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COLOMBO - Giuseppe CUCCHI - Marta DASSÙ - Ilvo DIAMANTI - Germano DOTTORI - Dario FABBRI
Luigi Vittorio FERRARIS - Marco FILONI - Federico FUBINI - Ernesto GALLI della LOGGIA - Laris
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Ore 10.45
Relazione introduttiva di Lucio Caracciolo
su “La guerra cambia il mare” DOMENICA 17 SETTEMBRE
IN COLLABORAZIONE CON
SOMMARIO n. 8/2023
EDITORIALE
7 La linea della palma
AUTORI
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AFRICA CONTRO OCCIDENTE
1. Cfr. F. FANON, Pelle nera, maschere bianche, Pisa 2015, Ets, passim. 7
LA LINEA DELLA PALMA
bianchi e africani neri. Nel Maghreb arabo i primi usano de!nirsi ahrar
(uomini liberi) mentre applicano ai neri il peggiorativo abid (schiavi). E
spesso li trattano di conseguenza, non ricambiati, nella piena coscienza
dei governi europei che remunerano i «pelle chiara» perché impediscano
con ogni mezzo ai subsahariani di imbarcarsi verso l’Italia. Ghedda! e
Ben Ali ne avevano fatto un triste commercio, alcuni loro epigoni una mat-
tanza trasferita dalle coste mediterranee alla linea della palma. Vera fron-
tiera tra Africa ed Europa.
Su questo sfondo, i rapporti fra africani e occidentali, specie fra neri e
bianchi d’Africa o d’Europa, stanno peggiorando al galoppo. Proviamo a
capire perché incrociando i punti di vista. Sguardo geopolitico, in sé dialet-
tico. Paritario.
Consideriamo le relazioni di potenza fra europei e africani. Tra !ne
Ottocento e metà Novecento la colonizzazione batteva il ritmo di rapporti
di forza coerenti alla narrazione razziale, allora senso comune certi!ca-
to dalla «scienza». Poi la cosiddetta decolonizzazione, più annuncio che
svolta. Paradosso: i due movimenti – penetrazione degli imperi europei in
Africa e successiva parziale evacuazione – poggiavano entrambi su retori-
che progressiste. La stessa colonna sonora per !ni apparentemente opposti.
Variazioni armoniche su continuità di dominio bianco. Cromatismi d’un
monocolore europeo. Con alto accompagnamento ideologico.
La Francia dei Lumi aveva eretto la colonizzazione a missione civiliz-
zatrice (carta a colori 1). Esportazione in Africa della Rivoluzione francese.
Naturalmente in nome dell’Europa. La parola a Victor Hugo, monarchico
convertito alla sinistra umanitaria, araldo degli Stati Uniti d’Europa, che
nel 1876 esorta gli europei: «Unitevi, andate al Sud! Nel XIX secolo il Bianco
ha fatto del Nero un uomo; nel XX secolo l’Europa farà dell’Africa un mon-
do» 2. Verso la meta proposta nel 1814 dal conte di Saint-Simon, musa del
protosocialismo francese, che oggi suona anticipazione veterocontinentale
dell’universalismo americano stile neocon: «Popolare il globo della razza
europea, superiore a tutte le altre razze umane» 3. Missione compiuta in
Africa dalla Terza Repubblica laica e massonica, con Jules Ferry a spiega-
re che «le razze superiori hanno il diritto e il dovere di civilizzare le razze
inferiori» 4. Protratta in maschera sotto la Quinta dal generale de Gaulle e
successori, per cui «decolonizzare», adattamento al clima del secondo dopo-
guerra, altro non è che proseguire la stessa missione con altri mezzi. Per la
5. Località sudanese (oggi Kodok) dove si scontrarono nel 1898 le direttrici imperiali fran-
cese – Est/Ovest, dall’Atlantico al Mar Rosso – e britannica – Sud-Nord, dal Capo al Cairo.
Con ritirata "nale dei francesi. 9
LA LINEA DELLA PALMA
Tunisia
Marocco
Is. Canarie
(SPAGNA) Algeria Libia Egitto
Sahara Occ.
2 C
Ghana
am (Francia)
2 Yaoundé Zimbabwe M oz Mauritius
Sede della Beac Namibia
Banca degli Stati dell’Africa centrale Botswana Madagascar
Riunione
U Stati che aderiscono all’Unione economica (Francia)
eSwatini
e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa)
C Stati che aderiscono alla Comunità economica Sudafrica Lesotho
e monetaria dell’Africa centrale (Cemac)
Ex possedimenti coloniali francesi
Paesi francofoni
Rete degli istituti scolastici francesi Linea della palma
Fonti: Agence pour l’enseignement français à l’étranger; Organisation internationale de la francophonie
sola Ue, 46,8 in Italia). Giovani disposti a tutto pur di schivare un destino
di miseria e oppressione (carte 2 e 3, carta a colori 2).
Demogra!a e biologia alimentano il nostro declino e l’assertività degli
africani, avanguardia del «Sud Globale» che sentiamo alle nostre porte. Os-
simoro che la dice lunga sulla paura dell’Occidente di scadere a periferia
di un inesistente Fronte unito del Mezzogiorno mondiale. E sul nostro equi-
librio psichico: non sono passati vent’anni da quando ci raccontavamo in-
vidiabile provincia dell’impero americano, monopolista della potenza nel
pianeta a stelle e strisce.
Il pericolo per noi più serio è di prendere sul serio questa apocalittica
da strapazzo. Se invece di «civilizzare» i neri per poi scoprirli spauracchio
10 mortale ne assimilassimo qualche peculiarissima pratica di convivenza ne
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Benin
Costa Nigeria 19.473
Togo
Gu L. Sud Sudan Etiopia 22 - Zambia
d’Avorio un
Ghana
r ra er Rep. Centraf.
Si e i a m
er Ca
Lib 8 7
Guinea Eq.
4 Uganda Kenya Popolazione attuale
São Tomé e Príncipe Gabon
o Rep. Dem. Ruanda (in migliaia)
Is. Capoverde ng Burundi
Co del Congo 5 Meno di 8.645
Popolazione attuale Tanzania Seychelles 33 - Togo 8.645 45 - Lesotho 2.281
(in migliaia) 34 - Sierra Leone 8.421 46 - Guinea-Bissau 2.061
più di 44.178 Comore Glorioso (Francia) 35 - Libia 6.735 47 - Guinea Eq. 1.634
Angola
1 Nigeria 213.401 Zambia Mayotte 36 - Congo 5.836 48 - Mauritius 1.299
2 Etiopia 120.283 (Francia) 37 - Rep. Centraf. 5.457 49 - eSwatini 1.192
r
Benin
Costa Nigeria
Togo
Gu L. n Etiopia 22 - Malawi 37.159
d’Avorio Sud Sudan
Ghana
r ra eru Rep. Centraf.
Si e ia 23 - Somalia 36.463
er C am
Lib 6 7 24 - Ciad 36.452
Guinea Eq.
2 Uganda Kenya 25 - Senegal 32.563
São Tomé e Príncipe Gabon
o Rep. Dem. Ruanda
Is. Capoverde ng Burundi
Co del Congo 5 Popolazione stimata
(in migliaia)
Popolazione stimata Tanzania Seychelles
(in migliaia) Meno di 8.915
più di 72.328 10 Comore Glorioso (Francia) 37 - Mauritania 8.915 48 - eSwatini 1.655
1 Nigeria 377.460 Angola Mayotte 38 - Liberia 8.891 49 - Gibuti 1.503
Zambia
2 Rep. Dem. Congo 217.494 (Francia) 39 - Libia 8.540 50 - Comore 1.246
r
13
LA LINEA DELLA PALMA
78% Crede che i militari dovrebbero restare al potere “per un periodo prolungato” o “!n quando non si celebreranno le elezioni”
COLORO CHE INVECE SOSTENGONO UN INTERVENTO ESTERNO, VORREBBERO CHE FOSSE EFFETTUATO DA:
13% America
50 60 70 80 90
Mali
Ghana
Nigeria
Costa d’Avorio
Tanger
(1830) 1 - LA FRANCIA NELLA CORSA ALL’AFRICA
Territori controllati
Fès dalla Francia nel 1880
1905/1911 Tripoli Territori controllati
Scontro franco-tedesco Bengasi dalla Gran Bretagna nel 1880
Sidi Ifni Ġadāmis Località occupate dagli spagnoli
Tarfaya Il Cairo
Esploratori britannici
(El Aaiún) Laâyoune Avanzata francese
J. Bruce (1768-1773)
Boujdour Direttrici di penetrazione #no al 1914
(Bojador) H. M. Stanley (1871-1890)
Dakhla Occupazione dal 1907 al 1910
Ġat J. Speke e J. Grant (1860-1863)
(Villa Cisneros) Occupazione dal 1911 al 1914
Lagwira Tuareg J. Speke (1858)
Occupazione dal 1915 al 1930
Port-Étienne V. L. Cameron (1873-1875)
(Nouadhibou) D. Livingstone (1866-1873) Alcuni imperi africani prima
della colonizzazione
Saint-Louis Impero di Al-Ḥāǧǧ ʽUmar
(1891) Nioro Timbuctu Agadez 1898 Tuareg
Gao
Bakel Kabara Bornu-Rabah Sokoto
Bathurst Khartūm
Kayes Djenné Sokoto Zinder (1899/1900) Bornu-Rabah
Bamako Ouagadougou
Bissau 1898 Kano (1903) Gondar
Fort-Lamy (N’Djarnéna)
Conakry Bussa Impero di Sokoto 1898
Kong Fachoda Berbera
Freetown Ilorin (1897)
Kumasi
Bouaké Lagos Gondokoro Direttrici britanniche
rovia Old Calabar Possel
Mon
Yakoma Direttrici tedesche
Gr a
a
n
Scontri franco-tedeschi
Cape
d
Douala
-
d-B.
Scontri franco-britannici
Accr Coast
Gran Laou
Esploratori francesi
R. Caillié (1827-1828) Brava
L. G. Binger (1887-1889)
Missione Foureau-Lamy (1898-1900)
Brazzaville
É. Gentil (1895-1900) Boma
Tabora Zanzibar
J.-B. Marchand (1897-1898)
P. Savorgnan de Brazza (1875-1885)
La popolazione urbana in Africa
2 - DENSITÀ DI POPOLAZIONE IN AFRICA 67 Fonte: Banca Mondiale (2014). Dati in percentuale
60
Casablanca Tunisia Alessandria
7.408.213 70 78
5.469.480 (stima 2022) 43
(stima 2020) Marocco
Il Cairo
Algeria
Libia 9.606.916 59 39
(stima 2022) 18 34
Sahara Occ. 65 43 22 22
Egitto
59 29 77
0) 37 39
2 39 47 19
Dakar Mauritania a 20 53 53 40 19
4.042.225 tim 40
Niger s 49 44 54
(stima 2022) Mali 1( Eritrea 39 16 25
Senegal a no5.31 Sudan 65 65
. 87 28
Gambia K 65 40 42
B. Faso 14 Ciad Gibuti 12
Guinea B. Guinea Etiopia
ria Somalia 31
54
Benin
Costa ge 28
Togo
L. d’Avorio Ni Sud Sudan
Ghana
Sie
rra
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un Rep. Centraf. Addis Abeba 43 16
ia m 3.860.000 (2022) 40 32
b er Ca
Li an 7 os Kenya 34
g 971 ) Guinea Eq. Uganda 33
idj .01 1)
1 2 Rep. Dem. 46 57
Gabon 40
La 012. 2020
Ab .32 s. 20 . o del Congo Ruanda Nairobi
6 en
c( 13 stima ng 4.397.073 (cens. 2019) 21
( Co Burundi
Kinshasa 64 27
13.171.256 (2018) Tanzania Dar es Salaam
5.526.638 (stima 2021)
Luanda
2.571.861 Comore
Glorioso (Francia)
(2019) Angola
Mala
Zambia Mayotte
wi
o (Francia)
Densità della bic
popolazione zam
Le megacittà Zimbabwe Mo
(numero di abitanti per km2) Namibia Mauritius
più di 200 Da 22 a 9 milioni Botswana Madagascar Paesi per percentuale
Riunione (Francia)
da 100 a 200 di popolazione urbana
da 50 a 100 eSwatini
da 8,9 a 5 milioni Meno del 20
da 25 a 50 Johannesburg
da 10 a 25 tra il 20 e il 40
Sudafrica Lesotho 15.810.387 (stima 2021)
da 4,9 a 4 milioni
da 1 a 10 tra il 40 e il 60
Città del Capo
da 0 a 1 da 3,9 a 3 milioni 7.113.776 (stima 2021) sopra il 60
Fonte: Calendario Atlante De Agostini 2023
3 - POPOLI SAHARIANI E SAHELIANI
TRIBÙ O GRUPPI ETNICI CABILI
Camito-semitici B I
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SIERRA LEONE E
D’AVORIO REP. CENTRAF.
4 - IL NIGER CONTESO
Basi militari straniere L I B I A
permanenti
F E Z Z A N
Personale militare R
presente in Niger A
G
G
A L G E R I A A
1.000-1.500 Francia H
A
1.100 Usa
60 Germania r Madama
’Ajje
350 Italia si li n
T as T I B E S T I
Té
50-100 Unione Europea
A G A D E Z
ne
ré
Ka
Arlit
ou
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N I G E R
Blocco C I A D
Air Base 201 di Agadem
MAURITANIA
Agadez (Permesso di sfruttamento
Gao concesso alla Cnodc cinese)
R i l i e vi
M A L I TAHOUA tra 3.500 e 1.500 m
TILLABÉRI ZINDER tra 1.500 e 1.000 m
Ouallam DIFFA
tra 1.000 e 500 m
Air Base 101 MARADI
Zinder Lago Ciad
NIAMEY Ra!neria Soraz
BAMAKO BU R K I N A FA S O DOSSO (Costruita con investimenti
della Cina ancora da ripagare) Regioni nigerine
OUAGADOUGOU Miniere importanti di uranio
N I G E R I A
(Arlit, Akouta, Imouraren)
Siti auriferi del Niger Giacimenti di petrolio e gas
BENIN
Presenza Isis
GHANA
Minima
Tabélot
Media
COSTA D ’AVORIO Tchibarakaten (sito principale)
CAMERUN Estesa
TOGO Djado (chiuso nel 2014)
Pieno controllo
Liptako del territorio
Fonte: Geopolitical Futures, Le Monde
Voto di condanna
5 - LA RUSSIA IN AFRICA Mers-el-Kébir all’invasione russa nella
SCAMBI COMMERCIALI risoluzione Onu
CON L’AFRICA (2022) Tobruk di marzo 2022
Unione Marocco Astenuti
Europea Tripolitania Cirenaica
300 miliardi $ Algeria Contrari
Libia
★ Egitto
★ ★
★
Cina Fezzan
★
254 miliardi $ Porto Sudan
Usa
(possibile infrastruttura
65 miliardi $ militare russa)
Mali Dahlak (isole eritree)
Fed. Russa
18 miliardi $ Sudan Eritrea
Guinea B. B. Faso
Guinea
Sierra Leone Nigeria Etiopia
n Rep. Sud Sudan
ru
me Centrafricana
Ca Kenya
Guinea Eq.
Ghana
Risorse militari russe Uganda
trasferite ai paesi africani São Tomé e Príncipe Rep. Dem. Ruanda
Misurazione in tiv del Congo
(Fonte: Sipri) Rep. del Congo Pointe-Noire Tanzania
Algeria 4.100 Luanda
Presenza Wagner e altre milizie
Egitto 2.800
Angola 500 Angola Vendita armi russe
Nigeria 160 Zambia Import russo di uranio
o
ar
Sudan 125
bi c
ec.
(1236-1394) Augila
SULTANATO
XVI s
sec.
XIV
c.
. DEI MAMELUCCHI
sec
XIV-
se
III
X
XI
Murzuq
XI-
Ghat Sale
Taghaza Assuan
c. Oro
Taoudenni I se Gedda
-XV
XIV
Ouadane La Mecca
Tadmekka KANEM
Aoudaghost Bilma Dongola Suakin
Awli
Oualata TEBU Zaghawa Bedja
Takedda
REGNO DEL MALI Gao
(XIV sec.) Timbuctu Agadez Massaua
Kumbi Saleh
Djenne OUADDAÏ Tegoulet
SONGHAÏ al-Facher
GOBIR Abéché Lalibella
Kangaba
TUNJUR ALOA
Niani MOSSI Kano BOULALA
.
Tenkodogo Zamfara Yabalacha
se c ETIOPIA
XIV
DI AMDA SEYON
YOROUBA Impero del Mali al suo apogeo (1314-1344)
Salaga
Ifè IGBO-
Migrazioni di cristiani verso il paese del Tunjur
OCEANO
ATLANTICO FRANCIA
Romania M
ITALIA
ar
Mar Nero
Ca
Portogallo Vaticano
spio
SPAGNA
Ma
r
Ro
Mauritania
sso
Mali
Niger
Ciad Eritrea
Senegal
B. Faso
Guinea Somalia
Benin
Costa Etiopia
d’Avorio . Centraf.
Camerun Rep
Togo
Guinea-
Bissau Golfo di Guinea
ngo
R INDIANO
OCEANO Comore
TERRITORIO ATLANTICO
DELL’IMPERO LATINO Angola
Mayotte
FRANCIA
scar
ITALIA
aga
SPAGNA Mozambico
Mad
12. Cfr. T. BORREL, A. BOUKARI-YABARA, B. COLLOMBAT, T. DELTOMBE, L’empire qui ne veut pas
mourir. Une histoire de la Françafrique, Paris 2021, Seuil, p. 508.
13. Cfr. il testo integrale in «Le discours de Dakar de Nicolas Sarkozy», www.lemonde.fr 17
LA LINEA DELLA PALMA
15. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européenne,
Paris 2022, La Découverte. Edizione rivista della prima versione: Eurafrica. The Untold
History of European Integration and Colonialism, London 2014, Bloomsbury Publishing. 21
22
4 - IL MONDO DELLA FRANCOFONIA
Stati e governi membri
o associati dell’Oif
Stati osservatori Slovacchia
Lussemburgo Ungheria
Stati associati
Belgio
LA LINEA DELLA PALMA
16. Cfr. H. MAHONY, «Barroso says EU is an “empire”», Eu Observer, 11/7/2007. Sulla «am-
nesia imperiale» vedi F. EJDUS, «Dissonance and Imperial Amnesia of the European Union»,
Uluslararası øliúkiler/International Relations, 2022, vol. 19 n. 73.
17. R.N. COUDENHOVE-KALERGI, Pan-Europa, Wien 1923, Pan-Europa Verlag. La ristampa ana-
statica con prefazione di Otto von Habsburg è del 1982.
18. Su Paneuropa e dintorni cfr. L. CARACCIOLO, La pace è !nita. Così ricomincia la storia in
Europa, Milano 2022, Feltrinelli, pp. 31-40. 23
LA LINEA DELLA PALMA
Eurafrica, n.d.r.) è per la Francia il mezzo per ridiventare quel che ha ces-
sato di essere dopo Waterloo, la prima al mondo» 19.
L’idea del Profeta d’Europa resta cabala d’iniziati sia nell’interguerra
(1919-38), fase d’incubazione, sia dopo, a suicidio continentale consuma-
to. Conferma che l’elitismo è malattia infantile e senile dell’utopia paneuro-
pea. Clima nel quale germinano le recenti derive complottiste per cui Cou-
denhove-Kalergi mirava alla sostituzione etnica dei ceppi europei con neri
africani. Falso assoluto: semmai il contrario, visto l’eccesso di popolazione
europea rispetto all’africana. Però eco del doppio trauma prodotto alla !ne
della Grande Guerra dall’intreccio fra tramonto degli imperi europei e pre-
giudizio razziale, fonte tuttora attiva del paneuropeismo.
Tutto nasce con lo «scandalo nero». Così i tedeschi del tempo bollano l’oc-
cupazione della Renania, fra 1918 e 1930, da parte di almeno 20 mila sol-
dati coloniali francesi, in maggioranza africani. Fucilieri neri assegnati da
Parigi a vigilare sui bianchi germani si installano nel bacino industriale del
Reich, che a Versailles perde onore e terre, tutte le colonie incluse. La stam-
pa tedesca li battezza «mostri indicibili», «uomini-scimmia del Continente
Nero», «animali umani», «iene nere». Minacce sessuali per donne e bambi-
ni autoctoni 20. Nascono piccoli meticci, esposti al ludibrio popolare quali
«bastardi renani». Protestano le associazioni femministe internazionali e i
politici tedeschi, a partire dai socialdemocratici appena installati al pote-
re. Il cancelliere Hermann Müller denuncia: «Negri senegalesi campeggiano
nell’Università di Francoforte e fanno la guardia alla casa natale di Goe-
the» 21. L’altrettanto socialdemocratico presidente della Repubblica, Friedrich
Ebert, tuona: «Dispiegare soldati di colore, della cultura più inferiore che si
possa immaginare, per sorvegliare una popolazione di così elevato livello
spirituale ed economico come quella della Renania è violazione intollerabile
della legge della civiltà europea» 22. Quanto al giovane Hitler, condannerà
nel Mein Kampf «la contaminazione provocata per l’af"usso di sangue ne-
gro sul Reno, dovuta (…) al freddo calcolo dell’Ebreo, che vi vede il mezzo
per avviare il meticciato del continente europeo nel suo centro» 23.
Ciò non impedirà al Führer, nella fase di riavvicinamento fra le potenze
coloniali europee culminata nel Patto a Quattro siglato a Roma il 15 luglio
19. Cit. in A. PEYREFITTE, C’était de Gaulle, Paris 1994, Fayard, pp. 158 s.
20. Cfr. C. GOMIS, «Les troupes coloniales françaises et l’occupation de la Rhénanie (1918-
1930)», Cahiers sens public, 2009/2, n. 10, p. 69.
21. C. KOLLER, «Von Wilder aller Rassen niedergemetzelt». Die Diskussion um die Verwen-
dung von Kolonialtruppen in Europa zwischen Rassismus, Kolonial- und Militärpolitik,
1914-1930», Stuttgart 2001, Franz Steiner Verlag, p. 213.
22. Ivi, p. 324.
23. A. HITLER, Mein Kampf, München 1943, Franz-Ehler-Verlag, p. 357. Ottocentocinquante-
24 sima ristampa.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
5 - PANEUROPA
Fonte: R.N. Coudenhove-Kalergi, Pan-Europa. Der Jugend Europas gewidmet, Wien 1923, Pan-Europa Verlag.
31. Ivi, pp. 274-279. Sulla Bomba «europea» e sul ruolo italiano in tale progetto, cfr. M.
MORETTI, «A Never Ending Story: The Italian Contribution to FIG», in E. BINI, I. LONDERO (a
cura di), Nuclear Italy. An International History of Italian Nuclear Policies during the Cold
War, Trieste 2017, Edizioni Università di Trieste, pp. 105-118.
32. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, op. cit, p. 292.
33. Ivi, p. 295.
34. Cit. in A. FUSACCHIA, «La Comunità economica europea e l’associazione dei territori d’ol-
28 tremare (1955-1957)», Contemporanea, vol. 8, n. 2, aprile 2005, p. 283.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
5. La scon!tta della Francia in Africa è una nuova Suez. La crisi del 1956
accelerò la decolonizzazione e insieme alla rivoluzione algerina provocò due
anni dopo la !ne della Quarta Repubblica, quindi il ritorno al potere del gene-
rale de Gaulle. Oggi il doppio scacco con Niger e Gabon suona la campana per
Francia potenza eurafricana. Condizione del suo rango di potenza mondiale,
limitata altrimenti a sparsi territori d’Oltremare (carta 6). Se Macron-Zeus non
scenderà dal suo Olimpo per gestire il declino della Francia in Africa, la crisi
terminale della Françafrique, incrociata alle turbolenze domestiche e al tra-
monto della coppia franco-tedesca che l’autoincoronava co-regina d’Europa,
potrebbe sfociare nel crollo della Quinta Repubblica. Senza un de Gaulle di
ricambio. Tutto per voler continuare a essere quel che non si è più. Compulsio-
ne moderata dall’umorismo di Macron, che nel 2017 volle il giovane enarca
Franck Paris come suo Monsieur Afrique, più noto in Africa come Monsieur
Paris. Da settembre è a Taipei.
Doloroso mutare mentalità in piena crisi. Il Quai d’Orsay può raccoman-
dare ai suoi diplomatici «rispetto, ascolto, umiltà», ma la vagamente razzistica
equazione francese=arrogante è tanto diffusa che il cambio d’abito sarebbe
preso per travestimento. Tale percezione non deriva dal carattere di questo
o quel messo di Parigi, nemmeno del suo «giupiteriano» presidente. Esprime
l’anima del missionario universale che la Francia condivide solo con gli Stati
Uniti. Vasto e vago programma, che presume di incarnarti Redentore. E di
crederci o convincerti di crederci. La superpotenza in missione dialoga sempre
e solo con sé stessa, !nché non va a sbattere. A differenza del gesuita che per
salvare anime esotiche vi s’incultura o almeno pretende di farlo, l’impero in
espansione offre a chi si candida sua provincia la propria verità. Prendere o
lasciare. Le verità dei provinciali non interessano.
Ora che l’America dubita del suo credo e si chiede se convenga colmare il
divario fra ambizione planetaria e risorse disponibili oppure dare un taglio a
quest’impero senza limes – ma come e dove? – dif!cile credere che la gemella
minore possa cavarsela. Con in più lo svantaggio che in !n dei conti gli ame-
ricani sono più interessati a un mondo di regole (s’intende le proprie) che a
dominarlo, mentre i francesi, inventori del rayonnement, se lo sono visti virare
sotto gli occhi in soft power dagli sfrontati imitatori d’Oltreatlantico. Due modi
di esprimere lo stesso concetto. Ma una cosa è proporlo in francese, marchio
d’origine controllata d’una media potenza mondiale in ritirata da ex colonie
prese armi in pugno, altra nell’inglese dell’impero anticoloniale che da tre ge-
nerazioni, usando soprattutto il lato dolce della potenza, ha assuefatto il resto
del mondo – gli avversari più di certi alleati – a trattarlo da Numero Uno.
Washington sconta che prima o poi la Francia sgombrerà la sua Africa.
Constata l’analista Michael Shurkin: «In Sahel i francesi sono radioattivi. Stan-
no per essere cacciati. Bisogna riempire il vuoto, se possibile, per evitare che lo
riempiano i russi». Quanto ai cinesi: «La partita è già persa. Sono dappertutto
e sono potenti» 36. Gli americani hanno idee confuse sul continente che !no a
ieri stava per loro oltre il sistema solare. Ora temono !nisca sotto Mosca, perce-
pita Antifrancia da molti africani. Non buona in sé, ma in quanto opposta a
Parigi, sede del demonio. Nelle centrali strategiche a stelle e strisce non sanno
se né come impedirlo.
Spiega a Limes Tibor Nagy, già assistente segretario di Stato per l’Africa:
«Abbiamo dormito. (…) Abbiamo permesso alla Russia di dipingerci come for-
za maligna, egoista, colonialista. Le abbiamo permesso di riempire un vuoto
anche a livello militare. Se io fossi un governo africano e cercassi assistenza
bellica, gli Stati Uniti sarebbero la mia ultima scelta. Se chiedo una !onda agli
americani, mi arriva in sei mesi. Se la chiedo ai russi, mi arriva in una setti-
mana, con tanto di addestratori» 37.
Lo smarrimento francese e l’atonia americana dovrebbero convincerci
che l’allarme suona anche per noi. Europei in genere, italiani in particolare.
36. Cfr. M. SHURKIN, «Les États-Unis ne veulent pas chasser la France d’Afrique», intervista a
cura di T. BERTHEMET, Le Figaro, 4/9/2023.
37. Cfr. T. NAGY, «L’Africa è strategica per gli Stati Uniti, ma non la capiamo», conversazione
30 a cura di F. PETRONI e M. MIKLAUCIC, alle pp. 175-180 di questo volume.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Polinesia Francese
Nuova Caledonia
A
POLO
AUSTRALI
NORD
A S I A
Saint-Pierre e Miquelon
Clipperton
Saint-Barthélemy
Guadalupa Saint-Martin
Martinica
A M
m
Guyana 2.5 00 k
Juan de Nova
E R
A F R I C A Banc du Geyser
IC
5 .0 0 0 k m Isole Gloriose
.5 0
A
Mayotte
7
0k
m Tromelin
.0 0 Isola Europa
10
0k Riunione
12
00 m Bassas da India
.5
15.
E
TID
ANTAR
Fonte: Bruno Tertrais et Delphine Papin - Atlante delle Frontiere Torino 2018 Add Editore
38. Lo ricordano 94 parlamentari francesi in una lettera aperta al presidente Macron, cfr.
«Après la Françafrique, sommes-nous condamnés à l’effacement de la France en Afrique?»,
32 Le Figaro, 7/8/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Parte I
le AFRICHE
in RIVOLTA
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
anni Duemila si temeva potesse colpire anche il Vecchio Continente, come dimo-
strato dagli attacchi terroristici avvenuti in vari paesi europei e dall’espansione
dello Stato Islamico in Iraq e in Siria.
Questi due processi sono stati innescati dallo stesso evento: l’intervento della
Nato – in realtà dei tre Stati citati – in Libia, che ha portato alla distruzione del re-
gime del colonnello Ghedda!.
In seguito a queste due crisi, che hanno destabilizzato il Sahel, gli Stati occi-
dentali hanno tentato di applicare delle strategie di «aiuto». Tradotto: hanno impo-
sto ai paesi della regione delle «soluzioni», senza rendersi conto che, nel Sahel, gli
interventi e le interferenze degli occidentali sono visti per lo più in termini negativi.
Gli africani vivono gli «aiuti» occidentali come un’imposizione. E ritengono che
l’Occidente non comprenda i loro problemi. Gli occidentali oppongono che alla !n
!ne gli africani ricevono pur sempre degli aiuti, anche sostanziosi. La verità è che
questo dibattito, che implicherebbe una rimodulazione dei rapporti afro-occiden-
tali, rimane teorico. Alla !ne, lo strapotere !nanziario dell’Occidente obbliga gli
africani ad accettare gli «aiuti». Qualcuno, Niger in testa, li accetta per calcolo poli-
tico. Qualcun altro perché non può dire di no.
La conseguenza dell’atteggiamento occidentale è stata lo sviluppo di un forte
nazionalismo nel Sahel. Fenomeno che non va sottovalutato, anche soprattutto per
quanto riguarda il Niger.
Il nazionalismo nigerino può manifestarsi in diversi modi. Già in epoca colonia-
le, questo sentimento si esprimeva nella xenofobia contro i cosiddetti ao!ens, quei
cittadini delle altre colonie dell’Africa occidentale francese (Aof) che a causa della
scarsa istruzione dei nigerini occupavano posizioni di rilievo nell’amministrazione
della colonia. Si può affermare senza timore di smentita che oggi esiste una nazione
nigerina, con delle particolarità ben de!nite che la rendono diversa dalle altre comu-
nità nazionali della regione. Il nazionalismo nigerino non è basato sul nulla: la po-
polazione è consapevole dell’esistenza di una «comunità immaginaria» di apparte-
nenza, legata da vincoli sociali, culturali e politici.
A livello regionale, l’intenso (ma poco ef!cace) attivismo occidentale ha pro-
vocato il contraccolpo nazionalistico e ha facilitato l’ascesa al potere delle giunte
militari in Mali e in Burkina Faso. Queste, assumendo posizioni apertamente an-
ti-occidentali, non hanno avuto dif!coltà ad avvicinarsi a Mosca, addirittura acco-
gliendo sul proprio territorio, almeno nel caso maliano, i mercenari del Gruppo
Wagner.
La rilevanza geopolitica del Sahel è cresciuta ulteriormente perché è diventato
anche una posta in gioco nella guerra tra Occidente e Russia. Sicché il putsch del
26 luglio non è questione meramente nigerina: si innesta ineluttabilmente in una
congiuntura internazionale particolarmente tesa. I golpisti hanno deciso di gettare
ulteriore benzina sul fuoco allineandosi alle posizioni di Bamako e Ouagadougou
e rompendo rumorosamente gli accordi di sicurezza che legavano il Niger alla
Francia. Eppure i putschisti non si aspettavano tanto clamore internazionale. So-
36 prattutto, non si aspettavano sanzioni così dure da parte dell’Ecowas, che sotto la
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
spinta del neoeletto presidente nigeriano Bola Tinubu pare intenzionato ad argina-
re l’epidemia di colpi di Stato che si sta espandendo nel Sahel. Allo stesso tempo,
non si aspettavano che Parigi, a differenza delle altre occasioni, si mostrasse intran-
sigente, pretendendo il ritorno allo status quo ante.
Il putsch del 26 luglio si è rivelato un vero e proprio «putsch internazionale».
Tuttavia, per comprenderlo !no in fondo, è necessario tenere presente che quella
del putsch è una pratica particolarmente diffusa nell’arena politica nigerina. E sto-
ricamente in Niger non tutti i putsch sono venuti per nuocere. Quello del 26 luglio
però potrebbe svelarsi tale.
attraverso i dati statistici forniti dagli esperti. Si af!dano alla propria percezione. E
quello che percepiscono è che, mese dopo mese, si susseguono violenze, morti e
disgrazie. L’impressione non è quella di un «leggero e progressivo miglioramento»
– come dicono gli esperti – ma di un fallimento. Inoltre, il problema securitario
sarebbe stato meno evidente se la crisi si fosse limitata alla regione del Lago Ciad
(Boko Haram). Per quanto ingiusto possa essere, una crisi lontana dalla capitale
avrebbe causato molte meno preoccupazioni.
Peraltro il governo di Niamey non può nemmeno essere indicato come unico
colpevole della persistente crisi securitaria: essa dipende in gran parte da ciò che
fanno i regimi in carica a Bamako e Ouagadougou, poiché il Mali e il Burkina Faso
sono diventati gli epicentri del problema. Purtroppo entrambi i paesi sono in mano
a regimi ideologici, incapaci di operare sulla base del realismo e della razionalità.
Tuttavia questo non scagiona completamente Niamey. Non ci sono dubbi che
le giunte di Bamako e Ouagadougou si siano costruite un mondo immaginario, in
cui ogni problema viene affrontato con invettive anti-occidentali e dunque non
viene risolto. Ma il regime del Pnds non ha usato meno fantasia. Dipingere il Niger
come una democrazia funzionante, capace di prendere decisioni rapide basate su
un effettivo consenso popolare, signi!ca infatti vivere in un universo parallelo: la
«democrazia» nigerina, se esiste, di certo non funziona. Se le cose stanno così, allo-
ra questo tentativo di putsch può rientrare anche nella seconda categoria, ovvero
quella un po’ paradossale dei golpe a favore della democrazia.
La democrazia nigerina ha un enorme «problema Pnds». Nei primi anni Due-
mila, la mia analisi del sistema politico nigerino prevedeva che potesse essere
stabilizzato attraverso una logica di blocchi. I partiti erano guidati da leader politici
che esercitavano ciascuno la propria in"uenza su un importante feudo: Tahoua per
il Pnds, Zinder per la Cds (Convenzione democratico-sociale), Tillabéri per il Mnsd
(Movimento nazionale per la società dello sviluppo), Diffa e Agadez per tutti. Nes-
suno di questi partiti era in grado di vincere le elezioni da solo, ma se avesse for-
mato un blocco con un altro aveva una possibilità. Inoltre, all’epoca il Niger dispo-
neva di istituzioni credibili per la gestione delle elezioni: la Ceni (Commission él-
ectorale nationale indépendante) e la Corte costituzionale. La società civile era di-
namica e organizzata. La stampa era protetta dalla persecuzione giudiziaria e poco
corrotta, con un giornale – Le Républicain – che era un autorevole punto di riferi-
mento. Qualsiasi osservatore, intorno al 2005, avrebbe detto che la democrazia
nigerina era in procinto di stabilizzarsi. Il passo successivo sarebbe stato quello di
moralizzare la vita pubblica, affrontando la spinosa questione della corruzione.
Le ambizioni personali hanno giocato un ruolo importante nel bloccare questo
processo. Nel 2006 il presidente Mamadou Tandja ha iniziato a mettere in atto un
piano che gli consentisse di rimanere al potere oltre il limite costituzionale di due
mandati. Il piano di Tandja, paradossalmente, rivelava la forza della democrazia
nigerina dell’epoca. Per raggiungere i suoi obiettivi egli ha dovuto innanzitutto
indebolire il suo stesso partito, il Mnsd, creando una corrente – detta «tandjista» –
38 che, alleandosi con l’opposizione principale (Pnds), è riuscita a mettere in mino-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
NIGER CIAD
SENEGAL
GAMBIA Lago Ciad
GUINEA-B. KINA F.
GUINEA BUR
BENIN
ranza il primo ministro Hama Amadou, sostenuto da un’altra corrente del Mnsd, gli
«hamisti». Dividendo il Mnsd, però, Tandja non aveva più i numeri per rivedere la
costituzione. Il Pnds si è ovviamente ri!utato di assecondarlo e la Corte costituzio-
nale ha respinto i suoi vari tentativi di aggirare il parlamento o di indire un referen-
dum. Alla !ne, Tandja non ha avuto altra scelta che abolire la Corte costituzionale
per decreto, con un atto di violenza istituzionale che equivale a un colpo di Stato.
In breve, per distruggere la democrazia nigerina negli anni Duemila è stato
necessario un colpo di Stato, certo meno visibile di un golpe militare, ma altrettan-
to brutale.
I nigerini non sono consapevoli di ciò che hanno perso nel 2009. Sebbene ci
sia stata una forte mobilitazione della popolazione contro il progetto di Tandja, il
sostegno popolare che ha ricevuto è stato maggiore. Per l’ex presidente è stato più
facile conquistare i cittadini che la classe politica. Tandja era un populista che ave- 39
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER
va promesso meraviglie alla gente; era anche un autoritario, dal momento che
aveva assicurato di mettere alle strette la classe politica, vista come fonte di ogni
corruzione. Ovviamente non ha mantenuto nessuna di queste promesse, ma il suo
carisma paternalistico ha fatto breccia nel popolo nigerino, che lo aveva sopranno-
minato «Baba Tandja» (papà Tandja).
Tandja fu anche il primo a istigare il sentimento antifrancese in Niger, o alme-
no il primo a dargli forma politica. Nella sua strategia populista, il presidente aveva
infatti bisogno di un nemico. E l’ex colonizzatore si prestava perfettamente a que-
sto ruolo. Tandja sviluppava un astuto doppio gioco: parlava amichevolmente ai
francesi, incoraggiandoli a investire nel settore dell’uranio, mentre al popolo nige-
rino consigliava in lingua hausa di non !darsi dei bianchi dagli occhi rotondi ma
solo di quelli dagli occhi «obliqui» (i cinesi).
Dopo quest’esperienza, il Niger non ha più ritrovato lo slancio democratico
dei primi anni Duemila. Nel gennaio 2010 Tandja è stato rovesciato da un colpo di
Stato pro democrazia e il Pnds, alleato con gli hamisti che erano riusciti a creare un
partito politico, Moden Fa Loumana, ha vinto le elezioni del 2011.
Per molti in Niger il risultato di queste elezioni è stato illegittimo. Fedeli alla
causa di Tandja, i nigerini si sono convinti che il putsch del gennaio 2010 fosse
stato solo un mezzo per trasferire il potere al Pnds e che dietro all’intera vicenda ci
fossero i francesi. Questa era e rimane l’opinione maggioritaria. Si tratta, ovviamen-
te, di un’assurdità: non ci sarebbe stato nessun golpe contro Tandja se lui stesso
non avesse eseguito un colpo di Stato costituzionale. Ma rivela alcuni elementi
importanti per comprendere gli psicodrammi politici del Niger.
Infatti, sebbene le elezioni del 2010-2011 non siano state regolari come quelle
precedenti, un blocco Pnds-Loumana, allargato anche ad altri partiti, non poteva
perdere contro un Mnsd diviso. Sostenere che la vittoria del Pnds fosse dovuta
esclusivamente ai brogli era semplicemente folle.
Eppure la fede di buona parte dei nigerini in questa teoria del complotto è
ancora oggi incrollabile. Ciò testimonia quanto forte sia nei loro cuori il rigetto
della democrazia degli anni Duemila. La popolazione era (ed è) fondamentalmente
d’accordo con Tandja sulla necessità di sbarazzarsi dei politici corrotti. Questa vi-
cenda mostra chiaramente come i nigerini aspirino a un regime autoritario, ai loro
occhi più ef!cace nel promuovere lo sviluppo nazionale e la lotta alla corruzione.
Il presidente Issoufou ha riscosso grande successo quando, all’inizio del suo
regime decennale, ha istituito un’autorità anticorruzione e introdotto un numero
verde per la denuncia di questo tipo di reati. Se queste iniziative avessero avuto
successo i nigerini avrebbero dimenticato la loro frustrazione. Purtroppo, con il
passare degli anni, è diventato chiaro che la lotta alla corruzione riguardava soprat-
tutto i corrotti dei partiti avversari.
3. Dal 2010 in poi ho vissuto soprattutto fuori dal Niger, e il Niger è uno di
quei paesi che si capiscono solo se ci si vive. Tuttavia, le cose che ho visto e sen-
40 tito durante le mie frequenti visite mi hanno dato l’impressione, corroborata da
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
alcuni fatti, che la fonte principale dei problemi risiedesse nell’ambizione del Pnds
di agire da partito di dominio, non di compromesso.
Il Pnds non si è fatto problemi a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione
per realizzare quello che i nigerini chiamano lo «schiacciamento» (degli altri partiti
politici). L’arma più usata a tal !ne è stata il «nomadismo politico», ovvero la possi-
bilità per i membri del parlamento di cambiare gruppo parlamentare. Il nomadi-
smo politico distorce i calcoli, destabilizza i partiti e favorisce il più forte, che può
utilizzarlo per sviluppare i propri piani di dominio sfruttando più facilmente le reti
clientelari. Il Pnds ha seguito questa strada per mettere in piedi un sistema che gli
ha conferito lo status di partito unico de facto. Anche perché l’unico partito che
rappresentava una vera opposizione, Loumana, ha subìto persecuzioni tali da es-
sere oramai insigni!cante.
Il Mnsd, guidato da un capo senza ambizioni e particolarmente disposto al
compromesso, è emerso come unico avversario accettabile. Il Pnds lo ha addirittu-
ra decorato con il titolo di «leader dell’opposizione», creando così una democrazia
di facciata. Utilizzando gli strumenti, le armi e la retorica del sistema democratico
il Pnds ha raggiunto la sua posizione di dominio. In teoria non c’è stata nessuna
azione illegale, ma il risultato è stato senza dubbio antidemocratico.
Tale pratica può produrre conseguenze pericolose: in primo luogo, se si im-
pedisce di fare politica nei luoghi deputati, c’è il rischio che essa venga fatta dove
non si dovrebbe, cioè nell’amministrazione e nelle Forze armate. Inoltre, il sistema
dello «schiacciamento» impedisce l’emergere di un’alternativa politica. E porta nel
tempo allo scollamento tra popolazione e istituzioni.
Ad esempio, sebbene il passaggio del testimone da Issoufou a Bazoum sia
stato descritto dalla stampa internazionale come un cambiamento, non è stato vis-
suto come tale in Niger, soprattutto perché Bazoum ha continuato a ripetere che
stava semplicemente «sviluppando» le politiche di Issoufou. L’inattaccabilità del
Pnds ha inoltre rafforzato il sentimento antifrancese nel paese, giacché la popola-
zione considera Parigi la longa manus nascosta dietro al golpe che, esautorando
l’amato Tandja, ha portato il Pnds al governo.
I leader del Pnds non hanno poi avuto l’abilità di usare un doppio registro,
volto insieme a rassicurare Parigi e a sfruttare il vecchio prurito antifrancese
della popolazione nigerina. Il Pnds anzi ha stretto ulteriormente i legami con la
Francia nella lotta contro la violenza jihadista. Tale mossa aveva una sua razio-
nalità, visto che il Niger, privo delle risorse necessarie, aveva bisogno di un
partner potente disposto a sostenerlo. Il punto, però, è che tale atteggiamento
non ha fatto altro che rafforzare la narrazione secondo cui il Pnds fosse stato
portato al potere dai francesi.
I partiti politici di opposizione non hanno cercato di sfruttare, almeno non si-
stematicamente, la diffusa ostilità nei confronti di Parigi. In particolare, il partito
Loumana, senza dubbio su indicazione del suo leader, si è generalmente astenuto
dal farlo. Ma il sentimento antifrancese della base del partito non poteva essere
controllato. Su questa scia ha preso piede un’organizzazione della società civile, il 41
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER
Movimento 62 (M62): creato nel 2022, il suo nome fa riferimento ai 62 anni di in-
dipendenza del paese e alla lotta contro il neocolonialismo. Questo gruppo, intriso
di utopismo «progressista» (unità africana, rottura totale con l’Occidente), ha ten-
denze messianiche, apocalittiche e !lorusse: il M62 si augura infatti lo scoppio di
una guerra mondiale che veda la distruzione dell’Occidente per mano della «Gran-
de Russia».
È per tutte queste ragioni che inizialmente Bazoum ha tentato di mostrarsi
come !gura di rinnovamento, segnando una distanza con l’establishment del Pnds.
Il nuovo presidente ha cercato di creare un rapporto autentico con la popolazione
e si è più volte recato nelle zone colpite dalla violenza jihadista per parlare diretta-
mente con le vittime. In generale è sembrato aperto, grazie anche a una buona
squadra di comunicatori. Molti nigerini avevano deciso, in cuor loro, che Bazoum
era potenzialmente un buon leader. La sua unica macchia stava nell’essere stato
portato al potere dal Pnds. Insomma, il Pnds era impopolare, Bazoum meno.
Oltre che della sua popolarità, Bazoum doveva preoccuparsi anche della crisi
di sicurezza del Sahel. Per affrontarla era necessario avere una strategia ed essere
in grado di attuarla. Il governo Bazoum aveva un piano, o quantomeno una «teoria
del cambiamento». Tuttavia era incapace di fare riforme. Del resto, questo è il prez-
zo da pagare per mantenere in piedi il dominio del partito: per accumulare le re-
lazioni necessarie al suo sistema di potere, il Pnds ha dovuto istituire una rete
clientelare talmente strati!cata da rendere impraticabile qualsiasi riforma struttura-
le. Ad esempio, un alto funzionario del regime mi ha spiegato come fosse impos-
sibile riformare le dogane perché erano in gioco troppi interessi. Eppure in una
guerra che si combatte soprattutto alle frontiere le dogane dovrebbero essere uno
strumento ef!ciente e !dato. Cioè non corrotto.
Bisogna però riconoscere che nella crisi del Covid-19 il Pnds è stato particolar-
mente autorevole. Ha collaborato con le opposizioni, ha avuto il coraggio di chiu-
dere le moschee e ha seguito le indicazioni della comunità scienti!ca nonostante
la popolazione non fosse pienamente d’accordo con le restrizioni. La lotta al virus
è stata interpretata dal Pnds come una guerra. Il governo ha seguito una strategia
e ha cercato la collaborazione popolare e l’unità nazionale.
Al contrario, la guerra contro il jihadismo non è stata mai percepita come guer-
ra. Non evoca lo stesso senso di urgenza e non genera quell’unità d’intenti che
sarebbe necessaria. In questo il Pnds ha commesso degli errori, scegliendosi gli
alleati sbagliati e non comprendendo i reali sentimenti della popolazione. Ha pa-
gato questo fallimento con il putsch del 26 luglio.
4. Il colpo di Stato del 26 luglio sembra dunque rientrare sia nella categoria dei
«putsch sanzione» (1974) sia in quella dei «putsch pro democrazia» (1999 e 2010).
In realtà, mi sembra che possa rientrare anche in una nuova categoria, quella dei
«putsch opportunisti».
I golpisti hanno abilmente sfruttato l’epidemia di colpi di Stato che si è diffusa
42 in tutto il Sahel. Da questo punto di vista, il putsch non è stato tanto una reazione
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
5. Ho avuto contezza di tutto ciò solo alla !ne della mia conversazione con
l’uf!ciale nigerino. E ne ho tratto due conclusioni: la prima era che il regime di
Bazoum aveva le ore contate; la seconda che, se fosse caduto, i nigerini avrebbero
seguito la stessa traiettoria dei maliani e dei burkinabé. Un possibile effetto di que-
sta avventura sarebbe stato proprio la rottura con l’Occidente. Le conseguenze di
un ritiro totale degli aiuti occidentali alla sicurezza sono impossibili da valutare con
precisione. L’impressione locale è che sarebbero quasi inesistenti. È questa impres-
sione che spiega perché l’opinione pubblica nigerina abbia accolto senza battere
ciglio, e anzi con entusiasmo, lo sgombero dei francesi e degli occidentali dal Ma-
li e dal Burkina Faso.
Allo stesso modo, non bisogna sorprendersi della violenza con cui la folla ha
invaso le strade di Niamey, inveendo contro l’Ecowas, l’Ua, la Francia e gli Stati
Uniti. Questa rabbia non solo è perfettamente comprensibile, ma ha anche le sue
giusti!cazioni, dal momento che – agli occhi dei nigerini – le elezioni del 2021 sono
state le più fraudolente che si siano mai viste. E personalmente non credo abbiano
tutti i torti. Non ci sono dati certi, non sono stati condotti studi. È più che altro una
percezione della popolazione. Percezione che, però, viene totalmente ignorata dagli
occidentali, i quali – sommersi dalla retorica del «Niger amico dell’Occidente» – non
si sono minimamente resi conto di quanto stava succedendo nel paese.
A questo proposito, vale la pena menzionare due importanti incontri che ho
avuto in questi mesi.
Il primo è stato con l’ambasciatore degli Stati Uniti a Niamey, che mi ha chiesto
delle elezioni. Gli ho detto che secondo me erano state fraudolente, ma che alla
!ne la gente si era rassegnata e cominciava ad apprezzare Bazoum. Non mi ha
creduto. Tuttavia, non avendo argomenti da sottopormi, mi ha raccontato la sua
esperienza personale, in particolare le sue visite ai seggi elettorali. Mi è sincera-
mente dispiaciuto per lui, perché ho avuto la netta impressione che fosse stato
ingannato. Dopo un po’, però, sono riuscito a convincerlo. Gli ho fatto notare che
normalmente, in un paese davvero democratico, un partito che governa male per
dieci anni di seguito tende a non vincere le elezioni. Gli ho poi spiegato che in
Niger tutti i candidati, sia della maggioranza sia dell’opposizione, mettono in cam-
po tecniche di frode, ma chi è al potere ha molte più risorse degli altri. Quando ha
sentito queste parole, il suo volto si è illuminato. Aveva capito.
L’altro incontro è stato con un alto funzionario dell’Ue con cui sono stato invi-
tato a scambiare opinioni all’Aia. Non posso fare il suo nome né indicare la sua
posizione. Ho cercato di spiegargli che la democrazia nigerina era in pessime con-
dizioni e che, se l’Ue voleva conquistare il cuore della popolazione, doveva svilup-
pare una strategia per aiutare l’opposizione. Sono riuscito solo a metterlo sulla di-
fensiva. Si è trasformato in un veemente sostenitore di Issoufou e Bazoum. Era
chiaramente sincero, ma molto meno disposto ad ascoltarmi rispetto all’ambascia-
tore americano: forse sospettava che fossi un oppositore del presidente.
Cito questi incontri proprio per sottolineare lo scollamento che esiste tra i rap-
presentanti dei paesi occidentali e il sentire comune in Niger, scollamento di cui 45
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER
6. Il golpe a Niamey è stato «il putsch di troppo». Con questa espressione in-
tendo dire che quello del 26 luglio è stato il golpe che, agli occhi dei paesi del
Sahel, ha cambiato la realtà delle cose.
Prima dei fatti di Niamey i colpi di Stato avvenuti a Bamako e Ouagadougou
potevano essere considerati come dei putsch accidentali e non particolarmente
fortunati. Buona parte del Mali è al momento in mano a gruppi non statali (jihadi-
sti e irredentisti tuareg) e la popolazione sta manifestando massicciamente contro
il regime. In Burkina Faso, il primo putschista (Paul-Henri Sandaogo Damiba) ave-
va cercato di scendere a patti con l’Ecowas. Ma è stato rapidamente smascherato
come sostenitore del vecchio regime, cosa che ha indignato la popolazione. Il se-
condo putsch, necessario per liberarsi di Damiba, era dunque atteso.
Quei colpi di Stato erano considerati questioni accessorie, come se si trattasse
di anomalie prive di ripercussioni nel resto della regione. In Niger, però, le autori-
tà avevano (giustamente) fatto un’analisi diversa e avevano percepito il pericolo.
Purtroppo, gli altri capi di Stato dell’Ecowas non erano convinti che i putsch
avrebbero avuto conseguenze reali. Il togolese Gnassingbé, ad esempio, ha fatto
di tutto per normalizzarli. Addirittura, ha aiutato la giunta di Bamako a elaborare
una strategia per vani!care gli sforzi dei falchi dell’Ecowas. Per quanto riguarda il
Burkina Faso, il presidente ivoriano Ouattara ha cercato di normalizzare il golpe
ristabilendo gradualmente i legami con la giunta, elaborando un’«agenda pragma-
tica» poco credibile vista l’atmosfera intensamente ideologica che si era creata in-
torno al capitano Traoré a Ouagadougou.
Ecco, dopo il golpe del 26 luglio atteggiamenti simili non saranno più tollera-
ti. Il putsch di Niamey ha infatti rivelato che gli sforzi per normalizzare le giunte
saheliane comportano il rischio di normalizzare la pratica del colpo di Stato tout
court, e non solo le giunte che sono andate al potere.
L’ultimo golpe nigerino segnala chiaramente ai paesi dell’Ecowas che il Sahel
ha un enorme problema con i colpi di Stato: ignorare o normalizzare i putsch non
è più possibile, perché questi tendono a espandersi a macchia d’olio, considerando
anche che l’Africa occidentale, storicamente, è la regione con il maggior numero di
colpi di Stato al mondo. Certo, nessuno osa immaginare un colpo di Stato a Dakar,
ma si pensava anche che il Titanic non potesse affondare. Inoltre, se il virus del
golpe circola più facilmente nella parte francofona della regione, spinto in parte
dalla narrazione secondo cui i putsch servirebbero a liberare il popolo dalla tutela
neocoloniale di Parigi, c’è da temere che questa epidemia possa in!ltrarsi anche
nella parte anglofona della regione.
Il problema è che il putsch del 26 luglio ha coinciso con una fase particolar-
mente convulsa in Africa occidentale. I nigerini possono affermare che si tratta di
affari loro e che gli altri non debbono immischiarsi, ma i loro affari sono anche
46 affari di tutti gli altri. Il fatto è che l’Africa occidentale è davvero una regione, a
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
differenza, per esempio, dell’Africa centrale o dell’Africa orientale. Gli interessi re-
gionali sono strettamente intrecciati e le persone si spostano molto, il che spiega
anche perché il jihadismo è una minaccia per tutti. Tutto ciò rende ancora più
dif!cile trovare una via d’uscita dalla crisi.
A questo riguardo, l’atteggiamento di Francia e Stati Uniti, che insistono per il
completo reintegro di Bazoum, costituisce un ulteriore elemento di dif!coltà. Gli
occidentali devono capire che tale soluzione è politicamente inconcepibile, soprat-
tutto se dovesse ripristinare anche la presa del Pnds.
La realtà è davvero cambiata. Certo con la forza, ma la forza non può riportar-
la indietro. La soluzione ideale sarebbe il ritorno alla tradizione nigerina, nella
quale il putsch è parte della reinvenzione e del rinnovamento del processo politi-
co. Il Pnds non sarebbe escluso da tale processo. Anzi, sarebbe preso in conside-
razione a pieno titolo. Dubito che la giunta di Niamey possa ri!utare un accordo
che preveda la revoca delle sanzioni in cambio dell’attivazione di un processo
politico di questo tipo.
Tuttavia bisogna fare i conti con l’ossessione dell’Occidente per Mosca. No-
nostante la russo!lia degli ideologi nazionalisti, gli occidentali devono capire che
la Russia non è un fattore importante nell’equazione del Niger. Le visite dell’attua-
le ministro della Difesa Salifou Modi a Bamako non devono dare questa impres-
sione, perché erano volte a creare le condizioni per un accordo di sicurezza col-
lettiva con il Mali (e successivamente con il Burkina Faso). Non c’era (e non c’è)
alcuna intenzione di portare il Gruppo Wagner in Niger. La prova di quanto dico
sta nel fatto che Modi stava già lavorando a questo progetto all’epoca di Bazoum.
Le sue visite a Bamako non signi!cano necessariamente che egli sia stato un pia-
ni!catore del putsch.
È troppo presto per stabilire esattamente come sia avvenuto il golpe, ma il
fatto è che ha creato opportunità che prima non esistevano. Idealmente, dovrem-
mo cercare di sfruttarle in modo razionale, innanzitutto abbassando la tensione.
Non solo a Niamey e ad Abuja, ma anche a Parigi e a Washington.
È tipico dell’Occidente trattare i problemi degli altri come se fossero i propri.
Tuttavia, esattamente per queste ragioni, gli occidentali devono capire che i prece-
denti tentativi di colpo di Stato erano solo la punta dell’iceberg. Se l’Occidente
considera il Niger un suo problema, allora deve innanzitutto rendersi conto che le
cause profonde del golpe del 26 luglio risiedono nell’aggravarsi della questione
securitaria. Tema su cui gli occidentali non sono esenti da colpe e responsabilità.
Non a caso, lo stesso uf!ciale militare nigerino di cui ho parlato in preceden-
za mi ha riferito che il pomo della discordia tra il Pnds e l’esercito era proprio la
politica di sicurezza, strettamente legata al rapporto con l’Occidente. Sotto Issou-
fou il Niger si è infatti opposto, nel 2011, all’intervento della Nato in Libia, preve-
dendo che la destituzione di Ghedda! avrebbe distrutto il paese e scatenato una
crisi migratoria e securitaria nella regione. A giochi fatti, però, Issoufou ha dovuto
chiedere l’aiuto dell’Occidente proprio per contenere le conseguenze delle opera-
zioni Nato. 47
IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER
Issoufou e il suo partito non potevano fare diversamente. Il Pnds, infatti, era
appena salito al potere, e aveva programmato massicci investimenti per la sanità,
l’istruzione e la pubblica amministrazione. Per portare a termine questo program-
ma era necessario ridurre al minimo le spese per la sicurezza, ma af!nché fosse
possibile qualcun altro avrebbe dovuto contribuire a sostenerne i costi. Ciò ha
portato a uno scollamento tra militari e Pnds, segnalato dai diversi colpi di Stato
che Issoufou e Bazoum hanno dovuto sventare.
Il più grave errore del Pnds è stato scommettere che l’Occidente avrebbe sra-
dicato la presenza jihadista. Se questa scommessa fosse stata vinta, oggi il partito
sarebbe ancora al potere. L’Occidente, però, non solo non è riuscito a farlo, ma è
diventato un ostacolo alla sicurezza dopo che i putsch in Mali e in Burkina Faso
hanno portato al potere giunte che hanno scelto di non af!darsi agli Stati Uniti o
alla Francia.
Prima di questi sviluppi, Ciad, Mauritania, Niger, Mali e Burkina Faso stavano
dando impulso al G5 Sahel: un apparato di sicurezza collettiva che avrebbe abbrac-
ciato l’intera regione. Il Mali e il Burkina Faso, guidati dalle giunte, sono usciti da
questo programma nel 2022 e hanno fatto sapere a Niamey che !nché avesse col-
laborato con i francesi nessun coordinamento in ambito securitario sarebbe stato
possibile.
La posizione di Mali e Burkina Faso ha messo alle strette il Pnds che, non po-
tendo recidere i rapporti con la Francia e con l’Occidente, non ha potuto affronta-
re quei problemi securitari che richiedono uno stretto coordinamento con i suoi
vicini. La conseguenza è stata un’ulteriore perdita di credibilità del Pnds agli occhi
della popolazione, che i militari sono riusciti a sfruttare abilmente. Non è stato
dif!cile far passare il messaggio secondo cui la collaborazione con le giunte di
Bamako e Ouagadougou sarebbe stata più ef!cace di quella con Parigi, peraltro
responsabile – insieme a Usa e Regno Unito – della già compromessa situazione
regionale. Per il Pnds era scacco matto.
In una prima fase, Bazoum ha cercato di affrontare tali problemi. All’inizio di
quest’anno il ministro della Difesa Salifou Modi è stato inviato a Bamako per nego-
ziare misure di sicurezza collettiva. È possibile che Bazoum possa aver notato qual-
cosa di strano, dato che il ministro è stato rimosso ad aprile. Ma nemmeno quest’ul-
tima disperata manovra è riuscita a salvare il presidente in carica. Troppo tardi.
Il golpe del 26 luglio ha scardinato il dominio del Pnds. Di per sé, non una
cattiva notizia. Come non è una cattiva notizia il fatto che i putschisti abbiano con-
testato la politica di sicurezza del precedente regime, il quale – senza dubbio –
aveva commesso l’errore di af!darsi eccessivamente all’Occidente, che con la de-
stituzione di Ghedda! aveva innescato la crisi securitaria che ancora oggi tormenta
il Sahel e il Niger.
In questo senso, il colpo di Stato potrebbe essere seguito, come in passato, dal
riavvio del processo democratico e dal ripensamento della politica di sicurezza. Ma
questa volta la strada pare davvero accidentata. Intanto, non sembra che alla giunta
48 di Niamey interessi particolarmente la democrazia. Guidati dalle stesse ideologie al
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
perazione militare che rischia di bloccarsi. La coperta è corta: in gioco non c’è solo
la collocazione internazionale del Niger, ma la sua stessa tenuta interna.
In conclusione, rimango profondamente convinto del fatto che solo una de-
mocrazia funzionante possa gestire tutte queste s!de, perché è l’unico sistema in
grado di garantire la trasparenza e la coesione necessarie per affrontare le minacce
che permeano il Sahel. Se il Niger ha intenzione di seguire gli esempi del Mali e
del Burkina Faso, allora – anche data la debolezza dell’Ecowas – l’attuale crisi può
trasformarsi in minaccia esistenziale. Spero veramente di essere soltanto un uccello
del malaugurio.
50
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
3. Anche gli interventi militari nel Continente Nero hanno infangato il nome
di Parigi. All’origine della crisi maliana vi è il coinvolgimento della Nato in Libia,
da dove molti combattenti tuareg sono tornati pesantemente armati. L’impegno
militare della Francia e dei suoi alleati atlantici è stato percepito come un’ingeren-
za neocolonialista. Inoltre, la distruzione dello Stato libico ha spianato la strada a
gruppi terroristici quali al-Qå‘øda e Stato Islamico. L’omicidio di Muammar Ghed-
da! a opera dei ribelli sostenuti da Francia e Nato ha persuaso l’opinione pubbli-
ca africana che la Francia si opponeva a qualsiasi sviluppo dell’Africa. Senza fare
gli avvocati del diavolo bisogna notare che Muammar Ghedda!, pur avendo
concentrato le ricchezze libiche nelle mani della sua famiglia, godeva di ottima
reputazione quanto a difesa dell’«orgoglio africano». Il suo omicidio è stato inter-
pretato come volontà occidentale di porre !ne al progetto che più gli stava a
cuore: l’Unione Africana. Tra i fondatori dell’organizzazione, Ghedda! ambiva a
ottenerne la guida.
Allo stesso modo, il franco Cfa (Colonie francesi d’Africa), la cui sigla presenta
ancora le stimmate della colonizzazione, ha alimentato il risentimento verso la po-
litica francese. Ciò che i giovani saheliani denunciano è il «complesso di superiori-
tà» delle élite politiche francesi verso le controparti africane, ormai inaccettabile.
Questa verticalità nelle relazioni franco-africane si è manifestata spesso: la svaluta-
zione arbitraria del franco Cfa da parte del governo Balladur, senza alcuna consul-
tazione con i partner africani; il discorso a Dakar in cui Nicolas Sarkozy affermava
che «l’uomo africano non è entrato abbastanza nella storia»; la battuta con cui Em-
manuel Macron dice al presidente burkinabé Roch Marc Kaboré, !gura importante
nel panorama africano, di andare a riparare l’aria condizionata. Tutti episodi che
hanno in!ammato l’opinione pubblica in Africa.
In questo quadro, l’annuncio di Macron della sostituzione del franco Cfa con
l’Eco – in realtà un’iniziativa dei capi di Stato africani – è stato interpretato come
l’ennesimo tentativo di Parigi di mantenere un saldo controllo economico su questi
paesi. A peggiorare la situazione è sopraggiunta la convocazione dei presidenti
della regione al cospetto di Macron, che ha loro intimato di dichiarare se volevano
che la Francia restasse o meno nel Sahel. Errori di comunicazione politica con
pessimi risvolti nel continente africano. 53
QUEL CHE NOI FRANCESI NON ABBIAMO VOLUTO CAPIRE
Il seme della discordia tra Mali e Francia è stato piantato nella crisi del Sahel
con il ri!uto francese alla penetrazione dell’esercito maliano a Kidal. Dopo l’avvio
dell’Operazione Serval nel 2013 e la liberazione di Gao e Timbuktu a opera con-
giunta delle truppe francesi e maliane, Parigi ha bloccato le truppe amiche ad
Anne!s. La giusti!cazione addotta all’epoca era il timore che l’esercito maliano,
umiliato qualche mese prima, si vendicasse contro i tuareg nella città di Kidal, roc-
caforte delle ribellioni berbere dal 1963. Sebbene l’Operazione Serval fosse stata
inizialmente ben accolta, soprattutto per aver fermato la probabile avanzata dei
jihadisti verso sud, l’ostruzionismo francese è stato vissuto come sostegno implicito
alle rivendicazioni indipendentiste dei tuareg. L’incidente ha segnato l’inizio delle
divergenze con i maliani. Da quel momento l’intervento militare francese, nella
nuova forma dell’Operazione Barkhane, è diventato problematico agli occhi dell’o-
pinione pubblica saheliana.
maliano ha subìto numerosi attacchi, quello francese è stato risparmiato dai terro-
risti. Inoltre i rinforzi hanno tardato ad arrivare, !nendo per convincere gran parte
dei soldati che la Francia facesse il doppio gioco. Non esiste alcuna prova tangibi-
le a sostegno di queste affermazioni, ma resta il fatto che sono fortemente radicate
nell’inconscio collettivo del Sahel.
Oggi le fake news si diffondono a velocità esponenziali attraverso Internet e i
social network. La massiccia diffusione dei telefoni cellulari in Africa permette an-
che agli analfabeti di partecipare al dibattito politico, attraverso la messagistica
vocale di WhatsApp. L’applicazione svolge un ruolo pivotale nella circolazione
delle informazioni: contenuti video, foto e audio contribuiscono alla validazione di
queste bufale.
Non bisogna però sottovalutare il ruolo svolto dai nuovi «imprenditori della
politica» nella diffusione delle falsità. Figure politiche di spicco che non si fanno
scrupoli a strumentalizzare false informazioni nella guerra mediatica contro la Fran-
cia. L’icona della mobilitazione antifrancese Adama Diarra, noto in Mali come Ben
le cerveau, rientra nella categoria. Il movimento sociale di cui è leader, Yérèwolo
debout sur les remparts, è l’ala attivista del governo di transizione. Come mi ha
raccontato lui stesso, Diarra e il suo gruppo avallano la disinformazione in Mali:
«Chi è che non fa propaganda per legittimare e consolidare il suo potere? Propa-
ganda o meno, abbiamo il dovere di risvegliare la coscienza dei maliani sulle mac-
chinazioni propagandistiche della Francia e dei suoi sottoprefetti ai nostri con!ni
(allusione al presidente ivoriano e al presidente senegalese, n.d.a.). I giovani han-
no deciso di prendere in mano il loro destino panafricano e patriottico e noi ce ne
facciamo carico attraverso la comunicazione con il popolo».
L’avversione alla politica francese ha cause molteplici. Lo status di ex potenza
coloniale pesa enormemente e negativamente sull’immagine della Francia. Ma l’E-
sagono paga soprattutto il prezzo delle sue incoerenze in politica estera. Il pater-
nalismo francese è capace di appoggiare il colpo di Stato di Deby !glio contro
Deby padre in Ciad e di condannare i putsch in Mali e in Burkina Faso. L’atteggia-
mento di altezzosa benevolenza della Francia verso le ex colonie resta l’elemento
più problematico. Parigi trarrebbe grande bene!cio da una maggiore discrezione
nel Sahel. Più è visibile, più accende il sentimento di ostilità nei suoi confronti.
55
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
LA FRANÇAFRIQUE
È MORTA A NIAMEY di Leslie VARENNE
Il golpe del 26 luglio, di cui i francesi sono i principali responsabili,
spazza via la retorica occidentale sulla ‘democrazia’ in Niger. La
popolazione acclama i putschisti perché stanca della corruzione e
della mancanza di alternative al Pnds dell’ex presidente Bazoum.
Agli occhi della popolazione, il colpo di Stato rappresentava dunque una pos-
sibilità di cambiamento. È per questo che il Consiglio nazionale per la salvaguardia
della patria (Cnsp) gode di tanto sostegno popolare. I putschisti sono riusciti a
scardinare un sistema predatorio e corrotto che i nigerini mal sopportavano.
CFA, MONETA PRIGIONE 1360 Nasce il franco aureo per ordine di Giovanni II, detto il Buono
1365 e 1422 Ordinanze di Carlo V e di Carlo VII: entrambe ampliano i conî
strutturando la base monetaria del Regno di Francia
1716 Creazione della Banque générale privée e introduzione della
cartamoneta. Nasce il franco moderno
1726 Ricostruzione del franco aureo dopo il collasso delle azioni della
Compagnia delle Indie
1789-1795 Reintroduzione della cartamoneta, riforma del sistema di emissione
1918 - 1924 Svalutazione dell’80% dopo la Grande Guerra
1 1940 - 1945 Franco sostituito dai Reichskreditkassen del Terzo Reich
2
Nella Francia di Vichy nasce il franco di Vichy
3
Oceano 1945 Reintroduzione del franco francese dopo la liberazione
FRANCIA 4
Atlantico Viene creato il franco delle colonie francesi d’Africa (Cfa)
5 Mar Nero
6
Mar
Caspio
Mar Mediterraneo
MALI NIGER
SENEGAL CIAD
Un sistema predatorio
Gli occidentali hanno dunque ignorato il problema democratico che af!iggeva
il Niger. Ma non è "nita qui. I partner di Niamey hanno anche deliberatamente
soprasseduto ad alcune pratiche che hanno reso il paese estremamente corrotto.
L’ex presidente Issoufou, infatti, non è stato solo acclamato come un «grande de-
mocratico» (sic!), ma anche come un buon amministratore. Nel 2022 ha addirittura
ricevuto il premio Mo Ibrahim, un prestigioso riconoscimento assegnato a chi si è
contraddistinto per il buon governo.
Tuttavia, l’opinione pubblica nigerina era perfettamente a conoscenza delle
nefandezze di Issoufou. L’ex presidente si era reso protagonista dello scandalo
Uraniumgate ed era stato accusato di appropriazione indebita: secondo l’accusa,
sarebbe entrato illegalmente in possesso di 116 milioni di euro derivanti dai con-
tratti del ministero della Difesa. Issoufou, insomma, aveva dato vita a un sistema
predatorio e la popolazione lo sapeva benissimo. Vederlo ricevere premi interna-
zionali non ha fatto altro che aumentare la rabbia e la frustrazione dei nigerini.
Nei giorni immediatamente successivi al putsch di luglio le voci di un possibi-
le coinvolgimento di Issoufou si facevano sempre più intense. Il nuovo uomo
forte del Niger, Abdourahamane Tchiani, ex capo della Guardia presidenziale, era
infatti un suo fedelissimo. Oggi possiamo affermare con ragionevole certezza che
l’ex presidente era coinvolto nel golpe. Ma quale era il suo obiettivo? Perché Issou-
fou si è imbarcato in un’impresa che ha "nito per ritorcersi contro di lui, dal mo-
mento che il suo ex protetto l’ha scaricato? La risposta è semplice: per il petrolio.
L’obiettivo di Issoufou, infatti, era tornare al potere in concomitanza con l’inau-
gurazione dell’oleodotto che avrebbe collegato Niger e Benin. Secondo l’economi-
sta Olivier Vallée, l’ex presidente intendeva sfruttare a suo vantaggio «i proventi del
petrolio che presto avrebbero cambiato il volto economico e territoriale del Niger».
Nulla di nuovo. Da quando è salito al potere, il Pnds ha infatti costruito un sistema
predatorio che combina corruzione e nepotismo.
Il problema è che mentre una piccola élite si arricchisce con le ricchezze mine-
rarie e petrolifere lo sviluppo del paese ristagna. Certo, per quanto riguarda l’indice
di sviluppo umano il Niger è salito di due posizioni, passando dall’ultimo al terzulti-
mo posto. Ma non è stato merito del governo. Piuttosto, tale «miglioramento» è do-
vuto al fatto che gli indicatori di tutti gli ultimi dieci paesi della classi"ca sono crol-
lati. Il Niger non è cresciuto. Qualcuno è semplicemente crollato più del Niger.
Chi era interessato a intestarsi i «successi» economici del paese ha enfatizzato ol-
tremisura questo risultato. Secondo i dati della Banca mondiale, tuttavia, solo il 18,6%
della popolazione nigerina ha accesso all’elettricità. E nelle aree rurali non si arriva
nemmeno al 10%. Rispetto al 2011, anno in cui il Pnds ha preso il potere, queste cifre
60 sono aumentate solo del 4%. Di certo non si può parlare di «successo economico».
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Eppure, i partner occidentali del Niger hanno stanziato diversi miliardi di euro
in aiuti allo sviluppo. Ad esempio, per il triennio 2021-24 l’Ue ha stanziato 503
milioni di euro. Dove sono i risultati? Come sono stati spesi questi soldi?
Il 28 agosto 2023, in occasione della conferenza degli ambasciatori, Macron ha
dichiarato: «Il problema del popolo nigerino è oggi rappresentato dai putschisti che
lo mettono in pericolo. Il golpe, infatti, obbliga il Niger ad abbandonare la lotta
contro il terrorismo. Inoltre, i nigerini non potranno più contare su una buona po-
litica economica e perderanno tutti i !nanziamenti internazionali che gli avrebbero
permesso di uscire dalla povertà». Ora, alla luce dei dati citati in precedenza, di
cosa parla Macron quando si riferisce a una «buona politica economica»? Esatta-
mente, chi sarebbe uscito dalla povertà?
In sintesi: gli occidentali non hanno condannato le elezioni truccate, non han-
no denunciato il malgoverno e, in!ne, hanno chiuso entrambi gli occhi davanti al
problema della corruzione. Alla luce di questi fatti, si comprende perché la popo-
lazione abbia assunto un tono anti-occidentale e, soprattutto, antifrancese. I nige-
rini hanno capito che, dietro alla narrazione basata sui «valori», l’Occidente non fa
altro che nascondere interessi molto più concreti. Del resto, in altri paesi meno
«amici» comportamenti come quelli del Pnds sono stati violentemente criticati.
Tuttavia, af!nché fosse possibile una trattativa, l’esercito di Niamey e gli alleati
occidentali hanno dovuto interrompere le operazioni contro lo Stato Islamico. La
conseguenza è stata il rafforzamento della presenza jihadista sul territorio nigerino,
utilizzato dai terroristi come testa di ponte per attaccare il Mali. Inoltre, l’approccio
«diplomatico» di Bazoum non è stato particolarmente apprezzato dalle sue Forze
armate. I militari, infatti, sono rimasti molto turbati dal rilascio di alcuni comandan-
ti dello Stato Islamico.
In conclusione, l’approccio di Bazoum – per quanto possa essere stato ef!cace
nel breve periodo – non è stato realmente apprezzato da nessuno. Sicuramente
non dalla popolazione, che vedendo i jihadisti guadagnare posizioni nel paese si è
ulteriormente convinta dell’inutilità degli aiuti occidentali.
LE INDIPENDENZE AFRICANE
Mar Nero
Oceano Atlantico
Angola 1975
Zambia
Oceano Atlantico 1964
Zimbabwe Madagascar
Namibia 1980 Mozambico 1958
1990 Botswana 1975
1966
Gambia 1965
Guinea Bissau 1974 eSwatini 1968
Guinea 1958 Lesotho 1968
Sierra Leone 1961 Sudafrica
Liberia Oceano Indiano
Costa d’Avorio 1960
Burkina Faso 1960
Ghana 1957 Tra il 1949 e il 1959
Togo 1960 Tra il 1960 e il 1961
Benin 1960 Tra il 1962 e il 1970
Capo Verde 1975 Dopo il 1970
Comore 1975 Stati sovrani prima del 1949
Seychelles 1976 1968 Data dell’indipendenza
Mauritius 1968 Territorio conteso 63
LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY
tori, infatti, ha dichiarato: «La nostra politica è quella giusta». Ha poi criticato la
«debolezza» dei partner occidentali, ponendogli una domanda retorica: «Come pos-
siamo implementare una partnership con un governo se poi, quando si trova in
questa situazione, non vogliamo sostenerlo?» Macron non comprende che questo
atteggiamento paternalistico è esattamente quello che i popoli africani non sono
più disposti a tollerare.
Comunque !nirà a Niamey, Parigi ne uscirà scon!tta e umiliata. Altri paesi,
come il Ciad e il Senegal, seguiranno l’esempio del Niger. I venti di rivolta sof!e-
ranno da un capo all’altro del continente, sancendo la !ne dell’in"uenza francese
in Africa. Parigi deve prepararsi a uno tsunami geopolitico, paragonabile alle scon-
!tte di Azincourt (1415), Trafalgar (1805) e Fashoda (1898).
Il fallimento di Parigi è testimoniato anche dal fatto che gli altri Stati dell’Ue
non si sono fatti problemi a isolare la Francia. Nessun paese europeo intende pa-
gare il prezzo delle politiche di Macron. Gli Stati Uniti, invece, si sono comportati
come ai tempi della crisi di Suez, ma questa volta la Francia è completamente
isolata. Washington intende assumere direttamente il controllo della regione, dal
momento che Parigi si è dimostrata incapace di contenere l’avanzata di Cina e
Russia in Africa.
Traumatizzati dal voto degli Stati africani alle Nazioni Unite dopo lo scoppio
della guerra d’Ucraina, gli americani sperano infatti di riconquistare il cuore degli
africani. Si illudono. L’Africa si sta liberando. Nel lungo periodo, tutti dovranno
ritirarsi. Non si può fare nulla per fermare questo processo. È un’ondata. È la mar-
cia della storia.
65
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
geri. Le cose non stanno affatto così nel Sahel o nell’Africa nera. In questo senso,
la fuoriuscita del gruppo di Vincent Bolloré è stata molto più rilevante del ritiro di
qualche soldato dal Mali. Dopo aver fondato il proprio impero industriale sulla
gestione dei porti africani, la vendita degli attivi nel dicembre 2022 al gruppo Msc,
per un totale di 5 miliardi di euro, ha sancito l’addio di Bolloré all’Africa. Il colosso
ha preferito investire nei media e nella logistica. La !ne di questa quarantennale
avventura industriale è sintomatica della scarsa attrattività dell’Africa agli occhi
degli imprenditori francesi, al di là di qualche settore molto speci!co.
2. Solo un gruppo assai ristretto di poteri francesi ha ancora interesse per l’A-
frica: gli umanitari, i militari e i politici. Fedele alla missione civilizzatrice che sen-
te di dover giocare nel mondo e che ha dato impulso alla colonizzazione nell’Ot-
tocento, la Francia centra una grande parte della sua politica estera sugli aiuti.
L’Agenzia francese per lo sviluppo (Afd), le cui radici risalgono al 1941, è il prin-
cipale organismo pubblico di orientamento e di gestione degli aiuti. Nel 2022, l’Afd
ne ha dispensati per 22 miliardi di euro. La metà è stata destinata all’Africa. Circa
l’80% delle sovvenzioni e dei prestiti direttamente accordati dallo Stato riguarda
questo continente. L’agenzia opera sotto la tutela dell’Eliseo e del ministero degli
Esteri. Benché disponga di fondi propri, una buona parte del bilancio deriva dall’e-
rario. In Africa, l’Afd opera in prima persona oppure !nanzia delle organizzazioni
non governative e delle associazioni che svolgono progetti nel quadro de!nito dal
Quai d’Orsay. Ciò signi!ca che questi soggetti terzi vivono di fondi pubblici e
orientano le loro attività in funzione delle direttive governative. Sono dunque atto-
ri privati che agiscono a corollario dell’azione pubblica. Sorta di mercenari dell’u-
manitario. Il bilancio dell’Afd cresce costantemente dal 2017. Il presidente Emma-
nuel Macron si è dato l’obiettivo di consacrarle lo 0,7% del reddito nazionale lordo
entro il 2025, contro lo 0,37% del 2017 e lo 0,55% del 2021.
In Francia è sempre più vivace il dibattito sull’utilità reale di questi aiuti: i pa-
esi africani ne bene!ciano davvero? E a che cosa servono alla Francia? Non è una
novità. Nel 1964, il deputato socialista della Corrèze, Jean Montalat, stimava che
fosse meglio investire in aiuti allo sviluppo nel suo arretrato dipartimento piuttosto
che in Africa. Aveva pure coniato una formula destinata a durare: «La Corrèze piut-
tosto che lo Zambezi». Di fronte alle attuali faglie geogra!che ed economiche
nell’Esagono, l’argomento di Montalat è tornato alla ribalta. Ci si chiede se un pae-
se indebitato come la Francia si possa ancora permettere di fare regali agli Stati
africani e di condonare i loro debiti.
La questione diventa: la Francia ha ancora i mezzi !nanziari per sostenere la
Françafrique? Tanto più che l’Afd opera ora secondo il principio dell’aiuto senza
vincolo di destinazione, cioè i paesi riceventi non sono obbligati a utilizzare le
somme in contratti con imprese francesi, al contrario di molti Stati che condiziona-
no gli aiuti a rapporti economici con le proprie aziende. Diversi contribuenti fran-
cesi hanno l’impressione che le loro tasse servano a !nanziare gli appalti delle
68 sempre più numerose imprese cinesi nel Continente Nero.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
EGITTO
Ni FASO ou
Dakar INA ou
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SENEGAL NIGER
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Concessioni portuali
Concessioni ferroviarie
Vie !uviali
1 CAMERUN
2 CONGO
Per le Forze armate, l’Africa è stata una manna dal cielo. Dopo la !ne delle
operazioni in Afghanistan, il continente ha fornito dieci anni di operazioni ininter-
rotte, missioni appassionanti e variegate, uso reale e massiccio di materiali, giusti-
!cazione per la crescita dei bilanci. Le Operazioni Serval (gennaio 2013-luglio
2014) e Barkhane (agosto 2014-novembre 2022) hanno permesso all’Esercito di
fare il suo mestiere, schierando continuativamente almeno 3 mila soldati, con un
picco di 5.100 nel gennaio 2020. Non essendo schierate in Ucraina (a parte qualche
piccola unità d’élite), il rischio è che le Forze armate diventino un esercito da ca-
serma. Addestrarsi alla guerra senza farla mai non è né stimolante sul piano profes-
sionale né attraente per le nuove reclute. All’Accademia militare di Saint-Cyr, depu-
tata alla formazione dei nuovi uf!ciali, in molti si interrogano sul futuro e alcuni
hanno già previsto di lasciare l’uniforme per entrare nel settore privato. Un esercito
è utile solo se serve; gli occorrono delle operazioni. 69
AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA
Anche i politici sono tra gli scon!tti dell’espulsione dall’Africa. I legami privi-
legiati intrattenuti nel quadro della Françafrique con capi di Stato, ministri, alti
funzionari davano l’illusione di importanza e di potenza. È molto gradevole parte-
cipare a vertici internazionali in alberghi lussuosi e in palazzi occidentalizzati. È
anche gradevole conoscersi, aiutarsi, avere l’impressione di incidere sul corso degli
eventi mondiali. La classe politica francese ha in"uenza in Africa, ma non in altri
paesi che contano. In Asia, al massimo, ci sono gli imprenditori, con i loro investi-
menti, le loro imprese e i loro dipendenti espatriati. In Africa, i funzionari del Quai
d’Orsay e delle grandi amministrazioni pubbliche hanno ancora leve da manovrare.
Imprenditori e funzionari: due culture e due mondi diversi che si ignorano, non
sanno lavorare assieme e, spesso, si disprezzano.
1.311
885 773
3.486
49 239 persone fermate 157 72
315
169 348
808 48
25 gendarmi e poliziotti feriti 3 0
4.507
2.814
2.391
12.202 1.585
251 incendi nelle strade 352 202
1.990
1.585
788 5.892 352
115 veicoli incendiati 202 159
514
266
142 1.105 123
edi!ci incendiati o attaccati 34 24
2
88
78
70
269 26
NC stazioni della polizia o della gendarmeria danneggiate 3 4
nienti dal Sahel ma, per la maggior parte, di persone nate nell’Esagono e in pos-
sesso della cittadinanza francese. La lotta contro il terrorismo è affare della polizia
e della sicurezza interna, non dei militari. La terza lacuna riguarda la paci!cazione
e proprio non tiene: il Sahel è più instabile oggi rispetto a dieci anni fa, quando è
cominciato l’intervento.
Il ministro della Difesa Sébastien Lecornu ha difeso l’Operazione Barkhane de-
!nendola un successo. Riprendendo così l’idea che l’intervento nel Sahel sarebbe
stata una vittoria militare ma un fallimento politico. Dire una cosa del genere signi-
!ca dimenticare la natura stessa di un’operazione bellica. Il militare è al servizio del
politico: non esiste successo militare se gli obiettivi politici non sono raggiunti. Se è
un fallimento politico, è anche un fallimento militare. L’Operazione Serval era stata
un successo incontestabile perché aveva raggiunto tutti gli obiettivi. Il problema di
Barkhane è che gli obiettivi politici – e di conseguenza quelli militari – erano vaghi.
È evidente che gli argomenti avanzati dalle autorità francesi non reggono alla
prova del nove. Ciò ha !nito per delegittimare le giusti!cazioni degli interventi
militari. Qui sta la chiave, per Parigi, del golpe in Niger: quest’ultimo ha dimostrato
che i motivi addotti per spiegare la necessità della presenza in Africa erano falsi.
Ha inoltre mostrato che la Francia non è desiderata e che, nonostante le somme
importanti versate ogni anno attraverso l’Afd negli aiuti allo sviluppo, i popoli afri-
cani non ci vogliono.
73
AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA
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AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA
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Marsiglia
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Aulnay-sous-Bois
Roissy Ajaccio
St-Denis
Argenteuil Mar Mediterraneo
1
Nanterre Bobigny
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Boulogne Montreuil
Versailles Nogent-sur-Marne
77
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
PERCHÉ MACRON
NON RIESCE A FARLA FINITA
CON LA FRANÇAFRIQUE di Mario GIRO
Origini e scopi del modello neocoloniale che sta compromettendo
l’immagine della Francia, non solo in Africa. L’ossessione
securitaria e i disastri provocati dalla privatizzazione degli Stati.
Russia e Cina, spaventapasseri di comodo per l’Occidente.
– alla quale chi scrive era presente come rappresentante del governo italiano – il
presidente francese François Hollande aveva ricevuto enormi ovazioni dalla folla
dei maliani perché la Francia aveva da poco salvato il paese dall’attacco jihadista
(operazione Serval) che dal Nord minacciava il Centro-Sud e la capitale, la parte
ricca e popolosa del Mali. Già pochi mesi dopo tale entusiasmo era calato: la de-
lusione fu dovuta alla permanenza ingombrante dei militari francesi nel paese
(operazione Barkhane) e alle innumerevoli voci sul perché di tale presenza. Più
Parigi spiegava che quella missione serviva a sostenere i militari del Mali e meno
la gente ci credeva. Giravano voci complottiste, addirittura si credeva a recondite
intenzioni della Francia di sostenere la ribellione tuareg. In realtà le operazioni
militari francesi avvenivano secondo modalità e abitudini ereditate dal periodo
coloniale: mettere una comunità contro l’altra, manipolare le etnie e così via. E poi
collaborare il meno possibile con i militari maliani, invero dif!cili da gestire. Ov-
viamente c’era chi, sui social media come nei corridoi dei palazzi africani e non
solo, dava !ato alle ipotesi peggiori. Così si era giunti alla caduta di Keïta con il
golpe militare del 2021, alla cacciata dei francesi (e altri europei) e all’arrivo di
Wagner, già istallata nelle vicine Libia e Repubblica Centrafricana. Poi è toccato
alla Guinea, al Burkina e in!ne il 26 luglio scorso al Niger. Cosa non ha funziona-
to? È utile chiederselo perché la rottura sentimentale tra Francia e Africa coinvolge
anche il resto d’Europa e tutto l’Occidente, soprattutto ora con la guerra in Ucraina.
FRANCIA
MAURITANIA
1960 NIGER 1960
MALI
1960 CIAD 1960
SENEGAL
1960
B. FASO
1960 GIBUTI 1977
GUINEA
1958 CENTRAFRICA
196ERU N
1960
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COSTA
BENIN 1960
TOGO 1960
D’AVORIO GABON
1960
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1960
DE
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R COMORE
1975
MAYOTTE
1975
4. Lo Stato africano ha subìto una forte alterazione dall’inizio del nuovo mil-
lennio. Da clientelare è divenuto uno Stato privatizzato in cui nessuno crede più.
All’inizio delle indipendenze (anni Sessanta e Settanta) lo Stato africano si è forma-
to sul modello europeo: welfare nascente (soprattutto in educazione e sanità);
commercio protetto (in prevalenza con le ex metropoli coloniali); preminenza
dell’impiego pubblico. Nelle ex colonie inglesi c’è un po’ più di sensibilità per il
settore privato, senza però discostarsi da tale sistema.
Tutto cambia con gli anni Ottanta e l’inizio dell’ultraliberismo: lo Stato africano
è investito da un’ondata di diktat del Fondo monetario internazionale che lo sabo-
tano dall’interno. I piani di aggiustamento strutturale obbligano ad abbandonare il
84 welfare e a privatizzare tutto il privatizzabile. Negli anni Novanta le multinazionali
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
86
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
1. J.J. STREMLAU, The International Politics of the Nigerian Civil War, 1967-1970, New Jersey 1977,
Princeton University Press, p. 44. 87
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI
Gli altri eserciti della regione hanno avuto gravi problemi di indisciplina, pre-
dazione, corruzione e nepotismo. I problemi iniziano dal reclutamento. In Burkina
Faso, ad esempio, la catena di comando non ha più i mezzi per condurre control-
li di moralità sui candidati alla carriera militare. 2Allo stesso modo, le promozioni
e gli incarichi migliori sono spesso assegnati in virtù di raccomandazioni. La meri-
tocrazia, in questi contesti, non esiste. La corruzione sta corrodendo gli apparati
militari dell’intera regione, con effetti deleteri sulla disciplina e sul morale delle
truppe, che sono mal pagate e mal equipaggiate perché il bilancio della Difesa è
sempre più misero.
Gli eserciti dei paesi saheliani sono inoltre coinvolti in traf"ci di ogni sorta:
petrolio, droga, alcol, tabacco, bestiame eccetera. Possono facilmente rivendere
equipaggiamenti sottratti al nemico o rubati dalle proprie scorte, dal momento
che gli inventari degli arsenali sono raramente aggiornati. Diversi uf"ciali nigeria-
ni, ad esempio, sono stati sospettati di essere coinvolti in questo tipo di traf"co, a
partire dai consiglieri per la Sicurezza nazionale Owoye Andrew Azazi e Sambo
Dasuki. Il primo avrebbe consegnato armi ai ribelli del delta del Niger nel 2007;
il secondo avrebbe sottratto centinaia di milioni di dollari da contratti mai onora-
ti tra il 2012 e il 2015 3 . Pur volendo mantenere il monopolio della violenza legit-
tima, gli apparati militari hanno spesso preferito chiudere un occhio, abbando-
nando le misure draconiane che venivano applicate per prevenire il furto di armi
da fuoco 4.
Le autorità non si fanno illusioni sulla professionalità delle loro truppe: ne
dif"dano. Eletti o meno, i capi di Stato dei paesi saheliani sanno che possono es-
sere rovesciati in qualsiasi momento da ammutinati o golpisti. Questi pregiudizi
sono così diffusi da in#uenzare anche alcuni ribelli. Nel 1967 il leader dell’ef"mera
Repubblica del Biafra, il colonnello Odumegwu Ojukwu, si "dava talmente poco
del suo esercito – reclutato in fretta e furia tra le "le di miliziani senza alcuna for-
mazione militare – da creare una guardia pretoriana, la Brigata S, che era molto
meglio equipaggiata dell’esercito stesso 5 .
Tale approccio è particolarmente diffuso nella regione. In Nigeria, per fare un
altro esempio, i militari al potere si affrettarono a creare un’organizzazione appo-
sita, la National Security Organization (Nso), per monitorare le attività dell’esercito
dopo il fallito tentativo di colpo di Stato del 1976. Dopo una breve parentesi civile
2. A.S. OULON, Comprendre les attaques armées au Burkina Faso: pro!ls et itinéraires de terroristes,
Ouagadougou 2020, Émile Sia, pp. 27, 31.
3. «Nigeria: The challenge of military reform», International Crisis Group, 2016; «Secret Army Report
Implicates NSA Azazi, Ibori, Alamieyeseigha, Henry and Sunny Okah in Sale of Military Weapons to
Niger Delta Militants», Sahara Reporters, 2010.
4. Nel Congo Belga, all’inizio del XX secolo, le autorità coloniali pretendevano ad esempio che i sol-
dati nativi fornissero loro una mano mozzata per giusti"care l’uso di qualsiasi munizione. Tali proce-
dure ricordano le pratiche dei negrieri arabi, che chiedevano ai carovanieri di riportare le orecchie
delle loro vittime per assicurarsi di non aver venduto gli uomini o le donne scomparsi perché morti
di fatica durante il viaggio.
5. P. JOWETT, Modern African Wars (5): The Nigerian-Biafran War 1967-1970, Oxford 2016, Osprey,
88 p. 13.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
sioni all’interno delle forze di difesa. In!ne, l’uso di ausiliari civili mina ulteriormen-
te la credibilità dell’autorità militare.
Lo spirito di fazione è il tratto distintivo degli eserciti che dovrebbero combat-
tere i gruppi jihadisti nel Sahel. Le rivalità di potere che contrappongono i militari
nelle capitali sono in realtà più preoccupanti e destabilizzanti del radicamento dei
ribelli nelle campagne. Anche perché, data la differenza di equipaggiamento, esse
tendono a produrre classici fenomeni di guerra asimmetrica. Basti pensare alle
battaglie combattute tra «berretti rossi» e «berretti verdi» dell’esercito maliano nelle
strade di Bamako all’inizio del 2013, mentre le truppe francesi dell’Operazione
Barkhane si spingevano a nord per dare la caccia ai terroristi.
I combattimenti che stanno devastando Khartûm sono particolarmente emble-
matici a tal proposito. In quel contesto si contrappongono le forze regolari del
generale ‘Abd al-Fattåõ al-Burhån alle truppe paramilitari delle Forze di supporto
rapido (Rsf) agli ordini del generale Muõammad Õamdån Daqlû (detto Õamødatø).
Questo corpo armato è stato creato nel 2013 dalla giunta islamista del generale
‘Umar al-Bašør per sedare le ribellioni in Dårfûr. Inizialmente posto sotto il control-
lo dei servizi segreti del regime, poi direttamente sotto quello della presidenza, ha
attratto miliziani dalle !le dei Ãanãåwød, «i cavalieri del diavolo», noti per i loro
abusi nel Sudan occidentale. All’epoca, questi entrarono rapidamente in competi-
zione con le circa 20 mila guardie di frontiera di Mûså Hilål, un capo tribù che
reclutava principalmente dalla popolazione di lingua araba del Dårfûr 6 .
Nel 2017, Õamødatø è riuscito a far arrestare il rivale e a impossessarsi delle
sue miniere d’oro. Dopo alcuni successi contro i gruppi ribelli in Dårfûr tra 2015
e 2016, ha anche ampliato la sua base di reclutamento e di azione dispiegando
uomini a Khartûm, in Yemen, nel Sud del Kordofan e al con!ne libico, dove ha
cercato di arginare il $usso di emigrazione illegale nell’ambito di programmi !-
nanziati dall’Unione Europea.
Allo stesso tempo, le Rsf si sono gradualmente affrancate dall’esercito. Forma-
lizzate con una legge del 2017, hanno presto ricevuto un budget equivalente a
quello dei servizi segreti della dittatura, che dovevano essere sciolti al momento
della rivoluzione del 2019. Le Rsf sono diventate più burocratiche e professionali
grazie alla formazione ricevuta da uf!ciali dell’esercito. La loro ascesa al potere è
stata confermata dall’ingresso di Õamødatø nel governo dopo la caduta di ‘Umar
al-Bašør nel 2019. Ciò ha preoccupato l’esercito, che ha cercato di rafforzare altre
unità per controbilanciare la loro in$uenza. Questo vale in particolare per la Cen-
tral Reserve Police (Crp) che, istituita nel 1974, è passata sotto il controllo dell’eser-
cito prima dello scoppio del con$itto con le Rsf a Khartûm nel 2023 7.
6. C. DESHAYES, Les logiques du chaos: révolution, guerre et transition politique au Soudan, Paris 2023,
Irsem.
7. Inizialmente sotto il controllo del ministero dell’Interno, questa unità, nota in arabo come Abu Tira
dal nome dell’uccello nero sul suo distintivo, è stata utilizzata ampiamente in Dårfûr, dove ha reclu-
tato Ãanãåwød tra i pastori di mucche Baqq©ra, contro i pastori di cammelli delle Guardie di con!ne,
i Rizayqåt Abbåla. Nel 2020, uno dei suoi leader, ‘Alø Muõammad ‘Alø ‘Abd al-Raõmån, noto come
Kûšayb, è stato arrestato nella Repubblica Centrafricana e trasferito all’Aia per essere processato da-
90 vanti alla Corte penale internazionale per i crimini di guerra commessi nel 2003-4.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Il regno dell’impunità
Tuttavia, la faziosità non è l’unica s!da che gli eserciti degli Stati saheliani
devono affrontare. Anche le massicce violazioni dei diritti umani hanno alimenta-
to i con"itti, spingendo i civili tra le braccia dei gruppi ribelli per sfuggire alle
esecuzioni extragiudiziali, agli arresti arbitrari e alle torture in carcere.
Dal delta interno del Niger al bacino del Lago Ciad, passando per il Dårfûr,
le operazioni di controinsurrezione hanno dato luogo a numerosi abusi di cui i
civili sono stati le prime vittime. Il problema ha origini lontane. Quando il Niger
divenne indipendente, il presidente Hamani Diori decise di chiudere un occhio
sugli abusi commessi dai suoi militari, purché i loro eccessi non minacciassero
direttamente il suo potere 8. Da allora, tuttavia, la guerra cosiddetta globale al ter-
rorismo ha incoraggiato la repressione più brutale, giusti!cando gli abusi con la
presunta eccezionalità del nemico. Come in Occidente, gli imperativi di sicurezza
hanno preso il sopravvento e messo a tacere le proteste contro i danni collaterali
e gli eccessi delle risposte militari alle minacce jihadiste e separatiste 9 .
Lo scollamento con le esigenze delle popolazioni rurali che vivono nelle zo-
ne di con"itto è stato ancora più evidente. Nel Mali centrale, ad esempio, alcuni
studi hanno dimostrato che più della metà degli intervistati riteneva che i gruppi
jihadisti non fossero il loro problema principale 10. Nonostante le operazioni dell’e-
sercito e delle sue milizie ausiliarie, queste persone hanno deplorato l’assenza di
forze di sicurezza, esprimendo così la richiesta di uno Stato basato su un contrat-
to sociale più rispettoso delle popolazioni rurali.
Nel frattempo, gli eserciti dei paesi saheliani hanno perso in gran parte la
battaglia per i cuori e le menti degli abitanti, in particolare nelle regioni in cui i
jihadisti hanno messo radici. Anzi, essi hanno contribuito sia attivamente sia pas-
sivamente a prolungare le ostilità. In primo luogo, non proteggendo i civili nelle
zone di con"itto hanno incoraggiato la popolazione a concludere accordi con gli
insorti e a rifornire i ribelli per sfuggire alle loro rappresaglie ed essere autorizza-
ti a continuare a coltivare i campi e ad allevare le mandrie. Inoltre, le forze gover-
native hanno incoraggiato attivamente i giovani a prendere le armi per difendersi
o per vendicarsi di massacri spesso perpetrati sulla base della stigmatizzazione
della comunità.
In!ne, le atrocità e i saccheggi compiuti dai soldati hanno dimostrato come
il crimine pagasse. I soldati in uniforme e i loro ausiliari della milizia hanno po-
tuto dedicarsi a ogni sorta di attività illegale senza essere sanzionati, che si trat-
tasse di racket nei confronti dei contadini, furto di bestiame, uccisione di civili o
rovesciamento di presidenti eletti o non eletti. L’impunità che pervade il Sahel è
impressionante.
8. A. MAHAMANE, La naissance de l’armée nationale au Niger, 1961-1974, in K. IDRISSA, (a cura di),
Armée et politique au Niger, Dakar 2008, Codesria, pp. 75-77.
9. M. DELORI, Ce que vaut une vie. Théorie de la violence libérale, Paris 2021, Editions Amsterdam.
10. V. BAUDAIS, Ecoutez-nous! Enquêtes sur les perceptions des populations au centre du Mali, Stoccol-
ma 2023, Sipri, p. 146. 91
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI
Anche alla !ne della guerra fredda i procedimenti contro gli ex dittatori mili-
tari hanno avuto raramente successo nelle cosiddette transizioni democratiche, che
avrebbero dovuto porre !ne ai regimi a partito unico e alle presidenze a vita. In
Mali, ad esempio, nel 1993 i giudici hanno emesso quattro condanne a morte con-
tro i maggiori responsabili della sanguinosa repressione delle manifestazioni che
hanno portato alla caduta della giunta di Moussa Traoré nel 1991. Ma le sentenze
non sono mai state eseguite. Dopo diversi anni di carcere, Moussa Traoré ha evi-
tato la pena di morte ed è stato graziato. Prima per i suoi crimini di sangue nel
1997, poi per l’appropriazione indebita di fondi pubblici nel 2002. Ospitato in una
grande villa a Bamako donata dal governo maliano, nel 2020 gli è stato in!ne tri-
butato un funerale di Stato.
Analogamente in Nigeria: alla !ne della dittatura del generale Sani Abacha la
commissione istituita nel 1999 sotto l’egida del giudice Chukwudifu Oputa avrebbe
dovuto ascoltare decine di migliaia di testimonianze sulle violazioni dei diritti umani
commesse durante diversi decenni di governo militare. Ma le udienze non hanno
portato a nessuna condanna e un buon numero di alti uf!ciali si è semplicemente
astenuto dal rispondere alle convocazioni. A differenza della Commissione per la
verità e la riconciliazione in Sudafrica, l’organismo nigeriano non aveva il mandato di
avviare processi o concedere amnistie. Da allora, l’elezione nel 2015 dell’ex dittatore
militare Muhammadu Buhari ha confermato l’impunità dell’esercito e degli uf!ciali
responsabili degli abusi commessi in nome della lotta contro Boko Haram. Nel 2022
la gerarchia ha poi assolto e promosso il capitano Tijjani Balarabe, che nel 2019 ha
ucciso tre poliziotti e due civili per liberare un traf!cante d’armi appena arrestato 11 .
Tra 2010 e 2020 il ritorno dei militari al potere nel Sahel ha anche rafforzato
l’impunità degli eserciti nazionali. Il Mali ne è un esempio. L’autore del colpo di
Stato del 2012, il capitano Amadou Haya Sanogo, si è autoproclamato generale men-
tre si dedicava ad accelerare il ritiro delle truppe dispiegate nel Nord, lasciando così
via libera ai jihadisti per conquistare Timbuctu e Gao. Dopo l’intervento militare
della Francia e l’elezione del presidente Ibrahim Boubacar Keïta nel 2013, Sanogo ha
scontato un periodo in prigione. Ma il suo processo non ha mai avuto esito. Nel 2020
è stato !nalmente rilasciato, con il pretesto che la proroga della sua detenzione ave-
va superato il termine legale. In seguito a un accordo tra lo Stato e le famiglie delle
sue vittime, anche le accuse contro di lui sono cadute. Nel 2019, una legge di accor-
do nazionale lo ha amnistiato e ha ripristinato i suoi diritti civili, consentendogli di
presentarsi alle elezioni se necessario. Dal colpo di Stato di Assimi Goïta nel 2021,
Sanogo è diventato di fatto l’uf!ciale più alto in grado dell’esercito maliano. Insom-
ma, una storia incoraggiante per tutti quei soldati tentati dal commettere esecuzioni
extragiudiziali, far cadere un governo eletto e saccheggiare le casse dello Stato.
In un simile contesto, non sorprende che i tentativi di riformare e professiona-
lizzare gli apparati di sicurezza nella regione siano falliti. Eletti o meno, i capi di
11. A. ADEPEGBA, S. ODENIYI, «Wadume: Military panel clears 10 soldiers, Balarabe promoted», Punch,
92 25/8/2022.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
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Stato dei paesi saheliani trovano estremamente dif!cile punire gli uf!ciali deviati
senza rischiare l’ammutinamento o addirittura la messa in stato d’accusa. L’esempio
più recente è il rovesciamento del presidente Mohammed Bazoum a Niamey nel
luglio 2023. Bazoum aveva appena cambiato il suo Stato maggiore e si stava pre-
parando a riformare l’apparato di sicurezza del Niger.
In assenza di riforme, gli eserciti della regione continuano a estorcere denaro
ai civili e a commettere massacri impunemente, lasciando che i loro miliziani svol-
gano il lavoro sporco.
12. A. AHRAM, Proxy Warriors: The Rise and Fall of State-sponsored Militias, Redwood City 2011, Stan-
94 ford University Press, p. 9.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Inoltre, la lealtà degli ausiliari civili nella lotta al terrorismo non è garantita. I
miliziani sono spesso spinti da motivazioni predatorie e agiscono sotto il control-
lo di comandanti che assomigliano a capi banda e che riescono a farsi obbedire
solo controllando l’accesso alle armi e la rivendita dei bottini di guerra.
Gli ausiliari possono avere una propria agenda politica, anche se ciò signi!ca
passare da un campo all’altro a seconda dei loro interessi del momento. Nel Pae-
se Dogon, nel Mali centrale, a partire dal 2016 la milizia Dan Na Ambassagou
(«cacciatori che con!dano in Dio») di Youssouf Toloba ha inizialmente combattu-
to per conto di Bamako e ha aperto un uf!cio nella capitale per cercare di otte-
nere il sostegno uf!ciale del presidente Ibrahim Boubacar Keïta. Una volta rielet-
to nel 2018, questi non ha però mantenuto le sue promesse. I politici del movi-
mento si sono quindi divisi e hanno fondato un proprio gruppo, chiamato Dana
Atem («difensori della tradizione»).
I miliziani faticano a respingere gli assalti dei gruppi jihadisti e a tenerli a bada
per un lungo periodo. Nonostante qualche episodio di resistenza eroica, spesso
sono costretti a fuggire quando vengono attaccati perché non hanno la potenza di
fuoco dei militari. In Burkina Faso, i Vdp non hanno impedito ai jihadisti di avan-
zare verso sud, obbligando la popolazione a fuggire nella capitale. In alcuni casi
la presenza degli ausiliari ha persino messo in pericolo la vita dei civili, poiché i
jihadisti hanno preso di mira i villaggi in cui erano schierati.
Fenomeni di tal genere sono stati osservati in Nigeria. Nella regione di Borno,
dove impazza Boko Haram, Kwaya Kusar è stata l’unica autorità locale risparmia-
ta dalle violenze, proprio perché gli uomini della Civilian Joint Task Force (Cjtf)
non vi avevano messo radici. Nel 2013 la formazione di questa milizia parastatale
ha però portato i jihadisti a compiere i primi massacri contro i civili sospettati di
collaborare con le autorità 13.
Altro effetto perverso: la mobilitazione degli ausiliari è avvenuta generalmen-
te su base comunitaria, facilitando la discriminazione, la stigmatizzazione e il re-
golamento di conti etnici 14. Oggi dalla Nigeria al Mali, passando per il Burkina
Faso e la Guinea, i social parlano di genocidio contro i fulani. Le giunte al potere
a Bamako e Ouagadougou di solito negano ogni responsabilità per i massacri di
civili. I loro sostenitori assicurano che tra loro ci sono uf!ciali fulani e che gli
stessi soldati del Burkina Faso hanno compiuto terribili rappresaglie contro un
villaggio mossi a Karma all’inizio del 2023. Resta il fatto che le azioni delle milizie
13. M.-A., PÉROUSE DE MONTCLOS, «A sectarian Jihad in Nigeria: the case of Boko Haram», Small Wars &
Insurgencies, n. 5/2016, pp. 878-895; ID., «Résilience et “miracle” en temps de crise dans le Borno: Le
cas de la collectivité locale de Kwaya Kusar», in E. CHAUVIN, O. LANGLOIS, C. SEIGNOBOS, C. BAROIN (a
cura di), Con!its et violences dans le bassin du lac Tchad. Actes du XVIIe colloque Méga-Tchad, Mar-
seille 2020, Ird, pp. 281-95.
14. Da questo punto di vista, le milizie parastatali impegnate nella lotta al terrorismo sono ben distin-
te dai gruppi di autodifesa che si formano per altri scopi, ad esempio per monitorare i siti di estrazio-
ne dell’oro artigianale ed evitare che i jihadisti si impadroniscano dei giacimenti d’oro o reclutino
combattenti tra i minatori. 95
ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI
legittimano le insurrezioni dei jihadisti, che possono così presentarsi come protet-
tori della umma, la comunità dei musulmani.
Il futuro della guerra al terrore nel Sahel si prospetta desolante. Volenti o
nolenti, i capi di Stato della regione dif!cilmente sono in grado di riformare e
controllare truppe a loro volta incapaci di limitare le atrocità dei propri miliziani.
Ciò rende le Forze armate molto poco popolari nelle zone di con"itto. Sicché i
tentativi degli Stati di esercitare il monopolio della violenza legittima sono spesso
illusori.
96
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
ticolo nel quale domandavo dove fossero !niti gli intellettuali nel Niger. Non mi
era sbagliato di molto. Mancano le persone che aiutano a leggere la realtà con
onestà, competenza e soprattutto autonomia dal potere costituito. C’è chi si è la-
sciato comprare dai politici di turno oppure ha scelto di trovare casa ideologica e
soprattutto !nanziaria per sistemarsi. Si avverte l’assenza di una visione di società
e di Africa slegata da meri interessi personali, di prestigio o pecuniari. Pigrizia in-
tellettuale, facilitata dalla «politica alimentare» di questi anni. Una seria malattia che
incide profondamente sull’innovazione dell’assetto politico. Quanto alla scarsa pro-
pensione a prendersi le proprie responsabilità, dipende anche dalla notevole ca-
renza educativa che da sempre marca negativamente il paese.
LIMES La simpatia per la Russia è effettiva? Se sì, su che cosa si fonda? Tracce di
Wagner?
ARMANINO Finora la Russia era una perfetta sconosciuta, a parte qualche studente
o militare d’altri tempi. Evidentemente le notizie corrono e così le ripicche, soprat-
tutto nei confronti degli inquilini precedenti, Francia e Stati Uniti (in minore misu-
ra). Eppure un certo numero di militari golpisti ha frequentato scuole di formazio-
ne proprio negli Stati Uniti! Mi viene da sorridere quando vedo le bandierine
della Russia, mescolate ad altre dei paesi limitro! amici. Una novità dovuta agli
avvenimenti del dopo-golpe e alle minacce di intervento armato della Comunità
economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao nell’acronimo francese o
Ecowas in quello inglese). Ciò ha spinto venditori, partecipanti ai cortei di appog-
gio ai militari e persino tassisti a esibire la bandiera della Russia che nessuno co-
nosceva prima.
LIMES Che cosa è cambiato, se è cambiato, nella vita quotidiana a Niamey dopo il
26 luglio?
ARMANINO I ritmi di ricerca del pane quotidiano sono gli stessi ma ulteriormente
esacerbati da interruzioni della luce più frequenti e prolungate di prima. L’aumen-
to dei prezzi dei generi alimentari, la chiusura delle frontiere e il diffuso sentimen-
to di incertezza, a volte misto a timore, per l’eventuale intervento armato dall’ester-
no, contribuiscono a complicare la vita dei nigerini. È cambiato anche il contesto,
che da un certo punto di vista ha liberato un discorso pubblico rimasto per un
certo tempo come sequestrato dal potere che la «comunità internazionale» chiama
«legittimo». Un’opportunità che, stranamente, ha riaperto porte e !nestre di un di-
battito più democratico in parte della società. A lungo andare, però, se non si tro-
veranno sbocchi negoziali alla crisi, la gente si stancherà e si potrebbero pro!lare
rischi di violenza su innocenti.
LIMES Quanto è forte il sostegno alla giunta?
ARMANINO Specie fra i giovani sembra forte. La caduta di Bazoum ha innescato una
speranza di cambiamento che il torpore politico diffuso in questi anni aveva seda-
to. Anche in ambito sindacale, in parte della società civile e fra gli universitari ci si
è schierati dalla parte dei militari golpisti. Per convinzione o convenienza è dif!ci-
le dire, ma è certo che oggi il paese è marcato da divisioni politiche interessanti.
100 Anche in questo ambito bisognerà leggere il fenomeno sulla media e lunga durata.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
L’entusiasmo di alcune fasce popolari potrebbe col tempo scemare e dare spazio a
inedite avventure, segnate dall’incertezza.
LIMES Chi si oppone più fortemente ai golpisti?
ARMANINO Si deve notare la scontata condanna del golpe a opera della «comunità
internazionale», della citata Cedeao (meglio, parte di essa), e naturalmente del
partito maggioritario che ha guidato il paese negli ultimi dodici anni. Si oppone
chi aveva interessi da difendere garantiti dal regime o coloro per i quali le cose
andavano bene così com’erano. Per una parte del popolo, prevale un senso di
attesa che si potrebbe tradurre in un «vediamo come va a !nire». Non dimentichia-
mo che si tratta del quinto golpe in 63 anni d’indipendenza del paese, dunque uno
ogni decennio circa. Sembra che i militari siano parte integrante del gioco politico
nigerino!
LIMES Che ci stanno a fare i nostri soldati lì? Ci parla ogni tanto? Come si sentono?
ARMANINO Avevo scritto una lettera aperta di dissenso ai parlamentari italiani, pub-
blicata dal quotidiano Avvenire, al momento di decidere sulle missioni militari ita-
liane in Niger. Scrivevo testualmente che l’Italia, per rispetto della sua costituzione,
dovrebbe favorire un metodo di cooperazione compatibile con la scelta del ripudio
della guerra. Certo i militari italiani sono qui per formare militari nigerini. E per
farsi accettare e benvolere offrono regali a orfanatro! e scuole… Confermo una
volta di più la mia opposizione a ogni tipo di presenza militare qui: non è ciò di
cui il popolo abbisogna! La cooperazione italiana col Niger si è articolata in settori
interessanti come l’agricoltura e il decentramento amministrativo. Col tempo e con
l’accresciuta importanza geopolitica del Niger si è arrivati alla creazione dell’amba-
sciata italiana, la prima nel Sahel. È cresciuta la collaborazione in ambito militare e
il controllo della mobilità dei migranti in direzione del Nord Africa. Il contingente
italiano sul posto, inferiore alle 300 unità, ha una base militare presso l’aeroporto
della città. I nostri soldati sono spesso ospiti dell’Hotel Bravia di Niamey. Sono
poco visibili e danno meno nell’occhio dei militari francesi. Devo riconoscere che
il contatto con loro non è per me una priorità.
101
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
SOTTO LA PELLE
DEL GOLPE di Luca RAINERI
L’atipico putsch di luglio non origina da Agadez, epicentro della
consuetudine golpista nigerina. Il petrolio e il malcontento nelle
Forze armate contano più dell’uranio e dell’irredentismo tuareg.
Il ruolo dell’ex presidente Issoufou. L’alleanza tra Tchiani e Modi.
dei tuareg, mandando in sof!tta la prospettiva della lotta armata. Un tuareg, Birgi
Ra!ni, ha ricoperto la carica di primo ministro durante il duplice mandato del
presidente Mahamadou Issoufou. Molti ex ribelli hanno trovato collocazione nei
neonati enti locali e regionali, altri sono stati cooptati in organi consultivi parasta-
tali. E dal 2021 l’avvicendamento alla presidenza di Bazoum, che pure è di ascen-
denza araba e non tuareg, è stato salutato con generale favore dalla popolazione
di Agadez in quanto rappresentante dei peaux clairs, le etnie considerate «bian-
che» minoritarie nel paese.
Parallelamente, la centralità dell’uranio nell’economia politica del paese è eva-
porata. Dopo il picco del 2007, il commercio mondiale di questo metallo si è dra-
sticamente ridimensionato a seguito del disastro di Fukushima del 2011, senza più
riprendersi. Nel 2013 l’attentato messo a segno da al-Qå‘ida nel Maghreb islamico
alle miniere di uranio francesi nella regione di Agadez ha costretto il colosso Areva
(oggi Orano) a un dispendioso incremento delle misure di sicurezza. L’accesso ai
mercati internazionali è inoltre sempre più ostacolato dall’assenza di adeguate in-
frastrutture di trasporto che servano i remoti siti di estrazione nelle profondità
sahariane. I donatori internazionali si sono dimostrati riluttanti a !nanziare l’ammo-
dernamento della rete viaria della regione di Agadez per timore che avrebbe favo-
rito il rischio di nuovi attentati e agevolato i "ussi migratori verso il Mediterraneo.
La concomitanza di costi crescenti di gestione e margini decrescenti di pro!tto ha
messo in discussione la convenienza del ricorso all’uranio nigerino. Numerose mi-
niere sono oggi sottoutilizzate e dal 2018 centinaia di dipendenti della !liale nige-
rina di Orano sono in cassa integrazione. In cambio, la Francia ha incrementato le
forniture uranifere da produttori meno onerosi quali Kazakistan, Canada e Austra-
lia, con!nando a un ruolo subalterno quelle di Agadez.
4. Il legame fra la disputa sulla gestione opaca del petrolio nigerino e il colpo
di mano di Tchiani rimane una congettura seducente, persino plausibile. Ma non
dimostrabile. S"dano un’interpretazione rigidamente schematica anche la sconfes-
sione del golpe da parte di Issoufou padre – seppure tardiva – e la successiva de-
tenzione di Issoufou "glio da parte dei golpisti – seppure piuttosto blanda. Una
ricostruzione lineare delle contingenze è forse inattingibile, ma importa comunque
meno che identi"care i vettori di fondo della crisi nigerina. In questa prospettiva è
lecito ipotizzare che se la contesa riforma del settore petrolifero ha precipitato la
situazione in Niger, tale dinamica si sia intrecciata con i soggiacenti attriti che co-
vavano da mesi negli apparati militari.
Nell’ultimo decennio, in effetti, il settore della sicurezza nigerino è stato co-
stretto a far fronte alle pressioni contrapposte e correlate dei gruppi jihadisti alle
frontiere e dei partner internazionali (occidentali) che esigevano riforme strutturali. 105
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE
seno alle Forze armate. Disegno che, se realizzato, rischierebbe di ravvivare le ten-
sioni etniche mai sopite in Niger. A farne le spese sarebbe in primo luogo la regio-
ne di Agadez, che rischia di subire i contraccolpi di una sommaria identi!cazione
con il regime di Bazoum in nome dell’ampio sostegno politico tributatogli nelle
elezioni del 2021 e di una supposta solidarietà etnica dei peaux clairs. L’eventuale
polarizzazione fra Agadez e le nuove autorità di Niamey rischierebbe peraltro di
saldarsi ad altri fronti caldi nella regione, alimentando instabilità su ampia scala.
Nel vicino Mali, il ritiro della missione di pace Onu imposto dalla locale giunta
militare rischia di far de!nitivamente saltare il già precario processo di pace fra il
governo di Bamako e i ribelli tuareg. In agosto, le prime partenze dei caschi blu
non hanno mancato di provocare schermaglie fra esercito maliano e gruppi arma-
ti (ex?) ribelli. Una convergenza dei fronti insurrezionali tuareg in Mali e in Niger si
è già veri!cata in passato, per quanto in maniera ef!mera. E se nell’ultimo decen-
nio l’uscita di scena di Ghedda! ha privato le ambizioni dei tuareg di un potente
catalizzatore, non è da escludere che dal polverone del (dis)ordine internazionale
odierno possa emergere un nuovo sponsor.
107
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE
F E Z Z A N
R
A L G E R I A A
G
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A
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A
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n'Aj Madama
s ili
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Té n e r é T I B E S T I
A G A D E Z
1.800 m
Assamakka Arlit A Ï R
1.874 m Fachi
M A L I Agadez Giacimento
Tassara di Agadem
(Permesso di sfruttamento
Gao Tchintabaraden N I G E R concesso alla Cnodc cinese)
TAHOUA C I A D
Tahoua ZINDER
TILLABÉRI
MARADI DIFFA Lago Ciad
NIAMEY Zinder
Maradi
DOSSO
BURKINA
FASO N’DJAMENA
N I G E R I A
BENIN
Siti auriferi del Niger CAMERUN
Tra!co di armi dalla Libia e oltre
TOGO
all’oro e una drastica crescita del brigantaggio. Dopo poco più di tre anni la pro-
pagazione degli episodi di violenza ha costretto Niamey a chiudere il sito. Il prin-
cipale giacimento in attività è quello di Tchibarakaten, collocato al con!ne con
l’Algeria, nel Sahara profondo, a quasi tre giorni di viaggio dall’insediamento più
vicino. Col tempo, in questo improbabile af!oramento roccioso si sono stabilite
decine di migliaia di persone, tra cui !gurano ex ribelli tuareg, cercatori di fortuna
e migranti alla ricerca di denaro per !nanziare la traversata del deserto. Oggi l’oro
rappresenta di gran lunga il principale bene d’esportazione del Niger (2,7 miliardi
di dollari, equivalenti al 71,4% del totale).
C’è quindi l’uranio, metallo impiegato come combustibile nei reattori nucleari,
collocato perlopiù nel bacino di Tim Mersoï, uno dei maggiori depositi al mondo.
Per incontrare gli immensi giacimenti a cielo aperto che rendono il Niger uno spa-
zio di valore inestimabile occorre spingersi a nord del paese, oltre il massiccio 109
SOTTO LA PELLE DEL GOLPE
CROCEVIA AGADEZ L I B I A
Rotte tradizionali della migrazione
Rotte informali aperte dopo il 2015
A L G E R I A
Ramo della rotta per le coste algerine
Madama
Ramo della rotta per le coste libiche
Sedi dell’Oim
Principali campi o zone d’accoglienza
per i rifugiati o gli sfollati interni A G A D E Z
Séguédine
Assamakka Achegour
Arlit Dirkou
Fachi
M A L I
Agadez N I G E R
Agadem
TAHOUA DIFFA
ZINDER
Tabareybarey Mangaïzé Tahoua
Abala Tanout
N’guigmi
TILL ABÉRI
Tillabéri MARADI
Zinder Lago Ciad
NIAMEY Di!a
Maradi
Dosso
DOSSO C I A D
BURKINA
FASO
N I G E R I A
BENIN
dell’Aïr, in prossimità della città di Arlit. I principali depositi sono Arlit, Akouta e
Imouraren e si estendono lungo una faglia che procede in direzione longitudinale,
dividendo in due sezioni geologiche la regione amministrativa di Agadez.
Qui a partire dagli anni Settanta l’azienda francese Areva (denominata Orano
nel 2018) ha avviato le proprie operazioni di lavorazione ed estrazione. Un’attività
che col tempo ha contaminato l’aria, l’acqua e il terreno di tutta la zona. Oggi questo
quadrante brullo, tribolato dalla presenza capillare di banditi e traf!canti di droga, è
classi!cato con il colore «rosso» dalla diplomazia di Parigi e costituisce uno dei fulcri
del sentimento antifrancese ormai diffuso in tutto l’arco della fascia subsahariana.
Orano detiene un controllo pressoché monopolistico sui depositi della regio-
ne. Tutte le miniere in concessione sono collocate nel raggio di poche decine di
chilometri da Arlit, nei siti di Aïr, Akokan e Imouraren. I circa 1.300 soldati che
Parigi ha concentrato in Niger hanno anche l’incarico di garantire la protezione
delle località dove si effettua l’estrazione di uranio.
Per alimentare i 56 reattori delle 18 centrali nucleari francesi, l’operatore
110 Électricité de France (Edf) necessita ogni anno di circa 8 mila tonnellate di uranio
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Verso
l’Europa
A G A D E Z
M A L I Assamakka
Kidal
Fachi
2
N I G E R Agadem
Agadez
Gao TAHOUA
Aderbissinat DIFFA
TILL ABÉRI ZINDER C I A D
1 MARADI Lago Ciad
NIAMEY Zinder Di!a
DOSSO
BURKINA
FASO N I G E R I A
BENIN
1 Con!sca di 17 tonnellate di hashish, per un
Rotta dell’hashish e della cocaina valore stimato di 37 mln di $, in un magazzino
Rotta del tramadolo di Niamey - marzo 2021
Con!ni regionali 2 Arresto, in una zona desertica, del sindaco di
Fachi trovato in possesso di oltre 200 kg di
Scontri collegati al tra"co di stupefacenti cocaina nel proprio veicolo - gennaio 2022
sicurezza con Mosca. Tuttavia, negli ultimi cinque anni la Russia si è imposta come
principale venditore di armi nell’Africa subsahariana, con una quota di mercato del
26%. Ci sono pochi dubbi che approfondire l’in!uenza russa a Niamey rientri nella
grande strategia del Cremlino per la fascia saheliana.
Quanto alla Cina, negli ultimi vent’anni ha puntato con decisione sul Niger,
"no a diventare il suo secondo maggiore investitore estero dopo la Francia. Nel
settembre 2019, PetroChina ha stipulato un accordo con il governo di Niamey per
la costruzione di un oleodotto di 2 mila chilometri tra il giacimento nigerino di
Agadem (di cui controlla la produzione) e il centro portuale di Cotonou, in Benin.
Inoltre, probabilmente non è un caso che negli ultimi mesi i dirigenti cinesi abbia-
no iniziato a valutare la ripresa dell’estrazione di uranio ad Azelik, una miniera
abbandonata nel 2015 a causa delle sfavorevoli condizioni di mercato.
Non si può prevedere con certezza quale posizione assumerà la nuova giunta
militare a Niamey. Indubbiamente, molto dipenderà da come si intersecheranno gli
interessi delle potenze esterne. La Francia osserva inerme lo sgretolarsi di quel
poco che restava del suo impero. Gli Stati Uniti intendono contenere l’espansione
di Russia e Cina in uno degli ultimi baluardi "lo-occidentali della regione. Altri at-
tori – su tutti Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti – scalpitano ai margini. Una
sola cosa è certa. Il Niger, eccezionale snodo logistico e bacino di preziose risorse,
fa gola un po’ a tutti.
112
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
L’ECOWAS
SECONDO LA NIGERIA di Carlo Alberto CONTARINI
Abuja manovra l’organizzazione economica per proiettare nuove
ambizioni regionali, ma è preda delle sue spaccature interne e
dell’ascendente francese. La chiusura della frontiera con il Niger
dopo il golpe destabilizza lo storico legame tra i due paesi.
Fiu
BOKO HARAM m
(scissione in due fazioni) e Lago Ciad
Ni
45.402 Ngoubova
ger
Provincia Ğamā‘at ahl KATSINA Malam
dell'Africa al-sunna SOKOTO Fatori
occidentale li-l-da‘wa ZAMFARA 121.434 J IG AWA
YOBE
L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA
KEBBI 1.603.044
dello Stato Islamico wa-l-Ğihād 112.316 KANO B OR NO
(Iswap) (Jas)
A!liato Agenda 50.676 143.759
allo Stato Islamico più locale
collegato alla (1.500 - 2.000 KADUNA
89.629 BAUCHI GOMBE
fascia saheliana miliziani)
Incursioni Iswap 66.062 39.532
NIGER
Iswap
N I G E R I A ADAMAWA
BENIN Fi
um PLATEAU
Presenza permanente e Nige 209.252
r
nella foresta di Alagarno ABUJA 20.059 84.979
KWARA NASSARAWA TARABA Maggiori gruppi
Roccaforte (Lago Ciad) OYO
88.594 linguistici nigeriani
Assalto alla base militare CAMERUN
EKITI KOGI (115.695)
di Malam Fatori OSUN BENUE 204.103
Hausa e fulani
(Islamici sunniti
Unità militare ciadiana OGUN ONDO circa 55 milioni di persone)
attaccata EDO ENUGU
TOGO s LAGOS EBONYI Kanuri
GHANA La
go ANAMBRA (Islamici con culti tradizionali
CROSS circa 5 milioni di persone)
DELTA IMO ABIA RIVER
Yoruba
AKWA 121.434 (Cristianesimo, islam
BAYELSA RIVERS IBOM e religione yoruba
Numero sfollati in proporzione circa 40 milioni di persone)
Flussi di rifugiati nigeriani ABUJA (659)
171.974 Numero di rifugiati nei paesi con!nanti LAGOS (2.710) Edo
(Lingua parlata da circa
2.150.243 Numero di sfollati in Nigeria 5 milioni di persone)
Fonte: Unhcr
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
2. Nata nel 1975 con il trattato di Lagos, l’Ecowas ha come principali obiettivi
la promozione dell’autosuf!cienza economica e l’integrazione dei 15 paesi mem-
bri, da perseguire anche tramite l’istituzione di un mercato unico e di una moneta
comune entro il 2025. Trainata in origine da ambizioni principalmente economi-
che, l’organizzazione con sede ad Abuja ha acquisito nel corso degli anni una di-
mensione sempre più politica. La salvaguardia della democrazia e dell’ordine co-
stituzionale sono infatti tra i moventi addotti a giusti!cazione dell’intervento milita-
re nella guerra civile liberiana, in Mali nel 2012 e in Gambia nel 2017. Nei recenti
colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Guinea l’Ecowas ha invece dimostrato di sa-
per dosare le proprie forze, limitandosi all’imposizione di sanzioni e alla sospen-
sione dei tre paesi dalla comunità. Le dif!coltà incontrate nella gestione degli ultimi
tre casi hanno tuttavia sollevato non pochi dubbi sul suo ruolo di garante demo-
cratico della regione, nonché sulle sue capacità di governare i complicati equilibri
geostrategici dell’Africa occidentale.
Il putsch a Niamey dello scorso 26 luglio ha segnato un radicale cambio di
passo nell’approccio regionale dell’Ecowas. A guidare il nuovo indirizzo è il neoe-
letto presidente nigeriano Bola Tinubu, che nel vertice di Abuja del 10 agosto e
nell’incontro ad Accra con le autorità militari del 17 e 18 agosto ha dato prova di
volersi smarcare dalla linea della precedente presidenza. Tinubu intende servirsi
dell’Ecowas come vettore per ripristinare l’in"uenza della Nigeria, che esprimendo
il 50% della popolazione e il 60% del pil dell’insieme degli Stati membri è sempre
stata la potenza dominante dell’organizzazione, anche da un punto di vista milita-
re. Abuja ha ricoperto in passato un ruolo centrale sulla scena internazionale, che
tuttavia si è ridimensionato a partire dagli anni Duemila. Oggi Tinubu mira a rista-
bilire tale egemonia ergendosi a garante dell’ordine regionale e brandendo il pu-
gno di ferro contro il governo golpista di Niamey, !no a pro!lare la possibilità di
un intervento militare.
BENIN
N I G E R I A
GHANA
F. ABUJA
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TOGO
Benin City
REPUBBLICA
PO tono
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CENTRAFRICANA
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119
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
IL PUTSCH IN GABON
E IL TRAMONTO
DELLA FRANÇAFRIQUE di Benoît BARRAL
Libreville era un pilastro dell’influenza francese in Africa. Il golpe non
è contro l’Occidente né istigato dai russi, bensì un segno della fine
di quel sistema di potere. Con la sua influenza in calo sin dal 2009,
Parigi accetta a denti stretti la caduta di un regime sclerotizzato.
1. F. BLANC, «Le Gabon: une stabilité réelle mais fragile», Con!its, 8/7/2021. 121
IL PUTSCH IN GABON E IL TRAMONTO DELLA FRANÇAFRIQUE
2. L’ipotesi numero uno è dunque che l’iniziativa del putsch sia venuta sempli-
cemente dal capo della Guardia presidenziale, potenzialmente incitato dalla con-
correnza in seno al clan Bongo. Sarà interessante osservare se Omar Denis Junior
Bongo, in con"itto con Ali e Noureddin Bongo, otterrà un incarico importante al
governo nel prossimo futuro.
Se il colpo di Stato ha funzionato dopo alcuni tentativi falliti, come ad esempio
quello del 7 gennaio 2019 da parte di alcuni uf!ciali rapidamente bloccati dalle
forze di sicurezza, lo si deve a diversi fattori.
Anzitutto la tempistica. Il golpe si è veri!cato subito dopo le elezioni presiden-
ziali il cui risultato si apprestava a essere criticato, come di consueto, dall’opposizio-
ne e nelle strade. Bisogna sapere che dal voto del 2009, che secondo gli oppositori
sarebbe stato vinto da André Mba Obame, Ali Bongo è un capo di Stato contestato.
Nel 2016, per permettergli di sopravanzare Jean Ping, è stato necessario gon!are i
risultati nella provincia dell’Alto Ogooué, il suo feudo. Nel 2023 la consultazione
elettorale è stata organizzata senza la presenza di alcun osservatore internazionale
accreditato e senza concedere alcun visto a giornalisti stranieri. I servizi di France 24,
R! e Tv5 Monde, molto seguiti dalla popolazione locali, sono stati sospesi. Così, i
putschisti – pardon, il «Comitato di transizione e di restaurazione delle istituzioni» – si
sono potuti presentare come guardiani della democrazia, annunciando che «la costi-
tuzione è stata violata, le stesse modalità elettorali non sono state eque. L’esercito ha
deciso di voltare pagina, di prendersi le proprie responsabilità».
La Guardia presidenziale, apparente mente dell’operazione di detronizzazione,
si è inoltre curata di mostrare l’unità delle Forze armate. Già il 26 agosto, quattro
giorni prima del golpe, il politico di spicco Ondo Ossa avvertiva Bongo che aveva
perso la fedeltà sia dell’esercito sia della Guardia. I putschisti si sono premurati di
associarsi, nella prima dichiarazione televisiva, a rappresentanti delle truppe rego-
lari e della polizia.
In seguito, i golpisti hanno presentato le loro azioni come un’operazione con-
tro la corruzione, ciò che permette loro di giocare sull’esasperazione popolare di
fronte al nepotismo dei potenti e di arrestare i guardiani vicini ad Ali per motivi di
«deviazione massiccia delle !nanze pubbliche». Il tutto benché lo stesso generale
Brice Oligui Nguema sia stato pizzicato per aver comprato tre proprietà in Maryland
nel 2015 e nel 2018 con un milione di dollari in contanti.
Nessuno si straccia le vesti per salvare un regime la cui corruzione è largamen-
122 te nota alla popolazione e documentata da decenni – i famosi «biens mal acquis»,
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
3. Parigi non è comunque al riparo dalle accuse di aver lasciato mano libera
ai golpisti. Anzitutto, i detrattori ritengono che i suoi servizi d’informazione esterna
siano stati messi a conoscenza di un progetto di colpo di Stato. Inoltre Ali Bongo,
non difeso dai parigini in occasione dell’elezione truccata del 2016, non aveva
solo messo i bastoni tra le ruote a diverse imprese francesi ma aveva operato un
avvicinamento ad altri partner internazionali. Fra cui il Marocco, dove è stato for-
mato il generale Nguema, presso l’Accademia militare reale di Meknès.
In ogni caso, la tempistica del golpe in Gabon è pessima per l’esecutivo fran-
cese, che giusti"cava il braccio di ferro con le nuove autorità nigerine con la volon-
tà di non legittimare altri colpi di Stato in Africa ed evitare un contagio. L’impossi-
bilità di mettersi d’accordo su questo punto con gli Stati Uniti, che hanno rinuncia-
to al ripristino di Bazoum a Niamey, dà ragione ai putschisti che sanno di poter
giocare sulla concorrenza tra le grandi potenze, indebolendo ulteriormente la po-
sizione della Francia in Africa.
Il Gabon è stato il cuore della Françafrique, assieme a Gibuti, Costa d’Avorio
e Senegal. Dalla sua indipendenza, è stato sempre considerato come pilastro
dell’in#uenza francese in Africa, in particolare durante la lunga presidenza di
Omar Bongo (1967-2009). È uno dei paesi del continente in cui la presa dell’ex
potenza coloniale è più forte, grazie a diverse imprese come la già citata Eramet,
Total, Veolia; a decine di migliaia di espatriati; e soprattutto a una base perma-
nente che ospita circa quattrocento militari in maniera continuativa. La Francia
ha sostenuto in diverse occasioni il clan dei Bongo permettendogli di mantenere
2. «Gabon: la justice française reconnaît l’État comme victime dans le dossier des “biens mal ac-
quis”», Tv5 Monde, 15/3/2023. 123
IL PUTSCH IN GABON E IL TRAMONTO DELLA FRANÇAFRIQUE
LE AFRICHE
GIOCANO PER SÉ di Luciano POLLICHIENI
Soggettivismo: così il dibattito africano designa l’attitudine
all’autonomia strategica dalle grandi potenze, vecchie e nuove.
Il ruolo dei paesi leader, dal Senegal al Kenya. L’Occidente annaspa,
irretito dai suoi schemi. Turchia e paesi del Golfo plaudono.
C’è la sensazione, soprattutto tra i giovani, che sia
arrivato il momento di far valere le loro condizioni.
C’è la sensazione che sia il nostro momento.
Lesley Lokko (2023)
1. M. BUHARI, «Muhammadu Buhari: How not to talk with Africa about climate change», The Washin-
gton Post, 9/11/2022.
2. M. MGUNI, T. BIESHEUVEL, «De Beers Loses More Diamonds to Botswana in Last Minute Deal», Bloom-
berg, 1/7/2023. 125
LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ
manti ogni anno) alla compagnia di Stato botswana, Okavango Diamond Com-
pany. Tuttavia, le autorità del Botswana stanno lavorando a un nuovo accordo che
garantirà loro il diritto di trattenere il 50% dei diamanti estratti dal sottosuolo del
paese nei prossimi vent’anni. Il segretario permanente del presidente, Emma Pelo-
etlets, ha dichiarato: «Ci prenderemo [quote maggiori] gradualmente. Se lo facessi-
mo subito, senza un piano appropriato per la vendita dei diamanti, il prezzo di
mercato crollerebbe. Ma ci siamo detti che non faremo trascorrere altri dieci anni
senza raggiungere il 50%» 3.
A maggio 2023 il presidente della Repubblica Democratica del Congo (RdC),
Félix Tshisekedi, ha compiuto una visita di Stato in Cina 4. A prima vista, nulla di
nuovo: le relazioni tra Kinshasa e Pechino sono solide, la Repubblica Popolare è
da un decennio il principale investitore nelle miniere e nelle infrastrutture della
RdC. Ma le "nalità di Tshisekedi fanno della visita un potenziale spartiacque. Il "ne
ultimo, infatti, era rinegoziare il cosiddetto accordo del secolo 5, "rmato dal prede-
cessore Joseph Kabila. L’intesa garantisce a Pechino un ruolo egemonico nello
sfruttamento delle risorse minerarie congolesi, in cambio di nove miliardi di dolla-
ri d’investimenti cinesi nelle infrastrutture locali. Kinshasa non nasconde la propria
insoddisfazione: investimenti parziali, violazione di diverse clausole, malversazioni
"nanziare. La visita di Tshisekedi non ha (ancora) portato a una rinegoziazione,
soprattutto rispetto alle aspettative congolesi di ottenere la maggioranza delle quo-
te di sfruttamento, ma a luglio il colosso minerario Cmoc ha accettato di sborsare
due miliardi di dollari per regolare la disputa sullo sfruttamento della miniera di
Tenke Fungurume 6, tra i maggiori giacimenti di cobalto e rame del pianeta. Secon-
do l’impresa nazionale congolese, Gécamines, i cinesi avevano mentito sul quanti-
tativo di minerali presenti nel sito e dunque omesso di pagare 7,5 miliardi di dol-
lari in royalties.
Cosa lega questi tre eventi? L’emergere di un’agenda e di interessi nazionali
degli Stati africani. La presenza, in altri termini, di un soggettivismo africano. Men-
tre la guerra in Ucraina mette "ne alla pace in Europa, mentre Stati Uniti e Cina
ingaggiano uno scontro multiforme nel Paci"co, le nazioni africane sono impegna-
te in uno sforzo – occasionalmente collettivo – per rivedere i rapporti di forza con
il resto del mondo in maniera per esse più vantaggiosa. Fulcro di questo processo
è lo sfruttamento delle contraddizioni e delle crisi sistemiche negli equilibri geopo-
litici mondiali, culminate (per ora) nella guerra ucraina. Scopo dell’attuale sogget-
tivismo africano è trasformare gli attori del continente da oggetto passivo dei rap-
porti geopolitici con le medie e grandi potenze a soggetto attivo sullo scacchiere
mondiale, con obiettivi e piani propri. Questa dinamica è destinata a in#uenzare
scontri e agende delle potenze extracontinentali nel prossimo futuro. In parte, lo
sta già facendo.
3. Ibidem.
4. «DRC’s Tshisekedi set for China visit, minerals trade deal in the of"ng», The East African, 22/5/2023.
5. «RDC-Chine: comment Kinshasa veut reprendre en main ses ressources», Le Point Afrique, 30/5/2023.
6. M. BURTON, «China’s CMOC Strikes $2 Billion Deal to End Congo Mining Dispute», Bloomberg,
126 18/7/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
16. J. NYABIAGE, «Chinese weapons supplier Norinco expands in!uence in West Africa, challenging
Russia and France», South China Morning Post, 21/8/2023.
17. «Macky Sall: “Nous ne pouvons pas accepter les coups d’État”», R!, 8/12/21.
18. Cfr. M. PLAUT, S. VAUGHAN, Understaning Ethiopia’s Tigray War, London 2023, Hurst Publishers.
19. «Ethiopia Transport Minister arrives in Somaliland to look at more options for Ethiopia», The Horn
Diplomat, 9/8/2023.
20. «Ethiopian PM Abiy Ahmed unveils plans to secure port access by negotiation or by force», The
Horn Observer, 23/7/2023.
21. C. CLAPHAM, Africa and the International System. The Politics of State Survival, Lancaster 1996,
Cambridge University Press 129
LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ
déra ha subappaltato la gestione della forza al Gruppo Wagner e alle Forze armate
ruandesi. Oppure del Sud Sudan, che fa i conti con un variegato panorama interno
di milizie parastatali: dopo aver normalizzato i rapporti con Khartûm, sono af!orate
tutte le debolezze di Juba, culminate nella lotta tra il presidente Salva Kiir Mayardit il
suo vice Riek Machar.
Altro esempio il Ciad, paese di potenziale rilevanza strategica data la posizione
geogra!ca 22, feudo della famiglia Déby e storicamente tra gli Stati africani più di-
pendenti dalle relazioni con Parigi. La geopolitica ciadiana rimane ancorata al
principio di vendere l’uso del proprio esercito in cambio di protezione esterna per
il regime al potere. Logica diventata, se possibile, ancora più stringente dopo il
trauma della caduta di Ghedda!: il propagarsi delle crisi lungo tutti i con!ni – l’in-
stabilità saheliana a ovest, centrafricana a sud, libica a nord e ora sudanese a est
– ha reso N’Djamena ancora più dipendente dal supporto esterno.
130 22. M. DEBOS, «La France au Tchad, l’opération militaire permanente», in T. BORREL ET AL., L’Empire qui
ne veut pas mourir. Une Historie de la Françafrique, Paris 2021, Seuil.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
131
LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ
7XWWDYLDOōDQDOLVLFRVWLEHQHƓFLHODFRQWH]]DVWRULFDVRQRQHFHVVDULPDLQVXIƓ-
cienti per cogliere a pieno le posizioni di ogni Stato. L’Egitto per esempio vota
a favore in tre occasioni su quattro. Per citare attori diversi da quelli menzionati,
il Gabon condanna l’aggressione contro l’Ucraina e l’annessione dei territori
occupati, però si esprime contro l’esclusione della Russia dall’Unhrc e si astiene
VXOODULVROX]LRQHSHUODmSDFHWRWDOHJLXVWDHGXUDWXUD}/RVWHVVR.HQ\DVFHJOLH
GLDVWHQHUVLVXOODULVROX]LRQH(6&RQLOVXRSDUDOOHOLVPR.LPDQLFLULFRUGD
che la memoria del colonialismo incide nell’oscillazione dei paesi africani tra
Occidente – maggiore sponsor delle risoluzioni – e Federazione Russa (nonché
tra Stati Uniti e Cina).
,QƓQHPROWLJRYHUQLDIULFDQLDQFKHVHYLFLQLDJOL8VDHDLVXRLDOOHDWLQRQYH-
dono la guerra come una minaccia globale, né per i loro interessi nazionalib.
In caso di divergenza di interessi, anche l’astensione può rivelarsi utile. L’afri-
canista Ronak Gopaldas si spinge oltre: l’astensione è una presa di posizione
che implica la propria capacità d’azione indipendente, libera dal paternalismo
occidentaleb.
Sebbene le decisioni delle sessioni speciali di emergenza siano simboliche in
TXDQWRQRQYLQFRODQWLODIRWRJUDƓDRIIHUWDGDOOō$VVHPEOHD*HQHUDOHRIIUHGXH
VSXQWL3ULPRVXJJHULVFHFKHOōHQIDVLVXOOōLQŴXHQ]DUXVVDLQ$IULFDªHVDJHUDWD
Il favore di cui gode il Cremlino non è incondizionato. Il peso geopolitico russo
GLSHQGHGDOODVXDFDSDFLW¢GLLQŴXHQ]DUHOH«OLWHSROLWLFKHORFDOLHLQDOFXQLFDVL
GLFRRSWDUOHLQUDSSRUWLFOLHQWHODUL3X´WUDUQHEHQHƓFLIDFHQGROHYDDQFKHVX
una propaganda che offre ai governi africani la percezione di essere conside-
rati. Ma il suo soft power (poco soft) è limitato. Secondo, per molti Stati africani
astenersi è scelta razionale, coerente ai princìpi del Movimento dei paesi non
allineati. Ed è un segnale sia all’Occidente sia alla Russia: non siamo disposti a
fare da pedine nel vostro scontro e a subirne in silenzio le conseguenze.
QUO VADIS
AFRICA? di Giulio ALBANESE
L’afropessimismo di maniera non riscatterà il continente. Serve
invece un approccio concreto al nodo del debito africano, prodotto
di anni di politiche economiche neocoloniali. La scommessa della
crescita demografica e la proposta della Santa Sede.
rivalità internazionali (particolarmente in questa stagione segnata dalla crisi del mul-
tilateralismo) è perché esso viene percepito dai mercati come terra di conquista.
Si tratta di una vulnerabilità che accresce costantemente l’insofferenza delle
masse africane. L’azione predatoria, come ha ricordato papa Francesco in occasio-
ne della sua recente visita a Kinshasa, ha fatto sì che il continente fosse razziato
delle sue immense ricchezze. «Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Con-
go, giù le mani dall’Africa!», ha esclamato il ponte!ce. «Basta soffocare l’Africa: non
è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Questo «colonialismo eco-
nomico» – nelle parole del papa – che viene spesso perpetrato con la complicità
dei locali è un fenomeno di lunga durata. Una simile merci!cazione della condi-
zione umana rappresenta, nella cornice della globalizzazione, un peggioramento
rispetto al passato. Il colonialismo tradizionale di per sé non era reductio ad unum,
ma piuttosto governo delle differenze, spesso con modalità coercitive e violente. Il
neocolonialismo ha annullato ogni genere di varietà, producendo unicamente alte-
rità. Un fenomeno che non solo ha determinato una sempre maggiore parcellizza-
zione dell’Africa in aree d’interesse, ma ha anche acuito le divisioni interne fomen-
tando l’etnicismo. Meglio sarebbe, come suggerisce Sophie Chautard nel suo saggio
La géopolitique, parlare di aree culturali, che corrispondono a spazi a geometria
variabile dotati di un tessuto comune e di valori condivisi, in cui i simboli sono di
volta in volta la lingua, la religione, gli stili di vita, un certo progetto nazionale o
comunitario, e in cui i con!ni non dividono ma sono zone di sovrapposizione.
Sono ben noti i drammi provocati dagli scontri etnici che in questi anni hanno in-
sanguinato vasti settori dell’Africa subsahariana. A questo si è aggiunto il fallimen-
to delle ideologie terzomondiste e la loro sostituzione con il falso mito dell’identità,
il quale ha favorito divisioni che sono state convalidate dalle burocrazie locali e
sfruttate dalle forze esterne per i propri !ni.
PAESE % PAESE %
Eritrea 146,32 Burkina Faso 57,96
Capo Verde 120,18 Liberia 57,08
Mozambico 102,8 São Tomé e Principe 54,77
Zimbabwe 102,33 Mali 54,11
Ghana 98,72 Madagascar 53,1
Repubblica del Congo 96,46 Benin 52,78
Sierra Leone 92,16 Niger 52,52
Mauritius 78,08 Uganda 50,22
Guinea-Bissau 76,5 Repubblica Centrafricana 49,08
Senegal 73,09 Sud Sudan 48,44
Gambia 72,96 Ciad 43,68
Sudafrica 72,31 Camerun 42,77
Malawi 72,24 Tanzania 40,13
Burundi 69,53 eSwatini 39,29
Togo 68,5 Nigeria 38,77
Namibia 68,49 Etiopia 37,56
Ruanda 67,08 Comore 32,47
Kenya 66,65 Guinea 30,04
Angola 63,27 Guinea Equatoriale 26,42
Costa d'Avorio 63,27 Botswana 20,6
Seychelles 62,5 Repubblica Democratica del Congo 11,03
Gabon 60,28 Zambia nessun
Lesotho 58,55 dato
giro di soli 73 anni è aumentata di oltre il 630%. Ma la crescita non !nisce qui. In-
fatti, sempre secondo le previsioni dell’Onu, la popolazione africana conterà due
miliardi e mezzo di persone nel 2050: un quarto della popolazione mondiale. D’al-
tra parte, se si considera che oggi l’età media in Africa è di vent’anni non c’è molto
da stupirsi di fronte a queste proiezioni. Nel frattempo, sempre nel 2050, l’Europa
rappresenterà il 5% dell’intera popolazione planetaria. Questo signi!ca che in me-
no di trent’anni la demogra!a africana giocherà un ruolo di estremo rilievo. Una
simile crescita assumerà proporzioni tali da costringere le popolazioni urbane a
modi!care il loro modo di vivere o di sopravvivere? O forse creerà condizioni più
favorevoli, attraverso ad esempio una sana cooperazione tra Nord e Sud del mon-
do? Anche perché la vecchia Europa, se vorrà continuare a essere competitiva sul
versante dell’economia reale, avrà necessariamente bisogno di risorse umane afri-
cane.
Di fronte a questo scenario assai complesso viene spontaneo domandarsi co-
me aiutare realmente l’Africa. Tenendo sempre presente la disomogeneità, talvolta
estremamente marcata, delle condizioni sociali, politiche ed economiche che carat- 135
QUO VADIS AFRICA?
LE RELIGIONI IN AFRICA
TUNISIA
MAROCCO
SAHARA ALGERIA
OCC. LIBIA
EGITTO
MAURITANIA
MALI
SENEGAL NIGER
CIAD SUDAN
GUINEA
SOMALIA
NIGERIA
SUD SUDAN ETIOPIA
REP. CENTRAFRICANA
GUINEA-BISSAU
GAMBIA UGANDA
KENYA
GABON
REP. DEM.
DEL CONGO
RUANDA
CAPO VERDE BURUNDI
TANZANIA
SEYCHELLES
COMORE
ANGOLA
ZAMBIA
MOZAMBICO
NAMIBIA
ZIMBABWE
BOTSWANA
ESWATINI
MADAGASCAR
LESOTHO
SUDAFRICA
Paesi a religione dominante
(dal 65% al 100%)
Islam
Cristianesimo
Paesi a religione maggioritaria
Islam
Cristianesimo
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9
Egitto
Algeria
Sudan
Marocco
Costa d’Avorio
Ghana
Senegal
Nigeria
Uganda
Tanzania
Kenya
Etiopia
Camerun
Angola
Botswana
Mozambico
Zambia
Sudafrica
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9
speculazione. Da questo punto di vista siamo ancora in alto mare: i grandi attori
internazionali si limitano a ridurre il valore attuale netto del debito o tramite l’esten-
sione della data di maturazione delle obbligazioni, sospendendo momentanea-
mente il pagamento d’interessi, o attraverso il cosiddetto haircut, che consiste nel
taglio del valore nominale del debito.
Impegni di credito
(banche, entità governative o aziende)
30
25
20
15
10
0
2000 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
Fonte: China Africa Research Initiative; The Economist Intelligence Unit (2022)
142
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
I TESORI INSANGUINATI
DI CABO DELGADO di Giorgio ANGELI
Attorno ai centri abitati, un territorio senza rilievi importanti, con !tte foreste e
savana. Due sole vere strade asfaltate, una nord-sud e una est-ovest, a tagliare la
provincia in quattro, su un’area pari all’isola d’Irlanda. Una frontiera con la Tanza-
nia lunga 250 chilometri, sul !ume Rovuma, con un solo ponte carrabile ma assai
porosa, perfetta per il traf!co clandestino di merci e persone. Una costa lunga
circa 400 chilometri, impossibile da controllare con i mezzi militari a disposizione,
costellata da un arcipelago di 27 isole, le Quirimbas, praticamente disabitato e ba-
se ideale per affari più o meno leciti. Maputo dista 2.400 chilometri, tre giorni di
viaggio in auto, cinque in autobus. Ma la distanza psicologica è ancora maggiore:
i nativi sentono sempre più il divario culturale e di opportunità con i tanti emigra-
ti provenienti dalla capitale. Più spigliati e istruiti, i maputensi accedono facilmente
ai pochi posti di lavoro di responsabilità, i meglio retribuiti.
Dal 2017 un’insurrezione insanguina Cabo Delgado: sono morte almeno 4.500
persone e i profughi interni sono circa un milione. Tutti i fattori elencati in prece-
denza sono stati un ottimo combustibile. Ma non bastano a spiegare perché sia
scoppiato l’incendio. Sarebbe come dire che la sola presenza di legna da ardere
possa accendere un fuoco.
GABON Kigali
LC
REPUBBLICA RUANDA
DE
.
RE P DEMOCRATICA BURUNDI
DEL CONGO
TA N Z A N I A
Dar es Salaam
SEYCHELLES
ANGOLA Pemba
ZAMBIA MAL AW MAYOTTE
I (FR)
O
C
C AR
BI
M
G AS
ZA
ZIMBABWE
DA
MA
MO
NAMIBIA
BOTSWANA Maputo-Pemba
2.400 km via terra
(3-4 giorni di viaggio)
Maputo
ESWATINI
Oceano LESOTHO
Atlantico SUDAFRICA Distanze in linea d’aria
da Pemba (in chilometri)
Maputo: 1.700
Kigali: 1.700
Dar es Salaam: 700
Mayotte: 500
3. S. MANOPE, «Mozambique Graphite for Tesla’s EV Car Batteries», Africa Oil&Gas Report, 31/1/2022. 145
I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO
to di Vidalia, Louisiana, operativo dal 2018 per produrre anodi per batterie. L’am-
ministrazione Biden, nel piano d’investimento da 3 miliardi di dollari per le batte-
rie per auto elettriche, ha destinato cento milioni nel 2022 per espandere proprio
questo centro industriale 4.
La gra"te mozambicana serve agli americani per contrastare il controllo della
Cina sulla lavorazione di questo materiale. De"nirla il più grande produttore è ri-
duttivo: la Repubblica Popolare estrae il 60% della gra"te mondiale e ne processa
il 98%. Non rimanere strozzati nella catena logistica dell’auto elettrica è un obietti-
vo tattico degli Stati Uniti. Lo stesso segretario di Stato Antony Blinken ha citato
direttamente l’importanza della miniera di Balama nella nuova corsa alle risorse
strategiche 5.
La violenza, a Cabo Delgado, prende nota. L’insurrezione ha spostato il raggio
d’azione da nord-sud (area del gas) a est-ovest (gra"te e rubini). Nel giugno 2022,
un attacco con alcuni morti riguarda una miniera in costruzione in una zona dove
non si era veri"cato alcun incidente negli anni precedenti. Cina e Stati Uniti avran-
no anche cose più importanti a cui pensare. Ma la competizione tattica passa anche
dall’accesso a risorse chiave come la gra"te di Cabo Delgado.
Ultima risorsa, più mediatica: il gas naturale. Tra il 2010 e il 2013, l’Eni e l’a-
mericana Anadarko annunciano separatamente la scoperta di rilevantissimi giaci-
menti offshore al con"ne con la Tanzania. Tanto importanti da accendere entusia-
smi anche per via di una posizione geogra"ca decisamente favorevole: il gas
mozambicano può accedere attraverso le rotte dell’Oceano Indiano all’enorme
mercato asiatico, che rappresenta il 70% dell’import mondiale di gas naturale li-
quefatto (gnl).
Per l’Italia di quegli anni questi giacimenti, benché interessanti dal punto di
vista commerciale, non sono questione di sicurezza nazionale, con le tensioni russe
ancora lontane e visti i limiti dati dalla distanza e dall’infrastruttura nostrana del gnl.
Sono invece strategici per i compratori asiatici. Giapponesi, cinesi, indiani, sudco-
reani e thailandesi si assicurano forniture fondamentali. Sembra il matrimonio per-
fetto. Un ottimo affare anche per lo Stato mozambicano, che conta di risollevare il
bilancio statale e pagare i debiti. Ma alla festa partecipa un convitato di pietra.
I grandi fornitori dell’Indo-Paci"co sono Australia, Qatar e, in misura minore,
Stati Uniti. Per il primo e il terzo paese, il gnl è un buon business. Per il secondo,
invece, questa risorsa è il mezzo grazie a cui un paese in precedenza irrilevante ha
peso nel mondo arabo e non solo. È il combustibile che lo connette al mondo
tramite Qatar Airways e che paga le antenne di Al Jazeera. Per il Qatar, il gnl non
è un buon affare, è la pietra angolare di tutto quel che è diventato e vuole diven-
tare. Proprio negli anni in cui il grosso del gas mozambicano sarebbe dovuto en-
trare nel mercato asiatico, 2024-27, il Qatar ha in programma di far crescere la sua
4. P. KER, «Joe Biden backs Australian graphite miner Syrah», Financial Review, 19/4/2022.
5. «Secretary Antony J. Blinken at the Ministerial Meeting of the Minerals Security Partnership», dipar-
146 timento di Stato degli Stati Uniti, 22/9/2022.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
stime, i miliziani passano da 200-800 nel 2018 a 3-5 mila nel 2021 9. Non è chiaro
da dove vengano i fondi per una macchina così imponente: si parla di donazioni
internazionali e di traf"ci illeciti di rubini, legname e droga, il tutto facilitato dalla
scarsa bancarizzazione 10.
La guerriglia si estende, coinvolge la vicina Palma e la zona d’interesse gasiera
a ridosso dei giacimenti. Aumenta la capacità offensiva. Dal 2019 inizia a prendere
di mira la popolazione locale, bruciando case e uccidendo persone. I più giovani
sono rapiti e arruolati a forza. La conformazione del territorio favorisce gli insorti,
ben protetti dalle foreste. Le forze regolari non riescono a contenerli.
Dal giugno 2019, lo Stato Islamico rivendica alcuni attacchi dell’insurrezione,
che avrebbe giurato fedeltà al proprio califfo. Dif"cile credere che l’af"liazione sia
più di un franchise, come lo è pensare che il radicalismo islamista sia più di una
bandiera dietro cui nascondere ragioni più profonde. Ma di certo dal 2019 al 2021
si assiste a un’escalation esponenziale nella capacità offensiva e negli obiettivi (gra-
!co). Dagli attacchi limitati a villaggi e convogli, si passa a colpire le cittadine.
Intanto, il Gruppo Wagner fa una fugace apparizione tra settembre e novem-
bre 2019. Solo due mesi, nessun successo signi"cativo e perdite rilevanti: ritiro
immediato e inglorioso. La decisione di intervenire deriva probabilmente anche da
interessi legati all’estrazione mineraria, come accade in Repubblica Centrafricana.
Ma a ciò si aggiunge la volontà della Russia, forte della relazione storica con il
Mozambico, di estendere la propria in#uenza nell’area con poco sforzo. Valutata la
dif"coltà del terreno e soppesati i ritorni attesi, evidentemente l’investimento viene
giudicato poco remunerativo. Non si può escludere che Cabo Delgado e il Mozam-
bico in generale tornino sul radar di Mosca.
Con l’esercito locale rimasto da solo, gli insorti conquistano Mocimboa da
Praia nell’agosto 2020, che resta ai ribelli per un anno intero. Ora la rivolta ha una
capitale e controlla territorio, da cui può minacciare le zone circostanti. Per esem-
pio Palma, a soli 60 chilometri, dove da "ne 2019 ha preso il via la costruzione
dell’impianto di liquefazione del gas sotto la direzione della francese TotalEnergies.
Vista la minaccia della guerriglia, l’azienda interrompe il progetto a "ne 2020.
L’insurrezione raggiunge lo zenit il 24 marzo 2021: i Machababos attaccano
Palma, capitale del gas mozambicano, teoricamente centro della difesa dell’esercito
regolare. L’operazione causa un centinaio di morti, tra cui alcuni stranieri indiretta-
mente legati ai progetti gasieri. Poche ore prima, Total aveva annunciato la ripresa
delle attività di costruzione; l’attacco riblocca tutto. A oggi, il cantiere non è ancora
ripreso, nonostante l’impennata della domanda mondiale di gas. L’altro progetto
previsto nell’area, operato da ExxonMobil, viene rimandato a data da destinarsi a
causa delle violenze. Un attacco di trecento persone, durato tre giorni, in uno sper-
9. C. ALDEN, S. CHICHAVA, «Cabo Delgado: “Al Shabaab/ISIS” and the Crisis in Southern Africa», Policy
Center for the New South, Policy Brief, maggio 2021.
10. L. LOUW-VAUDRAN, «The many roots of Mozambique’s deadly insurgency», Institute of Security Stu-
dies, Iss Today, 8/9/2022; A. LUCEY, J. PATEL, «Paying the price: "nancing the Mozambican insurgency»,
148 Institute for Justice and Reconciliation, Policy Brief, n. 37, ottobre 2021.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
T A N Z A N I A
a Palma
v um
Ru
Can
m e
Isole Quirimba
iu Mocímboa
F
da Praia
N I A S S A C A B O
D E L G A D O
M O Z A M B I C O
co
Montepuez Pemba
Marrupa
Concessioni
o!shore
Namuno Area 1 - Total
Namapa
Area 2 - Eni/Exxon
Militanti insurrezionalisti
Aree di movimento e di attacco N A M P U L A Miniera di rubini
degli insorti - in fasi diverse,
!no al settembre 2022 Riserve di gra!te
Strada dei minerali
Aree di movimento e di attacco CO Direttrice Est-Ovest
degli insorti - luglio/agosto 2023 BI Pemba - Marrupa
AM
duto villaggio di pescatori nel profondo nord del Mozambico ha avuto l’effetto,
voluto o collaterale che sia, di bloccare l’immissione sul mercato dell’equivalente
del 7% della produzione mondiale annuale di gnl.
IN LIBIA DI MALE
IN PEGGIO di Wolfgang PUSZTAI
Il paese resta spaccato in due: il governo di Tripoli è ostaggio delle
milizie, quello di Bengasi del generale Õaftar. Intanto la corruzione
dilaga, i trafficanti prosperano e le crisi saheliane producono
instabilità. La scommessa di Eni e Bp. Le elezioni sono un sogno.
intervento militare turco del 2020. Con il cessate-il-fuoco deciso a Ginevra nell’ot-
tobre dello stesso anno la guerra !niva.
Nell’autunno 2020 la rappresentante speciale ad interim delle Nazioni Unite
per la Libia, Stephanie Williams, istituì il Forum per il dialogo politico libico: 75
delegati stilarono una tabella di marcia per le elezioni presidenziali e parlamentari,
previste per il 24 dicembre 2021. Uscito indenne da accuse di corruzione e com-
pravendita di voti, Dubayba – ex capo della Libyan Investment and Development
Company, il fondo sovrano istituito da Ghedda! nel 2007 – fu scelto per guidare il
governo di unità nazionale. Poche settimane dopo il parlamento libico confermò il
nuovo esecutivo. Fin da subito, Dubayba appro!ttò del suo ruolo per arricchire il
proprio clan e usò denaro pubblico per la campagna elettorale, tanto che molti
iniziarono a de!nire il regime libico una cleptocrazia.
Nonostante ciò, nel settembre 2021 il paese nordafricano era, per la prima volta
dal 2014, prossimo alle elezioni. Circa 2,8 milioni di libici si erano registrati per eser-
citare il diritto di voto. Seppur in modo controverso, il parlamento aveva emesso
leggi elettorali che !ssavano le presidenziali al 24 dicembre e le parlamentari per il
mese successivo. La lista !nale dei candidati alle presidenziali, però, non fu mai
pubblicata e le elezioni furono rinviate a data da destinarsi, soprattutto perché le
Corti d’appello presero decisioni contrastanti – e tutte errate – sul diritto dei candi-
dati a presentarsi. Dubayba, ad esempio, fu ritenuto eleggibile sebbene non si po-
tesse candidare né al Forum per il dialogo politico libico dell’Onu né alle elezioni.
In base alla tabella di marcia approvata dalle Nazioni Unite e dal parlamento
libico, il mandato del Governo di accordo nazionale sarebbe dovuto terminare il
24 dicembre 2021. A febbraio 2022 il parlamento nominò l’ex ministro dell’Interno,
Fatõø Båšåôå, primo ministro del governo di stabilità nazionale, ma Dubayba ri!utò
di cedere il potere e nell’agosto 2022 Båšåôå cercò invano di prendere il controllo
di Tripoli. Importanti milizie che sostenevano Båšåôå, come la brigata rivoluziona-
ria guidata da Hayñam al-Tåãûrø e la brigata al-Nawåâø, furono allontanate dalla
città. A maggio 2023 Båšåôå è stato in!ne licenziato e sostituito con il ministro
delle Finanze Usåma Õammåd.
Per mesi parlamento e Consiglio di Stato hanno negoziato una legge elettorale,
senza raggiungere alcun compromesso. La !ne del progetto è arrivata nel febbraio
2023 con la creazione – incentivata dal rappresentante speciale dell’Onu per la Li-
bia, Abdoulaye Bathily – di un direttivo per la Libia presso il Consiglio di Sicurezza,
che tuttavia non ha mai avuto seguito. Il Comitato 6+6, costituito da componenti
del parlamento e del Consiglio di Stato, ha contribuito a produrre una legge elet-
torale che però è stata respinta.
Misurata e l’esercito di Tripoli, che però controlla poche truppe in larga parte tri-
politane, uf!cialmente parte dell’Esercito libico ma non integrate nella struttura di
comando.
A Tripoli ci sono decine di milizie, più e meno grandi. Le più potenti sono la
Rad‘, le Forze speciali di deterrenza comandate dal sala!ta madkhalita ‘Abd al-Ra’ûf
Kåra e la Brigata 444 guidata da Maõmûd Õamza, istituita nel 2020 come succursa-
le della Rad‘. In passato Rad‘ e Brigata 444 sono state alleate: la prima era respon-
sabile di Tripoli e dell’aeroporto di Mitiga, la seconda della campagna circostante.
Un’altra milizia importante a Tripoli è la Forza di sicurezza centrale Abû Saløm di
‘Abd al-Ôanø al-Kiklø, noto come Ôunaywa, che comanda anche l’Agenzia di sup-
porto alla stabilizzazione, organizzazione ombrello per gruppi armati interconnes-
si. Soprattutto nella fase iniziale, la Brigata 444 ha ricevuto un massiccio supporto
dalla Turchia in termini di armi, addestramento e droni. La presenza militare turca
in Libia si basa su un memorandum !rmato nel novembre 2019, quando Tripoli era
sotto assedio di Õaftar. Ankara mantiene cinque basi d’addestramento a Tripoli,
Misurata e Œums, gestisce la base aerea di al-Wa¿iya (vicino al con!ne con la Tu-
nisia) e utilizza Œums come ancoraggio per le fregate che operano nel Mediterra-
neo centrale e nel Golfo di Sidra. Inoltre, controlla un ampio gruppo di mercenari
siriani, probabilmente più di 2.500, come forza ausiliaria.
L’impegno turco in Libia è mosso da interessi economici, dal sostegno all’islam
politico e da considerazioni strategiche sull’Africa subsahariana, ma la Libia svolge
un ruolo importante anche nella politica estera della Russia. Il Gruppo Wagner è
perfettamente integrato in quest’area: costituisce la spina dorsale dell’Aeronautica
libica poiché fornisce piloti per i bombardieri Su-24 e i caccia MiG-29, truppe di
terra, forze di reazione rapida e personale per la manutenzione dei mezzi. Le basi
aeree di Hûn e Waddån (distretto di Ãufra) e di al-Œådim (in Cirenaica) vengono
utilizzate sia come basi logistiche sia per rifornire di carburante gli aerei in viaggio
da e verso la regione subsahariana. La Russia fa affari anche con il governo di Du-
bayba, soprattutto nel settore energetico (petrolio e gas) e nell’edilizia; di recente
ha aperto un’ambasciata nella capitale libica. I russi vogliono che qualsiasi candi-
dato possa correre alle elezioni, incluso Sayf al-Islåm Muammar Ghedda! (!glio
del ra’øs), perché pensano di poter sopravvivere piuttosto bene in Libia anche in
caso di cambio al vertice.
La maggioranza delle milizie in Libia è coinvolta, in un modo o nell’altro, in
attività criminali. Il contrabbando di carburante, il commercio di droghe e di armi
verso paesi con!nanti e gruppi terroristici, il traf!co di esseri umani attraverso il
Sahara e verso l’Europa sono un business enorme. Le principali rotte del contrab-
bando di carburante partono dalla raf!neria di Zåwiya e raggiungono Malta, Tuni-
sia, Niger e Ciad. Sono frequenti gli scontri tra contrabbandieri e forze di sicurezza,
specie nella pianura costiera della Tripolitania. Quest’attività illecita comporta un’e-
norme perdita !nanziaria per lo Stato libico e per le economie dei paesi vicini.
L’estorsione e il rapimento a !ni di riscatto restano un grave problema nelle grandi
città. Perciò un’altra fonte di guadagno per le milizie locali è il controllo degli edi- 155
IN LIBIA DI MALE IN PEGGIO
!ci pubblici – Banca centrale, ministeri, ospedali e ambasciate – dal momento che
molte società di sicurezza straniere sono state costrette a lasciare il paese.
vati per uno Stato africano, oggi c’è carenza di farmaci e attrezzature mediche e il
personale sanitario quali!cato è inesistente, soprattutto nell’Est e nel Sud. Mentre
si inaugura un parco a Misurata voluto da Dubayba e costato sui 42 milioni di di-
nari, i servizi sanitari nel Fezzan versano in uno stato di completo abbandono e
alimentano l’insoddisfazione. Secondo le Nazioni Unite, su 7 milioni di abitanti
oltre 800 mila persone necessitano di aiuto umanitario.
A luglio 2023 Œålid al-Mišrø, presidente del Consiglio di Stato, ha proposto
insieme alla Camera una nuova tabella di marcia per le elezioni: prima verranno
concordate le leggi elettorali, poi sarà istituito un nuovo governo provvisorio per
organizzare le consultazioni, da indire entro 240 giorni dall’adozione delle leggi.
Un governo composto da esponenti delle principali parti politiche appare un re-
quisito indispensabile, ma perché questa volta dovrebbe dimostrarsi vincente? A
decidere sono ancora le milizie di Tripoli e di Misurata insieme al governatore
della Banca centrale, Âiddøq al-Kabør: tutti sostengono Dubayba.
Nessun governo insediato dalla Camera e dal Consiglio di Stato, seppur inter-
nazionalmente sostenuto, può esercitare i suoi poteri contro il volere delle milizie
e della Banca centrale, che controlla i cordoni della borsa. L’unico attore esterno
che potrebbe in#uenzare la situazione è la Turchia, ma non basta che i legislatori
siano d’accordo sulla formazione di un esecutivo. Lo ha dimostrato il fallimento del
comitato 6+6 sulle leggi elettorali in Marocco: se il premier Dubayba e il generale
Õaftar non raggiungono un accordo, qualsiasi tentativo risulterà inutile.
Come pervenire, dunque, a un compromesso tra le parti? Chi può candidarsi?
Militari in servizio come Õaftar ne hanno facoltà? Cosa fare con il non eleggibile
Dubayba e con criminali di guerra come Sayf al-Islåm, oggetto di un mandato di
cattura? I cittadini con doppia cittadinanza dovrebbero scegliere? È obbligatorio un
secondo turno alle presidenziali? Presidenziali e parlamentari avranno luogo nello
stesso giorno?
158
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
LA TUNISIA DI SAÏED
GUARDA AI BRICS di Ester SIGILLÒ
Traditi dal malgoverno ‘rivoluzionario’ e afflitti dal malessere
socioeconomico, i tunisini abbracciano – e subiscono – il nuovo
uomo forte. I richiami alla sovranità contro i diktat dell’Fmi.
Tunisi resta nell’orbita algerina, mentre ammicca a Russia e Cina.
rismo. La svolta securitaria dopo due assassinî politici nel 2013 e gli attacchi terro-
ristici del 2015 ha tuttavia distolto l’attenzione dall’incapacità dei governi post-2011
di aggredire i mali profondi del paese. L’aggravarsi della crisi economica e i man-
cati progressi nella protezione delle fasce più povere della popolazione hanno
fatto sì che i partiti al potere fossero accusati di inaf!dabilità e corruzione, mentre
il con"itto politico-istituzionale veniva assorbito dalla questione identitaria che op-
poneva un progetto di società «islamista», fondata sul diritto religioso, al vecchio
compromesso modernista risalente all’epoca del presidente Bourguiba.
Nonostante il pluralismo sulla carta, la maggior parte dei partiti è stata indi-
stinguibile su questioni cruciali come il lavoro e le disuguaglianze socioregionali.
Le principali formazioni – Nidaa Tounes di ispirazione bourghibista, Ennahda di
matrice islamista – non hanno trovato soluzioni alla dilagante crisi socioeconomi-
ca. Di conseguenza, la popolazione tunisina si è sentita sempre più estranea al
sistema partitico e più in generale alla politica, mostrando nel corso degli anni un
crescente distacco dal processo elettorale. Dal 2016 nuove rivolte sono esplose
nelle aree più marginalizzate del paese. Le richieste della popolazione hanno con-
tinuato a concentrarsi sulle questioni socioeconomiche, denunciando il modello di
sviluppo iniquo, mai rimesso in discussione negli anni di sperimentazione demo-
cratica – una sorta di «questione meridionale» che riguarda soprattutto le regioni
interne e del Sud tunisino. Il partito che più ha deluso è quello verso il quale
erano state riposte le speranze di molti tunisini esclusi dai bene!ci economici e
politici del vecchio regime: Ennahda, la cui base elettorale è calata drasticamente
nel corso degli anni.
Il forte sentimento popolare di tradimento della rivoluzione ha preso piede
quando è diventato evidente che il processo di transizione democratica non avreb-
be soddisfatto le aspettative di cambiamento, deludendo così le aspettative della
popolazione. La «con!sca» della rivoluzione è passata anche attraverso politiche di
recupero del vecchio regime, come il progetto di amnistia dei crimini economici
commessi prima della rivoluzione (la cosiddetta Loi de réconciliation). Inoltre, si è
assistito a una politica del compromesso tra le élite di Nidaa Tounes ed Ennahda,
che dopo le elezioni formavano governi unitari malgrado la dura lotta in campa-
gna elettorale.
utilizzate per il bene del popolo tunisino, non a favore delle potenze straniere. Pur
non avendo mai espresso una politica estera coerente, alcune dichiarazioni pubbli-
che di Saïed hanno fatto luce sulle sue priorità. Un tema della campagna elettorale
portato avanti durante la presidenza è l’attenzione ai partner tradizionali della Tu-
nisia: mondo arabo, Nord Africa e paesi del Mediterraneo. Tuttavia, in un’intervista
del 2019 Saïed sottolineava di non volersi alleare ad alcun paese, rispondendo
solo alla «volontà del popolo [tunisino]. (…) Non piegheremo la testa davanti a
nessuno, tranne che a Dio» 1.
Se da un lato Saïed ha dunque rilanciato la storica politica di non allineamen-
to della Tunisia, dall’altro l’enfasi sugli interessi nazionali ha mutato le relazioni
diplomatiche con quanti hanno interessi strategici nel paese, in primis con la Fran-
cia. Dal colpo di Stato del 2021 le relazioni con Parigi sono state in"uenzate da
diversi fattori, tra cui la volontà di Saïed di rafforzare l’indipendenza decisionale
tunisina e di ridurre l’in"uenza straniera. Le politiche di protezionismo economico
hanno messo per la prima volta in discussione la posizione delle imprese francesi
in territorio tunisino.
Il processo costituente voluto da Saïed si è sviluppato in un contesto socioe-
conomico e #nanziario fortemente compromesso dalla crisi sanitaria e dall’in"azio-
ne prodotta dalla guerra ucraina. A preoccupare sono soprattutto l’aumento del
costo della vita e l’alto tasso di disoccupazione, oltre a un debito pubblico che ha
raggiunto il 100% del pil. In questo scenario, a luglio 2022 hanno preso il via i
negoziati uf#ciali tra il governo tunisino e il Fondo monetario internazionale (Fmi)
per un prestito di quattro miliardi di euro volto a scongiurare il collasso del paese.
La campagna contro il diktat dell’Fmi portata avanti da Saïed dalla #ne del 2022 si
inserisce certamente nel quadro della svolta sovranista, ma l’accordo prevedeva
misure di austerità e politiche di liberalizzazione tra cui il congelamento dei salari
pubblici, il blocco delle assunzioni e la privatizzazione di società statali. Ancora
prospettive negative per le classi sociali più deboli, che nell’ultimo anno hanno
aumentato vertiginosamente le fughe disperate in mare.
Malgrado l’impegno dell’Italia per garantire una rinegoziazione del prestito –
rinvigorito dalla visita di Giorgia Meloni a Tunisi – e «salvare la Tunisia dal baratro»,
non è illogico ritenere inaccettabili le condizioni del Fondo, che in passato hanno
contribuito a impoverire ulteriormente i settori più vulnerabili della popolazione. Se
però le alternative proposte dal presidente tunisino non sono ancora chiare, com-
presi eventuali avvicinamenti ad altri potenziali creditori come Cina e Russia, le in-
tenzioni dell’Italia paiono concentrarsi esclusivamente sull’arginamento del pericolo
migratorio anziché sulla necessità di sanare le ferite socioeconomiche del paese.
La questione migratoria è al contempo oggetto di attenzione delle potenze eu-
ropee e centro della propaganda tunisina. Al termine di un incontro (giugno 2023)
a Tunisi con i ministri dell’Interno francese e tedesco nell’ambito degli sforzi europei
per prevenire gli attraversamenti del Mediterraneo, Saïed ha dichiarato che la Tuni-
2. «Kais Saied: “La Tunisie ne peut être le garde-frontière de l’Europe”», Africa News, 20/6/2023.
3. «Tunisia’s Saied says migration aimed at changing demography», Al Jazeera, 22/2/2023.
4. «Tunisia: Saied’s words “have done a lot of harm” – OIF», Africa News, 14/3/2023.
5. «L’alleanza Brics si allarga: entrano Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi
Uniti», Il Sole-24 Ore, 24/8/2023.
6. Il 24 agosto 2023 l’Observatoire tunisien de l’économie (Ote) ha pubblicato una nota intitolata «Il
Nordafrica e i Brics: se è “una carta da giocare” per uscire dall’Fmi». Cfr. H. Marzouk, «Ote: la Tunisie
gagnerait à faire partie du groupe Brics», Économiste Maghrébin, 24/8/2023. 163
LA TUNISIA DI SAÏED GUARDA AI BRICS
7. «Niger: Uranium mine set to operate until 2040», Africa News, 4/5/2023.
8. «Orano signe un Accord Global de Partenariat avec l’Etat du Niger», Orano - Comunicato stampa,
4/5/2023.
9. «Projet de loi relatif à l’accélération des procédures liées à la construction de nouvelles installations
nucléaires à proximité de sites nucléaires existants et au fonctionnement des installations existantes»,
Senato della Repubblica Francese, Sessione ordinaria 2022-2023, 9/5/2023.
10. «Morocco recalls Tunisia ambassador over Western Sahara», Reuters, 27/8/2022.
164 11. «Tunisie: un rapprochement avec Alger au parfum de dépendance?», Tv5 Monde, 18/1/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Parte II
OCCIDENTI SBANDANO
RUSSIA GODE
TURCHIA PROFITTA
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
SMETTIAMO DI GIOCARE
AI PICCOLI FRANCESI di Fabrizio MARONTA
Il golpe in Niger, ultimo (?) effetto dell’operazione anti-Gheddafi,
mette in crisi il nostro approccio al Sahel. Le contraddizioni del
tentativo di estrarre risorse e frenare le migrazioni dall’Africa. Che
ne sarà del Piano Mattei? Basta combattere le guerre di Parigi.
allora investe la regione saheliana. Una dinamica che vede cadere, come tessere,
tutti i paesi – Mali, Burkina Faso, ultimo il Niger – su cui Francia e Italia (più di
altri) avevano puntato in chiave di stabilizzazione delle con!nanti aree maghrebina
e subsahariana. Il Niger, sotto questo aspetto, appare la chiave di volta capace di
far crollare l’intero, traballante edi!cio, portandosi dietro i nostri interessi strategici.
Interessi che, ieri come oggi, sono sintetizzabili nel binomio risorse-migranti.
2. Sono questi, infatti, i due poli del futuribile Piano Mattei annunciato dal
presidente del Consiglio Giorgia Meloni sulla scia del predecessore Mario Draghi,
che lo abbozzò in piena emergenza energetica poco dopo l’invasione russa dell’U-
craina. Meloni e Draghi, come tutti prima di loro, fanno i conti con le ineludibili
caratteristiche geogra!che e geologiche dell’Italia. Paese proiettato sulla frontiera
liquida, alias Mediterraneo, che separa la variegata Caoslandia dall’altrettanto ete-
rogenea, ma ben più stabile e ricca Ordolandia; penisola povera di materie prime,
che è costretta a importare per darsi un’economia industriale degna del nome. Ai
tradizionali idrocarburi oggi si aggiungono gli altri minerali e metalli più o meno
rari necessari all’elettri!cazione e alla decarbonizzazione, dunque all’enorme parti-
ta industriale e tecnologica che sottende la cosiddetta transizione energetica.
Nel Piano Mattei, migranti e risorse sono inversamente correlati. Nello scenario
ideale, il piano mira a limitare l’af"usso dei primi massimizzando il reperimento
delle seconde attraverso la sponda Sud del Mediterraneo. A tal !ne l’area denomi-
nata Sahel (dall’arabo såõil, «bordo del deserto»), che individua in primo luogo
Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, lambendo altresì
Nigeria, Camerun, Sudan ed Eritrea, è cruciale. Bisecando il continente dall’Atlan-
tico al Mar Rosso, quest’ampia fascia semiarida di oltre 3 milioni di kmq è il pas-
saggio obbligato da/per l’immensa Africa subsahariana, che ospita il grosso della
popolazione (1,5 miliardi di anime nel 2050 da proiezioni Onu, su un totale di
circa 2 miliardi) e delle risorse africane. Ma la sua instabilità si riverbera anche sul
Nord Africa, in primis sul Maghreb, il cui equilibrio è già compromesso dall’ende-
mico caos libico e dall’incertezza sociale, economica e politica che attanaglia Tuni-
sia e Algeria.
Senza contare che lo stesso Sahel, specie la fascia settentrionale, alberga cospi-
cue risorse naturali: gas e petrolio, ma anche oro, bauxite e uranio. Quest’ultimo è
tanto più strategico alla luce della rinnovata importanza attribuita al nucleare nel
processo di decarbonizzazione, nonché del ruolo di primo piano svolto da Rosa-
tom (Russia) quale fornitore mondiale di combustibile nucleare (anche) agli Stati
Uniti, ansiosi di ridurre l’incresciosa dipendenza 1.
Quanto ai "ussi migratori dall’Africa, il Niger è tra i paesi che più attestano
come il Mar Mediterraneo resti l’ultimo tassello di una dinamica molto più ampia e
articolata. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) classi!ca il Ni-
ger paese di «partenza, transito e destinazione»: dei circa 400 mila nigerini che vi-
1. M. BEARAK, «The U.S. Is Paying Billions to Russia’s Nuclear Agency. Here’s Why», The New York
168 Times, 14/6/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
vono all’estero, 170 mila circa sono in Libia dove formano la comunità straniera più
numerosa. Dal Niger passa anche la quasi totalità dei !ussi provenienti da Ciad,
Nigeria, Benin, Burkina Faso e Mali, nonché quote consistenti di quelli che origi-
nano in Mauritania, Senegal, Guinea, Costa d’Avorio e Ghana e che, attraverso il
Sahara – barriera non meno letale del Mediterraneo, di norma affrontata dalla por-
ta di Agadez – puntano a nord, soprattutto verso Libia e Tunisia. Lo stesso Niger
ospita circa 300 mila richiedenti asilo, quasi tutti dalla Nigeria 2.
Non a caso, nel dicembre 2022 a Roma il presidente nigerino Mohamed Ba-
zoum era ospite di un convegno della fondazione Med-Or alla presenza, tra gli altri,
dei ministri Guido Crosetto (Difesa) e Matteo Piantedosi (Interno). Mentre lo scorso
luglio, poco prima del golpe che lo ha deposto, era alla Farnesina insieme al suo
omologo mauritano, unici capi di Stato saheliani presenti. Contestualmente il mini-
stero degli Esteri lanciava nuove «iniziative di contrasto al traf#co di esseri umani in
Libia e Niger», destinando 8,5 milioni di euro a Tripoli e 7,5 milioni a Niamey 3.
2. G. MERLI, «Nel Sahel l’Italia e la Ue usano il Niger per fermare e rimpatriare i migranti», il manifesto,
5/8/2023.
3. Ibidem.
4. «Before Niger, several recent coups in the Sahel», Africa News, 27/7/2023. 169
SMETTIAMO DI GIOCARE AI PICCOLI FRANCESI
172 12. F. SASSI, «Niger coup is major threat for Italy’s energy “Mattei Plan”», EurActiv, 5/8/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
da cui dipende in non piccola parte l’esito dei dossier migratorio ed energetico, per
noi cruciali. In prospettiva, lasciando strascichi che a quel punto ci vedrebbero
parte in causa, dunque attore non più in grado di spendere alcun tipo di neutralità.
Secondo: rinegoziare i nostri termini di cooperazione con Parigi nel Sahel.
Combattere battaglie perse è ricetta di sicura infelicità. Se è vero per gli Stati Uniti,
il cui amaro redde rationem in Afghanistan è sfociato in una fuga indecorosa e nel
trionfale ritorno dei taliban, lo è tanto più per noi italiani e per i cugini transalpini,
le cui velleità scontano un crescente de!cit di potenza. Le nostre limitate risorse
vanno indirizzate alla cooperazione civile e all’aiuto allo sviluppo, mettendo in
chiaro che sono condizionate ai risultati ma mettendo in conto i limiti di questa
forma di condizionamento. Ciò non esclude l’ambito securitario, soprattutto per
quanto attiene il controllo dei con!ni e dei relativi traf!ci, ma senza perniciose
ipocrisie e soprattutto senza inseguire altri su terreni troppo ostici. In chiaro: non
ha molto senso armare e addestrare aspiranti golpisti in Sahel dopo aver lasciato al
suo destino il governo tripolino, pur legittimo, dando mano libera ai ben più disin-
volti russi e turchi. E suona beffardo promettere alla stremata Tunisia – di cui pure
celebriamo a intermittenza il coraggio democratico – poco meno di 700 milioni di
euro, di cui un centinaio subito e gli altri chissà, quando dal 2016 l’esecrato Recep
Tayyip Erdoãan ne ha incassati circa sei miliardi 13 per fare della Turchia il nostro
campo profughi.
Considerare l’Africa maghrebino-saheliana un caso clinico al pari di Afghani-
stan e Iraq non vuol dire solo fare l’ennesimo torto a «paesi in via di sviluppo» (si
noti il delicato eufemismo a fronte del sostanziale disinteresse). Vuol dire anche
spararci sui piedi, perché con la sola repressione dif!cilmente si sopprime una
spinta migratoria che nasce dal mix di sottosviluppo e sovrademogra!a. A questi
paesi chiediamo risorse e controllo migratorio, dunque accondiscendenza e, in
certa misura, repressione. In cambio è ora di offrire un rapporto che, sebbene og-
gettivamente ineguale, miri a ricomporre per quanto possibile lo iato di sviluppo
tra «noi» e «loro». Af!nché loro non vedano in noi l’ennesima incarnazione dell’Oc-
cidente predatorio e orientalista, da compiacere (s)vendendo il futuro delle popo-
lazioni locali o da combattere con l’interessato e non gratuito aiuto dei terzomon-
disti di turno, vecchi (Russia) e nuovi (Cina).
Ultimo, ma non ultimo: se c’è un luogo, nell’area saheliano-maghrebina, in cui
l’uso dello strumento militare in chiave di stabilizzazione e ausilio all’autorità legit-
tima (non per questo necessariamente presentabile) resta per noi valido e sensato,
quello è la Libia. Non si tratta di «fare la guerra» ad Ankara e tantomeno a Mosca
per scalzarle dalle posizioni lasciate colpevolmente scoperte un decennio fa, quan-
to di competere con esse – specie con la Turchia – per l’in#uenza in Tripolitania e
in parte nel Fezzan, sfruttandone ogni défaillance e incapacità di corrispondere
alle esigenze, anche di sicurezza, del governo. Immediatamente dopo, in lista,
vengono Tunisia e Algeria: regimi affatto diversi, ma accomunati dall’assoluta sa-
13. «Quanto ha pagato la Ue per bloccare i profughi in Turchia», Key4Biz, 13/3/2023. 173
SMETTIAMO DI GIOCARE AI PICCOLI FRANCESI
174
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
LIMES Quali sono gli interessi strategici degli Stati Uniti in Africa?
NAGY I nostri interessi strategici in Africa hanno subìto un’incredibile evoluzione
dalla decolonizzazione a oggi. Inizialmente, il continente contava per la competi-
zione geopolitica con l’Unione Sovietica. Ma ora è diventato importante di per sé,
non in relazione a qualcun altro, a causa di almeno tre forze in gioco. Una è il
cosiddetto tsunami giovane. La popolazione raddoppierà nei prossimi cinque o sei
decenni: capire che cosa succederà con centinaia di milioni di africani in più è
molto importante per noi. Un’altra sono le risorse: l’Africa è l’Arabia Saudita del
XXI secolo per le materie prime necessarie all’economia dell’elettricità: terre rare,
gra!te, litio eccetera. La Cina controlla la maggior parte di queste risorse attraverso
giacimenti, impianti di raf!nazione oppure contratti con paesi fornitori come la
Repubblica Democratica del Congo. Se vogliamo essere un attore industriale di
rango, dobbiamo stabilire relazioni in questo settore con i paesi africani. In!ne, il
livello diplomatico: l’Africa ha più rappresentanze di qualunque altro continente
nelle istituzioni multilaterali e gli Stati africani tendono a votare all’unisono. Conta
nella partita per le regole del sistema internazionale.
LIMES Quali soni i paesi più importanti per gli Stati Uniti?
NAGY Gibuti è uno degli appezzamenti di terra di maggior valore al mondo per via
della sua posizione lungo le rotte marittime. Conterebbe molto meno se fosse nel
mezzo del Sahel. Per il resto, le priorità cambiano letteralmente di anno in anno, a
volte di mese in mese. Ovviamente ogni regione ha il suo Stato àncora: Sudafrica,
Nigeria, Etiopia, Kenya, Repubblica Democratica del Congo. Ma poi anche un pic-
colo paese può essere strategicamente importante all’improvviso a causa di crisi o
di mosse altrui.
175
‘L’AFRICA È STRATEGICA PER GLI STATI UNITI, MA NON LA CAPIAMO’
LIMES La strategia americana mira a evitare che una potenza assuma il controllo
dell’Eurasia. Russia e Cina però hanno esteso il campo di gioco all’Africa. Che im-
patto ha sulla strategia americana?
NAGY È un fattore importante. Anche se dobbiamo differenziare tra Russia e Cina.
Mosca è un’opportunista di breve periodo, che cerca di aumentare la propria in-
!uenza in Africa attraverso i legami d’epoca sovietica e di danneggiare gli interessi
americani o di paesi europei come la Francia. Pechino invece è la minaccia di lungo
periodo per il dominio globale degli Stati Uniti e per il sistema post-seconda guerra
mondiale che abbiamo creato. Per ora la sua unica base all’estero è a Gibuti, ma la
sua Marina cerca avamposti anche sull’Atlantico per essere in grado di minacciare il
nostro raggio globale. L’Africa occidentale presenta ottime opportunità per i cinesi
perché, a differenza di noi americani, riconoscono il valore dei piccoli paesi. Quell’a-
rea è piena di Stati che possono essere in!uenzati senza grande sforzo: Guinea
Equatoriale, Guinea Bissau, São Tomé e Principe, posti in cui gli Stati Uniti hanno
una presenza minima ma di cui la Cina coglie il valore strategico. Visto che noi li
ignoriamo, come abbiamo ignorato molti Stati insulari del Paci"co, dobbiamo rin-
correrli. È un interesse strategico, ma non direi che è una priorità assoluta.
LIMES Perché avete lasciato che russi e cinesi penetrassero liberamente in Africa?
NAGY Abbiamo dormito. Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti erano molto ben
equipaggiati per combattere l’in!uenza sovietica in Africa. Avevamo una strategia,
ottime attività di diplomazia pubblica, risorse adeguate ad affrontare quella che
chiamavamo la grande bugia del comunismo. Poi abbiamo prosciugato le amba-
sciate "no al minimo in termini di personale e di budget. Abbiamo permesso alla
Russia di dipingerci come forza maligna, egoista, colonialista.
Le abbiamo permesso di riempire un vuoto anche a livello militare. Se io fossi un
governo africano e cercassi assistenza bellica, gli Stati Uniti sarebbero la mia ultima
scelta. Se chiedo una "onda agli americani, mi arriva in sei mesi. Se la chiedo ai
russi, mi arriva in una settimana, con tanto di addestratori. Magari gli equipaggia-
menti fanno schifo, ma non ci mettono una vita. Il Gruppo Wagner è una storia di
successo. Si è inserito in teatri in cui c’erano tante altre forze in gioco, dalle Nazio-
ni Unite ai francesi, a volte gli americani. Ma quando uno Stato vuole fare qualcosa,
va da Wagner perché non la tira per le lunghe.
I cinesi invece sono ef"caci sul lato economico. Quando ero assistente al segretario
di Stato, dicevo ai leader africani che non li biasimavo certo perché facevano affari
con Pechino. Per anni gli unici a bussare alla loro porta sono stati i cinesi. Poi im-
provvisamente ci siamo svegliati e abbiamo realizzato che la Repubblica Popolare
aveva costruito tutte le infrastrutture e fornito tutte le strumentazioni per le teleco-
municazioni. Al dipartimento di Stato, il mio compito era dissuadere i governi africa-
ni dal comprare Huawei. Logicamente, mi rispondevano: bene, allora cosa ci vende-
te? Non avevamo alternative concrete. Inoltre, quando i cinesi fanno affari si presen-
tano con tutti gli aspetti "nanziari già pronti. Oggi, forse, i governi africani stanno
realizzando che le vere bene"ciarie delle nuove vie della seta sono state le imprese
176 cinesi, per vendere il loro surplus produttivo. E forse anche che quello che hanno
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
comprato non è poi di gran qualità. Ma anche qui conta che hanno avuto quel che
cercavano. Non possiamo competere così: è come avere non una ma due mani le-
gate dietro la schiena.
LIMES Cosa dovreste fare per presentarvi meglio in Africa?
NAGY Dovremmo competere meglio nell’ambito della diplomazia pubblica. Sarem-
mo in grado di farlo, se solo avessimo la volontà. Dovremmo avere una campagna
strategica centralizzata, riaumentare il personale delle ambasciate, rispondere alle
bugie russe e alle selvagge esagerazioni dei cinesi sull’America. Si potrebbe fare
abbastanza velocemente.
Sul lato economico. Io ho fatto parte della precedente amministrazione e conside-
ravamo scambi commerciali e investimenti come una priorità apicale. Avevamo
messo in piedi un’organizzazione chiamata Prosperous Africa che l’amministrazio-
ne Biden ha saggiamente tenuto in piedi. Se espansa come immaginavamo, potreb-
be essere un catalizzatore delle attività economiche nel continente. Ma qui si torna
al primo punto: gli accordi devono essere sostenuti sul terreno dalle ambasciate.
Finché le delegazioni cinesi sono cinque volte più numerose, sul versante degli
investimenti non c’è gara.
LIMES L’Africa sta sostituendo il Medio Oriente come teatro principale del jihadismo?
NAGY Sì, ma non sono sicuro di che cosa possiamo fare. La nostra assistenza alla
sicurezza non è coordinata in una più ampia strategia contro l’estremismo violento.
Sul lato militare, aiutiamo i paesi a liberarsi dai cattivi, ma se subito dopo non ci
mettiamo un sistema che fornisce servizi e opportunità economiche lasciamo solo
un vuoto che viene riempito da gente ancor più cattiva. Un esempio lampante è la
Somalia. Quando ero ambasciatore in Etiopia, c’era al-Ittiõåd al-Islåmø, che andava
debellato. Poi vennero le Corti islamiche, ancora più cattive. Debellate queste, ven-
ne al-Šabåb, di male in peggio. Non si può scon"ggere l’estremismo soltanto con
mezzi militari. Deve essere uno sforzo coordinato. Anche col governo locale: se è
corrotto, inef"cace e antidemocratico, la nostra assistenza sarà un fallimento.
LIMES Cosa cambierebbe dell’assistenza militare ai paesi africani?
NAGY Il modo in cui misuriamo i dati. Quando ero assistente al segretario di Stato
volevo sapere se le operazioni antiterrorismo nel Sahel stessero avendo successo. Il
mio staff mi rispondeva di sì perché nel 2019 avevamo addestrato 3 mila persone in
Mali e nel 2020 5 mila. Quando invece chiedevo quanti chilometri quadrati in meno
occupassero i nemici, cascavano le mascelle. Dobbiamo avere basi più concrete per
valutare la nostra assistenza militare. Non m’interessa quanti uf"ciali forniamo negli
Stati Uniti, anche perché alcuni dei responsabili dei golpe li abbiamo addestrati noi.
LIMES Ci sono prove che in Africa gli aiuti allo sviluppo abbiano generato meno
violenza o migliori istituzioni?
NAGY No, nessuna. Sono un oppositore dell’assistenza allo sviluppo sin dal mio
primo viaggio in Africa. Un ministro di un paese africano una volta chiamò un
brindisi: agli ultimi cinquant’anni di cooperazione e ai prossimi cinquanta. Quando
i governi iniziano a mettere sistematicamente nei loro bilanci annuali una certa
percentuale di entrate derivante dagli aiuti stranieri, c’è un problema. Vorrei che 177
‘L’AFRICA È STRATEGICA PER GLI STATI UNITI, MA NON LA CAPIAMO’
ogni agenzia statunitense si desse criteri più precisi e fosse pronta a staccare la
spina, se necessario. I cinesi non fanno assistenza allo sviluppo, eppure vengono
applauditi perché generano sviluppo.
LIMES Perché il golpe in Niger è così importante per gli Stati Uniti?
NAGY Per vari motivi. In Niger c’era stato un trasferimento di potere relativamente
pulito da un governo civile a un altro attraverso un’elezione. Inoltre, le Forze armate
nigerine hanno ricevuto un considerevole addestramento da parte nostra, operano
in maniera relativamente professionale e stanno conseguendo qualche successo nei
confronti degli estremisti. In!ne, stava avvenendo una riconciliazione tra il Nord e il
Sud del paese. Lo stesso presidente deposto Bazoum appartiene a una delle etnie
settentrionali svantaggiate. Insomma, dal nostro punto di vista questa vicenda signi-
!ca che se puoi fare un colpo di Stato in Niger puoi farlo praticamente ovunque.
LIMES Considera il golpe un golpe, a differenza del governo del suo paese che non
lo de!nisce come tale?
NAGY Sì, è un colpo di Stato. E ritengo che gli Stati Uniti dovrebbero cambiare il
divieto di trattare con regimi golpisti. Dobbiamo essere un po’ più so!sticati e guar-
dare alle situazioni speci!che senza farci imprigionare da de!nizioni e tabelle. Pren-
diamo il Gabon: c’era una famiglia al potere da 56 anni, sicuramente la popolazione
non aveva la possibilità di esprimersi. Se i militari si stufano e rovesciano il regime,
devi trattare il caso in modo diverso da uno in cui c’è un minimo di democrazia. In
Niger il colpo di Stato ha interrotto un processo relativamente democratico e corret-
to, anche se ovviamente non parliamo della Svezia. Ma se ogni volta, senza consi-
derare la speci!cità del caso, interrompiamo i rapporti e diciamo che i soldati devo-
no tornare in caserma, !niamo per spingere chiunque nelle mani dei russi. Non
dobbiamo però nemmeno tornare alla guerra fredda, quando noi avevamo i nostri
dittatori e i sovietici avevano i loro. Quello ci ha esposto a una dannosa ipocrisia.
LIMES Mali, Burkina Faso, Niger: sta nascendo un fronte anti-occidentale nel Sahel?
NAGY Il sentimento anti-occidentale c’è sempre stato a causa del colonialismo e
della guerra fredda. È presente nell’umore popolare e attende ogni opportunità per
essere risvegliato, con le intelligenti campagne propagandistiche di russi e cinesi.
LIMES Qual è la conseguenza più pericolosa del golpe in Niger?
NAGY Temo che i gruppi estremisti continuino a diffondersi e minaccino i paesi
dell’Africa occidentali affacciati sul Golfo di Guinea. La Costa d’Avorio ha avuto
qualche successo perché ha riconosciuto che le regioni del Nord avevano avuto
meno privilegi, ha portato servizi in quell’area e l’attività terroristica è diminuita. Ma
se gli estremisti si rafforzano nel Sahel, la pressione sui paesi costieri aumenterà.
Immaginate se Ghana, Costa d’Avorio o addirittura Nigeria !nissero nel caos: sareb-
be un disastro.
LIMES Gli Stati Uniti dovrebbero sostenere un intervento militare in Niger contro la
giunta?
NAGY Se ci fosse un intervento militare, al massimo dovremmo fornire trasporto
aereo alle truppe nigeriane, ma nient’altro. Dovrebbe essere fatto da africani e con
178 africani, senza militari americani sul terreno. E dovrebbe essere deciso quasi all’u-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
nanimità dall’Ecowas – senza ovviamente Mali e Burkina, schierati coi golpisti. Al-
trimenti i problemi sarebbero enormi. E anche in presenza di queste condizioni
sarebbe un disastro. Il modo migliore per superare la crisi è con la pressione eco-
nomica e diplomatica, con l’isolamento, cercando di convincere i cinesi a non
supportare la giunta militare. Per i russi non c’è speranza, cercheranno comunque
di in!larsi per depredare il paese dell’uranio.
LIMES Invece di supportare un intervento militare, gli Stati Uniti non potrebbero
cercare di ottenere un governo più largo a Niamey, con militari, fazioni del Nord e
qualche !gura del vecchio establishment?
NAGY Quella che lei propone è l’opzione migliore. Di molto preferibile a trasporta-
re forze nigeriane. Ma è estremamente dif!cile da raggiungere perché richiedereb-
be un’enorme quantità di tempo, risorse e persone dedicate all’obiettivo. Abbiamo
un solo alto funzionario diplomatico dedicato all’Africa e corre da Khartûm a Kin-
shasa, da Addis Abeba ad Abuja. Il meglio che gli Stati Uniti possono fare è sup-
portare l’Ecowas.
LIMES Un intervento in Niger rischia di causare una seconda Libia?
NAGY Il pericolo esiste, anche se il Niger è diverso dalla Libia. Alla caduta di Ghed-
da!, tantissimi miliziani dell’Africa subsahariana arruolati e pesantemente armati
dal regime si diffusero per il Sahel. L’unica cosa che potevano fare era combattere
e ciò contribuì enormemente all’instabilità degli Stati a sud della Libia. In Niger non
ci sono. Inoltre, in Libia non c’erano strutture di Stato perché era stata governata da
una persona sola per decenni, mentre il Niger ha istituzioni, società civile e una
certa storia di alternanza al potere, anche se tumultuosa. In ogni caso, il rischio è
che il Niger si spacchi su base etnica.
LIMES L’intervento in Libia nel 2011 è stato un errore?
NAGY Assolutamente, assolutamente sì. Non fu ragionato a suf!cienza. Abbiamo
rotto il vaso senza chiederci cosa avremmo fatto dei cocci. L’intento era nobile:
Ghedda! era pronto a scatenare il caos, ma il caos che ne è risultato è molto mag-
giore. E tanti paesi ne hanno sofferto le conseguenze. Va bene eliminare il cattivo,
ma devi avere piani politici ed economici per il dopoguerra. Non ne avevamo
nessuno.
LIMES I francesi spingono per un intervento in Niger, voi siete più cauti. Molti a
Parigi credono che gli Stati Uniti vogliano liberarsi dell’in"uenza francese nel Sahel:
è vero?
NAGY È paranoia. All’inizio della mia carriera da diplomatico, spesso mi chiedevo
chi si opponesse di più alla nostra presenza in Africa: i sovietici o i francesi? Parigi
era sempre sospettosa di tutto quello che gli americani facevano nel loro presunto
feudo. Era l’epoca della Françafrique. Ma quei giorni sono !niti. Se anche fosse
vero che abbiamo posizioni diverse in Niger, non signi!ca che vogliamo liberarci
della presenza francese nel Sahel. Nessuno vorrebbe !nire in quel ginepraio.
Chiunque se ne andrebbe immediatamente, se potesse. Ricordo un incontro a Pa-
rigi con un militare francese quando ero al governo. Gli dissi: «Spero che restiate
nel Sahel per altri dieci anni». Lui alzò gli occhi al cielo: pensava fossi pazzo. 179
‘L’AFRICA È STRATEGICA PER GLI STATI UNITI, MA NON LA CAPIAMO’
180
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
IL CAOS SAHELIANO
DANNEGGIA LA CINA di Giorgio CUSCITO
I golpe in Africa turbano i progetti di Pechino per collegare Gibuti
alle proprie attività sulla costa Ovest. Xi potrebbe usare le crisi
per intensificare la penetrazione cinese nel Continente Nero e
promuovere la ‘sua’ globalizzazione. Guai interni permettendo.
2. Nel corso del tempo, l’intesa sino-nigerina ha conosciuto alti e bassi. Nia-
mey ha chiuso i rapporti con Taiwan e aperto quelli con la Repubblica Popolare
nel 1974. Ha riallacciato il dialogo diplomatico con Taipei nel 1992 per poi abban-
donarlo e riconoscere la sovranità di Pechino quattro anni dopo. In pratica, a con-
dizionare la strategia del paese africano è sempre stata la ricerca degli investimen-
182 ti più convenienti, a prescindere da quale Cina ne fosse la fonte.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
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IL CAOS SAHELIANO DANNEGGIA LA CINA
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D’AVORIO 3 CENTRAFRICANA DEL SUD
LIBERIA CAMERUN Nel 2021 la Cina ha importato
TOGO 4 dall’Africa beni per 105,9 miliardi
Oceano BENIN DA 7
GUINEA EQ. G AN di dollari (il 43,7% in più rispetto
Atlantico REPUBBLICA U KENYA all’anno precedente)
GABON RUANDA
DEMOCRATICA BURUNDI
1 Costruzione del parlamento nella capitale della CONGO
Guinea-Bissau. DEL CONGO
2 Proprietà di quote di maggioranza TANZANIA
in società petrolifere 8 Luanda COMORE Oceano Indiano
3 Finanziamenti per la costruzione del porto ANGOLA
in acque profonde di Lekki (Lagos) ZAMBIA
4 Sovvenzioni a formazioni di militanti O
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dei nativi del delta del Niger ZIMBABWE
M
MALAWI
GASC
MADA
3. J. NYABIAGE, «China arms sales cement its economic and security ties in Africa: study», South China
Morning Post, 14/3/2023. 185
IL CAOS SAHELIANO DANNEGGIA LA CINA
187
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
IL SENSO DI PUTIN
PER L’AFRICA di Orietta MOSCATELLI
Pochi aiuti civili, molte armi e assistenza militare, remissione di
antichi debiti. Questa la formula dell’ascendente russo, sulla scia
dell’anti-imperialismo sovietico. Il confronto con Cina, Usa e Ue.
Finita una Wagner, se ne fa un’altra (perché serve).
1. S
« ERVE PIÙ L’AFRICA ALLA RUSSIA O LA RUSSIA
all’Africa?». La domanda ispira analisti di ogni latitudine, almeno da quando Mosca
miete regimi, concessioni minerarie, ma anche cuori e menti sul continente africa-
no. Vladimir Putin l’ha posta a un gruppo di specialisti e diplomatici riuniti in vista
della Conferenza parlamentare russo-africana del marzo 2023 e del secondo sum-
mit Russia-Africa. Il presidente ha ascoltato gli argomenti degli esperti con aria
sempre più annoiata: «Bene, quando avrete una chiara risposta, forse dovremo
cambiare approccio», ha interrotto a un certo punto lasciando i più a pensare come
avrebbero potuto o dovuto rispondere. Dopo una serie di rinvii il vertice si è tenu-
to lo scorso luglio a San Pietroburgo e non a Addis Abeba, come inizialmente
previsto. Ha confermato che tra Russia e Africa c’è una mutua convenienza che
spazia dalla cooperazione economica e dal coordinamento in sede Onu alle forni-
ture militari e al sostegno a regimi poco presentabili in cambio di contratti per lo
sfruttamento di materie prime.
Il denominatore comune sa di antico, ma assume nuove forme: per un’ampia
parte dell’Africa che non ha mai smesso di accumulare risentimento verso le ex
potenze coloniali, Mosca è una sponda naturale, se non un faro. La Russia in tota-
le rottura con l’ordine americano è l’anti-Occidente, concetto incerto eppure magi-
co nel cosiddetto Sud Globale. Le invettive del Cremlino catalizzano l’attenzione di
un gruppo di paesi disomogeneo ma unito nel sospetto per qualsiasi cosa faccia il
club dei ricchi timorosi di perdere potere, ora in particolare la Francia.
Dalle sponde meridionali del Mediterraneo al Capo di Buona Speranza questa
dinamica si traduce in una crescente penetrazione russa, che potrebbe rivelarsi
fatua o meno: in prospettiva, sembra dipendere più dalla Cina che dal confuso
fronte occidentale. L’improvvisa morte di Evgenij Prigožin rende inoltre urgente
una riorganizzazione del Gruppo Wagner, importante tassello del mosaico africa- 189
IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA
1. «The Concept of the Foreign Policy of the Russian Federation», ministero degli Esteri della Federa-
zione Russa, 31/3/2023.
190 2. «Soviet economic aid to sub-Saharian Africa: Politics in command», cia.gov, 7/8/2011.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
decapitato lo scorso 23 agosto nel 2016 uf!cialmente ancora non esisteva, ma af-
frontava gli squadroni del sedicente Stato Islamico ed era decisivo nella riconquista
di Palmira e di aree petrolifere. I suoi servigi erano ripagati anche con licenze di
sfruttamento che Prigožin usava per stringere amicizie nelle Forze armate. La nega-
zione plausibile della presenza dei mercenari facilita le cose: i regimi di mezza
Africa si mettono in !la per usufruire del kit russo di sopravvivenza (o morte, di-
pende dal committente) disconosciuto dal governo moscovita. Dal 2016-17 i
muzykanty 3 prestano servizio in Libia, Repubblica Centrafricana, Mali, Sudan e li-
mitatamente in Mozambico. Secondo fonti russe sono presenti in scala minore
anche in Burkina Faso, mentre la statunitense Rand Corporation aggiunge la Re-
pubblica Democratica del Congo e il Gabon.
Un’attività a macchia che diventa tappeto. Se Prigožin era rimasto vivo dopo
l’incredibile marcia su Mosca di giugno, si ragionava, probabilmente lo doveva all’A-
frica. I legami personali e d’affari con !gure chiave nelle strutture di potere di molti
paesi facevano temere ai vertici russi che l’eliminazione del capobanda avrebbe
fatto precipitare tutto, o comunque avrebbe proiettato un pericoloso senso d’inaf!-
dabilità sulle alleanze costruite. Bisognava mettere al riparo un prezioso strumento
di espansione regionale: per questo, dopo l’ammutinamento e dopo essere stato
de!nito un traditore della patria, nel giro di pochi giorni Prigožin era stato ricevuto
dal capo dello Stato (notizia fatta !ltrare dalla stessa presidenza), aveva ottenuto la
cancellazione del procedimento per ribellione armata e dal temporaneo esilio in
Bielorussia aveva confermato che la sua compagnia sarebbe rimasta in Africa.
L’assicurazione africana sulla vita, se c’è stata, si è rivelata breve. Già a luglio
il ministero della Difesa russo avrebbe iniziato a reclutare per l’Ucraina uomini
della Wagner in missione sopra e sotto l’Equatore, sostituendo gli «africani» con
nuovi arruolati, meno legati a Prigožin. Il dicastero promuoverebbe allo stesso
tempo l’espansione di altre compagnie private, che a questo punto si guarderanno
dall’alzare troppo il tiro. Con la ribellione di giugno, i programmi del Cremlino e
del paramilitare in capo sono giunti a fatale divaricazione, ma la Wagner in Africa
continuerà a operare.
Il gruppo paramilitare, rivendicato come !liale dello Stato russo solo dopo
l’abbozzato golpe, è stato un incredibile moltiplicatore d’in$uenza. Ma senza l’ap-
poggio del Cremlino non sarebbe mai arrivato in Africa. La crescita delle sue ope-
razioni rivela al contempo una certa episodicità e quindi vulnerabilità dell’azione
russa. Soprattutto nel Sahel, nella «cintura dei golpe» in parte supportati da Mosca
e in parte sospettati di essere prodotto moscovita. Dalla Guinea al Sudan, dall’Afri-
ca centro-occidentale al Mar Rosso, dal 2019 quest’area è attraversata da un’ondata
di colpi di Stato: nove compreso l’ultimo, in Niger. La comparsa di bandiere russe
e gli slogan pro Putin in piazza a Niamey dopo lo spodestamento del presidente
Mohamed Bazoum hanno scatenato crisi di nervi a Parigi e apprensione nelle altre
3. «Musicanti», appellativo ironico con cui gli uomini della Wagner si de!niscono, in omaggio al com-
positore tedesco scelto dal fondatore Dmitrij Utkin (morto anch’egli il 23 agosto nello schianto aereo
192 nei pressi di Tver’) per le simpatie naziste attribuitegli.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
cancellerie europee, oltre che a Washington. «Il favore per i russi ha meno a che
fare con i russi di quanto si creda. Non è che Putin diventa ora un novello Che
Guevara, è che gli africani proprio odiano l’Occidente, dovreste sentirli a porte
chiuse», sostiene un consigliere presente alla riunione della fatidica domanda su
quanto conti l’Africa per la Russia e viceversa.
Il passato coloniale e il profondo risentimento africano proiettano in una di-
mensione ideale l’approccio russo basato su mezzi e scopi limitati e su una presen-
za nel complesso ridotta, imparagonabile all’avanzata strutturale cinese. Certo, fan-
no notare a Mosca, gli scambi commerciali con i paesi africani sono cresciuti in
pochi anni a circa 18 miliardi di dollari (2022). Ma l’Unione Europea è vicina ai 300
miliardi di dollari, la Cina tallona con 254 miliardi e gli Stati Uniti nella loro crescen-
te assenza si attestano comunque a 65 miliardi annui.
4. «Trends in international arms transfer, 2020», Sipri Fact Sheet, marzo 2021. 193
IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA
non ha aggiunto risorse degne di nota. Il summit, inizialmente previsto per ottobre
2022, è esemplare dell’ambivalenza nei rapporti russo-africani. Su 49 paesi parteci-
panti, 17 erano rappresentati da capi di Stato e il resto da delegazioni varie, mentre
alla prima edizione nel 2019 a So0i erano 45 i paesi presenti al massimo livello. A
quell’incontro Putin aveva dichiarato l’obiettivo di scambi commerciali pari a 40
miliardi di dollari entro un lustro, ma per ora siamo sotto la metà. Cresce invece la
cancellazione del debito (23 miliardi di dollari), che in ogni caso nessuno prevede-
va di estinguere. Il presidente ad interim del Burkina Faso, capitano Ibrahim Tra-
oré, ha rincuorato l’ospite s!dando i leader africani a «smettere di comportarsi co-
me burattini (…) suona(ndo) la musica degli imperialisti». Alla parata navale sulla
Neva che gran parte degli ospiti africani ha disertato, il giovane burkinabé era alle
spalle di Putin e accanto al ministro della Difesa Sergej Šojgu. In Occidente questo
quadretto è visto come un mezzo fallimento, mentre in Russia cantano vittoria
considerando le pressioni che i leader africani hanno dovuto affrontare per sedersi
in platea ad ascoltare Putin.
Altro importante aspetto è la cooperazione in sede Onu: la Federazione Russa
appoggia o blocca risoluzioni di rilievo per gli alleati africani, i quali bocciano o si
astengono nelle votazioni più delicate per Mosca. Così per le due risoluzioni Onu
di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, approvate nel 2022 e nel 2023 da
ampie maggioranze, ma con una raf!ca di paesi africani tra i contrari (sette) e gli
astenuti (oltre trenta). L’iniziativa africana per una soluzione politica al con#itto ha
visto lo scorso giugno una delegazione guidata dal presidente sudafricano Cyril
Ramaphosa a Varsavia (dov’è stata bistrattata), a Kiev (un certo gelo, dato il lecito
sospetto di simpatie !lorusse) e poi a Mosca. Qui Putin l’ha ricevuta con tutti gli
onori, si è tenuto sul vago e ne ha appro!ttato per l’ennesima s!lza di rimostranze
contro il fronte Usa-Nato. Al di là del comune malanimo verso il campo occiden-
tale, tuttavia, l’Ucraina è lontana per un continente che nel 2030 potrebbe ospitare
il 90% dei poveri di tutto il mondo 5 e dove le dinamiche regionali contano sempre
più. Certo, la guerra minaccia le forniture di grano e in quest’ottica il presidente
russo promette approvvigionamenti gratuiti ai più indigenti, insistendo che solo il
3% dei carichi partiti dal Mar Nero in base all’accordo Onu è approdato in paesi a
basso o bassissimo reddito.
La campagna africana del Cremlino è d’altronde fatta di bicchieri mezzi vuoti
(o mezzi pieni) e gli appelli a riattivare l’accordo sul grano, lanciati a San Pietro-
burgo, allungano la serie. L’Africa incarna così uno dei tanti paradossi generati dal
con#itto tra potenze guerreggiato in Ucraina, con vista sul resto del mondo: secon-
daria negli interessi russi, eppure centrale nel più ampio quadro di un’incipiente
transizione geopolitica. Destinazione più che mai incerta.
5. «Is poverty growing again in sub-Saharan Africa? Trends and measures», Istituto per gli Studi di
194 Politica Internazionale (Ispi), 31/7/2023.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
dotto automaticamente tecnici, dirigenti e politici amici. Così in buona parte fu.
L’epoca di Nikita Khruš0ëv, al timone dal 1953, era però quella della «coabitazione
paci"ca» eretta a principio di azione esterna e anche «l’aiuto disinteressato» della
madrepatria socialista ai paesi in via di sviluppo fu somministrato con cautela, cer-
cando di evitare nuovi motivi di scontro con gli Usa. Questo non impedirà che si
arrivi nel 1962 alla crisi cubana, ma in generale per la Lumumba signi"ca evitare di
trasformarsi in un polo di contestazione.
Ne deriva una progressiva normalizzazione che "nisce per penalizzarla.
Nell’Urss di Brežnev era già dif"cile capire perché si dovesse aspirare a conseguire
una laurea presso l’ateneo di via Miklukho Maklaj, a sud-ovest di Mosca. Con la
perestrojka furono poi spalancate le porte a chiunque potesse permettersi di paga-
re, crebbero le iscrizioni dall’ex Urss e dalla stessa Russia. L’amicizia tra i popoli
assumeva sfumature non previste dai fondatori, "gli dell’unione indissolubile di
repubbliche libere celebrata dall’inno sovietico.
Durante la guerra fredda la Lumumba non era l’unica meta per gli studenti
africani, che in genere preferivano atenei «normali» dove si mischiavano con i ra-
gazzi sovietici e non si sentivano presi nella trappola di un progetto con inevitabi-
li risvolti di propaganda. Alcuni studi sull’argomento indicherebbero che, a parte
gli alumni famosi (relativamente pochi), quanti vi studiarono abbiano avuto meno
fortuna nelle loro carriere rispetto ai connazionali formatisi in altre università sovie-
tiche. Sono stati tuttavia per decenni ingegneri, medici, insegnanti e funzionari
pubblici, spesso dopo un passaggio formativo in altri paesi, magari occidentali.
Servitori dello Stato, anonimi ingranaggi delle macchine governative da "ne anni
Sessanta: il reale investimento che Putin vuole rinnovare.
Allargando lo sguardo all’insieme degli atenei sovietici, dal 1956 al 1991 circa
60 mila studenti provenienti da nazioni arabe e 56 mila dall’Africa approdarono in
Urss, con la Russia a fare la parte del leone. Al momento della dissoluzione sovie-
tica i laureati dai paesi arabi erano 47.312, quelli da paesi africani 43.500. Nel 1962
gli studenti africani in Urss erano tre volte meno di quelli inviati in Francia, Regno
Unito o Stati Uniti; nel 1979 arriva il sorpasso sul Regno Unito e dal 1988 al 1991
vengono superati anche gli Usa1.
Oggi nelle amministrazioni di molti paesi africani lavorano persone che a "ne
anni Ottanta frequentavano atenei (ancora per poco) sovietici o che nei primi No-
vanta ottennero un diploma «su basi commerciali», fantasiosa declinazione mosco-
vita della transizione verso il libero mercato che permetteva ad esempio di pagare
la retta universitaria tramite l’acquisto di attrezzature. Senza grandi nostalgie, chi ha
frequentato la Lumumba o altre università sovietiche spesso ammette un senso di
gratitudine per l’occasione ricevuta (a spese di Mosca) e una generica comprensio-
ne per le «istanze internazionali» russe. Questo non signi"ca sottoscrivere, ma per
Mosca è già tanto.
1. «The Lumumba University in Moscow: Higher education for a Soviet–Third World alliance, 1960-
196 91», Journal of Global History, vol. 14, n. 2, pp. 281-300, luglio 2019.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
In base ai dati del rettorato della Lumumba, il ritorno di !amma per l’Africa
alimenta una costante crescita degli studenti dal continente, che però costituiscono
circa il 4% degli iscritti stranieri a fronte di un 25-30% in passato. Oggi come allora,
inoltre, quasi nessuno resta nella Federazione Russa dopo la laurea. Se Mosca in-
veste sugli studenti dai razvivajuš0ie strany, africani in particolare, è in primo
luogo per proiettare l’immagine di paese a essi veramente interessato. L’arruola-
mento comunque procede, malgrado i canali uf!ciali con la Russia siano limitati e
le strutture diplomatiche ancora assenti in diversi paesi del continente africano. Si
può procedere di persona e via Internet, in genere comunque richieste e selezioni
passano per gruppi come le associazioni delle diaspore o tramite accordi con le
università, in parte sospesi dopo l’invasione dell’Ucraina.
Al secondo summit Russia-Africa (luglio 2023) Vladimir Putin ha sfoggiato nu-
meri signi!cativi, sommando le presenze in tutta la Federazione e forse alzando un
po’ l’asticella con l’aggiunta di esperienze minori. «Oggi negli istituti russi studiano
quasi 35 mila studenti dall’Africa e questo numero cresce di anno in anno. La quo-
ta stanziata a bilancio per gli studenti africani in tre anni è cresciuta di due volte e
mezzo». Il presidente ha proposto di aprire !liali di università russe in Africa e di
studiare la possibilità di scuole dove si insegni in russo. «Sono sicuro che la realiz-
zazione di tali progetti, lo studio della lingua russa e l’introduzione degli alti stan-
dard d’istruzione del nostro paese saranno il miglior fondamento per una collabo-
razione mutualmente bene!ca e paritaria». La Cina in questo senso è attivissima.
Come per molti aspetti dei rapporti Russia-Africa, invece, alla teoria non è sempli-
ce far seguire la pratica e la guerra in Ucraina complica le cose. Intanto a San Pie-
troburgo è stato !rmato l’accordo per un consorzio di università tecniche Nedra
Afriki – letteralmente «sottosuolo», ma anche viscere, cuore dell’Africa. Esso preve-
de, e non stupisce, «la formazione congiunta di specialisti per il settore minerario e
delle materie prime».
197
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
IL MARE DI ANKARA
BAGNA NIAMEY di Daniele SANTORO
Per la Turchia il Niger è retroterra della Tripolitania, perno della sua
strategia marittima. L’approccio turco alle Afriche non è solo armi
e risorse, ma anche pedagogia e cultura. Il possibile triangolo afro-
mediterraneo con Francia e Italia. Le affinità tattiche con Mosca.
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Tensioni marittime tra Turchia e Grecia ETIOPIA INIZIATIVE GEOPOLITICHE TURCHE
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Furono solo gli ottomani, in quanto eredi di Roma, a porsi il tema della poten-
za marittima in termini propriamente strategici. Per quanto l’ef!mera supremazia
instaurata dalla Porta sulla sezione orientale del mare nostrum ebbe natura in larga
parte accidentale, conseguenza quasi meccanica della conquista di Costantinopoli.
Dunque dell’introiezione dello spirito imperiale romano, del quale i discendenti di
Osman si consideravano custodi ed eredi designati. Con la parziale eccezione
dell’apogeo dell’epoca classica – coincidente con il lungo regno di Solimano il
Magni!co, che si spinse a inviare imbarcazioni turche nelle acque dell’Oceano
Indiano – gli ottomani non riuscirono tuttavia a sviluppare un approccio geopoli-
tico propriamente marittimo, o meglio talassocratico. Ancora all’epoca di Bayezid
II, tra la !ne del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, la grande strategia marit-
tima ottomana era centrata sul sostegno materiale ai mamelucchi d’Egitto in chiave
antiportoghese 1. Il suo successore Selim non intendeva conquistare il Mediterraneo
– come in effetti fece – e neppure Damasco e Il Cairo. La guerra contro i cugini
mamelucchi del 1516-17 rispondeva alla necessità tattica di prevenire interferenze
logistiche nella progettata campagna !nale contro il safavide øsmail, già sbaragliato
due anni prima nell’epica battaglia di Çaldıran – la cui eco, come testimonia Orhan
Pamuk in Il mio nome è rosso, si è riverberata per decenni nella coscienza collettiva
turco-persiana. Selim cercava Tabriz e il Turan. Trovò il Mediterraneo per caso 2.
L’attuale penetrazione turca nelle acque mediterranee non è invece casuale. È
al contrario frutto di un preciso disegno strategico, abbozzato adottando una pro-
spettiva propriamente marittima. Come rivela la natura dell’operazione libica. Il
successo della conquista terrestre è stato dovuto unicamente alla supremazia in-
staurata dalla Marina turca nelle acque che uniscono le coste anatolica e tripolitana.
Il cuore della guerra libica è stato il mare. Obiettivo, non strumento, dal momento
che la proiezione nelle Libie è innanzitutto funzionale a consolidare il controllo di
Ankara sull’arco d’interdizione mediterraneo delineato dall’accordo sulle frontiere
marittime stipulato con il governo di Tripoli nel novembre 2019. Condizione posta
da Erdoãan all’allora primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fåyiz
al-Sarråã per concedergli la sua interessata protezione.
Probabilmente per la prima volta nella loro storia i turchi guardano la terra dal
mare, collocando nell’elemento liquido il loro punto d’osservazione strategico.
Calando nelle acque il perno della propria rotazione geopolitica. Accenno di rivo-
luzione antropologica e culturale che in questa fase rende le Libie la priorità tattica
assoluta della Turchia. Ed è per questa ragione che non vanno dimenticati gli
obiettivi fondamentali perseguiti da Ankara nell’ex vilayet ottomano di Trablu-
sgarp. Il proposito di Erdoãan non è instaurare un protettorato sull’ex Quarta
Sponda ma avvalersi di quest’ultima per far riverberare sul mare nostrum la poten-
za marittima repubblicana, prospettiva consolidata ad esempio dal progetto di base
1. Cfr. B. CIANCI, Le navi della Mezzaluna. La Marina dell’Impero ottomano (1299-1923), Bologna
2015, Odoya, pp. 69-70.
2. Cfr. ad esempio Y. ÖZTUNA, Yavuz Sultân Selîm (Yavuz Sultan Selim), østanbul 2006, Ötüken, pp.
79-81. 201
IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY
navale a Œums 3. Il "ne ultimo è il mare, non la terra. In termini concreti, la Turchia
si propone di consolidare a Tripoli un governo amico capace di estendere la pro-
pria sovranità sull’intero spazio libico. In particolare sulla costa cirenaica, limes
giuridico del Mediterraneo turco insieme all’Anatolia sud-occidentale. In principio,
senza pretendere di esercitare in#uenza esclusiva su di esso né tantomeno di an-
nettere più o meno (in)formalmente le Libie riuni"cate. Prospettiva che i turchi
saranno tuttavia costretti a rincorrere per mancanza di interlocutori ragionevoli e
autocentrati nell’area mediterranea – il pur apprezzabile equilibrismo dell’Italia tra
Ankara e Parigi non basta a rendere tale il nostro paese.
È alla luce di tali priorità – che si traducono geopoliticamente nella volontà di
preservare e sostanziare l’accordo sulle frontiere marittime del 2019, componente
essenziale del progetto della Patria Blu – che vanno interpretate le recenti mosse
africane della Turchia. Quantomeno i tempi e modi con cui sono state giocate. La
riconciliazione a condizioni tutt’altro che favorevoli con l’Egitto di al-Søsø, la con-
servativa indifferenza esibita da Erdoãan di fronte all’estromissione da Tunisi dei
«suoi» Fratelli musulmani da parte di francesi e arabi del Golfo, il cauto attendismo
con il quale il presidente turco osserva le dinamiche innescate a Niamey dal golpe
di "ne luglio.
si della vendita di armamenti per colonizzare ed eterodirigere gli eserciti dei pae-
si destinatari degli stessi. Anche perché la cooperazione militare fa da sfondo a
iniziative civili che alimentano la proiezione culturale turca, favorendo l’introie-
zione del modello e della visione del mondo anatolici da parte delle masse afri-
cane. Ankara si è certamente assicurata lo sfruttamento di una parte consistente
del settore minerario nigerino e lucrosi appalti come quello per la costruzione
dell’aeroporto internazionale di Niamey. Ma si è anche premurata di dotare di
scuole funzionanti i più sperduti villaggi del Niger, di equipaggiare i locali ospe-
dali, di ristrutturare moschee, di promuovere nelle madrase un’educazione reli-
giosa ispirata all’islam turco, di patrocinare programmi per lo sviluppo dell’occu-
pazione femminile, persino di dotare la tv di Stato delle strumentazioni necessarie
alle trasmissioni in diretta 5.
Tale complesso di iniziative militari e civili rende la Turchia il paese più in-
"uente in Niger – al netto dell’effervescente ed evanescente scenogra#a allestita
dalla Russia dopo il golpe di #ne luglio – e il Niger il tassello più pregiato del
domino africano della Turchia. Nel breve periodo quest’ultima intende avvalersi
della propria proiezione nel paese saheliano soprattutto per presidiare il con#ne
meridionale delle Libie, allo scopo di impedire che le caotiche dinamiche che at-
tanagliano l’Africa occidentale si riverberino nello strategico spazio libico. Com-
promettendo la grande strategia afro-mediterranea di Ankara, pilastro del «secolo
della Turchia». È alla luce di questa priorità che Erdoãan interpreta il colpo di
mano della giunta militare guidata da Abdourahamane Tchiani, in linea di princi-
pio contrario agli interessi turchi. Il golpe rischia infatti di creare terreno fertile alla
recrudescenza del terrorismo jihadista, come dimostra l’attentato che ha mietuto
una dozzina di vittime tra i soldati nigerini al con#ne con il Mali a metà agosto 6.
Senza contare il pericolo che le tensioni interne possano sfociare in una guerra
civile a intensità variabile e che le mosse azzardate dei golpisti inducano l’Ecowas
a guida nigeriana all’intervento militare 7. Dinamiche che in#ammerebbero l’Africa
occidentale risucchiando nel caos le Libie, privando la Libia turca della profondità
difensiva e pregiudicando l’azione stabilizzatrice di Ankara sulla sponda Sud del
mare turcicum. Proprio mentre la riconciliazione con gli Emirati Arabi Uniti avreb-
be potuto indurre Abu Dhabi a rimuovere il veto alla costruzione di una base mi-
litare turca in Niger, come previsto dall’accordo di cooperazione militare tra Anka-
ra e Niamey.
È per questo che Erdoãan – come in Mali nel 2020, quando spedì l’allora mi-
nistro degli Esteri Mevlüt Çavuúoãlu a Bamako per legittimare il golpe di agosto –
ha preferito prendere atto del fatto compiuto e mettere il cappello sulla giunta mi-
litare. Mossa solo apparentemente controintuitiva che permette alla Turchia di con-
5. Queste sono alcune delle iniziative condotte nel paese dall’Agenzia turca per la cooperazione e lo
sviluppo (Tika), tika.gov.tr
6. «More than a dozen Niger soldiers killed in attack near Mali border», Al Jazeera, 16/8/2023.
7. M.A. ADOMBILA, «West African bloc says ‘D-Day’ set for possible Niger intervention», Reuters,
19/8/2023. 203
204
I colli di bottiglia
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IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY
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Infrastrutture costruite o controllate dalla Turchia E T I OPI A
1 Porto di Aliağa Origine del corridoio afro-oceanico Oceano
2 Porto di Taranto della Turchia Indiano
3 Porto di Malta Sbocchi oceanici dell’Anatolia
4 Aeroporto internazionale di Mitiga (Tripoli) Snodi imprescindibili del corridoio 8 Mogadiscio
5 Aeroporto militare e base navale di Misurata afro-oceanico della Turchia K E NYA
6 Base aerea di al-Watiyya Paesi di rilevanza strategica per il
corridoio afro-oceanico della Turchia
7 Aeroporto internazionale Blaise Diagne di Dakar
Arco d’interdizione mediterraneo
8 Aeroporto internazionale e porto commerciale di Mogadiscio della Turchia - Zee turca
9 Progetto di base militare turca sul Mar Rosso Arco d’interdizione mediterraneo TA N Z A N I A
Centri di addestramento delle Forze armate libiche della Turchia - Zee libica
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
tinuare a dare le carte nella partita saheliana e di smussare le tensioni lungo la linea
di faglia che ormai separa nettamente paesi anti-occidentali e !lo-occidentali. Lad-
dove la priorità di Ankara non è l’orientamento più o meno democratico dei regimi
africani ma la stabilità del Sahel, da cui dipende quella della frontiera libico-nigeri-
na e dunque la sicurezza delle Libie. Nella consapevolezza che nessun governo al
potere a Niamey avrebbe interesse a liquidare la profonda cooperazione tra Tur-
chia e Niger, pietra angolare della grande strategia afro-mediterranea di Ankara.
Il paese saheliano è infatti il vero connettore tra i due termini dell’equazione
strategica, l’Africa e il Mediterraneo, nonché «snodo oceanico» dell’Anatolia. In una
prospettiva di lungo periodo, l’Africa serve infatti alla Turchia principalmente come
piattaforma logistica che può permettere ai turchi di raggiungere gli oceani aggi-
rando Suez e Gibilterra. Mediante l’accordo sulle frontiere marittime con Tripoli e
l’intervento militare del 2020 in Tripolitania Ankara ha conquistato una pur precaria
continuità territoriale tra l’Anatolia e il Nord Africa, garantendosi al contempo
avamposti logistici sulla costa indo-paci!ca del Continente Nero come il porto e
l’aeroporto di Mogadiscio. Mentre le sempre più solide relazioni con il Senegal la-
sciano intendere che i turchi abbiano individuato Dakar come terminale atlantico
del corridoio africano. Contestualmente, la Turchia ha disseminato Sahel e Corno
d’Africa di infrastrutture funzionali ai propri obiettivi strategici. Strade, autostrade,
ferrovie, ponti, aeroporti. Come appunto quello di Niamey, capitale di fatto del
vicereame africano della Turchia. Delineando lo scheletro di un asse multimodale
il cui sviluppo orienta l’approccio di Ankara al grande gioco continentale.
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libico e alleati (Haftar)
Kufra Appoggiato da:
NIGER E.A.U., Egitto, Russia e Francia
Gnu - Governo di unità nazionale
Area di forti scontri (al-Dbeibeh)
Appoggiato da: Turchia, Italia, Usa,
EUNAVFORMED IRINI Regno Unito, Algeria, Qatar
Grecia e Italia si alternano ogni sei mesi al C IA D
comando in mare della missione Ue incaricata
di applicare l’embargo sulle armi alla Libia, che Milizie locali (tebu e tuareg)
sconta però l’ostilità turca e una componente S UDAN
navale sottodimensionata Brigate di Misurata
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
dalla ritirata dell’ex potenza egemone prima che lo facciano Russia e Cina. Dina-
mica apparentemente favorevole agli interessi euroatlantici che tuttavia provoca
profonde inquietudini strategiche all’Eliseo, stante la percepita minaccia separati-
sta alimentata dalla Turchia all’interno dell’Esagono mediante le rami!cazioni dei
propri apparati nelle moschee e nelle comunità maghrebine d’Oltralpe. Pericolo
la cui entità viene evidentemente dilatata dalla crescente in"uenza di Ankara nel-
le Afriche che Parigi continua a ritenere di propria pertinenza. Tanto che i france-
si guardano paradossalmente con meno disagio alla penetrazione continentale di
russi e cinesi.
In realtà, la percezione della minaccia turca non è nulla più di un ri"esso
pavloviano. Russia e Cina sono due grandi potenze che dispongono di risorse
nettamente superiori a quelle della Francia, mentre agli occhi di quest’ultima la
Turchia è un attore di seconda classe che riesce a ottenere successi strepitosi con
disponibilità materiali limitate. Compensando tale svantaggio con un uso propria-
mente strategico del fattore umano. Esattamente ciò che ai francesi non riesce
(più). Nei successi di Ankara Parigi vede dunque ri"esso il proprio strutturale
declino. Di qui l’irrazionale frustrazione che induce Macron a intravedere in Er-
doãan addirittura una minaccia alla sicurezza nazionale transalpina. Manifestazio-
ne di autolesionismo geopolitico che non trova riscontro nelle concrete dinami-
che della competizione africana, nella quale viceversa nulla impedirebbe a turchi
e francesi di giocare di sponda per irrobustire la propria proiezione di lungo pe-
riodo. Come dimostra l’accondiscendente reazione di Erdoãan al golpe antiturco
promosso in Tunisia dall’Eliseo con l’interessata partecipazione di sauditi ed emi-
ratini, atteggiamento che rivela la disponibilità della Turchia a tenere in conside-
razione gli interessi francesi e a dare vita a una relazione transazionale mutua-
mente vantaggiosa con il rivale.
Nello speci!co caso tunisino, pur avendone le capacità Ankara non ha de-
stabilizzato il fragile paese nordafricano, sviluppando al contrario pro!cue rela-
zioni con il presidente golpista Kaïs Saïed, castigatore dei Fratelli di Erdoãan. A
riprova di come un’intesa tattica franco-turca potrebbe contribuire in modo de-
terminante alla stabilizzazione di Nord Africa e Sahel, arginando la penetrazione
di Russia e Cina. Con la naturale benedizione degli americani, a cui – insieme
– turchi e francesi potrebbero strappare concessioni in altri ambiti e teatri. Pro-
spettiva alla quale l’Italia potrebbe offrire un contributo tutt’altro che modesto,
sfruttando le profonde relazioni con Ankara e Parigi per proporsi come vertice
informale di un triangolo strategico afromediterraneo, attenuando l’ideologica
ostilità francese nei confronti della Turchia, fungendo da camera di compensa-
zione dei dissidi tra le due potenze. Allo scopo di (ri)guadagnare una relativa
centralità nella partita libica. Concorrendo così a destrutturare l’intesa di conve-
nienza turco-russa, quantomeno in Africa.
informali mediante i quali Ankara e Mosca si sono di fatto spartite i Caucasi, le Sirie
e le Libie. Proponendosi di adattare alle Afriche profonde il modello sperimentato a
partire dall’incidente del novembre 2015, quando gli F-16 turchi abbatterono un Su-
24 russo al con!ne turco-siriano. La narrazione centrata sul proposito dei due (pre-
suntamente) ex rivali di cooperare strategicamente per scardinare l’egemonia occi-
dentale e sull’altrettanto presunta volontà della Turchia di aderire al blocco sino-rus-
so trascura tuttavia la reale (contro)natura geopolitica dell’intesa tra i due ex imperi.
A unire idealmente Ankara e Mosca è l’af"ato revisionista che ne permea am-
bizioni e suggestioni, l’insopprimibile e connaturato desiderio di restaurare i rispet-
tivi spazi imperiali, dunque l’anelito a presiedere alla fondazione di un sistema
globale imperniato sulle sfere d’in"uenza e non sull’egemonia americana. In prin-
cipio dunque è l’America, il senso di assedio che attanaglia le due potenze eurasia-
tiche e la contestuale percezione del declino della superpotenza, che alimenta la
convinzione di poter allentare le maglie del contenimento statunitense unendo le
forze. Le convergenze tra Turchia e Russia non hanno nulla di strategico, rispon-
dono a un !siologico istinto di sopravvivenza, che per turchi e russi è sinonimo di
restaurazione del proprio status imperiale. Con il recente paradosso che la guerra
d’Ucraina ha ribaltato i rapporti di forza, proiettando Ankara nel ruolo di senior
partner. Di questo passo, sarebbe eventualmente Putin a entrare nel mondo a gui-
da turca, non Erdoãan a aderire al blocco sino-russo.
In termini operativi, le poco cordiali intese tra Turchia e Russia non implicano
alcun proposito comune di lungo periodo, sono al contrario manifestazione di una
radicata e irriducibile rivalità, della vitale necessità di evitare un !siologico con"it-
to che indebolirebbe entrambe e consoliderebbe l’egemonia americana. Sotto il
pro!lo strategico, dunque, Ankara non è né !lo-occidentale né !lorussa. È esclu-
sivamente !loturca. E nello speci!co contesto africano l’autonomia strategica ana-
tolica – di cui la convergenza tattica con la Russia è solo una declinazione – assu-
me tonalità tutt’altro che anti-americane. Turchi e russi si sono ad esempio spartiti
le Libie, ma Erdoãan ha legittimato agli occhi degli Stati Uniti l’intervento militare
in Tripolitania con la (ragionevole) necessità di impedire che le milizie del Gruppo
Wagner raggiungessero Tripoli, dunque che Mosca mettesse sotto scacco il !anco
Sud della Nato. Analogamente, il presidente turco non disdegna gli investimenti
cinesi, anche (e soprattutto) nei settori strategici, "irta con Xi Jinping lungo le nuo-
ve vie della seta, al contempo però si propone agli Stati Uniti quale baluardo per
arginare la penetrazione della Repubblica Popolare in Africa 8. A riprova di come
la Turchia intenda coltivare il proprio progetto imperiale senza uscire prematura-
mente dal ventre americano, anzi premurandosi di tenere in considerazione – per
quanto strumentalmente – gli interessi della superpotenza. Anche perché Ankara
proietta i propri disegni imperiali nel lunghissimo periodo, come dimostra la posta
in gioco massima dell’Iniziativa africana di Erdoãan.
Nella prima intervista rilasciata dopo il golpe in Niger, il presidente dell’Asso-
8. Cfr. il documento pubblicato nell’ottobre 2020 dal Consiglio per gli affari Turchia-Usa (Taik),
208 «Re-thinking Turkey-US Economic Relations in the Covid-19 Context».
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
ciazione degli amici dell’Africa – organizzazione fondata a Istanbul nel 2015 con il
compito di promuovere le relazioni tra Turchia e paesi africani nel settore dell’istru-
zione – ha ricordato che Ankara provvede all’istruzione di circa sessantamila afri-
cani, i quali «stanno imparando a guardare il mondo, vengono allevati con una
coscienza ben de!nita. Sanno perfettamente che la Turchia è al loro !anco senza
se e senza ma. Tutti gli africani che istruiamo in Africa sono nostri amici, perché
vengono educati in modo differente. Percepiscono sé stessi diversamente rispetto
ai loro pari che studiano o hanno studiato in Francia e in Canada. E saranno loro
a plasmare il futuro del continente. Questi giovani cresceranno e renderanno lumi-
noso l’avvenire dell’Africa. È una dinamica irreversibile» 9.
La componente pedagogica è l’aspetto che più distingue la grande strategia
africana della Turchia, rendendola peculiare e per certi versi inimitabile. Ankara
non concepisce l’Africa esclusivamente come forziere di risorse naturali o come
campo da gioco sul quale testare schemi di cooperazione competitiva con i rivali
dell’America. Ambisce a intestarsi la guida del continente formandone le classi di-
rigenti del futuro, forgiando e legando preventivamente a sé gli apparati che nei
prossimi decenni tesseranno le trame africane. Approccio intergenerazionale che
ri#ette cristallinamente la visione irriducibilmente imperiale che orienta l’iperattivi-
smo di Ankara nel Continente Nero.
9. «Kıtanın umudu Türkiye! “Cin úLúeden çıktı”» («Il futuro del continente è la Turchia! “Il genio è usci-
to dalla bottiglia”»), Timeturk, 10/8/2023. 209
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
parto sicurezza. Per quanto riguarda quest’ultima, Bazoum stava avviando una
importante riforma dell’esercito. Il governo nigerino collaborava strettamente con i
contingenti stranieri presenti sul territorio in funzione antiterrorismo nel quadro di
accordi bilaterali. Basti pensare che l’Ue aveva appena inaugurato una nuova mis-
sione di addestramento di militari (Eumpm) in Niger, che avrebbe af!ancato la già
attiva missione di addestramento della polizia (Eucap), molto apprezzata. Il tutto
era avvenuto nella più stretta collaborazione con le autorità di Niamey.
Proprio per questa sua apertura e disponibilità, il Niger ha attirato l’attenzione di
tutto il mondo. Ci sono state molte visite di alto livello. Io stessa ho molto frequen-
tato il paese negli ultimi anni in costante dialogo con le autorità, con il presidente
Bazoum e i suoi ministri, con la società civile nigerina e le organizzazioni internazio-
nali presenti nel paese. Ho accompagnato l’Alto rappresentante Borrell in visita nel
paese a inizio luglio, poche settimane prima del colpo di Stato. In quell’occasione fu
inaugurata una centrale elettrica con 56 mila pannelli solari !nanziata dall’Ue e
dall’Afd, l’Agenzia francese per lo sviluppo, che darà energia a gran parte della ca-
pitale, in un paese che soffre per la grave mancanza di elettricità. Gli eventi di !ne
luglio sono stati un forte shock per gli europei e per gli africani.
LIMES Perché i colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Niger hanno riscosso tanto
favore popolare?
DEL RE Bisogna fare delle distinzioni. I casi del Mali e del Burkina Faso sono molto
diversi da quello del Niger. Non a caso l’Ecowas, la Comunità economica degli
Stati dell’Africa occidentale, organizzazione regionale di riferimento anche per l’U-
nione Europea, ha reagito in maniera differente. Al summit di Abuja di agosto a cui
ho partecipato a nome dell’Unione Europea, l’Ecowas ha dichiarato di essere pron-
ta a usare la forza militare come extrema ratio per ristabilire l’ordine costituzionale
in Niger. Si tratta, ovviamente, di una opzione cui auspichiamo non si debba arri-
vare. Tale soluzione non era stata ipotizzata nei casi del Mali e del Burkina Faso,
con i quali l’Ecowas ha fatto accordi per guidare la transizione. In Niger però è
avvenuto l’ennesimo colpo di Stato, e oggi l’Africa si interroga su come interrom-
pere la preoccupante serie di atti di forza per sovvertire l’ordine costituito che mina
profondamente lo sviluppo del continente.
Per quanto riguarda il sostegno popolare, si tratta di un tema molto controverso. In
Africa non è infrequente il fenomeno di manifestanti pagati per scendere in piazza,
per questo è dif!cile valutare il consenso. In Niger, oltre a decine di migliaia di
persone raccolte in uno stadio dalla giunta militare, si sono viste sventolare ban-
diere russe. Questo ha certamente un impatto sull’opinione pubblica, ma non di-
mostra il sostegno di un popolo. Di certo, la giunta può godere del sostegno di una
parte importante dell’élite che non riteneva i suoi interessi adeguatamente tutelati
dal governo del presidente Bazoum. In molti hanno scelto di salire sul carro del più
forte al momento del colpo di Stato, con l’inaccettabile detenzione del presidente.
L’Unione Europea continua a sostenere la necessità di ristabilire l’ordine costituzio-
nale. Attivisti e società civile spingono per il ritorno alla democrazia ma sono diso-
212 rientati rispetto a come ciò possa avvenire in questa fase complessa: Bazoum verrà
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
rio potrebbe essere una transizione democratica sul modello di Mali, Burkina Faso
e Ciad, via accordi precisi con l’Ecowas su durata e modalità della transizione per
ristabilire l’ordine costituzionale. Nella storia del Niger tutto questo è già avvenuto.
Ci sono state transizioni con elezioni a breve distanza dal colpo di Stato. Sono
molte le variabili. Riteniamo fondamentale, comunque, che il presidente Bazoum
venga liberato il prima possibile.
216
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Parte III
ALGERIA
nostro VINCOLO
ESTERNO
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
zione che cerca di imporre con la forza. In casi come quello algerino, il multiparti-
tismo non ha prodotto democrazia, bensì intolleranza e violenza.
Se in altri paesi l’idea di nazione unisce, in Algeria divide. Perciò l’esercito ha
il monopolio del potere, indispensabile per garantire un minimo di pace civile. Le
Forze armate incarnano l’idea di nazione e impediscono a chiunque di s!darla. Si
politicizzano, rivelandosi così una minaccia strutturale per la stabilità del paese: il
controllo dello Stato da parte dell’esercito intende ignorare o rimuovere le diver-
genze ideologiche esistenti nella società. Altrove, lo Stato incarna la politica. In
Algeria lo Stato è solo uno strumento amministrativo. Per evitare che cada nelle
mani di una corrente ideologica, l’esercito lo depoliticizza e gli assegna obiettivi
tecnici, come la gestione delle risorse economiche e l’amministrazione pubblica. Lo
Stato non esprime potere politico né rappresenta esigenze della società, ma è lo
strumento che l’esercito af!da alle élite civili per mantenere entro certi limiti la
pace sociale.
Il rapporto tra la nazione sovrana – incarnata dall’esercito e non dalla società
– e lo Stato amministrativo compone il campo politico algerino. Ciascuna istituzione
!nisce per operare in una gerarchia imposta dallo Stato, a sua volta subordinato
alla nazione. E proprio il mito della nazione – il cui modello in miniatura sarebbe
custodito in una cassaforte al ministero della Difesa – schiaccia lo Stato, ormai alle
prese solo con la gestione quotidiana di risorse inevitabilmente limitate e accusato
di corruzione e incompetenza. Troppo spesso chi ottiene un incarico pubblico non
tiene in considerazione l’interesse generale ma sfrutta le opportunità che lo Stato
offre per arricchirsi. Così favorisce il clientelismo. Tale situazione svilisce l’immagine
che l’opinione pubblica ha dello Stato. Eppure, per ragioni che derivano dalla storia
e dal sistema politico locale, l’immagine della nazione rimane intatta.
Insomma, gli algerini amano la loro nazione e disprezzano il loro Stato. Gli
scontri sociali hanno origine dall’idea di nazione promossa da chi intende riforma-
re lo Stato. Tutti i movimenti, in particolare gli islamisti, intendono conquistare il
paese. Sicché si scontrano con l’esercito, che proibisce di rivendicare l’appartenen-
za alla nazione senza fare riferimento all’esercito stesso. Le Forze armate non sa-
rebbero contrarie alla gestione dello Stato da parte degli islamisti, a condizione che
siano loro stesse a incaricarli, dato che sono depositarie del nazionalismo.
Molte aziende statali hanno dovuto chiudere e, anche a fronte di una netta crescita
demogra!ca, la disoccupazione è aumentata, le classi medie sono diventate più
povere, le condizioni di vita dei più svantaggiati sono peggiorate e la situazione
sociale è sempre più dif!cile da controllare. Così, lo Stato è diventato più fragile
rispetto al passato, il prestigio simbolico dell’esercito è stato eroso, l’economia è
sull’orlo del collasso e la nazione è più divisa che mai.
6. Oggi la situazione è bloccata, le forze in gioco sono divise e tanto gli oligar-
chi quanto i militari si accontentano di questo status quo. La fragilità del sistema
istituzionale algerino risiede interamente nella natura intrinseca del regime, che ha
sempre evitato di stipulare un contratto sociale basato sui diritti e sull’alternanza
politica. Solo con la vittoria delle Forze armate contro il fondamentalismo islamico,
nemico interno per eccellenza, e con la rielezione di Abdelaziz Boute"ika nel 2004
il riposizionamento dell’esercito sulle sue missioni fondamentali (difesa del territo-
rio e della sovranità) è diventato effettivo. Questo processo, risultato anche dello
scontro tra Boute"ika e l’alta gerarchia militare, ha portato all’avvento di generali e
uf!ciali che non avevano combattuto nella guerra di liberazione.
Nonostante ciò, la centralità dell’apparato militare persiste. Non solo a causa
di compromessi politici tra le parti, ma anche per garantire la sicurezza interna e
gestire le crisi lungo i con!ni meridionali. Le conseguenze del collasso della Ja-
mahiriya libica (la guerra in Mali, la presa di ostaggi nel complesso di In Aménas
nel gennaio 2013) rafforzano il ruolo delle Forze armate nel panorama politico al-
gerino. Specialmente nella de!nizione della politica estera del paese, come nel
caso della questione del Sahara occidentale e dell’integrazione dell’Algeria nel di-
spositivo di sicurezza saheliano-maghrebino. Diviene dunque ancor più dif!cile
proporre alternative a medio termine nelle relazioni fra civili e militari e nelle di-
vergenti agende nazionali, diventate ora solidali e in"uenzate dal contesto regiona-
le, dalla diffusione delle minacce e dalla volatilità delle relazioni internazionali in
via di ride!nizione.
223
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
NELLE VISCERE
DEL SISTEMA ALGERINO di Tarik MIRA
Il ruolo dell’esercito nella costruzione dello Stato. Come il regime
ha resistito alle spinte islamiste e democratiche. La repressione
dello Õiråk, l’uso politico della giustizia e dei media. L’isolamento
internazionale e le tensioni con Francia, Israele e Marocco.
SPAGNA
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Ou LIBIA
LE CITTÀ ALGERINE
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IN RIVOLTA (2018-2019)
Tam
trollata dal «partito dell’esercito», ovvero da una forza di polizia politica che regola
gli equilibri interni di potere ed è custode dell’ortodossia del regime. I servizi
segreti erano e restano gli occhi e il braccio secolare dell’esercito. I due organi-
smi lavorano insieme per creare un clima di terrore basato sulla repressione, !no
alla liquidazione !sica degli avversari. Gli assassinii di Mohamed Khider (1967)
e Krim Belkacem (1971) – fondatori del Fln – sono esempli!cativi dell’atmosfera
dell’epoca. In quella fase il governo algerino sembrava !glio del suo tempo. Era
protetto a livello internazionale dal prestigio della lotta di liberazione nazionale,
che il vertice del sistema riusciva a sfruttare a suo vantaggio. Il tempo della nega- 227
NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO
zione e dell’oblio stava però per iniziare. Gli eroi di ieri non dovevano mettere in
imbarazzo i leader di oggi.
È in tale congiuntura, all’inizio di un lungo processo di legittimazione iniziato
con l’introduzione delle elezioni municipali (1967), l’adozione della Carta nazionale
(1976) e l’elezione di una nuova Assemblea (1977), che si assiste alla lenta ascesa
del partito unico come elemento centrale del sistema istituzionale. Tuttavia, l’Esercito
popolare era rappresentato nel Comitato centrale e nell’Uf!cio politico del Fln. Il suo
leader era presidente della Repubblica e ministro della Difesa.
La legittimità del potere si basava sul nazionalismo – trionfante in questa fase
di decolonizzazione globale – e sulla capacità dello Stato di garantire sviluppo. I
risultati economici e le conquiste sociali nei settori della sanità pubblica e dell’i-
struzione di massa, sostenuti da una retorica antimperialista, hanno in!ne conferito
stabilità al sistema legittimandone le istituzioni.
Pur avendo fondato istituzioni stabili, l’esercito aveva al suo attivo già due
colpi di Stato: contro il governo provvisorio della Repubblica algerina e contro l’au-
torità legale sancita dal voto popolare, ovvero il governo del presidente Ben Bella.
Confermando quanto la violenza fosse endemica nel sistema politico e istituzionale
algerino: l’uomo che incarnava l’esercito era lo stesso che aveva normalizzato la
pratica del colpo di Stato. Ma nel 1979, con la morte di Houari Boumédiène, si
chiudeva una fase e se ne apriva un’altra.
Su cosa si basava il sistema in quel periodo storico? Senza dubbio sulla centra-
lità dell’esercito nel gioco politico e sul controllo dello Stato e della società da parte
dei servizi. Il partito unico fu inizialmente emarginato prima di essere pienamente
ripristinato a metà degli anni Settanta. Situazione a dir poco inedita, che sottolinea-
va il predominio dei militari sulla politica. Quasi vent’anni dopo l’indipendenza, il
potere dell’esercito e l’impunità del regime rendevano il governo algerino immune
da qualsiasi critica all’estero o in patria. Lo Stato nazionale algerino era addirittura
celebrato come modello per il Terzo Mondo. Tuttavia, cominciavano a intravedersi
le prime contraddizioni, esplose dopo la morte di Boumédiène.
Alla !ne del 1979, l’avvento di Chadli Bendjedid – primus inter pares – segnò
la prima svolta. Egli si affermò all’interno dell’establishment militare perché era
l’uf!ciale più alto in grado, perciò delegato dai suoi pari a prendere il potere. En-
nesimo segno che in Algeria le elezioni presidenziali si svolgono innanzitutto tra
i ranghi dell’esercito.
Questo periodo fu caratterizzato dall’unità d’intenti tra le due istituzioni mi-
litari: l’esercito e i servizi segreti. Intanto sul fronte economico veniva autorizzata
un’apertura controllata.
Metodo rinnovato
La ventennale stretta alle libertà era legittimata dall’ascesa sociale di un’intera
élite burocratica (amministrativa ed economica) e dal miglioramento della situazio-
228 ne sociale degli algerini nel loro complesso. Lo sgretolamento di questa congiuntura
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
scatenò aspirazioni di cambiamento e diede vita a una nuova corrente politica: l’isla-
mismo. Emersero dunque due movimenti – l’islam politico e la democrazia – che,
per quanto agli antipodi, volevano entrambi la !ne del regime. Il massacro conse-
guente ai moti dell’ottobre 1988 accelerò gli eventi. La conseguenza immediata fu
l’introduzione di un sistema multipartitico attraverso la revisione della costituzione
del 1977. Opzione rivoluzionaria che avrebbe dovuto portare pace e libertà.
Tuttavia, la netta vittoria della corrente islamico-totalitaria alle elezioni muni-
cipali (1990) e a quelle legislative (1991) portò i militari, i servizi e le forze civili
a impegnarsi direttamente per impedire l’ascesa al potere degli islamisti. Costoro
non avevano mai fatto mistero del loro obiettivo: sottomettere il paese alla legge
religiosa, come sancito dalle urne. L’Algeria era sull’orlo del precipizio. La massiccia
repressione che ne seguì fu una novità nell’arena pubblica nazionale, come anche
l’emergere del terrorismo. Una violenza senza precedenti pervase sia lo Stato sia la
società, causando la morte di decine di migliaia di persone, civili compresi. Il mo-
dello algerino, che coniugava retorica antimperialista, pratiche sociali vantaggiose
e annientamento delle libertà, si disintegrò. Il sistema divenne oggetto di costante
denuncia da parte delle associazioni per la difesa e la promozione dei diritti umani.
Fu necessario un nuovo processo di legittimazione. Lo Stato si mise a disposi-
zione del regime per salvare il sistema nel suo complesso, come dimostrato dall’a-
scesa al potere di Boute"ika. Quest’ultimo accelerò la trasformazione della società
consolidando l’alleanza tra i diversi partiti creati al suo interno e le formazioni
islamiste. Insomma, si passò da un partito unico a una coalizione di partiti unici.
Allo stesso tempo, il potere decisionale, precedentemente in mano al ministe-
ro della Difesa, tornò alla presidenza. Operazione senza precedenti. Per la prima
volta dall’inizio della lotta al terrorismo, i servizi vennero svincolati dal loro storico
tutore: l’esercito. Inoltre, l’esigenza di stabilità istituzionale prese il sopravvento sul
progetto democratico. Le conquiste ottenute nell’ultimo decennio vennero gradual-
mente messe in discussione.
La nuova fase fu segnata dall’ascesa degli oligarchi, ovvero coloro che in genere
vivono sulle spalle del governo per bene!ciare degli appalti pubblici. Il legame tra
potere politico e ambienti !nanziari diventò chiaro ed evidente. L’élite oligarchica
assunse un atteggiamento sostanzialmente ma!oso. La corruzione entrò in maniera
palese nella vita pubblica. Le analogie con il sistema russo sono inquietanti.
Quel periodo fu caratterizzato dagli abusi di potere, dall’alto costo della vita e
dall’arricchimento illecito. Tutti fattori che diedero energia alla società civile, che a
sua volta si radicalizzò sotto lo slogan «yetnahaw gaa» («cacciateli tutti»).
Indebolimento internazionale
Ogni volta che il potere viene s!dato, questo punta il dito contro i nemici
esterni. Anzitutto Francia, Marocco e Israele. In termini regionali e mediterranei,
230 il sostegno della Spagna al Marocco è, per Algeri, una cattiva notizia. L’accordo
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
israelo-marocchino costituisce poi una minaccia reale alla sicurezza del paese in
caso di guerra tra i due vicini.
Oggi assistiamo a una recrudescenza del nazionalismo. L’inizio del dibattito
sulla legittimità della nazione algerina – esisteva prima dell’invasione francese? – ha
rivelato un’insospettabile fragilità delle autorità e delle élite di fronte a una questio-
ne certo delicata ma non irrisolvibile. Nel 2021, il raccoglimento dell’allora ministro
degli Esteri Ramtane Lamamra sulla tomba di Giugurta durante la sua visita a Roma
è un’esibizione teatrale che impedisce di interrogarsi obiettivamente sulla nostra
storia passata e presente. La dura risposta del governo algerino al presidente fran-
cese Macron, secondo il quale l’Algeria esiste in virtù di un «af!tto della memoria»,
è anche un modo per fare pressione su Parigi perché espella gli oppositori. Sembra
che questa volta la frattura tra i due paesi sia signi!cativa.
La guerra in Ucraina, tuttavia, sta rimescolando le carte. Il sistema, duramen-
te colpito durante il decennio di sangue, sta riprendendo vigore. È candidato a
entrare nei Brics, ma aderire a quel gruppo non è scelta neutra. L’indebolimento
dell’Algeria sulla scena internazionale, dove un tempo godeva di prestigio e ampio
sostegno, è un fattore signi!cativo specie in proiezione futura.
In conclusione, che cos’è lo Stato in Algeria? È un Moloch che sa proibire,
reprimere, frodare, concedere, corrompere, esiliare e deviare la legittimità senza
rinunciare all’essenziale: mantenere il potere e controllarlo !no in fondo. Oltre
che sulle Forze armate il sistema può contare su un’altra assicurazione sulla vita:
le rendite energetiche, che gli permettono di mantenere la sua autorità. Esercito
e idrocarburi sono i due pilastri di un sistema che sta fallendo, come testimoniato
dal fatto che sempre più cittadini decidono di fuggire o di autoesiliarsi. Il Moloch
algerino è ancora assetato di potere, nonostante la gerontocrazia. La giovane e
dinamica società civile avrà la meglio sul regime? La partita è iniziata.
231
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
REGION DI STATO
LE RADICI TERRITORIALI
DEL POTERE IN ALGERIA di Marcella MAZIO
Il presidente della Repubblica esprime clan e aree geopolitiche
differenti, sempre sotto il controllo dell’esercito. Il pendolo parte
dall’Ovest, volge all’Est e torna indietro con Tebboune. L’equilibrio
tra militari e civili ha le sue regole non scritte, revocabili dai primi.
2. L’intricato dualismo tra autorità politica e forza militare risale alla divisione
consolare del potere nella guerra di liberazione nazionale (1954-62) tra governo
provvisorio della Repubblica algerina (Gpra) ed Esercito di liberazione nazionale
(Aln). Il Gpra viene de"nitivamente sconfessato con la nascita dell’Anp, frutto di
una dif"cile fusione tra le armate di frontiera di stanza in Tunisia e Marocco e i
maquisards (partigiani) attivi nella guerriglia urbana. L’esercito algerino non è un
monolite, ma si articola in tre strutture relativamente autonome: la Sicurezza milita-
re – oggi Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Drs) – sotto la presidenza
della Repubblica, i distretti militari e la gendarmeria nazionale.
Nel 1963, l’Anp sostiene la presidenza di Ahmed Ben Bella, originario della
provincia di Tlemcen, al con"ne con il Marocco. Attorno a Ben Bella sembra
strutturarsi un primo potente clan. In realtà, la guida del paese gli è garantita dal
capo di Stato maggiore e ministro della Difesa Houari Boumédiène. Nato a orien-
te – letteralmente dall’altra parte del paese – il colonnello Boumédiène è il leader
del clan di Oujda, città marocchina quartier generale dell’Aln. Strategicamente,
Boumédiène si circonda di militari e "gure politiche dell’Ovest per consolidare i
con"ni della neonata Algeria, così come de"niti dalla «guerra delle sabbie» contro
il Marocco.
Il predominante clan di Oujda circonda Ben Bella di personalità politiche a lui
distanti. Il presidente tenta di liberarsene, ma è destituito con un colpo di Stato nel
1965 proprio da Boumédiène. Solo due anni prima, il colonnello gli aveva conse-
gnato l’imperio. È interessante notare come in Algeria il processo di sostituzione
dei capi di Stato, punta dell’iceberg dei rapporti di forza all’interno dell’esercito,
si svolga paci"camente. All’epurazione dell’entourage di Ben Bella sopravvive il
ministro degli Esteri Abdelaziz Boute#ika. Nato proprio a Oujda e cresciuto sotto
l’ala di Boumédiène, pur non essendo un militare di carriera diventerà presidente
della Repubblica nel 1999.
Nell’èra Boumédiène (1965-1978) governa il Consiglio della rivoluzione. Il re-
gime è, tuttavia, semi-militare poiché il potere è anche in mani civili, come nel caso
di Boute#ika. Ulteriore prova della natura bicefala del sistema politico algerino,
234 1. Cfr. K. NEZZAR, Algérie: échec à une régression programmée, Paris 2001, Publisud.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
A L G E R I A
Tindouf LIBIA
In Salah
MAURITANIA
Djanet
Con!ni statali
Con!ni dei wilayat (dipartimenti) Tamanrasset
1 Grande Cabilia
2 Piccola Cabilia
Nord e Algeri M A L I
Grande Sud NIGER
Area di movimento dei tuareg
Aree berbere/berberofone
3. Alla morte del colonnello, i con"itti interni mai sopiti mettono in crisi gli
apparati militari e quindi la tenuta istituzionale del paese. Ad interim sono i civili
a mantenerla: nel 1978-79 è Rabah Bitat; nel 1992, alla vigilia della guerra civile,
sarà Abdelmalek Benhabyles. La storica lotta tra esercito di frontiera e guerriglieri
della liberazione nazionale evolve nella competizione tra i «disertori dell’esercito
francese» (Daf) e lo zoccolo duro dell’Aln. Uno scontro già in nuce all’indomani 235
REGION DI STATO: LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA
4. La !ne del con"itto tra militari e islamisti vede la prevista ascesa al potere di
Abdelaziz Boute"ika. Uomo della rivoluzione e dell’indipendenza, membro emi-
nente del clan di Oujda, distintosi per le sue eccellenti capacità diplomatiche e pri-
mo presidente civile della storia del paese, Boute"ika resta al potere per vent’anni.
Con lui l’esercito ambisce a riconquistare uno spazio chiave per l’Algeria: la scena
internazionale. Boute"ika riesce a ripristinare la credibilità del paese – e del suo
esercito – dopo anni di embargo morale.
L’attentato alle Torri Gemelle (2001) ripropone con estrema serietà la necessi-
tà di modernizzare l’esercito, af!nché l’Algeria possa cooperare militarmente con
Nato e Stati Uniti. Nonostante a Boute"ika sia stato spesso attribuito l’allontana-
mento dell’esercito dalla politica, i suoi mandati si contraddistinguono per la pro-
fonda interdipendenza tra i due poteri. La legittimità storica del presidente favori-
sce la professionalizzazione degli apparati militari. Il portafoglio della Difesa, sotto
il suo diretto controllo, garantisce all’Anp un budget pressoché illimitato. L’esercito
smette di governare e torna a essere il deus ex machina della politica.
Con l’allontanamento di Nezzar, Zéroual e del fedelissimo Guénaïzia, !nisce il
dominio politico dei chaoui. Il potere torna progressivamente nelle mani dei clan
dell’Ovest. Con delle eccezioni: la guida dell’Anp è af!data al generale Ahmed
Gaïd Salah, originario dell’Aurès e la cui rete locale nella regione di Jijel era stata
chiave per smantellare le cellule dell’Esercito islamico di salvezza. Le élite politi-
co-militari cabile sono invece conservate dal potere. D’altronde, è sotto Boute"ika
che i movimenti indipendentisti si radicalizzano e avviene la rottura con le popola-
zioni berbere. I legami regionali di personaggi come Mohamed Touati, consigliere
alla presidenza nato a Tizi Ouzou, diventano essenziali per preservare l’integrità
territoriale del paese.
238
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
in vigore tra l’Italia e i suoi principali partner europei. Bisogna sottolineare che
Roma non aveva mai stipulato un accordo di tal genere con un paese nordafrica-
no. È stato in parte a causa di a questa operazione, ma soprattutto grazie alle
complementarietà economiche tra i due paesi, che l’Italia è diventata uno dei più
importanti partner economici dell’Algeria, mantenendo per diversi anni la posizio-
ne di primo cliente e terzo fornitore, nonostante il persistente de!cit della sua bi-
lancia commerciale. Tale squilibrio è stato gradualmente temperato anche grazie
al trattamento di favore riservato alle imprese italiane per ridurre il de!cit commer-
ciale, che in effetti presentava un palese squilibrio a favore dell’Algeria di 5,5 mi-
liardi di dollari, riconducibile alla natura degli scambi tra i due paesi, che vertono
essenzialmente sugli idrocarburi. Dal 1983, infatti, il metano algerino si dirige
verso l’Italia attraverso al gasdotto Enrico Mattei, vero e proprio cordone ombeli-
cale che collega i due paesi attraverso la Tunisia. Il 96% del gas che vi viene tra-
sportato è riservato all’Italia.
Data la crescente domanda di gas da parte di Roma, la costruzione di un se-
condo gasdotto italo-algerino attraverso la Sardegna, noto come Galsi, è stata prima
presa in considerazione e poi rinviata per la riluttanza di Eni. Il progetto è stato ri-
lanciato nel marzo 2005 ed è diventato oggetto di un accordo intergovernativo !r-
mato ad Alghero in occasione del primo vertice italo-algerino, il 14 novembre 2007.
Tuttavia, gli ulteriori tentennamenti italiani hanno portato al rinvio del Galsi. Nei
primi anni Duemila, infatti, l’Italia e l’Unione Europea guardavano con favore so-
prattutto al progetto del gasdotto trans-anatolico (Tanap) noto come «corridoio sud»,
che avrebbe dovuto trasportare il gas dell’Azerbaigian a Bulgaria, Grecia e quindi
Italia tramite la condotta transadriatica (Tap). Intanto, Bruxelles sviluppava il pro-
getto di un altro gasdotto, noto come Nabucco, che avrebbe dovuto collegare l’U-
nione Europea a fonti di gas naturale nel Mar Caspio e in Medio Oriente. L’obiettivo
era diversi!care e rendere più sicure le fonti di approvvigionamento e le rotte eu-
ropee al !ne di ridurre la dipendenza da Mosca, considerata inaf!dabile già al
momento della prima crisi ucraina e dell’annessione della Crimea, nel 2014.
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(Esistente - gasdotto Enrico Mattei)
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(Esistente)
Trans-Sahara
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re la sua politica verso il Maghreb e il resto dell’Africa. Alti dirigenti dei due paesi
hanno sottolineato la profonda complementarità economica e la possibilità, per
l’Algeria, di ispirarsi al modello economico italiano, basato sulle piccole e medie
imprese, per avviare !nalmente le profonde riforme strutturali che diventano ogni
giorno più essenziali. È quindi legittimo che l’Algeria insista sul coinvolgimento
dell’Italia nella modernizzazione e nella diversi!cazione della sua economia.
Tuttavia, è deplorevole constatare come, a parte le aziende di idrocarburi, i
grandi gruppi industriali italiani siano assenti dal mercato algerino. A questo pro-
posito, non possiamo che stigmatizzare il fallimento del progetto del gruppo Fiat,
risalente agli anni Ottanta, di creare uno stabilimento automobilistico nel paese e
il suo conseguente trasferimento in Marocco. Un nuovo progetto della stessa na-
tura è previsto per la città algerina di Orano, con i primi modelli che dovrebbero
uscire dalle linee di produzione alla !ne del 2023. Tale programma è stato annun-
ciato nell’ottobre 2022, con l’ambizione dichiarata di «convergere il più rapida-
mente possibile verso il massimo livello di integrazione locale», secondo le dichia-
razioni della parte italiana. L’opinione pubblica algerina aspetta e spera che di-
venti realtà.
Spetta all’Algeria andare oltre i tradizionali convenevoli diplomatici, le ef!me-
re e "uttuanti amicizie interstatali, le dichiarazioni a caldo più o meno attendibili e
impegnarsi di più per una vera contropartita economica, che deve concretizzarsi
nel coinvolgimento dell’Italia nella creazione di partenariati multidimensionali reci-
procamente vantaggiosi. È anche vero che l’Algeria deve attuare vere riforme strut-
turali dell’economia, da tempo individuate ma costantemente rinviate anche per
preservare la pace sociale. Non basta compiere giuste diagnosi e produrre condi-
visibili dichiarazioni d’intenti: queste riforme sono assolutamente indispensabili per
portare il sistema algerino a un livello tale da allinearsi al modello di sviluppo
dell’Italia, ottava economia mondiale, e degli altri principali partner economici del
paese. Solo così si potrà evitare che l’attuale riavvicinamento tra l’Algeria e l’Italia
si risolva in una rituale e banale presa d’atto di un’opportunità tattica offerta da una
situazione economica altalenante, i cui risultati non corrispondono affatto alle am-
bizioni dichiarate. Al contrario, è importante fare tutto il possibile per contribuire
alla costruzione di un vero e proprio partenariato strategico algerino-italiano capa-
ce di creare legami strutturali in grado di resistere a crisi e pericoli vari, nel rispetto
reciproco e nell’equilibrio di interessi tra le due parti. Un vincolo basato sulla sana
competizione regionale e internazionale, che smentisca la (falsa) credenza secondo
cui l’Algeria non sarebbe altro che una riserva di caccia.
245
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
L’ALGERIA
MINACCIA SÉ STESSA di Aghilès AÏT-LARBI
Stallo politico, giovani in fuga, economia poco competitiva,
dipendenza dagli idrocarburi, carenza di leadership: ecco i
mali che continuano ad affliggere il principale hub energetico
del Mediterraneo. Il vuoto dopo Bouteflika.
della Difesa si è affermato come !gura chiave nel processo decisionale attraverso
un intenso dialogo sociale caratterizzato da discorsi settimanali e da un calendario
elettorale immodi!cabile.
In questa cornice, il momento di grande rilegittimazione del regime doveva
essere rappresentato dalle elezioni presidenziali del dicembre 2019. Eppure, nono-
stante un controllo molto stretto del sistema elettorale e nonostante i cinque can-
didati avessero seguito le orme del governo, le elezioni hanno prodotto scarsi ri-
sultati: con un’af"uenza pari appena al 40%, si è trattato delle votazioni più boicot-
tate nella storia dell’Algeria.
2. È dunque più probabile che la vera svolta politica sia arrivata nel marzo
2020. Il Covid-19 ha offerto una grande opportunità al sistema algerino. Innanzitut-
to, l’epidemia ha costretto i cittadini che partecipavano alle manifestazioni settima-
nali del martedì e del venerdì a sospenderle. Fino ad allora, le proteste avevano
permesso di costruire un equilibrio politico con il regime e di far emergere una
narrazione alternativa a quella uf!ciale. Se un gran numero di attivisti era già stato
arrestato nel corso del 2019, il 2020 ha segnato l’inizio della resa dei conti tra regi-
me e oppositori. Da allora, il governo ha costantemente aumentato gli arresti di
manifestanti, giornalisti e accademici di ogni orientamento politico.
Il culmine di questo processo è stato raggiunto quando il Consiglio superiore
della sicurezza (Hcs), organo consultivo in cui sono rappresentati i ministeri e i
corpi addetti alla sicurezza nazionale, ha deciso di classi!care come «terroristi» il
movimento islamico Rachad e il Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia
(Mak). Ma le azioni ritorsive non si sono fermate qui: associazioni come il Rassem-
blement action jeunesse (Raj), la Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Lad-
dh) e la Caritas locale sono state sciolte.
La repressione della società civile ha sempre caratterizzato il regime algerino.
Nel tempo sono solo cambiate le procedure: oggi, soprattutto a seguito degli scon-
volgimenti generati dallo Õiråk, vengono create organizzazioni satellite af!ni al
regime, si addomestica l’opposizione e, soprattutto, si gestiscono in modo autori-
tario i mezzi di informazione. Con l’apertura politica registrata alla !ne degli anni
Ottanta, l’Algeria si era affermata nel mondo arabo come paese capace di garantire
un certo livello di libertà ai media nazionali grazie all’Agenzia nazionale per l’edi-
toria e la pubblicità (Agence nationale d’édition et de publicité, Anep). Sebbene
questo organismo sia diventato ben presto un ricettacolo di corruzione e di clien-
telismo, nel corso degli anni le testate in lingua araba e francese sono state tenden-
zialmente libere e hanno acquisito una certa in"uenza.
Dal 2019 la rotta si è invertita. In Algeria la crisi dell’informazione è evidente.
Si pensi al quotidiano in lingua francese El Watan, costretto a mettersi in regola
dopo una lunga agonia !nanziaria causata dalle pressioni dei funzionari pubblici
sugli inserzionisti privati. Oppure a Liberté, di proprietà del miliardario Issad Re-
brab, giornale che è stato chiuso senza prendere in considerazione le proposte di
248 acquisizione da parte della redazione. Tra gli esempi più emblematici delle restri-
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
zioni alla stampa ci sono poi i casi di giornalisti come Khaled Drareni e Ihsane El
Kadi 1: il primo è stato arrestato nel marzo 2020, condannato e, nel febbraio 2021,
graziato dal presidente; El Kadi, giornalista e direttore di Interface Médias, è stato
condannato in appello a sette anni di carcere anche se dovrà scontarne solo due.
In entrambi i casi, i giornalisti sono stati accusati dal presidente di essere khabar-
djis, informatori al servizio di potenze straniere.
dati di questo sondaggio non sono aggiornati, ma il numero di chi intende partire
sta crescendo: lo dimostrano gli innumerevoli video di veri e propri «consulenti per
l’emigrazione» sui social network, le polemiche sui medici algerini che vanno all’e-
stero e il numero crescente di migranti clandestini (harragas). Di conseguenza, la
situazione politica unita al disagio economico non può che alimentare il senso di
emarginazione tra i giovani.
Questa è una delle prime s!de che il governo algerino deve affrontare: costru-
ire un progetto politico capace di offrire speranza. In caso contrario, chi aspira a
emigrare continuerà ad affollare i consolati stranieri e ad alimentare la clandestini-
tà, creando un duplice problema: in Algeria la fuga di cervelli e in Europa la pre-
occupazione della migrazione irregolare, che di anno in anno sta diventando sem-
pre più rilevante nel dibattito pubblico.
Le analisi di molti osservatori sulla stabilità politica dell’Algeria sono spesso
lontane dalla realtà. Sebbene le strutture del potere siano soggette a minacce reali,
come la diffusione della corruzione o la disgregazione dello Stato, il collasso istitu-
zionale sul modello della vicina Libia sembra impossibile. Le Forze armate algerine,
che restano la radice del potere locale, godono di una solidità istituzionale senza
eguali e di un sostegno popolare innegabile. Le manifestazioni paci!che dello
Õiråk hanno dimostrato che oggi gli algerini ri!utano la violenza come mezzo per
esprimere le proprie istanze politiche, anche se i disordini dovuti alla crisi econo-
mica e sociale restano numerosi. L’incapacità di offrire una visione, la disintegrazio-
ne del contratto sociale e la percezione della mancanza – reale o presunta – di
prospettive stanno facendo perdere al paese una parte signi!cativa della sua linfa
vitale.
proventi dell’energia, settore che a sua volta muove tanto le esportazioni quanto le
importazioni e il mercato monetario. Ma, per essere elevato, l’accesso alle rendite
deve essere limitato a pochi. E a questo servono alcune misure burocratiche 6: ga-
rantire alle autorità pubbliche l’accesso ai pro
"tti economici in modo tale da offrire
privilegi ai clienti del regime. Ma così l’economia algerina rischia di soffocare.
Attualmente l’amministrazione sembra paralizzata. Sebbene l’esecutivo abbia
tentato in numerose occasioni di sbloccare la situazione, secondo molti osservato-
ri i processi organizzati nell’ambito delle operazioni anticorruzione dopo la caduta
di Boute#ika rivelano il timore dei dirigenti della pubblica amministrazione, che
non vogliono più prendere decisioni di cui potrebbero essere ritenuti responsabili.
Nel frattempo, l’economia algerina resta bloccata da vari rischi macroeconomici.
Innanzitutto, l’eccessiva dipendenza dagli idrocarburi rende il paese dipen-
dente dagli sviluppi del mercato energetico globale. Allo stesso tempo, il consumo
energetico dell’Algeria sta aumentando vertiginosamente 7 e ciò renderà necessario
convertire una quota sempre maggiore della produzione verso la domanda nazio-
nale. Uno dei paradossi dell’economia algerina è che la corruzione avvolge ogni
settore, dai fattori di produzione ai consumi intermedi: ciò non solo ha ridotto gli
utili degli investimenti, ma anno dopo anno sta rendendo la produttività sempre
più negativa. In poche parole 8, più investimenti si fanno, meno essi sono produt-
tivi. Queste dinamiche contribuiscono a paralizzare un’economia già incapace di
assorbire la popolazione di laureati che ogni anno lascia l’università e di offrire
posti di lavoro all’altezza delle loro quali"che. La disoccupazione giovanile (15-25
anni) s"ora il 30%, alimentando il bacino di chi intende emigrare 9.
indipendente, è indiscutibile che la sua azione politica non sia mai stata guidata da
interessi personali. Chi, tra coloro che sono oggi legati al sistema, può affermare di
avere una visione e un progetto per il futuro dell’Algeria?
Il fatto che il governo ricicli lo stesso personale – si pensi ai ministri Ramtane
Lamamra e Ahmed Attaf – dimostra come le uniche competenze richieste siano
ancora quelle del passato. Che dire poi dell’incapacità di formulare un progetto
politico e di avere una chiara visione del futuro del paese? La diffusione della cor-
ruzione e l’emarginazione delle competenze all’interno del partito fanno del cini-
smo la sola forza motrice dell’azione politica. Senza essere ingenui e senza !nire a
parlare di possibile rivoluzione dei garofani, tutti questi segnali dovrebbero rappre-
sentare un campanello d’allarme per la classe dirigente algerina.
252
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
MOSCA E ALGERI
AMICIZIA CON LIMITI di Adlene MOHAMMEDI
Storia e attualità di un’intesa solida, ma perimetrata e sbilanciata
a favore della Federazione. L’eredità sovietica negli armamenti
e tra i capi militari. Il rapporto clientelare svela la fragilità del
Pouvoir. L’Algeria tiene il piede in più scarpe: Russia, Cina e Usa.
1. F. ABBAS, Autopsie d’une guerre: l’aurore, Paris 1980, Garnier Frères, p. 209.
2. F. MAATOUG, «John F. Kennedy, la France et l’Algérie», Guerres mondiales et con!its contemporains, 253
n. 4/2006, pp. 135-153.
MOSCA E ALGERI, AMICIZIA CON LIMITI
tamente centrale, tra gli altri. Oltre alla clandestinità politica (il culto della segretez-
za), dopo la separazione dalla Francia il governo algerino ha ereditato dal movi-
mento di liberazione anche la !essibilità diplomatica (la capacità di sedurre attori
molto diversi tra loro).
Mosca riconosce di fatto il governo provvisorio della Repubblica di Algeria
solo nel 1960. L’indipendenza dell’Algeria nel 1962 viene accolta con la stessa fred-
dezza. «Noi non saremo in grado di supportare due Cuba; voi avete già un buon
partner: il generale de Gaulle, tenetevelo stretto!» 3, avrebbe detto Nikita Khruš0ëv
al primo presidente dell’Algeria indipendente, Ahmed Ben Bella.
Un primo riavvicinamento con la Russia, proprio negli anni di Ben Bella, por-
ta all’accordo militare del 1963. Tuttavia, offrirsi completamente ai sovietici è fuori
questione per Houari Boumédiène (presidente dal 1965 al 1978), nonostante i
rapporti talvolta burrascosi tra Algeri e Washington – vedi la rottura delle relazioni
diplomatiche dal 1967 al 1974, in seguito alla guerra dei Sei giorni. Parallelamente
all’accordo con la Russia, centinaia di uf$ciali algerini vengono infatti addestrati
presso l’Accademia militare francese di Saint-Cyr Coëtquidan. A partire dal 1968 la
cooperazione militare con Parigi si rafforza ulteriormente nei settori dell’organizza-
zione e della fornitura di equipaggiamento bellico4. L’Algeria stava chiaramente
attuando una strategia di diversi$cazione in un contesto di «non allineamento».
Tuttavia, questa diversi$cazione non oscurava l’innegabile preponderanza so-
vietica in campo militare. Secondo le autorità militari francesi, nel 1963 Boumé-
diène – allora ministro della Difesa – otteneva da Mosca 1,1 miliardi di franchi
(circa 1,7 miliardi di euro) in crediti per forniture belliche 5. Fonti sempre francesi
attestano che il valore degli equipaggiamenti consegnati dall’Unione Sovietica
all’Algeria tra l’indipendenza e l’aprile 1967 ammontava a 1,64 miliardi di franchi 6
(circa 2,3 miliardi di euro). Questa dipendenza non è mai stata messa in discussio-
ne nei decenni successivi. E la Russia post-sovietica ne ha saputo appro$ttare.
Alla $ne degli anni Settanta, il 90% dell’equipaggiamento militare algerino era
di origine sovietica 7. Mosca ha inoltre contribuito allo sviluppo del settore minera-
rio e ha aperto ai giovani laureati algerini, come ad altri africani e arabi, i propri
centri di formazione e le sue università. Molti dirigenti, ingegneri e uf$ciali della
giovane repubblica hanno bene$ciato della formazione sovietica, cui si accompa-
gnavano legami matrimoniali e culturali. Oggi, malgrado le università siano rimaste
aperte agli studenti arabi e africani $no alla caduta dell’Urss, le tracce di questa
in!uenza – s$data da quella francese e anglosassone – sono impercettibili. I diri-
genti formatisi nell’Unione Sovietica non sono sempre i più apprezzati. Nel settore
energetico, ad esempio, la presidenza del gigante petrolifero Sonatrach, fondato
nel 1963, è regolarmente af$data a ingegneri formatisi negli Stati Uniti.
3. M. HARBI, L’Algérie et son destin: croyants ou citoyens, Paris 1992, Arcantère, p. 188.
4. I. GRIDAN, G. LE BOULANGER, «Les relations militaires entre l’Algérie et l’URSS, de l’indépendance aux
années 1970», Outre-mers, n. 354-355/2007, pp. 37-61.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
254 7. N. GRIMAUD, La politique extérieure de l’Algérie (1962-1978), Paris 1984, Karthala, p. 133.
AFRICA CONTRO OCCIDENTE
Per contro, i dirigenti istruiti nell’Urss sono ancora presenti ai vertici dell’eser-
cito. L’attuale capo di Stato maggiore, Saïd Chengriha, è stato addestrato all’Acca-
demia russa di Vorošilov negli anni Settanta. Anche il suo predecessore, Ahmed
Gaïd Salah, uomo forte durante i primi mesi dello Õiråk e arte"ce della cacciata di
Abdelaziz Boute#ika – al quale era vicino – è stato addestrato in Unione Sovietica.
Lo stesso vale per il generale Ali Ghediri, ex direttore delle Risorse umane del mi-
nistero della Difesa ora in carcere per «aver minato il morale dell’esercito in tempo
di pace». Ghediri ha voluto «s"dare il sistema», secondo le sue stesse parole, pre-
sentando la propria candidatura alla presidenza della Repubblica. Di tutti i centri di
potere in Algeria, l’impronta russa sembra perdurare maggiormente nell’esercito,
che del potere resta il cuore. Tuttavia, la nuova generazione di generali è meno
russo"la delle precedenti, quantomeno in termini culturali.
Superate le gravi crisi vissute da entrambi i paesi alla "ne del secolo scorso, le
relazioni tra Russia e Algeria si sono rafforzate nei primi anni Duemila. Oltre all’e-
voluzione del contesto internazionale e alle trasformazioni interne, fra russi e alge-
rini esistono rappresentazioni, istinti e interessi comuni. La guerra in Ucraina offre
l’opportunità di rinsaldarli, ma anche di vederne i limiti.
2. Dopo la "ne della guerra fredda, Mosca e Algeri hanno percorso, mantenen-
do le dovute proporzioni, traiettorie simili. Mentre la Russia post-sovietica trasfor-
mava la guerra in Cecenia in una guerra contro l’islam politico e il terrorismo,
l’Algeria precipitava nel cosiddetto decennio nero, durante il quale scontri tra eser-
cito e gruppi islamisti si alternavano a massacri. All’inizio degli anni Duemila, en-
trambe si sono lasciate gradualmente alle spalle le rispettive guerre civili, con due
nuovi presidenti: Vladimir Putin e Abdelaziz Boute#ika, a capo di sistemi in cui le
oligarchie uf"ciali colludono con i servizi di sicurezza e intelligence. In"ne, nel
corso di quel decennio, Russia e Algeria hanno bene"ciato dell’aumento dei prez-
zi degli idrocarburi, fatto che ha contribuito al consolidamento della loro relazione
fornitore-cliente.
Oltre alle eredità dei rapporti algerino-sovietici, a partire da questo periodo la
politica estera dei due paesi ha cominciato ad assumere lo stesso contenuto seman-
tico e concettuale. Così oggi Algeria e Russia attribuiscono pubblicamente partico-
lare importanza alla sovranità nazionale e al principio di non ingerenza; pongono
la medesima enfasi sull’idea di un mondo multipolare e utilizzano la stessa retorica
securitaria. Inoltre, entrambi i governi rischiano di subire le conseguenze del jihåd
transnazionale: gli «anciens d’Afghanistan», i veterani jihadisti che hanno combat-
tuto contro l’Armata Rossa negli anni Ottanta, arrivano in Cecenia come in Algeria.
Negli anni Novanta il governo algerino era mal visto a livello mondiale, tanto
che sull’esercito gravava un pesante embargo, mentre la Russia veniva duramente
criticata per le operzaioni in Cecenia. L’11 settembre 2001 pare confermare le tesi
antiterroristiche dei due governi, che si appropriano allo stesso modo degli atten-
tati. Da quel momento, Russia e Algeria si propongono a Washington come attori
chiave, se non per"no soci nella lotta contro il terrorismo. 255
MOSCA E ALGERI, AMICIZIA CON LIMITI
Nonostante queste similitudini, agli inizi degli anni Duemila Mosca non ritene-
va Algeri un partner privilegiato. Nel suo primo mandato (2000-04) Putin guardava
principalmente agli Stati Uniti e all’Europa. La sua offensiva diplomatica nel mondo
arabo è cominciata soltanto durante il secondo mandato (2004-08). La sua visita ad
Algeri nel 2006 acquisisce un signi!cato particolare perché avvenuta a circa trent’an-
ni dall’ultima visita di un leader sovietico 8. In quell’occasione, il presidente russo
ha annunciato l’estinzione del debito algerino nei confronti della Federazione Rus-
sa, che ammontava a 4,7 miliardi di dollari. Contestualmente, l’Algeria si è impegna-
ta a spendere 7,5 miliardi di dollari in armi russe 9.
di dollari» con Mosca, sulla scia di un forte aumento del bilancio destinato alla
difesa da parte del governo algerino (oltre 22 miliardi nel 2023, più del doppio
rispetto al 2022) 12.
Tra il 2015 e il 2019, l’Algeria è stata il sesto importatore mondiale di armi e il
terzo cliente della Russia, dopo India e Cina. Quanto ai trasferimenti di armi, se-
condo i dati del Sipri nell’arco di vent’anni, dal 2002 al 2022, quasi il 76% delle
importazioni algerine è provenuto dalla Russia. Una percentuale certamente mino-
re rispetto al 90% registrato alla "ne degli anni Settanta, ma la diversi"cazione resta
limitata. D’altronde, il governo preferisce gli aerei multiruolo russi Beriev persino
in ambito civile, dove affronta una delle principali minacce che gravano attualmen-
te sul territorio algerino: gli incendi. Come per il grano, la guerra in Ucraina e le
sanzioni contro Mosca possono rappresentare un ostacolo alla regolarità delle for-
niture di armi russe.
In ambito energetico, tre punti meritano particolare attenzione. Il primo va
oltre le relazioni russo-algerine e riguarda i rapporti tra Mosca e l’Organizzazione
dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Con l’inizio della guerra in Ucraina, nell’O-
pec a guida saudita hanno prevalso la convergenza di intenti e la determinazione
a resistere alle pressioni americane. Come dimostra la decisione di diminuire la
produzione di petrolio nell’ottobre 2022.
Il secondo punto riguarda la capacità di Algeri di sostituirsi a Mosca come
principale fornitore di gas all’Europa. Il progetto incontra due importanti limiti: la
crescente domanda energetica interna dell’Algeria e le sue scarse capacità di pro-
duzione.
Il terzo deriva da quest’ultimo punto. Per risolvere l’inef"cienza produttiva, l’Al-
geria ha bisogno di un socio e la scelta sembra ricadere sugli Stati Uniti. Modi"cando
la legge in modo da attirare investimenti stranieri 13, il governo algerino punta sulle
compagnie statunitensi. In un colloquio con l’ambasciatrice americana nell’aprile
2022, il ministro dell’Energia e delle Miniere ha insistito sulle «opportunità di investi-
mento e di partenariato che offre il settore per l’esplorazione, lo sviluppo e lo sfrut-
tamento degli idrocarburi, auspicando di vedere le imprese americane partecipare
alle prossime gare di appalto e bene"ciare dei vantaggi previsti dalla nuova legge» 14.
12. «En Algérie, très forte hausse du budget de la défense prévue pour 2023», Le Monde, 23/11/2022.
13. «En Algérie, adoption d’un projet de loi controversé sur les hydrocarbures», Le Monde, 14/11/2019.
14. «Le Ministre de l’Energie et des Mines reçoit l’Ambassadeur des États-Unis d’Amérique», comuni-
cato del ministero algerino dell’Energia e delle Miniere, 5/4/2022. 257
MOSCA E ALGERI, AMICIZIA CON LIMITI
15. A. MOHAMMEDI, «La Russie en Afrique du Nord et au Moyen-Orient, une percée guidée par les cir-
constances», Con!uences Méditerranée, n. 123/2022.
16. ID., «Stratégies russes en Libye: le déploiement d’une politique étrangère multifacette», Con!uences
Méditerranée, n. 118/2021.
17. Conferenza stampa del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune del 24/2/2023, R. HAMADI,
258 «Espagne, États-Unis, Russie, Ukraine: les messages de Tebboune», tsa-algerie.com, 25/2/2023.
KADER A. ABDERRAHIM - Docente all’Università Sciences Po di Parigi.
AGHILÈS AÏT-LARBI - Avvocato e imprenditore nel settore dell’istruzione e della for-
mazione in Algeria. Ha fondato lo studio Di Mauri Advisory che offre consulen-
za a multinazionali e fondi di investimento in Africa settentrionale e occidentale.
GIULIO ALBANESE - Padre comboniano.
MAURO ARMANINO - Missionario a Niamey.
BENOÎT BARRAL - Direttore di Fondemos.
EDOARDO Boria - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La
Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopo-
litica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scienti!co di Limes.
ALESSANDRO COLASANTI - Dottorando in Relazioni internazionali (geopolitica dei
malware) presso Ucl, Bloomsbury and East London Doctoral Training Partner-
ship di base a Birkbeck, Università di Londra. Tirocinante di Limes.
CARLO ALBERTO CONTARINI - Dottorando alla Scuola Normale di Pisa, specialista di
politica africana.
GIORGIO CUSCITO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopoliti-
ca cinese. Cura per limesonline.com il «Bollettino imperiale» sulla Cina. Coordi-
natore relazioni esterne e Club Alumni della Scuola di Limes.
EMANUELA C. DEL RE - Rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Sahel.
GIUSEPPE DE RUVO - Dottorando in Filoso!a all’Università Vita-Salute San Raffaele di
Milano. Collaboratore di Limes.
MARIO GIRO - Già viceministro degli Esteri della Repubblica Italiana.
MOULOUD HAMAI - Ambasciatore d’Algeria in pensione. Dottore di ricerca all’Uni-
versità Paris 2.
RAHMANE IDRISSA - Ricercatore all’Università di Leiden, studia storia e società sahe-
liane.
GIACOMO MARIOTTO - Analista geopolitico e collaboratore di Limes.
FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scienti!co e responsabile relazioni inter-
nazionali di Limes.
MARCELLA MAZIO - Laureata in Lettere e Relazioni internazionali. Studiosa di Nord
Africa e Mediterraneo. Tirocinante di Limes.
MICHAEL MIKLAUCIC - Senior Fellow alla National Defense University e direttore di
Prism.
259
TARIK MIRA - Già deputato del parlamento algerino per il partito Raggruppamento
per la cultura e la democrazia (Rdc).
ADLENE MOHAMMEDI - Direttore scienti!co del centro di ricerca strategica Aesma.
Dottore di ricerca in Geopolitica all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, inse-
gna all’Università Paris 3 Sorbonne Nouvelle.
ORIETTA MOSCATELLI - Caporedattore politica internazionale dell’agenzia askanews.
Si occupa di Russia ed Europa dell’Est. Coordinatrice Eurasia e Iniziative speciali
di Limes. Autrice di P. Putin e putinismo in guerra (2022).
TIBOR NAGY - Già assistente segretario di Stato degli Stati Uniti per gli Affari africani
e ambasciatore Usa in Guinea e in Etiopia.
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Angers. Caporedattore della rivista Con!its.
MARC-ANTOINE PÉROUSE DE MONTCLOS - Ricercatore senior all’Institut de Recherche
pour le développement, specialista dei con"itti africani, direttore di Afrique
Contemporaine.
FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della
Scuola di Limes.
LUCIANO POLLICHIENI - Analista della Fondazione Med-Or, esperto di geopolitica
dell’Africa subsahariana. Collaboratore di Limes.
WOLFGANG PUSZTAI - Esperto di sicurezza, presidente del comitato consultivo del
National Council on U.S.-Libya Relations (Ncuslr).
LUCA RAINERI - Ricercatore in Studi di sicurezza alla Scuola Superiore Sant’Anna di
Pisa, esperto di Sahel.
DANIELE SANTORO - Coordinatore Turchia e mondo turco di Limes.
LAMINE SAVANÉ - Dottore di ricerca all’Università di Montpellier; docente e ricerca-
tore alla Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Ségou; assegnista di ricerca
alla Pilot Africa Postgraduate Academy di Point Sud, Bamako.
ESTER SIGILLÒ - Ricercatrice all’Università di Bologna, già Visiting Fellow all’Institut
de recherche sur le Maghreb contemporain di Tunisi. Autrice di Rethinking Civil
Society in Transition (2023).
LESLIE VARENNE - Cofondatrice e direttrice di Iveris.
260
La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
1. La scelta della capitale di uno Stato è un atto molto rilevante dal punto di
vista sia operativo sia simbolico. Ecco perché negli ultimi decenni alcuni Stati afri-
cani hanno spostato la loro capitale. La Nigeria da Lagos ad Abuja, la Tanzania da
Dar es Salaam a Dodoma, la Costa d’Avorio da Abidjan a Yamoussoukro. Le vec-
chie capitali rivestivano una precisa funzione al tempo in cui questi territori non
erano ancora indipendenti, quando la loro posizione sul mare rappresentava il punto
di contatto più favorevole per i rapporti tra la potenza coloniale e la colonia. La scel-
ta di puntare su questi centri li ha resi primaziali, vale a dire dominanti in ogni aspet-
to della vita della colonia (demogra!co, politico, economico, culturale). Al prezzo,
però, di un loro inurbamento massivo e di uno sviluppo squilibrato del territorio.
Una volta raggiunta l’indipendenza è emersa la ferma volontà di superare l’ordine
coloniale e quindi di rivedere anche la scelta della capitale su criteri non più funzio-
nali ai rapporti con la potenza coloniale ma ai contatti e al controllo dell’intero terri-
torio nazionale. Da questa necessità è scaturita la decisione di spostarla in una regio-
ne più centrale, almeno teoricamente più adatta a soddisfare le nuove esigenze.
In altri casi, l’intenzione di marcare il passaggio a un periodo storico nuovo e
ben distinto da quello coloniale si è espressa con il cambiamento dei nomi delle capi-
tali. Il Congo ribattezzò Kinshasa la Leopoldville che onorava il sovrano belga, il
Mozambico giudicò estinto il suo debito con l’esploratore portoghese Lourenço
Marques passando a chiamare Maputo la sua capitale, il Ciad accolse N’Djamena
invece di Fort-Lamy, lo Zimbabwe sostituì Salisbury con Harare. Sorte analoga
ebbero, per la stessa ragione, molti nomi di Stato. Soprattutto quelli che omaggiava-
no direttamente il colonizzatore, come per Cecil Rhodes che aveva dato il nome alle
due Rhodesie, quella del Nord oggi Zambia e quella del Sud oggi Zimbabwe (nella
!gura 1 un’immagine guerresca dell’africano non ancora pienamente superata oggi).
Oppure quando si sentì il bisogno di riscoprire radici lontane attraverso il recupero
del nome di antichi imperi africani, anche sorvolando sulla dubbia corrispondenza
delle relative estensioni. Fu questo il caso del Benin che prima era Dahomey, del
Ghana già Costa d’Oro e del Mali già Sudan francese. In altri casi andava semplice-
mente cancellato l’odiato aggettivo dell’ex possessore. Avvenne per le Somalie bri-
tannica e italiana come anche per il Congo francese e per quello belga, con quest’ul-
timo che conobbe anche l’intermezzo dell’appellativo Zaire. Analogamente, le Gui-
nee francese, portoghese e spagnola scelsero rispettivamente Guinea, Guinea-Bissau
e Guinea Equatoriale. Altri casi hanno riguardato l’Alto Volta divenuto Burkina
Faso, l’Oubangui-Chari poi Repubblica Centrafricana, la Somalia francese oggi Gi-
buti, l’Urundi ora Burundi, il Tanganica che unendosi a Zanzibar ha assunto la de-
nominazione di Tanzania, il Niassa ora Malawi, l’Africa del Sud-Ovest divenuta
Namibia, il Basutoland poi Lesotho.
Fonte: manifesto turistico illustrato da Francis G. Pay, Visit Rhodesia, Cape
Town 1930, Hortors Limited. 261
2-3. Sudan è termine etimologicamente arabo che sta per «uomini neri». Lo
Stato che risponde a questo nome venne istituito il primo gennaio 1956 sulle cene-
ri del precedente condominio anglo-egiziano. Fino al 1960, però, i Sudan erano
due perché anche l’attuale Mali prendeva questo nome (nella !gura 2 compare al
centro della carta), con la sola aggiunta dell’aggettivo «francese» a speci!care il
dominatore di una vastissima area che si estendeva continuativamente dall’Algeria
(iscritta come «colonia francese» già nel titolo della !gura 3) !no al Congo. La ra-
gione di tale coincidenza toponimica si deve al fatto che nella convenzione geogra-
!ca l’espressione Sudan si riferisce anche a una regione in cui rientrano entrambi
gli Stati. Essa occupa l’intera fascia che va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, tra
il margine meridionale del Sahara e la regione equatoriale più a sud. Corrisponde,
in pratica, all’appellativo tanto in voga oggi di «Africa subsahariana», in cui il pre-
!sso «sub» risulta inappropriato, logicamente inesatto. Anzi direi ridicolo, perché
al di sotto di un territorio c’è il sottosuolo, non un altro territorio. Come sopra c’è
il cielo, e quindi suonerebbe comico chiamare «Africa sovrasahariana» la costa
mediterranea di quel continente. Più corretto per indicare un territorio a sud del
Sahara sarebbe, piuttosto, il termine «sud-sahariano».
Fonte 2: Edouard De Martonne, «Afrique Occidentale Française. Carte d’en-
semble Politique et Administrative», in Atlas des cartes administratives et ethnographi-
ques des colonies de l’A.O.F., Paris 1928, Girard.
Fonte 3: Victor Levasseur, «Algérie Colonie Française», in Atlas National Illu-
stré des 86 Départements et des Possessions De La France, Paris 1854, Combette.
4. In una carta geogra!ca la maglia dei con!ni di Stato ha sul lettore un im-
patto visivo forte e veicola l’idea che tale struttura di linee continue, separando
giurisdizioni e culture, rappresenti un elemento di ordine del sistema internaziona-
le. Se tale circostanza può avere un fondamento per alcuni parti del mondo, certa-
mente non lo ha per altre. Per l’Africa in particolare. Qui, nella realtà, i con!ni tra
Stati non hanno prodotto alcun ordine ma anzi il suo esatto contrario, cioè il disor-
dine, che è la premessa al con"itto. Ciò in quanto il colonialismo li aveva ritagliati
a tavolino senza alcuna considerazione per le realtà locali, dividendo comunità
tribali uniche e inglobando all’interno di uno stesso Stato comunità rivali. Sui ma-
nuali sono de!niti «con!ni susseguenti» quelli stabiliti a posteriori del popolamen-
to, al contrario dei «con!ni antecedenti» che lo hanno preceduto, come in Alaska
e nell’Australia interna. Si tratta di con!ni dovuti alla concorrenza tra potenze,
dunque. Un caso di scuola è quello dell’appendice territoriale nota come «dito di
Caprivi» in ragione della sua insolita forma, che estende sensibilmente la Namibia
incuneandola tra l’Angola, lo Zambia e il Botswana !n quasi a raggiungere lo
Zimbabwe (visibile nella parte alta della !gura 4).
Fonte: «South Africa» (particolare), in The Times Atlas and Gazetteer of the
World, London 1922, John Bartholomew & Son, tav. 71.
262
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