connessa all’altra entro il piano cartesiano tracciato da Stati
Uniti e Unione Sovietica. La Democrazia cristiana, cardine della Pri-
ma Repubblica, s’intendeva «parte totale», capace di esprimere dal suo
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

punto di vista l’interesse generale, inteso compromesso fra Stato e


Chiesa. Il Partito comunista, mentre assorbiva fra mille contraddizio-
ni la lezione del socialismo riformista, così affermandosi profonda-
mente italiano, non recideva però il nesso con l’Urss né rinunciava
all’ideologia rivoluzionaria, guardandosi dal praticarla. Altro che
mere fazioni.
Ora siamo sospesi nel vuoto. Noi e le nostre istituzioni. Sradicate,
alcune giacciono a terra abbandonate. Altre esibiscono quelle mo-
venze post mortem su cui s’affatica la moderna tanatologia. L’attivi-
smo a-sistemico delle residue si deve al senso del dovere di molti servi-
tori dello Stato e all’effcienza di chi antepone il fare all’ermeneutica
del non fare.
Contro la volontà di chi in perfetta buona fede continua a ope-
rarle, nella deriva anomica le istituzioni prive di base materiale e
spirituale possono deviarsi in sovversive. Automi impazziti che im-
brogliano i fli della matassa anziché svolgerla. Se poi ad agire sono
gruppi e individui che inseguono interessi corporativi e privati, cresce
la probabilità che in seno allo Stato e nei suoi smarginati dintorni si
coagulino grumi di interessi e di poteri antidemocratici e antinazio-
nali. Nel rapporto Stato-Regioni gli uni si mescolano pericolosamente
agli altri. 37
NON DI SOLO DRAGH

Un solo uomo, per quanto di eminente reputazione, poco può. Il


rischio del logoramento, nemmeno troppo lento, è dietro l’angolo. In
questo caso, dietro l’angolo scopriremmo una voragine. L’istinto di
sopravvivenza, sorretto dalla nostra funzione nel contesto geopolitico
di cui partecipiamo, ci induce tuttavia a sperare. Chissà se un giorno
fgli e nipoti potranno studiare, chini sui manuali di storia patria,
come da un simbolo creammo un sistema.

Quando l’America parlò perché Europa intendesse


a cura di Fabrizio MARONTA
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Il novembre 2011 comincia molto male, esordio di dieci mesi vissuti pericolosamente.
Il primo giorno del mese la Borsa di Milano perde quasi il 7% quando Atene annuncia
(salvo smentirsi 48 ore dopo) che sottoporrà a referendum le ulteriori misure di austerità
richiestele. Il differenziale di rendimento (spread) tra Btp decennali italiani e Bund tedeschi
ad analoga scadenza tocca 441 punti base. Due giorni dopo il consiglio direttivo della
Banca centrale europea, nella prima riunione presieduta da Mario Draghi, taglia il tasso di
riferimento dall’1,5% all’1,25% (il mese successivo lo limerà all’1%, ampliando i collaterali
accettati a garanzia dei prestiti e dimezzando all’1% la riserva obbligatoria delle banche).
Quando, il 9 novembre, Giorgio Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita onde
conferirgli l’incarico di formare un governo d’unità nazionale, lo spread vola a 575 punti,
record ineguagliato.
Il 24 un Monti fresco della fducia in parlamento è a Strasburgo per illustrare il piano di
riforme al presidente francese Nicolas Sarkozy e alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che
si ripete contraria ai cosiddetti eurobond, titoli di debito collettivi della zona euro, in sintonia
con il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Ciò, unitamente all’avvitarsi della Gre-
cia e al periclitare di Spagna e – soprattutto – Italia, innesca la reazione dei custodi del rating,
che spazza via la fducia ingenerata il 5 dicembre dal vertice di Parigi in cui Francia e Ger-
mania prospettano risposte rapide e coordinate alla crisi. Il 13 gennaio 2012 Standard &
Poor’s declassa nove paesi europei tra cui l’Italia, il cui merito di credito passa da A a BBB+.
Quando, settantadue ore dopo, Draghi invita a considerare i giudizi delle agenzie come «un
parametro tra molti», la stessa S&P risponde abbassando il rating dell’Efsf (il Fondo europeo
di stabilità fnanziaria creato nel 2010), mentre il suo responsabile per i paesi europei pro-
spetta, intervistato, un’imminente insolvenza (default) della Grecia.
Il 23 gennaio l’Ecofn (consesso dei ministri di Economia e Finanze dell’Eurozona)
rilancia, dando luce verde al trattato istitutivo dell’Esm (Meccanismo europeo di stabilità)
38 con una dotazione di 500 miliardi di euro. Cinque giorni dopo l’Italia riesce a collocare 8
A CHE CI SERVE DRAGHI

miliardi di Bot all’1,96% (contro il 3,25% di fne dicembre), mentre il famigerato spread Btp/
Bund si riassesta poco sopra 400. Dura poco: quello stesso giorno Fitch declassa l’Italia da
A+ ad A-, in buona compagnia con Spagna, Belgio, Cipro e Slovenia. Passerà un mese (22
febbraio) perché l’Eurogruppo raggiunga un accordo sul salvataggio della Grecia. Conte-
stualmente (29 febbraio) la Bce rifnanzia 800 banche europee per 529,5 miliardi di euro,
un quarto dei quali (139 miliardi) è sottoscritto dai soli istituti italiani.
Il 2 marzo i capi di Stato e di governo europei approvano il Trattato sulla stabilità, il
coordinamento e la governance nell’Ue, meglio noto come Fiscal compact, che prevede
l’inserimento del pareggio di bilancio in costituzione, la limitazione del defcit allo 0,5% del
pil e del debito al 60% dello stesso in vent’anni. È l’esordio dell’austerità germanocentrica:
lo spread Btp/Bund scende sotto i 300 punti base, mentre (20 marzo) in Grecia riesce la
prima asta di titoli a tre mesi dopo la ristrutturazione del debito pubblico. I mercati paiono
rassicurati, gli Stati Uniti molto meno: con eloquente tempistica, quattro giorni dopo il G-20
riunito a Washington aumenta di 430 miliardi di dollari le risorse dell’Fmi per prevenire il
contagio fnanziario. Il «nuovo» paziente critico è la Spagna: il 30 S&P ne declassa undici
banche. Le Borse non la prendono bene, i nervi già a for di pelle per la nuova fase d’in-
stabilità politica in Grecia, che tornerà alle urne il 17 giugno con un governo di coalizione
che riafferma la volontà – non scontata – del paese di restare nell’euro.
Dieci giorni prima del voto greco Fitch decurta il rating spagnolo, seguita a ruota da
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Moody’s, mentre Madrid annuncia di voler chiedere aiuti europei per ricapitalizzare sva-
riate banche. Il 22, mentre a Roma i rappresentanti di Francia, Germania, Italia e Spagna
proclamano l’euro «irreversibile», la Bundesbank critica apertamente la decisione della Bce
di ampliare la tipologia di collaterali accettati a garanzia nelle operazioni di fnanziamento.
Finlandia e Olanda avversano l’acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario da parte
dell’Esm, in Germania piovono ricorsi alla Corte costituzionale contro la ratifca del Fiscal
compact e dello stesso Esm.
Gli eventi subiscono una nuova, brusca accelerazione che precipiterà un triplice red-
de rationem. La disoccupazione nell’Eurozona è certifcata all’11%, mai così alta dall’esor-
dio della moneta unica. Il 5 luglio la Bce porta il tasso sulle operazioni di rifnanziamento
al minimo storico dello 0,75%. Quattro giorni dopo la Francia, come già la Germania,
colloca per la prima volta titoli di Stato a tasso negativo, segno che i mercati cercano di-
sperati un rifugio. E mentre sette regioni spagnole chiedono aiuto a Madrid, la Borsa di
Milano ricomincia a perdere, mentre lo spread italiano sui Bund torna a 529 (quello spa-
gnolo supera 600).
Giunge così il 26 luglio, la prima delle tre date da segnare in rosso: da Londra, dov’è
per un convegno, Draghi afferma che la Bce farà «tutto quanto è necessario per salvare
l’euro». La dichiarazione ridà fato alle Borse europee (Milano guadagna oltre il 5%) e cal-
miera lo spread, che scende a 474. È molto, moltissimo. Ma non ancora abbastanza.
Il 20 agosto la Bundesbank si conferma «critica sull’acquisto di bond governativi che
possono comportare considerevoli rischi per la stabilità». Il 29 Merkel riceve Monti a Berli-
no e gli esprime la sua contrarietà alla concessione di una licenza bancaria all’Esm. Il 31
circola voce (non smentita) che il presidente della Bundesbank, Weidmann, sia pronto a
dimettersi in dissenso con le misure straordinarie della Bce. Per tutta risposta quello stesso
giorno – seconda data in rosso – il presidente della Federal Reserve (Banca centrale) sta-
tunitense Ben Bernanke, parlando all’incontro annuale di Jackson Hole, afferma: le politi- 39
NON DI SOLO DRAGH

L’ALTALENA DELLO SPREAD

9 nov 9 gen 2 mar 24 lug 6 set


575 531 298 537 370

500

400

300

441 375 404 278 474


1 nov 5 dic 28 gen 20 mar 26 lug
200
NOV DIC GEN FEB MAR APR MAG GIU LUG AGO SET OTT
2011 2012

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Fonte: Ansa-Centimetri

che monetarie non convenzionali «sono state e possono continuare a essere effcaci». Più
chiaro di così.
Non passa una settimana – 6 settembre, terza data saliente – e il direttivo della Bce
approva, con il solo voto contrario della Bundesbank, le linee essenziali del piano d’acqui-
sto dei titoli di Stato dell’Eurozona sul mercato secondario, senza limiti d’importo. Sono le
Omt (Outright monetary transactions), l’arma «defnitiva» (outright) che disinnescando l’in-
cipiente crisi bancaria sostanzia il «whatever it takes» di Draghi e salva l’euro. Lo spread
crolla a 370 punti base e da lì inizia una discesa che, malgrado successivi alti e bassi, non
lo vedrà più tornare a livelli di guardia.
Il 13 settembre, da Washington, Bernanke annuncia che il direttivo della Fed ha ap-
provato un terzo intervento di quantitative easing (immissione di moneta) tramite l’acqui-
sto di 40 miliardi di dollari al mese di obbligazioni garantite da mutui, consolidando il
contraltare atlantico delle Omt. Quello stesso giorno, un portavoce del Fmi puntualizza: e
perché mai non prorogare dal 2012 al 2014 la scadenza fssata per il pareggio di bilancio
della Grecia? A Berlino annotano.

40
A CHE CI SERVE DRAGHI

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Parte I
l’ ITALIA in LOTTA
per non
RETROCEDERE
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A CHE CI SERVE DRAGHI

UN EURONUCLEO
PER L’ITALIA di Federico PETRONI
È ora di smettere l’europeismo d’anticamera: la Commissione non è
il regista dell’Ue. Serve un’asimmetrica rete di relazioni privilegiate
a geometria variabile con Francia e Germania, giocando sulle loro
contraddizioni. Il Mediterraneo è nostra massima responsabilità.

1. L
A LENTEZZA DELLA CAMPAGNA VACCINALE
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ha messo a nudo la fallacia delle convinzioni più radicate in Italia sull’Unione Eu-
ropea. Su tutte, l’idea che esista un’Europa (Leuropa) soggetto della politica inter-
nazionale. Dunque da incolpare per i ritardi nell’approvvigionamento dei farmaci.
Così gli euroscettici si confermano nella certezza che da Bruxelles vengano soltan-
to problemi e una parte degli euroentusiasti fa mea culpa parlando di totale falli-
mento dell’attore nel quale riponeva mirabolanti speranze.
In realtà si guarda il dito mentre questo punta la luna. Con le case farmaceuti-
che, i negoziatori dell’Ue hanno certo stipulato contratti poco cogenti rispetto a
quelli strappati da altri paesi. Ma il motivo non va cercato nella loro ingenuità libe-
roscambista o nella loro burocratica acribia. Quella ai vaccini è una corsa a risorse
scarse e urgenti. Nella quale gli Stati sfoggiano o scontano le proprie condizioni
strategiche. E in cui pesano i vigenti rapporti di forza.
Gli Stati Uniti, per esempio, sono in netto vantaggio perché hanno attinto alla
loro impareggiata profondità imperiale. Hanno impiegato la loro vasta disponibili-
tà fnanziaria per ricoprire di dollari le aziende prima ancora di sapere se i loro
farmaci funzionassero (investimento non convenzionale in ricerca e sviluppo)  1.
Hanno usato l’Occidente per appropriarsi di una fliera produttiva assai ramifcata,
a volte anche di brevetti altrui, come il vaccino dell’olandese Janssen fnito a John-
son & Johnson o le tecnologie della tedesca BioNTech consorziate con Pfzer.
Hanno sfruttato l’attrattività del loro mercato, abituato a riconoscere remunerazioni
più generose, e la superiore capacità d’imporsi delle loro leggi per costringere le
case farmaceutiche a dare priorità alle forniture americane.
1. O. KHAZAN, «The One Area Where the U.S. COVID-19 Strategy Seems to Be Working», The Atlantic,
22/2/2021. 43
UN EURONUCLEO PER L’ITALIA

Allo stesso modo, la campagna di Pechino e Mosca per distribuire i vaccini nel
mondo è patente della loro inferiorità, anziché della loro scaltrezza. I rivali di Wa-
shington traducono in ambito sanitario le proprie lacune strategiche. Difettando, i
russi più dei cinesi, di tecnologie, capacità manifatturiere e amicizie comparabili a
quelle nella disponibilità americana, hanno semplicemente prodotto assai meno
vaccini dei loro concorrenti 2. Sono così costretti a usarli come strumento diploma-
tico per trovare chi li confezioni per loro, dalla Corea del Sud al Brasile, passando
per l’India o gli Emirati.
Anche il continente europeo rivela molto di sé, in particolare della sua subal-
ternità all’egemone mondiale. I principali membri occidentali dell’Ue – Germania,
Francia, Italia, Paesi Bassi – si erano inizialmente mossi fra loro, nell’estemporanea
Inclusive Vaccine Alliance, al di fuori della Commissione europea. E con l’aggiunta
della Spagna avrebbero pure avuto le capacità industriali per soddisfare il proprio
fabbisogno interno iniziale. Ma non avevano brevetti autoctoni. Non potevano
imporsi sulla fliera produttiva o sulle aziende proprietarie – lo si vede nella ritrosia
della Commissione ad applicare il potere di bloccare le esportazioni, nel timore
d’incappare nella scure americana. E non potevano lasciare sola la metà orientale
del continente, in particolare Berlino: troppo alto il rischio di vedersi scollare in
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faccia la sfera d’infuenza geoeconomica se nessuno avesse immunizzato l’Est o


peggio se si fosse lasciato libero il campo a russi e cinesi. Non potevano nemmeno
loro stessi rivolgersi a Mosca e Pechino, per non adirare Washington a cui stanno
già cercando di far digerire pillole ben più amare, da Nord Stream 2 ai legami com-
merciali e d’investimento con la Repubblica Popolare.
Oltre a diluire la già scarsa quantità di dosi, l’Europa orientale ha pesato in un
altro modo: i negoziatori hanno dovuto contrattare al ribasso sul prezzo con le
case farmaceutiche, nell’impossibilità di gravare sulle casse dei bulgari o dei letto-
ni 3. L’assenza di un membro più facoltoso disposto a pagare di tasca propria per il
benessere dei membri più deboli dell’Unione è una costante dell’incompiutezza
geopolitica di questo spazio.
Il fallimento dell’Ue sui vaccini era ed è inscritto in fattori strategici preliminari.

2. Di queste motivazioni, la nostra opinione pubblica è all’oscuro, divisa com’è


fra europeisti di maniera e nazionalisti ingenui (sovranisti) secondo cui l’Unione
sarebbe rispettivamente soluzione e causa dei nostri mali. Tale strabismo ha radici
profonde. Gli italiani hanno riposto aspettative enormi nel progetto di integrare il
continente, nella speranza che ci salvasse da noi stessi, dalle carenze del nostro
Stato, dal venir meno dei punti di riferimento della guerra fredda. Per poi piomba-
re in una rancorosa disillusione. Per rendersene conto, basta scorrere le pubblica-
zioni dell’Eurobarometro 4, che dal 1974 prende la temperatura alle opinioni pub-
bliche dei membri prima della Cee e poi dell’Ue.
2. A.E. KRAMER, «Russia Trumpets Vaccine Exports, While Quietly Importing Doses», The New York Ti-
mes, 28/3/2021.
3. J. DEUTSCH, S. WHEATON, «How Europe fell behind on vaccines», Politico, 27/1/2021.
44 4. L’archivio delle edizioni annuali è disponibile all’indirizzo bit.ly/3lXYPAV
A CHE CI SERVE DRAGHI

L’europeismo in Italia volava alto mentre la Prima Repubblica crollava, i vecchi


partiti sparivano e veniva introdotto l’euro. La crisi del debito del 2011 gli ha sciol-
to le ali. E da lì non si è mai più ripreso. Nel 1983, il 70% degli intervistati riteneva
cosa buona appartenere alle istituzioni comunitarie. Nel 1993, il 68%. Nel 2002, il
69%. Nel 2020, solo il 39%, 24 punti percentuali sotto la media, il peggiore fra gli
Stati membri.
Simile l’andamento per la fducia nell’Ue: ne aveva il 62% nel 2002, il 22% nel
2012, il 28% nel 2020. A inizio millennio eravamo i più fduciosi dopo il Portogallo,
16 punti sopra la media. Oggi siamo i più sfduciati, 15 punti sotto. Lo stesso vale
per l’immagine dell’Ue: positiva per il 72% degli italiani nel 2002, primi con 23
punti sopra la media, per il 49% nel 2011 e per il 43% nel 2020. Nell’ultimo decen-
nio la forbice non si è tanto allargata. Ma attenzione: dieci anni fa eravamo ancora
quarti con dieci punti sopra la media, oggi quintultimi, sette punti sotto. Gli altri
paesi hanno mantenuto una visione sobria dell’Ue. È nei nostri occhi che la luce si
è spenta.
Interessante osservare una controtendenza nei dati del più recente Eurobaro-
metro 5 (carta 1). L’Italia è l’unico paese assieme a Romania e Bulgaria in cui chi
ha un’immagine positiva dell’Ue è più numeroso di chi approva l’appartenervi.
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Sarebbe più normale il contrario, averne un’idea distaccata ma trovarla funzionale


ai propri fni strategici. Così per esempio solo il 60% dei tedeschi ne ha una buona
opinione, ma l’81% la ritiene vantaggiosa perché è il mantello di cui Berlino veste
la propria infuenza sul continente. Così l’87% degli irlandesi ne apprezza i benef-
ci perché in questi decenni tramite l’Ue Dublino ha materialmente avvicinato la
riunifcazione dell’isola. E così il 79% degli olandesi ne è soddisfatto contro un
mero 52% di opinioni positive perché, a dispetto del dolore di convivere con le
«cicale» del Sud, è la piattaforma perfetta per il mercantilismo neerlandese e per
agganciare la Germania senza fnirci dentro. A noi invece l’Unione Europea conti-
nua a piacere più di quanto ci sia utile.
Non ci è utile perché evidentemente in essa non abbiamo trovato ciò che cer-
cavamo, ossia colmare il defcit di statualità o, per essere schietti, sottrarci alla no-
stra inaffdabilità. Più di tanti altri membri siamo convinti che l’Unione ci dia mag-
gior peso nel mondo, che continuiamo a indicare fra i tre principali benefci dell’a-
desione. E ne siamo convinti perché nel nostro paese non ci sentiamo ascoltati – si
ritiene tale poco più di un terzo degli italiani, contro il 60% dei francesi e l’81% dei
tedeschi. E perché non ci fdiamo del nostro governo – la percentuale di chi ci
crede è invariata rispetto a vent’anni fa (29%). Ma non perché pensiamo che l’Italia
conti nell’Ue – anche qui la percentuale di chi ritiene che i nostri interessi pesino
è bassa e sostanzialmente invariata rispetto al 2003 (35% contro 34%). Segno che,
negli anni d’oro dell’europeismo, non ci curavamo poi più di tanto di far sentire la
nostra voce. Cercavamo solo qualcuno che ci dicesse cosa fare. E forse anche chi
essere: nel 1993, l’anno successivo al trattato di Maastricht, il 70% degli italiani di-

5. «A Glimpse of Certainty in Uncertain Times», Eurobarometer Survey 94.2, febbraio 2021. 45


UN EURONUCLEO PER L’ITALIA

chiarava che a breve avrebbe sviluppato un’identità anche o solo europea, record
fra gli allora 12 membri.
L’europeismo come antidoto allo spaesamento. Lo si evince da un’altra prezio-
sa ricerca, quella condotta da Ipsos per le fondazioni Jean Jaurès e Friedrich Ebert
sulle defnizioni di sovranità in otto nazioni: Italia, Francia, Germania, Spagna,
Svezia, Polonia, Lettonia e Romania 6. Il nostro paese ha un’idea lunare di questo
termine. Solo il 21% degli italiani lo considera positivo, contro il 73% dei tedeschi.
Il 53% lo percepisce desueto, contro il 9%. La metà dei nostri connazionali lo ritie-
ne politicizzato, perlopiù di destra. Viene associato al nazionalismo, alla potenza,
al protezionismo. Mentre i tedeschi lo associano a indipendenza, autodetermina-
zione e libertà. Quando dicono sovranità gli italiani intendono chiaramente un’altra
cosa rispetto alla Germania. Ciò non impedisce loro di sognare un suo sbocciare
nell’Unione: benché il 56% ritenga la «sovranità europea» una contraddizione in
termini, quasi lo stesso numero (60%) desidera rafforzarla. Primo motivo: aumen-
tare il peso internazionale del nostro paese, indicato dal 39%, 12 punti più della
media e 20 più dei tedeschi.
Questa carrellata di dati ci restituisce un paese senza fducia in sé e nel proprio
Stato, addirittura inorridito dal suo attributo principale, la sovranità. Incapace dun-
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que di elaborare da solo ciò che vuole, forse nemmeno interessato a farlo. E, per
fraintendimento economicistico e post-storico, portato a vedere nel superamento del
nostro Stato un’àncora di salvezza. Nell’ingenua convinzione che l’ambiente interna-
zionale sia cherubico, il confitto abolito. Salvo ridurci a ventriloqui di altri, incapaci
di usare l’Ue, di spendere i soldi che arrivano tramite essa, di incidere sui meccani-
smi decisionali (la qualità del personale è talmente scaduta che i lobbisti si rivolgono
a parlamentari stranieri per rappresentare i loro clienti italiani). Così, scoperta la si-
derale distanza tra sogno e realtà, precipitiamo dalle vette più liriche dell’euroentu-
siasmo agli orridi della delusione più cocente. Incapaci di cogliere la via di mezzo.
È esattamente la stessa tendenza a saltare alle conclusioni tipica del modo in
cui guardiamo lo scontro Cina-Stati Uniti e il nostro posto in esso. Convinti che gli
americani siano ormai all’ultima scena, i cinesi in imminente sorpasso e la Nato
roba da rigattieri. Dunque che stia al nostro libero arbitrio scegliere da che parte
stare, quando invece siamo meccanismo non così secondario del campo america-
no. Attitudine a saltare sul carro di chi crediamo vincente che ci è già costata una
sconftta nella seconda guerra mondiale. E in tutto antitetica al ragionamento geo-
politico, che invece consiste nello scegliere cosa fare dopo aver individuato i vin-
coli a cui siamo sottoposti. Se li ignoriamo, illudendoci di non averne tanto in Eu-
ropa quanto con gli Stati Uniti, rischiamo che ci strozzino.

3. Il ritardo sui vaccini, abbinato alla nostra disillusione, può generare una spin-
ta popolare a staccare la spina all’Unione Europea? Diffcile, ma non per questo
l’europeismo in Italia è salvo. Quest’anno virato insegna che le falle sanitarie fanno

46 6. «Enquête sur la souveraineté européenne», Fondation Jean Jaurès, 1/3/2021.


A CHE CI SERVE DRAGHI

1 - EUROBAROMETRO

Finlandia
Svezia

Estonia

Lettonia

Danimarca Lituania
Oceano
Atlantico
Irlanda Polonia
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Paesi Bassi Germania

Belgio
Lussemburgo Rep. Ceca
chia
vac
Slo
Francia Austria Romania
Ungheria

Slovenia

Croazia
Bulgaria
Portogallo Italia

Spagna Grecia

Mar Mediterraneo

Malta
Cipro

Quanto conta la voce del mio paese nell’Ue Immagine positiva L’appartenenza all’Ue
(in percentuale) dell’Ue è una cosa buona
89 Germania 71 Malta 51 Slovacchia Dal 77 al 60% Dal 67 all’87%
85 Paesi Bassi 70 Romania 49 Estonia dal 50 al 59%
81 Irlanda 70 Polonia 44 Bulgaria dal 50 al 66%
81 Danimarca 67 Austria 41 Lettonia dal 36 al 49%
79 Svezia 65 Croazia 41 Cipro dal 39 al 49%
78 Portogallo 57 Finlandia 40 Rep. Ceca
75 Lussemburgo 55 Lituania 39 Slovenia
74 Francia 54 Ungheria 35 Italia
74 Belgio 53 Spagna 33 Grecia Fonte: Eurobarometer Survey 94.2, Parlamento europeo, marzo 2021. 47
UN EURONUCLEO PER L’ITALIA

crollare rapidamente i consensi e altrettanto rapidamente sono dimenticate: a inizio


2020 la fducia nell’Ue è andata in picchiata, tempo l’autunno è risalita dell’11% 7.
Sono semmai i tracolli fnanziari, come quello del 2011, a lasciare cicatrici indelebili
nell’eurosentimento. È esattamente la posta in gioco in questo momento.
Si dice spesso che Mario Draghi deve ridare credibilità all’Italia. Con ciò s’in-
tende che la sua missione è convincere il mondo che il nostro paese ha ancora le
capacità umane per salvarsi dalla bancarotta. Per gestire cioè in molto relativa au-
tonomia risorse non nostre (soldi del Recovery, vaccini) ma che ci vengono elargi-
te nella sincera speranza di vederci risollevati, scongiurando l’incubo di affossare
con noi l’euro, il mercato unico e compagnia bella.
Se riesce, la missione di Draghi diventa salvare per davvero l’Italia. Se fallisce,
il paese potrebbe seriamente essere commissariato. Lì sì che sarebbe eterodiretto.
Con o senza la trojka non è il punto: perderemmo ogni margine di manovra. Ter-
reno fertile affnché l’eurodelusione sprigioni una ventata di nazionalismo, con
forte tendenza al ripiego su noi stessi, a disconnetterci da tutto e tutti. Non è stato
concesso alla Grecia, fgurarsi se sarebbe concesso a noi, una penisola da 56 mi-
lioni di abitanti, avamposto militare americano, dotata di migliaia di chilometri di
coste vocate a connettersi alle piane europee settentrionali, impreziosita da un
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marchio sbiadito ma di comprovato fascino, oltre che di nicchie sempre più nicchie
ma ancora preziose.
Semmai, un governo nazionalista brandirebbe, qualcuno credendoci e qualcu-
no no, la minaccia di uscire dall’euro per provare a strappare le concessioni che già
tutti i più recenti esecutivi, chi più chi meno, hanno richiesto ai nostri soci europei.
Su tutte, l’allentamento del rigore fscale. E avrebbe anche chance relativamente
buone di ottenere l’orecchio di una Germania disposta a (quasi) tutto, a cominciare
dal diluire il più possibile i negoziati, pur di non perdere mercati su cui scaricare il
proprio surplus produttivo. L’ascesa del cosiddetto sovranismo in Italia potrebbe
non avere un effetto letale sull’Unione Europea, causa drammatica mancanza per
Roma di concrete opzioni oltre a quella di far saltare tutto premendo il tasto rosso.
Ne avrebbe certo meno di una simultanea ascesa in Francia di un governo
nazionalista, con Marine Le Pen all’Eliseo. Anche le eventuali richieste di una Pari-
gi lepeniste sarebbero grossomodo quelle attuali di rivedere il Patto di stabilità, che
l’Esagono condivide con lo Stivale. Solo sarebbero espresse con più virulenza e
condite con fastidiose, per Berlino e la bolla brussellese, uscite in favore di un
maggiore conservatorismo sociale e di uno smantellamento dei vincoli sullo Stato
di diritto. In quel caso per i tedeschi si aprirebbe il baratro: perdere la metà fran-
cese della coppia con cui dal dopoguerra si autoconvincono di essere buoni com-
porterebbe trincerarsi in un euronucleo (Kerneuropa), a quel punto conclamato
bersaglio di rappresaglie americane sciolte da ogni pudore. Tutto sommato, alla
Germania conviene prestare ascolto ora a Draghi e Macron per non trovarsi a trat-
tare le stesse cose con i «populisti» tanto invisi in patria.

48 7. Cfr. Eurobarometer Survey 94.2, cit., p. 65.


A CHE CI SERVE DRAGHI

4. Sbrigato subito lo scenario negativo, volgiamoci a quello positivo, che è


anche quello attuale. Se la missione di Draghi riesce, adempiere a quella più diff-
cile di salvare nel concreto l’Italia impone di liberarci dell’europeismo d’anticame-
ra. Con esso intendendo la tendenza a esaurire il nostro operato nelle istituzioni
formali brussellesi, attendendo di fatto di ascoltare decisioni prese altrove e di cui
non resta che dare una limata qua e là. In buona sostanza, l’abitudine a ridurre
l’Europa all’Unione Europea.
Un europeismo consapevole consiste invece di tre pilastri: a) riconoscere
nell’Ue non un attore bensì il palcoscenico decisivo su cui competere, trattare,
accordarsi, configgere, dotato di regole che noi contribuiamo a scrivere (e a in-
frangere, se necessario a cambiarle); b) contribuire a tenere in relativo ordine le
strutture attraverso cui gli Stati Uniti mantengono un controllo sempre meno diret-
to e sempre più reattivo sulla loro sfera d’infuenza più preziosa, armonizzando le
loro priorità strategiche e le nostre necessità; c) costruire il nostro euronucleo fra i
paesi per noi più pertinenti a cui chiedere e dare voce.
Da dove partire? Iniziare dalla a) vuol dire cambiare narrazione e pedagogia
sull’Europa. Inutile la prima, troppo lunga la seconda. La narrazione poi è sempre
il prodotto della realtà, non il contrario. Non è raccontando meglio l’Ue che si mi-
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gliorerà l’italica fducia in essa. L’immagine dell’Unione in Italia dipenderà dalla


misura in cui riusciremo a modifcare le sue regole e a dar forma a rapporti attra-
verso cui far valere le nostre richieste.
Logica vorrebbe di partire dalla b) perché opzione più sistemica, ma al mo-
mento è fuori dalla nostra portata causa emergenza sanitaria e limitatezza di risor-
se, buona al massimo per rovesciarla in obamiano prestito don’t do stupid things
(in prosa: non aprire a russi e cinesi), comunque non del tutto inutile visti i recen-
ti scivoloni sulle vie della seta.
Resta la c). Per un paese di taglia media come il nostro un euronucleo non è
una sfera d’infuenza. È variabile geometria di rapporti strutturati con potenze di
rango superiore o comparabile (Francia, Germania, Spagna) e di alleanze da colti-
vare con membri o candidati di rango inferiore che si affacciano sul Mediterraneo.
Può sembrare paradossale, ma al momento il nostro paese non ha né gli uni né le
altre. Non ha un circolo ristretto di relazioni privilegiate con la Francia (apposta per
questo stiamo negoziando il trattato del Quirinale), la Germania (le classi dirigenti
non si parlano più salvo attraverso le rispettive Confndustrie) e la Spagna (silen-
cio). E non rappresenta nessuno, mentre dovrebbe spendersi di più per integrare i
Balcani a cominciare da quelli affacciati sull’Adriatico e contrastare la penetrazione
russo-turco-cinese, per avvicinare Malta, per parlare a nome di Portogallo, Grecia
e Cipro, poco avvezze alle mai sopite voglie d’impero latino di Parigi.

5. Si diceva che lo scenario positivo coincide con quello attuale. Perché nel
caso in cui il primo compito di Draghi vada in porto, il suo governo proseguirà
sulla china già intrapresa. Il presidente del Consiglio ha iniziato ricordando con la
dovuta enfasi che «senza l’Italia non c’è l’Europa», appena prima di enunciare la 49
50
2 - L’EUROPA DELLE MONETE STATI EUROPEI NON APPARTENENTI
FI N L AN D I A ALL’UNIONE EUROPEA E ALL’EUROZONA
ALBANIA lek
BIELORUSSIA rublo bielorusso
NORVEGIA
BOSNIA-ERZEGOVINA marco bosniaco
SVEZIA GEORGIA lari
Mare ESTONIA ISLANDA corona islandese
RUSSIA
ISLANDA del Nord LIECHTENSTEIN franco svizzero
UN EURONUCLEO PER L’ITALIA

MACEDONIA DEL NORD dinaro macedone


LETTONIA MOLDOVA leu moldavo
DANIMARCA
IRLANDA LITUANIA NORVEGIA corona norvegese

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
PAESI REGNO UNITO sterlina
REGNO BASSI
UNITO RUSSIA rublo russo
BIELORUSSIA SERBIA dinaro serbo
Oceano SVIZZERA franco svizzero
Atlantico BELGIO G E R M AN I A POLONIA UCRAINA grivnia
LUSS.
REP. CECA UCRAINA
SLOVACCHIA
LICHT.
F R A N CI A

MO
SVIZZ. AU ST RI A

LD
UNGHERIA Mar
SLOV. OVA Caspio
ITA L IA CROAZIA ROMANIA

LO
€ € SAN BOSNIA GEORGIA

AL
€ MARINO -ERZ. SERBIA Mar Nero AZERBAIGIAN

OG
PRINCIPATO ARM.

T
SPAG N A DI MONACO € € BULGARIA

OR

P
ANDORRA MONT.
KOS. M.D.N.
CITTÀ DEL
VATICANO ALB. STATI DELL’UNIONE EUROPEA
GRECIA TURCHIA NON IN ZONA EURO
DANIMARCA corona danese
SVEZIA corona svedese
REP. CECA corona ceca
STATI DELL’UNIONE EUROPEA UNGHERIA forino
APPARTENENTI ALL’EUROZONA MALTA
(EURO) ALG E RI A POLONIA złoty
CIPRO BULGARIA lev
€ STATI NON APPARTENENTI TUNISIA
ALL’UNIONE EUROPEA CHE Mar Mediterraneo ROMANIA leu romeno
UTILIZZANO L’EURO CROAZIA kuna
A CHE CI SERVE DRAGHI

volontà di «meglio strutturare» i rapporti con Parigi e Berlino e di chiamare a rac-


colta i paesi mediterranei, a cominciare dalla Spagna 8. I primi passi del suo esecu-
tivo contengono tracce di tutto ciò, com’è evidente dagli opportunistici attacchi ad
AstraZeneca e dagli ammiccamenti al vaccino russo, sempre concertati con tede-
schi, francesi e spagnoli 9. Oppure dal rispolverato e già citato trattato del Quirina-
le con cui dare profondità e consuetudine alle relazioni con la Francia.
Per approfondirli, occorre tenere ferma la barra sulle seguenti priorità.
Primo, ottenere le risorse fnanziarie necessarie a tenere a galla e poi rilanciare
il paese. Ciò comporta prolungare e rimpolpare il fondo di ripresa economica ap-
provato dall’Ue, dotarsi di nuovi strumenti per raccogliere denaro dai mercati (nuo-
vi eurobond) e soprattutto riformare il Patto di stabilità affnché si possa iniziare a
spendere soldi nostri, senza continuamente farseli prestare. In sostanza, chiedere
più denaro e meno controlli alla Germania. Interesse che evidentemente ci accosta
alla Francia, dove già da tempo si strombazza la necessità di superare i troppo
stretti parametri di Maastricht. E pure agli Stati Uniti, i quali in questi anni stanno
provando di tutto per spingere la Germania fuori dalla sua zona di conforto. Trump
voleva farlo ritirando le truppe per mettere Berlino a disagio in ambito militare.
Biden sembra volerlo fare costringendola a spendere per la ripresa europea, met-
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tendola a disagio in ambito fscale, certa della reazione avversa dell’opinione pub-
blica. I tedeschi sono già sul piede di guerra, come segnala il blocco della Corte
costituzionale alla legge che approva il Recovery Fund nazionale.
Secondo, possiamo offrire in cambio qualcosa alla Germania che sia anche nel
nostro interesse: oltre a non far saltare per aria l’euro, possiamo giocarci la reindu-
strializzazione del paese. Berlino non ha ovviamente interesse a coltivare concor-
renti. Ma a tenere in piedi la fliera produttiva sì. Sono anni di transizione per l’in-
dustria teutonica, in particolare per l’automobile. Ha bisogno che anche la manifat-
tura del Nord Italia si adegui, per esempio investendo nelle batterie elettriche,
settore di cui vantiamo già un terzo degli operatori di punta a livello continentale.
Oltre che essere nella nostra convenienza pecuniaria, sincronizzare l’evoluzione
della nostra industria a quella tedesca ci è utile pure da un punto di vista strategico.
Le intrinsechezze con la Germania sono servite a convincerla a indebitarsi per noi.
Terzo, e di conseguenza, non dobbiamo cancellare la dipendenza della nostra
manifattura da quella renano-bavarese ma limitarla. Anche qui con l’apporto fran-
cese. Di cui resistere gli intenti di far preda dei nostri gioielli. Ma di cui sfruttare
l’interesse a creare circuiti industriali continentali il più possibile autonomi. Sono
già partiti quattro cantieri sui vaccini, sull’idrogeno, sull’aerospazio (con anche un
progetto a tre con la Germania per lanciatori spaziali europei) e soprattutto sui
semiconduttori, ampliando il raggio dell’italo-francese StMicroelectronics, con il
suo impianto di Catania. La partita dei microchip s’inserisce in quella più ampia fra
8. Cfr. la trascrizione del discorso al Senato del 17/2/2021 all’indirizzo bit.ly/2PjSyTA
9. E. CUNNINGHAM, «Four of Europe’s largest countries suspend AstraZeneca vaccinations; safety agency
says blood clot incidence is low», The Washington Post, 16/3/2021; «Sputnik V: Russia announces
more deals to produce its vaccine in the European Union», Euronews, 15/3/2021. 51
UN EURONUCLEO PER L’ITALIA

Stati Uniti e Cina per impedire alla seconda di colmare il divario tecnologico che la
separa dalla superpotenza. È dunque possibile presentarla come compatibile con
gli sforzi dell’amministrazione Biden per fliere produttive a prova di cinese.
Quarto, occorre riformare il mercato unico. Così com’è non ci è funzionale,
anzi sflaccia la coesione nazionale. Certo, ci consente di scaricare all’estero il no-
stro surplus produttivo, ma sempre meno (l’Italia è con la Francia ultima nell’Ue
per quota di pil esportata) e soprattutto il meccanismo defattivo alla base del fun-
zionamento dell’Ue ci penalizza. Lasciandolo intatto o peggio approfondendolo
come vorrebbero i fanatici nordici del libero scambio rischiamo di avere un Nord
sempre più connesso al Reno ma sempre più avulso dal suo primo mercato, il Sud.
Bisogna sfruttare l’appello a fliere produttive più corte per creare circuiti subeuro-
pei che valorizzino le eccellenze locali invece di appiattirli in un’unica macedonia
insapore.
Quinto, e più in generale, occorre attirare verso sud francesi e tedeschi. Con
tre priorità subalterne: riallacciare il Mezzogiorno al continente, occuparci dei no-
stri mari, contribuire a sedare le crisi mediterranee. Arginare o al massimo redistri-
buire i migranti non può essere l’unico orizzonte, anche perché presto parte di
essi ci servirà per controbilanciare il drammatico calo demografco. Né il Meridione
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può essere un mero cuscinetto contro l’instabilità. I porti del Sud vanno elevati a
progetti di rilievo europeo, se serve con l’inserimento di operatori tedeschi. Con i
francesi è ora di stendere un’agenda di cooperazione navale sulla sicurezza delle
rotte mediterranee, facendosene appaltare una parte dagli americani con il contri-
buto fnanziario della Germania.
Necessariamente più sobri sono gli obiettivi per la Libia e il Levante. La diver-
genza di vedute è troppo profonda, in particolare la faglia fra Parigi e Roma-Berli-
no sulla Turchia, utile mostro per la prima per rientrare nel Mediterraneo, can che
dorme da non destare per le seconde. Senza contare che il ruolo da assegnare ad
Ankara lo decidono la stessa Ankara e Washington a seconda dell’intensità della
penetrazione russa nel mare nostrum. Ma la triangolazione con Francia e Germa-
nia non è una bacchetta magica. Nessuna delle due ci accorderà pari rango. Parigi
non smetterà di provare a estrometterci dalla Libia (al massimo si concederà una
pausa). E Berlino continuerà a rifutare d’indebitarsi per conto nostro. È un’inizia-
tiva fondamentalmente tattica. Ma quando si raschia il barile, tattica e strategia
tendono a coincidere.

52
A CHE CI SERVE DRAGHI

L’ITALIA DI DRAGHI
ALLA PROVA
DELLA REALTÀ di Dario FABBRI
Nessun capo, tantomeno se economista, può alterare il carattere della
collettività di cui è portabandiera. Siamo condannati al declino. Non
possiamo stare sia con gli Stati Uniti che con la Germania perché
seguono traiettorie conflittuali. Le ambiguità verso Russia e Cina.

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S
TANDO ALLA VULGATA, IL FUTURO DEL
nostro paese è nelle mani di Mario Draghi. Quasi la traiettoria di una collettività
dipendesse da un singolo individuo. Dotato di notevole acume diplomatico e di
numerose entrature internazionali, il presidente del Consiglio nei prossimi mesi
sarà impegnato su tavoli cruciali. Benché abbia lasciato nella Repubblica Federale
un negativo ricordo di sé, dovrà persuadere i tedeschi che l’Italia merita i miliardi
stanziati nel cosiddetto Recovery Fund. Quasi organico all’attuale amministrazione
bideniana, dovrà dimostrare agli americani di volere soltanto i soldi garantiti da
Berlino, non ulteriori lacci geopolitici, da respingere per nostro interesse.
Dovrà ignorare le lusinghe di Cina e Russia, calorosamente accolte dai prece-
denti governi Conte, per recuperarci come affdabili agli occhi degli americani. Ap-
prezzato da Parigi per «aver difeso l’Eurozona», dovrà avvicinare Macron per blandi-
re eventuali ritorni punitivi dell’austerità tedesca – oltre che per tranquillizzare ulte-
riormente Washington fngendo di aderire al velleitario progetto comunitario dei
francesi, ritenuto più placido di quello teutonico. Di formazione gesuitica, dovrà
separare l’Italia dalla sinoflia di Francesco senza provocare risentimento Oltretevere.
Vasto programma, assai impegnativo per un soggetto in salute, tanto più per
il Belpaese sprofondato nella disperazione.
Pure se otterrà i fondi sognati, nel medio periodo l’Italia di Draghi si confer-
merà ulteriormente nella sfera d’infuenza della Germania, attirerà gli strali degli
americani, preoccupati dall’attuale disinvoltura tedesca. Dipendenza economica da
Berlino e securitaria da Washington si mostreranno inconciliabili nella congiuntura
attuale, ci esporranno al fuoco di entrambi. Pure se respingesse Russia e Cina strin-
gendosi alla Francia, non potrebbe risollevarsi in Libia, per ritrosia alla violenza
dell’opinione pubblica italica, laddove Cremlino ed Eliseo agiscono contro i nostri
interessi, in assenza di un intervento washingtoniano. 53
L’ITALIA DI DRAGHI ALLA PROVA DELLA REALTÀ

Più rilevante, Draghi non potrà superare le defcienze strutturali, antropologi-


che che dilaniano il nostro paese. Né pare riconoscerle. Nel piano per la ripresa
post-epidemica dovrebbero fgurare misure per incentivare lo svecchiamento della
popolazione, per inaugurare una nuova pedagogia nazionale, con l’obiettivo di
rovesciare la percezione post-storica che ci inchioda al minimalismo, lo squinter-
nato approccio economicistico della popolazione che impedisce ogni recupero
della potenza. Eppure l’ex presidente della Bce propone (impossibili) unioni fsca-
li di dimensione continentale, interventi di esclusiva matrice infrastrutturale o fnan-
ziaria. Palesando la sostanza di un leader che è semplice espressione della colletti-
vità che presiede, mai artefce della storia. Con il Belpaese che probabilmente
scongiurerà il default continuando ad abitare un infnito declino. Nella cocente
delusione di chi crede(va) d’aver visto il «Messia».

2. In tempi di massima crisi, l’Italia dell’èra unipolare (oggi scambiata per mul-
tipolare) compie puntualmente la medesima scelta. Sconosciuta la potenza tout
court, dentro uno spazio straniero si affda a un illustre economista, solitamente
defnito «tecnico», nel commovente tentativo di risollevare sé stessa.
Nella Penisola vige la certezza che la nostra parabola dipenda esclusivamente
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dall’economia, dunque sia da affdare a un esperto del settore, senza cura per la
profondità geopolitica, tattica o strategica. Di più. L’avvento di una fgura cui dele-
gare ogni responsabilità, pure nella fctio di un sistema istituzionale che concede
limitati poteri al presidente del Consiglio, solitamente eccita l’opinione pubblica.
Improvvisamente gli intrecciati miti della competenza e dell’uomo forte si fregiano
di nome e cognome, in sprezzo del protocollo democratico, del sentire elettorale.
Dimenticando, o ignorando, che un bravo statista non è mai un «tecnico», quanto
un individuo dotato di straordinaria sensibilità, capace di cogliere le esigenze della
collettività che guida, per coniugarle con le ricette offerte dagli apparati.
Meglio. Massima qualità di un politico non è una specifca conoscenza, facil-
mente fornita dalla pletora di consiglieri, quanto l’inclinazione a sporcarsi di ethos,
il rigetto per ogni snobistico senso di superiorità nei confronti della cittadinanza, la
volontà di sciogliersi consapevolmente nello spirito della nazione, la capacità di
applicare la cifra antropologica generale all’epoca vissuta.
Viceversa, persuaso d’essere innesco della storia anziché suo prodotto, certo
che ogni vicenda sia questione di decimali, di crescita (o decrescita) economica,
solitamente un «esperto» fallisce nel compito assegnatogli poiché incapace di ab-
bracciare le istanze della popolazione senza derubricarle a esigenze inutili.
Nel corso dei decenni altri economisti sono stati prestati alla presidenza del
Consiglio nel momento del bisogno. Con risultati deludenti.
All’inizio degli anni Novanta, mentre il crollo dell’Unione Sovietica sgretolava
il sistema partitico, tale gravoso incarico fu affdato a Carlo Azeglio Ciampi, già
governatore della Banca d’Italia. Al prezzo di lacrime e sangue l’augusto economi-
sta e letterato livornese ci condusse con la calcolatrice dove richiesto dalla super-
54 potenza americana, ovvero dentro l’integrazione monetaria continentale. Successi-
A CHE CI SERVE DRAGHI

GOLDEN POWER SANZIONE


PRESCRIZIONI
PRESCRIZIONI
RACCOMANDAZIONI - la prescrizione più debole
BLOCCO - la barriera più forte

FRANCIA

I TA L I A
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vamente asceso al Quirinale, fnì per credere che l’europeismo avrebbe inibito il
(sopravvalutato) secessionismo del Settentrione italiano.
All’inizio degli anni Dieci fu chiamato a Palazzo Chigi Mario Monti. Su esplici-
ta richiesta del governo tedesco, il bocconiano approvò una drastica riduzione
della spesa pubblica, su indiscutibile ordine dell’amministrazione americana ci al-
lontanò dalla Russia. Senza migliorare la congiuntura geopolitica, né la fragile
economia nostrana, ci condusse ulteriormente dentro la catena del valore teutonica
– nel frattempo bandendo dalla scena politica l’erratico Silvio Berlusconi.
Oggi è la volta di Mario Draghi, economista di articolata esperienza formativa
e lavorativa. Dopo gli studi in Italia, il neopremier ha trascorso molti anni negli
Stati Uniti, prima perfezionandosi al Mit di Boston, poi come direttore esecutivo
della Banca mondiale, esperienza destinata a tornare utile negli anni successivi.
Rientrato in Italia, tra il 1991 e il 2001 è stato direttore generale del ministero del
Tesoro, vertice della burocrazia interna, nel cui alveo ha allevato un’intera classe di 55
L’ITALIA DI DRAGHI ALLA PROVA DELLA REALTÀ

funzionari, portati con sé in numerosi passaggi altrove. Tra il 2006 e il 2011 ha


guidato la Banca d’Italia, prima di approdare alla Banca centrale europea, unico
cittadino «meridionale» a occupare tale carica per condiscendenza della Germania,
ignara di come l’imminente crisi economica avrebbe consentito all’italiano di inter-
venire sulla struttura dell’Eurozona.
Attivismo che lo ingraziò all’amministrazione statunitense, allora favorevole
all’espansivo puntellamento della moneta comune, poco timorosa di un rafforza-
mento dell’area valutaria afferente alla Repubblica Federale. Interpretazione esten-
siva dello statuto della Bce apprezzata anche dalla Francia, fttizia metà dell’asse
renano in tragica condizione economica, appesa come l’Italia al funzionamento
dell’euro.
Eccezionale cursus honorum che ha esaltato l’intimità dell’attuale premier con
le principali potenze di riferimento del nostro paese. Al netto delle amenità sull’uo-
mo che avrebbe «salvato l’euro» – impresa riuscita per affdabilità tedesca al cospet-
to dei mercati, unica sostanza del quantitative easing – negli anni Draghi è dive-
nuto un brand, prestigiosa fgura internazionalmente riconosciuta, a suo agio con
i più potenti statisti del pianeta, primato pressoché inedito per un italiano.
Tanto da essere ascoltato interlocutore dell’amministrazione statunitense in
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

carica, in sbandierata confdenza con la segretaria al Tesoro Janet Yellen, amico


personale di Larry Summers, già consigliere economico di Barack Obama, familia-
re perfno a Joe Biden per i suoi trascorsi sul Meno. «Non vedo l’ora di lavorare a
stretto contatto con il premier Mario Draghi, per approfondire la nostra forte rela-
zione bilaterale (…) e affrontare le sfde globali» 1, ha esternato il presidente con un
tweet all’indomani della nomina a Palazzo Chigi.
Come ovvio, Draghi è molto noto anche a Berlino, sebbene non altrettanto
stimato dall’opinione pubblica locale. Sentimento esternato platealmente dai ta-
bloid teutonici nel 2020 quando gli fu conferito l’Ordine al merito2, massima ono-
rifcenza della Repubblica Federale, reo d’aver forzato da «cicala» gli strumenti a
disposizione della Bce per costringere i contribuenti tedeschi a salvare le disfunzio-
nali nazioni mediterranee. Velo posticcio con cui Berlino occulta ai propri cittadini
la necessità di pagare per conservare l’euro e i benefci che questo garantisce.
Membro su invito di papa Francesco della Pontifcia accademia delle scienze
sociali, incaricata di distillare la dottrina della Chiesa, è di casa anche in Vaticano.
Per tacere di ogni governo e leader europeo che tradisce una coltivata opinione sul
suo conto – nel bene e nel male.
Chiara fama che lo ha reso inaggirabile riserva della Repubblica, extrema ratio
cui rivolgersi in frangenti cupi. Come accaduto nelle ultime settimane su sollecita-
zione del presidente Sergio Mattarella.
L’impresa affdata a Draghi pare particolarmente complessa, zeppa di manovre
ai limiti del possibile, in una fase segnata dall’epidemia di Covid-19, dalla sofferen-

1. Tweet reperibile presso t.ly/CSEH


2. Cfr. C. STIRLING, B. JENNEN, «Draghi, Germany’s Least Popular ECB Head, Gets Its Highest Honor»,
56 Bloomberg, 29/1/2020.
A CHE CI SERVE DRAGHI

za economica, dall’inconsapevolezza geopolitica. Senza poter dire se il prossimo


anno il Belpaese esisterà oltre la bancarotta.

3. Nell’immediato il nuovo esecutivo si destreggerà tra i nostri principali inter-


locutori internazionali, esistenti in vicendevole attrito, altra complicazione di un
momento già proibitivo. Draghi dovrà convincere i tedeschi, unici garanti con la
loro tripla A dei bond emessi dalla Commissione europea, che sapremo spendere
effcacemente i fondi stanziati dal cacofonico Next Generation Eu. Per restare in
vita, per realizzare le riforme strutturali necessarie a scongiurare in futuro ulteriori
momenti di cieca disperazione come l’attuale.
La riconosciuta serietà di Draghi come antidoto all’italico cialtronismo, stereo-
tipo utilizzato specie da olandesi e austriaci per negarci i soldi promessi, oltre che
per mistifcare il proprio strategico obiettivo di non essere inglobati nella Repub-
blica Federale. Per centrare tale risultato l’economista romano s’è arrogato l’incom-
benza di stilare motu proprio il piano di recupero (misteriosamente detto Recovery
Plan), ovvero la lista di progetti da presentare ai censori europei per ottenere i f-
nanziamenti, dopo i malumori registrati tra Bruxelles e Berlino per le vaghe idee
caldeggiate dall’esecutivo Conte.
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Quindi Draghi è stato scelto dal Quirinale per convincere gli americani che
vogliamo soltanto i soldi tedeschi, non l’ulteriore subordinazione alla Repubblica
Federale. Oltreoceano la teutonica volontà di salvare l’Eurozona, specie il Nord
Italia, ha generato notevole preoccupazione per un approccio sideralmente distan-
te da quello conservativo che troneggiava a Berlino quando l’italiano guidava la
Bce. Come L’Aia o Vienna, anche Washington si interroga sul prossimo passo di
una Germania intenzionata a puntellare il proprio spazio monetario, forse immagi-
nando di tramutarlo in rendita geopolitica.
Evoluzione che la superpotenza semplicemente non potrebbe tollerare, im-
possibile feudo all’interno del suo impero. Palazzo Chigi dovrà dimostrare all’am-
ministrazione Biden di comprendere la scivolosa natura del Recovery Fund, da
cogliere soltanto per ragioni pecuniarie, senza tradire alcun amore per Berlino,
continuando a fngere sia provvedimento europeo.
Ostilità americana per la Germania già tradotta nelle minacciate sanzioni per
la costruzione di Nord Stream 2, nell’aggressivo affato ecologista con cui colpire la
manifattura teutonica – dunque anche la nostra che al suo interno vive.
Draghi dovrà anche segnare plateale distacco dalla Cina, rinnegando l’ingenua
postura dei governi che lo hanno preceduto. In pieno declino economico Roma
dovrà respingere le lusinghe pechinesi, i legami offerti dalle nuove vie della seta,
per stemperare la washingtoniana freddezza seguìta alla nostra frma sul memoran-
dum bilaterale, per scongiurare nuove rappresaglie. Il più noto economista italiano
chiamato a porre le esigenze geopolitiche sopra al ritorno fnanziario, quasi contro
natura.
Sul tema dovrà schermare l’Italia dalla formidabile infuenza di Francesco, pa-
pa platealmente post-occidentale, tendente a Oriente per affato gesuitico, fautore 57
L’ITALIA DI DRAGHI ALLA PROVA DELLA REALTÀ

di una politica estera centrata sulla Repubblica Popolare, intensamente impegnato


a migliorare le relazioni con Pechino 3. Iniziativa che negli ultimi anni ha letteral-
mente travolto il governo Conte, trascinando con sé una buona fetta dell’opinione
pubblica nazionale, per oscure ragioni sicura che la Cina sia futuro economico e
strategico del pianeta. Per Draghi l’onere di ricondurre l’Italia nel solco occidentale,
retoricamente floamericano, senza smarrire l’eccellente rapporto che lo lega alla
Curia romana, specie al segretario di Stato Pietro Parolin.
Ancora, il presidente del Consiglio dovrà raccontarsi distante dalla Russia, par-
tecipe del corso moralistico voluto da Biden per ricompattare il fronte europeo su
fantasiosi valori democratici, estraneo a ogni velleitaria alternativa al sistema ame-
ricano. Finalmente libero dai condizionamenti prodotti dalla precedente Casa Bian-
ca, impegnata senza speranze ad aprire al Cremlino, fno a costringere il governo
Conte a schierarsi con i trumpiani contro l’intelligence statunitense, giunta a Roma
nel 2019 per sventare ogni intesa con Putin 4. Palazzo Chigi dovrebbe improvvisa-
mente estirpare la nostra russoflia, pure per esibirci come antitetici alla Germania,
contraria a rinunciare alle proprie intrinsechezze con Mosca, nonostante la rabbia
della superpotenza.
Acrobazie che rendono patente la complessità del compito, cui si aggiungono
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i perenni dossier della nostra politica estera. Così il nuovo governo dovrà aumen-
tare l’attenzione dedicata alla Libia, provando a tirare dentro gli americani, tuttora
poco interessati alla nostra ex colonia. Qui proverà a muoversi tra turchi, francesi,
russi, egiziani, emiratini e qatarini, senza neppure bluffare l’uso della forza. Proget-
to altamente improbabile, nonostante l’annunciato viaggio del premier nell’ex
Quarta Sponda, dopo la visita a Tripoli del ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
Da ultimo, Draghi si impegnerà ad arginare la nostra esiziale perdita di rilevan-
za nei Balcani, altra regione di prioritaria rilevanza. Anche qui alle prese con la
rinnovata aggressività della Turchia, piantata tra Bosnia e Albania, e con la storica
infuenza di Russia e Germania.
Mentre stenta a compiersi una diffcoltosa campagna vaccinale, fnora massic-
ciamente danneggiata dalla cronica assenza di dosi, dentro lo schema approntato
dalla commissione brussellese. Questione immediata su cui giocarsi la tenuta inter-
na, l’apprezzamento dell’opinione pubblica, la ripresa economica. Prima che in
ogni paese sviluppato i sieri diventino di diffusione comune, probabilmente entro
6-9 mesi. Consapevolezza prospettica che rende i vaccini un’arma spuntata nel
medio periodo ma ferale nell’immediato.
Impietoso ritratto di un’Italia tormentata, aggrappata alle capacità di un econo-
mista alla prima prova da statista, dentro un agone di potenze configgenti, impos-
sibile da navigare con serafca ingenuità. In attesa di incontrare la realtà.

4. Analizzare ciò che potrà concretamente il governo Draghi signifca descri-


vere il prossimo futuro del nostro paese, decretarne la rinascita geopolitica, op-
3. Cfr. D. FABBRI, «Occidenti contemporanei», Limes, «Occidenti contro», n. 9/2020, pp. 43-59.
58 4. Cfr. D. FABBRI, «La guerra civile tra trumpiani e apparati nelle province dell’impero», Limes, «America
contro tutti», n. 12/2019, pp. 113-122.
A CHE CI SERVE DRAGHI

L’ITALIA DI DRAGHI
GERMANIA

Draghi come garanzia


per i soldi tedeschi
di soldi tedeschi
l’invio in Italia
Draghi per giustifcare
FED. RUSSA
FRANCIA
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la sinoflia di Francesco
Draghi per schivare
italiana
la politica estera
Draghi per infuenzare

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USA at ni es
Co cia
nt re CINA
e

Manipolazion reciproche tra l’Italia VATICANO


e le principali potenze

pure il defnitivo annichilimento, o ancora la mera sopravvivenza tra indicibili


sofferenze.
Salvo clamorose sorprese, nei prossimi mesi Roma otterrà una cospicua parte
dei fondi contenuti nell’ostentato Recovery Fund. Non solo per la riconosciuta cre-
dibilità di Mario Draghi. Quanto per il berlinese proposito di difendere l’Eurozona
da cui dipende il suo sistema industriale. La volontà della Repubblica Federale di
puntellare l’estero vicino come principale ragione per tenere in vita l’Italia. Con le
ricette immaginate da Draghi per impiegare i fondi come mera prova di buona
volontà da presentare ai contribuenti teutonici.
59
L’ITALIA DI DRAGHI ALLA PROVA DELLA REALTÀ

Allora potrebbe risultare improbo rassicurare gli Stati Uniti del nostro asettico
collocamento nello spazio economico tedesco. Terrorizzata all’idea di un Vecchio
Continente che imploda, Washington accetterà obtorto collo il soccorso teutonico
in nostro favore, ma è certamente dannoso auspicare un’unione fscale in seno al
continente, ovvero dominata dalla Germania, come scolpito nelle ultime settimane
dallo stesso Draghi, segnale di uno sguardo quasi ideologico alle questioni geopo-
litiche. Ciò che gli Stati Uniti non possono accettare. Né basterà sul tema avvicinar-
si sensibilmente alla Francia, gemello rivoluzionario cui gli Stati Uniti riconoscono
un amplissimo margine di manovra, per comunicare la natura «innocua» della co-
struzione comunitaria.
Piuttosto, Washington pretenderà da Roma costante impegno su altri dossier
rilevanti. Qui sarà altrettanto impervio dimostrare d’aver abbandonato il particolare
rapporto con Mosca, nostro prioritario fornitore di idrocarburi, storica sponda per
negoziare con l’egemone d’Oltreoceano. Piano complicato anche dalla necessità di
diversifcare i vaccini utilizzabili accarezzando l’inclusione dello Sputnik V, anche
solo per indurre Washington a consegnarci milioni di dosi di sua produzione.
Più convincente sarà la deminutio imposta all’improvviso firt con la Cina. Nel
discorso programmatico pronunciato in Senato, Draghi s’è detto preoccupato da
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quanto avviene intorno alla Repubblica Popolare in tema di diritti umani 5, senza
indicarla come il futuro cui guardare con convinta speranza.
Mossa di un governo che vuole corroborare il proprio atlantismo attraverso
una plateale freddezza nei confronti della Repubblica Popolare – oltre che con gli
eccezionali contatti nell’amministrazione bideniana. Fino a condurre la nostra Ma-
rina nell’Indo-Pacifco per partecipare del contenimento anticinese, altra manovra
di riavvicinamento a Washington.
Proprio l’immaginata inversione sull’Impero del Centro potrebbe raffreddare i
rapporti tra Palazzo Chigi e il Vaticano, nonostante la spiritualità di Draghi. Con il
rischio di smarrire un sostanzioso gancio in Estremo Oriente.
Ancora, sarà pressoché impossibile invitare gli Stati Uniti a combattere per noi
in Libia contro i turchi. La superpotenza guarda con enorme diffdenza all’espan-
sionismo di Ankara, ma lo giudica tuttora troppo utile per frenare la Russia, villano
designato dai suoi apparati. Senza una nostra inclinazione a soffrire per ottenere
maggiore infuenza nell’ex colonia, sarà inutile sperare nel soccorso ecumenico
degli altri. Medesimo discorso per i Balcani, territorio ormai estraneo alla nostra
disponibilità, o per l’Europa centro-orientale, regione ritenuta cruciale dagli Stati
Uniti, dove risultiamo pressoché inesistenti.
Sul fronte dei vaccini, al netto di sforzi genuini e fasulli per accaparrarci
antidoti non occidentali, il governo Draghi riuscirà a realizzare la campagna vac-
cinale soltanto quando Washington vorrà devolvere verso il Vecchio Continente
milioni di dosi in eccesso – e quando esisterà un siero tutto italiano. Presto l’an-
tidoto al Covid-19 sarà merce comune, ma nel frattempo Palazzo Chigi deve

60 5. Cfr. «Testo integrale del discorso di Mario Draghi in Senato», la Repubblica, 17/2/2021.
A CHE CI SERVE DRAGHI

convincere la popolazione di una svolta imminente, pena fnire travolto dagli


eventi.
Soprattutto, il nostro rilancio si rivelerà fallimentare se esclusivamente centrato
su fondi riservati alle infrastrutture, all’industria, se estraneo alla matrice antropolo-
gica, decisiva per ogni ascesa strategica. Soltanto cospicui investimenti nella peda-
gogia nazionale, nella demografa, nella dimensione marittima potrebbero condur-
ci oltre la penosa dimensione in cui siamo costretti. Soltanto investendo sul fattore
umano, incentivando concretamente le nascite, cancellando la propaganda euro-
peista che approfondisce la senescenza della nostra popolazione potremmo recu-
perare le grandezze della potenza.
Magari illustrando ai cittadini come l’opinione che gli altri hanno di noi sia
fatalmente legata alla nostra (in)capacità di fare da soli, ispirando quell’esame di
coscienza che una nazione giunta col cappello in mano a chiedere soldi stranieri
dovrebbe inaugurare, per comprendere dove è sprofondata. Quanto forse alieno
all’utilitaristica concezione del mondo di un grande economista. Cui si aggiunge il
rischio concreto che il piano di rilancio risulti fatalmente mortifcato dalla macchina
burocratica nostrana, restia per formazione e consuetudine a perseguire campagne
di largo respiro. Con i piani di Palazzo Chigi che potrebbero presto impantanarsi
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nei rivoli presenti in ogni ministero.


Di fatto, al termine del prossimo anno l’Italia di Draghi potrebbe scoprire di
non essere né guarita né defunta, semplicemente sopravvissuta. In possesso dei
soldi necessari per evitare il default, per fnanziare alcune infrastrutture e compiere
sparute riforme economiche e sociali, ma incapace di rovesciare il momento antro-
pologico che la pone fuori dalla storia.
Nuovamente vicina agli americani, ma senza ottenere un loro maggiore impe-
gno nel Mediterraneo, senza convincerli dello iato creatosi nottetempo con la Rus-
sia, senza benefciare della distanza scavata dalla Cina, dell’invio dei nostri mezzi
marittimi nell’Indo-Pacifco.
Con la popolazione fnalmente vaccinata assieme o perfno dopo gli altri pae-
si occidentali, quando il siero sarà in eccesso, senza capacità di imporsi sulle case
farmaceutiche afferenti ad altre potenze, specie anglosassoni. Con il rischio di tor-
nare tra qualche anno all’austerità decisa da una Germania spaventata dalle atten-
zioni americane, sazia d’averci salvato, contraria a rendere defnitivo l’indebitamen-
to comune.
Anche per opposizione proprio degli Stati Uniti, come segnalato dalla sospen-
sione del Recovery Fund ordinata dalla Corte costituzionale di Karlsruhe, prodro-
mo di un pronunciamento fnale che dovrebbe vietare l’unione fscale, su imbec-
cata di Washington che l’attuale diritto tedesco ispirò dopo la seconda guerra
mondiale 6.
Allora Draghi si rivelerà «tecnico» capace di usare le carte a disposizione, ma
privo di possibilità strategiche. Ancorato alla narrazione dell’uomo competente al

6. Cfr. «Il mondo oggi», limesonline, 29/3/2021. 61


L’ITALIA DI DRAGHI ALLA PROVA DELLA REALTÀ

posto giusto, ovvero alla testa di un paese che avrà evitato la bancarotta per bivac-
care in un lacerante limbo.

5. Il mito del leader è tra più duraturi della storia umana. L’idea che un solo
individuo possa cambiare il corso degli eventi è al contempo conseguenza dell’an-
cestrale fascinazione per gli eroi, di un utilitaristico sottrarsi alle proprie responsa-
bilità, della reticenza ad approfondire i complessi fattori strutturali che informano
la traiettoria di una collettività.
Distorsione della realtà molto diffusa nel nostro paese, storicamente incline ad
attendere un solitario salvatore della patria. Specie se di formazione economicistica,
per convinzione che la salute di una collettività sia frutto del solo benessere materia-
le, come capita a ogni satellite di un impero altrui. E Draghi incarna perfettamente
l’uomo del momento, prestigioso, competente, chiamato a sbrogliare una tremenda
situazione sollevando dall’incombenza i partiti, il parlamento, la stessa opinione
pubblica. Ma neppure il capo più capace può incidere senza una necessaria cifra
antropologica generale. L’Italia di Draghi potrebbe trascendere le secche in cui esiste
soltanto se la popolazione fosse disposta a sopportare gli enormi sacrifci richiesti dal
perseguimento della potenza, se fosse pronta ad affrontare gli anni che verranno
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senza i fondi garantiti dalla Germania, se intendesse estricarsi dalla sfera d’infuenza
teutonica accettando un deterioramento della propria condizione economica, se
contemplasse l’uso della forza per recuperare il terreno perduto in Libia.
Manovre che richiedono l’indispensabile sostegno degli abitanti, ben oltre la
capacità di un governo. Quanto manca a Draghi, restio a investire in iniziative che
possano incidere sul fattore umano. Impegnato ad agire in dimensione tattica, a
condurre il nostro paese oltre il fallimento immediato, ma dentro molteplici spazi
altrui. Mero gestore delle risorse offerte dalla cittadinanza, dall’epoca che viviamo.
Inevitabilmente destinato a essere odiato se l’opinione pubblica gli attribuirà mezzi
di cui non dispone. Specie quando risulterà palese che il Belpaese non potrà inver-
tire il declino. Per propria struttura antropologica. In barba al suo nuovo leader.

62
A CHE CI SERVE DRAGHI

IL PIANO
È RIFARE
LO STATO di Fabrizio MARONTA
Gli aiuti europei sono l’ultima occasione per dotarci di una vera
tecnocrazia. La funzione crea l’arto: l’obbligo di spendere presto
e bene può rovesciare il dominio dei giurisperiti, garanzia di stallo.
Il metodo Draghi. Le infrastrutture che contano. Priorità Sud.

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S
PENDERE TROPPI SOLDI. SENZA LE
burocrazie adeguate. Con il rischio di «perdere» il Sud. Oppure: riagganciare il
Sud, avviando il ripensamento della macchina statale necessario a cogliere l’occa-
sione – forse unica, certo storica – degli aiuti europei.
Non è un palindromo da enigmisti. È il rebus che attende Mario Draghi, sined-
doche dell’Italia piegata da un’epidemia che ne aggrava mali cronici. Chiamata ora
a scegliere se rifarsi o morire di morte lenta, dolorosa, indotta dall’inerzia e dall’e-
morragia di risorse morali e materiali.
Soldi europei, Stato nazionale, Sud: questo il «cosa». Sul «come» occorre distin-
guere analiticamente tra ora (emergenza) e poi (rifondazione). Senza farsi distrarre
dalla diacronia delle fasi, perché ciò che facciamo nella prima (i prossimi mesi) ha
effetti determinanti sulle nostre possibilità di riuscire nella seconda.

Aiuti auspicati…
A inizio marzo l’Istat certifca: i poveri in Italia sono 5,6 milioni, un milione in
più del 2019 1. Record storico malgrado cassa integrazione, blocco dei licenziamen-
ti, reddito di cittadinanza e d’emergenza. Al Nord, sinora il più funestato dal Co-
vid-19, l’aumento maggiore (700 mila poveri in più): livellamento al ribasso con un
Mezzogiorno da decenni in acuta sofferenza e che continua a esibire picchi d’indi-
genza 2. I lavoratori poveri, che non guadagnano abbastanza per acquistare beni e
servizi essenziali, sono aumentati del 30% tra le famiglie operaie – sì, esistono an-

1. L.L. SABBADINI, «Coronavirus, donne e giovani sono i nuovi poveri del grande Nord», la Repubblica,
4/3/2021.
2. F. MARONTA, «Il crepuscolo del Mezzogiorno spacca l’Italia», Limes, «L’Italia al fronte del caos», n.
2/2021, pp. 101-109. 63
IL PIANO È RIFARE LO STATO

cora – e del 46% tra quelle il cui reddito deriva principalmente da lavoro autono-
mo. Le fasce più colpite sono (a decrescere): 35-64 anni (soprattutto 35-50), 18-34
anni e i minori. Insieme fanno oltre il 70% dei nuovi poveri. L’occupazione femmi-
nile, già bassa, è tornata ai livelli di venticinque anni fa. I quasi 1,3 milioni di mi-
norenni oggi indigenti rischiano di vedere irrimediabilmente compromesso il loro
futuro. Che è anche il nostro.
L’ossigeno che l’Unione Europea intende somministrare sotto specie di aiuti
fnanziari a questo corpo sociale tramortito dal virus, per tenerlo in vita e favorirne
la remissione, si chiama Next Generation Eu. Numeri importanti, su cui è impor-
tante fare chiarezza. Per coglierne appieno l’eccezionale portata e sfuggire al ma-
nicheismo disinformato che vi scorge una regalia o un prestito a strozzo. Né l’una,
né l’altro. È una mano tesa: possente se dispiegata appieno, ma non gratis.
Dei 750 miliardi stanziati in sede europea, secondo gli ultimi calcoli 3 all’Italia
ne spettano nominalmente 191,5 in quattro anni (2021-24): quasi 70 in sovvenzio-
ni «a fondo perduto», il resto in prestiti a lunga scadenza (2058) e a tassi agevola-
ti. Aggiungendo i fondi del React Eu, si arriva a circa 204 miliardi. Due caveat.
Sull’avverbio (nominalmente): i soldi sono in realtà meno. Ai 70 miliardi di
sovvenzioni vanno sottratti i circa 50 miliardi di contributo italiano al bilancio co-
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munitario negli anni in questione, che ridimensionano il trasferimento netto a circa


20 miliardi. Inoltre, il ciclo di bilancio europeo 2021-27 (nei cui aspri negoziati è
irrotto il Covid-19) prevede un aumento degli sconti per Austria, Svezia, Danimarca
e Paesi Bassi, che per l’Italia si traduce in maggiori esborsi 4.
Sulle virgolette che incorniciano il fondo perduto: il piano europeo non è una
Cassa per il Mezzogiorno. I 750 miliardi sono raccolti dalla Commissione emetten-
do obbligazioni, garantite indirettamente dagli Stati membri sui cui bilanci naziona-
li e sulla cui largesse riposa, almeno per ora, la capacità fscale di Bruxelles. Tra
quegli erari c’è il nostro. Dunque non è il caso di offendersi se la Commissione
vuole monitorare da presso criteri, tempi e modi di spesa dei soldi. Ognuno
spende(rà) danari propri e altrui, pertanto pretende (dovrebbe) effcienza e traspa-
renza, nei limiti dell’umano. Facciamocene una ragione.
Pur con queste limitazioni, è una valanga di quattrini. Il solo «fondo perduto»
equivale per noi alla restituzione di cinque-sei anni di contributi netti al bilancio
Ue: siamo l’unico contribuente netto (che versa più di quanto riceve) al bilancio
comunitario a essere anche benefciario netto del Next Generation 5. Aggiungendo
la quota di prestiti agevolati, la cifra supera di quasi diciotto volte gli stanziamenti
all’Italia del più volte invocato (a sproposito) Piano Marshall e di quasi cinque vol-
te i fondi europei a noi destinati nel periodo 2021-27 6.

3. R. AMATO, «Recovery Fund, Franco: “Per l’Italia 191,5 miliardi. Cabina di regia al ministero dell’Eco-
nomia”», la Repubblica, 8/3/2021.
4. S. MERLER, «Next Generation, chi ci guadagna e chi ci perde», lavoce.info, 10/3/2021, bit.ly/3tLWpaW
5. Ibidem.
64 6. R. CARPANO, «Next Generation EU=18 piani Marshall», limesonline, 2/11/2020, bit.ly/3VNWooy
A CHE CI SERVE DRAGHI

… ma male invocati
Tra i criteri del Next Generation vi è quello di destinare almeno il 37% dei
fondi alla transizione ecologica – che poi vuol dire, in gran parte, elettrifcazione e
decarbonizzazione della produzione elettrica primaria – e almeno un quinto alla
transizione digitale. A rilevare di più, tuttavia, è la previsione che i piani nazionali
«rifettano le sfde specifche del paese». Tradotto per noi: aumento della produtti-
vità (stagnante da oltre vent’anni), snellimento della giustizia civile, investimenti in
scuola e ricerca, aumento del tasso d’occupazione di donne e giovani. Si noti che
queste non sono riforme: sono esiti di riforme a lungo predicate ma mai attuate,
anche quando «a costo zero». Defnizione fuorviante, questa, perché in realtà han-
no un costo politico altissimo. Realizzarle implica infatti scardinare interessi costi-
tuiti che dello sfascio si giovano, facendone pretesto per il corporativismo e il po-
tere d’interdizione esercitato da molte categorie professionali. Meglio: dai segmen-
ti più forti e tutelati delle stesse, a danno del resto.
L’esecutivo rubricato «Conte 2» ne aveva tratto un Piano nazionale di ripresa e
resilienza (sic) articolato in sei «missioni»: digitalizzazione, innovazione, competiti-
vità e cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una
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mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. Già prima


dell’attuale presidente del Consiglio, che si è messo a riscriverlo di proprio pugno,
i punti deboli del tomo (168 pagine) erano apparsi evidenti 7.
Sul nodo cruciale delle riforme, digitalizzazione e semplifcazione – gergo per
deregolamentazione, divenuta tabù dopo la sbornia simil-thatcheriana – andavano
di pari passo con assunzioni massicce e «lineari», come usa dire oggi. Mentre le
prime dovrebbero consentire di limitare le seconde al necessario ricambio genera-
zionale: giovani, dunque, ma con le giuste competenze. La concorrenza – non
sempre sinonimo di Far West, purché vi siano istituzioni a vigilarla – risultava non
pervenuta. Al pari di un serio cronoprogramma e dei dettagli attuativi, cui Bruxel-
les subordina – forse con eccessivo puntiglio, specie circa le diffcilmente stimabili
ricadute sul pil – l’erogazione semestrale dei fondi. La ripartizione di questi – 70%
investimenti pubblici, 20% incentivi a privati, 10% formule miste – ha fatto rimpian-
gere a più d’uno «il modello [della ricostruzione del ponte di] Genova, dove lo
Stato ha individuato un bravo privato dandogli il miglior contesto possibile per
lavorare, non si è messo ad assumere gli operai» 8.
Poi c’era l’annoso capitolo del Sud. Anzi, non c’era. Come denuncia un’esau-
stiva nota («Appello» è l’angosciato titolo) di Svimez e Fondazione Per, «all’Italia è
stata assegnata la quota più alta di aiuti non solo per il primo e maggiore impatto»
del virus, ma anche perché presenta «nelle regioni meridionali i più bassi indicato-
ri di reddito e occupazione, i più consistenti fenomeni di perdita di capitale umano

7. L. TIVELLI, «Recovery Plan, il peso dell’eredità di Conte e le priorità per Draghi», Formiche, 12/2/2021,
bit.ly/3eZCBgk
8. G. ZAPPONINI, «Il falso problema dei brevetti sui vaccini e il Recovery modello Genova. Maffè all’at-
tacco», Formiche, 2/3/2011, bit.ly/3942c3O 65
IL PIANO È RIFARE LO STATO

qualifcato e la più grave caduta della natalità» 9. Negli ultimi anni si sono investiti
«oltre 10 miliardi nell’adeguamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria senza
mutarne il tortuoso percorso interregionale» e «il prevalente dispiegamento in due
corsie». Inoltre, «alta velocità/capacità, potenziamento di porti e vie del mare, rior-
ganizzazione del trasporto aereo (…): nessuno di questi investimenti ha riguardato
il Mezzogiorno. Non c’è alcuna giustifcazione tecnica, politica, culturale, perché
esista una tale disuguaglianza e il Recovery Plan deve avere il coraggio di colmar-
la». Purtroppo, nella prima stesura non lo aveva.

Il nodo della tecnostruttura


Mancava infne la governance. In italiano corrente: chi fa cosa per gestire i
nostri diciotto piani Marshall, a scongiurare che si traducano solo o soprattutto in
sprechi e malaffare (si ravvisano precedenti). Qui entriamo in un campo minato.
Non è vero che nell’Italia culturalmente statalista, refrattaria al mercato e (fno
a ieri) bramante il posto fsso l’ideologia neoliberista dello Stato minimo abbia per-
so. Ha vinto eccome, anche perché ha sposato la diffusa, radicata convinzione di
poter prescindere da uno Stato vissuto come peso, se non come nemico. In quan-
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to aduso a vessare per chiedere e a latitare quando occorre dare. Il nostro rappor-
to schizofrenico e irrisolto con lo Stato e con le sue emanazioni istituzionali ha
favorito quel disinvestimento negli apparati burocratici che ha caratterizzato la
postmodernità italiana. In ciò non ci distinguiamo molto da gran parte del mondo
sviluppato. Salvo che da noi i contraccolpi della pratica si sono sommati a carenze
storiche, antiche difformità territoriali e al parallelo collasso delle scuole di partito,
spazzate via da Tangentopoli.
L’esito di questo depauperamento è così riassumibile: «Meno 212 mila unità
in una pubblica amministrazione già sottodotata rispetto ai principali paesi Ue, sia
in rapporto al pil che alla popolazione servita. (…) Un’età media dei dipendenti
pubblici di quasi 55 anni – il livello più alto dei paesi Ocse – rispetto a una quota
di occupati 18-34 anni inferiore al 2% (Forze armate escluse). La forte fessione
della spesa in formazione del personale: 48 euro e 1,02 giornate a dipendente,
considerando solo quelli a tempo indeterminato. Una netta prevalenza di profli
giuridici e la carenza di nuove professionalità, tra cui quelle tecniche e organizza-
tive. Il ricorso crescente a fgure fessibili e precarie – oltre 350 mila – e all’ester-
nalizzazione di funzioni (immaginiamo Mario Draghi aggirarsi pensoso dentro
Palazzo Chigi, prima di impugnare il cellulare e chiamare McKinsey, n.d.r.). Ciò
ha impedito alla pubblica amministrazione di migliorare le proprie competenze e
ha creato nuovo precariato, (…) sicché l’apporto innovativo di questi soggetti è
stato poco valorizzato» 10.

9. «Mezzogiorno in movimento. Appello al Governo italiano per il Recovery Plan», Svimez e Fonda-
zione PER, 3/3/2021, bit.ly/3vNIKCh
10. S. DE LUCA, D. DI DIO, C. MOCHI SISMONDI, «Se la PA non è pronta. Proposta per una Pubblica Am-
66 ministrazione rigenerata», Forum Disuguaglianze Diversità, Movimenta e Forum PA, dicembre 2020.
A CHE CI SERVE DRAGHI

Che l’amministrazione pubblica abbia rinunciato a ideare e valutare la fattibili-


tà tecnico-economica dei progetti in cui vanno i suoi (i nostri) danari ne ha stravol-
to la fsionomia, oltre a svuotarne le funzioni. A dominare oggi è la fgura del diri-
gente generalista, intercambiabile proprio perché non specializzato. Tanto che «le
informazioni statistiche su dirigenti e funzionari pubblici contenute nel Conto an-
nuale della Ragioneria generale non fanno distinzioni per tipologia di laurea» 11.
Laurea che nel grosso dei casi è in giurisprudenza, seguita a distanza da economia.
Non c’è spazio per le competenze tecniche nei ranghi apicali. Se anche il blocco
del turnover non le avesse prosciugate ai livelli inferiori, diffcilmente uffci tecnici
acefali brillerebbero per coordinamento, organizzazione, celerità.
Con quest’abbondanza di giurisperiti il nostro corpus normativo sarà una Bib-
bia del diritto, la sua interpretazione sopraffna. Così la Corte dei conti: «Si eviden-
zia la crescente complessità della materia dei contratti pubblici: (…) iper-regola-
mentata, (…) affollata di norme molteplici e disomogenee, (affitta da) carenze di
programmazione, criticità nelle modalità di affdamento dei contratti (e nella) scel-
ta delle procedure di aggiudicazione»  12. E poi: la frammentazione delle stazioni
appaltanti (oltre 32 mila: sommando Comuni, Province, Regioni, Consorzi e Comu-
nità montane non si raggiunge un terzo di tale cifra), la loro diffcoltà nell’applica-
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re correttamente la normativa, l’incompatibilità delle norme di spending review con


la disciplina dei contratti pubblici.
Di questo carnevale, cui forse non è estranea la «qualità» media dei quadri
amministrativi – a prescindere da quanto vergato sui diplomi – fa le spese quel che
di buono l’ordinamento pure offre. «Molte criticità (…) potrebbero essere rimosse
sfruttando le norme di semplifcazione previste dal codice degli appalti e dalla le-
gislazione speciale, che consentono di accelerare le procedure di aggiudicazione,
(…) di eseguire immediatamente i lavori, (…) di concentrare i livelli di progetta-
zione, di assegnare celermente gli appalti in determinate circostanze, di ricorrere
ad autodichiarazioni e controlli ex post: (…) procedure previste dalle direttive eu-
ropee e dal codice degli appalti, (…) ma che in Italia sono utilizzate molto meno
della media europea» 13.
Le leggi possono essere cattive in almeno tre modi: perché mal concepite,
mal scritte, o entrambe. Nel primo caso rientra l’attuale codice degli appalti. Insi-
stendo sulla logica del primo prezzo o massimo ribasso (si aggiudica la commes-
sa chi applica lo sconto maggiore alla base d’asta, che dunque più che una base
è un tetto), propizia sgradevoli ricorrenze: scadimento di materiali e qualità ese-
cutiva delle opere; desertifcazione del panorama socioeconomico (il dumping
impera, anche nel lavoro); agevolazione involontaria (?) della malavita, abile a
comprimere i costi; proliferazione delle famigerate varianti in corso d’opera, che
11. G. PISAURO, «Pnrr, un’occasione per separare le carriere nella Pa», lavoce.info, 29/12/2020, bit.
ly/3saDXso
12. Corte dei Conti, Sezioni riunite in sede di controllo, «Audizione della Corte dei Conti nell’ambito
dell’attività conoscitiva sull’applicazione del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contrat-
ti pubblici)», Senato della Repubblica – VIII Commissione lavori pubblici e comunicazioni, aprile 2019.
13. D. IMMORDINO, «Infrastrutture: costruirle è un percorso a ostacoli», lavoce.info, 19/6/2020, bit.ly/3sgk2II 67
IL PIANO È RIFARE LO STATO

sovente annullano il risparmio iniziale; trionfo di quel peculiare fallimento del


mercato noto come «maledizione del vincitore», per cui le commesse non vanno
all’azienda più effciente ma a quella che più faticherà a realizzarle (perché ne
sottostima troppo i costi) 14.
Mal concepito è pure il criterio di rendicontazione, malgrado un decreto legi-
slativo (91/2011: mai attuato) che recependo una direttiva europea prevede anche
nel pubblico la contabilità per missioni. Cioè: non si pianifca la spesa in base a ciò
che si acquista, ma allo scopo per cui lo si acquista. Illuminante la vicenda del
Fondo sociale Ue: usato dalle Regioni non per creare sistemi di formazione e riqua-
lifcazione che generino competenze richieste dal mercato, ma per fnanziare corsi
(effettuati da privati) in grado di portare più iscritti possibile 15.

E i riflessi sull’infrastruttura
La qualità geopolitica di un paese non è data solo dalle sue potenzialità. È data
anche, per certi versi soprattutto, dalla capacità di volgerle in potenza. Di concretiz-
zarle. Parlare di dirigenti statali, rendicontazione e codice degli appalti in una rivista
di geopolitica può sembrare bizzarro. Lo è molto meno quando si cala il discorso nel
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vissuto della nazione. Prendiamo un caso concreto, molto geopolitico: l’energia.


Leggendo il Rapporto annuale sulle infrastrutture strategiche 16 si comprende
come i lavori pubblici potrebbero trainare la crescita economica. Il fabbisogno
d’infrastrutture strategiche è stimato in 273 miliardi di euro, che già prima del co-
ronavirus risultavano fnanziati per quasi 200 miliardi: 155 dal pubblico e 44 dai
privati. Soldi esistenti, non teorici: un altro Recovery Plan. Ma di queste opere a
oggi ne risulta ultimato l’11% (undici). Un quinto è in corso, metà è in progettazio-
ne, il 5% non è mai partito. Ignavia? Forse. Burocrazia kafkiana? Sicuro: per realiz-
zare opere medio-piccole servono in media 27 mesi. Per le grandi quasi 16 anni,
metà dei quali passa nell’intervallo fra una trafla e l’altra 17. Nei soli otto anni di
tempi morti la Cina costruisce 3 mila chilometri di alta velocità ferroviaria ed Elon
Musk sovverte l’industria mondiale dell’auto.
Ora Bruxelles ci chiede di spendere in pochi anni una settantina di miliardi per
interventi legati alla transizione energetica. Il termine stesso – transizione – sugge-
risce che l’approdo a forme più o meno spinte di decarbonizzazione avvenga
gradualmente: l’orizzonte odierno è suppergiù trentennale. Nel mentre, occorre
fare più affdamento su combustibili fossili a impatto carbonico relativamente limi-
tato. Come mostra tra gli altri il caso tedesco 18, la scelta ricade giocoforza sul gas.
Il monosillabo evoca di norma centrali elettriche, fornelli e scaldabagni domestici,
14. TORTUGA, «Perché non funziona l’Italia degli appalti», lavoce.info, 15/7/2020, bit.ly/3c5cKSi
15. M. BALDUCCI, «Il Recovery Plan è (anche) questione di contabilità», Formiche, 10/2/2021, bit.ly/3seWsMg
16. Osservatorio sulle infrastrutture strategiche, «Infrastrutture strategiche e prioritarie – Programma-
zione e realizzazione – Aggiornamento al 31 ottobre 2019», Camera dei deputati.
17. D. IMMORDINO, op. cit.
18. F. MARONTA, «Non un tubo di meno: i due volti della Energiewende», Limes, «Il clima del virus», n.
68 12/2020, pp. 175-184.
A CHE CI SERVE DRAGHI

Ferrovia Salerno-Stretto di Messina


IL RIAGGANCIO DEL SUD Ferrovia Palermo-Catania-Messina
nuove linee ad alta velocità per treni
AUSTRIA passeggeri e merci leggeri. I treni più
SVIZZERA lunghi e pesanti restano sulle vecchie linee
Ferrovia media velocità Roma-Pescara
Stretto di Messina
ponte stradale e ferroviario
Rete autostradale attuale
Gorizia Potenziamento assi accessori alle reti Ten-T
Aosta Milano Brescia
F R A N C I A

Verona Trieste Salerno-Reggio Calabria


Alessandria Padova Venezia ulteriore ammodernamento (terza corsia,
Torino Piacenza a pedaggio)
Parma Ferrara
Genova Modena Bologna

CR
Savona Ravenna BOSNIA-
ERZEGOVINA

O
La Spezia Lucca Firenze Rimini
Z

A
Pisa
Arezzo
IA
Livorno Ancona
Civitanova Marche
Perugia
Grosseto
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

Teramo
Pescara
Corsica Civitavecchia L’Aquila
Mar Adriatico
Termoli
ROMA
Foggia

ri
Ba

isi
ind
Olbia Caserta
Br
Napoli
Sassari
Salerno Potenza
Sardegna Nuoro Taranto
tra ce
e O Lec
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Mar Tirreno
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Oristano

Lamezia
ton

Terme
Cro

Cagliari
Gioia
Tauro
Palermo Messina
Mar Mediterraneo Trapani Reggio di Calabria

Mazara del Vallo


Sicilia Catania
Augusta
Siracusa
TUNISIA
Aeroporti da integrare nel territorio
con collegamenti veloci Southern Range
Porti da raforzare: allungamento Porto di Augusta, primo in Italia creazione di un sistema
dighe foranee, consolidamento per trafco energetico, da collegare al portuale che funga da
banchine, raforzamento Porto di Gioia Tauro porta meridionale all’Italia
retroportualità enorme potenziale container e all’Europa 69
IL PIANO È RIFARE LO STATO

tuttalpiù altiforni e altre grandi industrie, come le cartiere. Eppure in Italia, econo-
mia di trasformazione dipendente dal gas russo e nordafricano, c’è una pletora di
industrie medie e mediamente energivore – salumifci, impianti d’imbottigliamento
dell’acqua minerale, mobilifci, centri di ricerca, caseifci: l’ossatura industriale del
paese – a oggi priva di accesso al gas.
L’industria italiana consuma in media 12.500 tonnellate di gas all’anno. Per
raggiungere gli obiettivi europei di contenimento della CO2 (cui l’erogazione del
Recovery è in parte connessa), occorre raggiungere le 160 mila tonnellate entro il
2030, sostituendo altrettanto gasolio. Aggiungiamo il settore domestico. L’autotra-
zione. Le grandi navi (merci, traghetti, crociere), di cui oggi solo tre sono alimen-
tate a gas, contro le settanta (minimo) necessarie. In termini infrastrutturali ciò
implica costruire in meno di dieci anni altri due rigassifcatori, almeno trenta de-
positi di stoccaggio (cinque dei quali sopra i 20 mila metri cubi), reti capillari di
distribuzione, stazioni di carico dei tir cisterna e terminali di rifornimento portuali.
Opere la cui necessità è nota da tempo, ma che non riescono a staccarsi dalla
carta su cui sono descritte e invocate 19. Quando sentiamo parlare di Green Deal,
chiediamoci – chiediamo – come possa darsi transizione energetica, con tutto il
suo portato di know-how tecnologico-industriale, senza energie transitorie. La ri-
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sposta è scontata.
Non sfugge che una simile politica necessiti di attenta pianifcazione centrale,
salvo demandarne in parte l’attuazione a soggetti locali. Riprendendo il nostro
metro della damnatio legum, giungiamo così al sommo obbrobrio: la riforma del
titolo V della costituzione operata nel 2001, alla cui pessima (e moralmente dolosa)
concezione è seguita un’attuazione altrettanto sciagurata. Il non aver previsto
esplicitamente una clausola di supremazia del governo centrale e una defnizione
dello stato d’eccezione circoscritta ma più ampia di quella ex articolo 78 (la guer-
ra) 20 ha reso Roma tragicamente impotente. Che poi è quanto voleva la Lega di
Umberto Bossi, per inseguire la quale il centro-sinistra (al tempo vigeva il trattino)
suicidò sé stesso e il paese. Sarebbe interessante sapere da Joe Biden, presidente
della Federazione par excellence che oggi schiera l’Esercito nazionale per vaccina-
re la popolazione, cosa ne pensi del nostro «federalismo» e di una sussidiarietà
spesso tradottasi in marasma istituzionale.

Ora
Ma non è tempo di polemiche questo. Catapultato a Palazzo Chigi dall’implo-
sione del Conte 2, Draghi lavora in emergenza con una macchina pubblica di
scarso ausilio. Che fare? Nell’immediato: aggirarla il più possibile, come si intuisce
dall’annunciato decreto legge per attuare il riscritto Piano nazionale, in risposta

19. S. CARLI, «Energia: manca l’infrastruttura e l’Azienda Italia non va a tutto gas», la Repubblica,
1/3/2021.
20. M. ORICCHIO, «Con la pandemia è scoppiata la questione istituzionale», lavoce.info, 8/7/2020, bit.
70 ly/3d05qqt
A CHE CI SERVE DRAGHI

alla richiesta del commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni di «un bi-
nario straordinario».
La consulenza di 30 mila euro a McKinsey – la cui prossimità ai vati del rating
ne rende il sigillo una sorta di salvacondotto reale negli ambienti economico-fnan-
ziari internazionali – è l’albero. La foresta, a vederla tutta, rivela l’intricata rete di
rapporti e conoscenze che il neopremier porta in dote. Prezioso valore aggiunto
anche agli occhi del capo dello Stato, dopo anni di dilettantismo allo sbaraglio con
annesse lotterie dei curricula online.
Anzitutto, le persone. Una lista essenziale, ma non esaustiva, dei «fdati» di
Draghi al governo include il ministro dell’Economia Daniele Franco e il suo capo
di gabinetto Giuseppe Chiné, il capo di gabinetto della presidenza Antonio Funi-
ciello e il segretario generale Roberto Chieppa, il sottosegretario Roberto Garofo-
li e il suo capo di gabinetto Daria Perrotta, il capo del dipartimento Affari giuridi-
ci e legislativi Carlo Deodato, il ministro della Transizione ecologica Stefano Cin-
golani, il capo di gabinetto della pubblica amministrazione Marcella Panucci, il
ministro della Giustizia (di provenienza bocconiana) Marta Cartabia, già presiden-
te della Consulta. A essi si affancano consiglieri esterni ma assai prossimi, come
l’economista (pure bocconiano) Francesco Giavazzi e l’esperto di diritto ammini-
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strativo Marco D’Alberti, che con il ministro Franco e pochi altri coadiuvano il
premier nella riscrittura del Recovery Plan. Sono questi, oggi, gli «adulti nella
stanza» dei bottoni.
Secondo: le istituzioni, da cui gran parte di queste fgure – compreso lo stesso
Draghi – proviene. Su tutte la Banca d’Italia (di cui Draghi è stato governatore dal
2005 al 2011), che ha sfornato molta classe dirigente italiana nell’ultimo trentennio
e con cui il presidente del Consiglio coltiva assidui contatti.
Poi Cassa depositi e prestiti (Cdp), la principale istituzione fnanziaria a parte-
cipazione pubblica del paese: sorta di ministero ombra al cui vertice Draghi ha
voluto Dario Scannapieco, suo braccio destro quando era al Tesoro (da direttore
generale) e sottratto alla vicepresidenza della Banca europea degli investimenti.
Cdp è destinata a svolgere un triplice, cruciale ruolo nell’attuazione del Recovery,
come illustrato dal suo vicedirettore Paolo Calcagnini in una recente audizione
alla Camera: ideazione di progetti, «sponsorizzazione» di progetti terzi ritenuti par-
ticolarmente validi, fnanziamento degli stessi 21. A tal fne la Cassa sta strutturando
Patrimonio destinato: un fondo da 44 miliardi di euro per il rilancio del sistema
produttivo riservato a società per azioni (quotate e non) con sede legale in Italia,
che non operino nel settore fnanziario e fatturino almeno 50 milioni. Uno stru-
mento ideato per fungere da braccio operativo delle politiche governative connes-
se al Recovery 22.
Ancora, il mondo bancario. Come attesta il coinvolgimento di Antonio Patuel-
li, presidente dell’Associazione bancaria italiana, nelle consultazioni allargate. Un
21. «Next Generation EU. Cosa signifca per l’economia italiana?», Cassa depositi e prestiti, 1/8/2020;
«Ecco dove si investirà con il Recovery Fund», Start Magazine, 12/9/2020, bit.ly/3lBOHxi
22. A. MURATORE, «La “dottrina Draghi” sulle banche», Inside Over, 13/2/2021, bit.ly/2PdVwcz 71
IL PIANO È RIFARE LO STATO

mondo che Draghi conosce bene e nel quale punta in particolare su Intesa Sanpa-
olo, la maggiore banca privata nazionale, affnché coadiuvi Cdp. Nel burrascoso
2020 Intesa ha fatto oltre 3 miliardi di utile e concesso credito a famiglie e imprese
per 50 miliardi: ottime credenziali per un governo che brama il contributo di pri-
vati credibili e solidi alla guarigione (recovery) di un’economia malata.
Infne, le grandi imprese (ex) di Stato che albergano competenze, mezzi e
interesse a colmare i ritardi infrastrutturali del paese: Eni, Enel, Snam, Leonardo-
Finmeccanica, Telecom, Ferrovie dello Stato, Poste Italiane, Saipem, Fincantieri. Ma
anche grandi gruppi come Fca, Salini Impregilo, Atlantia (o quel che sarà), Edison,
i grandi armatori.
A questa più o meno santa alleanza in nome dell’interesse nazionale si cer-
cherà di demandare quanto possibile, almeno nell’immediato, l’avvio e la gestio-
ne delle grandi linee d’intervento del Recovery. Onde supplire all’insipienza e
alla farraginosità di una pubblica amministrazione mortifcata da decenni di acca-
nita incuria. Ma anche scongiurare, se possibile, il sabotaggio degli infniti livelli
di (s)governo – abilissimi nell’elidersi a vicenda – in cui si è andato frammentando
il nostro apparato istituzionale. Con la consapevolezza che a tali problemi tocca
mettere mano quanto prima. Insieme a quello del Mezzogiorno.
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Poi
Limiti di spazio e di pazienza del lettore impediscono di squadernare il libro
dei sogni di una compiuta riforma del governo territoriale e dell’amministrazione
pubblica. Quanto fnora esposto dovrebbe fornire, a contrario, alcune indicazioni,
per il cui dettaglio si rimanda alle relative fonti, ben più qualifcate del sottoscritto.
Basti qui sottolineare la cifra del «modello Draghi» che sembra delinearsi: non un
nuovo Iri, diffcilmente replicabile nell’industria moderna caratterizzata da rapida
obsolescenza tecnologica e da iperspecializzazione produttiva, incompatibili con
vasti e persistenti oligopoli statali. Piuttosto, un apparato di gestione economico-
fnanziaria tecnicamente competente e orientato da politiche volte a proteggere e
sviluppare il nucleo produttivo nazionale. Un sistema di coordinamento tra impre-
se, banche e istituzioni abbastanza stabile da garantire continuità, ma suffciente-
mente fessibile da adattarsi al mutevole panorama geoeconomico. E proprio per
questo in grado di reggere alla prova del tempo 23.
Un discorso più circostanziato merita il Sud. Perché sul recupero di questo
pezzo d’Italia – un terzo della popolazione, il 40% circa della superfcie – al resto
del paese si gioca la principale sfda interna del Recovery. Una partita d’incalcola-
bile valore geopolitico. La rinuncia di Roma e del Nord al Mezzogiorno non si
esplica unicamente negli indicatori di reddito, scolarità, occupazione. Ha anche un
tangibile, macroscopico risvolto fsico nel divario infrastrutturale. Non si tratta solo
23. ID., «Geopolitica, fnanza, classe dirigente: l’agenda strategica dell’Italia», Osservatorio globalizza-
72 zione, 27/5/2020, bit.ly/2PgzW6W
A CHE CI SERVE DRAGHI

di fare infrastrutture per attivare lo sfuggente moltiplicatore keynesiano in regioni


affitte dall’arretratezza economica. Si tratta innanzitutto di ricreare una dimensione
simbolica, prima che pratica, di appartenenza alla comunità nazionale.
La salma scelta dall’inconsolata madre Maria Bergamas nella basilica friulana
di Aquileia il 28 ottobre 1921, a simboleggiare i caduti della Grande guerra, diven-
ne il Milite ignoto ben prima di essere tumulata nel Vittoriano. Quando giunse a
Roma, il 2 novembre, era stata vista, pianta e onorata da centinaia di migliaia d’ita-
liani assiepatisi lungo i binari, a ridosso dei passaggi a livello e nelle stazioni (oltre
120) toccate dal treno che in quattro giorni l’aveva portata nella capitale attraver-
sando Udine, Treviso, Venezia, Padova, Rovigo, Ferrara, Bologna, Pistoia, Prato,
Firenze, Arezzo, Chiusi, Orvieto. «Dove il treno passava rapido, gruppi fermi (…)
salutavano, agitando i fazzoletti. Pareva che salutassero un essere caro tanto atte-
so» 24. La creazione del mito, che tale giunse all’Altare della patria, fu resa possibile
da un’infrastruttura: la ferrovia.
L’alta velocità ferroviaria consente oggi di andare da Roma a Milano in meno
di tre ore, da Roma a Torino in poco più di quattro. Da Roma allo Stretto di Mes-
sina ci vogliono ancora quasi cinque ore, da Roma a Palermo dodici. Chi dall’inter-
no della Basilicata, adiacente alla Campania, debba prendere una Freccia deve
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farsi almeno due-tre ore di auto fno a Salerno o a Napoli. Se su Google maps
vuole tracciare il percorso in treno, incappa nel messaggio: «Spiacenti, non siamo
riusciti a calcolare le indicazioni». Lo stesso che compare se s’interroga l’oracolo
sulla possibilità di andare dall’Europa a New York in pullman.
Malgrado l’oneroso ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, l’Italia
autostradale resta bisecata: al Centro-Nord una rete in concessione e a pedaggio,
al Sud un’unica dorsale semimontana più simile a una superstrada interregionale.
Che non di rado strappa ancora a chi la percorre il caustico commento: «Almeno
non si paga».
Nel 2019 solo due aeroporti meridionali superavano (di poco) i 10 milioni di
passeggeri l’anno: Napoli e Catania. Roma Fiumicino ne totalizzava 43 milioni,
Milano Malpensa 29, Bergamo-Orio al Serio 14, Venezia 11,5. Chi dall’aeroporto
di Palermo, quinta città italiana e capoluogo di una regione da cinque milioni di
anime, abbia mai fatto il tragitto – in auto, il «treno» si ferma in periferia – verso la
città, può evitare di leggere oltre. Eppure il Sud esibisce quattro scali aerei in Pu-
glia e altrettanti in Sicilia, tre in Calabria, idem in Sardegna, due in Campania e
uno in Abruzzo. Nota su quest’ultimo: Roma-Pescara (200 km) in auto due ore e
venti, in treno non meno di sei.
Il Sud va connesso: tra le sue parti e soprattutto al resto d’Italia. Il succitato
documento Svimez-Fondazione Per riassume egregiamente come.
Primo: costruendo una nuova, moderna ferrovia ad alta velocità (300-350
km/h) Salerno-Palermo per traffco passeggeri e treni merci leggeri. I convogli
24. Corriere della Sera, 30/10/1921, citato in A. MINIERO, «Da Versailles al milite ignoto. Rituali e reto-
riche della vittoria in Europa (1919-1921)», Roma 2008, Gangemi. 73
IL PIANO È RIFARE LO STATO

merci oltre 1.500 metri, duemila tonnellate e a sagoma alta resterebbero sulle vec-
chie linee.
Secondo: realizzando, fnalmente, il ponte autostradale e ferroviario sullo
Stretto di Messina, per la cui costruzione esistono ormai tecniche e materiali speri-
mentati con successo anche da imprese italiane (in molti casi all’estero), come Sa-
lini Impregilo, Pizzarotti, Rizzani de Eccher, Bonatti, Ghella, Cimolai 25. La valenza
di quest’opera – di cui c’è un progetto defnitivo e la cui travagliata gestazione
obbliga oggi lo Stato a indennizzare per 780 milioni il vincitore dell’appalto in caso
di cancellazione – è duplice. Simbolica: porre fne all’insularità della Sicilia, avvian-
done la trasformazione da frammento avulso del paese a suo fulcro geostrategico
nel cuore di un Mediterraneo in ebollizione. Pratica: tagliare drasticamente i tempi
di percorrenza ferroviaria, che con una linea siffatta e con il contestuale ripensa-
mento del trasporto su ferro siciliano permetterebbe di collegare Roma allo Stretto
in tre ore, Roma e Palermo in cinque, le maggiori città siciliane (Palermo, Catania,
Messina) in un’ora e mezza. Un mondo nuovo.
Terzo: incrementando «l’intermodalità di porti, retroporti e autostrade del ma-
re, per dare spazi e prospettive sui mercati domestici e intercontinentali alle Zone
economiche speciali (Zes) istituite nel 2017» 26. L’obiettivo dovrebbe essere la crea-
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zione di un Southern Range portuale (da contrapporre al Northern Range anseati-


co) nel quadrilatero Napoli-Bari-Taranto-Gioia Tauro, che funga da porta meridio-
nale non solo per l’Italia, ma in prospettiva per l’Unione Europea. Obiettivo da
perseguire ammodernando gli scali portuali con opere infrastrutturali come l’allun-
gamento delle dighe foranee, il consolidamento delle banchine, il rafforzamento
della rete viaria e ferroviaria a servizio della retroportualità. Interventi da estendere
anche al porto siciliano di Augusta, con Trieste in cima alla classifca italiana per
traffco energetico, integrandolo idealmente con Gioia Tauro (dall’enorme poten-
ziale container, ma da sottrarre alla ’ndrangheta) in un sistema portuale unifcato,
capace di generare sinergie ed economie di scala.
Quarto: potenziando la rete viaria, specie gli assi accessori alle reti Ten-t, per
colmare l’assenza di una viabilità sicura e rapida al di fuori dell’asse Salerno-Reggio
Calabria (che va reso tutto a tre corsie). Reti siffatte, compreso il ponte sullo Stretto,
sarebbero in gran parte a pedaggio, come nel resto d’Italia. L’obiezione – che gui-
da da sempre la politica del poco ma gratis – secondo cui un Sud povero può
permettersi solo infrastrutture da poveri lascia il tempo che trova. Perché è facil-
mente ribaltabile nel suo opposto: non si dà sviluppo senza reti infrastrutturali da
paese sviluppato. Il che vale, ovviamente, anche per le altre infrastrutture: idriche,
elettriche, di telecomunicazione, al Sud e nel resto d’Italia.
Quinto: riorganizzando il trasporto aereo, che va incentrato su pochi scali
medio-grandi – Napoli, Palermo, Bari, Catania, Olbia, Lamezia Terme – da collega-
re in modo rapido (strada, ferrovia) al resto del territorio. Intervento, questo, di cui

25. A. NORSA (a cura di) «Report 2020 on the Italian Construction, Architecture and Engineering Indu-
stry», Guamari, novembre 2020.
74 26. S. DE LUCA, D. DI DIO, C. MOCHI SISMONDI, op. cit.
A CHE CI SERVE DRAGHI

c’è gran bisogno anche in altre zone del paese, ma che al Sud risulta particolarmen-
te urgente stanti la scarsità di risorse locali e l’acuta necessità di non disperderle.
Si può liquidare tutto questo come l’ennesima agenda dei sogni, commentan-
do con smagato sarcasmo che sognare non costa niente. E invece no: i sogni co-
stano cari, se concreti e realmente perseguiti. Quanto al prezzo di lasciarli nel
cassetto, meglio non pensarci.

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75
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A CHE CI SERVE DRAGHI

NELLA PARTITA DEI VACCINI


L’ITALIA È IN FUORIGIOCO di Igor PELLICCIARI
La guerra degli aiuti nello scontro sulle profilassi contro il Covid-19,
tra priorità economica occidentale e strategia geopolitica orientale.
Gli autogol europei e l’approccio militare di Mosca e Pechino.
L’Ue teme più il vaccino russo del virus cinese. Gli errori di Roma.

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A
LLA COMPARSA IMPROVVISA DEL COVID-19,
da queste stesse pagine sottolineammo come in breve tempo le relazioni interna-
zionali sarebbero state dominate da fussi di aiuti in forma di assistenza sanitaria
d’emergenza scambiati dai singoli Stati 1. Fu una dinamica che segnò il prepotente
ritorno di politiche estere bilaterali, mossesi in autonomia a fronte di diffuse passi-
vità e inconsistenza del livello «multilaterale», incapace di reagire in tempi rapidi
agli inediti scenari apparsi.
Si prefgurava un nuovo capitolo di quella guerra degli aiuti osservata in anni
recenti su altri scenari (dalla Ucraina alla Siria o al Kosovo), con pochi Stati dona-
tori tradizionali a contendersi l’intervento in nuovi e inaspettati teatri di interesse
geopolitico. Come in Italia, paese del G7 diventato all’improvviso scenario di assi-
stenze in primis russe ma anche cinesi, americane e di una molteplicità di donato-
ri minori (come l’Albania) dalla forte visibilità geopolitica. Al protagonismo di sin-
goli Stati fece da contraltare la diffusa assenza operativa delle principali organizza-
zioni internazionali (dall’Onu e dalle sue agenzie alla Nato e alla stessa Ue), che
pure nei decenni precedenti avevano registrato una presenza capillare sul campo
nei principali fronti di crisi mondiali.
Durante tutta la prima fase epidemica (virus outbreak: febbraio-maggio 2020)
questi interventi di aiuto, benché motivati da obiettivi geopolitici, si sono caratteriz-
zati per attività basiche di aiuto emergenziale e forniture mediche, spesso di impatto
limitato e portatrici di ricadute per lo più simboliche. È stato un passaggio di grande
confusione logistica e istituzionale nel fusso del dare-avere degli aiuti sanitari, ag-
gravata dall’iniziale mancanza di informazioni sul nuovo virus e quindi dall’impreve-

1. I. PELLICCIARI, «Perché il Cremlino ha per ora vinto la gara degli aiuti a Roma», Limes, «Il vincolo in-
terno», n. 4/2020, pp. 85-95. 77
NELLA PARTITA DEI VACCINI L’ITALIA È IN FUORIGIOCO

dibilità della durata stessa dell’epidemia. In questo primo periodo iniziano a deline-
arsi ruoli e dinamiche di relazione tra donatori e benefciari che si riproporranno, in
forma più sofsticata, nel prosieguo dell’emergenza. Ovvero nella seconda fase (sta-
bilizzazione del virus in Europa e spostamento nel resto del mondo), da giugno a
settembre 2020, e nella terza (ritorno delle seguenti ondate nel Vecchio Continente),
dall’ottobre 2020.

Il vaccino come aiuto


La competizione dei donatori nella prima fase fece dunque presupporre che
di lì a poco essa si sarebbe spostata dagli interventi di mera assistenza emergenzia-
le alla ricerca di un vaccino contro il Covid-19, vera arma strategica per quanti ne
avessero pieno controllo. Simile per impatto sulle relazioni internazionali, con i
dovuti distinguo, all’ordigno nucleare dopo la seconda guerra mondiale.
Nell’occasione scrivemmo che «la Golden Card sarà nelle mani dello Stato do-
natore che riuscirà per primo a produrre (non necessariamente a elaborare) il
vaccino contro il Covid-19 e controllarne la distribuzione a paesi terzi. Sarà uno
strumento, potentissimo, di obbligazione politica; che ridefnirà zone di infuenza
e alleanze per gli anni a venire. Almeno fno alla prossima epidemia» 2. Frutto all’e-
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poca di una rifessione logica piuttosto che ideologica, questa previsione si è avve-
rata con sorprendente precisione nelle seguenti fasi epidemiche, in particolare nel
sottolineare l’importanza delle parole chiave «produzione» e «distribuzione» del vac-
cino. Ovvero nelle componenti che maggiormente sono state terreno di confronto
e negoziazione degli Stati sovrani impegnati a programmare le proprie campagne
di immunizzazione di massa.
Pur affermandosi come risorsa selettiva primaria cui tutti senza eccezione han-
no ambìto, il vaccino non ha ricoperto ovunque la stessa valenza di strumento
geopolitico. Si è infatti registrata una profonda variazione in termini di intensità ed
effcacia del suo uso per fni geopolitici tra paesi occidentali (soprattutto nell’Unio-
ne Europea) e orientali (in particolare Russia e Cina). Con una netta predominanza
dei secondi sui primi.
È opportuno isolare nel dettaglio le differenze strutturali tra il «vaccino occi-
dentale» e il «vaccino orientale» per comprendere perché alcuni paesi, quelli del
fronte Est, siano riusciti a trarre benefci geopolitici che sono andati ben oltre la
mera proflassi della propria popolazione, con considerevoli risultati al di fuori dei
confni nazionali. Con apparente paradosso, anche a scapito della vaccinazione
della propria popolazione, penalizzata dalla strategia geopolitica nazionale, o me-
glio imperiale. Quei paesi, in particolare Russia e Cina, si sono intestati vere e
proprie politiche degli aiuti basate sulla somministrazione del vaccino a paesi terzi.
All’origine della diversità tra il vaccino occidentale e quello orientale vi è stata
una profonda difformità nella morfologia stessa delle rispettive fliere produttive e
2. I. PELLICCIARI, «Covid-19. La guerra globale degli aiuti e il caso Italia», Formiche, 26/3/2020, bit.ly/2OPJIgN;
A. CAMPI (a cura di), DOPO. Come La pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione, le
78 relazioni internazionali, Soveria Mannelli 2020, Rubbettino.
A CHE CI SERVE DRAGHI

VACCINO OCCIDENTALE VS VACCINO ORIENTALE

VACCINO ECONOMICO OCCIDENTALE VACCINO GEOPOLITICO ORIENTALE


Privato (imprese) Pubblico (Stato)
Finalità originaria commerciale Finalità originaria geopolitica
Controllo politico indiretto Controllo politico diretto
Target nazionale: ripartenza economica Target nazionale: consenso politico
Target internazionale secondario (es. Covax) Target internazionale primario (es. aiuti)
Multilaterale (Unione Europea) Bilaterale attivo
Unilaterale protezionista (Usa, Regno Unito)

distributive. La principale differenza, da cui tutte le altre (riassunte nella tabella)


derivano a cascata, sta nella netta e inconciliabile dicotomia iniziale tra un approc-
cio rispettivamente privato-imprenditoriale del primo e uno pubblico-statale del
secondo.

Il vaccino geopolitico orientale


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Il vaccino geopolitico orientale nasce sotto una rigida matrice statale che ne
segna il destino dalla ricerca alla distribuzione. Può contare sul sostegno del gover-
no nazionale in Stati con economie pubbliche parastatali dominanti e, insieme, sul
know-how specializzato del settore Difesa, inaccessibile ai privati.
Primi vantaggi geopolitici di tale genesi sono stati sia la disponibilità di imme-
diate e quasi illimitate risorse pubbliche per la ricerca, svincolate da considerazioni
sui costi-benefci tipiche del mercato privato, sia la possibilità di godere di un ap-
poggio politico non mediato, dall’alto, e di maggiore libertà operativa. Russi e ci-
nesi hanno seguìto protocolli (spesso militari) molto più snelli di quelli occidentali.
Al contempo, meno burocratizzati e meno trasparenti rispetto ad autorità indipen-
denti di controllo.
Questo aspetto è stato fondamentale nella fase iniziale della ricerca e della
sperimentazione.
È il caso emblematico del vaccino Sputnik V, la cui impronta statale è stata
rimarcata già dal nome «sacro» scelto per battezzarlo (il primo satellite umano lan-
ciato nello spazio, orgoglio del positivismo tecnologico sovietico) e dal fatto che
sia stato Vladimir Putin in persona ad annunciarne la scoperta e la produzione
nell’agosto 2020.
L’operazione è stata vissuta e presentata dal Cremlino con lo stesso compiaci-
mento del primato raggiunto ai tempi della corsa allo spazio, durante la guerra
fredda. Come indica la scritta «il primo vaccino registrato contro il Covid-19» im-
pressa sui bancali che trasportano lo Sputnik V.
I pochi dati sperimentali rilasciati dalle autorità sanitarie russe – principale ar-
gomento usato all’epoca dagli scettici sulla effcacia della scoperta – fanno suppor- 79
NELLA PARTITA DEI VACCINI L’ITALIA È IN FUORIGIOCO

re ora che la fase iniziale di ricerca e prima elaborazione del vaccino sia partita da
unità militari di élite specializzate in operazioni batteriologiche, destinate a restare
segrete per defnizione. Il che per inciso sembra confermare l’altra tesi a suo tempo
avanzata su queste pagine, ovvero che la campagna russa di aiuti militari sanitari a
Bergamo e Brescia abbia permesso di raccogliere sul campo le primissime sequen-
ze virali disponibili fuori dalla Cina e ottenere biodati fondamentali per lo sviluppo
anticipato di Sputnik V. Che pure è arrivato, in fn dei conti, solo due mesi prima
dei vaccini di Big Pharma.
Condizionato all’origine dal settore pubblico, il vaccino geopolitico orientale è
monopolio dello Stato, che ne ha potuto disporre grazie al controllo politico diret-
to delle relative tattiche operative, a partire dalla defnizione dei cruciali piani di
distribuzione vaccinale, domestici e internazionali.
Sul piano interno, l’inizio in anticipo rispetto all’Occidente delle campagne na-
zionali di immunizzazione di massa si è caricato di un signifcato politico di rafforza-
mento del consenso verso il regime. A tal punto da porre questo obiettivo tra le f-
nalità primarie perseguite dal vaccino geopolitico orientale, non solo russo ma anche
cinese. Non va sottovalutata l’importanza giocata dal primato vaccinale nell’invertire
il calo di popolarità subìto da leadership (impersonate da Vladimir Putin e Xi Jinping)
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tanto più indebolite dal Covid-19 quanto più forte era il loro carisma pre-epidemico.
È tuttavia sul piano internazionale che il vaccino geopolitico orientale ha
espresso a pieno il suo potenziale. Determinante, se paragonato a quello quasi
inesistente del vaccino economico occidentale.
La matrice statale ne ha fatto uno strumento geopolitico fessibile, permetten-
do a Mosca e Pechino di muoversi come donatori e decidere a chi consegnarlo
prima a condizioni privilegiate. In ciò facilitate da prezzi politici (circa 10 dollari a
dose per quello russo) e dalla logistica minima richiesta per gestirlo. Seguendo una
tradizione consolidata, il vaccino è stato pensato come strumento di soft power da
indirizzare a paesi amici e/o alleati che ne facciano formalmente richiesta, esclusi-
vamente attraverso canali diplomatici. Micro o macro non importa nell’uno-vale-
uno delle relazioni tra Stati sovrani: un lancio dell’agenzia di stampa russa Interfax
del 19 febbraio 2021 titola che «la Repubblica di San Marino è il trentesimo paese
al mondo a prendere Sputnik V» 3.
Strumento di aiuto e quindi di condizionamento politico dei benefciari, per
Mosca il vaccino è risultato più effcace da smerciare di quanto lo siano state le
classiche risorse energetiche, della cui esportazione la fragile economia russa non
può fare a meno, a tal punto da doverlo, alla fne, indirizzare anche verso paesi
diplomaticamente ostili 4.
La scelta su dove orientare Sputnik V oltreconfne è dunque di pura politica
estera e viene presa a livello governativo, con il Russian Direct Investment Fund che

3. «San Marino stalo 30-j stranoj, zaregistrirovavšej vakcinu “Sputnik V”», Interfax, 19/2/2021, bit.
ly/2PiDnKx
4. M. SKALAMERA, «EU-Russia Cooperation in a Rapidly Changing Interregional Gas Market», Economics
80 and Policy of Energy and the Environment, vol. 2, n. 3, 2013, pp. 31-65.
A CHE CI SERVE DRAGHI

entra in campo solo in un secondo momento per occuparsi dei risvolti tecnici del
caso, senza poter deviare dalle indicazioni strategiche a monte. Che il target inter-
nazionale sia importante almeno, se non più, di quello domestico lo dimostra la
rigida separazione tra il procedere spedito degli accordi per l’esportazione dello
Sputnik V (oramai in più di cinquanta paesi) e l’andamento a rilento della campa-
gna nazionale russa di immunizzazione. Semmai, è interessante che il successo
oltreconfne del vaccino russo sia stato rilanciato dal mainstream di Mosca nel
tentativo di superare le diffuse reticenze interne nei suoi confronti, dovute al per-
sistere di antichi timori verso la sanità pubblica e alle critiche allo Sputnik V alimen-
tate dalla stessa opposizione extraparlamentare (si vedano le accuse di Aleksej
Naval’nyj al riguardo).
Alla luce di questa marcata identifcazione con la politica estera, l’aspetto fnale
da sottolineare nel vaccino geopolitico orientale è il suo collocarsi a pieno nelle
relazioni bilaterali dello Stato sovrano, che contribuisce a rafforzare ulteriormente
sul piano internazionale a scapito del cosiddetto «approccio multilaterale». Lo Sput-
nik V è stato inviato dalla Russia solo a quei paesi che lo hanno richiesto attraverso
canali governativi istituzionali, diplomatici. Non sono stati previsti nell’occasione
canali paralleli negoziali su base commerciale o di mediazione privata, tollerati in
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passato in altri campi come quello energetico. Che pure questo aspetto sia parte di
una precisa strategia lo dimostra la circostanza stessa per cui Russia e Cina, nono-
stante ripetuti interventi nel 2020 a difesa dell’Organizzazione mondiale della sanità
(Oms) dalle critiche mossele da Donald Trump, si sono ben guardate dal coinvol-
gere la dimensione multilaterale nei loro piani di distribuzione vaccinale all’estero 5.

Il vaccino economico occidentale


Speculare e opposto rispetto a quello orientale è stato il procedere del vaccino
economico occidentale, ispirato anche da logiche di carattere commerciale e con-
dizionato da primarie fnalità economico-sociali.
Le logiche commerciali sono riconducibili ai titolari dei brevetti e responsabili
primi della sua produzione, ovvero aziende farmaceutiche di grandi o grandissime
dimensioni. Soggetti privati imprenditoriali mossi da dichiarati obiettivi di margina-
lità e per defnizione scarsamente sensibili a logiche politiche. Le fnalità economi-
co-sociali sono invece sottolineate dagli stessi livelli governativi degli Stati occiden-
tali che, preoccupati dalla crisi sanitaria e dalla tensione diffusa derivante dalle
prolungate misure anticontagio, hanno scorto nel vaccino la via maestra per con-
ciliare ripresa economica e salute pubblica.
Uno degli aspetti più sorprendenti, in particolare nell’ambito dell’Unione Eu-
ropea, è l’assenza di dibattito politico iniziale sull’opportunità di una connotazione
così fortemente privatistica del vaccino. È stato un orientamento precoce, probabil-
mente dovuto alla emergenza e alla concitazione della prima fase epidemica, che

5. «Covid: Mosca offre 300 milioni di dosi di Sputnik V all’Africa», Adnkronos, 19/2/2021. 81
NELLA PARTITA DEI VACCINI L’ITALIA È IN FUORIGIOCO

tuttavia non ha considerato la tradizione politica e amministrativa europea di ren-


dere pubblici i servizi essenziali per la comunità.
Questa convinta collocazione nel settore privato ha condizionato fortemente
in negativo il controllo governativo sulla produzione del vaccino nonché su un suo
eventuale, futuro uso geopolitico.
In primo luogo, le leadership occidentali non hanno potuto intestarsi il meri-
to della scoperta del vaccino, il che le ha escluse da quell’effetto di aumento del
consenso e della popolarità sul piano interno osservato con il vaccino geopolitico
orientale.
Ma l’impatto negativo più evidente dello status privato e depoliticizzato del
vaccino sui paesi occidentali sta nel mancato sviluppo delle rispettive politiche
estere – l’americana, la britannica ma anche le europee – in materia di aiuti sanita-
ri. Senza un controllo diretto sul processo produttivo e dipendendo interamente
dalle forniture di Big Pharma, il livello istituzionale occidentale è stato interamente
assorbito da negoziazioni, stesura e sottoscrizione di contratti utili a garantirsi le
dosi necessarie per i propri bisogni domestici. Questo ha messo in primo piano il
target delle campagne di vaccinazione nazionali e oltremodo indebolito, per carenza
di dosi provenienti dalle aziende farmaceutiche, strategie internazionali di aiuto del
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vaccino verso paesi terzi (si veda la debole campagna multilaterale Covax), sul mo-
dello del vaccino geopolitico orientale.
Alcuni attori come Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele hanno peraltro interpre-
tato questo orientamento con una politica pragmatica unilaterale di chiusura delle
proprie frontiere, che ha loro permesso di governare con effcacia (almeno) le ri-
spettive campagne di vaccinazione nazionale.
Più complesso e decisamente problematico, anche sul versante domestico, è
stato l’approccio dell’Unione Europea, che nel ruolo passivo di negoziatore dell’ac-
quisto delle dosi da redistribuire ai propri Stati membri ha confermato la crisi ope-
rativa della dimensione comunitaria manifestatasi durante la prima fase epidemica.
In questa occasione, Bruxelles ha nuovamente dimostrato rifessi lenti nei momen-
ti di emergenza, procedure amministrative ridondanti e a volte autoreferenziali,
incapacità tecnica nel negoziare prima e fare rispettare poi le consegne degli ap-
provvigionamenti concordati con Big Pharma.
L’ineffcacia dell’Ue nel ridistribuire il vaccino al proprio interno si è trasfor-
mata in aperta delegittimazione politica nel momento in cui alcuni Stati membri
hanno iniziato a muoversi in autonomia, accordandosi bilateralmente con i pro-
duttori, talvolta russi compresi, senza coinvolgere Bruxelles. Su questo piano, an-
cora più grave della scelta di paesi come Germania e Austria di acquistare in auto-
nomia milioni di dosi direttamente dai produttori è stato il caso di Ungheria e
Slovacchia, primi Stati dell’Ue a decidere unilateralmente di adottare il vaccino
geopolitico orientale. Ciò ha creato un evidente effetto «cavallo di Troia» della ge-
opolitica vaccinale russa nell’Ue e un precedente imbarazzante per Bruxelles e i
restanti paesi, obbligati a giustifcare la resistenza all’ingresso del vaccino orientale
82 davanti alle proprie opinioni pubbliche, a esso invece in larga parte favorevoli. Gli
A CHE CI SERVE DRAGHI

argomenti tecnici usati dall’Ema al riguardo e le consuete complesse procedure


giuridico-burocratiche per le autorizzazioni non hanno fatto altro che rafforzare
l’impressione in molti che i timori europei sul vaccino orientale siano più di ordine
geopolitico che sanitario.

La corsa in solitaria del vaccino orientale


Accettare il vaccino geopolitico orientale, per di più sotto una forte pressione
popolare, è un passo non facile per i paesi dell’Ue, cui si prospettano problemi di
ordine politico interno e di relazioni internazionali. Nell’immediato, signifcherebbe
diretta ammissione del fallimento del modello privato-imprenditoriale del vaccino
economico occidentale multilaterale a vantaggio di quello pubblico-statale del vac-
cino geopolitico orientale bilaterale e delle relative politiche espansive degli aiuti,
quindi delle infuenze.
Il che non passerebbe senza dolorose conseguenze per la già scarsa legittimi-
tà delle istituzioni europee, minate dall’incapacità di imporre una linea comune
agli Stati membri sui principali temi epidemici (dall’immigrazione al turismo e alla
stessa difesa di Schengen). Inoltre, poiché lo Sputnik V non solo è russo ma è
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letteralmente «della Russia», un suo utilizzo formale da parte europea signifchereb-


be riconoscere a Mosca il ruolo di Stato donatore. Poiché a livello internazionale
non vi sono precedenti di benefciari che mantengano in vita ritorsioni nei con-
fronti dei propri donatori, ne risentirebbe la politica sanzionatoria europea verso il
Cremlino, che probabilmente verrebbe ridimensionata rispetto alla formulazione
attuale.
Effetti simili si sono già intravisti quando il ministro degli Esteri russo Sergej
Lavrov, con inusuali toni, ha minacciato il suo «omologo europeo» Josep Borrell di
interrompere ogni collaborazione in caso di nuove sanzioni per la vicenda di Aleksej
Naval’nyj. E Bruxelles, non a caso, ha risposto introducendo misure deboli e pura-
mente simboliche. Nulla a che vedere con quelle deliberate in occasione della crisi
ucraina o del caso Skripal’.
Mentre il vaccino orientale assedia l’Ue e ammicca alle opinioni pubbliche oc-
cidentali confuse e impaurite da un mainstream con troppe informazioni e pochi
dati certi (si vedano i timori su AstraZeneca o le notizie sulla produzione decentrata
di Sputnik V in Italia), la vera partita geopolitica è nei paesi prossimi all’Unione. Nel
vasto spazio che va dall’Africa all’Asia centro-occidentale passando per i Balcani. È
qui che si sta facendo sentire l’assordante assenza di una politica degli aiuti vaccina-
li da parte di coloro che sono stati a oggi i principali donatori nell’area, ovvero pae-
si dell’Ue e Stati Uniti. Presi come sono dal cercare, bene che vada, di immunizzare
la propria popolazione, essi hanno rinunciato ad agire nel momento dell’emergenza
in paesi di loro interesse, dove sono stati protagonisti assoluti.
Gli spazi vuoti lasciati sono stati prontamente occupati da donatori bilaterali del
vaccino pubblico di Stato (ovvero geopolitico orientale) capeggiati da Russia e Cina,
liberi di ragionare in termini puramente diplomatici e capitalizzarne i risultati geopo- 83
NELLA PARTITA DEI VACCINI L’ITALIA È IN FUORIGIOCO

litici. Si moltiplicano i casi specifci – clamoroso quello di Serbia e Moldova – dove


l’arrivo in massa del vaccino russo e cinese sta ridisegnando aree di infuenza geo-
politica a vantaggio di Mosca e Pechino e a scapito di Bruxelles e Washington.
Sono interventi della terza fase epidemica facilitati dai percorsi già tracciati
dagli stessi donatori e benefciari durante la prima fase. Il prossimo stadio vedrà i
nuovi donatori istituzionalizzare la loro presenza nei paesi assistiti, con futuri pro-
grammi di aiuti più strutturati, prodromici di una presenza rafforzata sul campo,
destinata a durare 6. Il che sottolinea ancora una volta come i paesi del vaccino
economico giochino nel sistema internazionale una partita di rimessa, in difesa,
rispetto a quella espansiva dei paesi del vaccino geopolitico. Peraltro, in mancanza
di un vero competitore occidentale nella partita, tecnicamente non si può parlare
di guerra degli aiuti quanto piuttosto – a oggi – di corsa in solitaria russo-cinese.
È uno scenario che promette sviluppi futuri che a loro volta incideranno sulla
qualità delle relazioni fra i soggetti coinvolti. Se, come da più parti si sta ipotizzan-
do, il medio-lungo periodo riserva molteplici mutazioni virali e la conseguente
necessità di prevedere continue campagne di vaccinazione annuali se non seme-
strali della popolazione, l’approvvigionamento delle dosi necessarie resterà una
priorità trasversale dell’agenda di governo di tutti i paesi. Il vantaggio competitivo
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dei donatori del vaccino geopolitico orientale sarà di poter contare su accordi già
stipulati e reti di distribuzione fn d’ora attive nei paesi benefciari, nonché dei nu-
merosi centri di produzione farmaceutica decentrata che già si stanno predispo-
nendo per fare fronte all’enorme richiesta di vaccini.
È tuttavia probabile che per allora si passerà su scala globale a un eccesso di
disponibilità di dosi offerte da molteplici produttori e che gli Stati Uniti, risolta la
priorità dell’immunizzazione interna, si porranno il problema di riconquistare lo
spazio perso fnora. Organizzando la controffensiva. Questo li porterebbe a pro-
muovere politiche estere e commerciali volte a limitare l’estensione della sfera
d’infuenza del vaccino geopolitico orientale, disincentivandone l’uso presso paesi
amici e alleati a vantaggio di propri sieri. Nel qual caso potremmo tornare a parla-
re di vera guerra degli aiuti sul vaccino.

Il caso italiano: gli errori del beneficiario ricco


Come avvenuto in occasione del virus outbreak, anche per le fasi seguenti del
Covid-19 uno sguardo al caso italiano aiuta a trovare conferma nello specifco dei
principali trend rilevabili nel contesto generale. Questo non tanto per le politiche
che Roma ha messo in campo per combattere l’epidemia, quanto perché l’Italia è
stata l’iniziale «scenario accessibile» del virus fuori dalla Cina. Prima che si estendes-
se al resto d’Europa. Quello italiano è stato quindi il primo terreno di confronto/
scontro tra diversi approcci, a volte in netta contrapposizione, da mettere in campo
per fronteggiare l’inedita crisi.
6. A. TSYGANKOV, Russia’s Foreign Policy: Change and Continuity in National Identity, New York 2016,
84 Rowman & Littlefeld.
A CHE CI SERVE DRAGHI

Nonostante il primato cronologico, l’Italia a oggi non ha defnito una consoli-


data strategia di gestione dell’emergenza, replicabile in futuro. Tra i paesi che
hanno abbracciato il vaccino economico occidentale, privato, sembra anzi avere le
minori possibilità di affrancarsi dalla dipendenza cronica da scelte di redistribuzio-
ne degli approvvigionamenti di vaccini prese da altri, da Bruxelles a Berlino.
Per comprenderne il motivo, è necessario analizzare il coniugarsi in Italia, nel
corso delle tre fasi epidemiche, dei principali problemi emersi e soprattutto il peso
di alcune scelte (non) fatte per affrontarli.
Il primo riguarda lo scontro fra politica e amministrazione. Tra i principali
effetti del Covid-19 vi è stato l’indebolimento delle leadership entrate forti nell’e-
pidemia (Angela Merkel e Donald Trump i casi più eclatanti) e per converso il
rafforzamento delle deboli, come quella di Giuseppe Conte. Con una vita parla-
mentare bloccata, la popolarità di Conte durante la fase emergenziale è cresciuta
grazie al suo nome nuovo, quasi apartitico, e a un accesso monopolistico ai me-
dia, proprio mentre si sono registrate audience altissime tra gli italiani toccati co-
me mai prima nel privato dalle scelte della politica e in attesa di comunicazioni al
riguardo. Il problema principale è stato non capitalizzare questa posizione favo-
revole per rafforzare l’azione dell’esecutivo che è rimasta a lungo incerta, attendi-
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sta, ostaggio delle amministrazioni ministeriali di riferimento 7. Ancora una volta


l’impressione è che a Roma lo Stato profondo sia concentrato nel sottobosco
amministrativo e che governo e potere siano due categorie separate 8. Resta l’in-
cognita attuale: Mario Draghi subirà il processo inverso, indebolendosi proprio
per il fatto di essere entrato nel governo da fgura carismatica sostenuta da una
vasta maggioranza governativa?
Il secondo riguarda il cosiddetto metodo «multilaterale». In crisi da tempo, il
«multilaterale» ha accentuato i suoi difetti con il Covid-19. Nessuna delle nuove
questioni emergenziali è stata risolta in una delle numerose piattaforme a dispo-
sizione e ancora una volta le organizzazioni internazionali non hanno agito da
istituzioni politiche autonome. È inevitabile, perché non lo sono. Ma nella retori-
ca corrente le si spaccia per tali. Incapaci di governare i processi, le organizza-
zioni internazionali si limitano ad amministrare (male) il presente operando
all’interno degli spazi assegnati dagli azionisti di riferimento, ovvero gli Stati che
le hanno battezzate. L’epidemia ha fatto emergere con chiarezza che, dietro a
ridondanti nomi che evocano governance mondiali o europee, si celano realtà
lucenti ma burocratizzate e vuote. Tra gli esempi riguardanti l’Italia e il suo rap-
porto con le strutture dell’Unione Europea va ricordata l’estenuante trattativa sul
Recovery Fund Plan (alias Next Generation Eu), che resta peraltro un’incognita
per il futuro, e la catastrofca gestione della negoziazione segreta prima e redistri-
buzione poi dei vaccini tra gli Stati membri, da cui Roma è uscita particolarmen-
7. M. GNES, «Le misure nazionali di contenimento dell’epidemia da Covid-19», Giornale di diritto am-
ministrativo, n. 3/2020; N. PICCOZZI; F. QUAIA, N. GALLIANI, «La mappatura degli atti dell’emergenza
Covid-19», www.contabilita-pubblica.it, 30/5/2020.
8. G. SALVAGGIULO, Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto», Milano 2020, Feltrinelli. 85
NELLA PARTITA DEI VACCINI L’ITALIA È IN FUORIGIOCO

te penalizzata. Quanto al rapporto con l’Oms, basti richiamare l’emblematico


scandalo della pressione esercitata dai vertici dell’organizzazione per cambiare
un rapporto tecnico interno critico sulla gestione dell’Italia nella prima ondata
epidemica 9. Nonostante questo, Roma ha confermato l’impressione di puntare
esclusivamente sull’Ue, dove pure non ha giocato un ruolo di primo piano e si è
affdata al paternalismo tedesco, sperando che non inferisse troppo sulle debo-
lezze strutturali italiche. È presumibile che, forte di una maggiore esperienza (e
credibilità) europea, Draghi sarà più effcace di Conte nel rapporto con Berlino.
Anche se già dal primo Consiglio europeo cui ha partecipato come capo del go-
verno italiano si è visto che una cosa è il monito del presidente della Banca
centrale europea, un’altra quella del presidente del Consiglio dei ministri della
Repubblica Italiana.
Il terzo problema riguarda il rapporto fra centro e periferia. Anche se le relazio-
ni bilaterali e non mediate tra i singoli Stati sono tornate ad avere – due secoli dopo
– un’importanza da Congresso di Vienna, ogni capitale ha sperimentato a sua volta
la diffcoltà di trasmettere alle proprie periferie regionali le linee di comando per il
contenimento del virus. Circostanza vissuta con particolare intensità in Italia, dove
da decenni vige la coesistenza imperfetta e contraddittoria di un sistema amministra-
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tivo quasi centralista con uno politico quasi decentrato. Parafederale 10. Lo ha dimo-
strato al meglio l’incapacità di mettere in piedi, tra decine di strutture commissariali
e task force centrali e regionali (quando non comunali), un coordinamento effcace
nazionale sulle questioni più basiche, tanto da doversi affdare alla fne alla logistica
dell’Esercito, incarnata dal generale Francesco Paolo Figliuolo. Scelta che nuova-
mente non sembra funzione di una strategia ma frutto di mancanza d’alternative.
Il quarto tema concerne il dilemma salute/economia. La scelta tra tutela della
salute pubblica e difesa dell’economia nazionale è la questione ultima cui sono
riconducibili i dilemmi prodotti dall’epidemia, con poche reali soluzioni strategiche
promosse dai governi e la sensazione che questi procedano con improvvisazione
e arbitrarietà, a seconda della pressione del momento 11. Roma è intenta a limitare
gli impatti devastanti del blocco delle attività e ritardare oltre il lecito le chiusure
selettive di quelle commerciali (rimandando addirittura quelle industriali), giocan-
do scommesse d’azzardo spesso perse.
I tradizionali fenomeni italiani derivanti dall’incrocio fra basso nation building
e diffuso corporativismo di migliaia di categorie professionali, che si muovono in
ordine sparso a difesa dei propri interessi, hanno aggravato le conseguenze dell’im-
mobilismo decisionale del governo. A fronte però di una continua narrazione isti-
tuzionale con richiami a un non meglio precisato «modello italiano nella gestione
dell’epidemia», nonostante i drammatici numeri dell’impatto del virus in Italia dica-
no tutt’altro 12. Il sollievo con cui la pubblica opinione ha generalmente salutato il

9. J. PETTER, A. PUGLIA, «Erst kam das Virus, dann das Vertuschen», Der Spiegel, 22/3/2021, bit.ly/3chjoFj
10. F. BONINI, Storia costituzionale della Repubblica, Roma 2020, Carocci.
11. L. RICOLFI, La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, Milano 2021, La nave di Teseo.
86 12. Cfr. i dati riportati dalla Johns Hopkins University, bit.ly/3tIuMjh e bit.ly/3c8QerD
A CHE CI SERVE DRAGHI

nuovo corso di comunicazione sobria e scarna di Draghi rivela l’eccesso di annun-


ci retorici autoreferenziali che si era raggiunto con il governo precedente.
Infne, le questioni intrecciate di aiuti, mascherine e vaccini. «Aiuto» è stato uno
dei termini in assoluto più usati durante la prima fase epidemica, quando è com-
parso lo scenario inedito di un «benefciario ricco» (l’Italia) sul quale si sono messi
in competizione donatori del calibro di Russia, Cina e Usa, mentre partiva la cam-
pagna di assistenza mossa da Mosca.
È stata una fase all’epoca ampiamente analizzata che tuttavia, alla luce di nuo-
ve informazioni di cui disponiamo oggi, ci suggerisce due osservazioni aggiuntive,
utili per comprendere alcune dinamiche odierne del caso nostrano.
La prima riguarda il muoversi autonomo negli approvvigionamenti tipico del
«benefciario ricco» italiano. Benché destinataria degli aiuti di numerosi donatori,
Roma non solo non li ha coordinati (accade spesso anche in altri scenari di inter-
vento) ma si è trovata nella situazione rara per un benefciario di disporre, a pre-
scindere dall’assistenza ricevuta, di proprie preesistenti amplissime risorse fnanzia-
rie, tipiche di un paese del G7, per mettere in atto azioni di difesa dal virus. È qui
che vanno cercate le responsabilità politiche e amministrative di errori gravissimi
che – è stato dimostrato 13 – hanno contribuito al pesante bilancio di vittime regi-
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strato in Italia. Esse hanno riguardato anzitutto l’approccio confuso relativo agli
approvvigionamenti di dispositivi di protezione (mascherine, guanti, visiere), de-
mandati dalla parte pubblica a improvvisati soggetti privati spesso non all’altezza
del compito per quanto riguarda la qualità dei prodotti, rivelatisi troppo spesso
ineffcienti o addirittura pericolosi per la salute. Gravi conseguenze hanno avuto
anche le deroghe ai controlli consentite dal decreto Cura Italia 14 agli organi a ciò
preposti, che avrebbero dovuto vigilare impedendo a quei dispositivi di accedere
entro i confni nazionali. Infne, alle ingentissime somme per l’acquisto di questi
dispositivi (circa 4 miliardi di euro) hanno fatto da contraltare i deboli fnanziamen-
ti alla ricerca per un vaccino anti-Covid (circa 30 milioni di euro) concessi senza
curare l’aspetto della lealtà contrattuale delle aziende che ne hanno benefciato,
lasciate libere da ogni vincolo verso il fnanziatore.
La seconda considerazione è di ordine geopolitico e spiega perché, nonostan-
te Roma abbia con facilità richiesto l’aiuto russo (peraltro militare) nella prima fase
epidemica, nella terza abbia faticato a fare lo stesso con lo Sputnik V nonostante
accelerazioni «dal basso» (come l’inizio della sperimentazione del vaccino russo
iniziata allo Spallanzani di Roma) e la forte propensione popolare al riguardo (co-
me dimostra la diffusa simpatia dell’opinione pubblica italiana per la Repubblica di
San Marino, che ha adottato il vaccino di Mosca 15).
13. M. MARTINA, «Effetti collaterali dell’emergenza Covid-19: le deroghe per l’acquisto delle mascherine
e dei banchi a rotelle», (tesi di laurea), Università degli Studi di Urbino, a.a. 2019-20.
14. Cfr. in particolare gli artt. 5, 15 e 16 del decreto legge 18 del 17/3/2020.
15. «European micronation San Marino begins administering Russia’s Sputnik V vaccine», NBC News,
19/3/2021, bit.ly/3scNmQg; I. PELLICCIARI, «Il vaccino è sovrano. Perché Sputnik V è arrivato a San
Marino», Formiche 24/2/2021, bit.ly/31b8KJQ 87
NELLA PARTITA DEI VACCINI L’ITALIA È IN FUORIGIOCO

Con il cambio sia del governo a Roma sia del presidente a Washington sono
evidentemente mutate le condizioni geopolitiche che nel 2020 avevano portato
l’amministrazione di Donald Trump, informata dal governo Conte, ad autorizzare
tacitamente l’intervento russo in Italia.
Con la vicenda del vaccino russo a lungo bloccata ma anche con poche cer-
tezze sui restanti approvvigionamenti (su tutti quelli di AstraZeneca), Roma è rima-
sta saldamente ostaggio del vaccino economico occidentale «multilaterale» e ha
proceduto nella sua campagna di immunizzazione nazionale a orizzonte quotidia-
no. Senza una prospettiva certa nei tempi e nei numeri delle somministrazioni di
qui a fne 2021.
Intanto il governo aveva formalmente istituito la giornata del 18 marzo come
ricorrenza annuale per il ricordo delle vittime del Covid-19. Atto simbolico tipico
del nostro paese, che prima di programmare un piano di vaccinazione nazionale
ne aveva già sviluppato il logo, affdato a un architetto.

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88
A CHE CI SERVE DRAGHI

‘Lo Stato arcipelago


non funziona’
Conversazione con Sabino CASSESE, giudice emerito della Corte costituzionale
a cura di Lucio CARACCIOLO e Fabrizio MARONTA

LIMES Il governo di Mario Draghi sta cambiando la costituzione materiale del paese?
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CASSESE Direi piuttosto che la sta riportando nell’alveo della costituzione formale.
Intanto, per il modo in cui è avvenuta l’investitura. Non già con la scelta del presi-
dente del Consiglio da parte di due vicepresidenti a capo dei maggiori partiti della
coalizione, come accaduto con Conte, ma con una designazione operata dal presi-
dente della Repubblica e confermata in parlamento dai partiti, come previsto dalla
nostra Carta fondamentale. Poi per lo strumento normativo adottato: non il decreto
del presidente del Consiglio dei ministri (dpcm), usato da questo governo solo una
volta all’esordio quando invece era prassi costante nell’altro, bensì il decreto legge,
soggetto a decadenza se non convertito in legge dal parlamento.
Ancora, per la natura delle nomine chiave. Penso al generale Francesco Paolo Fi-
gliuolo, tra i maggiori esperti italiani di logistica: una scienza sviluppatasi principal-
mente nel settore militare, data la necessità degli eserciti di movimentare truppe,
sfamarle, alloggiarle, rifornirle di armi e munizioni. Di certo, vaccinare decine di
milioni di italiani è un rilevante sforzo logistico. Anche questa nomina rimanda
alla nostra costituzione: si sceglie un esperto nell’ambito degli apparati statali e lo
si incarica di svolgere il compito designato, specie se di eccezionale portata.
Ci sono inoltre dati di stile, in particolare l’idea che il governo agisca mediante i
fatti, non le parole, da cui il ridimensionamento dell’aspetto comunicativo.
LIMES Vaccini e Piano nazionale di ripresa e resilienza mettono nuovamente sotto
i rifettori il rapporto centro-periferia. Con Draghi è iniziata una fase di riaccentra-
mento delle responsabilità e dei poteri?
CASSESE In risposta a questa emergenza sanitaria senza precedenti è stata data alla
costituzione un’interpretazione diversa da quella che il suo dettato richiede. L’artico-
lo 117 della Carta stabilisce che la «tutela della salute» è materia su cui Stato e Regio-
ni concorrono, ovvero legiferano insieme. Ma nello stesso articolo, lettera q, si affer- 89
‘LO STATO ARCIPELAGO NON FUNZIONA’

ma che per la «proflassi internazionale» la competenza è esclusivamente statale. Sin


dall’inizio si è deciso di far ricadere la gestione dell’epidemia nella fattispecie sanita-
ria, non in quella della proflassi internazionale. Ritengo che tale scelta sia stata
frutto di due circostanze: l’estrema debolezza politica di Giuseppe Conte e l’astuto
calcolo che lo ha indotto a interloquire direttamente con Luca Zaia e Attilio Fontana,
presidenti leghisti di Veneto e Lombardia, per aggirare Matteo Salvini. Il risultato è
un’Italia ad Arlecchino: il governo centrale ha dovuto contrattare ogni mossa con le
Regioni, le quali hanno avuto buon gioco a rivendicare poteri e responsabilità. Salvo
negarle quando sono entrate in ballo le procure. Tuttavia, con la sentenza 37/2021
dello scorso 24 febbraio la Corte costituzionale ha ribadito ciò che aveva detto
vent’anni fa, prima che il titolo V fosse modifcato: la proflassi internazionale è ma-
teria di esclusiva competenza statale, com’è logico di fronte a eventi che anche i
maggiori paesi faticano ad affrontare. Ovviamente lo Stato opera tramite soggetti
territoriali, comprese le Regioni, ma in questa circostanza gli enti locali sono meri
soggetti attuatori, che si muovono con criteri, direttive e standard nazionali. Eccetto
quando le loro carenze obbligano il governo a intervenire direttamente, come fatto
da Figliuolo in Calabria per il dispiegamento della campagna vaccinale.
LIMES Per i presidenti di Regione che si autoproclamano «governatori» il declassa-
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mento di fatto a prefetti non parrebbe boccone facile da ingoiare.


CASSESE Specie se condito da non troppo recondita sfducia. I dpcm dell’esecutivo
Conte ribadivano a ogni piè sospinto che le misure erano prese «d’intesa con le
Regioni», salvo tirare in causa espressamente i prefetti nelle parti relative all’attua-
zione concreta degli interventi.
LIMES Anche alla luce di queste dinamiche, è opportuno rimettere mano in tempi
brevi al titolo V della costituzione?
CASSESE Se c’è un’impresa in cui non mi imbarcherei adesso è la riforma del titolo
V, perché rischierebbe di fare ulteriore confusione. Ripeto: i problemi non deriva-
no da ciò che la costituzione dice in materia di sanità, ma da come è stata interpre-
tata. Correggendo l’interpretazione, è lecito sperare che alcuni confitti e farragino-
sità si attenuino. A monte c’è poi una questione più generale: ci vorrebbe un Putin
per riportare la sanità sotto il controllo statale. Il grosso dei bilanci regionali, due
terzi nel caso lombardo, se ne va in spese sanitarie. Non a caso, il potere cliente-
lare delle Regioni sta tutto o quasi nella sanità, perché grazie allo spoils system in-
trodotto da Bassanini a fne anni Novanta il nostro sistema sanitario è dominato dal
political patronage. Diffcilmente le Regioni cederebbero di buon grado le compe-
tenze sanitarie, privandosi così della facoltà di creare e mantenere consenso.
LIMES C’è chi sostiene che con Draghi l’Italia si stia avviando a una sorta di Quinta
Repubblica francese, un sistema d’impronta presidenziale.
CASSESE Non credo. Il presidente della Repubblica italiano è notoriamente il regista
delle crisi: più numerose e gravi sono, più la presidenza deve intervenire. Tolto
questo, fatico a immaginare Consigli dei ministri svolti al Quirinale, sulla scia di
quanto avviene in Francia dove le riunioni di gabinetto non si fanno all’Hôtel Ma-
90 tignon, ma all’Eliseo.
A CHE CI SERVE DRAGHI

LIMES Mario Draghi è stato defnito un tecnico, ma anche un politico. Quale descri-
zione gli si addice di più?
CASSESE Nell’Atto quarto del Riccardo III, Shakespeare ci rammenta che noi siamo
il nostro passato. Draghi ha speso dieci anni al Tesoro come direttore generale, sei
anni alla guida della Banca d’Italia, otto anni alla testa della Bce. E non sarebbe un
politico? Il mio maestro Massimo Severo Giannini distingueva tra la politica dei
partiti e la politica: due dimensioni diverse, che in Italia tendiamo a confondere.
Non si può identifcare la politica unicamente con i partiti, cui attribuiamo un ruo-
lo monopolistico che non hanno e non hanno mai avuto. Ho lavorato per vent’an-
ni con Carlo Azeglio Ciampi e posso assicurare che per fnezza, astuzia e capacità
di trattare con le persone stava una spanna sopra il grosso dei parlamentari di al-
lora. Tutte qualità che non aveva maturato in un partito politico.
LIMES Esiste un governo in Italia? e L’Italia: una società senza Stato? sono i titoli di
due suoi libri, usciti rispettivamente nel 1980 e nel 2011. Dovendo articolare oggi
una risposta a questi interrogativi, cosa direbbe?
CASSESE La risposta sta nei fatti. Primo: la nostra nazione, a centosessant’anni dall’U-
nità, resta divisa in due. Circostanza che stride con il ritmo della riunifcazione tede-
sca, ancora incompiuta ma ben più rapida. Secondo: il nostro governo, inteso come
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vertice dell’apparato statale, è cronicamente debole perché presiede uno Stato ad


amministrazione «disaggregata». Ho coniato questa espressione in antitesi a quella di
Giannini, che parlava di amministrazione «compatta». Prendiamo ad esempio l’istru-
zione: la funzione risiede tutta nell’omonimo ministero? Niente affatto: ci sono l’An-
vur e l’Invalsi, tanto per fare due esempi. O prendiamo il ministero delle Infrastruttu-
re e dei Trasporti: è abitato da tecnici solo per un terzo, il resto sono amministrativi.
LIMES Chi garantisce allora che le strategie di Draghi per uscire dall’emergenza
vengano attuate?
CASSESE Nessuno. Purtroppo, non vi sono garanzie. Una pubblica amministrazione
che manca di catene di comando e di snodi fondamentali opera come un arcipela-
go. Non è struttura piramidale né reticolare, per riprendere l’immagine di François
Ost e Michel van de Kerchove. Due modelli diversi ma adatti alla gestione organica
del potere, con forme più o meno spinte di delega. L’arcipelago, viceversa, evoca
un apparato atomizzato, disaggregato appunto, che mal si presta a eseguire diretti-
ve altrui e a elaborare procedure proprie, perché difetta di gerarchia e continuità.
LIMES Tra i motivi di questo perdurante defcit di Stato c’è l’idea, coltivata negli
scorsi decenni, che a tale mancanza avrebbe supplito l’Unione Europea?
CASSESE No, perché credo che l’Unione Europea e i molteplici legami internaziona-
li forgiati negli anni con Nazioni Unite, Banca mondiale, Fmi e organizzazioni in-
ternazionali come quella del commercio, del lavoro o della sanità abbiano, seppur
in modo episodico e incrementale, introdotto buone pratiche nel nostro paese. È
dunque in atto un processo di apprendimento, che tuttavia non viene sistematizza-
to, se non in minima parte. L’esempio più lampante è il Mef: il fatto che negli anni
al ministero dell’Economia e delle Finanze si siano avvicendate fgure eccellenti
come Draghi, Siniscalco, Grilli o Ciampi non è dovuto al caso, ma alla necessità di 91
‘LO STATO ARCIPELAGO NON FUNZIONA’

gestire in modo accorto, competente e tempestivo i mille vincoli di fnanza pubbli-


ca impostici da soggetti esterni, stante la nostra problematica situazione debitoria.
L’eccellenza della struttura è un risultato innegabile, a cui però siamo stati costretti.
Un discorso simile vale per i vertici delle nostre Forze armate, che a differenza di
molte alte sfere dell’amministrazione civile parlano inglese: gente di mondo, neces-
saria all’integrazione nel Patto Atlantico. L’esposizione ha insomma ricadute positi-
ve, ma queste persone e strutture si ritrovano poi isolate, eccezioni nella macchina
statale disaggregata di una nazione incompiuta.
LIMES L’Italia è dunque irriformabile?
CASSESE Alla base delle nostre diffcoltà amministrative e gestionali vi sono realtà
storico-antropologiche da cui non si può prescindere. In primo luogo, non abbia-
mo avuto la Riforma protestante. Da noi il concetto weberiano di Beruf, cioè di
professione e di dedizione alla stessa per vocazione, non si è mai radicato. In se-
condo luogo, le grandi scuole dove i paesi hanno imparato a gestire la macchina
statale sono state la caserma e la fabbrica: contesti che hanno creato e propagato
la cultura organizzativa delle società moderne. Nella caserma vigono la pianifca-
zione, la gerarchia – cioè un criterio organizzativo – e le procedure, ovvero un
ordine esecutivo: i tre capisaldi dell’apparato amministrativo. Nell’industria taylori-
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stica domina la catena di montaggio, ma questa a ben vedere altro non è che un
procedimento amministrativo: una sequenza di decisioni da prendere per raggiun-
gere un determinato scopo nel modo il più possibile effciente ed effcace, cioè
minimizzando il dispendio di risorse a fronte del massimo risultato. Anche sotto
questi aspetti, l’Italia è storicamente carente: giunta tardi e in modo disomogeneo
all’industrializzazione, per i primi quarant’anni dopo l’Unità il suo esercito è stato
dispiegato nel Mezzogiorno contro il cosiddetto brigantaggio, svolgendo dunque
compiti di polizia. Ciò ha impedito che si formasse un esercito moderno, tant’è che
l’Italia ha perso tutte le guerre successive – fatta eccezione per la prima guerra
mondiale, con gli enormi costi umani e materiali che sappiamo.
Quanto alla grande industria, la sua breve parabola – coincisa in gran parte con
l’Iri – ha lasciato un segno relativamente tenue: non solo nello stabilimento, ma
anche e soprattutto fuori di esso. Il grande contributo della fabbrica moderna alla
cultura dell’Occidente avanzato sta infatti nel ritmo da essa imposto alle città, la cui
vita – non solo quella degli operai – era scandita dalle sirene dei turni. Il carattere
per certi versi alienante di tale scansione, immortalato da Charlie Chaplin in Tempi
moderni, è stato il dazio pagato nel passaggio dall’èra moderna alla contempora-
neità. Quel passaggio noi l’abbiamo fatto solo in parte, in alcune grandi metropoli
del Nord. Oggi ne scontiamo le conseguenze: oltre il 70% dei vertici della nostra
pubblica amministrazione è composto da meridionali laureati in giurisprudenza a
Roma, Napoli e Messina. Perché non da fgure tecniche uscite dalla Bocconi o dal
Politecnico di Torino? Perché in Italia industria e amministrazione non si sono mai
veramente integrate, restando mondi separati. Ciò non rende l’Italia necessaria-
mente immodifcabile. Ma certo, cambiarla richiede tempo. Oltre a energie e vo-
92 lontà non comuni.
A CHE CI SERVE DRAGHI

ULTIMA
O PENULTIMA
SPIAGGIA? di Fabio MINI
La quasi impossibile missione di Draghi, nel caos dello Stato che
non c’è e nell’assenza di strategia. Quanto ai vaccini, non sono
panacea. Che cosa ci dicono, per ora, i ‘cartellini gialli’ britannici
sugli effetti collaterali di AstraZeneca e Pfizer/BioNTech.

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S
E I GOVERNI CONTE SONO FINITI MALE,
il governo di presunta salvezza nazionale presieduto da Mario Draghi non è comin-
ciato bene. E non sembra migliorare con il tempo. Su di esso pesano tre grosse
vulnerabilità che derivano direttamente dalle azioni e incongruenze degli esecutivi
precedenti, ma che deve ancora affrontare: la carenza della politica, la diffcile ge-
stione della crisi epidemica e la problematica ripresa socioeconomica.
Contrariamente a quanto si può pensare e a quanto in molti dicono, il governo
Draghi non nasce da una scelta politica o da un processo politico. Non s’inquadra
in alcun piano politico nazionale semplicemente perché non esiste una tale piani-
fcazione nemmeno per le emergenze e non esiste alcuna «visione politica» sulla
quale la democrazia italiana possa esprimersi. Una visione senza un piano è un
sogno e un piano senza visione è un incubo. Senza visione e senza piani d’azione
anche la scelta di campo internazionale è vaga e aleatoria. La scelta di Mario Draghi
è stata un’azione non pianifcata nel quadro di una visione ristretta agli effetti della
sola emergenza sanitaria. Una decisione del presidente della Repubblica nettamen-
te contraria sia alla politica sia alla posizione espressa dallo stesso capo dello Stato
nel suo discorso di liquidazione del governo Conte. L’ampio sostegno promesso
dai partiti all’ex presidente della Bce faceva parte del gioco delle parti e il fatto che
siano stati proprio Mattarella e Draghi a promuoverlo allontanava il rischio che
tutti i parlamentari non vogliono correre: andare alle elezioni. A Draghi non rima-
neva che trovare l’algoritmo col quale garantirsi la sopravvivenza in parlamento. Si
trattava di accontentare due o tre gruppi parlamentari alla volta per ottenere co-
munque una maggioranza variabile suffciente a mettere fuori gioco il resto. L’ade-
sione corale non era infatti così solida come pretendeva e la logica dei partiti non
intendeva completare la vaccinazione di massa e avviare la ricostruzione nazionale 93
ULTIMA O PENULTIMA SPIAGGIA?

ma estromettere gli avversari dalla gestione dei soldi del Recovery Fund e indiriz-
zarli a proprio favore, di parte e personale. L’unico requisito per il funzionamento
dell’algoritmo era la permanenza dello stato di emergenza. Draghi ha composto il
governo e assunto le prime decisioni badando all’algoritmo. Si è però trovato da-
vanti agli effetti distruttivi che il sistemino provocava all’interno dei partiti che lui
stesso aveva voluto coinvolgere nell’esecutivo.
Ora dovrebbe rendersi conto che la sua politica porterà al suo fallimento: a)
quando, a forza di accontentare alcuni e scontentare altri, gli scontenti in parlamen-
to si sommeranno; b) quando l’intera popolazione dovrà sottostare al prolunga-
mento della crisi sanitaria e ai relativi effetti sugli assetti economici e sociali; c)
quando, infne, sarà chiara la fallacia della presunzione che i partiti agiscano e re-
agiscano ai provvedimenti programmatici e abbiano a cuore il bene pubblico. In
realtà, negli ultimi trent’anni questo non è mai avvenuto ed è diffcile che un con-
solidato vizio sia eliminato da un governo qualsiasi.
In merito alla gestione dell’epidemia, il governo Draghi non ha dato grandi
segnali di discontinuità con il precedente. Ha cambiato la composizione del Co-
mitato tecnico-scientifco (Cts) presso il ministero della Salute, spostando Agosti-
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no Miozzo dal Cts al ministero dell’Istruzione e riportando Fabrizio Curcio da


Casa Italia alla Protezione civile. L’unica vera novità è stata la nomina del genera-
le di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo a «commissario straordinario per
l’attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto
dell’emergenza epidemiologica Covid-19». Un incarico di rilievo che non appare
tale se è vero che la lunghezza del titolo è inversamente proporzionale alla sua
importanza. Non si sa bene come si sia arrivati a un generale per questo incarico.
In altri tempi, le Forze armate erano spesso le uniche a intervenire, le attività di
emergenza erano dirette dai prefetti e dagli enti locali sotto la responsabilità del
ministero dei Trasporti, poi si è passati alla prima struttura centralizzata con un
uffcio del ministero dell’Interno e la competenza dei Vigili del fuoco nella forma-
zione dei volontari. Nel 1970, quando viene emanata la prima normativa sulla
Protezione civile, sono ancora le Forze armate e i Vigili del fuoco il perno degli
interventi. E ai dirigenti dei Vigili, come ad alcuni generali, sono affdati incarichi
d’importanza similare sotto la direzione di un commissario straordinario e di un
comitato interministeriale. Poi, con l’istituzione del Servizio nazionale e la respon-
sabilità giuridica e amministrativa passata dallo Stato alle Regioni, la struttura è
cresciuta esponenzialmente con grandi diffcoltà di coordinamento e controllo.
Oggi il dipartimento della Protezione civile può avvalersi di tutte le forze dello
Stato civili e militari, di professione e del volontariato individuale o associativo.
Nonostante la ricchissima dotazione di fondi e l’autonomia gestionale garantita
dalle procedure di emergenza, alcuni progetti faraonici di ricostruzione o risarci-
mento delle passate emergenze sono rimasti incompiuti. Soltanto nel 2020 la rico-
struzione post-emergenza è stata affdata alla neostruttura creata all’interno della
94 presidenza del Consiglio detta Casa Italia.
A CHE CI SERVE DRAGHI

Le pene di Figliuolo
Cosa o chi abbia portato Draghi a scegliere il generale Figliuolo per un incari-
co che spetterebbe alla Protezione civile rimane un mistero. Di fatto, Figliuolo non
ha una struttura autonoma e deve «dialogare» continuamente con il ministero della
Salute, la Protezione civile, i presidenti di Regione, gli ospedali, le Misericordie, le
ditte fornitrici di beni e servizi, le case farmaceutiche e così via fno ai sindaci e ai
gestori delle case di riposo. Con il suo sparuto staff (che le Forze armate hanno
promesso di aumentare) è una testa senza arti. Anzi una testa che non controlla gli
arti altrui. Per avere le informazioni necessarie all’assolvimento dei suoi compiti di
«coordinamento, attuazione, contenimento e contrasto» deve rivolgersi ad altri e
senza disporre di una piccola rete di demoltiplicazione sul territorio avrà sempre
dati incerti, incredibili e inattendibili. Non tanto e non solo perché in quest’anno ci
siamo resi conto del caos dei numeri, ma perché ministeri, dipartimenti, agenzie,
Regioni ed enti periferici hanno priorità diverse dal «semplice» controllo dell’epide-
mia. Hanno confitti interni, esigenze di fondi e d’immagine, pretese di privilegi e
priorità politiche che superano l’emergenza. I media hanno parlato di Figliuolo
come di un esperto della logistica, altri hanno notato che in qualità di comandante
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logistico dell’Esercito aveva già collaborato con la Protezione civile durante l’emer-
genza Covid-19. Tutto vero, gestiva una macchina da guerra dislocata sull’intero
territorio nazionale con il fore di esperti tecnici e amministratori capaci di redigere
un contratto che non fosse un capestro o un’occasione per guadagnarci. Con una
telefonata risolveva problemi e confitti anche di personalità. Ora questa rete di
esperti non è più disponibile e il «signorsì» non fa parte del vocabolario dei suoi
svariati e variopinti interlocutori. Forse Draghi pensava che il suo generale potesse
portarsi dietro tutto l’Esercito e le Forze armate. Purtroppo, la storia anche recente
racconta di comandanti destinati a incarichi al di fuori della propria Forza armata e
dei corridoi degli Stati maggiori lasciati completamente soli. Senza direttive, con
strumenti e staff limitati, costretti a piatire il necessario e con una copertura legale
e amministrativa a dir poco latitante.
Figliuolo ha assunto l’incarico senza passaggi di consegne. Il suo predecessore
non aveva realizzato alcuna struttura ad hoc. Si era avvalso della propria organiz-
zazione presso Invitalia 1 (oltre duemila dipendenti e consulenti), orientata all’attra-
zione degli investimenti esteri in Italia e quindi al marketing, alla creazione d’im-
magini rassicuranti, promesse allettanti e disinvolte pratiche d’intermediazione. A
livello governativo si era forse pensato di evitare di costruire un nuovo carrozzone
utilizzando uno di quelli già esistenti, a prescindere dalla competenza specifca.
Con la rimozione dall’incarico del capo tutto l’apparato ha cessato di trattare l’e-
mergenza e nulla, o quasi, è rimasto. Figliuolo ha dovuto organizzarsi e si sta an-
cora organizzando.

1. Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa s.p.a., partecipata al
100% dal ministero dell’Economia e delle Finanze. 95
96
ECONOMICISMI NEL MONDO
ULTIMA O PENULTIMA SPIAGGIA?

A
P FED. RUSSA

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

O
R
14 - GEORGIA
CANADA 15 - AZERBAIG.
16 - ARMENIA

E U
KAZAKISTAN
1 - BAHAMAS MONGOLIA 17 - UZBEKISTAN
2 - CUBA 18 - TURKMEN.
3 - GIAMAICA STATI UNITI 19 - KIRGHIZ.
TURCHIA GIAPPONE
4 - HAITI 4 20 - TAGIKIST.
IRAN CINA
5 - REP. DOMINICANA MAROCCO
36 5 21 - AFGHANISTAN
6 - PORTORICO (USA) 1 ALGERIA 7 COREA DEL SUD 22 - PAKISTAN
MESSICO LIBIA
7 - TRINIDAD E TOBAGO EGITTO ARABIA 8 COREA DEL NORD 23 - NEPAL
S. 9 INDIA
8 - VENEZUELA 2 56 24 - BHUTAN
BELIZE MAURITANIA LI ER
9 - COLOMBIA 3 4 MA NIG D N 11 FILIPPINE 25 - BANGLADESH
GUATEMALA SENEGAL CIA DA
10 - ECUADOR GAMBIA SU 26 - MYANMAR
EL SALVADOR 7
11 - GUYANA 8 12 27 - THAILANDIA
HONDURAS PAPUA
12 - SURINAME 9 11 SOMALIA SRI LANKA NUOVA 28 - LAOS
NICARAGUA GUINEA 29 - VIETNAM
10 SINGAPORE
COSTA RICA KENYA 30 - CAMBOGIA
PANAMÁ INDONESIA
TANZANIA
PERÚ BRASILE 35 - GUINEA B. ANGOLA COMORE
36 - GUINEA IA MALAWI ISOLE SALOMONE
BOLIVIA ZAMB SAMOA
37 - SIERRA LEONE MOZAMBICO
Di cosa vivono le nazioni PARAGUAY 38 - LIBERIA NAMIBIA BOTS. FIJI
MADAGASCAR
CILE 39 - BURKINA F. 31 - MALAYSIA
Economiciste 40 - COSTA D’AVORIO ZIMBABWE 49 - REP. DEM. CONGO AUSTRALIA 32 - BRUNEI
ESWATINI 50 - REP. CENTRAFR.
41 - GHANA LESOTHO 33 - TIMOR EST
A metà tra economicismo e potenza geopolitica URUGUAY 51 - SUD SUDAN
42 - TOGO SUDAFRICA
43 - BENIN 52 - ERITREA 1 - CIPRO
Dedite alla potenza geopolitica 53 - ETIOPIA 2 - LIBANO
ARGENTINA 44 - NIGERIA NUOVA
3 - ISRAELE
Dedite allo sviluppo economico 45 - CAMERUN 54 - GIBUTI 4 - SIRIA 8 - QATAR ZELANDA
46 - GUINEA EQ. 55 - UGANDA 5 - IRAQ 9 - EMIRATI A. U.
Regimi dediti alla sopravvivenza 47 - GABON 56 - RUANDA 6 - GIORDANIA 10 - OMAN
57 - BURUNDI 7 - KUWAIT 11 - YEMEN
Fallite 48 - CONGO BR.
A CHE CI SERVE DRAGHI

In compenso, senza nemmeno conoscerlo, è stata già criticata la scelta di un


generale, che in quanto tale dovrebbe stare in uffcio, e si ironizza sulla sua unifor-
me piena di nastrini. In realtà proprio la sequenza di nastrini variopinti dovrebbe
far rifettere. Si tratta di riconoscimenti ricevuti per specializzazioni, corsi di forma-
zione, incarichi di staff e di comando, campagne militari in Italia e all’estero, segni
di decine di trasferimenti da una parte all’altra del mondo, in pace come in guerra
anche laddove la pace non c’è e la guerra è mascherata da operazione di pace.
Non c’è alcun dirigente pubblico che abbia percorsi d’istruzione e d’impiego come
i colleghi militari. Ma tant’è, e Figliuolo rischia di essere massacrato specialmente
se viene lasciato solo. Con lui rischia di essere massacrato anche Draghi, perché
l’astio di parte non si accontenta solo di un generale.
Figliuolo ha assunto un incarico diffcile proprio nel momento più delicato. Il
predecessore era andato avanti a suon di promesse e di una luce alla fne del
tunnel sempre più chiara. Figliuolo s’è trovato invece in un tunnel senza luce.
L’unica che sta rischiando di vedere è quella di una locomotiva che gli viaggia
contro a tutta velocità. Il suo «piano della campagna vaccinale» risente di una si-
tuazione di fatto rovinata dalle promesse e dalle rassicurazioni vaneggianti. La
gente è stata portata a credere che l’unico modo di superare la crisi fosse la vac-
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cinazione, che essa avrebbe salvato tutti e che i vaccinati potessero essere sicuri
per altri cent’anni. Se la gente se ne frega dei distanziamenti ed è insofferente
alle misure restrittive è perché crede che il vaccino già fatto o da fare possa ren-
dere tutti immuni. Poi si scopre che i vaccini disponibili non bastano, che i con-
tratti per averli sono pieni di trabocchetti, che con il presidente Biden la politica
dell’America First di trumpiana memoria è più valida che mai e che la sua incetta
esclusiva di vaccini lascia i paesi «alleati e amici» in balìa degli squali in camice
bianco e mette altri Stati nelle mani dei propri nemici.
Si scopre anche che ci sono le varianti, che i giovani vengono colpiti più dei
vecchi. Da militare maturo, Figliuolo sa bene che ogni piano di guerra cade alla
prima battaglia e sa anche che i predecessori non l’hanno mai redatto proprio per
questo. Il suo piano è stato disfatto nel giro di due giorni dalla crisi degli approv-
vigionamenti e dal blocco dei lotti di AstraZeneca sospettati di provocare morti.
Tuttavia avere un piano è comunque utile sia perché costituisce una base per i
cambiamenti sia perché indica cosa non ha funzionato. I militari italiani sono in
grado di pianifcare emergenze di tutti i tipi, ma in patria hanno perso la capacità
di coinvolgere i civili. La pianifcazione dell’assunzione dei poteri da parte dell’au-
torità militare degli anni Sessanta-Ottanta prevedeva decreti «cassetto» con le auto-
rizzazioni necessarie e persino le formule per le comunicazioni ai prefetti. «Eccel-
lenza, Le comunico che è stata dichiarata l’emergenza interna e l’Autorità Militare
è stata autorizzata ad assumere i poteri. Pertanto sarà mia cura tenerla informata
delle decisioni». Di solito il prefetto sbiancava e si attaccava al telefono per chiede-
re lumi al suo ministro, che spesso non sapeva niente e a sua volta chiedeva lumi
a chi ne sapeva meno di lui. Tutte le autorità civili interessate e le forze di sicurez-
za avevano accesso ai piani ma nessuno li leggeva e nelle ore perse a capire cosa 97
ULTIMA O PENULTIMA SPIAGGIA?

stesse accadendo e cosa fosse un’esercitazione i reparti in armi si schieravano e


tutti si cagavano sotto.
Oggi questi piani non esistono più. E se è un bene perché l’effcienza e la
capillarità dell’organizzazione avevano fatto credere ad alcuni militari di poter abu-
sare dell’emergenza, è però vero che si è perso il senso dell’emergenza fno a im-
pedire di riconoscerla. Oggi il funzionario militare deve stare ad ascoltare la musi-
chetta di attesa prima di dialogare con qualsiasi collega civile e spesso l’emergenza
pubblica viene dopo l’esigenza privata. Nonostante tutto, occorre continuare a
pianifcare e verifcare. Nell’emergenza sanitaria di oggi l’importante è non sban-
dierare i piani come se fossero vangeli, non fare promesse che non si è sicuri di
poter mantenere e non cadere nelle trappole delle guerre altrui, comprese quelle
evidenti tra case farmaceutiche. Ed è importantissimo non mollare sulle altre misu-
re di controllo epidemico, su distanziamento, isolamento, sanitizzazione e traccia-
mento. Quest’ultimo deve diventare una pratica permanente e sistematica tesa a
individuare focolai e relative varianti, a prescindere dall’emergenza. Negli Stati
Uniti sono stati ignorati e sottovalutati i primi casi nonostante si fossero accertati
quattro centri di diffusione. Il problema, lì come da noi, veniva dall’alto: non si
cercava il virus ma il «cinese».
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I vaccini non sono un miracolo


In Italia e altrove si sta creando la stessa situazione dei teatri di guerra dove
la narrazione uffciale dei «buoni» basata sulle speranze (quando va bene) viene
contrastata dalla narrazione dei «cattivi» basata sui fatti concreti. Non c’è nulla di
concreto nel fatto che il vaccino AstraZeneca abbia causato la morte di alcune per-
sone in Europa, non ancora. Di contro non è apparsa alcuna segnalazione sui de-
cessi collegabili ad altri vaccini. Eppure i dati sono disponibili. Nasconderli, per
ordine delle case farmaceutiche o per evitare il panico del popolo bue, crea più
sospetti che rassicurazioni. Il panico non si scongiura con la menzogna ma con la
consapevolezza dei rischi. Non si capisce perché per una puntura del dentista sia
necessario avere il consenso informato e per i vaccini di emergenza, come quelli
in uso, non sia prevista alcuna informazione su rischi, effetti collaterali e incertezze.
Gli italiani, come quasi tutti gli europei, sanno capire cosa rischiano: basta dirglielo.
In Gran Bretagna, dove sono usati soltanto i vaccini di Pfzer/BioNTech e della
Oxford University/AstraZeneca, ogni persona vaccinata può inviare un modulo
detto Yellow Card (cartellino giallo) nel quale riferisce gli eventuali effetti indeside-
rati. I dati inglesi sono molto signifcativi perché, come pubblicato nel rapporto
settimanale emesso dalla Medicines & Healthcare Products Regulatory Agency
(Mhra) il 18 marzo e riferito al periodo 9 dicembre 2020-7 marzo 2021, sono stati
vaccinati 10,9 milioni di persone con la prima dose di Pfzer/BioNTech e 11,7 mi-
lioni con quella di Oxford University/AstraZeneca. Circa un milione di persone ha
ricevuto la seconda dose, in massima parte di Pfzer. Al 7 marzo sono stati ricevuti
98 35.325 Yellow Cards riguardanti il vaccino Pfzer/BioNTech, 61.304 riguardanti
A CHE CI SERVE DRAGHI

quello di Oxford University/AstraZeneca e 281 senza precisazione della marca. Le


segnalazioni concernono dunque solo il 3 per mille dei vaccinati con Pfzer e il 6
per mille (il doppio) dei vaccinati con Oxford University/AstraZeneca. Nella stra-
grande maggioranza dei casi vengono segnalati effetti già rilevati durante i test
clinici effettuati dalle case farmaceutiche. Pfzer aveva infatti riscontrato nel 10% dei
44 mila individui sottoposti alla vaccinazione uno o più dei seguenti sintomi: dolo-
re al luogo d’iniezione, stanchezza, mal di testa, dolori muscolari, dolori articolari
e febbre. Tali reazioni erano solitamente lievi o moderate e si erano risolte nel giro
di pochi giorni dopo la vaccinazione. Le reazioni avverse erano meno frequenti in
adulti sopra i 55 anni che nei più giovani. La stessa tipologia e percentuale di rea-
zioni fu riscontrata nei test clinici di AstraZeneca (su 23 mila partecipanti), con la
differenza che quelle più blande e meno frequenti furono riscontrate negli adulti
sopra i 65 anni (esattamente il contrario di ciò che ha detto la nostra Agenzia del
farmaco facendo così scattare il divieto di somministrazione agli over 55 e poi 65 e
quindi i primi dubbi sull’effcacia del vaccino inglese).
Con lo schema del Yellow Card, la Mhra ha ricevuto 534 segnalazioni di so-
spette reazioni avverse durante le quali i pazienti sono morti poco tempo dopo la
vaccinazione. Al vaccino di AstraZeneca (4,7 per mille segnalazioni) si riferivano
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289 casi, al vaccino di Pfzer/BioNTech (6,7 per mille segnalazioni) 237 casi e a
vaccini di marca non specifcata 8 casi. La maggior parte di tali segnalazioni ha ri-
guardato persone anziane o con malattie pregresse ma le morti sospette riportate
sono risultate percentualmente più alte per il vaccino di Pfzer.
Il rapporto ripete in continuazione che le segnalazioni di eventi fatali mostrano
soltanto un’«associazione temporale» alla vaccinazione e non un collegamento cau-
sa-effetto tra vaccinazioni e morti. Anzi, la revisione dei rapporti individuali e delle
loro caratteristiche «non suggerisce» che il vaccino abbia avuto un ruolo nelle mor-
ti. In ogni caso, si ribadisce che tutti i vaccini e i farmaci in genere hanno effetti
collaterali avversi, e che tali effetti vanno continuamente rapportati ai benefci
«previsti». Nessuno, però, è ancora in grado di quantifcare tali «benefci». In parti-
colare si sa poco sul vero impatto delle vaccinazioni sulla riduzione delle infezioni.
Israele e gli Emirati Arabi Uniti, entrambi con circa nove milioni di abitanti,
sono i paesi che hanno raggiunto nel più breve tempo la copertura vaccinale del
60-70% della popolazione, ma non hanno ancora dati certi sull’effetto del vaccino
nella riduzione del contagio e forse non lo avranno mai perché si stanno limitando
a considerare le infezioni sintomatiche, le ospedalizzazioni e le terapie intensive. I
primi segnali mostrano una riduzione del 30% rispetto al modello di non vaccina-
zione. Quando questi paesi hanno iniziato le campagne vaccinali (intorno alla
metà di dicembre 2020) si trovavano in una fase di risalita dell’infezione dopo una
signifcativa riduzione «naturale». Hanno quindi subìto un picco di casi durante la
campagna e ora i primi dati dimostrano che la curva è in discesa ma non ha anco-
ra raggiunto il limite basso della precedente fase. Per questo, si esprimono con
cauto ottimismo e comunque avvertono che la riduzione dei casi non è attribuibile
soltanto al vaccino e che le misure di distanziamento o di isolamento rimangono 99
ULTIMA O PENULTIMA SPIAGGIA?

fondamentali. Infatti, anche in Italia le prime osservazioni in tal senso sono dispo-
nibili soltanto per il personale sanitario, che è stato vaccinato per primo, ma che è
stato anche sottoposto a stringenti misure di protezione dopo un periodo di «sfda
al male» nel quale tralasciava perfno le più elementari cautele.
L’incertezza della valutazione dei benefci diventa un vero e proprio buco
nero per quanto riguarda la valutazione del grado di prevenzione del contagio, del
periodo di immunizzazione e del periodo di non trasmissibilità da parte dei vacci-
nati. Senza dati attendibili su questi parametri e senza aver raggiunto una consoli-
data immunità di gregge, vista anche la mutazione continua dei ceppi virali, è per
lo meno azzardato prepararsi ad accogliere nel giro di un paio di mesi milioni di
turisti nel nostro Belpaese. Saremmo sia noi sia loro potenziali vittime e diffusori
di un’altra epidemia. Draghi e il suo governo potrebbero saltare le ferie o andarci
per sempre.

Il tesoro che non c’è


La necessaria cautela sanitaria contrasta con l’altro aspetto dell’emergenza:
quello socioeconomico, che rappresenta il lato più dolente del compito assunto dal
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governo Draghi e che deve considerare la pressante richiesta di «cambiare rotta»,


dare un segnale di «discontinuità». Einstein diceva che non si può risolvere un pro-
blema agendo allo stesso livello che l’ha creato. E i problemi da affrontare oggi non
sono causati soltanto dall’epidemia. In massima parte sono stati causati dall’ignavia
politica e dalla sicumera dei leader delle parti politiche (comprese quelle che oggi
strillano discontinuità) che hanno governato da un quarto di secolo a questa parte.
In questo lasso di tempo lo Stato si è dissolto, e con esso il «senso dello Stato». La
mucca Carolina che alimentava il Mezzogiorno per conto dei politici locali e nazio-
nali si è messa in proprio e si è estesa al livello nazionale e internazionale. Tutti
sono invitati alla mungitura, anche perché i soldi sono in realtà altri debiti. Sfortu-
natamente, non si è fatta alcuna riforma strutturale, l’amministrazione pubblica si è
frammentata, i «parlamenti», i consiglieri e gli assessori si sono moltiplicati. La dele-
ga del potere si è rivelata un’usurpazione, lo Stato sociale e solidale è diventato un
bancomat della politica per comprare consenso a forza di sussidi. E consolidare il
potere a forza di appropriazioni indebite. La Repubblica fondata sul lavoro è ora
fondata sulla disoccupazione permanente, pagata e pensionabile, la potenza indu-
striale si è sfasciata con le privatizzazioni che hanno regalato a improbabili impren-
ditori la parte migliore del patrimonio nazionale. Il sano principio della tassazione
«secondo le proprie capacità» oggi è un fardello insostenibile per chi paga le tasse
e un condono per chi le evade.
Da noi la crisi globale del 2009 non è mai stata superata e l’epidemia ne ha
messo a nudo i lati più nascosti. Ma ancora una volta li si vogliono ignorare. Le
saracinesche abbassate dei ristoranti, le fabbriche chiuse e fallite stanno sollecitan-
do le richieste di «ristori». Tutti questi «colpiti dall’epidemia» non sopravvivevano
100 nemmeno prima ed evadevano le tasse. Ora tutti chiedono soldi. Molte fabbriche
A CHE CI SERVE DRAGHI

del cosiddetto Nord produttivo erano alla canna del gas da parecchio tempo.
Avrebbero avuto bisogno di nuovi piani industriali, riconversioni e nuove profes-
sionalità e ora sono aperte soltanto per rientrare nei bonus, per pagare gli operai
con la cassa integrazione e poterli licenziare al più presto. Gli imprenditori avreb-
bero dovuto essere incentivati a esportare piuttosto che a giocare a poker con i
sussidi pubblici. La maggior parte delle oltre sei milioni di partite Iva riceverà un
sussidio, ma tante di queste riguardano lavoratori e professionisti licenziati dalle
aziende e ripresi a contratto di «consulenza».
Nonostante la creazione di Invitalia nel 2008 da parte di Giulio Tremonti, mi-
nistro dell’Economia e delle Finanze nel quarto governo Berlusconi, l’Italia che già
stava male è crollata e non si è più ripresa. Le imprese, che dovrebbero essere il
nucleo di un’economia di mercato, hanno cessato di cercare i clienti preferendo
diventare esse stesse «clienti» della politica statale. Hanno smesso d’investire, di
rinnovarsi e di competere pretendendo la protezione dello Stato e contando sui più
comodi interventi statali diretti e indiretti, come i miliardi dedotti dall’imponibile
fscale delle imprese, con l’iperammortamento regalato nel 2017 dal governo Gen-
tiloni (Padoan e Calenda) e dagli altri che lo hanno seguìto. Un fume di soldi
sparito come un fenomeno carsico.
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Gli investimenti pubblici sono sempre stati pochi e mal gestiti e, come ribadi-
to dal professor Fabio Sdogati del Politecnico di Milano, sono in continua diminu-
zione dal 2010. Uno dei settori più penalizzati è quello dell’istruzione. Il 40% della
nostra popolazione di età superiore ai 5 anni legge almeno un libro all’anno e il
60% nemmeno quello. Il 16% dei nostri adulti ha appena la licenza elementare,
circa il 30% la media, il 35,6% il diploma e il 13,9% la laurea breve o specialistica.
Considerando il diffuso analfabetismo di ritorno (il 30% degli individui dai 25 ai 65
anni ha «limitate capacità di comprensione, lettura e calcolo» 2), il nostro è un paese
d’ignoranti. Per questo vanno di moda l’ignoranza e il comodo adagio «uno vale
uno». «Se credete che l’istruzione sia costosa non sapete quanto costa l’ignoranza»,
dice Sdogati e l’Istituto Feltrinelli elenca: «Costi a livello individuale: esclusione
sociale, insicurezza, mancanza di autonomia, precarietà. Costi sociali: scarsa parte-
cipazione al processo democratico, criminalità, maggior spesa per la salute. Costi
economici: livello di sviluppo limitato, bassa propensione all’innovazione, scarsa
produttività». Tuttavia, nonostante le sagge osservazioni degli insegnanti delle gran-
di scuole rivolte alla formazione della «classe dirigente» gli investimenti del settore
privato italiano, che dovrebbe essere trainante, sono altrettanto carenti di quelli
assegnati dalla classe politica o «classe digerente». Dal 2005 al 2007 tali investimen-
ti erano appena dietro quelli spagnoli ma superiori a quelli di Francia e Germania.
Dal 2007 al 2009 erano ancora diminuiti, raggiunti dagli altri tre paesi. Dal 2009 al
2014 erano precipitati all’ultimo posto e da allora non si sono più ripresi. Il capita-
le delle nostre imprese in beni strumentali (macchinari) è il più vecchio d’Europa
e siamo ancora tra gli ultimi nell’impiego di personale qualifcato.

2. Dati della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e dell’Istituto Carlo Cattaneo. 101


ULTIMA O PENULTIMA SPIAGGIA?

Questa non è una situazione contingente relativa alla crisi del 2009 o all’epi-
demia. È una crisi strutturale di lungo periodo: il pil reale italiano dal 2001 al 2021
è cresciuto di appena il 3,4%. Poco più di quello della Grecia (2,3%), alla quale
sono state «spezzate le reni» dalle istituzioni fnanziarie europee e dal Fondo mo-
netario internazionale (Fmi). Nello stesso ventennio Francia e Germania sono cre-
sciute del 27-28% e Olanda, Austria e Spagna del 31-37%. Il fatto che l’intero mon-
do occidentale sia in stagnazione economica non può consolare visto che i paesi
ricchi sono stagnanti nell’agiatezza media e noi nell’indigenza crescente. Tuttavia
la media non consola nemmeno i paesi agiati che si permettono di defnire la iat-
tura della stagnazione come una «decrescita felice»: in questo periodo i ricchi sono
sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Tale situazione non è superabile con gli stessi mezzi e le stesse procedure di
ieri e di oggi. L’epidemia dovrebbe sollecitare una ristrutturazione profonda dell’im-
pianto economico nazionale, ma nessuno la vuole. E lo stesso governo «tecnico-
partitico» non è in grado di farla se pensa che passata l’emergenza tutto torni come
prima. Se questo avvenisse veramente e Draghi potesse reclamare questa «vittoria»
saremmo nei guai fno al collo, peggio di prima e di adesso. Avremmo le stesse
discussioni vacue, gli stessi sperperi e gli stessi profttatori di mestiere.
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Non è chiaro se Draghi abbia un piano per superare l’emergenza economica


ma di certo non ha la bacchetta magica per risanare il paese. A meno che non
abbia un orizzonte di lavoro di almeno cinque anni, ammesso e non concesso che
voglia prendersi questa responsabilità. Il massimo che può fare è rimescolare le
carte fnanziarie in modo da avviare il paese verso la ripresa. Tuttavia anche questo
è dubbio. Già si parla di una riattivazione del Patto di stabilità e crescita appena
superata la crisi sanitaria. E già si allenano quelli che vogliono spezzare le reni
all’Italia (fuori e dentro di essa). Non c’è Comune, Comunità montana e Regione
che non abbia già «attinto» al defcit (come disse un candido assessore sentendo
che non c’erano soldi per una strada e che c’erano milioni di «defcit»). Si avviano
lavori di restyling che poco incideranno sulla funzionalità strutturale e invece già
disperdono le risorse (debiti) in migliaia di rivoli. Di questo passo il Recovery Fund
con i suoi teorici 223,7 miliardi non basterà neppure a coprire i debiti pubblici f-
nora contratti a livello nazionale e locale.
Aumentare la spesa pubblica in disavanzo è d’altronde un’idea molto radicata
nel mondo fnanziario e nell’attuale dirigenza dell’Fmi che avversa il risparmio.
Anche questo sarà un problema perché l’Italia è un paese ad alto tasso di risparmio
privato e questo «tesoro» non solo serve a giustifcare la contrazione di altri debiti,
ma accende le tentazioni politiche e fnanziarie di metterci le mani. Purtroppo,
anche questa del risparmio è in gran parte una «bolla». Gli italiani hanno smesso di
tenere i soldi sotto il materasso e quelli che non li portano all’estero o li fanno
sparire nel riciclaggio li tengono in banca. E se il risparmiatore medio non vuole
darsi al gioco d’azzardo delle speculazioni di Borsa, accetta che il denaro non frut-
ti niente o perda poco. Come autorevolmente dimostrato da Enrico Brignano, nel
102 momento in cui si depositano in banca i soldi non appartengono più al risparmia-
A CHE CI SERVE DRAGHI

tore e non sono nemmeno soldi 3. Le banche li trasformano (loro dicono «investo-
no») in pezzi di carta derivati di altri pezzi di carta il cui valore diventa fttizio e
supera di molto l’intero ammontare del denaro circolante. La prova della «bolla» sta
nel considerare l’opzione di ritirare i soldi depositati. Se lo facessero contempora-
neamente tutti o anche la metà dei risparmiatori le banche chiuderebbero. Non
fallirebbero, grazie ai regali di Stato, ma farebbero pagare le perdite ai risparmiato-
ri stessi. Il tesoro, di fatto, non esiste. E ben lo sa chi passa il tempo a decantarlo e
trovare soluzioni per convertirlo in altri pezzi di carta.
Conclusione: il governo Draghi non ha la forza politica per infuire sull’assetto
politico nazionale. Chi lo ha designato ha compiuto un atto legittimo ma irrituale e
prima o poi l’opposizione politica sfrutterà questo vulnus per metterlo in crisi. Co-
loro che gli hanno promesso sostegno hanno cambiato idea e casacca decine di
volte e di fatto lo sostengono sperando che quando glielo toglieranno – perché
questo avverrà – non potrà restare in piedi nemmeno con le stampelle variabili. La
salvaguardia del bene nazionale, tra cui l’unità, è senz’altro lo scopo di alcuni po-
litici ma non dei partiti, che pensano a supra-vivere, vivere al di sopra anche del
bene nazionale.
Se questo governo non modifca assetti, procedure e obiettivi anche la campa-
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gna di immunizzazione con gli attuali vaccini sarà un fallimento. Diventerebbe


inutile se si protraesse nel tempo e l’immunità di gregge non fosse raggiunta prima
dell’estate, sarebbe inutilmente vessatoria se il contagio diminuisse da solo e inef-
fcace se il virus mutasse in maniera più drastica. Sarebbe poi una vera beffa e un
danno per la popolazione se superata una fase di emergenza si abbandonassero
tutte le cautele e le strutture sanitarie temporanee.
In campo socioeconomico Draghi possiede senz’altro sensibilità e capacità per
comprendere e gestire con attenzione l’accesso al Recovery Fund, ma non è così
per il suo governo. Salvo qualche eccellenza settoriale, la distribuzione delle com-
petenze e delle risorse è nelle mani e nelle ganasce dei partiti che Draghi ha volu-
to coinvolgere più per algoritmo che per imposizione esterna. È nelle mani di
consiglieri prezzolati, di adulatori sfacciati e di «esperti internazionali» scarsamente
consci del quadro sociale ed economico italiano. In sostanza: il governo Draghi, se
va male, è l’ultima spiaggia sulla quale aspettare che arrivi, come nell’omonimo
flm, il fallout nucleare dei curatori fallimentari della solita trojka o di qualche altra
potenza alleata e amica e del caos politico e sociale interno che nessuno è in grado
di gestire perché non esiste alcun piano B o C. Se va bene non è l’ultima spiaggia,
ma la penultima, sulla quale prendere un po’ di respiro prima di affrontare il mare
successivo: l’Oceano.

3. I comici, come i giullari di un tempo, sono gli unici autorizzati a dire la verità sul potere. Ma diver-
samente dai colleghi del passato non rischiano più la testa. 103
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A CHE CI SERVE DRAGHI

SE L’ITALIA
MATURA di Rosario AITALA
Draghi riporta la nazione alla normale coscienza di sé. E le istituzioni
all’ordine del giorno. I nostri spazi tattici nell’impero americano.
Riprendere il controllo delle Libie e trattare l’Ue per quel che è:
non soggetto, tutt’al più piattaforma per ufficiali di collegamento.

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U
NA NUOVA ALBA. È LA TENTAZIONE E
la condanna di ogni governo. Ma in geopolitica la palingenesi quasi mai è virtù.
Ogni rigenerazione, ogni rinascita presuppone una confagrazione, una sovversio-
ne, la demolizione traumatica di un ordine, un trapasso; e sulle rovine di rado
cresce moneta geopolitica. Uno Stato trae linfa dalla profondità e solidità delle sue
radici: le istituzioni, dal latino in-statuere: fondare, costituire, stabilire nell’uso or-
ganismi, assetti destinati stabilmente a curare il bene comune. Da qui riparte il
gabinetto Draghi. L’impronta di tenace continuità istituzionale viene tracciata in
prima battuta dal presidente Mattarella, l’interprete costituzionale più acuto e leale
della storia repubblicana, ermeneuta insieme conservatore e progressista che de-
critta la Carta con mano sicura adeguandola ai tempi e salvaguardandone il carat-
tere più intimo, in quanto tale perenne e immutabile.
Accertata l’irreparabilità della paralisi politica, certifcata l’impellenza di assicu-
rare una guida di governo al paese stritolato fra epidemia e recessione, il presiden-
te punta su una fgura che riunisca doti di pragmatismo, cultura istituzionale e
reputazione internazionale. Da qui si dipana il canovaccio di un governo che più
politico non potrebbe essere perché deve operare scelte fondanti che segneranno
il paese per decenni. D’altronde un tecnocrate – lemma inteso dispregiativamente
nel gergo partitico, che noi volgiamo in positivo – diventa «ex» nel momento stes-
so in cui è chiamato agli affari di Stato per volere del parlamento, che si esprime
in nome del popolo, peraltro con una maggioranza mai così vasta. Gli indirizzi
politici alle Camere, il governo a Palazzo Chigi; le istruttorie non a superfetazioni
extra ordinem ma a funzionari ministeriali, i pareri non a vanitosi esternatori ma a
disciplinati professionisti già innervati fsicamente e culturalmente nel corpo stata-
le. Il Piano di ripresa sul quale era caduto l’esecutivo precedente adesso viene
pensato con praticità e concretezza aziendale, alla stregua del bilancio consolidato 105
SE L’ITALIA MATURA

di una multinazionale e disciplinatamente confezionato secondo i macchinosi ep-


pure ineludibili riti europei. L’economia alla Ragioneria, le emergenze alla Prote-
zione civile, la logistica all’Esercito, la sicurezza della Repubblica al capo della
Polizia, le relazioni internazionali a personalità solidamente legittimate dal voto e
sostenute da robusti dicasteri. La grammatica dell’azione di governo si declina in
sole tre voci: pragmatismo, ragionevolezza, ortodossia istituzionale. Per l’Italia,
quasi una rivoluzione.

Sicurezza
Intendiamo il lemma passe-partout: per l’individuo è precondizione dell’eser-
cizio di ogni diritto di libertà; per la collettività, è bene pubblico sottostante qualsi-
asi ambito della vita comune: collocazione geopolitica, governo del territorio, coe-
sione sociale, economia, solidità istituzionale. In una parola, sovranità. Ma non
basta. In geopolitica, e non solo, non si è se non si sa di essere.
Per capire l’Italia bisogna partire da qui, dall’incoscienza di sé. Siamo vittime
di un paradosso identitario, malattia autoimmunitaria: in medicina processo mor-
boso nel quale l’organismo, intollerante ai propri stessi costituenti chimici, non si
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riconosce e forma anticorpi per autocombattersi, fnendo per distruggersi. Dall’e-


sterno deve apparire bizzarro il complotto anti-italiano che noi stessi abbiamo
messo in piedi confondendo una ricchezza culturale bimillenaria universale con la
disomogeneità e il particolarismo, per giunta trascurando di affancare alla nazione
uno Stato che delimiti visivamente la strada comune. Eppure, nella storia umana
non esiste una nazione antropologica, linguistica, culturale più omogenea e indi-
scussa della nostra 1. Il gioco sarebbe potuto forse andare avanti all’infnito se la
crisi demografca non stesse rapidamente depauperando le classi anagrafche pro-
duttive avviando il paese alla senilità, che precede l’estinzione; se la crescita non si
fosse arrestata da vent’anni; e se la distribuzione delle risorse, sempre più disegua-
le e ingiusta, non stesse avvelenando l’unità nazionale.
La prima sfda per il governo è da far tremare i polsi: avviare un processo au-
toterapico attraverso il quale gli italiani comincino a riconoscersi perlomeno in
quello che agli altri sembrano – non poco, se si pensa alla magia, al mito e al fa-
scino che avvolgono l’identità italiana – senza presunzione e senza complessi; a
stabilire l’interesse nazionale e come ragionevolmente perseguirlo. Il primo passo
è ragionare su quale collocazione geopolitica ci conviene, giacché la neutralità nel
sistema internazionale non esiste; non si può accontentare tutti, come per indole
vorremmo e maldestramente abbiamo cercato di fare. Bisogna buttarsi nella mi-
schia preparandosi a pagare il costo dell’inimicizia degli avversari e a riscuotere il
valore del contributo apportato alle infrastrutture politiche e di sicurezza dei nostri
alleati. Su Cina, Russia, tecnologia delle comunicazioni e reti energetiche non c’è
spazio discrezionale, tanto vale farsene subito una ragione. La strategia generale

106 1. «Perché non possiamo non dirci italiani», editoriale, Limes, «Una strategia per l’Italia», n. 2/2019.
A CHE CI SERVE DRAGHI

(grand strategy) la stabilisce l’egemone – e qui si tratta di vita o di morte – a noi


resta la tattica (strategy) ma, a volerla esercitare, non è poco 2.

Interesse nazionale
È il tema che fa da sfondo a ogni altro, questione vecchia ma nuova, cioè at-
tuale e irrisolta  3. Perso malamente il secondo confitto mondiale, sugli esiti del
quale è costruita l’odierna architettura internazionale, lo Stato monarchico-fascista
italiano si dissolse consegnandosi alla mercé dei vincitori. Non così la nazione, che
aveva avuto la forza di scacciare i nazisti e dare vita alla Prima Repubblica. Nel
dopoguerra, tre fattori garantirono al paese la riconquista della soggettività geopo-
litica e di una dose di dignità: l’ingresso nell’Alleanza Atlantica e la cofondazione
della Comunità economica europea; la geografa che ci regalava preziosi confni
con due mondi irti di pericoli per l’Occidente – a oriente con la cortina di ferro, a
meridione con il turbolento mondo mediterraneo; e l’incistamento nella città di
Roma della sede della Chiesa cattolica, entità grandiosa, universale, immaginifca.
Da allora, alternando euforie senza fondamento e disperazioni senza scampo,
abbiamo costantemente rinunciato a defnire l’interesse nazionale, a delimitare il
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nostro spazio d’azione e a progettare infne, o almeno sognare, il futuro. Qui la


seconda impellenza del governo: censire prima e destinare poi geopoliticamente
le risorse a disposizione, militari, politiche, economiche e immateriali 4.
Più facile a dirsi che a farsi. Le frontiere calde sono sempre le stesse: Mediter-
raneo, limes di Caoslandia, da cui importiamo instabilità, migrazioni incontrollate
– al prezzo del blocco di quelle regolate e vitali – e minacce terroristiche; Balcani
occidentali, da sempre fulcro di traffci criminali 5. L’idea di sicurezza territoriale
nella contemporaneità si è dilatata. La debolezza a meridione della territorialità
italiana pregiudica la solidità dei confni Schengen lacerati da assedi veri e presun-
ti di terrorismi e migrazioni ed espone il fanco italiano a una gracilità che si può
colmare solo con strumenti militari, economici e politici.
Della sponda Sud abbiamo progressivamente perso il controllo. La dissoluzio-
ne della Libia unitaria per volontà francese e britannica, con assenso americano, ha
allontanato quel paese dall’orbita geopolitica italiana attraendolo nel vortice dell’a-
narchia armata e del terrorismo. Ne hanno profttato russi e turchi, adesso presen-
ti militarmente e decisi a restare a lungo nelle (almeno) tre Libie. In una situazione
obiettivamente diffcilissima per un paese come il nostro che non usa lo strumento
militare, il governo sta puntando alla cooperazione economica con l’avvio del pro-
getto di un’autostrada costiera prevista sin dal 2008 e della ricostruzione dell’aero-

2. D. FABBRI, «Italia, radiografa strategica»; «Italia, cosa fare», canale YouTube di Limes.
3. A. ARESU, L. GORI, L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, Bologna 2019, il Mulino.
4. Cfr. nota 1.
5. L. SCOGNAMILLO, «I Balcani occidentali. Strategie e iniziative del Dipartimento della pubblica sicurez-
za nell’ambito dei processi di allargamento dell’Unione Europea», Rivista trimestrale della Scuola di
perfezionamento per le forze di polizia, n. 2/2019. 107
SE L’ITALIA MATURA

porto internazionale di Tripoli, oltre alla promozione di collaborazioni nel settore


energetico e in altri ambiti. La strada è giusta, purché si dia seguito ai propositi con
moneta sonante. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha effcacemente spianato la
strada alla visita del presidente del Consiglio (annunciata per inizio aprile) semi-
nando infuenza geopolitica con un’importante e tempestiva visita bilaterale al
nuovo governo tripolino – la prima di un europeo – seguita da una missione con-
giunta con francesi e tedeschi.
In altri comparti perseguire l’interesse nazionale è per un governo pragmatico
più facile a farsi che non a dirsi. Draghi, che è stato capo dell’unico organo dotato
di poteri sovrani dell’impianto europeo, mentre detta a verbale l’indiscutibilità delle
affliazioni italiane – europea e atlantica, l’una derivazione diretta dell’altra, funzio-
nali all’interesse strategico della potenza imperiale – si muove nello scacchiere
dell’Unione da giocatore corretto ma smaliziato cercando in quello spazio di gioco
la migliore realizzazione dell’interesse italiano, agendo sempre dentro le regole e le
prassi. Forse convinto, come noi, che l’Ue non è soggetto geopolitico, tutt’al più
piattaforma di uffciali di collegamento. Il governo è il primo ad attivare il regola-
mento europeo sull’esportazione dei vaccini che gli Stati membri avevano concepito
come arma di dissuasione, mettendo però il tappo rosso alla pistola giocattolo, ren-
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dendola così inidonea alla deterrenza. Su 380 richieste di autorizzazione all’esporta-


zione di vaccini fuori dall’Unione – un tesoretto di decine di milioni di dosi dirette
verso 33 paesi (un quarto di queste al Regno Unito), un solo diniego. È Roma a
suonare la sveglia sulla drammatica debolezza dei contratti conclusi dall’esecutivo
europeo con le multinazionali farmaceutiche. Conseguenza della gracilità costituzio-
nale dell’Ue, entità senza potenza, e di una sobrietà del tutto fuori luogo che ai
ventisette costa mille volte di più del risparmio che gli incauti funzionari europei,
con il consenso degli Stati membri, speravano di ottenere.
Commentando a caldo la presa di posizione della signora Merkel sul vaccino
russo, Draghi scandisce che la sicurezza del paese è il valore primario. Se la Com-
missione saprà fare, bene. In caso contrario, l’Italia pragmaticamente troverà la
sua strada. La sintesi del presidente del Consiglio contiene altri due messaggi,
impliciti ma non criptati. Uno all’egemone, padrone di fatto di tutti i vaccini in uso
alle nostre latitudini, tranne quello anglo-svedese la cui fornitura è più problema-
tica: assicuri approvvigionamenti se non vuole forzarci a volgere altrove lo sguar-
do. L’altro alla coppia aperta franco-tedesca: su questa faccenda l’Italia sta con
Berlino – Parigi invece è fredda – ma su altri dossier faremo l’opposto, seguendo
la nostra legittima convenienza. C’è un trio in testa all’Unione. Difesa della sovra-
nità, dunque, non sovranismo, parolaccia propagandistica, sinonimo di superf-
cialità e xenofobia.

Territorio
In Italia poteri criminali e informali ne hanno conteso il dominio allo Stato per
108 decenni. Prima nel Meridione, terra d’origine di mafe per antonomasia. Poi in aree
A CHE CI SERVE DRAGHI

del Centro e del Settentrione, dove le organizzazioni mafose hanno tessuto allean-
ze nell’ombra 6, relazioni economiche, sociali e politiche con le collettività, le im-
prese e le istituzioni. Trovando terreno fertile, pronto al compromesso, fno al ra-
dicamento territoriale e al riconoscimento sociale. Il mito dell’invincibilità della
mafa vissuta e subita 7 è seccamente smentito dal lavoro di polizie e magistratura,
e conferma semmai l’ineluttabilità di un impegno costante, non ridimensionabile.
Le dinamiche sono conosciute, indagate, studiate, rivelate da indagini, processi e
analisi scientifche; lo Stato si è dotato di strumenti giuridici e investigativi per fran-
tumare la società segreta criminale che trae forza primaria dalla formidabile risorsa
del legame indissolubile e coercitivo che unisce gli associati, regalando a ogni in-
dividuo l’immenso potere di rappresentare il tutto, al prezzo della rinuncia al dirit-
to di recesso.
Resta più oscuro e irrisolto l’altro carattere delle mafe, la capacità di penetrare
nel corpo sociale attraverso cerchi concentrici, il nucleo interno degli eletti e intor-
no reti relazionali cementate da interessi 8. L’evoluzione più infda è il consolida-
mento di complesse architetture nelle quali si incontrano mafosi, criminali comuni,
imprenditori, professionisti, politici e amministratori pubblici, cementate da conve-
nienza, corruzione, favoritismi. Grumi di collusioni, interessi, affari nelle quali si
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saldano il sottomondo criminale e il sopramondo uffciale: il mondo di mezzo 9.


Una melma appiccicosa e opaca nella quale spesso i malfattori sono mascherati da
galantuomini e si contagiano assimilandosi reciprocamente mafosi, delinquenti
comuni, faccendieri, politici e burocrati titolari di processi decisionali di spesa pub-
blica. È il modello della Mafa capitale romana – di cui è controversa la corretta
qualifca penalistica – che segna un pericolo mortale che si ripropone in indagini
anche molto recenti.
È il capitale sociale a marcare la differenza. Le bande di malviventi si scontrano
frontalmente con i poteri pubblici, guardie contro ladri. Le mafe si modellano co-
me ordinamento autonomo; condizionano lo Stato secondo meccanismi parassita-
ri infltrandolo alla stregua del virus in un corpo sano. Il corpo si ammala ma resta
cosa diversa dal bacillo che l’ha infettato. I nuovi consessi affaristico-criminali, di
cui sono fulcro funzionari pubblici e politici, sono paragonabili a tumori, frutto di
una degenerazione intrinseca di alcune molecole che si estende all’intero organi-
smo, distruggendolo. È un meccanismo simile a quello che negli anni Ottanta se-
gnò il discrimine fra terroristi di sinistra ed eversori di destra. I primi facevano
scorrere sangue innocente in nome di un patologico e vigliacco programma di
trasformazione della società. Gli attori erano individui esclusi dal tessuto sociale,
estranei alle istituzioni, accomunati dal risentimento e dal desiderio di vendicare la
propria marginalità. Gli altri no. Registi e soldati del terrorismo nero erano rigoro-

6. La riuscitissima formula è di R. SCIARRONE, Alleanze nell’ombra. Mafe ed economie locali in Sicilia e


nel Mezzogiorno, Roma 2011, Donzelli.
7. L’espressione si deve ad Attilio Bolzoni.
8. R. AITALA, «Fenomenologia dei poteri mafosi», Limes, «Il circuito delle mafe», n. 10/2013, pp. 13-23.
9. G. PIGNATONE, M. PRESTIPINO, Modelli criminali. Mafe di ieri e di oggi, Roma-Bari 2019, Laterza. 109
SE L’ITALIA MATURA

samente intranei o strettamente legati a organi statali – politici, magistrati, militari,


carabinieri, poliziotti – traditori, sedimenti purulenti della stagione fascista, nostal-
gici dell’autoritarismo in camicia nera. Coltivavano un progetto politico non privo
di infuenze e rifessi internazionali: alzare il livello dello scontro attraverso una
strategia della tensione, seminare il terrore per innescare caos e anarchia così da
poter invocare, o imporre, governi d’ordine, il ritorno all’autocrazia 10.
Il territorio deve essere anche governato, non solo controllato nel senso
dell’ordine pubblico. Non è il momento adatto, ma la coesione nazionale impone
una revisione profonda delle dinamiche centro-periferia. Sono necessarie semplif-
cazioni e accentramenti, altro che neosecessionismi in salsa veneziana, siciliana o
napoletana. I Comuni svolgono una vitale e insostituibile funzione di prossimità al
cittadino e di apprestamento di servizi essenziali. È l’identità delle Regioni a dove-
re essere decisamente ripensata. Il potere legislativo regionale è in massima parte
ingiustifcato, particolarmente quando si tratta dei diritti fondamentali dei cittadini
la cui tutela è rimessa al centro anche negli Stati federali per sostenere stabilità
sociale e unità nazionale. E il riparto – dovremmo averlo imparato – serve solo a
paralizzare la Corte costituzionale. Le Regioni devono amministrare, con la garan-
zia dello Stato. Quella che Draghi promette, stando bene attento a misurare le
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parole – offerta di sostegno e non esercizio di poteri sostitutivi – per rimediare ai


preoccupanti squilibri nell’attuazione del piano vaccinale da parte delle Regioni.

Economia
Almeno tre questioni economiche impegneranno il governo nei prossimi anni.
La più urgente e vitale è programmare e soprattutto spendere i fondi europei:
quest’ultimo è un compito immane per un paese che non è mai riuscito a gestire
nemmeno piccoli fnanziamenti, fguriamoci duecento miliardi da rendicontare mi-
nuziosamente. La materia degli appalti è un buco nero di norme affastellate una
sull’altra, adempimenti burocratici medievali, piccole e grandi riforme che mai
hanno garantito un equilibrio ragionevole fra effcienza, controllo e trasparenza. Il
codice dei contratti pubblici del 2016 prometteva miracoli e invece ha dilatato
all’inverosimile i tempi degli appalti. L’Autorità anticorruzione, oggetto di massiccio
investimento retorico della politica in anni recenti, si è rivelata una «tigre di carta»
nelle parole di un suo protagonista 11.
La seconda consegue all’epidemia che sta introducendo con estrema rapidità
radicali trasformazioni nei mercati leciti e illeciti e ha aperto nuove falle di vulne-
rabilità nel sistema mondiale: traffci di prodotti medicali e dispositivi di protezione
individuale contraffatti; corruzione nelle strategiche catene di approvvigionamento;
incremento esponenziale dei traffci di milioni di bambini, profughi e persone in

10. R. AITALA, Il metodo della paura. Terrorismi e terroristi, Roma-Bari 2018, Laterza, pp. 69 e 213.
11. M. CORRADINO, L’Italia immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire, Roma
110 2020, Chiarelettere, pp. 185 e passim.
A CHE CI SERVE DRAGHI

stato di bisogno; attacchi informatici contro istituzioni sanitarie per sottrarre dati
personali e fnanziari di degenti e pazienti; indebolimento delle capacità di contra-
sto nazionale e internazionale. Fenomeni globali ai quali da noi in modo partico-
lare si unisce lo sfruttamento della congiuntura da parte di mafe e di altri soggetti
criminali dotati di liquidità e patrimoni inspiegati per rilevare aziende in crisi e as-
sumere il controllo sempre più pervasivo di settori economici legali 12.
Infne. La crisi sanitaria ha ulteriormente accentuato l’aggressione di attori
stranieri – francesi, tedeschi e di altri paesi alleati – a beni e assetti produttivi stra-
tegici italiani al fne di dominare i mercati internazionali e acquisire capitale geo-
politico. È in gioco non solo la competitività del sistema economico nazionale ma
la sovranità politica dello Stato. Il governo ha rafforzato nel 2019 gli strumenti
normativi del golden power, meccanismo di tutela dei settori produttivi strategici
che consente alla presidenza del Consiglio di verifcare e contrastare le acquisizio-
ni predatorie e opportunistiche di aziende e beni da parte di investitori stranieri.
È strumentale a questa funzione il ruolo degli apparati informativi che in anni
recenti hanno incrementato con successo l’azione di ricerca e di analisi a benef-
cio del decisore politico 13.
Il nuovo governo sembra ben consapevole della profondità delle sfde e
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dell’incrocio nell’attuale contingenza epidemica dei diversi profli della sicurezza,


cioè ordine e incolumità pubblici (security e safety). Draghi affda il Sistema di in-
formazione per la sicurezza della Repubblica a Franco Gabrielli, che padroneggia
con occhio strategico tutti gli ambiti della sicurezza; a lungo funzionario di polizia
e dirigente dell’antiterrorismo, ha gestito da direttore la transizione dal Sisde all’Ai-
si dopo la riforma del comparto, poi da prefetto è stato il capo della Protezione
civile e fn qui il capo della Polizia.

Coesione sociale
Il degrado della coesione sociale è il pericolo mortale. Può indurre rapidamen-
te la dissoluzione dell’unità nazionale e avvitare il paese in una spirale senza fne.
L’Italia non ha minoranze etniche o religiose problematiche e ghetti come altri
paesi europei, per esempio la Francia di Macron che studia misure di assimilazione
forzata delle minoranze per irrobustire l’unità nazionale. Da noi le disparità sono
fra italiani, in un paese che ha un risparmio privato di 4.200 miliardi, il doppio del
pil pre-epidemia e una distribuzione della ricchezza drammaticamente sbilanciata.
La crisi di Lehman Brothers del 2008 sembrava aver segnato il punto più basso
della storia umana recente, segnalando il drammatico aumento del divario fra i
ricchi e i poveri, che da allora è andato costantemente approfondendosi anche in
paesi poco toccati dalla recessione, come la Germania. Nessuno avrebbe mai im-
maginato abissi più profondi. Il Covid-19, invece, ha innescato l’emergenza econo-
12. R. AITALA, «Le cause del male, le sfde del rilancio», Limes, «Quel che resta dell’Italia», n. 11/2014,
pp. 35-42; ID., «Per chi tifano le mafe», Limes, «L’Italia di nessuno», n. 4/2013, pp. 151-158.
13. Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2020, www.sicurezzanazionale.gov.it 111
SE L’ITALIA MATURA

mica più grave dal secondo confitto mondiale. Le diseguaglianze condannano alla
marginalità e all’esclusione milioni di persone, dividendo le società fra salvati e
sommersi. In Italia il fenomeno è reso cento volte più grave perché una parte non
secondaria del paese, soprattutto anche se non solo al Meridione, vive di economia
informale. È l’esercito dei giornalieri, che la mattina escono da casa alla ricerca di
un lavoro occasionale che permetta di mettere insieme qualche decina di euro e
ora sono senza speranza. Sfuggono alle statistiche, sono quasi del tutto sconosciu-
ti al fsco, vivono nei bassifondi dei centri urbani e rischiano di essere condannati
all’inedia dall’epidemia. A queste persone, oltre ai tanti che hanno perso il lavoro
subordinato o vedono sprofondare la propria azienda o la propria attività autono-
ma, il governo dovrà dare risposte sia immediate sia di prospettiva. Servono inter-
venti di solidarietà e meccanismi volti ad assicurare strumenti di sussistenza a tutti,
speranza e opportunità soprattutto ai giovani.
Le conseguenze dell’epidemia si proietteranno per molti anni e sarà compito
del comparto informativo e di sicurezza cogliere i segnali del disagio sociale per
prevenire l’esplosione della piazza, l’incremento dei fenomeni delinquenziali e il
proliferare del radicalismo politico-ideologico. Affrontare l’emergenza come un
buco da tappare non è suffciente; è davvero cambiato tutto e non è pensabile fare
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ritorno allo stato patologico di un anno fa. Bisogna non ricostruire ma costruire un
paese più uguale, giusto e unito; dare corpo e sostanza alla costituzione che impo-
ne alla Repubblica di assicurare a ogni cittadino l’opportunità di realizzarsi e par-
tecipare alla vita sociale del paese rimuovendo gli ostacoli che limitano la libertà e
l’eguaglianza sostanziale 14.

Trauma o convalescenza?
Massimo Franco ha acutamente descritto come trauma salutare il nuovo equi-
librio di governo, interpretandolo come sintomo e risultato di un cambiamento
profondo che disorienta i partiti, costringendoli a nuove rotte 15. È vero anche il
contrario. Per ermeneutica storica si può guardare alla fase in atto come esordio del
processo di guarigione da un trauma cronico, vecchio di sessant’anni, cagionato al
paese da una maturità che non sapemmo avere 16. L’Italia, disorientata e spaurita
dopo la sconftta del 1945, seppe ricostruire e negli anni Sessanta si inebriò di un
tumultuoso «miracolo» economico che la politica non riuscì a governare, approfon-
dendo disunioni, particolarismi, corporativismi e generandone di nuovi. È l’inizio
di un profondissimo impoverimento culturale e politico nazionale. Pochi decenni
più tardi nella Penisola si scoprì tristemente smarrita la capacità di sacrifcarsi, so-
gnare e programmare insieme.
Quello che forse si apre è dunque un corso non nuovo ma vecchio, cioè lun-
gamente atteso, nel quale ai dirigenti non si chiede di vergare spartiti originali, ma

14. C. COTTARELLI, All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita sociale ed economica, Feltrinelli, 2021
15. M. FRANCO, «Un trauma salutare per un cambiamento vero», Corriere della Sera, 19/3/2021.
112 16. G. CRAINZ, Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Roma 2012, Donzelli, p. 3.
A CHE CI SERVE DRAGHI

di interpretare le energie produttive, sociali e culturali che nel paese già esistono
diffusamente ma in forma disorganica, inconsapevole, anarchica. La parola giusta
non è dunque cambiamento, lemma abusato che perciò suona insincero, ma ma-
turazione. Percorso nient’affatto lineare nel quale politica e geopolitica procedono
o naufragano insieme, giacché la solidità interna è la condizione primaria della
soggettività geopolitica e la collocazione planetaria presupposto della sovranità. Lo
spartito è la strategia, le istituzioni l’orchestra. Il gabinetto Draghi sembra muovere
da qui, pensiero e atto; il primo prerogativa di politica, governo e parlamento;
l’altro dovere delle istituzioni che danno stabilmente voce a una collettività che
possa chiamarsi al tempo stesso popolo, nazione e Stato.

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113
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A CHE CI SERVE DRAGHI

COME CURARE
IL TRAUMA
DEMOGRAFICO di Massimo LIVI BACCI
L’Italia è l’unico grande paese europeo a perdere abitanti. Nel
2020 la popolazione è diminuita di oltre 300 mila unità. I flussi
migratori sono più deboli. Ma la vera emergenza sta nel calo delle
nascite. Alcune misure per incentivarle. Il Family Act non basta.

1. N
EL FEBBRAIO DELLO SCORSO ANNO È
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arrivato da noi l’Ospite Inatteso. Abbiamo reagito prontamente, con chiusure e


zone rosse, ma il coronavirus, una volta entrato in circolazione, si è diffuso veloce-
mente. Gli ospedali sono stati sommersi dai malati e la curva dei decessi si è rapi-
damente impennata. Con la remissione del contagio nella tarda primavera abbiamo
sperato che il peggio fosse passato e che lo shock stesse riassorbendosi, eravamo
pronti a catalogare l’episodio come un tragico evento congiunturale, di durata re-
lativamente breve. Così non è stato. Stiamo traversando la seconda primavera di
crisi e se non nell’occhio del ciclone, siamo pur sempre nella sua orbita. A marzo
i decessi giornalieri hanno oscillato tra 300 e 400 unità: guardiamo con speranza
alle vaccinazioni, ma l’operazione sarà lunga e si concluderà verso la fne dell’an-
no. Poi inizierà una convivenza con il virus, non sappiamo quanto lunga. In vista
di questa occorre, già da ora, defnire regole e comportamenti – e nuovi piani
vaccinali – per un ritorno a una (nuova) normalità. E saremo, allora, nel terzo anno.
Più di cent’anni fa le popolazioni europee erano convinte che la guerra appena
scoppiata, non ancora mondiale, sarebbe stata di breve durata. Quattro anni di
confitto furono la tragica smentita. Questo cambio di visione e di psicologia è
necessario: l’azione collettiva è chiamata, nell’immediato, a guidare il ritorno alla
normalità e a riparare per quanto possibile i danni sofferti. Ma essa deve inoltre
elaborare le strategie a più ampio orizzonte per contenere le conseguenze dell’e-
pidemia destinate a prolungarsi nel tempo. Queste conseguenze sono anzitutto di
natura demografca e occorre brevemente richiamarle.

2. Anzitutto un dato complessivo: durante il 2020 la popolazione del paese è


diminuita di quasi 400 mila unità per effetto dell’aumento dei decessi, della dimi-
nuzione delle nascite e della compressione dell’immigrazione. Il trend negativo è 115
COME CURARE IL TRAUMA DEMOGRAFICO

iniziato nel 2015, è continuato senza interruzione fno a oggi e c’è da temere che
nel 2021 si replichi il calo del 2020. L’Italia è l’unico grande paese europeo con una
popolazione in declino. Questa è una spia eloquente della crisi vissuta dal paese,
che rifette uno squilibrio strutturale ulteriormente aggravato dall’epidemia. Il Co-
vid-19 è stato la causa accertata, nel 2020, di circa 74 mila decessi, portando il loro
numero totale a 746 mila unità, il 12,6% in più rispetto alla media dei cinque anni
precedenti. Con una età media dei deceduti attorno agli 80 anni, nonostante il for-
te aumento dei decessi tra il 2019 e il 2020 l’aspettativa di vita ha avuto un modesto
arretramento, maggiore per gli uomini (-1,46 anni) che per le donne (-1,13), colpi-
te meno severamente dal virus.
L’apparente contrasto tra un aumento dei decessi del 12,6% e una diminuzione
della speranza di vita dell’1,6% è facile da intuire. A differenza delle vittime dell’in-
fuenza spagnola, la cui età media fu attorno ai 30 anni, le vittime del Covid-19
sono state persone anziane, spesso affette da gravi patologie, con un’età media di
circa 80 anni. Com’è noto (si veda la carta) il coronavirus è stato più letale nel
Nord che nel Sud: in alcune province la perdita di aspettativa di vita ha sforato i
cinque anni (Brescia, Bergamo, Cremona, Piacenza), in altre non ci sono state va-
riazioni rispetto all’anno precedente. Benché sia presto per un consuntivo, la mor-
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talità per Covid-19 ha avuto un forte gradiente sociale e ha approfondito le disu-


guaglianze già esistenti. Gli effetti negativi continueranno anche nel 2021: nei primi
tre mesi dell’anno le vittime del virus sono state 35 mila e questo si tradurrà in una
ulteriore, frazionale diminuzione dell’aspettativa di vita.
Nei paesi occidentali più popolosi (Usa, Germania, Gran Bretagna, Francia,
Italia e Spagna) la contrazione della speranza di vita è stata compresa tra 0,6 anni
(Germania) e 1,8 anni (Spagna). È opinione abbastanza diffusa che esauriti gli ef-
fetti diretti dell’epidemia possa riprendere la tendenza storica all’aumento della
longevità, favorita anche dall’effetto weeding: il coronavirus ha «eliminato» le per-
sone più fragili, e quindi almeno per un certo tempo (al più qualche anno) la so-
pravvivenza dovrebbe trarne benefci. Tuttavia non è peregrina l’ipotesi che dato
l’alto numero di contagi, specie tra le centinaia di migliaia di sintomatici ammalati
seriamente alcuni possano avere sviluppato fragilità che ne compromettano la sa-
lute, con conseguenze negative per la sopravvivenza. Forse non si tratterà di gran-
di cifre, ma occorre tenerne conto.
Con effetto ritardato, l’epidemia avrà ripercussioni anche sulle nascite: se ne
hanno avvisaglie nel numero dei nuovi nati in 15 grandi città nel novembre e nel
dicembre 2020, diminuito rispettivamente dell’8% e del 21% rispetto al valore
medio dei cinque anni precedenti, derivante dai concepimenti avvenuti media-
mente nei primi due mesi di confnamento. Il 2020 si è chiuso con 404 mila na-
scite, contro le 420 mila del 2019 e le 486 mila del 2015. Non è facile «isolare»
l’effetto netto dell’epidemia sulle nascite, ma non c’è dubbio che il combinarsi del
peggioramento delle condizioni economiche di molte coppie – per perdita del
lavoro, per la riduzione delle ore lavorate o per l’erosione del reddito d’impresa
116 – con l’incertezza sul futuro possa determinare una ulteriore compressione della
A CHE CI SERVE DRAGHI

Confni regionali Speranza di vita alla nascita


IL TRAUMA DEMOGRAFICO Confni provinciali diferenza tra il 2018 e il 2020
< 6 mesi
tra 6 mesi e 1 anno
tra 1 e 2 anni
tra 2 e 3 anni
tra 3 e 6 anni

Trento
Aosta Trieste
Milano
Venezia
Torino

Genova Bologna

Firenze Ancona

Perugia
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Mare Adriatico
L’Aquila

ROMA
Campobasso

Bari
Napoli

Potenza

Mar Tirreno

Cagliari

Catanzaro

Palermo

Mar Mediterraneo

117
Fonte: https://www.neodemos.info/2020/11/lo-sapevata-che/
COME CURARE IL TRAUMA DEMOGRAFICO

propensione ad avere fgli. Una curiosità rivelatrice: per produrre 404 mila nascite,
mezzo secolo fa, bastarono quattro regioni: Lombardia, Piemonte, Campania e
Sicilia. È invece incerto quali possano essere le conseguenze a medio termine
dello shock epidemico: un recupero di nascite rinviate per prudenza e un ritorno
ai già bassissimi livelli precedenti, oppure un cambio (in positivo o in negativo)
nelle preferenze riproduttive? La storia di altre crisi offre esempi contrastanti ed è
onesto dire di «non sapere» e prudente non azzardare previsioni.
Infne, le migrazioni e la mobilità. Qui il quadro è assai più complicato e non
si dispone di dati adeguati relativi al 2020. Ma come ben si sa, la risposta all’epi-
demia è stata la stessa – in mutate condizioni – dall’epoca della peste: distanziar-
si dai contagiati, diminuire i contatti, isolarsi, allontanarsi. Ovunque nel mondo, la
mobilità – di prossimità, interna ai paesi, internazionale – si è fortemente ristretta.
Nel 2019, il saldo migratorio anagrafco con l’estero era risultato positivo per 143
mila unità, somma algebrica tra un saldo migratorio positivo ancora elevato per la
componente straniera e un saldo migratorio negativo in lieve fessione per la
componente italiana. Il presidente dell’Istat Blangiardo scriveva su Neodemos che
«il recente report Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafche non manca di
sottolineare come nei primi otto mesi del 2020 – secondo le prime anticipazioni
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disponibili – le migrazioni nel nostro paese abbiano subìto una drastica riduzione
(-17,4%). In particolare, rispetto al confronto con gli stessi otto mesi del quin-
quennio 2015-2019 si è registrata una fessione del 6% per i movimenti interni, tra
Comuni, e del 42% e 12%, rispettivamente, per quelli da e per l’estero. Su quest’ul-
timo punto l’unico dato in controtendenza riguarda i fussi verso il Regno Unito
(+62,8%), ma si tratta esclusivamente di un effetto dovuto alle regolarizzazioni
indotte dal Brexit e relative a soggetti trasferitisi già da tempo al di fuori dei con-
fni nazionali»1.
Questo è il quadro sommario. Nel 2021, supponendo che si sia nella parte f-
nale della fase acuta dell’epidemia, avremo un’ulteriore erosione della sopravvi-
venza, un’accentuata fessione delle nascite, una parziale ripresa della mobilità.

3. Se gli eventi recenti segnano una discontinuità economica, sociale e poli-


tica rispetto al passato, quali sono le azioni da intraprendere dettate dalla situa-
zione demografca che abbiamo tratteggiato? Cominciamo dal fronte della salute
e della sopravvivenza e raccogliamo gli insegnamenti che ci vengono dalla re-
cente esperienza. Ho già accennato al fatto che passata la fase acuta dell’epide-
mia è assai probabile che il buon livello di salute e l’alta longevità della popola-
zione ritornino ai livelli del passato. Tra il 1990 e il 2019 per l’insieme della po-
polazione l’aspettativa di vita è aumentata da 76,8 a 83,2 anni, un balzo straordi-
nario (gli italiani sono tra i più longevi al mondo), pari a due mesi e mezzo di
vita in più per ogni anno di calendario trascorso. Questa corsa, che è destinata
a rallentare in futuro per motivi naturali, è stata sostenuta da vari fattori: cono-

118 1. bit.ly/3d3g4Nb
A CHE CI SERVE DRAGHI

scenza e cura di sé stessi, alimentazione e condizioni abitative migliori, lavori


meno usuranti e via dicendo. Ma il fattore principale è sicuramente il progresso
scientifco, appoggiato a un sistema sanitario ben funzionante, accessibile a tutti,
scientifcamente aggiornato.
Il Covid-19 ha colto impreparata non solo l’Italia ma tutti i paesi più avanzati
e attrezzati, e questo può spiegarsi storicamente. Verso la metà del secolo scorso
si pensava di essere sulla strada giusta per alleviare, o addirittura eliminare, il far-
dello delle patologie infettive e trasmissibili. Antibiotici, vaccini, controllo dei vet-
tori, igiene pubblica avevano fatto rapidamente progredire la sopravvivenza. Ma-
lattie secolari erano state sradicate. La potenza di fuoco della scienza si diresse,
allora, verso le patologie non trasmissibili, quelle dei sistemi cardiocircolatorio o
neurologico, il cancro. L’emergere di nuove patologie infettive o il riemergere di
quelle antiche, credute debellate, apparivano fenomeni circoscritti e comunque
controllabili. Fino all’emergere dell’Aids, negli anni Ottanta, che fu un tragico ri-
chiamo al fatto che il mondo biologico è sempre in movimento e che i rapporti tra
microbi, vettori, animali, ambiente e umani è in continua, imprevedibile evoluzio-
ne. Ebola, Sars, Mers, Dengue, Lassa, Lyme e molte altre patologie hanno avuto
effetti prevalentemente locali e numericamente modesti. Non così l’Aids (forse 30
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milioni di decessi nel mondo), che però ha avuto caratteristiche ben diverse dalle
epidemie tradizionali, essendo assai più legata ai comportamenti individuali e con-
cettualmente più vicina all’abuso di oppioidi, al tabagismo o all’alcolismo che non
agli impalpabili contagi delle epidemie classiche.
In Italia, ma anche in molti altri paesi, i progenitori più recenti del Covid-19
– e poi le pandemie infuenzali asiatica del 1957-58 e di Hong Kong del 1968-69
– hanno causato solo modeste increspature sulla curva dei decessi, simili a quelle
verifcatesi in anni di eccessi climatici, di gran freddo o di grandi calure. Tutto
questo spiega perché il mondo si sia trovato impreparato ad affrontare la nuova
epidemia. La guardia era stata abbassata, la sorveglianza attenuata, le protezioni
più semplici (come le mascherine) erano introvabili, le risorse della sanità più
preparate alla guerra di lungo corso contro le patologie tumorali e cardiocircola-
torie che non ai blitz epidemici, le amministrazioni confuse, più orientate al po-
tenziamento dei grandi presidi sanitari che non agli avamposti ben distribuiti sul
territorio.
Questa dunque la prima lezione: le patologie infettive ed epidemiche posso-
no emergere o riemergere in ogni momento, quindi dobbiamo essere attrezzati per
affrontarle. Questo signifca, in primo luogo, un’azione di rafforzamento delle fun-
zioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e del Centro europeo per la
prevenzione e il controllo delle malattie (European Centre for Disease Prevention
and Control, Ecdc), deputato a «rafforzare le difese dell’Europa contro le malattie
infettive» mediante sorveglianza, monitoraggio delle epidemie e consulenza scien-
tifca. La voce di questa agenzia è stata assai debole e per elaborare strategie euro-
pee comuni nella difesa antinfettiva sarà necessario ripensare la sua missione, che
dovrebbe comprendere effettive funzioni operative e di coordinamento. Un’epide- 119
COME CURARE IL TRAUMA DEMOGRAFICO

mia, come un evento climatico, non conosce confni e per prevenirne la diffusione,
o attenuarne l’impatto, è necessaria una strategia comune di risposta, possibile
solo se vengono integrate maggiormente le politiche sanitarie dei vari paesi, poten-
ziando le strutture esistenti o creandone di nuove.
In Europa ogni paese è andato per conto suo, senza alcun coordinamento dei
piani vaccinali, delle modalità di gestione della mobilità, della chiusura e riapertura
dei confni. Un’iniziativa comunitaria c’è stata, fortunatamente, nell’acquisto dei
vaccini anche se si sono fatti errori di valutazione. L’impegno dell’Italia in sede
internazionale, e soprattutto comunitaria, deve dunque sostenere prioritariamente
il rafforzamento di effcienti forme di coordinamento e cooperazione per la sorve-
glianza e il contrasto dei fenomeni infettivi.

4. Se sul piano internazionale le responsabilità dell’impreparazione sono am-


piamente condivise (alcuni paesi, come gli Stati Uniti, che avevano iniziato la pro-
cedura di uscita dall’Oms – fortunatamente sospesa da Biden – sono più responsa-
bili di altri), sul piano interno il contenzioso tra Stato e Regioni è risultato fortemen-
te dannoso. La lotta contro un’epidemia deve essere coerente e ben coordinata. Le
autonomie regionali devono agire in subordine e in sintonia col disegno generale.
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Si è discusso (e litigato) su tutto – scuola, mobilità, orari di lavoro, piani di vacci-


nazione, aperture e chiusure dei confni comunali e regionali. Eppure la Corte
costituzionale (sentenza n. 37 del 24 febbraio scorso) ha detto: «A fronte di malattie
altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, ragioni logiche, pri-
ma che giuridiche radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disci-
plina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle per-
sone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporanea-
mente l’interesse della collettività. Accade, infatti, che ogni decisione in tale mate-
ria, per quanto di effcacia circoscritta all’ambito di competenza locale, abbia un
effetto a cascata, potenzialmente anche signifcativo, sulla trasmissibilità internazio-
nale della malattia, e comunque sulla capacità di contenerla. Omettere, in partico-
lare, di spezzare la catena del contagio su scala territoriale minore, mancando di
dispiegare le misure a ciò necessarie, equivale a permettere che la malattia dilaghi
ben oltre i confni locali e nazionali». Sono parole cristalline, comprensibili perfno
ai non giuristi: la gestione dell’epidemia spetta allo Stato. Si impone una revisione
dei rapporti tra Stato e Regioni, per evitare decisioni dissonanti che inquietano e
disorientano la popolazione.

5. La fondamentale debolezza del sistema è la bassa, bassissima natalità. Se


ne discute da anni, tutti concordano che siamo di fronte a un grave problema,
ma poco, pochissimo si è fatto. In Europa ci sono evidenze, peraltro non conclu-
sive, che vigorosi interventi pubblici possono stabilizzare e perfno invertire la
curva discendente delle nascite. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)
recentemente approvato non affronta il tema di petto, pur invocando interventi
120 per la parità di genere, l’occupazione femminile e quella giovanile, gli asili nido
A CHE CI SERVE DRAGHI

e altro ancora. In Italia ci sono oramai regioni dove il fglio unico è la modalità
riproduttiva prevalente; a livello nazionale quasi un quarto delle donne chiude il
ciclo riproduttivo senza avere avuto fgli. È una situazione di debolezza che ca-
ratterizza la demografa del paese da tre decenni e più, equivalenti alla durata di
una generazione.
Le scelte riproduttive non sono imposte, ma vengono prese in un sistema che
riconosce e difende appieno l’autodeterminazione: la bassa natalità è perciò l’e-
spressione di valori e convincimenti profondamente radicati nella società, frutto
di un intreccio di fattori strutturali sui quali non è semplice incidere. La debolezza
economica delle famiglie, l’instabilità del reddito, la mancanza di una seconda
fonte di reddito in famiglie nelle quali la donna non è occupata, l’ingiustizia del
sistema di welfare per chi non ha lavoro stabile, la durata eccessiva della dipen-
denza dei fgli dai genitori, la loro tardiva entrata nel mercato del lavoro e quindi
il rinvio dell’assunzione di responsabilità familiari quali la convivenza, il matrimo-
nio e la genitorialità. Ecco una lista, certo incompleta, dei fattori che favoriscono
o impongono scelte riproduttive molto prudenti. Sono fattori strettamente legati
sui quali occorrerebbe agire congiuntamente. Il disegno di legge «Deleghe al go-
verno per l’adozione dell’assegno universale e l’introduzione di misure a sostegno
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della famiglia» (goffamente chiamato Family Act), approvato lo scorso anno, af-
fronta molti di questi temi perché si propone: a) di istituire un assegno universale
mensile per ogni fglio a carico fno all’età adulta; b) di rafforzare le politiche di
sostegno alle famiglie per le spese educative e scolastiche; c) di riformare i con-
gedi parentali con congedi di paternità obbligatori; d) di introdurre incentivi al
lavoro femminile, dalle detrazioni per i servizi di cura alla promozione del lavoro
fessibile; e) di «assicurare il protagonismo» (sic) dei giovani under 35, promuo-
vendo la loro autonomia fnanziaria con un sostegno per le spese universitarie e
per l’afftto della prima casa. Tutte misure lodevoli che occorrerà verifcare alla
prova dei fatti e dei fnanziamenti impegnati. Però, l’avvio dell’assegno unico per
i fgli è imminente e avverrà nel prossimo luglio, con l’entrata a regime nel 2022.
Nella legge di bilancio 2021 sono stati stanziati 3 miliardi per il 2021 (e 5,5 miliar-
di per il 2022) per istituire l’assegno unico per i fgli minori di 21 anni, che sosti-
tuirà la congerie disordinata di provvidenze oggi esistenti, dal bonus bebé agli
assegni familiari, dalle detrazioni fscali per fgli a carico agli assegni per le fami-
glie con tre o più fgli minori. L’assegno unico mensile, d’importo variabile (a
seconda del reddito) tra i 50 e i 250 euro riassorbirà le risorse impegnate in queste
provvidenze, con forti guadagni di equità, includendo tutti e dando stabilità e ri-
conoscibilità a un sistema di welfare familiare oggi esposto ai venti della politica,
dei cambi di governo, delle occorrenze di ogni legge fnanziaria. Insomma, è la
strada giusta da tempo invocata: i genitori debbono poter contare sul sostegno
(che in tempi più prosperi potrà essere aumentato) per poter fare i loro calcoli
economici. Perché i fgli si fanno per amore, ma si mantengono con i soldi. Infu-
irà sull’andamento delle nascite? Non lo sappiamo, molto dipende dalla rapida
entrata in gioco delle altre misure prospettate nel Family Act: ma la delega scadrà 121
COME CURARE IL TRAUMA DEMOGRAFICO

a metà 2022, se tutto va bene altre misure entreranno in azione nel 2023. E intan-
to la curva delle nascite si abbassa.

6. La longevità «rimbalzerà» dal suo temporaneo arretramento; la natalità subirà


uno scarto negativo ma non si scosterà dalle tendenze di fondo. Ambedue però
potranno dar luogo ad azioni politiche non troppo controverse. Nessuno vuol mo-
rire per un’altra epidemia, tutti sono preoccupati per la bassissima natalità. Non è
impossibile trovare un largo consenso per provvedimenti che adeguino la sanità e
sostengano le nascite.
Ma le migrazioni? Sarà possibile trovare un consenso sulle politiche da seguire?
Eppure tutti si rendono conto, a parte minoranze irriducibili, che la debolezza de-
mografca dell’Italia si traduce in debolezza economica e in fragilità sociale.
Sul piano internazionale la chiusura dei confni ha avuto effetti nefasti: netta
fessione delle rimesse degli immigrati (che superano abbondantemente il valore
degli aiuti allo sviluppo), precarietà dei migranti rimasti bloccati nel paese di immi-
grazione per la chiusura dei confni (o nei paesi di origine se ritornati temporane-
amente in patria), perdita del lavoro, aumento della povertà e della marginalità.
L’Italia ha una forte immigrazione da paesi per i quali le rimesse sono una compo-
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nente importante del pil come l’Egitto, l’Albania e le Filippine, nei quali esse equi-
valgono al 10% circa del pil, o la Nigeria e il Marocco, dove si attestano al 6%. Sul
piano interno, i numeri sono per ora molto parziali e occorrerà ancora tempo per
fare un bilancio. Ma le tensioni sul mercato del lavoro in agricoltura (solo minima-
mente contenute dalla parziale sanatoria dello scorso anno, peraltro ostacolata da
incredibili pastoie burocratiche), la cui manodopera è straniera per un terzo, sono
un indice signifcativo delle diffcoltà determinate dalle restrizioni imposte alle mi-
grazioni. E queste diffcoltà riguardano anche altri settori.
Per il futuro, due forze di segno opposto si stanno delineando. Quella nega-
tiva prende alimento dalla relativa facilità con la quale sono stati chiusi i confni,
selezionati gli arrivi, individuati gruppi ritenuti a rischio e limitati gli spostamenti,
anche all’interno dell’area di libera circolazione dell’Ue e di Schengen. Quei mo-
vimenti nativisti, ipernazionalisti o comunque ostili alla immigrazione hanno tro-
vato conforto nel fatto che la mobilità internazionale abbia subìto un colpo di
freno, oggi giustifcato dall’emergenza sanitaria, ma che domani potrebbe essere
invocato per motivi economici, di sicurezza o politici. La forza positiva deriva
invece dal fatto che la crisi ha mostrato quanto siano vitali le migrazioni per la
società e per l’economia e quanto gravide di spiacevoli conseguenze potrebbero
essere ulteriori chiusure e ostacoli alla mobilità umana. Per quanto riguarda il
nostro paese, l’opinione pubblica si è resa conto che l’epidemia non è conseguen-
za dell’immigrazione e che è assai importante avere gli stagionali nei campi, del
personale di servizio nelle famiglie, dei muratori sulle impalcature, dei mungitori
nelle stalle e del personale medico e infermieristico negli ospedali.
La politica dovrebbe seguire tre linee di azione. La prima è quella di ripristina-
122 re, conservare e migliorare la libera circolazione all’interno dell’Europa. Una con-
A CHE CI SERVE DRAGHI

quista (sia pure incompleta) che rischia di sfuggirci dalle mani. La seconda consiste
nell’implementare le raccomandazioni contenute nel Global Compact sulle migra-
zioni, la convenzione internazionale che detta i princìpi che gli Stati debbono segui-
re nelle politiche migratorie, che l’Italia rifutò di frmare due anni fa a Marrakech.
La terza linea consiste nel lavorare per riconoscere, anzitutto, che la debolezza de-
mografca e sociale del paese necessita di immigrati; che la legge Turco-Napolitano,
approvata quando i migranti in Italia si contavano a decine e non a centinaia di
migliaia, non è più adeguata; che le necessità del paese devono essere programma-
te da un organismo indipendente, approvate quindi dal parlamento e implementate
dall’esecutivo; che nel disegnare nuove regole per il governo dei fussi vanno segui-
te le raccomandazioni del Global Compact.

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A CHE CI SERVE DRAGHI

LA DERIVA
NON È
UN DESTINO di Alberto DE SANCTIS
L’Italia ha perso contezza della propria dimensione marittima.
Tra tagli di fondi, spezzatino istituzionale e attendismo,
rischiamo di farci sfilare il Mediterraneo. Tre proposte per
ritrovare la bussola nella nuova età oceanica.

1. L’
ITALIA AFFRONTA LE ONDE DEL MAR
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Mediterraneo senza bussola, esposta alle insidie dei marosi, in cerca della rotta
perduta. Da tempo il nostro paese ha espunto il mare dal suo ragionamento geo-
politico, rinunciando alla consapevolezza del proprio ruolo di nazione marittima.
Non sappiamo più cosa signifchi abitare una penisola con ottomila chilometri di
coste proiettata nel cuore del bacino e ci comportiamo come se non avessimo alle
spalle una storia millenaria intimamente legata al mare, ricca di insegnamenti e
lezioni per l’avvenire. Ci siamo imposti come dominatori dello spazio mediterra-
neo, quando fummo consapevoli della nostra condizione geostrategica. Abbiamo
cercato rifugio lungo le coste peninsulari, sbirciando un orizzonte ostile e fonte di
pericoli, tutte le volte in cui ne abbiamo perso memoria 1.
Oggi i temi legati alla marittimità sono stati quasi banditi dal discorso pubblico
o relegati a specialisti e appassionati. Ci illudiamo di poter continuare a esistere
quale soggetto geopolitico avvinghiato alla catena alpina, terrorizzato dalla pro-
spettiva di precipitare in un mare di cui fatichiamo ad avere visione 2. L’assenza di
memoria storica, sensibilità culturale e percezione geografca distilla una miscela
potenzialmente disastrosa per il nostro futuro di paese unitario. Specie in un’epo-
ca che vede il baricentro della potenza spostarsi sui futti, nuova età oceanica. In
questo contesto fortemente mutevole, persino il Mediterraneo si riscopre centrale.
Virando da placido guscio d’acqua incastonato fra le terre in agone dove attori
locali e potenze esterne si contendono infuenza, supremazia. A cominciare dalla
superpotenza americana e dal suo sfdante cinese. Spazio di competizione geo-
1. Lectio magistralis di Alessandro Barbero alla giornata di studi «Italia paese marittimo» organizzata
dall’Accademia navale con la collaborazione di Limes e della Marina militare, cutt.ly/oxMKVNH
2. D. FABBRI, «Italia penisola senza mare», Limes, «L’Italia è il mare», n. 10/2020, pp. 47-55. 125
LA DERIVA NON È UN DESTINO

politica a tutto tondo, in cui il mare diventa terra e l’italico minimalismo non può
avere futuro.
Intorno a noi le acque libere si ritirano o congestionano. A levante ricompa-
iono i turchi, agguerriti e determinati a recuperare l’antica dimensione imperiale
dopo che fummo noi italiani a scacciarli dal Mediterraneo centrale, un secolo fa. A
ponente manovrano con baldanza gli algerini, con le loro pretese di giurisdizione
sugli spazi che lambiscono la costa sarda e forti di una fotta militare prossima
all’eccellenza in campo subacqueo grazie alle pluriennali forniture russe. Intanto
Mosca è la nuova potenza residente in Cirenaica, con una presenza in Nord Africa
sempre più radicata e diffusa. Persino il fulcro dei nostri interessi marittimi, quello
Stretto di Sicilia su cui convergono le innumerevoli tratte marittime che ci assicu-
rano benessere e ricchezza, è minacciato 3. Mentre l’instabilità cresceva, il vertice
politico nazionale si limitava a predicare cautela e prudenza. Convinto che presto o
tardi qualche soluzione sarebbe calata da Oltralpe, meglio ancora da Oltreoceano.
Speranza vana.

2. Non tutto è perduto. I rivolgimenti geopolitici che sconvolgono l’assetto


del Mediterraneo costituiscono un’opportunità. Per sfruttarla, dobbiamo recupera-
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re una visione nazionale del nostro mare: siamo penisola proiettata nel cuore del
bacino, prima ancora che appendice terrestre del continente europeo. Cogliere tale
potenziale geostrategico è condizione essenziale per riscoprire la nostra dimensio-
ne marittima, che può aiutarci a fronteggiare le gravi conseguenze politiche, sociali
ed economiche dell’epidemia di coronavirus. Segnali incoraggianti in tal senso ci
sono: la discussione pubblica avviata su queste pagine circa il nostro rapporto con
i futti e le giornate di studio che ne sono seguite e seguiranno; la prossima istitu-
zione di una Zona economica esclusiva (Zee) italiana, che costringerà le istituzioni
a occuparsi di marittimità; i riferimenti di Mario Draghi alla sensibilità mediterranea
del paese nel suo discorso programmatico alle Camere.
Seguono dunque alcune proposte per ritrovare le onde perdute.
Al primo posto, un imperativo categorico: elaborare una strategia italiana del
mare, auspicabilmente nell’ambito di una più ampia strategia nazionale, per co-
gliere le molte opportunità che la nostra collocazione geografca nel cuore del
Mediterraneo – fra Indo-Pacifco e Atlantico, Europa, Africa e Asia – ci propizia.
Oltre che per porre a sistema le formidabili capacità espresse dai tanti settori dell’e-
conomia nazionale legati al mare in cui siamo competitivi e all’avanguardia, come
la cantieristica civile e militare, l’esplorazione subacquea, l’energia, i trasporti, la
pesca e l’acquacoltura. Inutile altrimenti darsi pena per l’attivismo dei vicini, per
le minacce alle nostre linee di comunicazione marittima o per le faide tra i nostri
porti. Saremmo destinati a giocare di rimessa.
Strategia presuppone inquadrare l’interesse nazionale. Concetto tabù per sva-
riati decenni dopo la seconda guerra mondiale e di cui oggi si fa un gran parlare,

126 3. «La soglia di Sicilia», editoriale Limes, «L’Italia al fronte del caos», n. 2/2021.
A CHE CI SERVE DRAGHI

LE AUTORITÀ DEL SISTEMA PORTUALE ITALIANO

Autorità di sistema portuale


Ufcio territoriale portuale
Altro porto di rilievo nazionale
CORRIDOI TEN-T
Monfalcone
Scandinavo-mediterraneo
Milano Trieste
Reno-Alpi
Venezia Mediterraneo
Torino Chioggia Baltico-Adriatico
Confni marittimi italiani
Savona Bologna Ravenna
Genova Marina
Vado Ligure
La Spezia di Carrara
Pesaro
Firenze Falconara
Livorno
Ancona
Capraia
Piombino San Benedetto del Tronto
Portoferraio Cavo
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ISOLA D’ELBA Rio Marina Pescara


Ortona

Civitavecchia
Fiumicino Manfredonia
Santa Teresa di Gallura Barletta
Bari
Golfo Aranci Gaeta Napoli
Olbia Brindisi
Porto Torres Monopoli

Mar Tirreno Salerno Taranto


Oristano
Corigliano Calabro
Porto Scuso Cagliari Crotone
Foxi Sarroch Vibo Valentia
Gioia Tauro
Palermo Termini Messina Taureana di Palmi
Imerese Milazzo Villa San Giovanni
Tre Mestieri Reggio Calabria
Trapani
Catania
Porto Empedocle Augusta

Mar Mediterraneo

MALTA

127
Fonte: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
LA DERIVA NON È UN DESTINO

senza che alcuno – a cominciare dalla nostra classe politica – ne dia esauriente
defnizione. Così non andiamo oltre la ripetizione di nobili formule di rito quali
l’appartenenza alla Nato e all’Unione Europea, la fedeltà agli Stati Uniti e all’atlan-
tismo. Ci illudiamo di essere amici di tutti e nemici di nessuno, fnendo per non
essere (quasi) mai presi sul serio. Scambiamo la partecipazione a un sistema di al-
leanze per fne in sé, quando invece dovrebbe essere un moltiplicatore della forza
nazionale. Nel frattempo foriscono interpretazioni eterogenee dei nostri bisogni
strategici e i diversi corpi dello Stato entrano in competizione per accaparrarsi ri-
sorse e privilegi in nome di necessità particolari presentate come generali 4.
La disposizione dei militari italiani all’estero è da sempre uno dei segni più
lampanti della nostra incapacità di stabilire il perimetro dell’interesse nazionale 5.
Siamo acquartierati in mezzo mondo e non ci siamo fatti problemi a stanziare con-
tingenti robusti in Afghanistan e in Iraq, mentre abbiamo rifutato la responsabilità
di un impegno diretto in Libia, chiave di volta della sicurezza italiana. Con i risultati
che sappiamo.
Il discorso non riguarda soltanto la sfera militare. Un caso di scuola è l’assen-
za di visione dietro la recente riorganizzazione del nostro sistema portuale. Oltre
alle esigenze della semplifcazione, della lotta agli sprechi e alle burocrazie, quali
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

bisogni nazionali ha soddisfatto la riforma Delrio del 2016? Senza una strategia ma-
rittima e indicazioni politiche chiare, come meravigliarsi se i singoli scali – soggetti
geopolitici, perché snodi delle direttrici terra-mare – cercano di soddisfare i loro
bisogni di sviluppo (o di sopravvivenza) a scapito dei vicini e con logiche poten-
zialmente antitetiche a quelle nazionali? All’allarme per l’interessamento cinese e
turco ai porti di Trieste e Taranto non è seguita una rifessione seria sul ruolo che
vogliamo assegnare ai porti italiani nella competizione logistico-infrastrutturale nel
Mediterraneo. Se necessario con scelte dolorose, stabilendo quali scali debbano
ricevere più attenzioni di altri in un’ottica sistemica. Per non scontentare nessuno,
evitiamo di scegliere o lasciamo che lo facciano altri.
La propensione a considerare le vicende del mare in modo astrategico emer-
ge anche dal dibattito parlamentare sulla Zee italiana 6, passo importante verso il
rafforzamento della nostra marittimità e attesa reazione al processo di territoria-
lizzazione del Mediterraneo che abbiamo a lungo trascurato. L’impressione è che
si sia trattato in primo luogo di una mossa funzionale ai bisogni negoziali italiani
nella diatriba con Algeri, che nei mesi passati ha impegnato l’ex premier Giuseppe
Conte e il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, confermato nel ruolo alla
Farnesina con Draghi. Nel dibattito alla Camera sull’utilità di una Zee non sono
state infatti affrontate le tante questioni marittime irrisolte con i nostri vicini adriatici
e con Malta, Tunisia, Libia.
4. G. DOTTORI, «Arma contro Arma: l’Italia senza bussola divide i militari», Limes, «L’Italia è il mare», n.
10/2020, pp. 79-84.
5. A. DE SANCTIS, «Boots on the ground: l’Italia in armi è dove serve?», Limes, «America contro Iran», n.
1/2020, pp. 193-198.
6. La proposta di legge presentata dalla deputata del M5S Iolanda Di Stasio è stata approvata alla
128 Camera con 394 voti a favore su 394 presenti. Per un esame dei lavori preparatori, cutt.ly/pxXFhaN
A CHE CI SERVE DRAGHI

Assente anche qualsiasi rifessione sul fatto che ampliare il nostro spazio di giu-
risdizione marittima implichi stanziare risorse per la sua tutela e difesa. Dettaglio non
secondario, che chiama in causa le funzioni della Marina militare e le sue capacità
d’intervento alturiere. Salvo fare i conti con la quantità d’impegni cui è sottoposta la
Forza armata malgrado anni di tagli a mezzi e personale. Una soluzione per presi-
diare i circa 500 mila chilometri quadrati della futura Zee potrebbe venire dal coin-
volgimento del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera e della Guardia di
fnanza. A patto che le nostre istituzioni abbiano ben chiara l’urgenza di un meccani-
smo di raccordo interministeriale, nonché le implicazioni gerarchiche connesse alla
creazione di un centro di coordinamento nazionale per le attività marittime.

3. Dall’elaborazione della strategia dipende la possibilità di rendere più eff-


ciente l’azione dello Stato nella vasta dimensione marittima.
Paradosso dei paradossi, l’Italia che non ha una visione sistemica del suo mare
dispone di ben tre forze marittime: Marina militare, Corpo delle capitanerie di por-
to-Guardia costiera e servizio navale della Guardia di fnanza. Nell’insieme quasi
45 mila uomini e donne, alcune centinaia di mezzi navali, velivoli di vario tipo e
capacità. Ciascun attore interpreta il ruolo che gli compete e dispone del proprio
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

dicastero di riferimento, nel quale è inquadrato funzionalmente e organizzativa-


mente in completa autonomia e che – metaforicamente parlando – può fungere
da porto sicuro in caso di necessità: Difesa per la Marina, Infrastrutture e Mobilità
sostenibili 7 per la Guardia costiera, Economia e Finanze per la Guardia di fnanza.
Non sono mancati tentativi di mettere ordine in una situazione che in assenza
di meccanismi di raccordo può dar luogo a frizioni e ineffcienze. Se le capitanerie
svolgono missioni di soccorso per istituto, la Marina le effettua come attività con-
corsuali incondizionate e gravose, nell’ambito delle sue vaste tradizioni d’intervento
non militare e delle competenze attribuitele dalla legge. Nel 1996 destò vibranti po-
lemiche la proposta di legge Arlacchi sulla costituzione di una Guardia costiera unif-
cata in cui confuissero gli assetti del Corpo delle capitanerie di porto e della Guardia
di fnanza. Il progetto fallì, complici le immancabili rivalità fra le agenzie coinvolte.
In tempi più recenti, il tentativo di porre le capitanerie alle dirette dipendenze
della Marina militare con la legge Madia del 2015 è fallito in un paio di giorni per
l’assenza di accordo politico fra i dicasteri coinvolti nella riforma, ispirata al modello
francese in cui la Marine nationale – nell’ambito della missione dedicata all’«Action
de l’état en mer» – esercita funzioni di guardia costiera in via diretta anche attraverso
la Gendarmerie maritime. Le resistenze delle capitanerie erano comprensibili: dopo
aver «perso» la gestione dei porti con la riforma del 2004, hanno investito moltissimo
nelle operazioni in mare e specialmente nelle missioni di soccorso 8. Dotandosi di
mezzi sempre più potenti e lottando strenuamente per ritagliarsi un’autonomia ope-
rativa e una visibilità cui non avrebbero rinunciato facilmente. Emblematico dell’ap-
7. Fino al 26/2/2021 ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
8. ADSTANS, «Perché i migranti arrivano sempre in Italia?», Limes, «Mediterranei», n. 6/2017, pp. 31-35. 129
LA DERIVA NON È UN DESTINO

proccio disordinato al mare è che il decreto legislativo 177/2016, il quale avrebbe


dovuto sancire l’integrazione della Guardia costiera con la Marina militare, ha fnito
per ampliare le mansioni marittime della Guardia di fnanza, attribuendole la «sicu-
rezza del mare». Concetto suadente ma alquanto generico.
Con il Mediterraneo in piena torsione geopolitica e alla vigilia dell’auspicata
istituzione della Zee italiana – che implicherà l’esercizio di una piena giurisdizione
nazionale su risorse rinnovabili, pesca e protezione ambientale – il bisogno di coor-
dinare più razionalmente le attività delle nostre forze marittime non è più eludibile.
Tanto più se circondati da vicini pronti a sfruttare le nostre divisioni e ineffcienze,
come le contrapposte interpretazioni del salvataggio in mare aperto da parte di In-
frastrutture e Interno durante la crisi migratoria: sicurezza dei migranti a ogni costo
da un lato, protezione delle frontiere marittime dall’altro. Su tale dualismo e sul dina-
mismo della nostra Guardia costiera Malta ha fatto leva per astenersi dall’intervenire,
così dilatando a dismisura l’area di responsabilità italiana fn quasi a ridosso della
costa africana e alimentando la polemica interna sulla gestione dei fussi.
È compito di politica e istituzioni sciogliere un dilemma che può compromet-
tere l’effcacia dell’azione statale in mare e pone una seria ipoteca sulla credibilità
del nostro sforzo di riscoperta della marittimità. A loro l’incombenza di sempli-
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fcare i processi, riaccentrare i poteri e chiarire le aree di responsabilità dei vari


corpi dello Stato nel nome di un interesse superiore e comune, senza rinunciare a
preservarne funzioni e competenze. Potremmo seguire l’esempio di Parigi, che nel
2020 ha riattivato il ministero del Mare senza rinunciare all’omonimo segretariato
generale, rispondente al capo del governo. Il primo ha competenze specifche in
materia di pesca, porti, trasporti, risorse minerarie sottomarine e lavoro marittimo;
il secondo coordina tutte le azioni dell’amministrazione pubblica francese sul mare
e in particolare quelle in materia di sicurezza marittima, lotta ai traffci illeciti, tu-
tela ambientale, difesa delle frontiere marittime e immigrazione. Un ente analogo
presso la presidenza del Consiglio potrebbe fungere da centro di raccordo e pia-
nifcazione strategica per le attività delle nostre forze marittime, riaccentrando le
competenze che nei primi anni Novanta erano ancora riunite nel ministero della
Marina mercantile (abolito con legge 537/1993) e che da quel momento sono di-
sperse fra svariati ministeri 9.
È lecito dubitare che la cabina di regia sul mare riunita a dicembre 2020 dal
sottosegretario Di Stefano alla Farnesina con i rappresentanti di Interno, Difesa,
Sviluppo economico, Politiche agricole, Ambiente, Infrastrutture e Trasporti, non-
ché con il presidente della Federazione del mare Mario Mattioli, possa dar vita a
un governo del mare italiano.

4. Per riscoprire il nostro rapporto con le onde dedichiamoci poi a rafforzare


la consapevolezza del ruolo svolto dalle navi militari all’estero. Qualsiasi unità è
vettore d’infuenza diplomatica, culturale e industriale, strumento al servizio della

130 9. A. MARINO, «Idee per un nuovo governo del mare», Limes, «L’Italia è il mare», n. 10/2020, pp. 101-102.
A CHE CI SERVE DRAGHI

TRIESTE TORNA (RESTA) MITTELEUROPA Collegamenti ferroviari


frequenti del porto franco
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politica estera. A maggior ragione per l’Italia, immersa nel mare e dipendente dalla
continuità delle vie marittime per l’approvvigionamento di materie prime e la di-
stribuzione di prodotti fniti. Dunque bisognosa di presidiare queste rotte insieme
agli alleati e di sviluppare le proprie relazioni con i partner ubicati lungo i transiti
di Gibilterra, Suez, Båb al-Mandab e Hormuz. Questi cruciali colli di bottiglia in-
dividuano i confni dell’area geostrategica defnita come Mediterraneo allargato,
dogma operativo della Marina italiana.
Il nostro paese e la sua fotta militare vantano un’antichissima tradizione di
dispiegamenti all’estero a tutela degli interessi nazionali 10. La costante presenza na-
vale in Sud America d’epoca liberale; il vasto impiego di assetti della Forza armata
da parte del regime fascista in ogni oceano del mondo (dall’Argentina al Giappo-

10. F. DE NINNO, «Diplomazia navale in un’epoca confittuale: il caso italiano (1919-1940)», Rivista
Marittima, marzo 2020. 131
LA DERIVA NON È UN DESTINO

ne) negli anni Venti e Trenta del Novecento; la circumnavigazione del globo da
parte della fregata missilistica Lupo assieme al cacciatorpediniere Ardito nel bien-
nio 1979-80, che segnò la rinascita della fotta italiana dopo il 1945; la campagna
del 30° Gruppo navale nel 2013-14 condotta fra la Penisola Arabica e il continente
africano, cui prese parte anche la portaerei Cavour. Pensata per promuovere il
rango dell’Italia, la missione attirò le critiche di quanti vi lessero un mero tentativo
di favorire le commesse estere alla nostra industria bellica.
Il Covid-19 ha portato a cancellare la missione della nave scuola Amerigo
Vespucci che nel 2020 avrebbe dovuto presenziare all’apertura delle Olimpiadi
di T§ky§. Si sarebbe trattato di un formidabile biglietto da visita in un’area dove
altre fotte europee puntano a consolidare una presenza politica e diplomatica.
Recentemente la Marina francese ha dispiegato due potenti gruppi navali a est di
Suez nell’ambito delle missioni Jeanne d’Arc 21 (guidata dall’unità d’assalto anfbio
Tonnerre, si spingerà fno in Giappone passando per il conteso Mar Cinese Meri-
dionale) e Clemenceau 21 (con la portaerei nucleare Charles de Gaulle, destinata a
operare fra Golfo Persico e Oceano Indiano). Sarà poi la nuova portaerei britannica
HMS Queen Elizabeth a salpare per l’Estremo Oriente, via Mediterraneo e Oceano
Indiano. Dopo l’uscita dall’Ue, Londra punta a contenere la spinta espansiva cinese
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nelle acque asiatiche affancando Washington, nonché a rinsaldare i rapporti con


gli alleati nel teatro europeo anche sul piano navale, come nel caso della Grecia
con le esercitazioni in programma al largo di Creta.
Anche l’Italia potrebbe giocare la sua parte, inviando ad esempio il Cavour e
un gruppo navale a compiere una campagna di presenza e di tutela degli interessi
nazionali nel Mediterraneo, dalle acque prospicenti la Sardegna alle zone di pro-
spezione energetica presso Cipro. L’ammiraglia della fotta ha appena tagliato un
traguardo storico: la certifcazione all’impiego operativo dei velivoli americani di
quinta generazione F-35B 11, in termini di capacità un balzo senza pari nel nostro
mare di riferimento. Quale migliore occasione per ricordare ai nostri vicini la gerar-
chia delle fotte e fare sfoggio delle nostre nuove capacità? A patto di abbandonare
l’atteggiamento improntato alla prudenza e all’equidistanza che ha contrassegnato
il nostro recente approccio alle onde. Per abbracciare una vera strategia marittima,
meglio se dotati di un ente nazionale preposto ad attuarla. Che bel biglietto da
visita per un’Italia che fnalmente scelga di ripartire dal mare.

132 11. «La portaerei Cavour certifcata all’impiego degli F-35B», Analisi Difesa, 26/3/2021.
A CHE CI SERVE DRAGHI

IL BENESSERE DEL NORD


DIPENDE
DALLA CRESCITA DEL SUD di Gianfranco VIESTI
Il Piano di rilancio serve a ridurre la galoppante asimmetria
di sviluppo territoriale, in Italia e in Europa. Anche perché taglia
fuori le Regioni e impone allo Stato progetti di lungo periodo.
Se falliremo, la frammentazione diverrà incontrollabile.

1. L’
EPIDEMIA DI COVID-19 HA COLPITO E
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sta colpendo molto duramente l’Italia, con i suoi tremendi effetti sulla salute e sulla
vita di tante persone, e con i suoi impatti socioeconomici, fortemente asimmetrici
per settori di attività e gruppi sociali. Il virus ha danneggiato i più deboli. Il rischio
è che il paese possa uscirne particolarmente provato, indebolito, con fratture e
disuguaglianze ancora più intense. Ma questa crisi sta offrendo all’Italia anche
una preziosa fnestra di opportunità. Un’occasione per ripensare a fondo le sue
debolezze, le condizioni che hanno prodotto un lungo e triste ventennio di stagna-
zione, più accentuato dopo la crisi dell’euro ma già visibile dall’inizio del secolo.
Un’opportunità non solo per discuterne, ma anche per mettersi concretamente
all’opera, a cominciare dal disegno e dall’attuazione del rilevante Piano di rilancio
nell’ambito dell’iniziativa Next Generation Eu.
Fra le debolezze più intense e più radicate dell’Italia vi è certamente l’asimme-
tria territoriale dei suoi processi di sviluppo. A partire dalla circostanza che i livelli
di reddito e di occupazione nelle regioni del Sud siano molto inferiori a quelli del
resto del paese. Nel ventennio queste disparità non si sono ridotte. Anzi, si sono
messe in moto alcune dinamiche in parte nuove, preoccupanti, legate al calo della
natalità e all’invecchiamento della popolazione, all’emigrazione di molti giovani,
anche ad alta qualifcazione, a fronte di un apporto immigratorio relativamente
contenuto, minore rispetto al resto del paese. Non sono mancati cambiamenti di
segno positivo, dalla sensibile crescita del turismo allo sviluppo delle produzioni
energetiche, alla buona tenuta dell’agroalimentare e di alcune produzioni indu-
striali anche sofsticate. Ma complessivamente l’apparato industriale del Sud si è
sensibilmente contratto, i nuovi segmenti del terziario più avanzato sono cresciuti
solo limitatamente. La capacità di produrre reddito e occasioni di lavoro, nell’insie-
me, è divenuta ancora minore. 133
IL BENESSERE DEL NORD DIPENDE DALLA CRESCITA DEL SUD

Di fronte a questi cambiamenti la discussione pubblica e l’iniziativa politica


sono state molto modeste. È prevalso quasi un senso di rassegnazione, di inevitabi-
lità; si sono rafforzate letture secondo le quali si tratterebbe di dinamiche specifche
del Mezzogiorno. Fortemente legate a caratteristiche demoantropologiche, ad abi-
tudini sociali, a una politica clientelare e dissipatrice. E quindi diffcili da eradicare.
Ma davvero le diffcoltà economiche del Mezzogiorno derivano dalle sue spe-
cifcità antropologico-culturali e sono uniche al mondo? Guardando alla realtà delle
dinamiche territoriali in Europa e nel resto del pianeta, non si direbbe proprio. Il
XXI secolo si è caratterizzato per signifcative tendenze alla polarizzazione dello
sviluppo economico, tanto nelle aree urbane più forti quanto in regioni e paesi
emergenti con costi di produzione particolarmente bassi. Come provo dettagliata-
mente a documentare nel volume Centri e periferie. Europa, Italia e Mezzogiorno
dal XX al XXI secolo 1, i grandi cambiamenti del XXI secolo hanno prodotto effetti
profondi sulla geografa economica europea, ridisegnata dalla crescita delle im-
portazioni dai paesi emergenti e dalla riconfgurazione delle industrie in catene
internazionali del valore, dalla diffusione delle nuove tecnologie a matrice digitale
e dall’accresciuta importanza dei servizi (specie di quelli commerciabili a distanza)
rispetto alla manifattura. Dal ricrearsi, dopo la caduta della cortina di ferro, di un
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potente cuore manifatturiero nella Mitteleuropa. Ma anche dall’aumento delle di-


suguaglianze fra le persone. E dall’applicazione di pervasive politiche di austerità
che ne sono scaturite. Altro che antropologia: il presente e il futuro delle regioni
è plasmato dall’economia e dalla tecnologia. Questo quadro mette in particolare
diffcoltà molte aree dell’Europa meridionale: in primo luogo il Sud, arrivato al XXI
secolo senza un’ampia base industriale su cui innestare la nuova economia dei
servizi; ma anche vaste aree del Centro adriatico e del Nord-Ovest, alle prese con
quella che è stata defnita la «trappola dello sviluppo intermedio». Il punto di fondo
è che le tendenze spontanee dell’economia e dei mercati conducono più verso la
polarizzazione che verso la convergenza dei livelli di reddito.
Tuttavia, queste dinamiche non sono deterministiche. Nessuna area è con-
dannata a essere periferia per sempre. Ma per mutare la propria collocazione
non può fare affdamento sulla buona sorte o sui mercati. Deve mettere in atto
con pazienza e lungimiranza quelle politiche pubbliche che possano mutarne le
caratteristiche strutturali, dall’incremento dell’istruzione delle sue forze di lavoro
al potenziamento delle reti e dei servizi necessari a una più ampia circolazione
delle idee, delle persone, delle merci, dei servizi. Per creare le condizioni che
possano migliorarne l’adattamento virtuoso alle nuove condizioni internazionali.
Considerazioni che valgono per l’Italia intera. A maggior ragione e con maggiore
intensità per il Mezzogiorno.

2. Le politiche pubbliche contano, moltissimo. Una considerazione che si scon-


tra con la realtà dell’Italia nell’ultimo ventennio. Specie al Sud. Si è rafforzata la

134 1. G. VIESTI, Centri e periferie. Europa, Italia e Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Bari 2021, Laterza.
A CHE CI SERVE DRAGHI

convinzione che nel Mezzogiorno le politiche pubbliche siano impotenti. O peggio,


con i fussi di risorse che esse determinano, concausa dell’arretratezza, perché non
funzionano e non possono funzionare. Così, le politiche di sviluppo territoriale
sono divenute principalmente argomento da campagna elettorale. Mai, nell’intero
ventennio, sono state al centro dell’attenzione dell’agenda politica e degli interes-
si delle classi dirigenti del paese. Divise fra quanti sono convinti che meno si fa
meglio è, perché l’intervento pubblico è il problema e non la soluzione e bisogna
invece lasciar fare al mercato, e quanti, con spirito un po’ caritatevole, accettano
senza particolare convinzione queste politiche all’insegna del qualcosa bisognerà
pur fare, pur sapendo che i risultati che si otterranno saranno assai modesti.
Ma vi è di più. L’Italia ha attraversato nell’intero ultimo decennio un lungo
periodo di riduzione della complessiva capacità di intervento dello Stato, anche a
causa dei problemi del bilancio pubblico e delle regole europee del Patto di stabi-
lità. E una loro crescente frammentazione Regione per Regione, senza che i poteri
centrali, esecutivo e legislativo, fossero in grado di defnire quegli indirizzi generali,
quelle scelte d’insieme volte a renderle più omogenee e più effcaci. In questo
quadro è maturata una forte competizione, anche in chiave territoriale, per l’ac-
quisizione delle decrescenti risorse collettive disponibili. Questa competizione si è
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tradotta in un insieme di scelte fortemente asimmetriche, sempre a vantaggio delle


aree più forti del paese e a svantaggio delle altre. Al Sud e non solo. Gli interventi
sul sistema sanitario del Mezzogiorno (e del Lazio) hanno puntato esclusivamente
al pareggio dei bilanci regionali: si sono consolidate se non accresciute differenze
nella quantità e nella qualità dei servizi disponibili, alla base di crescenti fussi di
mobilità di pazienti, molto ben accetti dalle regioni di destinazione (insieme ai
relativi rimborsi).
Nulla è cambiato nel sistema scolastico, nel quale grazie alle differenti ca-
pacità di spesa degli enti locali un bambino del Sud arriva ai dieci anni con un
investimento formativo molto minore, derivante dalla mancata frequenza dei nidi
e dall’assenza del tempo pieno nelle elementari. Il sistema universitario è stato
volutamente e fortemente riconfgurato selettivamente a danno degli atenei del
Centro-Sud e del Nord periferico. Le reti e i trasporti ferroviari hanno conosciuto
un forte, positivo sviluppo lungo gli assi dell’alta velocità ma un’assenza di investi-
menti e una forte contrazione dei servizi nel resto del paese: in quasi tutto il Sud
ma anche, daccapo, in vaste aree del Centro e del Nord periferico. I meccanismi di
fnanziamento degli enti locali e delle Regioni, nonostante la riforma costituzionale
di inizio secolo e le norme della legge 42/2009, sono rimasti ancorati a una spesa
storica che favorisce sistematicamente le aree più forti, senza che i «livelli essenziali
delle prestazioni» (cioè i diritti ai servizi di tutti gli italiani, indipendentemente da
dove vivono) previsti in costituzione siano stati mai defniti. O si sia fatto alcunché
per cominciare a defnirli.
Il tutto accompagnato da una persistente retorica del «merito», secondo la
quale è opportuno «premiare i migliori». Dove la defnizione di «migliore» è sem-
pre assai soggettiva, basata su numeri che non tengono conto di situazioni e 135
IL BENESSERE DEL NORD DIPENDE DALLA CRESCITA DEL SUD

dotazioni strutturali assai differenti. E dalla retorica dello «sgocciolamento», per


cui premiare i ricchi fa il bene dei poveri, perché il benessere poi si trasmette dai
primi ai secondi: tesi suggestiva, ma che trova pochissimi riscontri nella realtà.
Dall’idea che le aree più forti del paese meritino di più perché possano compe-
tere meglio, da sole. Sublimata nelle richieste di «autonomia differenziata» di Ve-
neto, Lombardia ed Emilia-Romagna: a noi più competenze e più risorse perché
siamo i più ricchi e i più bravi.
Le residue politiche di sviluppo territoriale si sono stancamente trascinate. Con
una forte riduzione, al di là dei proclami, delle risorse disponibili. La spesa in conto
capitale al Sud si è dimezzata nello scorso ventennio: è arrivata a rappresentare
meno dello 0,2% del pil nazionale, dal quasi 1% ai tempi dell’intervento straordi-
nario. Senza alcuna politica industriale che favorisse la localizzazione di nuove
attività. E con una velocità e qualità della spesa ampiamente insuffcienti, frutto di
modeste capacità amministrative nazionali e regionali, ma anche di una preferenza
politica verso misure frammentate, di più corto respiro, capaci di garantire con-
senso. Le residue politiche di coesione non sono state né inutili né dannose, ma
scarsamente in grado, per dimensione quantitativa e caratteristiche qualitative, di
modifcare le condizioni del Mezzogiorno.
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3. È su questa Italia che si è abbattuto il Covid-19. Mettendo in crisi alcune ra-


dicate certezze, dall’effcienza del sistema sanitario lombardo all’opportunità di un
paese largamente in mano ai presidenti delle Regioni, alla capacità del mercato di
allocare sempre e con effcienza le risorse disponibili. E che, complice l’immediata
occasione di defnire il Piano di rilancio, sta riportando la discussione sul ruolo
delle politiche pubbliche in tutte le aree del paese.
È, appunto, una fnestra di opportunità: per progettare e poi progressivamente
costruire un paese più coeso socialmente e più forte economicamente, a tutte le
latitudini. Non è certo che si riesca a sfruttarla. Si tratta di ricominciare a pensare
in una prospettiva temporale molto più lunga in un paese abituato a contese po-
litiche di brevissimo periodo, concentrato su strumenti e iniziative volti a ottenere
un immediato consenso da parte degli interessati. Paese nel quale in tutte le forze
politiche, e nell’insieme del dibattito pubblico, la discussione sul futuro possibile
della nazione è stata e resta assai modesta, senza che vi siano scenari alternativi
su cui sviluppare un confronto politico acceso. E in cui, a esito in particolare delle
politiche dell’ultimo decennio, mancano quadri programmatori delle grandi poli-
tiche pubbliche: gli obiettivi della scuola, o del sistema sanitario italiano, fra dieci
anni – dunque è più diffcile costruire linee di progetto coerenti. Infne, nel quale
restano molto forti gli interessi particolari a intercettare per sé stessi la maggiore
quota possibile delle risorse disponibili, indipendentemente dal quadro di insieme.
Se così però fosse, la grande questione territoriale italiana non potrebbe che
essere al centro di un disegno di sviluppo. Perché è evidente il rischio, data l’asim-
metria degli impatti settoriali dell’epidemia, che le aree più industrializzate possano
136 ripartire prima e di più, con la ripresa del commercio internazionale, e quelle più
A CHE CI SERVE DRAGHI

terziarizzate restare molto più indietro, accentuando gli squilibri. Perché nessun
paese può crescere senza il contributo di una parte così importante dei suoi citta-
dini e dei suoi territori. Ma questo contributo può essere effettivo solo se progres-
sivamente si creano le condizioni, come avviene in altre aree europee a partire dai
Länder orientali della Germania, perché questo avvenga. Cominciando a ridurre
quelle fortissime disparità nelle condizioni in cui avviene l’attività di impresa (a
cominciare dalla perequazione di quelle infrastrutturali, materiali e immateriali) e
dalla riduzione dei forti divari civili nell’istruzione, nella salute, nel welfare. Perché
gli investimenti nelle aree più deboli di ciascun paese hanno un effetto moltiplica-
tore, cioè la capacità di indurre sviluppo a cascata, come la stessa bozza del Piano
di rilancio esplicitamente riconosce. La crescita delle Regioni più arretrate, del no-
stro Sud, attiva produzione e importazioni da quelle più forti; fa crescere l’attività
economica in tutto il paese.
Perché questo è nella stessa logica europea del programma Next Generation:
a fronte di un indebitamento comune garantito dai contributi di ciascun paese al
bilancio comunitario (in proporzione alla propria dimensione economica), le risor-
se sono attribuite in misura asimmetrica: di più a quei paesi che hanno maggiori
diffcoltà strutturali, misurate anche attraverso i tassi di disoccupazione, e che più
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stanno patendo gli effetti dell’epidemia. Sono questi indicatori, profondamente


infuenzati dalle condizioni del Mezzogiorno, che stanno portando in Italia risorse
comunitarie molto maggiori rispetto al suo peso demografco. Nella logica europea
del Next Generation, disegnata dall’intesa franco-tedesca, il benessere delle aree
più forti d’Europa non viene dall’appropriarsi della quota maggiore delle risorse.
Al contrario, dall’averle destinate alle aree più in diffcoltà, per stimolarne la ripre-
sa e giovarsi indirettamente del loro sviluppo attraverso i canali dell’integrazione
commerciale. Il benessere della Germania dipende dalla ripresa dell’Italia e della
Spagna, e quindi dalle nuove prospettive che le imprese tedesche potranno trovare
in quei mercati. In un’area profondamente integrata come quella europea, il benes-
sere dei più forti dipende dalla crescita dei più deboli.
È questa la logica che dovrebbe guidare il piano di rilancio e l’intera politica
economica italiana degli anni Venti. Puntare sul Mezzogiorno come una riserva
strategica di crescita. Rivedendo progressivamente, con pazienza, quelle scelte
politiche asimmetriche compiute nell’ultimo decennio. Attraverso la concreta de-
fnizione dei progetti.
Se ne possono individuare esempi in tutti i grandi assi del Piano di rilancio. La
transizione energetica può trovare nel Mezzogiorno terreno ideale: non solo per
le condizioni adatte per potenziare le produzioni eoliche o solari, ma anche per
costruire modalità di generazione e distribuzione diffusa e per completare le fliere
anche nelle produzioni di apparati e strumenti. Le fliere dell’economia circolare
possono produrre risultati assai ampi proprio nelle aree in cui le condizioni degli
impianti, delle reti e dei servizi, nell’acqua o nei rifuti, sono più carenti. Un forte
potenziamento delle innovazioni dei processi, anche a matrice digitale, può mol-
tiplicare produttività e produzione nell’agroalimentare del Sud, che grazie alla sua 137
IL BENESSERE DEL NORD DIPENDE DALLA CRESCITA DEL SUD

ottima offerta sotto il proflo della qualità è in posizione ottimale per soddisfare la
nuova domanda di cibi sicuri e salubri. I porti del Mezzogiorno possono presentare
condizioni ideali, anche alla luce delle nuove condizioni internazionali a partire dal
raddoppio di Suez, non solo per essere le porte di una parte importante del paese
per i commerci intercontinentali, ma anche i luoghi per un’ottimale localizzazione
di attività logistiche, di trasformazione, di assemblaggio fnale. I tanti interventi del
Piano che ricadono nelle aree urbane, se integrati in programmi coerenti città per
città, possono produrre quelle condizioni necessarie per la nascita e lo sviluppo di
nuove imprese terziarie, oggi largamente assenti anche e soprattutto nelle medie e
grandi aree urbane del Sud e del Centro-Sud; possono intervenire per cominciare
a risanare, con servizi e strutture per i cittadini, le grandi periferie. In un paese in
cui per tutto il XXI secolo non è mai partito un treno che collegasse direttamente
le due maggiori città del Mezzogiorno continentale, Bari e Napoli, e in cui si va
da Palermo a Catania in condizioni ottocentesche (e in più tempo di quello neces-
sario per raggiungere Roma da Milano), il potenziamento di una nuova mobilità
sostenibile, fra le città e nelle città, può determinare un salto nella possibilità di cir-
colazione delle idee, delle persone, delle merci, dei turisti. Assai più con potenzia-
menti, elettrifcazioni e nuovi servizi che con ipotesi di opere faraoniche. Mettere
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a disposizione dei bambini piccoli del Sud (e indirettamente delle loro madri) più
posti negli asili nido e più scuola elementare a tempo pieno signifca investire su
nuovi cittadini non solo più istruiti ma anche più in grado di partecipare alla vita
collettiva. Su tutti questi aspetti non mancano proposte concretissime: da quelle di
Legambiente su energia e mobilità a quelle della rete EducAzioni sull’istruzione.
Vi è dunque un problema di quanto e di che cosa. Lo si vedrà con la versione
defnitiva del Piano di rilancio che sarà inviata a Bruxelles. Quel che conterà non
saranno le dichiarazioni di principio, i grandi indirizzi enunciati. Conteranno i parti-
colari: gli effettivi progetti individuati e la loro localizzazione. Il disegno che, come
un mosaico, emergerà dal mettere insieme tutte le tessere. Soprattutto la circostan-
za che per ogni progetto, in ogni luogo, siano individuati i risultati attesi. Conterà
cioè non solo quanto si spenderà: decisivi saranno gli effettivi miglioramenti che
si determineranno, defniti con indicatori quantifcati e misurabili. Questi saranno
gli impegni che l’attuale governo prenderà e quelli che seguiranno saranno tenuti
a rispettare, non solo con la Commissione europea ma anche e soprattutto con
gli italiani. E che costringeranno gli attuatori a confrontarsi con obiettivi concreti e
misurabili, in tempi predefniti.
Vi è naturalmente un problema di chi e come. Il Piano sembra instaurare un
rapporto diretto fra le strutture centrali e i soggetti esecutori, tagliando l’interme-
diazione delle Regioni. Se confermato, questo potrebbe portare in tutto il paese,
e in particolare nel Mezzogiorno, ad accrescere l’effcacia di quel che si farà. A
cinquant’anni dall’avvio delle Regioni e a venti dalla riforma costituzionale, il regio-
nalismo italiano va infatti attentamente ricalibrato. Non immaginando impossibili
ricentramenti, ma ridefnendo compiti e ruoli. Con un centro che disegna le grandi
138 linee delle politiche per l’intero paese e garantisce l’eguaglianza nei diritti di cittadi-
A CHE CI SERVE DRAGHI

nanza e le amministrazioni regionali che abbandonano pretese da Stati sovrani e si


dedicano, in un paese così differenziato come il nostro, a adattare e concretizzare
le grandi scelte in base alle condizioni locali. Il Piano potrebbe contribuire a un
importante cambio di indirizzo: la sanità non è terreno in cui ogni Regione va per
proprio conto, ma in cui ciascuna deve realizzare quel potenziamento delle reti
territoriali dei servizi sociosanitari che sono la grande scelta nazionale.
Saranno in grado i soggetti attuatori di rispettare i tempi con la qualità necessa-
ria? Allo stato attuale, c’è purtroppo da dubitarne. Il Piano potrà raggiungere i suoi
obiettivi solo se determinerà parallelamente un loro potenziamento, a partire dalle
strutture che necessariamente rivestiranno un ruolo cruciale nella sua esecuzione,
e cioè le amministrazioni comunali. Anche su questo non mancano proposte pre-
cise, attuabili, come quella del Forum disuguaglianze diversità.
Non sarà una passeggiata. Né costruire il Piano defnendo i progetti né attuar-
lo. Ma il nodo di fondo resta politico. Epidemia e politiche per il rilancio creano
un’occasione per un ripensamento dell’Italia «come la conosciamo». Ma fare questo
signifca riportare al centro dell’attenzione, e della concreta azione delle politiche,
il ruolo del Mezzogiorno nella società e nell’economia nazionale.
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139
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A CHE CI SERVE DRAGHI

UN’INTEGRAZIONE STRATEGICA
PER RILANCIARE L’ITALIA
NEL MEDITERRANEO DI CASA di Luca DI SCIULLO
La profonda crisi demografica ci impone la riforma radicale delle
vetuste leggi sull’immigrazione, orientata a integrare i giovani
stranieri. Programmare i flussi è possibile. Verso lo ius culturae. Una
nuova operazione Mare Nostrum per presidiare le rotte nevralgiche.

1.
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I
L GOVERNO DRAGHI È STATO INVESTITO
del compito di gestire la crisi epidemica e tutte le sue disastrose ricadute sociali ed
economiche, attuali e attese, le quali – secondo diversi analisti – saranno parago-
nabili in molti paesi, compresa l’Italia, a quelle di un dopoguerra.
Quanto un simile paragone non sia affatto iperbolico si può osservare, tra l’al-
tro, nei dati provvisori che l’Istat ha recentemente diffuso riguardo all’impatto del
Covid-19 sull’andamento demografco ed economico del paese: se già nel 2019 il
numero di nascite in Italia (420 mila, a fronte di 634 mila decessi) aveva raggiunto
il picco più basso dell’ultimo secolo e mezzo, in linea con il trend costantemente
calante degli ultimi decenni (-551 mila unità solo nell’ultimo lustro) e per un rap-
porto di 66 neonati ogni 100 morti (era di 96 su 100 solo 10 anni prima), nel 2020
– complice l’epidemia – i decessi sono lievitati ad almeno 726 mila (+92 mila in
un solo anno), mentre le nascite (diminuite ulteriormente fno a 400 mila) hanno
segnato l’ennesimo record negativo dall’Unità d’Italia 1.
Se a ciò si aggiunge che negli ultimi anni anche l’emigrazione italiana all’e-
stero ha ripreso a ingrossarsi, interessando quote consistenti di giovani con titoli
di formazione medio-alta (per una media di circa 300 mila espatri effettivi stimati
sulla base delle anagraf dei principali paesi di destinazione 2), ci si rende imme-
diatamente conto che l’Italia ha imboccato una via a senso unico verso un invec-
chiamento e una diminuzione strutturale della propria popolazione, come attestato
1. Cfr. G.C. BLANGIARDO, Primi riscontri e rifessioni sul bilancio demografco 2020, Istat, 1/2/2021, bit.
ly/3vNc9MT
2. Cfr. A. RICCI, «Caratteristiche della nuova emigrazione italiana all’estero alla vigilia della pandemia»,
in Affari Sociali Internazionali. Nuova Serie – Gli italiani all’estero: collettività storiche e nuove mo-
bilità, 1-4/2020. 141
UN’INTEGRAZIONE STRATEGICA PER RILANCIARE L’ITALIA NEL MEDITERRANEO DI CASA

anche da Antonio Golini in un illuminante libro pubblicato poco prima dell’emer-


genza sanitaria ed eloquentemente intitolato Italiani poca gente 3.
In particolare, gli effetti socioeconomici della crisi epidemica (secondo le stime
Istat 4 nel 2020 in Italia le persone in povertà assoluta sono cresciute a 5,6 milioni,
1 milione in più rispetto al 2019, il numero più alto dal 2005) lasciano presumere
che il potenziale emigratorio del nostro paese aumenterà notevolmente, soprat-
tutto tra quanti cadranno nella disoccupazione e aumenteranno l’inoccupazione,
irrobustendo ulteriormente i fussi verso l’estero, la cui entità sopra ricordata era già
paragonabile, al netto degli effetti del coronavirus, ai picchi storici dell’emigrazione
italiana registrati negli anni tra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra.

2. Anche solo in base a queste considerazioni si comprende come, in una


simile contingenza, operare una revisione radicale delle leggi e delle politiche
di immigrazione e pianifcare quelle di integrazione dei migranti in Italia, lungi
dal rappresentare una questione secondaria rispetto alle urgenze dell’epidemia,
costituisca piuttosto un fattore strategico per la tenuta e il rilancio del sistema
paese.
Eppure, stando alle sue prime esternazioni da capo del governo, sul tema
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Draghi non ha dato l’impressione di essere adeguatamente consapevole della


portata della questione. In perfetta linea con la superfciale retorica dominante,
nel suo primo discorso in parlamento ha defnito l’immigrazione un «problema»
e si è fnora limitato ad auspicare una revisione del regolamento di Dublino e a
sottolineare il presunto surplus di accoglienza dei richiedenti asilo che graverebbe
sulla sola Italia rispetto al resto dell’Unione. Un pregiudizio, questo, già da tempo
abbondantemente smentito dai dati: non solo i due terzi (circa mezzo milione)
delle 745 mila richieste d’asilo ricevute dall’Ue nel 2019 sono stati presentati in
Germania, Francia, Spagna e Grecia, mentre l’Italia, quarta nel 2018 con circa 60
mila domande, è scivolata al sesto posto, con appena 43.800; ma contestualmente
i 221 mila stranieri soggiornanti in Italia per ragioni di asilo o di protezione co-
stituiscono meno di 4 abitanti ogni mille nel paese, contro i 6 in Francia, i 14 in
Germania e i 25 in Svezia.
Nel frattempo, si consolidano sempre più gli effetti disfunzionali di un sistema
di gestione dell’immigrazione vecchio e anacronistico, il quale fnisce per produrre
da sé, «per legge», sempre più irregolarità, esclusione, subalternità e segregazione,
sia sul piano sociale sia su quello occupazionale, con grave pregiudizio dell’inte-
grazione e pericolosa compromissione della coesione sociale 5.

3. A. GOLINI, M.V. LO PRETE, Italiani poca gente. Il paese ai tempi del malessere demografco, Roma
2019, Luiss University Press.
4. Povertà assoluta e spese per consumi, Statistiche Today, Istat, 4/32021, bit.ly/3r9Rjns
5. Su questo tema si veda, tra l’altro, B. COCCIA, L. DI SCIULLO (a cura di), L’integrazione dimenticata.
Rifessioni per un modello italiano di convivenza partecipata tra immigrati e autoctoni, Roma 2020,
Centro Studi e Ricerche, Istituto di Studi Politici S. Pio V. In particolare, nello stesso volume, L. DI
SCIULLO, «Modelli in frammenti e… frammenti di modello? Il singolare caso dell’Italia, tra segregazione
142 esplicita e integrazione implicita», pp. 13-26.
A CHE CI SERVE DRAGHI

È incredibile, ad esempio, che un fenomeno strutturale ed epocale come quel-


lo migratorio, in continua crescita e diversifcazione a livello globale, destinato
a riguardarci sempre più nei decenni a venire, in Italia sia ancora gestito da un
impianto normativo (legge 286/98) nato alla fne del secolo scorso, quando l’im-
migrazione aveva caratteristiche qualitative e quantitative completamente differenti
da quelle di oggi.
Basti solo pensare che dopo una crisi globale (quella del 2007-08) che ha pre-
carizzato l’occupazione di tutti, italiani e stranieri, e a emergenza epidemica ormai
conclamata, l’Italia ancora pretende, «per legge», non solo che il lavoratore straniero
entri nel paese con un contratto di lavoro già preaccordato a distanza (chiamata
nominativa), dal momento che nel 2002 è stato abolito quasi sul nascere l’ingresso
per ricerca lavoro sotto sponsor (previsto nel Testo unico del 1998 ma applicato
oltre un anno dopo per i ritardi con cui sono usciti i decreti attuativi), ma anche
che si faccia trovare con un lavoro regolare in essere a ogni periodica scadenza del
permesso di soggiorno, pena – di lì a pochi mesi – la caduta nell’irregolarità e la
sua espellibilità.
Situazione che ha dato e dà tuttora un potere di ricatto enorme ai datori di
lavoro, con tutti gli abusi connessi sia all’ottenimento di un contratto regolare sia
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all’avvio delle pratiche di regolarizzazione, che quasi sempre avvengono entrambi


dietro pagamento di un «pizzo» a carico dei lavoratori stranieri stessi.
Non solo: come se l’Italia non avesse l’esigenza di immettere regolarmente
nel mercato occupazionale forza lavoro aggiuntiva, visto che nel medio periodo
il drammatico invecchiamento della popolazione e la contestuale ripresa dell’emi-
grazione faranno perdere al paese milioni di persone in età lavorativa (con tutte le
pesanti ricadute sul sistema previdenziale e di welfare), il nostro paese ha interrotto
dal 2008 la programmazione triennale dei fussi d’ingresso di lavoratori stranieri
dall’estero.
E così da allora i decreti fussi stabiliscono ogni anno quote non solo estrema-
mente esigue (solitamente poco più di 30 mila lavoratori), ma anche in stragrande
maggioranza riservate a lavoratori stagionali (18 mila nell’ultimo decreto 2020),
quindi temporanei per defnizione, e a conversioni del permesso di soggiorno,
quindi a immigrati già presenti, con il resto riservato a profli estremamente di nic-
chia (promotori di start-up, investitori, artisti eccetera).
Il risultato è che gli «ingressi» veri e propri per un lavoro stabile sono sostan-
zialmente bloccati da oltre dieci anni. Non è un caso che il numero e l’incidenza
dei motivi di lavoro siano crollati sia nello stock sia nel fusso annuo dei soggior-
nanti stranieri.
Quindi, l’Italia da una parte non fa entrare chi vuole venire a lavorare nel
paese, destinandolo all’irregolarità (condizione che espone gli immigrati non solo
a venire sfruttati come lavoratori in nero, privi di tutele e di diritti, ma anche a
essere reclutati da organizzazioni criminali, che proprio nel sommerso hanno il
loro serbatoio preferenziale da cui pescare la manodopera utile alle proprie attività
illegali: una circostanza non così infrequente se, per il 2020, l’Istat ha calcolato in 143
144
STRANIERI IN ITALIA

REGIONI % RES. STRAN. INC. INC. % NUOVI TASSO DI % STUDENTI INC. % TASSO DI DISOCCUPAZ. % SOVRAISTRUITI % SOTTOCCUPATI
E PROVINCE SU TOTALE % STRANIERI NATI STRAN. ACQUISIZIONE STRAN. SU TOT. STRANIERI
AUTONOME STRANIERI SU TOT. POPOL. SU TOT. DI CITTADIN. STRANIERI SU TOT. STUD. Italiani Stranieri Italiani Stranieri Italiani Stranieri
NUOVI NATI ISCRITTI
PIEMONTE 8,2 9,6 19,2 27,3 9,1 13,5 6,7 14,5 22,8 32,3 2,6 6,2
VALLE D'AOSTA 0,2 6,5 12,4 43,6 0,2 7,2 5,7 16 24,8 34,1 1,9 3,3
LIGURIA 2,8 9,1 20,1 32,2 3,0 13,3 8,1 20,2 28 26,7 3,5 8

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LOMBARDIA 22,8 11,5 22,0 26,3 25,4 15,5 4,9 10,2 21,7 30,5 1,9 7,1
BOLZANO 1,0 9,4 14,6 33,3 1,1 12,0 n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. n.d.
TRENTO 0,9 8,6 16,7 34,5 1,1 11,8 n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. n.d.
TRENTINO A. A. 1,9 9,0 15,5 33,9 2,2 11,9 3,2 10,3 18,7 34,8 0,9 2,9
VENETO 9,6 10,0 20,2 33,7 11,0 13,6 4,6 13 25,6 36,8 1,7 4,1
FRIULI-V. G. 2,1 8,9 17,2 23,2 2,3 12,4 5,4 11,5 26,1 44,1 2,2 4,6
EMILIA-ROMAGNA 10,7 12,0 25,0 21,7 11,9 16,4 4,4 12,7 26,5 38,9 2,1 6,2
TOSCANA 7,9 10,8 20,1 26,5 8,4 14,1 5,6 14 27,6 36,6 2,6 6,1
UMBRIA 1,8 10,6 17,6 29,6 1,9 13,8 6,9 18,2 34,2 47,4 2 8,5
MARCHE 2,6 8,6 16,0 30,9 2,8 11,3 7,1 20,9 29,6 29 2,1 2,8
LAZIO 12,5 10,9 16,1 13,6 9,3 9,8 9,3 13,7 26,9 42,3 2,2 3,4
UN’INTEGRAZIONE STRATEGICA PER RILANCIARE L’ITALIA NEL MEDITERRANEO DI CASA

ABRUZZO 1,7 6,5 10,0 35,3 1,6 7,5 10,6 18,8 34 34,7 3,3 2,9
MOLISE 0,3 4,2 5,8 37,5 0,2 3,6 11,6 23,5 32,7 13,8 2,6 0
CAMPANIA 5,1 4,5 5,4 11,7 3,2 2,9 20,3 16,5 28,7 27,9 3,5 2
PUGLIA 2,7 3,4 5,5 17,3 2,1 3,0 14,5 22,8 27 27,4 3 3,2
BASILICATA 0,4 4,1 6,3 18,0 0,3 3,8 11 6,8 34,1 28,5 3,6 5,5
CALABRIA 2,1 5,5 6,7 24,7 1,4 4,3 20,8 23,3 30 20,3 4,2 5,2
SICILIA 3,8 3,9 5,5 16,7 3,1 3,6 20,4 13,8 27,9 23,6 3,3 6,1
SARDEGNA 1,0 3,2 4,3 12,1 0,6 2,6 14,8 13,8 26,5 38,9 5,3 10,1
TOTALE 100,0 8,4 15,0 24,0 100,0 10,0 9,5 13,8 26 34,4 2,5 5,4
A CHE CI SERVE DRAGHI

ben 211 miliardi di euro l’entità dell’economia illegale, pari al 12% del pil italiano).
Dall’altra, continua a impiegare poco e male gli immigrati che un lavoro riescono a
trovarlo (il tasso di sottoccupazione tra i lavoratori stranieri resta il doppio di quello
degli italiani: 6,8% contro 3,3%, con picco dell’8,1% tra le donne non italiane).
Viene infatti applicato un modello di vera e propria «segregazione occupaziona-
le», per cui la manodopera straniera è rigidamente canalizzata e tenuta schiacciata,
anche dopo decenni di servizio e di permanenza in Italia, sui livelli più bassi delle
professioni, nel cosiddetto mercato del lavoro subalterno. Quello in cui, lungi dal
mettersi in competizione o rubare il lavoro agli italiani, gli stranieri svolgono le oc-
cupazioni meno ambite e più precarie, più faticose, meno pagate, più rischiose per
la salute e più dequalifcate (e squalifcanti, anche socialmente).
Lo dimostra il fatto che i due terzi dei lavoratori stranieri sono impiegati in
lavori operai o di bassa preparazione e che un terzo è, di conseguenza, sovraistru-
ito, cioè ha competenze professionali o titoli di formazione superiori alle mansioni
che svolge in Italia (il 33,5% contro il 23,9% degli italiani, anche stavolta con un
picco di ben il 42,7% tra le lavoratrici straniere). A tutto svantaggio, oltre che degli
immigrati, anche del tessuto economico e produttivo nazionale, il quale trarrebbe
benefci strategici e sempre più vitali se solo programmasse e valorizzasse meglio
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l’apporto occupazionale e produttivo degli immigrati.


Un primo fondamentale punto, quindi, per l’agenda politica del governo Dra-
ghi è senz’altro quello di ripristinare la programmazione triennale degli ingressi
per lavoro dall’estero, basata sul fabbisogno effettivo del sistema occupazionale e
produttivo, il quale – a differenza di quanto accadeva anche prima della sua so-
spensione, attraverso il sistema di rilevazione Excelsior – prenda in considerazione,
oltre al fabbisogno stimato delle imprese, anche quello delle famiglie, la cui neces-
sità di assistenza alle persone non autosuffcienti (soprattutto anziane) è destinato
ad aumentare esponenzialmente, visto l’andamento demografco in atto.
Ciò consentirebbe di riaprire i canali d’ingresso legali, sicuri e trasparenti per
i migranti economici, sulla base di quote annuali realistiche (il cui tetto di circa
30 mila è stato abolito dal decreto immigrazione del governo Conte 2 6, ma senza
ulteriori criteri di determinazione delle quote), preso atto che la disoccupazione in-
terna non copre la domanda di certi comparti essenziali, per i quali la manodopera
«aggiuntiva» dall’estero è quindi indispensabile.
A tal riguardo potrebbe giovare l’esempio di paesi come il Giappone o la
Germania, che hanno riaperto le porte ai migranti economici senza escludere gli
obblighi internazionali di accoglienza dei profughi e richiedenti asilo. Due canali
di ingresso, questi, che richiedono una gestione differenziata, ma anche integrata
per quel che riguarda l’indirizzamento occupazionale (ad esempio, prevedendo
forme di impiego «guidato» dei richiedenti asilo nel lavoro di cura presso le fami-
glie, facendo perno sul sistema di accoglienza diffusa, come parimenti diffusa è la
domanda presso le famiglie).

6. Decreto legge 130/2020, convertito in legge il 18 dicembre 2020. 145


UN’INTEGRAZIONE STRATEGICA PER RILANCIARE L’ITALIA NEL MEDITERRANEO DI CASA

Alla programmazione dei fussi per lavoro, inoltre, sarebbe utile affancare –
al fne di sbloccare la mobilità occupazionale e sociale degli immigrati – anche
un meccanismo più agile e rapido di riconoscimento dei titoli acquisiti all’estero
e l’apertura alla partecipazione a concorsi pubblici, a partire da alcune categorie
particolarmente strategiche (per esempio i medici e gli operatori sanitari), come
pure l’adozione di un sistema che agevoli l’ingresso a migranti economici che
conoscono la lingua italiana, hanno parenti o reti di sostegno in Italia e/o hanno
acquisito professionalità particolarmente richieste, secondo le linee di proposta
pubblicate dal Cnel 7.
Inoltre sarebbe di interesse primario, per un paese che perde leve produttive
autoctone, incentivare i giovani stranieri che hanno conseguito titoli di formazione
specialistica in Italia a reinvestire qui le professionalità acquisite, prevedendo pro-
cedure agevolate di conversione del loro permesso di soggiorno.
Misure incentivanti, soprattutto sul piano fscale, potrebbero essere adottate,
sull’esempio del Portogallo e della Spagna, anche per i cosiddetti sun migrants,
pensionati o persone abbienti originari di paesi dal clima freddo e dalle giornate
brevi desiderosi di trascorrere gli anni della propria vecchiaia in luoghi dal clima
più temperato e dalle giornate di sole più lunghe, quali l’Italia può indubbiamente
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offrire, e che spendendo o investendo qui i loro risparmi (per consumi, abitazioni,
servizi eccetera) contribuirebbero a rivitalizzare l’economia, almeno locale, oltre
che a ripopolare aree sempre più disabitate – ma naturalisticamente e urbanistica-
mente attrattive – del Mezzogiorno.
Un secondo grande punto da inserire in una eventuale agenda politica per
l’integrazione dei migranti, volto a spezzare la rigida saldatura-cappio tra permesso
e contratto di lavoro istituita nel 2002 dalla legge Bossi-Fini (battezzata, nella legge
stessa, come «contratto di soggiorno»), è il ripristino del permesso di ingresso per
ricerca lavoro sotto garanzia di uno sponsor che assicuri la copertura delle spese
di permanenza e di eventuale rientro in patria in caso di esito negativo di dura-
ta almeno annuale. Anche in questo caso, rispetto alla versione prematuramente
soppressa sopra ricordata, si potrebbe opportunamente prevedere – in linea con
le proposte del Cnel – di affancare allo «sponsor» fnanziario anche uno «sponsor»
sociale (una struttura, un’istituzione, un’associazione eccetera) che durante l’anno
di ricerca del lavoro sostenga il migrante anche nell’orientamento e nei processi di
inserimento sociale (a partire dalla conoscenza della lingua italiana).
In terzo luogo, ancora sul piano dell’occupazione occorre tenere conto dell’ac-
clarata ineffcacia di misure di regolarizzazione una tantum, incapaci di rimuovere
le cause strutturali e perfno normative che producono irregolarità, come dimostra
l’impressionante sequenza di regolarizzazioni succedutesi in 35 anni di legifera-
zione sull’immigrazione, associandole pressoché ogni volta all’ideazione di nuove
leggi e/o modifche legislative in materia (1986, 1990, 1995, 1998, 2002, 2009, 2012,
2020) senza che il paese sia riuscito a risolvere il problema (lo prova l’elevata sacca

146 7. Cfr. «Nuovi ingressi per lavoro. Una proposta del Cnel», Cnel, 29/10/2019.
A CHE CI SERVE DRAGHI

di irregolarità – circa 500 mila persone stimate – ancora esistente dopo meno di un
anno dalla regolarizzazione più recente), non dimenticando che l’Italia è l’unico
paese europeo che ha avuto la necessità di varare sanatorie perfno durante gli
anni della crisi economica globale (nel 2009 e nel 2012). Sulla base di tutto questo
si potrebbe opportunamente prevedere una regolarizzazione continua e persona-
lizzata, come già realizzato in Francia e in Spagna, che contempli il mantenimento
dello status di regolarità per chi ne abbia perso i requisiti a fronte della maturazio-
ne di certe condizioni di radicamento e di un’integrazione de facto già esistente
(presenza in Italia da un congruo numero di anni, conoscenza della lingua italiana,
mancanza di precedenti penali, assiduità lavorativa, costituzione di una famiglia)
oltre che di particolari situazioni di fragilità (malattia eccetera).

3. Anche sul piano dell’integrazione sociale degli immigrati, un intervento


politico immediato sarebbe necessario almeno per la riforma della legge sulla cit-
tadinanza. Siamo un paese di immigrazione da quasi cinquant’anni, in cui 3 non
comunitari su 5 hanno ormai maturato un titolo di soggiorno di durata illimitata (e,
tra i restanti, l’80% soggiorna per un motivo – famiglia o lavoro – che sottintende
comunque un insediamento stabile), i matrimoni misti sono arrivati a rappresen-
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tare ben il 12% del totale, più di un neonato ogni 7 ha genitori stranieri, 3 alunni
stranieri su 5 sono nati in Italia. E abbiamo oltre 1,3 milioni di minorenni con un
background migratorio. Eppure contiamo ancora oltre 800 mila nati in Italia che
qui vivono, studiano, lavorano, prendono casa, costituiscono una famiglia e tutta-
via non hanno la cittadinanza italiana.
Il tutto per una legge antiquata, paradossale (ad esempio: è priva di sbarra-
menti nel risalimento delle ascendenze, per cui sono valide perfno quelle anteriori
all’Unità d’Italia!) e tra le più anacronistiche d’Europa, che – imperniata come è
noto sullo ius sanguinis – risale a ben 29 anni fa (quindi ancora più «vecchia» del
Testo unico) e che in tre decenni nessun governo, di destra e di sinistra, ha mai
voluto riformare, nonostante le numerose campagne e i tantissimi disegni di legge
depositati a questo scopo in parlamento. Trasferendo così, anche sul piano sociale,
quelle dinamiche di esclusione, emarginazione e invisibilità sopra richiamate rela-
tive all’inserimento lavorativo.
Inteso che uno ius soli puro rischierebbe di discriminare, all’interno dello stes-
so nucleo, fratelli più grandi nati all’estero e fratelli più piccoli nati in Italia (riser-
vando solo a questi ultimi il diritto di cittadinanza), la più recente proposta (andata
a vuoto anch’essa) di ispirarsi allo ius culturae (per cui la cittadinanza è conferita
al compimento di un ciclo scolastico, anche per i giovani nati all’estero) riconosce-
rebbe il ruolo centrale che la scuola svolge in termini di trasmissione di valori civili
e di appropriazione del patrimonio culturale e identitario di un paese, non solo
a livello teorico ma nella pratica quotidiana della convivenza tra coetanei, quale
microcosmo della società che funge da palestra per la vita collettiva.
Sarebbe poi opportuno – se davvero si ha a cuore la coesione sociale – riaprire
il dialogo istituzionale con le rappresentanze musulmane in Italia, faticosamente 147
UN’INTEGRAZIONE STRATEGICA PER RILANCIARE L’ITALIA NEL MEDITERRANEO DI CASA

inaugurato presso il ministero dell’Interno nel 2005 (Consulta islamica del ministro
Pisanu), proseguito fno al 2010 (Comitato per l’islam italiano del ministro Maroni)
e al 2015 (Tavolo permanente di consultazione del ministro Alfano), culminato nel
Patto nazionale per un islam italiano (2017). Dialogo bruscamente interrotto dal pri-
mo governo Conte e mai più ricostituito, sebbene sia quanto mai strategico, in ter-
mini di integrazione, spazi di partecipazione, riconoscimento e dialogo con l’islam.
Non si può tenere una comunità religiosa così rilevante (1,7 milioni di fedeli stranieri
in Italia) e le rispettive collettività di immigrati da cui è costituita emarginate in luoghi
di culto ricavati da garage e magazzini, sommersa o semisommersa, sconosciuta e
disconosciuta, bersaglio di sospetti e di diffdenze ancora diffusi.
La dolorosa esperienza di paesi europei anche vicini (la Francia, il Belgio
eccetera) insegna che proprio sulle sacche di esclusione e di emarginazione degli
immigrati – in cui per anni malessere e risentimento sociale, disoccupazione giova-
nile e degrado urbanistico sono montati insieme – si è innestata e ha avuto buon
gioco una propaganda ideologica, di tipo eversivo e terroristico, spesso teleco-
mandata dai paesi di provenienza dei migranti stessi e ammantata di nazionalismo
e di rivendicazione identitaria, anche religiosa, producendo i ben noti fenomeni
sanguinosi degli anni scorsi. Un rischio che, soprattutto nelle aree del paese meno
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presidiate dallo Stato e in cui umiliazione e sfruttamento grave dei migranti sono
particolarmente diffusi, potrebbe riguardare anche l’Italia.

4. In stretta connessione con tutto ciò, un’agenda politica sull’immigrazione e


sull’integrazione dei migranti dovrebbe contemplare alcune fondamentali misure
anche (se non soprattutto, in un’ottica strategica) sul piano delle politiche inter-
nazionali.
È sconcertante che sapendo sia a quali salatissimi costi umani è stato persegui-
to il crollo degli sbarchi di profughi nella rotta del Mediterraneo centrale (in sfregio
e in spregio del diritto internazionale, dei riferimenti costituzionali e dei più basilari
principi di civiltà), sia cosa vuol dire in termini di violenze, torture, stupri, riduzioni
in schiavitù e «orrori indicibili» – come li ha defniti l’Onu – tornare nei campi di de-
tenzione libici a luglio 2020, per il quarto anno consecutivo, il parlamento italiano
abbia votato, ancora una volta con ampio consenso bipartisan, il rifnanziamento
della cosiddetta «missione di recupero e salvataggio dei migranti in mare da parte
della Guardia costiera libica». Espressione che contiene una dose di ipocrisia quasi
in ogni singola parola.
Un rifnanziamento bipartisan per 58 milioni di euro, tre in più rispetto al
2018, che mostra chiaramente come, a parte poche ancora credibili eccezioni, sulla
questione delle migrazioni in fondo viga trasversalmente, tra quasi tutti i partiti,
un pensiero unico. Il che, tra l’altro, non lascia molti margini di ottimismo per una
convergenza sulla presente ipotesi di agenda politica per l’integrazione da parte
del pur eterogeneo governo Draghi.
È arrivata così a più di 784 milioni di euro (di cui quasi 214 per «missioni mi-
148 litari») la somma complessiva che l’Italia ha destinato alla Libia dal 2017, quando il
A CHE CI SERVE DRAGHI

nostro paese, con il sostegno dell’Ue, è stato in prima fla sia per l’istituzione della
cosiddetta «Guardia costiera libica» – spesso collusa o formata essa stessa da milizie
degli stessi clan che controllano il traffco dei migranti e i campi di detenzione –
sia per l’istituzione di una zona di mare Sar (Search and rescue) che fosse sotto
l’esclusivo controllo dei guardacoste libici.
Una dignitosa politica di discontinuità esigerebbe l’adozione delle seguenti
misure:
a) interrompere unilateralmente gli accordi con la Libia (sia quello «uffciale»
con il governo tripolitano, sia quelli «uffciosi» con il governo di Õaftar e con le
rappresentanze dei clan che controllano il traffco e i campi di detenzione);
b) di concerto con l’Ue, revocare alla Libia la giurisdizione esclusiva sulla zona
Sar attualmente detenuta;
c) promuovere l’attivazione di canali umanitari europei, a coordinamento ita-
liano, per il transito sicuro e legale dei migranti dalla Libia, per svuotarne i campi
di detenzione;
d) discutere e proporre un piano di distribuzione diffusa tra i paesi dell’Unione
che tenga conto delle reti di contatti parentali o sociali già presenti nei vari Stati
(per evitare che lo «smistamento» venga imposto in base a meri criteri numerici,
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trasformando i migranti in «pacchi postali»);


e) riattivare una missione nazionale di ricerca e salvataggio dei migranti nel
Mediterraneo centrale, sul modello di Mare Nostrum, possibilmente integrata con
quella delle ong già attive nel Mediterraneo e con il sostegno dell’Ue, in quanto
Stato membro affdabile ed esperto.
Una simile politica, oltre a creare uno spazio d’infuenza che fungerebbe da
«cuscinetto» rispetto all’incandescente caos politico della Libia e di altri paesi del
bacino mediterraneo, avrebbe anche l’effetto di rilanciare il protagonismo dell’I-
talia nello scacchiere geopolitico del Mediterraneo stesso, presidiando le rotte ne-
vralgiche di una zona oltremodo strategica. Dove il nostro paese fnora è arretrato
e rimasto arroccato, lasciando il campo libero – proprio nel «suo» mare – a po-
tenze economiche e politiche che in questi anni recenti hanno invece affermato
il loro controllo in un’area cruciale per i commerci, gli scambi e i traffci, soprat-
tutto di petrolio. Si pensi alla Turchia e alla stessa Russia, che hanno consolidato
l’infuenza sulle «due Libie» in confitto, ma anche a diversi altri paesi europei,
mediorientali e nordafricani che si contendono il controllo delle rotte da e verso
i ricchissimi paesi del Golfo.
Riacquisire il ruolo storicamente autorevole dell’Italia, come cerniera sia fra
le tre sponde del Mediterraneo (europea, nordafricana e mediorientale) sia con
l’Europa sud-orientale (riguardo alla quale sarebbe opportuno un analogo cambio
di passo pure rispetto ai migranti delle rotte balcaniche, nei cui respingimenti vio-
lenti verso la Serbia l’Italia ha la sua parte di complice responsabilità, come hanno
dimostrato recenti inchieste giornalistiche) avrebbe ricadute positive, infne, anche
per la terraferma italiana che si protende nel Mediterraneo: il Mezzogiorno sem-
pre più spopolato, lasciato anch’esso povero di presìdi dello Stato e ancora alla 149
UN’INTEGRAZIONE STRATEGICA PER RILANCIARE L’ITALIA NEL MEDITERRANEO DI CASA

mercé delle mafe nostrane e di poteri occulti, i quali hanno così buon gioco nel
saldarsi con le mafe estere. In particolare, quelle africane che gestiscono – oltre
al contrabbando – la tratta dei migranti in Libia e quelle del subcontinente indiano
che gestiscono a loro volta la tratta dei migranti nel Sud Italia, soprattutto per lo
sfruttamento sotto caporalato in agricoltura.
Nei prossimi mesi potremo verifcare se l’«alto proflo» di Draghi gli consentirà
di ideare e adottare politiche costruttive e lungimiranti sul piano della gestione
dell’immigrazione e dell’integrazione dei migranti, a tutto vantaggio loro e del pa-
ese in cui vivono.

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150
A CHE CI SERVE DRAGHI

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Parte II
ITALIA / ITALIE
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A CHE CI SERVE DRAGHI

IL PONTE SULLO STRETTO


ESISTE GIÀ
SI CHIAMA CALABRIA di Lorenzo NOTO
Da sempre plurale e vittima della sua geografia, la regione
sarebbe naturale testa di ponte per riconnettere la Sicilia all’Italia.
Ma a sfruttare le sue potenzialità è la ’ndrangheta, non lo Stato.
Ripartire dal Sud coi fondi dell’Ue, un’occasione geopolitica.

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N
ELLA TREPIDA ATTESA DEL SALVIFICO
fondo europeo per l’emergenza e la ricostruzione (Next Generation Eu), per l’Italia
si aggira il fantasma delle grandi occasioni storiche. Innanzitutto, quella di provare
a ridurre alcune delle asimmetrie che destrutturano le capacità geostrategiche ita-
liane. Tra tutte: la coesione territoriale e il recupero del Mezzogiorno. Condizioni
favorevoli se non indispensabili per adempiere all’imperativo strategico indotto
dalla nostra rendita geografca, ovvero recuperare la fondamentale dimensione
marittima del paese.
D’altronde, se il rinascimento geopolitico dell’Italia passa inevitabilmente at-
traverso il Mediterraneo, rabberciare le spaccature che fendono la Penisola, non
solo da nord a sud ma pure da est a ovest tra le coste adriatica-ionica-tirrenica, ne
è presupposto decisivo. Ritrovare la proiezione marittima diventa così pretesto, a
sua volta, per ricomporre l’unità territoriale, riaccentrando poteri e responsabilità.
Processo biunivoco, accelerato dalle dinamiche che stanno sconvolgendo l’assetto
del nostro bacino (vedi russi e turchi nelle Libie) e che costringono il paese a una
torsione di 180 gradi verso sud, conferendo al Mezzogiorno italiano rinnovata
centralità geostrategica. E se la chiave della riscoperta marittima del Belpaese pas-
sa inevitabilmente per la Sicilia (militarmente nella disponibilità americana) e l’o-
monimo Stretto – chiave del Mediterraneo/Medioceano – va da sé che decisivi
diventano gli assi di connessione fra quest’ultima e il resto del paese. A partire
dalla più diretta piattaforma di collegamento con l’arcipelago siculo: la Calabria.
Naturale testa di ponte tra l’isola maggiore nostrana e il resto del continente, il
territorio calabrese sarebbe ideale connettore tra i mari Tirreno e Ionio, dunque
indirettamente Adriatico. La presenza di solidi assi viari correnti l’Appennino cala-
bro-lucano da ovest a est garantirebbe non solo di agganciare la strategica Sicilia ma
di interconnettere i maggiori scali del Meridione: Napoli, Bari, Taranto, Gioia Tauro 153
IL PONTE SULLO STRETTO ESISTE GIÀ, SI CHIAMA CALABRIA

e Augusta. Come suggerito dal Rapporto Svimez 2020, facendo sistema fra questi
cinque snodi, l’Italia avrebbe l’occasione di stabilire una sorta di Southern Range
logistico euromediterraneo funzionale a un suo rinnovato ruolo di perno europeo
nel bacino, al centro delle rotte tra Suez e Gibilterra. Con la rilevante conseguenza
di agevolare il controllo diretto di quelle acque. Appunto, occasione storica.
Eppure, la penisola calabrese più che connettore rappresenta da sempre il
cul-de-sac dell’Italia. Territorio a bassissimo tasso produttivo, cuore nevralgico e
operativo della mafa più estesa a livello globale, sconnessa tanto tra nord e sud
quanto tra est e ovest, tra le maggiori esportatrici (a fondo perduto) di manodope-
ra e cervelli, ventre molle d’Italia e d’Europa affacciato sul confne di Caoslandia.
Mal considerata anche sul piano militare, in epoca di guerra fredda rilevava la
sola base Nato di Monte Mancuso: stazione di trasmissione remota per il controllo
della frontiera sud-orientale dell’Alleanza Atlantica, installata dagli americani negli
anni Sessanta e dismessa a fne secolo1.

Le Calabrie divise dal territorio


La Calabria è vittima del suo stesso territorio. La punta dello Stivale è stata
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soprattutto piattaforma di sbarco e di arrembaggio corsaro più che di proiezione


verso l’esterno, via di fuga o di rifugio data l’impenetrabilità estrema delle sue bo-
scose montagne, da Annibale a Spartaco, dai valdesi agli albanesi rassegnati a
stabilirsi fra i suoi monti. Alarico, re dei visigoti, vi trovò la morte nel 410 dopo
aver saccheggiato Roma, senza riuscire nell’intento di usarla per lanciarsi alla con-
quista della Sicilia (leggenda vuole che il suo corpo fosse seppellito insieme ai suoi
tesori lungo il corso del fume Busento a Cosenza). La stessa ’ndrangheta negli
anni Settanta, prima di lanciarsi nel traffco di droga, basò la sua fortuna economi-
ca sui sequestri di persona sfruttando le vie impervie dell’Aspromonte, inaccessi-
bili all’intervento delle forze di polizia, per nascondere le proprie vittime.
La mitopoiesi del nome Italia vuole che esso derivi dal re degli enotri Italo e
sia stato dato in principio alla regione corrispondente al suo regno. Ovvero quasi
tutta la Calabria, in particolare le terre dell’istmo di Catanzaro.
Nonostante una superfcie prevalentemente collinare (49%) e due soli corsi
fuviali principali, il Crati e il Neto (antico confne delle Calabrie Citeriore e Ulte-
riore), il costone appenninico calabrese si estende per il 41% del territorio regio-
nale: a nord con il massiccio del Pollino al confne con la Basilicata; al centro con
la Sila che si salda al massiccio del Reventino; a ovest con i monti di Orsomarso
e le Serre calabresi tra l’istmo di Catanzaro e il valico della Limina, che si spingo-
no fno all’acrocoro dell’Aspromonte. Residuale la presenza di pianure, solo il 9%.
Pur bagnata da due mari, la minaccia di pestilenze e pirateria non incoraggiò
mai una proiezione verso le onde. Durante la dominazione spagnola, trovandosi

1. Nell’aprile 2015 ne è stata misteriosamente rinnovata la servitù militare. Cfr. «Lamezia: rinnovata
servitù militare per base Monte Mancuso, struttura è apparentemente abbandonata», Il Lametino,
154 20/4/2015, urly.it/3ba4p
A CHE CI SERVE DRAGHI

in pieno fronte mediterraneo dello scontro ottomano-asburgico, le sue coste furo-


no falcidiate dalle incursioni dei corsari provenienti dal Nord Africa e affliati alla
Sublime Porta. Molti di questi erano calabresi rinnegati. Uno su tutti Gian Luigi
Galeni, poi Uluç Ali Paşa, dapprima comandante della fotta di Alessandria, poi
pascià di Tripoli e infne bey (governatore) di Algeri. Combatté persino a Lepanto
contro Gianandrea Doria nel 1571.
Fortifcazioni collinari e montuose e villaggi arroccati costellano tuttora il suo
paesaggio costiero, ma ancora nel XIX secolo la lunga linea di costa che la cinge
da ambo i lati risultava un ininterrotto deserto 2. Al momento dell’Unità d’Italia,
fatta eccezione per il piccolo porto settecentesco di Crotone, la costa ionica non
possedeva scali da Reggio a Taranto e lo stesso capoluogo ne era privo. La collo-
cazione peninsulare della Calabria come testa di ponte tra Europa e Mediterraneo
rappresentava più un segno di confnamento che uno strumento di proiezione
verso l’esterno. Realtà non lontana da quella di oggi.
La conformazione geografca e la sua storia di terra di conquista e di arrem-
baggio corsaro hanno contribuito al sorgere di molteplici identità. Per secoli fu
bisecata sul piano amministrativo e dunque dialettale in due macroaree, tanto che
ancora all’inizio del XX secolo si faceva riferimento alle Calabrie. Il linguista te-
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desco Gerhard Rohlfs, studioso delle varietà dialettali locali, distingueva le due
Calabrie in «latina» (pressappoco l’area dei dialetti settentrionali) e «greca» (quella
dei dialetti centro-meridionali), il cui confne era tracciato dove si arrestava la
presenza dei longobardi. L’area dei dialetti calabresi settentrionali è appartenuta
per lungo tempo al Ducato di Benevento 3. Anche nella classifcazione dei dialet-
ti italiani del linguista Giovan Battista Pellegrini 4 le due aree afferiscono a due
gruppi diversi transregionali: quello meridionale intermedio, conosciuto anche
come diasistema della lingua napoletana, equivalente alla regione storica della
Calabria Citeriore o alla sua parte settentrionale, in cui rientrano i dialetti indicati
come lucani e calabresi settentrionali (comprendenti la Basilicata e la maggior
parte della provincia di Cosenza); quello meridionale estremo, diasistema della
lingua siciliana, equivalente alla regione storica della Calabria Ulteriore, in cui
rientrano i dialetti defniti calabrese centrale e meridionale. Da ultimo, le mino-
ranze linguistiche riconosciute e tutelate dallo Stato italiano: quella albanese
(arbëreshë), presente in 33 comuni tra le province di Cosenza, Catanzaro e Cro-
tone, dove alcuni paesi utilizzano ancora una toponomastica bilingue; il guardio-
lo, varietà dell’occitano, parlato nell’isola linguistica di Guardia Piemontese; il
greco di Calabria (grecanico), ancora oggi diffuso nella punta meridionale della
regione tra i comuni di Bova, Condofuri, Roccaforte del Greco, Roghudi e in al-
cuni quartieri di Reggio.
Tale varietà dialettale rimonta alla storia amministrativa del territorio. Origina-
riamente, il nome Calabria designava la penisola salentina, compresa nella regione

2. P. BEVILACQUA, A. PLACANICA, Storia d’Italia dall’Unità a oggi: la Calabria, Torino 1985, Einaudi.
3. G. ROHLFS, Nuovo dizionario dialettale della Calabria, Ravenna 1983, Longo Angelo.
4. G.B. PELLEGRINI, Carta dei dialetti italiani, Pisa 1977, Pacini. 155
IL PONTE SULLO STRETTO ESISTE GIÀ, SI CHIAMA CALABRIA

augustea Regio II Apulia et Calabria, mentre l’odierna Calabria e l’attuale Basilicata


formavano la Regio III Lucania et Bruttii. Con la caduta dell’impero romano d’Oc-
cidente fu conquistata dai bizantini, che ne persero successivamente una parte
nello scontro con i longobardi. I territori rimasti furono aggregati alle terre residua-
li possedute nel Salento, formando il ducato di Calabria compreso nel thema di
Sicilia. Successivamente il dominio bizantino in Italia meridionale fu diviso in
thema di Langobardia, con capitale Bari, e una volta caduta la Sicilia in mano agli
arabi in thema di Calabria, con capitale Reggio. La conquista dei normanni nella
seconda metà dell’XI secolo portò alla spartizione della regione in due suddivisio-
ni amministrative: il giustizierato di Vallo Crati e quello di Calabria.
Nel XVI secolo, con la dominazione spagnola, i nomi dei due giustizierati
scomparirono e vennero sostituiti rispettivamente da quelli di Calabria Citra (av-
verbio latino per «al di qua») e Ultra («al di là») in relazione al corso del Neto. Nel
1806 Giuseppe Bonaparte riformò la ripartizione territoriale del Regno di Napoli
sulla base del modello francese e soppresse il sistema dei giustizierati. Il territorio
della Calabria restava organizzato nelle due province Citra e Ultra, con il capoluo-
go di quest’ultima che passava da Catanzaro a Monteleone (dal 1861 Vibo Valen-
tia). Il ritorno dei Borbone e l’istituzione del Regno delle Due Sicilie nel 1816
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portarono a un nuovo assetto amministrativo: la Calabria Ultra fu divisa in Calabria


Ulteriore Prima con capoluogo Reggio e Calabria Ulteriore Seconda con capoluo-
go Catanzaro, mentre Monteleone perse il ruolo conferitogli dai francesi.
Con la proclamazione del Regno d’Italia, l’estensione della legge Rattazzi del
1859 (ex Regno di Sardegna) alle province meridionali fu poi completata dalla
legge per l’unifcazione amministrativa del 1865 5: le Calabrie mantennero la stessa
ripartizione ma denominando le province col nome del rispettivo capoluogo.
Tale frammentazione territoriale fu costante fno agli anni Settanta, risolvendo-
si nel dramma dei moti di Reggio successivo all’istituzione delle regioni, tentativo
ultimo di unifcare le Calabrie ricalcandone la divisiva storia amministrativa. Guida-
ta dal sindacalista della Cisnal Francesco Franco, esponente del Movimento sociale
italiano noto alle cronache per aver rilanciato il motto di D’Annunzio «boia chi
molla!», la rivolta popolare sfociò in una guerriglia urbana che sconvolse la regione
e l’Italia tutta all’indomani della scelta di convocare il Consiglio regionale a Catan-
zaro. Dopo averla sedata nel febbraio 1971 con l’invio dell’Esercito in città, il gover-
no presieduto da Emilio Colombo deliberò un programma di investimenti industria-
li 6 da realizzare in Calabria e in Sicilia. Il «pacchetto Colombo» prevedeva l’insedia-
mento nel territorio reggino di apparati produttivi che non furono mai realizzati o
furono subito oggetto di speculazioni da parte della ’ndrangheta (i poli industriali
di Saline Joniche e di Gioia Tauro), oltre a defnire un’insolita divisione degli organi
istituzionali calabresi (giunta regionale a Catanzaro e Consiglio a Reggio Calabria) 7.
5. Legge del 20 marzo 1865 n. 2248 allegato A, urly.it/3b_fb
6. Interventi già previsti in anni precedenti dalla Cassa per il Mezzogiorno, cfr. G. CANTARELLA, Il pac-
chetto Colombo. La rivolta: documenti parlamentari, Reggio Calabria 2011, Città del Sole.
7. Delibera n. 1 Cipe del 28/1/1971: Programma Investimenti Industriali in Sicilia e in Calabria, urly.
156 it/3b_hd
A CHE CI SERVE DRAGHI

Una diaspora inutilizzata


Come sottolinea l’appello di Svimez e Fondazione Per, il grosso dei 204
miliardi di euro previsti per l’Italia tra Next Generation Eu e React Eu si deve
soprattutto alla situazione di estrema gravità del Sud. Il Mezzogiorno presenta i
più bassi indicatori di reddito e occupazione, i più consistenti fenomeni di per-
dita di capitale umano qualifcato e la più grave caduta della natalità. Tra i pri-
mati negativi nelle previsioni di Svimez per il 2020, fra le regioni italiane la Ca-
labria occupava la seconda posizione dietro alla Campania per contrazione del
pil (-8,9%). Nel settembre 2019 era ultima per esportazioni con 330 milioni di
euro, trainate dal comparto dei prodotti alimentari (26,1%) e da quello dei pro-
dotti chimici (20,15%), mentre nel secondo trimestre 2020, condizionato dall’e-
pidemia di coronavirus, l’export calabrese ha toccato i 91,8 milioni di euro
(-16,89%) 8.
Debolezze strutturali che non riescono neanche a traslarsi in occasione per
attirare investimenti stranieri giocando al ribasso, da poter poi sfruttare tattica-
mente. Un tentativo lo ha fatto la Cina, prevalentemente nelle province di Cosen-
za, Reggio e Catanzaro. Prima della frma del memorandum d’intesa italo-cinese
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del 2019 sulle nuove vie della seta, il valore della merce in partenza verso il
continente asiatico aveva registrato una crescita tendenziale, con una riduzione
del defcit della bilancia commerciale pari all’1,17% nel quarto trimestre 2018.
Nel dicembre dello stesso anno si era presentata a Catanzaro persino una dele-
gazione del governo della provincia del Guizhou al fne di rafforzare il sodalizio
fra le due entità, accomunate, secondo la propaganda, da uno specifco interesse
per il peperoncino. Troppo poco per trasformare bacche e agrumi in un asset
geopolitico 9.
Ciò che davvero esporta la Calabria è il capitale umano. Nel 2018 (ultimi
dati Svimez) si sono cancellati dal Mezzogiorno oltre 138 mila residenti, di cui 20
mila diretti verso paesi esteri. Le partenze più consistenti verso il Centro-Nord
Italia si sono registrate nelle regioni più grandi come la Campania con 33.800
persone, la Sicilia con 28.700 e la Puglia con 21.200. Ma la Calabria con le sue
14.800 mila unità ha presentato il più elevato tasso migratorio (4,5 per mille),
seguìta da Basilicata (3,8 per mille) e Molise (3,5 per mille). Che la Calabria sia
inoltre una regione con una consistente comunità oltreconfne è dimostrato dai
cittadini iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, 423.668 su un milione
e 879.245 attualmente residenti nella regione, un’incidenza del 22% superata solo
da Molise e Basilicata 10. Le maggiori comunità di calabresi all’estero si trovano in
Argentina (103.295 persone), Germania (79.552), Svizzera (52.401), Francia
(35.445), Australia (27.731), Canada (26.308), Brasile (22.840), Stati Uniti (19.682),
Regno Unito (10.574), Belgio (9.766), Spagna (9.278).

8. Dati Osservatorio nazionale Regione Calabria, urly.it/3b_mj


9. Le esportazioni italiane verso la Cina: regione per regione, Asia Briefng, novembre 2020, urly.it/3b_n1
10. Cfr. i dati Aire riportati nel Rapporto Migrantes 2020, urly.it/3b_py 157
IL PONTE SULLO STRETTO ESISTE GIÀ, SI CHIAMA CALABRIA

Un tesoretto che se sfruttato contribuirebbe a diramare il soft power italiano,


incrementando e valorizzando le relazioni con le comunità calabresi attraverso il
sostegno a iniziative di collaborazione istituzionale, economica, culturale con gli
Stati di residenza, facendo leva sull’associazionismo calabrese all’estero. Soprattut-
to perché a sfruttare il potenziale della diaspora e la ramifcazione demografca
della regione non è lo Stato bensì la ’ndrangheta, organizzazione sempre più glo-
bale e che trae forza e proiezione internazionale dall’inestirpabile legame con il
territorio d’origine.

Il marchio Calabria è la forza della ’ndrangheta nel mondo


Come spiega il magistrato Nicola Gratteri 11, procuratore di Catanzaro oggi
impegnato nel maxiprocesso alla ’ndrangheta seguìto all’indagine Rinascita-Scott
(329 imputati per 400 capi d’imputazione e 600 difensori) 12 passato sotto traccia
tra crisi di governo e sanitaria, la forza dell’organizzazione calabrese non risiede
solo nella sua tentacolarità, ma nella sua capacità di tenere insieme un sistema
centralizzato. Una struttura unitaria e di governo, con un vertice collegiale chia-
mato provincia espressione dei tre mandamenti (fascia ionica, tirrenica e centro)
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dove ha radici ultracentenarie. I mandamenti sono inoltre rappresentati nei loca-


li 13, ovvero cellule egemoni nei rispettivi territori in Italia e nel mondo, all’interno
delle quali risiedono decine quando non centinaia di affliati con uno straordina-
rio senso di appartenenza, quasi religioso.
Da ciò dipende la facilità con cui la ’ndrangheta riesce a replicare fuori dai
territori d’origine tale sistema, quelle stesse capacità di adattamento che le han-
no permesso di affermarsi in Calabria. Senza il legame con la casa madre, la
’ndrangheta sarebbe meno potente. Le sue proiezioni nazionali o estere, per
quanto numerose e forti economicamente, dipendono sempre dal rapporto col
territorio d’origine. L’enorme volume di affari sviluppato nelle regioni del Cen-
tro-Nord e all’estero ha portato le ’ndrine a creare forme di direzione e collega-
mento più impegnative rispetto al passato, a un maggiore coordinamento nel
rispetto dei canoni ’ndranghetisti: affliazione culturale, narrazione mitica, iden-
tità. Gli stessi cognomi presenti in Calabria si inseguono nei luoghi di diffusione
e l’importanza di una ’ndrina deriva proprio dal cognome del capobastone con
cui si fa conoscere.
San Luca, con meno di quattromila anime, continua a rivestire un’importanza
simbolica decisiva. È da sempre considerata la madre di tutti i locali, depositaria
della tradizione e delle regole istitutive che costituiscono il patrimonio «valoriale»
di tutte le cosche. Sede del santuario della Madonna di Polsi, dove si tenevano i
11. N. GRATTERI, A. NICASO, La rete degli invisibili, Milano 2019, Mondadori.
12. «Maxi processo alla ’ndrangheta oscurato da crisi di governo e Covid», Il Giorno, 21/1/2021, urly.
it/3b_rx
13. Il locale (locali in calabrese) o società nella terminologia della ’ndrangheta è il luogo dove si riu-
nisce la società, cioè dove si svolgono le riunioni degli ’ndranghetisti, ma il termine viene usato anche
158 in riferimento a uno o più rami dell’organizzazione che comprende più ’ndrine.
A CHE CI SERVE DRAGHI

LO HEARTLAND DELLA ‘NDRANGHETA 15 Comuni in fase di scioglimento


e due Aziende sanitarie provinciali
Bari di Catanzaro e di Reggio Calabria
commissariate per infltrazione
CAMPANIA mafosa, marzo 2021
PUGLIA

BASILICATA Taranto

06
PORTO di
Monte SS1
Pollino
Gioia Tauro
Sequestri di cocaina
Autostrada

(2019-2020) CALABRIA
- 2.200 kg Crucoli
- 2.614 kg (primo semestre 2020) Cosenza
Casabona CANADA
- 1.300 kg (solo a febbraio 2021) LA SILA
2 A

Fonte: Dia e Repubblica cronaca Amantea


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Cutro
Catanzaro
06

Pizzo Azienda sanitaria provinciale


olie
SS1

AUSTRALIA
le E Vibo Valentia (chiusa per infltrazione mafosa)
Iso LE SERRE
Gioia Tauro Guardavalle
Stilo
Sant’Eufemia d’Aspromonte San Giorgio Morgeto
Sinopoli Siderno
Careri Delianova
SAN LUCA “Locale” custode
REGGIO DI CALABRIA Africo della tradizione GERMANIA
Palizzi e delle regole istitutive
ASPROMONTE
che costituiscono il
“patrimonio valoriale”
di tutte le cosche PAESI BASSI
Azienda sanitaria provinciale
SICILIA (chiusa per infltrazione mafosa)
BELGIO

Augusta
ta FRANCIA

SPAGNA
EUROPA Altri paesi dove è replicato
DELL’EST il modello della ‘ndrangheta
SVIZZERA

vertici mafosi funzionali a orientare gli affari, a defnire alleanze, a dirimere con-
troversie, a dettare le strategie criminali.
La fortuna della mafa più globale che esista continua a risiedere nel legame
con una delle terre considerate più arretrate d’Europa, ma che ne resta cuore ne- 159
IL PONTE SULLO STRETTO ESISTE GIÀ, SI CHIAMA CALABRIA

vralgico. Si pensi alla città renana di Duisburg, a meno di due ore di viaggio dai
porti di Rotterdam, Amsterdam e Anversa, porte d’accesso per la droga sudameri-
cana, dove le fazioni Pelle-Vottari-Romeo e Nirta-Strangio (protagoniste della stra-
ge del 15 agosto 2007) avevano installato basi operative spartendosi il territorio e
usando il corso del Reno come confne. La sponda occidentale, quella di Kaarst,
sotto il controllo dei Nirta-Strangio e quella orientale, l’area di Duisburg, ai Pelle-
Vottari-Romeo. Esattamente come avviene in Calabria, dove le fumare – torrenti
scroscianti d’inverno e secchi d’estate – delimitano i territori di locali e ’ndrine.
La ’ndrangheta, a differenza delle altre mafe, ovunque arriva non si limita a
fare affari o a riciclare i propri soldi. Fa di più: riproduce senso e identità, rigenera
il modello di comunità e i (dis)valori originari, insediando le proprie strutture cri-
minali in un legame indissolubile con i vertici dell’organizzazione in Calabria.

Le nuove rotte della ’ndrangheta


Per quanto concerne il suo radicamento all’estero, secondo il rapporto della
Direzione investigativa antimafa (Dia) relativo al semestre gennaio-giugno 2020
il baricentro degli affari della ’ndrangheta si sta spostando sempre di più nel cuo-
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re dell’Europa 14. Il narcotraffco continua a rappresentare l’attività criminale più


redditizia, spingendo i clan calabresi a intensifcare la loro presenza nei territori
di produzione delle varie droghe e in quelli di transito, come i già citati scali del
Nord Europa, di cui i mafosi hanno infltrato le reti logistiche di trasporto e com-
mercio. Ma la droga non è l’unico settore. Un altro àmbito di elezione dei clan
calabresi, favorito dall’evoluzione tecnologica delle condotte mafose, è il campo
delle scommesse online, di cui Malta è capitale euromediterranea, che assicura
ingenti ricavi e permette di riciclare denaro.
Anche la Spagna è diventata terra di conquista, in quanto varco di accesso
privilegiato in Europa per i narcotraffcanti grazie ai suoi porti, snodo d’elezione
per le rotte transoceaniche di approvvigionamento della cocaina. In Francia la
’ndrangheta è stata tra le organizzazioni che hanno maggiormente sfruttato la po-
sizione dell’Esagono quale crocevia di traffci illegali attinenti agli stupefacenti
provenienti dal Nord Africa o dalla stessa Spagna e destinati in Italia. Storico è
l’insediamento Oltralpe delle famiglie che hanno creato nella zona di Ventimiglia
una sorta di camera di passaggio preposta a coordinare il narcotraffco e il riciclag-
gio gestiti dai clan in Costa Azzurra.
L’attività investigativa conclusa nel giugno 2020 a séguito dell’Operazione Ri-
nascita-Scott ha accertato la capacità delle famiglie di Vibo Valentia di avviare un
traffco di stupefacenti sull’asse Brasile-Albania 15, riciclandone i proftti nel Regno

14. Relazione del ministero dell’Interno. Rapporto Direzione investigativa antimafa, gennaio-giugno
2020, urly.it/3b_tm
15. Delle cosche criminali straniere, la collaborazione della ’ndrangheta con la mafa albanese è quel-
la più signifcativa, grazie a una struttura molto simile e a un modello organizzativo a base familiare
160 o parentale.
A CHE CI SERVE DRAGHI

Unito. Anche il territorio belga è teatro dell’infltrazione della ’ndrangheta, in par-


ticolare delle cosche ionico-reggine che nel corso degli anni sono riuscite a per-
meare i settori economici nelle regioni di Mons-Charleroi e di Liegi-Limburgo, ri-
spettivamente confnanti con Francia e Paesi Bassi. In Olanda, secondo la Dia, la
’ndrangheta ha costituito una rete di collegamenti utili allo smercio di stupefacen-
ti e al riciclaggio dei capitali. In Germania è l’organizzazione criminale che ha sa-
puto sfruttare meglio i vantaggi economici offerti dalla forente economia, riuscen-
do a creare unità periferiche che, seppur dotate di una certa autonomia, sono di-
pendenti dal comando strategico reggino.
Inoltre, grazie alla capacità di stabilire legami con le mafe provenienti dall’Est
Europa, la ’ndrangheta opera nei territori dell’ex Repubblica Democratica Tedesca,
come Sassonia e Turingia, dove è riuscita a sfruttare negli anni a suo vantaggio le
vulnerabilità del locale sistema economico. La connessione con l’Europa orientale
passa per l’Austria, crocevia per i traffci delle rotte balcaniche. L’eroina provenien-
te dalla Turchia e le armi illegali, infatti, vengono inviate su questa direttrice dalle
organizzazioni criminali dei paesi dell’Est. Secondo quanto riportato dalla Dia,
precedenti attività investigative avevano consentito di appurare che i gruppi crimi-
nali italiani, in particolare quelli legati alla ’ndrangheta, benché non radicati in
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Austria, avevano riciclato i proventi illeciti a disposizione in attività fnanziarie e


investimenti immobiliari.
Poi c’è Malta, buco nero che anche grazie agli investimenti della ’ndrangheta
ha registrato un aumento del pil con un incremento medio nel decennio 2007-17
del 4,2% e dove le procedure semplifcate previste dal diritto societario hanno in-
direttamente originato opportunità per le mafe italiane di riciclare ingenti capitali,
soprattutto nel settore del gioco d’azzardo e delle scommesse (giro d’affari che
ammonta al 12% della ricchezza complessiva dell’arcipelago). La contiguità dell’i-
sola con la Sicilia favorisce inoltre l’attuazione di progetti criminali anche in seno
al traffco di droga.
Oltreoceano la presenza dei clan calabresi si è progressivamente radicata in
Nord America tanto da assicurare loro la gestione dei fussi provenienti dai qua-
dranti centrale e meridionale del continente. In Canada risulta prevalente nelle
zone di Toronto e Thunder Bay 16. Negli Stati Uniti, unitamente alle attività di Cosa
Nostra, la ’ndrangheta avrebbe trovato spazi operativi come referente dei cartelli
del narcotraffco, mentre in Messico utilizza l’asse con l’enorme volume di merci
che transitano da e verso il porto di Gioia Tauro. Colombia, Guyana, Costa Rica,
Repubblica Dominicana, Brasile e Venezuela sono invece paesi in cui da tempo
ha realizzato basi logistiche che consentono un rapido e continuo approvvigiona-
mento di cocaina e la predisposizione di merci e derrate alimentari destinate all’e-
sportazione verso Nord America ed Europa.

16. Particolare rilevanza assume la sentenza emessa dalla Corte superiore di giustizia dell’Ontario nel
febbraio 2019 mediante la quale viene riconosciuta la presenza di veri e propri locali di ’ndrangheta,
analoghi a quelli italiani. È la prima volta che in questo paese viene riconosciuta processualmente
l’esistenza dell’organizzazione calabrese. 161
IL PONTE SULLO STRETTO ESISTE GIÀ, SI CHIAMA CALABRIA

L’occasione storica che siamo obbligati a cogliere


Il fondo europeo per la ricostruzione è potenziale occasione anche solo per
immaginare di riagganciare il Mezzogiorno (venti milioni di abitanti) al resto del
paese, necessità non unicamente italiana sul piano geopolitico. E per produrre
potenziale strategico sfruttandone gli assi principali, in grado di valorizzarne la
rendita geografca. Tra i lavori che potrebbero rovesciare l’identità geopolitica del
Meridione da questione a risorsa fgurano l’ampliamento dei sistemi autostradale e
ferroviario (quest’ultimo deve prevedere una vera alta velocità che dimezzi i tempi
di collegamento da Reggio a Roma e tra le tre città metropolitane siciliane Messina,
Catania, Palermo e il resto d’Italia); il potenziamento delle infrastrutture dei due
porti commerciali di Gioia Tauro e Augusta, per connetterli a quelli di Napoli,
Bari e Taranto; il ponte sullo Stretto.
Oggi il divario nella dotazione complessiva di reti ferroviarie tra Centro-Nord
e Mezzogiorno rimane ostacolo inaggirabile per reintegrare Sicilia e Calabria nel
resto del paese. Meno del 50% delle linee ferroviarie al Sud è elettrifcato (contro
l’80% del Nord) e soltanto il 51% è a doppio binario (contro il 60% della media
nazionale). Quanto all’alta velocità, è presente solo in Campania, con il 10,4%
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della sua intera rete ferroviaria. In Calabria solo la dorsale tirrenica viene defnita
rete fondamentale, il cui itinerario costituisce inoltre la sezione meridionale del
Corridoio scandinavo-mediterraneo del sistema transeuropeo Ten-T. Sul lato ioni-
co, la rete che collega Taranto a Reggio (dunque i due porti, mentre non è con-
nessa al porto di Crotone) è invece defnita come complementare e non è elettri-
fcata lungo l’intera tratta Sibari-Reggio.
Schema simile sul piano stradale, dove oltre alla problematica Salerno-Reggio
Calabria, a est l’unica arteria che collega il capoluogo a Taranto è la statale ionica
che per numero di vittime si è guadagnata negli anni il soprannome di «strada
della morte». Lunga 491 chilometri, nella tratta pugliese e lucana è stata recente-
mente ammodernata a due carreggiate con doppia corsia per senso di marcia,
mentre per la rimanente tratta calabrese (415 chilometri) il collegamento Sibari-
Reggio è ancora a una sola corsia.
Fin dal 2018 avrebbero dovuto inoltre essere attivate al Sud quattro Zone eco-
nomiche speciali (favorite da detassazioni e minori vincoli burocratici) nei porti di
Napoli, Bari, Taranto e Gioia Tauro. Ma oggi nessuna di queste è operativa. Per
Gioia Tauro, primo porto container italiano, e Augusta, primo per traffco di ener-
gia, Svimez e Fondazione Per propongono ad esempio la realizzazione di un uni-
co port community system.
Proprio Gioia Tauro, eccellenza del transhipment nostrano, resta uno dei
maggiori drammi della Calabria e del Sud Italia tutto. Nell’ultimo anno ha registra-
to un balzo in avanti del volume di traffco di circa il 25%, superando i 3 milioni
di teu di movimentazione annuale. È un’infrastruttura capace di competere con i
grandi porti internazionali del Mediterraneo ma, oltre a soffrire lo spaesamento di
162 un’area periferica connessa all’arteria autostradale con il record di lavori in corso,
A CHE CI SERVE DRAGHI

molto più semplicemente non è nella disponibilità dell’Italia in quanto scalo stra-
tegico della ’ndrangheta.
Nel 2019 il porto aveva conosciuto un aumento dei quantitativi di stupefacen-
ti sequestrati (circa 2.200 chili), evidenziandone un deciso incremento rispetto al
2018 (periodo in cui la Dia registrò 217 chili in totale). Un incremento ancora più
evidente nel 2020, in quanto solo nel primo semestre risulta la confsca comples-
siva di oltre 2.600 chili di cocaina provenienti dal Sud America (Brasile e Colom-
bia). Nel novembre 2020 un ulteriore sequestro contava circa 932 chili di cocaina
stivata in un container che trasportava cozze surgelate provenienti dal Cile. Dati
che evidenziano come lo scalo continui, nonostante l’articolazione dei clan verso
altri lidi internazionali, ad avere estrema rilevanza come crocevia di traffci illeciti,
sebbene secondo la Dia la ’ndrangheta non ricorra in Italia solo a Gioia Tauro per
l’import di droga, ma abbia riposto attenzione anche su Genova, La Spezia e Vado
Ligure (aree di transito degli stupefacenti verso le piazze del Nord-Ovest nostrano
ed estere), Livorno e Venezia.
Non da ultimo vi è la questione del dissesto dei comuni, chiamati a realizzare
parte dei progetti appaltati senza averne le forze. Tutti i comuni del Sud sono in
sofferenza cronica per austerità e taglio dei fondi, oltre a detenere un altissimo tas-
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so di commissariamento legato all’attività mafosa. In Calabria, la metà degli sciogli-


menti attualmente in corso (15 Comuni su 29 a cui si aggiungono le aziende sani-
tarie di Catanzaro e Reggio Calabria) è avvenuta in base all’articolo 143 del testo
unico degli enti locali sulle infltrazioni mafose. Secondo l’osservatorio Openpo-
lis 17, dal 1991 la Calabria detiene il record di comuni commissariati per mafa: 124,
di cui 70 nella provincia di Reggio Calabria, 24 in quella di Vibo Valentia, 15 in
quella di Catanzaro, 10 in quella di Crotone e 5 nella provincia di Cosenza 18.
Debolezze strutturali che, anche alla luce dei fondi europei, rendono diffcil-
mente immaginabile la loro trasformazione in potenziale strategico. Eppure, la
necessità di ripensare la postura marittima e le opportunità legate al Recovery
Fund di riconnettere il tessuto territoriale italiano obbligano a ragionare non più
in termini onirici ma geopolitici. L’ammodernamento dei maggiori assi viari e la
possibilità di interconnettere i sistemi portuali del Mezzogiorno non servono solo
a migliorare le condizioni economiche (principale categoria con cui si è sempre
affrontata la «questione meridionale») ma a dare senso geostrategico, bene più
prezioso nel lungo periodo. Istituire un sistema di coordinamento tra le autorità
portuali non serve solo ad aumentare il pil interregionale ma ad agevolare il con-
trollo diretto di quelle acque, a connettere l’asse Augusta-Taranto per proiettarci
nel Mediterraneo centrale, a progettare con più fermezza e consapevolezza una
nostra Zona economica esclusiva e a capire come difenderla. In questo scenario,
ogni elemento, ogni lembo di terra e specchio d’acqua necessita della piena rea-
lizzazione del proprio potenziale.

17. «Salgono a 41 gli enti sciolti per infltrazioni mafose», Openpolis, 12/3/2021, urly.it/3ba02
18. Per il Mezzogiorno seguono la Campania, con 111 commissariamenti, la Sicilia (85) e la Puglia (20). 163
IL PONTE SULLO STRETTO ESISTE GIÀ, SI CHIAMA CALABRIA

Solo così può sembrare meno grottesco il sogno di trasformare la Calabria da


irrimediabile cul-de-sac d’Italia e d’Europa a connettore marittimo e terrestre tra i
tre mari e la Sicilia, da ventre molle alle soglie di Caoslandia a testa di ponte per
tenere unita l’Italia.
Nell’agosto 1860 Garibaldi, dopo aver conquistato la Sicilia, sbarcò, corsaro, a
Melito Porto Salvo. Le operazioni dell’Esercito meridionale nella parte continentale
del Regno delle Due Sicilie, che comportarono l’integrazione del Meridione borbo-
nico nel nascente Stato unitario, partirono proprio dalle coste calabresi. Da quelle
stesse terre che, mito vuole, venivano anticamente chiamate Italia.

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164
A CHE CI SERVE DRAGHI

‘Roma è ancora caput mundi


ma se l’è scordato’
Conversazione con Luca BERGAMO, già vicesindaco e assessore alla Crescita
culturale di Roma, a cura di Lucio CARACCIOLO e Fabrizio MARONTA

LIMES Roma è davvero la capitale d’Italia? Conta come tale?


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BERGAMO Conta quando vuole e può farlo. Quando cioè riesce a operare una sin-
tesi delle molteplici posizioni esistenti nel nostro paese, specie tra le grandi città.
Un piccolo esempio: al principio dell’epidemia di Covid-19 ho parlato con i miei
colleghi di Milano, Firenze e Torino per costituire un coordinamento informale tra
gli assessori alle Politiche culturali, in cui abbiamo coinvolto i colleghi delle altre
grandi città amministrate da diverse coalizioni. Fin dall’inizio non c’è stata resisten-
za all’idea che spettasse al sottoscritto «cucire» le posizioni e interloquire in via
prioritaria con il governo nazionale. Ho osservato questa dinamica anche in altre
circostanze. Credo origini in parte dall’idea, non infondata, che chi fa politica a
Roma abbia contatti più assidui con le istituzioni centrali rispetto ai rappresentanti
delle altre città d’Italia. Sta di fatto che grazie a questo coordinamento, che ha coin-
volto quasi tutte le principali città italiane, siamo riusciti a ottenere modifche già
dal secondo dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri) di Giuseppe
Conte per introdurvi forme di sostegno ad attività e soggetti deboli ma essenziali
alla vita culturale, i cui bisogni sfuggivano all’esecutivo nazionale.
LIMES Questa vicinanza al potere centrale è un vantaggio?
BERGAMO In alcuni casi sì. In generale, però, ha un effetto negativo sulla classe
politica locale. Perché nel contesto romano gli elementi migliori ambiscono a po-
sizioni nazionali, il che nuoce al livello politico-amministrativo cittadino che viene
vissuto piuttosto come una tappa di carriera.
LIMES Diceva all’inizio: «Roma conta quando vuole e quando può». Cosa le impedi-
sce di contare sempre?
BERGAMO Varie ragioni. In primo luogo l’essere schiacciata sull’ordinario, sulla ge-
stione corrente. Poi il fatto che un paese storicamente policentrico come il nostro
non le riconosce appieno la funzione di capitale. Specie le grandi città spesso ne 165
‘ROMA È ANCORA CAPUT MUNDI, MA SE L’È SCORDATO’

rifutano la mediazione, per non parlare del primato. L’Italia è lontana da un asset-
to come quello di Francia o Regno Unito, dove Parigi e Londra hanno un peso
politico, amministrativo, demografco, economico e fnanziario molto maggiore ri-
spetto al resto del territorio, da cui drenano ingenti risorse. Apparentemente il
«Roma ladrona» riecheggia il risentimento e l’invidia della provincia francese o bri-
tannica verso la capitale. In realtà è l’opposto: è la denuncia di una presunta mino-
rità morale e culturale, che giustifca il disconoscimento come capitale.
LIMES È solo percezione o c’è un fondo di realtà?
BERGAMO Molta è percezione, come dimostra l’intermittente ma concreta capacità
di Roma di fungere da raccordo delle istanze territoriali. Tuttavia Roma, a differen-
za di molte altre capitali europee, non si vede riconosciuta una leadership nazio-
nale, anche in campo economico e specie dal Centro-Nord. Eppure, chi la ammi-
nistra ha rapporti privilegiati con realtà fondamentali per il paese: le istituzioni
centrali, ma anche il Vaticano. Nessun’altra città d’Italia o del mondo ha un sindaco
che durante il suo mandato incontra regolarmente il papa e la sua cerchia più
prossima. Mentre le interlocuzioni con le altre strutture pontifcie, il cui personale
è in genere di altissima caratura intellettuale, sono continue. A molti livelli.
LIMES Cosa comporta, nella pratica, avere uno Stato nel cuore della capitale d’Italia?
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BERGAMO Soprattutto due cose. La consapevolezza che il mondo cattolico, oltre ad


avere un’infuenza culturale profonda, svolge una funzione chiave per la tenuta del
tessuto cittadino con le attività di assistenza ai più deboli, ma anche di aggregazio-
ne e mobilitazione. Funzione che in altre parti d’Italia, come la Toscana o l’Emilia-
Romagna, è stata storicamente affancata da quella delle cooperative aconfessiona-
li. Poi la necessità di dialogare incessantemente con un soggetto che a Roma ha
vasti e ramifcati interessi materiali: basti guardare all’entità del patrimonio immo-
biliare della Chiesa a Roma, la cui mappatura Limes ha proposto più volte. Aggiun-
go che Roma è una capitale delle religioni e che oltre al Vaticano ospita una comu-
nità ebraica tra le più antiche e radicate. Ciò inserisce un ulteriore elemento «uni-
versalista», ma anche fortemente specifco, nel panorama romano. Questa continua
osmosi è un fattore di arricchimento ma anche di complessità, perché le dinamiche
interne a tali realtà fniscono per ripercuotersi sulla città. Come il fatto che l’attuale
papato sia tra i meno «romani» di sempre, impegnato com’è a incidere le sacche di
potere temporale della curia che concorrono alla degenerazione del costume e
della pratica apostolica della Chiesa. Un’opera che ritengo meritoria e che nelle
intenzioni dovrebbe modifcare la geografa del potere ecclesiastico. Roma, volen-
te o nolente, con quel potere si deve rapportare. Dunque, non può che risentire di
tali cambiamenti.
LIMES Queste circostanze, di per sé, non «irradiano» infuenza?
BERGAMO Una debolezza di Roma, della sua proiezione esterna, sta nel non ricono-
scere appieno la dimensione culturale della Chiesa cattolica e delle comunità reli-
giose. Se ne esalta o critica solo il peso politico o la capacità di attrarre turisti, non
il contributo alla elaborazione e alla conoscenza. È il medesimo atteggiamento che
166 la città ha verso la sua comunità scientifca, pure vasta e di prim’ordine: la scuola
A CHE CI SERVE DRAGHI

di fsica romana, ad esempio, resta un’eccellenza internazionale. Metà della ricerca


scientifca pubblica italiana si fa a Roma, dove stanno quasi tutti i vertici delle isti-
tuzioni scientifche nazionali: il Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), l’Infn (Isti-
tuto di fsica nucleare), l’Inaf (Istituto nazionale di astrofsica), l’Enea, i Lincei. Ma
anche il centro di ricerca Acea, il piccolo ma avanzato polo di robotica per lo sport.
La città non sa valorizzare questo patrimonio, che resta in gran parte avulso dal suo
tessuto sociale e culturale. Per mancanza di progetto.
LIMES Questo defcit di proiezione culturale è un fenomeno solo interno all’Italia?
BERGAMO Sì. La «grande bellezza» di Roma è data spesso per scontata in Italia, che
del bello non difetta. E passa in secondo piano rispetto alle vere o presunte man-
canze della città. Ma appena si varcano i confni nazionali, il fascino di Roma col-
pisce per potenza e ubiquità. Roma è nell’immaginario del mondo.
LIMES Ma è un fascino solo museale, legato a un passato remoto e per certi versi
mitizzato?
BERGAMO Tutt’altro: è un fascino attuale. Perché il segno storico, culturale e mate-
riale lasciato da Roma in Europa, e per tramite europeo altrove nel mondo, è così
tangibile da alimentare, rinnovandolo, il richiamo della città. Niente è «eterno» a
questo mondo, ma è un fatto che Roma sia tra i pochi insediamenti umani a esiste-
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re ininterrottamente, con alti e bassi, da oltre 2.700 anni. Noi non ci pensiamo,
anzi tendiamo a percepire il passato come opprimente, ma questa continuità ha un
valore inestimabile a occhi altrui. Un esempio frivolo, ma indicativo: in piena epi-
demia Tom Cruise, Al Pacino e Lady Gaga non si sono fatti scrupoli di attraversare
l’Atlantico per girare a Roma.
LIMES C’è mai stata una politica volta a sfruttare questo «marchio» culturale per fni
che non fossero solo il turismo di massa?
BERGAMO A livello nazionale non direi, il che è insieme una grave colpa e un sin-
tomo. A livello locale lo hanno fatto Francesco Rutelli e Walter Veltroni, in chiavi
diverse. Quella di Veltroni è stata un’azione che inquadrerei anzitutto come inizia-
tiva politica di cui la città era proscenio, contesto. Nel caso del primo Rutelli ricor-
do una forte spinta alla collaborazione tra città, anche concreta. L’Organizzazione
mondiale dei comuni è per certi versi un legato dell’internazionalizzazione di Bar-
cellona tra la fne degli anni Ottanta e gli anni Novanta, sotto la guida di Pasqual
Maragall. Questi e Rutelli coltivavano rapporti molto stretti, tanto che nel 1993,
appena insediata, la giunta romana andò a fare un seminario di formazione a Bar-
cellona. Il protagonismo internazionale di Roma produsse sviluppi interessanti.
Parallelamente, la giunta Rutelli spingeva per partecipare a progetti e iniziative
europee che l’amministrazione Veltroni continuò affancandovi una dimensione
più squisitamente politico-diplomatica, anche attraverso la dedizione di Matteo
Rebesani che coordinava l’uffcio. Dalla fne degli anni Novanta il fenomeno «glo-
cal» aveva preso piede, al punto che l’allora direttore della Banca mondiale James
Wolfensohn decise di sviluppare una linea d’intervento ad hoc della banca. Fu al-
lora che nacque il Glocal Forum, registrato a Zurigo ma con sede a Roma, di cui
sono stato direttore. Promosso dai capi negoziatori israeliano e palestinese a Oslo, 167
‘ROMA È ANCORA CAPUT MUNDI, MA SE L’È SCORDATO’

Uri Savir e Abû ‘Alå’, e fnanziato dalla Svezia, partiva dall’idea che i grandi centri
e i loro sindaci, in quanto politici emergenti di un mondo che si urbanizzava rapi-
damente, potessero essere soggetti diplomatici, specie nelle iniziative di pace, per-
ché relativamente scevri dai vincoli geopolitici della diplomazia statale. Furono
soprattutto gli israeliani a volere Roma come sede, anche sulla scorta del fatto che
incontri riservati tra israeliani e palestinesi si erano svolti qui. A presiedere il con-
siglio d’amministrazione del forum era David Kimche, ex vicedirettore generale del
Mossad, mentre Uri Savir ne era il presidente esecutivo. Siamo agli inizi del millen-
nio: la fase d’oro della cooperazione decentrata per le città italiane, tramontata con
i drastici tagli dei trasferimenti agli enti locali dopo la crisi del 2007-8. In quel pe-
riodo Roma aveva una forte proiezione internazionale.
LIMES Quest’attivismo prescindeva dal governo centrale?
BERGAMO Diffcilmente poteva, ma si radicava nel governo della città. Tra il 1996 e
il 2000 al governo ci sono prima Romano Prodi e poi Massimo D’Alema. L’orienta-
mento politico di Palazzo Chigi e di Palazzo Senatorio coincideva, come pure l’at-
tenzione al Medio Oriente e al Nord Africa, ma più in generale al Mediterraneo.
Tale dimensione sarà poi sminuita dall’allargamento di Ue e Nato a est, che sposta
il fulcro degli equilibri continentali verso la Mitteleuropa. Il ruolo internazionale di
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Roma, e dell’Italia, ne ha inevitabilmente risentito. Ma ora mi pare si riaccenda


l’attenzione al Mediterraneo e questo costituisce un’opportunità.
LIMES Mentre Roma andava nel mondo, il mondo veniva a Roma? Quella stagione
ha lasciato segni tangibili sulla città?
BERGAMO In quegli anni sono stati assegnati e avviati progetti importanti: il Maxxi
di Zaha Hadid, la teca dell’Ara Pacis di Richard Meier, il Macro di Odile Decq. Con
poche eccezioni, come il Parco della musica di Renzo Piano e la Nuvola di Massi-
miliano Fuksas, quel poco di architettura contemporanea presente oggi a Roma ha
un segno straniero. Nel 1999 Roma ospitò la Biennale dei giovani artisti d’Europa
e del Mediterraneo, che consentì il recupero dell’ex mattatoio, oggi sede della fa-
coltà di Architettura di Roma Tre.
LIMES Questa stagione appartiene al passato. Perché una capitale in parte negletta
dal suo paese ma riconosciuta dal mondo non coltiva di più la dimensione inter-
nazionale?
BERGAMO Difficile dirlo. Forse in parte perché la sua alta borghesia non sembra
interessata o attrezzata a farlo. Quella romana è una borghesia prevalentemente
ereditaria, che discende dal latifondo; o al contrario è di recente fortuna, con incer-
ti orizzonti culturali. In un caso o nell’altro, esercita un potere economico che si
ramifica in molti settori, ma che resta in gran parte al servizio di interessi privati. E
convive con il potere d’interdizione della pubblica amministrazione, nonché con
l’influenza morale del Vaticano e della comunità ebraica. Ne discende che il potere
politico è debole, a differenza di quello giudiziario. Tutto questo, unitamente al
drenaggio della classe politica locale operato dalle istituzioni nazionali, rende le
élite romane poco inclini o atte a coltivare visioni alte e articolate.
168 LIMES È questo che impedisce a Roma di pensare in grande?
A CHE CI SERVE DRAGHI

BERGAMO Questo e altro, tra cui l’essere vittima di una bellezza che la rende minie-
ra turistica sfruttabile senza grandi sforzi. Roma è consapevole della sua unicità ma
non ne coglie tutti gli aspetti, che non si limitano al patrimonio culturale ma sono
il risultato della concomitanza tra questo e la produzione contemporanea di cono-
scenze e cultura. La città che sente visceralmente di essere «unica» non sa valoriz-
zare la propria unicità, metterla pienamente a frutto, anche per trasformarsi. Eppu-
re, credo che oggi valga ancora quanto affermava Cavour nel 1861: «Roma è la
sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali: tutta la storia
di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui impor-
tanza si estende infnitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata
a essere la capitale di un grande Stato». Anche per questo da assessore e vicesinda-
co ho tentato di avviare un discorso nuovo sulla cultura a Roma.
LIMES Cioè?
BERGAMO Per lungo tempo la vita culturale è stata vista come l’insieme dei prodot-
ti e servizi al tempo libero delle persone, non di rado strumentale alla formazione
di consenso. Panem et circenses. È una visione che ho lungamente contestato, ma
questa è stata la prospettiva dominante e identifcata con la modernità. Una pro-
spettiva sostenuta in particolare dal mondo anglosassone: in Europa da Londra e
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da Amsterdam, nonché dai Baltici; oltreoceano dagli Stati Uniti. Le politiche cultu-
rali cittadine si erano accodate con evidente perdita di ruolo. Anche per una ten-
denza a distribuire prodotti concepiti altrove – con l’effetto di deprimere la capaci-
tà creativa del territorio – e a considerare il patrimonio culturale solo come attra-
zione turistica. Passato qualche anno dalla crisi del 2008 aveva cominciato a emer-
gere un’interpretazione più articolata, attuale, che tornava a considerare essenziale
il valore sociale della vita culturale. Tracce di questo spostamento si ritrovano negli
emendamenti che il Parlamento europeo approvò nel 2012 al suo programma set-
tennale su richiesta del settore culturale. Tornato a Roma ho perciò agito su tre
piani diversi che s’intersecano, oltre ai consueti scambi diplomatici. Uno, più inter-
no ma con effetti sull’interscambio, investe la trasformazione del complesso di at-
tori culturali pubblici: da soggetti in competizione a sistema coordinato al servizio
di una missione condivisa, per la città. Il secondo volto a riallacciare il dialogo con
le accademie straniere, una peculiarità di Roma. Il terzo mirante a un riposiziona-
mento internazionale, per vedersi riconosciuta una leadership politica su un tema
che considero una mia «fssazione»: la partecipazione alla vita culturale come mo-
mento formativo della persona e della comunità, e la consapevolezza di tale fun-
zione sociale.
LIMES In cosa consistono esattamente questa funzione e questa consapevolezza?
BERGAMO La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 recita: «Ogni indivi-
duo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di
godere delle arti e di partecipare al progresso scientifco e ai suoi benefci». Per me
questo comma dell’articolo 27, scritto all’indomani della guerra e del nazifascismo,
coglie il punto: arte e cultura, purché liberamente prodotte, fruite e accessibili a
chiunque, sono motori di arricchimento individuale e di sviluppo civile. Sono tra le 169
‘ROMA È ANCORA CAPUT MUNDI, MA SE L’È SCORDATO’

premesse della civiltà di un popolo, da cui derivano quantità e qualità del suo be-
nessere. La partecipazione alla vita culturale crea competenze, capitale sociale;
questo crea il capitale fsico. È un circolo virtuoso. La vita culturale ha dunque una
dimensione almeno duale. Da un lato veicolo di cittadinanza consapevole e coesio-
ne, da tutelare come diritto la cui realizzazione o negazione infuisce sullo sviluppo
della persona e del capitale sociale. Dall’altro attività produttiva e commerciale, che
concorre alla prosperità comune. È questo il legame che unisce la realizzazione dei
diritti culturali di cui parlano gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Ciò no-
nostante, quando tali obiettivi furono approvati non si raggiunse il consenso sul 18°,
la cultura per tutti. Ho dunque provato a riprendere il discorso coinvolgendo altre
grandi città del mondo affnché emergessero le consonanze con la prospettiva che
avevo posto alla base delle nostre politiche culturali in modo molto esplicito. Affn-
ché questa prospettiva fosse riconosciuta come un punto di riferimento.
LIMES Ci è riuscito?
BERGAMO Con dei limiti, ma direi di sì: la percezione delle politiche culturali di
Roma in campo internazionale è cambiata. Ma soprattutto la posizione dell’Orga-
nizzazione mondiale dei comuni sul tema è oggi quella per cui Roma si è spesa in
questi anni. Tale sforzo ha prodotto di recente un documento strategico scritto con
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il concorso di 45 municipalità sparse in Italia e nel mondo, poi adottato dall’assem-


blea generale dell’organizzazione che rappresenta 250 mila comuni. Per la cronaca,
il documento si chiama Carta di Roma 2020. Non perché lo abbia chiesto io. È
stata una decisione tacita, incontestata. Il che la dice lunga sulla capacità aggregan-
te di Roma, su ciò che essa evoca, sulla sua proiezione esterna e rappresentatività
di istanze collettive. Anche quando trascendono l’ambito nazionale. Trovo incom-
prensibile che Roma, pur con le sue tare storiche, continui a trascurare questo
enorme potenziale. Faccio un esempio. Durante la mia esperienza al Comune ho
avuto un ftto scambio con i rappresentanti di Xian, la città dei guerrieri di terracot-
ta fondata oltre tremila anni fa, capitale di tredici dinastie, terminale della via della
seta e oggi metropoli di oltre otto milioni di abitanti, che occupa un posto impor-
tante nei piani di Xi Jinping per il suo valore storico e simbolico. Tra le diverse
iniziative di scambio si è inserita una produzione di Cctv, la televisione di Stato
cinese, che è venuta a girare un documentario in cento puntate basato sul paralle-
lo tra le due antiche capitali. Eppure questa iniziativa non ha avuto seguito, mal-
grado l’enfasi sulle relazioni italo-cinesi. Tutto si consuma in chiave interna, nel
brevissimo periodo, senza un quadro strategico e l’organizzazione necessaria a
perseguirlo. Mi sono proposto diverse volte a Virginia Raggi per fare questo eser-
cizio durante la lunga fase in cui la nostra amministrazione non aveva un delegato
alle relazioni internazionali. Ma senza risposta, senza esito.
LIMES La presa della grandezza passata di Roma sull’immaginario mondiale è inne-
gabile. Ma Roma è una città moderna? O è un simbolo che sopravvive a sé stesso
in una contemporaneità che non le appartiene?
BERGAMO In un articolo scritto quando dirigeva l’Istituto nazionale di psicologia del
170 Cnr, Domenico Parisi afferma provocatoriamente che occorre abbattere alcuni mo-
A CHE CI SERVE DRAGHI

numenti emblematici di Roma, perché il peso della storia è tale da impedirne lo


sviluppo. Ora: con tutti i suoi macroscopici difetti, Roma è una realtà multiforme in
cui il peso della storia convive con aspetti di estrema modernità. Prima parlavamo
della ricerca scientifca. Ci sono centri medico-ospedalieri d’eccellenza, 43 univer-
sità per un totale di oltre 250 mila studenti, il primo polo audiovisivo nazionale. Ciò
detto, esistono macroscopiche circostanze territoriali e amministrative che è impos-
sibile trascurare.
LIMES Partiamo dal territorio.
BERGAMO La superfcie amministrata di Roma supera i 1.200 chilometri quadrati,
con 2,8 milioni di abitanti: in media 2.100 abitanti per chilometro quadrato. L’area
urbana di Roma è appena più piccola di quella di Londra, che però conta quasi
nove milioni di persone. La ville di Parigi, che per abitanti è paragonabile a Roma,
si estende su appena 102 chilometri quadrati, un decimo.
Inoltre, la media nasconde una realtà ancora più diffcile. Prima il fascismo, che ha
consentito l’insediamento asistematico dell’Agro romano, poi la lottizzazione for-
sennata e l’edilizia di necessità del secondo dopoguerra hanno determinato l’e-
spansione a macchia d’olio di una città che oggi alterna iperdensità e semivuoti
urbanistici su uno spazio vasto e diffcile da governare. Il risultato è che ci sono
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linee d’autobus che servono piccoli insediamenti a quasi 40 chilometri dal centro
e per andare da una parte all’altra bisogna percorrere 60-70 chilometri di abitato e
vuoti. Roma conta 15 municipi, cinque dei quali superano i 200 mila abitanti e
nessuno è sotto i 100 mila. Su 155 zone urbanistiche – le suddivisioni istituite nel
1977 a fni statistici e di pianifcazione del territorio – un’ottantina sono borgate o
loro analoghi: sorta di paesi nella città la cui popolazione unitaria non supera i 25
mila abitanti. Queste realtà così diverse sono tenute insieme da oltre 8 mila chilo-
metri di strade, 15 mila chilometri di rete idrica e 30 mila di rete elettrica, con oltre
224 mila punti luce di illuminazione pubblica e artistica. Per non parlare del verde.
Le alberature comunali da curare sono circa 330 mila, per un totale di circa 1.220
chilometri di flari alberati. Il verde pubblico in gestione alle strutture di Roma
Capitale supera i 40 chilometri quadrati. Numeri enormi. La sola manutenzione
richiede risorse di un ordine superiore a qualsiasi altra città italiana, ma anche a
molte capitali europee.
LIMES Le risorse ci sono?
BERGAMO È il punto dolente. A Roma ogni chilometro quadrato di servizi e infrastrut-
ture grava sulle tasse di 2.100 persone, a Parigi di 21 mila senza contare il fnanzia-
mento straordinario dello Stato, di cui la capitale d’Italia non dispone. Roma va
avanti per fnanziamenti straordinari, a progetto. Per lo sviluppo della città si può
anche ricorrere a questo strumento: le Olimpiadi del 1960 e il Giubileo del 2000
hanno lasciato eredità infrastrutturali. Ma è chiaro che la politica dei grandi balzi in
avanti non vale a sostenere uno sviluppo pluridecennale, che necessita di pianifca-
zione, continuità, manutenzione evolutiva. Senza considerare che un megaevento
non sempre va come dovrebbe, anzi: i Mondiali di calcio del 1990 e quelli di nuoto
del 2009 stanno lì a dimostrarlo, come anche molte recenti Olimpiadi in altre città. 171
‘ROMA È ANCORA CAPUT MUNDI, MA SE L’È SCORDATO’

Questo impedisce di programmare e schiaccia sulla manutenzione. Si aggiunga l’ag-


gravio connesso alle funzioni di capitale e all’ampiezza dell’area metropolitana, l’hin-
terland per intenderci. Quello di Roma supera i 5 mila chilometri quadrati, con una
popolazione di poco superiore a quella della città stessa. Il grosso di queste persone
gravita su Roma per lavoro, ma paga le tasse altrove. Al pari dei turisti che ogni anno
visitano la città: circa 46 milioni di presenze annue che sì, generano indotto, ma
gravano enormemente sui servizi urbani.
LIMES Il problema delle risorse è potenzialmente risolvibile, molto meno la condi-
zione strutturale. Roma è immodifcabile?
BERGAMO No. C’è una flosofa emergente in tema di sviluppo urbano che predica
l’organizzazione della città in modo da disporre tutte le funzioni fondamentali per
la vita quotidiana a non oltre 15 minuti di distanza, a piedi o in bicicletta, dai citta-
dini. Si chiama 15-minute city e Anne Hidalgo, l’attuale sindaca di Parigi, ne ha
fatto il centro della sua campagna elettorale. Nasce una trentina di anni fa con fni
ambientalisti a Barcellona: ridurre la circolazione delle auto creando o ripristinando
spazi pedonali che abbraccino interi isolati. Nel frattempo, si sono affermate tecno-
logie che facilitano il compito: il telelavoro e i mezzi elettrici per la mobilità dolce,
come la bici a pedalata assistita o i monopattini. E c’è una nuova sensibilità sui
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temi ambientali. Questo predicato modifca il modo di concepire e organizzare la


città. All’imperativo della densifcazione, che impone di concentrare più abitanti e
funzioni possibili in un dato spazio per generare economie di scala, riempiendo i
vuoti urbani e realizzando collegamenti veloci, si sostituisce il principio della distri-
buzione di funzioni e servizi secondo un criterio di prossimità all’utenza.
LIMES Ci sono studi al riguardo?
BERGAMO C’è un interessante lavoro del Sony Lab di Parigi, parte di una rete creata
dalla Sony per simulare sistemi complessi, che ha cominciato a studiare le condi-
zioni della 15-minute city in varie metropoli, tra cui la stessa Parigi e Roma. Ne è
emerso che per ora l’unica mobilità individuale e di massa diffcile da abbattere
signifcativamente è quella legata al lavoro. Perché sebbene molti mestieri siano
oggi organizzabili in ragione del luogo in cui si abita, molti altri restano inamovibi-
li. Oltre al fatto che barriere normative e resistenze aziendali impediscono di dislo-
care quelle mansioni, tipicamente il terziario avanzato, che pure si presterebbero.
Qui si apre il tema del rapporto tra città e soggetti economici che vi operano. A
differenza di un tempo, quando dominava la grande fabbrica, oggi molti investito-
ri non intrattengono un rapporto diretto con le città in cui hanno sedi, quindi tra-
scurano gli effetti della loro presenza sul tessuto urbano. Quasi sempre ragionano
puramente in termini funzionali al valore del patrimonio nelle operazioni fnanzia-
rie. La soluzione non può certo essere quella di mettere tutti i lavoratori a casa,
istituzionalizzando il lockdown a epidemia fnita. Va piuttosto ripensato il modo di
lavorare, creando spazi di co-working o sedi «di prossimità». Queste forme di lavo-
ro ibrido comportano anche una riorganizzazione di servizi, come la ristorazione,
oggi spesso concentrati nelle zone di uffci. Il decentramento dei luoghi di lavoro
172 li disseminerebbe nel tessuto cittadino, rendendolo più ricco e resistente agli shock
A CHE CI SERVE DRAGHI

quali le crisi economiche o sanitarie, che desertifcano l’edilizia commerciale. Sotto


questo proflo Roma è avvantaggiata rispetto ad altre città, perché in molti suoi
quartieri non vi è una chiara distinzione tra funzioni commerciali, residenziali e
d’uffcio. Si creerebbero poi opportunità di recupero urbano, valorizzando i fabbri-
cati dismessi o sottoutilizzati che punteggiano i nostri centri urbani e che sono
peraltro destinati ad aumentare con la smaterializzazione dei servizi. Una simile
trasformazione ha però due implicazioni fondamentali per Roma.
LIMES Ovvero?
BERGAMO Concepirsi fnalmente anche e soprattutto come luogo di produzione e
irradiamento di conoscenza e cultura. E ripensare il turismo. Prima del Covid-19
Roma totalizzava uffcialmente 55 milioni di pernottamenti l’anno – in realtà di più,
considerando il sommerso. Ma il grosso si concentra dentro le mura aureliane, in
determinati punti del centro storico. Risultato: gentrifcazione, stravolgimento del
tessuto sociale e commerciale, sovvertimento del mercato immobiliare che alla
grande speculazione somma quella minuta dei proprietari di case. E paradossale
preclusione di tali zone al resto della cittadinanza, che se ne tiene alla larga in
quanto «trappole turistiche» sature e inabbordabili. La caratteristica di Roma è inve-
ce l’estrema diffusione dei luoghi d’interesse storico, artistico, estetico. Zone come
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Montesacro, alla confuenza tra Aniene e Tevere, il cui patrimonio storico-archeo-


logico spazia dal paleolitico ai giorni nostri, con numerose testimonianze romane
– come il ponte Nomentano sull’Aniene, antecedente all’VIII secolo e ancora per-
corribile a piedi. Ostia, i cui scavi per certi versi rivaleggiano con Pompei. O il sito
di Gabi, sulla via Prenestina, dove tradizione vuole che Romolo e Remo siano
stati educati. Per non parlare dei chilometri e chilometri di catacombe chiusi al
pubblico – quelli visitabili sono una piccola parte. Questa diversa impostazione
dell’offerta turistica è complementare, non alternativa al turismo classico.
LIMES Roma è in grado di perseguire un simile obiettivo? Riuscirebbe a spendere in
questo senso i soldi europei del Recovery Fund, considerati i tempi ristretti?
BERGAMO Non credo. Ma il problema è italiano, non solo romano. È il nodo ammi-
nistrativo cui accennavo prima. Finché avremo un diritto amministrativo che, come
avvertiva Sabino Cassese già trent’anni fa, accumula norme su norme nel tentativo
di sventare crimine e corruzione controllando il procedimento a prescindere dalle
fnalità, il governo del territorio resterà impresa epica. Un’impostazione che tra
l’altro plasma la fsionomia dell’amministrazione, strutturata per competenze pro-
cedurali e non per obiettivi. Negli anni Ottanta, quando ero in Olivetti, svolsi con
il Cnr un’analisi dei piani regolatori della regione Emilia-Romagna per redigere un
dizionario concettuale da allegare alla nuova legge urbanistica. L’obiettivo era fs-
sare defnizioni univoche di elementi quali l’edifcio, il fabbricato, la strada: compi-
to apparentemente banale, in realtà cruciale perché quei termini entrano poi negli
oggetti sui cui gravavano le disposizioni normative, che andavano messe in relazio-
ne per coordinare la pianifcazione e le norme di livello provinciale e regionale.
Quando iniziammo mi aspettavo che le defnizioni tendessero all’omogeneità, in-
vece scoprimmo un mondo. Perché il nostro sistema normativo tende a produrre 173
‘ROMA È ANCORA CAPUT MUNDI, MA SE L’È SCORDATO’

concetti e interpretazioni in modo incontrollabile, spesso arbitrario. Sicché oggi, su


una singola fattispecie, chi amministra si trova di fronte a due, cinque, dieci norme
differenti che ti dicono tutto e il suo contrario. Finché, com’è stato a Roma per
lungo tempo, sussiste un patto di non belligeranza tra poteri giudiziario, politico ed
economico, ci si arrangia. Ma al prezzo della corruzione, lubrifcante di un mecca-
nismo informale nato per aggirare quello uffciale, ingestibile. Quando, come nel
caso di Mafa capitale, l’arrangiamento salta, si blocca tutto. L’ipertrofa normativa,
sommata alla riforma Bassanini che solleva il decisore politico dalla responsabilità
della decisione e rende responsabile di ogni atto il dirigente che lo frma, espone
infatti quest’ultimo alla quasi matematica certezza di violare la legge. La politica
scarica sui funzionari responsabilità sproporzionate, come quando s’introdusse la
«colpa grave» che aggiunge un elemento ibrido tra motivazioni illecite e negligenza.
Da qui la tortuosità degli iter e la forma illeggibile degli atti amministrativi, pieni di
motivazioni e rimandi con cui i dirigenti e gli organi deliberanti cercano di tutelar-
si. L’unico modo di fare le cose è diventata la deroga, come nel caso del nuovo
ponte di Genova.
LIMES Soluzione?
BERGAMO Per l’Italia, una seria riforma del diritto amministrativo. Non l’ennesima
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giustapposizione, ma una radicale modifca, un ammodernamento che dia fnal-


mente senso allo slogan della semplifcazione, basato sul principio che l’obiettivo
dell’attività amministrativa sono i servizi, i risultati e la loro qualità, non la defni-
zione dell’iter per giungervi. Quest’ultimo deve essere misurato rispetto all’obietti-
vo, non può avere un valore in sé. Per Roma ed eventualmente per altre grandi
città, intanto: uno status giuridico speciale che su alcune materie conferisca piena
potestà legislativa, vigilata dal parlamento o da autorità preposte se serve, con i
poteri per riscrivere parti defnite del diritto amministrativo. Un progetto pilota il
cui esito, se pienamente soddisfacente, può essere applicato al resto del paese. Nel
caso di Roma, che per dimensioni e specifcità fa storia a sé, questo implica anche
sganciare la città dalla Regione. Sul destino della quale si aprirebbe il dibattito.
Comunque, sotto il proflo amministrativo è l’unico modo di superare l’impasse
kafkiana in cui ci troviamo, che spesso rende impossibile governare il territorio.
Come ho sperimentato sulla mia pelle.
LIMES In quali occasioni?
BERGAMO Varie. Ne cito una, perché emblematica. Dieci anni fa lo Stato dismette
l’Ente teatrale italiano, risalente al 1942. Il teatro Valle di Roma resta senza missione
e nel maggio 2011 sospende le attività. Il 14 giugno viene occupato: seguono tre
anni di autogestione, dai contenuti a tratti affascinanti, conclusi nell’agosto 2014
con la consegna del teatro al Comune, che accetta di prenderlo. L’allora commissa-
rio Francesco Tronca e il ministero dei Beni culturali siglano un accordo con cui il
Comune di Roma acquisisce il teatro nello stato di fatto e di diritto, come in qual-
siasi compravendita. Tutto bene? No. Perché lo Stato non ha idea di quale sia lo
stato di fatto dell’immobile, dato che non dispone delle planimetrie originarie e
174 delle autorizzazioni ai lavori compiuti negli anni per i dovuti riscontri. Dunque
A CHE CI SERVE DRAGHI

precisa, con l’accordo, che spetta al Comune accertare lo stato di fatto e di diritto.
Il Comune, che pure aveva stanziato i fondi necessari, accetta di divenire proprie-
tario del teatro ma non può entrarne in possesso, perché nessuno ha accertato se
lo stato di fatto corrisponda a un legittimo stato di diritto. E il dirigente che entri in
possesso di un immobile in cui siano stati commessi eventuali abusi è esposto a un
contenzioso contabile e penale. Per tentare di sbloccare la situazione metto intorno
a un tavolo le strutture comunali coinvolte già al momento dell’accordo tra Comu-
ne e Stato. Rimpiango di non aver registrato la riunione, che sfora il surreale quan-
do qualcuno invoca una dispensa del presidente della Repubblica quale unica so-
luzione possibile. Scartata l’ipotesi, dopo settimane di intensa disamina si escogita
la seguente formula: il Comune entra in possesso dell’immobile per accertare lo
stato di fatto e di diritto in attesa di acquisirne la proprietà. Prevenirne l’ulteriore
deterioramento lo legittima a eseguire gli interventi necessari ad accertare lo stato
di impianti, strutture, arredi, se necessario effettuando manutenzioni indifferibili.
Intanto parte una caccia al tesoro negli archivi di Comune, ministero dei Beni cul-
turali e altri enti da cui emerge che l’ultimo accatastamento del Valle risaliva al 1949
e da allora erano stati realizzati interventi, tra cui dei camerini. Abuso? Se sì, dello
Stato su una sua proprietà ipervincolata. Per fortuna, dopo infnte ricerche spunta
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una planimetria allegata a un procedimento edilizio vecchio di quarant’anni che


attesta l’esistenza legittima di questi volumi addizionali. Fiat lux. Da lì, il Comune
ci ha messo altri due anni per effettuare la registrazione catastale. Morale: il teatro
non è ancora riaperto e ci vorranno almeno altri due anni perché torni a funziona-
re pienamente. Ma almeno siamo riusciti ad acquisirlo al patrimonio comunale, ad
avviare i lavori e a utilizzarlo per esposizioni, incontri, prove. Con ciò non voglio
dire che non esistano incompetenza e disonestà, a Roma e altrove. Anzi. Ma in
queste condizioni anche il più bravo, motivato e integerrimo degli amministratori
o dei dirigenti ci mette dieci volte il ragionevole per fare ogni cosa. Troppo spesso
sbatte contro un muro di gomma.

175
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A CHE CI SERVE DRAGHI

ALTRO CHE CITTÀ STATO


MILANO TORNI
CAPITALE MORALE di Marco Valerio SOLIA

Dall’Ottocento la metropoli è stata, nel bene e nel male, fucina


della modernità italiana. Da ultimo, specchio dei tempi, ha
smesso i panni ‘nazionali’ per intestarsi un mondialismo apolide,
autocentrato e intriso di nonsensi. Serve di nuovo ‘on gran Milan’.

1. I
L BREVE LASSO DI TEMPO INTERCORSO
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tra la partecipazione (da remoto) di Ursula von der Leyen all’inaugurazione dell’an-
no accademico dell’Università Bocconi (28 novembre 2020) e la convocazione di
Mario Draghi al Quirinale (3 febbraio 2021) ha evidenziato come il baricentro del-
la politica italiana stesse rapidamente virando verso un’assunzione diretta di re-
sponsabilità da parte di Milano. I due eventi, pur slegati tra loro, presentano in tal
senso una forte valenza simbolica. Nel primo caso, la defnizione di «capitale euro-
pea» utilizzata dall’ex ministro tedesco, insieme alla citazione «Milan l’è on gran
Milan», hanno confermato la vocazione sempre più continentale della città ambro-
siana. Nel secondo, la netta preponderanza di lombardi – con una componente
milanese tutt’altro che trascurabile – alla guida dei diversi dicasteri rappresenta un
mutamento signifcativo rispetto all’esecutivo precedente, caratterizzato da una
composizione geografca più equilibrata.
Con Milano e la Lombardia che nel 2020 hanno visto crollare il pil locale ri-
spettivamente del 10,8 e del 9,8%, superando in negativo il dato nazionale 1, le ri-
valità irriducibili tra forze politiche sono fnite in secondo piano, dando vita a
un’inedita maggioranza. Due gli obiettivi principali del connubio celebrato lo scor-
so febbraio: avere voce in capitolo nell’utilizzo delle risorse europee e mantenere
l’Italia saldamente ancorata alla catena del valore tedesca. Gli attori politici nazio-
nali sono impegnati a riposizionarsi per salvaguardare ciò che ritengono lo heart-
land del paese: la Val Padana e la Lombardia, in ordine crescente d’importanza.
Quest’ultima nel 2020 è stata al centro dell’aspro braccio di ferro tra potere
centrale ed enti locali sulla gestione della crisi sanitaria: per la prima volta dopo
molti anni la Lombardia passava da esempio d’effcienza a oggetto di dileggio, fa-

1. «Your Next Milano 2021. Dati e analisi della città che cambia», Assolombarda, urly.it/3bt4m 177
ALTRO CHE CITTÀ STATO, MILANO TORNI CAPITALE MORALE

cendo balenare la ritirata del modello di devoluzione in voga da vent’anni. È quin-


di eloquente che la compagine lombarda abbia assunto un tale rilievo nel nuovo
esecutivo, probabilmente con l’intenzione di ricucire questo strappo. Da quando
l’Italia si è costituita in Stato nazionale, Milano ha svolto un ruolo primario nel de-
linearne strategie e postura. Possiamo esser certi che continuerà a farlo, ma resta
da capire in virtù di quale disegno.

2. «Hanno talune città un tempo di fortuna, ma poi decadono, senza più risur-
gere. Ma tali altre città, dopo qualsiasi lutto, risurgono sempre a novelle grandezze.
Egli è perché la potenza loro non proviene da fatto d’uomo, ma da cause materia-
li e di natura. Tra siffatte città è Milano» 2. Così Carlo Cattaneo parlava della sua
città natale descrivendo lo spartiacque del 1848.
Milano è da sempre osservatorio privilegiato per analizzare gli sviluppi della
politica nazionale, fungendo da apripista e da guida del giovane Stato unitario.
Tale fattore venne percepito distintamente già dall’intellettuale pugliese Gaetano
Salvemini, che lo sintetizzò in una formula divenuta presto celebre: «Le lotte ammi-
nistrative milanesi non sono se non episodi o meglio i prodromi delle lotte politi-
che italiane. Quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia» 3. Quasi un
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secolo più tardi, Indro Montanelli e Mario Cervi avrebbero espresso su Milano un
pensiero analogo: «È stata, per un secolo, l’incubatrice nel bene e nel male di tutto
il nuovo – o quasi – della vita politica, della società, della cultura italiana» 4.
La specifcità milanese fu elemento ricorrente di rifessioni – non sempre be-
nevole – che accompagnarono il Risorgimento. Poco prima della seconda guerra
d’indipendenza il naturalizzato inglese e flocavouriano Antonio Panizzi, criticando
i mazziniani, polemizzava con la città di sant’Ambrogio, molti dei cui esuli non
vedevano di buon occhio la primazia piemontese: «Giuraddio, che cosa vogliono i
Lombardi? La repubblica di Milano?» 5. L’unifcazione non avrebbe interrotto questa
traiettoria. Nel 1881, in occasione dell’Esposizione nazionale, venne coniata dal
napoletano Ruggiero Bonghi la fortunata defnizione di «capitale morale». Con l’in-
dustria si sviluppò inevitabile lo scontro sociale: nella città meneghina venne fon-
data la prima Camera del lavoro italiana.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, a prescindere dall’appartenenza ideologi-
ca dei singoli esponenti, Milano rappresentò senza dubbio l’epicentro dell’opposi-
zione alla politica estera e coloniale di Francesco Crispi. La peculiare postura dello
«Stato di Milano» 6 vide radicali, repubblicani, socialisti e moderati convergere con-
tro lo statista siciliano. Già Gioacchino Volpe, grande estimatore di Crispi, aveva
criticato la borghesia lombarda: «Piuttosto ben disposta alle esplorazioni commer-

2. C. CATTANEO, L’insurrezione di Milano, Milano 2011, Feltrinelli, p. 111.


3. G. SALVEMINI, I partiti politici milanesi nel secolo XIX, in ID., Scritti sul Risorgimento, a cura di P.
PIERI e C. PISCHEDDA, Milano 1961, Feltrinelli, p. 123.
4. I. MONTANELLI, M. CERVI, Milano Ventesimo secolo. Storia della capitale morale da Bava Beccaris alle
Leghe, Milano 1990, Rizzoli, p. 213.
5. Citato in G. CAPRIN, L’esule fortunato: Antonio Panizzi, Firenze 1945, Vallecchi, p. 289.
178 6. F. FONZI, Crispi e lo “Stato di Milano”, Milano 1965, Giuffrè.
A CHE CI SERVE DRAGHI

ciali, che di lì specialmente avevano preso le mosse, fu la prima a insorgere quan-


do si entrò nella fase della politica coloniale vera e propria, con annessi rischi e
pericoli; la prima a caldeggiare, in perfetto accordo fra democratici, conservatori,
socialisti, la politica del “piede di casa”, a deridere la “megalomania” di Francesco
Crispi» 7. Oggi diremmo che l’avversione al politico di Ribera peccava di eccessivo
«economicismo», insensibile ai richiami della geopolitica.
Se da una prospettiva nazionalista si passa a una democratica, il ruolo di Mila-
no assumeva invece coloritura assai positiva. Di Milano era l’unico italiano mai
insignito del Nobel per la pace: Ernesto Teodoro Moneta, nel 1907 (oltre dieci
anni dopo la caduta dello statista siciliano).
Rifessioni simili sulla centralità di Milano vennero formulate dal democratico
cremonese Ettore Sacchi commentando i moti del 1898, che nella città di Sant’Am-
brogio videro alcuni degli eventi più drammatici: «Milano, per la giacitura sua, per
la sua straordinaria prosperità economica, per le sue tradizioni, per ragioni stori-
che ed attuali ha una tale importanza nella determinazione dei grandi interessi
italiani, che ne consegue anche un’infuenza diretta sulla politica generale dello
Stato. (…) Per[ci]ò ad ogni momento si sente dire: “Cosa farà Milano? Cosa dirà
Milano?”». Le parole del deputato lombardo non suonano così diverse da quelle
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che gli italiani hanno interiorizzato in questi anni: «Piaccia o non piaccia la frase
– Milano è tale centro di iniziative d’ogni genere, concentra in sé tali e tante forze
intellettuali ed economiche, raggruppa dentro sé ed intorno a sé tale e tanta di-
versità di interessi complessi, da potersi dire di essa – piaccia o non piaccia la
frase – Milano può fare da sé» 8.
Da Milano partì il primo sciopero generale, indetto dalla locale Camera del
lavoro nel settembre 1904, estesosi al resto d’Italia e rapidamente voltosi in falli-
mento politico. Quasi nello stesso periodo il Corriere della Sera realizzava l’ambìto
sorpasso, per numero di copie, sul Secolo, con le due testate meneghine ad avvi-
cendarsi sul podio del giornalismo italiano. Con Parigi e Trieste, Milano fu defnita
da Marinetti una delle capitali del futurismo 9. In quegli anni la città esibiva un forte
dinamismo economico: «L’impetuoso sviluppo industriale degli inizi del secolo»,
hanno scritto Cervi e Montanelli, «ebbe il suo epicentro a Milano e attorno a Milano,
così come, in parallelo, le lotte operaie. Milano fu il cuore del riformismo socialista,
a Milano nacque il fascismo. Milano diede all’Italia le maggiori case editrici e i mag-
giori quotidiani. (…) Da Milano spirò sull’Italia, dopo il 25 aprile 1945, il “vento del
Nord” che determinò largamente i successivi sviluppi istituzionali e politici» 10.
Dalla nascita del fascismo nel 1919 alla proclamazione dell’insurrezione gene-
rale del 25 aprile 1945, Milano non ha mai saltato l’appuntamento con la storia,
confermandosi cuore del paese e baricentro della sua collocazione internazionale.
La sconftta nel secondo confitto mondiale non ne ha sminuito il rango. Anzi.

7. G. VOLPE, L’Italia in cammino, Roma-Bari 1991 (ed. or. 1927), Laterza, pp. 48-49.
8. «A proposito di Milano», La Lombardia, 24/3/1899.
9. J. MCCOURT, James Joyce. Gli anni di Bloom, Milano 2005, Mondadori, pp. 221-222.
10. M. CERVI, I. MONTANELLI, op. cit., p. 213. 179
ALTRO CHE CITTÀ STATO, MILANO TORNI CAPITALE MORALE

3. Milano, ottobre 1945. Negli uffci della Banca commerciale italiana in piazza
della Scala, a Raffaele Mattioli si presenta un capitano d’azienda marchigiano che
cerca disperatamente fnanziamenti. Non si tratta di un’azienda qualunque: ad aver
bisogno di liquidità è l’Agip, l’interlocutore di Mattioli è Enrico Mattei. Il futuro
fondatore dell’Eni riuscirà nell’intento, facendo un passo fondamentale per la sal-
vezza dell’ente di Stato. Mattei si era da poco trasferito in un piccolo uffcio in via
Moscova, ricucendo, anche grazie al sodalizio con l’ingegner Carlo Zanmatti, le
divisioni sorte a causa delle diverse scelte fatte durante la guerra (Mattei era stato
tra i principali esponenti delle formazioni partigiane democristiane, Zanmatti aveva
aderito alla Repubblica Sociale).
La lotta tra il Clnai (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) e i repubbli-
chini non era stata forse meno aspra del successivo braccio di ferro tra Milano e
Roma sul destino dell’Agip. Nel gennaio 1944 la sede sociale era stata trasferita nel
capoluogo lombardo, nel febbraio dell’anno successivo era stato varato a Roma
un nuovo consiglio d’amministrazione 11. Si era venuto così a creare un dualismo
che, a guerra fnita, spettò a Mattei sanare. Fu vincendo le resistenze di Roma che
Mattei riuscì a salvare e a rilanciare l’azienda, trasformandola in un attore interna-
zionale di prim’ordine. Essa fu tra i motori della ricostruzione italiana e del boom
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economico, realizzando tra l’altro Metanopoli, l’avveniristica frazione di San Do-


nato Milanese. Signifcativo che da qui partisse nel 1956 la costruzione dell’Auto-
strada del Sole.
Quest’opera straordinaria è certo da ascrivere all’intera compagine nazionale:
impossibile trascurare, ad esempio, il ruolo del piemontese Giuseppe Romita in
veste di ministro dei Lavori pubblici. Ma è emblematico che a progettarla sia stato
un milanese, Francesco Aimone Jelmoni, professore al Politecnico. In materia Mi-
lano vantava già una solida tradizione: negli anni Venti un altro milanese, Piero
Puricelli, aveva progettato la Milano-Laghi, prima autostrada del mondo. Lo stesso
Puricelli, con Arturo Mercanti e Alfredo Rosselli, nel 1922 realizzò in tempi record
l’autodromo di Monza, il primo dell’Europa continentale.
L’entusiasmo per il decollo industriale ed economico del paese stava tuttavia
per lasciare il passo ai drammatici anni di piombo. Se il Sessantotto ebbe negli
scontri romani di Valle Giulia il battesimo del fuoco, leader nazionale della protesta
divenne presto Mario Capanna, milanese d’adozione, con il capoluogo lombardo
quale epicentro della contestazione e del movimento studentesco. Sempre a Mila-
no il triste varo della strategia della tensione.
Archiviati gli anni più bui della violenza politica e del terrorismo, l’Italia ebbe
nel milanese Craxi un protagonista di primo piano. Gli anni Ottanta conobbero il
mito della Milano da bere, consustanziale a quello del made in Italy. Le diffcoltà
nel riformare un sistema bloccato portarono però all’affermazione di uomini nuovi,
provenienti sempre dalla città della Madonnina. Già durante un incontro con Giam-

11. C.M. LOMARTIRE, Enrico Mattei. Storia dell’italiano che sfdò i signori del petrolio, Milano 2006, Mon-
180 dadori, p. 106.
A CHE CI SERVE DRAGHI

paolo Pansa, Craxi aveva avuto modo di vaticinare la rapida ascesa del Cavaliere:
«Guarda che Berlusconi sta sulla rampa di lancio. Diventerà sempre più forte. L’av-
venire sta lì, in casa del Biscione» 12. In quegli anni iniziava il fermento delle Leghe,
di cui Milano e la Lombardia furono incubatrici.
A Milano si consumò la cesura storica di Mani Pulite, che avrebbe seppellito
politicamente (a volte fsicamente) una classe dirigente tra le più preparate spia-
nando la strada alla stagione berlusconiana. Approdando all’oggi, non è forse ca-
suale che fgure come Gianroberto Casaleggio e Matteo Salvini abbiano rispettiva-
mente creato e nazionalizzato due fenomeni politici la cui portata e infuenza non
sono circoscritte al contesto italiano.

4. La «Milano italiana» ha dunque visto nella guida e nello sviluppo del paese
la propria stella polare. Lo attesta la bandiera nazionale, che riprende i colori della
napoleonica Legione Lombarda: il verde delle divise, il bianco e il rosso dello stem-
ma milanese. Questa consapevolezza, a volte fn troppo altèra, negli ultimi anni
sembra essersi sbiadita. L’enfasi sulla dimensione europea e internazionale di Mila-
no si accompagna sempre più all’ubriacatura localistica di una città che, almeno
fno al Covid-19, pareva ambire a farsi Stato. Legittimamente impegnata ad aggiu-
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dicarsi affari e grandi eventi, Milano ha iniziato a non percepirsi più capitale mora-
le d’Italia, bensì centro autoreferenziale.
Per questa Milano l’Italia rappresenta al peggio una zavorra, al meglio un re-
troterra utile al perseguimento della propria grandeur. La bolla da città mondo si
riscontra anche nelle retoriche elargite a man bassa. È possibile estendere all’ambi-
to politico ed economico ciò che anni fa denunciava Limes circa le carenze del
pensiero militare nostrano: «Alla fessibilità della capacità linguistica non ha corri-
sposto una vivacità di produzione di pensiero critico, originale, sincero. Per cui
diciamo e scriviamo banalità e utopie, ma in inglese» 13. L’utilizzo ossessivo e de-
contestualizzato di concetti buoni per tutte le stagioni (resilienza, sostenibilità) non
è ascrivibile solo al nostro paese  14, ma l’elevata esteroflia – spesso marchio di
provincialismo – e la carenza di una visione a lungo termine hanno fatto adottare
all’Italia e alla sua capitale morale un mero simulacro di missione universale. Si
tratti di «Leuropa» o delle global cities: c’è l’imbarazzo della scelta.

12. Citato in G. PANSA, I cari estinti. Faccia a faccia con quarant’anni di politica italiana, Milano
2010, Rizzoli, p. 399.
13. F. MINI, «Soldati di oggi e di ieri», Limes, «2014-1914: l’eredità dei grandi imperi», n. 5/2014, p. 159.
14. A. ARESU, «L’insostenibile resilienza dell’essere», Limes, «Il clima del virus», n. 12/2020, pp. 41-50. 181
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A CHE CI SERVE DRAGHI

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Parte III
SORVEGLIANTI
SPECIALI
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A CHE CI SERVE DRAGHI

IL VENTO KEYNESIANO DI WASHINGTON


RIALLINEA FRANCIA E ITALIA
CONTRO LE FOLLIE DELLA GERMANIA
Gli Usa non tollerano più l’Europa tedesca, infiltrata dalla Cina.
La svolta antiliberista di Macron e di Draghi sfrutta il nuovo corso
americano. Le doppie interviste al Financial Times, sigillo della
‘strana coppia’ italo-francese.
di Fabrizio AGNOCCHETTI

I
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1. L PROGETTO DI UN’EUROZONA COSTRUITA


su dettami monetaristi tagliati su misura per le esigenze del capitalismo tedesco
ha generato inevitabilmente al suo interno un disequilibrio crescente tra la Ger-
mania, con i suoi satelliti, e le economie non allineate ai suoi fondamentali. A una
crescita in potenza della prima sono corrisposti i progressivi deterioramenti delle
altre, obbligate a prolungate e deleterie politiche defazionistiche indipendenti dal
ciclo economico. Tra queste soprattutto l’Italia, ma anche la Francia.
Ciò ha portato a una posizione sempre più egemonica dell’economia tede-
sca sul continente europeo, che potrebbe pericolosamente – agli occhi di Wa-
shington – alimentare progetti di «Quarto Reich», ovvero di intese speciali con
Cina e Russia. Ad aggravare il quadro, relazioni commerciali e intese industriali
sempre più forti tra Berlino e Pechino, oltre a quelle energetiche con Mosca, che
preludono a convergenze geopolitiche e spingono il Drago ad audaci penetra-
zioni in Europa.
Da oltre un decennio l’agenda geoeconomica della Germania preoccupa gli
apparati dello Stato profondo statunitense, che defniscono la traiettoria geopoliti-
ca dell’impero sull’obiettivo strategico prioritario: il dominio del Vecchio Continen-
te. E per questo da sempre considerano la Bundesrepublik sorvegliato speciale.
L’operazione più raffnata ed effcace del decennio scorso, deputata a contra-
stare l’egemonia tedesca in Europa, è stata l’insediamento di Draghi alla guida della
Banca centrale europea (Bce) nel 2011. Economista di altissimo proflo, di scuola
keynesiana – allievo di Caffè a Roma e di Modigliani e Solow al Mit, molto legato
alle élite fnanziarie americane, tanto da occupare la vicepresidenza europea della
Goldman Sachs e in seguito la direzione del Financial Stability Board. Obama arri- 185
IL VENTO KEYNESIANO DI WASHINGTON RIALLINEA FRANCIA E ITALIA CONTRO LE FOLLIE DELLA GERMANIA

vò a inviare in Europa il segretario al Tesoro Timothy Geithner per sponsorizzare


la sua elezione a capo dell’istituto.
Il doctor del Mit ha cambiato strutturalmente la funzione della Bce nell’Eurozo-
na. Seppure, per statuto, dovesse esclusivamente presiedere alla stabilità interna ed
esterna dell’euro (visione monetarista), il governatore italiano concepì per la Banca
un ruolo di stimolo all’economia (visione keynesiana). Spalleggiato di nuovo dagli
americani, con un altro giro di Geithner nelle opportune sedi europee, inaugurò
nel 2015 una politica monetaria fortemente espansiva 1 – modello Fed – a sostegno
della domanda: un potente fendente keynesiano contro le fondamenta monetari-
ste dell’euro-marco. Il quantitative easing lanciato da Draghi entrò logicamente in
rotta di collisione con le élite fnanziarie tedesche.

2. Nel frattempo la Francia proseguiva e approfondiva il nuovo corso – inau-


gurato da Sarkozy – di rottura con la precedente tradizione statalista gollista-mitter-
randiana, eleggendo nella primavera del 2017 Emmanuel Macron alla presidenza
della Repubblica. Infuente ministro dell’Economia nel precedente governo Valls, il
neoinquilino dell’Eliseo si presentava con un programma che ignorava del tutto il
ruolo dello Stato nell’economia. L’accento era posto ancora sulla fessibilizzazione
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del mercato del lavoro, sulla riduzione della pressione fscale e sulla riforma delle
pensioni per stimolare l’offerta. Nessuna traccia di politiche redistributive che miti-
gassero le crescenti sperequazioni sociali e sostenessero la domanda.
Ciò in stridente controtendenza con il settore accademico transalpino, scalato
dalla straordinaria ascesa di un economista di sinistra che egemonizzava il dibattito
pubblico, non solo francese: Thomas Piketty. Studioso delle disuguaglianze sociali
e del loro impatto sulla crescita economica, seppur molto legato al Partito socialista
aveva già ampiamente criticato il presidente Hollande per le politiche liberiste del
suo governo Valls, prendendo spesso di mira proprio il ministro dell’Economia. Il
suo lavoro è stato accolto con grande favore dai liberals d’Oltreoceano. Paul Kru-
gman, loro campione keynesiano, in un editoriale sul New York Times 2 lo faceva
entrare di diritto nel Gotha del pensiero antiliberista e dichiarava 3: «Ha cambiato
il nostro modo di pensare la società e di fare economia». In seguito lo riceveva il
consigliere economico di Obama.
Tutt’altra direzione prendeva invece l’Italia, esattamente un anno più tardi.
L’alleanza tra i populisti del M5S e i nazionalisti (convertiti) della Lega dava luogo
a un governo antieuropeista. Grande lo sconcerto in Europa nell’apprendere che
uno dei paesi fondatori e pilastro imprescindibile del progetto comunitario fosse
in mano ai «nemici». Forte il timore a Berlino nel vedere sotto ricatto la catena del
valore della propria industria, motore dell’egemonia economica sul continente.

1. Uffcialmente per raggiungere il target d’infazione del 2% e per chiudere il più possibile gli spread
intraeuro.
2. P. KRUGMAN, «Wealth over Work», The New York Times, 23/3/2014: «Il capolavoro dell’economista
francese sarà il più importante libro dell’anno e forse del decennio».
186 3. J. SCHLUESSER, «Economist Receives Rock Star Treatment», The New York Times, 18/4/2014.
A CHE CI SERVE DRAGHI

Due traiettorie totalmente divergenti, che hanno inevitabilmente condotto i governi


di Roma e di Parigi alla collisione. Per ritrovare dei toni così accesi e duri nello
scontro diplomatico bisognava andare indietro di un quarto di secolo e risalire alle
accuse di concorrenza sleale di Chirac contro il governo Dini.
Dopo più di un decennio di politiche liberiste e defazionistiche, deleterie per
il sistema economico francese – da due a quasi quattro milioni di disoccupati – nel
2018 la goccia che ha fatto traboccare il vaso: un pacchetto di misure macroniane
per fessibilizzare ancor più il mercato del lavoro e per accelerare la transizione
ecologica. Se pure l’iniziale rivolta dei gilets jaunes contro il rincaro del carburante,
anche perché proveniente dalle zone rurali più scarsamente popolate (Diagonale
del vuoto), poteva avere l’aspetto della protesta folkloristica di una categoria so-
ciale emarginata e destinata all’estinzione, il fuoco del cerino si era acceso su una
distesa di materiale altamente infammabile. L’incendio è dilagato velocemente,
con l’esplosione della collera dei ceti cittadini maggiormente danneggiati dalle
politiche economiche imposte dal vincolo tedesco e una pericolosa convergenza
delle istanze dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, strutturalmente e storica-
mente signifcative nella società francese. Uno scenario da guerra civile strisciante,
considerate anche le clamorose dichiarazioni di un infuente generale dell’Esercito,
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che esternava comprensione per le motivazioni profonde della rivolta.


In un tale clima, il ministro degli Esteri del governo italiano – e capo politico
del maggior partito – non trovava niente di meglio da fare che rendere visita al lea-
der dei gilets jaunes ed esprimergli la sua solidarietà e il suo appoggio: il momento
più basso nelle relazioni italo-francesi dal dopoguerra.
A fne anno il clamoroso epilogo. Macron cedeva e disinnescava il pericolosis-
simo avvitamento della rivolta, varando misure da 17 miliardi per la redistribuzione
del reddito verso le fasce più deboli della popolazione. Segnatamente attraverso
un corposo incremento salariale. Sei mesi più tardi, nell’ambito di un discorso
tenuto presso l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) di Ginevra, il pre-
sidente francese parlava chiaramente di «errori fondamentali» e di «pentimento»
nell’aver «costruito delle buone risposte, ma troppo lontane dei nostri concittadini».
«La svolta keynesiana di Macron!», già azzardava più di un analista transalpino.

3. L’anno seguente esplodeva l’epidemia di coronavirus in tutto il mondo. Un


evento di tale portata non cambia le tendenze geopolitiche in atto, ma le accelera.
Gli apparati americani pianifcavano l’abbandono della tattica del disimpegno
e spingevano la candidatura del più realistico e organico Biden alla Casa Bianca.
Negli ultimi anni la Cina, complici il moderato ripiego statunitense e in seguito
l’epidemia, si era fatta insidiosa in zone altamente strategiche e contigue: Medi-
terraneo e Medio Oriente. La necessità di serrare i ranghi nelle retrovie europee
si faceva impellente, mentre si stringeva la morsa soffocante sul gigante asiatico
nella sua regione, nel suo mare.
In Europa il potentissimo shock economico generato dall’epidemia faceva
defagrare un vero e proprio scontro all’ultimo sangue: la contrapposizione strut- 187
IL VENTO KEYNESIANO DI WASHINGTON RIALLINEA FRANCIA E ITALIA CONTRO LE FOLLIE DELLA GERMANIA

turale tra le «formiche» – i paesi benefciari della costruzione europea monetarista


– e le «cicale» – quelli danneggiati. Pochi mesi dopo l’uscita dalla Bce Draghi ir-
rompeva di nuovo sulla scena, entrando a gamba tesa nella disputa. Dal britanni-
co Financial Times, il «cavallo di Troia keynesiano» degli americani in Europa, il
25 marzo 2020 l’attuale premier italiano riprendeva idealmente il flo degli ultimi
mesi del suo mandato da governatore, quando aveva sollecitato a più riprese
i governi europei ad accompagnare la sua politica monetaria con una conse-
guente e sinergica politica di bilancio 4. Forte della sua indiscussa autorevolezza
conseguente al «whatever it takes» monetario, lanciava la bomba sulla necessità
impellente di una gigantesca politica fscale europea per far fronte alla catastrofe
economica. Le frasi chiave: «È chiaro che la risposta deve coinvolgere un rilevante
incremento del debito pubblico»; «le consistenti perdite del settore privato devono
essere assorbite dai bilanci statali». Era il suo nuovo «whatever it takes» sul defcit
spending per la salvezza del settore privato. Inappellabile sconfessione della dot-
trina monetarista anche sul lato fscale. Nuovo siluro keynesiano di Washington
contro le fondamenta neoliberiste dell’euro-marco.
Tutto ciò apriva scenari del tutto inediti nel Vecchio Continente, che l’inquilino
dell’Eliseo non mancava di cogliere per compiere una svolta storica nel posizio-
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namento geopolitico francese. Con grande tempismo, dopo solo due settimane e
non mancando di dichiarare la totale identità di vedute con Draghi, in un’intervista
alla medesima testata Macron sparava lo stesso siluro sulla costruzione monetarista
dell’Eurozona germanizzata 5. Dopo aver condannato la globalizzazione liberista,
generatrice d’«inaccettabili disuguaglianze», il presidente francese rilevava che le
misure economiche prese per fronteggiare l’epidemia «vanno contro i trattati, con-
tro le fondamenta della costruzione europea, poiché sono tutti aiuti statali all’eco-
nomia privata. I paesi con l’economia più solida e i conti più in ordine possono
dare maggiori garanzie alle loro aziende e questo genera una distorsione del mer-
cato. Due grandi problemi che ci impongono di abbandonare le vecchie soluzioni
e di pensare a ciò che fno a sei mesi fa era impensabile: la completa condivisione
dei rischi e dei costi tra tutti i paesi membri senza tenere conto del pregresso e
delle “colpe” del passato, pena l’implosione del progetto europeo».
Era la posizione delle «cicale», capeggiate dall’Italia, vista come fumo negli
occhi dalle «formiche». Nel duro scontro sulla mutualizzazione del debito, emble-
matico di due flosofe contrapposte, la Francia si schierava apertamente contro la
Germania. Dalla parte dell’Italia. Signifcativa, in quelle stesse settimane di confna-
mento nazionale e mondiale, la chiosa del presidente francese in un discorso alla
nazione con cui registrava il fallimento del modello di sviluppo liberista e rimetteva
al centro l’importanza dello Stato sociale 6.

4. M. DRAGHI, «Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordigly», Financial
Times, 25/3/2020.
5. V. MALLET, R. KHALAF, «FT Interview: Emmanuel Macron says it is time to think the unthinkable»,
Financial Times, 16/4/2020.
188 6. E. MACRON, «Adresse aux Français», elysee.fr, 12/3/2020.
A CHE CI SERVE DRAGHI

L’ormai ex campione del libero mercato si era convertito al credo keynesia-


no. L’allineamento con l’ex governatore della Bce sulla necessità di un grande
intervento pubblico, privo di vincoli, per refazionare le economie dopo decenni
di scriteriata defazione era compiuto. E lasciava presagire un futuro asse Draghi-
Macron per una nuova Eurozona, costruita su ben altre fondamenta.

4. Ecco dunque l’ultimo – ma il più centrale e decisivo – tassello necessario a


completare l’operazione americana di messa in sicurezza delle retrovie europee.
Il nostro è stato il paese dell’Eurozona più rispettoso del vincolo fscale tede-
sco, l’unico riuscito nella titanica impresa di realizzare un avanzo primario di bilan-
cio per quasi un trentennio. Il più «virtuoso», secondo la martellante propaganda
monetarista delle élite fnanziarie germaniche; quello che ha pagato il prezzo più
alto in termini di crescita economica, nei fatti. Dalla nascita dell’euro, fanalino di
coda nell’Unione Europea, con una crescita media annuale dello 0,2% – senza
contare l’impatto del Covid-19 – l’Italia registra un incremento complessivo del pil
nel ventennio tra i più bassi del mondo. Un così lungo periodo di crescita asfttica
genera debolezza cronica e rende il malato pericolosamente permeabile alla pe-
netrazione di soggetti ostili. Prima o poi, può farlo implodere. Considerati il peso
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economico dell’Italia e la sua rilevanza geopolitica, si tratta di una mina ad alto


potenziale, non solo per la tenuta dell’Eurozona ma dell’intero impero americano.
Draghi alla guida della Penisola è dunque il muro portante delle operazioni
americane in Europa. Il suo insediamento a Palazzo Chigi simultaneo a quello di
Biden alla Casa Bianca non è un caso. Per gli Stati Uniti non c’è tempo da per-
dere. Draghi è presidio italiano per respingere i tentativi cinesi – o di qualsiasi
altro rivale degli Stati Uniti – di penetrazione nel fanco meridionale della Nato
e insieme garanzia della catena del valore tedesca per rassicurare Berlino. Alle
condizioni di Washington.
L’euro potrà continuare a esistere solo se non sarà più strumento dell’egemo-
nia geoeconomica tedesca in Europa. La transizione dall’Eurozona monetarista di
Maastricht a un’Eurozona keynesiana, iniziata con Draghi alla Bce, potrà essere
fnalizzata, dal lato fscale, con l’insediamento dello stesso presidente della Banca
alla guida del paese la cui manifattura è imprescindibile per il motore dell’indu-
stria tedesca.
L’allineamento tra i due cugini transalpini, a soli due anni dal punto più basso
delle loro relazioni, è compiuto. A suggellarlo, l’avvicendamento alla guida del Par-
tito democratico, inspiegabile a una mera analisi interna. Malamente disarcionato
da Palazzo Chigi dalla sua stessa compagine, dopo un anno e mezzo Enrico Letta
aveva addirittura deciso di ritirarsi dalla politica per dedicarsi all’insegnamento nel
prestigioso istituto di Sciences Po a Parigi, fucina della classe dirigente francese. A
quasi sei anni di distanza, è stato improvvisamente richiamato alla guida del partito
e votato all’unanimità. Allargando lo sguardo ai grandi movimenti internazionali
che incidono così profondamente da inizio anno sul nostro paese, l’insediamento
appare maggiormente decifrabile. Il neosegretario è molto legato, ça va sans dire, 189
IL VENTO KEYNESIANO DI WASHINGTON RIALLINEA FRANCIA E ITALIA CONTRO LE FOLLIE DELLA GERMANIA

alle élite francesi e molto ben voluto anche nei circoli democratici americani clinto-
niani e obamiani, la «famiglia» di Biden. A tal proposito, durante la recente campa-
gna elettorale sono state molto rumorose le sue durissime prese di posizione con-
tro Trump e i suoi martellanti moniti contro i piani golpisti del tycoon newyorkese.
Il progetto è quindi un’Eurozona a trazione franco-italiana, sponsorizzata da
Washington, libera dal vincolo monetario e fscale tedesco e guidata da politiche
keynesiane in linea con i fondamentali della coppia al comando. Ergo: grande
espansione monetaria e fscale a livello continentale e cambio dell’euro in funzione
delle esigenze del sistema produttivo italiano. Se poi l’operazione Next Generation
Eu funzionasse, il ritorno del Belpaese su un solido e stabile sentiero di crescita
poderosa, dopo un quarto di secolo di defazione e stagnazione, raggiungerebbe
il duplice scopo geopolitico di tenerlo unito e compatto – quindi resistente alle
tentazioni del Drago – e di stabilizzare il continente europeo.
Sarà interessante vedere quale postura assumeranno l’uno verso l’altro i due
protagonisti del riallineamento. Fin dal Risorgimento la Francia ha cercato di con-
dizionare – ovvero includere nella sua sfera d’infuenza, quando non dominare
– il «cugino povero» d’Oltralpe. Dalla riunifcazione tedesca, poi, integrare pezzi
rilevanti della nostra industria e della nostra fnanza per bilanciare la crescita in
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potenza della Germania all’interno dell’asse è diventata una priorità di Parigi.


Nell’ambito della sua svolta geopolitica, il presidente francese continuerà nella
politica di relazioni asimmetriche con la Penisola allo scopo di egemonizzarla?
Indipendentemente dalla postura dell’Eliseo, è ragionevole ipotizzare che l’attua-
le governo ultra-atlantista di Roma si muoverà avendo ben presente le priorità
americane, fondate su un’Europa stabilizzata in base a un equilibrio simmetrico.
Trasferendo termini della teoria economica all’analisi geopolitica: da Washington
soffa verso l’Europa il vento keynesiano che genera un potente shock esogeno
dagli effetti asimmetrici. Effetto rigeneratore per la nave della manifattura del
Settentrione italiano, che deve traghettare l’intero paese, uscito malconcio dal
trentennio masochista di vincolo esterno. Una nave su cui è salito rapido il «cugi-
no» transalpino approfttando del vento favorevole, con l’obiettivo, tutt’altro che
semplice, di condurla a suo piacimento.
Vento di tempesta per i comandanti della vecchia nave liberista della fnanza
germanica, che portava un intero continente alla deriva. Forse un giorno anche i
tedeschi benediranno la provvidenziale tempesta keynesiana americana, ma oggi
devono trovare velocemente una nuova direzione.
La palla è nel loro campo: «Á vous de jouer», direbbero gli ex compagni di asse.

190
A CHE CI SERVE DRAGHI

‘In Germania ci fdiamo


di Draghi ma temiamo
possa fallire’
Conversazione con Lars FELD, direttore del Walter Eucken Institut di Friburgo
a cura di Tonia MASTROBUONI

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M
ARIO DRAGHI È STATO IL PRIMO
presidente della Banca centrale europea (Bce) «veramente europeo». Lars Feld, tra
i più ascoltati economisti della Germania e per anni presidente del Consiglio de-
gli esperti economici di Angela Merkel, il «comitato dei saggi», è considerato anche
il sommo sacerdote dell’ordoliberalismo tedesco. In quest’intervista svela i motivi
per cui la Germania ha proposto il Recovery Fund ed esprime la sua fducia nel
presidente del Consiglio italiano: può cambiare il peso dell’Italia in Europa. Ma
Feld ammette anche che a Berlino non è sopito il timore che il nuovo governo
possa durare poco o fallire nel percorso di cambiamento dell’Italia. E che il nostro
paese possa precipitare in una crisi senza precedenti, mettendo nuovamente a
rischio la tenuta dell’euro. Feld svela pure di aver incontrato Draghi spesso negli
anni della grande crisi fnanziaria, insieme al comitato dei saggi. E spiega per-
ché non ha mai pensato, come altri economisti ortodossi del suo paese, che Dra-
ghi fosse «il diavolo».

LIMES Un anno fa la Germania ha scommesso sull’Italia, proponendo il Recovery


Fund. Perché lo ha fatto?
FELD L’Italia è stata estremamente colpita dall’epidemia e dalle sue conseguenze
economiche. Allo stesso tempo, è fnita nella crisi con un alto livello di debito
pubblico. Ecco perché dovevamo sostenerla. Eravamo preoccupati per la stabilità
dell’intera unione monetaria. Una seconda crisi del debito doveva essere evitata a
ogni costo. Ma c’è anche la speranza che questo atto di fducia possa spingere l’I-
talia a fare le riforme. Le foto di Bergamo hanno naturalmente fatto una grande 191
192
Investimenti diretti esteri
LO PSEUDOIMPERO DOVE INVESTONO I TEDESCHI
DELLA GERMANIA FINLANDIA in miliardi di euro,
fonte: Bundesbank 2018
STATI UNITI 361,4
SVEZIA REGNO UNITO 137,6
CINA 86,1
EST. RUSSIA LUSSEMBURGO 85,8
LETT. PAESI BASSI 58,8
IRLANDA AUSTRIA 45
DANIMARCA
FRANCIA 44,7

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REGNO LIT.
PAESI SVIZZERA 40,6
UNITO BASSI ITALIA 37
POLONIA BELGIO 26,1
GERMANIA
BELG. CHI INVESTE IN GERMANIA
Paesi di madrelingua tedesca in miliardi di euro,
LUSS. fonte: Bundesbank 2018
Paesi dove almeno il 25% REP. CECA
degli studenti studia il tedesco PAESI BASSI 113,4
SLOVACCHIA LUSSEMBURGO 88,7
FRANCIA SVIZZ. AUSTRIA STATI UNITI 55
UNGH.
‘IN GERMANIA CI FIDIAMO DI DRAGHI MA TEMIAMO POSSA FALLIRE’

SVIZZERA 41
Nord Italia CROAZIA ITALIA 34,5
ROMANIA
SLOV. REGNO UNITO 32,6
PORTOGALLO
SPAGNA Catalogna FRANCIA 26,3
BULGARIA AUSTRIA 25,2
ITALIA GIAPPONE 22,7
SPAGNA 10,2

GRECIA Principali partner commerciali


della Germania nel 2019
Paesi dell’Unione Europea (Fonte: Destatis)
Mitteleuropa 1. CINA 6. POLONIA
Appendici della Mitteleuropa MALTA 2. PAESI BASSI 7. REGNO UNITO
germanica (Paesi Bassi e Südtirol/Alto Adige) CIPRO 3. STATI UNITI 8. AUSTRIA
Sfera d’infuenza geoeconomica 4. FRANCIA 9. SVIZZERA
Estero vicino (Francia) 5. ITALIA 10. REP. CECA
Proiezione estera, soprattutto commerciale
A CHE CI SERVE DRAGHI

impressione. Hanno sostanziato la narrazione che l’Italia sia fnita in una situazione
particolarmente diffcile senza averne alcuna colpa.
LIMES Quanto ha contato il fatto che il Nord Italia è parte irrinunciabile della catena
del valore dell’industria tedesca?
FELD Non direi che ha giocato specifcatamente un ruolo. Piuttosto ci si è resi dav-
vero conto di quanto le economie in Europa si siano fuse da quando abbiamo l’eu-
ro. Le catene del valore europee sono robuste e molto interconnesse.
LIMES Si è parlato della preoccupazione di Emmanuel Macron ma anche di altri capo
di Stato e di governo, all’inizio della crisi sanitaria, che la Germania potesse riemer-
gere troppo rafforzata dall’epidemia e costituire anch’essa una minaccia per l’euro. È
stato anche questo un impulso che ha indotto Merkel a proporre il Recovery Fund?
FELD In realtà l’impulso è venuto piuttosto dalla preoccupazione che potesse arri-
vare un’altra crisi del debito che avrebbe rimesso in pericolo l’esistenza dell’unione
monetaria nella percezione dei mercati fnanziari. L’anno scorso la Germania ha
registrato un rapporto debito/pil di circa il 70% che sarà simile, probabilmente,
quest’anno. La Francia è al 120% circa – una differenza di 50 punti percentuali. Le
discrepanze sono enormi anche in altre aree, ad esempio se si guarda alla crescita
della produttività, e sono destinate a restare tali anche dopo la crisi da coronavirus.
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Quindi la Germania sta uscendo dall’emergenza relativamente forte. E il Next Ge-


neration Eu serve soprattutto ad aiutare Italia, Spagna e Francia a raggiungere
maggiore competitività.
LIMES Quanto sarà paziente la Germania con l’Italia?
FELD Nel complesso la Germania sta cercando di mantenere un basso proflo. Non
vogliamo che l’Italia ci trasformi di nuovo in un capro espiatorio. Dopotutto, al
momento lo siamo soltanto per Fratelli d’Italia. Ogni volta che critichiamo Roma, è
più facile per le forze italiane che si oppongono alle riforme silurare quelle che gli
altri partiti vogliono attuare. Questo non ci porta da nessuna parte. Ecco perché la
Germania si tratterrà dal formulare critiche.
LIMES Ma ora che c’è Draghi sono tutti più tranquilli?
FELD Sì, ma bisogna anche dire che ci sono già grandi preoccupazioni che Draghi
possa fallire. Il premier italiano, in fn dei conti, è l’àncora di salvezza di ultima
istanza. I governi tecnocratici in Italia non hanno purtroppo avuto vita molto lunga:
fnora il sistema politico non li ha tollerati – penso ai governi Ciampi o Monti. Le
prossime elezioni sono nel 2023: se qualcosa dovesse accadere prima di allora,
sarebbe certamente dannoso per la percezione del problema italiano in Germania.
Di Draghi ci si può fdare in ogni caso, perché nel complesso ha sempre padro-
neggiato in modo eccellente ciò che ha affrontato. Tuttavia, temiamo che possa
fallire e non essere in grado di portare a termine le riforme, i passi di modernizza-
zione indispensabili.
LIMES Ma in senso stretto il governo Draghi non è un esecutivo tecnocratico, per-
ché include i partiti. Anzi, l’ex presidente della Bce è anche riuscito ad assorbire i
poli opposti della Lega e del Partito democratico in una sola coalizione. E ha par-
zialmente domato la compagine di Salvini. 193
‘IN GERMANIA CI FIDIAMO DI DRAGHI MA TEMIAMO POSSA FALLIRE’

FELD Sì, Mario Draghi ha formato un governo di unità nazionale e lo ha fatto con
grande abilità, come tutto ciò che fa. Ha occupato i ministeri chiave con professio-
nisti. E ha, d’altra parte, incluso quasi tutti i partiti nel suo governo, responsabiliz-
zandoli. Ma anche così, c’è ancora una preoccupazione residua sul fatto che riusci-
rà a fare tutto ciò che è necessario.
LIMES Draghi è l’uomo che a capo della Bce ha perseguito per otto anni una poli-
tica monetaria molto spesso in contrasto con la visione classica, ortodossa della
politica monetaria tedesca e in generale con l’ordoliberalismo. Lei è considerato il
massimo rappresentante del pensiero ordoliberale in Germania e dirige il Walter
Eucken Institut. Che tipo di giudizio ha su di lui?
FELD Devo ammettere che come capo della Banca centrale europea Mario Draghi ha
avuto un grande successo. È riuscito sotto ogni punto di vista a fare delle buone
scelte. E penso che le abbia fatte in modo molto pragmatico. Come Consiglio degli
esperti economici abbiamo ovviamente avuto l’opportunità di parlare spesso con lui.
LIMES Perché ovviamente? Quanto spesso vi siete parlati?
FELD Come Consiglio di esperti del governo abbiamo un diritto di audizione in
Germania. Ciò signifca che possiamo ascoltare tutti i ministri del governo federale
che per noi sono rilevanti. E che i ministri sono obbligati a rispondere alle nostre
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domande. Ciò vale anche per istituzioni come la Bundesbank, l’Agenzia federale
del lavoro e così via. È una regola che ovviamente non si applica alla Bce. Eppure,
con l’arrivo di Mario Draghi siamo stati invitati a colloquio sin da subito. Dalla cri-
si economica e dei debiti in poi, Draghi ha avuto un incontro con noi ogni anno.
Perché nella sua Bce, anche nel Comitato esecutivo, c’era la percezione che il
Consiglio degli esperti economici avesse un ruolo importante nell’offrire spunti di
politica economica al governo federale che andavano oltre lo specifco della Ger-
mania. Le discussioni erano sempre molto franche. Si capiva quanto a Draghi fa-
cesse piacere discutere con noi. È sempre stato un dialogo molto amichevole – da
entrambe le parti.
LIMES E Draghi vi ha convinti?
FELD Ho trovato convincente quello che ha fatto e come ha giustifcato le sue de-
cisioni. Ho sempre sottolineato che noi del Consiglio degli esperti economici non
fossimo tra coloro che in Germania, come Hans-Werner Sinn, sostenevano in so-
stanza che gli acquisti di obbligazioni fossero il diavolo, fnanziamenti statali mo-
netari. Volker Wieland e io abbiamo difeso il programma di acquisto di obbligazio-
ni Pspp nel 2019 all’udienza della Corte costituzionale federale: indipendentemen-
te l’uno dall’altro e senza consultarci. I limiti sugli acquisti di obbligazioni che
Draghi ha fssato per il programma Pspp hanno perfettamente senso e rendono il
programma difendibile dal punto di vista della politica monetaria. Da questa pro-
spettiva, la mia valutazione dell’èra Draghi è che è stata un successo e ha guidato
la politica monetaria europea attraverso acque agitate con maestria. Per Berlino, la
Bce avrebbe potuto essere un po’ più restrittiva. Ma un po’ più restrittiva non signi-
fca che non dovesse comprare obbligazioni: piuttosto che avrebbe potuto uscire
194 prima dalla politica monetaria espansiva.
A CHE CI SERVE DRAGHI

LIMES Quali sono state le vostre conversazioni, per esempio, in un anno molto
importante come il 2012, quando a luglio Draghi pronunciò il «whatever it takes»
che si eresse come un muro a difesa dell’euro e a settembre la Bce decise lo scudo
anti-spread Omt?
FELD Il Consiglio degli esperti economici presentò la sua proposta di ristrutturazio-
ne del debito proprio in quei mesi. E chiarimmo anche il nostro scetticismo
sull’Omt, perché avremmo preferito una soluzione di politica fscale. I capi di Stato
e di governo non erano disposti a farlo e costrinsero la Bce ad agire al posto loro.
LIMES Cosa succederebbe se l’Italia si mettesse di nuovo nei guai? Siamo in uno
scenario molto diverso rispetto al 2011, quando non c’era lo scudo anti-spread
Omt, il fondo salva-Stati permanente Esm, l’unione bancaria, le politiche ipere-
spansive della Bce? Insomma, l’Italia riuscirebbe ancora a far saltare l’euro?
FELD Sì, si può supporre che l’Italia sia ancora in grado di far saltare l’euro. Ipotiz-
ziamo che un governo populista aumenti ulteriormente il debito pubblico e che
non sia disposto a consolidare i conti pubblici e ad attuare riforme di politica eco-
nomica. Allora l’Ue avrebbe un problema. Questo è indubbio.
LIMES In Europa sta cominciando anche la discussione su una revisione del Patto di
stabilità. Come dovrebbe essere riformato e che fne dovrebbe fare il Fiscal compact?
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FELD Il Consiglio degli esperti economici ha fatto una proposta sulla questione
della riforma delle regole fscali europee. E, in sintonia con le conclusioni del
Consiglio francese degli esperti economici, proponiamo di andare nella direzione
di una revisione delle regole di spesa. Ma è un meccanismo non meno complica-
to di quello che abbiamo ora: introdurrebbe però delle regole più dure. Comun-
que, nella situazione attuale – abbiamo elezioni parlamentari in Germania
quest’anno, elezioni presidenziali in Francia l’anno prossimo, elezioni parlamen-
tari in Italia l’anno dopo ancora – non riesco a immaginare che abbia davvero
senso pensare di rivedere radicalmente le regole fscali. C’è già una certa fessibi-
lità che servirà per aggiustare gradualmente i conti pubblici nei prossimi anni. In
Germania, il freno del debito potrebbe forse essere reintrodotto già nel 2022. Per
tornare ai vincoli fscali europei, tuttavia, penso che ci vorrà più tempo. Non rie-
sco a immaginare che torneremo al limite normativo del Patto di stabilità e cresci-
ta o del Fiscal compact nel 2022. Quindi immagino che non si applicheranno
prima del 2023.
LIMES Dunque lei pensa che l’imperativo del pareggio del bilancio, il «freno al de-
bito», debba rimanere iscritto nella costituzione tedesca? In Germania c’è un ampio
dibattito sull’opportunità di riformarlo.
FELD Le posso assicurare che mi batterò come un leone perché rimanga iscritto
nella costituzione così com’è. Il freno al debito è molto più fessibile di quanto si
pensi. E il ministero delle Finanze ha costruito enormi riserve nello scorso decen-
nio. Non riesco proprio a immaginare che quest’anno riusciremo a spendere tutti
gli aiuti per l’epidemia preventivati. Da questo punto di vista, per me ammorbidire
o abolire il pareggio di bilancio obbligatorio, come propongono i Verdi, è total-
mente superfuo e controproducente. 195
‘IN GERMANIA CI FIDIAMO DI DRAGHI MA TEMIAMO POSSA FALLIRE’

LIMES Lei ritiene che dopo otto anni di Draghi alla Bce l’euro non sia più l’euro
tedesco e che si sia tornati all’idea italo-francese di un euro utile a imbrigliare e a
contenere la Germania?
FELD Non direi che è diventato un euro tedesco, francese o italiano. È un euro euro-
peo perché le diverse esigenze che gli Stati membri dell’unione monetaria esprimo-
no si rifettono anche nella politica monetaria. Ripensiamo all’episodio della Grecia
nel 2015, quando Mario Draghi a un certo punto chiuse i rubinetti alle banche.
LIMES Il famigerato waiver.
FELD Sì, certo. Era chiaramente nell’interesse dell’Europa far capire ai greci il costo
di un’uscita dall’unione monetaria. Allora ho pensato che Draghi avesse preso una
decisione da vero europeo.
LIMES Quale lezione si può trarre da questa crisi fscale ed economica e dalla crisi
sanitaria se si guarda al futuro degli assetti istituzionali dell’Unione Europea e della
Germania?
FELD Dal punto di vista dell’Europa, penso che sia diventato chiaro a tutti quanto
gli Stati membri siano interdipendenti. Ricordiamoci del danno che è stato fatto la
scorsa primavera con la chiusura delle frontiere, quando la Germania bloccò l’e-
sportazione di prodotti medici. Provocò un enorme clamore. Inoltre, per quanto
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riguarda le catene del valore è diventato chiaro quanto sia importante il mercato
interno europeo, che è fondamentalmente sostenuto dall’unione monetaria. La
verità è che il processo di integrazione si è sviluppato piuttosto bene e c’è stata una
robusta convergenza. E tutto questo, naturalmente, ha implicazioni per il futuro.
Perché bisogna anche dire chiaramente che le idee nazionaliste, che comunque
resistono, sono molto preoccupanti. Dobbiamo cercare di defnire i nostri valori
europei come valori comuni e allinearci su di essi. Dobbiamo avvicinarci di più in
termini politici. Se aspiriamo a una maggiore convergenza nell’unione monetaria
non può essere solo la convergenza dei redditi pro capite. È la convergenza di idee
e scelte politiche. La crisi ha dimostrato i frutti dell’unifcazione europea. Non do-
vremmo metterli a rischio, ma piuttosto costruire a partire da essi. Si pensi all’unio-
ne dei mercati dei capitali o al mercato unico digitale. Nel settore dei servizi c’è
ancora molto da fare. Ci sono ancora molti ostacoli da rimuovere.
LIMES Il programma Next Generation Eu fnanziato dal debito comune è un passo
avanti o va interpretato come un tantum irripetibile?
FELD Il Next Generation Eu in questa forma non è sostenibile. Per garantire all’Ue
una capacità fscale europea permanente, la Commissione europea avrà bisogno di
poter esercitare un maggiore controllo. Ma allora gli Stati membri dovranno essere
disponibili a rinunciare a un pezzo di sovranità nella politica dei conti pubblici.
LIMES In Europa c’è il motore franco-tedesco e due coalizioni che sono emerse o
si sono rafforzate negli ultimi anni quasi in contrasto con le spinte per una maggio-
re integrazione europea: i «frugali» (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Fin-
landia) e il Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia).
Come si inserisce l’Italia in questi equilibri? Draghi sarà in grado di riportarla al
196 centro dell’Europa?
A CHE CI SERVE DRAGHI

LE EUROPE VISTE DALLA GERMANIA


ISLANDA
SUDDIVISIONE SECONDO
CONFINI DI STATO ATTUALI
DANIMARCA
PAESI BASSI EUROPA ORIENTALE
LUSSEMBURGO
LIECHTENSTEIN FINLANDIA EUROPA SUD-ORIENTALE
SVEZIA

RU
MONTENEGRO
KOSOVO EUROPA SETTENTRIONALE

S S I A
NORVEGIA
MACEDONIA DEL NORD EST. EUROPA OCCIDENTALE
ALBANIA
Mare
del Nord LETT. MITTELEUROPA (EU. CENTRALE)

LIT. EUROPA MERIDIONALE


IRLANDA
REGNO BIELORUSSIA SUDDIVISIONE SECONDO
UNITO CRITERI CULTURAL-SPAZIALI
POLONIA
Oceano BELGIO GERMANIA
UCRAINA
Atlantico
REP. CECA
SLOVAC.
MOLD.
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AUSTRIA
FRANCIA SVIZZ. UNGHERIA
SLOV.
CROAZIA ROMANIA
BOSNIA Mar Nero
ERZ. SERBIA
BULGARIA
ITALIA
ALLO
TOG

SPAGNA
POR

TURCHIA
GRECIA
Mar Mediterraneo

MALTA CIPRO
MAROCCO ALGERIA
TUNISIA ©Limes
Fonte: Proposta del Comitato permanente per i nomi geografci (STAGN), Germania.

FELD Penso che Draghi possa rafforzare il ruolo dell’Italia semplicemente perché ha
già dimostrato di essere al centro dell’Europa. Da presidente della Bce si è posizio-
nato molto chiaramente come un europeo. L’euro non è tedesco, né italiano o
francese, ma europeo. E questo ha molto a che fare con la fgura di Mario Draghi.
Draghi è stato il primo presidente veramente europeo della Bce. E quindi è abba-
stanza chiaro che si presenta con un peso molto diverso al Consiglio europeo e
viene percepito in modo differente anche rispetto agli altri capi di Stato e di gover-
no. Ciò sarà particolarmente vero se Angela Merkel lascerà l’incarico quest’autun-
no. Se l’Italia di Mario Draghi recupera davvero il terreno perduto con le riforme e
si sviluppa di più, potrà giocare un ruolo molto diverso a livello europeo da quel-
lo ricoperto fno a oggi. Sinora Roma è sempre stata sulla difensiva. Draghi può
cambiare molto, anche nella fducia dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea e
dell’unione monetaria. 197
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A CHE CI SERVE DRAGHI

DI DRAGHI
BERLINO
NON SI FIDA di Luca STEINMANN

La Germania è al bivio: o torna all’austerità fiscale e monetaria,


garanzia della sua leadership geoeconomica in Europa, o riscopre
la geopolitica, annacquando il rigorismo. La pietra di paragone
è l’Italia, dove i tedeschi vedono la partita decisiva.

1. V
ISTO DALLA GERMANIA L’INGRESSO DI MARIO
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Draghi a Palazzo Chigi segna uno spartiacque geopolitico per tutto il sistema di
potere europeo. Cambio di paradigma che avrà forti ripercussioni sulla Bundesre-
publik. Sul fronte interno come su quello dei rapporti fra potenze. Soprattutto sulla
delicata relazione con Washington.
Per l’Italia, dalla prospettiva di Berlino, si tratta probabilmente dell’ultima
chance. In base ai risultati di questo governo i decisori tedeschi stabiliranno se
continuare ad accettare l’aggancio del Belpaese all’Eurozona oppure se favorirne
l’espulsione. Ciò non condurrebbe allo sganciamento dell’Italia dall’Occidente. Al
contrario, il disallineamento italiano dagli interessi tedeschi potrebbe incentivare
gli Stati Uniti a utilizzare lo Stivale come piattaforma di attacco alla Bundesre-
publik e al suo spazio geoeconomico mitteleuropeo qualora Berlino tentasse di
affermarsi attore geopolitico compiuto e stabilisse collaborazioni troppo profonde
con la Russia e con la Cina. La probabile rappresaglia americana sconsiglierebbe
alla Bundesrepublik di escludere l’Italia dall’Eurozona. Maggiore sarà il dinamismo
geopolitico tedesco, maggiore sarà la reazione americana, minore sarà l’interesse
germanico ad abbandonare l’Italia.
L’avvento del governo Draghi è stato accolto con cauta freddezza dai decisori
politici tedeschi. Al di là dei complimenti di forma di Angela Merkel e Ursula von
der Leyen, nessun esponente politico di rilievo ha espresso pubblicamente un
giudizio 1. Il mondo economico-fnanziario è stato meno diplomatico. Sulla stampa

1. L’unica eccezione riguarda Jörg Meuthen, cosegretario della AfD, che ha attaccato Draghi per il suo
operato alla Banca centrale europea, defnendolo «il grande maestro in materia di debiti» e rivendicando
una politica monetaria intransigente. Si assiste così al paradosso dei nazional-populisti italiani e tede-
schi, formalmente alleati tra loro (la AfD è attualmente nello stesso eurogruppo della Lega) ma che non
concordano sulle soluzioni alternative al sistema che criticano. Una vittoria contemporanea dei nazio-
nal-populisti tedeschi, francesi e italiani porterebbe all’inasprimento delle reciproche ostilità nazionali. 199
DI DRAGHI BERLINO NON SI FIDA

sono apparsi commenti che presentano Draghi come minaccia agli interessi geoe-
conomici germanici. Il capo del governo italiano «sa che ogni suo passo sarà sotto
esame e che da un momento all’altro nel Nord del continente potrebbe scoppiare
una tempesta che lo spazzerebbe via anche politicamente», scrive l’economista
Heiner Flassbeck su Makroskop.de 2. L’ex banchiere viene dipinto come il potenzia-
le salvagente capace di tenere a galla un paese in declino e sull’orlo del fallimento
fnanziario. La situazione italiana è disastrosa secondo lo Spiegel, che scrive di un
«debito record, nessuna crescita, ricchezza in calo, demografa in declino» 3. Il Ma-
nager Magazin racconta di un paese in «rovina» che potrebbe trasformarsi in una
«Argentina europea» 4.
Il compito del premier viene trasversalmente descritto come titanico non solo
per la stagnazione economica legata alla crisi da Covid-19 ma anche per il grande
«arretrato di riforme non fatte»  5 dall’Italia. Dorothea Siemens scrive su Die Welt
che il Recovery Plan è un’«opportunità storica» ma necessita da parte italiana di un
grande pacchetto di riforme che preveda «l’innalzamento dell’età pensionabile» e la
«rimozione degli ostacoli alla crescita» 6. Le politiche monetarie espansive messe in
campo da Draghi ai tempi della Banca centrale europea (Bce) e il suo salvataggio
dell’euro a ogni costo non vengono considerati propriamente conformi all’interes-
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se tedesco. Anzi. Essi hanno «salvato l’Italia dal crollo», ma l’acquisto dei titoli di
Stato da parte della Bce ha favorito il «rallentamento delle riforme nei paesi mag-
giormente indebitati, soprattutto in Italia». Nei paesi creditori i risparmiatori hanno
invece pagato un «prezzo elevato» a causa della politica dei tassi zero della Bce.
Risultato: l’Eurozona è oggi di nuovo in «modalità di crisi» e per la prima volta si sta
facendo carico di «un debito comune su larga scala».
La presenza di Draghi a Palazzo Chigi è una potenziale minaccia per gli in-
teressi geoeconomici tedeschi anche perché aumenta il peso specifco dell’Italia,
che diventa il luogo in cui «si prendono le decisioni più importanti per il futuro
dell’Europa» 7. Essendo la terza economia dell’Eurozona, il maggiore peso italiano
nell’Unione Europea metterebbe in discussione la posizione (egemonica) tedesca 8.
Secondo Flassbeck l’avversario più importante di Draghi è a Berlino, Francoforte e
Monaco, nel «nocciolo duro della CDU/CSU» che per il dopo-crisi ha già in mente
il ripristino delle vecchie regole sul debito e pensa a condizioni dure da imporre a
chiunque voglia servirsi di fondi europei 9.
Per la stampa germanica la maggior parte degli italiani vede il governo tedesco
come «grande dittatore dell’austerità» e il Meccanismo europeo di stabilità (Mes)

2. H. FLASSBECK, «Good luck, Mario», Makrospkop.de, 18/2/2021.


3. H. MÜLLER, «Italiens schleichender Niedergang», Der Spiegel, 7/2/2021.
4. H. MUELLER, «Ich oder Untergang», Manager Magazin, 13/2/2021.
5. N. BUSSE, «Was Draghis Mission wäre», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 4/2/2021.
6. D. SIEMENS, «Italien retten, die EU prägen. “Super-Draghi” ist zurück im Zentrum der Macht», Die
Welt, 3/2/2021.
7. Ibidem.
8. Per una rassegna stampa completa si veda il blog: www.vocidallagermania.blogspot.com
200 9. H. SIEMENS, op. cit.
A CHE CI SERVE DRAGHI

come uno strumento plasmato da Wolfgang Schäuble per interferire negli affari in-
terni dei paesi debitori. Tuttavia, la buona reputazione di Draghi e i suoi ottimi rap-
porti con le capitali e con la commissione Ue, nonché con la presidente della Bce
Christine Lagarde, potrebbero rivelarsi «un capitale prezioso» negli scontri futuri 10,
quando superata l’emergenza Covid-19 si deciderà se tornare o meno all’«austerità».

2. Queste percezioni tedesche dell’Italia vanno inquadrate all’interno di una


visione diffusa che accompagna la relativa fducia nelle competenze tecniche di
Draghi alla strutturale sfducia per il Belpaese. La seconda alimenta la prima. Il
premier viene visto come uno dei pochi interlocutori non solo credibili ma addi-
rittura disponibili nello Stivale, dopo la «estraneazione strisciante» («schleichende
Entfremdung») tra le due nazioni cominciata alla fne dello scorso secolo  11. Il
progressivo allontanamento tra Italia e Germania è evidente. Le élite dei due paesi
si conoscono poco e parlano meno. Secca cesura rispetto al periodo compreso
tra gli anni Cinquanta e l’unifcazione tedesca del 1990, quando si poteva parlare
di una fortunata convergenza tra Roma e Berlino fondata sulla coincidenza tra
i rispettivi interessi nazionali e l’«interesse europeo»; sulla complementarità tra
europeismo e atlantismo; sull’obiettivo condiviso di creare una struttura federale
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a livello comunitario; sul parallelismo tra Italia e Germania sul piano internazio-
nale 12. Soprattutto da parte italiana vi era un forte interesse a mantenere una sim-
metria con l’altra grande sconftta nella seconda guerra mondiale, per bilanciare
Francia e Gran Bretagna, potenze vincitrici dotate dell’arma atomica e di un seg-
gio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La fne della guerra fredda ha
condotto però a un’«asimmetria politico-istituzionale» 13 tra i due paesi legata alla
crescente infuenza geoeconomica germanica tanto al livello europeo quanto sul
piano globale, approfttando dello spostamento del baricentro geopolitico verso
est. Insieme all’instabilità cronica del sistema politico italiano, inasprita dal crollo
della Prima Repubblica.
A Berlino, la crisi della tradizionale democrazia dei partiti, che nella sua in-
stabilità garantiva interlocutori conosciuti e riconoscibili, è stata vissuta male. Con
la liquidazione dei partiti italiani si scioglievano anche le relazioni speciali fra le
élite dei due paesi, coltivate fra CDU-CSU e Dc, o fra SPD e Pci. All’asimmetria
politico istituzionale si è aggiunta una forte asimmetria economica a partire dalla
crisi fnanziaria scoppiata nel 2008. Mentre l’Italia subiva un profondo processo di
deindustrializzazione e di perdita di capacità produttiva, la Germania dimostrava
una salda stabilità all’insegna della leadership di Angela Merkel.
Se in Italia l’opinione pubblica veniva attraversata da forti impulsi antigermani-
ci – alimentati dall’apporto di alcune élite politiche, culturali e mediatiche di destra

10. D. SIEMENS, op. cit.


11. G.E. RUSCONI, Le radici politiche dell’estraneazione strisciante tra Italia e Germania, Bologna 2008,
il Mulino, pp, 11-17.
12. Ivi, p. 15.
13. Ivi, p. 11. 201
DI DRAGHI BERLINO NON SI FIDA

ma anche di sinistra – in Germania si rafforzava la narrazione del «sistema Italia»


come cronicamente incapace, utilizzando massicciamente gli stereotipi su scarsa
affdabilità, furbizia, pressapochismo e infedeltà. Narrazione radicalizzatasi anco-
ra di più nel 2018 a seguito dell’ennesimo tracollo dei partiti tradizionali italiani
e dell’instaurazione del governo composto da Lega e Movimento 5 Stelle che ha
innescato una nuova ondata di luoghi comuni italofobi nella politica, nel mondo
economico, nella stampa e nell’opinione pubblica tedesca 14.
Generalmente gli obiettivi di un soggetto geopolitico nei confronti di un altro
si misurano nell’intensità dei pregiudizi che il primo alimenta sul secondo. La de-
scrizione di Draghi sulla stampa tedesca come una potenziale minaccia all’interesse
germanico segnala i timori di Berlino nei confronti dell’attuale esecutivo italiano.
In Germania gli umori verso il premier sono cambiati nel corso del tempo e attual-
mente non esprimono una posizione condivisa. All’inizio della sua presidenza del-
la Bce, Draghi veniva soprannominato «Super Mario» e raffgurato dai giornali con
l’elmetto prussiano in testa, promosso così a «non italiano», dunque affne alle virtù
germaniche. Poi l’aggravarsi della crisi economica e la politica monetaria espansiva
della Bce indussero buona parte dell’opinione pubblica a vederlo come l’origine
di tutti i problemi. La Bild gli revocò l’elmetto a punta per dipingerlo nelle vesti
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di un vampiro, il «Conte Draghila». Tuttavia, in molti ritengono che la sua politica


monetaria abbia fatto comodo a Merkel per salvare l’euro e farne pagare il prezzo
mediatico allo stesso Draghi, ridotto a capro espiatorio 15.
Oggi l’ex banchiere centrale viene osservato attentamente dai decisori tede-
schi, che in base alle performance del suo governo decideranno se e come inter-
venire in Italia. Imperativo dell’odierna strategia germanica è la sintesi tra il ferreo
rispetto delle regole sancite dai trattati europei e la difesa delle aree economiche
che Berlino domina e in cui esporta i prodotti made in Germany. Dunque l’Euro-
zona e soprattutto il Kerneuropa tedesco: l’area di infuenza economica germanica
nel cuore del continente, fondata sui paesi già associati all’area del marco (Bel-
gio, Olanda e Lussemburgo), sull’Austria, sull’Italia settentrionale, sulla Catalogna
e sui vicini dell’Europa orientale (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria,
Slovenia e Croazia). Questo binomio è retto da un accordo non scritto di pacifca
convivenza tra la Bundesbank – che sarebbe disposta a sacrifcare l’euro in nome
della sua ossessione di retaggio weimariano per la stabilità dei prezzi e per il pa-
reggio di bilancio – e i governi federali di Angela Merkel, in prima linea nel difen-
dere la moneta unica a ogni costo. Non è un caso che tra Draghi e la cancelliera
corra notoriamente buon sangue. Lo stesso non si può sempre dire per i rapporti
tra l’attuale premier italiano e la Bundesbank. Le discrepanze di vedute si sono
manifestate a partire dalla crisi dei debiti sovrani del 2008, i cui effetti vennero cir-
coscritti dall’azione della Bce che rese sempre più espansiva la politica monetaria.

14. L. STEINMANN, «Il falso stereotipo dell’irriducibile italofobia tedesca», Limes, «Una strategia per l’Ita-
lia», n. 2/2019, pp. 109-117.
15. F. LOCATELLI, «Draghi e la Germania, le radici di un rapporto complesso. Parla Krieger», First Online,
202 26/10/2019.
A CHE CI SERVE DRAGHI

Ricorrendo anche a misure non convenzionali che hanno scongiurato la dissolu-


zione dell’Eurozona.
Poiché negli anni successivi all’introduzione della moneta unica non si era
avviato un processo di convergenza strutturale tra le economie europee, la crisi ha
coinvolto in maniera diversa i paesi della Ue. Suscitando il timore in alcuni di essi,
Germania in primis, di dovere pagare per la colpa (Schuld, che in lingua tedesca
signifca anche debito) degli scialacquatori del Sud. Per calmare questa paura è
stata messa in atto una pressione crescente sui governi delle nazioni più fragili
affnchè intraprendessero un radicale programma di riforme strutturali. Contropar-
tita indispensabile perché Merkel potesse legittimare il salvataggio dell’euro agli
occhi delle forze germaniche che farebbero volentieri a meno della partecipazione
italiana all’Eurozona e sostengono la necessità della pressione continua sui paesi
che devono attuare le riforme. Secondo queste forze, se i vincoli fscali venissero
allentati si indebolirebbero anche gli incentivi a riformare. Emerge insomma una
cronica insofferenza «protestante» nei confronti delle «cicale». Di qui la convinzione
che il rigore di bilancio debba essere perseguito ovunque e comunque in Europa
con determinazione infessibile anche nel mezzo di una recessione 16. Ciò distingue
la concezione dell’interesse nazionale tedesco per come si è manifestato dal dopo-
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guerra fno a oggi: leadership geoeconomica vestita con i colori europei. L’egemo-
nia economica, in particolare l’accumulo di ingenti e crescenti avanzi nei confronti
dell’estero, deve essere usata come strumento geopolitico per condizionare gli altri
paesi dell’Ue, in particolare quelli, come l’Italia, la cui forma mentis andrebbe «nor-
difcata». Ossia conformata al modello economico-sociale (per certi versi morale)
della Germania, considerato superiore. L’esibito allineamento fra Italia e Francia
sulla politica fscale espansionista, perfettamente opposto all’approccio tedesco,
rende ancora più aspra la partita. E alimenta i sospetti di Berlino nei confronti di
Draghi, che porterebbe l’Italia a schierarsi con la Francia nella vitale partita dell’Eu-
rozona, da cui dipende il futuro delle tre maggiori economie continentali e dei loro
stessi sistemi politico-istituzionali.
Negli ultimi anni sta emergendo, seppur lentamente, la consapevolezza tede-
sca di dover superare la dimensione geoeconomica determinata dalla catastrofe
bellica per rielevare la Germania ad attore geopolitico in senso compiuto. Ovve-
ro un soggetto che tenga in considerazione non soltanto i conti ma che eserciti
anche una infuenza geopolitica sugli spazi economici che già controlla. Scopo
per cui l’Italia è indispensabile. Si tratta di una necessità scaturita dalla coscienza
di non poter più contare sulla protezione degli Stati Uniti per come avvenuto a
partire dal 1945. Lo conferma la crescente avversione delle agenzie americane
alla presa geoeconomica tedesca sull’Europa continentale e all’intensifcarsi della
collaborazione di Berlino con la Russia sul piano energetico (e non solo) e con la
Cina sul piano commerciale (e non solo). Approccio considerato grave minaccia

16. M. FIORAVANZO, F. FOCARDI, L. KLINKHAMMER, Italia e Germania dopo la caduta del Muro, Roma 2019,
Viella, p. 123. 203
DI DRAGHI BERLINO NON SI FIDA

per l’infuenza americana sulla decisiva porzione europea del proprio impero.
Questa prospettiva strategica precede e supera Trump (i primi attacchi sistematici
alla Germania, vicende storiche a parte, iniziano con Barack Obama)  17, tant’è
vero che l’amministrazione Biden pretende a gran voce di bloccare il Nord Stream
2 in nome dei «diritti umani». Berlino ha fnora risposto che il gasdotto è partita
separata dalla questione umanitaria, sicché la pipeline, quasi completata, non va
fermata. E ciò in nome di una «sovranità europea» che esclude per principio di
recepire il dettato di Washington 18.
Chiara la discrepanza tra l’ortodossia monetaria della Bundesbank e la tenta-
zione del ritorno alla geopolitica. Mentre il rigorismo dei banchieri francofortesi
prevede la possibilità di espulsione dell’Italia dall’Eurozona qualora Roma non
mettesse in atto le riforme strutturali richieste, l’agganciamento del Belpaese al
sistema di potere europeo diventa invece priorità tattica della geopolitica tedesca.
Lasciando andare l’Italia la Germania perderebbe non solo un partner fondamen-
tale dal punto di vista economico ma anche la proiezione strategica sul Mediterra-
neo, indispensabile per un soggetto geopolitico che non esclude di doversi parare
da forti attacchi, soprattutto americani, nel prossimo futuro.
Non è un caso che i tedeschi siano recentemente sbarcati a Trieste, dove una
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parte rilevante della piattaforma logistica giuliana è stata acquistata dalla Hambur-
ger Hafen und Logistik, compagnia amburghese a larga maggioranza di proprietà
della città Stato anseatica. Non è un caso nemmeno che Merkel si sia imposta a
favore dell’Italia in occasione dei negoziati per il Recovery Fund. In ballo non c’è
solo il salvataggio del Settentrione italiano, parte integrante del Kerneuropa, ma di
tutto il paese. Per non cedere ai falchi di Francoforte e custodire invece gli interessi
geopolitici germanici serve tenere la Penisola integrata nella sfera d’infuenza geo-
economica tedesca, che si vorrebbe elevare di grado.
I rapporti fra le priorità geopolitiche e il rigorismo monetario tedesco verran-
no calibrati dai risultati del governo Draghi. Se questo riuscirà a riformare l’Italia
secondo quanto dettato dalla Germania attraverso Bruxelles, allora indebolirà an-
che le pulsioni di quei tedeschi che preferirebbero liberarsi delle «cicale». Ma in tal
caso alimenterà le spinte euroscettiche e germanofobe in Italia. In questo contesto
cresce l’interesse dei decisori germanici a identifcare nel Belpaese interlocutori ai
quali affdarsi per promuovere i propri specifci interessi, se non per orientarne atti-
vamente l’operato. Un compito arduo alla luce dell’estraneazione strisciante e della
crisi del sistema partitico italiano. Vale soprattutto per la CDU/CSU, oggi costretta a
interessarsi alla Lega. Agli occhi di cristiano-democratici tedeschi e cristiano-sociali
bavaresi diventa quindi geopoliticamente rilevante la capacità di Draghi di rendere
il Carroccio accettabile nel contesto europeo.
Il dialogo tra i due partiti è iniziato da alcuni anni ma è sempre rimasto bloc-
cato a seguito delle infessibili richieste tedesche agli italiani di rompere ogni rap-

17. L. STEINMANN, «La Germania fa la morale all’America», Limes, «L’impero nella tempesta», n. 1/2021,
pp. 195-205.
204 18. «Heiko Maas: «Souveränität ist mehr als Washingtons Wille»», Deutsche Welle, 28/12/2020.
A CHE CI SERVE DRAGHI

porto con la AfD, senza però offrire nulla in cambio. L’intransigenza cristiano-de-
mocratica nei confronti dei nazional-populisti è una questione sia di forma (la AfD
è esclusa dall’arco costituzionale tedesco) sia di politica domestica. Il progressivo
spostamento della CDU su posizioni progressiste e il conseguente indebolimento
delle sue componenti conservatrici hanno aperto un grosso spazio elettorale a
destra, occupato in gran parte dalla AfD – anch’essa oggi in calo – e recentemente
dalla crescita dei liberali della FDP (8-9%). Nonostante la AfD sia squassata da lotte
intestine tra conservatori e radicali che ne hanno ridotto la forza, essa rimane la
più corposa insidia per la CDU sul lato destro, alimentata dalle recenti batoste elet-
torali dei cristiano-democratici in Renania-Palatinato e nel Baden-Württemberg 19.
Ma soprattutto dalla pesante sentenza del tribunale amministrativo di Colonia che
nel marzo 2021, undici giorni prima delle elezioni nei due Länder, ha momentane-
amente proibito al servizio segreto interno (Bundesamt für Verfassungsschutz) di
classifcare l’AfD come oggetto di speciale osservazione. Il servizio segreto control-
lato dal ministero dell’Interno ha facoltà di spiare tramite intercettazioni e attività di
humint i partiti che classifca estremisti, come nel caso della AfD. La sentenza parla
di ingiustifcata intromissione dell’intelligence nella libera competizione elettorale
e proibisce per ora la classifcazione di tale partito come oggetto di osservazio-
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ne 20. Colpo non indifferente per la CDU/CSU, che sedendo all’Interno controlla
il servizio segreto in questione, sicché viene accusata di avere attivato gli 007 per
minare il proprio concorrente. Ciò segnala che la partita con la AfD non è chiusa.
Permane pertanto l’interesse cristiano-democratico a indebolire la concorrenza in-
terna isolandola al grado europeo. Quindi colpendone i legami con un partito di
governo come la Lega, che la AfD utilizza quale fonte di legittimazione interna. Di
qui la crescente ricerca di dialogo con i leghisti e la sempre più manifesta volontà
tedesca di favorire la separazione tra il partito e Matteo Salvini, che continua a
essere considerato inaccettabile. Il leader leghista viene visto come un pericoloso
nazionalista, autore della conversione in senso nazionale del partito per motivi
ideologici a scapito della componente veneta e nordestina della Lega, percepita
come una CSU all’italiana. Pertanto, i cristiano-democratici tedeschi hanno attivato
i bavaresi per mediare con il Carroccio.
I primi rapporti tra CSU e leghisti risalgono agli anni Novanta, quando l’ideo-
logo «padano» Gianfranco Miglio individuava nella Baviera un modello per il Nord
Italia. I contatti si erano intensifcati alla vigilia del 2000 tra l’entourage di Umberto
Bossi e quello di Edmund Stoiber, ministro-presidente bavarese, indebolendosi
però con il riallineamento leghista a Berlusconi, che rivendicava la titolarità dei
rapporti con la Germania in seno al Ppe. L’odierno ritorno delle attenzioni bava-

19. Con il 27,7% in Renania-Palatinato e il 24,1% in Baden-Württemberg la CDU ha ottenuto i peggiori


risultati della sua storia in entrambi i Länder.
20. A gennaio 2021 la AfD ha depositato presso il tribunale amministrativo di Colonia due ricorsi e due
mozioni urgenti in cui viene chiesto di proibire al servizio segreto interno di classifcarla come oggetto
di osservazione. A marzo il tribunale ha stabilito che il servizio non potrà annunciare tale classifcazio-
ne almeno fno a quando queste sentenze non passeranno in giudicato. Gli sviluppi delle attenzioni
degli 007 sui populisti dipenderanno quindi in gran parte dalle prossime sentenze defnitive. 205
DI DRAGHI BERLINO NON SI FIDA

resi alla Lega conferma quanto robusto sia l’interesse di almeno quella parte dei
conservatori germanici per il principale partito italiano. «Se la Lega italiana dovesse
identifcarsi con un corso chiaramente europeista allora si potrebbe per lo meno
parlare di una sua partecipazione al Ppe. Questo non è però imminente», ha detto
Daniel Caspary, capogruppo della CDU/CSU al Parlamento europeo 21.
Ma la CDU in crisi, nella fase fnale del tramonto merkeliano, è indecisa se
dotarsi di profondità strategica e dunque di spingere la Germania alla sfda geopo-
litica con l’impero americano oppure se continuare a nascondersi dietro il rigori-
smo monetario della Bundesbank, vestita del giallo-blu comunitario. Se i tedeschi
si lamentano di non riuscire a capire ciò che avviene a sud delle Alpi, anche per
gli italiani (e per tutti gli altri) diventa molto arduo comprendere come si posizio-
nerà la Germania con una CDU così incerta, ammesso che riesca a conservare la
cancelleria nella prossima legislatura.
Prima di interrogarsi su dove andrà l’Italia bisogna dunque chiedersi: dove vuo-
le andare la Germania? Più che l’attuale governo Draghi, la grande incognita dell’Eu-
ropa è il governo post-Merkel che uscirà dalle elezioni federali del 26 settembre.

3. Pur guardando all’Italia da una posizione di forza dal punto di vista eco-
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nomico-fnanziario e non solo, la Bundesrepublik cela una profonda vulnerabilità


legata all’incertezza di quale strada imboccare domani. Tentare il salto di qualità
geopolitico oppure continuare a temporeggiare come fatto fnora da Merkel? 22. La
vulnerabilità tedesca si misura in primo luogo nell’incapacità di compattarsi sul
fronte interno e di offrire un’interpretazione condivisa della propria storia, presup-
posto necessario per un soggetto geopolitico virtuoso e pienamente legittimato 23.
Tale debolezza si manifesta nell’estraneità di quote rilevanti della popolazio-
ne germanica al modello politico-culturale saldamente progressista proposto dai
governi Merkel. Di qui la formazione di movimenti politici antisistema e di vere e
proprie società parallele (su base sia etno-religiosa sia ideologica) sul suolo tede-
sco, di cui l’affermazione dei nazional-populisti è solo la parte più visibile, quindi
più controllabile 24. Questa frammentazione interna segnala la debolezza identitaria
della Germania. Dall’immediato rifesso geopolitico. È ormai sotto scacco l’idea di
«potenza civile» sognata negli anni Novanta: ossia di una Bundesrepublik fondata
su una condivisa identità post-storica e occidentale, liberata dai retaggi nazionali,
radicata nei princìpi del multilateralismo, della sicurezza collettiva, del diritto inter-
nazionale e dei diritti umani, svincolata dal pensiero strategico.
Lo sviluppo di un pensiero strategico è oggi necessario per salvaguardare gli
equilibri europei in cui la Bundesrepublik esercita il ruolo di potenza geoecono-
mica condizionante. Per esserne all’altezza la Germania ha bisogno di partner, in
21. P. FRITZ, V. KIRST, C.B. SCHILTZ, «Orbán hat sich verzockt», Die Welt, 21/3/2021.
22. L. STEINMANN, «Il nuovo leader della CDU», limesonline, 18/1/2021.
23. L. STEINMANN, «La crepa, ovvero come la storia divide i tedeschi», Limes, «È la storia, bellezza!», n.
8/2020, pp. 153-168.
24. L. STEINMANN, «La frammentazione interna frena il ritorno della Germania alla piena sovranità», Limes,
206 «Occidenti contro», n. 9/2020, pp. 167-180.
A CHE CI SERVE DRAGHI

quanto «troppo piccola per l’egemonia esplicita e troppo grande per l’equilibrio
autentico» 25. Né potendo più contare sulla certezza dell’aiuto americano, ammesso
sia mai realmente esistito. L’Italia di Mario Draghi diventa così troppo importante
per essere sacrifcata sull’altare del rigore economico di retaggio weimariano.
Un altro elemento di vulnerabilità riguarda la diffusa allergia alla geopolitica
delle élite politiche berlinesi, dal 1945 cresciute nell’ombra americana e abituate
a quella del rigorismo monetario della Bundesbank. Se riapplicato in Italia dopo
la fne dell’emergenza virale, il metro monetario e geoeconomico tedesco alimen-
terebbe però la germanofobia e favorirebbe l’allontanamento italiano dall’area te-
desca. Infiggendo così un duro colpo, forse letale, ai seppur timidi accenni di
risveglio geopolitico a Berlino, necessari a difendersi da eventuali attacchi delle
grandi potenze mondiali. Anzitutto degli Stati Uniti, ma anche di Cina e Russia.
Decisamente troppo per la Bundesrepublik.
Un ulteriore punto debole è la già citata crisi di identità strutturale della CDU/
CSU, che richiede una profonda riforma interna per continuare a essere una
Volkspartei, ossia un grande partito che rappresenti e sintetizzi gli interessi di am-
pie, eterogenee parti del corpo sociale, tra cui anche le conservatrici e reazionarie
(revansciste sul piano geopolitico). Queste ultime non sono mai state completa-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

mente neutralizzate – come avevano invece sperato diversi sostenitori dell’idea di


«potenza civile» – ma rappresentano una parte consistente della società tedesca.
Nel momento in cui la CDU/CSU cessa di rappresentarle si rafforzano i suoi con-
correnti, come avvenuto con la AfD, mettendo in seria discussione l’egemonia
cristiano-democratica. E rafforzando l’insofferenza tedesca nei confronti delle «ci-
cale», dato che i nazionalisti tedeschi martellano la loro intransigente critica nei
confronti dell’Europa del Sud, in ossequio al canone monetario e geoconomico
della Bundesbank.
Da Draghi le élite germaniche vorrebbero insieme riforme strutturali dell’eco-
nomia e annacquamento della vena nazional-populista della Lega. Così da ridurre
la forbice tra rigorismo monetario e accenni di ritorno alla geopolitica. E isolare al
contempo i propri nazional-populisti sul fronte sia domestico sia internazionale.
Forse un po’ troppo.

25. S. KORNELIUS, Angela Merkel. Die Kanzlerin und ihre Welt, Hamburg 2012, Hoffmann und Campe, p. 15. 207
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
FINLANDIA GERMANIA
I MOTORI FRANCESE E TEDESCO Principali partner commerciali
Unione Europea Cina 212,1
Paesi Bassi 172,8
“Campioni europei” SVEZIA Stati Uniti 171,6
Recupero sovranità economico-fscale. ESTONIA Francia 147,7
Cooperazioni selettive per concorrere Polonia 122,9
sui mercati globali Italia 114,4
Svizzera 101,7
Brexit DANIMARCA
LETTONIA Regno Unito 101,6
Austria 100,3
IRLANDA LITUANIA Rep. Ceca 84,0
Export+Import (mld di euro)

PAESI Belgio 80,3


CI REGNO BASSI Spagna 68,9

I
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
UNITO Ungheria 52,1

ER
Russia 45,0

F
BELGIO
Giappone 38,6

RI
POLONIA Svezia 38,1
Fonte: Destatis, 2019

PE
GERMANIA Turchia 36,6
LUSS.
REP. CECA FRANCIA
Principali partner commerciali
SLOVACCHIA
Germania 132,5
FRANCIA Cina 74,2

MERC ATI
Italia 71,5
AUSTRIA Spagna 66,3
UNGHERIA Stati Uniti 63,4
SL. ROMANIA Belgio 63,3
CROAZIA
Regno Unito 44,1
Paesi Bassi 38,7
Svizzera 27,4
CI Polonia 20,6
Export+Import (mld di euro)

PORTOGALLO E RI BULGARIA
IF Turchia 14,1
SPAGNA R ITALIA Giappone 14
PE Russia 10,9
A TI Singapore 9,2
MERC Marocco 9,1
Corea del Sud 8,6
Fonte: Insee, 2019

Eurozona GRECIA Canada 6,2


Sfera geoeconomica tedesca
Mercati integrati nell’apparato
produttivo tedesco
CIPRO
MALTA
Limes germanico
IL LIMES GERMANICO
A U S T R I A
Brennero
(vi transita il 40% di tutto
FRANCIA S V I Z Z E R A Trentino- il trafco merci transalpino
Alto Adige da/per l’Italia)
Bolzano
Veneto Friuli-
Venezia Giulia
Studenti che imparano Lombardia o 54.130
il tedesco a scuola m S L O V E N I A
82.775

Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
za ga Trento
1.079 on er 30.121
M B Vi Tr
Asse veneto pedemontano Valle d’Aosta ce ev
nz is
Provincia di Firenze a o Grado
Territorio di forte Ve Pa C R O A Z I A
interesse ila
no 74.471 scia Lago
e di ro
per i tedeschi Piemonte M
do
Br Garda na va
Tetragono industriale
18.901 27.678
Modena

Emilia - Bologna Ravenna


Asse del Brennero 5.182 Romagna
Cervia
Liguria Rimini
Mete d’elezione Cimitero militare Pesaro
del turismo tedesco germanico della Futa
(Ospita oltre 31 mila soldati tedeschi) Senigallia
Limes
germanico Toscana
in Italia
Prime 4 Regioni Mar Tirreno
6.863 Mar Adriatico
per fusso
22.654
di turisti tedeschi
Marche
Trentino-Alto Adige Umbria
Veneto
Lombardia
Lazio Abruzzo
Toscana ©Limes
KERNEUROPA FINLANDIA
(sotto l’infuenza
tedesca)

SVEZIA FED. RUSSA


ESTONIA
Antagonismo Germania DANIM.
verso Usa e possibile
rappresaglia americana PAESI BASSI LETTONIA
BELGIO LITUANIA
IRLANDA LUSS.
REGNO
UNITO
BIELORUSSIA
Kerneuropa Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

POLONIA
anti-turco GERMANIA

REP. CECA UCRAINA


SLOVACCHIA
FRANCIA SVIZZ. AUSTRIA
UNGH. MOLDOVA
Nord Italia SLOV.
CROAZIA ROMANIA
PORTOGALLO
SPAGNA
BULGARIA
ITALIA

Kerneuropa GRECIA TURCHIA


Catena del valore tedesco
(potenziale area Neuro)

Francia indecisa MALTA


se aderire o meno CIPRO
al Kerneuropa
Kerneuropa conciliante Exclave russe
Polonia teme intesa con la Russia
Kaliningrad
tra Germania e Russia Paesi dell’Unione Europea ©Limes Crimea
LA GERMANIA IN ITALIA Sedi delle prime 19 imprese controllate
da gruppi tedeschi per fatturato (2016)
Province Aziende Fatturato
Trieste Allianz 6.776.608
Milano CreditRas Vita 5.715.850
Milano Verona Volkswagen Group 4.272.368
Verona LIDL Italia 3.695.694
Roma Mercedes-Benz Italia 2.454.764
TRENTINO Milano BMW Italia 2.357.116
-ALTO ADIGE Bergamo Mediamarket 2.050.584
FRIULI Milano Comifar Distribuzione 1.894.762
VALLE -V. GIULIA
Monza Bergamo Milano Metro Italia Cash and Carry 1.678.745
D’AOSTA VENETO
Monza BASF Italia 1.624.781
LOMBARDIA Trieste Terni Acciai Speciali Terni 1.490.085
Roma Merck Serono 1.398.337
PIEMONTE Milano Siemens 1.374.660
Milano Henkel Italia Operations 984.669
EMILIA-ROMAGNA
Bologna Verona Milano Deutsche Bank 949.444
Milano E.On Energia 898.133
LIGURIA Milano Penny Market Italia 897.345
Roma HDI Assicurazioni 883.042
Indice sintetico di Bologna Automobili Lamborghini 872.149
internazionalizzazione
MARCHE
delle province italiane e TOSCANA
incidenza del mercato tedesco Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

UMBRIA
0,000 - 0,006
Terni
0,006 - 0,010
0,010 - 0,040
LAZIO ABRUZZO
0,040 - 0,102
MOLISE
0,102 - 1,900 Roma
PUGLIA
CAMPANIA

BASILICATA

SARDEGNA

CALABRIA

Classifca delle province


in cui la Germania è primo
investitore estero
(per fatturato controllato)
Verona Ferrara
Trieste Biella SICILIA
Bergamo Cremona
Monza Pisa
Bologna Pavia
Terni Sassari
Padova Lecce
Trento Vibo Valentia
Novara Reggio Calabria
Lucca Sud Sardegna
Fonte: Elaborazione in esclusiva per Limes di Unioncamere Emilia-Romagna su dati Bureau van Dijk e Istat
A CHE CI SERVE DRAGHI

LA CINA
TENDE LA MANO
A DRAGHI di YOU Ji e WU Xiangning
Pechino offrirà sostegno all’Italia per contrastare il declino
economico alimentato dall’epidemia di Covid-19. Ma l’influenza
degli Usa su Roma e le connessioni tra il presidente del Consiglio e
Washington limiteranno fortemente la sintonia sino-italiana.

1. L
A REPUBBLICA POPOLARE CINESE ERA A
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

conoscenza del caos in cui versava la politica italiana, ma è stata piuttosto sorpresa
dalla selezione di Mario Draghi quale presidente del Consiglio. In una certa misura,
Pechino ha percepito l’uscita di scena del suo predecessore Giuseppe Conte come
un fattore negativo per le relazioni con Roma. Negli ultimi anni, i due governi han-
no cooperato agevolmente in merito a diversi argomenti controversi e spinosi per
i rapporti sino-europei: le origini dell’epidemia di coronavirus, il tema della tutela
dei diritti umani nel Xinjiang, il futuro di Huawei nell’Ue, gli investimenti cinesi in
Italia nell’ambito della Belt and Road Initiative (Bri, nuove vie della seta) e l’intru-
sione degli Stati Uniti nel rapporto tra Cina e Vecchio Continente.
Non è chiaro quale posizione assumerà Draghi su questi problemi e se preser-
verà gli aspetti positivi del rapporto con Pechino nonostante le crescenti tensioni
tra Usa e Repubblica Popolare. In questo caso, incontrerebbe diversi ostacoli lungo
il cammino. In Europa e in particolare in Italia, la narrazione e le azioni contrarie
alla Cina sono sempre più vigorose.

2. Ci sono diverse ragioni per cui Draghi potrebbe sfruttare la sua saggezza
pratica e la lunga esperienza in campo internazionale per continuare a interagire
positivamente con Pechino.
La prima è che il nuovo presidente del Consiglio è un economista, un leader tec-
nocratico e pragmatico. Secondo diversi analisti cinesi esperti di Unione Europea, la
leadership della Repubblica Popolare reputa Draghi altamente professionale. Quindi
capace di gestire le contraddizioni tra interessi nazionali tangibili e propensioni ide-
ologiche e di anteporre gli obiettivi dello Stato ai guadagni politici dei singoli partiti.
La seconda ragione è che la tragica condizione dell’economia italiana potreb-
be dettare l’ordine della sua agenda di governo e indurlo a mantenere una postura 209
LA CINA TENDE LA MANO A DRAGHI

pragmatica nei confronti della Repubblica Popolare. Cioè quello che ha fatto il
governo Conte, anche se per qualcuno quest’ultimo ha inavvertitamente favorito
l’infuenza cinese nella Penisola. Per esempio, la necessità di investimenti infra-
strutturali ha indotto l’Italia a diventare l’unico membro del G7 a aderire alle nuove
vie della seta nel 2019 malgrado gli Usa e l’Ue diffdassero delle fnalità geopoliti-
che sottintese a tale progetto.
La terza ragione è che Draghi interagisce con la Repubblica Popolare da molto
tempo. Dal 1991 in poi, l’attuale presidente del Consiglio ha guidato diversi enti
economici italiani ed europei. In questo arco di tempo, è stato uno dei più im-
portanti decisori veterocontinentali del settore e i suoi contatti con la controparte
cinese sono stati stretti e produttivi. In particolare, il suo lavoro ha benefciato delle
politiche fscali e monetarie adottate da Pechino tra il 2009 e il 2015 in occasione
della crisi fnanziaria globale. Tra queste spiccano il mantenimento del tasso di
cambio tra euro e renminbi, l’apertura del mercato domestico cinese agli investi-
menti dell’Ue, l’aumento delle importazioni di merci europee e italiane. Su impulso
della Banca centrale europea (Bce), la Cina ha anche iniettato una grande quantità
di liquidità nei paesi veterocontinentali maggiormente colpiti dalla crisi. Pechino
ha adottato un pacchetto di stimoli pari a 4 trilioni di yuan (quasi 600 miliardi di
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

dollari) per potenziare lo sviluppo economico cinese. Una misura parzialmente


accostabile al quantitative easing (Qe) allestito da Draghi quando da presidente
della Bce disse che bisognava salvare l’economia dell’Ue «a qualunque costo». Il Qe
di Pechino ha innescato un’improvvisa e forte domanda che ha aperto il mercato
cinese alle esportazioni europee. Grandi quantità di immobili italiani sono state
acquistate dalla Repubblica Popolare. Anche gli euro nel paniere cinese di riserve
di valuta estera sono aumentati. Ciò non solo ha favorito la stabilizzazione della
moneta europea, ma ha pure accresciuto il suo peso rispetto al dollaro. In quel
periodo Draghi e i banchieri cinesi hanno collaborato per prevenire la bancarotta
dei cosiddetti Piigs, cioè Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Senza contare
che l’attuale presidente del Consiglio ha anche lavorato per Goldman Sachs, socie-
tà nota per i suoi stretti rapporti con la Cina.

3. Tuttavia, l’interazione positiva tra la Repubblica Popolare e Draghi risale a


un periodo in cui le relazioni sino-europee e soprattutto quelle sino-statunitensi
erano decisamente meno tese. Oggi il margine di manovra italiano è inferiore,
complice anche l’epidemia di coronavirus. Inoltre, Pechino deve gestire una forte
infazione e alti livelli di debito. Perciò non vuole adottare il Qe per affrontare la
crisi fnanziaria generata dalla diffusione del Covid-19. Sembra la posizione oppo-
sta a quella sostenuta da Draghi per rilanciare l’Italia.
Il presidente del Consiglio ha bisogno di dimostrare prima possibile la sua
capacità di guidare il paese. Se ci riuscirà sarà ricordato come uno dei leader
più importanti nella storia italiana dopo la guerra fredda, oltre che come uno dei
migliori presidenti della Bce. La cooperazione con la Cina sarebbe propedeutica
210 al superamento delle diffcoltà incontrate da Roma, quindi dovrebbe avere un
A CHE CI SERVE DRAGHI

ruolo importante nella strategia di Draghi. In cima alle sue priorità vi è il controllo
dell’epidemia, proposito che potrebbe alimentare la collaborazione con Pechino.
La Penisola è stata colpita duramente dal virus (ivi si contano oltre 100 mila morti)
e ciò alimenta la pressione sull’esecutivo. La diffusione della malattia non è solo
un problema sanitario, ma una seria minaccia alla sicurezza nazionale. Se Draghi
riuscirà a trainare il paese fuori da questa situazione dimostrerà la sua leadership.
In caso contrario, l’attuale governo durerebbe poco. La seconda priorità di Roma è
contrastare la recessione stimolata dell’epidemia. Da questo punto di vista l’Italia è
uno dei paesi dell’Ue che versa nelle condizioni peggiori.
Draghi è concentrato su tali problemi anziché sulla sfda rappresentata dalla
Repubblica Popolare, anch’essa focalizzata sul contenimento dell’epidemia e sulla
stabilità domestica. Per il presidente cinese Xi Jinping quest’ultimo argomento è
cruciale. Lo dimostra il fatto che il premier Li Keqiang lo abbia menzionato 64
volte nel suo rapporto durante la quarta sessione del XIII Congresso nazionale del
popolo, svoltosi dal 5 all’11 marzo 2021. I preparativi per il centesimo anniversario
della fondazione del Partito comunista cinese (1° luglio 2021, n.d.t.) sono in corso.
Intanto tengono banco argomenti politici delicati, come il terzo mandato di Xi alla
guida del paese. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

Draghi non può esimersi dal pensare alle conseguenze strategiche del rappor-
to con la Repubblica Popolare. Per Pechino le tensioni sino-europee sono il frutto
del risentimento anticinese provato dai politici del Vecchio Continente. Inclusi i
parlamentari dell’Ue e dell’Italia, preoccupati da temi quali Xinjiang, Hong Kong,
Taiwan, dall’impatto dell’ascesa cinese sull’ordine democratico-liberale e dallo
scontro tra civiltà. È presumibile che a causa della pressione domestica e straniera
il leader italiano attenui la partecipazione del suo paese alla Bri e diventi più cauto
verso le offerte economiche della Repubblica Popolare. Tuttavia, Pechino ritiene
che Roma non chiuderà completamente le porte agli investimenti infrastrutturali
cinesi fno a quando l’Italia mostrerà carenze in tale settore. Se queste dinamiche
consentissero a Xi e a Draghi di stabilizzare le relazioni bilaterali rapidamente, ci
sarebbero le condizioni per lo svolgimento di un nuovo vertice sino-italiano nel
2022. In quel caso, le relazioni tra i due governi non si concentrerebbero sul tema
della tutela dei diritti umani, sebbene nuove critiche a Pechino su questo fronte
siano scontate. La Cina farà il possibile per agevolare tale sviluppo.

4. In corrispondenza delle recessioni registrate negli ultimi anni, l’Occidente


ha allentato la pressione geostrategica verso la Cina per sollecitarne la collabora-
zione economica. Anche stavolta, gli interessi di parte potrebbero avere la meglio
sulla rivalità tra potenze e sul confitto ideologico. Dopo tutto nessun leader può
ignorare il fatto che la Repubblica Popolare sia il motore principale della crescita
economica globale. Tantomeno un capo di governo che deve scongiurare la reces-
sione. Inoltre, il sostegno cinese nella gestione di dossier chiave quali il cambia-
mento climatico e il controllo dell’epidemia di coronavirus facilita i piani dell’Ue e
in particolare dell’Italia. Il ridimensionamento delle tensioni geopolitiche su scala 211
LA CINA TENDE LA MANO A DRAGHI

globale consentirebbe a Roma di attuare più agevolmente i suoi piani interni e di


affermare la propria visione strategica in Europa.
Quest’ultimo proposito è in cima all’agenda di politica estera di Draghi. La
sua familiarità con il contesto comunitario e la sua rete personale di conoscenze
nel Vecchio Continente gli consentono di proteggere correttamente gli interessi
italiani. Il superamento delle contraddizioni legate al rapporto con la Cina è proba-
bilmente la seconda priorità. Ciò signifca massimizzare i vantaggi derivanti dall’in-
terazione con Pechino (vedi preservare la collaborazione economica sino-italiana)
e allo stesso tempo rendere conto in maniera reattiva alle pressioni dell’opinione
pubblica domestica e dei paesi stranieri (Usa in particolare) su Roma affnché agi-
sca duramente contro la Repubblica Popolare. Se Draghi riuscisse a conciliare tutti
questi fattori guadagnerebbe credito in patria e all’estero.
È diffcile avere la botte piena e la moglie ubriaca. Il leader italiano deve fare
anche i conti con il bisogno di preservare il consenso del parlamento pur non
avendo alcuna affliazione partitica. Ciò limita la sua capacità di coordinamento
delle forze all’interno del panorama politico italiano e quindi lo sviluppo di una
strategia coerente nei confronti della Cina.
L’epidemia di Covid-19 (il cui primo focolaio è scoppiato a Wuhan, n.d.t.) ha
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

acuito la percezione negativa della Repubblica Popolare nell’emisfero occidentale.


La pressione di Washington sui propri alleati affnché agiscano insieme contro Pe-
chino è aumentata. Per loro è diffcile non schierarsi, anche se alcuni vorrebbero
fare l’opposto di quanto chiesto dalla Casa Bianca.
Né l’Italia può neanche svicolare totalmente la propria politica verso la Cina
da quella attuata da Bruxelles. A Draghi saranno posti vari quesiti. Il trattamento
degli uiguri nel Xinjiang può essere defnito «genocidio» come ritengono gli Usa
e alcuni suoi alleati? Roma imporrà sanzioni contro Pechino perché ha riformato
il sistema elettorale di Hong Kong? Fino a che punto l’Italia aderirà alla crociata
tecnologica di Washington contro Huawei? Il governo italiano si opporrà come
altri paesi dell’Ue alle nuove vie della seta per ostacolare l’aumento dell’infuenza
cinese in Eurasia? La lista delle domande potrebbe essere anche più lunga. Le
mani di Draghi sarebbero legate anche se preferisse un approccio morbido verso
Pechino al fne di tutelare l’economia italiana. In quel caso raggiungerebbe obiet-
tivi non all’altezza delle aspettative sue e del governo cinese.
Inoltre, il triangolo Roma-Washington-Pechino costringe il leader italiano ad
affrontare le proprie contraddizioni interiori tra sentimento individuale, interesse
nazionale, forte infuenza della sua esperienza professionale sulla visione del
mondo e preferenze personali configgenti con le esigenze pubbliche. La Cina sa
bene che Draghi ha forti connessioni con gli Usa grazie al suo dottorato al Mit e
alla sua prolungata collaborazione con governo, istituzioni e individui americani
quando era alla Bce. Per lui non è diffcile scegliere tra America e Cina quando
si tratta di prendere decisioni strategiche. Washington verrebbe sempre prima.
Non bisogna chiedersi quanto il leader italiano sia flostatunitense, ma come ciò
212 si combina con gli interessi del suo paese e quindi anche con un rapporto funzio-
nale con la Repubblica Popolare.
A CHE CI SERVE DRAGHI

I POLI DI HUAWEI E ZTE


E LE PRINCIPALI BASI USA/NATO

Milano
Area di test in collaborazione
con Vodafone L O M B A R D I A
PIEMONTE Segrate
Centro globale di ricerca
Torino e sviluppo per la tecnologia
Sperimentazione con Vodafone wireless 5G
per estendere la copertura
della rete 5G

Aree di test in collaborazione


con Open Fiber e Wind 3
Prato (controllata al 100%
Firenze dalla cinese Hutchison)

TOSCANA
(Pisa-Livorno)
Centro d’innovazione e ricerca
per la sperimentazione del 5G,
in collaborazione con l’Università
dell’Aquila, presso il Tecnopolo d’Abruzzo
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
L’Aquila Area di test in collaborazione
LAZIO con Tim e Fastweb
ABRUZZO (investimento di 60 milioni
di euro in 4 anni
ROMA e coinvolgimento
Telecamere di sicurezza di 52 partner)
Huawei installate al Colosseo PUGLIA
e in futuro a piazza Vittorio Bari
e nel quartiere San Lorenzo;
laboratorio Zte per la
sicurezza cibernetica Matera
BASILICATA
SARDEGNA

Poli di Huawei
Poli di Zte
Cagliari
Pula Principali basi e comandi Usa
Centro per l’innovazione congiunto e Nato in Italia
sulle smart and safe cities,
in collaborazione con il Centro di ricerca,
sviluppo e studi superiori in Sardegna (Crs4)

SICILIA
Catania
Centro per l’innovazione
in collaborazione con Tim
Niscemi
Muos - Comunicazioni satellitari

5. Draghi sarà meno cordiale di Conte, ma per Pechino resta il migliore poli-
tico italiano con cui interloquire. Nessuno tra gli esperti che abbiamo intervistato
per la realizzazione di questa analisi ritiene che il nuovo capo di governo italiano
seguirà l’esempio del premier australiano Scott Morrison, fedele seguace della
politica anticinese di Washington malgrado sia dannosa per l’interesse economico
del suo paese. 213
LA CINA TENDE LA MANO A DRAGHI

Pechino ritiene che Draghi intenda concentrarsi sugli obiettivi pratici anziché
operare sulla base dell’impulso ideologico. Insomma potrebbe seguire un approc-
cio alla Cina più razionale, sottile e «italiano»; per certi versi simile a quello della
cancelliera tedesca Angela Merkel. Per esempio, potrebbe evitare di discutere il
tema dei diritti umani, di utilizzare il commercio come arma negoziale e di san-
zionare individui e istituzioni cinesi. È improbabile che Roma abbracci in maniera
smaccata il tentativo di Biden di plasmare una coalizione coesa per bloccare l’a-
scesa della Cina.
Pechino cercherà di neutralizzare il piano di Washington consolidando i rap-
porti con gli alleati dell’America, soprattutto sul piano economico. La Repubblica
Popolare è il più grande partner commerciale di tutti i soci chiave della Casa
Bianca. Ha forgiato con loro un’interdipendenza asimmetrica e li ha attirati verso
di sé, a dispetto delle loro relazioni con gli Usa. Basti pensare al fatto che l’Ue
e in particolare l’Italia trarranno benefcio dall’accordo globale sugli investimenti
(Comprehensive Agreement on Investment, Cai) sino-europeo. Fino a quando ai
partner dell’America converrà interagire con la Repubblica Popolare, gli sforzi di
Washington per contrastare Pechino con una coalizione transatlantica non avranno
pieno effetto. L’attuale postura dell’Italia e dell’Ue sta di fatto smussando il multi-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

lateralismo selettivo defnito da Biden in chiave anticinese. Roma e Bruxelles sono


state testimoni di fratture strutturali all’interno della Nato durante l’amministrazione
del presidente Usa Donald Trump. Ci vorrà tempo prima che queste guariscano.
Inoltre è in corso un processo parallelo: le principali potenze veterocontinentali
cercano di dipendere meno dagli Usa. Insomma, il livello di pressione su Pechino
non è così forte e ingestibile come sembra.
Non è ancora noto cosa Xi proporrà a Draghi. In linea di massima, il presiden-
te cinese continuerà a inquadrare il rapporto con Roma nell’ambito della propria
agenda europea. È lecito aspettarsi che Pechino offra sostegno all’Italia nella lotta
al coronavirus. La Repubblica Popolare produce l’80% dei princìpi attivi impiegati
nell’industria farmaceutica. Farà leva sul ruolo essenziale nella fornitura globale
di materiale sanitario per agevolare la produzione e la distribuzione dei vaccini
nell’Ue e nella Penisola. Sul piano economico, la Cina potrebbe acquistare dall’Ita-
lia più beni (automobili e prodotti agricoli) e servizi (come turismo e istruzione) e
proporre nuovi investimenti. In più è probabile che cerchi di non alimentare l’im-
peto della coalizione a guida Usa. Pechino farà del suo meglio anche per allentare
la tensione nel Xinjiang e a Hong Kong. Ciò a sua volta affevolirebbe la pressione
di coloro che in Italia e all’estero vogliono che Draghi adotti misure più dure verso
la Repubblica Popolare.

(traduzione di Giorgio Cuscito)

214
A CHE CI SERVE DRAGHI

VISTO DA WASHINGTON
DRAGHI È RARO
MA NON UNICO di Eric R. TERZUOLO
L’America è abituata all’incostanza della politica italiana. Biden
e la sua squadra hanno accolto bene il nuovo premier, ma non lo
considerano l’uomo della Provvidenza. Se non durasse, pazienza.
Purché l’Italia resti filoatlantica e democratica.

1.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c

P
ER AFFRONTARE L’ATTUALE CRISI POLITICA,
economica e sanitaria l’Italia ha chiamato il proprio cittadino più stimato e credibile
su scala europea, forse mondiale: Mario Draghi. Il 12 febbraio il New York Times ti-
tolava: «Un gigante dell’Europa» 1 si prepara ad assumere la presidenza del Consiglio.
Un mese dopo, il Financial Times – di norma non tenero verso l’Italia – segnalava
con soddisfazione un’erosione dell’antieuropeismo che connota i populisti italiani 2.
Ma Draghi non ha vita facile. Giocarne la carta è stata una mossa drammatica,
che comporta dei rischi. È lecito, ancorché spero prematuro, chiedersi cosa sarebbe
dell’Italia nella sfera internazionale se fallisse. Amici e alleati si augurano di trovare
un’Italia quanto più solida, effciente e incisiva: sotto questo proflo, la scelta di
Draghi suscita ottimismo, o quantomeno speranza. Cosa si aspetta dal nuovo pre-
mier il governo statunitense? Quali le possibili conseguenze di un suo fallimento
sui rapporti tra Washington e Roma? Posso soltanto azzardare un ragionamento
personale, basato sull’esperienza. Nessun messaggio uffcioso, tra le righe.
Joe Biden si è congratulato con Draghi il 14 febbraio via Twitter 3. Il suo «I look
forward to working closely with you» è stato reso dall’Agi con: «Non vedo l’ora di
lavorare a stretto contatto con lei». Tale formulazione può sottendere una velata
critica al predecessore Conte, ma la escluderei. Il senso del messaggio inviato dal
presidente americano è che si augura e prevede di avere con Draghi uno stretto
rapporto di collaborazione, come si addice ad alleati di lungo corso. Un segnale di
continuità e di fducia, non di compiacimento per la «svolta» politica italiana. Pre-

1. J. HOROWITZ, «A Giant of Europe Prepares to Head Italy’s New Unity Government», The New York
Times, 17/2/2021.
2. M. JOHNSON, D. GHIGLIONE, «Italian politics begins to learn to love Europe again», Financial Times,
18/3/2021.
3. twitter.com/POTUS/status/1361051528614789123 215
VISTO DA WASHINGTON, DRAGHI È RARO MA NON UNICO

vedibile e rassicurante pure l’ordine del giorno segnalato dalla Casa Bianca: appro-
fondire ulteriormente il rapporto bilaterale, collaborare durante la presidenza italia-
na del G20, affrontare insieme le sfde globali, dal Covid-19 al clima.
Rassicuranti i successivi contatti tra il segretario di Stato Tony Blinken 4 e il
consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan 5 e le controparti italiane: il ti-
tolare degli Esteri Luigi Di Maio e il consigliere diplomatico di Draghi, l’ambascia-
tore Luigi Mattiolo. Blinken si è trovato il 22 febbraio a comunicare le condoglian-
ze degli Stati Uniti per l’uccisione in Congo dell’ambasciatore italiano Luca Attana-
sio, cordoglio ribadito il 2 marzo da Sullivan. Blinken e Sullivan hanno sollevato
altri argomenti: il sostegno alla coalizione contro lo Stato Islamico (Is) e alle auto-
rità transitorie incaricate di guidare la Libia fno alle elezioni del prossimo dicem-
bre. Con Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito, l’Italia ha infatti sottoscritto
l’11 marzo una dichiarazione 6 di sostegno alle nuove autorità libiche e una con-
danna 7 di determinate azioni dei ribelli õûñø nello Yemen. Roma fgura insomma
tra i principali alleati degli Stati Uniti.
Non si scorgono a Washington attenzione o preoccupazione particolari per il
rapporto bilaterale con Roma, ovvero per lo scenario italiano interno. E non perché
ora a Palazzo Chigi sieda Draghi: il rapporto Italia-Stati Uniti è in prima istanza un
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rapporto tra Stati e fnché permane una generale compatibilità tra i due paesi esso
non vedrà sostanziali modifche. L’Italia è tra i pochi paesi con cui l’America abbia
un rapporto a 360 gradi, il che conferisce allo stesso grande stabilità, proteggendo-
lo dalle futtuazioni politiche – a Washington come a Roma.

2. I rapporti bilaterali con i principali alleati e amici non sembrano comun-


que in cima alle priorità della nuova amministrazione. Molto più urgente è affron-
tare Cina e Russia, i grandi rivali che puntano a una revisione del sistema inter-
nazionale. La Interim National Security Strategic Guidance diffusa a marzo 8 sot-
tolinea (a pagina 8) il forte revisionismo cinese; il primo incontro ministeriale con
la Cina è andato molto male 9. Un recente documento dell’intelligence americana
si sofferma invece sull’ingerenza russa nella politica interna statunitense 10. Quan-
do è stato pubblicato, Biden ha defnito Vladimir Putin un «assassino» (killer) in
un’intervista 11.

4. «Secretary Blinken’s Call with Italian Foreign Minister Di Maio», U.S. Department of State, 22/2/2021.
5. «Statement by NSC Spokesperson Emily Horne on National Security Advisor Jake Sullivan’s Call
with Luigi Mattiolo, Diplomatic Advisor to the Italian Prime Minister», The White House, 2/3/2021.
6. «Joint Statement by France, Germany, Italy, the United Kingdom, and the United States on an Inte-
rim Government of National Unity in Libya», U.S. Department of State, 11/3/2021.
7. «Joint Statement of the Governments of France, Germany, Italy, the United Kingdom, and the Uni-
ted States of America on Houthi Attacks», U.S. Department of State, 11/3/2021.
8. Interim National Security Strategic Guidance, The White House, marzo 2021.
9. D. SEVASTOPULO, T. MITCHELL, «US and China trade barbs at start of Alaska meeting», Financial Times,
19/3/2021.
10. «Foreign Threats to the 2020 US Federal Elections», National Intelligence Council, Intelligence
Community Assessment, 10/3/2021.
11. B. GITTLESON, «Biden talks Cuomo, Putin, migrants, vaccine in ABC News exclusive interview», ABC
216 News, 17/3/2021.
A CHE CI SERVE DRAGHI

LE BASI USA/NATO IN ITALIA


Collegamento
funzionale tra basi
Aviano N.B.: Molte basi
Camp Ederle sono composte
(Vicenza) - Usaraf da più infrastrutture
Ghedi - Esercito nella stessa zona

Presenza militare Usa di circa


15 mila unità, compreso
il personale civile impiegato
Centro La Spezia presso il dipartimento
ricerche della Difesa.
Il presidente Biden ha sospeso
il piano di ritirare il contingente
Camp Darby
Usa dalla Germania
(Pisa-Livorno)
e di riposizionarne una parte
in Italia annunciato dalla
precedente amministrazione
Trump.

Defense
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Roma
College

Gaeta
- Allied JFC Napoli
- Navaf
- Marina

VI Flotta

Principali basi concesse agli Usa


Base italiana con limitata presenza Usa
Comandi o infrastrutture Nato Sigonella
Presenza di bombe nucleari (Aeronavale)
Augusta (Navale)
Aeronautica Usa Niscemi
Marina Usa (Muos - Comunicazioni
satellitari)
Esercito Usa
©Limes
Fonte: Dipartimento della Difesa Usa (settembre 2020)

Per affrontare tali sfde, la Casa Bianca cerca la solidarietà dei paesi democra-
tici, espressa in prima istanza attraverso le collaborazioni multilaterali. Non a caso
il primo vertice 12 multilaterale di Biden è stato con Australia, Giappone e India
(nell’ambito del Quadrilateral Security Dialogue, Quad) per coordinare le politiche

12. J. RUWITCH, M. KELEMEN, «Biden and “Quad” Leaders Launch Vaccine Push, Deepen Coordination
Against China», National Public Radio, 12/3/2021. 217
VISTO DA WASHINGTON, DRAGHI È RARO MA NON UNICO

riguardo alla Cina. La successiva missione in Giappone e in Corea del Sud del se-
gretario di Stato Blinken e del segretario alla Difesa Lloyd Austin 13 aveva lo stesso
scopo. In Asia manca l’equivalente di Nato e Unione Europea, i meccanismi di
cooperazione per affrontare Pechino sono ancora in cantiere.
Molto più consolidate le istituzioni europee e transatlantiche. La Interim Natio-
nal Security Strategic Guidance promette un rinnovato impegno verso l’Europa,
dove l’America conserverà una signifcativa presenza militare. Tra i primi colloqui
internazionali di Biden dopo l’insediamento c’è stato infatti quello con il segretario
generale della Nato Jens Stoltenberg 14. Indicative anche le iniziative per mettere fne
alla guerra commerciale con l’Europa iniziata da Donald Trump 15. In un momento
dove preme segnalare modifche sostanziali alla politica estera americana, sfruttare
le geometrie multilaterali ha senso. Ma in condizioni normali, i rapporti multilaterali
e bilaterali scorrono su binari paralleli. E questo dovrebbe manifestarsi col tempo.
Non sappiamo esattamente quali sfde Italia e Stati Uniti si troveranno ad af-
frontare insieme nel prossimo periodo. Biden e la sua squadra sono per certi versi
innovativi, specie sotto il proflo dello stretto collegamento tra politica estera e si-
tuazione interna statunitense 16. La politica estera deve servire gli interessi del ceto
medio americano, favorendo le esportazioni e in tal modo creando lavoro. Non si
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può escludere che ciò porti a qualche attrito con paesi amici ma concorrenti sul
piano commerciale. Non sembrano però all’orizzonte grosse modifche delle rela-
zioni tra Stati Uniti e Italia.
Le decisioni diffcili e sgradite a molti che il governo Draghi sta prendendo pa-
lesano tuttavia il rischio di sconvolgimenti politici sul versante italiano prima della
fne naturale della legislatura, nel 2023. Quale potrebbe essere l’impatto sui rapporti
con gli Stati Uniti di un’ennesima crisi di governo che ponga fne all’esecutivo Dra-
ghi? Dipenderebbe dalla natura della crisi. In Italia ci sono crisi politiche «ordinarie»
e «straordinarie». Del primo tipo ne abbiamo viste moltissime dal secondo dopoguer-
ra: sono crisi risolvibili con rimpasti di governo o cambiamenti della maggioranza
che lo sostiene, anche signifcativi. Ma non mettono a rischio il sistema politico-isti-
tuzionale, non comportano il rifuto delle regole (anche non scritte) e dei valori
fondamentali. Nell’ottobre 1998 l’arrivo a Palazzo Chigi di Massimo D’Alema, un ex
comunista, poteva apparire una svolta drammatica, ma l’avvicendamento avvenne
nel pieno rispetto delle norme e della prassi politiche e fu ben accolto a Washington.

3. Un fallimento politico di Draghi, che per inciso non auspico, potrebbe


assumere la veste di una crisi ordinaria. Dati il peso dell’individuo e le grandi at-
tese si tratterebbe di un brutto colpo, al livello sia interno sia europeo, ma non

13. «Travel to Tokyo, Seoul, and Anchorage, March 15-19, 2021», U.S. Department of State, marzo
2021.
14. «Readout of President Joseph R. Biden, Jr. Call with Secretary General Jens Stoltenberg of NATO»,
The White House, 26/1/2021.
15. «U.S. and EU agree to suspend tariffs amid hopes of a “fresh start” from the bruising Trump trade
wars», The Associated Press, 6/3/2021.
218 16. J.R. BIDEN JR., «Why America Must Lead Again», Foreign Affairs, marzo-aprile 2020.
A CHE CI SERVE DRAGHI

cambierebbe necessariamente i fondamenti del rapporto Stati Uniti-Italia. A Wa-


shington anche i funzionari non esperti di cose italiane sanno che dopo Mussoli-
ni l’Italia ha avuto un gran numero di governi, senza per questo ricadere nel fa-
scismo e restando amica degli Stati Uniti. Non sembra molto, ma basta a vaccina-
re i governi americani dai virus politici italiani. Qualche pezzo grosso chiede a un
certo punto se muterà qualcosa con il cambio di esecutivo in Italia. Finché la ri-
sposta è «non molto», i dicasteri si tranquillizzano e preparano il messaggio di
congratulazioni al nuovo presidente del Consiglio. Le cose erano diverse quando
in Italia c’era un Partito comunista forte e in grado di aspirare a una vittoria elet-
torale decisiva, ma si tratta di preistoria.
Draghi, persona nota e molto stimata negli Stati Uniti, potrebbe ritrovarsi tra le
numerose vittime di un sistema politico sicuramente democratico e rappresentati-
vo, ma cronicamente incapace di creare e sostenere governi duraturi, incisivi. È
possibile che nei corridoi di Washington risuoni qualche «poor Mario», ma non
pare concepibile che l’arrivo di un nuovo presidente del Consiglio, scelto per vie
ordinarie, incrini sostanzialmente i rapporti bilaterali.
Per dovere di completezza occorre considerare l’ipotesi di una crisi «straordi-
naria», tale da mettere a rischio l’attuale sistema politico e istituzionale italiano. La
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ritengo improbabile, non credo che l’Italia repubblicana sia all’ultima spiaggia. Ma
certo uno scenario di drammatica esasperazione e crollo di fducia nel sistema po-
litico e nelle istituzioni, con conseguente ricerca di nuove soluzioni, desterebbe
preoccupazione e incertezza in America. Ai governi stranieri, incluso quello statu-
nitense, interessa poco se gli italiani votino con il proporzionale, l’uninominale o
in altro modo: sono tutti sistemi compatibili con la democrazia. Ma forse gli eletto-
ri sono stuf di bricolage istituzionale e cercano rimedi più drastici.
Qualora una crisi del governo Draghi sfociasse in un tentativo su vasta scala di
ridisegnare il sistema politico, le istituzioni e la sottostante flosofa politica del
paese, entreremmo nel campo dello straordinario. Tale scenario imporrebbe non
soltanto agli Stati Uniti, ma a tutti gli amici e gli alleati dell’Italia una seria rifessio-
ne. La domanda sarebbe semplice: «L’Italia è ancora una democrazia?» Domanda
lecita, perché su basi legali (nel caso dell’Ue) e politiche (in ambito Nato) la soli-
darietà è fondata sulla condivisione di valori e norme fondamentali.
È forse comprensibile che chi, come il sottoscritto, ha vissuto il recente tenta-
tivo di sovvertire la democrazia negli Stati Uniti sia particolarmente sensibile alla
vulnerabilità della stessa nell’attuale frangente storico. In America la lotta per difen-
dere la democrazia è tuttora in corso, anche se per almeno quattro anni avremo
alla Casa Bianca un democratico (con la «d» minuscola).
Di fondo, credo al sincero spirito democratico della maggioranza degli italiani,
ma se sciaguratamente l’Italia decidesse di superare i limiti della democrazia si
troverebbe in grave diffcoltà nei rapporti internazionali, a cominciare da quelli con
gli Stati Uniti. Al momento appaiono comunque molto più probabili un prosegui-
mento del governo Draghi o un’eventuale crisi sgradevole ma «ordinaria». Dubito
seriamente che a Washington qualcuno tema, al momento, uno scenario diverso. 219
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FABRIZIO AGNOCCHETTI - Analista fnanziario indipendente. Già analista di macroecono-
mia e geopolitica, consulente agli investimenti e partner di Sgr indipendente.
ROSARIO AITALA - Presidente di Sezione della Corte penale internazionale. Consigliere
scientifco di Limes. Professore di Diritto internazionale penale alla Luiss Guido
Carli.
LUCA BERGAMO - Già vicesindaco e assessore alla Crescita culturale di Roma.
EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sa-
pienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Geografa e di Geopolitica. Consi-
gliere scientifco di Limes.
SABINO CASSESE - Giudice emerito della Corte costituzionale.
ALBERTO DE SANCTIS - Giornalista, consigliere redazionale e responsabile per la geopo-
litica dei mari di Limes, analista presso l’uffcio Analisi & strategie di Utopia.
LUCA DI SCIULLO - Presidente del Centro studi e ricerche Idos.
DARIO FABBRI - Giornalista, consigliere scientifco e coordinatore America di Limes.
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Esperto di America e Medio Oriente.


LARS FELD - Direttore del Walter Eucken Institut e professore all’Università di Friburgo.
MASSIMO LIVI BACCI - Professore di Demografa, Scuola di Scienze politiche Cesare Al-
feri, Università di Firenze.
FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scientifco e responsabile relazioni interna-
zionali di Limes.
TONIA MASTROBUONI - Corrispondente da Berlino per la Repubblica.
FABIO MINI - Generale (r). Consigliere scientifco di Limes.
LORENZO NOTO - Collaboratore di Limes e limesonline.com. Studioso di geopolitica del
Mediterraneo.
IGOR PELLICCIARI - Professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Ur-
bino. Insegna all’Università Mgimo (Mosca) e alla Luiss Guido Carli (Roma). Amba-
sciatore della Repubblica di San Marino nel Regno Hashemita di Giordania.
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MARCO VALERIO SOLIA - Fondatore e presidente di Polikós. Dottorando in Storia contem-
poranea all’Università di Pisa. Saggista, scrive per Coordinamento Adriatico e Ra-
dici nel Mondo.
LUCA STEINMANN - Giornalista e analista geopolitico.
ERIC R. TERZUOLO - Diplomatico statunitense a riposo, dirige dal 2010 il corso sull’Eu-
ropa occidentale presso il Foreign Service Institute. È l’autore di NATO and Wea-
pons of Mass Destruction: Regional Alliance, Global Threats (2006) e Le armi di
distruzione di massa. Cosa sono, dove sono, e perché (2007). 221
GIANFRANCO VIESTI - Professore di Economia applicata all’Università Aldo Moro di Bari.
WU XIANGNING - Assistant Professor presso il dipartimento di Governo e Pubblica am-
ministrazione dell’Università di Macao.
YOU JI - Professore di Relazioni internazionali e capo del dipartimento di Governo e
Pubblica amministrazione, Università di Macao.

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222
La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA

Geopolitica è, nel linguaggio corrente, termine plurisemico. Da intendere in


base al complemento di specifcazione che l’accompagna. A volte sta per «strategia
di un’istituzione statuale» come in «geopolitica della Turchia». Ma può trattarsi an-
che di altra categoria di soggetto collettivo, ad esempio in «geopolitica degli sciiti».
Oppure di soggetto del tutto privo di struttura pubblica, come in «geopolitica del
jihaˉd». Altre volte sta per «confittualità localizzata», alla maniera di «geopolitica del-
la Siria». Altre ancora la specifcazione riguarda l’arma usata, come nell’attualissima
«geopolitica dei vaccini», oppure il dominio spaziale in cui ci si confronta, come in
«geopolitica del mare» o «del ciberspazio». Questo numero di Limes usa un’altra
fattispecie ancora. Con «geopolitica dell’Italia di Draghi» si intende infatti la visione
del mondo da parte di un individuo temporaneamente chiamato a guidare un paese.
Come quelli delle fgure 1, 2 e 3, intenti a progettare i destini dei loro popoli su una
carta geografca. Immagini che attirerebbero l’attenzione di un cultore del metodo
Henrikson per lo studio della politica estera: «Attraverso un’attenta analisi del lin-
guaggio (non solo verbale ma anche visuale) usato nei discorsi pubblici, nelle note
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diplomatiche, nei testi degli accordi internazionali, negli allegati cartografci e altro,
si devono capire i concetti geografci chiave e le relative immagini che (…) gli uomi-
ni di governo più o meno consapevolmente acquisiscono e diffondono quando con-
cepiscono, mettono in opera e giustifcano le loro politiche estere» (A. HENRIKSON,
«The Geographical Mental Maps of American Foreign Policy Makers», International
Political Science Review, vol. 1, n. 4, p. 509).
È coincidenza di buon auspicio per i cultori della disciplina che mentre Mario
Draghi nasceva (3 settembre 1947) vedeva la luce anche la prima opera italiana inti-
tolata Atlante geopolitico (Istituto Geografco De Agostini, 1947). Ma da quel momento
la parola divenne tabù per molti anni. L’ombra oscura della compromissione con i
regimi totalitari del Novecento fece sì che nessuno la usasse più. In nessuna parte del
mondo. In Italia non scampò all’epurazione postfascista, che pure risparmiò tante f-
gure coinvolte con il regime ben più della geopolitica, la quale invece, sventurata,
venne espulsa non solo dall’accademia ma anche dai circuiti dell’informazione.
Ma siccome smettere di studiare la geopolitica non signifca farla scomparire
magicamente dalla pratica politica, tentare di sopprimerla per convenzione risultò
vano. Quindi, dopo un po’, la forza della ragione suggerì all’Istituto Geografco De
Agostini di tornare a usare quel nome e nel 1962 uscì un altro Atlante geopolitico.
Probabilmente il fenomeno che convinse dell’utilità di riproporre agli italiani un
tale vocabolo nel catalogo della popolare casa editoriale fu la decolonizzazione,
che proprio in quegli anni portava all’indipendenza decine di nuovi Stati africani
e asiatici. Non la Libia, però, che l’indipendenza l’aveva ottenuta già nel 1951 per
effetto differito della sconftta del colonizzatore italiano nella seconda guerra mon-
diale e dopo una breve gestione fduciaria inglese (su Tripolitania e Cirenaica) e
francese (sul Fezzan). Così, già nell’edizione del 1947 dell’Atlante geopolitico la ta-
vola della Libia non portava più i segni evidenti della dominazione straniera. 223
La visione dell’altro nell’immaginario collettivo, però, non si cancella di colpo.
Tanto che, ancora nell’edizione del 1962, rimanevano nella carta tracce del fascismo
(fgura 4): sia nelle rivendicazioni a sud, dove la marcata linea viola penetra in un
territorio che non è mai stato Libia, sia nelle reminiscenze toponomastiche latine,
che accanto a Tripoli e Homs riportano i loro epiteti latini di Oea e Leptis Magna.
Segno del profondo processo di familiarizzazione con questo paese che gli italiani
avevano subìto durante quei trentun’anni di colonizzazione. Un paese che essi stessi
avevano letteralmente inventato. Prima nei fatti con una conquista estesa all’intera
costa (fgure 5 e 6), poi anche uffcialmente unendo Tripolitania e Cirenaica in un
governatorato generale (1934). Era così nato un nuovo soggetto politico unitario su
un territorio fno a quel momento, e di nuovo oggi, privo di uno spirito nazionale e
di un potere unifcato. Ma anche successivamente, e perfno dopo la brutale cacciata
nel 1970 di migliaia di italiani lì residenti, Italia e Libia hanno conservato relazioni
intense, quasi sempre amichevoli se non cordiali.
Si potrebbe pensare che sia tutto merito – o colpa secondo opposto punto di vista
– di interessi materiali e diretti. Come l’approvvigionamento energetico e il respingi-
mento dei migranti. Ma nessuno dei due era presente quando la colonizzazione iniziò.
Anzi, la migrazione andava in direzione inversa rispetto a oggi, da nord verso sud, con
piena soddisfazione del governo italiano. Allora se ne deduce che gli interessi materia-
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li sono importanti ma non spiegano da soli la permanenza di rapporti stretti per un


tempo lungo. Perché gli interessi degli esseri umani possono essere molto forti ma non
si conservano tanto a lungo. Sono contingenti e volubili come il loro umore.
Più sensato ricorrere a cause strutturali che si dispiegano nel lungo periodo.
Come la geografa. Perché, anche quando parliamo della «geopolitica dell’Italia di
Draghi», conviene ricordare che «i ministri vanno e vengono, anche i dittatori muo-
iono, ma le catene montuose restano imperturbate» (N. SPYKMAN, America’s Strategy
in World Politics: the United States and the Balance of Power, New York 1942, Harcourt,
Brace and Company, p. 41). La permanenza degli elementi geografci contro le con-
tingenze della personalizzazione della politica riabilita una geopolitica che premia gli
elementi strutturali rispetto ai capricci della cronaca. Italia e Libia sono troppo vici-
ne per trascurarsi. E lo saranno sempre di più visto che il mare, sottoposto a nuove
forme di territorializzazione che ne attribuiscono ampie fasce al controllo sovrano, è
sempre meno barriera e sempre più posta in palio.

Fonte 1: cartolina raffgurante un dipinto di Emmanuel Bachrach-Barée, kol-


lektion Moderne Meister, serie XVII Napoleon, Berlin 1910 circa, Tuck.
Fonte 2: «Il camerata Kim Il Sung, grande Leader, mentre matura il proprio
progetto strategico per dare un grande slancio alla Rivoluzione Coreana», da libro
di propaganda intitolato Kim Il Sung héros légendaire sans égal, P’yŏngyang 1978,
Editions en Langues Etrangéres, senza pagina.
Fonte 3: Nikita Khruščëv di fronte a una grande carta del Piano settennale
1959-1965, da rivista d’epoca.
Fonte 4: L. VISINTIN, «Libia e paesi contermini», da Atlante Geopolitico Univer-
sale, Novara 1947, Istituto Geografco De Agostini, tavv. 126-7.
Fonti 5 e 6: Coppia di cartoline risalenti alla conquista italiana della Libia,
224 1911-12.
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