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Rivista mensile n. 8/2023 (agosto)
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LE GIORNATE DEL MARE
LA GUERRA IV EDIZIONE
NAPOLI
CAMBIA IL MARE PALAZZO REALE, PIAZZA DEL PLEBISCITO 1
16/17 SETTEMBRE 2023
PROGRAMMA

SABATO 16 SETTEMBRE Ore 18.00


Il mare bagna Napoli. L’importanza di essere Tirreno.
Ore 10.00 Con Vincenzo De Luca, Andrea Annunziata, Gaetano Manfredi
Inaugurazione mostra cartografica “Linee d’acqua” di Laura Canali e Paolo Peluffo. Modera Lucio Caracciolo

Ore 10.45
Relazione introduttiva di Lucio Caracciolo
su “La guerra cambia il mare” DOMENICA 17 SETTEMBRE

Ore 11.30 Ore 10.00


Le lezioni della guerra per il mare. Con l’Ammiraglio Aurelio Una strategia per il Medioceano. Conversazione tra Lucio
De Carolis, l’Ammiraglio Thomas E. Ishee (tbc), Caracciolo e l’Ammiraglio Enrico Credendino, Capo di Stato
alto rappresentante francese (tbc). Modera Federico Petroni Maggiore della Marina Militare

Ore 15.00 Ore 10.45


A che ci serve il mare. Con il Generale Claudio Graziano, Migrazioni: l’importanza dello Stretto di Sicilia. Con l'Ammiraglio
Mario Mattioli, Riccardo Rigillo, Massimo Deandreis. Sergio Liardo, Kader Abderrahim, Roberto Tottoli e Maurizio
Modera Fabrizio Maronta De Giovanni. Modera Germano Dottori

Ore 16.30 Ore 12.00


La partita per i fondali: risorse sottomarine, infrastrutture A che serve la Nato. Con Daniele Santoro, Olivier Kempf, Michael
energetiche, cavi in fibra ottica, dimensione militare. Miklaucic e Orietta Moscatelli. Modera Lucio Caracciolo
Con Fabrizio Mattana, l’Ammiraglio Vito Lacerenza, Giuseppe
Cossiga, Fabio Panunzi Capuano. Modera Giorgio Cuscito

Un grato saluto ai nostri lettori

IN COLLABORAZIONE CON
SOMMARIO n. 8/2023

EDITORIALE
7 La linea della palma

PARTE I LE AFRICHE IN RIVOLTA

35 Rahmane IDRISSA - Il golpe contro la Francia non salverà il Niger


51 Lamine SAVANÉ - Quel che noi francesi non abbiamo voluto capire
57 Leslie VARENNE - La Françafrique è morta a Niamey
67 Jean-Baptiste NOÉ - Africa sì, Africa no: Parigi si dilania
(in appendice: Nahel e dintorni: geogra!a dei moti francesi)
79 Mario GIRO - Perché Macron non riesce a farla !nita
con la Françafrique
87 Marc-Antoine PÉROUSE DE MONTCLOS - Eserciti come milizie
milizie come eserciti
97 Mauro ARMANINO - ‘Qui comanda la sabbia’
103 Luca RAINERI - Sotto la pelle del golpe (in appendice:
Giacomo MARIOTTO - Perché il Niger fa gola)
113 Carlo Alberto CONTARINI - L’Ecowas secondo la Nigeria
121 Benoît BARRAL - Il putsch in Gabon e il tramonto
della Françafrique
125 Luciano POLLICHIENI - Le Afriche giocano per sé
(in appendice: Alessandro COLASANTI - All’Onu gli africani
non sono occidentali né russi)
133 Giulio ALBANESE - Quo vadis Africa?
143 Giorgio ANGELI - I tesori insanguinati di Cabo Delgado
153 Wolfgang PUSZTAI - In Libia di male in peggio
159 Ester SIGILLÒ - La Tunisia di Saïed guarda ai Brics

PARTE II OCCIDENTI SBANDANO, RUSSIA GODE, TURCHIA PROFITTA

167 Fabrizio MARONTA - Smettiamo di giocare ai piccoli francesi


175 Tibor NAGY - ‘L’Africa è strategica per gli Stati Uniti,
ma non la capiamo’
181 Giorgio CUSCITO - Il caos saheliano danneggia la Cina
189 Orietta MOSCATELLI - Il senso di Putin per l’Africa (in appendice:
Ritorno sui banchi a Mosca nel nome di Lumumba)
199 Daniele SANTORO - Il mare di Ankara bagna Niamey
211 Emanuela C. DEL RE - ‘Non abbiamo capito che l’Africa è cambiata’

PARTE III ALGERIA, NOSTRO VINCOLO ESTERNO

219 Kader A. ABDERRAHIM - L’esercito, unico arbitro di un paese diviso


225 Tarik MIRA - Nelle viscere del sistema algerino
233 Marcella MAZIO - Region di Stato: le radici territoriali
del potere in Algeria
239 Mouloud HAMAI - Non solo gas. L’intesa strategica
tra Roma e Algeri
247 Aghilès AÏT-LARBI - L’Algeria minaccia sé stessa
253 Adlene MOHAMMEDI - Mosca e Algeri, amicizia con limiti

AUTORI
259

LA STORIA IN CARTE a cura di Edoardo BORIA

261

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

La linea della palma

1. N OI EUROPEI GUARDIAMO L’AFRICA DALL’ALTO IN BASSO.


Se la guardiamo. Non solo perché il canone cartogra!co disegna l’Africa
sotto l’Europa. È che ci pretendiamo superiori agli africani in ogni senso.
Verità che non merita spiegazione. Postulato che può al meglio volgere in
esotismo – hic sunt leones – al peggio in sfruttamento bestiale di popoli e
risorse, quasi gli africani fossero cose a disposizione. Complesso di superio-
rità strutturato attorno all’essenzialismo più sfrenato: noi siamo nella sto-
ria, voi non ci siete mai entrati; noi benestanti evoluti voi poveri arretrati;
noi nazioni voi tribù. Insomma: noi bianchi voi neri. Razzismo istintivo,
talmente immediato e spontaneo che stentiamo a percepirlo tale. Inasprito
dal politicamente corretto che vorrebbe mascherarlo mentre perpetua il sen-
timento da velare.
Niente da fare: «il Nero non è un uomo, il Nero è un uomo nero» 1.
Così Frantz Fanon, genio martinicano, settant’anni fa si lacerava sulla
nevrosi della persona di colore davanti allo sguardo bianco del colono che
lo rendeva prigioniero. Sicché aspirava alla «latti!cazione». Avrebbe volu-
to sbiancarsi, coprire pelle nera con maschera bianca. Fanon aspirava a
liberare l’uomo nero da sé stesso. Essere riconosciuto dall’uomo bianco e
così riconoscerlo. Dialettica della condizione umana: il razzismo cancella
la persona, che il colono riduce al valore d’uso che può estrarne. Oggi i co-
loni non ci sono più, o almeno non si ostentano tali. Eppure la mentalità
coloniale resiste, come la discriminazione per razza. Anche fra africani

1. Cfr. F. FANON, Pelle nera, maschere bianche, Pisa 2015, Ets, passim. 7
LA LINEA DELLA PALMA

bianchi e africani neri. Nel Maghreb arabo i primi usano de!nirsi ahrar
(uomini liberi) mentre applicano ai neri il peggiorativo abid (schiavi). E
spesso li trattano di conseguenza, non ricambiati, nella piena coscienza
dei governi europei che remunerano i «pelle chiara» perché impediscano
con ogni mezzo ai subsahariani di imbarcarsi verso l’Italia. Ghedda! e
Ben Ali ne avevano fatto un triste commercio, alcuni loro epigoni una mat-
tanza trasferita dalle coste mediterranee alla linea della palma. Vera fron-
tiera tra Africa ed Europa.
Su questo sfondo, i rapporti fra africani e occidentali, specie fra neri e
bianchi d’Africa o d’Europa, stanno peggiorando al galoppo. Proviamo a
capire perché incrociando i punti di vista. Sguardo geopolitico, in sé dialet-
tico. Paritario.
Consideriamo le relazioni di potenza fra europei e africani. Tra !ne
Ottocento e metà Novecento la colonizzazione batteva il ritmo di rapporti
di forza coerenti alla narrazione razziale, allora senso comune certi!ca-
to dalla «scienza». Poi la cosiddetta decolonizzazione, più annuncio che
svolta. Paradosso: i due movimenti – penetrazione degli imperi europei in
Africa e successiva parziale evacuazione – poggiavano entrambi su retori-
che progressiste. La stessa colonna sonora per !ni apparentemente opposti.
Variazioni armoniche su continuità di dominio bianco. Cromatismi d’un
monocolore europeo. Con alto accompagnamento ideologico.
La Francia dei Lumi aveva eretto la colonizzazione a missione civiliz-
zatrice (carta a colori 1). Esportazione in Africa della Rivoluzione francese.
Naturalmente in nome dell’Europa. La parola a Victor Hugo, monarchico
convertito alla sinistra umanitaria, araldo degli Stati Uniti d’Europa, che
nel 1876 esorta gli europei: «Unitevi, andate al Sud! Nel XIX secolo il Bianco
ha fatto del Nero un uomo; nel XX secolo l’Europa farà dell’Africa un mon-
do» 2. Verso la meta proposta nel 1814 dal conte di Saint-Simon, musa del
protosocialismo francese, che oggi suona anticipazione veterocontinentale
dell’universalismo americano stile neocon: «Popolare il globo della razza
europea, superiore a tutte le altre razze umane» 3. Missione compiuta in
Africa dalla Terza Repubblica laica e massonica, con Jules Ferry a spiega-
re che «le razze superiori hanno il diritto e il dovere di civilizzare le razze
inferiori» 4. Protratta in maschera sotto la Quinta dal generale de Gaulle e
successori, per cui «decolonizzare», adattamento al clima del secondo dopo-
guerra, altro non è che proseguire la stessa missione con altri mezzi. Per la

2. Cit. in C.-R. AGERON, «L’idée d’Eurafrique et le débat colonial franco-allemand de l’entre-


deux-guerres», Revue d’histoire moderne et contemporaine, tomo 22, n. 3, luglio-settembre
1975, p. 446, nota 1.
3. Ibidem.
8 4. J. FERRY, discorso del 28 luglio 1885 alla Camera dei deputati.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

maggior gloria e grandezza di Francia. Priva di ideologia civilizzatrice, la


colonizzazione nuda – trasferimento di plusvalore dai lavoratori africani
al paese che li incarica di estrarre risorse pagate con briciole – perde legitti-
mità e fascino. Il grandioso irradiamento della cultura francese s’in!acchi-
sce e si rovescia contro i suoi promotori. I rossori del tramonto intristiscono
la «luce bianca dell’Europa» cantata dal più celebre esponente delle élite
politico-letterarie francoafricane, Léopold Sédar Senghor, teorico della ne-
gritudine, presidente del Senegal indipendente, già deputato al parlamento
di Parigi e primo africano ammesso all’Académie française (carta 1).
Quanto ai pragmatici inglesi, refrattari ai barocchismi ideologici, si ac-
collavano volentieri il fardello dell’uomo bianco, salvo scaricarlo al volo sui
nativi appena la partita doppia segnasse rosso. Classica «fuga all’inglese»,
rovesciata Oltremanica quale «French leave», sottotesto «Remember Fasho-
da» 5. In formula: ai colorati la «decolonizzazione» francese lasciava in dote
certezze universali e basi militari; quella inglese, senza virgolette o quasi
(Commonwealth), abitudini particolari e qualche insabbiata Fortezza Ba-
stiani. Unica convergenza, il catalogo di mai suturate ferite geopolitiche
concesse in eredità ai presunti emancipati.
Oggi il basso preme verso l’alto, che teme di sprofondare in basso. Il
mondo è in via di de-occidentalizzazione. E nell’Europa già colonizzante
circolano leggende che ci dipingono prossimi a venir colonizzati dal Sud.
Sarà la «grande sostituzione» dei bianchi con i neri, invasione dei migranti
africani e asiatici con accompagnamento di islam terrorista.
Ossessione !glia del rovesciamento delle prospettive dopo la seconda
guerra mondiale. Prima i colonialisti europei erano mossi dall’eccedenza
demogra!ca. L’assalto all’Africa «vuota» mirava anche a scaricare nel Con-
tinente Nero la manodopera di troppo. Così moderando il rischio di con"itti
fra proletari europei che avrebbero sconvolto la pace sociale. Ne sappiamo
(dovremmo sapere?) qualcosa noi italiani, i «neri» d’un tempo. Allo scadere
dell’Ottocento la massima comunità di lavoratori immigrati in Francia era
costituita dai nostri ritals – non vezzeggiativo argot per «italiani» – accu-
sati di concorrenza sleale dagli omologhi locali perché accettavano salari
ridotti. Perciò vittime di violenze culminate nel massacro di Aigues-Mortes
(1893). Oggi gli africani sono il doppio degli europei, alla metà del secolo
saranno più del triplo, alla !ne circa il settuplo (tabella). Quanto basta a
scatenare treni di paura dif!cilmente governabili, considerando l’età me-
diana degli africani rispetto agli europei: 18,6 anni contro 41,7 (44,4 nella

5. Località sudanese (oggi Kodok) dove si scontrarono nel 1898 le direttrici imperiali fran-
cese – Est/Ovest, dall’Atlantico al Mar Rosso – e britannica – Sud-Nord, dal Capo al Cairo.
Con ritirata "nale dei francesi. 9
LA LINEA DELLA PALMA

1 - L’IMPERO CHE NON VUOL MORIRE

Tunisia
Marocco
Is. Canarie
(SPAGNA) Algeria Libia Egitto
Sahara Occ.

Capo Verde Mauritania


Senegal Mali Niger C
Sudan
Eritrea
1 U U U Ciad
Gambia U Gibuti
Guinea B. Guinea U Nigeria
Somalia
Sierra Leone U U
n C
eru Rep. Centraf. Sud Sudan Etiopia
Liberia Cam
Togo
Benin

2 C
Ghana

Costa d’Avorio C * Kenya


C C Uganda
Burkina Faso São Tomé Rep. Dem. Ruanda
e Príncipe del Congo Burundi
Gabon
* Guinea Eq. Rep. del Congo Tanzania
Comore Seychelles
1 Dakar Glorioso
Malaw
Angola (Francia)
Sede della Bceao o Mayotte
bic
Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale Zambia
i

am (Francia)
2 Yaoundé Zimbabwe M oz Mauritius
Sede della Beac Namibia
Banca degli Stati dell’Africa centrale Botswana Madagascar
Riunione
U Stati che aderiscono all’Unione economica (Francia)
eSwatini
e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa)
C Stati che aderiscono alla Comunità economica Sudafrica Lesotho
e monetaria dell’Africa centrale (Cemac)
Ex possedimenti coloniali francesi
Paesi francofoni
Rete degli istituti scolastici francesi Linea della palma
Fonti: Agence pour l’enseignement français à l’étranger; Organisation internationale de la francophonie

sola Ue, 46,8 in Italia). Giovani disposti a tutto pur di schivare un destino
di miseria e oppressione (carte 2 e 3, carta a colori 2).
Demogra!a e biologia alimentano il nostro declino e l’assertività degli
africani, avanguardia del «Sud Globale» che sentiamo alle nostre porte. Os-
simoro che la dice lunga sulla paura dell’Occidente di scadere a periferia
di un inesistente Fronte unito del Mezzogiorno mondiale. E sul nostro equi-
librio psichico: non sono passati vent’anni da quando ci raccontavamo in-
vidiabile provincia dell’impero americano, monopolista della potenza nel
pianeta a stelle e strisce.
Il pericolo per noi più serio è di prendere sul serio questa apocalittica
da strapazzo. Se invece di «civilizzare» i neri per poi scoprirli spauracchio
10 mortale ne assimilassimo qualche peculiarissima pratica di convivenza ne
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

PROIEZIONI DEMOGRAFICHE PER CONTINENTE AL 2100 (in migliaia)

2025 2050 2075 2100


Africa 1.512.429 2.465.755 3.346.896 3.917.077
America Latina e Caraibi 672.442 748.715 728.889 649.177
Nord America 382.112 421.001 439.591 447.907
Asia 4.800.868 5.290.145 5.147.796 4.684.822
Europa 741.376 704.172 636.989 587.362
Oceania 46.375 57.653 64.920 68.657
Mondo 8.155.601 9.687.440 10.365.079 10.355.002

Fonte: Wold Population Prospects. The 2022 Revision

guadagneremmo quanto meno in buonumore. Per esempio, le «cuginanze


scherzose» – cousinages de plaisanterie o joking relationships nell’antropo-
logia dei colonizzatori. Usanze che invitano a prendersi in giro tra famiglie
allargate o gruppi etnici, specie in Africa occidentale. Teologia della presa
per il sedere, ben resa a quelle latitudini: «Dio ride solo quando due cugini
scherzano» 6.
Trasmesse da tempi immemori, evolute negli antichi imperi di Ghana
o Mali, queste prassi tanto irriverenti quanto benevole comportano simpa-
tico scambio di insulti e ri!uto di prenderli sul serio. Così effondendo un
af"ato di comunanza, frutto del reciproco riconoscimento di differenza
che rende complici. Al mercato di Bamako capita di cogliere questo dialogo
fra un Doumbia bambara e un Sidibé peul: – «Ehi, schiavo peul, come va?».
– «E tu, bambara senza vergogna? Non saluti il tuo padrone?» 7. Diagnosi
dell’antropologo Étienne Smith: «Ognuno è schiavo dell’altro, ciò che conci-
lia sentimento di superiorità e reciprocità» 8. Niente di più semplice né di più
lontano nel contatto fra europei e africani, fra bianchi e neri ossessionati
dalla tassonomia dell’epidermide (carta a colori 3).
Possiamo ancora trascurare l’Africa, segregata down under nelle no-
stre carte mentali, neanche fosse l’Australia scoperta dai primi esploratori?
Sì. Infatti la snobbiamo da sempre. Solo che oggi quest’attardato negazioni-
smo lo pratichiamo a nostro rischio e pericolo.

2. Nell’Africa «decolonizzata» si contano uf!cialmente 54 Stati. Salvo


rarissime eccezioni (Etiopia, Ghana) privi di radici proprie. Figli legittimi
di capricci geopolitici e necessità amministrative degli imperi europei. Dal
1950 vi si sono tentati quasi cinquecento colpi di Stato, la metà riusci-

6. Cfr. É. SMITH, «Les cousinages de plaisanterie en Afrique de l’Ouest, entre particularismes


et universalismes», Raisons politiques, n. 13, febbraio 2004, p. 157.
7. Ivi, p. 165.
8. Ibidem. 11
12
Età media mondiale: 30 Popolazione attuale
2 - LA POPOLAZIONE AFRICANA NEL 2022 Età media africana: 18,6 (in migliaia)
Tunisia da 19.473 a 37.077 da 17.180 a 10.748
Marocco 11 - Marocco 37.077 23 - Ciad 17.180
12 - Angola 34.504 24 - Somalia 17.066
10
32.833
LA LINEA DELLA PALMA

3 13 - Ghana 25 - Senegal 16.877


Algeria Libia
Sahara Occ. Egitto 14 - Mozambico 32.077 26 - Zimbabwe 15.994
15 - Madagascar 28.916 27 - Guinea 13.532
16 - Costa d’Avorio 27.478 28 - Ruanda 13.462
Mauritania 17 - Camerun 27.199 29 - Benin 12.997
Mali Niger 9 18 - Niger 25.253 30 - Burundi 12.551
Eritrea
Senegal Ciad Sudan 19 - Burkina Faso 22.101 31 - Tunisia 12.263
ia B. Faso Gibuti 20 - Mali 21.905 32 - Sud Sudan 10.748
a mb B. Guinea
1
G ea
n 2 Somalia 21 - Malawi 19.890
i

Benin
Costa Nigeria 19.473

Togo
Gu L. Sud Sudan Etiopia 22 - Zambia
d’Avorio un

Ghana
r ra er Rep. Centraf.
Si e i a m
er Ca
Lib 8 7
Guinea Eq.
4 Uganda Kenya Popolazione attuale
São Tomé e Príncipe Gabon
o Rep. Dem. Ruanda (in migliaia)
Is. Capoverde ng Burundi
Co del Congo 5 Meno di 8.645
Popolazione attuale Tanzania Seychelles 33 - Togo 8.645 45 - Lesotho 2.281
(in migliaia) 34 - Sierra Leone 8.421 46 - Guinea-Bissau 2.061
più di 44.178 Comore Glorioso (Francia) 35 - Libia 6.735 47 - Guinea Eq. 1.634
Angola
1 Nigeria 213.401 Zambia Mayotte 36 - Congo 5.836 48 - Mauritius 1.299
2 Etiopia 120.283 (Francia) 37 - Rep. Centraf. 5.457 49 - eSwatini 1.192
r

3 Egitto 109.262 Zimbabwe Malawi 38 - Liberia 5.193 50 - Gibuti 1.106


Mauritius
gasc a

4 Rep. Dem. Congo 95.894 Namibia 39 - Mauritania 4.615 51 - Riunione 966


Botswana Mozambico
5 Tanzania 63.588 Riunione (Francia) 40 - Eritrea 3.620 52 - Comore 822
Mada

6 Sudafrica 59.392 eSwatini 41 - Gambia 2.640 53 - Capoverde 588


7 Kenya 53.006 42 - Botswana 2.588 54 - Sahara occ. 566
6
8 Uganda 45.854 Lesotho 43 - Namibia 2.530 55 - Mayotte 316
Sudafrica
9 Sudan 45.657 44 - Gabon 2.341 56 - São Tomé e Príncipe 223
10 Algeria 44.178 57 - Seychelles 106
Fonte: United Nations, World Population Prospects 2022
Popolazione stimata
3 - LA POPOLAZIONE AFRICANA NEL 2050 (in migliaia)
Tunisia da 67.043 a 32.563 da 26.439 a 10.379
Marocco 11 - Niger 67.043 26 - Zimbabwe 26.439
12 - Mozambico 63.044 27 - Benin 25.264
4 13 - Algeria 60.001 28 - Burundi 24.209
Algeria Libia
Egitto 14 - Ghana 52.232 29 - Guinea 23.712
Sahara Occ.
15 - Madagascar 51.593 30 - Ruanda 23.030
16 - Costa d’Avorio 51.358 31 - Sud Sudan 17.641
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Mauritania 17 - Camerun 51.280 32 - Togo 15.479


Mali Niger 8 18 - Mali 47.440 33 - Tunisia 14.316
Eritrea
Senegal Ciad Sudan 19 - Marocco 45.045 34 - Sierra Leone 13.595
ia B. Faso Gibuti 20 - Burkina Faso 40.542 35 - Rep. Centraf. 11.533
a mb B. Guinea
1
G ea
i n 3 Somalia 21 - Zambia 37.460 36 - Congo 10.379

Benin
Costa Nigeria

Togo
Gu L. n Etiopia 22 - Malawi 37.159
d’Avorio Sud Sudan

Ghana
r ra eru Rep. Centraf.
Si e ia 23 - Somalia 36.463
er C am
Lib 6 7 24 - Ciad 36.452
Guinea Eq.
2 Uganda Kenya 25 - Senegal 32.563
São Tomé e Príncipe Gabon
o Rep. Dem. Ruanda
Is. Capoverde ng Burundi
Co del Congo 5 Popolazione stimata
(in migliaia)
Popolazione stimata Tanzania Seychelles
(in migliaia) Meno di 8.915
più di 72.328 10 Comore Glorioso (Francia) 37 - Mauritania 8.915 48 - eSwatini 1.655
1 Nigeria 377.460 Angola Mayotte 38 - Liberia 8.891 49 - Gibuti 1.503
Zambia
2 Rep. Dem. Congo 217.494 (Francia) 39 - Libia 8.540 50 - Comore 1.246
r

3 Etiopia 214.812 Zimbabwe Malawi 40 - Eritrea 5.964 51 - Mauritius 1.226


Mauritius
gasc a

4 Egitto 160.340 Namibia 41 - Gambia 4.674 52 - Riunione 1.127


Botswana Mozambico 42 - Namibia 3.780 53 - Sahara Occ. 851
5 Tanzania 129.932 Riunione (Francia)
Mada

6 Uganda 87.622 43 - Gabon 3.757 54 - Capoverde 727


eSwatini
7 Kenya 85.212 44 - Botswana 3.679 55 - Mayotte 664
9
8 Sudan 84.494 Lesotho 45 - Guinea-Bissau 3.445 56 - São Tomé e Príncipe 367
Sudafrica
9 Sudafrica 73.530 46 - Lesotho 2.898 57 - Seychelles 117
10 Angola 72.328 47 - Guinea Eq. 2.791
Fonte: United Nations, World Population Prospects 2022

13
LA LINEA DELLA PALMA

ti. Approssimazioni per difetto 9. L’epidemia golpista dell’ultimo triennio


– non considerando il Sudan già inglese dove il putsch è da sempre arti-
colo unico della costituzione materiale e le brevi pause «democratiche» ac-
quazzoni estivi – ha abolito otto regimi fra Ciad, Guinea, Mali e Burkina
Faso (colpi doppi), Niger e Gabon. Tutti nell’Africa ex francese. Il primo
coperto e pilotato da Parigi, gli altri contro. Con prevalenza di dittature
militari «transitorie». Gli ultimi due, specie il nigerino, hanno suscitato
un’eco internazionale senza precedenti. Eventi che un tempo sarebbero
stati registrati nelle pagine interne o nei servizi di coda dei media «globali»
– a eccezione dei francofoni (empire oblige) – stanno concentrando un
fascio di luce non troppo ef!mera su entità di cui la maggioranza degli
occidentali ignorava l’esistenza. In Francia, poi, è emergenza nazionale.
«Viviamo in un mondo di pazzi», ha sovranamente stabilito Macron da-
vanti ai suoi ambasciatori 10.
Che cosa è cambiato? Il contesto, anzitutto. Insomma il mondo (non
Macron). La crisi strutturale dell’impero americano eccita i protagonismi
dei massimi avversari, Cina e Russia, le inquietudini degli ambigui occi-
dentali di periferia quali noi italiani e altri europei appariamo alla torre di
controllo di Washington, le aspirazioni di potenze medie e piccole, rivalu-
tate dall’autunno della massima. Ovunque un’aria di animazione sospesa,
in attesa di chissà quale catastrofe, cui forse seguirà catarsi. Il vuoto di po-
tere reale o percepito – ma la percezione induce conseguenze più reali della
realtà – sommuove la tettonica strategica. Sulla scena del teatro geopolitico
spuntano o riemergono nuovi/antichi soggetti che si raccontano storie di
umiliazioni da redimere, offese da sanare, riscatti promessi. Anche con la
guerra.
L’Africa è canone del nostro tempo non ordinario: concentrazione
massima di guerre, migrazioni forzose, colpi di Stato. Tragedie !no all’altro
ieri autocontenute nel Continente Nero, oggi !ltrate oltre le coste del Medi-
terraneo accendono l’attenzione di potenze imperiali o aspiranti tali. Le
piazze africane che sostengono i golpisti non sono riempite a pagamento da
spie russe o cinesi, come assicurano francesi agenti dell’ombra. Epigoni dei
rispettabili funzionari che un tempo assoldavano festose truppe cammellate
con bandierine tricolori in occasione delle visite dei presidenti-imperatori
ai referenti locali, suffraganei dell’Eliseo nel pré carré. Non così semplice.
I primi sondaggi post-golpe nigerino rivelano che la giunta gode di un ple-
biscitario consenso interno (79%), più che maggioritario nell’estero vicino
(gra"ci 1 e 2). Persino nella Nigeria che Parigi ha subito cercato di arruola-
9. Cfr. projects.voanews.com/african.coups
10. «Conférence des ambassadrices et des ambassadeurs: le discours d’ouverture du Prési-
14 dent de la République», 28/8/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Gra!co 1 " I NIGERINI NON DISDEGNANO I GOLPISTI

79% Sostiene le azioni della giunta militare

78% Crede che i militari dovrebbero restare al potere “per un periodo prolungato” o “!n quando non si celebreranno le elezioni”

57% È contrario a interventi da parte di organizzazioni regionali o internazionali

COLORO CHE INVECE SOSTENGONO UN INTERVENTO ESTERNO, VORREBBERO CHE FOSSE EFFETTUATO DA:

53% Russia (forse nella convinzione che sosterrebbe i golpisti)

13% America

11% Unione Africana (Ua)

6% Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas)

Fonte: Sondaggio Premise commissionato dall’Economist

re per reinsediare a Niamey il deposto presidente Mohamed Bazoum dietro


copertura della spaccatissima Comunità economica degli Stati dell’Africa
occidentale, fantasma geopolitico. Blitz scoraggiato da Stati Uniti, Italia e
Germania, che schierano propri contingenti – agguerrito il primo, simbolici
gli altri – nel crocevia nigerino, valorizzato da risorse minerarie (petrolio,
oro, uranio) e vie migratorie dirette in Europa (carta a colori 4).
Dopo secoli di emarginazione, gli africani scoprono il gusto del prota-
gonismo. L’Africa non è più ritaglio passivo di imperi altrui. Alcune Afriche
– dalla Nigeria al Sudafrica, dal Marocco all’Algeria, dal Ruanda all’E-
tiopia – si vogliono abilitate a partecipare alla redistribuzione delle carte
locali in corso fra Stati Uniti in affannoso ritardo, Cina, Russia, ma anche
Turchia, India, Giappone e simil-potenze europee. A caccia di enormi ric-
chezze naturali o di manodopera a costo stracciato, su cui Pechino pun-
ta per trasferire entro metà secolo almeno un terzo della sua produzione
nelle terre africane infeudate in trent’anni di penetrazione economica a
sfondo strategico. O dove la Russia insinua propri mercenari pronto uso. E
sfrutta insieme ideologie contraddittorie: riscoperta del terzomondismo di
matrice sovietica e fascino del pensiero tradizionalista, più reazionario che
conservatore, specialità dell’ultimo Putin. Quello del Dio-Patria-Famiglia, 15
LA LINEA DELLA PALMA

Gra!co 2 " SIMPATIE GOLPISTE NELLA REGIONE


(% di quanti ritengono giusti!cato il colpo di Stato in Niger)

50 60 70 80 90
Mali

Ghana

Nigeria

Costa d’Avorio

Fonte: Sondaggio Premise commissionato dall’Economist

baluardo contro le derive permissiviste, transgender e iperindividualiste,


indigeste al comunitarismo africano. Comunismo e bigottismo: lancia a
due punte che incontra simpatie in diverse culture africane. Quanto all’A-
merica, spiazzatissima, non sa che fare (carta a colori 5). Comincia con
grave ritardo a cogliere l’importanza di non lasciare ai nemici un conti-
nente così giovane, insieme ricchissimo e poverissimo. Dove teme di subire
il contraccolpo dell’eccitazione antifrancese.
Timore condiviso da italiani, tedeschi e altri veterocontinentali, !nora
disposti a tollerare, !nanco coprire con vistose foglie di !co – sedicenti aiuti
allo sviluppo più modeste guarnigioni dal bassissimo pro!lo – il militarismo
dell’Eliseo vedovo d’impero. Irritati dalla coazione a ripetersi di Macron,
ma incapaci di emanciparsi dal pensiero unico securitario di matrice fran-
cese. Ultimo urrà della Françafrique di matrice golliana, con i suoi rése-
aux di origine framassonica, nati per controllare l’impero da cui ci si era
smarcati nella forma, non nell’anima tantomeno negli affari 11. Incarnati
dal leggendario Jacques Foccart, per decenni misterioso plenipotenziario
dell’Eliseo nelle sue Afriche. Quel nastro trasportatore che garantiva in-
"uenza e risorse alla metropoli si è autodistrutto quando ha cominciato a
funzionare nei due sensi. Alla !ne erano più i referenti africani a ricattare
i presidenti francesi che viceversa, tanto da imporre questo o quel ministro

11. Cfr. C. WAUTHIER, «L’étrange in"uence des francs-maçons en Afrique francophone», Le


16 Monde diplomatique, settembre 1997.
Algeri

Tanger
(1830) 1 - LA FRANCIA NELLA CORSA ALL’AFRICA
Territori controllati
Fès dalla Francia nel 1880
1905/1911 Tripoli Territori controllati
Scontro franco-tedesco Bengasi dalla Gran Bretagna nel 1880
Sidi Ifni Ġadāmis Località occupate dagli spagnoli
Tarfaya Il Cairo
Esploratori britannici
(El Aaiún) Laâyoune Avanzata francese
J. Bruce (1768-1773)
Boujdour Direttrici di penetrazione #no al 1914
(Bojador) H. M. Stanley (1871-1890)
Dakhla Occupazione dal 1907 al 1910
Ġat J. Speke e J. Grant (1860-1863)
(Villa Cisneros) Occupazione dal 1911 al 1914
Lagwira Tuareg J. Speke (1858)
Occupazione dal 1915 al 1930
Port-Étienne V. L. Cameron (1873-1875)
(Nouadhibou) D. Livingstone (1866-1873) Alcuni imperi africani prima
della colonizzazione
Saint-Louis Impero di Al-Ḥāǧǧ ʽUmar
(1891) Nioro Timbuctu Agadez 1898 Tuareg
Gao
Bakel Kabara Bornu-Rabah Sokoto
Bathurst Khartūm
Kayes Djenné Sokoto Zinder (1899/1900) Bornu-Rabah
Bamako Ouagadougou
Bissau 1898 Kano (1903) Gondar
Fort-Lamy (N’Djarnéna)
Conakry Bussa Impero di Sokoto 1898
Kong Fachoda Berbera
Freetown Ilorin (1897)
Kumasi
Bouaké Lagos Gondokoro Direttrici britanniche
rovia Old Calabar Possel
Mon
Yakoma Direttrici tedesche

Gr a
a

n
Scontri franco-tedeschi

Cape

d
Douala

-
d-B.
Scontri franco-britannici

Accr Coast

Gran Laou
Esploratori francesi
R. Caillié (1827-1828) Brava
L. G. Binger (1887-1889)
Missione Foureau-Lamy (1898-1900)
Brazzaville
É. Gentil (1895-1900) Boma
Tabora Zanzibar
J.-B. Marchand (1897-1898)
P. Savorgnan de Brazza (1875-1885)
La popolazione urbana in Africa
2 - DENSITÀ DI POPOLAZIONE IN AFRICA 67 Fonte: Banca Mondiale (2014). Dati in percentuale
60
Casablanca Tunisia Alessandria
7.408.213 70 78
5.469.480 (stima 2022) 43
(stima 2020) Marocco
Il Cairo
Algeria
Libia 9.606.916 59 39
(stima 2022) 18 34
Sahara Occ. 65 43 22 22
Egitto
59 29 77
0) 37 39
2 39 47 19
Dakar Mauritania a 20 53 53 40 19
4.042.225 tim 40
Niger s 49 44 54
(stima 2022) Mali 1( Eritrea 39 16 25
Senegal a no5.31 Sudan 65 65
. 87 28
Gambia K 65 40 42
B. Faso 14 Ciad Gibuti 12
Guinea B. Guinea Etiopia
ria Somalia 31
54

Benin
Costa ge 28

Togo
L. d’Avorio Ni Sud Sudan

Ghana
Sie
rra
er
un Rep. Centraf. Addis Abeba 43 16
ia m 3.860.000 (2022) 40 32
b er Ca
Li an 7 os Kenya 34
g 971 ) Guinea Eq. Uganda 33
idj .01 1)
1 2 Rep. Dem. 46 57
Gabon 40
La 012. 2020
Ab .32 s. 20 . o del Congo Ruanda Nairobi
6 en
c( 13 stima ng 4.397.073 (cens. 2019) 21
( Co Burundi
Kinshasa 64 27
13.171.256 (2018) Tanzania Dar es Salaam
5.526.638 (stima 2021)
Luanda
2.571.861 Comore
Glorioso (Francia)
(2019) Angola

Mala
Zambia Mayotte

wi
o (Francia)
Densità della bic
popolazione zam
Le megacittà Zimbabwe Mo
(numero di abitanti per km2) Namibia Mauritius
più di 200 Da 22 a 9 milioni Botswana Madagascar Paesi per percentuale
Riunione (Francia)
da 100 a 200 di popolazione urbana
da 50 a 100 eSwatini
da 8,9 a 5 milioni Meno del 20
da 25 a 50 Johannesburg
da 10 a 25 tra il 20 e il 40
Sudafrica Lesotho 15.810.387 (stima 2021)
da 4,9 a 4 milioni
da 1 a 10 tra il 40 e il 60
Città del Capo
da 0 a 1 da 3,9 a 3 milioni 7.113.776 (stima 2021) sopra il 60
Fonte: Calendario Atlante De Agostini 2023
3 - POPOLI SAHARIANI E SAHELIANI
TRIBÙ O GRUPPI ETNICI CABILI
Camito-semitici B I
RI F R A IA
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Hausa R E TUNISIA

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Bantoidi occidentali A L G E R I A R J A L O
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Bantoidi orientali cc. F E Z Z AN

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M I SUD SUDAN
MEND GHANA
TOGO

SIERRA LEONE E
D’AVORIO REP. CENTRAF.
4 - IL NIGER CONTESO
Basi militari straniere L I B I A
permanenti
F E Z Z A N
Personale militare R
presente in Niger A
G
G
A L G E R I A A
1.000-1.500 Francia H
A
1.100 Usa
60 Germania r Madama
’Ajje
350 Italia si li n
T as T I B E S T I


50-100 Unione Europea
A G A D E Z

ne

Ka
Arlit

ou
a
N I G E R
Blocco C I A D
Air Base 201 di Agadem

MAURITANIA
Agadez (Permesso di sfruttamento
Gao concesso alla Cnodc cinese)
R i l i e vi
M A L I TAHOUA tra 3.500 e 1.500 m
TILLABÉRI ZINDER tra 1.500 e 1.000 m
Ouallam DIFFA
tra 1.000 e 500 m
Air Base 101 MARADI
Zinder Lago Ciad
NIAMEY Ra!neria Soraz
BAMAKO BU R K I N A FA S O DOSSO (Costruita con investimenti
della Cina ancora da ripagare) Regioni nigerine
OUAGADOUGOU Miniere importanti di uranio
N I G E R I A
(Arlit, Akouta, Imouraren)
Siti auriferi del Niger Giacimenti di petrolio e gas
BENIN
Presenza Isis
GHANA
Minima
Tabélot
Media
COSTA D ’AVORIO Tchibarakaten (sito principale)
CAMERUN Estesa
TOGO Djado (chiuso nel 2014)
Pieno controllo
Liptako del territorio
Fonte: Geopolitical Futures, Le Monde
Voto di condanna
5 - LA RUSSIA IN AFRICA Mers-el-Kébir all’invasione russa nella
SCAMBI COMMERCIALI risoluzione Onu
CON L’AFRICA (2022) Tobruk di marzo 2022
Unione Marocco Astenuti
Europea Tripolitania Cirenaica
300 miliardi $ Algeria Contrari
Libia
★ Egitto
★ ★

Cina Fezzan

254 miliardi $ Porto Sudan
Usa
(possibile infrastruttura
65 miliardi $ militare russa)
Mali Dahlak (isole eritree)
Fed. Russa
18 miliardi $ Sudan Eritrea
Guinea B. B. Faso
Guinea
Sierra Leone Nigeria Etiopia
n Rep. Sud Sudan
ru
me Centrafricana
Ca Kenya
Guinea Eq.

Ghana
Risorse militari russe Uganda
trasferite ai paesi africani São Tomé e Príncipe Rep. Dem. Ruanda
Misurazione in tiv del Congo
(Fonte: Sipri) Rep. del Congo Pointe-Noire Tanzania
Algeria 4.100 Luanda
Presenza Wagner e altre milizie
Egitto 2.800
Angola 500 Angola Vendita armi russe
Nigeria 160 Zambia Import russo di uranio
o
ar

Sudan 125
bi c

Zimbabwe Annullamento russo del


g a sc

Etiopia 70 za m debito contratto con l’Urss


Namibia
da

Ruanda 27 Principali paesi esportatori di armi Mo


Botswana
Ma

Mali 23 nei paesi africani (2017) Rapporti energetici


(percentuale di vendita)
Sud Sudan 22 Maputo Ricerca e cooperazione nucleare
Zambia 14 Russia 37,6
Diamanti
Burkina Faso 14 Usa 16,3 Sudafrica
Camerun 11 Investimenti minerari
Guinea Equatoriale 7 Francia 14,6
Ex infrastrutture della
Mozambico 7 Cina 9,2 (Fonte: Sipri) Marina sovietica
6 - REGNI E POPOLI NEL SAHARA-SAHEL MEDIEVALE
Collo Tunisi
Ceuta
CALIFFATO
Fès HAFSIDE
MERINIDI (1249-1505)
(1248-1465) Tripoli
Sijilmāsa Alessandria
Marrakech Il Cairo
Ghadames
ABELUADIDI

ec.
(1236-1394) Augila
SULTANATO

XVI s
sec.
XIV

c.
. DEI MAMELUCCHI
sec

XIV-
se
III

X
XI
Murzuq

XI-
Ghat Sale
Taghaza Assuan
c. Oro
Taoudenni I se Gedda
-XV
XIV
Ouadane La Mecca
Tadmekka KANEM
Aoudaghost Bilma Dongola Suakin
Awli
Oualata TEBU Zaghawa Bedja
Takedda
REGNO DEL MALI Gao
(XIV sec.) Timbuctu Agadez Massaua
Kumbi Saleh
Djenne OUADDAÏ Tegoulet
SONGHAÏ al-Facher
GOBIR Abéché Lalibella
Kangaba
TUNJUR ALOA
Niani MOSSI Kano BOULALA
.
Tenkodogo Zamfara Yabalacha
se c ETIOPIA
XIV
DI AMDA SEYON
YOROUBA Impero del Mali al suo apogeo (1314-1344)
Salaga
Ifè IGBO-
Migrazioni di cristiani verso il paese del Tunjur

Benin UKWU Migrazioni di tribù arabe makil verso il Maghreb


XV
Is
e Attacco di tribù nomadi zaghawa e bedja contro
c.

Sale il Regno cristiano di Aloa


Con!ni attuali Direttrici storiche
Oro del commercio maliano Insediamenti e regni bantu
© Limes
7 - L’IMPERO LATINO

OCEANO
ATLANTICO FRANCIA
Romania M
ITALIA

ar
Mar Nero

Ca
Portogallo Vaticano

spio
SPAGNA

Marocco Tun. Mar Mediterraneo


Canarie
Algeria
Libia
Sahara
spagnolo

Ma
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Ro
Mauritania

sso
Mali
Niger
Ciad Eritrea
Senegal
B. Faso
Guinea Somalia
Benin

Costa Etiopia
d’Avorio . Centraf.
Camerun Rep
Togo

Guinea-
Bissau Golfo di Guinea
ngo

Guinea Eq. Gabon


. Co

São Tomé e Príncipe OCEANO


ep

R INDIANO

OCEANO Comore
TERRITORIO ATLANTICO
DELL’IMPERO LATINO Angola
Mayotte
FRANCIA
scar

ITALIA
aga

SPAGNA Mozambico
Mad

Città del Vaticano


(fonte della latinità)
Colonie Riunione
Francesi
Italiane
Spagnole
Marocco spagnolo TRIDENTE
Ifni FRANCIA
Striscia di Cape Juby
Possibili periferie SPAGNA ITALIA
dell’Impero Latino
Mediterraneo occidentale
Altri paesi “latini” centro di gravità del Tridente
Colonie portoghesi
8 - LA PRIMA EUROPA DI BRUXELLES

Fonte: Servizio stampa e informazione della Comunità europea, aprile 1962.


AFRICA CONTRO OCCIDENTE

in esagonali dicasteri chiave. Mito e mentalità della Françafrique sopravvi-


vono a sé stessi, per il compiacimento degli scienziati che assicurano esserci
vita dopo la morte 12. Forse certi"cabile dopo il putsch militare del 30 agosto
scorso in Gabon, già cuore logistico della ragnatela francoafricana, dopo
56 anni di regno della famiglia Bongo, installata nel 1967 a Libreville qua-
le facciata della loggia Europafrique. Sempre che il golpe non si riduca a
congiura di palazzo – storie tra cugini non spiritosi.
L’Africa entra in un nuovo ciclo storico. O nella storia tout court. Se
vogliamo credere alla sentenza pronunciata dal presidente Sarkozy nel di-
scorso del 27 luglio 2007 a Dakar: «Il dramma dell’Africa è che l’uomo
africano non è abbastanza entrato nella storia» 13. Tradotto: per il biglietto
d’ingresso rivolgersi al botteghino dell’Eliseo.
I paradigmi coloniali e post-coloniali sono esauriti per sempre. L’assimi-
lazionismo di marca francese, che intendeva contemperare l’inconiugabile
coppia universalismo/colonialismo, è sterile nell’Esagono percorso dal sepa-
ratismo di comunità incomunicanti, "guriamoci nelle Afriche equatoriali e
occidentali. Oggi proporsi di trarre dall’africano un convinto erede delle gal-
liche virtù parrebbe umorismo nero. L’illusione di poter trattare gli africani
da bambinoni bisognosi di patronati europei, ri#essa nella certezza di aver
a che fare con tribalismi assortiti da incentivare per confermarsi superiori,
scade di fronte ai nazionalismi locali in cerca di vero Stato. Qui si gioca
la scommessa del futuro, lungo un percorso costellato di putsch, violenze,
guerre di varia intensità. L’impatto del neoliberismo sul continente africa-
no ha contribuito a scavare diseguaglianze disumane fra masse affamate
e minime élite ultramiliardarie, famiglie di predoni più relativi pretoriani e
allacci esterni. Con selvaggia privatizzazione di istituzioni e servizi, dove la
corruzione è norma. Meglio, la norma è corruzione. Pseudo-Stati gravati dal
debito ingrossato via speculazione "nanziaria, pari a quasi 1.200 miliardi
di dollari. Ogni bimbo africano nasce indebitato per un milione di dollari.
Lo svantaggio speci"co degli occidentali, non solo dei francesi, è il ri-
"uto di capire le realtà africane in movimento. Continuiamo a ripetere
slogan scaduti. Pensiamo di dialogare mentre parliamo con noi stessi. Noi
diciamo una cosa, loro ne capiscono un’altra. E viceversa. Quattro concetti
diversamente intesi illustrano gli autismi reciproci: democrazia; guerra al
terrorismo; accesso alla storia; diritto alla propria lingua quindi al nome
proprio. Per ordine.
Primo. Che senso ha proporre il modello democratico, ovvero l’alter-
nanza al potere nel quadro di un libero Stato di diritto, dove lo Stato non

12. Cfr. T. BORREL, A. BOUKARI-YABARA, B. COLLOMBAT, T. DELTOMBE, L’empire qui ne veut pas
mourir. Une histoire de la Françafrique, Paris 2021, Seuil, p. 508.
13. Cfr. il testo integrale in «Le discours de Dakar de Nicolas Sarkozy», www.lemonde.fr 17
LA LINEA DELLA PALMA

c’è? O pensiamo di sperimentare in Africa la democrazia senza Stato, uovo


senza gallina? Davvero crediamo che la democrazia si riduca a passaggi
elettorali più o meno apparecchiati (tipo Niger), se non totalmente frau-
dolenti (stile Gabon)? Vista dal terreno africano, dove lo Stato è proprietà
contestata di questo o quel clan, questa democrazia non è il sol dell’avveni-
re. Semmai sinonimo di clientelismo su base di in!uenze, inef"cienza, ag-
gressione morale via valori occidentali sentiti violazione dei propri mores.
Se l’Occidente vuole esportare la democrazia nelle Afriche armi in pu-
gno, perché non in Cina, Russia o Emirati Arabi Uniti? Risposta elementare,
per noi, offensiva per loro: perché quelle africane non sono potenze, le altre
sì. Gli smagati europei, nipoti del disincanto, sanno per esperienza che i
doppi standard sono il sale della politica, da calibrare secondo necessità e
contesto. Contro i quali eventualmente protestare per salvarsi l’anima. Gli
altri, non solo africani, meno interessati alle "loso"e della storia e abba-
stanza scettici sui nostri valori universali selettivamente applicati, sentono
«democrazia» e capiscono al meglio «paternalismo», al peggio «neocolonia-
lismo». Cinesi, russi o arabi del Golfo almeno evitano di fargli la morale.
Quanto ai capi militari che si offrono restauratori pro tempore dell’orgoglio
ferito dai neocolonialisti, pro"ttano delle ipocrisie occidentali e degli oppor-
tunismi asiatici, giocando gli uni contro gli altri prima di "nire giocati.
Per cogliere l’abisso che separa l’ideale liberaldemocratico, già appanna-
to in casa nostra, dalla sua pseudoapplicazione in gran parte delle Afriche,
conviene chiedersi come sia possibile che nel Continente Nero il rapporto fra
colpi di Stato e Stati riconosciuti sia di dieci a uno. Risposta in tre consta-
tazioni: molti Stati che si pretendono tali con tanto di patente Onu non lo
sono affatto; di conseguenza, non sono democrazie ma strutture contese
fra poteri privati e sponsor esterni, giacché si danno Stati senza democrazia
(imbarazzo della scelta) ma non democrazie senza Stato; gli eserciti «na-
zionali» sono spesso battaglioni privati e/o etno-tribali, alcuni assai ricercati
per operazioni oltrecon"ne (ruandesi in Mozambico docent). Capaci di ef-
feratezze paragonabili a quelle dei terroristi che pretendono combattere. Vi-
ceversa alcune milizie non statali sono più potenti degli eserciti formali, ciò
che incentiva le incursioni occidentali di soccorso alle «autorità legittime»
per dirimere mischie sahariane, saheliane o subsahariane.
Secondo equivoco, connesso al precedente: «guerra al terrorismo». Dopo
averne sperimentato il fallimento in Afghanistan e in Iraq, l’Occidente ci
riprova in Africa. A parti atlantiche rovesciate: nelle avventure asiatiche gli
europei erano a rimorchio degli americani, oggi la Casa Bianca frena le
velleità francesi più o meno eurovestite tese a ripeterle nelle Afriche di loro
asserita pertinenza. Fermo l’errore di fondo per cui si scambia un modo di
18 far la guerra usato da gruppi e Stati i più vari – specie quelli che procla-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

mano le crociate antiterrorismo – per un presunto nemico. Anzi, il Nemico


che legittima tutto. Errore blu, tanto banale da indurre il dubbio sia voluto.
Per noi occidentali è controproducente agitare la minaccia jihadista
a giusti!cazione di interminabili missioni militari, specie francesi con ac-
compagnamento di italiani, tedeschi e altri europei, americani a parte. An-
zitutto perché in genere fallimentari rispetto a quelle dei russi, provvisorie
vedettes dell’orgoglio indigeno giacché non gravati dal passato coloniale, o
dei turchi, rapidi ed ef!caci. Poi perché un contingente che si attenda per
anni in territorio altrui quasi fosse proprio è percepito occupante, salvo si
dedichi alla !lantropia (italiani maestri). Squali!chiamo così i governi lo-
cali che ci invocano, certi!candosi inef!cienti, mentre alcuni gruppi terro-
ristici possono apparire meno corrotti e più abili nella gestione dei servizi,
dalle tasse alla «giustizia» – pubblicità per l’antidemocrazia. Antioccidente.
In!ne, la motivazione religiosa conta meno di quanto si voglia far cre-
dere. Le reclute jihadiste s’arruolano per proteggere le proprie comunità
dalle violenze di altre milizie terroristiche o dello Stato, per il prestigio con-
nesso alle armi e per far soldi. Il Corano viene dopo, se viene. Le favole
sull’idra jihadista uni!cata e diramata nel mondo valgono per giusti!care
il salario delle menti strategiche che se le raccontano per !ni geopolitici o
per allenare truppe af"itte da mal di caserma.
Terzo, la storia negata. Gli africani considerano che la liberazione na-
zionale passi per il recupero della propria storia oscurata dai conquistato-
ri europei. La missione civilizzatrice escludeva che un nero avesse storia
propria dunque generosamente gli elargiva la sua, in versione depurata.
Metodo diffuso nell’impero francese con modalità tabellari. Ancora si in-
contrano anziani africani abilitati alle terapie assimilative del progres-
sismo gallicano che rievocano le imprese di Vercingetorige e snocciolano
la sequenza dei re merovingi. Mentre i loro educatori potevano esimersi
dal sapere dell’impero Songhai, persino delle dinastie sceriffali in Marocco
(carta a colori 6). Approccio simile a quello dei coloni italiani, ad esempio
in Libia. Agli alunni musulmani veniva somministrata ad nauseam storia
romana in pillole, dove i cartaginesi erano citati solo in quanto vinti. Il ra-
gazzino indigeno mandava a memoria le nostre province, persino nozioni
di geogra!a nordeuropea. Sapeva misurare la distanza fra Roma e Milano
ma non fra Tripoli e Bengasi. Miracoli dell’assimilazione all’italiana, con
gran !nale fascistizzante.
Dopo le indipendenze, l’ex colonizzatore punta a in"uenzare gli ex
(s)oggetti adattando la sua narrazione al cambio di clima. Nella sempre at-
tuale diagnosi di Kwame Nkrumah, panafricanista per eccellenza, fondato-
re del Ghana indipendente, già britannica Costa d’Oro: «L’imperialismo sta
semplicemente cambiando tattica. (…) Sta “dando” l’indipendenza ai suoi 19
LA LINEA DELLA PALMA

ex sudditi, seguita dall’“aiuto” al loro sviluppo. Sotto tale copertura coltiva


innumerevoli stratagemmi per cogliere gli stessi obiettivi raggiunti dal colo-
nialismo nudo. La somma di questi moderni tentativi di perpetuare il colo-
nialismo continuando a parlare di “libertà” si chiama neocolonialismo» 14.
Quarto, lingua e nome. Regola nelle colonie era promuovere la lingua
della metropoli nelle scuole indigene. Parlare a scuola la lingua dei coloni
e a casa la propria, indegna del nome, è esperienza straniante. Nel caso
francese, a impero perduto l’accento è caduto sulla lingua di Molière come
ultimo baluardo contro gli anglosassoni. L’Organizzazione della Francofo-
nia, oggi vegetante, è strumento geoculturale deputato a tal scopo. L’idea è
che grazie allo sprint demogra!co nelle ex Afriche francesi l’idioma nazio-
nale supererà nella seconda metà del secolo l’inglese quale lingua franca
dominante, almeno in termini di parlanti. Obiettivo che tende a sfumare,
stante che nei paesi uf!cialmente francofoni spesso si parla altro (carta 4).
Lingua porta nome. Virare la denominazione coloniale del proprio
paese in lingua propria, o in un compromesso semantico fra gli idiomi
domestici, è cifra degli indipendentismi d’ispirazione panafricanista e/o
comunisteggiante. Specie se di debole identità, come quello del Burkina
Faso, già Alto Volta, colonizzato dal 1896, spartito fra Costa d’Avorio, Mali
e Niger dal 1932 al 1947. Segnato dall’alterità fra la capitale Ouagadougou
e le campagne. E dall’agitata convivenza fra la prevalente etnia mossi, ex
imperiale, e le altre. Patria del capitano Thomas Sankara, che nel breve
corso del suo regime (1983-87) si conquista fama perenne di eroe-martire
antimperialista, vittima di un golpe sponsorizzato da Parigi. Icona diffu-
sissima in tutte le Afriche. Che Guevara panafricano, o Patrice Lumumba
mondiale. Sankara ribattezzò la sua terra Burkina Faso, «paese degli uo-
mini integri». Strategia semantica dal senso doppio: anticoloniale, dunque
antifrancese, ma anche integrativo. Burkina è infatti lemma mossi e sta per
«uomini integri», mentre Faso in dioula, idioma di ceppo mandingo, può
valere anche per «casa» o «repubblica». Patria del burkinabé. Il suf!sso «bé»
viene dal fulfuldé, lingua peul.
Trascorso il tempo degli esotismi e annessi imperialismi, come mitigare
i danni della mutua incomprensione? Nelle poche scuole nostrane in cui
ancora campeggiano i planisferi, un piccolo passo educativo sarebbe ap-
penderli alla rovescia: Africa sopra, Europa sotto. Rappresentazione meno
distante dalla realtà, almeno dalla demogra!a che ne muove il cuore. Poi
potremmo recuperare negli esili programmi di storia qualche spazio per il
passato delle Afriche, con cui saremo in sempre più stretta comunicazione,
si spera non solo via Lampedusa. Scopriremmo allora un altro vincolo ester-
20 14. K. NKRUMAH, Neo-colonialism: The Last Stage of Imperialism, London 1965, Panaf, p. 239.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

no – ormai anche interno – dalle radici profonde quanto neglette. Quello


che ci lega all’Africa. In nome dell’Europa.

3. Il più protetto fra i segreti dell’europeismo si chiama Eurafrica. Miste-


ro glorioso per eccellenza, postula l’Africa naturale appendice dell’Europa.
Progetto molto europeo e poco o punto africano. Certo è che «l’Unione Eu-
ropea non sarebbe mai nata se non fosse stata concepita come un progetto
per europeizzare il colonialismo» 15. La tesi è documentata dai politologi sve-
desi Peo Hansen e Stefan Jonsson nel rivoluzionario saggio Eurafrica: alle
origini coloniali dell’Unione Europea. Scavo attorno alle radici imperiali
dell’idea e della prassi europeista, che ne illumina l’esoterismo fondativo:
prosecuzione del colonialismo con altri mezzi. Tema negletto dalle cattedre
di studi europei, ridotte del più sterile accademismo, brillantemente dedite
a schivare qualsiasi contraddittorio sul proprio oggetto d’indagine. Onore
quindi a Hansen e Jonsson. Soprattutto perché la loro archeologia suona
felice smentita dello scetticismo espresso su questa rivista attorno all’utilità
della scienza politica: anche i politologi possono produrre geopolitica, pur-
ché si emancipino dai lacci della propria disciplina. Senza abiurarla, per
carità. Nel caso, un tocco di nordica indisciplina basta a incrinare i nostri
stereotipi.
Che cos’è Eurafrica? Il termine si diffonde fra le due guerre mondiali,
ha la sua età d’oro fra 1945 e 1960 (parallela concezione e fondazione
della Nato e delle Comunità europee, avvio delle indipendenze africane),
torna nell’ombra !no a pochi anni fa. Oggi lotta per la sopravvivenza. La
paternità del lemma è incerta, certa l’adattabilità a mille usi. Quel che
conta è la polisemia che lo nutre. Di qui le variazioni sul tema azzardate
da teorici e politici d’ogni tendenza nel corso del suo primo secolo di vita.
La costante è però chiara: salvare l’Europa, centro e gloria del mondo
moderno, dalla !ne della sua egemonia planetaria consumata nell’in-
glorioso trentennio dello harakiri in due atti (1914-1945). Perciò vestire
all’europea gli imperi delle nazioni continentali che con la britannica si
spartirono l’Africa, insieme ad Asia, Oceania e America Latina. Anzitut-
to l’impero africano della Francia, poi del Belgio, !no a qualche estrema
velleità nostrana.
Eurafrica infrange i due tabù su cui verte il racconto europeista: raz-
za e impero. Presunto primato dello homo europaeus, ovvero inferiorità
dell’africanus e non solo – razzismo gentile, a essere gentili. Nevrosi na-

15. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européenne,
Paris 2022, La Découverte. Edizione rivista della prima versione: Eurafrica. The Untold
History of European Integration and Colonialism, London 2014, Bloomsbury Publishing. 21
22
4 - IL MONDO DELLA FRANCOFONIA
Stati e governi membri
o associati dell’Oif
Stati osservatori Slovacchia
Lussemburgo Ungheria
Stati associati
Belgio
LA LINEA DELLA PALMA

L’Oif riunisce 54 Stati e governi membri, Estonia


27 osservatori e 7 associati Lettonia Ucraina
Lituania Moldova
Polonia
Rep. Ceca Romania
PARIGI Austria
sede dell’Organizzazione Svizzera Slovenia Bulgaria
Ontario internazionale della Croazia
francofonia (Oif) Bosnia-E.
Canada Georgia Serbia
Irlanda 2 Armenia Mont.
3 Kosovo Cipro
Québec Albania
Istituto di francofonia per 1 Francia M.D.N.
lo sviluppo sostenibile (Ifdd) Stati Uniti Andorra Grecia
Louisiana Malta Libano
Tunisia Marocco
Guinea-Bissau Sahara Occ. Egitto Qatar
Guinea Messico E.A.U. Vietnam
Haiti Mauritania
Burkina Faso Capo Verde Mali Niger Ciad Laos
Costa d’Avorio Rep. Dominicana Senegal Thailandia
Costa Rica 4 Gibuti Cambogia
Camerun Dominica Guyana (Fr.)
Rep. Centrafricana Sainte Lucie Ghana Rep.
Corea del Sud Thogo Dem. Ruanda
Benin Congo Burundi Seychelles
1 New York Guinea Eq. Comore
Rappresentanza permanente São Tomé e P. Vanuatu
dell'Oif presso le Nazioni Unite (Rpny) Gabon
Congo Maurizio
2 Bruxelles Madagascar Nuova Caledonia
Rappresentanza permanente
dell'Oif presso l’Unione Europea (Rpue) Mozambico
3 Ginevra Uruguay
Rappresentanza permanente
dell'Oif presso le Nazioni Unite a
Ginevra e a Vienna (Rpg) Argentina
4 Addis Abeba
Rappresentanza permanente
dell'Oif presso l’Unione Africana (Rpua)
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

scosta quindi esposta dal politicamente corretto. Bimillenaria vocazione


imperiale delle potenze europee, oggi rimossa per coltivata amnesia dai
palazzi di Bruxelles – che pure santi!cano Carlomagno padre della «patria»
– mossi dall’incoercibile impulso all’espansione. «Allargamento» in pudico
eurogergo. Quanto al complesso di superiorità risuona nel carillon «Europa
potenza civile», luminosa eccezione nel mondo incivile. Autopromozione
post-storica dell’inde!nibile unicum chiamato Ue. Circa la radice imperia-
le, un aneddoto rivelatore: nel 2007 a José Manuel Barroso, ex maoista
portoghese eretto capo della Commissione europea, scappò di comparare
l’Ue a un impero sui generis (memorie lusitane?). Ne seguì offesa levata di
scudi europeisti, che costrinse il povero Barroso a smentirsi 16.
Su tali premesse ideologiche s’innesta Eurafrica. Concetto caro all’emi-
nente europeista ante litteram Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, conte
d’ascendenza nippo-boema (doppiamente imperiale, giapponese e asburgi-
ca), consacrato Profeta d’Europa. Nel 1923 esce a Vienna il suo Pan-Europa,
presto privato del trattino 17. La tesi è di affascinante semplicità 18. Viviamo
l’epoca dei Grandi Spazi. Le nazioni europee da sole non possono reggere
la competizione delle superpotenze americana, britannica, russa e nippo-
cinese (crasi rivelatrice della nascita tokyota). Paneuropa diventerà il quin-
to super-Stato oppure ogni nazione veterocontinentale !nirà sopraffatta da
imperi altrui. Paneuropa sarà Eurafrica (carta 5). Al continente canonico
esteso dal Portogallo alla Polonia – sulla Turchia residua campeggia un
punto interrogativo – incastonato fra Baltico e Mediterraneo (5 milioni di
chilometri quadrati per 300 milioni di abitanti) il conte allega con aristo-
cratica larghezza tutta l’Africa – qui il punto interrogativo spetta all’Etiopia,
colta in peccato d’indipendenza. La Paneuropa evolve in Eurafrica grazie
alla somma delle colonie veterocontinentali, francesi su tutte. Per comples-
sivi 26 milioni di chilometri quadrati e 431 milioni di individui, in netta
maggioranza europei. Coudenhove anticipa così l’equazione dell’europei-
smo post-bellico, nella versione promossa da Parigi in virtù della suprema-
zia geopolitica sugli altri fondatori della Comunità Economica Europea:
Paneuropa=Eurafrica=Franciafrica (Françafrique) con appendici belghe,
italiane, spagnole e lusitane. Base su cui il generale de Gaulle poggerà l’o-
biettivo Eurofrancia, basso continuo all’Eliseo e dintorni: «L’Europa (leggi

16. Cfr. H. MAHONY, «Barroso says EU is an “empire”», Eu Observer, 11/7/2007. Sulla «am-
nesia imperiale» vedi F. EJDUS, «Dissonance and Imperial Amnesia of the European Union»,
Uluslararası øliúkiler/International Relations, 2022, vol. 19 n. 73.
17. R.N. COUDENHOVE-KALERGI, Pan-Europa, Wien 1923, Pan-Europa Verlag. La ristampa ana-
statica con prefazione di Otto von Habsburg è del 1982.
18. Su Paneuropa e dintorni cfr. L. CARACCIOLO, La pace è !nita. Così ricomincia la storia in
Europa, Milano 2022, Feltrinelli, pp. 31-40. 23
LA LINEA DELLA PALMA

Eurafrica, n.d.r.) è per la Francia il mezzo per ridiventare quel che ha ces-
sato di essere dopo Waterloo, la prima al mondo» 19.
L’idea del Profeta d’Europa resta cabala d’iniziati sia nell’interguerra
(1919-38), fase d’incubazione, sia dopo, a suicidio continentale consuma-
to. Conferma che l’elitismo è malattia infantile e senile dell’utopia paneuro-
pea. Clima nel quale germinano le recenti derive complottiste per cui Cou-
denhove-Kalergi mirava alla sostituzione etnica dei ceppi europei con neri
africani. Falso assoluto: semmai il contrario, visto l’eccesso di popolazione
europea rispetto all’africana. Però eco del doppio trauma prodotto alla !ne
della Grande Guerra dall’intreccio fra tramonto degli imperi europei e pre-
giudizio razziale, fonte tuttora attiva del paneuropeismo.
Tutto nasce con lo «scandalo nero». Così i tedeschi del tempo bollano l’oc-
cupazione della Renania, fra 1918 e 1930, da parte di almeno 20 mila sol-
dati coloniali francesi, in maggioranza africani. Fucilieri neri assegnati da
Parigi a vigilare sui bianchi germani si installano nel bacino industriale del
Reich, che a Versailles perde onore e terre, tutte le colonie incluse. La stam-
pa tedesca li battezza «mostri indicibili», «uomini-scimmia del Continente
Nero», «animali umani», «iene nere». Minacce sessuali per donne e bambi-
ni autoctoni 20. Nascono piccoli meticci, esposti al ludibrio popolare quali
«bastardi renani». Protestano le associazioni femministe internazionali e i
politici tedeschi, a partire dai socialdemocratici appena installati al pote-
re. Il cancelliere Hermann Müller denuncia: «Negri senegalesi campeggiano
nell’Università di Francoforte e fanno la guardia alla casa natale di Goe-
the» 21. L’altrettanto socialdemocratico presidente della Repubblica, Friedrich
Ebert, tuona: «Dispiegare soldati di colore, della cultura più inferiore che si
possa immaginare, per sorvegliare una popolazione di così elevato livello
spirituale ed economico come quella della Renania è violazione intollerabile
della legge della civiltà europea» 22. Quanto al giovane Hitler, condannerà
nel Mein Kampf «la contaminazione provocata per l’af"usso di sangue ne-
gro sul Reno, dovuta (…) al freddo calcolo dell’Ebreo, che vi vede il mezzo
per avviare il meticciato del continente europeo nel suo centro» 23.
Ciò non impedirà al Führer, nella fase di riavvicinamento fra le potenze
coloniali europee culminata nel Patto a Quattro siglato a Roma il 15 luglio
19. Cit. in A. PEYREFITTE, C’était de Gaulle, Paris 1994, Fayard, pp. 158 s.
20. Cfr. C. GOMIS, «Les troupes coloniales françaises et l’occupation de la Rhénanie (1918-
1930)», Cahiers sens public, 2009/2, n. 10, p. 69.
21. C. KOLLER, «Von Wilder aller Rassen niedergemetzelt». Die Diskussion um die Verwen-
dung von Kolonialtruppen in Europa zwischen Rassismus, Kolonial- und Militärpolitik,
1914-1930», Stuttgart 2001, Franz Steiner Verlag, p. 213.
22. Ivi, p. 324.
23. A. HITLER, Mein Kampf, München 1943, Franz-Ehler-Verlag, p. 357. Ottocentocinquante-
24 sima ristampa.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

5 - PANEUROPA

Fonte: R.N. Coudenhove-Kalergi, Pan-Europa. Der Jugend Europas gewidmet, Wien 1923, Pan-Europa Verlag.

1933 da Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania, di tratteggiare «la nuo-


va ripartizione dei possedimenti coloniali africani, che permetterà all’Europa
e all’Africa di congiungersi in una comunità di interessi come America del
Nord e America del Sud» 24. Europeismo in salsa nazista anticipato a Cou-
denhove-Kalergi dal futuro ministro dell’Economia Hjalmar Schacht il 30
gennaio 1933: «Vedrete! Hitler farà la Paneuropa!» 25. A modo suo, ci proverà.
In quegli anni matura l’idea francese di riconciliarsi con il Terzo Reich
abilitandolo al disegno coloniale paneuropeo. Per «fare l’Europa» occorre
associare la Germania alla messa in valore dell’Africa. Eurafrica è contrat-
to di comproprietà coloniale del Continente Nero, sulla traccia predicata
da Coudenhove-Kalergi. Stabiliscono Hansen e Jonsson: «La presenza di
soldati africani sul suolo europeo e la prospettiva di uno sfruttamento co-
mune delle risorse africane appaiono come le due facce complementari del
nascente progetto paneuropeo: la prima, per lo sgomento che ha suscitato,
riserra la solidarietà razziale europea; la seconda, per gli appetiti che sti-
mola, invita a un miglior coordinamento delle nazioni continentali» 26. Se
ne riparlerà dopo il 1945.

24. C.-R. AGERON, op. cit., p. 474.


25. Ivi, p. 473.
26. P. HANSEN, S. JONSSON, op. cit., pp. 68-69. 25
LA LINEA DELLA PALMA

4. L’Eurafrica della guerra fredda cambia colore a seconda della spon-


da occidentale da cui la si scruta.
Per gli americani, priorità è tenerne lontani i sovietici. Gli s!atati im-
perialismi euro-britannici vanno scoraggiati perché eccitano sogni pana-
fricani o indipendentismi locali in cui s’innestano propaganda marxista
e agenti di Mosca. Washington teme che Londra e Parigi spingano il Terzo
Mondo verso la galassia dei non allineati, anticamera dell’impero sovieti-
co. L’Eurafrica sarebbe trappola micidiale perché costringerebbe l’Ameri-
ca a estendere il suo ombrello atomico alle colonie francesi, britanniche,
belghe e portoghesi. Follia. Il presidente Truman vorrebbe escludere dalla
Nato l’Algeria, parte integrante della Repubblica francese, ma cede di fron-
te all’ultimatum di Parigi, che giura di restare fuori dall’Alleanza se i suoi
dipartimenti algerini ne fossero esclusi. In aggiunta, la Francia pretende e
ottiene di includere subito l’Italia nella Nato in quanto ponte naturale verso
il suo Nord Africa. Quanto all’esotica pretesa del Belgio di ammettere il suo
Congo nella famiglia atlantica, suscita buonumore.
Per gli architetti delle Comunità, il Continente Nero non è solo riserva
di materie prime indispensabili per rimettere in pista le nazioni europee,
«spazio vitale» (Lebensraum) nero a disposizione dei bianchi. L’Africa ha
funzione geopolitica in quanto gigantesca base arretrata della Terza For-
za, miraggio caro a in"uenti dirigenti europei d’intonazione cattolico-
sociale e non solo, soprattutto ai francesi e allo stesso Adenauer. Blocco eu-
roccidentale con tutte le appendici coloniali, capace di guardare l’alleato
americano negli occhi anziché battere i tacchi ai suoi ordini. E di trattare
da pari con l’Urss. I protagonisti dei negoziati che porteranno ai trattati
di Roma (25 marzo 1957), da Adenauer a Schuman, da Spaak a Monnet,
un po’ meno De Gasperi, sono paneuropeisti convinti, abbeverati al verbo
di Coudenhove-Kalergi. Perciò eurafricanisti. Ciascuno con i suoi retro-
pensieri, le sue ambizioni di potenza. La posteriore censura europeista
investe nientemeno che Schuman. Il quale nella celebre Dichiarazione del
9 maggio 1950, ispirata da Monnet, stabilisce: «L’Europa potrà, con mezzi
accresciuti, perseguire la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali:
lo sviluppo del continente africano». Passaggio ritoccato od omesso in alcu-
ne edizioni uf!ciali del documento, tanto che lo storico Étienne Descham-
ps denuncia «il silenzio assordante» dei colleghi su «Schuman, dimenticato
apostolo dell’Eurafrica» 27.
27. Cfr. É. DESCHAMPS, «Robert Schuman, un apôtre oublié de l’Eurafrique?», in S. SCHIRMANN (a
cura di), Quelles architectures pour quelle Europe. Des projets d’une Europe unie à l’Union
européenne (1945-1992), Bruxelles 2011, Peter Lang, p. 75. Sulle censure istituzional-
accademiche alla postilla eurafricanista di Schuman, cfr. P. HANSEN – S. JONSSON, op. cit., p.
26 180, nota 1.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Il «motore» franco-tedesco è asimmetrico, con la Francia a tenere le redini


del carro trascinato dal cavallo tedesco, giusta la metafora golliana. Statui-
sce un diplomatico britannico: Eurafrica è «la continuazione del colonialismo
francese !nanziata da capitali tedeschi» 28. Di più: il blocco eurafricano evo-
cato da Parigi e Bonn offrirebbe la profondità strategica che manca all’Euro-
pa, campo di battaglia centrale in caso di guerra atomica fra Usa e Urss. Nel
1953, il generale Joseph-Jean de Goislard de Monsabert formula tale dottrina
su Foreign Affairs, s!dando il dogma americano e sovietico per cui gli euro-
pei sarebbero vittime sacri!cali del primo scambio atomico: «La vera frontiera
d’Europa è l’antico limes romano che bordeggia il Sahara. Da Casablanca
a Berlino, da Kiel a Gabès, tutto è interconnesso. L’intera area costituisce un
singolo, indivisibile teatro di battaglia» 29. Sulla stessa linea il collega tedesco
Adolf Heusinger, che insiste sull’importanza di trattare l’Africa del Nord quale
!anco Sud della Nato 30. Ecco l’Eurafrica strategica, a trazione franco-tedesca.
Obiettivo: non ridursi a periferia anglo-americana. Per questo serve un arse-
nale atomico condiviso tra Parigi, Bonn e Roma, in chiave anche eurafricana.
Da progettare all’insaputa di Washington.
Qui entra in gioco Euratom, l’organismo comunitario omologato con i
trattati di Roma deputato a sviluppare l’energia atomica. Per Adenauer, la
via più rapida verso la Bomba europea. Poco prima del battesimo dell’euro-
agenzia nucleare, il cancelliere concorda con il premier francese Guy Mollet
un protocollo segreto per lo sviluppo dell’arsenale nucleare comune, !rmato
il 17 gennaio 1957 nella base missilistica di Colomb-Béchar, in pieno Sahara
algerino, dai rispettivi ministri della Difesa. Il 28 novembre a Roma l’Italia
aggiunge la sua !rma su analogo accordo top secret (il nostro ministro della
Difesa Paolo Emilio Taviani provvederà a scivolare l’informazione agli ameri-
cani, avvertendo che il primo stock di atomiche italo-franco-germaniche sarà
pronto nel 1963). Il progetto avrà brevissima vita, dopo che il 17 giugno 1958
de Gaulle, risalito al potere, lo vorrà bollare infrazione al principio per cui la
(sua) Bomba non si condivide con nessuno. Tuttavia il triangolo dell’euronu-
cleo militare resiste per qualche tempo sul versante convenzionale. Lo disegna-
no i dubbi comuni sull’ombrello atomico americano e l’altrettanto condivisa
intenzione di integrare l’Africa coloniale quale estremo rifugio a disposizione
28. Ivi, p. 248.
29. J.-J. DE GOISLARD DE MONSABERT, «North Africa in Atlantic Strategy», Foreign Affairs, April
1953, vol. 31 n. 3. Monsabert era a capo della Terza divisione di fanteria algerina nella
campagna d’Italia. Il 3 luglio 1944, preparando l’assalto ai tedeschi asserragliati in Siena,
pronunciò la famosa frase: «Bombardate dove volete, ma se lo fate al di sotto del XVIII
secolo vi faccio fucilare!». Una lapide a Porta San Marco ne eternizza grata la memoria.
30. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, pp. 274-279, e P. M. PITMAN, «“A general named Eisenhower”.
Atlantic crisis and the origins of the European Economic Community», in M. TRACHTENBERG (a
cura di), Between Empire and Alliance: America and Europe during the Cold War, Lanham
2003, Rowman & Little"eld. 27
LA LINEA DELLA PALMA

dell’Europa atlantica. Sulla medesima linea l’altro grande paneuropeista/eu-


rafricanista, il belga Paul-Henri Spaak, schierato a corpo morto con Parigi
quando le diatribe coloniali incrociano i negoziati europei 31. Frizione che
produce scintille. Tanto che !no all’ultimo la questione africana rischia di far
saltare la Comunità Economica Europea in gestazione, negoziata da Italia,
Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo.
I Sei trattano la nascita del mercato comune sullo sfondo della guerra
d’Algeria, scoppiata nel 1954, e della fallita operazione militare franco-britan-
nica a Suez (1956), estreme unzioni del colonialismo bianco in terra d’Africa.
La Francia gioca il tutto per tutto. Obiettivo, integrare il suo impero coloniale
nella Cee. Con ciò costringendo gli altri soci, Germania in testa, ad accollarsi
il co!nanziamento dei suoi depressi territori d’Oltremare. E soprattutto, legit-
timare via Europa il proprio diritto all’impero d’Africa. Il mercato comune
sarà eurafricano, non solo europeo. Parigi informa per via riservata i cinque
partner di voler raggiungere la «piena integrazione» del suo impero nella Cee
«al termine di un periodo transitorio di sette-dodici anni» 32. Le resistenze –
economiche, non geopolitiche – dei soci costringeranno la Francia a rinun-
ciare provvisoriamente alla costosa (per gli altri) integrazione, poi limitata
all’Algeria in quanto spazio metropolitano, e ad accettare la sola associazione
delle colonie africane. Principio sul quale la concordia è totale. Al banchetto
si candida il Belgio, che pretende associare il suo Congo, il Ruanda e l’Urundi.
Quanto all’Italia, sponsor della Somalia, amministrata !no al 1961, suggeri-
sce d’invitare anche la Libia.
Adenauer sposa il progetto francese di mercato comune eurafricano, at-
tratto anche dai giacimenti di petrolio appena scoperti nel Sahara algerino.
Nelle settimane che precedono la !rma di Roma la partita a sei si scalda su chi
e quanto debba contribuire al fondo d’investimento per l’Africa, oltre che sulla
libera circolazione di persone e merci nello spazio eurafricano. Tasto sensibile
per l’Italia. Il ministro degli Esteri Martino denuncia l’invasione del caffè co-
loniale francese, di gusto insopportabile per i palati nostrani, ciò che rischie-
rebbe di scatenare in Italia un’ondata di eurofobia 33. Adenauer cede in!ne al
pressing francese, stanco di battagliare sui dettagli !nanziari e commerciali:
«Non ci annoiate più con le vostre banane, il vostro caffè, il vostro cacao» 34. Il
dettagliato compromesso raggiunto a !ne febbraio dà !nalmente luce verde

31. Ivi, pp. 274-279. Sulla Bomba «europea» e sul ruolo italiano in tale progetto, cfr. M.
MORETTI, «A Never Ending Story: The Italian Contribution to FIG», in E. BINI, I. LONDERO (a
cura di), Nuclear Italy. An International History of Italian Nuclear Policies during the Cold
War, Trieste 2017, Edizioni Università di Trieste, pp. 105-118.
32. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, op. cit, p. 292.
33. Ivi, p. 295.
34. Cit. in A. FUSACCHIA, «La Comunità economica europea e l’associazione dei territori d’ol-
28 tremare (1955-1957)», Contemporanea, vol. 8, n. 2, aprile 2005, p. 283.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

alla Cee. La Germania dimidiata e senza colonie accetta di contribuire all’Eu-


rafrica in salsa francese pagando la quota massima della bolletta europea,
intesa da Parigi eurocolletta per il mantenimento del suo impero.
Guy Mollet, capo del governo francese, può trionfalmente proclamare il 25
febbraio 1957 a Washington, quale angelo d’Annunciazione: «L’unità dell’Eu-
ropa ormai è un fatto. (…) Oggi è nata un’unione ancora più larga: L’EURA-
FRICA (maiuscolo nel testo originale, n.d.r.)» 35. Straniamento dal notevole ef-
fetto ottico. Nella mappa uf!ciale degli Stati comunitari e dei territori associati
i Sei sono relegati nell’angolino in alto a sinistra, le colonie africane e oceani-
che dominano lo spazio centrale. Quasi fosse l’Europa ad associarsi all’Africa
(carta a colori 8). Irrisione cartogra!ca del paradosso che macchia Eurafrica
dalla nascita: l’aggiornamento neocoloniale dell’impero francese maschera-
to da europeo sfocia tre anni dopo nel suo opposto, la decolonizzazione. O
presunta tale, visto che il post-coloniale ancora stinge nel neocoloniale. Sono
passati quasi settant’anni, ma i termini del più o meno europeizzato dilemma
francese inscritto nel mito d’Eurafrica restano quelli: come conciliare i ri"essi
imperial-razziali sedimentati nelle mappe mentali dei dirigenti e delle opinio-
ni pubbliche europee con la volontà di indipendenza e di riconoscimento pa-
ritario degli africani?

5. La scon!tta della Francia in Africa è una nuova Suez. La crisi del 1956
accelerò la decolonizzazione e insieme alla rivoluzione algerina provocò due
anni dopo la !ne della Quarta Repubblica, quindi il ritorno al potere del gene-
rale de Gaulle. Oggi il doppio scacco con Niger e Gabon suona la campana per
Francia potenza eurafricana. Condizione del suo rango di potenza mondiale,
limitata altrimenti a sparsi territori d’Oltremare (carta 6). Se Macron-Zeus non
scenderà dal suo Olimpo per gestire il declino della Francia in Africa, la crisi
terminale della Françafrique, incrociata alle turbolenze domestiche e al tra-
monto della coppia franco-tedesca che l’autoincoronava co-regina d’Europa,
potrebbe sfociare nel crollo della Quinta Repubblica. Senza un de Gaulle di
ricambio. Tutto per voler continuare a essere quel che non si è più. Compulsio-
ne moderata dall’umorismo di Macron, che nel 2017 volle il giovane enarca
Franck Paris come suo Monsieur Afrique, più noto in Africa come Monsieur
Paris. Da settembre è a Taipei.
Doloroso mutare mentalità in piena crisi. Il Quai d’Orsay può raccoman-
dare ai suoi diplomatici «rispetto, ascolto, umiltà», ma la vagamente razzistica
equazione francese=arrogante è tanto diffusa che il cambio d’abito sarebbe
preso per travestimento. Tale percezione non deriva dal carattere di questo
o quel messo di Parigi, nemmeno del suo «giupiteriano» presidente. Esprime

35. P. HANSEN, S. JONSSON, op. cit, p. 308. 29


LA LINEA DELLA PALMA

l’anima del missionario universale che la Francia condivide solo con gli Stati
Uniti. Vasto e vago programma, che presume di incarnarti Redentore. E di
crederci o convincerti di crederci. La superpotenza in missione dialoga sempre
e solo con sé stessa, !nché non va a sbattere. A differenza del gesuita che per
salvare anime esotiche vi s’incultura o almeno pretende di farlo, l’impero in
espansione offre a chi si candida sua provincia la propria verità. Prendere o
lasciare. Le verità dei provinciali non interessano.
Ora che l’America dubita del suo credo e si chiede se convenga colmare il
divario fra ambizione planetaria e risorse disponibili oppure dare un taglio a
quest’impero senza limes – ma come e dove? – dif!cile credere che la gemella
minore possa cavarsela. Con in più lo svantaggio che in !n dei conti gli ame-
ricani sono più interessati a un mondo di regole (s’intende le proprie) che a
dominarlo, mentre i francesi, inventori del rayonnement, se lo sono visti virare
sotto gli occhi in soft power dagli sfrontati imitatori d’Oltreatlantico. Due modi
di esprimere lo stesso concetto. Ma una cosa è proporlo in francese, marchio
d’origine controllata d’una media potenza mondiale in ritirata da ex colonie
prese armi in pugno, altra nell’inglese dell’impero anticoloniale che da tre ge-
nerazioni, usando soprattutto il lato dolce della potenza, ha assuefatto il resto
del mondo – gli avversari più di certi alleati – a trattarlo da Numero Uno.
Washington sconta che prima o poi la Francia sgombrerà la sua Africa.
Constata l’analista Michael Shurkin: «In Sahel i francesi sono radioattivi. Stan-
no per essere cacciati. Bisogna riempire il vuoto, se possibile, per evitare che lo
riempiano i russi». Quanto ai cinesi: «La partita è già persa. Sono dappertutto
e sono potenti» 36. Gli americani hanno idee confuse sul continente che !no a
ieri stava per loro oltre il sistema solare. Ora temono !nisca sotto Mosca, perce-
pita Antifrancia da molti africani. Non buona in sé, ma in quanto opposta a
Parigi, sede del demonio. Nelle centrali strategiche a stelle e strisce non sanno
se né come impedirlo.
Spiega a Limes Tibor Nagy, già assistente segretario di Stato per l’Africa:
«Abbiamo dormito. (…) Abbiamo permesso alla Russia di dipingerci come for-
za maligna, egoista, colonialista. Le abbiamo permesso di riempire un vuoto
anche a livello militare. Se io fossi un governo africano e cercassi assistenza
bellica, gli Stati Uniti sarebbero la mia ultima scelta. Se chiedo una !onda agli
americani, mi arriva in sei mesi. Se la chiedo ai russi, mi arriva in una setti-
mana, con tanto di addestratori» 37.
Lo smarrimento francese e l’atonia americana dovrebbero convincerci
che l’allarme suona anche per noi. Europei in genere, italiani in particolare.
36. Cfr. M. SHURKIN, «Les États-Unis ne veulent pas chasser la France d’Afrique», intervista a
cura di T. BERTHEMET, Le Figaro, 4/9/2023.
37. Cfr. T. NAGY, «L’Africa è strategica per gli Stati Uniti, ma non la capiamo», conversazione
30 a cura di F. PETRONI e M. MIKLAUCIC, alle pp. 175-180 di questo volume.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

6 ! TERRITORI D’OLTREMARE FRANCESI


Wallis e Futuna

Polinesia Francese
Nuova Caledonia

A
POLO

AUSTRALI
NORD
A S I A
Saint-Pierre e Miquelon
Clipperton
Saint-Barthélemy
Guadalupa Saint-Martin
Martinica
A M

m
Guyana 2.5 00 k
Juan de Nova
E R

A F R I C A Banc du Geyser
IC

5 .0 0 0 k m Isole Gloriose
.5 0
A

Mayotte
7

0k
m Tromelin
.0 0 Isola Europa
10

0k Riunione
12

00 m Bassas da India
.5
15.

0k km Isola Nuova Amsterdam Isola Saint-Paul


00

m Isole Crozet Kerguelen

E
TID
ANTAR

Fonte: Bruno Tertrais et Delphine Papin - Atlante delle Frontiere Torino 2018 Add Editore

Roma ha una tradizione di scontro con Parigi nell’Africa che ci interessa,


dalla mediterranea alla desertica, !nanco alla saheliana. Ce ne siamo fat-
te di tutti i colori in Tunisia, Algeria, Libia e non solo. Da brave sorellastre
«latine». Nello schema eurafricano francese, anticipato nel 1945 dal progetto
di Impero Latino germinato dalla fantasia provocatoria di Alexandre Kojève
(carta a colori 7) – parrebbe versione aggiornata e corretta della Paneuropa di
Coudenhove-Kalergi – noi siamo liaison euromediterranea fra Esagono e suo
impero d’Africa. Da tenere sotto controllo, tra collaborazione asimmetrica e
repressione di nostre callide escursioni paraimperiali.
L’Italia ha abdicato a qualsiasi strategia (non solo) africana dopo la dop-
pia !ne di guerra fredda e Prima Repubblica, facce esterna e interna della
nostra sterilizzazione geopolitica. Oggi l’impronta italiana è spesso residuale
in quel poco di Continente Nero in cui manteniamo qualche chip. Eppure c’è
in Africa domanda d’Italia anche in quanto non-Francia. Destinata a incro- 31
LA LINEA DELLA PALMA

ciare la rivalutazione della nostra dimensione afromediterranea accelerata


dalla guerra russo-ucraina, specialmente per quanto riguarda le forniture
energetiche. L’Algeria è paradigma. Per noi il gigante che aiutammo a liberarsi
dall’Esagono, salvo dimenticarcene a differenza dei grati algerini e dei fran-
cesi avvelenati, diventa vitale causa collasso della cabala gasiera italo-russa.
Mentre gli algerini ci riscoprono nel contesto della tattica multivettoriale con
cui bilanciano, fra l’altro, l’intrusività della Francia, bollata «Grande Satana»
dal presidente Abdelmadjid Tebboune 38.
L’Italia non ha alcun interesse all’umiliazione della Francia. Siamo sem-
plicemente troppo legati da prossimità, dossier incrociati e memorie comuni
per immaginare che la disgrazia dell’uno non sia, entro variabile misura, an-
che la propria. L’incontrollabile francofobia delle nostre élite è poco intelligente
e molto autolesionista. Specie in questo frangente, quando abbiamo bisogno
del supporto francese contro il ritorno all’austerità germanica nell’Eurozona,
grave per Parigi, disastrosa per Roma.
Invece di massacrarci sulla questione migratoria, su cui coltiviamo in-
teressi opposti – da gestire perché non tralignino in guerrigliette di frontiera
attorno a Ventimiglia – possiamo ad esempio renderci utili sul fronte militare.
Parigi deve ridurre drasticamente le basi africane, se non vuole esserne cac-
ciata. Servirà un piano di disimpegno graduale ma non troppo, già oggetto
di negoziati informali con la giunta nigerina. L’Italia potrebbe contribuire a
«europeizzare» (si fa per dire) lo schieramento francese in alcuni paesi africani
insieme a tedeschi, spagnoli e altri soci Nato/Ue. Però sul serio, non come !-
nora accade, per cui ciascuno si trincera nella sua monade per non far quasi
nulla (noi) o troppo (i francesi, che nemmeno ci avvertono del golpe nigerino
di cui sapevano quasi tutto prima salvo poi cercare di arruolarci nel loro fan-
tastico controgolpe). Purché nel contesto di un approccio collaborativo con i
governi africani – quelli effettivi, «legittimi» o meno – sui principali dossier eco-
nomici, a cominciare dalla remissione del debito. Attento a umori e necessità
delle comunità locali, esistenzialmente interessate alla sicurezza dei propri
territori. Chissà che un giorno i caporioni del neo-antimperialismo africano
non ci scoprano più af!dabili dei russi.
Se invece la Francia punterà i piedi, o vorrà cavarsela con qualche eva-
cuazione simbolica, dal Sahel sarà espulsa. Scon!tta sul campo. Ingloriosa
catabasi dagli effetti strategici forse paragonabili alla ritirata di Russia. Con
Putin trionfante nel Continente Nero come Alessandro I a Parigi. Solo che que-
sto «zar», meno mistico di quello vero, non ama la Francia. E ciò che prende
non lo molla. Specie se glielo regaliamo.

38. Lo ricordano 94 parlamentari francesi in una lettera aperta al presidente Macron, cfr.
«Après la Françafrique, sommes-nous condamnés à l’effacement de la France en Afrique?»,
32 Le Figaro, 7/8/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Parte I
le AFRICHE
in RIVOLTA
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA


NON SALVERÀ IL NIGER di Rahmane IDRISSA

II putsch a Niamey è solo l’ultima conseguenza della


destabilizzazione del Sahel iniziata con la liquidazione di
Gheddafi voluta da Parigi. La (finta) democrazia del Pnds
e la miopia di americani ed europei. Mosca non è una minaccia.

1. D OPO I GOLPE DEL 1974, DEL 1996, DEL 1999


e del 2010, il 26 luglio 2023 è andato in scena il quinto colpo di Stato nella storia
del Niger. Sebbene a guidarlo sia stata una giunta in uniforme, è improbabile che
esso condurrà il paese verso un regime militare. Per un motivo molto semplice: i
nigerini non l’accetterebbero, dal momento che hanno ereditato dalla colonizzazio-
ne francese l’idea secondo la quale il regime deve essere repubblicano.
Ma il punto è un altro, così come altre sono le domande che dinnanzi a un
tale evento bisognerebbe porsi. Il problema non è se il Niger sarà guidato o meno
da una giunta militare. Piuttosto, è fondamentale comprendere la natura di questi
colpi di Stato e capire perché avvengono con una tale frequenza. Solo così sarà
possibile illuminare le radici e le prospettive del golpe attualmente in corso. Mo-
strando af!nità e differenze con i putsch del passato si potrà comprendere perché
quello del luglio scorso ha suscitato tanto clamore.
Qualcosa può già essere stabilita. I colpi di Stato precedenti sono stati unani-
memente considerati affari interni al Niger. L’Unione Africana (Ua) e la Comunità
economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas/Cedeao) li hanno condanna-
ti ma non hanno mai imposto sanzioni particolarmente dannose o durevoli. Gli Usa
erano soliti sospendere gli aiuti allo sviluppo, ma la tolleranza della Francia e dei
paesi europei compensava tale (temporanea) perdita. Questo schema, inaugurato
nel 1996, si è ripetuto pressoché inalterato !no al 2010.
Tuttavia il contesto internazionale del 2023 è molto diverso da quello dei gol-
pe precedenti. Rispetto al 2010, viviamo in un altro mondo. Il Sahel, di cui prima
si occupavano solo le organizzazioni umanitarie, è diventato una regione eminen-
temente strategica per l’Occidente, a causa di due crisi innescate dalle azioni degli
occidentali, in particolare da Francia, Regno Unito e Stati Uniti: la crisi migratoria
che sta colpendo l’Europa e la crisi di sicurezza che af"igge il Sahel e che nei primi 35
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

anni Duemila si temeva potesse colpire anche il Vecchio Continente, come dimo-
strato dagli attacchi terroristici avvenuti in vari paesi europei e dall’espansione
dello Stato Islamico in Iraq e in Siria.
Questi due processi sono stati innescati dallo stesso evento: l’intervento della
Nato – in realtà dei tre Stati citati – in Libia, che ha portato alla distruzione del re-
gime del colonnello Ghedda!.
In seguito a queste due crisi, che hanno destabilizzato il Sahel, gli Stati occi-
dentali hanno tentato di applicare delle strategie di «aiuto». Tradotto: hanno impo-
sto ai paesi della regione delle «soluzioni», senza rendersi conto che, nel Sahel, gli
interventi e le interferenze degli occidentali sono visti per lo più in termini negativi.
Gli africani vivono gli «aiuti» occidentali come un’imposizione. E ritengono che
l’Occidente non comprenda i loro problemi. Gli occidentali oppongono che alla !n
!ne gli africani ricevono pur sempre degli aiuti, anche sostanziosi. La verità è che
questo dibattito, che implicherebbe una rimodulazione dei rapporti afro-occiden-
tali, rimane teorico. Alla !ne, lo strapotere !nanziario dell’Occidente obbliga gli
africani ad accettare gli «aiuti». Qualcuno, Niger in testa, li accetta per calcolo poli-
tico. Qualcun altro perché non può dire di no.
La conseguenza dell’atteggiamento occidentale è stata lo sviluppo di un forte
nazionalismo nel Sahel. Fenomeno che non va sottovalutato, anche soprattutto per
quanto riguarda il Niger.
Il nazionalismo nigerino può manifestarsi in diversi modi. Già in epoca colonia-
le, questo sentimento si esprimeva nella xenofobia contro i cosiddetti ao!ens, quei
cittadini delle altre colonie dell’Africa occidentale francese (Aof) che a causa della
scarsa istruzione dei nigerini occupavano posizioni di rilievo nell’amministrazione
della colonia. Si può affermare senza timore di smentita che oggi esiste una nazione
nigerina, con delle particolarità ben de!nite che la rendono diversa dalle altre comu-
nità nazionali della regione. Il nazionalismo nigerino non è basato sul nulla: la po-
polazione è consapevole dell’esistenza di una «comunità immaginaria» di apparte-
nenza, legata da vincoli sociali, culturali e politici.
A livello regionale, l’intenso (ma poco ef!cace) attivismo occidentale ha pro-
vocato il contraccolpo nazionalistico e ha facilitato l’ascesa al potere delle giunte
militari in Mali e in Burkina Faso. Queste, assumendo posizioni apertamente an-
ti-occidentali, non hanno avuto dif!coltà ad avvicinarsi a Mosca, addirittura acco-
gliendo sul proprio territorio, almeno nel caso maliano, i mercenari del Gruppo
Wagner.
La rilevanza geopolitica del Sahel è cresciuta ulteriormente perché è diventato
anche una posta in gioco nella guerra tra Occidente e Russia. Sicché il putsch del
26 luglio non è questione meramente nigerina: si innesta ineluttabilmente in una
congiuntura internazionale particolarmente tesa. I golpisti hanno deciso di gettare
ulteriore benzina sul fuoco allineandosi alle posizioni di Bamako e Ouagadougou
e rompendo rumorosamente gli accordi di sicurezza che legavano il Niger alla
Francia. Eppure i putschisti non si aspettavano tanto clamore internazionale. So-
36 prattutto, non si aspettavano sanzioni così dure da parte dell’Ecowas, che sotto la
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

spinta del neoeletto presidente nigeriano Bola Tinubu pare intenzionato ad argina-
re l’epidemia di colpi di Stato che si sta espandendo nel Sahel. Allo stesso tempo,
non si aspettavano che Parigi, a differenza delle altre occasioni, si mostrasse intran-
sigente, pretendendo il ritorno allo status quo ante.
Il putsch del 26 luglio si è rivelato un vero e proprio «putsch internazionale».
Tuttavia, per comprenderlo !no in fondo, è necessario tenere presente che quella
del putsch è una pratica particolarmente diffusa nell’arena politica nigerina. E sto-
ricamente in Niger non tutti i putsch sono venuti per nuocere. Quello del 26 luglio
però potrebbe svelarsi tale.

2. In Niger un colpo di Stato non è una sorpresa ma una probabilità statistica.


Il presidente Mahamadou Issoufou sostiene di averne sventati diversi durante i suoi
due mandati, tra 2011 e 2021. Alla vigilia stessa del suo insediamento, nella notte
fra il 30 e il 31 marzo 2021, Bazoum era sfuggito a un tentativo di putsch. Recen-
temente un altro tentativo è stato sventato mentre era in viaggio in Turchia. Ba-
zoum avrebbe potuto insomma sopravvivere a questo golpe, ma ce ne sarebbe
stato sicuramente un altro. È chiaro che il Niger ha un problema con il suo eserci-
to, strutturalmente golpista. Ma questo putsch potrebbe davvero essere il «colpo di
Stato di troppo».
Nonostante il Niger abbia una certa familiarità con i golpe, non tutti i colpi di
Stato sono uguali. Quello del 1974, ad esempio, si con!gurò come la risposta
dell’esercito all’incapacità del regime monopartitico del Ppn-Rda (Nigerien Progres-
sive Party – African Democratic Rally) di garantire lo sviluppo economico del pae-
se. Era un putsch «di punizione», con cui veniva sanzionata l’inadeguatezza non
solo del governo, ma del sistema stesso.
I colpi di Stato del 1996, del 1999 e del 2010 sono stati invece diretta conse-
guenza dello stallo politico. Nel 1996 il golpe derivò dall’incapacità della classe
dirigente di trovare un compromesso sul governo; nel 1999 e nel 2010 i militari
entrarono in azione per ripristinare il corretto funzionamento democratico, minato
da azioni autoritarie come la brutalizzazione del processo elettorale (1999) o della
costituzione (2010).
In questi tre casi, in particolare negli ultimi due, si trattò dunque di paradossa-
li operazioni di «polizia democratica». Di fronte a capi di Stato che avevano il con-
trollo dell’apparato statale e che quindi non potevano essere messi sotto accusa,
l’esercito si rivelò l’ultima ratio populi.
Per un osservatore esterno, il colpo di Stato del 26 luglio 2023 non rientra a
pieno titolo né nella categoria dei putsch «punitivi» né in quella dei putsch «pro
democrazia». Per un nigerino, invece, può rientrare in entrambe. I putschisti pos-
sono sostenere, come fecero nel 1974, che il regime del Pnds (Partito nigerino per
la democrazia e il socialismo) ha fallito non solo sulla questione dello sviluppo
nazionale, ma anche e soprattutto su quella della sicurezza.
Certo, guardando le statistiche si potrebbe dire che il Niger sia più sicuro dei
suoi vicini. Tuttavia i nigerini non valutano il successo delle politiche securitarie 37
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

attraverso i dati statistici forniti dagli esperti. Si af!dano alla propria percezione. E
quello che percepiscono è che, mese dopo mese, si susseguono violenze, morti e
disgrazie. L’impressione non è quella di un «leggero e progressivo miglioramento»
– come dicono gli esperti – ma di un fallimento. Inoltre, il problema securitario
sarebbe stato meno evidente se la crisi si fosse limitata alla regione del Lago Ciad
(Boko Haram). Per quanto ingiusto possa essere, una crisi lontana dalla capitale
avrebbe causato molte meno preoccupazioni.
Peraltro il governo di Niamey non può nemmeno essere indicato come unico
colpevole della persistente crisi securitaria: essa dipende in gran parte da ciò che
fanno i regimi in carica a Bamako e Ouagadougou, poiché il Mali e il Burkina Faso
sono diventati gli epicentri del problema. Purtroppo entrambi i paesi sono in mano
a regimi ideologici, incapaci di operare sulla base del realismo e della razionalità.
Tuttavia questo non scagiona completamente Niamey. Non ci sono dubbi che
le giunte di Bamako e Ouagadougou si siano costruite un mondo immaginario, in
cui ogni problema viene affrontato con invettive anti-occidentali e dunque non
viene risolto. Ma il regime del Pnds non ha usato meno fantasia. Dipingere il Niger
come una democrazia funzionante, capace di prendere decisioni rapide basate su
un effettivo consenso popolare, signi!ca infatti vivere in un universo parallelo: la
«democrazia» nigerina, se esiste, di certo non funziona. Se le cose stanno così, allo-
ra questo tentativo di putsch può rientrare anche nella seconda categoria, ovvero
quella un po’ paradossale dei golpe a favore della democrazia.
La democrazia nigerina ha un enorme «problema Pnds». Nei primi anni Due-
mila, la mia analisi del sistema politico nigerino prevedeva che potesse essere
stabilizzato attraverso una logica di blocchi. I partiti erano guidati da leader politici
che esercitavano ciascuno la propria in"uenza su un importante feudo: Tahoua per
il Pnds, Zinder per la Cds (Convenzione democratico-sociale), Tillabéri per il Mnsd
(Movimento nazionale per la società dello sviluppo), Diffa e Agadez per tutti. Nes-
suno di questi partiti era in grado di vincere le elezioni da solo, ma se avesse for-
mato un blocco con un altro aveva una possibilità. Inoltre, all’epoca il Niger dispo-
neva di istituzioni credibili per la gestione delle elezioni: la Ceni (Commission él-
ectorale nationale indépendante) e la Corte costituzionale. La società civile era di-
namica e organizzata. La stampa era protetta dalla persecuzione giudiziaria e poco
corrotta, con un giornale – Le Républicain – che era un autorevole punto di riferi-
mento. Qualsiasi osservatore, intorno al 2005, avrebbe detto che la democrazia
nigerina era in procinto di stabilizzarsi. Il passo successivo sarebbe stato quello di
moralizzare la vita pubblica, affrontando la spinosa questione della corruzione.
Le ambizioni personali hanno giocato un ruolo importante nel bloccare questo
processo. Nel 2006 il presidente Mamadou Tandja ha iniziato a mettere in atto un
piano che gli consentisse di rimanere al potere oltre il limite costituzionale di due
mandati. Il piano di Tandja, paradossalmente, rivelava la forza della democrazia
nigerina dell’epoca. Per raggiungere i suoi obiettivi egli ha dovuto innanzitutto
indebolire il suo stesso partito, il Mnsd, creando una corrente – detta «tandjista» –
38 che, alleandosi con l’opposizione principale (Pnds), è riuscita a mettere in mino-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Paesi dove sono


avvenuti i putsch
LE POSIZIONI DEI PAESI ECOWAS
NIGER 2023

MALI 2020 e 2021


GUINEA 2021
BURKINA F. genn. e sett. 2022 MA R O CCO TUNISIA
Mali, Burkina Faso e Guinea sono
stati sospesi e sanzionati dall’Ecowas
per non aver condannato A LG E R I A
il putsch nigerino
LIBIA
S a h a ra
Occidentale
I 16 Paesi Ecowas
(Cedeao)

CAPO VERDE MAURITANIA MALI

NIGER CIAD
SENEGAL
GAMBIA Lago Ciad

GUINEA-B. KINA F.
GUINEA BUR
BENIN

La Costa d’Avorio NIGERIA


TOGO

riallaccia i rapporti SIERRA L. COSTA


con la nuova giunta D’AVORIO GHANA
del Burkina Faso LIBERIA R E P. C E N T R A F.
Atteggiamento nei confronti C AM E R U N
del Niger dopo il golpe
Intransigenti G U I N E A E Q.
Pro sanzioni senza isolare le giunte GABON R E P.
Pragmatici DEL R E P. D E M .
Sostenitori del golpe in Niger CO N G O D E L CO N G O
Indi!erenti

ranza il primo ministro Hama Amadou, sostenuto da un’altra corrente del Mnsd, gli
«hamisti». Dividendo il Mnsd, però, Tandja non aveva più i numeri per rivedere la
costituzione. Il Pnds si è ovviamente ri!utato di assecondarlo e la Corte costituzio-
nale ha respinto i suoi vari tentativi di aggirare il parlamento o di indire un referen-
dum. Alla !ne, Tandja non ha avuto altra scelta che abolire la Corte costituzionale
per decreto, con un atto di violenza istituzionale che equivale a un colpo di Stato.
In breve, per distruggere la democrazia nigerina negli anni Duemila è stato
necessario un colpo di Stato, certo meno visibile di un golpe militare, ma altrettan-
to brutale.
I nigerini non sono consapevoli di ciò che hanno perso nel 2009. Sebbene ci
sia stata una forte mobilitazione della popolazione contro il progetto di Tandja, il
sostegno popolare che ha ricevuto è stato maggiore. Per l’ex presidente è stato più
facile conquistare i cittadini che la classe politica. Tandja era un populista che ave- 39
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

va promesso meraviglie alla gente; era anche un autoritario, dal momento che
aveva assicurato di mettere alle strette la classe politica, vista come fonte di ogni
corruzione. Ovviamente non ha mantenuto nessuna di queste promesse, ma il suo
carisma paternalistico ha fatto breccia nel popolo nigerino, che lo aveva sopranno-
minato «Baba Tandja» (papà Tandja).
Tandja fu anche il primo a istigare il sentimento antifrancese in Niger, o alme-
no il primo a dargli forma politica. Nella sua strategia populista, il presidente aveva
infatti bisogno di un nemico. E l’ex colonizzatore si prestava perfettamente a que-
sto ruolo. Tandja sviluppava un astuto doppio gioco: parlava amichevolmente ai
francesi, incoraggiandoli a investire nel settore dell’uranio, mentre al popolo nige-
rino consigliava in lingua hausa di non !darsi dei bianchi dagli occhi rotondi ma
solo di quelli dagli occhi «obliqui» (i cinesi).
Dopo quest’esperienza, il Niger non ha più ritrovato lo slancio democratico
dei primi anni Duemila. Nel gennaio 2010 Tandja è stato rovesciato da un colpo di
Stato pro democrazia e il Pnds, alleato con gli hamisti che erano riusciti a creare un
partito politico, Moden Fa Loumana, ha vinto le elezioni del 2011.
Per molti in Niger il risultato di queste elezioni è stato illegittimo. Fedeli alla
causa di Tandja, i nigerini si sono convinti che il putsch del gennaio 2010 fosse
stato solo un mezzo per trasferire il potere al Pnds e che dietro all’intera vicenda ci
fossero i francesi. Questa era e rimane l’opinione maggioritaria. Si tratta, ovviamen-
te, di un’assurdità: non ci sarebbe stato nessun golpe contro Tandja se lui stesso
non avesse eseguito un colpo di Stato costituzionale. Ma rivela alcuni elementi
importanti per comprendere gli psicodrammi politici del Niger.
Infatti, sebbene le elezioni del 2010-2011 non siano state regolari come quelle
precedenti, un blocco Pnds-Loumana, allargato anche ad altri partiti, non poteva
perdere contro un Mnsd diviso. Sostenere che la vittoria del Pnds fosse dovuta
esclusivamente ai brogli era semplicemente folle.
Eppure la fede di buona parte dei nigerini in questa teoria del complotto è
ancora oggi incrollabile. Ciò testimonia quanto forte sia nei loro cuori il rigetto
della democrazia degli anni Duemila. La popolazione era (ed è) fondamentalmente
d’accordo con Tandja sulla necessità di sbarazzarsi dei politici corrotti. Questa vi-
cenda mostra chiaramente come i nigerini aspirino a un regime autoritario, ai loro
occhi più ef!cace nel promuovere lo sviluppo nazionale e la lotta alla corruzione.
Il presidente Issoufou ha riscosso grande successo quando, all’inizio del suo
regime decennale, ha istituito un’autorità anticorruzione e introdotto un numero
verde per la denuncia di questo tipo di reati. Se queste iniziative avessero avuto
successo i nigerini avrebbero dimenticato la loro frustrazione. Purtroppo, con il
passare degli anni, è diventato chiaro che la lotta alla corruzione riguardava soprat-
tutto i corrotti dei partiti avversari.

3. Dal 2010 in poi ho vissuto soprattutto fuori dal Niger, e il Niger è uno di
quei paesi che si capiscono solo se ci si vive. Tuttavia, le cose che ho visto e sen-
40 tito durante le mie frequenti visite mi hanno dato l’impressione, corroborata da
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

alcuni fatti, che la fonte principale dei problemi risiedesse nell’ambizione del Pnds
di agire da partito di dominio, non di compromesso.
Il Pnds non si è fatto problemi a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione
per realizzare quello che i nigerini chiamano lo «schiacciamento» (degli altri partiti
politici). L’arma più usata a tal !ne è stata il «nomadismo politico», ovvero la possi-
bilità per i membri del parlamento di cambiare gruppo parlamentare. Il nomadi-
smo politico distorce i calcoli, destabilizza i partiti e favorisce il più forte, che può
utilizzarlo per sviluppare i propri piani di dominio sfruttando più facilmente le reti
clientelari. Il Pnds ha seguito questa strada per mettere in piedi un sistema che gli
ha conferito lo status di partito unico de facto. Anche perché l’unico partito che
rappresentava una vera opposizione, Loumana, ha subìto persecuzioni tali da es-
sere oramai insigni!cante.
Il Mnsd, guidato da un capo senza ambizioni e particolarmente disposto al
compromesso, è emerso come unico avversario accettabile. Il Pnds lo ha addirittu-
ra decorato con il titolo di «leader dell’opposizione», creando così una democrazia
di facciata. Utilizzando gli strumenti, le armi e la retorica del sistema democratico
il Pnds ha raggiunto la sua posizione di dominio. In teoria non c’è stata nessuna
azione illegale, ma il risultato è stato senza dubbio antidemocratico.
Tale pratica può produrre conseguenze pericolose: in primo luogo, se si im-
pedisce di fare politica nei luoghi deputati, c’è il rischio che essa venga fatta dove
non si dovrebbe, cioè nell’amministrazione e nelle Forze armate. Inoltre, il sistema
dello «schiacciamento» impedisce l’emergere di un’alternativa politica. E porta nel
tempo allo scollamento tra popolazione e istituzioni.
Ad esempio, sebbene il passaggio del testimone da Issoufou a Bazoum sia
stato descritto dalla stampa internazionale come un cambiamento, non è stato vis-
suto come tale in Niger, soprattutto perché Bazoum ha continuato a ripetere che
stava semplicemente «sviluppando» le politiche di Issoufou. L’inattaccabilità del
Pnds ha inoltre rafforzato il sentimento antifrancese nel paese, giacché la popola-
zione considera Parigi la longa manus nascosta dietro al golpe che, esautorando
l’amato Tandja, ha portato il Pnds al governo.
I leader del Pnds non hanno poi avuto l’abilità di usare un doppio registro,
volto insieme a rassicurare Parigi e a sfruttare il vecchio prurito antifrancese
della popolazione nigerina. Il Pnds anzi ha stretto ulteriormente i legami con la
Francia nella lotta contro la violenza jihadista. Tale mossa aveva una sua razio-
nalità, visto che il Niger, privo delle risorse necessarie, aveva bisogno di un
partner potente disposto a sostenerlo. Il punto, però, è che tale atteggiamento
non ha fatto altro che rafforzare la narrazione secondo cui il Pnds fosse stato
portato al potere dai francesi.
I partiti politici di opposizione non hanno cercato di sfruttare, almeno non si-
stematicamente, la diffusa ostilità nei confronti di Parigi. In particolare, il partito
Loumana, senza dubbio su indicazione del suo leader, si è generalmente astenuto
dal farlo. Ma il sentimento antifrancese della base del partito non poteva essere
controllato. Su questa scia ha preso piede un’organizzazione della società civile, il 41
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

Movimento 62 (M62): creato nel 2022, il suo nome fa riferimento ai 62 anni di in-
dipendenza del paese e alla lotta contro il neocolonialismo. Questo gruppo, intriso
di utopismo «progressista» (unità africana, rottura totale con l’Occidente), ha ten-
denze messianiche, apocalittiche e !lorusse: il M62 si augura infatti lo scoppio di
una guerra mondiale che veda la distruzione dell’Occidente per mano della «Gran-
de Russia».
È per tutte queste ragioni che inizialmente Bazoum ha tentato di mostrarsi
come !gura di rinnovamento, segnando una distanza con l’establishment del Pnds.
Il nuovo presidente ha cercato di creare un rapporto autentico con la popolazione
e si è più volte recato nelle zone colpite dalla violenza jihadista per parlare diretta-
mente con le vittime. In generale è sembrato aperto, grazie anche a una buona
squadra di comunicatori. Molti nigerini avevano deciso, in cuor loro, che Bazoum
era potenzialmente un buon leader. La sua unica macchia stava nell’essere stato
portato al potere dal Pnds. Insomma, il Pnds era impopolare, Bazoum meno.
Oltre che della sua popolarità, Bazoum doveva preoccuparsi anche della crisi
di sicurezza del Sahel. Per affrontarla era necessario avere una strategia ed essere
in grado di attuarla. Il governo Bazoum aveva un piano, o quantomeno una «teoria
del cambiamento». Tuttavia era incapace di fare riforme. Del resto, questo è il prez-
zo da pagare per mantenere in piedi il dominio del partito: per accumulare le re-
lazioni necessarie al suo sistema di potere, il Pnds ha dovuto istituire una rete
clientelare talmente strati!cata da rendere impraticabile qualsiasi riforma struttura-
le. Ad esempio, un alto funzionario del regime mi ha spiegato come fosse impos-
sibile riformare le dogane perché erano in gioco troppi interessi. Eppure in una
guerra che si combatte soprattutto alle frontiere le dogane dovrebbero essere uno
strumento ef!ciente e !dato. Cioè non corrotto.
Bisogna però riconoscere che nella crisi del Covid-19 il Pnds è stato particolar-
mente autorevole. Ha collaborato con le opposizioni, ha avuto il coraggio di chiu-
dere le moschee e ha seguito le indicazioni della comunità scienti!ca nonostante
la popolazione non fosse pienamente d’accordo con le restrizioni. La lotta al virus
è stata interpretata dal Pnds come una guerra. Il governo ha seguito una strategia
e ha cercato la collaborazione popolare e l’unità nazionale.
Al contrario, la guerra contro il jihadismo non è stata mai percepita come guer-
ra. Non evoca lo stesso senso di urgenza e non genera quell’unità d’intenti che
sarebbe necessaria. In questo il Pnds ha commesso degli errori, scegliendosi gli
alleati sbagliati e non comprendendo i reali sentimenti della popolazione. Ha pa-
gato questo fallimento con il putsch del 26 luglio.

4. Il colpo di Stato del 26 luglio sembra dunque rientrare sia nella categoria dei
«putsch sanzione» (1974) sia in quella dei «putsch pro democrazia» (1999 e 2010).
In realtà, mi sembra che possa rientrare anche in una nuova categoria, quella dei
«putsch opportunisti».
I golpisti hanno abilmente sfruttato l’epidemia di colpi di Stato che si è diffusa
42 in tutto il Sahel. Da questo punto di vista, il putsch non è stato tanto una reazione
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

a una crisi interna quanto la risposta a una situazione internazionale favorevole.


Non bisogna sottovalutare l’opportunismo dei militari che, parafrasando Clau-
sewitz, considerano il putsch una prosecuzione della politica con altri mezzi. A
questo proposito, credo sia illuminante riportare un aneddoto.
Lo scorso febbraio mi è capitato di incontrare un alto uf!ciale nigerino. Quel
che mi ha detto mi ha davvero stupito. A giudicare dalle sue parole, sembrava che
l’esercito non stesse facendo altro che progettare colpi di Stato. Non l’ha detto
così, l’ha espresso in modo ancora più impressionante, come se fosse il punto di
partenza delle nostre discussioni – che vertevano in realtà su come i militari po-
tessero gestire meglio le minacce alla sicurezza. Non mi ero reso conto che le
cose fossero arrivate a quel punto. Facendo qualche domanda, ho capito che
tutti quei progetti erano legati all’idea che il potere civile non fosse in grado di
garantire sicurezza. C’erano alcuni preoccupanti accenni a questioni ideologiche,
ma la questione centrale era l’ef!cacia.
Eppure, in Niger i militari di norma effettuano colpi di Stato solo di fronte a
una crisi evidente che giusti!chi il putsch agli occhi della popolazione: carestia,
stallo politico totale, colpo di Stato costituzionale eccetera. La situazione era certa-
mente dif!cile, ma le trame di cui l’uf!ciale mi parlava sembravano essersi messe
in moto indipendentemente dagli eventi concreti che stavano accadendo. La situa-
zione economica non era certo delle migliori, ma non paragonabile a quella del
1974. Il Pnds era sicuramente un problema per la democrazia nigerina, ma quan-
tomeno non ha brutalizzato la costituzione come ha fatto Tandja nel 2009. Insom-
ma, dietro alle parole del mio interlocutore c’era qualcosa che non comprendevo
e che mi incuriosiva. Perché, nonostante la situazione in Niger non fosse poi così
critica, un alto uf!ciale parlava apertamente di colpo di Stato?
Ho concluso che si trattava di un effetto contagio. I soldati del Niger avevano
osservato che i colpi di Stato in Guinea, Mali (due!) e Burkina Faso (due!) non
avevano suscitato una vera opposizione. Anzi, erano stati acclamati dalla popola-
zione. L’Ecowas non era riuscita a imporre sanzioni durature e dolorose. L’Occi-
dente a guida americana, da quando la giunta maliana ha introdotto l’Orso russo
nel recinto dell’Africa occidentale, teme che qualsiasi reazione forte spinga altri
paesi africani tra le braccia di Mosca. Insomma, la congiuntura internazionale pa-
reva aprire ai putschisti una !nestra d’opportunità più unica che rara.
Era proprio per queste ragioni che Bazoum aveva insistito più di altri capi di
Stato dell’Ecowas nel condannare i putsch e nell’applicare sanzioni ef!caci e dolo-
rose ai paesi sotto il governo delle giunte. Bazoum aveva resistito !no all’ultimo
alla revoca delle sanzioni contro il Mali non perché, come l’opinione pubblica
maliana ingenuamente supponeva, «odia il Mali», ma perché la giunta del paese
vicino stava fornendo idee pericolose ai militari nigerini. Purtroppo per lui, la Costa
d’Avorio e il Senegal, che non si sentivano minacciati politicamente ma stavano
subendo le conseguenze economiche dell’embargo, si sono ri!utati di ascoltarlo.
La Nigeria era dalla sua parte, ma aveva poca in"uenza a causa dell’atteggiamento
passivo del presidente Buhari. 43
44
UN DESERTO TRAFFICATO
Ceuta Tiaret Tunisi
Qayrawan
Salé t e Damasco
Fes Biskra
l a n
Marrakech t Gerusalemme
A MZAB Tripoli
Sijilmassa Wargla
DRA’A al-Manī‘a Ghadamès Il Cairo
GURARA
Tamentit Augila Siwa
Nul Jufra
Farafra Asyut
TUAT in Salah
Murzuq Zawila Dakha
Reggan Medina
Kharga Aswan
Ijil Ghat
Ahagg Kufra
Taghaza T I D I K E L T ar Aydhab
Wadan
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

Faras Halaib La Mecca


Azugi Taoudeni Selima
Shinqit Tib est
i J ab al
Arguin Tichit Arawan Adra r al - ‘ U w ayn āt Suakin
d egl i KAWAR
Awdaghost A ïr al-Atrun Berber
Walata Ifoghas Bilma Unianga Dongola
Awlil Timbuktu Takedda
HODH ENNEDI Debaroa
Guédé Kumbi Saleh Gao Tadmekka Agadez
(Ghana) Soba
Saint-Louis Kukya WADDAI
Wara al-Obeid Aksum
Njimi Sennar
Gorée Dia Jenne Gasga Gondar
Katsina al-Fashir KORDOFAN
Abéché
Sokoto Kuka
Kano Masseniya
Ngazargamu BAGUIRMI
Niani

Begho Oyo Yola


YORUBA Sahara
ASANTI Benin
Oasi
Kumasi
Produzione di sale
Elmina
Oro
Centri del commercio
con l’Europa
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

5. Ho avuto contezza di tutto ciò solo alla !ne della mia conversazione con
l’uf!ciale nigerino. E ne ho tratto due conclusioni: la prima era che il regime di
Bazoum aveva le ore contate; la seconda che, se fosse caduto, i nigerini avrebbero
seguito la stessa traiettoria dei maliani e dei burkinabé. Un possibile effetto di que-
sta avventura sarebbe stato proprio la rottura con l’Occidente. Le conseguenze di
un ritiro totale degli aiuti occidentali alla sicurezza sono impossibili da valutare con
precisione. L’impressione locale è che sarebbero quasi inesistenti. È questa impres-
sione che spiega perché l’opinione pubblica nigerina abbia accolto senza battere
ciglio, e anzi con entusiasmo, lo sgombero dei francesi e degli occidentali dal Ma-
li e dal Burkina Faso.
Allo stesso modo, non bisogna sorprendersi della violenza con cui la folla ha
invaso le strade di Niamey, inveendo contro l’Ecowas, l’Ua, la Francia e gli Stati
Uniti. Questa rabbia non solo è perfettamente comprensibile, ma ha anche le sue
giusti!cazioni, dal momento che – agli occhi dei nigerini – le elezioni del 2021 sono
state le più fraudolente che si siano mai viste. E personalmente non credo abbiano
tutti i torti. Non ci sono dati certi, non sono stati condotti studi. È più che altro una
percezione della popolazione. Percezione che, però, viene totalmente ignorata dagli
occidentali, i quali – sommersi dalla retorica del «Niger amico dell’Occidente» – non
si sono minimamente resi conto di quanto stava succedendo nel paese.
A questo proposito, vale la pena menzionare due importanti incontri che ho
avuto in questi mesi.
Il primo è stato con l’ambasciatore degli Stati Uniti a Niamey, che mi ha chiesto
delle elezioni. Gli ho detto che secondo me erano state fraudolente, ma che alla
!ne la gente si era rassegnata e cominciava ad apprezzare Bazoum. Non mi ha
creduto. Tuttavia, non avendo argomenti da sottopormi, mi ha raccontato la sua
esperienza personale, in particolare le sue visite ai seggi elettorali. Mi è sincera-
mente dispiaciuto per lui, perché ho avuto la netta impressione che fosse stato
ingannato. Dopo un po’, però, sono riuscito a convincerlo. Gli ho fatto notare che
normalmente, in un paese davvero democratico, un partito che governa male per
dieci anni di seguito tende a non vincere le elezioni. Gli ho poi spiegato che in
Niger tutti i candidati, sia della maggioranza sia dell’opposizione, mettono in cam-
po tecniche di frode, ma chi è al potere ha molte più risorse degli altri. Quando ha
sentito queste parole, il suo volto si è illuminato. Aveva capito.
L’altro incontro è stato con un alto funzionario dell’Ue con cui sono stato invi-
tato a scambiare opinioni all’Aia. Non posso fare il suo nome né indicare la sua
posizione. Ho cercato di spiegargli che la democrazia nigerina era in pessime con-
dizioni e che, se l’Ue voleva conquistare il cuore della popolazione, doveva svilup-
pare una strategia per aiutare l’opposizione. Sono riuscito solo a metterlo sulla di-
fensiva. Si è trasformato in un veemente sostenitore di Issoufou e Bazoum. Era
chiaramente sincero, ma molto meno disposto ad ascoltarmi rispetto all’ambascia-
tore americano: forse sospettava che fossi un oppositore del presidente.
Cito questi incontri proprio per sottolineare lo scollamento che esiste tra i rap-
presentanti dei paesi occidentali e il sentire comune in Niger, scollamento di cui 45
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

sono stato personalmente testimone e che non ha permesso all’Occidente di pre-


vedere il putsch.

6. Il golpe a Niamey è stato «il putsch di troppo». Con questa espressione in-
tendo dire che quello del 26 luglio è stato il golpe che, agli occhi dei paesi del
Sahel, ha cambiato la realtà delle cose.
Prima dei fatti di Niamey i colpi di Stato avvenuti a Bamako e Ouagadougou
potevano essere considerati come dei putsch accidentali e non particolarmente
fortunati. Buona parte del Mali è al momento in mano a gruppi non statali (jihadi-
sti e irredentisti tuareg) e la popolazione sta manifestando massicciamente contro
il regime. In Burkina Faso, il primo putschista (Paul-Henri Sandaogo Damiba) ave-
va cercato di scendere a patti con l’Ecowas. Ma è stato rapidamente smascherato
come sostenitore del vecchio regime, cosa che ha indignato la popolazione. Il se-
condo putsch, necessario per liberarsi di Damiba, era dunque atteso.
Quei colpi di Stato erano considerati questioni accessorie, come se si trattasse
di anomalie prive di ripercussioni nel resto della regione. In Niger, però, le autori-
tà avevano (giustamente) fatto un’analisi diversa e avevano percepito il pericolo.
Purtroppo, gli altri capi di Stato dell’Ecowas non erano convinti che i putsch
avrebbero avuto conseguenze reali. Il togolese Gnassingbé, ad esempio, ha fatto
di tutto per normalizzarli. Addirittura, ha aiutato la giunta di Bamako a elaborare
una strategia per vani!care gli sforzi dei falchi dell’Ecowas. Per quanto riguarda il
Burkina Faso, il presidente ivoriano Ouattara ha cercato di normalizzare il golpe
ristabilendo gradualmente i legami con la giunta, elaborando un’«agenda pragma-
tica» poco credibile vista l’atmosfera intensamente ideologica che si era creata in-
torno al capitano Traoré a Ouagadougou.
Ecco, dopo il golpe del 26 luglio atteggiamenti simili non saranno più tollera-
ti. Il putsch di Niamey ha infatti rivelato che gli sforzi per normalizzare le giunte
saheliane comportano il rischio di normalizzare la pratica del colpo di Stato tout
court, e non solo le giunte che sono andate al potere.
L’ultimo golpe nigerino segnala chiaramente ai paesi dell’Ecowas che il Sahel
ha un enorme problema con i colpi di Stato: ignorare o normalizzare i putsch non
è più possibile, perché questi tendono a espandersi a macchia d’olio, considerando
anche che l’Africa occidentale, storicamente, è la regione con il maggior numero di
colpi di Stato al mondo. Certo, nessuno osa immaginare un colpo di Stato a Dakar,
ma si pensava anche che il Titanic non potesse affondare. Inoltre, se il virus del
golpe circola più facilmente nella parte francofona della regione, spinto in parte
dalla narrazione secondo cui i putsch servirebbero a liberare il popolo dalla tutela
neocoloniale di Parigi, c’è da temere che questa epidemia possa in!ltrarsi anche
nella parte anglofona della regione.
Il problema è che il putsch del 26 luglio ha coinciso con una fase particolar-
mente convulsa in Africa occidentale. I nigerini possono affermare che si tratta di
affari loro e che gli altri non debbono immischiarsi, ma i loro affari sono anche
46 affari di tutti gli altri. Il fatto è che l’Africa occidentale è davvero una regione, a
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

differenza, per esempio, dell’Africa centrale o dell’Africa orientale. Gli interessi re-
gionali sono strettamente intrecciati e le persone si spostano molto, il che spiega
anche perché il jihadismo è una minaccia per tutti. Tutto ciò rende ancora più
dif!cile trovare una via d’uscita dalla crisi.
A questo riguardo, l’atteggiamento di Francia e Stati Uniti, che insistono per il
completo reintegro di Bazoum, costituisce un ulteriore elemento di dif!coltà. Gli
occidentali devono capire che tale soluzione è politicamente inconcepibile, soprat-
tutto se dovesse ripristinare anche la presa del Pnds.
La realtà è davvero cambiata. Certo con la forza, ma la forza non può riportar-
la indietro. La soluzione ideale sarebbe il ritorno alla tradizione nigerina, nella
quale il putsch è parte della reinvenzione e del rinnovamento del processo politi-
co. Il Pnds non sarebbe escluso da tale processo. Anzi, sarebbe preso in conside-
razione a pieno titolo. Dubito che la giunta di Niamey possa ri!utare un accordo
che preveda la revoca delle sanzioni in cambio dell’attivazione di un processo
politico di questo tipo.
Tuttavia bisogna fare i conti con l’ossessione dell’Occidente per Mosca. No-
nostante la russo!lia degli ideologi nazionalisti, gli occidentali devono capire che
la Russia non è un fattore importante nell’equazione del Niger. Le visite dell’attua-
le ministro della Difesa Salifou Modi a Bamako non devono dare questa impres-
sione, perché erano volte a creare le condizioni per un accordo di sicurezza col-
lettiva con il Mali (e successivamente con il Burkina Faso). Non c’era (e non c’è)
alcuna intenzione di portare il Gruppo Wagner in Niger. La prova di quanto dico
sta nel fatto che Modi stava già lavorando a questo progetto all’epoca di Bazoum.
Le sue visite a Bamako non signi!cano necessariamente che egli sia stato un pia-
ni!catore del putsch.
È troppo presto per stabilire esattamente come sia avvenuto il golpe, ma il
fatto è che ha creato opportunità che prima non esistevano. Idealmente, dovrem-
mo cercare di sfruttarle in modo razionale, innanzitutto abbassando la tensione.
Non solo a Niamey e ad Abuja, ma anche a Parigi e a Washington.
È tipico dell’Occidente trattare i problemi degli altri come se fossero i propri.
Tuttavia, esattamente per queste ragioni, gli occidentali devono capire che i prece-
denti tentativi di colpo di Stato erano solo la punta dell’iceberg. Se l’Occidente
considera il Niger un suo problema, allora deve innanzitutto rendersi conto che le
cause profonde del golpe del 26 luglio risiedono nell’aggravarsi della questione
securitaria. Tema su cui gli occidentali non sono esenti da colpe e responsabilità.
Non a caso, lo stesso uf!ciale militare nigerino di cui ho parlato in preceden-
za mi ha riferito che il pomo della discordia tra il Pnds e l’esercito era proprio la
politica di sicurezza, strettamente legata al rapporto con l’Occidente. Sotto Issou-
fou il Niger si è infatti opposto, nel 2011, all’intervento della Nato in Libia, preve-
dendo che la destituzione di Ghedda! avrebbe distrutto il paese e scatenato una
crisi migratoria e securitaria nella regione. A giochi fatti, però, Issoufou ha dovuto
chiedere l’aiuto dell’Occidente proprio per contenere le conseguenze delle opera-
zioni Nato. 47
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

Issoufou e il suo partito non potevano fare diversamente. Il Pnds, infatti, era
appena salito al potere, e aveva programmato massicci investimenti per la sanità,
l’istruzione e la pubblica amministrazione. Per portare a termine questo program-
ma era necessario ridurre al minimo le spese per la sicurezza, ma af!nché fosse
possibile qualcun altro avrebbe dovuto contribuire a sostenerne i costi. Ciò ha
portato a uno scollamento tra militari e Pnds, segnalato dai diversi colpi di Stato
che Issoufou e Bazoum hanno dovuto sventare.
Il più grave errore del Pnds è stato scommettere che l’Occidente avrebbe sra-
dicato la presenza jihadista. Se questa scommessa fosse stata vinta, oggi il partito
sarebbe ancora al potere. L’Occidente, però, non solo non è riuscito a farlo, ma è
diventato un ostacolo alla sicurezza dopo che i putsch in Mali e in Burkina Faso
hanno portato al potere giunte che hanno scelto di non af!darsi agli Stati Uniti o
alla Francia.
Prima di questi sviluppi, Ciad, Mauritania, Niger, Mali e Burkina Faso stavano
dando impulso al G5 Sahel: un apparato di sicurezza collettiva che avrebbe abbrac-
ciato l’intera regione. Il Mali e il Burkina Faso, guidati dalle giunte, sono usciti da
questo programma nel 2022 e hanno fatto sapere a Niamey che !nché avesse col-
laborato con i francesi nessun coordinamento in ambito securitario sarebbe stato
possibile.
La posizione di Mali e Burkina Faso ha messo alle strette il Pnds che, non po-
tendo recidere i rapporti con la Francia e con l’Occidente, non ha potuto affronta-
re quei problemi securitari che richiedono uno stretto coordinamento con i suoi
vicini. La conseguenza è stata un’ulteriore perdita di credibilità del Pnds agli occhi
della popolazione, che i militari sono riusciti a sfruttare abilmente. Non è stato
dif!cile far passare il messaggio secondo cui la collaborazione con le giunte di
Bamako e Ouagadougou sarebbe stata più ef!cace di quella con Parigi, peraltro
responsabile – insieme a Usa e Regno Unito – della già compromessa situazione
regionale. Per il Pnds era scacco matto.
In una prima fase, Bazoum ha cercato di affrontare tali problemi. All’inizio di
quest’anno il ministro della Difesa Salifou Modi è stato inviato a Bamako per nego-
ziare misure di sicurezza collettiva. È possibile che Bazoum possa aver notato qual-
cosa di strano, dato che il ministro è stato rimosso ad aprile. Ma nemmeno quest’ul-
tima disperata manovra è riuscita a salvare il presidente in carica. Troppo tardi.
Il golpe del 26 luglio ha scardinato il dominio del Pnds. Di per sé, non una
cattiva notizia. Come non è una cattiva notizia il fatto che i putschisti abbiano con-
testato la politica di sicurezza del precedente regime, il quale – senza dubbio –
aveva commesso l’errore di af!darsi eccessivamente all’Occidente, che con la de-
stituzione di Ghedda! aveva innescato la crisi securitaria che ancora oggi tormenta
il Sahel e il Niger.
In questo senso, il colpo di Stato potrebbe essere seguito, come in passato, dal
riavvio del processo democratico e dal ripensamento della politica di sicurezza. Ma
questa volta la strada pare davvero accidentata. Intanto, non sembra che alla giunta
48 di Niamey interessi particolarmente la democrazia. Guidati dalle stesse ideologie al
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

potere in Mali e in Burkina Faso, i putschisti sono al momento impegnati a consoli-


dare il loro dominio, mantenendo l’intransigenza. Certo, la democrazia potrebbe
essere ripristinata attraverso le pressioni dell’Ecowas, ma la Nigeria – cardine dell’or-
ganizzazione – ha assunto un atteggiamento severo nei confronti dei golpisti, minac-
ciando l’intervento militare e preparando sanzioni particolarmente dure per i nigeri-
ni, come l’interruzione della fornitura elettrica. Insomma, il golpe del 26 luglio è
oramai considerato il «putsch di troppo»: la tolleranza sarà prossima allo zero.
La conseguenza è l’aumento della tensione. I golpisti nigerini hanno reagito
con sdegno alle sanzioni dell’Ecowas e alle dichiarazioni nigeriane, ritirando gli
ambasciatori. Qualora la tensione dovesse protrarsi, il risultato potrebbe essere il
taglio dei !nanziamenti europei per la sicurezza e lo sviluppo (se non, addirittura,
degli aiuti umanitari).
A soffrire sarà dunque la popolazione del Niger, la quale – già provata da de-
cenni di sottosviluppo e di lotta al jihadismo – vivrà quest’ennesima disgrazia come
un’altra calamità tra le tante. Ammesso e non concesso che la maionese domestica
non impazzisca de!nitivamente.

7. In Niger tutti guardano a sud, cercando di scrutare le reazioni dell’Ecowas e


della Nigeria. In Occidente, tutti guardano a est, preoccupati dalla Russia e dal
possibile intervento del Gruppo Wagner. Ma il putsch crea anche enormi problemi
interni al Niger.
Per quanto riguarda la sicurezza, il regime di Bazoum aveva una strategia.
Essa consisteva nel tessere relazioni con i miliziani del Nord del Mali, sia jihadisti
sia irredentisti. L’obiettivo era stringere rapporti con i miliziani maggiormente incli-
ni al compromesso (in particolare i tuareg) per isolare gli intransigenti e rendere
così più sicura la frontiera. Non facile, anche perché la giunta di Bamako non vo-
leva essere coinvolta, sebbene la maggior parte dei negoziati riguardasse forze
basate sul territorio maliano. Non so quanto questo approccio avrebbe potuto es-
sere ef!cace nel lungo periodo, ma stava senza dubbio ottenendo risultati che
adesso sono inevitabilmente messi in discussione. Inoltre, per portare a termine
con successo l’operazione il regime aveva fatto af!damento sulle comunità del
Nord del Niger, i cui interessi erano quindi presi in considerazione più che in pas-
sato. Ciò ha causato il risentimento delle comunità del Sud-Ovest nigerino, forse
tollerabile in nome di un obiettivo di più ampia portata.
Dopo il 26 luglio, la situazione rischia di !nire fuori controllo. Interrompere le
operazioni nel Nord del Mali, infatti, potrebbe innescare un effetto domino in grado
di generare ulteriore instabilità anche nel Nord del Niger. La giunta di Niamey, che
sembra volersi allineare a Bamako, non sembra in grado di gestire tale scenario,
soprattutto se allo stesso tempo dovrà affrontare le sanzioni e i dif!cili negoziati con
l’Ecowas. Inoltre, qualora le operazioni nel Nord del Mali dovessero fermarsi, la
giunta dovrebbe non solo garantire la sicurezza delle aree settentrionali del Niger,
ma anche concentrare i suoi sforzi economici nelle regioni del Sud, ignorate da
Bazoum per favorire le comunità del Nord, fondamentali per la riuscita di quell’o- 49
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER

perazione militare che rischia di bloccarsi. La coperta è corta: in gioco non c’è solo
la collocazione internazionale del Niger, ma la sua stessa tenuta interna.
In conclusione, rimango profondamente convinto del fatto che solo una de-
mocrazia funzionante possa gestire tutte queste s!de, perché è l’unico sistema in
grado di garantire la trasparenza e la coesione necessarie per affrontare le minacce
che permeano il Sahel. Se il Niger ha intenzione di seguire gli esempi del Mali e
del Burkina Faso, allora – anche data la debolezza dell’Ecowas – l’attuale crisi può
trasformarsi in minaccia esistenziale. Spero veramente di essere soltanto un uccello
del malaugurio.

(traduzione di Giuseppe De Ruvo)

50
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

QUEL CHE NOI FRANCESI


NON ABBIAMO VOLUTO CAPIRE
Dal Mali al Niger, l’ingerenza di Parigi non è più tollerata. Pesano i
trascorsi coloniali e i loro odiosi strascichi. Ma anche gli errori recenti,
militari e politici. Tra recriminazioni, fake news e teorie del complotto,
l’immagine della Francia è ai minimi. Macron non ci sente.
di Lamine SAVANÉ

1. L A DESTITUZIONE DEL PRESIDENTE NIGERINO


Mohamed Bazoum da parte del generale Abdourahamane Tchiani è il quinto colpo
di Stato nel Sahel. Senza entrare nel merito delle loro cause endogene, questi put-
sch sono accomunati – a eccezione di quello in Guinea – dall’appello alla !ne
della presenza militare francese. L’anticolonialismo è una risorsa politica che i regi-
mi africani in dif!coltà mobilitano, vedi Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio e Robert
Mugabe in Zimbabwe. Ma una forte avversione alla politica francese dilaga oggi
nell’intera Africa occidentale e non va ignorato.
Non si tratta di un generico «sentimento antifrancese» per il semplice motivo
che è l’Esagono, nello speci!co la sua politica estera in Africa, a essere criticato. I
cittadini francesi presi talvolta di mira dalla folla nel Sahel sono perlopiù giornalisti
o gendarmi d’ambasciata nell’esercizio delle loro funzioni. Non si tratta, quindi, di
attacchi sistemici contro la popolazione francese.
Il proliferare di atteggiamenti ostili alla Francia va letto alla luce del suo passa-
to imperialista. Secondo Olivier de Sardan, l’ex madrepatria ha lasciato incompiuto
il lavoro di memoria necessario a superare l’esperienza coloniale e post-coloniale.
Inoltre, l’insofferenza delle popolazioni saheliane è portata all’estremo dalla crea-
zione e diffusione ad hoc di notizie false contro la Francia. La contestazione della
politica francese è infatti fattore di mobilitazione interna. In tal senso, l’archetipo è
il «coup nel coup» del 24 maggio 2021 in Mali, descritto dai sostenitori della svolta
come «retti!ca della transizione». Il golpe ha determinato una rottura totale con gli
ex alleati occidentali, Francia in testa. Sono seguiti i due colpi di Stato in Burkina
Faso (gennaio e settembre 2022) e il più recente in Niger.
L’astio delle popolazioni saheliane è testimoniato dalle violente manifestazioni
antifrancesi: il tricolore viene bruciato per le strade del Burkina Faso, del Mali e (da
ultimo) del Niger. Le ragioni storiche di questa ostilità riposano su fatti concreti e 51
QUEL CHE NOI FRANCESI NON ABBIAMO VOLUTO CAPIRE

veri!cabili, che affondano le radici nella Françafrique, complessa rete di relazioni


postcoloniali – per non dire neocoloniali. Cause più recenti sono rinvenibili nella
strumentalizzazione dei rapporti con la Francia da parte dei regimi al potere, spin-
tasi !no al complottismo.

2. La prima causa del deterioramento dell’immagine della Francia risale al pe-


riodo coloniale. Anzitutto, alla violenza della conquista: chi resisteva alla penetra-
zione francese in Africa veniva ucciso o deportato. È così che sono stati distrutti i
regni toucouleurs di Ségou e Kénédougou nel Sikasso dai coloni francesi dell’ex
Sudan occidentale (oggi Mali). El-Hadj Samory Touré, imperatore del regno di
Wassoulou – che si estendeva tra Costa d’Avorio, Mali e Guinea – fu arrestato e
deportato in Gabon, dove morì. Il potere coloniale ha espresso la sua natura intrin-
secamente arbitraria istituendo il regime dell’indigénat, il lavoro forzato e l’espro-
priazione delle terre. In seguito le colonie d’Africa hanno ampiamente partecipato
alle due guerre mondiali, durante le quali gli africani sono stati utilizzati come
carne da cannone. D’altro canto, il contributo dei «tiratori senegalesi» (tirailleurs)
sarà decisivo nella stagione delle indipendenze.
Gli anni successivi alla decolonizzazione hanno visto l’inizio del periodo di
collaborazione noto come Françafrique, il cui architetto è stato Jacques Foccart,
segretario generale dell’Eliseo per gli Affari africani e malgasci (1960-73) durante le
presidenze di de Gaulle e Pompidou. Sotto l’egida del generale, l’obiettivo era ga-
rantire che la Francia continuasse a bene!ciare di materie prime a prezzi bassissimi
per il funzionamento delle sue imprese. Questo !ne giusti!cava ogni mezzo. Attra-
verso le «reti Foccart», lo Stato francese fu coinvolto nell’organizzazione dei golpe
che misero !ne ai regimi dei padri dell’indipendenza, come Modibo Keïta in Mali
e Sylvanus Olympio in Togo. I leader indipendentisti furono rimpiazzati (rispetti-
vamente) da Moussa Traoré e Gnassingbé Eyadéma, sottuf!ciali dell’Esercito colo-
niale francese.
Nell’Africa francofona è il periodo delle dittature militari e dei partiti unici, al-
leati strategici per la Francia nel contesto della guerra fredda. La combinazione di
affarismo e corruzione su cui si imperniano queste dittature, così come gli interven-
ti militari a salvaguardia dei regimi autoritari – ad esempio, quelli di Léon M’ba in
Gabon e di Idriss Déby in Ciad – sono stati deleteri per l’immagine della Francia in
Africa. Sebbene le nuove generazioni non abbiano vissuto direttamente l’autorita-
rismo e i suoi drammatici risvolti, il risentimento verso la Françafrique è molto
forte. Anche perché nell’immaginario collettivo saheliano quell’epoca coincide con
il saccheggio delle risorse naturali africane. Per molti l’insistenza della Francia a
restare oggi in Niger si spiega con il desiderio di mantenere il controllo sull’uranio,
essenziale per Orano (prima Areva), una delle più grandi multinazionali francesi.
Ironia della sorte: le stesse giunte militari a cui la Francia ha consegnato il potere
una decina di anni fa oggi pretendono la !ne della presenza militare francese.
Inoltre, il trattamento riservato agli ex combattenti della seconda guerra mon-
52 diale e delle guerre coloniali in Indocina e in Algeria ha profondamente indignato
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

le popolazioni africane. Le loro pensioni, già irrisorie se paragonate a quelle dei


«francesi metropolitani», sono state bloccate dallo Stato francese. Il massacro di
Thiaroye in Senegal è un episodio ancora fresco nella memoria collettiva: in un
campo militare alla periferia di Dakar, il 1° dicembre 1944 le truppe coloniali e
alcuni gendarmi francesi sparano sui tirailleurs senegalesi. Questa fanteria, compo-
sta per la maggior parte da ex prigionieri di guerra rimpatriati alla !ne del secondo
con"itto mondiale, manifestava per ottenere il pagamento di quanto promesso. Le
fonti francesi parlano di decine di morti, gli archivi senegalesi ne riportano centi-
naia. Di fatto, la ricompensa per gli africani pronti a dare la vita per liberare la
Francia dal giogo nazista è stata la morte per mano francese.

3. Anche gli interventi militari nel Continente Nero hanno infangato il nome
di Parigi. All’origine della crisi maliana vi è il coinvolgimento della Nato in Libia,
da dove molti combattenti tuareg sono tornati pesantemente armati. L’impegno
militare della Francia e dei suoi alleati atlantici è stato percepito come un’ingeren-
za neocolonialista. Inoltre, la distruzione dello Stato libico ha spianato la strada a
gruppi terroristici quali al-Qå‘øda e Stato Islamico. L’omicidio di Muammar Ghed-
da! a opera dei ribelli sostenuti da Francia e Nato ha persuaso l’opinione pubbli-
ca africana che la Francia si opponeva a qualsiasi sviluppo dell’Africa. Senza fare
gli avvocati del diavolo bisogna notare che Muammar Ghedda!, pur avendo
concentrato le ricchezze libiche nelle mani della sua famiglia, godeva di ottima
reputazione quanto a difesa dell’«orgoglio africano». Il suo omicidio è stato inter-
pretato come volontà occidentale di porre !ne al progetto che più gli stava a
cuore: l’Unione Africana. Tra i fondatori dell’organizzazione, Ghedda! ambiva a
ottenerne la guida.
Allo stesso modo, il franco Cfa (Colonie francesi d’Africa), la cui sigla presenta
ancora le stimmate della colonizzazione, ha alimentato il risentimento verso la po-
litica francese. Ciò che i giovani saheliani denunciano è il «complesso di superiori-
tà» delle élite politiche francesi verso le controparti africane, ormai inaccettabile.
Questa verticalità nelle relazioni franco-africane si è manifestata spesso: la svaluta-
zione arbitraria del franco Cfa da parte del governo Balladur, senza alcuna consul-
tazione con i partner africani; il discorso a Dakar in cui Nicolas Sarkozy affermava
che «l’uomo africano non è entrato abbastanza nella storia»; la battuta con cui Em-
manuel Macron dice al presidente burkinabé Roch Marc Kaboré, !gura importante
nel panorama africano, di andare a riparare l’aria condizionata. Tutti episodi che
hanno in!ammato l’opinione pubblica in Africa.
In questo quadro, l’annuncio di Macron della sostituzione del franco Cfa con
l’Eco – in realtà un’iniziativa dei capi di Stato africani – è stato interpretato come
l’ennesimo tentativo di Parigi di mantenere un saldo controllo economico su questi
paesi. A peggiorare la situazione è sopraggiunta la convocazione dei presidenti
della regione al cospetto di Macron, che ha loro intimato di dichiarare se volevano
che la Francia restasse o meno nel Sahel. Errori di comunicazione politica con
pessimi risvolti nel continente africano. 53
QUEL CHE NOI FRANCESI NON ABBIAMO VOLUTO CAPIRE

Il seme della discordia tra Mali e Francia è stato piantato nella crisi del Sahel
con il ri!uto francese alla penetrazione dell’esercito maliano a Kidal. Dopo l’avvio
dell’Operazione Serval nel 2013 e la liberazione di Gao e Timbuktu a opera con-
giunta delle truppe francesi e maliane, Parigi ha bloccato le truppe amiche ad
Anne!s. La giusti!cazione addotta all’epoca era il timore che l’esercito maliano,
umiliato qualche mese prima, si vendicasse contro i tuareg nella città di Kidal, roc-
caforte delle ribellioni berbere dal 1963. Sebbene l’Operazione Serval fosse stata
inizialmente ben accolta, soprattutto per aver fermato la probabile avanzata dei
jihadisti verso sud, l’ostruzionismo francese è stato vissuto come sostegno implicito
alle rivendicazioni indipendentiste dei tuareg. L’incidente ha segnato l’inizio delle
divergenze con i maliani. Da quel momento l’intervento militare francese, nella
nuova forma dell’Operazione Barkhane, è diventato problematico agli occhi dell’o-
pinione pubblica saheliana.

4. La storia qui ripercorsa spiega in parte la dif!denza dell’opinione pubblica


verso la presenza francese nel Sahel. Oggi questi sospetti sono suffragati da teorie
del complotto che contribuiscono a svilire l’immagine della Francia nella regione.
Sfortunatamente per l’Eliseo, queste teorie si basano su fatti dif!cilmente contesta-
bili. Tuttavia, il peggioramento della posizione francese nel Sahel negli ultimi anni
deve molto alle fake news. Un esempio di gran risonanza: immagini di soldati
francesi con motociclette da distribuire all’esercito maliano sono state contraffatte
in modo che tali mezzi sembrassero destinati ai jihadisti. Al di là del grottesco fo-
tomontaggio, conviene interrogarsi sul motivo per cui queste dicerie hanno forte
eco presso la popolazione saheliana.
La valutazione impietosa del fallimento dell’Operazione Barkhane ampli!ca
l’impatto delle fake news. Agli occhi dell’opinione pubblica del Mali e di tutto il
Sahel, risulta ancora impossibile comprendere come, nonostante i suoi potenti
mezzi, l’esercito francese non sia stato in grado di arginare i terroristi. Dal 2013 al
2022, la minaccia terrorista si è estesa da nord a sud e le regioni di Ségou e Mopti
sono divenute roccaforti del Fronte di liberazione del Massina (Flm, o Katibat Ma-
cina). L’espansione jihadista non può attribuirsi esclusivamente a Parigi, avendo lo
Stato maliano altrettante colpe; ma ciò non impedisce a questa narrazione di ali-
mentare bufale, secondo cui la lotta al terrorismo era per l’Esagono solo un prete-
sto per impossessarsi delle risorse naturali del Mali. Dunque, ci sarebbe stato un
accordo implicito tra l’esercito francese e i jihadisti per destabilizzare la regione e
giusti!care così l’intervento militare. Si è parlato persino di armi consegnate per via
aerea ai terroristi.
Questa convinzione è largamente diffusa non solo tra le popolazioni dell’Afri-
ca occidentale, ma anche da gran parte degli eserciti saheliani. I soldati del Mali
hanno addotto come prova il fatto che i francesi non abbiano mai voluto accam-
parsi per la notte accanto a loro. Nonostante i pattugliamenti congiunti, il campo
francese si trovava a chilometri di distanza da quello maliano. Il dubbio di una
54 «relazione pericolosa» con i jihadisti si è instillato perché mentre l’accampamento
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

maliano ha subìto numerosi attacchi, quello francese è stato risparmiato dai terro-
risti. Inoltre i rinforzi hanno tardato ad arrivare, !nendo per convincere gran parte
dei soldati che la Francia facesse il doppio gioco. Non esiste alcuna prova tangibi-
le a sostegno di queste affermazioni, ma resta il fatto che sono fortemente radicate
nell’inconscio collettivo del Sahel.
Oggi le fake news si diffondono a velocità esponenziali attraverso Internet e i
social network. La massiccia diffusione dei telefoni cellulari in Africa permette an-
che agli analfabeti di partecipare al dibattito politico, attraverso la messagistica
vocale di WhatsApp. L’applicazione svolge un ruolo pivotale nella circolazione
delle informazioni: contenuti video, foto e audio contribuiscono alla validazione di
queste bufale.
Non bisogna però sottovalutare il ruolo svolto dai nuovi «imprenditori della
politica» nella diffusione delle falsità. Figure politiche di spicco che non si fanno
scrupoli a strumentalizzare false informazioni nella guerra mediatica contro la Fran-
cia. L’icona della mobilitazione antifrancese Adama Diarra, noto in Mali come Ben
le cerveau, rientra nella categoria. Il movimento sociale di cui è leader, Yérèwolo
debout sur les remparts, è l’ala attivista del governo di transizione. Come mi ha
raccontato lui stesso, Diarra e il suo gruppo avallano la disinformazione in Mali:
«Chi è che non fa propaganda per legittimare e consolidare il suo potere? Propa-
ganda o meno, abbiamo il dovere di risvegliare la coscienza dei maliani sulle mac-
chinazioni propagandistiche della Francia e dei suoi sottoprefetti ai nostri con!ni
(allusione al presidente ivoriano e al presidente senegalese, n.d.a.). I giovani han-
no deciso di prendere in mano il loro destino panafricano e patriottico e noi ce ne
facciamo carico attraverso la comunicazione con il popolo».
L’avversione alla politica francese ha cause molteplici. Lo status di ex potenza
coloniale pesa enormemente e negativamente sull’immagine della Francia. Ma l’E-
sagono paga soprattutto il prezzo delle sue incoerenze in politica estera. Il pater-
nalismo francese è capace di appoggiare il colpo di Stato di Deby !glio contro
Deby padre in Ciad e di condannare i putsch in Mali e in Burkina Faso. L’atteggia-
mento di altezzosa benevolenza della Francia verso le ex colonie resta l’elemento
più problematico. Parigi trarrebbe grande bene!cio da una maggiore discrezione
nel Sahel. Più è visibile, più accende il sentimento di ostilità nei suoi confronti.

(traduzione di Marcella Mazio)

55
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

LA FRANÇAFRIQUE
È MORTA A NIAMEY di Leslie VARENNE
Il golpe del 26 luglio, di cui i francesi sono i principali responsabili,
spazza via la retorica occidentale sulla ‘democrazia’ in Niger. La
popolazione acclama i putschisti perché stanca della corruzione e
della mancanza di alternative al Pnds dell’ex presidente Bazoum.

S ECONDO GLI OCCIDENTALI, PRIMA DEL


golpe di luglio il Niger era una sorta di Eldorado. Francia, Stati Uniti, Italia, Germa-
nia e Unione Europea non facevano altro che decantare le magni!che e progressi-
ve sorti del paese, fulgido esempio di democrazia e buon governo. Il colpo di
Stato del 26 luglio 2023, appoggiato da gran parte della popolazione, ha !nalmen-
te spazzato via questa narrazione.
La responsabilità del golpe è soprattutto della Francia. L’ex colonizzatore, in-
fatti, ha continuato nella sua politica arrogante, le cui conseguenze sono sotto gli
occhi di tutti. La strategia africana di Emmanuel Macron, dunque, può e deve esse-
re messa in discussione. Tuttavia, gli altri partner di Niamey – in particolare l’Ue,
che prevede di lanciare un’operazione civile-militare nel Golfo di Guinea a partire
dal prossimo autunno – non possono nascondersi dietro il fallimento di Parigi. È
tutto l’Occidente a doversi interrogare sui propri errori.
Il colpo di Stato del 26 luglio, infatti, è la logica conseguenza della crisi inne-
scata dalle fraudolente elezioni del febbraio 2021, attraverso le quali Mahamadou
Issoufou ha trasferito il potere a Mohamed Bazoum. Già alla vigilia dell’insedia-
mento del nuovo presidente si era veri!cato un primo tentativo di golpe, motivato
dalla volontà di fermare una transizione che agli occhi dei nigerini era tutto tranne
che democratica. I responsabili furono però prontamente arrestati e condannati.
Alcuni vennero lasciati morire in carcere.
Sebbene le proteste si siano col tempo placate, i risultati delle elezioni non
sono mai stati accettati dalla popolazione, obbligata a sopportare in silenzio. È per
questo che il putsch di luglio ha riscosso tanto successo. I nigerini non aspettavano
altro che un’occasione per liberarsi del sistema clientelare creato dal Pnds (Partito
nigerino per la democrazia e il socialismo), al potere dal 2011. 57
LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

Agli occhi della popolazione, il colpo di Stato rappresentava dunque una pos-
sibilità di cambiamento. È per questo che il Consiglio nazionale per la salvaguardia
della patria (Cnsp) gode di tanto sostegno popolare. I putschisti sono riusciti a
scardinare un sistema predatorio e corrotto che i nigerini mal sopportavano.

Quel che l’Occidente non ha voluto vedere


In Niger vi è una forte presenza militare occidentale. Nel 2013 è arrivato un
contingente di truppe americane, le quali hanno impiantato nel paese diverse basi.
In particolare, ad Agadez vi è una delle più grandi basi di droni del continente. Le
Forze armate francesi, invece, sono entrate nel paese l’anno successivo, a seguito
dell’Operazione Barkhane. I soldati tedeschi sono arrivati nel 2017, gli italiani nel
2018. La cooperazione militare con l’Unione Europea è più recente, dal momento
che ha avuto inizio uf!cialmente solo nel febbraio 2023.
Tuttavia, sebbene i partner occidentali siano presenti da anni sul territorio ni-
gerino, nessuno di questi si è mai posto il problema della regolarità delle elezioni
del 2021. Anzi, le hanno elogiate. Emmanuel Macron ha sottolineato come il Niger
fosse un «esempio di democrazia». Similmente, Josep Borrell, alto rappresentante
dell’Ue per la Politica estera, ha dichiarato: «Il popolo nigerino (…) ha portato a
termine un processo democratico storico che costituisce un passo decisivo nel
consolidamento della democrazia».
Queste affermazioni hanno esasperato la popolazione, oramai consapevole
che la candidatura di Hama Amadou, il principale oppositore, non aveva alcuna
speranza. La società civile era frustrata: le dichiarazioni dei leader europei sanciva-
no l’impossibilità di un Niger senza Pnds. Come si poteva ribaltare un regime che
godeva di un sostegno internazionale così forte?
Non sto sostenendo che gli occidentali abbiano causato il colpo di Stato. Tut-
tavia ritengo che essi abbiano creato le condizioni per la sua legittimazione popo-
lare. Del resto, se le elezioni non offrono alcuna reale speranza di cambiamento, a
cosa può af!darsi la popolazione?
Inoltre, riempiendosi la bocca con la retorica del «Niger esempio di democra-
zia», gli occidentali si sono privati degli strumenti critici necessari per prevedere il
golpe. Per loro il Niger era semplicemente il migliore dei mondi possibili. Tale
narrazione era talmente potente che, nonostante le strette relazioni con le Forze
armate nigerine, nessun paese occidentale è riuscito a prevedere un colpo di Stato
portato avanti proprio dai militari! Emmanuel Macron si è scagliato apertamente
contro i suoi servizi di sicurezza per non aver dato alcun allarme. Si tratta sempli-
cemente di un diversivo per evitare di assumersi le proprie responsabilità: gli av-
vertimenti c’erano stati, ma il presidente ha scelto di non ascoltarli.
Francesi e americani hanno dato la colpa ai loro servizi d’intelligence. Addirit-
tura, un alto funzionario del dipartimento di Stato ha dichiarato: «Il primo giorno
del golpe, tutti i nostri contatti ci hanno detto che nessuno lo stava sostenendo».
58 Previsione inevitabile, dal momento che pochi giorni prima del putsch le stesse
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

CFA, MONETA PRIGIONE 1360 Nasce il franco aureo per ordine di Giovanni II, detto il Buono
1365 e 1422 Ordinanze di Carlo V e di Carlo VII: entrambe ampliano i conî
strutturando la base monetaria del Regno di Francia
1716 Creazione della Banque générale privée e introduzione della
cartamoneta. Nasce il franco moderno
1726 Ricostruzione del franco aureo dopo il collasso delle azioni della
Compagnia delle Indie
1789-1795 Reintroduzione della cartamoneta, riforma del sistema di emissione
1918 - 1924 Svalutazione dell’80% dopo la Grande Guerra
1 1940 - 1945 Franco sostituito dai Reichskreditkassen del Terzo Reich
2
Nella Francia di Vichy nasce il franco di Vichy
3
Oceano 1945 Reintroduzione del franco francese dopo la liberazione
FRANCIA 4
Atlantico Viene creato il franco delle colonie francesi d’Africa (Cfa)

5 Mar Nero
6
Mar
Caspio

Mar Mediterraneo

MALI NIGER
SENEGAL CIAD

GUINEA- BURKINA FASO GIBUTI


BISSAU GUINEA
COSTA
D’AVORIO REP. CENTRAFRICANA
BENIN CAMERUN
TOGO
GUINEA
EQUATORIALE REPUBBLICA
Oceano Atlantico CONGO DEMOCRATICA Oceano Indiano
GABON RUANDA
DEL BURUNDI
IL FRANCO FUORI DALL’EUROPA CONGO
Franco Cfa Bceao
Franco Cfa Beac COMORE
Franco delle Comore (legato all’euro),
franco ruandese, franco del Burundi,
franco congolese (Rep. Dem. del Congo),
franco di Gibuti (legato al dollaro),
franco guineano (Guinea)

Franco Cfp WALLIS Paesi che adotta(va)no un franco nato


e
FUTUNA a immagine di quello francese
Area originale di
POLINESIA impiego/in!uenza 1 Belgio 4 Svizzera
FRANCESE del franco francese 2 Lussemburgo 5 Principato di Monaco
NUOVA Oceano Pacifico
CALEDONIA 3 Liechtenstein 6 Andorra 59
LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

fonti affermavano che «il Niger è guidato da un governo democratico, certamente


imperfetto, ma più stabile di altri nella regione».

Un sistema predatorio
Gli occidentali hanno dunque ignorato il problema democratico che af!iggeva
il Niger. Ma non è "nita qui. I partner di Niamey hanno anche deliberatamente
soprasseduto ad alcune pratiche che hanno reso il paese estremamente corrotto.
L’ex presidente Issoufou, infatti, non è stato solo acclamato come un «grande de-
mocratico» (sic!), ma anche come un buon amministratore. Nel 2022 ha addirittura
ricevuto il premio Mo Ibrahim, un prestigioso riconoscimento assegnato a chi si è
contraddistinto per il buon governo.
Tuttavia, l’opinione pubblica nigerina era perfettamente a conoscenza delle
nefandezze di Issoufou. L’ex presidente si era reso protagonista dello scandalo
Uraniumgate ed era stato accusato di appropriazione indebita: secondo l’accusa,
sarebbe entrato illegalmente in possesso di 116 milioni di euro derivanti dai con-
tratti del ministero della Difesa. Issoufou, insomma, aveva dato vita a un sistema
predatorio e la popolazione lo sapeva benissimo. Vederlo ricevere premi interna-
zionali non ha fatto altro che aumentare la rabbia e la frustrazione dei nigerini.
Nei giorni immediatamente successivi al putsch di luglio le voci di un possibi-
le coinvolgimento di Issoufou si facevano sempre più intense. Il nuovo uomo
forte del Niger, Abdourahamane Tchiani, ex capo della Guardia presidenziale, era
infatti un suo fedelissimo. Oggi possiamo affermare con ragionevole certezza che
l’ex presidente era coinvolto nel golpe. Ma quale era il suo obiettivo? Perché Issou-
fou si è imbarcato in un’impresa che ha "nito per ritorcersi contro di lui, dal mo-
mento che il suo ex protetto l’ha scaricato? La risposta è semplice: per il petrolio.
L’obiettivo di Issoufou, infatti, era tornare al potere in concomitanza con l’inau-
gurazione dell’oleodotto che avrebbe collegato Niger e Benin. Secondo l’economi-
sta Olivier Vallée, l’ex presidente intendeva sfruttare a suo vantaggio «i proventi del
petrolio che presto avrebbero cambiato il volto economico e territoriale del Niger».
Nulla di nuovo. Da quando è salito al potere, il Pnds ha infatti costruito un sistema
predatorio che combina corruzione e nepotismo.
Il problema è che mentre una piccola élite si arricchisce con le ricchezze mine-
rarie e petrolifere lo sviluppo del paese ristagna. Certo, per quanto riguarda l’indice
di sviluppo umano il Niger è salito di due posizioni, passando dall’ultimo al terzulti-
mo posto. Ma non è stato merito del governo. Piuttosto, tale «miglioramento» è do-
vuto al fatto che gli indicatori di tutti gli ultimi dieci paesi della classi"ca sono crol-
lati. Il Niger non è cresciuto. Qualcuno è semplicemente crollato più del Niger.
Chi era interessato a intestarsi i «successi» economici del paese ha enfatizzato ol-
tremisura questo risultato. Secondo i dati della Banca mondiale, tuttavia, solo il 18,6%
della popolazione nigerina ha accesso all’elettricità. E nelle aree rurali non si arriva
nemmeno al 10%. Rispetto al 2011, anno in cui il Pnds ha preso il potere, queste cifre
60 sono aumentate solo del 4%. Di certo non si può parlare di «successo economico».
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Eppure, i partner occidentali del Niger hanno stanziato diversi miliardi di euro
in aiuti allo sviluppo. Ad esempio, per il triennio 2021-24 l’Ue ha stanziato 503
milioni di euro. Dove sono i risultati? Come sono stati spesi questi soldi?
Il 28 agosto 2023, in occasione della conferenza degli ambasciatori, Macron ha
dichiarato: «Il problema del popolo nigerino è oggi rappresentato dai putschisti che
lo mettono in pericolo. Il golpe, infatti, obbliga il Niger ad abbandonare la lotta
contro il terrorismo. Inoltre, i nigerini non potranno più contare su una buona po-
litica economica e perderanno tutti i !nanziamenti internazionali che gli avrebbero
permesso di uscire dalla povertà». Ora, alla luce dei dati citati in precedenza, di
cosa parla Macron quando si riferisce a una «buona politica economica»? Esatta-
mente, chi sarebbe uscito dalla povertà?
In sintesi: gli occidentali non hanno condannato le elezioni truccate, non han-
no denunciato il malgoverno e, in!ne, hanno chiuso entrambi gli occhi davanti al
problema della corruzione. Alla luce di questi fatti, si comprende perché la popo-
lazione abbia assunto un tono anti-occidentale e, soprattutto, antifrancese. I nige-
rini hanno capito che, dietro alla narrazione basata sui «valori», l’Occidente non fa
altro che nascondere interessi molto più concreti. Del resto, in altri paesi meno
«amici» comportamenti come quelli del Pnds sono stati violentemente criticati.

L’illusione della sicurezza


In teoria, francesi, tedeschi e americani sono intervenuti in Niger per aiutare il
governo nella lotta al terrorismo. Anche gli italiani stanno svolgendo una missione
militare, la quale ha come obiettivo principale il controllo delle frontiere per favo-
rire una gestione più ef!cace dei "ussi migratori.
Il Niger, però, rimane un paese in guerra su due fronti: contro Boko Haram
nel Sud-Est e contro lo Stato Islamico nella cosiddetta area delle tre frontiere, al
con!ne con il Mali e il Burkina Faso. Sebbene le Forze armate nigerine mantenga-
no un controllo sul territorio decisamente superiore rispetto agli eserciti di Bamako
e Ouagadougou, resta il fatto che nonostante dieci anni di presenza americana e
francese l’insicurezza permane ed è percepita dalla popolazione.
Come tutti i popoli del Sahel, anche i nigerini si chiedono perché Parigi e Wa-
shington non riescano a scon!ggere i terroristi nonostante la netta superiorità milita-
re e tecnologica. Gli alleati occidentali sono oramai considerati inutili, dal momento
che guerre, massacri e orrori si susseguono da anni senza soluzione di continuità.
Secondo i nigerini, gli occidentali non hanno a cuore questi problemi e rimangono
nel paese solo per curare i loro interessi strategici ed economici. Inoltre, vedere la
rapidità e l’ef!cienza con cui l’Occidente ha aiutato l’Ucraina non ha fatto altro che
rafforzare la disillusione del popolo nigerino, oramai rassegnato a essere ignorato.
Dopo il colpo di Stato di luglio molti analisti hanno sottolineato come, in real-
tà, la sicurezza stesse migliorando. Questa apparente tranquillità era dovuta princi-
palmente ai negoziati avviati da Mohamed Bazoum con lo Stato Islamico. Il presi-
dente aveva capito che, per garantire la pace, era necessario trattare con i jihadisti. 61
LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

Tuttavia, af!nché fosse possibile una trattativa, l’esercito di Niamey e gli alleati
occidentali hanno dovuto interrompere le operazioni contro lo Stato Islamico. La
conseguenza è stata il rafforzamento della presenza jihadista sul territorio nigerino,
utilizzato dai terroristi come testa di ponte per attaccare il Mali. Inoltre, l’approccio
«diplomatico» di Bazoum non è stato particolarmente apprezzato dalle sue Forze
armate. I militari, infatti, sono rimasti molto turbati dal rilascio di alcuni comandan-
ti dello Stato Islamico.
In conclusione, l’approccio di Bazoum – per quanto possa essere stato ef!cace
nel breve periodo – non è stato realmente apprezzato da nessuno. Sicuramente
non dalla popolazione, che vedendo i jihadisti guadagnare posizioni nel paese si è
ulteriormente convinta dell’inutilità degli aiuti occidentali.

Gli alleati alla prova del golpe


È in questo contesto di risentimento politico, economico e securitario che si è
svolto il colpo di Stato di luglio, che ha gettato nel panico i partner occidentali e
africani del Niger.
Lo spettro del golpe militare si aggira per il Sahel e inquieta i governi della re-
gione. Dal 2020 l’Africa occidentale ha conosciuto ben sei colpi di Stato: due in Mali
(2020 e 2021), due in Burkina Faso (2021 e 2022), uno in Guinea (2021) e da ultimo
quello in Niger (2023). La pratica del putsch pare diffondersi come un’epidemia e ciò
preoccupa non poco i governi dei paesi dell’Ecowas (Comunità economica degli
Stati dell’Africa occidentale). I partner occidentali del Niger, invece, sono terrorizzati
dal possibile arrivo dei russi nel paese, sulla scia di quanto avvenuto in Mali.
Tuttavia, il vero scon!tto è Emmanuel Macron, nuovamente umiliato dopo i
colpi di Stato in Mali e in Burkina Faso. Il golpe a Niamey ha poi messo in dif!col-
tà anche gli Stati Uniti, particolarmente interessati alle sorti del paese. Washington
aveva investito centinaia di milioni di dollari nelle basi nigerine, grazie alle quali
tiene sotto schiaffo buona parte della regione, Libia compresa. Sotto questo aspetto
è interessante notare come a distanza di un mese gli americani non abbiano ancora
pronunciato la parola «putsch». Una tale quali!cazione giuridica li costringerebbe
infatti a interrompere ogni attività politica e militare nel paese. Cosa che Washington
non ha alcuna intenzione di fare.
In ambito Ecowas, le reazioni sono state commisurate alle preoccupazioni. Il
neoeletto presidente nigeriano Bola Tinubu ha assunto un atteggiamento intransi-
gente, condiviso con gli altri capi di Stato della regione. All’inizio di agosto, tutti
erano concordi nel richiedere il reintegro del presidente democraticamente eletto
Bazoum. L’Ecowas ha preso misure drastiche, imponendo sanzioni durissime. Bo-
la Tinubu ha addirittura minacciato l’intervento militare. Tuttavia, oggi la situazione
è radicalmente cambiata.
Le minacce hanno avuto effetti controproducenti, come era del resto prevedi-
bile. Decine di migliaia di nigerini scendono ogni giorno in piazza, sventolando le
62 loro bandiere e mostrando il loro sostegno al Cnsp. La concreta possibilità di una
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

LE INDIPENDENZE AFRICANE

Mar Nero
Oceano Atlantico

Marocco Tunisia 1956


1956 Mar Mediterraneo

Algeria 1962 Egitto


Sahara Occ. ind. formale:
Libia 1951 1922
sostanziale:
Mauritania 1952
1960
Senegal Mali 1960
1960 Niger 1960 Eritrea 1993
Ciad 1960 Sudan 1956
Gibuti 1977
Nigeria
1960 Etiopia
Rep. Sud Sudan
Centrafricana 2011
Camerun 1960
São Tomé e Príncipe 1975 1960 Somalia 1960
Uganda
Guinea Eq. 1968 1962 Kenya
Gabon 1960 1963
Rep. Dem. Ruanda 1962
del Congo Burundi 1962
Congo Br. 1960 1960
Tanzania
1961 Malawi 1964

Angola 1975
Zambia
Oceano Atlantico 1964

Zimbabwe Madagascar
Namibia 1980 Mozambico 1958
1990 Botswana 1975
1966
Gambia 1965
Guinea Bissau 1974 eSwatini 1968
Guinea 1958 Lesotho 1968
Sierra Leone 1961 Sudafrica
Liberia Oceano Indiano
Costa d’Avorio 1960
Burkina Faso 1960
Ghana 1957 Tra il 1949 e il 1959
Togo 1960 Tra il 1960 e il 1961
Benin 1960 Tra il 1962 e il 1970
Capo Verde 1975 Dopo il 1970
Comore 1975 Stati sovrani prima del 1949
Seychelles 1976 1968 Data dell’indipendenza
Mauritius 1968 Territorio conteso 63
LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

guerra ha inoltre smorzato l’ardore di alcuni paesi. L’Ecowas, infatti, si è divisa.


Sebbene Capo Verde sia stato l’unico paese dell’organizzazione ad annunciare
pubblicamente la sua contrarietà a qualsiasi forma di con!itto, bisogna sottolineare
che solo Nigeria, Costa d’Avorio e Benin – insieme a Senegal e Ghana, benché in
misura minore – paiono intenzionati ad andare "no in fondo. E la stessa Abuja ha
dovuto ammorbidire la sua posizione a causa delle proteste dei senatori, dei mili-
tari e dei capi tradizionali del Nord del paese.
Anche l’Unione Europea si è spaccata. Roma e Berlino si sono allontanate
dalla postura intransigente di Macron, sostenendo la necessità di una soluzione
diplomatica. In"ne, Parigi e Washington hanno posizioni diametralmente opposte.
Parigi continua a pretendere il reintegro di Bazoum, minacciando l’intervento mili-
tare e ri"utando qualsiasi dialogo con la giunta. Gli americani, invece, non hanno
alcuna intenzione di rinunciare alle infrastrutture che hanno impiantato nel paese.
Per questa ragione, il 6 agosto gli Stati Uniti hanno inviato a Niamey Victoria Nu-
land, vicesegretario di Stato ad interim. A differenza dei francesi, gli Usa si sono
seduti al tavolo con i putschisti.
Sebbene non abbia incontrato direttamente Abdourahamane Tchiani, la diplo-
matica americana ha parlato lungamente con Moussa Salaou Barmou, l’attuale ca-
po di Stato maggiore nigerino. Due sono stati gli argomenti messi sul tavolo da
Victoria Nuland: il mantenimento delle basi americane e la garanzia di non ricorre-
re ai mercenari del Gruppo Wagner. Barmou, formatosi al Defense College e con-
siderato l’«uomo di Washington» nella giunta, avrebbe accolto le richieste degli Usa.
Per Macron, i negoziati tra putschisti e americani sono stati l’ennesima umilia-
zione. Due giorni prima la giunta aveva uf"cialmente rotto gli accordi di coopera-
zione militare con Parigi, chiedendo che ritirasse le truppe entro un mese. Il mini-
stero degli Esteri francese ha respinto questa richiesta, sostenendo che le autorità
insediate a seguito di un colpo di Stato non sono legittime.

Parigi ostacolata, isolata e umiliata


Forte delle divisioni in seno all’Ecowas e all’Ue, dell’accordo con gli Stati Uni-
ti e del sostegno popolare, la giunta di Niamey ha de"nito il suo programma poli-
tico, nominando un primo ministro civile che ha formato un governo. In"ne, il 25
agosto i militari hanno ordinato l’espulsione dell’ambasciatore francese Sylvain Itté,
che sarebbe dovuta avvenire entro due giorni, poi di tutte le truppe francesi. Pari-
gi, ovviamente, si è opposta.
Si tratta di una situazione senza precedenti per la Francia, che si ritrova con un
corpo diplomatico asserragliato nella sua ambasciata e 1.500 soldati con"nati nella
loro base. Il 2 settembre, a un giorno dalla data dell’ultimatum "ssato per la loro
partenza, i nigerini hanno s"lato in massa davanti al campo delle forze francesi
incitandole a lasciare il paese.
La situazione è evidentemente insostenibile, ma Macron continua a chiedere
64 il reintegro di Bazoum e a mostrarsi intransigente. Alla conferenza degli ambascia-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

tori, infatti, ha dichiarato: «La nostra politica è quella giusta». Ha poi criticato la
«debolezza» dei partner occidentali, ponendogli una domanda retorica: «Come pos-
siamo implementare una partnership con un governo se poi, quando si trova in
questa situazione, non vogliamo sostenerlo?» Macron non comprende che questo
atteggiamento paternalistico è esattamente quello che i popoli africani non sono
più disposti a tollerare.
Comunque !nirà a Niamey, Parigi ne uscirà scon!tta e umiliata. Altri paesi,
come il Ciad e il Senegal, seguiranno l’esempio del Niger. I venti di rivolta sof!e-
ranno da un capo all’altro del continente, sancendo la !ne dell’in"uenza francese
in Africa. Parigi deve prepararsi a uno tsunami geopolitico, paragonabile alle scon-
!tte di Azincourt (1415), Trafalgar (1805) e Fashoda (1898).
Il fallimento di Parigi è testimoniato anche dal fatto che gli altri Stati dell’Ue
non si sono fatti problemi a isolare la Francia. Nessun paese europeo intende pa-
gare il prezzo delle politiche di Macron. Gli Stati Uniti, invece, si sono comportati
come ai tempi della crisi di Suez, ma questa volta la Francia è completamente
isolata. Washington intende assumere direttamente il controllo della regione, dal
momento che Parigi si è dimostrata incapace di contenere l’avanzata di Cina e
Russia in Africa.
Traumatizzati dal voto degli Stati africani alle Nazioni Unite dopo lo scoppio
della guerra d’Ucraina, gli americani sperano infatti di riconquistare il cuore degli
africani. Si illudono. L’Africa si sta liberando. Nel lungo periodo, tutti dovranno
ritirarsi. Non si può fare nulla per fermare questo processo. È un’ondata. È la mar-
cia della storia.

(traduzione di Giuseppe De Ruvo)

65
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

AFRICA SÌ, AFRICA NO


PARIGI SI DILANIA di Jean-Baptiste NOÉ
La Francia è in crisi con sé stessa perché non riesce più a riconoscere
pubblicamente ciò che fa. Pretende di civilizzare senza imporsi sugli
altri. In Niger, per paura di apparire neocolonialista, Macron non
ha voluto proteggere Bazoum, come suggerivano i servizi.

1. I L GOLPE IN NIGER SEGNA UN’ULTERIORE


diminuzione dell’in!uenza francese in Africa, ma è stato ricevuto in modo diverso
tra i vari poteri dell’Esagono. Al di là della questione nigerina, in ballo ci sono la
potenza della Francia e la natura di questa potenza. La questione in gioco: è im-
portante per Parigi essere presente in Africa o il suo potere nel mondo può espri-
mersi in altro modo?
Per la maggioranza della popolazione, la perdita d’in!uenza in Africa non è un
tema. L’utilità del continente non è immediatamente evidente per la gran parte dei
cittadini. L’Africa è vista attraverso l’immigrazione e i problemi che essa comporta.
Oppure attraverso le sue s"de: la crescita demogra"ca, le guerre, gli spostamenti
delle popolazioni. Non è percepita come una leva positiva della potenza francese.
Riemergono i dibattiti degli anni Cinquanta-Sessanta sulla colonizzazione: mante-
nerla per preservare la potenza della Francia o non mantenerla perché la potenza
può essere esercitata altrimenti? Il generale de Gaulle aveva optato per la seconda,
concedendo l’indipendenza alle colonie, lasciando l’Algeria e considerando che
fosse meglio investire nell’arma nucleare e nella modernizzazione economica piut-
tosto che nelle sabbie del Sahara e nei "umi dell’Africa australe. È un’opinione
ancora molto diffusa: per molti francesi, l’Africa costa caro (aiuti allo sviluppo,
operazioni militari) e porta poco.
Effettivamente il continente non incide molto sulla potenza economica france-
se. Le imprese nazionali scambiano più con l’Italia che con tutti i paesi africani,
Maghreb incluso. I commerci rappresentano soltanto il 2% dell’interscambio, con-
tro il 6% del Regno Unito. Nel 2021, l’export totale era di 23,5 miliardi di euro,
contro i 37,2 miliardi verso il Belgio. Soltanto il Marocco vanta una considerevole
profondità industriale francese: diverse aziende vi hanno stanziato stabilimenti pro-
duttivi nel settore automobilistico, nell’aviazione e nel tessile, in particolare a Tan- 67
AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

geri. Le cose non stanno affatto così nel Sahel o nell’Africa nera. In questo senso,
la fuoriuscita del gruppo di Vincent Bolloré è stata molto più rilevante del ritiro di
qualche soldato dal Mali. Dopo aver fondato il proprio impero industriale sulla
gestione dei porti africani, la vendita degli attivi nel dicembre 2022 al gruppo Msc,
per un totale di 5 miliardi di euro, ha sancito l’addio di Bolloré all’Africa. Il colosso
ha preferito investire nei media e nella logistica. La !ne di questa quarantennale
avventura industriale è sintomatica della scarsa attrattività dell’Africa agli occhi
degli imprenditori francesi, al di là di qualche settore molto speci!co.

2. Solo un gruppo assai ristretto di poteri francesi ha ancora interesse per l’A-
frica: gli umanitari, i militari e i politici. Fedele alla missione civilizzatrice che sen-
te di dover giocare nel mondo e che ha dato impulso alla colonizzazione nell’Ot-
tocento, la Francia centra una grande parte della sua politica estera sugli aiuti.
L’Agenzia francese per lo sviluppo (Afd), le cui radici risalgono al 1941, è il prin-
cipale organismo pubblico di orientamento e di gestione degli aiuti. Nel 2022, l’Afd
ne ha dispensati per 22 miliardi di euro. La metà è stata destinata all’Africa. Circa
l’80% delle sovvenzioni e dei prestiti direttamente accordati dallo Stato riguarda
questo continente. L’agenzia opera sotto la tutela dell’Eliseo e del ministero degli
Esteri. Benché disponga di fondi propri, una buona parte del bilancio deriva dall’e-
rario. In Africa, l’Afd opera in prima persona oppure !nanzia delle organizzazioni
non governative e delle associazioni che svolgono progetti nel quadro de!nito dal
Quai d’Orsay. Ciò signi!ca che questi soggetti terzi vivono di fondi pubblici e
orientano le loro attività in funzione delle direttive governative. Sono dunque atto-
ri privati che agiscono a corollario dell’azione pubblica. Sorta di mercenari dell’u-
manitario. Il bilancio dell’Afd cresce costantemente dal 2017. Il presidente Emma-
nuel Macron si è dato l’obiettivo di consacrarle lo 0,7% del reddito nazionale lordo
entro il 2025, contro lo 0,37% del 2017 e lo 0,55% del 2021.
In Francia è sempre più vivace il dibattito sull’utilità reale di questi aiuti: i pa-
esi africani ne bene!ciano davvero? E a che cosa servono alla Francia? Non è una
novità. Nel 1964, il deputato socialista della Corrèze, Jean Montalat, stimava che
fosse meglio investire in aiuti allo sviluppo nel suo arretrato dipartimento piuttosto
che in Africa. Aveva pure coniato una formula destinata a durare: «La Corrèze piut-
tosto che lo Zambezi». Di fronte alle attuali faglie geogra!che ed economiche
nell’Esagono, l’argomento di Montalat è tornato alla ribalta. Ci si chiede se un pae-
se indebitato come la Francia si possa ancora permettere di fare regali agli Stati
africani e di condonare i loro debiti.
La questione diventa: la Francia ha ancora i mezzi !nanziari per sostenere la
Françafrique? Tanto più che l’Afd opera ora secondo il principio dell’aiuto senza
vincolo di destinazione, cioè i paesi riceventi non sono obbligati a utilizzare le
somme in contratti con imprese francesi, al contrario di molti Stati che condiziona-
no gli aiuti a rapporti economici con le proprie aziende. Diversi contribuenti fran-
cesi hanno l’impressione che le loro tasse servano a !nanziare gli appalti delle
68 sempre più numerose imprese cinesi nel Continente Nero.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

BOLLORÉ, L’IMPERO CHE NON C’È PIÙ


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Oceano Atlantico

Concessioni portuali
Concessioni ferroviarie
Vie !uviali
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2 CONGO

Per le Forze armate, l’Africa è stata una manna dal cielo. Dopo la !ne delle
operazioni in Afghanistan, il continente ha fornito dieci anni di operazioni ininter-
rotte, missioni appassionanti e variegate, uso reale e massiccio di materiali, giusti-
!cazione per la crescita dei bilanci. Le Operazioni Serval (gennaio 2013-luglio
2014) e Barkhane (agosto 2014-novembre 2022) hanno permesso all’Esercito di
fare il suo mestiere, schierando continuativamente almeno 3 mila soldati, con un
picco di 5.100 nel gennaio 2020. Non essendo schierate in Ucraina (a parte qualche
piccola unità d’élite), il rischio è che le Forze armate diventino un esercito da ca-
serma. Addestrarsi alla guerra senza farla mai non è né stimolante sul piano profes-
sionale né attraente per le nuove reclute. All’Accademia militare di Saint-Cyr, depu-
tata alla formazione dei nuovi uf!ciali, in molti si interrogano sul futuro e alcuni
hanno già previsto di lasciare l’uniforme per entrare nel settore privato. Un esercito
è utile solo se serve; gli occorrono delle operazioni. 69
AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

Anche i politici sono tra gli scon!tti dell’espulsione dall’Africa. I legami privi-
legiati intrattenuti nel quadro della Françafrique con capi di Stato, ministri, alti
funzionari davano l’illusione di importanza e di potenza. È molto gradevole parte-
cipare a vertici internazionali in alberghi lussuosi e in palazzi occidentalizzati. È
anche gradevole conoscersi, aiutarsi, avere l’impressione di incidere sul corso degli
eventi mondiali. La classe politica francese ha in"uenza in Africa, ma non in altri
paesi che contano. In Asia, al massimo, ci sono gli imprenditori, con i loro investi-
menti, le loro imprese e i loro dipendenti espatriati. In Africa, i funzionari del Quai
d’Orsay e delle grandi amministrazioni pubbliche hanno ancora leve da manovrare.
Imprenditori e funzionari: due culture e due mondi diversi che si ignorano, non
sanno lavorare assieme e, spesso, si disprezzano.

3. La Francia in Africa è ingolfata dall’ossessione di non sembrare una potenza


coloniale. È uno dei suoi paradossi più strani. È convinta di possedere ancora una
missione civilizzatrice, un dovere morale di diffondere nel mondo i valori della Re-
pubblica, di propagare e difendere la democrazia. È una delle ragioni per cui man-
tiene un bilancio importante per le sue Forze armate. Così facendo, continua a
comportarsi come fosse una potenza coloniale. Le sue logiche mentali non sono
cambiate più di tanto dal 1880. Crede ancora di poter integrare gli immigrati; di più,
di poterli trasformare in francesi. Tanto che le !gure politiche di qualunque orienta-
mento detestano – lo dicono apertamente – il modello anglosassone per l’immigra-
zione, presentato come cattivo e pernicioso perché, a detta loro, permette il mante-
nimento delle comunità di origine, senza favorire l’«integrazione».
Questa idea dell’integrazione equivale a transustanziare la natura delle perso-
ne che si trasferiscono in Francia. È anche al cuore del pensiero e dell’operato
politico francese in Africa. Più di ogni altro paese in Europa, la République si è
costruita al contempo in opposizione al cattolicesimo e con l’ambizione di sostitu-
irvisi. Tanto che con il Belgio è stata la nazione che ha spedito più missionari nel
Continente Nero. Perché animata dalla saldissima convinzione di dover diffondere
un nuovo Vangelo, quello della democrazia e dei diritti dell’uomo. Sotto questo
aspetto, i discorsi dei repubblicani nel 1880, inizio del periodo coloniale, sono gli
stessi dei repubblicani d’oggi.
Il presidente François Mitterrand aveva riattivato l’idea della missione civilizza-
trice con il discorso della Baule nel 1990. In esso, la Francia annunciava l’intenzio-
ne di non sostenere più i regimi autoritari africani e di operare secondo il criterio
della democrazia, favorendo la celebrazione di elezioni presidenziali nel suo pré
carré. La conseguenza è stata provocare la scon!tta di molti dei suoi alleati, desta-
bilizzando i paesi francofoni. Su questa difesa della democrazia poggia il credo
uf!ciale della politica francese in Africa, come se organizzare elezioni e concedere
di scegliere liberamente i propri dirigenti potesse bastare a risolvere i problemi
degli africani. Ma il suffragio universale ha consacrato l’aritmetica etnicista, prologo
70 dei violentissimi drammi degli anni Novanta-Duemila.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

BILANCIO DI UNA SETTIMANA VIOLENTA


IN FRANCIA !27 GIUGNO"3 LUGLIO#

Notte di martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì


27 giugno 28 giugno 29 giugno 30 giugno 1° luglio 2 luglio 3 luglio

1.311
885 773
3.486
49 239 persone fermate 157 72

315
169 348
808 48
25 gendarmi e poliziotti feriti 3 0

4.507
2.814
2.391
12.202 1.585
251 incendi nelle strade 352 202

1.990
1.585
788 5.892 352
115 veicoli incendiati 202 159

514

266
142 1.105 123
edi!ci incendiati o attaccati 34 24
2

88
78
70
269 26
NC stazioni della polizia o della gendarmeria danneggiate 3 4

Fonte: Ministero dell’Interno francese, Le Figaro

Lo strano paradosso è che, pur aggiornando la propria missione universale al


XXI secolo, la Francia trova ripugnante l’idea di essere percepita come potenza
coloniale e non osa riconoscere pubblicamente la propria volontà civilizzatrice.
Così si nasconde dietro a concetti come gli aiuti allo sviluppo, la democrazia, la
lotta contro il riscaldamento globale per non dire che vuole conservare il diritto di
intervenire e di imporre le proprie idee. Cioè si ri!uta di riconoscere ciò che fa. Si
mette dunque in una condizione di scrupolo e di colpevolezza che le impedisce
di agire correttamente. 71
AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

L’episodio in Niger ne è crudele rivelazione. Di fronte al golpe di !ne luglio,


il governo è sembrato sorpreso. È dunque possibile supporre che i servizi d’infor-
mazione francesi, benché ben piazzati in Africa, non abbiano visto arrivare il colpo
di Stato. Signi!cherebbe che sono incompetenti, ma non è così. Bernard Émié,
attuale capo della Direzione generale della sicurezza esterna (Dgse), ha informato
il presidente di una possibile eversione a Niamey nel gennaio 2023. Due giorni
prima del golpe, la Dgse ha proposto a Macron di collocare soldati francesi nel
palazzo presidenziale per proteggere il capo di Stato Bazoum. L’opzione è stata
respinta perché in odore di neocolonialismo. È d’altronde un’accusa ricorrente che
le è rivolta dalla Russia. E anche i partner europei dimostrano una certa avversione
sul tema: il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, per esempio, ha dichiarato
che il Vecchio Continente «non può permettersi un confronto armato, non dobbia-
mo essere visti come dei nuovi colonizzatori».
La Francia cerca dunque di intervenire, ma non troppo. Ciò che compromette
il suo operato e nuoce alla sua ef!cacia. Sarebbe nel suo interesse fare una scelta
netta: ritirarsi del tutto dall’Africa oppure assumersi una responsabilità e impegnar-
si !no in fondo. Ecco il dilemma crudele per Parigi: intervenire in Africa anche se
alla popolazione non importa, senza una grande passione per il mantenimento
della propria potenza e stando attenta a non dare l’impressione di voler perpetua-
re il colonialismo. Un equilibrismo dif!cilmente tenibile.

4. La questione della presenza francese in Africa non è unanime nemmeno


all’interno delle burocrazie.
Se n’è avuto un saggio il 1° agosto 2023 con un tweet di Gérard Araud, già
ambasciatore a Washington e autore di recenti opere molto ben accolte: «Conce-
zioni della potenza arcaiche per il XXI secolo, un’incosciente nostalgia per l’impe-
ro coloniale, un romanticismo nutrito di fantasmi, ignoranza delle realtà sul terre-
no, un briciolo di condiscendenza verso gli africani e comprenderete molto dei
commentatori. Nel corso dei miei quarant’anni di carriera diplomatica, mai la no-
stra presenza in Africa mi è parsa come un fattore della nostra in"uenza. È una
visione d’in"uenza di un’altra epoca». In risposta a un commento che gli spiegava
come la Francia fosse potente proprio perché è in Africa, Araud ha riaffermato:
«No, la Francia non è una potenza grazie alla sua presenza in Africa. Non più di
quanto il Regno Unito non lo sia a causa della sua assenza dall’Africa. È un’idea
del XIX secolo. La potenza oggi è nello Spazio, nel ciberspazio, nei mari eccetera».
Non essendoci più soverchianti interessi economici o politici, la presenza fran-
cese in Africa veniva giusti!cata attraverso gli interessi di sicurezza: conducendo
una «guerra al terrorismo» contro il jihadismo nel Sahel, la Francia avrebbe evitato
attentati sul proprio territorio. Questo discorso uf!ciale, in voga soprattutto al mi-
nistero della Difesa, soffre di diverse lacune. La prima è che non si fa la guerra al
terrorismo, perché è un mezzo utilizzato da persone e gruppi, non una entità. Uno
strumento, non un’ideologia. Non si fa la guerra alle armi ma a coloro che le usano.
72 La seconda è che gli attentati in Francia non sono stati opera di individui prove-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

nienti dal Sahel ma, per la maggior parte, di persone nate nell’Esagono e in pos-
sesso della cittadinanza francese. La lotta contro il terrorismo è affare della polizia
e della sicurezza interna, non dei militari. La terza lacuna riguarda la paci!cazione
e proprio non tiene: il Sahel è più instabile oggi rispetto a dieci anni fa, quando è
cominciato l’intervento.
Il ministro della Difesa Sébastien Lecornu ha difeso l’Operazione Barkhane de-
!nendola un successo. Riprendendo così l’idea che l’intervento nel Sahel sarebbe
stata una vittoria militare ma un fallimento politico. Dire una cosa del genere signi-
!ca dimenticare la natura stessa di un’operazione bellica. Il militare è al servizio del
politico: non esiste successo militare se gli obiettivi politici non sono raggiunti. Se è
un fallimento politico, è anche un fallimento militare. L’Operazione Serval era stata
un successo incontestabile perché aveva raggiunto tutti gli obiettivi. Il problema di
Barkhane è che gli obiettivi politici – e di conseguenza quelli militari – erano vaghi.
È evidente che gli argomenti avanzati dalle autorità francesi non reggono alla
prova del nove. Ciò ha !nito per delegittimare le giusti!cazioni degli interventi
militari. Qui sta la chiave, per Parigi, del golpe in Niger: quest’ultimo ha dimostrato
che i motivi addotti per spiegare la necessità della presenza in Africa erano falsi.
Ha inoltre mostrato che la Francia non è desiderata e che, nonostante le somme
importanti versate ogni anno attraverso l’Afd negli aiuti allo sviluppo, i popoli afri-
cani non ci vogliono.

(traduzione di Federico Petroni)

73
AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

Nahel e dintorni: geogra!a dei moti francesi


a cura di Jean-Baptiste NOÉ

Carta 1. Nanterre, una metropoli globale epicentro dei moti

Il 27 giugno il giovane franco-algerino Nahel Merzouk viene ucciso da un


poliziotto presso piazza Nelson Mandela, a Nanterre (carta 1). La morte di Nahel,
in circostanze ancora da chiarire, suscita moti di protesta a Parigi e in diverse
città francesi che durano una decina di giorni, riverberandosi anche in Svizzera e
in Belgio. Contrariamente ai cliché sociologici, le proteste violente non sono par-
tite da aree povere e dimenticate.
Epicentro dei disordini e luogo maggiormente colpito dalle violenze fra gio-
vani immigrati e polizia, Nanterre non è affatto una città disagiata. Situata a soli
sette chilometri da Parigi, Nanterre è il capoluogo degli Hauts-de-Seine (92), il
dipartimento più ricco di Francia insieme a Parigi. Sul suo territorio si trova il
quartiere !nanziario più grande d’Europa, La Défense.
La cité Pablo Picasso, da dove sono partiti i disordini, è stata costruita dall’ar-
chitetto Émile Aillaud tra il 1973 e il 1981. Oggi è classi!cata come «notevole ar-
chitettura contemporanea». Si tratta di un complesso residenziale di torri, immer-
se in un’area verde adiacente al parco André Malraux: una riserva ornitologica di
25 ettari. In linea d’aria, le torri Aillaud distano solo 500 metri da La Défense.
Oltre agli uf!ci e ai centri commerciali, La Défense ospita lo stadio Arena (40
mila posti), diversi cinema e sale da concerto. A questo si aggiungono 3 stazioni
Rer, 3 stazioni ferroviarie e 2 stazioni della metropolitana, che collegano il quar-
tiere con Parigi e la parte occidentale dell’Île-de-France. La città di Nanterre e le
zone degli scontri non sono aree disagiate o svantaggiate, ma perfettamente in-
tegrate nel cuore della globalizzazione economica. Le autorità locali hanno rea-
lizzato di recente importanti investimenti urbani. Ad esempio, la creazione dell’e-
co-distretto di Bergères, che soddisfa standard ambientali all’avanguardia (costo:
153 milioni di euro). Per la riquali!cazione della cité Pablo Picasso sono stati
investiti 230 milioni di euro, pari a 70 mila euro per appartamento. Inoltre, di
fronte al complesso residenziale sono stati costruiti un teatro e un polo culturale
(50 milioni di euro).
Le due grandi e famose moschee, così come il consolato algerino, testimonia-
no la presenza di servizi religiosi e amministrativi a disposizione della popolazio-
ne. È proprio all’interno della grande moschea Ibn Bådøs che si sono tenuti i fu-
nerali di Nahel. Oltre ai luoghi di preghiera, la moschea comprende una scuola
74 privata – primarie, medie e superiori – e un centro culturale.
1 - I LUOGHI DI NAHEL Cimitero comunale
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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

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75
AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

REGNO UNITO Bruxelles


2 - LA DIFFUSIONE DEI MOTI Calais
Lille
BELGIO
Canale
GERMANIA
della Manica
ALTA FRANCIA
Rouen LUSS.

NORMANDIA
Brest GRANDE EST
Parigi
Strasburgo
BRETAGNA
Rennes Laval
Montargis
PAESI DELLA LOIRA
Mulhouse
Tours
Nantes Digione
CENTRO -VALLE BORGOGNA
DELLA LOIRA
FRANCA CONTEA
SVIZZERA

Clermont-
Ferrand
Lione Annecy
NUOVA AQUITANIA
Oceano Atlantico
ALVERNIA-RODANO-ALPI
Bordeaux ITALIA

OCCITANIA PROVENZA-
ALPI - COSTA AZZURRA
Nizza
Montpellier
Pau Tolosa
Marsiglia

SPAGNA
ANDORRA CORSICA
Aulnay-sous-Bois
Roissy Ajaccio
St-Denis
Argenteuil Mar Mediterraneo
1
Nanterre Bobigny
Le Raincy
3 Parigi
Boulogne Montreuil
Versailles Nogent-sur-Marne

Créteil Moti di protesta


Antony
2 Moti in luoghi con una storia di
L’Haÿ-les-Roses contestazioni e molti immigrati
Territori abitati da un’alta
Viry-Châtillon 1 SEINE-SAINT-DENIS percentuale di immigrati
Évry 2 VAL-DE-MARNE Luoghi dove le proteste non
76 3 HAUTS-DE-SEINE erano previste
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Carta 2. Diffusione dei moti in Francia

Osservando questa carta si distinguono diversi elementi signi!cativi. Le città


colpite dai moti catturano l’attenzione, ma altrettanto interesse destano i centri ur-
bani e le regioni che ne sono stati risparmiati.
La maggior parte dei disordini ha avuto luogo nella regione di Parigi, in parti-
colare nel dipartimento degli Hauts-de-Seine. Nel resto della Francia, le città insor-
te sono centri dove la violenza urbana è frequente e la popolazione straniera rile-
vante: Lille, Strasburgo e Mulhouse. Anche la regione di Lione è stata colpita dura-
mente. Nulla di sorprendente: è a Lione che si è veri!cata la prima grande rivolta
delle periferie nel 1981. In altre grandi città di provincia coinvolte, i moti si sono
concentrati in quartieri abitati soprattutto da immigrati. A Brest, Clermont-Ferrand,
Nantes, Nizza, Rouen e Tours gli sporadici episodi di violenza sono solitamente
localizzati in zone ben de!nite, note a politici e poliziotti. Fin qui, dunque, un
classico senza sorprese.
La novità di queste rivolte è stata il loro diffondersi in città !no a oggi cono-
sciute come tranquille e borghesi: Annecy, Laval, Bordeaux, Montargis. L’esplosio-
ne delle violenze in questi centri di provincia è in parte dovuta alle politiche urba-
nistiche degli ultimi quindici anni. Infatti, la demolizione dei grandi complessi re-
sidenziali nelle metropoli ha comportato il ricollocamento dei loro abitanti in que-
ste città. Parallelamente, in Francia si sono espansi il traf!co e il consumo di droga,
!no a coinvolgere anche le province di piccole e medie dimensioni.
Altrettanto sorprendente è stata l’assenza di disordini in città e regioni dove la
comunità immigrata è invece massiccia: la Linguadoca, Rennes e Marsiglia. L’unico
scontro a Marsiglia è stato breve e molto localizzato nel centro della città. Dove il
livello delle violenze è stato minimo, il traf!co di droga è così ben radicato da ga-
rantire ai traf!canti un forte controllo sulla popolazione, in particolare a Marsiglia
e nel dipartimento di Seine-Saint-Denis. Di conseguenza, le mancate rivolte non
sono necessariamente una buona notizia.
In!ne, la Corsica è stata completamente risparmiata. L’isola è dominata dai
nazionalisti e dalle famiglie locali, che mantengono l’ordine e vigilano sui poten-
ziali agitatori.

(traduzione di Marcella Mazio)

77
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

PERCHÉ MACRON
NON RIESCE A FARLA FINITA
CON LA FRANÇAFRIQUE di Mario GIRO
Origini e scopi del modello neocoloniale che sta compromettendo
l’immagine della Francia, non solo in Africa. L’ossessione
securitaria e i disastri provocati dalla privatizzazione degli Stati.
Russia e Cina, spaventapasseri di comodo per l’Occidente.

1. N EL NOVEMBRE 2017 EMMANUEL MACRON,


da poco eletto all’Eliseo, si reca in Burkina Faso, suo primo viaggio in Africa. La
scelta è coraggiosa: nessun presidente francese aveva osato visitare Ouagadougou
dopo François Mitterrand nel 1986. A quell’epoca al potere c’erano Thomas Sanka-
ra e il suo Consiglio nazionale della rivoluzione. Il nome del paese era stato cam-
biato (dal coloniale Alto Volta) e il regime instaurato era vicino al blocco dell’Est.
Un anno dopo l’esperienza si era conclusa in maniera cruenta con l’avvento di
Blaise Compaoré, ex braccio destro di Sankara, che aveva portato il Burkina Faso
verso l’Occidente, mantenendo tuttavia una forte dose di indipendentismo basato
sullo «sviluppo autocentrato», come si usava dire all’epoca. Nessuno pensò che
quel golpe non fosse appoggiato da Parigi.
Con la sua visita Macron intende girare de!nitivamente la pagina della vecchia
Françafrique che pesa sulle relazioni della Francia con il continente. L’idea è di
«cambiare il software» della politica francese, smilitarizzandola e rendendola più
vicina alle aspirazioni delle società civili. Secondo il presidente francese il rapporto
con l’Africa deve diventare una «storia d’amore». Sei anni dopo assistiamo a uno
scenario completamente diverso.
Macron non è il primo a tentare di cambiare la Franciafrica: a parte Jacques
Chirac, tutti gli inquilini dell’Eliseo dopo il generale de Gaulle hanno in un modo
o nell’altro annunciato la !ne della trama (semisegreta) delle relazioni tra Parigi e
le capitali dell’Africa francofona. Lo stesso Nicolas Sarkozy, pur gollista, aveva ini-
ziato il suo mandato cercando di disfarsi di quell’eredità pesante e invecchiata. È
noto cosa si rimprovera alla Francia: colpi di Stato pilotati, sostegno a regimi tiran-
nici e a élite corrotte, scambio di favori, supporto a una gerontocrazia africana
autoritaria. L’intreccio va nei due sensi: anche le campagne elettorali francesi rice-
vono !nanziamenti (non dichiarati) dall’Africa. Tutto questo è chiamato «neocolo- 79
PERCHÉ MACRON NON RIESCE A FARLA FINITA CON LA FRANÇAFRIQUE

nialismo alla francese». E tuttavia ha goduto per decenni dell’appoggio americano:


in buona sostanza Parigi aveva il compito di badare alle sue ex colonie af!nché
nessuna cadesse nelle mani del blocco !losovietico o cinese. Così è stato. Forse
questa è la ragione principale per cui nessun capo di Stato francese è riuscito a
tagliare de!nitivamente legami che non erano solo di sfruttamento economico e
!nanziario e nei quali le élite africane avevano trovato il loro tornaconto. Nel tem-
po la rete degli interessi era diventata dif!cile da sbrogliare senza causare ricadute
negative (economiche ma anche sociali) sulla Francia metropolitana. Di conse-
guenza, la !ne della Françafrique è stata annunciata più volte ma senza effetto.
Macron era diverso: per un leader legato alla grande !nanza e all’universo della
tecnocrazia globalizzata come lui, era naturale immaginare una relazione con l’A-
frica basata sul commercio. Aveva difatti messo nel mirino l’Africa anglofona, più
ricca e !nanziariamente più evoluta di quella francese.
Ma occorreva affrontare anche l’Africa francofona e il nuovo presidente accet-
tava la s!da scegliendo il rischio di esprimersi nell’ostico Burkina Faso. Malgrado
il capo di Stato burkinabé, Roch Marc Christian Kaboré, fosse un alleato e un mo-
derato, all’Eliseo sapevano bene che ci sarebbero state delle reazioni forti, soprat-
tutto durante l’incontro con gli studenti universitari che Macron aveva fortemente
voluto contro il parere delle amministrazioni francese e burkinabé. Quell’evento è
ricordato per la battuta lanciata da Macron a Kaboré a causa della mancanza di aria
condizionata nell’an!teatro universitario, che fece soffrire tutti. Il messaggio agli
africani, ripreso dai media europei, è: siate responsabili di voi stessi. In realtà le
cose più interessanti sono il clima che si respira nel campus e le domande degli
studenti. I muri delle facoltà sono cosparsi di slogan antifrancesi e !losankaristi
mentre i giovani che non riescono a entrare scandiscono all’esterno slogan rivolu-
zionari. All’inizio il leader francese gioca sulla sua età (ha 39 anni) e cerca di entra-
re in empatia con il giovane pubblico citando proprio Sankara. Vorrebbe volare
alto e parlare di crisi ecologica, crescita, urbanizzazione eccetera, ma viene ripor-
tato coi piedi per terra dalle domande: perché ci sono ancora militari francesi in
Africa? Qual è il loro compito segreto? Perché avete cacciato Ghedda!, un amico
dell’Africa? Quando !nirà il franco Cfa? E così via. Sotto lo sguardo pietri!cato di
Kaboré, tutti i rancori e le frustrazioni emergono in quelle oltre due ore di incontro
in cui Macron da par suo non si risparmia.
Il risentimento non è svanito ancora oggi, anzi è semmai aumentato dopo i gol-
pe militari in Mali, Guinea, Burkina Faso e ora Niger. Questa volta però è tutto diver-
so: se negli anni Sessanta-Ottanta i putsch africani erano preparati – così si pensa – a
Parigi, ora sono antifrancesi. La storia si ritorce contro la Francia: si possono vedere
giovani manifestanti bruciare le bandiere francesi e alzare quelle russe, nella speran-
za che nuovi amici vengano a salvare paesi sull’orlo della distruzione. Sapere che ciò
non accadrà non ci esime dal cercare di comprendere perché oggi si scateni tanto
astio antifrancese, a lungo covato soprattutto nell’Africa saheliana e occidentale.
Eppure non tutto è andato sempre in questa direzione. Durante la cerimonia
80 di investitura del presidente maliano Ibrahim Boubacar Keïta a Bamako nel 2013
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

– alla quale chi scrive era presente come rappresentante del governo italiano – il
presidente francese François Hollande aveva ricevuto enormi ovazioni dalla folla
dei maliani perché la Francia aveva da poco salvato il paese dall’attacco jihadista
(operazione Serval) che dal Nord minacciava il Centro-Sud e la capitale, la parte
ricca e popolosa del Mali. Già pochi mesi dopo tale entusiasmo era calato: la de-
lusione fu dovuta alla permanenza ingombrante dei militari francesi nel paese
(operazione Barkhane) e alle innumerevoli voci sul perché di tale presenza. Più
Parigi spiegava che quella missione serviva a sostenere i militari del Mali e meno
la gente ci credeva. Giravano voci complottiste, addirittura si credeva a recondite
intenzioni della Francia di sostenere la ribellione tuareg. In realtà le operazioni
militari francesi avvenivano secondo modalità e abitudini ereditate dal periodo
coloniale: mettere una comunità contro l’altra, manipolare le etnie e così via. E poi
collaborare il meno possibile con i militari maliani, invero dif!cili da gestire. Ov-
viamente c’era chi, sui social media come nei corridoi dei palazzi africani e non
solo, dava !ato alle ipotesi peggiori. Così si era giunti alla caduta di Keïta con il
golpe militare del 2021, alla cacciata dei francesi (e altri europei) e all’arrivo di
Wagner, già istallata nelle vicine Libia e Repubblica Centrafricana. Poi è toccato
alla Guinea, al Burkina e in!ne il 26 luglio scorso al Niger. Cosa non ha funziona-
to? È utile chiederselo perché la rottura sentimentale tra Francia e Africa coinvolge
anche il resto d’Europa e tutto l’Occidente, soprattutto ora con la guerra in Ucraina.

2. Il «Sud Globale», in cui l’Africa subsahariana è pienamente inserita, guarda con


sospetto l’Occidente tutto concentrato a combattere una guerra che gli africani non
apprezzano. Anzi ne soffrono le conseguenze, come la penuria di grano o la cresci-
ta esponenziale dei prezzi degli alimenti e dell’energia. Fin dall’inizio del suo primo
mandato Macron ha cercato di sciogliere il groviglio franco-africano, riuscendo a
fare alcune cose importanti: ricucire con il Ruanda; tentare un percorso simile con
l’Algeria; creare un programma di restituzione degli oggetti di arte africana portati via
durante la colonizzazione; lanciare una nuova formula di summit franco-africani
(come quello di Montpellier del 2022), af!dandoli a intellettuali del continente non
teneri con la Francia (come Achille Mbembe) e coinvolgendo diaspore e società ci-
vili africane; avviare la fuoriuscita di Parigi dal franco Cfa. Nessun altro leader fran-
cese aveva fatto altrettanto. Tutto questo tuttavia non è servito a evitare la frattura tra
Francia e Africa, tuttora in corso, anche se ha dato qualche segnale positivo che
potrà aprire in futuro nuove prospettive. Soprattutto la ripartenza della relazione con
Kigali è importante, perché Parigi in Ruanda è stata a lungo sospettata di aver favo-
rito il genocidio del 1994 (Operazione Turquoise) – forse l’accusa più pesante su
tutta l’eredità della Françafrique – che coinvolge François Mitterrand. In de!nitiva, la
Francia viene accusata di aver svolto !n dall’indipendenza la funzione di gendarme
dell’Occidente senza pensare allo sviluppo delle sue ex colonie e senza costruire
una comunità franco-africana o eurafricana.
Su quest’ultimo punto si è fatta molta retorica che ora si ritorce contro Parigi.
È troppo tardi per spiegare al pubblico africano che le alternative (Cina, Russia, 81
PERCHÉ MACRON NON RIESCE A FARLA FINITA CON LA FRANÇAFRIQUE

Turchia eccetera) non porteranno a svolte decisive. La delusione è profonda e il


rancore sedimentato. Ciò non signi!ca che l’atteggiamento verso gli altri paesi eu-
ropei sia tanto diverso: è come se la Francia pagasse tutti gli errori fatti da de Gau-
lle a oggi, inclusi quelli di una Comunità (Unione) Europea distratta che aveva
delegato a Parigi ogni responsabilità. L’errore europeo è stato di non aver preteso
la trasformazione della Françafrique in una relazione eurafricana più equilibrata e
paritaria. Le conseguenze della !ne brusca della Franciafrica le subiremo tutti per-
ché essa apre spazi a soggetti diversi e talvolta ostili, come oggi lo è Mosca.

3. L’ultimo golpe in Niger ha provocato l’ennesimo grave shock alla stabilità


africana, in particolare nella fragile regione saheliana. La Guardia presidenziale
addestrata dagli occidentali il 26 luglio mattina ha preso in ostaggio il presidente
Mohamed Bazoum e la sua famiglia. L’esercito ha poi imposto una transizione
senza spargimento di sangue, come si usa fare ora. Bazoum era stato eletto demo-
craticamente nell’aprile 2021, dopo il doppio mandato – ugualmente democratico
– di Mahamadou Issoufou. Entrambi appartengono al Pnds, partito di tendenza
socialdemocratica.
Questo nuovo putsch dimostra quanto l’Africa occidentale sia in preda a un
terremoto politico con scossoni tettonici che non sembrano arrestarsi. Ciò favorisce
un jihadismo attivo da più di dieci anni, che aggredisce tutta l’area mettendo a ri-
schio interi paesi. Poi ci sono le giunte militari in Guinea, Mali, Burkina e ora anche
in Niger, che pre!gurano una specie di «Africa alternativa». Resta fragile la situazio-
ne in Ciad dopo la morte del presidente Idriss Déby (ucciso in uno scontro coi ri-
belli). Tutto ciò mette pressione alla parte più ricca della regione, quella costiera,
che include da Costa d’Avorio, Benin, Togo e Ghana. Malgrado l’impegno profuso
non sembra che i governi democratici africani riescano a fermare l’emorragia. Nes-
suno può dirsi immune dal rischio di instabilità.
Le cause sono più profonde di ciò che si pensa e vanno ben al di là degli
stati d’animo tra africani e francesi. L’esempio del Niger dimostra che la causa non
sono soltanto i tentativi di forzare le costituzioni per ottenere un altro mandato
(come in Guinea o in Burkina) o l’attacco jihadista, che comunque non è così for-
te da determinare da solo cambi di regime. Anche il vento dei sentimenti antifran-
cesi o il tentativo russo di sostituzione non paiono così potenti da causare tali
sconquassi. La malattia è più profonda e riguarda la tenuta stessa dello Stato afri-
cano e la natura del consenso. Le democrazie africane degli anni Novanta e Due-
mila non reggono perché non hanno risposto all’esigenza di una maggior distribu-
zione della ricchezza né hanno costruito il welfare tanto atteso (educazione e sani-
tà sono allo sbando totale). Di conseguenza la società africana si è sfarinata e il
consenso – che pure c’era – è svanito. La globalizzazione violenta, con il suo spi-
rito di competitività e di materialismo, ha !nito per distruggere le già fragili reti
tradizionali e familiari, senza che nulla ne abbia preso il posto.
Soprattutto tra i giovani si è diffusa un’enorme delusione che li spinge a mi-
82 grare (ecco il vero push factor), semplicemente perché non credono più nel futuro
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

EX COLONIE FRANCESI IN AFRICA E MEDIO ORIENTE

FRANCIA

TUNISIA 1956 SIRIA


MAROCCO LIBANO 1946
1956 ALGERIA
1943
1962

MAURITANIA
1960 NIGER 1960
MALI
1960 CIAD 1960
SENEGAL
1960
B. FASO
1960 GIBUTI 1977
GUINEA
1958 CENTRAFRICA
196ERU N

1960
0
M

CA
196L CONGO

COSTA
BENIN 1960
TOGO 1960

D’AVORIO GABON
1960
0

1960
DE
EP.

R COMORE
1975

MAYOTTE
1975

Ex colonie francesi MADAGASCAR


e data dell’indipendenza 1960

In!uenza linguistica francese


In!uenza linguistico-culturale francese
In!uenza militare francese
In!uenza economica francese
Arabizzazione profonda

dei propri paesi. Il jihadismo o il reclutamento in milizie violente non è che un


effetto di una più profonda crisi interiore della società africana. La risposta securi-
taria che gli europei tendono a dare (o peggio ancora il sostegno a regimi autori-
tari) provoca l’inasprirsi della crisi e non la sua soluzione. È su tale delicato crinale
che ci troviamo oggi: come ridare !ducia alle popolazioni africane aiutandole a
costruire un nuovo patriottismo continentale e democratico? 83
PERCHÉ MACRON NON RIESCE A FARLA FINITA CON LA FRANÇAFRIQUE

Mosca o i jihadisti si inseriscono nel vuoto politico lasciato da altri. Sono un


pericolo ma non la causa di ciò che avviene. Non ci si deve fare impressionare
dalle manifestazioni con le bandiere russe nelle strade di Niamey o altrove: è faci-
le in quei paesi trovare un po’ di giovani pronti a protestare. Ancor più semplice
indirizzarli nell’attacco al consolato francese davanti al quale hanno subìto molte
umiliazioni nelle lunghe !le in attesa di un visto. Non si tratta nemmeno di man-
canza di lavoro per i giovani, corruzione delle élite o violenza (delle istituzioni o
dei miliziani come in Sudan). Tutte queste ragioni possono spiegare l’intensità del
movimento tellurico in atto e il suo prolungarsi nel tempo. Ma non la sua origine
che si può sintetizzare nella !ne dei sogni dell’indipendenza, sia quelli dei padri
(orgoglio, identità, unità) sia quelli dei !gli (prosperità, benessere, libertà). L’Africa
ha Stati deboli e privi di consenso popolare che nessuno si prende la briga di di-
fendere. Quando poi si tratta di democrazie come in Niger, lo Stato appare ancor
più fragile e una qualunque oscillazione militare può farlo cadere.
Ciò che è accaduto a luglio a Niamey è signi!cativo: un «colpo opportunista,
fatto per saccheggiare il paese», ha detto il presidente Mohamed Bazoum, ostaggio
dei putschisti. Il giorno stesso del golpe una parte della popolazione ha tentato una
manifestazione di sostegno alla democrazia, subito dispersa a colpi di arma da
fuoco.
Il giorno dopo il nuovo uomo forte appare in tv: è Abdourahamane Tchiani,
capo della Guardia presidenziale nominato dal predecessore di Bazoum, Mahama-
dou Issoufou. Girano voci di un coinvolgimento di quest’ultimo nel colpo di Stato
ma non ci sono prove. Anzi: Issoufou tenta una conciliazione per salvare ciò che
resta delle istituzioni. Non vuole aumentare il caos, ma il suo tentativo non riesce.
Lo shock per l’Unione Europea è forte: nel Sahel il Niger era il paese più vicino e
aveva !rmato numerosi accordi per il contenimento delle migrazioni. Il gran pro"u-
vio di bandiere russe per strada rappresenta un messaggio della giunta: se non ci
lasciate stare andremo verso Mosca. Ormai la Russia in Africa è diventata una sorta
di spaventapasseri che serve a sconcertare gli europei e ad aggrapparsi al potere.
Gli africani sanno che gli occidentali oggi vedono i russi dietro a tutto e sfruttano
tale !ssazione.

4. Lo Stato africano ha subìto una forte alterazione dall’inizio del nuovo mil-
lennio. Da clientelare è divenuto uno Stato privatizzato in cui nessuno crede più.
All’inizio delle indipendenze (anni Sessanta e Settanta) lo Stato africano si è forma-
to sul modello europeo: welfare nascente (soprattutto in educazione e sanità);
commercio protetto (in prevalenza con le ex metropoli coloniali); preminenza
dell’impiego pubblico. Nelle ex colonie inglesi c’è un po’ più di sensibilità per il
settore privato, senza però discostarsi da tale sistema.
Tutto cambia con gli anni Ottanta e l’inizio dell’ultraliberismo: lo Stato africano
è investito da un’ondata di diktat del Fondo monetario internazionale che lo sabo-
tano dall’interno. I piani di aggiustamento strutturale obbligano ad abbandonare il
84 welfare e a privatizzare tutto il privatizzabile. Negli anni Novanta le multinazionali
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

occidentali si appropriano di ciò che ha un valore: porti, miniere, colture intensive


eccetera. Si tratta del medesimo processo avviato nella Russia post-sovietica, che
rende oggi comprensibile agli africani la propaganda «anticoloniale» russa. Così lo
Stato africano non riesce più a redistribuire nemmeno in maniera clientelare e si
immiserisce del tutto. È in quest’epoca che iniziano i primi processi di disgregazio-
ne istituzionale (Liberia e Sierra Leone, Congo/Zaire, Corno d’Africa eccetera),
prodromici di ciò che avverrà più tardi su scala più vasta. Ma la resistenza demo-
cratica è ancora possibile, come dimostrano la pace in Mozambico, mediata dalla
Comunità di Sant’Egidio tra il 1990 e il 1992 e, due anni dopo, la !ne dell’apartheid
sudafricano. La democrazia è ancora popolare.
Con il nuovo millennio arrivano i cinesi: regalano e prestano, certo a loro van-
taggio, ma dimostrano che l’Africa non è il «bottom billion» (l’ultimo miliardo, dal
titolo del libro di Paul Collier) senza valore. Anzi, è un mercato dove si possono
fare buoni affari e alla !ne di questo secolo sarà il primo continente per popola-
zione. La reazione occidentale è un dietrofront: si torna a investire per far concor-
renza alla nuova potenza che mira a diventare la «fabbrica del mondo» e ha bisogno
di tutto (energia e materie prime) ma anche di vendere sul mercato africano. C’è
posto per nuovi soggetti: arrivano turchi, indiani, brasiliani, coreani, arabi del Gol-
fo e così via. È il momento magico dell’«Africa rising», in cui tutto sembra possibile.
Ma la generale quanto interessata nuova passione per l’Africa non cura i mali so-
ciali: poco o nulla viene fatto per il settore pubblico e non si investe in sanità e
educazione, ormai in rovina. Anche la cooperazione allo sviluppo dei paesi ricchi
si adegua alla nuova mentalità competitiva: da una parte evita i governi africani
ritenendoli irrimediabilmente corrotti; dall’altra inizia a considerare normale far
pagare i servizi sociosanitari. Niente è più gratuito: la cultura privatistica entra an-
che nell’aiuto pubblico allo sviluppo. Non è sorprendente che ciò favorisca una
mentalità affaristica e la corruzione che si dice di voler combattere. Nelle città afri-
cane si scatena un modello concorrenziale all’eccesso: se le scuole e le università
pubbliche deperiscono a vista d’occhio, quelle private spuntano come funghi; se
gli ospedali pubblici sono annientati, sorgono ovunque cliniche e farmacie private.
Il settore pubblico continua a sprofondare mentre quello privato si installa dovun-
que, rivolgendosi al nuovo ceto medio, frutto della privatizzazione dell’economia.
Il nuovo mantra è: tutto si paga e nulla è per tutti.
È vero che girano più soldi, che ci sono numerosi nuovi ricchi e una inattesa
prosperità, ma non si tiene conto che senza una risposta erga omnes il tessuto so-
ciale si spezza silenziosamente. La globalizzazione in Africa ha creato molta ric-
chezza ma non è riuscita a redistribuirla. Ora le diseguaglianze sono più evidenti.
Aumentano rancore sociale e/o tentativi illegali di arricchirsi. Prosperano reti crimi-
nali e contrabbando.
Qui nasce la mentalità che spinge alle migrazioni: un vero e proprio settore
economico in cui il giovane scommette su sé stesso. Se non possiedi nient’altro,
emigrare diviene un investimento a lungo termine, con tanto di calcolo del rischio.
La pulsione a competere e arricchirsi spinge la popolazione africana a cercare so- 85
PERCHÉ MACRON NON RIESCE A FARLA FINITA CON LA FRANÇAFRIQUE

luzioni competitive e/o violente. Il mercato iperliberista è un ambito violento, in


cui ci si batte senza esclusione di colpi. Così si giunge alla !ne di un processo in
cui la !ducia nelle istituzioni, anche in quelle democratiche, è crollata. Non si cre-
de più nel destino collettivo: resta solo la débrouillardise individuale (sbrigarsela
da sé). In tale contesto trova spazio anche una forma di antipolitica sovranista
all’africana, come ascoltiamo nei discorsi populisti usati dai militari golpisti.
In circa vent’anni lo Stato africano ha perso ogni autorevolezza: da predatore
autoritario è diventato esso stesso preda dei più spregiudicati. Finiti i sogni collet-
tivi delle indipendenze (panafricanismo, socialismo africano, unità africana eccete-
ra), muoiono anche quelli della democrazia africana degli anni Novanta (le confe-
renze nazionali). Lo Stato è divenuto un affare privato in mano a pochi. I giovani
africani hanno perso speranza nel futuro dei propri paesi e diventano manodopera
per avventure violente. Per comprendere il perché della spirale dei colpi di Stato
in Africa saheliana occorre partire da questo. La parte saheliana, più fragile e po-
vera, cede per prima. Ai giovani, maggioranza assoluta della popolazione, senza
speranza e svuotati dalla mentalità rapace e individualistica della globalizzazione
non resta che il ripiego di prendersela con la Francia, percepita come una matrigna
che non ha saputo evitare tutto questo disordine. Un caos di senso prima ancora
che economico e sociale. Ma la Francia reale, malgrado tutti gli sforzi delle istitu-
zioni parigine, è lontana: i francesi guardano altrove e sono disinteressati a ciò che
avviene nel continente. Come per tutti gli europei, la loro unica preoccupazione è
quella migratoria.
Nuovi pericoli geopolitici molto più gravi si stanno ammassando e sono più
vicini di quanto si creda. Ecco perché l’Unione Europea deve trovare – con gene-
rosità – il modo di difendere quest’Africa così cambiata ma pur sempre così vicina.

86
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

ESERCITI COME MILIZIE


MILIZIE COME ESERCITI
Nel Sahel gli Stati non controllano le proprie Forze armate, che
contribuiscono ad alimentare il caos nella regione. Il caso dei
corpi pretoriani e delle truppe ausiliarie. La privatizzazione
degli apparati militari favorisce i jihadisti.
di Marc-Antoine PÉROUSE DE MONTCLOS

L A DISFUNZIONALITÀ DEGLI ESERCITI


africani non può essere spiegata senza tenere in considerazione il fatto che, sebbe-
ne ambiscano al monopolio della forza legittima, molti Stati non sono ancora riu-
sciti a raggiungere la piena sovranità.
Gli apparati coercitivi delle potenze africane svolgono essenzialmente funzioni
di polizia per mantenere l’ordine e reprimere l’opposizione politica. Nella regione,
le Forze armate si sono talvolta impegnate in operazioni di controinsurrezione, ma
non hanno alcuna esperienza di guerra interstatale. In Niger e in Mali, ad esempio,
dopo l’indipendenza sono state utilizzate principalmente per attuare colpi di Stato
e per sedare le ripetute ribellioni dei separatisti tuareg.
L’esercito nigeriano rappresenta una sorta di eccezione, in quanto ha combat-
tuto contro una forza militare composta (in parte) da professionisti durante la
guerra di secessione del Biafra, tra il 1967 e il 1970. Tuttavia, anche le Forze arma-
te nigeriane condividono le carenze di altri eserciti della regione. All’epoca, le sue
tre divisioni erano comandate da veri e propri signori della guerra, che non rispon-
devano agli ordini dello Stato maggiore e lasciavano che i loro uomini saccheggias-
sero le località sottratte al nemico 1. Non volendo coordinare i loro sforzi, i signori
della guerra si contendevano la manodopera e l’accesso ai porti per mettere prima
dei loro rivali le mani sui carichi.
Incaricati di acquistare l’equipaggiamento militare dall’estero, i signori della
guerra sono stati presto sospettati di voler prolungare il con"itto esclusivamente per
continuare a dirottare il denaro proveniente dai contratti di fornitura di armi. Accu-
sa che oggi viene mossa ai nigeriani nell’ambito della lotta contro Boko Haram.

1. J.J. STREMLAU, The International Politics of the Nigerian Civil War, 1967-1970, New Jersey 1977,
Princeton University Press, p. 44. 87
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

Gli altri eserciti della regione hanno avuto gravi problemi di indisciplina, pre-
dazione, corruzione e nepotismo. I problemi iniziano dal reclutamento. In Burkina
Faso, ad esempio, la catena di comando non ha più i mezzi per condurre control-
li di moralità sui candidati alla carriera militare. 2Allo stesso modo, le promozioni
e gli incarichi migliori sono spesso assegnati in virtù di raccomandazioni. La meri-
tocrazia, in questi contesti, non esiste. La corruzione sta corrodendo gli apparati
militari dell’intera regione, con effetti deleteri sulla disciplina e sul morale delle
truppe, che sono mal pagate e mal equipaggiate perché il bilancio della Difesa è
sempre più misero.
Gli eserciti dei paesi saheliani sono inoltre coinvolti in traf"ci di ogni sorta:
petrolio, droga, alcol, tabacco, bestiame eccetera. Possono facilmente rivendere
equipaggiamenti sottratti al nemico o rubati dalle proprie scorte, dal momento
che gli inventari degli arsenali sono raramente aggiornati. Diversi uf"ciali nigeria-
ni, ad esempio, sono stati sospettati di essere coinvolti in questo tipo di traf"co, a
partire dai consiglieri per la Sicurezza nazionale Owoye Andrew Azazi e Sambo
Dasuki. Il primo avrebbe consegnato armi ai ribelli del delta del Niger nel 2007;
il secondo avrebbe sottratto centinaia di milioni di dollari da contratti mai onora-
ti tra il 2012 e il 2015 3 . Pur volendo mantenere il monopolio della violenza legit-
tima, gli apparati militari hanno spesso preferito chiudere un occhio, abbando-
nando le misure draconiane che venivano applicate per prevenire il furto di armi
da fuoco 4.
Le autorità non si fanno illusioni sulla professionalità delle loro truppe: ne
dif"dano. Eletti o meno, i capi di Stato dei paesi saheliani sanno che possono es-
sere rovesciati in qualsiasi momento da ammutinati o golpisti. Questi pregiudizi
sono così diffusi da in#uenzare anche alcuni ribelli. Nel 1967 il leader dell’ef"mera
Repubblica del Biafra, il colonnello Odumegwu Ojukwu, si "dava talmente poco
del suo esercito – reclutato in fretta e furia tra le "le di miliziani senza alcuna for-
mazione militare – da creare una guardia pretoriana, la Brigata S, che era molto
meglio equipaggiata dell’esercito stesso 5 .
Tale approccio è particolarmente diffuso nella regione. In Nigeria, per fare un
altro esempio, i militari al potere si affrettarono a creare un’organizzazione appo-
sita, la National Security Organization (Nso), per monitorare le attività dell’esercito
dopo il fallito tentativo di colpo di Stato del 1976. Dopo una breve parentesi civile

2. A.S. OULON, Comprendre les attaques armées au Burkina Faso: pro!ls et itinéraires de terroristes,
Ouagadougou 2020, Émile Sia, pp. 27, 31.
3. «Nigeria: The challenge of military reform», International Crisis Group, 2016; «Secret Army Report
Implicates NSA Azazi, Ibori, Alamieyeseigha, Henry and Sunny Okah in Sale of Military Weapons to
Niger Delta Militants», Sahara Reporters, 2010.
4. Nel Congo Belga, all’inizio del XX secolo, le autorità coloniali pretendevano ad esempio che i sol-
dati nativi fornissero loro una mano mozzata per giusti"care l’uso di qualsiasi munizione. Tali proce-
dure ricordano le pratiche dei negrieri arabi, che chiedevano ai carovanieri di riportare le orecchie
delle loro vittime per assicurarsi di non aver venduto gli uomini o le donne scomparsi perché morti
di fatica durante il viaggio.
5. P. JOWETT, Modern African Wars (5): The Nigerian-Biafran War 1967-1970, Oxford 2016, Osprey,
88 p. 13.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

tra il 1979 e il 1983, la giunta guidata da Muhammadu Buhari e Tunde Idiagbon


estese i poteri della Nso ma non riuscì a impedire un altro golpe guidato dal ge-
nerale Ibrahim Babangida nel 1985. Per proteggersi dalle innumerevoli trame dei
suoi colleghi in uniforme, nel 1989 Babangida istituì a sua volta una guardia nazio-
nale che rispondeva solo ai suoi ordini. Questa forza molto controversa fu in!ne
sciolta nel 1993.
I presidenti Paul Biya del Camerun e Blaise Compaoré del Burkina Faso decise-
ro di circondarsi di unità d’élite che, meglio equipaggiate dell’esercito regolare, ob-
bedivano direttamente a loro senza passare dagli Stati maggiori. Queste erano, ri-
spettivamente, il Battaglione di intervento rapido (Bir) creato da Biya nel 1999 e il
Reggimento per la sicurezza presidenziale (Rsp) inaugurato da Compaoré nel 1995.
Occasionalmente, anche i paesi occidentali hanno contribuito a diffondere
questi fenomeni, attraverso l’addestramento di forze speciali che venivano delibe-
ratamente tenute separate dagli eserciti regolari per sfuggire ai problemi di corru-
zione, indisciplina e nepotismo. È il caso degli Stati Uniti con la Brigata Danab in
Somalia (2014) o del battaglione 143 della settima divisione dell’Esercito nigeriano,
che ha però avuto vita breve (2013-14).
I capi di Stato della regione hanno spesso cercato di proteggersi aggirando la
gerarchia militare. In Ciad, il presidente maresciallo Idriss Déby, morto nel 2021, era
solito cambiare i suoi capi di Stato maggiore ogni anno per evitare che avessero il
tempo di costruire reti clientelari in grado di rovesciarlo. Il generale Sani Abacha, al
potere in Nigeria dal 1993 al 1998, si è invece circondato di uomini fedeli promuo-
vendo i sottuf!ciali a scapito dei generali di carriera. Altri hanno preferito utilizzare
servizi di sicurezza privati. Oggi in Mali i mercenari russi del Gruppo Wagner fanno
da guardia pretoriana al capo della giunta di Bamako, Assimi Goïta.
In Burkina Faso, dopo la caduta del regime di Blaise Compaoré nel 2014, an-
ch’egli golpista recidivo, il ministro dell’Interno del presidente eletto Roch Marc
Christian Kaboré ha cercato invece di proteggere il governo da un possibile colpo
di Stato militare sfruttando le milizie di autodifesa della tribù dei mossi, i koglweo-
go («guardiani della savana»). La giunta di Ibrahim Traoré, salita al potere alla !ne
del 2022, sostiene ora di voler far rivivere la tradizione di non allineamento risalen-
te al periodo rivoluzionario del capitano Thomas Sankara (1983-1987). Tradotto:
non vuole né mercenari russi né truppe francesi. Pare, infatti, che si af!di a «mili-
ziani» da usare come scudi umani. In caso di attacco alla caserma presidenziale di
Ouagadougou, gli assalitori sarebbero infatti costretti a uccidere civili, macchiando
così la loro reputazione !n dall’inizio.

Forte tendenza alle fazioni


In questi contesti non c’è motivo di sorprendersi della debolezza delle catene
di comando militari. La creazione di molteplici unità d’élite non è di buon auspicio
per gli sforzi di coordinamento dei vari attori nella lotta contro il terrorismo. Il trat-
tamento preferenziale che tali unità ricevono è destinato a suscitare gelosie e ten- 89
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

sioni all’interno delle forze di difesa. In!ne, l’uso di ausiliari civili mina ulteriormen-
te la credibilità dell’autorità militare.
Lo spirito di fazione è il tratto distintivo degli eserciti che dovrebbero combat-
tere i gruppi jihadisti nel Sahel. Le rivalità di potere che contrappongono i militari
nelle capitali sono in realtà più preoccupanti e destabilizzanti del radicamento dei
ribelli nelle campagne. Anche perché, data la differenza di equipaggiamento, esse
tendono a produrre classici fenomeni di guerra asimmetrica. Basti pensare alle
battaglie combattute tra «berretti rossi» e «berretti verdi» dell’esercito maliano nelle
strade di Bamako all’inizio del 2013, mentre le truppe francesi dell’Operazione
Barkhane si spingevano a nord per dare la caccia ai terroristi.
I combattimenti che stanno devastando Khartûm sono particolarmente emble-
matici a tal proposito. In quel contesto si contrappongono le forze regolari del
generale ‘Abd al-Fattåõ al-Burhån alle truppe paramilitari delle Forze di supporto
rapido (Rsf) agli ordini del generale Muõammad Õamdån Daqlû (detto Õamødatø).
Questo corpo armato è stato creato nel 2013 dalla giunta islamista del generale
‘Umar al-Bašør per sedare le ribellioni in Dårfûr. Inizialmente posto sotto il control-
lo dei servizi segreti del regime, poi direttamente sotto quello della presidenza, ha
attratto miliziani dalle !le dei Ãanãåwød, «i cavalieri del diavolo», noti per i loro
abusi nel Sudan occidentale. All’epoca, questi entrarono rapidamente in competi-
zione con le circa 20 mila guardie di frontiera di Mûså Hilål, un capo tribù che
reclutava principalmente dalla popolazione di lingua araba del Dårfûr 6 .
Nel 2017, Õamødatø è riuscito a far arrestare il rivale e a impossessarsi delle
sue miniere d’oro. Dopo alcuni successi contro i gruppi ribelli in Dårfûr tra 2015
e 2016, ha anche ampliato la sua base di reclutamento e di azione dispiegando
uomini a Khartûm, in Yemen, nel Sud del Kordofan e al con!ne libico, dove ha
cercato di arginare il $usso di emigrazione illegale nell’ambito di programmi !-
nanziati dall’Unione Europea.
Allo stesso tempo, le Rsf si sono gradualmente affrancate dall’esercito. Forma-
lizzate con una legge del 2017, hanno presto ricevuto un budget equivalente a
quello dei servizi segreti della dittatura, che dovevano essere sciolti al momento
della rivoluzione del 2019. Le Rsf sono diventate più burocratiche e professionali
grazie alla formazione ricevuta da uf!ciali dell’esercito. La loro ascesa al potere è
stata confermata dall’ingresso di Õamødatø nel governo dopo la caduta di ‘Umar
al-Bašør nel 2019. Ciò ha preoccupato l’esercito, che ha cercato di rafforzare altre
unità per controbilanciare la loro in$uenza. Questo vale in particolare per la Cen-
tral Reserve Police (Crp) che, istituita nel 1974, è passata sotto il controllo dell’eser-
cito prima dello scoppio del con$itto con le Rsf a Khartûm nel 2023 7.

6. C. DESHAYES, Les logiques du chaos: révolution, guerre et transition politique au Soudan, Paris 2023,
Irsem.
7. Inizialmente sotto il controllo del ministero dell’Interno, questa unità, nota in arabo come Abu Tira
dal nome dell’uccello nero sul suo distintivo, è stata utilizzata ampiamente in Dårfûr, dove ha reclu-
tato Ãanãåwød tra i pastori di mucche Baqq©ra, contro i pastori di cammelli delle Guardie di con!ne,
i Rizayqåt Abbåla. Nel 2020, uno dei suoi leader, ‘Alø Muõammad ‘Alø ‘Abd al-Raõmån, noto come
Kûšayb, è stato arrestato nella Repubblica Centrafricana e trasferito all’Aia per essere processato da-
90 vanti alla Corte penale internazionale per i crimini di guerra commessi nel 2003-4.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Il regno dell’impunità
Tuttavia, la faziosità non è l’unica s!da che gli eserciti degli Stati saheliani
devono affrontare. Anche le massicce violazioni dei diritti umani hanno alimenta-
to i con"itti, spingendo i civili tra le braccia dei gruppi ribelli per sfuggire alle
esecuzioni extragiudiziali, agli arresti arbitrari e alle torture in carcere.
Dal delta interno del Niger al bacino del Lago Ciad, passando per il Dårfûr,
le operazioni di controinsurrezione hanno dato luogo a numerosi abusi di cui i
civili sono stati le prime vittime. Il problema ha origini lontane. Quando il Niger
divenne indipendente, il presidente Hamani Diori decise di chiudere un occhio
sugli abusi commessi dai suoi militari, purché i loro eccessi non minacciassero
direttamente il suo potere 8. Da allora, tuttavia, la guerra cosiddetta globale al ter-
rorismo ha incoraggiato la repressione più brutale, giusti!cando gli abusi con la
presunta eccezionalità del nemico. Come in Occidente, gli imperativi di sicurezza
hanno preso il sopravvento e messo a tacere le proteste contro i danni collaterali
e gli eccessi delle risposte militari alle minacce jihadiste e separatiste 9 .
Lo scollamento con le esigenze delle popolazioni rurali che vivono nelle zo-
ne di con"itto è stato ancora più evidente. Nel Mali centrale, ad esempio, alcuni
studi hanno dimostrato che più della metà degli intervistati riteneva che i gruppi
jihadisti non fossero il loro problema principale 10. Nonostante le operazioni dell’e-
sercito e delle sue milizie ausiliarie, queste persone hanno deplorato l’assenza di
forze di sicurezza, esprimendo così la richiesta di uno Stato basato su un contrat-
to sociale più rispettoso delle popolazioni rurali.
Nel frattempo, gli eserciti dei paesi saheliani hanno perso in gran parte la
battaglia per i cuori e le menti degli abitanti, in particolare nelle regioni in cui i
jihadisti hanno messo radici. Anzi, essi hanno contribuito sia attivamente sia pas-
sivamente a prolungare le ostilità. In primo luogo, non proteggendo i civili nelle
zone di con"itto hanno incoraggiato la popolazione a concludere accordi con gli
insorti e a rifornire i ribelli per sfuggire alle loro rappresaglie ed essere autorizza-
ti a continuare a coltivare i campi e ad allevare le mandrie. Inoltre, le forze gover-
native hanno incoraggiato attivamente i giovani a prendere le armi per difendersi
o per vendicarsi di massacri spesso perpetrati sulla base della stigmatizzazione
della comunità.
In!ne, le atrocità e i saccheggi compiuti dai soldati hanno dimostrato come
il crimine pagasse. I soldati in uniforme e i loro ausiliari della milizia hanno po-
tuto dedicarsi a ogni sorta di attività illegale senza essere sanzionati, che si trat-
tasse di racket nei confronti dei contadini, furto di bestiame, uccisione di civili o
rovesciamento di presidenti eletti o non eletti. L’impunità che pervade il Sahel è
impressionante.
8. A. MAHAMANE, La naissance de l’armée nationale au Niger, 1961-1974, in K. IDRISSA, (a cura di),
Armée et politique au Niger, Dakar 2008, Codesria, pp. 75-77.
9. M. DELORI, Ce que vaut une vie. Théorie de la violence libérale, Paris 2021, Editions Amsterdam.
10. V. BAUDAIS, Ecoutez-nous! Enquêtes sur les perceptions des populations au centre du Mali, Stoccol-
ma 2023, Sipri, p. 146. 91
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

Anche alla !ne della guerra fredda i procedimenti contro gli ex dittatori mili-
tari hanno avuto raramente successo nelle cosiddette transizioni democratiche, che
avrebbero dovuto porre !ne ai regimi a partito unico e alle presidenze a vita. In
Mali, ad esempio, nel 1993 i giudici hanno emesso quattro condanne a morte con-
tro i maggiori responsabili della sanguinosa repressione delle manifestazioni che
hanno portato alla caduta della giunta di Moussa Traoré nel 1991. Ma le sentenze
non sono mai state eseguite. Dopo diversi anni di carcere, Moussa Traoré ha evi-
tato la pena di morte ed è stato graziato. Prima per i suoi crimini di sangue nel
1997, poi per l’appropriazione indebita di fondi pubblici nel 2002. Ospitato in una
grande villa a Bamako donata dal governo maliano, nel 2020 gli è stato in!ne tri-
butato un funerale di Stato.
Analogamente in Nigeria: alla !ne della dittatura del generale Sani Abacha la
commissione istituita nel 1999 sotto l’egida del giudice Chukwudifu Oputa avrebbe
dovuto ascoltare decine di migliaia di testimonianze sulle violazioni dei diritti umani
commesse durante diversi decenni di governo militare. Ma le udienze non hanno
portato a nessuna condanna e un buon numero di alti uf!ciali si è semplicemente
astenuto dal rispondere alle convocazioni. A differenza della Commissione per la
verità e la riconciliazione in Sudafrica, l’organismo nigeriano non aveva il mandato di
avviare processi o concedere amnistie. Da allora, l’elezione nel 2015 dell’ex dittatore
militare Muhammadu Buhari ha confermato l’impunità dell’esercito e degli uf!ciali
responsabili degli abusi commessi in nome della lotta contro Boko Haram. Nel 2022
la gerarchia ha poi assolto e promosso il capitano Tijjani Balarabe, che nel 2019 ha
ucciso tre poliziotti e due civili per liberare un traf!cante d’armi appena arrestato 11 .
Tra 2010 e 2020 il ritorno dei militari al potere nel Sahel ha anche rafforzato
l’impunità degli eserciti nazionali. Il Mali ne è un esempio. L’autore del colpo di
Stato del 2012, il capitano Amadou Haya Sanogo, si è autoproclamato generale men-
tre si dedicava ad accelerare il ritiro delle truppe dispiegate nel Nord, lasciando così
via libera ai jihadisti per conquistare Timbuctu e Gao. Dopo l’intervento militare
della Francia e l’elezione del presidente Ibrahim Boubacar Keïta nel 2013, Sanogo ha
scontato un periodo in prigione. Ma il suo processo non ha mai avuto esito. Nel 2020
è stato !nalmente rilasciato, con il pretesto che la proroga della sua detenzione ave-
va superato il termine legale. In seguito a un accordo tra lo Stato e le famiglie delle
sue vittime, anche le accuse contro di lui sono cadute. Nel 2019, una legge di accor-
do nazionale lo ha amnistiato e ha ripristinato i suoi diritti civili, consentendogli di
presentarsi alle elezioni se necessario. Dal colpo di Stato di Assimi Goïta nel 2021,
Sanogo è diventato di fatto l’uf!ciale più alto in grado dell’esercito maliano. Insom-
ma, una storia incoraggiante per tutti quei soldati tentati dal commettere esecuzioni
extragiudiziali, far cadere un governo eletto e saccheggiare le casse dello Stato.
In un simile contesto, non sorprende che i tentativi di riformare e professiona-
lizzare gli apparati di sicurezza nella regione siano falliti. Eletti o meno, i capi di

11. A. ADEPEGBA, S. ODENIYI, «Wadume: Military panel clears 10 soldiers, Balarabe promoted», Punch,
92 25/8/2022.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

CITTÀ E INFRASTRUTTURE SUL LAGO CIAD


N’guigmi Rig Rig
NIGER Mao
Kabelawa CIAD
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Malam-Fatori

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Kukawa Darak Mani Tourba
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Maiduguri e
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Capitale nazionale o di Stato federale Numero di abitanti Con"ni internazionali


>1 milione Strada asfaltata principale
Capoluogo di Regione Strada asfaltata in costruzione
Funzioni amministrative sovralocali Da 50 a 150 mila Strada asfaltata in progetto
Da 20 a 50 mila Altre strade a circolazione permanente
Altre città Da 5 a 20 mila Piste con praticabilità saltuaria

Stato dei paesi saheliani trovano estremamente dif!cile punire gli uf!ciali deviati
senza rischiare l’ammutinamento o addirittura la messa in stato d’accusa. L’esempio
più recente è il rovesciamento del presidente Mohammed Bazoum a Niamey nel
luglio 2023. Bazoum aveva appena cambiato il suo Stato maggiore e si stava pre-
parando a riformare l’apparato di sicurezza del Niger.
In assenza di riforme, gli eserciti della regione continuano a estorcere denaro
ai civili e a commettere massacri impunemente, lasciando che i loro miliziani svol-
gano il lavoro sporco.

Eserciti come milizie


Si perpetua così una sorta di divisione del lavoro che vede le forze governative
bombardare indiscriminatamente le popolazioni, mentre a terra le missioni di 93
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

ricognizione e i combattimenti ravvicinati sono af!dati agli ausiliari locali. Nulla


di nuovo. In Sudan, ad esempio, i governi che si sono succeduti a Khartûm
hanno spesso utilizzato le milizie per combattere i separatisti del Sud o i ribelli
del Dårfûr, con i muraõõilûn dal 1985 e poi, dal 1989, con le Forze di difesa
popolare (Fdp), !no al loro scioglimento e integrazione in un reparto di riserva de
l’esercito (2020).
Questa forma di esternalizzazione delle operazioni di controinsurrezione
compensava le carenze di un esercito la cui élite, reclutata tra le popolazioni ur-
bane della valle del Nilo, era generalmente addestrata per combattere guerre
convenzionali. Al contrario, i miliziani provenienti dalle zone di con"itto erano
più esperti nell’arte della razzia. I muraõõilûn erano principalmente beduini rizay-
qåt di lingua araba, mentre le Fdp provenivano in genere da tribù del Sudan oc-
cidentale, con l’aggiunta di alcuni militanti islamisti originari delle città.
In un periodo di guerra globale al terrorismo, anche il Mali e il Burkina Faso
sono tornati alle vecchie pratiche di mobilitazione delle milizie. Nelle zone rura-
li mal conosciute dai soldati i rispettivi regimi hanno cercato in particolare di
attingere ai gruppi di autodifesa comunitaria che già esistevano per compensare
le carenze della polizia e proteggere la popolazione dagli attacchi dei ladri di
bestiame 12. Ne è conseguita una sorta di militarizzazione delle milizie, mentre gli
eserciti nazionali diventavano sempre più simili a queste ultime. Il Burkina Faso,
che all’epoca del capitano Thomas Sankara aveva già istituito dei comitati per la
difesa della rivoluzione, è certamente il paese che si è spinto più avanti in questo
senso. Con una legge approvata all’inizio del 2020, il governo ha istituzionaliz-
zato la creazione dei Volontari per la difesa della patria (Vdp), un gruppo di
uomini uf!cialmente autorizzati a portare armi da fuoco che conta !no a 90
mila unità.
La tradizione del «popolo in armi», tuttavia, non è scontata nei paesi in cui i
sistemi militari sono storicamente basati sugli eserciti professionali e non sulla
coscrizione. Le autorità si giusti!cano sostenendo che le milizie sono poco costo-
se, conoscono meglio il territorio e sono quindi in grado di garantire la sicurezza
nelle zone di con"itto. Ma queste argomentazioni non reggono all’analisi delle
realtà locali. Anzitutto, da un punto di vista economico bisogna tenere conto dei
danni causati dalla distribuzione di armi ai civili e dall’esplosione del banditismo
che ne può derivare, per non parlare dei costi aggiuntivi necessari per smobilitare
gli ausiliari in caso di ritorno alla pace. In secondo luogo, la conoscenza del ter-
reno deve essere valutata in base alle circostanze. I Vdp, ad esempio, sono prin-
cipalmente agricoltori mossi del Burkina centrale che nel tentativo di espandere
le proprie aree coltivate si sono lanciati alla conquista delle terre dei pastori fula-
ni, nel Nord.

12. A. AHRAM, Proxy Warriors: The Rise and Fall of State-sponsored Militias, Redwood City 2011, Stan-
94 ford University Press, p. 9.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Inoltre, la lealtà degli ausiliari civili nella lotta al terrorismo non è garantita. I
miliziani sono spesso spinti da motivazioni predatorie e agiscono sotto il control-
lo di comandanti che assomigliano a capi banda e che riescono a farsi obbedire
solo controllando l’accesso alle armi e la rivendita dei bottini di guerra.
Gli ausiliari possono avere una propria agenda politica, anche se ciò signi!ca
passare da un campo all’altro a seconda dei loro interessi del momento. Nel Pae-
se Dogon, nel Mali centrale, a partire dal 2016 la milizia Dan Na Ambassagou
(«cacciatori che con!dano in Dio») di Youssouf Toloba ha inizialmente combattu-
to per conto di Bamako e ha aperto un uf!cio nella capitale per cercare di otte-
nere il sostegno uf!ciale del presidente Ibrahim Boubacar Keïta. Una volta rielet-
to nel 2018, questi non ha però mantenuto le sue promesse. I politici del movi-
mento si sono quindi divisi e hanno fondato un proprio gruppo, chiamato Dana
Atem («difensori della tradizione»).
I miliziani faticano a respingere gli assalti dei gruppi jihadisti e a tenerli a bada
per un lungo periodo. Nonostante qualche episodio di resistenza eroica, spesso
sono costretti a fuggire quando vengono attaccati perché non hanno la potenza di
fuoco dei militari. In Burkina Faso, i Vdp non hanno impedito ai jihadisti di avan-
zare verso sud, obbligando la popolazione a fuggire nella capitale. In alcuni casi
la presenza degli ausiliari ha persino messo in pericolo la vita dei civili, poiché i
jihadisti hanno preso di mira i villaggi in cui erano schierati.
Fenomeni di tal genere sono stati osservati in Nigeria. Nella regione di Borno,
dove impazza Boko Haram, Kwaya Kusar è stata l’unica autorità locale risparmia-
ta dalle violenze, proprio perché gli uomini della Civilian Joint Task Force (Cjtf)
non vi avevano messo radici. Nel 2013 la formazione di questa milizia parastatale
ha però portato i jihadisti a compiere i primi massacri contro i civili sospettati di
collaborare con le autorità 13.
Altro effetto perverso: la mobilitazione degli ausiliari è avvenuta generalmen-
te su base comunitaria, facilitando la discriminazione, la stigmatizzazione e il re-
golamento di conti etnici 14. Oggi dalla Nigeria al Mali, passando per il Burkina
Faso e la Guinea, i social parlano di genocidio contro i fulani. Le giunte al potere
a Bamako e Ouagadougou di solito negano ogni responsabilità per i massacri di
civili. I loro sostenitori assicurano che tra loro ci sono uf!ciali fulani e che gli
stessi soldati del Burkina Faso hanno compiuto terribili rappresaglie contro un
villaggio mossi a Karma all’inizio del 2023. Resta il fatto che le azioni delle milizie

13. M.-A., PÉROUSE DE MONTCLOS, «A sectarian Jihad in Nigeria: the case of Boko Haram», Small Wars &
Insurgencies, n. 5/2016, pp. 878-895; ID., «Résilience et “miracle” en temps de crise dans le Borno: Le
cas de la collectivité locale de Kwaya Kusar», in E. CHAUVIN, O. LANGLOIS, C. SEIGNOBOS, C. BAROIN (a
cura di), Con!its et violences dans le bassin du lac Tchad. Actes du XVIIe colloque Méga-Tchad, Mar-
seille 2020, Ird, pp. 281-95.
14. Da questo punto di vista, le milizie parastatali impegnate nella lotta al terrorismo sono ben distin-
te dai gruppi di autodifesa che si formano per altri scopi, ad esempio per monitorare i siti di estrazio-
ne dell’oro artigianale ed evitare che i jihadisti si impadroniscano dei giacimenti d’oro o reclutino
combattenti tra i minatori. 95
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

legittimano le insurrezioni dei jihadisti, che possono così presentarsi come protet-
tori della umma, la comunità dei musulmani.
Il futuro della guerra al terrore nel Sahel si prospetta desolante. Volenti o
nolenti, i capi di Stato della regione dif!cilmente sono in grado di riformare e
controllare truppe a loro volta incapaci di limitare le atrocità dei propri miliziani.
Ciò rende le Forze armate molto poco popolari nelle zone di con"itto. Sicché i
tentativi degli Stati di esercitare il monopolio della violenza legittima sono spesso
illusori.

(traduzione di Giuseppe De Ruvo)

96
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

‘Qui comanda la sabbia’


Conversazione con Mauro ARMANINO, missionario a Niamey
a cura di Lucio CARACCIOLO

LIMES Mauro Armanino, chi è lei?


ARMANINO «Sono una mescolanza di terra e di cielo: sabbia che cerca la vita». Nato
a Chiavari nel 1952, !glio di partigiano. Operaio e sindacalista della Federazione
lavoratori metalmeccanici negli anni Settanta. Ordinato prete presso la Società mis-
sioni africane.
LIMES Come e perché vive in Niger?
ARMANINO Col tempo sono stato sedotto dalle frontiere, grazie anche al volontaria-
to sostitutivo del servizio militare in Costa d’Avorio nel 1976, prima frontiera lon-
tano dal «natio borgo selvaggio» nell’entroterra di Sestri Levante. Poi, negli anni, le
frontiere hanno cominciato ad attraversarmi: l’Argentina, la Liberia della guerra
(in)civile, il centro storico di Genova con le porte a sbarre del carcere di Marassi.
Da dodici anni sono in Niger perché invitato dal vescovo di Niamey ad accompa-
gnare quella frontiera mobile che sono i migranti. Ho accettato l’invito anche
perché sollecitato dai confratelli dell’istituto missionario di cui faccio parte. E so-
prattutto per i migranti stessi. Il fatto che questo paese fosse classi!cato come uno
dei più poveri al mondo mi ha convinto del tutto. Sono infatti persuaso che dai
poveri scaturisca la verità della politica, dell’economia, della storia e di Dio. Dal
2011, un anno dopo il penultimo colpo di Stato, vivo a Niamey e opero nell’am-
bito delle migrazioni, interagisco con la società civile della capitale e coordino la
formazione delle comunità cristiane del posto. Soprattutto cerco di «abitare» questa
frontiera di sabbia!
LIMES Di che cosa (soprav)vivono i nigerini?
ARMANINO Di quotidiana precarietà. Specie nelle campagne, che raccolgono la
maggior parte dei 26 milioni di abitanti del paese. Naturalmente ci sono vari Niger.
C’è chi vive all’occidentale con case faraoniche, auto imponenti, viaggi all’estero e
studi per i !gli nelle migliori università. In città è l’economia informale che preva- 97
‘QUI COMANDA LA SABBIA’

le e la metafora della sabbia, onnipresente, rappresenta bene la fragilità e la resi-


lienza del popolo. Si vive di un presente occasionale e si crede che c’è un Dio a
cui nulla sfugge e, se per caso qualcosa di storto accade, è parte della sua volontà
e comunque chissà, forse poteva andare anche peggio. L’agricoltura di sussistenza,
accanto all’informale, è ciò che permette alla gente di sopravvivere nel quotidiano
evolversi della povertà. Essa si erge come regina nelle statistiche delle Nazioni
Unite sullo sviluppo umano. Il Niger è classi!cato ultimo della lista o comunque
poco distante.
LIMES Quali problemi affronta un nigerino nella vita quotidiana?
ARMANINO In generale, come ben sottolinea un noto umorista nigerino sulle onde
di Radio Francia Internazionale, i nigerini sono un popolo di «cercatori»! «Cercarsi»,
nel francese locale, signi!ca industriarsi per sbarcare il lunario. Tutti «si cercano»,
ossia vedono come il destino, spesso clemente con i «cercatori», possa aiutarli nella
quotidiana lotta per la sopravvivenza. Certo ci sono i funzionari statali, privilegiati
quando il salario arriva in tempo, diverse migliaia di tassisti e i contadini nell’eco-
nomia di base. Le carestie non mancano, né mancano i giovani. Questi sono la
straordinaria ricchezza del paese, il più giovane al mondo secondo le statistiche. Il
cibo, la casa, la salute, la scuola per i !gli sono un’avventura. Soprattutto manca il
lavoro, questo grande scomparso dalle politiche nazionali.
LIMES Il Niger è una nazione? Esiste uno spirito patriottico diffuso?
ARMANINO Le frontiere tra i numerosi paesi che attorniano il Niger sono state trac-
ciate all’epoca delle colonizzazione e dunque varie popolazioni sono insediate in
diversi Stati. Ad esempio i tuareg, gli haussa, gli zerma o i fulani/peul. Dif!cile
parlare di nazione in senso classico vista la varietà etnica, linguistica e culturale.
L’indipendenza del paese è recente (1960) e il tentativo di creare una nazione che
uni!chi tanta pluralità di popoli è un processo lungo e talvolta tortuoso. Natural-
mente quando si identi!ca un nemico comune si rafforza l’identità della nazione,
ma lo spirito patriottico varia secondo le classi di età e le situazioni. Ci sono avve-
nimenti che possono unire o ulteriormente dividere e l’azione di certi gruppi ar-
mati terroristici gioca molto sulle divisioni etniche o sui risentimenti storico-socia-
li. Anche lo spirito anticoloniale sembra diffuso e tocca soprattutto le élite delle
città e i giovani.
LIMES Le differenze fra comunità, etnie e gruppi linguistici sono profonde?
ARMANINO Come dappertutto la diversità può essere una potenziale ricchezza op-
pure può essere percepita come una s!da radicale alla pace stabilita dall’egemone.
Nel Niger, come in altri paesi della zona, esiste per esempio la presa in giro rituale
tra etnie che nel passato hanno conosciuto con"itti. Si tratta di una semplice ed
ef!cace strategia per diluire le tensioni e facilitare il dialogo. Il fenomeno citato è
studiato dagli antropologi e usato anche dai politici per riconciliare popolazioni e
famiglie. «Les cousinages de plaisanterie», così de!nite in francese, fanno parte del
patrimonio mondiale immateriale dell’umanità secondo l’Unesco. Il fatto che non
ci sia un’etnia dominante può facilitare il mescolamento (brassage) tra gruppi, ad
98 esempio tramite i matrimoni e le migrazioni interne.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

LIMES Chi comanda davvero in Niger?


ARMANINO La sabbia. Pervasiva, invasiva, insistente, resiliente, accomodante, eter-
na. L’economia, la politica, la gestione del potere sono «di sabbia», come pure
molte amicizie e decisioni. Col tempo ci si accorge che tutto si regge su questa
fragile solidità che sconcerta e in fondo rivela molto della nostra condizione uma-
na. La sabbia, con la sua dif!coltà a costruirci sopra, non fa che mettere a nudo la
nostra spesso nascosta fragilità. Da questo punto di vista la sabbia è uno straordi-
nario luogo di verità. Accanto alla sabbia ci sono i grandi commercianti, i religiosi,
i politici e i partiti che sovente esistono solo e soprattutto durante le elezioni pre-
sidenziali o parlamentari. Il presidente della Repubblica è il capo dell’esercito e
dell’esecutivo, sullo stile francese. Ma pure lui deve fare i conti col suo partito, con
coloro che hanno !nanziato la campagna presidenziale e gli attori esterni. Coman-
da chi ha i soldi per farlo, mentre il popolo è sistematicamente espropriato della
sua teorica sovranità.
LIMES Come si comportano i francesi, militari o civili, in Niger?
ARMANINO La Francia, ex potenza coloniale che ha cercato di perpetuarsi negli
antichi possedimenti, attraversa una crisi d’identità e di credibilità. Nel passato in
ogni ministero nigerino c’era una diffusa presenza francese. Sia consiglieri sia de-
cisori. Attualmente ciò è diventato più problematico e meno accettato, almeno
uf!cialmente, dalle élite locali. La cooperazione francese continua e così la pre-
senza dei militari, malvisti dalla popolazione anche perché manca un dibattito
sereno e costruttivo sulle basi militari straniere nel paese. Attualmente l’atteggia-
mento dei francesi, militari e non, sembra dettato dalla prudenza e da un certo
sentimento di insicurezza, visto quanto accaduto nel vicino Mali e in Burkina Faso.
In quei paesi le truppe francesi sono in crisi e la stessa cooperazione ha subìto
una battuta d’arresto.
LIMES L’odio antifrancese è così diffuso come pare? E si ri"ette sugli occidentali
tutti?
ARMANINO Dif!cile parlare di odio nei confronti dei francesi come tali. Ciò che de-
sta sconcerto e talvolta rabbia sono piuttosto le politiche e gli atteggiamenti dei
francesi, considerati arroganti dalla popolazione. Sono i simboli del potere colonia-
le a essere invisi, non tanto i cittadini francesi. Certo, quando l’ambiente si surri-
scalda e certe manipolazioni vengono azionate, specie nelle fasce giovanili, allora
sono un po’ tutti gli occidentali a !nire nel mirino. Dif!cile fare differenze tra i
«bianchi», considerati spesso come complici diretti o indiretti dello sfruttamento
reale o percepito dalla gente. C’è naturalmente chi manipola i legittimi sentimenti
patriottici o le frustrazioni della fascia giovanile urbana. Risentimento mi sembra un
termine più calzante.
LIMES Forse è un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità, scaricandole sui
francesi?
ARMANINO Capita fra certi intellettuali, che però, stando all’amico nigerino Abdou-
rahmane Idrissa che scrive su questo volume di Limes, nel Niger costituiscono una
classe. Ricordo di avere scritto, qualche mese dopo il mio arrivo a Niamey, un ar- 99
‘QUI COMANDA LA SABBIA’

ticolo nel quale domandavo dove fossero !niti gli intellettuali nel Niger. Non mi
era sbagliato di molto. Mancano le persone che aiutano a leggere la realtà con
onestà, competenza e soprattutto autonomia dal potere costituito. C’è chi si è la-
sciato comprare dai politici di turno oppure ha scelto di trovare casa ideologica e
soprattutto !nanziaria per sistemarsi. Si avverte l’assenza di una visione di società
e di Africa slegata da meri interessi personali, di prestigio o pecuniari. Pigrizia in-
tellettuale, facilitata dalla «politica alimentare» di questi anni. Una seria malattia che
incide profondamente sull’innovazione dell’assetto politico. Quanto alla scarsa pro-
pensione a prendersi le proprie responsabilità, dipende anche dalla notevole ca-
renza educativa che da sempre marca negativamente il paese.
LIMES La simpatia per la Russia è effettiva? Se sì, su che cosa si fonda? Tracce di
Wagner?
ARMANINO Finora la Russia era una perfetta sconosciuta, a parte qualche studente
o militare d’altri tempi. Evidentemente le notizie corrono e così le ripicche, soprat-
tutto nei confronti degli inquilini precedenti, Francia e Stati Uniti (in minore misu-
ra). Eppure un certo numero di militari golpisti ha frequentato scuole di formazio-
ne proprio negli Stati Uniti! Mi viene da sorridere quando vedo le bandierine
della Russia, mescolate ad altre dei paesi limitro! amici. Una novità dovuta agli
avvenimenti del dopo-golpe e alle minacce di intervento armato della Comunità
economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao nell’acronimo francese o
Ecowas in quello inglese). Ciò ha spinto venditori, partecipanti ai cortei di appog-
gio ai militari e persino tassisti a esibire la bandiera della Russia che nessuno co-
nosceva prima.
LIMES Che cosa è cambiato, se è cambiato, nella vita quotidiana a Niamey dopo il
26 luglio?
ARMANINO I ritmi di ricerca del pane quotidiano sono gli stessi ma ulteriormente
esacerbati da interruzioni della luce più frequenti e prolungate di prima. L’aumen-
to dei prezzi dei generi alimentari, la chiusura delle frontiere e il diffuso sentimen-
to di incertezza, a volte misto a timore, per l’eventuale intervento armato dall’ester-
no, contribuiscono a complicare la vita dei nigerini. È cambiato anche il contesto,
che da un certo punto di vista ha liberato un discorso pubblico rimasto per un
certo tempo come sequestrato dal potere che la «comunità internazionale» chiama
«legittimo». Un’opportunità che, stranamente, ha riaperto porte e !nestre di un di-
battito più democratico in parte della società. A lungo andare, però, se non si tro-
veranno sbocchi negoziali alla crisi, la gente si stancherà e si potrebbero pro!lare
rischi di violenza su innocenti.
LIMES Quanto è forte il sostegno alla giunta?
ARMANINO Specie fra i giovani sembra forte. La caduta di Bazoum ha innescato una
speranza di cambiamento che il torpore politico diffuso in questi anni aveva seda-
to. Anche in ambito sindacale, in parte della società civile e fra gli universitari ci si
è schierati dalla parte dei militari golpisti. Per convinzione o convenienza è dif!ci-
le dire, ma è certo che oggi il paese è marcato da divisioni politiche interessanti.
100 Anche in questo ambito bisognerà leggere il fenomeno sulla media e lunga durata.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

L’entusiasmo di alcune fasce popolari potrebbe col tempo scemare e dare spazio a
inedite avventure, segnate dall’incertezza.
LIMES Chi si oppone più fortemente ai golpisti?
ARMANINO Si deve notare la scontata condanna del golpe a opera della «comunità
internazionale», della citata Cedeao (meglio, parte di essa), e naturalmente del
partito maggioritario che ha guidato il paese negli ultimi dodici anni. Si oppone
chi aveva interessi da difendere garantiti dal regime o coloro per i quali le cose
andavano bene così com’erano. Per una parte del popolo, prevale un senso di
attesa che si potrebbe tradurre in un «vediamo come va a !nire». Non dimentichia-
mo che si tratta del quinto golpe in 63 anni d’indipendenza del paese, dunque uno
ogni decennio circa. Sembra che i militari siano parte integrante del gioco politico
nigerino!
LIMES Che ci stanno a fare i nostri soldati lì? Ci parla ogni tanto? Come si sentono?
ARMANINO Avevo scritto una lettera aperta di dissenso ai parlamentari italiani, pub-
blicata dal quotidiano Avvenire, al momento di decidere sulle missioni militari ita-
liane in Niger. Scrivevo testualmente che l’Italia, per rispetto della sua costituzione,
dovrebbe favorire un metodo di cooperazione compatibile con la scelta del ripudio
della guerra. Certo i militari italiani sono qui per formare militari nigerini. E per
farsi accettare e benvolere offrono regali a orfanatro! e scuole… Confermo una
volta di più la mia opposizione a ogni tipo di presenza militare qui: non è ciò di
cui il popolo abbisogna! La cooperazione italiana col Niger si è articolata in settori
interessanti come l’agricoltura e il decentramento amministrativo. Col tempo e con
l’accresciuta importanza geopolitica del Niger si è arrivati alla creazione dell’amba-
sciata italiana, la prima nel Sahel. È cresciuta la collaborazione in ambito militare e
il controllo della mobilità dei migranti in direzione del Nord Africa. Il contingente
italiano sul posto, inferiore alle 300 unità, ha una base militare presso l’aeroporto
della città. I nostri soldati sono spesso ospiti dell’Hotel Bravia di Niamey. Sono
poco visibili e danno meno nell’occhio dei militari francesi. Devo riconoscere che
il contatto con loro non è per me una priorità.

101
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

SOTTO LA PELLE
DEL GOLPE di Luca RAINERI
L’atipico putsch di luglio non origina da Agadez, epicentro della
consuetudine golpista nigerina. Il petrolio e il malcontento nelle
Forze armate contano più dell’uranio e dell’irredentismo tuareg.
Il ruolo dell’ex presidente Issoufou. L’alleanza tra Tchiani e Modi.

1. I N POCO PIÙ DI SESSANT’ANNI DI


indipendenza il Niger ha conosciuto sette «républiques», intervallate da quattro gol-
pe militari, alcuni golpe bianchi – forzatura costituzionale senza sparare un colpo
– e diversi golpe falliti. Il colpo di Stato militare che il 26 luglio ha destituito il pre-
sidente Mohamed Bazoum pone presumibilmente !ne alla settima repubblica e
avvia un periodo di transizione dagli esiti incerti. Sarebbe tuttavia fuorviante limi-
tarsi a leggere quest’ultimo sussulto istituzionale come ennesima, prevedibile ma-
nifestazione di una coazione a ripetere. Storicamente l’instabilità del Niger ha avu-
to il suo epicentro nella regione di Agadez, dove sono collocati i giacimenti di
uranio a lungo gelosamente controllati da Parigi e dove covano le spinte irredenti-
ste dei tuareg. La miscela esplosiva di tali fattori contribuisce in larga parte a spie-
gare i sovvertimenti politici che hanno scosso il Niger negli anni Novanta e primi
Duemila. Al contrario, gli indizi che emergono dalle dinamiche in corso sembrano
condurre lontano da Agadez. Nella complessità dei fattori concorrenti, il peso spe-
ci!co dell’uranio parrebbe essere in questo caso inferiore a quello del petrolio e il
potere destabilizzante di aspiranti ribelli inferiore a quello della fronda nell’esercito
stesso. La regione di Agadez potrebbe quindi passare dal banco degli imputati
(frettolosamente) designati a quello delle vittime del recente golpe in Niger.

2. Nell’ultimo decennio, l’equazione securitaria del Niger è profondamente


mutata. Con la caduta del regime di Ghedda! i tuareg hanno perso uno sponsor
regionale di peso, ma sono altresì divenuti gli interlocutori irrinunciabili delle can-
cellerie europee preoccupate di arginare i "ussi migratori che attraversano il de-
serto del Sahara verso il Mediterraneo. L’avvento della settima repubblica nigerina,
con la costituzione del 2010 e l’ascesa al potere del Pnds (Partito nigerino per la
democrazia e il socialismo) nel 2011, ha contestualmente placato le rivendicazioni 103
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

dei tuareg, mandando in sof!tta la prospettiva della lotta armata. Un tuareg, Birgi
Ra!ni, ha ricoperto la carica di primo ministro durante il duplice mandato del
presidente Mahamadou Issoufou. Molti ex ribelli hanno trovato collocazione nei
neonati enti locali e regionali, altri sono stati cooptati in organi consultivi parasta-
tali. E dal 2021 l’avvicendamento alla presidenza di Bazoum, che pure è di ascen-
denza araba e non tuareg, è stato salutato con generale favore dalla popolazione
di Agadez in quanto rappresentante dei peaux clairs, le etnie considerate «bian-
che» minoritarie nel paese.
Parallelamente, la centralità dell’uranio nell’economia politica del paese è eva-
porata. Dopo il picco del 2007, il commercio mondiale di questo metallo si è dra-
sticamente ridimensionato a seguito del disastro di Fukushima del 2011, senza più
riprendersi. Nel 2013 l’attentato messo a segno da al-Qå‘ida nel Maghreb islamico
alle miniere di uranio francesi nella regione di Agadez ha costretto il colosso Areva
(oggi Orano) a un dispendioso incremento delle misure di sicurezza. L’accesso ai
mercati internazionali è inoltre sempre più ostacolato dall’assenza di adeguate in-
frastrutture di trasporto che servano i remoti siti di estrazione nelle profondità
sahariane. I donatori internazionali si sono dimostrati riluttanti a !nanziare l’ammo-
dernamento della rete viaria della regione di Agadez per timore che avrebbe favo-
rito il rischio di nuovi attentati e agevolato i "ussi migratori verso il Mediterraneo.
La concomitanza di costi crescenti di gestione e margini decrescenti di pro!tto ha
messo in discussione la convenienza del ricorso all’uranio nigerino. Numerose mi-
niere sono oggi sottoutilizzate e dal 2018 centinaia di dipendenti della !liale nige-
rina di Orano sono in cassa integrazione. In cambio, la Francia ha incrementato le
forniture uranifere da produttori meno onerosi quali Kazakistan, Canada e Austra-
lia, con!nando a un ruolo subalterno quelle di Agadez.

3. La perdita di rilevanza strategica dell’uranio nigerino è parzialmente com-


pensata dalle prospettive promettenti dell’economia petrolifera. I giacimenti nell’a-
rea di Agadem – sita nella regione orientale di Diffa, da non confondersi quindi
con la settentrionale Agadez – scontano alti costi di estrazione e trasporto che
hanno a lungo scoraggiato lo sfruttamento. Nel 2008 però il drastico aumento del
costo del barile e l’accresciuta competizione internazionale attirano in Niger la
China National Petroleum Corporation (Cnpc), che avvia una modesta estrazione
di 20 mila barili al giorno e la realizzazione della prima raf!neria del paese. For-
malmente, i proventi delle attività di raf!nazione e vendita sono in parte retrocessi
alla Società nigerina dei prodotti petroliferi (Sonidep), ente parastatale controllato
da Niamey. Eppure numerose inchieste suggeriscono che durante il decennio di
Issoufou le prerogative istituzionali della Sonidep siano state strumentalizzate per
alimentare le reti clientelari del presidente, tramite l’allocazione di contratti gon!a-
ti ai fedeli di partito e la generazione sistematica di fondi neri. Soprattutto, la con-
cessione sottobanco di permessi di commercializzazione ed esportazione esentasse
– cioè il racket del contrabbando – ha contribuito a cementare i legami fra Issoufou
104 e in"uenti imprenditori nigerini e non, ma ha anche crivellato di debiti la Sonidep
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

e lo Stato, sottraendo all’erario un ammontare stimato in 50-70 milioni di dollari


l’anno, quasi il 5% del (magro) pil nigerino.
Nel frattempo, la compagnia petrolifera algerina Sonatrach ha rivelato la sco-
perta di nuovi importanti giacimenti nel Nord del paese, mentre la Cnpc ha annun-
ciato l’intenzione di costruire un oleodotto di quasi 2 mila km per agevolare il
de!usso del petrolio nigerino verso i porti del Benin e i mercati internazionali.
L’opera consentirebbe di valorizzare giacimenti petroliferi oggi sottoutilizzati, decu-
plicare la produzione nigerina a 200 mila barili al giorno e fare del petrolio il prin-
cipale traino all’economia del paese.
Mantenere la presa su un settore petrolifero in galoppante espansione – e sul-
le relative prebende – è stata una priorità per Issoufou "no alla "ne del suo man-
dato e oltre. L’ultima riunione del Consiglio dei ministri dell’ex presidente ha asse-
gnato permessi di estrazione a condizioni di favore a un imprenditore burkinabé
sospettato di essere un mero prestanome dello stesso Issoufou. Con l’avvicenda-
mento di Bazoum alla presidenza della repubblica Issoufou riesce in"ne a imporre
suo "glio, Sani Issoufou detto «Abba», al ministero del Petrolio e dell’Energia.
Bazoum ha quindi avviato un cauto risanamento del settore petrolifero nigeri-
no, pur cercando di evitare lo scontro aperto con il suo in!uente predecessore e
mentore. Ha rimpiazzato la dirigenza della Sonidep, ordinato un audit della società
– i cui risultati sono stati misteriosamente trafugati e mai pubblicati – e trasferito
crescenti competenze a PetroNiger, una società a partecipazione pubblica creata ex
novo e pertanto più controllabile. Recenti indiscrezioni suggeriscono che Sani «Ab-
ba» Issoufou avrebbe esplicitamente avversato e poi cercato di sabotare queste
mosse del presidente, proponendo alla guida di PetroNiger dei fedeli di Issoufou.
Le tensioni fra Bazoum e il suo ministro del Petrolio erano andate crescendo nel
corso del mese di luglio e l’organigramma di PetroNiger avrebbe dovuto essere
sottoposto al voto del Consiglio dei ministri il 27 luglio. Ma il 26 luglio il capo del-
la Guardia presidenziale Abdourahamane Tchiani, notoriamente vicino a Issoufou,
ha sequestrato Bazoum e avviato il colpo di Stato.

4. Il legame fra la disputa sulla gestione opaca del petrolio nigerino e il colpo
di mano di Tchiani rimane una congettura seducente, persino plausibile. Ma non
dimostrabile. S"dano un’interpretazione rigidamente schematica anche la sconfes-
sione del golpe da parte di Issoufou padre – seppure tardiva – e la successiva de-
tenzione di Issoufou "glio da parte dei golpisti – seppure piuttosto blanda. Una
ricostruzione lineare delle contingenze è forse inattingibile, ma importa comunque
meno che identi"care i vettori di fondo della crisi nigerina. In questa prospettiva è
lecito ipotizzare che se la contesa riforma del settore petrolifero ha precipitato la
situazione in Niger, tale dinamica si sia intrecciata con i soggiacenti attriti che co-
vavano da mesi negli apparati militari.
Nell’ultimo decennio, in effetti, il settore della sicurezza nigerino è stato co-
stretto a far fronte alle pressioni contrapposte e correlate dei gruppi jihadisti alle
frontiere e dei partner internazionali (occidentali) che esigevano riforme strutturali. 105
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

Consapevole che il malcontento dell’esercito ha rappresentato la pietra tombale di


molti suoi predecessori, Bazoum si è mosso con cautela per cercare di traghettare
il paese attraverso acque tempestose con un margine di manovra limitato. In que-
sto contesto, il riposizionamento in Niger del contingente militare francese espulso
da Mali e Burkina Faso si è rivelato un regalo avvelenato. Bazoum non poteva ri-
!utarlo – sia per i rapporti esistenti fra Niamey e Parigi sia per l’oggettiva impre-
scindibilità delle forze francesi nella lotta ai gruppi jihadisti – ma ha dovuto dare
fondo a tutte le sue capacità retoriche e risorse politiche per far ingoiare la pillola
ai suoi, in un accorato discorso al parlamento dell’aprile 2022. D’altronde, in priva-
to i vertici militari non nascondevano un crescente disagio nei confronti di una
relazione asimmetrica che rischiava di scon!nare nella subalternità. Ma anche la
scelta del tutto indipendente di Bazoum – e anzi piuttosto indigesta a Parigi – di
intraprendere un dif!cile negoziato con i leader locali dello Stato Islamico era fon-
te di dissapori con gli uf!ciali nigerini più inclini al jusqu’au-boutisme militare.
Soprattutto, gli apparati di sicurezza erano preoccupati della politica di Ba-
zoum volta a mitigare – invero, molto cautamente – gli squilibri etnici in seno alle
Forze armate. Una maggiore rappresentanza dei soggetti tradizionalmente margi-
nalizzati avrebbe potuto scoraggiare la propensione di questi ultimi a defezionare
in favore delle insurrezioni jihadiste, ma la manovra è stata percepita dai gruppi
etnici e sociali storicamente dominanti nella !bra dell’esercito come una minaccia
alla propria egemonia.
A fronte delle crescenti divergenze con le gerarchie militari, nei mesi prece-
denti il golpe Bazoum sembrava aver abbandonato la consueta prudenza – pros-
sima all’immobilismo – e si era deciso a dare il benservito gli uomini ritenuti meno
af!dabili, sostituendo gli uf!ciali a capo della gendarmeria e dello Stato maggiore
dell’esercito e mandando in pensione numerosi generali. Si vocifera peraltro che a
luglio si preparasse a sostituire il capo della Guardia presidenziale Abdourahama-
ne Tchiani.
Il golpe del 26 luglio ha invece proiettato il generale Tchiani al vertice del
Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp). Ma numerosi osserva-
tori sostengono che ciò non sarebbe stato possibile senza il concorso del generale
Salifou Modi, l’ex capo di Stato maggiore licenziato da Bazoum pochi mesi prima.
Il giorno del golpe Modi – che sembra aver già preso parte a tre colpi di Stato in
passato – è accorso al palazzo presidenziale per parlamentare con Tchiani, con cui
ha deciso in!ne di allearsi. Il suo personale prestigio viene ritenuto decisivo nel
determinare l’esito del putsch, spostando l’ago della bilancia a favore degli insorti.
Due settimane più tardi, Modi viene nominato ministro della Difesa del governo di
transizione del Cnsp.

5. Nel contesto di allerta generale successivo al golpe, Tchiani e Modi hanno


dichiarato di voler avviare la formazione di milizie cittadine di autodifesa, seguen-
do il modello – invero disastroso – del Mali e del Burkina Faso. È probabile che
106 contestualmente si interromperebbe il reclutamento attivo delle etnie minoritarie in
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

seno alle Forze armate. Disegno che, se realizzato, rischierebbe di ravvivare le ten-
sioni etniche mai sopite in Niger. A farne le spese sarebbe in primo luogo la regio-
ne di Agadez, che rischia di subire i contraccolpi di una sommaria identi!cazione
con il regime di Bazoum in nome dell’ampio sostegno politico tributatogli nelle
elezioni del 2021 e di una supposta solidarietà etnica dei peaux clairs. L’eventuale
polarizzazione fra Agadez e le nuove autorità di Niamey rischierebbe peraltro di
saldarsi ad altri fronti caldi nella regione, alimentando instabilità su ampia scala.
Nel vicino Mali, il ritiro della missione di pace Onu imposto dalla locale giunta
militare rischia di far de!nitivamente saltare il già precario processo di pace fra il
governo di Bamako e i ribelli tuareg. In agosto, le prime partenze dei caschi blu
non hanno mancato di provocare schermaglie fra esercito maliano e gruppi arma-
ti (ex?) ribelli. Una convergenza dei fronti insurrezionali tuareg in Mali e in Niger si
è già veri!cata in passato, per quanto in maniera ef!mera. E se nell’ultimo decen-
nio l’uscita di scena di Ghedda! ha privato le ambizioni dei tuareg di un potente
catalizzatore, non è da escludere che dal polverone del (dis)ordine internazionale
odierno possa emergere un nuovo sponsor.

107
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

Perché il Niger fa gola


a cura di Giacomo MARIOTTO

Il Niger è cerniera strategica tra la fascia saheliana e il deserto profondo, piat-


taforma privilegiata dei traf!ci di armi, droga ed esseri umani, canale quasi inaggi-
rabile per i migranti che dallo spazio subsahariano premono alla volta delle coste
mediterranee. Le principali rotte migratorie che attraversano il paese verso il Nord
Africa sono due. Entrambe con fulcro ad Agadez, nel cuore del territorio dei tua-
reg, rampa di lancio per raggiungere Libia e Algeria. Coloro che puntano ai litora-
li algerini costeggiano il margine orientale del massiccio dell’Aïr, passando per
Arlit e Assamakka. Gli altri attraversano Dirkou e Séguedine per scon!nare nel
Fezzan libico.
Nell’ultimo decennio, l’allargamento del caos nello spazio libico ha spinto
l’Unione Europa a rivolgersi al Niger per la gestione dei "ussi migratori. È per que-
sto che nel 2015 Niamey ha approvato una severa legge anticontrabbando, proi-
bendo il trasporto dei migranti sull’intero territorio nazionale. Ne è risultata l’aper-
tura di una moltitudine di direttrici informali nel deserto, volte a schivare i control-
li nei principali centri urbani lungo il tragitto. Ancora nel 2021 l’Agenzia europea
della Guardia di frontiera e costiera stabiliva: «Abbiamo l’impressione che la fron-
tiera dell’Europa inizi dalla città di Agadez».
La rete dei traf!ci interni non si limita ai migranti. Il Niger è da tempo un im-
portante snodo di transito per sostanze psicotrope (su tutte il tramadolo), per la
resina di cannabis marocchina e per la cocaina commerciata dall’Africa occidentale
e destinata all’Europa o al Golfo attraverso la Libia. La polizia nigerina realizza di
frequente ingenti sequestri di stupefacenti. Nel marzo 2021, in un magazzino della
capitale sono state con!scate 17 tonnellate di hashish, per un valore stimato di 37
milioni di dollari. È un processo che talvolta coinvolge anche le cariche politiche.
Nel gennaio 2022 il sindaco di Fachi, un comune isolato di poche migliaia di abi-
tanti, è stato arrestato nel deserto con più di 200 kg di cocaina nel proprio veicolo.
È anche diffusa la circolazione di armi di provenienza libica, le quali contribu-
iscono ad accentuare il ruolo delle milizie autonome, quindi il disordine interno.
Spesso i "ussi entrano in Niger attraverso il Passo di Salvador e seguono le tradi-
zionali rotte commerciali saheliane, evitando i sistemi di sorveglianza predisposti
da Niamey. La maggior parte delle armi raggiunge Agadez, da cui partono piccoli
convogli diretti verso Mali (via Tassara o Tchintabaraden) e Nigeria (via Tahoua,
Maradi o Zinder).
Il valore del Niger è acuito dalla considerevole ricchezza delle sue risorse mi-
nerarie. A partire dalle riserve aurifere. Nel 2014 la scoperta di un bacino a Djado,
108 remota valle nell’estremo Nord della regione di Agadez, ha scatenato una corsa
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

TRAFFICI E RISORSE IN NIGER


L I B I A

F E Z Z A N
R
A L G E R I A A
G
G
A
H
A
jer
n'Aj Madama
s ili
T as
Té n e r é T I B E S T I

A G A D E Z
1.800 m
Assamakka Arlit A Ï R
1.874 m Fachi

M A L I Agadez Giacimento
Tassara di Agadem
(Permesso di sfruttamento
Gao Tchintabaraden N I G E R concesso alla Cnodc cinese)

TAHOUA C I A D
Tahoua ZINDER
TILLABÉRI
MARADI DIFFA Lago Ciad
NIAMEY Zinder
Maradi
DOSSO
BURKINA
FASO N’DJAMENA
N I G E R I A
BENIN
Siti auriferi del Niger CAMERUN
Tra!co di armi dalla Libia e oltre
TOGO

Regioni nigerine Rilievi


Tabélot tra 3.500 e 1.500 m
Tchibarakaten (principale) Principali miniere di uranio
tra 1.500 e 1.000 m
(Arlit, Akouta, Imouraren)
Djado (chiuso nel 2014) tra 1.000 e 500 m
Liptako Giacimenti di petrolio e gas

all’oro e una drastica crescita del brigantaggio. Dopo poco più di tre anni la pro-
pagazione degli episodi di violenza ha costretto Niamey a chiudere il sito. Il prin-
cipale giacimento in attività è quello di Tchibarakaten, collocato al con!ne con
l’Algeria, nel Sahara profondo, a quasi tre giorni di viaggio dall’insediamento più
vicino. Col tempo, in questo improbabile af!oramento roccioso si sono stabilite
decine di migliaia di persone, tra cui !gurano ex ribelli tuareg, cercatori di fortuna
e migranti alla ricerca di denaro per !nanziare la traversata del deserto. Oggi l’oro
rappresenta di gran lunga il principale bene d’esportazione del Niger (2,7 miliardi
di dollari, equivalenti al 71,4% del totale).
C’è quindi l’uranio, metallo impiegato come combustibile nei reattori nucleari,
collocato perlopiù nel bacino di Tim Mersoï, uno dei maggiori depositi al mondo.
Per incontrare gli immensi giacimenti a cielo aperto che rendono il Niger uno spa-
zio di valore inestimabile occorre spingersi a nord del paese, oltre il massiccio 109
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

CROCEVIA AGADEZ L I B I A
Rotte tradizionali della migrazione
Rotte informali aperte dopo il 2015
A L G E R I A
Ramo della rotta per le coste algerine
Madama
Ramo della rotta per le coste libiche
Sedi dell’Oim
Principali campi o zone d’accoglienza
per i rifugiati o gli sfollati interni A G A D E Z
Séguédine

Assamakka Achegour
Arlit Dirkou

Fachi
M A L I
Agadez N I G E R
Agadem
TAHOUA DIFFA
ZINDER
Tabareybarey Mangaïzé Tahoua
Abala Tanout
N’guigmi
TILL ABÉRI
Tillabéri MARADI
Zinder Lago Ciad
NIAMEY Di!a
Maradi
Dosso
DOSSO C I A D
BURKINA
FASO
N I G E R I A
BENIN

Fonte: autori di Limes e International Crisis Group

dell’Aïr, in prossimità della città di Arlit. I principali depositi sono Arlit, Akouta e
Imouraren e si estendono lungo una faglia che procede in direzione longitudinale,
dividendo in due sezioni geologiche la regione amministrativa di Agadez.
Qui a partire dagli anni Settanta l’azienda francese Areva (denominata Orano
nel 2018) ha avviato le proprie operazioni di lavorazione ed estrazione. Un’attività
che col tempo ha contaminato l’aria, l’acqua e il terreno di tutta la zona. Oggi questo
quadrante brullo, tribolato dalla presenza capillare di banditi e traf!canti di droga, è
classi!cato con il colore «rosso» dalla diplomazia di Parigi e costituisce uno dei fulcri
del sentimento antifrancese ormai diffuso in tutto l’arco della fascia subsahariana.
Orano detiene un controllo pressoché monopolistico sui depositi della regio-
ne. Tutte le miniere in concessione sono collocate nel raggio di poche decine di
chilometri da Arlit, nei siti di Aïr, Akokan e Imouraren. I circa 1.300 soldati che
Parigi ha concentrato in Niger hanno anche l’incarico di garantire la protezione
delle località dove si effettua l’estrazione di uranio.
Per alimentare i 56 reattori delle 18 centrali nucleari francesi, l’operatore
110 Électricité de France (Edf) necessita ogni anno di circa 8 mila tonnellate di uranio
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

TRAFFICI DI STUPEFACENTI Passo di L I B I A


Salvador
IN NIGER
A L G E R I A
Madama

Verso
l’Europa
A G A D E Z

M A L I Assamakka
Kidal
Fachi
2
N I G E R Agadem
Agadez

Gao TAHOUA
Aderbissinat DIFFA
TILL ABÉRI ZINDER C I A D
1 MARADI Lago Ciad
NIAMEY Zinder Di!a

DOSSO

BURKINA
FASO N I G E R I A
BENIN
1 Con!sca di 17 tonnellate di hashish, per un
Rotta dell’hashish e della cocaina valore stimato di 37 mln di $, in un magazzino
Rotta del tramadolo di Niamey - marzo 2021
Con!ni regionali 2 Arresto, in una zona desertica, del sindaco di
Fachi trovato in possesso di oltre 200 kg di
Scontri collegati al tra"co di stupefacenti cocaina nel proprio veicolo - gennaio 2022

naturale. Parigi deve reperire tutte le forniture all’estero. E nell’ultimo decennio il


20% delle quasi 90 mila tonnellate importate nel paese è provenuto proprio dal
Niger. Anche per questo motivo l’establishment politico francese ha reagito con
preoccupazione al colpo di Stato del generale Abdourahamane Tchiani, special-
mente dopo l’annuncio del congelamento delle esportazioni di uranio. È tuttavia
improbabile che tale decisione possa causare severe ripercussioni sul settore ener-
getico della Francia, la cui industria mantiene alte le riserve allo scopo di salvaguar-
darsi da potenziali interruzioni nella catena degli approvvigionamenti.
Ma un’interruzione duratura non sarebbe priva di conseguenze. Soprattutto
perché a bene!ciarne potrebbero essere Russia e Cina, che per distrazione altrui
vedrebbero accrescere la propria presa sulla regione. Il Niger, fatta eccezione per
un accordo di cooperazione militare siglato nell’agosto 2017, ha pochi legami di 111
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

sicurezza con Mosca. Tuttavia, negli ultimi cinque anni la Russia si è imposta come
principale venditore di armi nell’Africa subsahariana, con una quota di mercato del
26%. Ci sono pochi dubbi che approfondire l’in!uenza russa a Niamey rientri nella
grande strategia del Cremlino per la fascia saheliana.
Quanto alla Cina, negli ultimi vent’anni ha puntato con decisione sul Niger,
"no a diventare il suo secondo maggiore investitore estero dopo la Francia. Nel
settembre 2019, PetroChina ha stipulato un accordo con il governo di Niamey per
la costruzione di un oleodotto di 2 mila chilometri tra il giacimento nigerino di
Agadem (di cui controlla la produzione) e il centro portuale di Cotonou, in Benin.
Inoltre, probabilmente non è un caso che negli ultimi mesi i dirigenti cinesi abbia-
no iniziato a valutare la ripresa dell’estrazione di uranio ad Azelik, una miniera
abbandonata nel 2015 a causa delle sfavorevoli condizioni di mercato.
Non si può prevedere con certezza quale posizione assumerà la nuova giunta
militare a Niamey. Indubbiamente, molto dipenderà da come si intersecheranno gli
interessi delle potenze esterne. La Francia osserva inerme lo sgretolarsi di quel
poco che restava del suo impero. Gli Stati Uniti intendono contenere l’espansione
di Russia e Cina in uno degli ultimi baluardi "lo-occidentali della regione. Altri at-
tori – su tutti Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti – scalpitano ai margini. Una
sola cosa è certa. Il Niger, eccezionale snodo logistico e bacino di preziose risorse,
fa gola un po’ a tutti.

112
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

L’ECOWAS
SECONDO LA NIGERIA di Carlo Alberto CONTARINI
Abuja manovra l’organizzazione economica per proiettare nuove
ambizioni regionali, ma è preda delle sue spaccature interne e
dell’ascendente francese. La chiusura della frontiera con il Niger
dopo il golpe destabilizza lo storico legame tra i due paesi.

1. L A PRESA DI NIAMEY DA PARTE DEL GENERALE


Abdourahamane Tchiani si inserisce nel solco di un processo di erosione del
potere dell’establishment !lofrancese nella regione saheliana. I colpi di Stato
militari in Mali, Burkina Faso e Guinea dal 2020 a oggi hanno progressivamente
confermato il diffuso malcontento nei confronti delle ingerenze di Parigi e più in
generale occidentali. Nell’ultimo decennio, la credibilità dell’Ecowas (Comunità
economica degli Stati dell’Africa occidentale, organizzazione imperniata sulla
Nigeria) come attore regionale si è andata deteriorando per via della sua incapa-
cità di far fronte alle molteplici crisi interne agli Stati membri e ai fenomeni jiha-
disti nella fascia saheliana. Accusata di farsi pedina degli interessi francesi in
Africa occidentale, l’Ecowas è ora impegnata ad arginare consistenti fratture in-
terne, culminate nell’alleanza di sapore anticoloniale fra Ouagadougou, Bamako
e Conakry.
Il recente golpe a Niamey ha esasperato tali premesse. L’episodio ha ricevu-
to grande copertura mediatica internazionale, ma soprattutto è quotidianamente
monitorato da quella corrente dell’Ecowas che, trainata dal colosso nigeriano,
minaccia un’azione militare per ripristinare l’ordine costituzionale nel caso in cui
la via diplomatica dovesse fallire. Una simile soluzione dovrebbe fare i conti con
la forte frammentazione che nel frattempo si è prodotta in seno all’organizzazio-
ne economica: se inizialmente tutti gli Stati avevano condannato il cambio di re-
gime, ora Mali, Burkina Faso e Guinea sostengono la giunta golpista e minaccia-
no ritorsioni in caso di un intervento esterno in Niger. Intanto la maggior parte
dei paesi dell’Ecowas, su iniziativa del presidente nigeriano Bola Tinubu, ha ini-
ziato a imporre sanzioni commerciali e !nanziarie contro Niamey, tra cui l’inter-
ruzione delle forniture di elettricità decretata dalla Nigeria.
113
114
LE TERRE DI BOKO HARAM
CIAD
NIGER (16.294)
(171.974)

Fiu
BOKO HARAM m
(scissione in due fazioni) e Lago Ciad

Ni
45.402 Ngoubova

ger
Provincia Ğamā‘at ahl KATSINA Malam
dell'Africa al-sunna SOKOTO Fatori
occidentale li-l-da‘wa ZAMFARA 121.434 J IG AWA
YOBE
L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA

KEBBI 1.603.044
dello Stato Islamico wa-l-Ğihād 112.316 KANO B OR NO
(Iswap) (Jas)
A!liato Agenda 50.676 143.759
allo Stato Islamico più locale
collegato alla (1.500 - 2.000 KADUNA
89.629 BAUCHI GOMBE
fascia saheliana miliziani)
Incursioni Iswap 66.062 39.532
NIGER
Iswap
N I G E R I A ADAMAWA
BENIN Fi
um PLATEAU
Presenza permanente e Nige 209.252

r
nella foresta di Alagarno ABUJA 20.059 84.979
KWARA NASSARAWA TARABA Maggiori gruppi
Roccaforte (Lago Ciad) OYO
88.594 linguistici nigeriani
Assalto alla base militare CAMERUN
EKITI KOGI (115.695)
di Malam Fatori OSUN BENUE 204.103
Hausa e fulani
(Islamici sunniti
Unità militare ciadiana OGUN ONDO circa 55 milioni di persone)
attaccata EDO ENUGU
TOGO s LAGOS EBONYI Kanuri
GHANA La
go ANAMBRA (Islamici con culti tradizionali
CROSS circa 5 milioni di persone)
DELTA IMO ABIA RIVER
Yoruba
AKWA 121.434 (Cristianesimo, islam
BAYELSA RIVERS IBOM e religione yoruba
Numero sfollati in proporzione circa 40 milioni di persone)
Flussi di rifugiati nigeriani ABUJA (659)
171.974 Numero di rifugiati nei paesi con!nanti LAGOS (2.710) Edo
(Lingua parlata da circa
2.150.243 Numero di sfollati in Nigeria 5 milioni di persone)
Fonte: Unhcr
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

2. Nata nel 1975 con il trattato di Lagos, l’Ecowas ha come principali obiettivi
la promozione dell’autosuf!cienza economica e l’integrazione dei 15 paesi mem-
bri, da perseguire anche tramite l’istituzione di un mercato unico e di una moneta
comune entro il 2025. Trainata in origine da ambizioni principalmente economi-
che, l’organizzazione con sede ad Abuja ha acquisito nel corso degli anni una di-
mensione sempre più politica. La salvaguardia della democrazia e dell’ordine co-
stituzionale sono infatti tra i moventi addotti a giusti!cazione dell’intervento milita-
re nella guerra civile liberiana, in Mali nel 2012 e in Gambia nel 2017. Nei recenti
colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Guinea l’Ecowas ha invece dimostrato di sa-
per dosare le proprie forze, limitandosi all’imposizione di sanzioni e alla sospen-
sione dei tre paesi dalla comunità. Le dif!coltà incontrate nella gestione degli ultimi
tre casi hanno tuttavia sollevato non pochi dubbi sul suo ruolo di garante demo-
cratico della regione, nonché sulle sue capacità di governare i complicati equilibri
geostrategici dell’Africa occidentale.
Il putsch a Niamey dello scorso 26 luglio ha segnato un radicale cambio di
passo nell’approccio regionale dell’Ecowas. A guidare il nuovo indirizzo è il neoe-
letto presidente nigeriano Bola Tinubu, che nel vertice di Abuja del 10 agosto e
nell’incontro ad Accra con le autorità militari del 17 e 18 agosto ha dato prova di
volersi smarcare dalla linea della precedente presidenza. Tinubu intende servirsi
dell’Ecowas come vettore per ripristinare l’in"uenza della Nigeria, che esprimendo
il 50% della popolazione e il 60% del pil dell’insieme degli Stati membri è sempre
stata la potenza dominante dell’organizzazione, anche da un punto di vista milita-
re. Abuja ha ricoperto in passato un ruolo centrale sulla scena internazionale, che
tuttavia si è ridimensionato a partire dagli anni Duemila. Oggi Tinubu mira a rista-
bilire tale egemonia ergendosi a garante dell’ordine regionale e brandendo il pu-
gno di ferro contro il governo golpista di Niamey, !no a pro!lare la possibilità di
un intervento militare.

3. Per comprendere le implicazioni geopolitiche ed economiche di un poten-


ziale con"itto armato tra Niger e Nigeria occorre soffermarsi sulle relazioni storiche
che legano i due paesi. Per Abuja, la frontiera settentrionale nigerina rappresenta
storicamente una soglia strategica, economica e culturale di importanza cruciale,
non solo perché costituisce il più esteso con!ne della Nigeria. Molti nigeriani vivo-
no infatti a ridosso di tale frontiera e condividono con il Niger l’appartenenza et-
no-linguistica hausa e la religione islamica. Questa zona, da cui proviene anche
l’ex presidente nigerino Mahamadou Issoufou, si è affermata come importante
centro di commercio e scambio di beni di consumo, soprattutto di bestiame. La sua
natura porosa fa sì che venga quotidianamente attraversata da "ussi transfrontalie-
ri di merci e persone.
La linea che separa la Repubblica del Niger e la Repubblica Federale della Ni-
geria è stata tracciata arti!cialmente dalle potenze coloniali europee durante la
Conferenza di Berlino del 1884-5. Prima della creazione di tale con!ne, gli hausa
degli attuali Niger e Nigeria del Nord costituivano una stessa nazione, condividendo 115
L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA

lo stesso territorio, lignaggio e religione. Storicamente, infatti, il Kasar Hausa (Terra


degli Hausa), che si estendeva dai margini del Sahara agli altipiani di Jos nella Nige-
ria settentrionale, rappresenta una delle principali istituzioni politiche precoloniali in
termini di popolazione e di estensione territoriale. Nonostante la successiva divisone
territoriale, la lingua hausa è rimasta uno strumento in grado di modellare le relazio-
ni diplomatiche tra i due paesi. L’«hausanizzazione» dei rapporti bilaterali ha peraltro
contribuito a sostenere al potere le élite politiche della Nigeria del Nord.
Le attuali sanzioni economiche ai danni del governo di Niamey e la minaccia
di un intervento militare in territorio nigerino rischiano di minare la storica relazio-
ne tra i due paesi e di turbare gli equilibri geopolitici ed economici dell’intera re-
gione. Secondo l’Arewa Economic Forum, infatti, i commercianti della Nigeria del
Nord hanno denunciato la perdita di 13 miliardi di naira di entrate settimanali (più
di 15 miliardi di euro) in seguito alla chiusura della frontiera settentrionale con il
Niger. La misura adottata dal governo di Abuja ha avuto un impatto economico
sostanziale sul sostentamento della popolazione nigeriana nel Nord, aggravando le
condizioni di un territorio già attanagliato da una forte crisi economica e politica
legata al con!itto con il gruppo jihadista Boko Haram.
La precarietà della situazione al con"ne ha inoltre suscitato la preoccupazione
dei leader religiosi e politici della Nigeria settentrionale, che si sono attivati per
raggiungere una risoluzione diplomatica e scongiurare l’intervento armato. Assie-
me a 58 senatori degli Stati federati della Nigeria del Nord, gli appelli di Sanusi
Lamido Sanusi, ex emiro di Kano, e dello sceicco Bala Lau – personalità che godo-
no di una notevole in!uenza nella regione – hanno avuto come primario obiettivo
quello di ammonire il governo di Abuja contro le gravi implicazioni del ricorso
all’opzione militare. Che nei fatti porterebbe a un’ulteriore destabilizzazione di
queste regioni, peraltro estremamente povere: la circolazione di armi e la diffusio-
ne dell’estremismo violento provocherebbero un deterioramento delle condizioni
di sicurezza nella Nigeria settentrionale, già af!itta da fenomeni insurrezionali di
matrice jihadista, con!itti tra contadini e pastori, rapimenti di massa.
Oltre alla preoccupazione della classe politica e dei rappresentanti religiosi,
anche la cosiddetta società civile avverte una profonda apprensione per la possibi-
lità di una escalation militare nel Nord. Lo dimostrano le centinaia di persone scese
per le strade di Kano, principale centro urbano della Nigeria settentrionale, che
sventolando bandiere nigeriane e nigerine hanno scandito slogan antifrancesi e
accusato Parigi di incitare la Nigeria a entrare in guerra contro il Niger.
Anche prima di questa crisi, la Nigeria attraversava un grave periodo di insta-
bilità politico-economica. Il neopresidente Bola Tinubu ha voluto smarcarsi dalla
precedente leadership di Muhammadu Buhari, accusato di passività e indolenza,
anche sul fronte domestico. La prima misura politica varata da Tinubu è stata riti-
rare i sussidi per la benzina, con la promessa di reinvestire i miliardi di naira deri-
vanti da questi tagli in riforme volte a rilanciare l’economia nazionale. La manovra
ha tuttavia causato un’impennata dei prezzi: il costo della benzina è raddoppiato,
116 mentre quello di elettricità, generi alimentari e altri beni di prima necessità è sen-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

NIGER E NIGERIA INTERCONNESSI L I B I A

Con!ni del Niger


e della Nigeria A L G E R I A
Con!ne chiuso
dopo il golpe in Niger

Area abitata dal gruppo


etnico hausa
A G A D E Z

Ex Repubblica del Biafra


(Stato secessionista a prevalenza
igbo esistito dal 30/5/1967 Agadez
al 15/1/1970 C I A D
N I G E R
M A L I DIFFA
TILLABÉRI TA H O U A
ZINDER
NIAMEY MARADI Lago Ciad
DOSSO
BURKINA
FAS O
Kano

BENIN
N I G E R I A
GHANA

F. ABUJA
Nige
r

TOGO

Benin City
REPUBBLICA
PO tono
La -NO
Co

CENTRAFRICANA
RT u
go VO
O
s

Port Harcourt CAMERUN


Direttrici dell’export
nigerino attraverso i porti
Golfo di Guinea di Benin e Nigeria
(attualmente interrotte)

sibilmente aumentato. A ciò si aggiunge un tasso di cambio con il dollaro non


stabilizzato, la mancanza strutturale di riserve nazionali di valuta estera (fondamen-
tali per pagare i beni d’importazione e il debito), un preoccupante aumento del
tasso di disoccupazione e uno stato di sicurezza nazionale sempre più precario a
causa del banditismo nel Centro e nel Nord, del jihadismo nel Nord-Est e delle ri-
vendicazioni indipendentiste biafrane nel Sud-Est. La delicata situazione biafrana
rischia inoltre di complicarsi ulteriormente, soprattutto dopo le dichiarazioni di Si-
mon Ekpa, primo ministro del governo della Repubblica del Biafra in esilio, cha ha
annunciato pubblicamente che il Biafra si schiererà a sostegno delle giunte golpiste
se l’esercito nigeriano interverrà in Niger. 117
L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA

4. L’attivismo di Abuja, che si erge a protettrice dell’ordine costituzionale nel-


la Repubblica del Niger per mezzo dell’Ecowas, è dunque nutrito dall’ambizione
a ristabilire un’egemonia regionale e ad acquisire un ruolo di prim’ordine sul
piano internazionale. Vi sono però anche attori esterni che traggono vantaggio da
una simile postura, in primis la Francia.
Il rischio di veder sfumare i propri interessi economici e strategici in territo-
rio nigerino e di perdere la storica in!uenza nella regione, soprattutto dopo il
ritiro da Mali e Burkina Faso, hanno portato Parigi a premere per stabilizzare al
più presto la situazione in Niger, se necessario anche con l’uso della forza. L’Eli-
seo sa che in questa chiave l’Ecowas, a guida nigeriana, potrebbe svolgere un
ruolo determinante. E la posizione di Abuja sulla crisi in Niger è condizionata
anche dal peso delle relazioni bilaterali franco-nigeriane, rafforzatesi negli ultimi
due decenni.
Dopo un’interruzione dei rapporti diplomatici causata dai sospetti sul ruolo
di Parigi nella guerra civile nigeriano-biafrana del 1967-1970, i due paesi hanno
ristabilito buoni rapporti anche grazie all’incremento delle attività di importanti
aziende francesi (TotalEnergies, Peugeot, Elf, e AirFrance) in territorio nigeriano.
Negli ultimi anni, la Nigeria è diventata il primo partner commerciale della Francia
nell’Africa subsahariana e il quarto in Africa dopo Marocco, Tunisia e Algeria. Gas
e petrolio, e in generale i prodotti delle industrie estrattive, rappresentano il fulcro
delle relazioni economiche tra Abuja e Parigi, destinazione del 97% delle esporta-
zioni oltremare nigeriane. A ciò si aggiunge la forte presenza francese nei settori
bancario, infrastrutturale e logistico. Oltre agli aiuti, che vedono la Francia impe-
gnata come secondo creditore bilaterale (dopo la Cina) attraverso l’Agenzia fran-
cese per lo sviluppo, investitore per oltre 2 miliardi nell’ultimi dieci anni. Le
esportazioni dall’Esagono alla Nigeria, che valevano 587 miliardi di euro nel 2019,
riforniscono settori centrali dell’economia nigeriana come il manifatturiero e l’a-
groindustriale. Nonostante l’evidente disparità nelle proporzioni dell’interscam-
bio, l’intesa economica fra i due paesi è cementata anche da iniziative come il
France-Nigeria Business Council, inaugurato nel giugno del 2021 da Macron e ri-
unitosi a Parigi lo scorso 10 maggio.
Le relazioni tra Parigi e Abuja si articolano anche in materia di sicurezza e di-
fesa, principalmente nei termini di un forte sostegno francese all’Esercito e alla
polizia nigeriana, nonché alla Marina più potente dell’Africa occidentale. La Francia
sostiene poi la Multinational Joint Task Force nella lotta contro Boko Haram attra-
verso la condivisione di intelligence e l’appoggio politico-militare offerto alla Com-
missione del bacino del Lago Ciad.
Gli interessi che spingono la Nigeria a proporsi come principale attore conti-
nentale nella risoluzione alla crisi nigerina non sono quindi riconducibili unica-
mente alle sue ambizioni di egemonia regionale. Nei calcoli nigeriani sulla crisi in
Niger pesa anche il valore di un’intesa politico-economica così signi"cativa con la
Francia e il timore di vederla incrinata in caso di divergenze macroscopiche sulla
118 gestione dell’emergenza nel paese con"nante.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

5. In ultima analisi, l’evoluzione della situazione politica in Niger e la possibi-


lità di un intervento militare contro la giunta golpista di Niamey rischiano di aggra-
vare le già instabili condizioni politiche ed economiche dell’intera regione, lascian-
do spazio all’avanzata jihadista. La chiusura delle frontiere e le sanzioni economi-
che non stanno danneggiando solo l’economia nigerina. I loro effetti si riverbera-
no, con ingenti perdite settimanali di miliardi di euro, nella con!nante Nigeria e nel
Benin, i cui porti rappresentano il fulcro delle relazioni economiche con il Niger,
sprovvisto di uno sbocco sul mare.
Sebbene l’obiettivo dichiarato dei golpisti non sia con!scare il potere come
!ne in sé, ma piuttosto aprire un periodo di dialogo nazionale che possa gettare le
basi per una «nuova vita costituzionale», l’Ecowas non sembra interessato al dialo-
go. I piani di transizione presentati dal generale Tchiani sono in chiaro con"itto
con le richieste dell’organizzazione, che ha ribadito più volte come la priorità sia
quella di «ripristinare il presidente Bazoum nelle sue funzioni», dichiarandosi pron-
ta a intervenire anche militarmente.
L’Africa occidentale si trova in una fase storica che deciderà del futuro dell’in-
tera regione. I golpisti nigerini – sostenuti da Mali, Guinea e Burkina Faso, che
hanno chiuso gli spazi aerei per impedire ad attori regionali o esterni di tentare un
intervento dall’alto – e l’Ecowas, sospettata di fare gli interessi francesi, sono le due
facce di una regione coinvolta in un radicale mutamento geopolitico.

119
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL PUTSCH IN GABON
E IL TRAMONTO
DELLA FRANÇAFRIQUE di Benoît BARRAL
Libreville era un pilastro dell’influenza francese in Africa. Il golpe non
è contro l’Occidente né istigato dai russi, bensì un segno della fine
di quel sistema di potere. Con la sua influenza in calo sin dal 2009,
Parigi accetta a denti stretti la caduta di un regime sclerotizzato.

1. A NCORA PRIMA DEL GOLPE IN GABON,


nella conferenza annuale degli ambasciatori francesi Emmanuel Macron aveva
diagnosticato un’«epidemia di putsch» nel Sahel. Un linguaggio franco che non
sempre contraddistingue i circoli diplomatici. Dal 2020 si sono veri!cati sette col-
pi di Stato in Africa: tutti in paesi francofoni, con l’eccezione del Sudan.
In tutta onestà, non sorprende vedere Ali Bongo deposto dall’esercito 1. Possia-
mo solo trovare ironico che sia stato destituito dai suoi stessi pretoriani, cioè dalla
Guardia presidenziale incaricata di proteggerlo, alla testa della quale il capo di
Stato aveva posto suo cugino Brice Oligui Nguema, nome da appuntarsi. Anche in
Niger è stata la Guardia presidenziale a estromettere il presidente Bazoum, benché
la legittimità democratica di quest’ultimo avesse assai poco a che spartire con quel-
la di Ali, la cui unica quali!ca è essere «!glio di». Osserviamo che giocare la carta
della sicurezza come garanzia di stabilità è un’illusione: quando le Forze armate
constatano che un regime si tiene soltanto con la paura che ispira, sono tentate di
partecipare alla spartizione della torta.
Può al contrario sorprendere che nelle ore immediatamente successive al col-
po di Stato la Francia si sia accontentata, per bocca del suo primo ministro, di
«seguire la situazione con la massima attenzione». È stato necessario che la Cina –
modello di democrazia – invocasse un «immediato ritorno al normale ordine delle
cose» perché Parigi si decidesse a «condannare» il golpe. Ma non «fermamente»,
come di consueto, semmai a !or di labbra. Entra effettivamente nel calcolo dei
golpisti la possibilità di giocare la Cina o la Russia contro l’ex potenza coloniale. I
sinodollari sostituiscono facilmente gli aiuti dell’Agenzia francese per lo sviluppo
e i russi di Wagner offrono alternative alla cooperazione militare. Il Cremlino, che

1. F. BLANC, «Le Gabon: une stabilité réelle mais fragile», Con!its, 8/7/2021. 121
IL PUTSCH IN GABON E IL TRAMONTO DELLA FRANÇAFRIQUE

si è detto «preoccupato» tanto da «osservare da vicino» lo sviluppo della situazione


a Libreville, non ha bisogno di istigare e nemmeno di sostenere il colpo di Stato;
può contentarsi di raccoglierne i bene!ci geopolitici a posteriori, in maniera op-
portunistica. La cosiddetta comunità internazionale nel suo insieme sapeva perfet-
tamente che il regime gabonese era all’ultima giostra, che Ali era affaticato e che
le elezioni erano truccate. Non avrebbe tardato ad approvare, forse pure a facilita-
re, la sua caduta.

2. L’ipotesi numero uno è dunque che l’iniziativa del putsch sia venuta sempli-
cemente dal capo della Guardia presidenziale, potenzialmente incitato dalla con-
correnza in seno al clan Bongo. Sarà interessante osservare se Omar Denis Junior
Bongo, in con"itto con Ali e Noureddin Bongo, otterrà un incarico importante al
governo nel prossimo futuro.
Se il colpo di Stato ha funzionato dopo alcuni tentativi falliti, come ad esempio
quello del 7 gennaio 2019 da parte di alcuni uf!ciali rapidamente bloccati dalle
forze di sicurezza, lo si deve a diversi fattori.
Anzitutto la tempistica. Il golpe si è veri!cato subito dopo le elezioni presiden-
ziali il cui risultato si apprestava a essere criticato, come di consueto, dall’opposizio-
ne e nelle strade. Bisogna sapere che dal voto del 2009, che secondo gli oppositori
sarebbe stato vinto da André Mba Obame, Ali Bongo è un capo di Stato contestato.
Nel 2016, per permettergli di sopravanzare Jean Ping, è stato necessario gon!are i
risultati nella provincia dell’Alto Ogooué, il suo feudo. Nel 2023 la consultazione
elettorale è stata organizzata senza la presenza di alcun osservatore internazionale
accreditato e senza concedere alcun visto a giornalisti stranieri. I servizi di France 24,
R! e Tv5 Monde, molto seguiti dalla popolazione locali, sono stati sospesi. Così, i
putschisti – pardon, il «Comitato di transizione e di restaurazione delle istituzioni» – si
sono potuti presentare come guardiani della democrazia, annunciando che «la costi-
tuzione è stata violata, le stesse modalità elettorali non sono state eque. L’esercito ha
deciso di voltare pagina, di prendersi le proprie responsabilità».
La Guardia presidenziale, apparente mente dell’operazione di detronizzazione,
si è inoltre curata di mostrare l’unità delle Forze armate. Già il 26 agosto, quattro
giorni prima del golpe, il politico di spicco Ondo Ossa avvertiva Bongo che aveva
perso la fedeltà sia dell’esercito sia della Guardia. I putschisti si sono premurati di
associarsi, nella prima dichiarazione televisiva, a rappresentanti delle truppe rego-
lari e della polizia.
In seguito, i golpisti hanno presentato le loro azioni come un’operazione con-
tro la corruzione, ciò che permette loro di giocare sull’esasperazione popolare di
fronte al nepotismo dei potenti e di arrestare i guardiani vicini ad Ali per motivi di
«deviazione massiccia delle !nanze pubbliche». Il tutto benché lo stesso generale
Brice Oligui Nguema sia stato pizzicato per aver comprato tre proprietà in Maryland
nel 2015 e nel 2018 con un milione di dollari in contanti.
Nessuno si straccia le vesti per salvare un regime la cui corruzione è largamen-
122 te nota alla popolazione e documentata da decenni – i famosi «biens mal acquis»,
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

cavallo di battaglia dell’avvocato francese William Bourdon e di Transparency Inter-


national 2. Al contrario, molti gruppi di persone si sono riversati in strada nelle città
per applaudire i militari, inneggiando alla «liberazione» al grido di «fuori i Bongo».
Così le nuove autorità non hanno avuto timori a ripristinare Internet, sapendo di
avere il favore della vox populi e delle casse di risonanza sui social network.
Altra prova di intelligenza tattica dei militari gabonesi è il fatto di non essersi
messi contro i paesi occidentali, scegliendo di non emulare il nazionalismo sbruf-
fone dei golpisti nel Sahel. Al contrario, si sono subito curati di divulgare la seguen-
te dichiarazione: «Noi riaffermiamo il nostro attaccamento al rispetto degli impegni
del Gabon nei confronti della comunità internazionale» (leggi: «i fondi della Banca
mondiale e del Fondo monetario internazionale saranno sempre benvenuti»).
Non hanno nemmeno fatto perno sulla retorica antifrancese. Non solo perché
ciò avrebbe avuto poca presa sull’opinione pubblica locale, non (ancora?) manipo-
lata dalla propaganda russa. Ma soprattutto perché la Realpolitik li obbliga a tener
conto sia del peso economico della Francia (il colosso minerario e metallurgico
Eramet non si rimpiazza facilmente) sia della presenza in Gabon di diverse centi-
naia di soldati della République.

3. Parigi non è comunque al riparo dalle accuse di aver lasciato mano libera
ai golpisti. Anzitutto, i detrattori ritengono che i suoi servizi d’informazione esterna
siano stati messi a conoscenza di un progetto di colpo di Stato. Inoltre Ali Bongo,
non difeso dai parigini in occasione dell’elezione truccata del 2016, non aveva
solo messo i bastoni tra le ruote a diverse imprese francesi ma aveva operato un
avvicinamento ad altri partner internazionali. Fra cui il Marocco, dove è stato for-
mato il generale Nguema, presso l’Accademia militare reale di Meknès.
In ogni caso, la tempistica del golpe in Gabon è pessima per l’esecutivo fran-
cese, che giusti"cava il braccio di ferro con le nuove autorità nigerine con la volon-
tà di non legittimare altri colpi di Stato in Africa ed evitare un contagio. L’impossi-
bilità di mettersi d’accordo su questo punto con gli Stati Uniti, che hanno rinuncia-
to al ripristino di Bazoum a Niamey, dà ragione ai putschisti che sanno di poter
giocare sulla concorrenza tra le grandi potenze, indebolendo ulteriormente la po-
sizione della Francia in Africa.
Il Gabon è stato il cuore della Françafrique, assieme a Gibuti, Costa d’Avorio
e Senegal. Dalla sua indipendenza, è stato sempre considerato come pilastro
dell’in#uenza francese in Africa, in particolare durante la lunga presidenza di
Omar Bongo (1967-2009). È uno dei paesi del continente in cui la presa dell’ex
potenza coloniale è più forte, grazie a diverse imprese come la già citata Eramet,
Total, Veolia; a decine di migliaia di espatriati; e soprattutto a una base perma-
nente che ospita circa quattrocento militari in maniera continuativa. La Francia
ha sostenuto in diverse occasioni il clan dei Bongo permettendogli di mantenere

2. «Gabon: la justice française reconnaît l’État comme victime dans le dossier des “biens mal ac-
quis”», Tv5 Monde, 15/3/2023. 123
IL PUTSCH IN GABON E IL TRAMONTO DELLA FRANÇAFRIQUE

il potere, per esempio durante i moti di Libreville e di Port-Gentil del 1990 o


durante le elezioni del 1993.
Le relazioni si sono fatte meno strette con l’ascesa al potere di Ali Bongo nel
2009, nel quadro della volontà gabonese di diversi!care i partenariati. Durante la
festa dell’indipendenza del 2010, il nuovo presidente ha affermato che la Francia
non era più il socio esclusivo del Gabon. Il potere ha favorito investimenti prove-
nienti da India, Singapore e Cina. Molti gruppi francesi hanno incontrato dif!coltà
e hanno dovuto lasciare il paese, come per esempio Bouygues Energie, Services,
Veritas e Sodex. Il 16 febbraio 2018 la Società dell’acqua e dell’energia del Gabon,
!liale di Veolia, è stata nazionalizzata dal governo di Libreville.
Le inchieste lanciate dalla giustizia francese hanno contribuito a raffreddare i
rapporti. Un ulteriore colpo lo ha dato la volontà di Emmanuel Macron di dare un
volto nuovo alla politica africana del suo paese. Il regime gabonese non ha apprez-
zato il silenzio dell’ex potenza coloniale nella dif!cile rielezione del 2016: entram-
bi i candidati si sono accusati a vicenda di essere marionette di Parigi, di cui la
popolazione ha una percezione assai negativa. A Libreville circolano molti pettego-
lezzi, spesso strumentalizzati, sull’operato della Francia e dei francesi.

4. Il golpe in Gabon serve a rilanciare un invito: sostenere le legittime opposi-


zioni in tutti gli Stati africani, af!nché l’alternativa a poteri sclerotizzati non debba
essere per forza l’esercito. La storia lo ha dimostrato in Ciad, presentato come ulti-
mo bastione contro il terrorismo nel Sahel, ma che si tiene soltanto con la forza
delle armi, insostenibile nel lungo termine. Lo ha dimostrato nella Repubblica
Democratica del Congo, il più grande Stato dell’Africa subsahariana e il maggiore
paese francofono al mondo, che a dicembre affronterà elezioni nelle quali l’intera
«comunità internazionale» dovrà assicurare il rispetto delle norme democratiche,
af!nché il potere civile che ne uscirà sia pienamente legittimo e dunque operativo.
Sono previste altre votazioni in Liberia quest’anno, mentre in Senegal e in Costa
d’Avorio nel 2024. È ora di !nirla con la tradizione dell’uomo forte dal sapore gol-
liano. E di puntare razionalmente e strategicamente su movimenti delle società ci-
vili africane organizzati e maturi.*

(traduzione di Federico Petroni)

124 * Una versione di questo articolo è apparsa sulla rivista Con!its.


AFRICA CONTRO OCCIDENTE

LE AFRICHE
GIOCANO PER SÉ di Luciano POLLICHIENI
Soggettivismo: così il dibattito africano designa l’attitudine
all’autonomia strategica dalle grandi potenze, vecchie e nuove.
Il ruolo dei paesi leader, dal Senegal al Kenya. L’Occidente annaspa,
irretito dai suoi schemi. Turchia e paesi del Golfo plaudono.
C’è la sensazione, soprattutto tra i giovani, che sia
arrivato il momento di far valere le loro condizioni.
C’è la sensazione che sia il nostro momento.
Lesley Lokko (2023)

1. N EL NOVEMBRE 2022, ALLA VIGILIA DELLA COP-27


di Sharm el-Sheikh, il Washington Post pubblicava un editoriale !rmato dall’allora
presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, sul tema del cambiamento climatico
in Africa 1. Sotto un titolo di per sé emblematico – «Come non parlare all’Africa di
cambiamento climatico» – la prosa era ancor più netta: «Molti dei miei omologhi
sono frustrati dall’ipocrisia dell’Occidente e dalla sua incapacità di assumersi re-
sponsabilità. I governi [occidentali] hanno ripetutamente disatteso la promessa di
creare un fondo da cento miliardi di dollari per le politiche di mitigazione e adat-
tamento al cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo – per il disastro
causato dalle loro industrie. Secondo le Nazioni Unite, l’Africa è il continente mag-
giormente colpito dal cambiamento climatico pur essendo il minor contributore a
questo fenomeno. L’agenda della Cop-27 sottolinea l’importanza delle compensa-
zioni per le perdite e i danni, (…) ma questa richiesta ha incontrato il silenzio del-
l’Occidente».
Nel luglio 2023 il governo del Botswana ha rinegoziato con il colosso sudafri-
cano De Beers gli accordi per l’estrazione dei diamanti 2. La !rma è giunta a sole
24 ore dalla scadenza degli accordi precedenti – siglati 54 anni prima – che il pre-
sidente Mokgweetsi Masisi minacciava di non rinnovare. A fronte di una nuova li-
cenza per 25 anni, l’azienda sudafricana s’impegna a cedere il 30% dei diamanti
estratti nella miniera di Debswana (da cui De Beers ricava due terzi dei suoi dia-

1. M. BUHARI, «Muhammadu Buhari: How not to talk with Africa about climate change», The Washin-
gton Post, 9/11/2022.
2. M. MGUNI, T. BIESHEUVEL, «De Beers Loses More Diamonds to Botswana in Last Minute Deal», Bloom-
berg, 1/7/2023. 125
LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ

manti ogni anno) alla compagnia di Stato botswana, Okavango Diamond Com-
pany. Tuttavia, le autorità del Botswana stanno lavorando a un nuovo accordo che
garantirà loro il diritto di trattenere il 50% dei diamanti estratti dal sottosuolo del
paese nei prossimi vent’anni. Il segretario permanente del presidente, Emma Pelo-
etlets, ha dichiarato: «Ci prenderemo [quote maggiori] gradualmente. Se lo facessi-
mo subito, senza un piano appropriato per la vendita dei diamanti, il prezzo di
mercato crollerebbe. Ma ci siamo detti che non faremo trascorrere altri dieci anni
senza raggiungere il 50%» 3.
A maggio 2023 il presidente della Repubblica Democratica del Congo (RdC),
Félix Tshisekedi, ha compiuto una visita di Stato in Cina 4. A prima vista, nulla di
nuovo: le relazioni tra Kinshasa e Pechino sono solide, la Repubblica Popolare è
da un decennio il principale investitore nelle miniere e nelle infrastrutture della
RdC. Ma le "nalità di Tshisekedi fanno della visita un potenziale spartiacque. Il "ne
ultimo, infatti, era rinegoziare il cosiddetto accordo del secolo 5, "rmato dal prede-
cessore Joseph Kabila. L’intesa garantisce a Pechino un ruolo egemonico nello
sfruttamento delle risorse minerarie congolesi, in cambio di nove miliardi di dolla-
ri d’investimenti cinesi nelle infrastrutture locali. Kinshasa non nasconde la propria
insoddisfazione: investimenti parziali, violazione di diverse clausole, malversazioni
"nanziare. La visita di Tshisekedi non ha (ancora) portato a una rinegoziazione,
soprattutto rispetto alle aspettative congolesi di ottenere la maggioranza delle quo-
te di sfruttamento, ma a luglio il colosso minerario Cmoc ha accettato di sborsare
due miliardi di dollari per regolare la disputa sullo sfruttamento della miniera di
Tenke Fungurume 6, tra i maggiori giacimenti di cobalto e rame del pianeta. Secon-
do l’impresa nazionale congolese, Gécamines, i cinesi avevano mentito sul quanti-
tativo di minerali presenti nel sito e dunque omesso di pagare 7,5 miliardi di dol-
lari in royalties.
Cosa lega questi tre eventi? L’emergere di un’agenda e di interessi nazionali
degli Stati africani. La presenza, in altri termini, di un soggettivismo africano. Men-
tre la guerra in Ucraina mette "ne alla pace in Europa, mentre Stati Uniti e Cina
ingaggiano uno scontro multiforme nel Paci"co, le nazioni africane sono impegna-
te in uno sforzo – occasionalmente collettivo – per rivedere i rapporti di forza con
il resto del mondo in maniera per esse più vantaggiosa. Fulcro di questo processo
è lo sfruttamento delle contraddizioni e delle crisi sistemiche negli equilibri geopo-
litici mondiali, culminate (per ora) nella guerra ucraina. Scopo dell’attuale sogget-
tivismo africano è trasformare gli attori del continente da oggetto passivo dei rap-
porti geopolitici con le medie e grandi potenze a soggetto attivo sullo scacchiere
mondiale, con obiettivi e piani propri. Questa dinamica è destinata a in#uenzare
scontri e agende delle potenze extracontinentali nel prossimo futuro. In parte, lo
sta già facendo.
3. Ibidem.
4. «DRC’s Tshisekedi set for China visit, minerals trade deal in the of"ng», The East African, 22/5/2023.
5. «RDC-Chine: comment Kinshasa veut reprendre en main ses ressources», Le Point Afrique, 30/5/2023.
6. M. BURTON, «China’s CMOC Strikes $2 Billion Deal to End Congo Mining Dispute», Bloomberg,
126 18/7/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

2. Come sottolineato in un recente pamphlet 7, l’Occidente non si è reso conto


della nascita e della crescita del soggettivismo africano. Questa miopia si deve
principalmente a una concezione del continente che affonda le radici nel pensiero
coloniale (ancora vivo) e in tutto il bagaglio di pseudo-conoscenze da esso prodot-
te. Ancora oggi tecnici, politici e cittadini occidentali percepiscano un continente
di 54 Stati come un magma indistinto caratterizzato da fenomeni puramente nega-
tivi, problematici 8. Questo (pre)concetto si articola in una narrazione che guarda
all’Africa come un solo, enorme paese e persiste malgrado le controprove offerte
dal continente, nonché i tentativi di smitizzazione quali (ultimo in ordine di tempo)
il libro del cronista americano di origini nigeriane Dipo Faloyin, dal titolo Africa is
not a country 9. Per le cancellerie occidentali l’Africa è il cuore di Caoslandia: un
continente violento, povero e nel complesso arretrato.
Tale visione stereotipata resiste alla prova dei fatti anche quando questi la
smentiscono seccamente. La natura stessa dei con"itti nel continente è sensibil-
mente variata ed è portatrice di una carica soggettivista. La violenza politica – ar-
mata e non – che colpisce il Sahel o le megalopoli africane non va ascritta solo a
dinamiche tribali e arcaiche, ma anche alla volontà di riequilibrare i rapporti di
potere dentro gli Stati. Scontri tra centro e periferia, richieste di riconoscimento.
Anche i con"itti tra Stati sono aumentati e hanno preso forme diverse, come dimo-
strano le tensioni tra i membri dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’A-
frica occidentale) in seguito al golpe in Niger o la guerra per procura nelle provin-
ce orientali della Repubblica Democratica del Congo 10. Soggetti più maturi, capaci
di distillare agende nazionali, tendono a scontrarsi con metodi più so#sticati. L’au-
mento della soggettività africana si riscontra anche nella gestione dei con"itti all’in-
terno del continente, in termini sia di impegno diplomatico sia di dispiegamento
delle forze di peacekeeping 11, oggi percepite come più legittime e desiderabili an-
che dalle ex potenze coloniali. La violenza armata non è insomma sparita dall’Afri-
ca, ma ha cambiato forma e #ni in virtù della spinta soggettivista.
Anche i cosiddetti indici di sviluppo umano, da sempre addotti a riprova
dell’arretratezza africana, smentiscono lo stereotipo di un continente omogenea-
mente arcaico e povero. I principali indicatori dell’Undp (il Programma delle Na-
zioni Unite per lo sviluppo) certi#cano un progressivo miglioramento delle condi-
zioni di vita in Africa, che si traduce nell’aumento di popolazione e di ricchezza – al
netto degli ampi divari economici, peraltro non un’esclusiva africana 12. Questo
miglioramento è peraltro coinciso con la #ne della guerra fredda e dei con"itti per
procura combattuti dai due blocchi nel continente. Le élite africane cresciute du-
7. S. LE GOURIELLC, Pourquoi l’Afrique est entrée dans l’histoire (sans nous)?, Lille 2022, Hikari Éditions.
8. Ibidem.
9. D. FALOYIN, Africa is not a country, London 2022, Penguin Books.
10. L. POLLICHIENI, «I nuovi scontri nella Repubblica Democratica del Congo sono una questione africa-
na», limesonline, 18/8/2022.
11. J. FISHER, N. WILÉN, African Peacekeeping, Cambridge 2022, Cambridge University Press.
12. E. PAICE, Youthquake. Why African demography should matter to the world, London 2021, Head of
Zeus. 127
LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ

rante la guerra fredda hanno imparato a caro prezzo il valore dell’egoismo e la


necessità di concepire i rapporti di forza in maniera utilitaristica. I segni di questa
attitudine sono evidenti con riferimento ad alcune grandi tematiche.
Nel caso del clima, si ha così la crescita in Africa del mercato delle quote di
emissione di CO2, con il Kenya tra i soggetti più attivi 13. In quest’ambito si inserisce
l’idea della RdC di avviare esplorazioni petrolifere nella foresta pluviale, ipotesi
scartata (per il momento) solo in seguito a trattative serrate con i partner occiden-
tali 14. Altra dimostrazione evidente del soggettivismo africano è la postura rispetto
alla guerra ucraina. Al momento di votare all’Onu le risoluzioni di condanna all’in-
vasione russa, è emersa la natura egoistica dell’approccio africano al con"itto, con
astensioni e assenze sapientemente calcolate in base al tornaconto nazionale. L’ap-
proccio «non allineato» è stato mantenuto anche al vertice Usa-Africa di Washington
dell’autunno 2022 e a quello successivo Russia-Africa di San Pietroburgo, dove si
sono visti i primi segni di dissenso delle leadership africane rispetto alla postura di
Mosca. A riprova del distacco relativo con cui gli Stati africani vivono la guerra, nel
corso dell’ultima assemblea generale dell’Unione Africana il con"itto è stato nomi-
nato una volta sola, dal premier etiope Abiy Ahmed, per giusti#care un peggiora-
mento dei fondamentali macroeconomici del proprio paese.

3. Il soggettivismo africano non si manifesta in maniera univoca. Del resto, se


lo facesse smentirebbe la propria natura. Questo momento vede Stati africani trai-
nanti e altri trainati, nell’ambito di un processo dinamico. I soggettivisti sono entità
tendenzialmente più strutturate, capaci di opporre resistenza e adottare iniziative
nei rapporti con le potenze extracontinentali in virtù di una stabilità politica mag-
giore, di territori meglio de#niti e di un’identità più solida. Su questi elementi gli
Stati soggettivisti sanno costruire una politica di bilanciamento dei rapporti con le
grandi potenze, attenti a produrre strappi solo quando la relazione con determina-
ti attori diventa inconciliabile con le aspettative.
Così il Senegal, caso riuscito di decolonizzazione dalla Francia, capace di far
fruttare il proprio soft power nel rapporto con le grandi e medie potenze. Dakar
può essere annoverata tra le madri del soggettivismo, grazie anche al lavoro di
autori come Felwine Sarr, che ha gettato le basi dell’approccio soggettivistico per
la geopolitica africana 15. Gli effetti del soggettivismo senegalese sono stati partico-
larmente evidenti durante l’amministrazione di Macky Sall, che ha sfruttato le pre-
sidenze di turno dell’Ecowas (2015-2016) e dell’Unione Africana (2022-2023) per
strutturare a livello regionale prima e continentale poi il soggettivismo africano.
Specie durante la guida dell’Unione Africana, coincisa con l’invasione russa dell’U-
craina, Sall ha saputo mantenere il consenso al «non allineamento»: da un lato ha
stretto accordi con la Russia per la vendita di grano (grazie a cui il Senegal ha
13. D. MIRIRI, «Saudi companies buy 2.2 million tonnes of carbon credits in Kenya auction». Reuters,
14/7/2023.
14. E. WONG «Blinken Presses Congo Leaders to Slow Oil-and-Gas Push in Rainforests», The New York
128 Times, 10/8/2022.
15. F. SARR, Afrotopia, Paris 2016, Éditions Philippe Rey.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

mantenuto l’in!azione più bassa della regione) e ha favorito l’apertura di un nuovo


uf"cio della società cinese di armamenti Norinco a Dakar16; dall’altro ha tenuto una
linea ferma rispetto alla deriva golpista nell’area, con grande gioia degli alleati oc-
cidentali, Parigi in testa 17. Il Senegal punta a giocare un ruolo di rilievo grazie alla
professionalizzazione dell’Esercito e al ruolo della sua industria energetica, anche
nell’ambito del megaprogetto di gasdotto Nigeria-Marocco. Iniziative ambiziose ma
non irrealizzabili, come attesta il Fondo monetario internazionale, che per Dakar
prevede nel 2024 un pil in crescita del 10%.
Il bilanciamento contraddistingue anche il Kenya, tra i principali debitori della
Cina ma partner privilegiato di Washington in Africa occidentale. Su questo so"sti-
cato equilibrio Nairobi tesse la propria rete di interessi regionali e il disegno per
l’espansione della Comunità dell’Africa orientale (Eac) che punta a trasformare in
organizzazione a suo uso e consumo. Kenyatta è stato il principale sponsor dell’in-
gresso nell’organizzazione della RdC, le cui risorse minerarie potranno circolare libe-
ramente nell’Eac. Il successore William Ruto ha rafforzato i rapporti con la Tanzania
nell’ambito della partita degli oleodotti in Africa orientale, onde diversi"care l’ap-
provvigionamento energetico. La leadership keniota punta a rendere Dar es Salaam
la batteria dell’industria hi-tech nazionale, su cui i colossi della Silicon Valley hanno
già investito quasi due miliardi di dollari in cinque anni.
A riprova degli effetti negativi che la postura soggettivista può produrre, sotto
la guida di Abiy Ahmed l’Etiopia non ha esitato a s"dare l’ordine regionale con la
guerra nel Tigrè, per rafforzare il proprio ruolo e cambiare l’assetto interno, ponen-
do "ne al federalismo etnico in favore di un accentramento del potere 18. La scom-
messa ha ribaltato i punti fermi della politica estera etiope: la guerra ha messo in
luce la fragilità del rapporto con Washington spostando Addis Abeba verso l’orbita
cinese e (in minor misura) russa, come certi"ca anche il suo ingresso nei Brics. Il
soggettivismo dell’Etiopia ne ha altresì rafforzato i legami con l’Eritrea – altro pun-
to di divergenza con gli Stati Uniti – e potrebbe permetterle di guadagnare uno
sbocco al mare, superando il trauma storico-identitario causato dall’indipendenza
di Asmara. A tal "ne, oltre a stringere accordi con i paesi rivieraschi del Corno
d’Africa come Gibuti e la regione autonoma del Somaliland 19, Abiy Ahmed ha ri-
cordato che l’uso della forza resta un’opzione 20.
A fronte di questi esempi, i paesi africani più passivi sono la rappresentazione
evidente della logica della sopravvivenza dello Stato in Africa teorizzata da Clapham 21.
È il caso della Repubblica Centrafricana, dove il governo di Faustin-Archange Toua-

16. J. NYABIAGE, «Chinese weapons supplier Norinco expands in!uence in West Africa, challenging
Russia and France», South China Morning Post, 21/8/2023.
17. «Macky Sall: “Nous ne pouvons pas accepter les coups d’État”», R!, 8/12/21.
18. Cfr. M. PLAUT, S. VAUGHAN, Understaning Ethiopia’s Tigray War, London 2023, Hurst Publishers.
19. «Ethiopia Transport Minister arrives in Somaliland to look at more options for Ethiopia», The Horn
Diplomat, 9/8/2023.
20. «Ethiopian PM Abiy Ahmed unveils plans to secure port access by negotiation or by force», The
Horn Observer, 23/7/2023.
21. C. CLAPHAM, Africa and the International System. The Politics of State Survival, Lancaster 1996,
Cambridge University Press 129
LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ

déra ha subappaltato la gestione della forza al Gruppo Wagner e alle Forze armate
ruandesi. Oppure del Sud Sudan, che fa i conti con un variegato panorama interno
di milizie parastatali: dopo aver normalizzato i rapporti con Khartûm, sono af!orate
tutte le debolezze di Juba, culminate nella lotta tra il presidente Salva Kiir Mayardit il
suo vice Riek Machar.
Altro esempio il Ciad, paese di potenziale rilevanza strategica data la posizione
geogra!ca 22, feudo della famiglia Déby e storicamente tra gli Stati africani più di-
pendenti dalle relazioni con Parigi. La geopolitica ciadiana rimane ancorata al
principio di vendere l’uso del proprio esercito in cambio di protezione esterna per
il regime al potere. Logica diventata, se possibile, ancora più stringente dopo il
trauma della caduta di Ghedda!: il propagarsi delle crisi lungo tutti i con!ni – l’in-
stabilità saheliana a ovest, centrafricana a sud, libica a nord e ora sudanese a est
– ha reso N’Djamena ancora più dipendente dal supporto esterno.

4. Avere un piano non vuol dire necessariamente realizzarlo. Il soggettivismo


africano, come tutte le strategie, presuppone chiarezza d’intenti e capacità d’esecu-
zione per conseguire i risultati che si propone: sviluppo economico, stabilità, mag-
gior peso geopolitico dell’Africa. Ad esso va comunque riconosciuto di aver messo
in luce alcune verità.
In primo luogo, ha ulteriormente smascherato l’approccio paternalistico che
ancora anima le relazioni tra Europa e Africa. I battibecchi tra Tshisekedi e Macron
di fronte alle telecamere o le dichiarazioni di Josep Borrell sull’Africa come «giun-
gla» che può nuocere all’Europa dimostrano come molte griglie interpretative di
stampo coloniale siano ancora presenti nel Vecchio Continente. In questa fase, il
soggettivismo africano sembra pertanto allargare il Mediterraneo.
In secondo luogo, ha offerto nuove prove della crisi che af#igge le grandi po-
tenze. La postura del «non allineamento» illustra infatti l’affanno e l’approssimazione
dei megaprogetti con cui Cina e Stati Uniti vorrebbero cooptare gli Stati del conti-
nente. Si tratti della Bri (nuove vie della seta) cinese o della Strategia per l’Africa di
Washington, il soggettivismo africano s!da le due superpotenze a mostrare #essibi-
lità per adattare le loro iniziative alle peculiarità del continente. Dal momento che
l’Africa non è un paese, ciò che funziona in Senegal potrebbe non funzionare in
Guinea Bissau, ciò che va bene alla Tanzania potrebbe non attagliarsi all’Uganda.
In!ne, ridimensionando le aspettative delle grandi potenze e mettendone in
luce le contraddizioni strategiche, il soggettivismo africano apre il continente all’in-
#uenza delle medie potenze. Paesi di stazza e ambizioni più ridotte, dotati spesso di
conoscenze tecniche e liquidità che gli Stati africani cercano: sono questi gli alleati
oggi preferiti dalle classi dirigenti africane. È anche in quest’ottica che va letta la
capacità di penetrazione di attori come Turchia o Emirati Arabi Uniti. L’ascesa del
soggettivismo africano consacra dunque il futuro prossimo dell’Africa a paradiso
geopolitico delle medie potenze, che sentitamente ringraziano.

130 22. M. DEBOS, «La France au Tchad, l’opération militaire permanente», in T. BORREL ET AL., L’Empire qui
ne veut pas mourir. Une Historie de la Françafrique, Paris 2021, Seuil.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

ALL’ONU GLI AFRICANI NON SONO OCCIDENTALI NÉ RUSSI


a cura di Alessandro COLASANTI

Il 7 aprile 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la sospen-


sione della Federazione Russa dal Consiglio per i diritti umani (Unhcr) con 93
YRWLIDYRUHYROLFRQWUDULDVWHQXWLHDVVHQWL/ōHYHQWRªVLJQLƓFDWLYRQRQ
tanto perché eccezionale – l’unico precedente storico di tale provvedimento
risale al 2011 e riguarda la Libia – quanto per la composizione del voto, che
evidenzia la pluralità di vedute degli Stati africani nei confronti di Mosca. Il so-
stegno alla risoluzione ES-11/3 dal continente è scarno, con soli 10 voti a fa-
vore, mentre sono 9 i contrari, 24 gli astenuti e 11 gli assenti. Una differenza
VLJQLƓFDWLYDULVSHWWRDOOōDVVHWWR GHJOL RFFLGHQWDOLH GHLORUR DOOHDWL FKH KDQQR
votato in modo compatto contro i russi.
0DQRQªXQFDVRLVRODWR&RPHPRVWUDQROHLQIRJUDƓFKHGL'HYHORSPHQW5HL-
magined e i dati delle sedute plenarie dell’undicesima sessione speciale di
emergenza dell’Assemblea, il voto africano è eterogeneo in tutte le risoluzioni
emergenziali nel contesto della Guerra Grande. Mai statico e sempre incline al
non allineamento.
È un aspetto che emerge dalla prima convocazione del 2 marzo 2022: pochi
giorni dopo l’inizio dell’invasione russa, 28 Stati africani votano a favore della
risoluzione ES-11/1, «Aggressione contro l’Ucraina». Solo l’Eritrea è contraria;
mentre sono 17 gli astenuti e in 8 non si presentano.
La terza e la quarta votazione sulla guerra in Ucraina offrono un quadro diverso
da quello del 7 aprile. Il 12 ottobre 2022 viene adottata la risoluzione ES-11/4
su «Integrità territoriale dell’Ucraina e difesa dei princìpi della Carta delle Na-
]LRQL8QLWH}FKHFRQGDQQDOōDQQHVVLRQHGHO'RQEDVGL.KHUVRQHGL=DSRULĻĻMD
La questione della violazione dell’integrità territoriale era stata sollevata già in
IHEEUDLR GDOOōDPEDVFLDWRUH GHO .HQ\D 0DUWLQ .LPDQL FKH FRJOLH QHOOōLQYDVLR-
ne dell’Ucraina un’eco del colonialismo europeo in Africa. L’assenso degli Stati
africani è maggiore rispetto a entrambe le votazioni precedenti. Nessun voto
contrario, 30 i favorevoli, ma sono 19 le astensioni e 5 le assenze. Anche la
quarta risoluzione, la ES-11/7 su «I princìpi della Carta delle Nazioni Unite per
una totale, giusta e duratura pace in Ucraina» registra 30 voti a favore e 2 con-
trari. Ciò nonostante restano in molti a non volersi schierare né da una parte né
dall’altra. Sono 15 le astensioni e 7 le assenze.
Cosa spiega il caso africano alle Nazioni Unite? Riguardo alla sospensione del-
la Russia dall’Unhcr, tra i voti contrari troviamo alcuni Stati che intrattengono
rapporti con Mosca in campo energetico, economico e/o militare, come Alge-
ria, Repubblica del Congo, Etiopia, Repubblica Centrafricana ed Eritrea, paese
OHJDWRDOOD5XVVLDƓQGDLWHPSLGHOOō8UVV/RVWHVVRVSXQWRDQDOLWLFRVLSRWUHEEH
applicare anche a coloro che si sono astenuti. È il caso dell’Egitto, paese con
cui Mosca collabora nella ricerca nucleare nonché cliente dell’industria belli-
ca russa, e di alcuni paesi del Sahel, subregione dove è forte la presenza del
Gruppo Wagner.

131
LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ

7XWWDYLDOōDQDOLVLFRVWLEHQHƓFLHODFRQWH]]DVWRULFDVRQRQHFHVVDULPDLQVXIƓ-
cienti per cogliere a pieno le posizioni di ogni Stato. L’Egitto per esempio vota
a favore in tre occasioni su quattro. Per citare attori diversi da quelli menzionati,
il Gabon condanna l’aggressione contro l’Ucraina e l’annessione dei territori
occupati, però si esprime contro l’esclusione della Russia dall’Unhrc e si astiene
VXOODULVROX]LRQHSHUODmSDFHWRWDOHJLXVWDHGXUDWXUD}/RVWHVVR.HQ\DVFHJOLH
GLDVWHQHUVLVXOODULVROX]LRQH(6&RQLOVXRSDUDOOHOLVPR.LPDQLFLULFRUGD
che la memoria del colonialismo incide nell’oscillazione dei paesi africani tra
Occidente – maggiore sponsor delle risoluzioni – e Federazione Russa (nonché
tra Stati Uniti e Cina).
,QƓQHPROWLJRYHUQLDIULFDQLDQFKHVHYLFLQLDJOL8VDHDLVXRLDOOHDWLQRQYH-
dono la guerra come una minaccia globale, né per i loro interessi nazionalib.
In caso di divergenza di interessi, anche l’astensione può rivelarsi utile. L’afri-
canista Ronak Gopaldas si spinge oltre: l’astensione è una presa di posizione
che implica la propria capacità d’azione indipendente, libera dal paternalismo
occidentaleb.
Sebbene le decisioni delle sessioni speciali di emergenza siano simboliche in
TXDQWRQRQYLQFRODQWLODIRWRJUDƓDRIIHUWDGDOOō$VVHPEOHD*HQHUDOHRIIUHGXH
VSXQWL3ULPRVXJJHULVFHFKHOōHQIDVLVXOOōLQŴXHQ]DUXVVDLQ$IULFDªHVDJHUDWD
Il favore di cui gode il Cremlino non è incondizionato. Il peso geopolitico russo
GLSHQGHGDOODVXDFDSDFLW¢GLLQŴXHQ]DUHOH«OLWHSROLWLFKHORFDOLHLQDOFXQLFDVL
GLFRRSWDUOHLQUDSSRUWLFOLHQWHODUL3X´WUDUQHEHQHƓFLIDFHQGROHYDDQFKHVX
una propaganda che offre ai governi africani la percezione di essere conside-
rati. Ma il suo soft power (poco soft) è limitato. Secondo, per molti Stati africani
astenersi è scelta razionale, coerente ai princìpi del Movimento dei paesi non
allineati. Ed è un segnale sia all’Occidente sia alla Russia: non siamo disposti a
fare da pedine nel vostro scontro e a subirne in silenzio le conseguenze.

1. J. +ƨƥƝƞƫ, L. /ƞƚƭơƞƫƛƲ, A. 7ƫƨƢƚƧƨƯƬƤƢ, W. &ƚƢm7KH:HVW7ULHGWR,VRODWH5XVVLD,W'L-


dn’t Work», The New York Times, 23/2/2023.
2. R. *ƨƩƚƥƝƚƬ, «Will the Invasion of Ukraine Change Russia-Africa Relations?», Carnegie
Endowment for International Peace, 26/4/2023.
132
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

QUO VADIS
AFRICA? di Giulio ALBANESE
L’afropessimismo di maniera non riscatterà il continente. Serve
invece un approccio concreto al nodo del debito africano, prodotto
di anni di politiche economiche neocoloniali. La scommessa della
crescita demografica e la proposta della Santa Sede.

1. S EBBENE L’AFRICA RIENTRI ORMAI A PIENO


titolo nel cosiddetto mondo globalizzato, in alcuni ambienti diplomatici, politici,
economici e accademici internazionali si riscontra un persistente «afropessimismo»
di maniera che, per usare il gergo di un grande africanista del Novecento, il pro-
fessore Giampaolo Calchi Novati, descrive il continente come una sorta di «nebu-
losa indifferenziata in perenne emergenza». In linea di principio tutti vorrebbero
aiutare l’Africa, specialmente la macroregione subsahariana. Nei fatti poi, molto
spesso, ciò non avviene. Il recente colpo di Stato militare in Niger ha portato la
questione alla ribalta, soprattutto con le accuse mosse dalla giunta golpista alle
ingerenze straniere, in particolare francesi, nelle vicende locali. Il tema è di grande
attualità e riguarda non solo l’Africa, ma anche vasti settori di quello che viene
denominato Sud Globale.
Già nel 1985 Catherine Coquery-Vidrovitch, storica e africanista francese di fa-
ma internazionale, nel suo saggio Afrique noire rilevava: «Dal punto di vista econo-
mico, sociale, politico e ideologico, i sistemi, i meccanismi e le prospettive che
guidano gli Stati africani sembrano contraddittori, poiché al loro interno coesistono
e interagiscono elementi ereditati da un passato talvolta lontano, spesso ormai in-
congrui, ed elementi che appartengono a un futuro più desiderato che progettato».
A oltre trent’anni dalla pubblicazione di quest’opera, è il caso di dire che le dif"col-
tà attuali dell’Africa costituiscono una dilatazione spazio-temporale di quanto scrisse
Coquery-Vidrovitch. Questa studiosa aveva peraltro pre"gurato il rischio della «peri-
ferizzazione» del continente da parte di quel fenomeno macroeconomico conosciu-
to come globalizzazione dei mercati. Da questo punto di vista, le strategie messe in
atto oggi da potentati stranieri d’ogni genere all’insegna del neocolonialismo tendo-
no a minare i tentativi africani di riscatto, contribuendo a protrarre nel tempo la
debolezza sistemica dell’Africa. Se questo continente continua a essere esposto alle 133
QUO VADIS AFRICA?

rivalità internazionali (particolarmente in questa stagione segnata dalla crisi del mul-
tilateralismo) è perché esso viene percepito dai mercati come terra di conquista.
Si tratta di una vulnerabilità che accresce costantemente l’insofferenza delle
masse africane. L’azione predatoria, come ha ricordato papa Francesco in occasio-
ne della sua recente visita a Kinshasa, ha fatto sì che il continente fosse razziato
delle sue immense ricchezze. «Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Con-
go, giù le mani dall’Africa!», ha esclamato il ponte!ce. «Basta soffocare l’Africa: non
è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Questo «colonialismo eco-
nomico» – nelle parole del papa – che viene spesso perpetrato con la complicità
dei locali è un fenomeno di lunga durata. Una simile merci!cazione della condi-
zione umana rappresenta, nella cornice della globalizzazione, un peggioramento
rispetto al passato. Il colonialismo tradizionale di per sé non era reductio ad unum,
ma piuttosto governo delle differenze, spesso con modalità coercitive e violente. Il
neocolonialismo ha annullato ogni genere di varietà, producendo unicamente alte-
rità. Un fenomeno che non solo ha determinato una sempre maggiore parcellizza-
zione dell’Africa in aree d’interesse, ma ha anche acuito le divisioni interne fomen-
tando l’etnicismo. Meglio sarebbe, come suggerisce Sophie Chautard nel suo saggio
La géopolitique, parlare di aree culturali, che corrispondono a spazi a geometria
variabile dotati di un tessuto comune e di valori condivisi, in cui i simboli sono di
volta in volta la lingua, la religione, gli stili di vita, un certo progetto nazionale o
comunitario, e in cui i con!ni non dividono ma sono zone di sovrapposizione.
Sono ben noti i drammi provocati dagli scontri etnici che in questi anni hanno in-
sanguinato vasti settori dell’Africa subsahariana. A questo si è aggiunto il fallimen-
to delle ideologie terzomondiste e la loro sostituzione con il falso mito dell’identità,
il quale ha favorito divisioni che sono state convalidate dalle burocrazie locali e
sfruttate dalle forze esterne per i propri !ni.

2. Da queste rapidissime considerazioni emerge come in Africa, soprattutto


nella macroregione subsahariana, le problematiche del nation building – cioè il
processo di costruzione di un’identità nazionale tramite il potere dello Stato – si
sommino pesantemente a quelle dello State building, inteso come edi!cazione di
un sistema statuale che possa rendere effettiva l’azione di governo. In questo con-
testo, la crescita demogra!ca africana rappresenta una variabile con cui i paesi in-
dustrializzati fanno fatica a misurarsi. In effetti, nel giro di meno di trent’anni tutti
gli elementi che oggi caratterizzano il continente africano avranno subìto un’altera-
zione dif!cilmente pronosticabile con gli strumenti di analisi attualmente a nostra
disposizione. In altre parole, le previsioni a breve e medio termine che suscitano
pessimismo e allarmismo (rispetto, ad esempio, al tema della mobilità umana) non
possono essere fondatamente estese al lungo periodo.
Sta di fatto che la popolazione africana sta aumentando in maniera esponen-
ziale. I dati elaborati dal dipartimento per gli Affari economici e sociali delle Nazio-
ni Unite sono a dir poco eloquenti. Nel 1950 la popolazione africana era di 221
134 milioni di persone. Oggi arriva a un miliardo e 400 milioni, il che vuol dire che nel
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

DEBITO PUBBLICO IN AFRICA


I valori sono riferiti alla percentuale del debito sul prodotto interno lordo (pil) del singolo paese

PAESE % PAESE %
Eritrea 146,32 Burkina Faso 57,96
Capo Verde 120,18 Liberia 57,08
Mozambico 102,8 São Tomé e Principe 54,77
Zimbabwe 102,33 Mali 54,11
Ghana 98,72 Madagascar 53,1
Repubblica del Congo 96,46 Benin 52,78
Sierra Leone 92,16 Niger 52,52
Mauritius 78,08 Uganda 50,22
Guinea-Bissau 76,5 Repubblica Centrafricana 49,08
Senegal 73,09 Sud Sudan 48,44
Gambia 72,96 Ciad 43,68
Sudafrica 72,31 Camerun 42,77
Malawi 72,24 Tanzania 40,13
Burundi 69,53 eSwatini 39,29
Togo 68,5 Nigeria 38,77
Namibia 68,49 Etiopia 37,56
Ruanda 67,08 Comore 32,47
Kenya 66,65 Guinea 30,04
Angola 63,27 Guinea Equatoriale 26,42
Costa d'Avorio 63,27 Botswana 20,6
Seychelles 62,5 Repubblica Democratica del Congo 11,03
Gabon 60,28 Zambia nessun
Lesotho 58,55 dato

Fonte: Fondo monetario internazionale (2023)

giro di soli 73 anni è aumentata di oltre il 630%. Ma la crescita non !nisce qui. In-
fatti, sempre secondo le previsioni dell’Onu, la popolazione africana conterà due
miliardi e mezzo di persone nel 2050: un quarto della popolazione mondiale. D’al-
tra parte, se si considera che oggi l’età media in Africa è di vent’anni non c’è molto
da stupirsi di fronte a queste proiezioni. Nel frattempo, sempre nel 2050, l’Europa
rappresenterà il 5% dell’intera popolazione planetaria. Questo signi!ca che in me-
no di trent’anni la demogra!a africana giocherà un ruolo di estremo rilievo. Una
simile crescita assumerà proporzioni tali da costringere le popolazioni urbane a
modi!care il loro modo di vivere o di sopravvivere? O forse creerà condizioni più
favorevoli, attraverso ad esempio una sana cooperazione tra Nord e Sud del mon-
do? Anche perché la vecchia Europa, se vorrà continuare a essere competitiva sul
versante dell’economia reale, avrà necessariamente bisogno di risorse umane afri-
cane.
Di fronte a questo scenario assai complesso viene spontaneo domandarsi co-
me aiutare realmente l’Africa. Tenendo sempre presente la disomogeneità, talvolta
estremamente marcata, delle condizioni sociali, politiche ed economiche che carat- 135
QUO VADIS AFRICA?

LE RELIGIONI IN AFRICA

TUNISIA
MAROCCO

SAHARA ALGERIA
OCC. LIBIA
EGITTO

MAURITANIA
MALI
SENEGAL NIGER
CIAD SUDAN
GUINEA
SOMALIA
NIGERIA
SUD SUDAN ETIOPIA
REP. CENTRAFRICANA
GUINEA-BISSAU
GAMBIA UGANDA
KENYA
GABON
REP. DEM.
DEL CONGO
RUANDA
CAPO VERDE BURUNDI
TANZANIA
SEYCHELLES
COMORE
ANGOLA

ZAMBIA

MOZAMBICO
NAMIBIA
ZIMBABWE
BOTSWANA

ESWATINI
MADAGASCAR
LESOTHO
SUDAFRICA
Paesi a religione dominante
(dal 65% al 100%)
Islam
Cristianesimo
Paesi a religione maggioritaria
Islam
Cristianesimo

Animismo Paesi dove l’animismo


è la seconda religione
Paesi con forte presenza di animisti (in percentuale)

Sierra Leone Togo Eritrea


ZAMBIA 27
Liberia Benin Gibuti
ZIMBABWE 41,6
Costa d’Avorio Camerun Congo Br.
CONGO BR. 32,8
Burkina Faso Guinea Eq. Malawi
BENIN 30,2
Ghana São Tomé e Príncipe
136 GUINEA-BISSAU 39,5
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

terizzano i paesi africani, unitamente alle crescenti diseguaglianze all’interno dei


singoli Stati, l’agognato riscatto democratico dipenderà dalla capacità delle classi
dirigenti locali di occuparsi degli interessi comuni delle rispettive popolazioni. La
conditio sine qua non dovrà essere necessariamente rappresentata dalla spinta
endogena a creare un’effettiva sinergia tra i paesi membri dell’Unione Africana
(Ua). L’edi!cazione di un impianto continentale deputato alla progressiva creazio-
ne di un mercato comune rappresenta una via tutta africana per introdurre stru-
menti di sviluppo economico che hanno un potenziale enorme. Il recente trattato
sull’Area di libero scambio continentale africana (African Continental Free Trade
Area), che ha come obiettivo il potenziamento dell’industrializzazione e del com-
mercio intra-africano attraverso la rimozione delle barriere tariffarie e non tariffarie
su beni e servizi, fa ben sperare. Come scrisse in piena guerra fredda uno dei prin-
cipali maître à penser del panafricanismo, il ghanese Kwame N’Krumah, nel libro
Africa Must Unite (pubblicato nel 1963): «Attualmente, molti Stati africani indipen-
denti si stanno muovendo in una direzione che ci espone ai pericoli dell’imperia-
lismo e del neocolonialismo. Ci occorre, perciò, una base politica comune per
l’integrazione delle nostre politiche di programmazione economica, di difesa delle
relazioni estere e diplomatiche. Questa base di azione politica non richiede la vio-
lazione dell’essenza della sovranità dei singoli Stati africani. Questi Stati continue-
ranno a esercitare un’autorità indipendente, a eccezione di settori de!niti e riserva-
ti all’azione comune, nell’interesse della sicurezza e dell’ordinato sviluppo
dell’intero continente».

3. Parole che conservano una certa attualità: l’integrazione rappresenta ormai


un’urgenza non più procrastinabile se s’intende davvero voltare pagina, affrontan-
do in modo perspicace, ad esempio, la questione del debito pubblico. Nell’agenda
politica africana l’indebitamento rappresenta, infatti, una vexata quaestio la cui
soluzione esige unità d’intenti. Si tratta del vero nodo da sciogliere se s’intende
contrastare la con"ittualità e soprattutto garantire lo sviluppo in un contesto dove
gli effetti del surriscaldamento globale stanno causando pene indicibili alle popo-
lazioni autoctone. È una vecchia storia che si ripete ciclicamente nel tempo, se-
guendo la perversa logica del debito che chiama altro debito. Se l’Africa vuole af-
frontare questa s!da una volta per tutte deve agire con un cuor solo e un’anima
sola, evitando di commettere gli errori del passato. Alcuni dei nostri lettori ricorde-
ranno che questo continente attraversò una devastante crisi debitoria – denunciata
a squarciagola dal mondo missionario d’allora – dagli anni Ottanta !no a quando,
due decenni or sono, grazie al progetto Highly Indebted Poor Countries promosso
dal Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, una trentina di paesi
a basso reddito della fascia subsahariana ottennero una riduzione del debito per
un totale di circa cento miliardi di dollari. A questo programma ne seguì un altro,
la cosiddetta Multilateral Debt Relief Initiative.
Simili iniziative suscitarono grande euforia perché consentirono a molti paesi
africani di riprendere !ato accedendo a prestiti insperati. Ben presto però tra i go- 137
QUO VADIS AFRICA?

verni del continente si diffuse la tendenza a sostituire il debito multilaterale a basso


costo e lungo termine con un debito verso creditori privati (assicurazioni, banche,
fondi di investimento, fondi di private equity), molto più oneroso e a breve termi-
ne. Come risultato, il debito di cui sopra è stato letteralmente !nanziarizzato e di
conseguenza il pagamento degli interessi è stato inscindibilmente legato alle attivi-
tà speculative sui mercati internazionali. Questo ha comportato costi di servizio del
debito e rischi di ri!nanziamento più elevati, portando la cifra assoluta del debito
a 1.140 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quel-
lo delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata se rapportata al va-
lore complessivo del pil africano, pari a circa 3 trilioni di dollari. Per avere un raf-
fronto, basti pensare che quello dell’Unione europea è di 16,5 trilioni.
Vista anche la fragilità in cui versano molte economie nazionali nel contesto
odierno, il problema del debito africano dovrebbe essere oggetto di preoccupa-
zione internazionale. L’impennata dei tassi d’interesse a livello globale rende in-
fatti sempre più dif!cile la ricerca di fonti di !nanziamento alternative per molti
paesi africani che stanno testando i limiti della capacità dei propri mercati nazio-
nali per ovviare alla mancanza di fondi internazionali. Qui le responsabilità rica-
dono tanto sulle classi dirigenti locali quanto sulle stesse istituzioni !nanziarie
internazionali. Le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle
materie prime, unitamente alle privatizzazioni (la cui applicazione ha generato in
alcuni casi penose distorsioni come il land grabbing, cioè l’accaparramento dei
terreni da parte delle aziende straniere) vengano attuate «senza se e senza ma»,
per arginare il debito. Si tratta di un affare colossale, visto che generalmente le
monete locali sono fortemente deprezzate. La questione di fondo è che in questo
scenario a dettare le regole del gioco è la !nanza speculativa, che considera inaf-
!dabile uno Stato pesantemente indebitato e di conseguenza lo emargina di fatto
dai mercati !nanziari, costringendolo a pagare più caro il denaro, almeno il qua-
druplo di quanto lo pagano i paesi economicamente avanzati. Questo si traduce
per i paesi africani nell’assenza di un welfare degno di questo nome. Ma anche
nella mancanza di infrastrutture (strade, scuole, ospedali), necessarie sia alla lotta
contro la povertà sia alla creazione di condizioni adatte ad avviare lo sviluppo. Il
quale, a sua volta, garantirebbe la restituzione del prestito ricevuto. Se è vero che
la crisi è mondiale – lo scorso giugno si calcolava che il debito globale, pubblico
e privato, fosse pari a 300 mila miliardi di dollari, cioè al 350% del pil mondiale;
nel 1999 era di 200 mila miliardi – è innegabile che siano i gli Stati africani quelli
maggiormente sotto pressione.
Come ha rilevato l’economista Paolo Raimondi: «Essi sono direttamente in-
"uenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un
dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’in"azione
stanno rendendo molto dif!cile la gestione del loro debito. L’Economist ha identi-
!cato ben 53 paesi vulnerabili, molti dei quali africani, che sono crollati sotto il
peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso se la Banca mondiale so-
138 stiene che il 60% dei paesi poveri è diventato debitore ad alto rischio». A questo
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

CRESCITA ECONOMICA IN AFRICA


Proiezioni dei cambiamenti del pil 2022-2026 in %

2022 2023 2024-26

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9

Egitto

Algeria

Sudan

Marocco

Costa d’Avorio

Ghana

Senegal

Nigeria

Uganda

Tanzania

Kenya

Etiopia

Rep. Dem. del Congo

Camerun

Angola

Rep. del Congo

Botswana

Mozambico

Zambia

Sudafrica

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9

Fonte: The Economist Intelligence Unit (2022)

proposito è bene rammentare che in linea di principio i debiti non sarebbero un


problema se servissero a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e
tecnologico. Il problema viene palesemente alla ribalta quando sono prevalente-
mente speculativi e sganciati dall’economia reale; in questi casi crescono in manie-
ra sproporzionata, penalizzando i ceti meno abbienti. È quindi quanto mai neces-
saria una messa a punto di strumenti utili a contenere le varie forme di 139
QUO VADIS AFRICA?

speculazione. Da questo punto di vista siamo ancora in alto mare: i grandi attori
internazionali si limitano a ridurre il valore attuale netto del debito o tramite l’esten-
sione della data di maturazione delle obbligazioni, sospendendo momentanea-
mente il pagamento d’interessi, o attraverso il cosiddetto haircut, che consiste nel
taglio del valore nominale del debito.

4. Questi provvedimenti servono, alla prova dei fatti, a dilazionare il problema


senza affrontarlo in modo sistemico. Un utile spunto di ri!essione è costituto
dall’Oeconomicae et pecuniariae quaestiones, il documento della Santa Sede sul
discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-"nanziario
pubblicato il 17 maggio 2018 dall’allora Congregazione per la dottrina della fede e
dal dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. Nel testo si legge tra
l’altro che «si sente la necessità di intraprendere una ri!essione etica circa taluni
aspetti dell’intermediazione "nanziaria, il cui funzionamento, quando è stato slega-
to da adeguati fondamenti antropologici e morali, non solo ha prodotto palesi
abusi e ingiustizie, ma si è anche rivelato capace di creare crisi sistemiche e di
portata mondiale».
Il documento non si limita a delle mere esortazioni morali, ma affronta impor-
tanti questioni come la funzione sociale del credito contrapposta ai comportamen-
ti usurari; esso inoltre analizza la pericolosità di certi strumenti economico-"nan-
ziari che possono creare rischi sistemici, «intossicando» i mercati. Con particolare
riferimento ai derivati, veri e propri «ordigni a orologeria», soprattutto se sono ne-
goziati sui mercati non regolamentati, i cosiddetti over the counter (Otc), più espo-
sti all’azzardo e alle frodi. Nel documento della Santa Sede viene anche messa in
evidenza la pericolosità dei credit default swaps (Cds), quei derivati che consento-
no di scommettere sul rischio di fallimento di una terza parte. «Il mercato dei Cds,
alla vigilia della crisi "nanziaria del 2007 – si ricorda – era così imponente da rap-
presentare all’incirca l’equivalente dell’intero pil mondiale». Le proposte formulate
nel documento della Santa Sede sono molto concrete e vanno dalla certi"cazione
da parte dell’autorità pubblica di tutti i prodotti che provengono dall’innovazione
"nanziaria alla regolamentazione del sistema "nanziario; dal coordinamento sovra-
nazionale fra le diverse architetture dei sistemi "nanziari locali per arginare la de-
regolazione all’introduzione di una clausola generale che dichiari illegittimi, con
conseguente responsabilizzazione patrimoniale di tutti i soggetti a cui questi sono
imputabili, quegli atti il cui "ne sia l’aggiramento delle norme vigenti; dalle speci-
"che misure contro il «sistema bancario ombra» al contrasto alla "nanza offshore
che offre grandi possibilità di evasione e di elusione "scale. Lungi da ogni retorica,
questa è l’unica strada da perseguire se s’intende davvero sostenere l’economia
mondiale e in particolare quella africana.
A questo proposito, in più circostanze, grazie al coordinamento del professor
Raffaele Coppola, un gruppo quali"cato di giuristi ed esperti di economia italiani
dell’Unità di ricerca Giorgio La Pira del Cnr, del Centro di studi giuridici latinoame-
140 ricani dell’Università di Roma Tor Vergata e del Centro di ricerca Renato Baccari
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

INVESTIMENTI CINESI IN AFRICA (in miliardi di dollari)

Impegni di credito
(banche, entità governative o aziende)

Investimenti diretti esteri

30

25

20

15

10

0
2000 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20

Fonte: China Africa Research Initiative; The Economist Intelligence Unit (2022)

del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari ha auspicato che l’As-


semblea Generale delle Nazioni Unite giunga a formulare quanto prima una richie-
sta di parere alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia sui principi e sulle regole
applicabili al debito internazionale, nonché al debito pubblico e privato. L’obiettivo
è che si proceda quanto prima alla rimozione delle cause delle perduranti violazio-
ni dei princìpi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli, determinando
così un obbligo inderogabile, come peraltro già si evince dalla Carta di Sant’Agata
de’ Goti (una dichiarazione su usura e debito internazionale che risale al 29 settem-
bre 1997) e da numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu. Nella con-
sapevolezza che i tempi in cui si affermerà il primato del diritto dei popoli sui
mercati internazionali sono ancora lontani, è necessario de!nire quanto prima
delle strategie che possano portare sollievo a tanta umanità dolente che sopravvive
nei bassifondi della storia contemporanea.

5. Certamente è molto interessante la proposta formulata nel 2021 dalla rete


Link 2007, denominata Release G20, che associa alcune tra le più importanti orga-
nizzazioni della società civile dedite alla cooperazione internazionale per lo svi-
luppo e all’azione umanitaria. Con l’aiuto di esperti di !nanza per lo sviluppo, è
stato redatto un documento che illustra la fattibilità di un’iniziativa, già proposta
due anni fa ai paesi del G20, divenuta oggi ancora più indispensabile, soprattutto
per gli Stati africani. In particolare, si auspica la conversione del debito in valuta
locale, un’operazione che potrebbe consentire la realizzazione di progetti di resi-
lienza e di sviluppo umano e sostenibile in settori chiave e su precisi obiettivi 141
QUO VADIS AFRICA?

dell’Agenda 2030, anche di fronte a un eventuale rallentamento dell’aiuto pubblico


allo sviluppo dei paesi Ocse-Dac. Tale indirizzo, peraltro, potrebbe in parte sop-
perire alla contrazione delle rimesse dall’estero, favorendo le comunità e le fasce
più bisognose della popolazione, in aree sia urbane sia rurali. D’altro canto una
promozione degli investimenti, soprattutto viste le alte potenzialità demogra!che
dell’Africa, potrebbe dare quello che in gergo tecnico viene de!nito «boost», cioè
un impulso alla crescita planetaria. L’Europa in particolare, alle prese con la que-
stione della mobilità umana proveniente dalla sponda africana, potrebbe ricavarne
un vantaggio politico e operativo proponendo un’azione sinergica di riduzione
condizionata del debito dei paesi poveri, in favore della combinazione di investi-
menti sostenibili e strategici. La posta in gioco è alta e l’iniziativa Release G20 ri-
sponde pienamente alla necessità espressa ripetutamente dai paesi africani alle
prese con un’emergenza debitoria senza precedenti. Considerando che l’Italia il
prossimo anno avrà la presidenza del G7 potrebbe essere il momento giusto per
passare dalle parole ai fatti.
Una cosa è certa: il possibile riscatto africano è ancora tutto in salita, ma oc-
corre vincere la tentazione del disfattismo, non foss’altro perché, come scriveva
Plinio il Vecchio: «Ex Africa semper aliquid novi»: dall’Africa c’è sempre qualcosa di
nuovo. Sono decenni che le Cassandre annunciano l’implosione del continente.
Eppure l’Africa è sempre lì, dando prova di un’incredibile resilienza, dimostrata
non solo dalla reazione all’epidemia ma anche dalla costante crescita demogra!ca
e dalla rivendicazione di libertà civili da parte delle giovani generazioni. Si tratta di
una trasformazione i cui esiti dipenderanno anche dalla capacità dei grandi attori
internazionali di comprendere che l’Africa, per essere davvero un’opportunità eco-
nomica, deve esserlo per tutti. Africani inclusi.

142
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

I TESORI INSANGUINATI
DI CABO DELGADO di Giorgio ANGELI

Gas, grafite e rubini sono le poste in palio nell’insurrezione


che dal 2017 flagella la provincia più remota del Mozambico.
E che tocca gli interessi di mezzo mondo. La competizione
Ruanda-Sudafrica. I dubbi sul Qatar. Le carte dell’Italia.

1. C ABO DELGADO, OVVERO CAPO SOTTILE.


Navigando la costa orientale dell’Africa, i portoghesi, con scarsa fantasia, battezza-
no così un promontorio e in seguito, con evidente pigrizia, anche quello che c’è
attorno. Questo pezzo di terra bagnato dal mare diventa una delle suddivisioni
amministrative del Mozambico governato da Lisbona. Nel 1975, si trasforma in una
delle undici province del Mozambico indipendente. Il toponimo svogliato non co-
munica certo identità, ma è talmente neutro da non dover essere cambiato. Eppure,
proprio da qui era partita la guerra di liberazione dal colonialismo nel 1964, con i
makonde, una delle etnie dell’area, tra gli attori principali del con!itto. L’anonimo
appellativo pare diventare però destino e la provincia scorre placida fuori dalla
storia, apparentemente priva di risorse e troppo lontana dalla capitale Maputo (uni-
co vero centro di potere) per giocare un ruolo nella guerra civile del 1976-92.
Per molto tempo, l’attenzione che riceve dall’esterno è di tipo umanitario e
ideologico. Nell’unica vera cittadina, Pemba, a partire dagli anni Ottanta arrivano
cooperanti italiani, soprattutto dall’Emilia. È presente anche la Chiesa cattolica, in
una provincia a maggioranza islamica, eredità della penetrazione arabo-swahili
prima della colonizzazione portoghese. Più tardi si aggiungono i pentecostali ame-
ricani e le associazioni internazionali musulmane. Dopo la "ne dell’apartheid nel
1994, molti sudafricani bianchi scelgono Pemba come buen retiro.
Nel frattempo, crescita demogra"ca e urbanizzazione fanno quadruplicare la
popolazione della città in vent’anni. Si espandono anche gli altri centri abitati della
provincia: Mocimboa da Praia, Montepuez, Mueda. È una crescita poco armoniosa,
fatta di persone alla ricerca di nuove opportunità, che quasi mai arrivano. Gli inve-
stimenti nelle infrastrutture non vanno di pari passo all’impennata della popolazio-
ne. Assieme alla perdita delle reti sociali tradizionali e a un’età mediana straordina-
riamente bassa, il tutto genera disagio sociale. 143
I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

Attorno ai centri abitati, un territorio senza rilievi importanti, con !tte foreste e
savana. Due sole vere strade asfaltate, una nord-sud e una est-ovest, a tagliare la
provincia in quattro, su un’area pari all’isola d’Irlanda. Una frontiera con la Tanza-
nia lunga 250 chilometri, sul !ume Rovuma, con un solo ponte carrabile ma assai
porosa, perfetta per il traf!co clandestino di merci e persone. Una costa lunga
circa 400 chilometri, impossibile da controllare con i mezzi militari a disposizione,
costellata da un arcipelago di 27 isole, le Quirimbas, praticamente disabitato e ba-
se ideale per affari più o meno leciti. Maputo dista 2.400 chilometri, tre giorni di
viaggio in auto, cinque in autobus. Ma la distanza psicologica è ancora maggiore:
i nativi sentono sempre più il divario culturale e di opportunità con i tanti emigra-
ti provenienti dalla capitale. Più spigliati e istruiti, i maputensi accedono facilmente
ai pochi posti di lavoro di responsabilità, i meglio retribuiti.
Dal 2017 un’insurrezione insanguina Cabo Delgado: sono morte almeno 4.500
persone e i profughi interni sono circa un milione. Tutti i fattori elencati in prece-
denza sono stati un ottimo combustibile. Ma non bastano a spiegare perché sia
scoppiato l’incendio. Sarebbe come dire che la sola presenza di legna da ardere
possa accendere un fuoco.

2. Aggiungiamo un elemento, le risorse. Dal 2009 al 2013 vengono scoperti tre


giacimenti cruciali. La miniera di rubini di Montepuez, la più grande al mondo. Poi
il 7% delle riserve mondiali di gra!te, sempre più importante per l’industria delle
batterie a ioni di litio usate nelle auto elettriche – quelle scoperte a Cabo Delgado
rappresentano tra il 20 e il 40% delle riserve mondiali di gra!te di alta qualità. In!-
ne il gas naturale nel bacino del !ume Rovuma: 85 mila miliardi di piedi cubi, una
quantità enorme, pari al 2,5% della disponibilità globale.
La scoperta dei rubini avviene per caso, grazie a un agricoltore locale. Miglia-
ia di garimpeiros, minatori artigianali provenienti principalmente dalla vicina Tan-
zania, iniziano subito a operare illegalmente, supportati da mercanti stranieri, so-
prattutto thailandesi. L’indotto genera una non trascurabile ricaduta economica per
la cittadina di Montepuez. Finché nel 2011 la britannica Gem!elds, insieme a un
importante sponsor locale, acquisisce l’intera area (340 chilometri quadrati), espel-
le i minatori e inizia a proteggerla. Cioè a usare la violenza, se serve: bruciare le
abitazioni abusive, picchiare i testardi, anche uccidere, dice qualcuno 1. La lotta
dura quattro anni, dal 2012 al 2016. Nel 2019, Gem!elds accetta di risarcire 273
casi di pestaggi, omicidi e incendi. Al netto di ciò, l’azienda vince: ha il controllo
incontrastato del territorio e conta di triplicare la produzione entro il 2025. A Ma-
puto fa comodo: esercita potere su un’area altrimenti dif!cilissima da gestire e ga-
rantisce entrate !scali continue, altrimenti inattingibili. A perderci sono i commer-
cianti informali locali, che vedono ridursi il movimento di persone e merci. E so-
prattutto i garimpeiros, disoccupati e lontani da casa: molti di loro, specie i tanza-
niani, in seguito si uniscono all’insurrezione islamista 2.

144 1. E. VALOI, «The Blood Rubies of Montepuez», Foreign Policy, 3/5/2016.


2. S. HABIBE, S. FORQUILHA, J. PEREIRA, «Radicalização Islâmica no Norte de Moçambique. O Caso de
Mocímboa da Praia», Cadernos Iese, n. 17/2019.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

INFLUENZE SU PEMBA ETIOPIA


REP. CENTRAFRICANA SUD SUDAN
CAMERUN
SOMALIA
UGANDA
G. E.
KENYA
O
O NG

GABON Kigali
LC

REPUBBLICA RUANDA
DE

.
RE P DEMOCRATICA BURUNDI
DEL CONGO
TA N Z A N I A
Dar es Salaam

SEYCHELLES
ANGOLA Pemba
ZAMBIA MAL AW MAYOTTE
I (FR)
O
C

C AR
BI
M

G AS
ZA

ZIMBABWE

DA
MA
MO

NAMIBIA
BOTSWANA Maputo-Pemba
2.400 km via terra
(3-4 giorni di viaggio)
Maputo
ESWATINI

Oceano LESOTHO
Atlantico SUDAFRICA Distanze in linea d’aria
da Pemba (in chilometri)
Maputo: 1.700
Kigali: 1.700
Dar es Salaam: 700
Mayotte: 500

I giacimenti di gra!te si trovano lungo la stessa direttrice est-ovest dei rubini,


nei distretti di Balama, Montepuez e Ancuabe, mentre i progetti del gas sorgono
lungo la direttrice nord-sud. Il materiale qui è estratto quasi esclusivamente dagli
australiani, seconda potenza mineraria al mondo dopo la Cina. Controllano la mi-
niera di Balama, che detiene l’80% della produzione locale, e altri progetti di estra-
zione che, se andassero avanti, farebbero del Mozambico il secondo produttore al
mondo della gra!te (la seconda miniera ora operativa è di proprietà tedesca).
Chi compra la gra!te mozambicana? Oggi i cinesi, forse anche per controllare
l’offerta. Domani gli americani e magari gli europei. Tesla ha stretto un accordo
nel 2021 per acquisire l’attuale produzione 3 e sono in corso trattative tra l’austra-
liana Syrah Resources, Ford e Sk. Le forniture arrivano negli Stati Uniti nell’impian-

3. S. MANOPE, «Mozambique Graphite for Tesla’s EV Car Batteries», Africa Oil&Gas Report, 31/1/2022. 145
I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

to di Vidalia, Louisiana, operativo dal 2018 per produrre anodi per batterie. L’am-
ministrazione Biden, nel piano d’investimento da 3 miliardi di dollari per le batte-
rie per auto elettriche, ha destinato cento milioni nel 2022 per espandere proprio
questo centro industriale 4.
La gra"te mozambicana serve agli americani per contrastare il controllo della
Cina sulla lavorazione di questo materiale. De"nirla il più grande produttore è ri-
duttivo: la Repubblica Popolare estrae il 60% della gra"te mondiale e ne processa
il 98%. Non rimanere strozzati nella catena logistica dell’auto elettrica è un obietti-
vo tattico degli Stati Uniti. Lo stesso segretario di Stato Antony Blinken ha citato
direttamente l’importanza della miniera di Balama nella nuova corsa alle risorse
strategiche 5.
La violenza, a Cabo Delgado, prende nota. L’insurrezione ha spostato il raggio
d’azione da nord-sud (area del gas) a est-ovest (gra"te e rubini). Nel giugno 2022,
un attacco con alcuni morti riguarda una miniera in costruzione in una zona dove
non si era veri"cato alcun incidente negli anni precedenti. Cina e Stati Uniti avran-
no anche cose più importanti a cui pensare. Ma la competizione tattica passa anche
dall’accesso a risorse chiave come la gra"te di Cabo Delgado.
Ultima risorsa, più mediatica: il gas naturale. Tra il 2010 e il 2013, l’Eni e l’a-
mericana Anadarko annunciano separatamente la scoperta di rilevantissimi giaci-
menti offshore al con"ne con la Tanzania. Tanto importanti da accendere entusia-
smi anche per via di una posizione geogra"ca decisamente favorevole: il gas
mozambicano può accedere attraverso le rotte dell’Oceano Indiano all’enorme
mercato asiatico, che rappresenta il 70% dell’import mondiale di gas naturale li-
quefatto (gnl).
Per l’Italia di quegli anni questi giacimenti, benché interessanti dal punto di
vista commerciale, non sono questione di sicurezza nazionale, con le tensioni russe
ancora lontane e visti i limiti dati dalla distanza e dall’infrastruttura nostrana del gnl.
Sono invece strategici per i compratori asiatici. Giapponesi, cinesi, indiani, sudco-
reani e thailandesi si assicurano forniture fondamentali. Sembra il matrimonio per-
fetto. Un ottimo affare anche per lo Stato mozambicano, che conta di risollevare il
bilancio statale e pagare i debiti. Ma alla festa partecipa un convitato di pietra.
I grandi fornitori dell’Indo-Paci"co sono Australia, Qatar e, in misura minore,
Stati Uniti. Per il primo e il terzo paese, il gnl è un buon business. Per il secondo,
invece, questa risorsa è il mezzo grazie a cui un paese in precedenza irrilevante ha
peso nel mondo arabo e non solo. È il combustibile che lo connette al mondo
tramite Qatar Airways e che paga le antenne di Al Jazeera. Per il Qatar, il gnl non
è un buon affare, è la pietra angolare di tutto quel che è diventato e vuole diven-
tare. Proprio negli anni in cui il grosso del gas mozambicano sarebbe dovuto en-
trare nel mercato asiatico, 2024-27, il Qatar ha in programma di far crescere la sua
4. P. KER, «Joe Biden backs Australian graphite miner Syrah», Financial Review, 19/4/2022.
5. «Secretary Antony J. Blinken at the Ministerial Meeting of the Minerals Security Partnership», dipar-
146 timento di Stato degli Stati Uniti, 22/9/2022.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

già enorme produzione di un ulteriore 60%, da 77 a 126 milioni di tonnellate l’an-


no, e dunque di negoziare contratti a lungo termine con i compratori asiatici. Si
sussurra da anni sul presunto !nanziamento e utilizzo del terrorismo islamista da
parte di Doha ed è ormai provata la sua disinvoltura nell’usare agenti stranieri per
i propri obiettivi, come ha dimostrato il Qatargate a Bruxelles. Ma queste non sono
certo prove di un coinvolgimento del Qatar nell’insurrezione di Cabo Delgado.

3. L’insurrezione di Cabo Delgado è la sola diretta responsabile della mancata


produzione di gnl. A oggi in Mozambico, dei tre progetti di cui era previsto l’avvio
tra il 2022 e il 2027, solo uno è operativo: Coral South Flng, operato da Eni. Vale
poco più del 10% della produzione prevista dal bacino di Rovuma: 3,4 milioni di
tonnellate annui contro i 31,4 previsti.
L’insurrezione ha luogo e data di nascita precisi: Mocimboa da Praia, 5 ottobre
2017. Prima di quel giorno, anche per i locali, non esisteva il minimo sentore di ciò
che avrebbe poi generato un sanguinoso con"itto. Quella notte, un gruppo di cir-
ca trenta persone armate di machete e armi da fuoco attacca il comando di polizia
della cittadina e poi altre istituzioni. La forza pubblica è colta di sorpresa, muoiono
17 persone, per due giorni i rivoltosi controllano alcune parti dell’abitato e poi si
ritirano nella boscaglia. Si fanno chiamare Anâår al-Sunna, sostenitori della fede, in
arabo. Ma la popolazione li rinomina al-Šabåb, i giovani, assonanza col gruppo
somalo con cui però non sembrano esserci legami. Poi li ribattezza Machababos,
corruzione di al-Šabåb.
All’inizio, il resto del paese presta poca attenzione. Forse perché gli attacchi
bersagliano le infrastrutture governative e in un primo momento risparmiano la
popolazione. Oppure perché gli insorti non comunicano chiaramente le proprie
ragioni. Parlano solo ai locali del risentimento verso lo Stato centrale e della neces-
sità di boicottare scuole e istituzioni pubbliche. Il messaggio religioso, benché au-
spicante un ritorno alla šarø‘a, è sfumato e non preponderante.
Tra i primi leader, gli studi successivi indicano principalmente persone origi-
narie della stessa Mocimboa da Praia, con connessioni religiose e d’affari con la
vicina Tanzania, oltre che tanzaniani stessi. Alcuni di questi ultimi hanno legami
nei circoli del sala!smo internazionale nelle monarchie del Golfo e altri sono ex
minatori di rubini cacciati dalla non distante Montepuez 6. I militanti sono giovani
musulmani della costa e della vicina provincia di Nampula, cui vengono pagati
stipendi e promessi impieghi e borse di studio 7. Altri vengono dalla regione dei
Grandi Laghi e hanno maggiori capacità di combattimento. Testimonianze di pri-
gionieri riferiscono anche di guerriglieri arabi o dell’Asia meridionale 8. Secondo le

6. S. HABIBE, S. FORQUILHA, J. PEREIRA, op. cit.


7. J. HANLON, «Notes on the evolution of the Cabo Delgado war», Mozambique News Reports & Clippin-
gs, n. 469, 27/2/2020; J. HANLON, «Islamists recruited by !lling the development gap with jobs and lo-
ans – but some beheaded for defaulting», Mozambique News, 10/12/2018.
8. J. FEIJÒ, «Caracterização e organização social dos Machababos a partir dos discursos de mulheres
raptadas», Observador Rural, n. 109, aprile 2021. 147
I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

stime, i miliziani passano da 200-800 nel 2018 a 3-5 mila nel 2021 9. Non è chiaro
da dove vengano i fondi per una macchina così imponente: si parla di donazioni
internazionali e di traf"ci illeciti di rubini, legname e droga, il tutto facilitato dalla
scarsa bancarizzazione 10.
La guerriglia si estende, coinvolge la vicina Palma e la zona d’interesse gasiera
a ridosso dei giacimenti. Aumenta la capacità offensiva. Dal 2019 inizia a prendere
di mira la popolazione locale, bruciando case e uccidendo persone. I più giovani
sono rapiti e arruolati a forza. La conformazione del territorio favorisce gli insorti,
ben protetti dalle foreste. Le forze regolari non riescono a contenerli.
Dal giugno 2019, lo Stato Islamico rivendica alcuni attacchi dell’insurrezione,
che avrebbe giurato fedeltà al proprio califfo. Dif"cile credere che l’af"liazione sia
più di un franchise, come lo è pensare che il radicalismo islamista sia più di una
bandiera dietro cui nascondere ragioni più profonde. Ma di certo dal 2019 al 2021
si assiste a un’escalation esponenziale nella capacità offensiva e negli obiettivi (gra-
!co). Dagli attacchi limitati a villaggi e convogli, si passa a colpire le cittadine.
Intanto, il Gruppo Wagner fa una fugace apparizione tra settembre e novem-
bre 2019. Solo due mesi, nessun successo signi"cativo e perdite rilevanti: ritiro
immediato e inglorioso. La decisione di intervenire deriva probabilmente anche da
interessi legati all’estrazione mineraria, come accade in Repubblica Centrafricana.
Ma a ciò si aggiunge la volontà della Russia, forte della relazione storica con il
Mozambico, di estendere la propria in#uenza nell’area con poco sforzo. Valutata la
dif"coltà del terreno e soppesati i ritorni attesi, evidentemente l’investimento viene
giudicato poco remunerativo. Non si può escludere che Cabo Delgado e il Mozam-
bico in generale tornino sul radar di Mosca.
Con l’esercito locale rimasto da solo, gli insorti conquistano Mocimboa da
Praia nell’agosto 2020, che resta ai ribelli per un anno intero. Ora la rivolta ha una
capitale e controlla territorio, da cui può minacciare le zone circostanti. Per esem-
pio Palma, a soli 60 chilometri, dove da "ne 2019 ha preso il via la costruzione
dell’impianto di liquefazione del gas sotto la direzione della francese TotalEnergies.
Vista la minaccia della guerriglia, l’azienda interrompe il progetto a "ne 2020.
L’insurrezione raggiunge lo zenit il 24 marzo 2021: i Machababos attaccano
Palma, capitale del gas mozambicano, teoricamente centro della difesa dell’esercito
regolare. L’operazione causa un centinaio di morti, tra cui alcuni stranieri indiretta-
mente legati ai progetti gasieri. Poche ore prima, Total aveva annunciato la ripresa
delle attività di costruzione; l’attacco riblocca tutto. A oggi, il cantiere non è ancora
ripreso, nonostante l’impennata della domanda mondiale di gas. L’altro progetto
previsto nell’area, operato da ExxonMobil, viene rimandato a data da destinarsi a
causa delle violenze. Un attacco di trecento persone, durato tre giorni, in uno sper-
9. C. ALDEN, S. CHICHAVA, «Cabo Delgado: “Al Shabaab/ISIS” and the Crisis in Southern Africa», Policy
Center for the New South, Policy Brief, maggio 2021.
10. L. LOUW-VAUDRAN, «The many roots of Mozambique’s deadly insurgency», Institute of Security Stu-
dies, Iss Today, 8/9/2022; A. LUCEY, J. PATEL, «Paying the price: "nancing the Mozambican insurgency»,
148 Institute for Justice and Reconciliation, Policy Brief, n. 37, ottobre 2021.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

CABO DELGADO PERNO D’INSTABILITÀ

T A N Z A N I A
a Palma
v um
Ru

Can
m e

Isole Quirimba
iu Mocímboa
F
da Praia

ale del Mozambi


Coral South
Rigassi!catore
Mueda galleggiante
(Eni)

N I A S S A C A B O
D E L G A D O
M O Z A M B I C O

co
Montepuez Pemba
Marrupa
Concessioni
o!shore
Namuno Area 1 - Total
Namapa
Area 2 - Eni/Exxon
Militanti insurrezionalisti
Aree di movimento e di attacco N A M P U L A Miniera di rubini
degli insorti - in fasi diverse,
!no al settembre 2022 Riserve di gra!te
Strada dei minerali
Aree di movimento e di attacco CO Direttrice Est-Ovest
degli insorti - luglio/agosto 2023 BI Pemba - Marrupa
AM

Territorio controllato dall’insurrezione Strada del gas


MOZ

islamica (11 mila km") - marzo 2021 Direttrice Nord-Sud


Probabile area delle basi rimanenti
dell’insurrezione - agosto 2023 Palma - Mueda - Namapa

duto villaggio di pescatori nel profondo nord del Mozambico ha avuto l’effetto,
voluto o collaterale che sia, di bloccare l’immissione sul mercato dell’equivalente
del 7% della produzione mondiale annuale di gnl.

4. La situazione è fuori controllo. I Machababos controllano il 15% della pro-


vincia e minacciano tutti i principali centri abitati, inclusa la capitale. L’esercito re-
golare è privo di organizzazione, morale e soprattutto mezzi. Così, nel giugno
2021, Maputo deve accettare l’intervento militare del Ruanda. La Francia caldeggia,
dopo la distensione tra Parigi e il governo ruandese innescata dal riconoscimento
francese di una responsabilità indiretta nel genocidio del 1994. Ma l’operazione del
Ruanda è scevra da qualsiasi ingerenza, è pura proiezione di potenza di un paese 149
I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

con chiare aspirazioni di leadership regionale, legittimate da una crescita economi-


ca, tecnologica e propriamente geopolitica che, al di là di ogni giudizio morale sui
metodi, ha del miracoloso.
L’intervento ruandese cambia l’inerzia del con!itto. In soli due mesi, Mocim-
boa da Praia viene riconquistata, l’area di Palma e degli investimenti del gas è ri-
portata in sicurezza e le principali basi dell’insurrezione vengono smantellate. I
Machababos si disperdono in piccoli gruppi, con capacità offensive limitate a spa-
ruti attacchi in villaggi remoti, senza controllo signi"cativo degli assi stradali.
Oltre al Ruanda, Maputo accetta anche l’intervento di alcuni paesi della Comu-
nità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc nell’acronimo in inglese, n.d.r.), con
il Sudafrica capo"la, motivato dalla volontà di evitare un contagio dell’instabilità.
Fa eccezione la Tanzania, marginale nella missione e sin dall’inizio del con!itto
poco impegnata nel controllo dei con"ni. Su tale attitudine, si esprime con preoc-
cupazione pure il direttore dello Stato maggiore dell’Unione Europea, il viceammi-
raglio francese Hervé Bléjean 11. Due le possibili motivazioni della Tanzania: sfoga-
re fuori dai propri con"ni instabilità altrimenti interne; attirare investimenti su pro-
getti di sfruttamento del gas e della gra"te percepiti in qualche modo alternativi a
quelli mozambicani. Le regioni di Lindi e Mtwara, contigue a Cabo Delgado, van-
tano riserve rilevanti. Ma se così fosse, Dodoma starebbe giocando col fuoco, cioè
col rischio di portarsi l’insurrezione in casa.
Le ragioni del contributo del Sudafrica vanno viste nella volontà di controbi-
lanciare il Ruanda, percepito come rivale nel ruolo di riferimento regionale. La
potenza del Sudafrica è in chiaro declino, a cui contribuiscono le dif"coltà econo-
miche e sociali di una riconciliazione ancora incompiuta.
Le traiettorie dei due paesi si riproducono a Cabo Delgado. I ruandesi otten-
gono notevoli successi nella propria area di competenza, che comprende il distret-
to del gas sull’asse Mocimboa-Palma, quasi completamente paci"cata. La Sadc ca-
pitanata dal Sudafrica fatica nei distretti centrali e occidentali, a ridosso delle aree
della gra"te, costretta a rincorrere i ribelli frammentati in piccoli gruppi. A causa
dell’inerzia, nel giugno 2022 il perimetro d’azione dei Machababos si allunga mo-
mentaneamente da nord verso sud per circa 400 chilometri, "no a scon"nare nella
contigua provincia di Nampula, per poi ritirarsi nuovamente. L’attuale bastione è
geogra"camente molto limitato, ma l’area di movimento comprende anche la prin-
cipale strada nord-sud di Cabo Delgado. In uno degli scontri in questa zona, nell’a-
gosto 2023 resta ucciso il presunto capo degli insorti, il mozambicano Bonomade
Machude Omar.

5. Proprio a causa di un attacco a Nampula, nel settembre 2022 per la prima


volta perde la vita un’italiana, la missionaria comboniana Maria Coppi. Il tragico
evento permette di aprire una "nestra sul ruolo dell’Italia e sui rapporti del nostro
paese con il Mozambico, soprattutto nel Nord. Roma dispone di risorse di repu-
150 11. D. MORRISON, «Tanzania weathers diplomatic criticism over Cabo Delgado», Zitamar News, 25/2/2022.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

tazione importanti, frutto di relazioni quarantennali, praticamente sconosciute in


patria !no a qualche tempo fa e che non sempre riusciamo a mettere a sistema.
I nostri vettori sono tre. Il primo è la Chiesa cattolica, presente soprattutto
nelle aree più remote per sincero spirito solidale e sulla quale poggiano i nostri
canali con Maputo, assieme alla diplomazia. L’emblema di questo sistema sono
ancora gli accordi di Roma che nel 1992 posero !ne alla sanguinosa guerra civile,
frutto della mediazione della Comunità di Sant’Egidio con il contributo del governo
italiano. Il secondo vettore è la cooperazione, soprattutto indipendente, che non
ha eguali in Mozambico e nello speci!co a Cabo Delgado. Qui le sue origini affon-
dano negli anni Settanta, con attività provenienti dall’Emilia e in particolare da
Reggio, che ha avuto il merito di aiutare Pemba e in generale tutto il Mozambico
durante il con"itto scoppiato dopo l’indipendenza. Il terzo è il settore privato, do-
minato dagli anni Ottanta !no alla !ne del decennio scorso dalla Cmc di Ravenna.
L’azienda è stata a lungo la principale impresa privata operante in Mozambico, con
la costruzione di infrastrutture praticamente ovunque in questo paese sproporzio-
natamente lungo. Cmc è diventato addirittura il nome di un quartiere di Maputo.
La presenza di Eni è più recente, assieme alle compagnie italiane dell’indotto degli
idrocarburi, intorno ai primi anni Dieci. Non è un caso che Eni sia stata l’unica
major in grado di portare a termine un progetto gasiero.
Se l’Italia ha un’estesa conoscenza del territorio e risorse da capitalizzare, frut-
to anche di una curiosa af!nità emotiva con i mozambicani, la Francia fatica a far
valere la propria in"uenza. Parigi sarebbe molto interessata a pesare di più, anche
a Cabo Delgado, venialmente per accedere ai giacimenti di idrocarburi ma anche
per la vicinanza del suo territorio di Mayotte. A differenza nostra, la penetrazione
transalpina è molto più recente, concentrata nel settore delle risorse energetiche e
nel suo indotto, soprattutto gas ma anche fotovoltaico e idroelettrico. Eppure i
francesi non conoscono il Mozambico, a eccezione della capitale, e faticano a ca-
pirne la cultura, i codici, la lingua. Vorrebbero replicare, non riuscendoci, modelli
post-coloniali validi un tempo nella Françafrique, peraltro oggi in crisi.

6. Tracciare una possibile traiettoria dell’insurrezione, delle in"uenze e degli


interessi che l’alimentano non è compito facile. Proponiamo tre scenari, senza pre-
tese di esaustività.
Primo, le operazioni di Ruanda, Sudafrica e Mozambico trovano !nalmente
una sinergia e riprendono il controllo totale del territorio, anche grazie alla colla-
borazione della popolazione locale. I successi militari e politici scoraggiano altri
attori ad aizzare le !amme. I progetti minerari ed energetici riprendono a pieno
ritmo, generando impiego per i locali ed entrate !scali per Maputo, così riducendo
il rischio di future instabilità.
Scenario auspicabile, ma molto poco probabile. Perché si realizzi, dovrebbero
veri!carsi contemporaneamente le seguenti condizioni: gli interessi dei tanti paesi
coinvolti sulle risorse devono coincidere o quantomeno diventare complementari,
magari con accordi su gas e gra!te o per tracciare e strozzare i !nanziamenti inter- 151
I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

nazionali degli insorti; i progetti di estrazione devono coinvolgere la popolazione,


togliendo manodopera a basso costo all’insurrezione; la politica mozambicana de-
ve sfuggire alla logica dei grandi interessi privati interni per reinvestire le risorse
generate dall’estrazione direttamente a Cabo Delgado in infrastrutture e nello svi-
luppo di un’economia differenziata.
Secondo scenario, l’intervento militare va in stallo e si opta per un disimpegno.
L’esercito regolare si arrocca a Pemba. Gli insorti hanno mano libera nel resto della
provincia, si espandono nelle province di Niassa e Nampula, ricche di metalli e pie-
tre preziose. I progetti gasieri sono de!nitivamente abbandonati e con essi anche gli
appoggi internazionali all’insurrezione. La quale per !nanziarsi ricorre ai rubini, l’u-
nica risorsa estraibile senza tecnologie avanzate, concentrandosi nell’area di Monte-
puez con uno sbocco sul mare. Così, si blocca anche l’estrazione della gra!te. Il
Nord del Mozambico diventa una sorta di Somalia, grazie a una costa particolarmen-
te adatta ai traf!ci illeciti e già nelle rotte internazionali della droga (eroina). L’insur-
rezione diventa un affare meramente umanitario, la cui gestione viene delegata alle
organizzazioni internazionali, prolungando per anni o decenni il con"itto.
Anche questo scenario è poco probabile. Per realizzarsi si dovrebbe invertire
l’attuale tendenza, cioè si dovrebbe ridurre molto la domanda di gnl e di gra!te, per
una distensione della competizione globale tra le potenze, per la scoperta di altri
giacimenti altrove oppure per innovazioni tecnologiche che rendano quelle risorse
meno importanti. Per ora di queste tre condizioni non si vede nemmeno l’ombra.
Terzo scenario, l’insurrezione resta al (basso) livello attuale e in aree remote.
I progetti estrattivi riprendono, protetti dalle forze militari regolari – probabilmente
ruandesi, che rafforzano la propria in"uenza nell’area. E magari anche da compa-
gnie di sicurezza private, ciò che fa lievitare i costi e quindi i prezzi sul mercato. Le
major fanno ingoiare almeno parte degli aumenti al governo mozambicano, con
una riduzione delle royalties. Gli investimenti infrastrutturali dunque restano mini-
mi. Il mancato sviluppo rialimenta gli arruolamenti nell’insurrezione e quindi la
minaccia ai giacimenti. Ma non abbastanza da farli chiudere, vista la presenza di
truppe regolari e mercenarie. Questo equilibrio in continua tensione potrebbe es-
sere sostenuto da un ritorno russo a Cabo Delgado, di cui ci sono segnali 12.
Tale scenario è una combinazione dei precedenti. Non richiede un coordina-
mento tra gli attori coinvolti, pur raggiungendo un punto d’equilibrio tra l’accesso
alle risorse e il maggior costo di gas e gra!te. Non richiede investimenti signi!cati-
vi e le rendite di gas e gra!te, pur ridotte, continuerebbero a !nanziare gli investi-
menti nella sola capitale Maputo, oltre i grandi interessi privati. Prevede un tipo di
coesistenza, a volta addirittura di collaborazione, tra violenza organizzata e proget-
ti estrattivi già sperimentato con successo in Nigeria, Repubblica Democratica del
Congo e, in misura minore, Angola.
Quale che sia il futuro, emerge l’impotenza, di fronte a forze avverse, del Mo-
zambico come nazione. Un palcoscenico, più che un soggetto geopolitico.
12. «Mozambique: Russian Soldiers in Nampula hint at the return of Wagner», Africa Monitor Intelli-
152 gence, 17/8/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IN LIBIA DI MALE
IN PEGGIO di Wolfgang PUSZTAI
Il paese resta spaccato in due: il governo di Tripoli è ostaggio delle
milizie, quello di Bengasi del generale Õaftar. Intanto la corruzione
dilaga, i trafficanti prosperano e le crisi saheliane producono
instabilità. La scommessa di Eni e Bp. Le elezioni sono un sogno.

1. S CALZATA DALL’UCRAINA E DA ALTRE CRISI,


la Libia non fa più notizia. Il primo ministro ‘Abd al-Õamød Muõammad Dubayba
viaggia tra Europa e Medio Oriente e riceve delegazioni straniere di alto livello.
Tutto sembra andare bene, ma le apparenze ingannano.
Dopo la rivolta sostenuta dalla Nato nel 2011, la Libia non ha mai trovato una
propria stabilità. Pesano i con!itti tribali secolari, l’eredità di Muammar Ghedda",
il fallimento del progetto di disarmo, smobilitazione e reintegrazione dei guerriglie-
ri, l’in!uenza degli islamisti radicali in costante aumento. Al tempo i libici si oppo-
sero a una missione di costruzione dello Stato guidata dalle Nazioni Unite e l’Oc-
cidente – dopo le esperienze in Afghanistan e in Iraq – non era disposto a interve-
nire in un paese musulmano. Così il caos in Libia ha facilitato la proliferazione
delle armi e ha contribuito alla destabilizzazione di Mali, Niger e Ciad.
Nel 2014 scoppiò la guerra civile. A seguito degli omicidi di matrice islamica
avvenuti in primavera a Bengasi, il generale Œaløfa Õaftar lanciò l’Operazione Di-
gnità per riconquistare la città. Intanto, con l’Operazione Alba libica e dopo uno
scontro durato da luglio a settembre, gli islamisti prendevano il controllo di Tripo-
li e ri"utavano di accettare i risultati delle elezioni parlamentari. I negoziati di pace
mediati dall’Onu a Skhirat, in Marocco, portarono alla "rma di un accordo nel di-
cembre 2015. La Camera dei rappresentanti, con sede a Tobruk, fu confermata
come parlamento della Libia, furono istituiti l’Alto consiglio di Stato con sede a
Tripoli (in qualità di organo consultivo) e un Governo di accordo nazionale guida-
to da Fåyiz al-Sarråã. Ma stante l’esclusione di diversi attori politici, l’accordo fu
respinto. Il governo non fu mai legittimato dal parlamento, che sostenuto dall’Est
del paese ri"utò di sottomettersi a un esecutivo controllato de facto da milizie e
bande tripolitane. La guerra civile culminò nell’aprile 2019 con l’offensiva di Õaftar,
deciso a prendere Tripoli con la forza. Il generale libico fu fermato dal formidabile 153
IN LIBIA DI MALE IN PEGGIO

intervento militare turco del 2020. Con il cessate-il-fuoco deciso a Ginevra nell’ot-
tobre dello stesso anno la guerra !niva.
Nell’autunno 2020 la rappresentante speciale ad interim delle Nazioni Unite
per la Libia, Stephanie Williams, istituì il Forum per il dialogo politico libico: 75
delegati stilarono una tabella di marcia per le elezioni presidenziali e parlamentari,
previste per il 24 dicembre 2021. Uscito indenne da accuse di corruzione e com-
pravendita di voti, Dubayba – ex capo della Libyan Investment and Development
Company, il fondo sovrano istituito da Ghedda! nel 2007 – fu scelto per guidare il
governo di unità nazionale. Poche settimane dopo il parlamento libico confermò il
nuovo esecutivo. Fin da subito, Dubayba appro!ttò del suo ruolo per arricchire il
proprio clan e usò denaro pubblico per la campagna elettorale, tanto che molti
iniziarono a de!nire il regime libico una cleptocrazia.
Nonostante ciò, nel settembre 2021 il paese nordafricano era, per la prima volta
dal 2014, prossimo alle elezioni. Circa 2,8 milioni di libici si erano registrati per eser-
citare il diritto di voto. Seppur in modo controverso, il parlamento aveva emesso
leggi elettorali che !ssavano le presidenziali al 24 dicembre e le parlamentari per il
mese successivo. La lista !nale dei candidati alle presidenziali, però, non fu mai
pubblicata e le elezioni furono rinviate a data da destinarsi, soprattutto perché le
Corti d’appello presero decisioni contrastanti – e tutte errate – sul diritto dei candi-
dati a presentarsi. Dubayba, ad esempio, fu ritenuto eleggibile sebbene non si po-
tesse candidare né al Forum per il dialogo politico libico dell’Onu né alle elezioni.
In base alla tabella di marcia approvata dalle Nazioni Unite e dal parlamento
libico, il mandato del Governo di accordo nazionale sarebbe dovuto terminare il
24 dicembre 2021. A febbraio 2022 il parlamento nominò l’ex ministro dell’Interno,
Fatõø Båšåôå, primo ministro del governo di stabilità nazionale, ma Dubayba ri!utò
di cedere il potere e nell’agosto 2022 Båšåôå cercò invano di prendere il controllo
di Tripoli. Importanti milizie che sostenevano Båšåôå, come la brigata rivoluziona-
ria guidata da Hayñam al-Tåãûrø e la brigata al-Nawåâø, furono allontanate dalla
città. A maggio 2023 Båšåôå è stato in!ne licenziato e sostituito con il ministro
delle Finanze Usåma Õammåd.
Per mesi parlamento e Consiglio di Stato hanno negoziato una legge elettorale,
senza raggiungere alcun compromesso. La !ne del progetto è arrivata nel febbraio
2023 con la creazione – incentivata dal rappresentante speciale dell’Onu per la Li-
bia, Abdoulaye Bathily – di un direttivo per la Libia presso il Consiglio di Sicurezza,
che tuttavia non ha mai avuto seguito. Il Comitato 6+6, costituito da componenti
del parlamento e del Consiglio di Stato, ha contribuito a produrre una legge elet-
torale che però è stata respinta.

2. La Libia era e resta spaccata in due: da un lato il Governo di unità naziona-


le guidato da Dubayba con sede a Tripoli, dall’altro il Governo di stabilità nazio-
nale sostenuto dal parlamento e guidato da Õammåd, con sede a Bengasi. Il ces-
sate-il-fuoco sancito nel 2020 rimane comunque in vigore. Gli attori militari prin-
154 cipali sono ancora l’Esercito nazionale libico (Lna) guidato da Õaftar, le milizie di
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Misurata e l’esercito di Tripoli, che però controlla poche truppe in larga parte tri-
politane, uf!cialmente parte dell’Esercito libico ma non integrate nella struttura di
comando.
A Tripoli ci sono decine di milizie, più e meno grandi. Le più potenti sono la
Rad‘, le Forze speciali di deterrenza comandate dal sala!ta madkhalita ‘Abd al-Ra’ûf
Kåra e la Brigata 444 guidata da Maõmûd Õamza, istituita nel 2020 come succursa-
le della Rad‘. In passato Rad‘ e Brigata 444 sono state alleate: la prima era respon-
sabile di Tripoli e dell’aeroporto di Mitiga, la seconda della campagna circostante.
Un’altra milizia importante a Tripoli è la Forza di sicurezza centrale Abû Saløm di
‘Abd al-Ôanø al-Kiklø, noto come Ôunaywa, che comanda anche l’Agenzia di sup-
porto alla stabilizzazione, organizzazione ombrello per gruppi armati interconnes-
si. Soprattutto nella fase iniziale, la Brigata 444 ha ricevuto un massiccio supporto
dalla Turchia in termini di armi, addestramento e droni. La presenza militare turca
in Libia si basa su un memorandum !rmato nel novembre 2019, quando Tripoli era
sotto assedio di Õaftar. Ankara mantiene cinque basi d’addestramento a Tripoli,
Misurata e Œums, gestisce la base aerea di al-Wa¿iya (vicino al con!ne con la Tu-
nisia) e utilizza Œums come ancoraggio per le fregate che operano nel Mediterra-
neo centrale e nel Golfo di Sidra. Inoltre, controlla un ampio gruppo di mercenari
siriani, probabilmente più di 2.500, come forza ausiliaria.
L’impegno turco in Libia è mosso da interessi economici, dal sostegno all’islam
politico e da considerazioni strategiche sull’Africa subsahariana, ma la Libia svolge
un ruolo importante anche nella politica estera della Russia. Il Gruppo Wagner è
perfettamente integrato in quest’area: costituisce la spina dorsale dell’Aeronautica
libica poiché fornisce piloti per i bombardieri Su-24 e i caccia MiG-29, truppe di
terra, forze di reazione rapida e personale per la manutenzione dei mezzi. Le basi
aeree di Hûn e Waddån (distretto di Ãufra) e di al-Œådim (in Cirenaica) vengono
utilizzate sia come basi logistiche sia per rifornire di carburante gli aerei in viaggio
da e verso la regione subsahariana. La Russia fa affari anche con il governo di Du-
bayba, soprattutto nel settore energetico (petrolio e gas) e nell’edilizia; di recente
ha aperto un’ambasciata nella capitale libica. I russi vogliono che qualsiasi candi-
dato possa correre alle elezioni, incluso Sayf al-Islåm Muammar Ghedda! (!glio
del ra’øs), perché pensano di poter sopravvivere piuttosto bene in Libia anche in
caso di cambio al vertice.
La maggioranza delle milizie in Libia è coinvolta, in un modo o nell’altro, in
attività criminali. Il contrabbando di carburante, il commercio di droghe e di armi
verso paesi con!nanti e gruppi terroristici, il traf!co di esseri umani attraverso il
Sahara e verso l’Europa sono un business enorme. Le principali rotte del contrab-
bando di carburante partono dalla raf!neria di Zåwiya e raggiungono Malta, Tuni-
sia, Niger e Ciad. Sono frequenti gli scontri tra contrabbandieri e forze di sicurezza,
specie nella pianura costiera della Tripolitania. Quest’attività illecita comporta un’e-
norme perdita !nanziaria per lo Stato libico e per le economie dei paesi vicini.
L’estorsione e il rapimento a !ni di riscatto restano un grave problema nelle grandi
città. Perciò un’altra fonte di guadagno per le milizie locali è il controllo degli edi- 155
IN LIBIA DI MALE IN PEGGIO

!ci pubblici – Banca centrale, ministeri, ospedali e ambasciate – dal momento che
molte società di sicurezza straniere sono state costrette a lasciare il paese.

3. La Libia dipende interamente dai proventi generati dall’industria degli idro-


carburi. Secondo la Banca centrale, le entrate governative nei primi sette mesi del
2023 ammontano a 62,8 miliardi di dinari, 61,6 dei quali vengono dall’industria
petrolifera e solo 361 milioni dalle tasse. Gli attori stranieri, il governo di Tripoli e
la National Oil Corporation (Noc) invitano spesso a mantenere il settore degli idro-
carburi fuori dalla politica, invece da est e da sud sono frequenti gli interventi
nell’industria energetica.
Buona parte del petrolio e del gas libici si trova infatti nel Fezzan e in Cirenai-
ca, mentre una porzione più piccola in Tripolitania e al largo della costa. La Noc,
con sede a Tripoli, gestisce tutto il gas e il petrolio del paese. Se i clienti stranieri
vogliono acquistare greggio, devono pagare sui conti della Noc e presso la Banca
estera libica (Libyan Foreign Bank), poi i soldi vengono trasferiti alla Banca centra-
le. La Noc, insomma, non ha accesso ai pagamenti. La Banca centrale libica invece
sì e utilizza i soldi per le esigenze del governo guidato da Dubayba. Questi ignora
il controllo della Camera dei rappresentanti e spende questi fondi come ritiene
necessario, facendo dell’erario il principale strumento di potere e di !nanziamento
per le milizie di Tripoli e di Misurata.
Chi abita nelle aree meridionali e orientali del paese sa che !ne fa la maggior
parte dei pro!tti del settore petrolifero. Perciò, se alcune zone non ricevono la
parte loro assegnata la circolazione di petrolio può essere bloccata. Il rappresen-
tante speciale degli Stati Uniti, Richard Norland, aveva proposto un meccanismo di
maggior trasparenza nell’uso delle entrate petrolifere, ma senza successo.
La Libia ha disperato bisogno di investimenti esteri. Tutti ne sono consapevoli,
ma le aziende straniere sono restie: la sicurezza scarseggia, la corruzione è diffusa,
si percepisce l’assenza di uno Stato di diritto e non esiste alcuna etica del denaro.
Tuttavia, all’inizio di agosto Eni e Bp hanno formalizzato la revoca dello stato di
forza maggiore per le aree di esplorazione C (offshore), A e B (onshore) con la Noc.
I lavori in queste aree, sospesi dal 2014, riprenderanno presto. Eni e Bp detengono
ciascuna una quota del 42,5%. Anche l’algerina Sonatrach sta riprendendo i lavori
su due blocchi nel bacino di Ôadåmis. Sarà interessante vedere se altre aziende
seguiranno l’esempio.
Se la corruzione era già grave sotto Ghedda!, ora è fuori controllo. La Libia
occupa il 171º posto su 180 nell’Indice di percezione della corruzione di Transpa-
rency International; nel 2010 era al 154º. Il procuratore generale Âiddøq al-Âûr sta
perseguendo i corrotti a livello medio-basso, ma i pesci grossi restano impuniti e
la situazione economica fuori controllo. I generi alimentari di base e il carburante
sono sovvenzionati dallo Stato per mantenerne bassi i prezzi, ma il costo della vita
è aumentato. La rete elettrica necessita di manutenzione, l’approvvigionamento di
gas per le centrali elettriche è spesso irregolare, i blackout sono frequenti durante
156 l’estate, specie nel Sud. Se con Ghedda! l’assistenza medica vantava standard ele-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

vati per uno Stato africano, oggi c’è carenza di farmaci e attrezzature mediche e il
personale sanitario quali!cato è inesistente, soprattutto nell’Est e nel Sud. Mentre
si inaugura un parco a Misurata voluto da Dubayba e costato sui 42 milioni di di-
nari, i servizi sanitari nel Fezzan versano in uno stato di completo abbandono e
alimentano l’insoddisfazione. Secondo le Nazioni Unite, su 7 milioni di abitanti
oltre 800 mila persone necessitano di aiuto umanitario.
A luglio 2023 Œålid al-Mišrø, presidente del Consiglio di Stato, ha proposto
insieme alla Camera una nuova tabella di marcia per le elezioni: prima verranno
concordate le leggi elettorali, poi sarà istituito un nuovo governo provvisorio per
organizzare le consultazioni, da indire entro 240 giorni dall’adozione delle leggi.
Un governo composto da esponenti delle principali parti politiche appare un re-
quisito indispensabile, ma perché questa volta dovrebbe dimostrarsi vincente? A
decidere sono ancora le milizie di Tripoli e di Misurata insieme al governatore
della Banca centrale, Âiddøq al-Kabør: tutti sostengono Dubayba.
Nessun governo insediato dalla Camera e dal Consiglio di Stato, seppur inter-
nazionalmente sostenuto, può esercitare i suoi poteri contro il volere delle milizie
e della Banca centrale, che controlla i cordoni della borsa. L’unico attore esterno
che potrebbe in#uenzare la situazione è la Turchia, ma non basta che i legislatori
siano d’accordo sulla formazione di un esecutivo. Lo ha dimostrato il fallimento del
comitato 6+6 sulle leggi elettorali in Marocco: se il premier Dubayba e il generale
Õaftar non raggiungono un accordo, qualsiasi tentativo risulterà inutile.
Come pervenire, dunque, a un compromesso tra le parti? Chi può candidarsi?
Militari in servizio come Õaftar ne hanno facoltà? Cosa fare con il non eleggibile
Dubayba e con criminali di guerra come Sayf al-Islåm, oggetto di un mandato di
cattura? I cittadini con doppia cittadinanza dovrebbero scegliere? È obbligatorio un
secondo turno alle presidenziali? Presidenziali e parlamentari avranno luogo nello
stesso giorno?

4. Nell’ultimo anno, nell’area di Tripoli la milizia Rad‘ ha spesso trovato nella


Force 444 un concorrente. Entrambe le forze hanno iniziato a operare nella stessa
zona, generando con#itti e scontri occasionali. Ad agosto almeno 55 persone sono
state uccise e 146 sono state ferite: le violenze sono avvenute dopo che il coman-
dante della Brigata 444, Maõmûd Õamza, è stato arrestato dalla Rad‘ all’aeroporto
di Mitiga mentre si dirigeva a una cerimonia. Dopo alcuni giorni di sanguinose
proteste, Õamza è stato rilasciato. L’arresto ha dimostrato come, ancora una volta,
Dubayba – che si trovava accanto a Õamza quando è stato arrestato – non abbia il
controllo della situazione. Dopo il rilascio, il premier ha elogiato sia la Rad‘ sia la
Brigata 444 e ne ha esortato i comandanti a trovare un accordo, così mostrando di
voler mantenere buoni rapporti con entrambi.
Nel frattempo il primo ministro del governo di Bengasi, Usåma Õammåd, cer-
ca di tessere buoni rapporti con Õaftar, di consolidare la sua in#uenza nell’area da
questi controllata e di convincere gli attori stranieri a trattare con il suo governo.
Seppur con scarso successo, Õammåd ha chiamato i rettori delle università locali 157
IN LIBIA DI MALE IN PEGGIO

chiedendo loro di interrompere la collaborazione con il ministero dell’Istruzione,


ha istituito un fondo di decine di milioni di dinari per il Fezzan e ha avviato un
programma di ricostruzione per Murzuch, da gestire tramite un apposito comitato
e la Brigata ¡åriq ibn Ziyåd dell’Lna. A inizio agosto ha poi introdotto permessi di
viaggio per i diplomatici stranieri e ha messo in guardia dal compiere visite senza
preventiva autorizzazione.
Intanto, sempre più migranti partono dai porti della Libia orientale, dove il
governo di Tripoli non esercita alcuna in!uenza. I principali punti d’ingresso e
uscita dei migranti non sono controllati dal Governo di unità nazionale. Se l’Italia
e gli altri paesi europei vogliono affrontare la questione, dovranno parlare sempre
di più con Õaftar, la cui visita a Roma dello scorso maggio è indicativa. Non ci
sono alternative realistiche nel breve termine.
La guerra civile in Sudan, il golpe in Niger e la lotta in Ciad tra governo e ri-
belli, che operano in parte dal Sud della Libia, pongono nuove s"de. L’Lna ha
schierato truppe al con"ne per sostenere un eventuale aumento dei rifugiati dal
Sudan – che "nora non c’è stato – e per contrastare la vendita di armi e petrolio
alle forze che s"dano il governo sudanese. La sorveglianza del con"ne con il Niger
è stata intensi"cata. Dopo gli attacchi aerei del governo ciadiano contro le basi del
Fronte per il cambiamento e la concordia nel Sud della Libia e un successivo attac-
co terrestre contro le loro roccaforti nel Nord a "ne agosto, l’Lna ha inviato rinfor-
zi anche nel Sud del Fezzan. Attualmente conduce operazioni nell’area montuosa
del Tibesti contro i ribelli ciadiani e mira a espellerli dalla Libia, forse in coordina-
mento con l’esercito del Ciad.
È irrealistico prevedere un miglioramento della situazione e lo svolgimento di
elezioni in Libia nel breve termine. La guerra civile in Sudan, le crisi in Niger e in
Ciad potrebbero danneggiare la fragile stabilità del Sud libico e dell’intero Sahara
meridionale, innescando nuove ondate migratorie verso l’Europa e un aumento del
terrorismo. Saranno i cittadini libici medi a pagarne il prezzo, come già avviene.
L’unico modo per uscire dal caos è un compromesso tra le tre regioni storiche
della Libia, una specie di federalismo alla libica.

(traduzione di Guglielmo Gallone)

158
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

LA TUNISIA DI SAÏED
GUARDA AI BRICS di Ester SIGILLÒ
Traditi dal malgoverno ‘rivoluzionario’ e afflitti dal malessere
socioeconomico, i tunisini abbracciano – e subiscono – il nuovo
uomo forte. I richiami alla sovranità contro i diktat dell’Fmi.
Tunisi resta nell’orbita algerina, mentre ammicca a Russia e Cina.

1. D ICIASSETTE DICEMBRE 2010, SIDI BOUZID,


Tunisia rurale: il giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi si dà fuoco da-
vanti alla prefettura in segno di protesta contro miseria, corruzione e vessazioni
della polizia. Questo gesto radicale darà inizio a un processo di ribellione contro
regimi autoritari pluridecennali che scuoterà tutto il Nord Africa e parte del Medio
Oriente. Gli slogan che accompagnano la rivoluzione tunisina !no al crollo del
regime di Zine El-Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011 – «Il popolo vuole la caduta
del regime»; «Lavoro, libertà, dignità nazionale» – mostrano l’intreccio tra autoritari-
smo e diseguaglianze socioeconomiche. Al di là dell’immagine di una rivoluzione
ispirata ai valori della democrazia liberale dipinta dai media, le rivolte del gennaio
2011 hanno infatti posto sotto i ri"ettori i gruppi sociali esclusi dal patto di sicurez-
za economica del regime. Mentre una parte dell’élite sociale e politica interpretava
il cambiamento nel senso di una riforma istituzionale, per le classi popolari il pro-
cesso di transizione democratica e le rivendicazioni di libertà si traducevano in ri-
chiesta di «pane e lavoro».
Con la caduta di Ben Ali il paese ha avviato una transizione istituzionale culmi-
nata nell’adozione di standard democratici minimi, in particolare lo svolgimento di
elezioni regolari sotto il vaglio di un organismo indipendente. Dopo l’elezione
dell’Assemblea costituente nel 2011, con la vittoria del partito islamista Ennahda (37%
dei voti), la Tunisia ha votato altre tre volte per le legislative (2014, 2019, 2022-23),
due per le presidenziali (2014 e 2019), una per le municipali (2018). Ciò ha spinto
molti a de!nirla un caso esemplare di democratizzazione nel mondo arabo. Nel
2014, dopo aspri con"itti e fratture radicali, è stata inoltre approvata all’unanimità una
nuova costituzione, frutto di un dialogo nazionale unico nella regione.
In continuità con l’èra di Ben Ali, la politica tunisina negli anni della transizio-
ne si è concentrata sulla retorica di un paese stabile, impegnato nella lotta al terro- 159
LA TUNISIA DI SAÏED GUARDA AI BRICS

rismo. La svolta securitaria dopo due assassinî politici nel 2013 e gli attacchi terro-
ristici del 2015 ha tuttavia distolto l’attenzione dall’incapacità dei governi post-2011
di aggredire i mali profondi del paese. L’aggravarsi della crisi economica e i man-
cati progressi nella protezione delle fasce più povere della popolazione hanno
fatto sì che i partiti al potere fossero accusati di inaf!dabilità e corruzione, mentre
il con"itto politico-istituzionale veniva assorbito dalla questione identitaria che op-
poneva un progetto di società «islamista», fondata sul diritto religioso, al vecchio
compromesso modernista risalente all’epoca del presidente Bourguiba.
Nonostante il pluralismo sulla carta, la maggior parte dei partiti è stata indi-
stinguibile su questioni cruciali come il lavoro e le disuguaglianze socioregionali.
Le principali formazioni – Nidaa Tounes di ispirazione bourghibista, Ennahda di
matrice islamista – non hanno trovato soluzioni alla dilagante crisi socioeconomi-
ca. Di conseguenza, la popolazione tunisina si è sentita sempre più estranea al
sistema partitico e più in generale alla politica, mostrando nel corso degli anni un
crescente distacco dal processo elettorale. Dal 2016 nuove rivolte sono esplose
nelle aree più marginalizzate del paese. Le richieste della popolazione hanno con-
tinuato a concentrarsi sulle questioni socioeconomiche, denunciando il modello di
sviluppo iniquo, mai rimesso in discussione negli anni di sperimentazione demo-
cratica – una sorta di «questione meridionale» che riguarda soprattutto le regioni
interne e del Sud tunisino. Il partito che più ha deluso è quello verso il quale
erano state riposte le speranze di molti tunisini esclusi dai bene!ci economici e
politici del vecchio regime: Ennahda, la cui base elettorale è calata drasticamente
nel corso degli anni.
Il forte sentimento popolare di tradimento della rivoluzione ha preso piede
quando è diventato evidente che il processo di transizione democratica non avreb-
be soddisfatto le aspettative di cambiamento, deludendo così le aspettative della
popolazione. La «con!sca» della rivoluzione è passata anche attraverso politiche di
recupero del vecchio regime, come il progetto di amnistia dei crimini economici
commessi prima della rivoluzione (la cosiddetta Loi de réconciliation). Inoltre, si è
assistito a una politica del compromesso tra le élite di Nidaa Tounes ed Ennahda,
che dopo le elezioni formavano governi unitari malgrado la dura lotta in campa-
gna elettorale.

2. In questo contesto si sono tenute le elezioni legislative e presidenziali del


2019, che hanno sancito il fallimento dei partiti dominanti e legittimato l’emergere
di correnti politiche populiste e sovraniste. Kaïs Saïed, giurista e !gura pubblica
conosciuta dal 2012, è stato eletto alla presidenza senza l’appoggio di un partito, con
il solo programma di restituire il potere al popolo rafforzando processi istituzionali
«dal basso» e reinserire il paese nel solco della rivoluzione combattendo la corruzio-
ne degli imprenditori collusi col vecchio regime e con la nuova partitocrazia.
Il 25 luglio 2021, undici anni dopo la caduta di Ben Ali, il potere a Tunisi è
nuovamente tornato nelle mani di un’unica persona: il presidente Kaïs Saïed, che
160 sull’onda di manifestazioni popolari contro governo e parlamento compie un atto
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

di forza. Invocando l’articolo 80 della costituzione, Saïed dichiara lo stato d’emer-


genza e avvia una sorta di operazione «mani pulite»: partiti e magistrati civili sono
messi sotto accusa. In particolare Ennahda, al governo dal 2012. Tutte le attività del
parlamento sono congelate, il 30 marzo 2022 l’assemblea è sciolta. Nei mesi suc-
cessivi Saïed adotta varie misure volte a consolidare l’autorità nelle proprie mani,
limitando il sistema partitico – giudicato corrotto e responsabile della situazione
economica – e imprigionando molti esponenti dell’opposizione, da ultimo (aprile
2023) il leader di Ennahda Rachid Ghannouchi.
Allo stato d’emergenza fanno da sfondo lo stallo istituzionale – particolarmen-
te visibile nelle dinamiche parlamentari – e le risposte inef!caci al Covid-19. Saïed
lo giusti!ca con l’idea di voler rimettere il paese nel solco della rivoluzione del
2011, tradita dal partitismo e dalla magistratura corrotta. Annuncia un processo di
riforma costituzionale, de!nito «rivoluzionario» perché lontano dalle partitocrazie.
La redazione della nuova costituzione doveva avvenire attraverso un dialogo
nazionale avviato dal capo dello Stato nel giugno 2022, ma – a differenza del 2014
– la consultazione si è rivelata un processo affrettato, tecnocratico e poco parteci-
pativo. La bozza è stata redatta in poche settimane da una commissione di esperti
nominati personalmente da Saïed, estromettendo numerosi partiti; diverse forze
politiche e della società civile avevano esortato a boicottare il referendum costitu-
zionale, de!nendo il testo «a misura del presidente». In mancanza di quorum, il
referendum ha sancito l’approvazione del nuovo testo costituzionale con il 94,6%
di voti favorevoli, nonostante l’af"uenza si sia attestata intorno al 30,5% – minimo
storico nel paese. Dal 18 agosto 2022 la Tunisia ha quindi una nuova costituzione
che sostituisce quella in vigore dal 2014, aprendo – nelle parole di Saïed – una
fase politico-istituzionale «inedita».
Ad alcuni sembra inopportuno parlare di ritorno alla dittatura presidenziale,
ma è evidente come la costituzione varata da Saïed abbia modi!cato l’assetto poli-
tico-istituzionale rafforzando il potere presidenziale in modo consistente. La nuova
Carta ha infatti abbandonato il sistema misto stabilito dalla costituzione del 2014,
trasformando la Tunisia in una repubblica presidenziale senza meccanismi credibi-
li di controllo. Da più parti è stato sottolineato che il nuovo ordinamento sarebbe
un passo indietro in tema di tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Oltre a indebolire l’indipendenza dei poteri giudiziario e legislativo, il testo – nota-
no Amnesty International e Human Rights Watch – attribuisce al presidente il dirit-
to di dichiarare lo stato d’emergenza senza limiti né controlli; introduce i processi
in Corte marziale anche per casi civili; preclude il diritto di sciopero ai giudici;
eleva i princìpi dell’islam a fonte della legge. Inoltre, non è chiara la riforma delle
istituzioni locali che, contrariamente ai proclami di democrazia dal basso, potrebbe
rafforzare l’esercizio verticistico del potere.

3. La svolta sovranista ha abbracciato anche una retorica di protezionismo


economico e sviluppo endogeno, enfatizzando il rafforzamento dell’industria loca-
le al !ne di promuovere l’occupazione e garantire che le risorse del paese siano 161
LA TUNISIA DI SAÏED GUARDA AI BRICS

utilizzate per il bene del popolo tunisino, non a favore delle potenze straniere. Pur
non avendo mai espresso una politica estera coerente, alcune dichiarazioni pubbli-
che di Saïed hanno fatto luce sulle sue priorità. Un tema della campagna elettorale
portato avanti durante la presidenza è l’attenzione ai partner tradizionali della Tu-
nisia: mondo arabo, Nord Africa e paesi del Mediterraneo. Tuttavia, in un’intervista
del 2019 Saïed sottolineava di non volersi alleare ad alcun paese, rispondendo
solo alla «volontà del popolo [tunisino]. (…) Non piegheremo la testa davanti a
nessuno, tranne che a Dio» 1.
Se da un lato Saïed ha dunque rilanciato la storica politica di non allineamen-
to della Tunisia, dall’altro l’enfasi sugli interessi nazionali ha mutato le relazioni
diplomatiche con quanti hanno interessi strategici nel paese, in primis con la Fran-
cia. Dal colpo di Stato del 2021 le relazioni con Parigi sono state in"uenzate da
diversi fattori, tra cui la volontà di Saïed di rafforzare l’indipendenza decisionale
tunisina e di ridurre l’in"uenza straniera. Le politiche di protezionismo economico
hanno messo per la prima volta in discussione la posizione delle imprese francesi
in territorio tunisino.
Il processo costituente voluto da Saïed si è sviluppato in un contesto socioe-
conomico e #nanziario fortemente compromesso dalla crisi sanitaria e dall’in"azio-
ne prodotta dalla guerra ucraina. A preoccupare sono soprattutto l’aumento del
costo della vita e l’alto tasso di disoccupazione, oltre a un debito pubblico che ha
raggiunto il 100% del pil. In questo scenario, a luglio 2022 hanno preso il via i
negoziati uf#ciali tra il governo tunisino e il Fondo monetario internazionale (Fmi)
per un prestito di quattro miliardi di euro volto a scongiurare il collasso del paese.
La campagna contro il diktat dell’Fmi portata avanti da Saïed dalla #ne del 2022 si
inserisce certamente nel quadro della svolta sovranista, ma l’accordo prevedeva
misure di austerità e politiche di liberalizzazione tra cui il congelamento dei salari
pubblici, il blocco delle assunzioni e la privatizzazione di società statali. Ancora
prospettive negative per le classi sociali più deboli, che nell’ultimo anno hanno
aumentato vertiginosamente le fughe disperate in mare.
Malgrado l’impegno dell’Italia per garantire una rinegoziazione del prestito –
rinvigorito dalla visita di Giorgia Meloni a Tunisi – e «salvare la Tunisia dal baratro»,
non è illogico ritenere inaccettabili le condizioni del Fondo, che in passato hanno
contribuito a impoverire ulteriormente i settori più vulnerabili della popolazione. Se
però le alternative proposte dal presidente tunisino non sono ancora chiare, com-
presi eventuali avvicinamenti ad altri potenziali creditori come Cina e Russia, le in-
tenzioni dell’Italia paiono concentrarsi esclusivamente sull’arginamento del pericolo
migratorio anziché sulla necessità di sanare le ferite socioeconomiche del paese.
La questione migratoria è al contempo oggetto di attenzione delle potenze eu-
ropee e centro della propaganda tunisina. Al termine di un incontro (giugno 2023)
a Tunisi con i ministri dell’Interno francese e tedesco nell’ambito degli sforzi europei
per prevenire gli attraversamenti del Mediterraneo, Saïed ha dichiarato che la Tuni-

162 1. «Intervista integrale a Kaïs Saïed», acharaa.com, 12/6/2019 (in arabo).


AFRICA CONTRO OCCIDENTE

sia «non è la guardia di frontiera dell’Europa e non accetta di diventare un paese


rifugio» 2. Dichiarazione che rivela il timore che la Tunisia diventi bacino di «sostitu-
zione etnica» a vantaggio dei migranti subsahariani 3. Nel discorso pronunciato alla
riunione del Consiglio di sicurezza nazionale del 21 febbraio 2023, Saïed ha indivi-
duato nei migranti subsahariani una minaccia all’identità arabo-islamica del paese,
peggiorando la già precaria situazione di molti rifugiati. Riferendosi all’arrivo di
«orde di immigrati clandestini», ha sostenuto che questa immigrazione fa parte di
un’«impresa criminale» volta a modi"care la composizione demogra"ca della Tunisia
per offuscarne il carattere arabo-musulmano 4.
Queste parole sono state accolte come appello all’odio dalla popolazione tu-
nisina, scatenando un’esplosione di violenza razzista contro la popolazione sub-
sahariana: gruppi sono scesi in strada e hanno attaccato migranti, studenti e richie-
denti asilo di colore, mentre gli agenti di polizia ne arrestavano ed espellevano
molti. La città di Sfax, hub del paese per le partenze in barca verso le coste euro-
pee, è stata teatro di forti tensioni tra residenti e migranti subsahariani. I disordini
sono rapidamente degenerati in violenze e deportazioni dei migranti nel deserto,
verso la frontiera libica.

4. Il profondo mutamento politico in Tunisia si inserisce nel contesto dello


sconvolgimento geopolitico del Sahel, che pare rimettere in discussione il paradig-
ma del dominio occidentale, specie francese. La Tunisia, considerata dall’epoca del
presidente Zine El-Abidine Ben Ali (1987-2011) «le bon élève» delle politiche di
partenariato dell’Unione Europea, appare oggi in linea con altre realtà regionali –
tra cui la vicina Algeria, legata a doppio "lo con Mosca – nella s"da al vecchio
dominio occidentale, valutando l’adesione all’alleanza capitanata da Cina e Russia
dopo il recente ingresso dell’Egitto 5. Da tempo Tunisi non esclude infatti di rivol-
gersi ai Brics per sottrarsi alla morsa dei prestiti occidentali 6.
Il recente golpe in Niger contro Mohamed Bazoum è un chiaro esempio di
disconnessione brutale dal dominio occidentale. La crisi è scoppiata poco prima
del 3 agosto, giorno della festa nazionale in cui si celebravano i 63 anni dell’indi-
pendenza (nominale) dalla Francia. La folla, sventolando bandiere russe e intonan-
do cori a favore di Vladimir Putin, gridava «abbasso la Francia» mentre ne prendeva
di mira l’ambasciata. La crisi nigerina si inscrive dunque nelle convulse dinamiche
della cosiddetta Françafrique, lo spazio neocoloniale dell’Africa subsahariana basa-
to su legami economici, politici, di sicurezza e culturali incentrati sulla lingua e sui
valori francesi.

2. «Kais Saied: “La Tunisie ne peut être le garde-frontière de l’Europe”», Africa News, 20/6/2023.
3. «Tunisia’s Saied says migration aimed at changing demography», Al Jazeera, 22/2/2023.
4. «Tunisia: Saied’s words “have done a lot of harm” – OIF», Africa News, 14/3/2023.
5. «L’alleanza Brics si allarga: entrano Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi
Uniti», Il Sole-24 Ore, 24/8/2023.
6. Il 24 agosto 2023 l’Observatoire tunisien de l’économie (Ote) ha pubblicato una nota intitolata «Il
Nordafrica e i Brics: se è “una carta da giocare” per uscire dall’Fmi». Cfr. H. Marzouk, «Ote: la Tunisie
gagnerait à faire partie du groupe Brics», Économiste Maghrébin, 24/8/2023. 163
LA TUNISIA DI SAÏED GUARDA AI BRICS

Nonostante il ritiro dal Mali e la !ne dell’Operazione Barkhane, la Francia


conserva del resto una guarnigione di 1.500 soldati in Niger, insieme a una base
aerea per caccia e droni da combattimento.
Tutto ciò ricorda con forza che, malgrado la lunga e sanguinosa decolonizza-
zione, Parigi ha mantenuto un semi-impero in Africa, soprattutto nella regione
saheliana, dove l’estrazione dell’uranio rappresenta il maggior interesse da proteg-
gere. Il 4 maggio 2023 la multinazionale francese Orano (ex Areva) ha siglato un
«partenariato globale» con il Niger per estendere lo sfruttamento dei giacimenti di
uranio sino al 2040 7. Lo sfruttamento riguarda la miniera a cielo aperto controllata
da Somaïr, compagnia nigerina che concentra le attività nella città di Arlit, regione
di Agadez, 1.200 km a nord della capitale Niamey 8. Cinque giorni dopo il Senato
francese approvava una legge per accelerare le procedure di costruzione di nuovi
impianti nucleari 9.
Si può quindi ritenere plausibile un ritiro completo della Francia dall’area? No.
Eppure l’attrattività di nuovi modelli, come quello russo o cinese, è una realtà nel
Sahel. Gli ultimi avvenimenti in Niger sembrano andare nella direzione di un riget-
to totale delle relazioni con l’ex potenza coloniale. Il 5 agosto 2023 i golpisti hanno
annullato tutti gli accordi militari con la Francia, chiedendo aiuto ai mercenari del
Gruppo Wagner. Inoltre sono state oscurate le emittenti France24 e Radio France.
Questi sviluppi hanno sancito il #op dei tentativi di negoziato delle Nazioni
Unite e dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), che si
è detta pronta a intervenire militarmente. Contro l’intervento militare pesa la voce
critica dell’Algeria, che condivide circa mille chilometri di con!ne con il Niger e
rappresenta un al!ere della narrazione «antifrancese» nell’Unione Africana. Il 23
agosto, a quasi un mese dal colpo di Stato contro Bazoum, alcuni media algerini
hanno denunciato l’imminenza di un intervento militare francese, smentito dall’Eli-
seo.
In un quadro di profonda instabilità socioeconomica interna, la Tunisia non si è
esposta sulla situazione in Niger. Resta però saldamente nell’orbita di Algeri, soste-
nendola in alcune battaglie politiche – come la legittimazione del Fronte Polisario 10
– e ricevendone prestiti generosi, che le hanno !nora permesso di restare a galla 11.

7. «Niger: Uranium mine set to operate until 2040», Africa News, 4/5/2023.
8. «Orano signe un Accord Global de Partenariat avec l’Etat du Niger», Orano - Comunicato stampa,
4/5/2023.
9. «Projet de loi relatif à l’accélération des procédures liées à la construction de nouvelles installations
nucléaires à proximité de sites nucléaires existants et au fonctionnement des installations existantes»,
Senato della Repubblica Francese, Sessione ordinaria 2022-2023, 9/5/2023.
10. «Morocco recalls Tunisia ambassador over Western Sahara», Reuters, 27/8/2022.
164 11. «Tunisie: un rapprochement avec Alger au parfum de dépendance?», Tv5 Monde, 18/1/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Parte II
OCCIDENTI SBANDANO
RUSSIA GODE
TURCHIA PROFITTA
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

SMETTIAMO DI GIOCARE
AI PICCOLI FRANCESI di Fabrizio MARONTA
Il golpe in Niger, ultimo (?) effetto dell’operazione anti-Gheddafi,
mette in crisi il nostro approccio al Sahel. Le contraddizioni del
tentativo di estrarre risorse e frenare le migrazioni dall’Africa. Che
ne sarà del Piano Mattei? Basta combattere le guerre di Parigi.

1. E « FFETTO DOMINO» SUONA VAGAMENTE


desueto in geopolitica. Nella guerra fredda la locuzione indicava il timore statuni-
tense che l’instaurazione di regimi (!lo)comunisti in uno o più paesi, soprattutto
asiatici e africani, facilitasse analoghi esiti altrove. Complici – o malgrado – le stra-
tegie americane di contenimento e rollback, questo fantasma non si materializzò
mai. Ironicamente, tra il 1989 e il 1991 l’effetto domino ebbe anzi sbocco opposto:
la rapida caduta di tutte le tessere del Patto di Varsavia e, da ultimo, dell’impero
sovietico. Tramontata la minaccia rossa il concetto è stato con sollievo accantonato,
a favore della promettente idea di democratizzazione associata alle fulgide prospet-
tive di una storia prossima alla !ne.
Nel Sahel, regione africana eletta da americani ed europei a nuovo fulcro stra-
tegico tra i molti della policentrica geopolitica odierna, l’effetto domino consuma
la sua vendetta postuma. O forse, semplicemente, si palesa a sguardi sin qui assor-
biti da onerose distrazioni. Mentre Washington si dissanguava nelle forever wars
mediorientali, con il seguito di alleati europei (italiani inclusi) chiamati a raccoglier-
ne i cocci sotto bandiera Nato, l’ondata delle «primavere arabe» (2010-12) partita
dalla Tunisia provvedeva a destabilizzare il Levante e l’affaccio mediterraneo del
continente africano. È forse troppo deterministico e dietrologico leggere nella so-
lenne promessa occidentale di sostegno ai popoli afghano e iracheno contro le
rispettive tirannie il motore primo dello Zeitgeist che ha indotto i giovani tunisini,
egiziani, libici, siriani e yemeniti a innescare le scintille delle loro guerre civili, poi
avocate da altri attori e piegate a meno alte cause.
Certo è che la cattura ed esecuzione di Muammar Ghedda! (ottobre 2011) con
il determinante concorso di Parigi, Londra e (suo malgrado) Roma, previa «leader-
ship da dietro» americana, ha avviato una dinamica destrutturante – "usso di armi
e miliziani, frazionamento istituzional-territoriale, con"ittualità endemica – che da 167
SMETTIAMO DI GIOCARE AI PICCOLI FRANCESI

allora investe la regione saheliana. Una dinamica che vede cadere, come tessere,
tutti i paesi – Mali, Burkina Faso, ultimo il Niger – su cui Francia e Italia (più di
altri) avevano puntato in chiave di stabilizzazione delle con!nanti aree maghrebina
e subsahariana. Il Niger, sotto questo aspetto, appare la chiave di volta capace di
far crollare l’intero, traballante edi!cio, portandosi dietro i nostri interessi strategici.
Interessi che, ieri come oggi, sono sintetizzabili nel binomio risorse-migranti.

2. Sono questi, infatti, i due poli del futuribile Piano Mattei annunciato dal
presidente del Consiglio Giorgia Meloni sulla scia del predecessore Mario Draghi,
che lo abbozzò in piena emergenza energetica poco dopo l’invasione russa dell’U-
craina. Meloni e Draghi, come tutti prima di loro, fanno i conti con le ineludibili
caratteristiche geogra!che e geologiche dell’Italia. Paese proiettato sulla frontiera
liquida, alias Mediterraneo, che separa la variegata Caoslandia dall’altrettanto ete-
rogenea, ma ben più stabile e ricca Ordolandia; penisola povera di materie prime,
che è costretta a importare per darsi un’economia industriale degna del nome. Ai
tradizionali idrocarburi oggi si aggiungono gli altri minerali e metalli più o meno
rari necessari all’elettri!cazione e alla decarbonizzazione, dunque all’enorme parti-
ta industriale e tecnologica che sottende la cosiddetta transizione energetica.
Nel Piano Mattei, migranti e risorse sono inversamente correlati. Nello scenario
ideale, il piano mira a limitare l’af"usso dei primi massimizzando il reperimento
delle seconde attraverso la sponda Sud del Mediterraneo. A tal !ne l’area denomi-
nata Sahel (dall’arabo såõil, «bordo del deserto»), che individua in primo luogo
Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, lambendo altresì
Nigeria, Camerun, Sudan ed Eritrea, è cruciale. Bisecando il continente dall’Atlan-
tico al Mar Rosso, quest’ampia fascia semiarida di oltre 3 milioni di kmq è il pas-
saggio obbligato da/per l’immensa Africa subsahariana, che ospita il grosso della
popolazione (1,5 miliardi di anime nel 2050 da proiezioni Onu, su un totale di
circa 2 miliardi) e delle risorse africane. Ma la sua instabilità si riverbera anche sul
Nord Africa, in primis sul Maghreb, il cui equilibrio è già compromesso dall’ende-
mico caos libico e dall’incertezza sociale, economica e politica che attanaglia Tuni-
sia e Algeria.
Senza contare che lo stesso Sahel, specie la fascia settentrionale, alberga cospi-
cue risorse naturali: gas e petrolio, ma anche oro, bauxite e uranio. Quest’ultimo è
tanto più strategico alla luce della rinnovata importanza attribuita al nucleare nel
processo di decarbonizzazione, nonché del ruolo di primo piano svolto da Rosa-
tom (Russia) quale fornitore mondiale di combustibile nucleare (anche) agli Stati
Uniti, ansiosi di ridurre l’incresciosa dipendenza 1.
Quanto ai "ussi migratori dall’Africa, il Niger è tra i paesi che più attestano
come il Mar Mediterraneo resti l’ultimo tassello di una dinamica molto più ampia e
articolata. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) classi!ca il Ni-
ger paese di «partenza, transito e destinazione»: dei circa 400 mila nigerini che vi-
1. M. BEARAK, «The U.S. Is Paying Billions to Russia’s Nuclear Agency. Here’s Why», The New York
168 Times, 14/6/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

vono all’estero, 170 mila circa sono in Libia dove formano la comunità straniera più
numerosa. Dal Niger passa anche la quasi totalità dei !ussi provenienti da Ciad,
Nigeria, Benin, Burkina Faso e Mali, nonché quote consistenti di quelli che origi-
nano in Mauritania, Senegal, Guinea, Costa d’Avorio e Ghana e che, attraverso il
Sahara – barriera non meno letale del Mediterraneo, di norma affrontata dalla por-
ta di Agadez – puntano a nord, soprattutto verso Libia e Tunisia. Lo stesso Niger
ospita circa 300 mila richiedenti asilo, quasi tutti dalla Nigeria 2.
Non a caso, nel dicembre 2022 a Roma il presidente nigerino Mohamed Ba-
zoum era ospite di un convegno della fondazione Med-Or alla presenza, tra gli altri,
dei ministri Guido Crosetto (Difesa) e Matteo Piantedosi (Interno). Mentre lo scorso
luglio, poco prima del golpe che lo ha deposto, era alla Farnesina insieme al suo
omologo mauritano, unici capi di Stato saheliani presenti. Contestualmente il mini-
stero degli Esteri lanciava nuove «iniziative di contrasto al traf#co di esseri umani in
Libia e Niger», destinando 8,5 milioni di euro a Tripoli e 7,5 milioni a Niamey 3.

3. Queste e altre azioni rappresentano il culmine di uno sforzo economico,


militare e diplomatico intrapreso all’indomani della rimozione violenta di Ghedda#
e andato crescendo nel tempo; sforzo cui la guerra ucraina ha dato ulteriore, forte
impeto. In particolare, il pro#lo militare ha assunto via via un ruolo prevalente sia
in termini assoluti sia relativamente al complesso dell’esposizione italiana nell’area.
Preso atto che l’instabilità saheliana si proietta a nord e a sud della regione e che il
con!itto libico l’alimenta, negli ultimi anni Roma ha puntato sull’assistenza militare
ai governi locali nel contrasto ai gruppi armati, al jihadismo e alle (di norma con-
nesse) attività di contrabbando e traf#co transfrontaliero di droga, armi e migranti.
Oggi le forze italiane integrano svariate missioni su suolo africano: quattro bilatera-
li (Miasit in Libia, la forza di stabilizzazione Mfo tra Egitto e Israele, Miadit 18 in
Somalia, Misin in Niger) e quattro in ambito Ue (Eucap Somalia, Eutm Somalia,
l’Operazione Atalanta sempre in Somalia, Eucap Sahel, Eump Niger). A queste #no
a poco tempo fa si aggiungeva Minusma, la missione Onu di stabilizzazione in Ma-
li, il cui ritiro è stato accelerato dai crescenti problemi di sicurezza nel paese.
Al di là dei singoli contesti e delle speci#che esigenze operative, il !l rouge
degli interventi è stato #n dall’inizio l’addestramento delle forze regolari a #ni con-
tro-insurrezionali e di controllo del territorio, in chiave di consolidamento dei go-
verni locali e di aumento della – di norma assai scarsa – capacità d’esercizio della
sovranità entro i con#ni statali. Più che deludente, il risultato appare paradossale:
prima di quello nigerino, il Sahel ha visto altri quattro colpi di Stato recenti, due in
Mali (agosto 2020, maggio 2021) e due in Burkina Faso (gennaio e settembre
2022) 4. Tutti i casi – al pari dell’ultimo, in Niger – hanno visto protagonisti gli eser-
citi locali armati e addestrati con il forte concorso occidentale.

2. G. MERLI, «Nel Sahel l’Italia e la Ue usano il Niger per fermare e rimpatriare i migranti», il manifesto,
5/8/2023.
3. Ibidem.
4. «Before Niger, several recent coups in the Sahel», Africa News, 27/7/2023. 169
SMETTIAMO DI GIOCARE AI PICCOLI FRANCESI

Insieme alla scommessa securitaria, andava crescendo l’impegno economico


italiano nel Sahel e nel resto del continente. Ne è emblema il moltiplicarsi negli
ultimi dieci anni delle rappresentanze Ice (Agenzia per la promozione e l’interna-
zionalizzazione delle imprese italiane all’estero) in Africa, dall’unica del 2013 in
Sudafrica alle otto del 2023 (con aggiunta di Ghana, Etiopia, Senegal, Nigeria, An-
gola, Mozambico e Kenya), tutte in area subsahariana. Alle presenze storiche – i
grandi gruppi energetici, su tutti Eni, e i consorzi edili – si sono aggiunte piccole e
medie aziende dell’agroalimentare, della farmaceutica, del tessile, della componen-
tistica e dei macchinari 5.
Tuttavia, il grosso dell’interscambio Italia-Africa – che ha toccato i 68 miliardi
di euro nel 2022 – continua a farlo l’approvvigionamento energetico. A impennar-
si l’anno scorso è stato infatti il nostro import dal continente, quasi raddoppiato a
47 miliardi di euro. La cifra ha remunerato in gran parte gas sostitutivo di quello
russo estratto in Algeria, Libia, Egitto, Angola, Mozambico, Gabon, Ghana e Congo.
Dominato dall’energia resta anche il "usso italiano di investimenti in Africa, negli
ultimi anni diretti soprattutto allo sviluppo dell’offshore egiziano da parte di Eni 6.
Questi dati mostrano come, anche e soprattutto sulla scia della guerra ucraina,
la dimensione economica della presenza italiana in Africa, Sahel incluso, rimanga
incentrata sulla sicurezza energetica, raison d’être del Piano Mattei e altra faccia
dell’approccio militare – dunque, securitario – che ha caratterizzato l’azione di Ro-
ma nella regione. Per Meloni come per Draghi, l’idea di fondo sembra quella di
volgere in opportunità l’enorme rischio posto dal venir meno del business energe-
tico as usual con Mosca. Non senza contraddizioni. La scomparsa del gas russo
promette infatti, nel migliore degli scenari (per noi), di ricon#gurare i "ussi ener-
getici europei dall’asse Est-Ovest a quello Sud-Nord, rendendoci hub continentale
dell’energia africana in sostituzione dell’analogo ruolo svolto sin qui primariamen-
te dalla Germania e, in misura minore, da Paesi Bassi e Austria. Ma quale energia?
Nell’immediato il gas, in prospettiva – Draghi dixit 7, Meloni reitera 8 – anche
«le enormi potenzialità delle rinnovabili» africane, su tutte il fotovoltaico. Da qui la
riproposizione del cavo sottomarino Elmed tra Tunisia e Sicilia: progetto vecchio
di vent’anni originariamente pensato per diversi#care i consumi tunisini dipenden-
ti dalla vicina Algeria e creare un surplus elettrico da importare in Italia, ma rima-
sto lettera morta anche per le pastoie burocratiche di Tunisi. S#de tecniche a
parte (legate soprattutto alla dispersione di un simile elettrodotto), nell’odierna
frenesia da decarbonizzazione-rilocalizzazioni questa ratio si scontra con la dichia-
rata volontà di sviluppare le rinnovabili in Sicilia e in Calabria, il cui auspicato
surplus generativo rischia così di entrare in concorrenza con quello tunisino, cau-
sando più problemi che soluzioni. L’ideale sarebbe che l’import elettrico dalla
5. M. ZAURRINI, «Commercio, investimenti e presenza economica italiana in Africa: come sta cambian-
do?», Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), 12/7/2023.
6. Ibidem.
7. «Questa è l’Europa - Discussione con Mario Draghi, presidente del Consiglio dei ministri italiano»,
Parlamento europeo (Strasburgo), Resoconto integrale, 3/5/2022.
170 8. «Meloni: “Promuovere un Piano Mattei per l’Africa”», RaiNews, 25/10/2022.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Tunisia, sommandosi al surplus siculo-calabro, alimentasse l’industria del Mezzo-


giorno e la decarbonizzazione del Centro-Nord 9. Con andreottiana malizia, a sud
di Eboli si teme che il secondo obiettivo "nisca per obliterare il primo, trasforman-
do il Meridione in una sottostazione elettrica del Nord e perpetuando gli annosi
squilibri territoriali.

4. Incongruenze a parte, il caos in Niger rischia ora di vani"care anni di pre-


senza italiana nel Sahel, a sua volta inserita in uno schema euro-americano – me-
glio: franco-statunitense – che ha caparbiamente perseguito l’opposto di quanto si
sta veri"cando. Fino a ieri Parigi, Roma e Washington versavano nel complesso
circa 2 miliardi di dollari l’anno 10 nelle casse di Niamey, tra aiuti militari e allo svi-
luppo. Fragile democrazia in un panorama di dittature, il Niger è assurto ad avam-
posto occidentale nel Sahel, tanto che nell’aprile 2021 l’allora ministro della Difesa
Lorenzo Guerini annunciò l’avvio dei lavori, nell’ambito della missione Misin, per
la costruzione di una base militare interamente italiana nel paese 11, la prima in
Africa occidentale.
Ora il manufatto, pressoché ultimato, rischia di assurgere a emblema di un
colossale fallimento. Il Sahel rasenta l’ennesima guerra, ma su scala più vasta, se
l’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) facesse seguito
alle minacce del suo attuale presidente, il nigeriano Bola Tinubu, di ripristinare
l’ordine costituzionale in Niger mediante un intervento militare. Tanto più se que-
sto trovasse il sostegno occidentale, in particolar modo di una Francia nuovamente
spiazzata dagli eventi e angosciata dalla deriva della Françafrique.
Anche in assenza di un con#itto aperto, il cronicizzarsi di un’alta instabilità
complica ulteriormente la vita ai governi dei paesi – dall’Algeria alla Tunisia, pas-
sando per l’Egitto "no al simulacro di Stato libico – su cui Roma punta come part-
ner essenziali dello sforzo di sostituzione permanente del gas russo con energia
made in Africa. Tale sforzo presuppone la passabile stabilità della regione e delle
sue relazioni con l’Italia, più in generale con la sponda Nord del Mediterraneo,
specie con riferimento allo spietato traf"co di migranti che – Libia docet – trae
enorme vantaggio dal caos e dalla labilità istituzionale, viatico di corruzione ed
estese complicità.
Urge una correzione di rotta, tardiva ma auspicabilmente non vana, che per
non sfociare in naufragio deve tener conto degli errori sin qui commessi. Ci per-
mettiamo di evidenziarne due, legati ma discernibili per tempi, luoghi ed entità. Il
primo errore, il più grande, lo abbiamo commesso in Libia. Dopo aver in gran
parte subìto la rimozione di Ghedda" per mano di un duo franco-britannico mosso
da pavloviano ri#esso neocoloniale e sostenuto da un’America riottosa, cui ci sia-
9. F. SASSI, «È possibile un modello virtuoso di cooperazione energetica tra Italia e Africa?», Ispi,
12/7/2023.
10. «Niger loses aid as Western countries condemn coup», Nbc News, 29/7/2023.
11. A. MAZZEO, «Prima base interamente italiana nell’Africa occidentale. Mai discussa in Parlamento»,
Pagine Esteri, 29/12/2021. 171
SMETTIAMO DI GIOCARE AI PICCOLI FRANCESI

mo aggregati in extremis per non restare esclusi da eventi destinati a investirci, ne


abbiamo ignorato gli esiti. Subire gli sbagli altrui non autorizza a metterci del pro-
prio. Invece abbiamo deciso che la brutale guerra civile precipitata dal collasso
della Ãamåhiriyya – con il nostro, ancorché non entusiastico, concorso – non ci
riguardava, lasciando ad altri riempire quel vuoto. La storia è nota: la Turchia si
installava a Tripoli, difendendo con le sue armi il governo libico internazionalmen-
te riconosciuto; la Russia, via Gruppo Wagner, metteva radici nell’Est e palesava
così il recidivo velleitarismo di Parigi, intenta a sostenere con scarsi mezzi il cire-
naico sbagliato (al secolo, generale Œaløfa Õaftar). Frattanto, gli incustoditi arsenali
libici vomitavano !umi di armi, che imbracciate dai mercenari saheliani al soldo
del fu tiranno alimentavano le guerre saheliane, a partire dal Mali.
Qui subentra il secondo errore, che si somma al primo e ne ampli!ca gli effet-
ti. Consciamente o meno, abbiamo compartecipato di un gigantesco abbaglio che
ha scambiato la causa prima – il caos libico e i suoi riverberi – per l’effetto – l’insta-
bilità in Mali, poi in Burkina Faso e ora in Niger. Avendo spinto la prima, colossale
tessera del domino ci siamo affannati a puntellare le altre, che però hanno !nito
per schiantarsi. Nel farlo, abbiamo pensato di poter coniugare l’interesse nazionale
– controllo dei "ussi migratori, specie dalla «crisi dei migranti» del 2015; approvvi-
gionamento energetico, specie dallo scoppio della guerra ucraina – con l’appease-
ment di una Francia determinata a restare «potenza africana» imponendo la propria
volontà e i propri, disastrosi errori. Un prezzo, questo, che Roma ha forse giudica-
to necessario per condurre in porto il trattato del Quirinale (novembre 2021), fun-
zionale allo sforzo di controbilanciamento dell’austerità contabile tedesca.
Ciò ha comportato assecondare le scelte – sbagli compresi – francesi nel Sahel:
come in Mali, dove i nostri soldati si sono trovati a fronteggiare il caos dopo la
fallimentare prova e il conseguente ritiro di Parigi. Così facendo, abbiamo in parte
compromesso l’immagine di attore «disinteressato» che ci deriva dall’assenza di un
protratto legato coloniale, associandoci a posture percepite dagli attori locali come
improntate a un anacronistico, sfrontato neocolonialismo. Fattore che ha avuto il
suo peso nel risentimento all’origine dei golpe, compreso quello nigerino 12. Ma
soprattutto, abbiamo contribuito ad armare le mani che ora destabilizzano ulterior-
mente la regione, disperdendo il nostro strumento militare con un uso che rischia
di rivelarsi astrategico, al limite controproducente.

5. Che fare? Premesso che il latte è versato, possiamo – dobbiamo – provare a


salvare il salvabile.
Primo: evitare accuratamente qualsiasi sostegno, economico e/o militare, a
eventuali interventi dell’Ecowas o di altre entità africane in Niger. Anche se questo,
com’è probabile, implica attriti con la Francia. Il punto non è rifuggire la guerra in
quanto tale, bensì evitare di invischiarci in guerre che rischiano di arrecare ulterio-
re danno ai nostri interessi. Nell’immediato, alimentando l’instabilità di una regione

172 12. F. SASSI, «Niger coup is major threat for Italy’s energy “Mattei Plan”», EurActiv, 5/8/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

da cui dipende in non piccola parte l’esito dei dossier migratorio ed energetico, per
noi cruciali. In prospettiva, lasciando strascichi che a quel punto ci vedrebbero
parte in causa, dunque attore non più in grado di spendere alcun tipo di neutralità.
Secondo: rinegoziare i nostri termini di cooperazione con Parigi nel Sahel.
Combattere battaglie perse è ricetta di sicura infelicità. Se è vero per gli Stati Uniti,
il cui amaro redde rationem in Afghanistan è sfociato in una fuga indecorosa e nel
trionfale ritorno dei taliban, lo è tanto più per noi italiani e per i cugini transalpini,
le cui velleità scontano un crescente de!cit di potenza. Le nostre limitate risorse
vanno indirizzate alla cooperazione civile e all’aiuto allo sviluppo, mettendo in
chiaro che sono condizionate ai risultati ma mettendo in conto i limiti di questa
forma di condizionamento. Ciò non esclude l’ambito securitario, soprattutto per
quanto attiene il controllo dei con!ni e dei relativi traf!ci, ma senza perniciose
ipocrisie e soprattutto senza inseguire altri su terreni troppo ostici. In chiaro: non
ha molto senso armare e addestrare aspiranti golpisti in Sahel dopo aver lasciato al
suo destino il governo tripolino, pur legittimo, dando mano libera ai ben più disin-
volti russi e turchi. E suona beffardo promettere alla stremata Tunisia – di cui pure
celebriamo a intermittenza il coraggio democratico – poco meno di 700 milioni di
euro, di cui un centinaio subito e gli altri chissà, quando dal 2016 l’esecrato Recep
Tayyip Erdoãan ne ha incassati circa sei miliardi 13 per fare della Turchia il nostro
campo profughi.
Considerare l’Africa maghrebino-saheliana un caso clinico al pari di Afghani-
stan e Iraq non vuol dire solo fare l’ennesimo torto a «paesi in via di sviluppo» (si
noti il delicato eufemismo a fronte del sostanziale disinteresse). Vuol dire anche
spararci sui piedi, perché con la sola repressione dif!cilmente si sopprime una
spinta migratoria che nasce dal mix di sottosviluppo e sovrademogra!a. A questi
paesi chiediamo risorse e controllo migratorio, dunque accondiscendenza e, in
certa misura, repressione. In cambio è ora di offrire un rapporto che, sebbene og-
gettivamente ineguale, miri a ricomporre per quanto possibile lo iato di sviluppo
tra «noi» e «loro». Af!nché loro non vedano in noi l’ennesima incarnazione dell’Oc-
cidente predatorio e orientalista, da compiacere (s)vendendo il futuro delle popo-
lazioni locali o da combattere con l’interessato e non gratuito aiuto dei terzomon-
disti di turno, vecchi (Russia) e nuovi (Cina).
Ultimo, ma non ultimo: se c’è un luogo, nell’area saheliano-maghrebina, in cui
l’uso dello strumento militare in chiave di stabilizzazione e ausilio all’autorità legit-
tima (non per questo necessariamente presentabile) resta per noi valido e sensato,
quello è la Libia. Non si tratta di «fare la guerra» ad Ankara e tantomeno a Mosca
per scalzarle dalle posizioni lasciate colpevolmente scoperte un decennio fa, quan-
to di competere con esse – specie con la Turchia – per l’in#uenza in Tripolitania e
in parte nel Fezzan, sfruttandone ogni défaillance e incapacità di corrispondere
alle esigenze, anche di sicurezza, del governo. Immediatamente dopo, in lista,
vengono Tunisia e Algeria: regimi affatto diversi, ma accomunati dall’assoluta sa-

13. «Quanto ha pagato la Ue per bloccare i profughi in Turchia», Key4Biz, 13/3/2023. 173
SMETTIAMO DI GIOCARE AI PICCOLI FRANCESI

lienza per i nostri immediati interessi strategici.


Tutto questo non farebbe torto alla condivisibile visione «allargata» del Medi-
terraneo quale regione geopoliticamente più ampia dell’omonimo mare. E sarebbe
forse più in linea con lo spirito di Enrico Mattei, il cui abile e celebrato metodo
coniugava l’audacia con un acuto senso del limite. Aiuterebbe altresì a ricalibrare
le nostre forze e a proporre (opporre) una concezione diversa dell’area maghrebi-
no-saheliana rispetto a quella francese. Una concezione meno ideologica, più dia-
lettica e realistica, con cui articolare una differente strategia mediterranea da «ven-
dere» anche a un’America e a una Ue che, al riguardo, brancolano pericolosamen-
te nel buio.

174
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

‘L’Africa è strategica per gli Stati


Uniti, ma non la capiamo’
Conversazione con Tibor NAGY, già assistente segretario di Stato degli Stati Uni-
ti per gli Affari africani (2018-21) e ambasciatore in Guinea (1996-99) e in Etiopia
(1999-2002), a cura di Federico PETRONI e Michael MIKLAUCIC

LIMES Quali sono gli interessi strategici degli Stati Uniti in Africa?
NAGY I nostri interessi strategici in Africa hanno subìto un’incredibile evoluzione
dalla decolonizzazione a oggi. Inizialmente, il continente contava per la competi-
zione geopolitica con l’Unione Sovietica. Ma ora è diventato importante di per sé,
non in relazione a qualcun altro, a causa di almeno tre forze in gioco. Una è il
cosiddetto tsunami giovane. La popolazione raddoppierà nei prossimi cinque o sei
decenni: capire che cosa succederà con centinaia di milioni di africani in più è
molto importante per noi. Un’altra sono le risorse: l’Africa è l’Arabia Saudita del
XXI secolo per le materie prime necessarie all’economia dell’elettricità: terre rare,
gra!te, litio eccetera. La Cina controlla la maggior parte di queste risorse attraverso
giacimenti, impianti di raf!nazione oppure contratti con paesi fornitori come la
Repubblica Democratica del Congo. Se vogliamo essere un attore industriale di
rango, dobbiamo stabilire relazioni in questo settore con i paesi africani. In!ne, il
livello diplomatico: l’Africa ha più rappresentanze di qualunque altro continente
nelle istituzioni multilaterali e gli Stati africani tendono a votare all’unisono. Conta
nella partita per le regole del sistema internazionale.
LIMES Quali soni i paesi più importanti per gli Stati Uniti?
NAGY Gibuti è uno degli appezzamenti di terra di maggior valore al mondo per via
della sua posizione lungo le rotte marittime. Conterebbe molto meno se fosse nel
mezzo del Sahel. Per il resto, le priorità cambiano letteralmente di anno in anno, a
volte di mese in mese. Ovviamente ogni regione ha il suo Stato àncora: Sudafrica,
Nigeria, Etiopia, Kenya, Repubblica Democratica del Congo. Ma poi anche un pic-
colo paese può essere strategicamente importante all’improvviso a causa di crisi o
di mosse altrui.
175
‘L’AFRICA È STRATEGICA PER GLI STATI UNITI, MA NON LA CAPIAMO’

LIMES La strategia americana mira a evitare che una potenza assuma il controllo
dell’Eurasia. Russia e Cina però hanno esteso il campo di gioco all’Africa. Che im-
patto ha sulla strategia americana?
NAGY È un fattore importante. Anche se dobbiamo differenziare tra Russia e Cina.
Mosca è un’opportunista di breve periodo, che cerca di aumentare la propria in-
!uenza in Africa attraverso i legami d’epoca sovietica e di danneggiare gli interessi
americani o di paesi europei come la Francia. Pechino invece è la minaccia di lungo
periodo per il dominio globale degli Stati Uniti e per il sistema post-seconda guerra
mondiale che abbiamo creato. Per ora la sua unica base all’estero è a Gibuti, ma la
sua Marina cerca avamposti anche sull’Atlantico per essere in grado di minacciare il
nostro raggio globale. L’Africa occidentale presenta ottime opportunità per i cinesi
perché, a differenza di noi americani, riconoscono il valore dei piccoli paesi. Quell’a-
rea è piena di Stati che possono essere in!uenzati senza grande sforzo: Guinea
Equatoriale, Guinea Bissau, São Tomé e Principe, posti in cui gli Stati Uniti hanno
una presenza minima ma di cui la Cina coglie il valore strategico. Visto che noi li
ignoriamo, come abbiamo ignorato molti Stati insulari del Paci"co, dobbiamo rin-
correrli. È un interesse strategico, ma non direi che è una priorità assoluta.
LIMES Perché avete lasciato che russi e cinesi penetrassero liberamente in Africa?
NAGY Abbiamo dormito. Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti erano molto ben
equipaggiati per combattere l’in!uenza sovietica in Africa. Avevamo una strategia,
ottime attività di diplomazia pubblica, risorse adeguate ad affrontare quella che
chiamavamo la grande bugia del comunismo. Poi abbiamo prosciugato le amba-
sciate "no al minimo in termini di personale e di budget. Abbiamo permesso alla
Russia di dipingerci come forza maligna, egoista, colonialista.
Le abbiamo permesso di riempire un vuoto anche a livello militare. Se io fossi un
governo africano e cercassi assistenza bellica, gli Stati Uniti sarebbero la mia ultima
scelta. Se chiedo una "onda agli americani, mi arriva in sei mesi. Se la chiedo ai
russi, mi arriva in una settimana, con tanto di addestratori. Magari gli equipaggia-
menti fanno schifo, ma non ci mettono una vita. Il Gruppo Wagner è una storia di
successo. Si è inserito in teatri in cui c’erano tante altre forze in gioco, dalle Nazio-
ni Unite ai francesi, a volte gli americani. Ma quando uno Stato vuole fare qualcosa,
va da Wagner perché non la tira per le lunghe.
I cinesi invece sono ef"caci sul lato economico. Quando ero assistente al segretario
di Stato, dicevo ai leader africani che non li biasimavo certo perché facevano affari
con Pechino. Per anni gli unici a bussare alla loro porta sono stati i cinesi. Poi im-
provvisamente ci siamo svegliati e abbiamo realizzato che la Repubblica Popolare
aveva costruito tutte le infrastrutture e fornito tutte le strumentazioni per le teleco-
municazioni. Al dipartimento di Stato, il mio compito era dissuadere i governi africa-
ni dal comprare Huawei. Logicamente, mi rispondevano: bene, allora cosa ci vende-
te? Non avevamo alternative concrete. Inoltre, quando i cinesi fanno affari si presen-
tano con tutti gli aspetti "nanziari già pronti. Oggi, forse, i governi africani stanno
realizzando che le vere bene"ciarie delle nuove vie della seta sono state le imprese
176 cinesi, per vendere il loro surplus produttivo. E forse anche che quello che hanno
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

comprato non è poi di gran qualità. Ma anche qui conta che hanno avuto quel che
cercavano. Non possiamo competere così: è come avere non una ma due mani le-
gate dietro la schiena.
LIMES Cosa dovreste fare per presentarvi meglio in Africa?
NAGY Dovremmo competere meglio nell’ambito della diplomazia pubblica. Sarem-
mo in grado di farlo, se solo avessimo la volontà. Dovremmo avere una campagna
strategica centralizzata, riaumentare il personale delle ambasciate, rispondere alle
bugie russe e alle selvagge esagerazioni dei cinesi sull’America. Si potrebbe fare
abbastanza velocemente.
Sul lato economico. Io ho fatto parte della precedente amministrazione e conside-
ravamo scambi commerciali e investimenti come una priorità apicale. Avevamo
messo in piedi un’organizzazione chiamata Prosperous Africa che l’amministrazio-
ne Biden ha saggiamente tenuto in piedi. Se espansa come immaginavamo, potreb-
be essere un catalizzatore delle attività economiche nel continente. Ma qui si torna
al primo punto: gli accordi devono essere sostenuti sul terreno dalle ambasciate.
Finché le delegazioni cinesi sono cinque volte più numerose, sul versante degli
investimenti non c’è gara.
LIMES L’Africa sta sostituendo il Medio Oriente come teatro principale del jihadismo?
NAGY Sì, ma non sono sicuro di che cosa possiamo fare. La nostra assistenza alla
sicurezza non è coordinata in una più ampia strategia contro l’estremismo violento.
Sul lato militare, aiutiamo i paesi a liberarsi dai cattivi, ma se subito dopo non ci
mettiamo un sistema che fornisce servizi e opportunità economiche lasciamo solo
un vuoto che viene riempito da gente ancor più cattiva. Un esempio lampante è la
Somalia. Quando ero ambasciatore in Etiopia, c’era al-Ittiõåd al-Islåmø, che andava
debellato. Poi vennero le Corti islamiche, ancora più cattive. Debellate queste, ven-
ne al-Šabåb, di male in peggio. Non si può scon"ggere l’estremismo soltanto con
mezzi militari. Deve essere uno sforzo coordinato. Anche col governo locale: se è
corrotto, inef"cace e antidemocratico, la nostra assistenza sarà un fallimento.
LIMES Cosa cambierebbe dell’assistenza militare ai paesi africani?
NAGY Il modo in cui misuriamo i dati. Quando ero assistente al segretario di Stato
volevo sapere se le operazioni antiterrorismo nel Sahel stessero avendo successo. Il
mio staff mi rispondeva di sì perché nel 2019 avevamo addestrato 3 mila persone in
Mali e nel 2020 5 mila. Quando invece chiedevo quanti chilometri quadrati in meno
occupassero i nemici, cascavano le mascelle. Dobbiamo avere basi più concrete per
valutare la nostra assistenza militare. Non m’interessa quanti uf"ciali forniamo negli
Stati Uniti, anche perché alcuni dei responsabili dei golpe li abbiamo addestrati noi.
LIMES Ci sono prove che in Africa gli aiuti allo sviluppo abbiano generato meno
violenza o migliori istituzioni?
NAGY No, nessuna. Sono un oppositore dell’assistenza allo sviluppo sin dal mio
primo viaggio in Africa. Un ministro di un paese africano una volta chiamò un
brindisi: agli ultimi cinquant’anni di cooperazione e ai prossimi cinquanta. Quando
i governi iniziano a mettere sistematicamente nei loro bilanci annuali una certa
percentuale di entrate derivante dagli aiuti stranieri, c’è un problema. Vorrei che 177
‘L’AFRICA È STRATEGICA PER GLI STATI UNITI, MA NON LA CAPIAMO’

ogni agenzia statunitense si desse criteri più precisi e fosse pronta a staccare la
spina, se necessario. I cinesi non fanno assistenza allo sviluppo, eppure vengono
applauditi perché generano sviluppo.
LIMES Perché il golpe in Niger è così importante per gli Stati Uniti?
NAGY Per vari motivi. In Niger c’era stato un trasferimento di potere relativamente
pulito da un governo civile a un altro attraverso un’elezione. Inoltre, le Forze armate
nigerine hanno ricevuto un considerevole addestramento da parte nostra, operano
in maniera relativamente professionale e stanno conseguendo qualche successo nei
confronti degli estremisti. In!ne, stava avvenendo una riconciliazione tra il Nord e il
Sud del paese. Lo stesso presidente deposto Bazoum appartiene a una delle etnie
settentrionali svantaggiate. Insomma, dal nostro punto di vista questa vicenda signi-
!ca che se puoi fare un colpo di Stato in Niger puoi farlo praticamente ovunque.
LIMES Considera il golpe un golpe, a differenza del governo del suo paese che non
lo de!nisce come tale?
NAGY Sì, è un colpo di Stato. E ritengo che gli Stati Uniti dovrebbero cambiare il
divieto di trattare con regimi golpisti. Dobbiamo essere un po’ più so!sticati e guar-
dare alle situazioni speci!che senza farci imprigionare da de!nizioni e tabelle. Pren-
diamo il Gabon: c’era una famiglia al potere da 56 anni, sicuramente la popolazione
non aveva la possibilità di esprimersi. Se i militari si stufano e rovesciano il regime,
devi trattare il caso in modo diverso da uno in cui c’è un minimo di democrazia. In
Niger il colpo di Stato ha interrotto un processo relativamente democratico e corret-
to, anche se ovviamente non parliamo della Svezia. Ma se ogni volta, senza consi-
derare la speci!cità del caso, interrompiamo i rapporti e diciamo che i soldati devo-
no tornare in caserma, !niamo per spingere chiunque nelle mani dei russi. Non
dobbiamo però nemmeno tornare alla guerra fredda, quando noi avevamo i nostri
dittatori e i sovietici avevano i loro. Quello ci ha esposto a una dannosa ipocrisia.
LIMES Mali, Burkina Faso, Niger: sta nascendo un fronte anti-occidentale nel Sahel?
NAGY Il sentimento anti-occidentale c’è sempre stato a causa del colonialismo e
della guerra fredda. È presente nell’umore popolare e attende ogni opportunità per
essere risvegliato, con le intelligenti campagne propagandistiche di russi e cinesi.
LIMES Qual è la conseguenza più pericolosa del golpe in Niger?
NAGY Temo che i gruppi estremisti continuino a diffondersi e minaccino i paesi
dell’Africa occidentali affacciati sul Golfo di Guinea. La Costa d’Avorio ha avuto
qualche successo perché ha riconosciuto che le regioni del Nord avevano avuto
meno privilegi, ha portato servizi in quell’area e l’attività terroristica è diminuita. Ma
se gli estremisti si rafforzano nel Sahel, la pressione sui paesi costieri aumenterà.
Immaginate se Ghana, Costa d’Avorio o addirittura Nigeria !nissero nel caos: sareb-
be un disastro.
LIMES Gli Stati Uniti dovrebbero sostenere un intervento militare in Niger contro la
giunta?
NAGY Se ci fosse un intervento militare, al massimo dovremmo fornire trasporto
aereo alle truppe nigeriane, ma nient’altro. Dovrebbe essere fatto da africani e con
178 africani, senza militari americani sul terreno. E dovrebbe essere deciso quasi all’u-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

nanimità dall’Ecowas – senza ovviamente Mali e Burkina, schierati coi golpisti. Al-
trimenti i problemi sarebbero enormi. E anche in presenza di queste condizioni
sarebbe un disastro. Il modo migliore per superare la crisi è con la pressione eco-
nomica e diplomatica, con l’isolamento, cercando di convincere i cinesi a non
supportare la giunta militare. Per i russi non c’è speranza, cercheranno comunque
di in!larsi per depredare il paese dell’uranio.
LIMES Invece di supportare un intervento militare, gli Stati Uniti non potrebbero
cercare di ottenere un governo più largo a Niamey, con militari, fazioni del Nord e
qualche !gura del vecchio establishment?
NAGY Quella che lei propone è l’opzione migliore. Di molto preferibile a trasporta-
re forze nigeriane. Ma è estremamente dif!cile da raggiungere perché richiedereb-
be un’enorme quantità di tempo, risorse e persone dedicate all’obiettivo. Abbiamo
un solo alto funzionario diplomatico dedicato all’Africa e corre da Khartûm a Kin-
shasa, da Addis Abeba ad Abuja. Il meglio che gli Stati Uniti possono fare è sup-
portare l’Ecowas.
LIMES Un intervento in Niger rischia di causare una seconda Libia?
NAGY Il pericolo esiste, anche se il Niger è diverso dalla Libia. Alla caduta di Ghed-
da!, tantissimi miliziani dell’Africa subsahariana arruolati e pesantemente armati
dal regime si diffusero per il Sahel. L’unica cosa che potevano fare era combattere
e ciò contribuì enormemente all’instabilità degli Stati a sud della Libia. In Niger non
ci sono. Inoltre, in Libia non c’erano strutture di Stato perché era stata governata da
una persona sola per decenni, mentre il Niger ha istituzioni, società civile e una
certa storia di alternanza al potere, anche se tumultuosa. In ogni caso, il rischio è
che il Niger si spacchi su base etnica.
LIMES L’intervento in Libia nel 2011 è stato un errore?
NAGY Assolutamente, assolutamente sì. Non fu ragionato a suf!cienza. Abbiamo
rotto il vaso senza chiederci cosa avremmo fatto dei cocci. L’intento era nobile:
Ghedda! era pronto a scatenare il caos, ma il caos che ne è risultato è molto mag-
giore. E tanti paesi ne hanno sofferto le conseguenze. Va bene eliminare il cattivo,
ma devi avere piani politici ed economici per il dopoguerra. Non ne avevamo
nessuno.
LIMES I francesi spingono per un intervento in Niger, voi siete più cauti. Molti a
Parigi credono che gli Stati Uniti vogliano liberarsi dell’in"uenza francese nel Sahel:
è vero?
NAGY È paranoia. All’inizio della mia carriera da diplomatico, spesso mi chiedevo
chi si opponesse di più alla nostra presenza in Africa: i sovietici o i francesi? Parigi
era sempre sospettosa di tutto quello che gli americani facevano nel loro presunto
feudo. Era l’epoca della Françafrique. Ma quei giorni sono !niti. Se anche fosse
vero che abbiamo posizioni diverse in Niger, non signi!ca che vogliamo liberarci
della presenza francese nel Sahel. Nessuno vorrebbe !nire in quel ginepraio.
Chiunque se ne andrebbe immediatamente, se potesse. Ricordo un incontro a Pa-
rigi con un militare francese quando ero al governo. Gli dissi: «Spero che restiate
nel Sahel per altri dieci anni». Lui alzò gli occhi al cielo: pensava fossi pazzo. 179
‘L’AFRICA È STRATEGICA PER GLI STATI UNITI, MA NON LA CAPIAMO’

LIMES La presenza della Francia in Africa vi è utile o vi danneggia?


NAGY Ogni ex potenza coloniale si porta dietro un fardello tremendo. Tutto quello
che fa viene visto in quella luce. Continuerà a pesare almeno !no alla !ne del se-
colo. Anche gli Stati Uniti hanno un fardello, ma diverso: risale alla guerra fredda,
a quando eravamo disposti a sostenere qualunque dittatura purché ci aiutasse
contro l’Unione Sovietica. Ciò detto, chi può sostituire la Francia? Nessun altro in
Europa è in grado di avere una presenza seria e di svolgere operazioni di antiter-
rorismo. Specialmente nella parte di Africa che Parigi conosce così bene, grazie a
rapporti a 360 gradi con quei paesi. Gli Stati Uniti non sostituiranno la Francia. I
britannici non lo faranno. L’Unione Europea non può farlo, visto che ci mette sei
settimane per decidere dove andare a pranzo.
LIMES Cercate una Wagner buona, insomma.
NAGY Sì, c’è spazio per compagnie militari private professionali. Sono più ef!caci
delle Nazioni Unite e costano molto meno. E ce n’erano in Africa. Quando ero
ambasciatore in Guinea, nella vicina Sierra Leone operava una compagnia militare
privata chiamata Executive Outcomes che stava facendo progressi incredibili con-
tro il Fronte unito rivoluzionario. Era una forza !lo-occidentale e multietnica, com-
posta in parte da veterani sudafricani. Erano combattenti eccellenti, professionali,
con regole precise. Non depredavano il paese delle risorse minerarie e non abusa-
vano della popolazione. Quando la gente li vedeva arrivare nei villaggi, non erano
un gruppo di bianchi barbuti. Ma l’Unione Africana fece così tante pressioni sulla
dirigenza della Sierra Leone da costringerla a smembrarla. E il Fronte di fatto prese
il controllo del paese. Trovo ipocrita che l’Unione Africana oggi non sia altrettanto
preoccupata dal Gruppo Wagner.
LIMES Come e dove vi aspettate che l’Italia contribuisca in Africa?
NAGY Invidio gli italiani perché sul terreno hanno rapporti personali migliori dei
nostri. Il vostro aiuto sarebbe estremamente prezioso soprattutto nell’addestramen-
to delle forze di polizia. Parliamoci chiaro: gli africani non hanno bisogno di Forze
armate per difendersi da invasioni di altri paesi. Una forza come i Carabinieri sa-
rebbe molto più ef!cace per le minacce che devono affrontare. Inoltre, l’Italia può
dare un grande contributo soprattutto nell’addestramento delle forze marittime, per
consentire agli Stati del Golfo di Guinea di pattugliare le proprie acque e difender-
si da minacce come le "otte di pescherecci cinesi.
LIMES Su cosa possono lavorare assieme americani ed europei per arginare la Rus-
sia nella sua opera di destabilizzazione dell’Africa?
NAGY La differenza la farebbe una strategia comune contro la disinformazione, come
durante la guerra fredda. Su questo siamo tutti dalla stessa parte. I popoli africani,
specialmente i giovani, aspettano disperatamente un cambiamento. La Russia non
promette altro che caos e anarchia. Ma non riusciamo minimamente a spiegarlo. La
nostra diplomazia pubblica fa un pessimo lavoro. I nostri discorsi uf!ciali vengono
talmente ruminati dalle varie burocrazie che alla !ne non dicono niente.

180
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL CAOS SAHELIANO
DANNEGGIA LA CINA di Giorgio CUSCITO
I golpe in Africa turbano i progetti di Pechino per collegare Gibuti
alle proprie attività sulla costa Ovest. Xi potrebbe usare le crisi
per intensificare la penetrazione cinese nel Continente Nero e
promuovere la ‘sua’ globalizzazione. Guai interni permettendo.

1. I L COLPO DI STATO IN NIGER INTRALCIA I


piani della Repubblica Popolare Cinese per consolidare le proprie attività nella
porzione nord-occidentale dell’Africa. Cionondimeno, le tensioni regionali genera-
te dalla crisi a Niamey e la complessiva instabilità del Sahel ri!ettono la dif"denza
dei paesi africani verso l’Europa. Quindi potrebbero incoraggiare la Cina a racco-
gliere ulteriore consenso sulla sponda Sud del Mediterraneo in favore dei progetti
internazionali promossi per intaccare l’ordine mondiale trainato dagli Stati Uniti.
Basti pensare alla piattaforma Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che
dopo il vertice agostano di Johannesburg ha accettato quali nuovi membri Arabia
Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Egitto e Argentina. Questi paesi hanno
interessi strategici molto diversi e in alcuni casi troppo con!iggenti per dar vita a
un concreto blocco anti-occidentale. Tuttavia, l’evento ha confermato che il tenta-
tivo cinese (e russo) di af"evolire la "ducia nella guida statunitense risulta tutt’altro
che indifferente a quanti abitano l’ossimorico Sud Globale.
La Repubblica Popolare considera l’Africa un obiettivo geopolitico sin dalla pro-
pria fondazione e da almeno trent’anni investe in infrastrutture locali, al "ne di otte-
nere sostegno diplomatico e prezzi agevolati per l’acquisto di risorse naturali. A co-
minciare da petrolio, litio, cobalto, rame e prodotti agricoli. Il tutto sulla base della
promessa reciproca di non interferire negli affari interni, specialmente quando si
tratta di diritti umani. È nell’approccio cinese a questo continente che affonda le ra-
dici la Belt and Road Initiative (Bri, nuove vie della seta), dal 2013 catalizzatore e
ombrello delle innumerevoli iniziative politiche ed economiche di Pechino.
Nell’arco di dieci anni, proprio in Africa le nuove vie della seta hanno palesa-
to anche la loro latente dimensione bellica. Nel 2017 a Gibuti è stata aperta la
prima base navale dell’Esercito popolare di liberazione (Epl). Nel continente, la
quantità di compagnie di sicurezza private e di armi cinesi è aumentata. Sono stati 181
IL CAOS SAHELIANO DANNEGGIA LA CINA

inaugurati nuovi forum aventi per oggetto la collaborazione cibernetica e militare.


Decine di politici di alto livello africani hanno partecipato a corsi organizzati da
istituti militari cinesi.
Il piano di Pechino prevede nel lungo periodo lo sviluppo di un corridoio
infrastrutturale tra Gibuti e la costa occidentale, passando per il Sahel. Così da cre-
are i presupposti per l’attivazione di un secondo avamposto dell’Epl in paesi affac-
ciati sull’Atlantico. Tra i papabili vi era la Guinea Equatoriale, che ha aderito alle
nuove vie della seta nel 2019. Due anni dopo gli Stati Uniti hanno intimato a Ma-
labo di non accettare la costruzione di una base militare permanente della Repub-
blica Popolare. Anche la Sierra Leone è considerata una potenziale sede, soprattut-
to dopo che nel 2021 Freetown ha approvato la costruzione di un porto ittico
lungo la spiaggia di Black Johnson. A nulla è servita l’opposizione degli abitanti,
timorosi di perdere il lavoro e dei potenziali danni ambientali.
L’Epl punta all’Atlantico con tre obiettivi: monitorare più accuratamente le
operazioni della Nato tra coste americane ed europee; rispondere alla crescente
presenza degli alleati occidentali dell’America nell’Indo-Paci!co; ridimensionare il
bisogno di navigare il Mediterraneo. Infatti, sebbene Pechino abbia investito in
tutti i paesi africani bagnati dal mare nostrum (inclusa la Libia, dove ora non ope-
ra), ai suoi occhi l’intensi!carsi delle attività navali di Stati Uniti, Russia e Turchia
rende il bacino meno ospitale di un tempo.
La sequenza di golpe avvenuti dal 2020 in Niger, Mali, Burkina Faso, Guinea,
Sudan, Ciad e Gabon è tuttavia un’incognita per le attività cinesi a sud del Sahara.
Il fatto che Pechino si sia limitata a incoraggiare Niamey e gli altri attori regionali
a risolvere politicamente la crisi in corso sottintende che un intervento cinese di-
retto sia da escludere. Soprattutto di tipo militare, se non tramite le missioni di
pace dell’Onu. Per inciso, l’80% dei soldati dell’Epl che indossano i caschi blu
opera in Africa. Del resto, il futuro del Sahel preme maggiormente ai paesi euro-
pei che vedono nel Niger un teatro in cui frenare l’espansione delle attività jiha-
diste attorno al Lago Ciad e arginare i "ussi migratori dal cuore dell’Africa verso
l’Europa.
Cionondimeno, la Repubblica Popolare potrebbe impegnarsi diplomaticamen-
te nelle questioni saheliane per espandere la cooperazione con i governi africani
nel campo della sicurezza, dimostrare di poter contribuire più dell’America alla
stabilità dell’ordine internazionale e dare quindi sostanza alla «globalizzazione con
caratteristiche cinesi». Fermo restando che in questi mesi l’Africa non è la prima
preoccupazione del presidente Xi Jinping.

2. Nel corso del tempo, l’intesa sino-nigerina ha conosciuto alti e bassi. Nia-
mey ha chiuso i rapporti con Taiwan e aperto quelli con la Repubblica Popolare
nel 1974. Ha riallacciato il dialogo diplomatico con Taipei nel 1992 per poi abban-
donarlo e riconoscere la sovranità di Pechino quattro anni dopo. In pratica, a con-
dizionare la strategia del paese africano è sempre stata la ricerca degli investimen-
182 ti più convenienti, a prescindere da quale Cina ne fosse la fonte.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Oggi la Repubblica Popolare è seconda per investimenti in Niger dopo la


Francia. Oggi si contano 40 imprese cinesi, per un totale di un migliaio di lavora-
tori. Nel 2020 il denaro erogato ammontava a 2,68 miliardi di dollari, con proget-
ti prevalentemente condotti da aziende quali PetroChina (controllata da China
National Petroleum Corporation, Cnpc) e China National Nuclear Corporation
(Cnnc). Lo scorso maggio anche l’azienda Sinopec aveva deciso di investire in
Niger, stipulandovi un memorandum d’intesa 1. I rappresentanti di Niamey aveva-
no de"nito l’evento «storico» nel segno della presidenza di Mohamed Bazoum,
deposto a luglio.
Cnpc controlla il 60% della raf"neria di Soraz (al con"ne con la Nigeria), che
produce 20 mila barili di petrolio al giorno. Tuttavia, l’opera made in China più
signi"cativa è la costruzione di un oleodotto lungo 2 mila chilometri verso il Be-
nin. L’infrastruttura, completa al 60% e af"data sempre a Cnpc, dovrebbe consen-
tire il trasporto del petrolio dai giacimenti di Agadem alla raf"neria di Zinder
(gestita dalla Cina) e poi a Cotonou per essere smerciato via mare. La sua messa
in funzione consentirebbe a Niamey di moltiplicare le esportazioni di greggio e
accrescere l’economia locale. Data la rilevanza del progetto, da qualche tempo la
Repubblica Popolare sta dedicando particolare attenzione ai rapporti con il Benin.
Durante il Forum Cina-Africa del 2021, i due governi avevano concluso accordi
per il contrasto alle minacce cibernetiche e per la realizzazione di oltre 400 chilo-
metri di "bra ottica tra dieci aree urbane. Lo scorso gennaio, l’allora ministro degli
Esteri cinese Qin Gang (sostituito a luglio dal suo predecessore Wang Yi) aveva
visitato il paese e annunciato la cancellazione parziale del debito accumulato ver-
so la Repubblica Popolare.
Anche l’uranio nigerino fa gola a Pechino, sebbene le riserve locali siano an-
cora destinate principalmente a Francia e Canada. Cnnc ha iniziato a operare pres-
so il giacimento di Azelik nel 2007, per poi bene"ciare degli investimenti della
Export-Import Bank of China. Il progetto è stato congelato nel 2015, formalmente
per condizioni di mercato sfavorevoli. Lo scorso giugno, China National Uranium
Corporation (Cnuc) stava trattando l’acquisizione di Société des Mines d’Azelik
(impresa statale nigerina) per riprendere l’attività estrattiva nel Nord. A luglio l’in-
viato cinese per l’Africa occidentale Jiang Feng aveva annunciato che a Niamey
sarebbe sorto un complesso industriale attivo nei campi agroalimentare, immobi-
liare e minerario. L’accordo era stato raggiunto dopo un incontro con Bazoum. A
inizio agosto, il Benin ha affermato che il golpe aveva determinato ritardi nello
sviluppo dell’oleodotto di Agadem, ma non l’arresto dei lavori 2. Poche settimane
dopo, China Gezhouaba ha sospeso la costruzione della diga idroelettrica di Kan-
dadji. Mossa probabilmente dettata dall’interruzione degli aiuti di Usa e Ue al Niger
e dalle altre sanzioni applicate dai paesi dell’Africa occidentale. Segno che il golpe
mina il futuro dei progetti cinesi in loco.

1. A. HAYLEY, «China’s oil and uranium business in Niger», Reuters, 31/7/2023.


2. «Benin says Niger oil pipeline not impacted by regional sanctions over coup», Aljazeera, 3/8/2023. 183
184
TURCHIA
L’AFRICA GIALLA SIRIA
AAFGHANISTAN
Mar Mediterraneo ISR. IRAN
MAROCCO TUNISIA IRAQ
GIORD. PAKISTAN
PAKIIST
STAAN

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ALGERIA LIBIA ARABIA
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SENEGAL CIAD
IL CAOS SAHELIANO DANNEGGIA LA CINA

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GUINEA-BISSAU GUINEA SOMALIA
SIERRA LEONE COSTA ETIOPIA
Lagos NIGERIA REP. SUDAN

GHANA
D’AVORIO 3 CENTRAFRICANA DEL SUD
LIBERIA CAMERUN Nel 2021 la Cina ha importato
TOGO 4 dall’Africa beni per 105,9 miliardi
Oceano BENIN DA 7
GUINEA EQ. G AN di dollari (il 43,7% in più rispetto
Atlantico REPUBBLICA U KENYA all’anno precedente)
GABON RUANDA
DEMOCRATICA BURUNDI
1 Costruzione del parlamento nella capitale della CONGO
Guinea-Bissau. DEL CONGO
2 Proprietà di quote di maggioranza TANZANIA
in società petrolifere 8 Luanda COMORE Oceano Indiano
3 Finanziamenti per la costruzione del porto ANGOLA
in acque profonde di Lekki (Lagos) ZAMBIA
4 Sovvenzioni a formazioni di militanti O
E

AR

BIC
M
dei nativi del delta del Niger ZIMBABWE
M

MALAWI
GASC

Paesi con i maggiori investimenti cinesi


A

5 Investimenti per la costruzione dell’oleodotto di Port Sudan NAMIBIA


MOZA
G

BOTSWANA Paesi a rischio trappola del debito


E

MADA

6 Contributo per lo sviluppo di pozzi petroliferi nella regione


L

dell’Alto Nilo Paesi visitati dal ministro degli Esteri


ESWATINI E cinese Wang Yi
7 Prestito al Kenya di 3,2 miliardi di dollari per T
R
la costruzione di un importante collegamento ferroviario LESOTHO F O Presenza militare cinese
SUDAFRICA
8 Realizzazione di Nova Cidade de Kilamba, a 30 km da Luanda Paesi con maggiore presenza di
immigrati cinesi
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

3. Dif!cilmente ciò che accadrà a Niamey condizionerà il rapporto tra Cina e


Nigeria. Le risorse energetiche e demogra!che (oltre 200 milioni di abitanti), l’ac-
cesso all’Atlantico e il debito da quattro miliardi di dollari accumulato verso la Re-
pubblica Popolare rendono Abuja il polo di riferimento della strategia di Pechino
in questa parte dell’Africa. A inizio luglio, navi dell’Esercito popolare di liberazione
sono attraccate a Lagos per una visita di cinque giorni. Il gruppo era composto
dall’incrociatore Nanning, dalla fregata Sanya e dalla rifornitrice Weishanhu. L’o-
perazione è esempio cristallino degli sforzi cinesi per pattugliare l’Atlantico.
A Lagos lo scorso anno è entrato in funzione il nuovo porto di Lekki. A gesti-
re l’infrastruttura (che vale 1,5 miliardi di dollari) è un consorzio composto da
China Harbour Engineering, una società singaporiana e una locale. L’infrastruttura
acquisirebbe una crescente importanza se allacciata alle linee ferroviarie verso le
altre città di Nigeria, Ciad, Mali e Senegal. Pechino vede in Lagos anche lo snodo
di diffusione locale delle proprie tecnologie. Huawei punta a trasformare la città in
una smart city facendo leva sulle attività di sorveglianza digitali già avviate in siner-
gia con il governo nigeriano, incluso l’accordo per allestire una rete di controllo
elettronico lungo i con!ni terrestri del paese e forse, in futuro, lungo quelli marit-
timi. Ciò collimerebbe con il piano della Cina per espandere le attività militari nel
Golfo di Guinea, motivandolo con il bisogno di tutelare l’estrazione petrolifera
offshore da parte delle proprie compagnie, garantire la stabilità regionale e proteg-
gere i connazionali, talvolta bersagli della pirateria. In queste acque opera buona
parte dei 500 pescherecci della Repubblica Popolare che gettano le reti al largo
dell’Africa per appro!ttare delle copiose risorse ittiche e pattugliare informalmente
l’area per conto di Pechino.
La collaborazione con la Nigeria rileva pure sul piano scienti!co. A giugno
esperti nigeriani ed etiopi si sono recati nel Xinjiang per un summit sulla lotta alla
deserti!cazione, problema che accomuna Repubblica Popolare e Africa e mina lo
sviluppo degli interessi cinesi a cavallo del Sahara. Per Pechino è anche l’occasione
per intensi!care le operazioni satellitari nel continente e quindi la raccolta di infor-
mazioni. Inoltre, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Si-
pri) nel 2021 le armi cinesi hanno rappresentato il 37,5% di quelle importate dalla
Nigeria. A trainare le vendite è la China North Industries Group Corporation (No-
rinco), impresa di punta della Repubblica Popolare nel settore. Allargando lo
sguardo al resto dell’Africa, tra il 2018 e il 2022 la Cina è stata il terzo fornitore di
dispositivi bellici dopo Russia e Stati Uniti. Merito dei prezzi più bassi e probabil-
mente delle sanzioni americane alle aziende militari russe. Tra il 2017 e il 2020
nell’Africa subsahariana le esportazioni cinesi sono state il triplo di quelle statuni-
tensi 3. Ad agosto Norinco ha aperto una sede a Dakar, in Senegal, che si aggiunge
a quelle in Nigeria, Angola e Sudafrica. In futuro potrebbero essere aperti uf!ci
anche in Mali e Costa d’Avorio.

3. J. NYABIAGE, «China arms sales cement its economic and security ties in Africa: study», South China
Morning Post, 14/3/2023. 185
IL CAOS SAHELIANO DANNEGGIA LA CINA

Le forniture non comprendono solo armamenti leggeri, ma anche mezzi più


avanzati come caccia e droni che richiedono addestramento, dunque un aumento
della presenza militare cinese nei paesi partner. Vale l’esempio del Camerun, ric-
co di oro, petrolio, gas naturale e con!nante con la Nigeria. Yaoundé ha svilup-
pato un accordo di formazione con l’Università nazionale della Difesa cinese, ha
condotto con l’Epl esercitazioni navali antipirateria nel Golfo di Guinea e sta ac-
quistando dalla Repubblica Popolare dispositivi bellici sempre più so!sticati. I
media cinesi hanno letto l’espansione di Norinco in Senegal come prova della
capacità nazionale nel ridimensionare l’in"uenza francese e russa nel mercato
africano delle armi 4.
La Repubblica Popolare non pare apprezzare la presenza della Russia e del
Gruppo Wagner nel continente. Fino a poco tempo fa sembrava addirittura non
escludere che fossero stati gli uomini già al servizio del defunto Evgenij Prigožin,
non la Coalizione dei patrioti per il cambiamento, a uccidere nove lavoratori cine-
si presso una miniera d’oro nella Repubblica Centroafricana. Dopo questa vicenda,
lo scorso luglio la Wagner si è guadagnata una menzione sui quotidiani cinesi per
aver tratto in salvo altri operai da un imminente attacco, sempre nello stesso paese.
Come se la squadra di mercenari volesse smentire le critiche subite in precedenza,
dimostrare che il golpe non ha intaccato le sue operazioni in Africa e assicurarsi la
!ducia delle aziende cinesi 5.
Dif!cilmente l’opera di persuasione andrà a buon !ne. Di norma le imprese
della Repubblica Popolare si af!dano a compagnie di sicurezza cinesi, la cui pre-
senza in Africa sta aumentando. Tuttavia, hanno equipaggiamenti e capacità infe-
riori rispetto alla Wagner, offrono soprattutto attività di consulenza ad aziende
private (meno ai governi) e a volte non usano le armi. Non solo per evitare inci-
denti, ma anche per non alimentare la già palpabile sinofobia delle popolazioni
locali. Il tentato golpe di Prigožin rende ancor più dif!cile che Pechino lasci società
di sicurezza cinesi agire a briglia sciolta 6.

4. La Repubblica Popolare non interromperà completamente le sue operazioni


commerciali e !nanziarie a cavallo del Sahel. Inoltre, farà leva sulla s!ducia verso
l’Occidente per accrescere la collaborazione politica con gli attori regionali. Il tutto
probabilmente sotto l’ombrello delle nuove vie della seta e delle tre nuove Inizia-
tive globali sulla sicurezza, sullo sviluppo e sullo scambio tra civiltà. Progetti a cui
alcuni governi del continente hanno già segnalato di voler aderire in occasione
dell’ultimo incontro dei Brics e durante il terzo Forum sino-africano sulla pace e la
sicurezza di !ne agosto.
4. S. YAN, «Zhongguo wuqi zhuangbei gongying qiye zai xifei yewu kuoda,“tiaozhanle fa e zhudao
diwei”» («Fornitori di armi e equipaggiamento cinesi espandono le attività in Africa occidentale, “s!-
dando il dominio di Francia e Russia”»), Guancha, 21/8/2023.
5. M. CHAN, «Wagner mercenaries rescued Chinese gold miners in Central African Republic in July,
paramilitary group says», South China Morning Post, 13/7/2023.
6. Per approfondire, G. CUSCITO, «Le lezioni di Prigožin alla Cina», Limes, «Russia o non Russia», n.
186 6/2023, pp. 145-153.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Pechino potrebbe tuttavia ridimensionare o bloccare i progetti economici in-


fruttuosi e più rischiosi. Inclusi quelli in Niger, se lì non tornasse un briciolo di
stabilità. Le turbolenze africane non consentono alla Repubblica Popolare di svi-
luppare un vero corridoio transcontinentale in tempi brevi e ciò rende meno im-
pellente la creazione di una base militare sull’Atlantico. Questa sarebbe un’utile
vedetta a ovest, ma resterebbe isolata, lontana dalle coste cinesi e da Gibuti. Non
si esclude però il proseguimento delle visite dell’Epl nei porti bagnati dall’oceano.
Soprattutto, Pechino è alle prese con serie questioni interne. In particolare il
rallentamento dell’economia, il possibile scoppio della bolla immobiliare (si veda-
no i guai di Country Garden ed Evergrande), il declino demogra!co, il disagio
giovanile e la morsa americana in campo militar-tecnologico, stretta con il crescen-
te concorso degli alleati in Europa e nell’Indo-Paci!co. Si tratta di una pericolosa
combinazione di ostacoli che potrebbe rallentare e, nel peggiore dei casi, sabotare
i progetti globali di Xi.
Al momento, dunque, per Pechino non conta molto chi governi a Niamey.
Purché controlli saldamente il Niger e non ostacoli ulteriormente le attività della
Cina in Africa.

187
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL SENSO DI PUTIN
PER L’AFRICA di Orietta MOSCATELLI
Pochi aiuti civili, molte armi e assistenza militare, remissione di
antichi debiti. Questa la formula dell’ascendente russo, sulla scia
dell’anti-imperialismo sovietico. Il confronto con Cina, Usa e Ue.
Finita una Wagner, se ne fa un’altra (perché serve).

1. S
« ERVE PIÙ L’AFRICA ALLA RUSSIA O LA RUSSIA
all’Africa?». La domanda ispira analisti di ogni latitudine, almeno da quando Mosca
miete regimi, concessioni minerarie, ma anche cuori e menti sul continente africa-
no. Vladimir Putin l’ha posta a un gruppo di specialisti e diplomatici riuniti in vista
della Conferenza parlamentare russo-africana del marzo 2023 e del secondo sum-
mit Russia-Africa. Il presidente ha ascoltato gli argomenti degli esperti con aria
sempre più annoiata: «Bene, quando avrete una chiara risposta, forse dovremo
cambiare approccio», ha interrotto a un certo punto lasciando i più a pensare come
avrebbero potuto o dovuto rispondere. Dopo una serie di rinvii il vertice si è tenu-
to lo scorso luglio a San Pietroburgo e non a Addis Abeba, come inizialmente
previsto. Ha confermato che tra Russia e Africa c’è una mutua convenienza che
spazia dalla cooperazione economica e dal coordinamento in sede Onu alle forni-
ture militari e al sostegno a regimi poco presentabili in cambio di contratti per lo
sfruttamento di materie prime.
Il denominatore comune sa di antico, ma assume nuove forme: per un’ampia
parte dell’Africa che non ha mai smesso di accumulare risentimento verso le ex
potenze coloniali, Mosca è una sponda naturale, se non un faro. La Russia in tota-
le rottura con l’ordine americano è l’anti-Occidente, concetto incerto eppure magi-
co nel cosiddetto Sud Globale. Le invettive del Cremlino catalizzano l’attenzione di
un gruppo di paesi disomogeneo ma unito nel sospetto per qualsiasi cosa faccia il
club dei ricchi timorosi di perdere potere, ora in particolare la Francia.
Dalle sponde meridionali del Mediterraneo al Capo di Buona Speranza questa
dinamica si traduce in una crescente penetrazione russa, che potrebbe rivelarsi
fatua o meno: in prospettiva, sembra dipendere più dalla Cina che dal confuso
fronte occidentale. L’improvvisa morte di Evgenij Prigožin rende inoltre urgente
una riorganizzazione del Gruppo Wagner, importante tassello del mosaico africa- 189
IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA

no. Il riassetto è iniziato già dopo l’ammutinamento di !ne giugno, ma il busines-


sman è stato tolto di scena a lavori in corso, smentendo la diffusa convinzione che
nessuno l’avrebbe toccato proprio perché essenziale sul fronte africano.
Neppure un decennio fa l’Africa era l’ultima delle preoccupazioni per la Fede-
razione Russa. Letteralmente: nel Concetto di politica estera del 2016 era collocata
in fondo, 50a voce su 50 nella lista delle «priorità regionali» che esordiva con lo
spazio ex sovietico e procedeva con Ue, Usa, Asia-Paci!co e il resto del pianeta
prima di auspicare, in poche righe, l’espansione «dell’interazione multidimensionale
con gli Stati africani». Nell’aggiornamento pubblicato nel marzo 2023 l’Africa è salita
in classi!ca e si aggiudica un capitolo in più punti 1, sunto diplomatico del ritrovato
interesse e di un attivismo dotato di grande mobilità negli obiettivi. Ne sa qualcosa
il Sudan, dove Mosca dal 2017 ha difeso il poco difendibile ‘Umar al-Bašør per poi
cambiare squadra quando è diventato chiaro che sarebbe stato spodestato, malgra-
do l’appoggio della Wagner. Da allora e anche nel recente con$itto tra l’esercito
sudanese e le Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Õamødatø, la Russia cor-
teggia entrambe le parti nella speranza che il vincitore conceda !nalmente la base
navale sul Mar Rosso, a Port Sudan, oggetto di negoziati da almeno cinque anni.
La campagna russa d’Africa non è univoca. Segue un !lo che ripropone la
commistione tra interessi pubblici e privati alla base del sistema di potere russo. Le
priorità geopolitiche ed economiche dello Stato sono coltivate in sinergia con grup-
pi o singoli personaggi che mirano soprattutto a spartirsi la torta. Nel nome della
proiezione d’in$uenza vengono supportati, e sopportati, gli affari di singoli faccen-
dieri. Il più famoso e potente resta Evgenij Prigožin, compianto da un coro di
combattenti e da diversi interlocutori africani. Ce ne sono tuttavia almeno altri
cinque di simile vocazione, seppur di dimensioni e appetiti per ora più limitati.
Un fattore cruciale è il collegamento ideale al passato sovietico, quando Mo-
sca era il principale sponsor della decolonizzazione tramite aiuti economici e
militari ai movimenti d’indipendenza o a governi in dif!coltà. Tra lo slancio inter-
nazionalista proletario e le aspirazioni di libertà che davano voce al continente
africano, il grande fratello sovietico per decenni ha moltiplicato le alleanze con
investimenti relativamente bassi. Almeno secondo la Cia, che in un rapporto del
1986 osservava come «i 4,6 miliardi di dollari in aiuti economici stanziati dai so-
vietici dal 1959 non competono quantitativamente con i programmi occidentali
che hanno fornito – in genere su base di concessioni – oltre 100 miliardi di dolla-
ri in cibo, servizi tecnici e assistenza a progetti. Mosca non è neppure riuscita ad
aiutare l’Etiopia, suo principale cliente, nella crisi alimentare in corso. Tuttavia,
malgrado la portata limitata degli aiuti, questi programmi hanno risultati notevoli
in termini di proiezione d’in$uenza, a costi eccezionalmente bassi visto che per il
90% si tratta di crediti» 2. Nella lista degli investimenti ad alto rendimento le prime
voci erano: consiglieri, dottori e insegnanti inviati in 25 paesi; 9 mila tecnici sti-

1. «The Concept of the Foreign Policy of the Russian Federation», ministero degli Esteri della Federa-
zione Russa, 31/3/2023.
190 2. «Soviet economic aid to sub-Saharian Africa: Politics in command», cia.gov, 7/8/2011.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

pendiati in tutto il continente; 45 mila studenti ospitati nelle università sovietiche


(appendice).
Questa mano tesa animava la guerra fredda sul continente africano. Nel 1955
il leader egiziano Nasser spalancò le porte del Medio Oriente ai sovietici con un
enorme accordo per la fornitura di armi, l’anno dopo chiedendo aiuto per la crisi
di Suez contro il blitz franco-britannico. In Algeria il Fronte di liberazione naziona-
le (Fln) era !nanziato da Mosca. L’Urss sosteneva il Congresso nazionale africano
(Anc) di Nelson Mandela durante l’apartheid. Armi e addestramento di funzionari,
militari e intelligence erano le chiavi della penetrazione sovietica, che dal 1975 si
avvalse di una signi!cativa collaborazione militare con i cubani. Algeria, Egitto,
Libia, Etiopia, Angola, Mozambico, nonché altri Stati di minore rilievo economico
e geopolitico: l’assistenza ha creato nel tempo una dipendenza dalle tecnologie
sovietiche e un’empatia con «l’amico russo» facilmente riesumabile.

2. Oggi il Cremlino corteggia diversi governi africani cancellando i debiti con-


tratti allora – e precisando che sarebbero in ogni caso inesigibili quando qualcuno
storce il naso in patria. «In epoca sovietica c’era questa diffusa opinione: perché
sprecare soldi per l’Africa, abbiamo già tanti problemi. Oggi sono grato a chi allora
ha condotto questa politica e ha creato una riserva di forza per la nostra cooperazio-
ne», ha detto Vladimir Putin incontrando la stampa a conclusione del vertice di luglio.
Messaggio indirizzato anche a quei russi, non pochi, che criticano gli sforzi diploma-
tici ed economici (sempre molto limitati) per paesi lontani, poveri e instabili di cui
nessuno ha sentito parlare per trent’anni. L’implosione dell’impero sovietico aveva
bruscamente posto !ne a ogni cooperazione con gli Stati africani, ambasciate e cen-
tri di cultura vennero chiusi, sul terreno rimasero solo antenne (agenti) dei servizi
sovietici che non avevano motivo di tornare nella patria spezzettata in 15 repubbli-
che nel dicembre 1991. Molti hanno ritrovato lavoro all’inizio del nuovo secolo.
Putin inizia a guardare all’Africa già dai primi anni al Cremlino e parte da dove
l’Urss era stata più forte. Nel marzo 2006 va in Algeria e annuncia l’annullamento
di 4,7 miliardi di debiti di epoca sovietica. Due miliardi sono convertiti in un me-
gacontratto per le forniture di armi e da allora Algeri è tra i primi importatori di
attrezzature belliche russe, mentre Gazprom !rma intese con la major Sonatrach,
collaborazione ampliata l’anno scorso con nuovi progetti. Pochi mesi dopo visita il
Sudafrica, accompagnato da un’ampia delegazione di uomini d’affari interessati
all’estrazione di diamanti e metalli. Negli anni (2008-12) in cui s’impone una pausa
dalla presidenza per rispettare la forma costituzionale, il successore Dmitrij Medve-
dev si reca in Egitto, Angola, Nigeria e Namibia. Il cammino sovietico è riaperto,
anche se all’epoca pochi se ne curano. L’attività si intensi!ca dopo l’annessione
della Crimea nel 2014 e diventa sistematica con l’intervento in Siria, dove la mac-
china bellica russa stupisce per modernità ed ef!cacia, e la permanenza di Baššår
al-Asad al potere grazie alla tutela del Cremlino ispira numerosi autocrati.
Durante la campagna siriana la Wagner si fa i muscoli, combattendo dove
Mosca non vuole scarponi dell’esercito regolare sul terreno. Il corpo paramilitare 191
IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA

decapitato lo scorso 23 agosto nel 2016 uf!cialmente ancora non esisteva, ma af-
frontava gli squadroni del sedicente Stato Islamico ed era decisivo nella riconquista
di Palmira e di aree petrolifere. I suoi servigi erano ripagati anche con licenze di
sfruttamento che Prigožin usava per stringere amicizie nelle Forze armate. La nega-
zione plausibile della presenza dei mercenari facilita le cose: i regimi di mezza
Africa si mettono in !la per usufruire del kit russo di sopravvivenza (o morte, di-
pende dal committente) disconosciuto dal governo moscovita. Dal 2016-17 i
muzykanty 3 prestano servizio in Libia, Repubblica Centrafricana, Mali, Sudan e li-
mitatamente in Mozambico. Secondo fonti russe sono presenti in scala minore
anche in Burkina Faso, mentre la statunitense Rand Corporation aggiunge la Re-
pubblica Democratica del Congo e il Gabon.
Un’attività a macchia che diventa tappeto. Se Prigožin era rimasto vivo dopo
l’incredibile marcia su Mosca di giugno, si ragionava, probabilmente lo doveva all’A-
frica. I legami personali e d’affari con !gure chiave nelle strutture di potere di molti
paesi facevano temere ai vertici russi che l’eliminazione del capobanda avrebbe
fatto precipitare tutto, o comunque avrebbe proiettato un pericoloso senso d’inaf!-
dabilità sulle alleanze costruite. Bisognava mettere al riparo un prezioso strumento
di espansione regionale: per questo, dopo l’ammutinamento e dopo essere stato
de!nito un traditore della patria, nel giro di pochi giorni Prigožin era stato ricevuto
dal capo dello Stato (notizia fatta !ltrare dalla stessa presidenza), aveva ottenuto la
cancellazione del procedimento per ribellione armata e dal temporaneo esilio in
Bielorussia aveva confermato che la sua compagnia sarebbe rimasta in Africa.
L’assicurazione africana sulla vita, se c’è stata, si è rivelata breve. Già a luglio
il ministero della Difesa russo avrebbe iniziato a reclutare per l’Ucraina uomini
della Wagner in missione sopra e sotto l’Equatore, sostituendo gli «africani» con
nuovi arruolati, meno legati a Prigožin. Il dicastero promuoverebbe allo stesso
tempo l’espansione di altre compagnie private, che a questo punto si guarderanno
dall’alzare troppo il tiro. Con la ribellione di giugno, i programmi del Cremlino e
del paramilitare in capo sono giunti a fatale divaricazione, ma la Wagner in Africa
continuerà a operare.
Il gruppo paramilitare, rivendicato come !liale dello Stato russo solo dopo
l’abbozzato golpe, è stato un incredibile moltiplicatore d’in$uenza. Ma senza l’ap-
poggio del Cremlino non sarebbe mai arrivato in Africa. La crescita delle sue ope-
razioni rivela al contempo una certa episodicità e quindi vulnerabilità dell’azione
russa. Soprattutto nel Sahel, nella «cintura dei golpe» in parte supportati da Mosca
e in parte sospettati di essere prodotto moscovita. Dalla Guinea al Sudan, dall’Afri-
ca centro-occidentale al Mar Rosso, dal 2019 quest’area è attraversata da un’ondata
di colpi di Stato: nove compreso l’ultimo, in Niger. La comparsa di bandiere russe
e gli slogan pro Putin in piazza a Niamey dopo lo spodestamento del presidente
Mohamed Bazoum hanno scatenato crisi di nervi a Parigi e apprensione nelle altre

3. «Musicanti», appellativo ironico con cui gli uomini della Wagner si de!niscono, in omaggio al com-
positore tedesco scelto dal fondatore Dmitrij Utkin (morto anch’egli il 23 agosto nello schianto aereo
192 nei pressi di Tver’) per le simpatie naziste attribuitegli.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

cancellerie europee, oltre che a Washington. «Il favore per i russi ha meno a che
fare con i russi di quanto si creda. Non è che Putin diventa ora un novello Che
Guevara, è che gli africani proprio odiano l’Occidente, dovreste sentirli a porte
chiuse», sostiene un consigliere presente alla riunione della fatidica domanda su
quanto conti l’Africa per la Russia e viceversa.
Il passato coloniale e il profondo risentimento africano proiettano in una di-
mensione ideale l’approccio russo basato su mezzi e scopi limitati e su una presen-
za nel complesso ridotta, imparagonabile all’avanzata strutturale cinese. Certo, fan-
no notare a Mosca, gli scambi commerciali con i paesi africani sono cresciuti in
pochi anni a circa 18 miliardi di dollari (2022). Ma l’Unione Europea è vicina ai 300
miliardi di dollari, la Cina tallona con 254 miliardi e gli Stati Uniti nella loro crescen-
te assenza si attestano comunque a 65 miliardi annui.

3. Lo schema del sostegno militare in cambio di materie prime funziona con


gli Stati più poveri e isolati come quelli centrafricani o del Sahel. Nella più ampia
partita per nuovi assetti globali, il Cremlino gioisce del danno arrecato agli interes-
si occidentali, in questa fase massimamente francesi, con il relativo corredo retorico
da sfruttare. I vertici della Federazione battono sul tasto del neocolonialismo, men-
tre i media russi e i troll sguinzagliati sui social attaccano ogni mossa dell’Eliseo che
in Africa sembra sbagliare qualsiasi mossa. L’implosione della Françafrique ispira
neologismi come Russafrica. Il patriarca ortodosso russo Kirill è chiamato a parlare
di valori tradizionali condivisi con gli africani, partendo dalla censura delle unioni
omosessuali: tutto fa brodo, purché anti-occidentale.
I pesi massimi continentali come Egitto o Algeria, strategici per la proiezione
mediterranea e oceanica, richiedono però ben altro sforzo. Anche il Sudan, che ha
in mano le chiavi del ritorno russo sul Mar Rosso, può permettersi di traccheggiare
e giocare su più campi, mentre i cinesi hanno già una base militare a Gibuti – pros-
sima all’americano Camp Lemonnier – e già si parla di una seconda in Guinea Equa-
toriale. Le ultime notizie sull’accordo per un avamposto navale russo a Port Sudan
rimandano alla formazione di un governo civile per la rati!ca. In Nord Africa, la di-
plomazia moscovita af!ancata dai colossi dell’energia Rosatom, Gazprom e Rosneft’
deve accettare il tergiversare o i negoziati al ribasso di governi che subiscono le
pressioni occidentali e ne appro!ttano per diversi!care interlocutori e contratti. Il
maggior successo può rivendicarlo il conglomerato militar-industriale Rostekh: le
armi russe vendono sempre bene nel Nord del continente ed è russo il 30% degli
armamenti acquistati dai paesi subsahariani tra il 2016 e il 2020. I dati rilevano un
aumento del 23% rispetto al precedente quinquennio che fa mangiare polvere a
Francia e Usa, mentre la Cina regge il confronto segnando un aumento del 20%
nell’export militare 4.
I recenti investimenti russi in Africa, comunque, equivalgono solo all’1% degli
Ide (investimenti diretti esteri) nel continente e il recente vertice pietroburghese

4. «Trends in international arms transfer, 2020», Sipri Fact Sheet, marzo 2021. 193
IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA

non ha aggiunto risorse degne di nota. Il summit, inizialmente previsto per ottobre
2022, è esemplare dell’ambivalenza nei rapporti russo-africani. Su 49 paesi parteci-
panti, 17 erano rappresentati da capi di Stato e il resto da delegazioni varie, mentre
alla prima edizione nel 2019 a So0i erano 45 i paesi presenti al massimo livello. A
quell’incontro Putin aveva dichiarato l’obiettivo di scambi commerciali pari a 40
miliardi di dollari entro un lustro, ma per ora siamo sotto la metà. Cresce invece la
cancellazione del debito (23 miliardi di dollari), che in ogni caso nessuno prevede-
va di estinguere. Il presidente ad interim del Burkina Faso, capitano Ibrahim Tra-
oré, ha rincuorato l’ospite s!dando i leader africani a «smettere di comportarsi co-
me burattini (…) suona(ndo) la musica degli imperialisti». Alla parata navale sulla
Neva che gran parte degli ospiti africani ha disertato, il giovane burkinabé era alle
spalle di Putin e accanto al ministro della Difesa Sergej Šojgu. In Occidente questo
quadretto è visto come un mezzo fallimento, mentre in Russia cantano vittoria
considerando le pressioni che i leader africani hanno dovuto affrontare per sedersi
in platea ad ascoltare Putin.
Altro importante aspetto è la cooperazione in sede Onu: la Federazione Russa
appoggia o blocca risoluzioni di rilievo per gli alleati africani, i quali bocciano o si
astengono nelle votazioni più delicate per Mosca. Così per le due risoluzioni Onu
di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, approvate nel 2022 e nel 2023 da
ampie maggioranze, ma con una raf!ca di paesi africani tra i contrari (sette) e gli
astenuti (oltre trenta). L’iniziativa africana per una soluzione politica al con#itto ha
visto lo scorso giugno una delegazione guidata dal presidente sudafricano Cyril
Ramaphosa a Varsavia (dov’è stata bistrattata), a Kiev (un certo gelo, dato il lecito
sospetto di simpatie !lorusse) e poi a Mosca. Qui Putin l’ha ricevuta con tutti gli
onori, si è tenuto sul vago e ne ha appro!ttato per l’ennesima s!lza di rimostranze
contro il fronte Usa-Nato. Al di là del comune malanimo verso il campo occiden-
tale, tuttavia, l’Ucraina è lontana per un continente che nel 2030 potrebbe ospitare
il 90% dei poveri di tutto il mondo 5 e dove le dinamiche regionali contano sempre
più. Certo, la guerra minaccia le forniture di grano e in quest’ottica il presidente
russo promette approvvigionamenti gratuiti ai più indigenti, insistendo che solo il
3% dei carichi partiti dal Mar Nero in base all’accordo Onu è approdato in paesi a
basso o bassissimo reddito.
La campagna africana del Cremlino è d’altronde fatta di bicchieri mezzi vuoti
(o mezzi pieni) e gli appelli a riattivare l’accordo sul grano, lanciati a San Pietro-
burgo, allungano la serie. L’Africa incarna così uno dei tanti paradossi generati dal
con#itto tra potenze guerreggiato in Ucraina, con vista sul resto del mondo: secon-
daria negli interessi russi, eppure centrale nel più ampio quadro di un’incipiente
transizione geopolitica. Destinazione più che mai incerta.

5. «Is poverty growing again in sub-Saharan Africa? Trends and measures», Istituto per gli Studi di
194 Politica Internazionale (Ispi), 31/7/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Ritorno sui banchi a Mosca nel nome di Lumumba


a cura di Orietta MOSCATELLI

La Russia torna in Africa e a Mosca torna l’Università Patrice Lumumba. L’ate-


neo russo per l’amicizia tra i popoli (Udn) lo scorso febbraio è stato di nuovo inti-
tolato al ministro del Congo assassinato su ordine del Belgio nel 1960 e subito
elevato dall’Urss (cui il leader congolese aveva chiesto aiuto) a simbolo di lotta
all’imperialismo occidentale. L’università, che durante la guerra fredda formava
studenti provenienti da paesi asiatici, latinoamericani e africani, nei suoi oltre ses-
sant’anni di vita ha seguito e subìto gli alti e i bassi della politica estera russa. Figlio
della con!uenza tra internazionalismo e guerra fredda, la sua storia non ha pari. Il
suo futuro è invece appeso alle sorti geopolitiche della Russia che s’immagina di-
versamente globale e, in aperta insurrezione contro l’egemonia americana, si pro-
pone faro dei paesi meno sviluppati e più insofferenti verso un passato coloniale
che fatica a passare.
L’Udn fu fondata in ossequio all’imperativo comunista di dare istruzione ai
meno abbienti e alla convinzione che sarebbe stato pro"cuo, oltre che nobile, for-
mare nuove classi dirigenti per il cosiddetto Terzo Mondo. Per questa parte del
pianeta, sensibile ai princìpi egalitari professati dai soviet, Mosca preferiva già allo-
ra l’espressione razvivajuš0ie strany, paesi in via di sviluppo. L’idea era che i di-
plomati Lumumba avrebbero contribuito a traghettare gli Stati di provenienza, in
molti casi freschi d’indipendenza, nel Secondo Mondo, ovvero nel blocco sociali-
sta. Altra formula all’epoca non gradita, ma rispuntata negli scenari geopolitici
dell’eurasista Aleksandr Dugin.
La teoria che ispirava il progetto risultò di complessa applicazione. Già il con-
cetto di élite da formare cozzava con l’ideale di un mondo senza divisioni di classe.
I rapporti con i paesi africani che inviavano studenti erano poi troppo differenziati
per una formula diplomatica unitaria, mentre l’insegnamento si rivelò punteggiato
di ombre e distinguo, con l’attivo contributo americano. Washington arrivò a para-
gonare la Lumumba a Qoms, la città sacra iraniana dove si erano formati i leader
della rivoluzione khomeinista. D’altra parte, capitava che le matricole avessero
aspirazioni poco ortodosse anche in termini sovietici e questo non aiutava. Come
nel caso di Carlos lo sciacallo, anche se il futuro terrorista venezuelano veniva
espulso dopo appena un anno di studi, nel 1970. La Lumumba non aveva infatti il
mandato di forgiare rivoluzionari e comunisti da esportare, obiettivo perseguito
negli anni Trenta dall’Unione Sovietica e da altri paesi socialisti tramite le scuole
del Komintern o l’Università degli operai di Cina.
L’Urss emersa superpotenza dalla seconda guerra mondiale era "era del pro-
prio sistema d’istruzione e riteneva che formando specialisti stranieri avrebbe pro- 195
IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA

dotto automaticamente tecnici, dirigenti e politici amici. Così in buona parte fu.
L’epoca di Nikita Khruš0ëv, al timone dal 1953, era però quella della «coabitazione
paci"ca» eretta a principio di azione esterna e anche «l’aiuto disinteressato» della
madrepatria socialista ai paesi in via di sviluppo fu somministrato con cautela, cer-
cando di evitare nuovi motivi di scontro con gli Usa. Questo non impedirà che si
arrivi nel 1962 alla crisi cubana, ma in generale per la Lumumba signi"ca evitare di
trasformarsi in un polo di contestazione.
Ne deriva una progressiva normalizzazione che "nisce per penalizzarla.
Nell’Urss di Brežnev era già dif"cile capire perché si dovesse aspirare a conseguire
una laurea presso l’ateneo di via Miklukho Maklaj, a sud-ovest di Mosca. Con la
perestrojka furono poi spalancate le porte a chiunque potesse permettersi di paga-
re, crebbero le iscrizioni dall’ex Urss e dalla stessa Russia. L’amicizia tra i popoli
assumeva sfumature non previste dai fondatori, "gli dell’unione indissolubile di
repubbliche libere celebrata dall’inno sovietico.
Durante la guerra fredda la Lumumba non era l’unica meta per gli studenti
africani, che in genere preferivano atenei «normali» dove si mischiavano con i ra-
gazzi sovietici e non si sentivano presi nella trappola di un progetto con inevitabi-
li risvolti di propaganda. Alcuni studi sull’argomento indicherebbero che, a parte
gli alumni famosi (relativamente pochi), quanti vi studiarono abbiano avuto meno
fortuna nelle loro carriere rispetto ai connazionali formatisi in altre università sovie-
tiche. Sono stati tuttavia per decenni ingegneri, medici, insegnanti e funzionari
pubblici, spesso dopo un passaggio formativo in altri paesi, magari occidentali.
Servitori dello Stato, anonimi ingranaggi delle macchine governative da "ne anni
Sessanta: il reale investimento che Putin vuole rinnovare.
Allargando lo sguardo all’insieme degli atenei sovietici, dal 1956 al 1991 circa
60 mila studenti provenienti da nazioni arabe e 56 mila dall’Africa approdarono in
Urss, con la Russia a fare la parte del leone. Al momento della dissoluzione sovie-
tica i laureati dai paesi arabi erano 47.312, quelli da paesi africani 43.500. Nel 1962
gli studenti africani in Urss erano tre volte meno di quelli inviati in Francia, Regno
Unito o Stati Uniti; nel 1979 arriva il sorpasso sul Regno Unito e dal 1988 al 1991
vengono superati anche gli Usa1.
Oggi nelle amministrazioni di molti paesi africani lavorano persone che a "ne
anni Ottanta frequentavano atenei (ancora per poco) sovietici o che nei primi No-
vanta ottennero un diploma «su basi commerciali», fantasiosa declinazione mosco-
vita della transizione verso il libero mercato che permetteva ad esempio di pagare
la retta universitaria tramite l’acquisto di attrezzature. Senza grandi nostalgie, chi ha
frequentato la Lumumba o altre università sovietiche spesso ammette un senso di
gratitudine per l’occasione ricevuta (a spese di Mosca) e una generica comprensio-
ne per le «istanze internazionali» russe. Questo non signi"ca sottoscrivere, ma per
Mosca è già tanto.

1. «The Lumumba University in Moscow: Higher education for a Soviet–Third World alliance, 1960-
196 91», Journal of Global History, vol. 14, n. 2, pp. 281-300, luglio 2019.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

In base ai dati del rettorato della Lumumba, il ritorno di !amma per l’Africa
alimenta una costante crescita degli studenti dal continente, che però costituiscono
circa il 4% degli iscritti stranieri a fronte di un 25-30% in passato. Oggi come allora,
inoltre, quasi nessuno resta nella Federazione Russa dopo la laurea. Se Mosca in-
veste sugli studenti dai razvivajuš0ie strany, africani in particolare, è in primo
luogo per proiettare l’immagine di paese a essi veramente interessato. L’arruola-
mento comunque procede, malgrado i canali uf!ciali con la Russia siano limitati e
le strutture diplomatiche ancora assenti in diversi paesi del continente africano. Si
può procedere di persona e via Internet, in genere comunque richieste e selezioni
passano per gruppi come le associazioni delle diaspore o tramite accordi con le
università, in parte sospesi dopo l’invasione dell’Ucraina.
Al secondo summit Russia-Africa (luglio 2023) Vladimir Putin ha sfoggiato nu-
meri signi!cativi, sommando le presenze in tutta la Federazione e forse alzando un
po’ l’asticella con l’aggiunta di esperienze minori. «Oggi negli istituti russi studiano
quasi 35 mila studenti dall’Africa e questo numero cresce di anno in anno. La quo-
ta stanziata a bilancio per gli studenti africani in tre anni è cresciuta di due volte e
mezzo». Il presidente ha proposto di aprire !liali di università russe in Africa e di
studiare la possibilità di scuole dove si insegni in russo. «Sono sicuro che la realiz-
zazione di tali progetti, lo studio della lingua russa e l’introduzione degli alti stan-
dard d’istruzione del nostro paese saranno il miglior fondamento per una collabo-
razione mutualmente bene!ca e paritaria». La Cina in questo senso è attivissima.
Come per molti aspetti dei rapporti Russia-Africa, invece, alla teoria non è sempli-
ce far seguire la pratica e la guerra in Ucraina complica le cose. Intanto a San Pie-
troburgo è stato !rmato l’accordo per un consorzio di università tecniche Nedra
Afriki – letteralmente «sottosuolo», ma anche viscere, cuore dell’Africa. Esso preve-
de, e non stupisce, «la formazione congiunta di specialisti per il settore minerario e
delle materie prime».

197
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL MARE DI ANKARA
BAGNA NIAMEY di Daniele SANTORO
Per la Turchia il Niger è retroterra della Tripolitania, perno della sua
strategia marittima. L’approccio turco alle Afriche non è solo armi
e risorse, ma anche pedagogia e cultura. Il possibile triangolo afro-
mediterraneo con Francia e Italia. Le affinità tattiche con Mosca.

1. P ER LA TURCHIA IL NIGER È UNA QUESTIONE


marittima. Ankara scruta le dinamiche in corso nel paese saheliano quasi esclusi-
vamente attraverso il prisma libico. A conferma di come le Libie siano oggi – e
saranno nel futuro prevedibile – il fulcro della geopolitica afro-mediterranea di
Erdoãan, a sua volta nucleo imprescindibile della grande strategia af!nata negli
ultimi decenni dagli apparati anatolici. Non perché !ne ultimo della proiezione
imperiale dei nipoti di Mustafa Kemal, ma in quanto strumento indispensabile per
sostanziare geopoliticamente le ambizioni manifeste nella dottrina della Patria Blu.
Patto nazionale acquatico volto innanzitutto a stimolare la progressiva evoluzione
della nazione turca in potenza marittima. Dunque in attore propriamente globale
in grado di competere per la supremazia planetaria con le talassocrazie. Vere o
presunte. Proposito che impone alla Turchia di spostare sui mari la competizione
con i rivali, di rendere le acque prede ambite quanto le terre, !ne ultimo del sacri-
!cio collettivo, meta !nale dell’anelito imperiale riattizzato dalla !ne dell’èra bipo-
lare e dall’avanzante declino della superpotenza americana.
In tal senso, l’operazione in Tripolitania del 2020 ha segnato uno spartiacque
epocale. Nella loro bimillenaria storia imperiale i turchi hanno sempre guardato il
mare dalla terra. Quando ci sono riusciti. Generati dalle profondità asiatiche, non
sono mai stati titolari di un impero propriamente marittimo. Con la parziale ecce-
zione degli ottomani. Innanzitutto per assenza di volontà, per mancanza di attra-
zione verso l’elemento liquido. Il selgiuchide Kavurt, fratello minore di sultan Al-
parslan, riuscì ad esempio a fondare un peculiare Stato marittimo centrato sullo
Stretto di Hormuz, dunque dotato di uno strategico sbocco oceanico. Ma il fonda-
tore della dinastia dei selgiuchidi di Kerman – così come i suoi discendenti – non
si lanciò sui "utti oceanici alla volta delle Indie e delle Afriche. Bramava la solida
aridità dell’altopiano iranico. Per istinto, scelse la terra volgendo le spalle al mare. 199
200
LETTONIA Paesi ai quali sono stati venduti droni da Apertura tratta mediana Istanbul-Xi’an
combattimento Bayraktar Tb2, Akıncı o Anka-S del corridoio Londra-Pechino
REGNO Mare LITUANIA Potenziali acquirenti di droni da
UNITO del Nord combattimento turchi
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IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

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Paesi membri dell’Organizzazione
degli Stati turchi
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Paesi osservatori dell’Organizzazione ARABIA
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degli Stati turchi SAUDITA


E.A.U. Golfo
Ro

Triangolo strategico
di Oman
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Turchia-Azerbaigian-Pakistan
Basi turche NIGER
CIAD
Tensioni marittime tra Turchia e Grecia ETIOPIA INIZIATIVE GEOPOLITICHE TURCHE
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Furono solo gli ottomani, in quanto eredi di Roma, a porsi il tema della poten-
za marittima in termini propriamente strategici. Per quanto l’ef!mera supremazia
instaurata dalla Porta sulla sezione orientale del mare nostrum ebbe natura in larga
parte accidentale, conseguenza quasi meccanica della conquista di Costantinopoli.
Dunque dell’introiezione dello spirito imperiale romano, del quale i discendenti di
Osman si consideravano custodi ed eredi designati. Con la parziale eccezione
dell’apogeo dell’epoca classica – coincidente con il lungo regno di Solimano il
Magni!co, che si spinse a inviare imbarcazioni turche nelle acque dell’Oceano
Indiano – gli ottomani non riuscirono tuttavia a sviluppare un approccio geopoli-
tico propriamente marittimo, o meglio talassocratico. Ancora all’epoca di Bayezid
II, tra la !ne del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, la grande strategia marit-
tima ottomana era centrata sul sostegno materiale ai mamelucchi d’Egitto in chiave
antiportoghese 1. Il suo successore Selim non intendeva conquistare il Mediterraneo
– come in effetti fece – e neppure Damasco e Il Cairo. La guerra contro i cugini
mamelucchi del 1516-17 rispondeva alla necessità tattica di prevenire interferenze
logistiche nella progettata campagna !nale contro il safavide øsmail, già sbaragliato
due anni prima nell’epica battaglia di Çaldıran – la cui eco, come testimonia Orhan
Pamuk in Il mio nome è rosso, si è riverberata per decenni nella coscienza collettiva
turco-persiana. Selim cercava Tabriz e il Turan. Trovò il Mediterraneo per caso 2.
L’attuale penetrazione turca nelle acque mediterranee non è invece casuale. È
al contrario frutto di un preciso disegno strategico, abbozzato adottando una pro-
spettiva propriamente marittima. Come rivela la natura dell’operazione libica. Il
successo della conquista terrestre è stato dovuto unicamente alla supremazia in-
staurata dalla Marina turca nelle acque che uniscono le coste anatolica e tripolitana.
Il cuore della guerra libica è stato il mare. Obiettivo, non strumento, dal momento
che la proiezione nelle Libie è innanzitutto funzionale a consolidare il controllo di
Ankara sull’arco d’interdizione mediterraneo delineato dall’accordo sulle frontiere
marittime stipulato con il governo di Tripoli nel novembre 2019. Condizione posta
da Erdoãan all’allora primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fåyiz
al-Sarråã per concedergli la sua interessata protezione.
Probabilmente per la prima volta nella loro storia i turchi guardano la terra dal
mare, collocando nell’elemento liquido il loro punto d’osservazione strategico.
Calando nelle acque il perno della propria rotazione geopolitica. Accenno di rivo-
luzione antropologica e culturale che in questa fase rende le Libie la priorità tattica
assoluta della Turchia. Ed è per questa ragione che non vanno dimenticati gli
obiettivi fondamentali perseguiti da Ankara nell’ex vilayet ottomano di Trablu-
sgarp. Il proposito di Erdoãan non è instaurare un protettorato sull’ex Quarta
Sponda ma avvalersi di quest’ultima per far riverberare sul mare nostrum la poten-
za marittima repubblicana, prospettiva consolidata ad esempio dal progetto di base

1. Cfr. B. CIANCI, Le navi della Mezzaluna. La Marina dell’Impero ottomano (1299-1923), Bologna
2015, Odoya, pp. 69-70.
2. Cfr. ad esempio Y. ÖZTUNA, Yavuz Sultân Selîm (Yavuz Sultan Selim), østanbul 2006, Ötüken, pp.
79-81. 201
IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

navale a Œums 3. Il "ne ultimo è il mare, non la terra. In termini concreti, la Turchia
si propone di consolidare a Tripoli un governo amico capace di estendere la pro-
pria sovranità sull’intero spazio libico. In particolare sulla costa cirenaica, limes
giuridico del Mediterraneo turco insieme all’Anatolia sud-occidentale. In principio,
senza pretendere di esercitare in#uenza esclusiva su di esso né tantomeno di an-
nettere più o meno (in)formalmente le Libie riuni"cate. Prospettiva che i turchi
saranno tuttavia costretti a rincorrere per mancanza di interlocutori ragionevoli e
autocentrati nell’area mediterranea – il pur apprezzabile equilibrismo dell’Italia tra
Ankara e Parigi non basta a rendere tale il nostro paese.
È alla luce di tali priorità – che si traducono geopoliticamente nella volontà di
preservare e sostanziare l’accordo sulle frontiere marittime del 2019, componente
essenziale del progetto della Patria Blu – che vanno interpretate le recenti mosse
africane della Turchia. Quantomeno i tempi e modi con cui sono state giocate. La
riconciliazione a condizioni tutt’altro che favorevoli con l’Egitto di al-Søsø, la con-
servativa indifferenza esibita da Erdoãan di fronte all’estromissione da Tunisi dei
«suoi» Fratelli musulmani da parte di francesi e arabi del Golfo, il cauto attendismo
con il quale il presidente turco osserva le dinamiche innescate a Niamey dal golpe
di "ne luglio.

2. Ankara ha condannato molto blandamente l’iniziativa golpista della giunta


militare nigerina, sottolineando la natura democratica del governo di Mohamed
Bazoum e auspicando la restaurazione dell’ordine costituzionale, ma mettendo in
chiaro che in ogni caso «resterà al "anco del Niger in questo periodo critico» 4.
Tale approccio ri#ette il dilemma tattico di Erdoãan, determinato a impedire la
destabilizzazione dell’Africa centro-occidentale e al contempo interessato ad ap-
pro"ttare della decomposizione della Françafrique e dell’indifferenza americana
per consolidare la proiezione della Turchia nella regione, giocando di sponda con
Russia e Cina.
Dalla prospettiva anatolica, l’importanza strategica del Niger risiede innanzi-
tutto nel lungo con"ne terrestre con le Libie. Non è un caso che Ankara abbia
stipulato il corposo accordo di cooperazione militare con Niamey subito dopo
aver ottenuto la decisiva vittoria militare in Tripolitania contro la coalizione fran-
co-russo-egiziana, nel luglio 2020. Sulla base di quest’intesa, la Turchia ha fornito
all’esercito nigerino gli aerei da combattimento leggeri Hurkus, veicoli corazzati
per il trasporto delle truppe, sistemi di sorveglianza elettronica e ovviamente i
celebri droni da combattimento Bayraktar Tb2. Oltre ai consiglieri militari incari-
cati di addestrare (e indottrinare) gli uf"ciali delle Forze armate del paese africa-
no. Modello già testato con successo in molteplici e variegati contesti – dall’Azer-
baigian alle Libie, dalle Somalie all’Albania – che permette alla Turchia di avvaler-
3. «Dbeibeh’s government denies handing Khoms port to Turkey to use as military base», Libya Upda-
te, 17/8/2023.
4. F. TAùTEKIN, «Why Turkey’s Erdogan sings the same tune with Russia’s Putin in Africa», Al Monitor,
202 14/8/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

si della vendita di armamenti per colonizzare ed eterodirigere gli eserciti dei pae-
si destinatari degli stessi. Anche perché la cooperazione militare fa da sfondo a
iniziative civili che alimentano la proiezione culturale turca, favorendo l’introie-
zione del modello e della visione del mondo anatolici da parte delle masse afri-
cane. Ankara si è certamente assicurata lo sfruttamento di una parte consistente
del settore minerario nigerino e lucrosi appalti come quello per la costruzione
dell’aeroporto internazionale di Niamey. Ma si è anche premurata di dotare di
scuole funzionanti i più sperduti villaggi del Niger, di equipaggiare i locali ospe-
dali, di ristrutturare moschee, di promuovere nelle madrase un’educazione reli-
giosa ispirata all’islam turco, di patrocinare programmi per lo sviluppo dell’occu-
pazione femminile, persino di dotare la tv di Stato delle strumentazioni necessarie
alle trasmissioni in diretta 5.
Tale complesso di iniziative militari e civili rende la Turchia il paese più in-
"uente in Niger – al netto dell’effervescente ed evanescente scenogra#a allestita
dalla Russia dopo il golpe di #ne luglio – e il Niger il tassello più pregiato del
domino africano della Turchia. Nel breve periodo quest’ultima intende avvalersi
della propria proiezione nel paese saheliano soprattutto per presidiare il con#ne
meridionale delle Libie, allo scopo di impedire che le caotiche dinamiche che at-
tanagliano l’Africa occidentale si riverberino nello strategico spazio libico. Com-
promettendo la grande strategia afro-mediterranea di Ankara, pilastro del «secolo
della Turchia». È alla luce di questa priorità che Erdoãan interpreta il colpo di
mano della giunta militare guidata da Abdourahamane Tchiani, in linea di princi-
pio contrario agli interessi turchi. Il golpe rischia infatti di creare terreno fertile alla
recrudescenza del terrorismo jihadista, come dimostra l’attentato che ha mietuto
una dozzina di vittime tra i soldati nigerini al con#ne con il Mali a metà agosto 6.
Senza contare il pericolo che le tensioni interne possano sfociare in una guerra
civile a intensità variabile e che le mosse azzardate dei golpisti inducano l’Ecowas
a guida nigeriana all’intervento militare 7. Dinamiche che in#ammerebbero l’Africa
occidentale risucchiando nel caos le Libie, privando la Libia turca della profondità
difensiva e pregiudicando l’azione stabilizzatrice di Ankara sulla sponda Sud del
mare turcicum. Proprio mentre la riconciliazione con gli Emirati Arabi Uniti avreb-
be potuto indurre Abu Dhabi a rimuovere il veto alla costruzione di una base mi-
litare turca in Niger, come previsto dall’accordo di cooperazione militare tra Anka-
ra e Niamey.
È per questo che Erdoãan – come in Mali nel 2020, quando spedì l’allora mi-
nistro degli Esteri Mevlüt Çavuúoãlu a Bamako per legittimare il golpe di agosto –
ha preferito prendere atto del fatto compiuto e mettere il cappello sulla giunta mi-
litare. Mossa solo apparentemente controintuitiva che permette alla Turchia di con-

5. Queste sono alcune delle iniziative condotte nel paese dall’Agenzia turca per la cooperazione e lo
sviluppo (Tika), tika.gov.tr
6. «More than a dozen Niger soldiers killed in attack near Mali border», Al Jazeera, 16/8/2023.
7. M.A. ADOMBILA, «West African bloc says ‘D-Day’ set for possible Niger intervention», Reuters,
19/8/2023. 203
204
I colli di bottiglia
LA MARCIA TURCA 1
1 Kerč’
Tar Mar Nero
Ma an 2 Bosforo
rsa to 2
xlo 2 3 Ankara
Bis kk Mar 3 Dardanelli
ert (M 1 Aliağa (İzmir) T UR CH I A Caspio
a ALT 4 Gibilterra
4 5 A) Konya
TUN. 3 6 7 8 5 Stretto di Sicilia
Sfax
6 Mare di Creta
Tājūrā’
Oceano Tripoli 4 5 Misurata
6 7 Dodecaneso
Atlantico al-Watiyya
.
IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

9 8 Golfo di Alessandretta
A LG ERIA 9 Canale di Suez
10 Bāb al-Mandab
LIB IA

Ma
r
Ramo atlantico

Ro
Ramo indo-paci!co
M AL I sso Corridoio del Mediterraneo centrale
Sawákin 9
NIG E R
Dakar 7 SENEGAL
S UDAN
GAMBIA 10

S OM A L IA
Infrastrutture costruite o controllate dalla Turchia E T I OPI A
1 Porto di Aliağa Origine del corridoio afro-oceanico Oceano
2 Porto di Taranto della Turchia Indiano
3 Porto di Malta Sbocchi oceanici dell’Anatolia
4 Aeroporto internazionale di Mitiga (Tripoli) Snodi imprescindibili del corridoio 8 Mogadiscio
5 Aeroporto militare e base navale di Misurata afro-oceanico della Turchia K E NYA
6 Base aerea di al-Watiyya Paesi di rilevanza strategica per il
corridoio afro-oceanico della Turchia
7 Aeroporto internazionale Blaise Diagne di Dakar
Arco d’interdizione mediterraneo
8 Aeroporto internazionale e porto commerciale di Mogadiscio della Turchia - Zee turca
9 Progetto di base militare turca sul Mar Rosso Arco d’interdizione mediterraneo TA N Z A N I A
Centri di addestramento delle Forze armate libiche della Turchia - Zee libica
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

tinuare a dare le carte nella partita saheliana e di smussare le tensioni lungo la linea
di faglia che ormai separa nettamente paesi anti-occidentali e !lo-occidentali. Lad-
dove la priorità di Ankara non è l’orientamento più o meno democratico dei regimi
africani ma la stabilità del Sahel, da cui dipende quella della frontiera libico-nigeri-
na e dunque la sicurezza delle Libie. Nella consapevolezza che nessun governo al
potere a Niamey avrebbe interesse a liquidare la profonda cooperazione tra Tur-
chia e Niger, pietra angolare della grande strategia afro-mediterranea di Ankara.
Il paese saheliano è infatti il vero connettore tra i due termini dell’equazione
strategica, l’Africa e il Mediterraneo, nonché «snodo oceanico» dell’Anatolia. In una
prospettiva di lungo periodo, l’Africa serve infatti alla Turchia principalmente come
piattaforma logistica che può permettere ai turchi di raggiungere gli oceani aggi-
rando Suez e Gibilterra. Mediante l’accordo sulle frontiere marittime con Tripoli e
l’intervento militare del 2020 in Tripolitania Ankara ha conquistato una pur precaria
continuità territoriale tra l’Anatolia e il Nord Africa, garantendosi al contempo
avamposti logistici sulla costa indo-paci!ca del Continente Nero come il porto e
l’aeroporto di Mogadiscio. Mentre le sempre più solide relazioni con il Senegal la-
sciano intendere che i turchi abbiano individuato Dakar come terminale atlantico
del corridoio africano. Contestualmente, la Turchia ha disseminato Sahel e Corno
d’Africa di infrastrutture funzionali ai propri obiettivi strategici. Strade, autostrade,
ferrovie, ponti, aeroporti. Come appunto quello di Niamey, capitale di fatto del
vicereame africano della Turchia. Delineando lo scheletro di un asse multimodale
il cui sviluppo orienta l’approccio di Ankara al grande gioco continentale.

3. Dalla prospettiva della Turchia l’Africa è un microcosmo del mondo post-


americano. Con gli europei in ritirata, gli Stati Uniti indifferenti anche perché impo-
tenti, Russia, Cina, India e petromonarchie arabe all’arrembaggio. Come dimostra-
no la colonizzazione della Somalia e l’impresa libica, nel Continente Nero Ankara
dispone di margini di manovra molto più ampi rispetto a quelli di cui gode in
Eurasia, circostanza che rende la piattaforma africana una sorta di palestra imperia-
le nella quale gli eredi degli ottomani possono testare limiti ed ef!cacia del model-
lo sviluppato per (ri)conquistare il primato globale.
Ciò non signi!ca che la proiezione turca in Africa abbia necessariamente un
orientamento anti-occidentale o anti-americano. Al contrario. La narrazione che
esalta la penetrazione continentale di Russia, Cina e Turchia a scapito dell’Occiden-
te trascura la competizione latente tra i rivali dell’America, mascherata da intese
tattiche volte principalmente a dissimulare le rispettive debolezze. Come in altri
quadranti, i turchi giocano di sponda con russi e cinesi per guadagnare spazio e
in"uenza ma si premurano di armonizzare le proprie mosse tattiche con gli inte-
ressi della superpotenza.
La stessa competizione con la Francia origina più dall’ossessione antiturca di
Parigi che dalla reale volontà di Ankara di scardinare la Françafrique e l’in"uenza
francese in Nord Africa. Queste ultime stanno collassando per ragioni indipen-
denti dall’iniziativa africana di Erdoãan, che si limita a riempire il vuoto creato 205
206
L’ACCORDO MARITTIMO TRA TURCHIA E LIBIA T U R C H I A
M ar M e dite r r ane o G RE CIA
Rifornimenti di armi,
miliziani dalla Siria
TU NISIA e di logistica dalla Turchia
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IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

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la -Q Lna - Esercito nazionale
A LGERIA .
libico e alleati (Haftar)
Kufra Appoggiato da:
NIGER E.A.U., Egitto, Russia e Francia
Gnu - Governo di unità nazionale
Area di forti scontri (al-Dbeibeh)
Appoggiato da: Turchia, Italia, Usa,
EUNAVFORMED IRINI Regno Unito, Algeria, Qatar
Grecia e Italia si alternano ogni sei mesi al C IA D
comando in mare della missione Ue incaricata
di applicare l’embargo sulle armi alla Libia, che Milizie locali (tebu e tuareg)
sconta però l’ostilità turca e una componente S UDAN
navale sottodimensionata Brigate di Misurata
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

dalla ritirata dell’ex potenza egemone prima che lo facciano Russia e Cina. Dina-
mica apparentemente favorevole agli interessi euroatlantici che tuttavia provoca
profonde inquietudini strategiche all’Eliseo, stante la percepita minaccia separati-
sta alimentata dalla Turchia all’interno dell’Esagono mediante le rami!cazioni dei
propri apparati nelle moschee e nelle comunità maghrebine d’Oltralpe. Pericolo
la cui entità viene evidentemente dilatata dalla crescente in"uenza di Ankara nel-
le Afriche che Parigi continua a ritenere di propria pertinenza. Tanto che i france-
si guardano paradossalmente con meno disagio alla penetrazione continentale di
russi e cinesi.
In realtà, la percezione della minaccia turca non è nulla più di un ri"esso
pavloviano. Russia e Cina sono due grandi potenze che dispongono di risorse
nettamente superiori a quelle della Francia, mentre agli occhi di quest’ultima la
Turchia è un attore di seconda classe che riesce a ottenere successi strepitosi con
disponibilità materiali limitate. Compensando tale svantaggio con un uso propria-
mente strategico del fattore umano. Esattamente ciò che ai francesi non riesce
(più). Nei successi di Ankara Parigi vede dunque ri"esso il proprio strutturale
declino. Di qui l’irrazionale frustrazione che induce Macron a intravedere in Er-
doãan addirittura una minaccia alla sicurezza nazionale transalpina. Manifestazio-
ne di autolesionismo geopolitico che non trova riscontro nelle concrete dinami-
che della competizione africana, nella quale viceversa nulla impedirebbe a turchi
e francesi di giocare di sponda per irrobustire la propria proiezione di lungo pe-
riodo. Come dimostra l’accondiscendente reazione di Erdoãan al golpe antiturco
promosso in Tunisia dall’Eliseo con l’interessata partecipazione di sauditi ed emi-
ratini, atteggiamento che rivela la disponibilità della Turchia a tenere in conside-
razione gli interessi francesi e a dare vita a una relazione transazionale mutua-
mente vantaggiosa con il rivale.
Nello speci!co caso tunisino, pur avendone le capacità Ankara non ha de-
stabilizzato il fragile paese nordafricano, sviluppando al contrario pro!cue rela-
zioni con il presidente golpista Kaïs Saïed, castigatore dei Fratelli di Erdoãan. A
riprova di come un’intesa tattica franco-turca potrebbe contribuire in modo de-
terminante alla stabilizzazione di Nord Africa e Sahel, arginando la penetrazione
di Russia e Cina. Con la naturale benedizione degli americani, a cui – insieme
– turchi e francesi potrebbero strappare concessioni in altri ambiti e teatri. Pro-
spettiva alla quale l’Italia potrebbe offrire un contributo tutt’altro che modesto,
sfruttando le profonde relazioni con Ankara e Parigi per proporsi come vertice
informale di un triangolo strategico afromediterraneo, attenuando l’ideologica
ostilità francese nei confronti della Turchia, fungendo da camera di compensa-
zione dei dissidi tra le due potenze. Allo scopo di (ri)guadagnare una relativa
centralità nella partita libica. Concorrendo così a destrutturare l’intesa di conve-
nienza turco-russa, quantomeno in Africa.

4. La multidimensionale convergenza tattica tra Turchia e Russia è ormai un


genere letterario, reso popolare dall’entità e dalla relativa longevità degli accordi 207
IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

informali mediante i quali Ankara e Mosca si sono di fatto spartite i Caucasi, le Sirie
e le Libie. Proponendosi di adattare alle Afriche profonde il modello sperimentato a
partire dall’incidente del novembre 2015, quando gli F-16 turchi abbatterono un Su-
24 russo al con!ne turco-siriano. La narrazione centrata sul proposito dei due (pre-
suntamente) ex rivali di cooperare strategicamente per scardinare l’egemonia occi-
dentale e sull’altrettanto presunta volontà della Turchia di aderire al blocco sino-rus-
so trascura tuttavia la reale (contro)natura geopolitica dell’intesa tra i due ex imperi.
A unire idealmente Ankara e Mosca è l’af"ato revisionista che ne permea am-
bizioni e suggestioni, l’insopprimibile e connaturato desiderio di restaurare i rispet-
tivi spazi imperiali, dunque l’anelito a presiedere alla fondazione di un sistema
globale imperniato sulle sfere d’in"uenza e non sull’egemonia americana. In prin-
cipio dunque è l’America, il senso di assedio che attanaglia le due potenze eurasia-
tiche e la contestuale percezione del declino della superpotenza, che alimenta la
convinzione di poter allentare le maglie del contenimento statunitense unendo le
forze. Le convergenze tra Turchia e Russia non hanno nulla di strategico, rispon-
dono a un !siologico istinto di sopravvivenza, che per turchi e russi è sinonimo di
restaurazione del proprio status imperiale. Con il recente paradosso che la guerra
d’Ucraina ha ribaltato i rapporti di forza, proiettando Ankara nel ruolo di senior
partner. Di questo passo, sarebbe eventualmente Putin a entrare nel mondo a gui-
da turca, non Erdoãan a aderire al blocco sino-russo.
In termini operativi, le poco cordiali intese tra Turchia e Russia non implicano
alcun proposito comune di lungo periodo, sono al contrario manifestazione di una
radicata e irriducibile rivalità, della vitale necessità di evitare un !siologico con"it-
to che indebolirebbe entrambe e consoliderebbe l’egemonia americana. Sotto il
pro!lo strategico, dunque, Ankara non è né !lo-occidentale né !lorussa. È esclu-
sivamente !loturca. E nello speci!co contesto africano l’autonomia strategica ana-
tolica – di cui la convergenza tattica con la Russia è solo una declinazione – assu-
me tonalità tutt’altro che anti-americane. Turchi e russi si sono ad esempio spartiti
le Libie, ma Erdoãan ha legittimato agli occhi degli Stati Uniti l’intervento militare
in Tripolitania con la (ragionevole) necessità di impedire che le milizie del Gruppo
Wagner raggiungessero Tripoli, dunque che Mosca mettesse sotto scacco il !anco
Sud della Nato. Analogamente, il presidente turco non disdegna gli investimenti
cinesi, anche (e soprattutto) nei settori strategici, "irta con Xi Jinping lungo le nuo-
ve vie della seta, al contempo però si propone agli Stati Uniti quale baluardo per
arginare la penetrazione della Repubblica Popolare in Africa 8. A riprova di come
la Turchia intenda coltivare il proprio progetto imperiale senza uscire prematura-
mente dal ventre americano, anzi premurandosi di tenere in considerazione – per
quanto strumentalmente – gli interessi della superpotenza. Anche perché Ankara
proietta i propri disegni imperiali nel lunghissimo periodo, come dimostra la posta
in gioco massima dell’Iniziativa africana di Erdoãan.
Nella prima intervista rilasciata dopo il golpe in Niger, il presidente dell’Asso-
8. Cfr. il documento pubblicato nell’ottobre 2020 dal Consiglio per gli affari Turchia-Usa (Taik),
208 «Re-thinking Turkey-US Economic Relations in the Covid-19 Context».
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

ciazione degli amici dell’Africa – organizzazione fondata a Istanbul nel 2015 con il
compito di promuovere le relazioni tra Turchia e paesi africani nel settore dell’istru-
zione – ha ricordato che Ankara provvede all’istruzione di circa sessantamila afri-
cani, i quali «stanno imparando a guardare il mondo, vengono allevati con una
coscienza ben de!nita. Sanno perfettamente che la Turchia è al loro !anco senza
se e senza ma. Tutti gli africani che istruiamo in Africa sono nostri amici, perché
vengono educati in modo differente. Percepiscono sé stessi diversamente rispetto
ai loro pari che studiano o hanno studiato in Francia e in Canada. E saranno loro
a plasmare il futuro del continente. Questi giovani cresceranno e renderanno lumi-
noso l’avvenire dell’Africa. È una dinamica irreversibile» 9.
La componente pedagogica è l’aspetto che più distingue la grande strategia
africana della Turchia, rendendola peculiare e per certi versi inimitabile. Ankara
non concepisce l’Africa esclusivamente come forziere di risorse naturali o come
campo da gioco sul quale testare schemi di cooperazione competitiva con i rivali
dell’America. Ambisce a intestarsi la guida del continente formandone le classi di-
rigenti del futuro, forgiando e legando preventivamente a sé gli apparati che nei
prossimi decenni tesseranno le trame africane. Approccio intergenerazionale che
ri#ette cristallinamente la visione irriducibilmente imperiale che orienta l’iperattivi-
smo di Ankara nel Continente Nero.

9. «Kıtanın umudu Türkiye! “Cin úLúeden çıktı”» («Il futuro del continente è la Turchia! “Il genio è usci-
to dalla bottiglia”»), Timeturk, 10/8/2023. 209
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

‘Non abbiamo capito


che l’Africa è cambiata’
Conversazione con Emanuela C. DEL RE, rappresentante speciale dell’Unione
Europea per il Sahel, a cura di Lucio CARACCIOLO e Giuseppe DE RUVO

LIMES Perché il Niger è così importante?


DEL RE Negli ultimi anni, la centralità del Niger è diventata sempre più evidente per
vari motivi. Innanzitutto perché era un paese democratico con un presidente,
Mohamed Bazoum, legittimamente eletto nel 2021. Vi sono poi ragioni strategiche,
che riguardano la lotta al terrorismo e il contrasto ai traf!ci illeciti, incluso quello
di migranti irregolari verso la Libia e l’Europa. Inoltre, è fondamentale per noi ac-
compagnare lo sviluppo di un paese che si trova in una posizione geogra!ca così
strategica per le dinamiche euro-mediterranee-africane. Nel 2018, quando ero vice-
ministra agli Esteri dell’Italia, decisi di reintegrare il Niger nella lista dei paesi prio-
ritari per le azioni della cooperazione allo sviluppo italiana, proprio per premiare
lo spirito collaborativo del paese e la sua capacità di sviluppare progetti reciproca-
mente pro!cui per l’Italia e l’Europa, in un quadro di partenariato su base eguali-
taria. L’obiettivo era promuovere lo sviluppo del paese e, al contempo, provare a
risolvere alcuni problemi strutturali – come quelli della migrazione irregolare e del
terrorismo – che af"iggono sia l’Europa sia il Sahel.
LIMES In che senso si può parlare di democrazia in Niger?
DEL RE Io preferisco parlare di «democrazia contestualizzata», anche perché il con-
cetto stesso di democrazia deve essere declinato localmente, perché esso è sempre
situato in una particolare congiuntura. Di certo, però, in un quadro come quello
del Sahel, l’esperienza nigerina era senza dubbio positiva. La democrazia parla-
mentare nigerina, poi, era un fattore in grado di favorire la crescita e lo sviluppo
del paese anche grazie ai partner internazionali tra cui l’Unione Europea, primo
partner del Niger in tutti i settori. Conosco bene il paese e il presidente Bazoum il
quale, per quanto la situazione fosse complessa, aveva già messo in atto riforme
molto importanti, nel contesto di un progetto di «rinascimento», come il presidente
amava dire. Due le riforme fondamentali: quella dell’istruzione e quella del com- 211
‘NON ABBIAMO CAPITO CHE L’AFRICA È CAMBIATA’

parto sicurezza. Per quanto riguarda quest’ultima, Bazoum stava avviando una
importante riforma dell’esercito. Il governo nigerino collaborava strettamente con i
contingenti stranieri presenti sul territorio in funzione antiterrorismo nel quadro di
accordi bilaterali. Basti pensare che l’Ue aveva appena inaugurato una nuova mis-
sione di addestramento di militari (Eumpm) in Niger, che avrebbe af!ancato la già
attiva missione di addestramento della polizia (Eucap), molto apprezzata. Il tutto
era avvenuto nella più stretta collaborazione con le autorità di Niamey.
Proprio per questa sua apertura e disponibilità, il Niger ha attirato l’attenzione di
tutto il mondo. Ci sono state molte visite di alto livello. Io stessa ho molto frequen-
tato il paese negli ultimi anni in costante dialogo con le autorità, con il presidente
Bazoum e i suoi ministri, con la società civile nigerina e le organizzazioni internazio-
nali presenti nel paese. Ho accompagnato l’Alto rappresentante Borrell in visita nel
paese a inizio luglio, poche settimane prima del colpo di Stato. In quell’occasione fu
inaugurata una centrale elettrica con 56 mila pannelli solari !nanziata dall’Ue e
dall’Afd, l’Agenzia francese per lo sviluppo, che darà energia a gran parte della ca-
pitale, in un paese che soffre per la grave mancanza di elettricità. Gli eventi di !ne
luglio sono stati un forte shock per gli europei e per gli africani.
LIMES Perché i colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Niger hanno riscosso tanto
favore popolare?
DEL RE Bisogna fare delle distinzioni. I casi del Mali e del Burkina Faso sono molto
diversi da quello del Niger. Non a caso l’Ecowas, la Comunità economica degli
Stati dell’Africa occidentale, organizzazione regionale di riferimento anche per l’U-
nione Europea, ha reagito in maniera differente. Al summit di Abuja di agosto a cui
ho partecipato a nome dell’Unione Europea, l’Ecowas ha dichiarato di essere pron-
ta a usare la forza militare come extrema ratio per ristabilire l’ordine costituzionale
in Niger. Si tratta, ovviamente, di una opzione cui auspichiamo non si debba arri-
vare. Tale soluzione non era stata ipotizzata nei casi del Mali e del Burkina Faso,
con i quali l’Ecowas ha fatto accordi per guidare la transizione. In Niger però è
avvenuto l’ennesimo colpo di Stato, e oggi l’Africa si interroga su come interrom-
pere la preoccupante serie di atti di forza per sovvertire l’ordine costituito che mina
profondamente lo sviluppo del continente.
Per quanto riguarda il sostegno popolare, si tratta di un tema molto controverso. In
Africa non è infrequente il fenomeno di manifestanti pagati per scendere in piazza,
per questo è dif!cile valutare il consenso. In Niger, oltre a decine di migliaia di
persone raccolte in uno stadio dalla giunta militare, si sono viste sventolare ban-
diere russe. Questo ha certamente un impatto sull’opinione pubblica, ma non di-
mostra il sostegno di un popolo. Di certo, la giunta può godere del sostegno di una
parte importante dell’élite che non riteneva i suoi interessi adeguatamente tutelati
dal governo del presidente Bazoum. In molti hanno scelto di salire sul carro del più
forte al momento del colpo di Stato, con l’inaccettabile detenzione del presidente.
L’Unione Europea continua a sostenere la necessità di ristabilire l’ordine costituzio-
nale. Attivisti e società civile spingono per il ritorno alla democrazia ma sono diso-
212 rientati rispetto a come ciò possa avvenire in questa fase complessa: Bazoum verrà
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

effettivamente reintegrato o, invece, verrà avanzata una proposta alternativa? La


situazione è in divenire. Canali di comunicazione sono attivi tra l’Ecowas e la giun-
ta attualmente al potere, nel quadro di un articolato processo negoziale.
LIMES In Niger ci sono molti contingenti stranieri: francese, americano, tedesco, ita-
liano. Come si ri!ette in particolare l’atteggiamento della Francia, che rinfocola il
sentimento antifrancese diffuso nella regione, sull’immagine dell’Unione Europea?
DEL RE Innanzitutto desidero sottolineare che la presenza militare degli Stati euro-
pei in Niger è il risultato di accordi assolutamente trasparenti stipulati tra le autori-
tà locali e i partner stranieri, quindi legittimata pienamente in funzione antiterrori-
smo per aiutare il paese a risolvere i suoi gravi problemi di sicurezza. E questo
vale anche per il contingente italiano che, dopo il colpo di Stato, ha sospeso alme-
no momentaneamente le attività di addestramento dei militari nigerini, come gli
altri contingenti stranieri. La popolazione nigerina deve conoscere questa verità
sulla presenza militare straniera, che si inserisce in uno schema di collaborazione,
di partenariato, di cooperazione alla pari. L’obiettivo è quello di accompagnare i
nigerini "no a quando questi lo riterranno necessario e saranno in grado di prov-
vedere essi stessi alla propria sicurezza e al proprio benessere, prendendo piena-
mente in mano il loro destino. Il principio ispiratore dei nostri interventi a soste-
gno, decisi insieme ai paesi africani partner, è quello che gli inglesi chiamano
«ownership» e i francesi «appropriation». «Soluzioni africane a problemi africani»,
come si dice. Noi, loro partner, li accompagniamo in questo processo come stiamo
già facendo, ma senza imporre soluzioni o sostituirci a loro.
Ci troviamo di fronte alle campagne di disinformazione orchestrate per lo più dal-
la Russia, che complicano il quadro. La Russia ha condannato il colpo di Stato a
Niamey, ma in Mali è presente il Gruppo Wagner (vedremo ora cosa ne resterà in
Africa dopo la scomparsa del suo fondatore). Le campagne di disinformazione
sono un vero e proprio strumento di warfare e senza dubbio contribuiscono a
modi"care la percezione locale del ruolo dell’Occidente, facendo passare la narra-
zione secondo cui i paesi occidentali vorrebbero addirittura occupare il territorio
del paese. Una parte della classe media è affascinata da queste trappole ideologi-
che, che nell’attuale congiuntura internazionale sono estremamente pericolose.
L’Unione Europea ha messo in campo strumenti importanti per individuare e con-
trastare la disinformazione.
Per quanto riguarda la Francia, ci tengo a sottolineare che l’Unione Europea parla
con una sola voce. La Francia fa parte dell’Unione Europea e le decisioni europee
vengono prese insieme. Qualche giorno dopo il colpo di Stato, ad esempio, a Bru-
xelles c’è stato un incontro del Comitato politico e di sicurezza (Cops) dell’Ue che
ha condannato il golpe e ha espresso il pieno sostegno dell’Ue agli sforzi dell’E-
cowas volti a ristabilire l’ordine costituzionale sotto l’autorità del presidente eletto.
Quando si è parlato del Niger, c’è stato totale consenso sulla necessità di continua-
re a restare fortemente impegnati nel Sahel, un’area per noi prioritaria e strategica,
e i paesi membri hanno ribadito la necessità di insistere per una soluzione diplo-
matica per il Niger. 213
‘NON ABBIAMO CAPITO CHE L’AFRICA È CAMBIATA’

Sinceramente, ritengo inaccettabile che in Niger vi sia un sentimento anti-occiden-


tale e antifrancese tanto violento da portare addirittura a un attacco all’ambasciata
francese. Tutti i paesi del Sahel hanno strettissimi rapporti con la Francia, che resta
impegnata nella regione e un punto di riferimento nell’area e in Africa. Ricordia-
mo, per esempio, che le classi dirigenti saheliane e africane hanno scambi costan-
ti con la Francia. Questo vale anche per i rapporti economici e per gli scambi con
gli studenti.
La frattura attuale con l’Occidente si è creata fondamentalmente per due motivi.
Anzitutto, la rivendicazione di sovranità africana – che però noi europei abbiamo
sempre riaffermato e questo deve essere molto chiaro, come ripeto spesso ai leader
africani – e la spinta panafricanista che oggi viene spesso distorta rispetto al suo
principio ispiratore originario, trasformandosi in narrazione anti-occidentale !ne a
sé stessa. Il sentimento antifrancese e anti-occidentale potrebbe essere alimentato
da un senso di impotenza. Ripeto da anni che i leader africani devono sedere ai
nostri tavoli decisionali. Abbiamo innegabilmente delle responsabilità in questo
senso. Non abbiamo capito, ad esempio, che l’Africa è cambiata. L’Africa di oggi
non è l’Africa di trent’anni fa. Le nuove generazioni africane sono molto avvertite,
preparate e consapevoli, ma purtroppo continuano a restare escluse dal dibattito
globale perché non hanno strumenti adeguati, che invece bisogna garantire loro.
Scalpitano. Nelle aree urbane è soprattutto la nascente classe media a chiedere
un’accelerazione della storia. Dovendoci occupare delle emergenze legate al terro-
rismo, alle migrazioni irregolari e alla crisi economica, abbiamo trascurato questa
dimensione, che però è fondamentale.
Dobbiamo radicalmente cambiare il nostro modo di entrare in relazione con l’Afri-
ca. Dobbiamo sviluppare un linguaggio euro-africano o africano-europeo, come io
stessa vado ripetendo da anni. Pochi giorni fa il presidente Macron ha denunciato
fermamente davanti agli ambasciatori francesi la narrazione utilizzata dai golpisti di
Niamey e ha messo in guardia contro una «epidemia di colpi di Stato», in assenza
di un’azione risoluta e di un cambiamento nell’approccio da parte nostra. Ciò è
avvenuto alla vigilia del tentativo di golpe in Gabon, il 30 agosto.
LIMES Perché l’Ue sta organizzando una missione civile-militare in autunno nella
regione del Golfo di Guinea?
DEL RE L’Unione Europea ha deciso di avviare una missione nel Golfo di Guinea
dando seguito alle conclusione del Consiglio Ue del 29 giugno 2023. Si tratta di una
missione nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) con l’o-
biettivo strategico di fornire ai paesi dell’Africa occidentale del Golfo di Guinea –
Costa d’Avorio, Ghana, Togo e Benin – che più rischiano di vedere le loro regioni
di con!ne con il Sahel oggetto di attacchi da parte di terroristi provenienti da nord,
assistenza nell’addestramento delle forze di sicurezza e di difesa locali per contene-
re le pressioni esercitate dai gruppi terroristici armati e rispondere adeguatamente.
La missione mira ad aiutare a preparare le operazioni antiterrorismo, fornire sup-
porto tecnico e attuare misure di rafforzamento della !ducia nel settore della sicu-
214 rezza. Sarà lanciata dopo l’approvazione formale da parte dei ministri degli Esteri
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

dell’Ue in una riunione che si terrà a ottobre in Lussemburgo. Benin e Ghana


hanno già invitato uf!cialmente l’Ue a schierare una missione nei loro territori.
LIMES Perché il putsch in Niger ha avuto un tale clamore internazionale?
DEL RE Dipende dal prisma attraverso cui si guarda agli eventi. Ciò che accadeva
nel Sahel in passato ha avuto una eco relativa, a seconda degli interessi dei paesi
nell’area, come la Francia in Mali con l’Operazione Barkhane e l’Ue con le sue
missioni e i suoi progetti di sviluppo.
Il colpo di Stato in Niger ha avuto tanto clamore internazionale perché è avvenuto
in un paese da tutti considerato come esempio di stabilità e democrazia, su cui si
erano concentrati tanti progetti in corso e investimenti per il progresso, che alimen-
tava la !ducia che si potesse avere un Sahel stabile e prospero e quindi motivava
all’impegno i partner stranieri. Gli stessi africani sono rimasti spiazzati dall’ennesi-
mo golpe. La reazione è stata molto forte: l’Ecowas crede che sia arrivato il mo-
mento di mettere !ne a questa sequenza di colpi di Stato, tanto che ha messo sul
tavolo anche l’opzione militare.
LIMES Eppure ci sono diverse posizioni. Gli americani, che non parlano di golpe,
sono contrari a un intervento militare, i francesi certamente no.
DEL RE Gli americani hanno una norma nel loro ordinamento che impedisce di
mantenere propri soldati in paesi nei quali sono in atto colpi di Stato. Restano cau-
ti e aspettano seguendo l’evoluzione della situazione a Niamey, anche se hanno
svolto azioni diplomatiche importanti come la visita in Niger di Victoria Nuland,
sottosegretario di Stato per gli affari politici e vicesegretario di Stato, poco dopo il
golpe. Poi la visita a Niamey del sottosegretario di Stato per gli Affari africani Molly
Phee. Tutti i paesi membri dell’Unione Europea, inclusa la Francia, si sono espres-
samente dichiarati a favore di una soluzione diplomatica per mettere !ne al colpo
di Stato in Niger. Tutti ci siamo detti pronti a sostenere lo sforzo diplomatico del-
l’Ecowas e degli altri partner. Anche l’Ecowas è d’accordo sulla priorità da attribui-
re alla soluzione diplomatica e si sta adoperando in tal senso, continuando tuttavia
a considerare l’intervento militare come plausibile ultima ratio. Insieme alle sanzio-
ni economiche e !nanziarie già in vigore, l’eventuale uso della forza mira anche a
mantenere la pressione sulla giunta af!nché negozi. Questa è la posizione espressa
dalla Francia. Certo, il concetto di «intervento militare» è di dif!cile de!nizione. Al
momento, l’Ecowas parla di attivazione della stand-by force, ovvero di un esercito
che sarebbe costituito da battaglioni provenienti dai diversi paesi dell’organizzazio-
ne da attivare in caso di intervento armato. La Costa d’Avorio ha già dato la sua
disponibilità, così come la Nigeria. Tuttavia, ripeto, è l’ultima ratio e l’Unione Eu-
ropea favorisce una soluzione paci!ca e diplomatica della questione.
LIMES È un bluff?
DEL RE L’Ecowas è serissima al riguardo. Noi, come Ue, sosteniamo l’Ecowas nello
sforzo di trovare una soluzione diplomatica.
LIMES Cosa intende per soluzione diplomatica? La legittimazione della giunta?
DEL RE Al momento da più parti si immaginano diverse opzioni. Una possibilità è il
reintegro di Bazoum, come l’Ue e l’Ecowas continuano a chiedere; un altro scena- 215
‘NON ABBIAMO CAPITO CHE L’AFRICA È CAMBIATA’

rio potrebbe essere una transizione democratica sul modello di Mali, Burkina Faso
e Ciad, via accordi precisi con l’Ecowas su durata e modalità della transizione per
ristabilire l’ordine costituzionale. Nella storia del Niger tutto questo è già avvenuto.
Ci sono state transizioni con elezioni a breve distanza dal colpo di Stato. Sono
molte le variabili. Riteniamo fondamentale, comunque, che il presidente Bazoum
venga liberato il prima possibile.

216
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Parte III
ALGERIA
nostro VINCOLO
ESTERNO
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

L’ESERCITO, UNICO ARBITRO


DI UN PAESE DIVISO di Kader A. ABDERRAHIM

Lo Stato algerino appare molto più fragile rispetto al passato. Il


prestigio simbolico delle Forze armate è eroso, l’economia sull’orlo
del collasso. Il potere effettivo appartiene ai militari, mentre il
governo si limita ad amministrare. Le diverse idee di nazione.

1. I PAESI DEL TERZO MONDO CHE HANNO


conquistato l’indipendenza attraverso la violenza sono caratterizzati da sistemi
politici strutturati attorno all’esercito. Anche l’Algeria ha messo al centro del pro-
cesso di costruzione dello Stato le proprie Forze armate, che nella costituzione
nazionale sono poste sotto l’autorità del presidente della Repubblica. Eppure, la
realtà è più complessa.
In Algeria la presidenza è emanazione di fatto dell’esercito. Anzi, si potrebbe
azzardare che essa dipende dal ministero della Difesa, a sua volta gestito da mili-
tari in abiti civili, che occupano le cariche di segretario generale o di capo di ga-
binetto. La presidenza è l’istituzione attraverso cui l’esercito controlla lo Stato e
stabilisce la rotta del governo. La sovranità delle Forze armate deriva dalla conce-
zione della nazione e dall’idea di Stato dominanti nelle élite algerine. Concezione
derivante dal passato, ancora legittimante, ma sempre meno realistica. Infatti, la
preminenza politica dell’esercito mascherata dietro le istituzioni repubblicane sta
causando profonde crisi nella gestione del potere. Soprattutto, sta alimentando la
competizione tra la gerarchia militare, che detiene il potere reale, e il presidente
della Repubblica, che esprime il potere formale. Questo aspetto della struttura
politica algerina è stato spesso trascurato dai ricercatori e dall’opinione pubblica.
Ma la crisi che ha scosso l’Algeria tra il 1992 e il 1999 ha chiarito una volta per
tutte che le Forze armate rappresentano il principale attore politico nel paese.
Tuttavia, per comprendere a fondo il ruolo dell’esercito è necessario ricordare il
legame tra militari e nazione e comprendere come questa relazione abbia plasma-
to la natura del sistema politico.

2. Grazie alla vittoria dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln), il 3 luglio


1962 l’Algeria diveniva un paese indipendente, poneva !ne alla dolorosa parentesi 219
L’ESERCITO, UNICO ARBITRO DI UN PAESE DIVISO

della colonizzazione e avviava il processo di costruzione dello Stato partendo dal


nulla. Si trattava di uscire dalla condizione coloniale, promuovere un’economia
avanzata ovunque, non solo nelle città e in funzione degli europei che vi abitava-
no, costruire uno Stato o, per riprendere l’espressione dello storico francese Benja-
min Stora, «inventare» un’Algeria che, dal punto di vista sia geogra!co sia culturale,
sembrava aver preso piede solo nella mente dei suoi cittadini.
In questa situazione, i militari si consideravano depositari del nazionalismo e
si attribuivano il titolo esclusivo di patrioti algerini: chi scalerà i ranghi gerarchici si
avvicinerà all’idealtipo del nazionalista e godrà di maggiore legittimità politica giac-
ché è pronto a sacri!care la propria vita per il paese, ha consapevolmente scelto la
caserma a scapito della famiglia, rappresenta la forza che ha liberato il paese dal
dominio straniero ed è preparato a combattere. Ecco perché il militare è convinto
di essere il baluardo della nazione, l’unico detentore della legittimità da cui dovreb-
be derivare ogni autorità politico-amministrativa.
Ma questa non è altro che una rappresentazione ideologica volta a giusti!care
una posizione di superiorità. Ponendosi come unici detentori della legittimità, le
Forze armate impediscono l’integrazione dei membri della comunità politica nel
sistema, soffocano la società e si oppongono all’emergere del concetto di cittadi-
nanza. L’interesse politico dell’esercito è di opporsi alla nascita di uno spazio pub-
blico. Ed è per questo che i comandanti militari algerini fanno riferimento all’ere-
dità del movimento di liberazione e non all’ideologia repubblicana dello Stato, in
cui l’esercito è formalmente un’istituzione al pari delle altre. Ecco quindi emergere
la divisione dei poteri in Algeria. Il primo potere è quello sovrano, espresso dai
militari: politico, legittimo, non risponde a nessuno; l’altro, amministrativo, con
compiti esecutivi, è legittimato dall’esercito e all’esercito stesso risponde. Il potere
sovrano incarna la nazione, difende il paese dalle minacce esterne e dal disordine
interno. Il potere amministrativo gestisce lo Stato e le risorse economiche: si occu-
pa di accrescerle e distribuirle in modo equo. Il potere che conta di più è il potere
della nazione che, a differenza del potere dello Stato, ha un fondamento politico e
non amministrativo.

3. L’Algeria non è uno Stato nazionale. Anzi, la storia dell’Algeria indipendente


si fonda su due entità distinte: la nazione e lo Stato. Il secondo è subordinato alla
prima. Se in ogni paese la nazione è intesa come un simbolo, in Algeria questo
carattere mitologico è ancora più evidente perché riunisce i cittadini non così come
sono, ma come dovrebbero essere, ossia secondo l’interpretazione data da diverse
correnti ideologiche. In effetti, nel paese nordafricano ci sono molteplici idee di
nazione avverse l’una all’altra e capaci di dividere la popolazione. Avviene oggi,
avveniva in passato, quando si confrontavano la teoria populista esposta da Aõmad
Bin Maâalø al-Õaãã, quella islamista avanzata da ‘Abd al-Õamød Ibn Bådøs e quella
più aperta promossa da Farõåt ‘Abbås. L’indipendenza non ha riconciliato i tre pa-
dri fondatori dell’Algeria moderna, anzi li ha divisi, alimentando dif!denza e ostili-
220 tà tra i loro successori. Infatti, ciascuna corrente politica ha la propria idea di na-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

zione che cerca di imporre con la forza. In casi come quello algerino, il multiparti-
tismo non ha prodotto democrazia, bensì intolleranza e violenza.
Se in altri paesi l’idea di nazione unisce, in Algeria divide. Perciò l’esercito ha
il monopolio del potere, indispensabile per garantire un minimo di pace civile. Le
Forze armate incarnano l’idea di nazione e impediscono a chiunque di s!darla. Si
politicizzano, rivelandosi così una minaccia strutturale per la stabilità del paese: il
controllo dello Stato da parte dell’esercito intende ignorare o rimuovere le diver-
genze ideologiche esistenti nella società. Altrove, lo Stato incarna la politica. In
Algeria lo Stato è solo uno strumento amministrativo. Per evitare che cada nelle
mani di una corrente ideologica, l’esercito lo depoliticizza e gli assegna obiettivi
tecnici, come la gestione delle risorse economiche e l’amministrazione pubblica. Lo
Stato non esprime potere politico né rappresenta esigenze della società, ma è lo
strumento che l’esercito af!da alle élite civili per mantenere entro certi limiti la
pace sociale.
Il rapporto tra la nazione sovrana – incarnata dall’esercito e non dalla società
– e lo Stato amministrativo compone il campo politico algerino. Ciascuna istituzione
!nisce per operare in una gerarchia imposta dallo Stato, a sua volta subordinato
alla nazione. E proprio il mito della nazione – il cui modello in miniatura sarebbe
custodito in una cassaforte al ministero della Difesa – schiaccia lo Stato, ormai alle
prese solo con la gestione quotidiana di risorse inevitabilmente limitate e accusato
di corruzione e incompetenza. Troppo spesso chi ottiene un incarico pubblico non
tiene in considerazione l’interesse generale ma sfrutta le opportunità che lo Stato
offre per arricchirsi. Così favorisce il clientelismo. Tale situazione svilisce l’immagine
che l’opinione pubblica ha dello Stato. Eppure, per ragioni che derivano dalla storia
e dal sistema politico locale, l’immagine della nazione rimane intatta.
Insomma, gli algerini amano la loro nazione e disprezzano il loro Stato. Gli
scontri sociali hanno origine dall’idea di nazione promossa da chi intende riforma-
re lo Stato. Tutti i movimenti, in particolare gli islamisti, intendono conquistare il
paese. Sicché si scontrano con l’esercito, che proibisce di rivendicare l’appartenen-
za alla nazione senza fare riferimento all’esercito stesso. Le Forze armate non sa-
rebbero contrarie alla gestione dello Stato da parte degli islamisti, a condizione che
siano loro stesse a incaricarli, dato che sono depositarie del nazionalismo.

4. Lo Stato algerino non è dunque de!nibile attraverso le teorie della scienza


politica. Esso non bilancia i tre poteri (legislativo, giudiziario, esecutivo) né pro-
muove l’esercizio giuridico della cittadinanza, perché la partecipazione alla comu-
nità politica non è istituzionalizzata. Af!nché ci sia una cittadinanza attiva è neces-
saria la partecipazione, dunque una convergenza di nazione e corpo elettorale
nell’autorità statale, a sua volta deputata a esercitare una sorta di monopolio nel
quadro della separazione dei poteri: questo è lo schema teorico, più o meno rea-
lizzato in democrazia.
In Algeria l’appartenenza alla nazione è mediata dall’identi!cazione con l’eser-
cito. Le Forze armate s’inseriscono tra la comunità e la nazione, diventano veicolo 221
L’ESERCITO, UNICO ARBITRO DI UN PAESE DIVISO

di un immaginario politico in cui sono nazionali e popolari – l’Esercito nazionale


popolare (Enp) – perché incarnano la nazione e detengono le prerogative della
sovranità popolare. È in virtù di questo duplice titolo che l’esercito rappresenta il
potere reale e conferisce allo Stato l’autorità nelle funzioni giudiziarie e legislative.
Lo Stato è incapace di garantire la pace sociale proprio a causa della natura del
sistema politico, che impone limiti e alimenta con!ittualità. Lo Stato in Algeria non
è un arbitro, è un protagonista del con!itto sociale. Un individuo o un gruppo che
assume un certo ruolo pubblico sfrutterà la propria posizione principalmente per
indebolire i propri avversari e scalare le vette delle gerarchie statali. Tuttavia, in
Algeria non emerge mai un solo gruppo. E proprio le Forze armate controllano i
diversi enti politici e fanno in modo che, nell’esercizio delle funzioni uf"ciali, le
divergenze non emergano. Il ruolo delle Forze armate è così determinato dall’estre-
ma con!ittualità del corpo politico.

5. Nonostante i tentativi di resistenza da parte di numerosi generali e l’inver-


sione di tendenza registrata nel dicembre 1991 con le elezioni vinte dagli islamisti
del Fronte islamico di salvezza (Fis), nel 1989 è stato avviato il ritiro dell’esercito
dalla vita politica per favorire una certa autonomia del corpo elettorale. I militari
rinunciano a designare i governi, i cui fallimenti in ambito economico e sociale si
ripercuotono sull’esercito stesso, rinunciano a occuparsi di ministeri come quello
dei Trasporti o del Turismo e si limitano a tracciare una linea rossa da non supera-
re per quanto riguarda la designazione del ministro della Difesa, le promozioni e il
bilancio dell’esercito.
Il ritiro graduale delle Forze armate dallo Stato ha come obiettivo quello di
dissociarsi dai fallimenti di governo così da evitare di assumersi ulteriori responsa-
bilità. Le elezioni presidenziali del 15 aprile 1999 si inseriscono in questa dinamica.
Il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, ossia il servizio segreto militare,
ha preparato in anticipo le elezioni, escludendo qualsiasi candidato che potesse
vincere e sfruttare la sua vittoria contro le Forze armate, poi ha presentato i tre
candidati (Abdelaziz Boute!ika, nazionalista; Ahmed Taleb Ibrahimi, conservatore;
Mouloud Hamrouche, riformatore) e in"ne ha chiesto a Hocine Aït-Ahmed (presi-
dente dei socialisti) di partecipare alle elezioni.
Il regime algerino sta ora dirigendosi verso una semi-democrazia. Sta attraver-
sando una fase di transizione verso la democrazia favorita principalmente da due
fattori: la repressione, con le sue conseguenze, e il deterioramento delle condizio-
ni economiche e sociali del paese. La repressione ha indebolito le gerarchie milita-
ri, che ora devono tener conto delle opposizioni interne all’esercito. Inoltre, a
causa di decisioni spesso illecite, il ruolo delle Forze armate in Algeria ha alimen-
tato campagne di denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte di organizza-
zioni internazionali. Tali attività ledono la credibilità degli uf"ciali militari che, a
loro volta, cercano di addomesticare queste organizzazioni. I sette anni di con!itti
civili iniziati nel 1992 e de"niti «il decennio nero» hanno poi danneggiato un’eco-
222 nomia già in crisi a causa della cronica sottoproduzione e dello spreco di ricchezze.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Molte aziende statali hanno dovuto chiudere e, anche a fronte di una netta crescita
demogra!ca, la disoccupazione è aumentata, le classi medie sono diventate più
povere, le condizioni di vita dei più svantaggiati sono peggiorate e la situazione
sociale è sempre più dif!cile da controllare. Così, lo Stato è diventato più fragile
rispetto al passato, il prestigio simbolico dell’esercito è stato eroso, l’economia è
sull’orlo del collasso e la nazione è più divisa che mai.

6. Oggi la situazione è bloccata, le forze in gioco sono divise e tanto gli oligar-
chi quanto i militari si accontentano di questo status quo. La fragilità del sistema
istituzionale algerino risiede interamente nella natura intrinseca del regime, che ha
sempre evitato di stipulare un contratto sociale basato sui diritti e sull’alternanza
politica. Solo con la vittoria delle Forze armate contro il fondamentalismo islamico,
nemico interno per eccellenza, e con la rielezione di Abdelaziz Boute"ika nel 2004
il riposizionamento dell’esercito sulle sue missioni fondamentali (difesa del territo-
rio e della sovranità) è diventato effettivo. Questo processo, risultato anche dello
scontro tra Boute"ika e l’alta gerarchia militare, ha portato all’avvento di generali e
uf!ciali che non avevano combattuto nella guerra di liberazione.
Nonostante ciò, la centralità dell’apparato militare persiste. Non solo a causa
di compromessi politici tra le parti, ma anche per garantire la sicurezza interna e
gestire le crisi lungo i con!ni meridionali. Le conseguenze del collasso della Ja-
mahiriya libica (la guerra in Mali, la presa di ostaggi nel complesso di In Aménas
nel gennaio 2013) rafforzano il ruolo delle Forze armate nel panorama politico al-
gerino. Specialmente nella de!nizione della politica estera del paese, come nel
caso della questione del Sahara occidentale e dell’integrazione dell’Algeria nel di-
spositivo di sicurezza saheliano-maghrebino. Diviene dunque ancor più dif!cile
proporre alternative a medio termine nelle relazioni fra civili e militari e nelle di-
vergenti agende nazionali, diventate ora solidali e in"uenzate dal contesto regiona-
le, dalla diffusione delle minacce e dalla volatilità delle relazioni internazionali in
via di ride!nizione.

(traduzione di Guglielmo Gallone)

223
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

NELLE VISCERE
DEL SISTEMA ALGERINO di Tarik MIRA
Il ruolo dell’esercito nella costruzione dello Stato. Come il regime
ha resistito alle spinte islamiste e democratiche. La repressione
dello Õiråk, l’uso politico della giustizia e dei media. L’isolamento
internazionale e le tensioni con Francia, Israele e Marocco.

M ETTERE IN DISCUSSIONE IL SISTEMA


algerino è semplice, dato il ruolo palese od occulto delle Forze armate. La realtà,
tuttavia, è più complessa. Dalla proclamazione dell’indipendenza, i militari sono
stati certamente l’elemento decisivo per la costruzione e la salvaguardia dello Stato,
oltre che uno strumento indispensabile nella risoluzione delle crisi e nell’esplora-
zione di nuove opzioni. Sicché l’Algeria, Stato sovrano da più di sessant’anni, ap-
pare ancora un paese malato. Ma il suo sistema di potere, nonostante le molteplici
crisi, resiste a tutte le s!de.
Il sistema algerino è una miscela di diversi elementi politici, economici, sociali
e culturali. Le abbondanti risorse naturali, in particolare petrolio e gas, permettono
ancora di mantenere lo Stato sociale, il quale è a sua volta necessario per garan-
tire l’ordine pubblico. Anche la storia viene utilizzata per legittimare il regime, in
particolare attraverso una narrazione centrata sulla lotta di liberazione. Il sistema
multipartitico esiste solo grazie a elezioni fraudolente, pensate per migliorare l’im-
magine del paese all’estero. È proprio qui che l’in"uenza del sistema è diminuita,
perché la debolezza interna sta avendo dannose conseguenze esterne. Nel com-
plesso, il sistema algerino tende a essere in ritardo rispetto agli eventi. Raramente
ne è l’iniziatore.
Tale sistema è il prodotto di una storia legata alla costruzione dello Stato, di
cui l’esercito è garante indipendentemente dal modello di rappresentanza politica
– monopartitico o multipartitico. I diversi sviluppi politici e istituzionali non hanno
mai messo in discussione la centralità delle Forze armate nel sistema di potere.
225
NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO

Gli inizi della dominazione militare


È stato nel bel mezzo di un’insurrezione armata contro il colonialismo che i
militari hanno preso il sopravvento sui civili. Il principio del primato civile, sancito
dal Congresso clandestino di Soummam del 20 agosto 1956, fu spazzato via solo
diciotto mesi dopo la sua adozione. Colui che l’aveva concepito, Abane Ramda-
ne, fu sottoposto ai tormenti dell’isolamento e assassinato il 27 dicembre 1957 a
Tétouan, nel Nord del Marocco. Un esito tragico ma logico, visto che la resisten-
za armata (maquis) era sotto il controllo del comando militare. Infatti, anche i
commissari politici che avrebbero dovuto essere eletti nelle istituzioni civili erano
membri del maquis e si fusero immediatamente con i loro fratelli in armi. Di con-
seguenza, il primato dei civili sui militari perse di senso: la lotta armata spianò la
strada all’esercito, assicurandogli la futura gestione degli affari pubblici. Il destino
dell’Algeria indipendente fu deciso all’interno di quell’élite.
Grazie alle scelte compiute poco prima e durante i negoziati di Évian con la
Francia che portarono all’indipendenza, i capi militari dell’epoca, al comando dei
battaglioni di frontiera, garantirono alle Forze armate l’egemonia per il futuro pros-
simo e remoto. L’esercito di stanza ai con!ni tunisini e marocchini avrebbe infatti
imposto il capo dello Stato, rovesciando il presidente dell’istituzione legittima, il
governo provvisorio della Repubblica algerina. I rapporti di forza erano sbilanciati:
35 mila soldati delle forze di frontiera contro un numero in!nitamente inferiore di
forze interne già decimate dalle operazioni militari francesi nell’ambito del piano
Challe (1959-61), destinato a stroncare la resistenza algerina.
Contrariamente allo schema classico, in cui il partito unico mantiene l’esercito
ai suoi ordini passando per il governo civile, in Algeria il legame tra i due orga-
nismi era differente. Le Forze armate erano decisamente più propositive rispetto
al partito unico nella costruzione dello Stato nazionale sovrano. Inoltre, nei primi
anni dopo il golpe del 1965, il Fln (Fronte di liberazione nazionale) non fu altro
che una burocrazia con meri compiti esecutori.
La costituzione adottata il 28 agosto 1963 dall’Assemblea costituente venne so-
spesa. Il ruolo assegnato costituzionalmente all’Armée Nationale Populaire (Anp),
che si considerava erede dell’Armée de Libération Nationale (Aln), venne mutato.
L’articolo 8 di quella costituzione recitava infatti: «L’Esercito nazionale è popolare.
Fedele alle tradizioni della lotta di liberazione nazionale, è al servizio del popolo e
agli ordini del governo. Assicura la difesa del territorio della Repubblica e partecipa
alle attività politiche, economiche e sociali del paese nel quadro del partito» (corsivo
mio, n.d.a.). Di fatto l’Esercito popolare aveva già ampliato le sue competenze,
soprattutto in campo economico. La sospensione della costituzione favorirà ulte-
riormente l’inversione della gerarchia. Il partito unico è nato morto, sepolto dall’E-
sercito popolare, che si è liberato allegramente della costituzione, scegliendosi i
propri diritti e doveri.
Il sistema algerino è certamente singolare per alcuni aspetti, ma assomiglia
226 alle esperienze paratotalitarie osservate in diverse ex colonie. La società è con-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

SPAGNA

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Ou LIBIA

Primo focolaio Seconda fase Terza fase


Dicembre 2018 Febbraio 2019 Febbraio-marzo 2019
Bab El Oued Kherrata, Khenchela, Algeri, Costantina, Orano,
Quartiere di Algeri epicentro della Annaba Blida, Djelfa, Biskra,
prima modesta manifestazione Manifestazioni contro l’ipotesi Sidi Bel Abbès, Ghardaïa,
del quinto mandato di Boute!ika Tamanrasset
Epicentri delle manifestazioni
contro l’ipotesi del quinto
mandato di Boute!ika
Quarta fase Dimissioni dei sindaci Città universitarie coinvolte
26 marzo 2019 Inizio marzo 2019 nelle proteste
Ouargla Costantina, Guenzet, Béjaïa, Tizi Ouzou,
Il capo delle Forze armate Amizour Bouira, Sétif, Boumerdès,
Ahmed Gaïd Salah chiede Batna, Ouargla,
e ottiene la rimozione Mostaganem, Médéa
del presidente Boute!ika
et

LE CITTÀ ALGERINE
s
ras
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IN RIVOLTA (2018-2019)
Tam

trollata dal «partito dell’esercito», ovvero da una forza di polizia politica che regola
gli equilibri interni di potere ed è custode dell’ortodossia del regime. I servizi
segreti erano e restano gli occhi e il braccio secolare dell’esercito. I due organi-
smi lavorano insieme per creare un clima di terrore basato sulla repressione, !no
alla liquidazione !sica degli avversari. Gli assassinii di Mohamed Khider (1967)
e Krim Belkacem (1971) – fondatori del Fln – sono esempli!cativi dell’atmosfera
dell’epoca. In quella fase il governo algerino sembrava !glio del suo tempo. Era
protetto a livello internazionale dal prestigio della lotta di liberazione nazionale,
che il vertice del sistema riusciva a sfruttare a suo vantaggio. Il tempo della nega- 227
NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO

zione e dell’oblio stava però per iniziare. Gli eroi di ieri non dovevano mettere in
imbarazzo i leader di oggi.
È in tale congiuntura, all’inizio di un lungo processo di legittimazione iniziato
con l’introduzione delle elezioni municipali (1967), l’adozione della Carta nazionale
(1976) e l’elezione di una nuova Assemblea (1977), che si assiste alla lenta ascesa
del partito unico come elemento centrale del sistema istituzionale. Tuttavia, l’Esercito
popolare era rappresentato nel Comitato centrale e nell’Uf!cio politico del Fln. Il suo
leader era presidente della Repubblica e ministro della Difesa.
La legittimità del potere si basava sul nazionalismo – trionfante in questa fase
di decolonizzazione globale – e sulla capacità dello Stato di garantire sviluppo. I
risultati economici e le conquiste sociali nei settori della sanità pubblica e dell’i-
struzione di massa, sostenuti da una retorica antimperialista, hanno in!ne conferito
stabilità al sistema legittimandone le istituzioni.
Pur avendo fondato istituzioni stabili, l’esercito aveva al suo attivo già due
colpi di Stato: contro il governo provvisorio della Repubblica algerina e contro l’au-
torità legale sancita dal voto popolare, ovvero il governo del presidente Ben Bella.
Confermando quanto la violenza fosse endemica nel sistema politico e istituzionale
algerino: l’uomo che incarnava l’esercito era lo stesso che aveva normalizzato la
pratica del colpo di Stato. Ma nel 1979, con la morte di Houari Boumédiène, si
chiudeva una fase e se ne apriva un’altra.
Su cosa si basava il sistema in quel periodo storico? Senza dubbio sulla centra-
lità dell’esercito nel gioco politico e sul controllo dello Stato e della società da parte
dei servizi. Il partito unico fu inizialmente emarginato prima di essere pienamente
ripristinato a metà degli anni Settanta. Situazione a dir poco inedita, che sottolinea-
va il predominio dei militari sulla politica. Quasi vent’anni dopo l’indipendenza, il
potere dell’esercito e l’impunità del regime rendevano il governo algerino immune
da qualsiasi critica all’estero o in patria. Lo Stato nazionale algerino era addirittura
celebrato come modello per il Terzo Mondo. Tuttavia, cominciavano a intravedersi
le prime contraddizioni, esplose dopo la morte di Boumédiène.
Alla !ne del 1979, l’avvento di Chadli Bendjedid – primus inter pares – segnò
la prima svolta. Egli si affermò all’interno dell’establishment militare perché era
l’uf!ciale più alto in grado, perciò delegato dai suoi pari a prendere il potere. En-
nesimo segno che in Algeria le elezioni presidenziali si svolgono innanzitutto tra
i ranghi dell’esercito.
Questo periodo fu caratterizzato dall’unità d’intenti tra le due istituzioni mi-
litari: l’esercito e i servizi segreti. Intanto sul fronte economico veniva autorizzata
un’apertura controllata.

Metodo rinnovato
La ventennale stretta alle libertà era legittimata dall’ascesa sociale di un’intera
élite burocratica (amministrativa ed economica) e dal miglioramento della situazio-
228 ne sociale degli algerini nel loro complesso. Lo sgretolamento di questa congiuntura
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

scatenò aspirazioni di cambiamento e diede vita a una nuova corrente politica: l’isla-
mismo. Emersero dunque due movimenti – l’islam politico e la democrazia – che,
per quanto agli antipodi, volevano entrambi la !ne del regime. Il massacro conse-
guente ai moti dell’ottobre 1988 accelerò gli eventi. La conseguenza immediata fu
l’introduzione di un sistema multipartitico attraverso la revisione della costituzione
del 1977. Opzione rivoluzionaria che avrebbe dovuto portare pace e libertà.
Tuttavia, la netta vittoria della corrente islamico-totalitaria alle elezioni muni-
cipali (1990) e a quelle legislative (1991) portò i militari, i servizi e le forze civili
a impegnarsi direttamente per impedire l’ascesa al potere degli islamisti. Costoro
non avevano mai fatto mistero del loro obiettivo: sottomettere il paese alla legge
religiosa, come sancito dalle urne. L’Algeria era sull’orlo del precipizio. La massiccia
repressione che ne seguì fu una novità nell’arena pubblica nazionale, come anche
l’emergere del terrorismo. Una violenza senza precedenti pervase sia lo Stato sia la
società, causando la morte di decine di migliaia di persone, civili compresi. Il mo-
dello algerino, che coniugava retorica antimperialista, pratiche sociali vantaggiose
e annientamento delle libertà, si disintegrò. Il sistema divenne oggetto di costante
denuncia da parte delle associazioni per la difesa e la promozione dei diritti umani.
Fu necessario un nuovo processo di legittimazione. Lo Stato si mise a disposi-
zione del regime per salvare il sistema nel suo complesso, come dimostrato dall’a-
scesa al potere di Boute"ika. Quest’ultimo accelerò la trasformazione della società
consolidando l’alleanza tra i diversi partiti creati al suo interno e le formazioni
islamiste. Insomma, si passò da un partito unico a una coalizione di partiti unici.
Allo stesso tempo, il potere decisionale, precedentemente in mano al ministe-
ro della Difesa, tornò alla presidenza. Operazione senza precedenti. Per la prima
volta dall’inizio della lotta al terrorismo, i servizi vennero svincolati dal loro storico
tutore: l’esercito. Inoltre, l’esigenza di stabilità istituzionale prese il sopravvento sul
progetto democratico. Le conquiste ottenute nell’ultimo decennio vennero gradual-
mente messe in discussione.
La nuova fase fu segnata dall’ascesa degli oligarchi, ovvero coloro che in genere
vivono sulle spalle del governo per bene!ciare degli appalti pubblici. Il legame tra
potere politico e ambienti !nanziari diventò chiaro ed evidente. L’élite oligarchica
assunse un atteggiamento sostanzialmente ma!oso. La corruzione entrò in maniera
palese nella vita pubblica. Le analogie con il sistema russo sono inquietanti.
Quel periodo fu caratterizzato dagli abusi di potere, dall’alto costo della vita e
dall’arricchimento illecito. Tutti fattori che diedero energia alla società civile, che a
sua volta si radicalizzò sotto lo slogan «yetnahaw gaa» («cacciateli tutti»).

L’irruzione dello Õiråk e la repressione


Nel 2019-20 sale alla ribalta una protesta sociale contro il sistema di potere se-
gnato da conservatorismo politico, in"essibilità ideologica, isolamento storico e geo-
politico, prevaricazione economica. È il Movimento (Õiråk). Ondata di manifestazio-
ni senza precedenti che chiede un cambiamento democratico radicale. Anche questo 229
NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO

è un nuovo sviluppo, in cui si coagulano più di trent’anni di storia. L’inaspettato


successo delle rivolte popolari, almeno quanto a partecipazione di massa, mostra la
portata dell’opposizione al regime, su cui pesano le cause sopra citate e, in modo
meno visibile, la perdita di prestigio internazionale. Fattore assolutamente strategico.
Le richieste del Movimento sono ampiamente consensuali, incentrate su due
slogan: «per uno Stato civile e non militare» e «per un’Algeria libera e democratica».
Ci sono alcuni punti da notare: innanzitutto, il Movimento, almeno nei suoi slo-
gan, non ha matrice islamica; poi, il ruolo dei social nella mobilitazione popolare;
in!ne, lo spirito civico che anima i manifestanti. Di fronte a questo fenomeno
popolare e paci!co, cosa possono fare le autorità? La crescita e l’estensione delle
manifestazioni acuiscono le contraddizioni nella classe dirigente, che ha sempre
voluto tenere l’esercito lontano dai ri"ettori.
Per affrontare il Movimento, il sistema ricorre a due strumenti tipici della sua
natura autoritaria: la strumentalizzazione della giustizia e la repressione di massa.
Gli articoli speciali del codice penale (l’87 bis che estende l’accusa di terrorismo e
l’87 bis 13 che istituisce una lista di terroristi) precedono e accompagnano la gran-
de repressione. Gli arresti si susseguono su vasta scala.
La strumentalizzazione della giustizia a favore del clan più potente del mo-
mento e la repressione totale permettono ancora una volta al sistema di sopravvi-
vere a un destino oscuro. Ministri, generali e membri dell’oligarchia politico-!nan-
ziaria sono arrestati. Centinaia di oppositori sono imprigionati ed etichettati come
separatisti della Cabilia o terroristi islamici.
Oltre a ottenere de facto il monopolio dell’informazione, ormai ridotta alla
glori!cazione del regime, il sistema mette la stampa alle strette. Uno degli ultimi
esempi è la sentenza emessa a carico del giornalista El Kadi Ihsane, condannato
a sette anni di reclusione, due dei quali sospesi. L’arbitrarietà è la chiave di volta
del controllo sulla stampa, ricattata dalla supervisione che il regime esercita sulle
inserzioni pubblicitarie destinate ai media. Molte testate cedono.
L’uso politico della giustizia, intrinsecamente arbitrario, è tipico dei governi
autoritari, avversi allo Stato di diritto. Il risultato è una deriva che sta avvicinando
l’Algeria a quei sistemi illiberali in cui le forme democratiche (il voto) esistono, ma
il resto del sistema è basato sulla continua violazione di ogni regola di correttezza
e uguaglianza.
Il sistema si ostina a usare metodi autoritari per risolvere problemi politici. Di
fronte alle rivolte popolari risponde con concessioni economiche miste a repres-
sione e arbitrio giudiziario. Non con la negoziazione. Un processo di transizione
paci!co, insomma, non è un’opzione.

Indebolimento internazionale
Ogni volta che il potere viene s!dato, questo punta il dito contro i nemici
esterni. Anzitutto Francia, Marocco e Israele. In termini regionali e mediterranei,
230 il sostegno della Spagna al Marocco è, per Algeri, una cattiva notizia. L’accordo
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

israelo-marocchino costituisce poi una minaccia reale alla sicurezza del paese in
caso di guerra tra i due vicini.
Oggi assistiamo a una recrudescenza del nazionalismo. L’inizio del dibattito
sulla legittimità della nazione algerina – esisteva prima dell’invasione francese? – ha
rivelato un’insospettabile fragilità delle autorità e delle élite di fronte a una questio-
ne certo delicata ma non irrisolvibile. Nel 2021, il raccoglimento dell’allora ministro
degli Esteri Ramtane Lamamra sulla tomba di Giugurta durante la sua visita a Roma
è un’esibizione teatrale che impedisce di interrogarsi obiettivamente sulla nostra
storia passata e presente. La dura risposta del governo algerino al presidente fran-
cese Macron, secondo il quale l’Algeria esiste in virtù di un «af!tto della memoria»,
è anche un modo per fare pressione su Parigi perché espella gli oppositori. Sembra
che questa volta la frattura tra i due paesi sia signi!cativa.
La guerra in Ucraina, tuttavia, sta rimescolando le carte. Il sistema, duramen-
te colpito durante il decennio di sangue, sta riprendendo vigore. È candidato a
entrare nei Brics, ma aderire a quel gruppo non è scelta neutra. L’indebolimento
dell’Algeria sulla scena internazionale, dove un tempo godeva di prestigio e ampio
sostegno, è un fattore signi!cativo specie in proiezione futura.
In conclusione, che cos’è lo Stato in Algeria? È un Moloch che sa proibire,
reprimere, frodare, concedere, corrompere, esiliare e deviare la legittimità senza
rinunciare all’essenziale: mantenere il potere e controllarlo !no in fondo. Oltre
che sulle Forze armate il sistema può contare su un’altra assicurazione sulla vita:
le rendite energetiche, che gli permettono di mantenere la sua autorità. Esercito
e idrocarburi sono i due pilastri di un sistema che sta fallendo, come testimoniato
dal fatto che sempre più cittadini decidono di fuggire o di autoesiliarsi. Il Moloch
algerino è ancora assetato di potere, nonostante la gerontocrazia. La giovane e
dinamica società civile avrà la meglio sul regime? La partita è iniziata.

(traduzione di Giuseppe De Ruvo)

231
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

REGION DI STATO
LE RADICI TERRITORIALI
DEL POTERE IN ALGERIA di Marcella MAZIO
Il presidente della Repubblica esprime clan e aree geopolitiche
differenti, sempre sotto il controllo dell’esercito. Il pendolo parte
dall’Ovest, volge all’Est e torna indietro con Tebboune. L’equilibrio
tra militari e civili ha le sue regole non scritte, revocabili dai primi.

1. L’ ESERCITO NAZIONALE POPOLARE (ANP


nell’acronimo francese), che comprende le Forze armate terrestri, navali e aeree,
domina il sistema politico algerino sin dall’indipendenza. Al contempo, l’Algeria
indossa un abito civile di tutto rispetto. È dotata di istituzioni democratiche, di una
costituzione e di un ordinamento giuridico moderni. Ma il predominio dell’esercito
è evidente: l’unico presidente nella storia del paese a non essere stato destituito dai
militari è stato il colonnello Boumédiène.
Quanto alla resilienza della classe politica, essa è spesso attribuita all’esistenza
di potentissimi clan presidenziali, da ultimo l’onnipresente «clan Boute!ika». Effet-
tivamente, ogni presidente algerino ha trascinato con sé nelle stanze del potere
numerosi clientes e familiari. Queste élite politiche non sono il frutto di elezioni
libere, bensì della cooptazione da parte degli apparati militari. L’imperium risiede
quindi irrimediabilmente nell’Anp e il radicamento di apparenti clan civili ri!ette i
ben più concreti equilibri e con!itti di potere tra fazioni militari.
Il meccanismo di cooptazione è palese nella scelta del presidente della Repub-
blica. Fino all’èra Boute!ika gli apparati militari votavano nelle caserme, a porte
chiuse, un candidato scelto dal collegio dei pretoriani e spesso proveniente dai
ranghi dell’esercito stesso. Al suffragio universale, il potenziale presidente si offriva
già forte di una maggioranza relativa. La scelta dei militari appare dettata dal com-
promesso. Un’analisi più puntuale dimostra che essa ricade su personalità in grado
di assicurare all’Anp i suoi obiettivi principali: l’ammodernamento degli apparati
bellici e l’integrità territoriale.
L’Algeria è un regime militare sui generis. L’esercito non è direttamente impe-
gnato nel processo decisionale. Persino nell’èra Boumédiène, quando a governare
era un organo pretoriano, i civili hanno partecipato al governo. Tale dualismo
nell’esercizio del potere permette ai militari di perseguire i propri interessi e di 233
REGION DI STATO: LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA

intervenire esclusivamente se il potere civile rischia di uscire dal tracciato. Lo Stato


incarna il potere formale e l’esercito il potere reale. Per essere tale, il potere reale
deve esercitarsi a livello infrastrutturale sulle comunità territoriali. Di qui, il moven-
te regionale nella scelta dei capi di Stato.
Come ricorda il generale Khaled Nezzar: in Algeria «il regionalismo è stato eret-
to a ragion di Stato» 1. La cooptazione delle élite politico-militari algerine è guidata,
in ultima analisi, da esigenze di controllo territoriale. La storia del paese registra un
progressivo spostamento della base regionale degli uomini di Stato dall’Ovest, al
con"ne con il nemico Marocco, verso l’Est, terra di agitazione politica, rivendica-
zioni indipendentiste e strenua resistenza all’islam politico. E ritorno.

2. L’intricato dualismo tra autorità politica e forza militare risale alla divisione
consolare del potere nella guerra di liberazione nazionale (1954-62) tra governo
provvisorio della Repubblica algerina (Gpra) ed Esercito di liberazione nazionale
(Aln). Il Gpra viene de"nitivamente sconfessato con la nascita dell’Anp, frutto di
una dif"cile fusione tra le armate di frontiera di stanza in Tunisia e Marocco e i
maquisards (partigiani) attivi nella guerriglia urbana. L’esercito algerino non è un
monolite, ma si articola in tre strutture relativamente autonome: la Sicurezza milita-
re – oggi Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Drs) – sotto la presidenza
della Repubblica, i distretti militari e la gendarmeria nazionale.
Nel 1963, l’Anp sostiene la presidenza di Ahmed Ben Bella, originario della
provincia di Tlemcen, al con"ne con il Marocco. Attorno a Ben Bella sembra
strutturarsi un primo potente clan. In realtà, la guida del paese gli è garantita dal
capo di Stato maggiore e ministro della Difesa Houari Boumédiène. Nato a orien-
te – letteralmente dall’altra parte del paese – il colonnello Boumédiène è il leader
del clan di Oujda, città marocchina quartier generale dell’Aln. Strategicamente,
Boumédiène si circonda di militari e "gure politiche dell’Ovest per consolidare i
con"ni della neonata Algeria, così come de"niti dalla «guerra delle sabbie» contro
il Marocco.
Il predominante clan di Oujda circonda Ben Bella di personalità politiche a lui
distanti. Il presidente tenta di liberarsene, ma è destituito con un colpo di Stato nel
1965 proprio da Boumédiène. Solo due anni prima, il colonnello gli aveva conse-
gnato l’imperio. È interessante notare come in Algeria il processo di sostituzione
dei capi di Stato, punta dell’iceberg dei rapporti di forza all’interno dell’esercito,
si svolga paci"camente. All’epurazione dell’entourage di Ben Bella sopravvive il
ministro degli Esteri Abdelaziz Boute#ika. Nato proprio a Oujda e cresciuto sotto
l’ala di Boumédiène, pur non essendo un militare di carriera diventerà presidente
della Repubblica nel 1999.
Nell’èra Boumédiène (1965-1978) governa il Consiglio della rivoluzione. Il re-
gime è, tuttavia, semi-militare poiché il potere è anche in mani civili, come nel caso
di Boute#ika. Ulteriore prova della natura bicefala del sistema politico algerino,
234 1. Cfr. K. NEZZAR, Algérie: échec à une régression programmée, Paris 2001, Publisud.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

ALGERI E LE ALGERIE Mar Mediterraneo


S PAG N A
ALGERI Tizi Ouzou Annaba
Oceano 1 2
Orano
Atlantico Médéa Costantina
Batna
Oujda
I A N O
H A R
S A
E
M A R O C C O A N T
L
A T TUNISIA
Béchar Ghardaïa Ouargla

A L G E R I A
Tindouf LIBIA

In Salah
MAURITANIA

Djanet
Con!ni statali
Con!ni dei wilayat (dipartimenti) Tamanrasset
1 Grande Cabilia
2 Piccola Cabilia
Nord e Algeri M A L I
Grande Sud NIGER
Area di movimento dei tuareg
Aree berbere/berberofone

dominato dai pretoriani ma ancorato alla sua natura repubblicana. Boumédiène


garantisce stabilità al paese, riorganizzando le unità dell’esercito in modo che nes-
suna possa prendere il sopravvento sull’altra. Nel 1976, af!evolisce ulteriormente
la pressione militare assumendo il titolo di presidente della Repubblica e promul-
gando una nuova costituzione.

3. Alla morte del colonnello, i con"itti interni mai sopiti mettono in crisi gli
apparati militari e quindi la tenuta istituzionale del paese. Ad interim sono i civili
a mantenerla: nel 1978-79 è Rabah Bitat; nel 1992, alla vigilia della guerra civile,
sarà Abdelmalek Benhabyles. La storica lotta tra esercito di frontiera e guerriglieri
della liberazione nazionale evolve nella competizione tra i «disertori dell’esercito
francese» (Daf) e lo zoccolo duro dell’Aln. Uno scontro già in nuce all’indomani 235
REGION DI STATO: LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA

dell’indipendenza e disinnescato da Boumédiène, che riteneva le competenze tec-


nico-tattiche dei Daf il compimento necessario al mito incarnato dai mujåhidøn.
Al IV congresso del Fronte di liberazione nazionale (Fln) accordarsi sul futuro
presidente è particolarmente dif!cile. La scelta naturale ricadrebbe su Boute"ika,
che però è inviso ai Daf. Non godendo di altrettanta legittimità mitica, gli ex
soldati coloniali vi vedono un ostacolo alla loro scalata ai vertici dell’esercito. La
scelta ricade sul «più anziano tra i militari di più alto rango»: il colonnello Chadli
Bendjedid, primo leader politico a non provenire dai gruppi canonici, occidentali,
di potere. Come per Ben Bella, saranno gli stessi militari che lo hanno portato al
potere a destituirlo.
Gli anni della presidenza di Chadli Bendjedid (1979-92) ride!niscono le pri-
orità territoriali dello Stato algerino, comportando un ricambio dell’élite al potere.
Rivolte in Cabilia minacciano la tenuta territoriale del paese e offrono al presidente
i pieni poteri, necessari a epurare il regime da tutti i baroni a lui non fedeli e ormai
anacronistici. A lungo concentrato all’Ovest, il potere comincia lentamente a spo-
starsi verso la Cabilia, quindi nell’Est del paese, da dove proviene Chadli stesso.
Parallelamente, l’esercito ripiega su stesso. I generali formatisi nelle Forze armate
coloniali, in particolare Abdelmalek Guénaïzia, promuovono l’ammodernamento
tecnico degli apparati bellici.
L’emergere dell’islam politico fa scricchiolare la democrazia di facciata. Le ri-
volte dell’ottobre 1988 portano all’indizione di elezioni multipartitiche. La vittoria
elettorale del Fronte islamico di salvezza (Fis) nel giugno 1991 smentisce l’apparente
ritiro dell’Anp dalla politica: l’esercito depone Chadli e dichiara lo stato di emergen-
za. I militari si organizzano nell’Alto comitato di Stato, anch’esso dotato di un abito
civile: è presieduto da Mohamed Boudiaf, insieme ad Ali Haroun e Tidjani Hadam.
Di questi storici esponenti dell’Fln i militari dubitano presto: nel 1992, Boudiaf viene
assassinato dalla sua stessa guardia del corpo. Durante il decennio nero (1992-02),
l’esercito è dominato dalla corrente modernista e laica dei Daf: Khaled Nezzar,
ministro della Difesa; Abdelmalek Guénaïzia, capo di Stato maggiore; Mohamed
Médiène, capo del Drs; Mohamed Lamari, capo delle Forze terrestri.
La presa che l’Anp esercita oggi sulla popolazione è eredità del consenso che i
militari si guadagnano negli anni Novanta. La causa dello «sradicamento» dell’islam
politico è sposata da buona parte della società civile. I partiti di opposizione, i
movimenti cabili e gli islamisti moderati, invece, cercano il dialogo nella cosiddetta
piattaforma di Sant’Egidio. Presso la Comunità a Roma, nel 1995, si raggiunge un
primo accordo per la riconciliazione nazionale. L’esercito-garante, seppur convinto
«eradicatore», propone un presidente moderato. Dopo il ri!uto di Boute"ika, si
opta per il generale Liamine Zéroual (1994-1999). Di origini berbere, nato nell’Au-
rès, Zéroual segna l’emergere di una nuova classe dirigente, reclutata nel Nord-Est.
In Cabilia e nelle wilåyat berbere, il Fis ha ottenuto minore consenso: la resistenza
agli islamisti è più dura e i loro attacchi più frequenti. La cooptazione di Zéroual
e dei chaoui, popolazione berberofona dell’Aurès, permette un maggior controllo
236 sul territorio.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

4. La !ne del con"itto tra militari e islamisti vede la prevista ascesa al potere di
Abdelaziz Boute"ika. Uomo della rivoluzione e dell’indipendenza, membro emi-
nente del clan di Oujda, distintosi per le sue eccellenti capacità diplomatiche e pri-
mo presidente civile della storia del paese, Boute"ika resta al potere per vent’anni.
Con lui l’esercito ambisce a riconquistare uno spazio chiave per l’Algeria: la scena
internazionale. Boute"ika riesce a ripristinare la credibilità del paese – e del suo
esercito – dopo anni di embargo morale.
L’attentato alle Torri Gemelle (2001) ripropone con estrema serietà la necessi-
tà di modernizzare l’esercito, af!nché l’Algeria possa cooperare militarmente con
Nato e Stati Uniti. Nonostante a Boute"ika sia stato spesso attribuito l’allontana-
mento dell’esercito dalla politica, i suoi mandati si contraddistinguono per la pro-
fonda interdipendenza tra i due poteri. La legittimità storica del presidente favori-
sce la professionalizzazione degli apparati militari. Il portafoglio della Difesa, sotto
il suo diretto controllo, garantisce all’Anp un budget pressoché illimitato. L’esercito
smette di governare e torna a essere il deus ex machina della politica.
Con l’allontanamento di Nezzar, Zéroual e del fedelissimo Guénaïzia, !nisce il
dominio politico dei chaoui. Il potere torna progressivamente nelle mani dei clan
dell’Ovest. Con delle eccezioni: la guida dell’Anp è af!data al generale Ahmed
Gaïd Salah, originario dell’Aurès e la cui rete locale nella regione di Jijel era stata
chiave per smantellare le cellule dell’Esercito islamico di salvezza. Le élite politi-
co-militari cabile sono invece conservate dal potere. D’altronde, è sotto Boute"ika
che i movimenti indipendentisti si radicalizzano e avviene la rottura con le popola-
zioni berbere. I legami regionali di personaggi come Mohamed Touati, consigliere
alla presidenza nato a Tizi Ouzou, diventano essenziali per preservare l’integrità
territoriale del paese.

5. Durante lo Õiråk, il generale Salah destituisce Boute"ika con i suoi familiari


e clientes, tra cui gli oligarchi Redha Kouninef e Ali Haddad. Probabilmente, il clan
civile più in"uente nella storia dell’Algeria. Non sorprende che come suo succes-
sore l’esercito abbia pensato ad Abdelmadjid Tebboune, vecchia conoscenza del
potere. Vicinissimo a Salah, il nuovo presidente è un uomo politico a tutto tondo.
Nell’èra Boute"ika, ricopre diversi incarichi governativi. La sua carriera colpisce
per il forte impegno territoriale. Inizia come segretario generale delle wilåyåt di
Djelfa (a sud di Algeri) e di Adrar (nel Sud-Ovest). Dopo la morte di Boumédiène,
Tebboune amministra le wilåyåt di Blida (Centro-Nord) e M’Sila (al con!ne con la
Cabilia). Dal 1983, è wølå (prefetto) di Adrar e di Tiaret (Centro-Nord). Quando il
Fis vince le elezioni, è prefetto a Tizi Ouzou, wilåya dall’identità berbera particolar-
mente marcata. Durante il decennio nero esce di scena. È richiamato da Boute"ika
come ministro delegato alle collettività locali. Dal 2001 al 2007 è ministro per la
Piani!cazione urbana.
Sebbene sottoposta anch’essa all’investitura dell’Esercito, la presidenza di Teb-
boune sembra segnalare un cambiamento nelle scelte di cooptazione. La carriera
del presidente, tutta civile, ri"ette l’obiettivo militare cardine dell’integrità territoria- 237
REGION DI STATO: LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA

le, ma interpretato in chiave squisitamente politica. La sopravvivenza del sistema


politico algerino risiede nella triade Stato-potere formale, Esercito-potere reale più
tenuta territoriale. Con Tebboune e dopo Boute!ika, assistiamo al primo vero ten-
tativo di delega dell’impegno territoriale da parte dell’Anp. Tentativo tutt’altro che
de"nitivo. Se il potere civile si dimostrasse ancora immaturo, la storia dell’Algeria
insegna che l’esercito non tarderà a intervenire.

238
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

NON SOLO GAS


L’INTESA STRATEGICA
TRA ROMA E ALGERI di Mouloud HAMAI
La cooperazione in campo energetico è la base per un forte
partenariato fra Italia e Algeria. L’importanza della dimensione
industriale per approfondire un’intesa che può ridisegnare il
Mediterraneo occidentale. Nonostante la Francia.

1. L’ ITALIA HA SEMPRE GODUTO DI UN’IMMAGINE


positiva in Algeria, essendo al contempo un paese sviluppato, industrializzato e
membro del G7 e un paese dell’Europa meridionale con strette af!nità geogra!che
e culturali. Inoltre, le rovine romane di Timgad, Tipasa, Djémila, Cherchell e le pira-
midi di Frenda, straordinariamente ben conservate, testimoniano una storia comune.
L’Algeria è un museo romano a cielo aperto, dal momento che il «periodo romano»
è durato quattro secoli e mezzo ed è stato il più lungo della storia del paese. Inoltre,
in quanto Stato euromediterraneo, l’Italia ha costantemente cercato di conciliare
l’appartenenza al continente europeo con la collocazione mediterranea.
I semi di questa relazione sono stati gettati grazie al sostegno offerto all’indi-
pendenza algerina da alcuni partiti politici e personalità italiani, tra cui il capo
dell’Eni Enrico Mattei, che ri!utò di partecipare alle esplorazioni nel Sahara algeri-
no !no a che il paese non avesse ottenuto l’indipendenza. Mattei fornì anche assi-
stenza tecnica in materia di idrocarburi alla delegazione algerina che negoziava gli
accordi di Évian con la Francia. Alcuni partiti politici italiani formarono un comita-
to di sostegno alla pace in Algeria e offrirono supporto materiale e !nanziario al
Fronte di liberazione nazionale (Fln) e ai rifugiati algerini.
Nel 1998, l’Italia è stata anche il primo paese occidentale a rompere l’embargo
de facto imposto all’Algeria durante il decennio nero della lotta al terrorismo, grazie
a una visita uf!ciale del suo ministro degli Esteri. Quella visita innescò una dinami-
ca tra i paesi occidentali, in particolare europei, che portò al graduale superamen-
to dell’isolamento cui Algeri era stata sottoposta per anni.
Con il ritorno alla normalità, Algeria e Italia !rmarono nel gennaio 2003 un
trattato di amicizia, cooperazione e buon vicinato volto a stabilire un partenariato
privilegiato: un modello di cooperazione tra le sponde Nord e Sud del Mediterra-
neo. Tale accordo era basato sull’introduzione di un meccanismo simile a quello 239
NON SOLO GAS. L’INTESA STRATEGICA TRA ROMA E ALGERI

in vigore tra l’Italia e i suoi principali partner europei. Bisogna sottolineare che
Roma non aveva mai stipulato un accordo di tal genere con un paese nordafrica-
no. È stato in parte a causa di a questa operazione, ma soprattutto grazie alle
complementarietà economiche tra i due paesi, che l’Italia è diventata uno dei più
importanti partner economici dell’Algeria, mantenendo per diversi anni la posizio-
ne di primo cliente e terzo fornitore, nonostante il persistente de!cit della sua bi-
lancia commerciale. Tale squilibrio è stato gradualmente temperato anche grazie
al trattamento di favore riservato alle imprese italiane per ridurre il de!cit commer-
ciale, che in effetti presentava un palese squilibrio a favore dell’Algeria di 5,5 mi-
liardi di dollari, riconducibile alla natura degli scambi tra i due paesi, che vertono
essenzialmente sugli idrocarburi. Dal 1983, infatti, il metano algerino si dirige
verso l’Italia attraverso al gasdotto Enrico Mattei, vero e proprio cordone ombeli-
cale che collega i due paesi attraverso la Tunisia. Il 96% del gas che vi viene tra-
sportato è riservato all’Italia.
Data la crescente domanda di gas da parte di Roma, la costruzione di un se-
condo gasdotto italo-algerino attraverso la Sardegna, noto come Galsi, è stata prima
presa in considerazione e poi rinviata per la riluttanza di Eni. Il progetto è stato ri-
lanciato nel marzo 2005 ed è diventato oggetto di un accordo intergovernativo !r-
mato ad Alghero in occasione del primo vertice italo-algerino, il 14 novembre 2007.
Tuttavia, gli ulteriori tentennamenti italiani hanno portato al rinvio del Galsi. Nei
primi anni Duemila, infatti, l’Italia e l’Unione Europea guardavano con favore so-
prattutto al progetto del gasdotto trans-anatolico (Tanap) noto come «corridoio sud»,
che avrebbe dovuto trasportare il gas dell’Azerbaigian a Bulgaria, Grecia e quindi
Italia tramite la condotta transadriatica (Tap). Intanto, Bruxelles sviluppava il pro-
getto di un altro gasdotto, noto come Nabucco, che avrebbe dovuto collegare l’U-
nione Europea a fonti di gas naturale nel Mar Caspio e in Medio Oriente. L’obiettivo
era diversi!care e rendere più sicure le fonti di approvvigionamento e le rotte eu-
ropee al !ne di ridurre la dipendenza da Mosca, considerata inaf!dabile già al
momento della prima crisi ucraina e dell’annessione della Crimea, nel 2014.

2. Tutte queste oscillazioni, consuete e tollerate nelle relazioni commerciali, ri-


entrano ovviamente nella logica secondo cui gli Stati sono mossi, giustamente, dai
loro interessi nazionali, che però si evolvono e si modi!cano, se necessario, a secon-
da della situazione. L’attuale congiuntura è favorevole al rilancio del progetto Galsi,
che ha la capacità di trasportare 8 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno.
Il rilancio di questo progetto è stato confermato durante la visita in Algeria del
presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, nel gennaio 2023. È innegabile
che la guerra in Ucraina abbia cambiato i parametri di analisi e le opportunità di
investimento nel settore energetico. I dirigenti italiani ed europei, che hanno biso-
gno di ulteriore gas algerino, sono ora disposti a investire maggiormente nel setto-
re. Inoltre, questo secondo gasdotto, il cui scopo primario è quello di rifornire l’I-
talia di gas supplementare, ha anche il vantaggio di poter trasportare alternativa-
240 mente idrogeno e ammoniaca.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

La volontà espressa dall’Unione Europea di affrancarsi de!nitivamente dalla


dipendenza dagli idrocarburi russi a causa della guerra in Ucraina offre all’Algeria
un’occasione storica per consolidare le sue relazioni energetiche con l’Italia e con
l’intera Europa. Senza che questo possa essere interpretato come mancanza di so-
lidarietà nei confronti di qualcuno.
A questo proposito, va ricordato che i rinvii del progetto Galsi sono in gran
parte imputabili ai tentennamenti di Roma e di Bruxelles, oltre che alla concorren-
za del gigante russo Gazprom, tanto dura e ostinata quanto tradizionale e accettata
in ambito commerciale.
Inoltre, da più di un decennio è in programma un secondo collegamento con
l’Italia per l’installazione di un cavo elettrico sottomarino che consentirà di costruire
centrali solari nel deserto e di trasportare l’elettricità in Europa. Esiste poi un proget-
to per calare un secondo cavo sottomarino al !ne di condurre l’idrogeno verde in
Italia e in Europa attraverso un nuovo gasdotto, il SoutH2Corridor, che offre un
collegamento di 3.300 km con una capacità di 4 milioni di tonnellate di idrogeno
verde all’anno. La prima a bene!ciarne sarebbe l’Italia, seguita da Germania, Austria
e senza dubbio da altri paesi nel prossimo futuro.
La posta in gioco geopolitica è evidente: il SoutH2Corridor algerino-italiano
sta emergendo come potenziale concorrente del progetto europeo sull’idrogeno
H2Med – avviato da Francia, Spagna e Portogallo – che dovrebbe collegare Bar-
cellona a Marsiglia per poi giungere in Germania. Questo collegamento mira a
sviluppare l’uso dell’idrogeno nel continente europeo. Il suo completamento è
previsto nel 2030.

3. La cooperazione energetica è alla base dei rapporti italo-algerini, come am-


piamente confermato l’11 aprile 2022 dalla conclusione di un accordo per la con-
segna dei quantitativi supplementari di gas richiesti dall’Italia. L’intesa è stata rag-
giunta in tempi record: 45 giorni, durante i quali i massimi dirigenti italiani si sono
recati ad Algeri. Tra gli altri, il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e
alti dirigenti di Eni.
L’accordo prevede la consegna di ulteriori nove miliardi di metri cubi di gas
all’anno a partire dal 2023-24, facendo dell’Algeria il primo fornitore gasiero dell’I-
talia con il 40% delle importazioni, così sostituendo la Russia in questa posizione.
Inoltre, Eni ha !rmato con l’azienda energetica algerina Sonatrach un ulteriore ac-
cordo che prevede lo sviluppo di due progetti per la produzione di energia elettri-
ca da fonte solare nel Sud dell’Algeria, attraverso la costruzione di un Solar Lab e
di una centrale fotovoltaica da 10 MW. Questo miglioramento dei rapporti energe-
tici si è immediatamente tradotto in un notevole aumento del volume degli scambi
commerciali tra i due paesi, stimato, secondo le fonti, tra i 16 e i 20 miliardi di
dollari nel 2022.
Grazie a tali progetti, Algeria e Italia mirano a un riposizionamento strategico nel
Mediterraneo occidentale, considerato un importante spazio energetico per la com-
mercializzazione e l’instradamento di diverse fonti di energia. In futuro, questo hub 241
NON SOLO GAS. L’INTESA STRATEGICA TRA ROMA E ALGERI

potrebbe includere il gigantesco progetto del gasdotto trans-sahariano (Tsgp), che


mira a collegare i giacimenti di gas naturale nigeriani all’Europa attraverso il Niger e
l’Algeria, con una capacità di consegna annua stimata in 30 miliardi di metri cubi.
Il consolidamento delle relazioni italo-algerine, celebrato ad Algeri con grande
entusiasmo, non ha dissuaso Roma dal continuare a diversi!care le proprie fonti di
approvvigionamento e a cercare altri fornitori di energia. In particolare, l’Italia si è
mossa in Azerbaigian (con cui è già collegata da un gasdotto) e in Africa, dove
nell’aprile 2022 ha !rmato accordi per la fornitura di gas con l’Angola e il Congo,
a integrazione di quelli precedentemente siglati con Mozambico ed Egitto.
In de!nitiva, l’attuale situazione geopolitica offre all’Algeria un’occasione sto-
rica per consolidare il suo rapporto con l’Italia, nel momento in cui anche Roma
intende stringere ulteriormente queste relazioni. Ovviamente, al centro vi è la coo-
perazione in campo energetico. Ma la congiuntura offre all’Italia anche una base
sostanziale per instaurare relazioni più strette con un partner strategico af!dabile e
già impegnato nel campo della sicurezza, soprattutto per quanto riguarda la lotta
al terrorismo e all’immigrazione clandestina.
Tuttavia, l’intesa italo-algerina dovrebbe dotarsi anche di una dimensione in-
dustriale maggiormente strutturata. Da questo punto di vista, siamo ancora agli
inizi: alcuni progetti sono stati abbozzati, seppur sommariamente e limitatamente
ai produttori italiani di autoveicoli, in un forum tenutosi a !ne maggio 2023 a To-
rino, durante il quale sono state presentate le opportunità di investimento e i van-
taggi offerti dal mercato algerino.
Inoltre, nel giugno 2023 è stata creata una società mista algerino-italiana per la
produzione di grano duro nel Sud del paese, su una super!cie coltivabile di 900
ettari. L’Algeria, che importa ancora enormi quantità di cereali ogni anno (circa
dieci milioni di tonnellate), mira a migliorare la sua sicurezza alimentare, molto
fragile e vulnerabile.

4. L’Italia sta diventando il primo partner europeo dell’Algeria, con l’energia


come principale motore di una relazione che tenderà a essere sempre più differen-
ziata e polimorfa. Ciò è dimostrato, ad esempio, dall’organizzazione di diversi bu-
siness forum che riuniscono operatori di entrambi i paesi per promuovere partner-
ship in diversi settori, tra cui l’agroalimentare, il farmaceutico, il turismo, l’industria
automobilistica, le energie rinnovabili e le start-up.
L’avvicinamento geoeconomico tra Algeria e Italia è promettente anche perché
è improbabile che sia ostacolato da insormontabili ostacoli storici e geopolitici. A
differenza della Francia, le relazioni dell’Italia con l’Algeria non hanno un conten-
zioso storico legato alla colonizzazione. Allo stesso modo, la questione molto deli-
cata dell’immigrazione clandestina non dà luogo a tensioni con l’Italia paragonabi-
li a quelle che Algeri deve affrontare con Spagna e Francia, principali destinazioni
dei "ussi migratori algerini.
In!ne, sulla questione del Sahara occidentale, che dal marzo 2022 ha improv-
242 visamente provocato un deterioramento delle relazioni algerino-spagnole, l’Italia
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

HUB GASIERO ALGERINO


Giacimenti di gas

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ITALIA

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Gasdotti esistenti

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e in progetto della
rete di gas algerino TOG

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della rete

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del gas algerino


Fès

MAROCCO TUNISIA
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ALGERIA

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LIBIA
Wa

Gasdotti strategici algerini


Maghreb-Europe
(Esistente - porta gas algerino
al Marocco, alla Spagna e al Portogallo)
NIGER
Medgaz
(Esistente - gasdotto sottomarino)

Galsi
(Progetto di gasdotto verso l’Italia)

Transmed
(Esistente - gasdotto Enrico Mattei)
NIGERIA
Greenstream
(Esistente)

Trans-Sahara
irr

(Progetto per esportare gas


Wa

dalla Nigeria in Europa) Altri gasdotti

ha dato prova di neutralità diplomatica, accontentandosi di riprodurre il linguaggio


concordato nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: un
esempio di quell’ambiguità costruttiva tanto cara ai diplomatici, indispensabile per
evitare dannose rotture.
Agli occhi dell’Algeria, l’Italia ha dunque tutte le virtù per essere un partner
af!dabile e privilegiato. Allo stesso modo, Roma considera Algeri un fornitore af!-
dabile, sicuro e senza dubbio un partner in grado di fungere da ponte per sostene- 243
NON SOLO GAS. L’INTESA STRATEGICA TRA ROMA E ALGERI

re la sua politica verso il Maghreb e il resto dell’Africa. Alti dirigenti dei due paesi
hanno sottolineato la profonda complementarità economica e la possibilità, per
l’Algeria, di ispirarsi al modello economico italiano, basato sulle piccole e medie
imprese, per avviare !nalmente le profonde riforme strutturali che diventano ogni
giorno più essenziali. È quindi legittimo che l’Algeria insista sul coinvolgimento
dell’Italia nella modernizzazione e nella diversi!cazione della sua economia.
Tuttavia, è deplorevole constatare come, a parte le aziende di idrocarburi, i
grandi gruppi industriali italiani siano assenti dal mercato algerino. A questo pro-
posito, non possiamo che stigmatizzare il fallimento del progetto del gruppo Fiat,
risalente agli anni Ottanta, di creare uno stabilimento automobilistico nel paese e
il suo conseguente trasferimento in Marocco. Un nuovo progetto della stessa na-
tura è previsto per la città algerina di Orano, con i primi modelli che dovrebbero
uscire dalle linee di produzione alla !ne del 2023. Tale programma è stato annun-
ciato nell’ottobre 2022, con l’ambizione dichiarata di «convergere il più rapida-
mente possibile verso il massimo livello di integrazione locale», secondo le dichia-
razioni della parte italiana. L’opinione pubblica algerina aspetta e spera che di-
venti realtà.
Spetta all’Algeria andare oltre i tradizionali convenevoli diplomatici, le ef!me-
re e "uttuanti amicizie interstatali, le dichiarazioni a caldo più o meno attendibili e
impegnarsi di più per una vera contropartita economica, che deve concretizzarsi
nel coinvolgimento dell’Italia nella creazione di partenariati multidimensionali reci-
procamente vantaggiosi. È anche vero che l’Algeria deve attuare vere riforme strut-
turali dell’economia, da tempo individuate ma costantemente rinviate anche per
preservare la pace sociale. Non basta compiere giuste diagnosi e produrre condi-
visibili dichiarazioni d’intenti: queste riforme sono assolutamente indispensabili per
portare il sistema algerino a un livello tale da allinearsi al modello di sviluppo
dell’Italia, ottava economia mondiale, e degli altri principali partner economici del
paese. Solo così si potrà evitare che l’attuale riavvicinamento tra l’Algeria e l’Italia
si risolva in una rituale e banale presa d’atto di un’opportunità tattica offerta da una
situazione economica altalenante, i cui risultati non corrispondono affatto alle am-
bizioni dichiarate. Al contrario, è importante fare tutto il possibile per contribuire
alla costruzione di un vero e proprio partenariato strategico algerino-italiano capa-
ce di creare legami strutturali in grado di resistere a crisi e pericoli vari, nel rispetto
reciproco e nell’equilibrio di interessi tra le due parti. Un vincolo basato sulla sana
competizione regionale e internazionale, che smentisca la (falsa) credenza secondo
cui l’Algeria non sarebbe altro che una riserva di caccia.

5. Al di là delle relazioni strettamente bilaterali, l’attuale riavvicinamento ita-


lo-algerino potrebbe produrre importanti conseguenze geopolitiche vantaggiose
per entrambi i paesi.
Infatti, il riposizionamento strategico dell’Italia nel Mediterraneo occidentale co-
me hub energetico le darà probabilmente un chiaro vantaggio rispetto a un altro
244 grande paese mediterraneo, la Spagna, che sta perseguendo un obiettivo simile con
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

il gnl americano. Inoltre, il riavvicinamento italo-algerino evoca inevitabilmente il


parallelo riavvicinamento marocchino-spagnolo, come se le due ali europee del
Mediterraneo occidentale si avvicinassero a un Maghreb malato di rivalità e divisioni.
Il riavvicinamento dell’Italia all’Algeria è destinato a suscitare le preoccupazio-
ni della Francia, presunto egemone regionale, membro permanente del Consiglio
di Sicurezza dell’Onu e potenza nucleare che si ritiene privilegiata nella regione.
Parigi è legata ad Algeri da rapporti ambigui. Ancora oggi manifesta una certa ri-
luttanza ad abbandonare un passato coloniale ormai de!nitivamente superato.
Allo stesso modo, nel Mediterraneo orientale, l’Italia deve fare i conti con la
presenza invasiva di Russia e Turchia in Libia, una delle sue poche ex colonie afri-
cane. Inoltre, la prossimità marittima alla Tunisia e alla Libia fa sì che l’Italia debba
affrontare i "ussi migratori africani, pur essendo in linea di principio un paese di
transito e non di destinazione. Tuttavia, deve trattenere molti migranti in seguito
alla semichiusura della frontiera comune da parte delle autorità francesi.
Certo la geopolitica dell’Italia non è solo mediterranea ma anche continentale.
L’approfondimento dei rapporti con l’Algeria potrebbe aprire prospettive che !ni-
rebbero per conferirle il ruolo di hub euromediterraneo del gas, anche se la con-
correnza nella regione è agguerrita e sfaccettata, in particolare per quanto riguarda
il Mediterraneo orientale e il Mar Caspio. L’Italia settentrionale rientra poi nella
sfera di in"uenza economica della Germania, anch’essa molto interessata a una
partnership con l’Algeria per quanto riguarda elettricità e idrogeno.
Insomma, per molti aspetti Algeria e Italia appaiono complementari. Due na-
zioni destinate a consolidare la loro relazione, sebbene ciascuna persegua i propri
obiettivi geopolitici. Come l’Algeria è allo stesso tempo maghrebina, araba e africa-
na, così l’Italia è europea, occidentale e atlantica, in quanto membro fondatore
della Nato, di cui è portaerei strategica nel Mediterraneo.
È innegabile, tuttavia, che l’Italia, come l’Algeria, rimanga profondamente me-
diterranea. Roma condivide infatti l’obiettivo di Algeri di sviluppare un partenariato
fruttuoso nel Mediterraneo occidentale. Tale progetto, promosso a livello multila-
terale dal dialogo «5+5», riunisce i cinque paesi dell’Unione del Maghreb e i cinque
paesi dell’arco latino allargato dell’Unione Europea.
Ispirandosi a Fernand Braudel, il quale sottolineava che «la civiltà è prima di
tutto uno spazio geogra!co», l’Algeria e l’Italia devono dare i loro rispettivi contri-
buti, sia bilaterali sia multilaterali, alla costruzione di questo grande obiettivo nel
Mediterraneo occidentale.

(traduzione di Giuseppe De Ruvo)

245
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

L’ALGERIA
MINACCIA SÉ STESSA di Aghilès AÏT-LARBI
Stallo politico, giovani in fuga, economia poco competitiva,
dipendenza dagli idrocarburi, carenza di leadership: ecco i
mali che continuano ad affliggere il principale hub energetico
del Mediterraneo. Il vuoto dopo Bouteflika.

1. L A CADUTA DEL REGIME DI ABDELAZIZ


Boute!ika ha ridisegnato parte del sistema politico algerino. Nel 2019 il presidente
dell’Algeria, incoraggiato dal suo entourage e dai suoi sostenitori, era pronto a
candidarsi per un quinto mandato, ma fu costretto a rinunciarvi a causa della pres-
sione popolare rappresentata dallo Õiråk (movimento).
Boute!ika era arrivato al potere nel 1999. Vent’anni dopo era riuscito a pro-
porsi per un quinto mandato a causa dell’incapacità delle fazioni interne al regime
di accordarsi su un nuovo candidato. Al tempo, gli equilibri di potere erano con-
gelati e la loro con"gurazione era nota a tutti. Fu attraverso il generale Ahmed Gaïd
Salah, allora capo di Stato maggiore, che le Forze armate algerine (Armée nationa-
le populaire, Anp), da tempo alleate del presidente, chiesero l’applicazione dell’ar-
ticolo 102 della vecchia costituzione e destituirono il capo di Stato. Ironico quanto
simbolico che le dimissioni forzate siano state imposte sulla base dell’articolo se-
condo cui «quando il presidente della Repubblica, a causa di una malattia grave e
duratura, si trova nell’impossibilità totale di esercitare le sue funzioni, il Consiglio
costituzionale si riunisce e, dopo aver veri"cato con tutti i mezzi appropriati la re-
altà di tale impedimento, propone all’unanimità al parlamento di dichiarare lo stato
di impedimento». In effetti, durante il quarto e ultimo mandato di Boute!ika, diver-
si partiti dell’opposizione avevano già messo in dubbio che il potere fosse vera-
mente esercitato dal presidente. A seguito di un ictus che aveva costretto Bou-
te!ika su una sedia a rotelle, avevano persino chiesto pubblicamente l’applicazio-
ne dell’articolo 102.
Il fatto in sé non deve però stupire: il regime algerino è sempre stato caratte-
rizzato da una dimensione militare, ignorata da molti analisti a causa della crescen-
te presenza nell’arena politica di ricchi uomini d’affari, i cosiddetti oligarchi. L’in-
!uenza militare è emersa plasticamente nel 2019, quando il capo di Stato maggiore 247
L’ALGERIA MINACCIA SÉ STESSA

della Difesa si è affermato come !gura chiave nel processo decisionale attraverso
un intenso dialogo sociale caratterizzato da discorsi settimanali e da un calendario
elettorale immodi!cabile.
In questa cornice, il momento di grande rilegittimazione del regime doveva
essere rappresentato dalle elezioni presidenziali del dicembre 2019. Eppure, nono-
stante un controllo molto stretto del sistema elettorale e nonostante i cinque can-
didati avessero seguito le orme del governo, le elezioni hanno prodotto scarsi ri-
sultati: con un’af"uenza pari appena al 40%, si è trattato delle votazioni più boicot-
tate nella storia dell’Algeria.

2. È dunque più probabile che la vera svolta politica sia arrivata nel marzo
2020. Il Covid-19 ha offerto una grande opportunità al sistema algerino. Innanzitut-
to, l’epidemia ha costretto i cittadini che partecipavano alle manifestazioni settima-
nali del martedì e del venerdì a sospenderle. Fino ad allora, le proteste avevano
permesso di costruire un equilibrio politico con il regime e di far emergere una
narrazione alternativa a quella uf!ciale. Se un gran numero di attivisti era già stato
arrestato nel corso del 2019, il 2020 ha segnato l’inizio della resa dei conti tra regi-
me e oppositori. Da allora, il governo ha costantemente aumentato gli arresti di
manifestanti, giornalisti e accademici di ogni orientamento politico.
Il culmine di questo processo è stato raggiunto quando il Consiglio superiore
della sicurezza (Hcs), organo consultivo in cui sono rappresentati i ministeri e i
corpi addetti alla sicurezza nazionale, ha deciso di classi!care come «terroristi» il
movimento islamico Rachad e il Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia
(Mak). Ma le azioni ritorsive non si sono fermate qui: associazioni come il Rassem-
blement action jeunesse (Raj), la Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Lad-
dh) e la Caritas locale sono state sciolte.
La repressione della società civile ha sempre caratterizzato il regime algerino.
Nel tempo sono solo cambiate le procedure: oggi, soprattutto a seguito degli scon-
volgimenti generati dallo Õiråk, vengono create organizzazioni satellite af!ni al
regime, si addomestica l’opposizione e, soprattutto, si gestiscono in modo autori-
tario i mezzi di informazione. Con l’apertura politica registrata alla !ne degli anni
Ottanta, l’Algeria si era affermata nel mondo arabo come paese capace di garantire
un certo livello di libertà ai media nazionali grazie all’Agenzia nazionale per l’edi-
toria e la pubblicità (Agence nationale d’édition et de publicité, Anep). Sebbene
questo organismo sia diventato ben presto un ricettacolo di corruzione e di clien-
telismo, nel corso degli anni le testate in lingua araba e francese sono state tenden-
zialmente libere e hanno acquisito una certa in"uenza.
Dal 2019 la rotta si è invertita. In Algeria la crisi dell’informazione è evidente.
Si pensi al quotidiano in lingua francese El Watan, costretto a mettersi in regola
dopo una lunga agonia !nanziaria causata dalle pressioni dei funzionari pubblici
sugli inserzionisti privati. Oppure a Liberté, di proprietà del miliardario Issad Re-
brab, giornale che è stato chiuso senza prendere in considerazione le proposte di
248 acquisizione da parte della redazione. Tra gli esempi più emblematici delle restri-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

zioni alla stampa ci sono poi i casi di giornalisti come Khaled Drareni e Ihsane El
Kadi 1: il primo è stato arrestato nel marzo 2020, condannato e, nel febbraio 2021,
graziato dal presidente; El Kadi, giornalista e direttore di Interface Médias, è stato
condannato in appello a sette anni di carcere anche se dovrà scontarne solo due.
In entrambi i casi, i giornalisti sono stati accusati dal presidente di essere khabar-
djis, informatori al servizio di potenze straniere.

3. Insomma, analizzare il regime algerino non è facile. Come spiega il polito-


logo Mohammed Hachemaoui 2, «la leadership è allo stesso tempo militare, civile,
collegiale e personalizzata: il modo di governare, differente dai modelli teorici in
voga, rimane un enigma». La nuova presidenza di Abdelmadjid Tebboune, di cui è
arduo individuare la base politica, ne è un perfetto esempio.
Se Boute"ika, alludendo all’in"uenza dell’esercito, aveva dichiarato di non voler
essere «un presidente a tre quarti», Tebboune non sembra invece voler affrontare le
contaminazioni interne al processo decisionale, anzi. Il presidente algerino appare
regolarmente col nuovo capo di Stato maggiore, sia durante le esercitazioni militari
sia, inaspettatamente, durante i festeggiamenti sportivi – come quello per la vittoria
della Coppa araba da parte della nazionale di calcio algerina. Ciò non signi#ca che
Tebboune sia incapace di contare su forze politiche a lui fedeli o voglia af#darsi
solo ad apparati tradizionalmente legati al regime: in contrapposizione al sistema di
Boute"ika, Tebboune aveva anche promosso l’idea di «nuova Algeria», che doveva
essere uf#cializzata col referendum costituzionale del 2020. Tuttavia, l’ennesima re-
visione costituzionale (l’ultima era avvenuta appena quattro anni prima, nel 2016) ha
avuto scarso successo, registrando un’af"uenza pari appena al 23%.
Una delle prime s#de del nuovo governo è stata poi quella di ricostruire la
base clientelare del regime precedente, ridottasi a zero con la #ne dell’èra Bou-
te"ika. Ma, al di là degli slogan uf#ciali, la missione sembra stia fallendo. Il gover-
no non riesce ad avere presa sulla società. Ciò è dovuto alla #gura del presidente
Tebboune, che in vari discorsi ha attaccato l’apparato amministrativo locale e si è
lamentato per la scarsità degli investimenti, dando così l’immagine di un pilota che
non ha il controllo della propria macchina.

4. L’escalation autoritaria messa in mostra dal regime algerino ri"ette un chiaro


irrigidimento nei confronti di qualsiasi forma di dissidenza politica. Le conseguen-
ze dell’arretramento nel campo delle libertà civili sono tante e contribuiscono ad
alimentare la rabbia generale. Soprattutto nei giovani. Ancor più perché nel paese
nordafricano le prospettive economiche sono assai modeste. Nel 2016 il 30% dei
giovani algerini ha dichiarato 3 di voler lasciare il paese e la metà degli intervistati
ha motivato la propria scelta parlando di «mancanza di opportunità di carriera». I
1. Altri giornalisti, fra cui Mohamed Mouloudj, Rabah Karrèche e Mustapha Bendjema, sono in carce-
re, ma i loro casi sono meno seguiti.
2. M. HACHEMAOUI, Clientélisme et patronage dans l’Algérie contemporaine, Paris 2013, Karthala.
3. N. HAMMOUDA ET AL., La jeunesse algérienne: vécu, représentations, aspirations, Algeri 2018, Cread. 249
L’ALGERIA MINACCIA SÉ STESSA

dati di questo sondaggio non sono aggiornati, ma il numero di chi intende partire
sta crescendo: lo dimostrano gli innumerevoli video di veri e propri «consulenti per
l’emigrazione» sui social network, le polemiche sui medici algerini che vanno all’e-
stero e il numero crescente di migranti clandestini (harragas). Di conseguenza, la
situazione politica unita al disagio economico non può che alimentare il senso di
emarginazione tra i giovani.
Questa è una delle prime s!de che il governo algerino deve affrontare: costru-
ire un progetto politico capace di offrire speranza. In caso contrario, chi aspira a
emigrare continuerà ad affollare i consolati stranieri e ad alimentare la clandestini-
tà, creando un duplice problema: in Algeria la fuga di cervelli e in Europa la pre-
occupazione della migrazione irregolare, che di anno in anno sta diventando sem-
pre più rilevante nel dibattito pubblico.
Le analisi di molti osservatori sulla stabilità politica dell’Algeria sono spesso
lontane dalla realtà. Sebbene le strutture del potere siano soggette a minacce reali,
come la diffusione della corruzione o la disgregazione dello Stato, il collasso istitu-
zionale sul modello della vicina Libia sembra impossibile. Le Forze armate algerine,
che restano la radice del potere locale, godono di una solidità istituzionale senza
eguali e di un sostegno popolare innegabile. Le manifestazioni paci!che dello
Õiråk hanno dimostrato che oggi gli algerini ri!utano la violenza come mezzo per
esprimere le proprie istanze politiche, anche se i disordini dovuti alla crisi econo-
mica e sociale restano numerosi. L’incapacità di offrire una visione, la disintegrazio-
ne del contratto sociale e la percezione della mancanza – reale o presunta – di
prospettive stanno facendo perdere al paese una parte signi!cativa della sua linfa
vitale.

5. Dopo le elezioni, il presidente Tebboune ha fatto della liberalizzazione degli


investimenti un suo cavallo di battaglia, insistendo anche troppo sulla retorica del-
la «diversi!cazione economica». In effetti, senza tenere conto degli idrocarburi, le
esportazioni sono aumentate da 1,7 miliardi di dollari nel 2019 a 7 miliardi di dol-
lari nel 2022 4. Questo segnale piuttosto incoraggiante non dovrebbe comunque
oscurare lo stato di sofferenza generale. La «diversi!cazione economica» era già
stata posta al centro della presidenza Boute#ika, con risultati contrastanti e con un
settore informale in crescita che, secondo molti analisti, rappresenta oggi almeno il
50% dell’economia nazionale. C’è inoltre una sofferenza strutturale che af#igge il
sistema algerino: non essere mai riuscito a costruire una base produttiva endogena
e aver accelerato la demolizione del settore agricolo senza però aver avviato una
vera e propria industrializzazione.
Se la retorica della diversi!cazione economica non convince più di tanto 5, è
perché essa tocca uno dei pilastri del regime: la capacità di estrarre e condividere i
4. «Exportations hors hydrocarbures: bond sans précédent grâce à la diversi!cation de l’économie»,
Algérie Press Service, 19/6/2023.
5. R. BOUKLIA-HASSANE, «Financement externe et croissance dans les économies en développement: cas
250 de l’Algérie», 2003, tesi di dottorato presso la Université Lumière Lyon 2.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

proventi dell’energia, settore che a sua volta muove tanto le esportazioni quanto le
importazioni e il mercato monetario. Ma, per essere elevato, l’accesso alle rendite
deve essere limitato a pochi. E a questo servono alcune misure burocratiche 6: ga-
rantire alle autorità pubbliche l’accesso ai pro
"tti economici in modo tale da offrire
privilegi ai clienti del regime. Ma così l’economia algerina rischia di soffocare.
Attualmente l’amministrazione sembra paralizzata. Sebbene l’esecutivo abbia
tentato in numerose occasioni di sbloccare la situazione, secondo molti osservato-
ri i processi organizzati nell’ambito delle operazioni anticorruzione dopo la caduta
di Boute#ika rivelano il timore dei dirigenti della pubblica amministrazione, che
non vogliono più prendere decisioni di cui potrebbero essere ritenuti responsabili.
Nel frattempo, l’economia algerina resta bloccata da vari rischi macroeconomici.
Innanzitutto, l’eccessiva dipendenza dagli idrocarburi rende il paese dipen-
dente dagli sviluppi del mercato energetico globale. Allo stesso tempo, il consumo
energetico dell’Algeria sta aumentando vertiginosamente 7 e ciò renderà necessario
convertire una quota sempre maggiore della produzione verso la domanda nazio-
nale. Uno dei paradossi dell’economia algerina è che la corruzione avvolge ogni
settore, dai fattori di produzione ai consumi intermedi: ciò non solo ha ridotto gli
utili degli investimenti, ma anno dopo anno sta rendendo la produttività sempre
più negativa. In poche parole 8, più investimenti si fanno, meno essi sono produt-
tivi. Queste dinamiche contribuiscono a paralizzare un’economia già incapace di
assorbire la popolazione di laureati che ogni anno lascia l’università e di offrire
posti di lavoro all’altezza delle loro quali"che. La disoccupazione giovanile (15-25
anni) s"ora il 30%, alimentando il bacino di chi intende emigrare 9.

6. Con un’economia poco competitiva, la dipendenza strutturale dagli idrocar-


buri e lo stallo politico, a minare la stabilità del paese potrebbe essere proprio lo
stesso governo algerino. La retorica degli «stranieri che minacciano il paese» e la
necessità di «consolidare il fronte interno» dimostrano l’incapacità di reinventarsi
anche nel linguaggio. Non dovrebbero preoccupare tanto lo status quo e le invo-
luzioni in termini di libertà, che certamente sono indicatori signi"cativi e possono
sempre dare adito a un dibattito sul modello politico da adottare. Piuttosto, la con-
traddizione con cui anche i più fedeli al regime algerino devono fare i conti è
chiara: il governo non è in grado di produrre nulla di fruttuoso.
I pilastri fondamentali del regime – l’esercito, l’integrazione forzata dell’oppo-
sizione, la frammentazione della società civile e la repressione – sono rimasti im-
mutati nell’arena politica algerina degli ultimi decenni. Allo stesso tempo, la quali-
tà del personale politico sta diminuendo. Indipendentemente da cosa si possa
pensare di Houari Boumédiène, storico leader e tra i primi presidenti dell’Algeria
6. D. GHANEM, Understanding Competitive Authoritarian Persistence in Algeria, London 2022, Palgrave
Macmillan.
7. «Cerefe: la consommation énergétique nationale a augmenté de 59% en dix ans», Algérie Press Ser-
vice, 6/2/2021.
8. J-L. LEVET, P. TOLILA, Le mal algérien, Paris 2023, Bouquins.
9. Dati della Banca mondiale, percentuale della popolazione attiva. 251
L’ALGERIA MINACCIA SÉ STESSA

indipendente, è indiscutibile che la sua azione politica non sia mai stata guidata da
interessi personali. Chi, tra coloro che sono oggi legati al sistema, può affermare di
avere una visione e un progetto per il futuro dell’Algeria?
Il fatto che il governo ricicli lo stesso personale – si pensi ai ministri Ramtane
Lamamra e Ahmed Attaf – dimostra come le uniche competenze richieste siano
ancora quelle del passato. Che dire poi dell’incapacità di formulare un progetto
politico e di avere una chiara visione del futuro del paese? La diffusione della cor-
ruzione e l’emarginazione delle competenze all’interno del partito fanno del cini-
smo la sola forza motrice dell’azione politica. Senza essere ingenui e senza !nire a
parlare di possibile rivoluzione dei garofani, tutti questi segnali dovrebbero rappre-
sentare un campanello d’allarme per la classe dirigente algerina.

(traduzione di Marcella Mazio)

252
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

MOSCA E ALGERI
AMICIZIA CON LIMITI di Adlene MOHAMMEDI
Storia e attualità di un’intesa solida, ma perimetrata e sbilanciata
a favore della Federazione. L’eredità sovietica negli armamenti
e tra i capi militari. Il rapporto clientelare svela la fragilità del
Pouvoir. L’Algeria tiene il piede in più scarpe: Russia, Cina e Usa.

1. P ARLARE DI UN’ALLEANZA TRA ALGERIA E RUSSIA


è un’iperbole. Dalla rivolta popolare (Õiråk) nel 2019 alla guerra in Ucraina, le re-
lazioni tra i due paesi si sono mostrate solide. Ma non bisogna trascurare i loro li-
miti. Per il governo algerino, la politica estera è anzitutto un mezzo di sopravviven-
za e una fonte alternativa di legittimità di fronte alle contestazioni interne. Tale
impostazione non prevede l’adesione a un blocco o a un sistema di alleanze, ma
si propone di mantenere buone relazioni con tutte le principali potenze. Questa
!essibilità contrasta con la rigidità domestica data dal clima di repressione politica.
E con un contesto regionale sempre più agitato.
I rapporti tra Algeria e Russia sono spesso descritti come un’alleanza inscindi-
bile che risale alla decolonizzazione e alla guerra fredda. A questo proposito, alcu-
ne precisazioni sono d’obbligo.
Alla "ne degli anni Cinquanta, l’Unione Sovietica non è il maggiore sponsor
dell’indipendenza algerina. Al contrario, la posizione di Mosca appare relativamen-
te moderata, favorevole a una soluzione franco-algerina. Nel suo libro Autopsie
d’une guerre: l’aurore, Farõåt ‘Abbås racconta di una missione in Spagna nel 1957:
«A quel tempo la Spagna, dopo la Jugoslavia e la Svizzera, era per noi il paese più
ospitale» 1. Nello stesso anno, il senatore e futuro presidente degli Stati Uniti John
F. Kennedy tiene un eminente discorso in cui critica il sostegno americano alla
Francia e si esprime a favore dell’indipendenza algerina 2. Una volta indipendente,
l’Algeria ha trasformato questa eterogeneità di sostenitori (la Spagna franchista, per
un po’; la Jugoslavia titina; la Svizzera neutrale; un futuro presidente democratico
americano) in partenariati «a tutto campo» nei quali Mosca "gura come attore, cer-

1. F. ABBAS, Autopsie d’une guerre: l’aurore, Paris 1980, Garnier Frères, p. 209.
2. F. MAATOUG, «John F. Kennedy, la France et l’Algérie», Guerres mondiales et con!its contemporains, 253
n. 4/2006, pp. 135-153.
MOSCA E ALGERI, AMICIZIA CON LIMITI

tamente centrale, tra gli altri. Oltre alla clandestinità politica (il culto della segretez-
za), dopo la separazione dalla Francia il governo algerino ha ereditato dal movi-
mento di liberazione anche la !essibilità diplomatica (la capacità di sedurre attori
molto diversi tra loro).
Mosca riconosce di fatto il governo provvisorio della Repubblica di Algeria
solo nel 1960. L’indipendenza dell’Algeria nel 1962 viene accolta con la stessa fred-
dezza. «Noi non saremo in grado di supportare due Cuba; voi avete già un buon
partner: il generale de Gaulle, tenetevelo stretto!» 3, avrebbe detto Nikita Khruš0ëv
al primo presidente dell’Algeria indipendente, Ahmed Ben Bella.
Un primo riavvicinamento con la Russia, proprio negli anni di Ben Bella, por-
ta all’accordo militare del 1963. Tuttavia, offrirsi completamente ai sovietici è fuori
questione per Houari Boumédiène (presidente dal 1965 al 1978), nonostante i
rapporti talvolta burrascosi tra Algeri e Washington – vedi la rottura delle relazioni
diplomatiche dal 1967 al 1974, in seguito alla guerra dei Sei giorni. Parallelamente
all’accordo con la Russia, centinaia di uf$ciali algerini vengono infatti addestrati
presso l’Accademia militare francese di Saint-Cyr Coëtquidan. A partire dal 1968 la
cooperazione militare con Parigi si rafforza ulteriormente nei settori dell’organizza-
zione e della fornitura di equipaggiamento bellico4. L’Algeria stava chiaramente
attuando una strategia di diversi$cazione in un contesto di «non allineamento».
Tuttavia, questa diversi$cazione non oscurava l’innegabile preponderanza so-
vietica in campo militare. Secondo le autorità militari francesi, nel 1963 Boumé-
diène – allora ministro della Difesa – otteneva da Mosca 1,1 miliardi di franchi
(circa 1,7 miliardi di euro) in crediti per forniture belliche 5. Fonti sempre francesi
attestano che il valore degli equipaggiamenti consegnati dall’Unione Sovietica
all’Algeria tra l’indipendenza e l’aprile 1967 ammontava a 1,64 miliardi di franchi 6
(circa 2,3 miliardi di euro). Questa dipendenza non è mai stata messa in discussio-
ne nei decenni successivi. E la Russia post-sovietica ne ha saputo appro$ttare.
Alla $ne degli anni Settanta, il 90% dell’equipaggiamento militare algerino era
di origine sovietica 7. Mosca ha inoltre contribuito allo sviluppo del settore minera-
rio e ha aperto ai giovani laureati algerini, come ad altri africani e arabi, i propri
centri di formazione e le sue università. Molti dirigenti, ingegneri e uf$ciali della
giovane repubblica hanno bene$ciato della formazione sovietica, cui si accompa-
gnavano legami matrimoniali e culturali. Oggi, malgrado le università siano rimaste
aperte agli studenti arabi e africani $no alla caduta dell’Urss, le tracce di questa
in!uenza – s$data da quella francese e anglosassone – sono impercettibili. I diri-
genti formatisi nell’Unione Sovietica non sono sempre i più apprezzati. Nel settore
energetico, ad esempio, la presidenza del gigante petrolifero Sonatrach, fondato
nel 1963, è regolarmente af$data a ingegneri formatisi negli Stati Uniti.
3. M. HARBI, L’Algérie et son destin: croyants ou citoyens, Paris 1992, Arcantère, p. 188.
4. I. GRIDAN, G. LE BOULANGER, «Les relations militaires entre l’Algérie et l’URSS, de l’indépendance aux
années 1970», Outre-mers, n. 354-355/2007, pp. 37-61.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
254 7. N. GRIMAUD, La politique extérieure de l’Algérie (1962-1978), Paris 1984, Karthala, p. 133.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Per contro, i dirigenti istruiti nell’Urss sono ancora presenti ai vertici dell’eser-
cito. L’attuale capo di Stato maggiore, Saïd Chengriha, è stato addestrato all’Acca-
demia russa di Vorošilov negli anni Settanta. Anche il suo predecessore, Ahmed
Gaïd Salah, uomo forte durante i primi mesi dello Õiråk e arte"ce della cacciata di
Abdelaziz Boute#ika – al quale era vicino – è stato addestrato in Unione Sovietica.
Lo stesso vale per il generale Ali Ghediri, ex direttore delle Risorse umane del mi-
nistero della Difesa ora in carcere per «aver minato il morale dell’esercito in tempo
di pace». Ghediri ha voluto «s"dare il sistema», secondo le sue stesse parole, pre-
sentando la propria candidatura alla presidenza della Repubblica. Di tutti i centri di
potere in Algeria, l’impronta russa sembra perdurare maggiormente nell’esercito,
che del potere resta il cuore. Tuttavia, la nuova generazione di generali è meno
russo"la delle precedenti, quantomeno in termini culturali.
Superate le gravi crisi vissute da entrambi i paesi alla "ne del secolo scorso, le
relazioni tra Russia e Algeria si sono rafforzate nei primi anni Duemila. Oltre all’e-
voluzione del contesto internazionale e alle trasformazioni interne, fra russi e alge-
rini esistono rappresentazioni, istinti e interessi comuni. La guerra in Ucraina offre
l’opportunità di rinsaldarli, ma anche di vederne i limiti.

2. Dopo la "ne della guerra fredda, Mosca e Algeri hanno percorso, mantenen-
do le dovute proporzioni, traiettorie simili. Mentre la Russia post-sovietica trasfor-
mava la guerra in Cecenia in una guerra contro l’islam politico e il terrorismo,
l’Algeria precipitava nel cosiddetto decennio nero, durante il quale scontri tra eser-
cito e gruppi islamisti si alternavano a massacri. All’inizio degli anni Duemila, en-
trambe si sono lasciate gradualmente alle spalle le rispettive guerre civili, con due
nuovi presidenti: Vladimir Putin e Abdelaziz Boute#ika, a capo di sistemi in cui le
oligarchie uf"ciali colludono con i servizi di sicurezza e intelligence. In"ne, nel
corso di quel decennio, Russia e Algeria hanno bene"ciato dell’aumento dei prez-
zi degli idrocarburi, fatto che ha contribuito al consolidamento della loro relazione
fornitore-cliente.
Oltre alle eredità dei rapporti algerino-sovietici, a partire da questo periodo la
politica estera dei due paesi ha cominciato ad assumere lo stesso contenuto seman-
tico e concettuale. Così oggi Algeria e Russia attribuiscono pubblicamente partico-
lare importanza alla sovranità nazionale e al principio di non ingerenza; pongono
la medesima enfasi sull’idea di un mondo multipolare e utilizzano la stessa retorica
securitaria. Inoltre, entrambi i governi rischiano di subire le conseguenze del jihåd
transnazionale: gli «anciens d’Afghanistan», i veterani jihadisti che hanno combat-
tuto contro l’Armata Rossa negli anni Ottanta, arrivano in Cecenia come in Algeria.
Negli anni Novanta il governo algerino era mal visto a livello mondiale, tanto
che sull’esercito gravava un pesante embargo, mentre la Russia veniva duramente
criticata per le operzaioni in Cecenia. L’11 settembre 2001 pare confermare le tesi
antiterroristiche dei due governi, che si appropriano allo stesso modo degli atten-
tati. Da quel momento, Russia e Algeria si propongono a Washington come attori
chiave, se non per"no soci nella lotta contro il terrorismo. 255
MOSCA E ALGERI, AMICIZIA CON LIMITI

Nonostante queste similitudini, agli inizi degli anni Duemila Mosca non ritene-
va Algeri un partner privilegiato. Nel suo primo mandato (2000-04) Putin guardava
principalmente agli Stati Uniti e all’Europa. La sua offensiva diplomatica nel mondo
arabo è cominciata soltanto durante il secondo mandato (2004-08). La sua visita ad
Algeri nel 2006 acquisisce un signi!cato particolare perché avvenuta a circa trent’an-
ni dall’ultima visita di un leader sovietico 8. In quell’occasione, il presidente russo
ha annunciato l’estinzione del debito algerino nei confronti della Federazione Rus-
sa, che ammontava a 4,7 miliardi di dollari. Contestualmente, l’Algeria si è impegna-
ta a spendere 7,5 miliardi di dollari in armi russe 9.

3. Oggi, in termini strettamente pecuniari i rapporti tra Russia e Algeria ri#et-


tono soprattutto le debolezze dell’economia algerina e i limiti del partenariato tra i
due paesi. L’analisi dell’insieme degli scambi commerciali tra la Russia e il Maghreb
illustra la natura unilaterale delle relazioni economiche con l’Algeria.
Dai dati della tabella si possono trarre diverse conclusioni. In primo luogo,
Algeri è certamente il principale cliente di Mosca nel Maghreb. Tuttavia, almeno
altrettanta attenzione merita la crescita nell’arco di vent’anni dei rapporti commer-
ciali tra Russia e Marocco: nel 2021 hanno superato gli 1,6 miliardi di dollari, men-
tre all’inizio del secolo erano praticamente inesistenti. In!ne, verso la Federazione
Russa l’Algeria non esporta praticamente nulla, mentre ne importa notevoli quan-
tità di merci, non solo armi. Invece, nel 2021 le esportazioni marocchine verso la
Russia sono state più di venti volte superiori a quelle algerine e otto volte maggio-
ri rispetto a quelle tunisine. Tunisia e Marocco non esportano solo molti più pro-
dotti agricoli (in particolare frutta) dell’Algeria, ma anche alcuni beni industriali 10.
Per la Russia, l’Algeria resta innanzitutto un cliente. Un cliente con un enorme
appetito per le attrezzature militari, ma non solo.
L’Algeria condivide gli stessi timori dei suoi vicini riguardo alla sicurezza ali-
mentare. Lo sviluppo demogra!co, il cambiamento climatico e l’impatto della
guerra d’Ucraina sulle forniture di cereali sono anch’essi fonti di inquietudine.
Così come il Marocco, l’Algeria è un grande importatore di grano russo. Secondo
l’agenzia di stampa russa Interfax, Algeri avrebbe quasi quadruplicato i suoi ac-
quisti, da 330 mila tonnellate nel 2021 a 1,3 milioni nel 2022. Una simile dipen-
denza dal grano del Mar Nero è una vulnerabilità geopolitica.
I dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) mostrano
che nel periodo 2018-22 si è veri!cato un forte calo delle importazioni di armi da
parte dell’Algeria (-58% rispetto agli anni 2013-17) 11. Tuttavia, questo dato va let-
to alla luce dell’annuncio, alla !ne del 2022, di un «megacontratto da 12 miliardi

8. M. MOKHEFI, «Alger-Moscou: évolution et limites d’une relation privilégiée», Politique étrangère, n.


3/2015, pp. 57-70.
9. T. KONDRATENKO, «Russian arms exports to Africa: Moscow’s long-term strategy», Deutsche Welle,
29/5/2020.
10. A. MOHAMMEDI, «Russie-Algérie: un partenariat #exible et pragmatique», Fondation méditerranéenne
d’études stratégiques (Fmes), 2/12/2020.
256 11. «Trends in international arms transfers, 2022», Sipri Fact Sheet, n. 3/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE

di dollari» con Mosca, sulla scia di un forte aumento del bilancio destinato alla
difesa da parte del governo algerino (oltre 22 miliardi nel 2023, più del doppio
rispetto al 2022) 12.
Tra il 2015 e il 2019, l’Algeria è stata il sesto importatore mondiale di armi e il
terzo cliente della Russia, dopo India e Cina. Quanto ai trasferimenti di armi, se-
condo i dati del Sipri nell’arco di vent’anni, dal 2002 al 2022, quasi il 76% delle
importazioni algerine è provenuto dalla Russia. Una percentuale certamente mino-
re rispetto al 90% registrato alla "ne degli anni Settanta, ma la diversi"cazione resta
limitata. D’altronde, il governo preferisce gli aerei multiruolo russi Beriev persino
in ambito civile, dove affronta una delle principali minacce che gravano attualmen-
te sul territorio algerino: gli incendi. Come per il grano, la guerra in Ucraina e le
sanzioni contro Mosca possono rappresentare un ostacolo alla regolarità delle for-
niture di armi russe.
In ambito energetico, tre punti meritano particolare attenzione. Il primo va
oltre le relazioni russo-algerine e riguarda i rapporti tra Mosca e l’Organizzazione
dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Con l’inizio della guerra in Ucraina, nell’O-
pec a guida saudita hanno prevalso la convergenza di intenti e la determinazione
a resistere alle pressioni americane. Come dimostra la decisione di diminuire la
produzione di petrolio nell’ottobre 2022.
Il secondo punto riguarda la capacità di Algeri di sostituirsi a Mosca come
principale fornitore di gas all’Europa. Il progetto incontra due importanti limiti: la
crescente domanda energetica interna dell’Algeria e le sue scarse capacità di pro-
duzione.
Il terzo deriva da quest’ultimo punto. Per risolvere l’inef"cienza produttiva, l’Al-
geria ha bisogno di un socio e la scelta sembra ricadere sugli Stati Uniti. Modi"cando
la legge in modo da attirare investimenti stranieri 13, il governo algerino punta sulle
compagnie statunitensi. In un colloquio con l’ambasciatrice americana nell’aprile
2022, il ministro dell’Energia e delle Miniere ha insistito sulle «opportunità di investi-
mento e di partenariato che offre il settore per l’esplorazione, lo sviluppo e lo sfrut-
tamento degli idrocarburi, auspicando di vedere le imprese americane partecipare
alle prossime gare di appalto e bene"ciare dei vantaggi previsti dalla nuova legge» 14.

4. Gli argomenti trattati dimostrano la natura solida, eppure squilibrata e limi-


tata, del partenariato russo-algerino.
Quando nel 2019 la rivolta popolare ha s"dato il potere in Algeria, acceleran-
do la destituzione di Abdelaziz Boute#ika, Mosca non si è esposta sul piano inter-
nazionale. Certo, i leader algerini hanno potuto contare sulla benevolenza dei loro
omologhi russi. Ma questi ultimi si sono limitati al minimo indispensabile. In un
primo momento, perché il sostegno a un presidente praticamente moribondo non

12. «En Algérie, très forte hausse du budget de la défense prévue pour 2023», Le Monde, 23/11/2022.
13. «En Algérie, adoption d’un projet de loi controversé sur les hydrocarbures», Le Monde, 14/11/2019.
14. «Le Ministre de l’Energie et des Mines reçoit l’Ambassadeur des États-Unis d’Amérique», comuni-
cato del ministero algerino dell’Energia e delle Miniere, 5/4/2022. 257
MOSCA E ALGERI, AMICIZIA CON LIMITI

poteva suscitare traboccanti entusiasmi. In seguito, perché il governo algerino ha


potuto contare sul favore di tutte le potenze mondiali ed europee. In un contesto
molto diverso da quello delle cosiddette primavere arabe – dove l’autoritarismo e
i poteri militari, associati a una visione miope di stabilità, hanno rassicurato molti
– Mosca ha preferito la strategia della controrivoluzione e del soffocamento della
contestazione, al pari di Washington, Parigi, Pechino e Ankara. In altre parole, a
differenza di quello siriano, il governo algerino non ha avuto bisogno del sostegno
di nessuno in particolare: poteva contare sull’appoggio di tutte le potenze.
Quando ha invaso l’Ucraina, la Russia si è scontrata con la relativa solidarietà
dell’Alleanza Atlantica nei confronti di Kiev. Mentre in Africa, America Latina, Asia
e nel mondo arabo, Mosca ha potuto constatare che i suoi partner abituali – anche
i più vicini a Washington – non le hanno voltato le spalle. Di fronte all’offensiva
russa, l’Algeria ha a sua volta mancato di distinguersi. Ad esempio, adottando negli
organi Onu lo stesso comportamento del Marocco. Il contesto attuale appare pro-
pizio sia ai partenariati !essibili sia ai poteri autoritari, abbastanza numerosi da
avere al contempo l’assenso di Mosca e Washington 15.
In ultima analisi, il governo algerino sta operando una «compartimentazione»
più che una «diversi#cazione» delle relazioni. Il potere non riesce a far sentire del
tutto la sua voce in patria, come dimostrano la repressione e i prigionieri politici.
A livello regionale, l’eco del potere algerino è dimezzata dalle sue pessime relazio-
ni con il Marocco. Di conseguenza, l’Algeria deve assicurarsi l’appoggio di potenze
lontane. Ciò implica un’apertura all’in!uenza russa o cinese, a seconda dei dossier,
ma anche americana. Dunque, l’amicizia con la Russia è solo un sintomo tra tanti
della vulnerabilità domestica delle autorità algerine.
Questo rapporto privilegiato non è un’alleanza vincolante. Secondo le rispet-
tive dottrine in politica estera, né l’Algeria né la Russia aderiscono alla logica dei
blocchi. Sebbene alcuni princìpi generali e soprattutto alcuni interessi accomunino
le loro politiche estere, ciascuno si adopera per lo sviluppo di altri partenariati in-
dipendenti. Due esempi relativamente recenti: in Libia, il governo algerino non è
allineato alla posizione uf#ciosa di Mosca a favore di Œaløfa Õaftar 16. In Ucraina,
l’Algeria non ha voltato le spalle alla Russia, ma il deterioramento delle relazioni
russo-americane non impedisce ai leader algerini di rassicurare sistematicamente
gli Washington 17.

(traduzione di Marcella Mazio)

15. A. MOHAMMEDI, «La Russie en Afrique du Nord et au Moyen-Orient, une percée guidée par les cir-
constances», Con!uences Méditerranée, n. 123/2022.
16. ID., «Stratégies russes en Libye: le déploiement d’une politique étrangère multifacette», Con!uences
Méditerranée, n. 118/2021.
17. Conferenza stampa del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune del 24/2/2023, R. HAMADI,
258 «Espagne, États-Unis, Russie, Ukraine: les messages de Tebboune», tsa-algerie.com, 25/2/2023.
KADER A. ABDERRAHIM - Docente all’Università Sciences Po di Parigi.
AGHILÈS AÏT-LARBI - Avvocato e imprenditore nel settore dell’istruzione e della for-
mazione in Algeria. Ha fondato lo studio Di Mauri Advisory che offre consulen-
za a multinazionali e fondi di investimento in Africa settentrionale e occidentale.
GIULIO ALBANESE - Padre comboniano.
MAURO ARMANINO - Missionario a Niamey.
BENOÎT BARRAL - Direttore di Fondemos.
EDOARDO Boria - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La
Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopo-
litica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scienti!co di Limes.
ALESSANDRO COLASANTI - Dottorando in Relazioni internazionali (geopolitica dei
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ship di base a Birkbeck, Università di Londra. Tirocinante di Limes.
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MOULOUD HAMAI - Ambasciatore d’Algeria in pensione. Dottore di ricerca all’Uni-
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MICHAEL MIKLAUCIC - Senior Fellow alla National Defense University e direttore di
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259
TARIK MIRA - Già deputato del parlamento algerino per il partito Raggruppamento
per la cultura e la democrazia (Rdc).
ADLENE MOHAMMEDI - Direttore scienti!co del centro di ricerca strategica Aesma.
Dottore di ricerca in Geopolitica all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, inse-
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TIBOR NAGY - Già assistente segretario di Stato degli Stati Uniti per gli Affari africani
e ambasciatore Usa in Guinea e in Etiopia.
JEAN-BAPTISTE NOÉ - Dottore di ricerca in Storia. Professore all’Università Cattolica di
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MARC-ANTOINE PÉROUSE DE MONTCLOS - Ricercatore senior all’Institut de Recherche
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FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della
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LUCIANO POLLICHIENI - Analista della Fondazione Med-Or, esperto di geopolitica
dell’Africa subsahariana. Collaboratore di Limes.
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LUCA RAINERI - Ricercatore in Studi di sicurezza alla Scuola Superiore Sant’Anna di
Pisa, esperto di Sahel.
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tore alla Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Ségou; assegnista di ricerca
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de recherche sur le Maghreb contemporain di Tunisi. Autrice di Rethinking Civil
Society in Transition (2023).
LESLIE VARENNE - Cofondatrice e direttrice di Iveris.

260
La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA

1. La scelta della capitale di uno Stato è un atto molto rilevante dal punto di
vista sia operativo sia simbolico. Ecco perché negli ultimi decenni alcuni Stati afri-
cani hanno spostato la loro capitale. La Nigeria da Lagos ad Abuja, la Tanzania da
Dar es Salaam a Dodoma, la Costa d’Avorio da Abidjan a Yamoussoukro. Le vec-
chie capitali rivestivano una precisa funzione al tempo in cui questi territori non
erano ancora indipendenti, quando la loro posizione sul mare rappresentava il punto
di contatto più favorevole per i rapporti tra la potenza coloniale e la colonia. La scel-
ta di puntare su questi centri li ha resi primaziali, vale a dire dominanti in ogni aspet-
to della vita della colonia (demogra!co, politico, economico, culturale). Al prezzo,
però, di un loro inurbamento massivo e di uno sviluppo squilibrato del territorio.
Una volta raggiunta l’indipendenza è emersa la ferma volontà di superare l’ordine
coloniale e quindi di rivedere anche la scelta della capitale su criteri non più funzio-
nali ai rapporti con la potenza coloniale ma ai contatti e al controllo dell’intero terri-
torio nazionale. Da questa necessità è scaturita la decisione di spostarla in una regio-
ne più centrale, almeno teoricamente più adatta a soddisfare le nuove esigenze.
In altri casi, l’intenzione di marcare il passaggio a un periodo storico nuovo e
ben distinto da quello coloniale si è espressa con il cambiamento dei nomi delle capi-
tali. Il Congo ribattezzò Kinshasa la Leopoldville che onorava il sovrano belga, il
Mozambico giudicò estinto il suo debito con l’esploratore portoghese Lourenço
Marques passando a chiamare Maputo la sua capitale, il Ciad accolse N’Djamena
invece di Fort-Lamy, lo Zimbabwe sostituì Salisbury con Harare. Sorte analoga
ebbero, per la stessa ragione, molti nomi di Stato. Soprattutto quelli che omaggiava-
no direttamente il colonizzatore, come per Cecil Rhodes che aveva dato il nome alle
due Rhodesie, quella del Nord oggi Zambia e quella del Sud oggi Zimbabwe (nella
!gura 1 un’immagine guerresca dell’africano non ancora pienamente superata oggi).
Oppure quando si sentì il bisogno di riscoprire radici lontane attraverso il recupero
del nome di antichi imperi africani, anche sorvolando sulla dubbia corrispondenza
delle relative estensioni. Fu questo il caso del Benin che prima era Dahomey, del
Ghana già Costa d’Oro e del Mali già Sudan francese. In altri casi andava semplice-
mente cancellato l’odiato aggettivo dell’ex possessore. Avvenne per le Somalie bri-
tannica e italiana come anche per il Congo francese e per quello belga, con quest’ul-
timo che conobbe anche l’intermezzo dell’appellativo Zaire. Analogamente, le Gui-
nee francese, portoghese e spagnola scelsero rispettivamente Guinea, Guinea-Bissau
e Guinea Equatoriale. Altri casi hanno riguardato l’Alto Volta divenuto Burkina
Faso, l’Oubangui-Chari poi Repubblica Centrafricana, la Somalia francese oggi Gi-
buti, l’Urundi ora Burundi, il Tanganica che unendosi a Zanzibar ha assunto la de-
nominazione di Tanzania, il Niassa ora Malawi, l’Africa del Sud-Ovest divenuta
Namibia, il Basutoland poi Lesotho.
Fonte: manifesto turistico illustrato da Francis G. Pay, Visit Rhodesia, Cape
Town 1930, Hortors Limited. 261
2-3. Sudan è termine etimologicamente arabo che sta per «uomini neri». Lo
Stato che risponde a questo nome venne istituito il primo gennaio 1956 sulle cene-
ri del precedente condominio anglo-egiziano. Fino al 1960, però, i Sudan erano
due perché anche l’attuale Mali prendeva questo nome (nella !gura 2 compare al
centro della carta), con la sola aggiunta dell’aggettivo «francese» a speci!care il
dominatore di una vastissima area che si estendeva continuativamente dall’Algeria
(iscritta come «colonia francese» già nel titolo della !gura 3) !no al Congo. La ra-
gione di tale coincidenza toponimica si deve al fatto che nella convenzione geogra-
!ca l’espressione Sudan si riferisce anche a una regione in cui rientrano entrambi
gli Stati. Essa occupa l’intera fascia che va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, tra
il margine meridionale del Sahara e la regione equatoriale più a sud. Corrisponde,
in pratica, all’appellativo tanto in voga oggi di «Africa subsahariana», in cui il pre-
!sso «sub» risulta inappropriato, logicamente inesatto. Anzi direi ridicolo, perché
al di sotto di un territorio c’è il sottosuolo, non un altro territorio. Come sopra c’è
il cielo, e quindi suonerebbe comico chiamare «Africa sovrasahariana» la costa
mediterranea di quel continente. Più corretto per indicare un territorio a sud del
Sahara sarebbe, piuttosto, il termine «sud-sahariano».
Fonte 2: Edouard De Martonne, «Afrique Occidentale Française. Carte d’en-
semble Politique et Administrative», in Atlas des cartes administratives et ethnographi-
ques des colonies de l’A.O.F., Paris 1928, Girard.
Fonte 3: Victor Levasseur, «Algérie Colonie Française», in Atlas National Illu-
stré des 86 Départements et des Possessions De La France, Paris 1854, Combette.

4. In una carta geogra!ca la maglia dei con!ni di Stato ha sul lettore un im-
patto visivo forte e veicola l’idea che tale struttura di linee continue, separando
giurisdizioni e culture, rappresenti un elemento di ordine del sistema internaziona-
le. Se tale circostanza può avere un fondamento per alcuni parti del mondo, certa-
mente non lo ha per altre. Per l’Africa in particolare. Qui, nella realtà, i con!ni tra
Stati non hanno prodotto alcun ordine ma anzi il suo esatto contrario, cioè il disor-
dine, che è la premessa al con"itto. Ciò in quanto il colonialismo li aveva ritagliati
a tavolino senza alcuna considerazione per le realtà locali, dividendo comunità
tribali uniche e inglobando all’interno di uno stesso Stato comunità rivali. Sui ma-
nuali sono de!niti «con!ni susseguenti» quelli stabiliti a posteriori del popolamen-
to, al contrario dei «con!ni antecedenti» che lo hanno preceduto, come in Alaska
e nell’Australia interna. Si tratta di con!ni dovuti alla concorrenza tra potenze,
dunque. Un caso di scuola è quello dell’appendice territoriale nota come «dito di
Caprivi» in ragione della sua insolita forma, che estende sensibilmente la Namibia
incuneandola tra l’Angola, lo Zambia e il Botswana !n quasi a raggiungere lo
Zimbabwe (visibile nella parte alta della !gura 4).
Fonte: «South Africa» (particolare), in The Times Atlas and Gazetteer of the
World, London 1922, John Bartholomew & Son, tav. 71.

262
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