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7/2021 • mensile
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CONSIGLIO SCIENTIFICO
Rosario AITALA - Geminello ALVI - Marco ANSALDO - Alessandro ARESU - Giorgio ARFARAS - Angelo BOLAFFI
Aldo BONOMI - Edoardo BORIA - Mauro BUSSANI - Mario CALIGIURI - Vincenzo CAMPORINI - Luciano
CANFORA - Antonella CARUSO - Claudio CERRETI - Gabriele CIAMPI - Furio COLOMBO - Giuseppe CUCCHI
Marta DASSÙ - Ilvo DIAMANTI - Germano DOTTORI - Dario FABBRI - Luigi Vittorio FERRARIS - Marco FILONI
Federico FUBINI - Ernesto GALLI della LOGGIA - Laris GAISER - Carlo JEAN - Enrico LETTA - Ricardo Franco LEVI
Mario G. LOSANO - Didier LUCAS - Francesco MARGIOTTA BROGLIO - Fabrizio MARONTA - Maurizio
MARTELLINI - Fabio MINI - Luca MUSCARÀ - Massimo NICOLAZZI - Vincenzo PAGLIA - Maria Paola PAGNINI
Angelo PANEBIANCO - Margherita PAOLINI - Giandomenico PICCO - Lapo PISTELLI - Romano PRODI - Federico
RAMPINI - Andrea RICCARDI - Adriano ROCCUCCI - Sergio ROMANO - Gian Enrico RUSCONI - Giuseppe
SACCO - Franco SALVATORI - Stefano SILVESTRI - Francesco SISCI - Mattia TOALDO - Roberto TOSCANO
Giulio TREMONTI - Marco VIGEVANI - Maurizio VIROLI - Antonio ZANARDI LANDI - Luigi ZANDA
CONSIGLIO REDAZIONALE
Flavio ALIVERNINI - Luciano ANTONETTI - Marco ANTONSICH - Federigo ARGENTIERI - Andrée BACHOUD
Guido BARENDSON - Pierluigi BATTISTA - Andrea BIANCHI - Stefano BIANCHINI - Nicolò CARNIMEO
Roberto CARPANO - Giorgio CUSCITO - Andrea DAMASCELLI - Federico D’AGOSTINO - Emanuela C. DEL RE
Alberto DE SANCTIS - Alfonso DESIDERIO - Federico EICHBERG - Ezio FERRANTE - Włodek GOLDKORN
Franz GUSTINCICH - Virgilio ILARI - Arjan KONOMI - Niccolò LOCATELLI - Marco MAGNANI - Francesco
MAIELLO - Luca MAINOLDI - Roberto MENOTTI - Paolo MORAWSKI - Roberto NOCELLA - Giovanni ORFEI
Federico PETRONI - David POLANSKY - Alessandro POLITI - Sandra PUCCINI - Benedetta RIZZO - Angelantonio
ROSATO - Enzo TRAVERSO - Fabio TURATO - Charles URJEWICZ - Pietro VERONESE - Livio ZACCAGNINI
Consiglio di amministrazione
Presidente John Elkann
Vicepresidente Carlo Perrone
Amministratore delegato
e direttore generale Maurizio Scanavino
Consiglieri Giacaranda Maria Caracciolo di Melito Falck
Marco de Benedetti, Federico Marchetti
Turi Munthe, Tatiana Rizzante, Pietro Supino
Prezzo 15,00
Distribuzione nelle librerie: Messaggerie Libri SpA, via Giuseppe Verdi 8, Assago (MI), tel. 02 45774.1 r.a.
fax 02 45701032
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196, GEDI Gruppo Editoriale SpA. rende noto che presso la sede di via Cristoforo Colombo 90, 00147 Roma esistono banche dati
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del d.lgs. 196/03 – tra cui, a mero titolo esemplificativo, il diritto di ottenere la conferma dell’esistenza di dati, l’indicazione delle
modalità di trattamento, la rettifica o l’integrazione dei dati, la cancellazione e il diritto di opporsi in tutto o in parte al relativo uso
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to presso la redazione di Limes, via Cristoforo Colombo 90, 00147 Roma.
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a disposizione dei titolari dei copyright che non fosse riuscito a raggiungere.
Registrazione al Tribunale di Roma n. 178 del 27/4/1993
EDITORIALE
7 La chiave inglese
LIMES IN PIÙ
207 Lorenzo BRUNI - Botswana-Zimbabwe, il muro della discordia
213 Antonio PENNACCHI - Di notte, in fabbrica, Cerbero e Ciacco
AUTORI
235
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IL REGNO DISUNITO
La chiave inglese
1. Riferimento allo studio di Tom Nairn, The Enchanted Glass. Britain and Its Monarchy,
London-New York 2021, Verso, la cui prima edizione risale al 1988. Lo studio delle godi-
bilissime opere di questo poligrafo post(?)-marxista scozzese, a partire da The Break-Up of
Britain. Crisis and Neo-Nationalism, pubblicato nel 1977 e riedito quest’anno sempre da
Verso, è consigliabile per chi volesse approfondire i temi qui tracciati. 7
LA CHIAVE INGLESE
2. H. J. MACKINDER, The Modern British State. An Introduction to the Study of Civics, London
1914, George Philip & Son, p. 266.
8 3. Ibidem.
IL REGNO DISUNITO
passato. Vale sia per i celti sia per gli inglesi. Ceppi più o meno «inven-
tati». Eppure reali. Nella formula di Hobsbawm: «La “consuetudine” è
la pratica dei giudici; la tradizione (inventata, in questo caso), è
data dalla parrucca, dalla toga e da tutti gli ammennicoli formali e
le pratiche ritualizzate che circondano la loro azione sostanziale. Il
declino della “consuetudine” non può non modifcare la “tradizione”
con la quale è quasi sempre intrecciata» 4.
Per meglio intendere convochiamo un poeta nato in America,
britannico d’adozione. Cent’anni fa Thomas Stearns Eliot stroncava
la tendenza ad apprezzare d’un autore l’originalità su tutto: «Spesso
le parti non solo migliori ma anche più originali delle sue opere sono
forse quelle in cui i poeti già morti, i suoi antenati, dimostrano con
maggior vigore la loro immortalità». È l’innesto nella tradizione che
migliora il talento del singolo poeta. Ma la tradizione, in quanto in-
nesto vitale, non si eredita: «Essa implica senso storico. (…) E il senso
storico costringe un autore a scrivere non solo insieme alla propria
generazione, di cui egli è la concreta incarnazione, ma anche con la
sensazione che l’intera letteratura europea a partire da Omero (e in
essa tutta la letteratura del proprio paese) ha un’esistenza simultanea
e compone un ordine simultaneo. (…) Nessun poeta, nessun artista
di nessun’arte, preso per sé solo, ha un signifcato compiuto» 5. Leggia-
mo «paese» anziché «poeta» e scopriamo la potenza geopolitica della
narrazione condivisa, aggiornata e trasmessa nel tempo a fonda-
mento della collettività organizzata. Mito che conforta, certifca, uni-
sce. Confermato in solenni liturgie, nessuna delle quali più impressio-
nante dell’unzione del sovrano britannico nell’abbazia di Westmin-
ster. Pura, massima consuetudine. Mentre indossa la Corona, il so-
vrano recupera l’ordine antico per dar senso al nuovo. Nuovamente
uguale a sé stesso. Tradizione in movimento.
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4. E.J. HOBSBAWM, «Come si inventa una tradizione», in E.J. HOBSBAWM, D. RANGER (a cura di),
L’invenzione della tradizione, Torino 2002, Einaudi, p. 5.
5. T. S. ELIOT, «Tradizione e talento individuale», in ID. Il bosco sacro. Saggi su poesia e cri-
tica, Milano 2016, Bompiani, p. 69 (traduzione da noi leggermente variata, n.d.r.). Il testo
10 originale è del 1920.
IL REGNO DISUNITO
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Vallo Antonino
Costruito tra il 142 e il 144 d.C.
Era lungo circa 60 km ed è stato I
L
realizzato dopo il Vallo di Adriano A
per raforzare il limes romano X
in Britannia. Separava l’impero dalla E
Caledonia (nome dell’attuale Scozia). T A
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Oceano C A L E D O N I A ENICO E S Mare del Nord
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a
11
LA CHIAVE INGLESE
6. «Siamo Britannia e abbiamo un sogno/Unire tutto il popolo in una sola grande squadra».
Cfr. il video Youtube «OBON: Offcial Video to Obon Day 2021 Song/Anthem». Al momento
della consultazione (ore 19.55 del 24 luglio) si contano 189 pollici alzati contro 3.019 versi.
Lo spazio dei commenti risulta disattivato. 13
LA CHIAVE INGLESE
Regione frontaliera
Dundee anglo-scozzese
Annessa alla Scozia nel 1493
Edimburgo 1707
Glasgow Unione Anglo-scozzese
Ayr
M a r e
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Derry Newcastle
Carlisle
Belfast
1690 York
IRLANDA
Vittoria decisiva
Boyne dei protestanti
Galway Dublino Liverpool
I N G H I LT E R R A
Bosworth
Kilkenny 1485 Norwich
Waterford Galles conquistato Battaglia vinta
Wexford a partire dal 1276, da Enrico VIII
Smerwick Cork unione con l’Inghilterra
nel 1536
Kinsale Londra
Bristol
Calais
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O c e a n o Southampton
A t l a n t i c o
Plymouth
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Direttrici dell’emigrazione
inglese verso l’Irlanda
Isole
Montagne del Canale
da 200 a 500 m
FRANCIA
oltre 1.000 m
Fonte: The Penguin Historical Atlas of the British Empire, 2006
2 - CENTRI E PERIFERIE BRITANNICHE
Centro
Nucleo interno
Nucleo esterno
Periferia interna
Periferia esterna
Limite approssimativo
della Cornovaglia
SCOZIA
Mare
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Glasgow Edimburgo
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DEL NORD
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Birmingham Coventry EAST OF
GALLES ENGLAND
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Cardif Londra
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CORNOVAGLIA Brighton
Plymouth
3 - IL REFERENDUM SULL’INDIPENDENZA AD
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DELLA SCOZIA (2014) R
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60% + 55 - 59,9% D
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Edimburgo
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DUNBARTONSHIRE ORIENTALE DUMFRIES
DUNBARTONSHIRE OCCIDENTALE e GALLOWAY
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INVERCLYDE
RENFREWSHIRE
GLASGOW
LANARKSHIRE SETTENTRIONALE
WEST LOTHIAN
EDIMBURGO R E G N O U N I T O
MIDLOTHIAN
EAST LOTHIAN
AYRSHIRE SETTENTRIONALE
RENFREWSHIRE ORIENTALE
AYRSHIRE MERIDIONALE
AYRSHIRE ORIENTALE
LANARKSHIRE MERIDIONALE
4 - IL REGNO DISUNITO CI SALUTA % Remain % Leave
Scozia 62,00 38,00
Irlanda del Nord 55,78 44,22
Galles 47,47 52,53
Inghilterra: 46,60 53,40
North East 41,96 58,04
North West 46,35 53,65
Yorkshire and The H. 42,29 57,71
S C O Z I A West Midlands 40,74 59,26
62% East Midlands 41,18 58,82
East of England 43,52 56,48
South West 47,06 52,94
South East 48,22 51,78
Londra 59,93 40,07
Gibilterra 95,90 4,10
North
East
IRLANDA Newcastle 50,7%
DEL NORD 58,04%
55,78% Belfast 53,65%
Yorkshire
and The Humber 58,04%
50,3% York
Ma re North Leeds
d ’Irla n d a 58,19% West
Liverpool 57,71%
0 Manchester
60,36% 58,82%
Nottingham
50,8%
Leave Remain 59,26% East Norwich
51,9% 48,1% Birmingham Midlands 56,2%
West 50,4% Cambridge
17.410.742 voti 16.141.242 voti
GALLES Midlands 73,85% 56,48%
East of England
52,53% INGHILTERRA 53,40%
60% 70,27%
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Ma re Bristol Oxford
Cardif
Celtico 61,63% South
East
52,94% 58,1% 51,78%
South West Portsmouth
68,62%
59,9% Brighton
SPAGNA LONDRA
Plymouth
59,93%
Gibilterra anica
La M
95,9%
5 - BREXIT DIVIDE IL REGNO UNITO
Immigrazione
22,5% (Londra) Zee internazionali/Limite di pesca scozzese
7-9% Porti scozzesi che hanno
0-6 % raccolto il 48% del pescato
britannico nel 2015
La Scozia strategica Isole Shetland
Focolai di tensione con Brexit Basi della Raf
Centri radar
Aree con pil pro capite sopra Basi navali
la media europea Lerwick
(il resto del paese è sotto
la media)
Fraserburgh
Birmingham 132
Isole
LONDRA
South East
South West
SPAGNA
Gibilterra
©Limes
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6 - LE RELIGIONI IN IRLANDA DEL NORD Distretti a maggioranza relativa cattolica
63,8 (con la percentuale dei cattolici)
Prevalenza dei protestanti sui cattolici
inferiore al 15% della popolazione
C 51,7 (con la percentuale dei protestanti)
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Prevalenza dei protestanti sui cattolici
superiore al 15% della popolazione
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CAUSEWAY COAST AND GLENS 61,1 (con la percentuale dei protestanti)
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British Army
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Edimburgo 3° battaglione, The Rifes Regiment N
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Balaklava Company, Quinto battaglione A
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Glasgow 6 Scots, 52 Lowland
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Penicuik 2° battaglione, Royal Highland Fusiliers Cape Wrath
Inverness The Black Watch, 3° battaglione campo
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Perth 7 Scots, 51 Highland d’addestramento
ISO
Kinloss 39 Engineer Regiment interforze GB e Nato
Edimburgo e Leuchars The Royal Scots Dragoon Guards
Leuchars 2° Close Support Battalion,
Royal Electrical and Mechanical Enginners
Stirling 51 Infantry Brigade e HQ Scotland Tain
poligono di tiro aereo Lossiemouth
Kinloss Royal Air Force - Quick
Benbecula Reaction Alert North,
stazione radar 4 squadroni su caccia
Mo
per la difesa Inverness multiruolo Typhoon
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aerea Fort George Pattugliatori marittimi
P-8 Poseidon
Buchan
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radar per la
Arbroath - RM Condor difesa aerea
45° Commando Royal Marines
CANADA
REGNO
UNITO
IRLANDA
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SUDAFRICA
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Santa Lucía
Barbados
St. Vincent e Grenadine
Falkland (GB)
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Grenada
IL REGNO DISUNITO
18
2 - LA STRADA
Londonderry
PER L’INDIPENDENZA
IRLANDESE
LA CHIAVE INGLESE
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dal 1921 al 1938 t Me
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1 Liberal-unionista
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IL REGNO DISUNITO
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Ago. Nov. Nov. Ott. Ott. Dic. Dic. Gen. Nov. Sett. Ott. Ott. Nov. Ott. Ago. Gen. Dic. Feb. Mar.
1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2007 2007 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2016 2016 2018 2020
fra i due Stati. Ammesso che possa rientrare nell’Unione Europea do-
po esserne stata espulsa dall’Inghilterra, Edimburgo dovrebbe nego-
ziare un regime di scambi commerciali e vincoli socioeconomici con
il vicino meridionale, suo primo mercato. Lo stesso per sciogliere la
matassa securitaria: che status dare alle basi militari inglesi, tra cui
quelle che custodiscono armi nucleari? Espellerle, rivendicarle, in-
ventare regimi misti? Come riportare a casa i soldati scozzesi che ser-
20 vono nelle Forze armate britanniche? Tacciamo dei servizi segreti.
IL REGNO DISUNITO
del referendum
regolamentata
Approvazione
convocazione
Approvazione
referendaria
attivazione
Campagna
Negoziati
Art. 30
della
2011 2012 2013 2014
generali
generali
Elezioni
Elezioni
Elezioni
Elezioni per Referendum
2015
2017
2019
il parlamento sul Brexit
scozzese
60
ComRes
Ipsos MORI
55
Survation
50
45 % di chi ha
votato sì nel Panelbase YouGov
referendum
del 2014
40
35
Marzo Settembre Marzo Settembre Marzo Settembre Marzo Settembre Marzo Settembre Marzo Settembre Marzo
2015 2015 2016 2016 2017 2017 2018 2018 2019 2019 2020 2020 2021
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Q1 1999 = 100 p r e v i s i o n i
135
130
125
Scozia
120
115
110
Regno Unito
105
100
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199
200
200
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201
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201
201
201
201
202
202
202
p r e v i s i o n i
zione del Regno Unito nelle quattro nazioni autonome. Vuole scavare
dentro l’Inghilterra. Cerca la «devoluzione al grado comunal- regio-
nale» 9. Una devolution tira l’altra. Sfda mortale al centralismo di
Johnson. I due poli si autoalimentano nell’opposto rilancio (carta 3).
Rosso laburista e blu conservatore non sono divisi tanto da ideo-
logie e programmi quanto dalla base territoriale. Tutta la politica
britannica lo è. I partiti rappresentati alla Camera dei Comuni espri-
mono identità geopolitiche: anglo-britanniche (il secondo qualifcati-
vo è coestensivo del primo) i 363 tories, tendenzialmente devoluzioni-
ste i 199 labourites. Oltre ai deputati dei classici partiti nazionalisti:
scozzesi (45 dell’Snp più 2 di Alba), irlandesi (8 del Partito democra-
tico unionista), irlandesi (7 dello Sinn Féin), peraltro aventiniani
inconcussi, e gallesi (3 del Plaid Cymru). Nel parlamento britannico
non c’è partito britannico, infuente in tutte le quattro supposte na-
zioni. Quanto il Regno Unito possa sopravvivere alla carenza di una
base politica è questione aperta. Cervellotica l’ipotesi di un parlamen-
to inglese da affancare ai tre già devoluti. Westminster sarebbe con-
dannato all’obsolescenza o il trio delle nuove assemblee all’ininfuen-
za. In quale parlamento siederebbe la Corona – escludendo che la
regina si faccia in quattro?
L’Inghilterra si era incarnata nell’impero che la teneva insieme
perché imperiale. Il congedo dall’impero sfocerà nel congedo dall’In-
ghilterra? Nella roulette britannica della devoluzione senza limiti, in
quale ultima buca s’inflerà la pallina? Quanti sub-celti scopriremo
nelle frange celtiche, quanti sotto-inglesi nelle determinanti comuni-
tà anglo?
La chiave inglese ha aperto il Regno Unito. La chiave inglese lo
chiuderà. Quando non sappiamo. Forse lo spettacolo è già concluso
mentre ci illudiamo non lo sia. Fine dissimulata da un’impalpabile
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3 - INGHILTERRE
Mare
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SCOZIA
Newcastle
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Yorkshire
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Humber
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LONDRA
Mare South East
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Portsmouth
Brighton
Plymouth
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25
LA CHIAVE INGLESE
Perciò gli Stati Uniti vogliono che il Regno Unito resti tale. La
scomposizione dell’arcipelago nelle quattro nazioni principali, espo-
ste a ulteriori frammentazioni, ne annullerebbe il senso geopolitico.
Se la frangia celtica dovesse staccarsi dal tronco inglese, per gli ame-
ricani sarebbe perdita gravissima. In specie, la secessione della Scozia
signifcherebbe compromettere la proiezione artica dell’Inghilterra –
tradizionalmente gestita sotto gli americani, con i norvegesi e altri
suffraganei nordici – elevata di grado dagli scenari che vogliono la
Rotta settentrionale fra Asia ed America presto libera dai ghiacci
dunque sotto primario controllo russo. In senso complessivo, se la ve-
locità di fuga da Londra di Scozia, Irlanda del Nord e forse fnanco
Galles spingesse queste sub-nazioni fuori dell’orbita inglese, l’arcipe-
lago britannico scadrebbe a oggetto geopolitico non identifcato. Inu-
tile, se non pericoloso, per l’impero americano. Terra di troppi o di
nessuno. Infltrabile da potenze nemiche. Leggi Russia.
Certo, la presunzione inglese di superiorità nei confronti del resto
del mondo, signorilmente indifferente ai dati di realtà perché eterna-
mente centrata su sé stessa, rende più dolorosa la subordinazione al
Numero Uno. Il quale non tollera un Numero Due né altri cardinali
perché considera gli «alleati» strumenti. Sovrannumerari. Non sogget-
ti secondari, riserve a disposizione. L’impero non è società per azioni.
Nella tassonomia proposta da Limes, lo Stato britannico resta satellite
in ravvicinata orbita stazionaria attorno al dominus 10. Molto meglio
di un’entità inerte, dunque inutile. Vittima sacrifcale in caso di
guerra.
Perché e come il Regno Unito si riconfgura consentanea appendi-
ce dell’ex colonia nordamericana? Che futuro ha questa collocazione?
Un tuffo nella storia della special relationship aiuta a stabilirlo. Con
l’aiuto del più americano fra i leader inglesi e di uno dei più anglofli
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28
4 - INSTALLAZIONI MILITARI BRITANNICHE NEL MONDO 5 British Army Germany
Mar Glaciale Artico GERMANIA
6 GIBILTERRA
7 Raf
Troodos - CIPRO
LA CHIAVE INGLESE
8 Raf
Akrotiri - CIPRO
9 Raf Jssu
Ayios Nikolaos - CIPRO
Regno
Unito
1 Portsmouth 5
– per enunciare la tesi dei «tre grandi cerchi delle nazioni libere e
democratiche». Primo, «il Commonwealth e Impero Britannico». Se-
condo, «il mondo che parla inglese, in cui noi, il Canada, gli altri
Dominions Britannici e gli Stati Uniti giochiamo una parte così im-
portante». Terzo, «l’Europa Unita» (se ne intende la porzione occiden-
tale appena confgurata dall’alleanza militare tra Regno Unito, Fran-
cia e Benelux). Tali «cerchi maestosi» sono coesistenti e se fra loro
collegati «imbattibili». Churchill indica il centro del dipinto: «C’è un
solo paese che ha una grande parte in ciascuno dei tre cerchi». Il suo.
Patetico verdetto: «Noi stiamo in effetti al punto di congiunzione, e
qui in quest’Isola al centro delle rotte marittime e forse aeree abbiamo
l’opportunità di unire i tre cerchi» 11. Monumento alla nevrosi inglese
che sa di avere il meglio alle spalle ma non rinuncia ad affrescare il
futuro come se il passato fosse presente. Con il paese atterrato dai
bombardamenti, gli alimenti tesserati, l’impero in disgregazione, l’e-
roe di guerra brutalmente prepensionato dagli elettori attinge alla
tavolozza neovittoriana per inventare il proflo di un pianeta anglo-
centrico. In mutate circostanze, comandamento non solo retorico per
i suoi successori. Compreso l’attuale, estroverso sacerdote del chur-
chillismo. Il principio d’irrealtà è il modo inglese di comunicarsi al
mondo. Maschera necessaria al suo smaccato pragmatismo. Musica
d’accompagnamento per l’inimitabile buccaneering.
L’epica churchilliana echeggia i motivi neovittoriani dei brexite-
ers. E ce ne ricorda l’inossidabile comandamento para-imperiale. Or-
goglio inglese, inevitabilmente colorato britannico, ergo globale. In-
cardinato in altrettanto discutibile equazione che postula la superio-
rità dell’anglofono bianco nella gerarchia delle razze. (Il termine
«race» – base del complemento geopolitico «empire» e condizione della
missione civilizzatrice – vivissimo al tempo di Churchill, è represso
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nel gergo politicamente corretto, non nella mente global british, tan-
tomeno in quella del suo corrente alfere di Downing Street.)
Nulla si coglie della persistente grandiosità anglo senza conside-
rarne l’imperialità, autocoscienza refrattaria alle repliche della sto-
ria. L’imperialismo senza impero che Churchill custodisce fno alla
morte, lui nato all’apogeo del British Empire, è versione geopolitica
11. Cfr. W.S. CHURCHILL, «Conservative Mass Meeting. A speech at Llandudno, 9 October
1948», Europe Unite: speeches 1947&1948, London 1950, Cassell, p. 418. 29
LA CHIAVE INGLESE
dra. Fra gli indignati molti di coloro che in privato pensano e dicono
14. Bozza di articolo per il Saturday Evening Post (senza data, approssimativamente di
metà anni Sessanta), «The United States is a “European Power”», Archives de la Fondation
Jean-Monnet pour l’Europe, Lausanne, Fonds AMK: 1955-1975 Comité d’action pour les
États-Unis d’Europe, 23/1/26, Confdential – not for distribution, citato in P. DE VILLIERS, J’ai
tiré sur le fl du mensonge et tout est venu, Paris 1979, Fayard, documento n. 5 dell’appen-
dice, pagine non numerate.
15. Cfr. D. ACHESON, Present at the Creation, New York 1987, W.W. Norton, pp. 387-388.
16. Cit. in D. BRINKLEY, «Dean Acheson and the “Special Relationship”: The West Point
Speech of December 1962», The Historical Journal, vol. 33, n. 3, Sep., 1990, p. 608. 31
LA CHIAVE INGLESE
17. Pionieristici in materia gli studi dell’australiano Tim Legrand, a partire dal saggio «Elite,
exclusive, and elusive: transgovernmental policy networks and iterative policy transfer in
the Anglosphere», Policy Studies, vol. 37, n. 5, 2016, pp. 440-455; ID., «The Past, Present and
Future of Anglosphere Security Networks: Constitutive Reduction of a Shared Identity», in
B. WELLINGS, A. MYCOCK (a cura di), The Anglosphere: Continuity, Dissonance and Location,
Oxford 2019, Oxford University Press, pp. 56-76.
18. A. ROBERTS, A History of the English-Speaking Peoples Since 1990, New York-London-
32 Toronto-Sydney-New Delhi-Auckland 2007, HarperCollins, p. 1.
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5 - ANGLOSFERA A LONDRA
Bush House Australia House
India House d
a n
Str
IL REGNO DISUNITO
Piccadilly
Circus
Trafalgar
Square South Africa House
New Zealand House
Canada House
The W
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T
l
T
Green Park
Downing St.
F.
St James’s Park
Big Ben
Buckingham
Palace
Westminster
Westminster
Abbey
33
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34
Tabella 3 - RETI POLITICHE TRANSGOVERNATIVE NELL’ANGLOSFERA
Windsor Arrangement Group (comprende anche l’Irlanda) Sicurezza sociale Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Six Nations Beneft Fraud Conference (comprende anche l’Irlanda) Prestazioni di sicurezza sociale Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Five Country Ministerial Meeting Ministeri della Giustizia e dell’Interno Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
International Heads of Child Support Agency Meeting Tutela dell’infanzia Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Five Country Conference Immigrazione Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Border Five Protezione delle frontiere Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
The Critical Five Protezione delle infrastrutture sensibili Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
The Technical Cooperation Program (The Five Eyes) Intelligence e sicurezza Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
The Ottawa Five Cyber-security Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Heads of Assessment Meeting Intelligence e sicurezza Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Quintet of Attorneys-General Procuratori generali Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Food Safety Quadrilateral Group Standard di sicurezza alimentare Australia, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Five Nations Consular Colloque Relazioni consolari Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Four Countries Conference Agenzie elettorali Australia, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda
Vancouver Group Proprietà intellettuale Australia, Regno Unito, Canada
Tri-Treasury Conference Ministeri del Tesoro Australia, Regno Unito, Nuova Zelanda
Nome sconosciuto Sviluppo internazionale Australia, Regno Unito, Stati Uniti, Canada
The Rev-Sec Group Riscossione delle imposte Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Nome sconosciuto Agenzie nazionali di statistica Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Veterans Afairs Afari dei veterani Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Strategic Alliance Group Polizia e crimine Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
International Supervisors Meeting Antiriciclaggio Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Five Countries Passport Group Autorità preposte al rilascio dei passaporti Australia, Regno Unito, Usa, Canada, Nuova Zelanda
Fonte: Tim Legrand (2016), «Elite, exclusive and elusive: transgovernmental policy networks and iterative policy transfer in the Anglosphere», Policy Studies, 2016, vol. 37, n. 5, 440-455.
IL REGNO DISUNITO
19. Parafrasi del celebre verso di Quinto Orazio Flacco: «Graecia capta ferum victorem
cepit», Epistole, II, 1, 156.
20. «Joint Statement on the Visit to the United Kingdom of the Honorable Joseph R. Biden,
Jr., President of the United States of America at the Invitation of the Rt. Hon. Boris Johnson,
M.P., the Prime Minister of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland»,
10/6/2021, www.whitehouse.gov 35
LA CHIAVE INGLESE
90
80
70
60
50
40
30
Turchia
Nuova Zelanda
Canada
Belgio
Corea del Sud
Francia
Regno Unito
Svezia
Svizzera
Repubblica Ceca
Russia
Paesi Bassi
Italia
Spagna
Danimarca
Brasile
Ungheria
Giappone
Australia
Austria
Grecia
Stati Uniti
Germania
Cina
Finlandia
Irlanda
Singapore
Polonia
Norvegia
Portogallo
Fonte: J. McClory, The Soft Power 30, London 2019, Portland Pr Limited
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37
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IL REGNO DISUNITO
Parte I
la SCOZIA RIBELLE
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IL REGNO DISUNITO
COME LA SCOZIA
PUÒ DISTRUGGERE
IL REGNO di Dario FABBRI
L’indipendentismo resta robusto, ma troppi sono gli ostacoli
alla secessione: dipendenza economica da Londra, ostilità
degli europei, diffdenza americana. Perché l’Italia
guadagnerebbe dalla disintegrazione britannica.
sioni, tra cui l’assedio di Orléans (1428-1429) segnato dalla presenza di Giovanna
d’Arco. «In ogni combattimento in cui per cinque secoli vi fosse in gioco il destino
della Francia, abbiamo sempre avuto scozzesi al nostro fanco. (…) Non vi è stato
popolo più generoso verso di noi degli scozzesi» 3, raccontò Charles de Gaulle nel
1942.
Alleanza rinnovata pressoché automaticamente fno al 1560 – addirittura la
Garde écossaise continuò a proteggere i re di Francia per oltre tre secoli. Finché
nel 1707 Inghilterra e Scozia apparentemente si fusero alla pari per germinare l’at-
tuale Regno Unito. In realtà Londra si imponeva sul resto. Specie dopo la battaglia
di Culloden (1746), che vide i giacobiti cattolici sbaragliati dagli inglesi guidati
dal duca di Cumberland. Evento celebrato per oltre due secoli nella sesta strofa
dell’inno nazionale God save the King/Queen. «Signore, fa’ che il maresciallo Wade
possa con il tuo potente aiuto ottenere la vittoria. Possa egli soffocare la sedizione
e, come un torrente travolgente, schiacciare i ribelli scozzesi. Dio salvi il re», si è
cantato per molto tempo per certifcare la supremazia anglo.
Dopo Culloden, la casata degli Hanover, originaria del ducato tedesco di
Brunswick-Lüneburg, rinnovò la cifra germanica degli inglesi conquistando defni-
tivamente il trono.
Pure per doloso sostegno di Londra, che durante il «brutale corteggiamento»
diffuse letteratura protestante oltre il Vallo di Adriano, allora gli scozzesi abbraccia-
rono defnitivamente il calvinismo, già predicato nel Cinquecento dall’autoctono
John Knox. Così si rafforzò la nazionale Chiesa presbiteriana. Simbolo di alterità
etnica, destinata ad allontanare Edimburgo dai suoi storici alleati, privandola dell’u-
niversalismo romano che ne puntellava le rivendicazioni, come capita(va) all’Irlan-
da. Defcienza strutturale che ancora oggi complica il perseguimento dell’indipen-
denza. Con notevole abilità gli inglesi erano riusciti a creare uno iato confessionale
tra Edimburgo e Parigi.
Fu allora che Londra cominciò a condurre scientifcamente nel mondo le ten-
sioni interne attraverso l’acquisizione di nuove colonie, con l’obiettivo di scon-
giurare l’implosione del nucleo domestico – medesima sostanza dell’attuale, im-
probabile Global Britain. Manovra che avrebbe retto per tre secoli, in sintonia
con l’andamento dell’impero, capace di occultare le incongruenze interne con la
propria estensione. Come segnalato dai toponimi scozzesi presenti in ogni posse-
dimento britannico, dalla Nova Scotia in Canada a Perth nell’Australia Occidentale,
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fno ad Albany negli Stati Uniti. Senza estinguere il disprezzo degli anglosassoni
per i celti, utili soltanto come strumento della potenza inglese perché assai abili in
guerra, nella conquista di nuovi territori.
Per questo spediti nell’Ulster nel XVII secolo, principali artefci della Pianta-
gione d’Irlanda, ancora determinanti con i loro discenti per tenere il Nord dell’isola
dentro il Regno Unito. Usurpatori seriali di terre altrui, inviati successivamente nel
Nuovo Mondo per scalzare prima i nativi dagli Appalachi, poi i messicani dal Te-
xas. Ritenuti incapaci di adattarsi al mare, dunque privi dei connotati antropologici
indispensabili per raggiungere la dimensione più alta, quintessenza dell’inglesità.
Nelle parole dell’ammiraglio John Jervis, i celtici sono «spilorci, pazzi e bugiardi.
Buoni solo sulla terra» 4.
Inevitabile che la scomparsa dell’egemonia inglese, provocata dagli americani
durante la seconda guerra mondiale e nel corso della crisi di Suez, riaccendesse la
questione scozzese (e irlandese). Fondamentale mutamento del perno imperiale,
spesso ignorato dagli osservatori che non hanno contezza dei fattori geopolitici,
impegnati a cercare impossibili ragioni domestiche nell’avvento del nazionalismo.
Il Partito nazionale scozzese (Snp) cominciò la propria ascesa negli anni Settanta.
Nel 1974 ottenne oltre il 30% delle preferenze. Talmente forte da bocciare una
proposta di legge laburista che caldeggiava assemblee locali per Scozia e Galles,
dotate di competenze legislative in molteplici ambiti, perché ritenuta timida.
Soprattutto fu l’intervento degli americani, intenzionati a usare il Regno Unito
contro l’Unione Sovietica, a inibire l’avanzata delle Highlands – allora un referen-
dum sulla dipartita della Scozia non sarebbe mai stato accordato. Prima che l’im-
plosione del nemico russo distraesse Washington, meno attenta a un allentamento
delle maglie dentro i propri satelliti.
Negli anni Novanta riemersero platealmente le distanze razziali esistenti Ol-
tremanica. Se nel 1979 il 40% degli scozzesi si defniva britannico, vent’anni dopo
soltanto il 13% si dichiarava British, a fronte di un 80% che semplicemente si
considerava Scotch 5. Tale risveglio dell’identità celtica convinse gli inglesi guidati
da Tony Blair della necessità di concedere maggiore autonomia a Edimburgo, nel
tentativo di scongiurarne la secessione.
Nel 1997 il Partito laburista stravinse le elezioni britanniche con la proposta di
istituire il parlamento di Holyrood, poi confermata dal referendum sulla devoluzio-
ne. «Disastro assoluto, frutto della miopia di Blair» 6, nel giudizio di Boris Johnson.
Probabilmente l’inevitabile sviluppo di un sentimento crescente, non più blandito
dall’egemone statunitense, cui risulta(va) arduo opporsi. Come dimostrato dall’ac-
cordo con cui quindici anni dopo il premier conservatore David Cameron accettò il
referendum sull’indipendenza della Scozia, epitome di un movimento inarrestabile
per ogni partito britannico. Celebrata il 18 settembre 2014, la consultazione regi-
strò la vittoria degli unionisti con il 55,3% dei voti a fronte del 44,7% ottenuto dai
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secessionisti. A determinare l’esito fu soprattutto la minaccia londinese di escludere
la Scozia indipendente dall’Unione Europea, ombrello sotto cui la nazione celtica
intende rifugiarsi in assenza di una potenza superiore che ne sostenga la traiettoria.
Forte del potere di veto accordato a ciascun Stato membro, Downing Street annun-
ciò che avrebbe respinto la candidatura di Edimburgo, senza incontrare l’esplicita
4. Citato in D. FABBRI, «Il disumano passaggio dalla terra al mare», Limes, «Gerarchia delle onde», n.
7/2019, pp. 35-46.
5. Cfr. «“Forced choice” national identity», What Scotland Thinks, 18/3/2020.
6. Citato in R. SULLIVAN, «Boris Johnson criticised for calling devolution a disaster», The Independent,
44 17/11/2020.
IL REGNO DISUNITO
opposizione degli altri Stati continentali, medesima indifferenza che grava adesso
sul progetto celtico.
Il rischio corso con il referendum scozzese consigliò gli inglesi di abbandonare
l’Unione Europea, con l’obiettivo di sottrarre Edimburgo (e Belfast) all’infuenza
brussellese, fautrice delle micropatrie 7. Per gli scozzesi la massima delle beffe,
quando nel giugno 2016 si trovarono improvvisamente fuori dalla costruzione co-
munitaria pur avendo votato per rimanervi e dentro il Regno Unito. Fotografa di
un movimento intriso di rabbia. Alle prese con palesi diffcoltà.
Medesimo scenario della Scozia, non più abitata da squatters e miliziani come
secoli fa. Piuttosto, inserita nella dinamica economicistica dell’Europa occidentale,
massicciamente concentrata sul pil, sulla qualità della vita. Molto meno sul senti-
mento che dovrebbe incendiare la lotta per l’indipendenza. Consapevolezza che
guida la classe dirigente celtica, forse memore dell’esperienza spagnola. Pronta a
indire un nuovo referendum a patto che questo sia approvato dalla Corte supre-
7. Cfr. D. FABBRI, «La scommessa degli inglesi», Limes, «La questione britannica», n. 5/2019, pp. 29-39.
8. Cfr. «Disunited Kingdom? Brexit, trade and Scottish independence», Centre for economic perfor-
mance, London School of Economics, 2019, bit.ly/3ieBPgR 45
COME LA SCOZIA PUÒ DISTRUGGERE IL REGNO
ma britannica, anziché forzare gli eventi provocando il collasso del paese, effetto
collaterale di ogni rivoluzione pienamente storica. Iato manifesto tra l’obiettivo
massimalista della secessione e gli strumenti minimalisti pensati per il suo perse-
guimento.
A tali mancanze si somma il timore di abbandonare defnitivamente gli inglesi,
tra i popoli più capaci del pianeta, per riscoprirli nemici. Cosi gli scozzesi dibatto-
no se convenga o meno ritrovarsi soli e sovrani oppure restare sotto Londra per
benefciare dei vantaggi culturali, fnanziari, militari garantiti dagli Anglo. In nuce:
essere Stato di caratura inferiore oppure provincia di un soggetto maggiormente
sviluppato.
Dilemma tipico di una collettività anziana, abituata a valutare i fatti con lenti
utilitaristiche. Realtà nota a Downing Street. Come rivelato da Michael Gove, capo
di gabinetto dell’esecutivo Johnson, per cui «Londra dovrebbe spiegare a Edim-
burgo perché conviene restare nel Regno Unito» 9. Concetto ripreso dallo scozzese
Gordon Brown, convinto che i connazionali «non vogliano l’indipendenza ma un
regno meno indifferente alle loro esigenze» 10.
Su tutto, la Scozia non dispone di un protettore esterno che ne magnifchi
le istanze, fattore essenziale per ogni parabola indipendentista. A differenza del
passato, oggi nessun paese europeo intende intestarsi la causa scozzese in funzio-
ne anti-inglese. Per profonda debolezza dei soggetti in questione, timorosi della
rappresaglia di Londra, potenza ancora notevole, preoccupati della reazione degli
Stati Uniti, perno di ogni cancelleria continentale. Nonostante gli appelli di Sturge-
on a stringersi attorno a Edimburgo, nessun governo continentale ha abbracciato
l’europeismo scozzese. Piuttosto, gli emissari celtici sono stati più volte relegati
all’anticamera. La Francia ha saputo surrettiziamente imporre a Londra il cosiddetto
protocollo nordirlandese attraverso il negoziatore Michel Barnier, ma non intende
ergersi a paladina delle Highlands come ai tempi della vecchia alleanza. Tantome-
no paiono disposti a ricoprire tale ruolo tedeschi o spagnoli, troppo preoccupati di
provocare la propria distruzione per mano dei secessionismi interni. Mentre l’Italia
sconta la propria inconsapevolezza strategica.
Ne deriva che molti membri dell’Unione Europea respingerebbero la doman-
da di adesione di una Scozia indipendente, condannando il neo-Stato all’isolamen-
to. Né può considerarsi rilevante il propagandistico sostegno fornito dalla Russia
al fronte indipendentista. Nonostante la storica ostilità verso Londra, il Cremlino
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non possiede la forza per incidere concretamente. Come dimostrato dalla chiusura
lo scorso aprile della sede di Edimburgo del canale Sputnik, aperto nel 2016 alla
vigilia del referendum sull’Unione Europea.
Nello specifco, manca l’inaggirabile apporto degli Stati Uniti. A differenza
dell’unifcazione irlandese, ritenuta dall’opinione pubblica d’Oltreoceano oltremo-
do legittima, gli americani non comprendono la Scozia. Le ambizioni della nazione
9. Citato in S. CARRELL, «UK government has to show why Scotland should stay in union, says Gove»,
The Guardian, 10/5/2021.
46 10. Citato in ibidem.
IL REGNO DISUNITO
4. La Scozia è una tribù. Non perché prodotto di una cultura clanica ormai
scomparsa. Né perché mero satellite degli Stati Uniti, condizione che impedisce di
applicare la violenza necessaria al proposito. La popolazione scozzese ha tendenze
solo nazionalistiche, mai imperiali né universali.
Nessuno può diventare scozzese, se non per ceppo. Qui la biologia sovrasta
la cultura. I discendenti degli immigrati sono integrati, portatori dei costumi e delle
regole locali, ma non assimilati, perennemente estranei al cuore della nazione. Tale
alterità, identica a quella di popolazioni tribali come i famminghi o i quebecchesi,
rende perenne la pretesa di indipendenza, sostanziata dall’unicità culturale.
Proprio ora che tale disegno è maggiormente abbracciato dai più giovani.
Secondo un recente sondaggio il 67% della popolazione sotto i 25 anni vorrebbe
la secessione, contro il 52% del totale 11. Dato che, oltre a confutare la pretesa di
un nazionalismo passé, segnala come futuristica la questione. Quanto potrebbe
rivelarsi decisivo. Certo, il parere dei ventenni cambia repentinamente nel corso
del tempo, ma la preminenza del sentimento sul resto potrebbe annunciare una
diminuzione del locale post-storicismo. Specie se Londra commettesse l’errore di
negare ogni legittimità alle richieste scozzesi.
In attesa del medio periodo, Nicola Sturgeon ha annunciato che, in caso di
indipendenza, Edimburgo pretenderà il medesimo protocollo che regola il confne
post-Brexit tra le due Irlande. «Non vogliamo una frontiera solida ma pretendiamo
di controllare i prodotti provenienti dal resto del regno e diretti verso l’Unione Eu-
ropea»12, ha spiegato dimostrando d’aver colto il senso strategico di quella misura.
Ovvero la creazione di due aree distinte, con tanto di dogana. Dichiarazioni capaci
di sconvolgere Downing Street, già atterrita per quanto sta capitando in Ulster.
Sul tema è intervenuto Boris Johnson, proclamando inesistente il confne am-
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ministrativo tra Scozia e Inghilterra 13. Di fatto negando l’attuale sistemazione, san-
cita dallo Scotland Act del 1998 che defnisce legalmente e geografcamente la
nazione più settentrionale della Gran Bretagna. Distante tra i 2 e i 100 chilometri
dal Vallo di Adriano, cuore di una regione ibrida abitata da circa 100 mila residenti.
Frontiera talmente reale che lo scorso anno la polizia della Cumbria ha multato
11. Citato in «Scottish nationalism and the politics of patience», The Economist, 7/1/2021.
12. Citato in D. STAUNTON, «Sturgeon sees NI protocol as “template” for independent Scotland in EU»,
The Irish Times, 28/4/2021.
13. Citato in D. BOL, «Boris Johnson: “No such thing as a border between England and Scotland” amid
quarantine row», The Herald, 1/7/2021. 47
COME LA SCOZIA PUÒ DISTRUGGERE IL REGNO
richiesta.
Pronunciamento dall’esito (semi)scontato, giacché il massimo tribunale è in-
caricato di difendere le prerogative del regno, non di applicare asetticamente le
norme in un paese che manca di una costituzione. Il respingimento della volontà
scozzese potrebbe precipitare la Gran Bretagna in uno scenario dalle forti tinte
catalane, con l’aggravante di un paese storicamente abituato alla guerriglia.
14. Cfr. A. CONNELLY, «Concerns about an English border loom over Scottish elections», Pri.org, 5/5/2021.
15. Citato in C. MARLBOROUGH, «Nicola Sturgeon accuses UK Government of “trying to rig the rules”»,
48 The Scotsman, 21/6/2021.
IL REGNO DISUNITO
49
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IL REGNO DISUNITO
STORIA DI UN
INDIPENDENTISMO
OBBLIGATO di Tom DEVINE
La Scozia ha accettato di stare sotto Londra solo perché le è stato
permesso di non assimilarsi e di profittare economicamente
dell’impero. Ma da Thatcher al Brexit, gli inglesi le impongono
soluzioni sempre meno convenienti. Il decisivo parlamento locale.
Anzi, dalla fne del XVIII secolo fno all’ultimo quarto del XX, l’unione anglo-
scozzese raggiunse una stabilità granitica. La Scozia rimase tranquilla anche quan-
do i moti di stampo nazionalista del 1848 fecero tremare le capitali europee. E non
emerse niente di simile alla rabbiosa opposizione all’Inghilterra scoppiata in Irlan-
da alla fne del XIX secolo e continuata fno ai primi anni Venti del Novecento. È
vero che alla fne dell’Ottocento si sviluppò un movimento per l’autogoverno (ho-
me rule) che rimase in piedi fno alla Grande guerra, ma esso non segnò l’inizio di
una lotta per l’indipendenza. Fu invece originato dal timore che gli sleali irlandesi
venissero favoriti alle spese dei leali scozzesi. Di fatto non era un attacco all’unio-
ne, ma un tentativo di renderla più effciente e più equa.
Gli storici defniscono «scontato» l’unionismo scozzese dell’epoca, perché es-
so costituiva una componente accettata, quasi routinaria, della vita quotidiana
della nazione e solo raramente generava polemiche o controversie. Ad esempio,
quando nel 1912 nacque il Partito unionista scozzese, l’unione in questione non
era quella del 1707 ma quella con l’Irlanda, che la formazione si impegnava a
difendere. Il nazionalismo cominciò a emergere veramente solo con la fondazio-
ne del Partito nazionale scozzese (Snp) nel 1934, ma rimase comunque marginale
per circa altri trent’anni, durante i quali l’Snp veniva liquidato come piccola ed
eccentrica organizzazione.
Di conseguenza, le grandi domande storiche sul movimento di indipendenza
della Scozia sono due. Perché ci sono voluti più di 250 anni affnché il nazionali-
smo si costituisse come forza politica? E perché a partire dagli anni Settanta, e in
particolare negli ultimi due decenni, il movimento è diventato una minaccia tanto
potente per la sopravvivenza dell’unione?
2. L’annientamento dei giacobiti verso la metà del XVIII secolo coincise con l’i-
nizio della trasformazione economica scozzese che si realizzò a partire dagli anni
Sessanta del Settecento. L’industrializzazione della nazione, che durò fno agli anni
Trenta dell’Ottocento, fu la più rapida e profonda in Europa, prima di quella forzata
in Unione Sovietica negli anni Trenta del Novecento. All’inizio dell’èra vittoriana la
Scozia era diventata la seconda società industriale del mondo dopo l’Inghilterra. Un
massiccio numero di scozzesi istruiti si gettò nell’impero britannico per fare carriera.
«L’Inghilterra governava l’impero, ma erano gli scozzesi a gestirlo», recitava un antico
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adagio. Le prove erano ovunque, dalle lande artiche del Canada alle brulicanti città
dell’India: gli scozzesi erano commercianti, amministratori, militari, ecclesiastici, mis-
sionari, professori, insegnanti, ingegneri, medici, proprietari terrieri e molto altro.
Eppure – ed è cruciale – gli scozzesi ottennero accesso a questa miniera d’oro
di possibilità in giro per il mondo senza in cambio farsi assimilare dagli inglesi. La
Scozia non si trasformò mai in «Britannia del Nord», in una mera appendice del
socio più importante. Una volta garantita la sicurezza settentrionale, le élite politi-
che di Westminster non mostrarono alcun interesse per ulteriori annessioni politi-
52 che o culturali. Il XIX secolo fu un periodo di quasi indipendenza per gli scozzesi.
IL REGNO DISUNITO
3. Il neonato Snp si trovò a dover affrontare enormi sfde subito dopo la sua
formazione. Vinse sì un primo seggio parlamentare in una votazione suppletiva nel
1945, ma si trattò di una falsa partenza: il partito venne duramente sconftto alle
elezioni generali dello stesso anno. La seconda guerra mondiale aveva infatti raf-
forzato la fedeltà scozzese allo Stato britannico, che nel 1940 aveva lottato per so-
pravvivere e che cinque anni più tardi avrebbe faticosamente conquistato la vitto-
ria. Il travolgente successo del Partito laburista dopo la guerra contribuì a mante-
nere i nazionalisti ai margini dell’arena politica scozzese. Politiche popolari che
garantivano la sicurezza «dalla culla alla tomba», inclusa l’istituzione del Servizio
sanitario nazionale, resero la Britishness ancora più attraente. E tale rimase durante
gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, quando il boom economico del dopo-
guerra portò la disoccupazione scozzese ai minimi storici (o almeno da quando
erano iniziate tali registrazioni).
Quel prevalente unionismo, però, subì un duro colpo quando Winnie Ewing,
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dell’Snp, ottenne un’incredibile vittoria alle elezioni suppletive del 1967 conqui-
stando Hamilton, roccaforte laburista fno a quel momento creduta inespugnabile.
Ma nemmeno questo segnò l’inizio di un’inevitabile avanzata dei nazionalisti verso
la maggioranza elettorale. Per i successivi trent’anni, il sostegno popolare all’Snp
rimase altalenante. Il partito fu segnato da fazioni e da serie spaccature, allontanan-
do apparentemente sempre più il momento di svolta. All’epoca niente lasciava
presagire le conquiste elettorali che sarebbero arrivate molto più avanti: la maggio-
ranza al parlamento scozzese nel 2011, il referendum sull’indipendenza del 2014,
la scalata dell’Snp a naturale partito di governo della Scozia. 53
STORIA DI UN INDIPENDENTISMO OBBLIGATO
aveva votato i conservatori per tanti anni. Questa politica ha funzionato in Inghil-
terra ma ha fnito per alienare molti elettori laburisti scozzesi, che invece preferiva-
no l’approccio tradizionale di centro-sinistra. Ancora, la decisione del governo Blair
di invadere l’Iraq ha prodotto un effetto simile su coloro che credevano che l’inter-
vento non fosse solo un errore madornale ma anche un’inaccettabile violazione del
diritto internazionale.
Infne, l’elemento probabilmente più incisivo è stato il fatto che i laburisti ab-
biano sostenuto i conservatori nella campagna per il referendum del 2014. Errore
54 di proporzioni monumentali: il partito sembrava aver dimenticato quanto il conser-
IL REGNO DISUNITO
vatorismo fosse stato tossico per buona parte dell’elettorato scozzese, sin dai tempi
del governo di Margaret Thatcher negli anni Ottanta. Il conseguente crollo laburista
è stato repentino e catastrofco. Nelle elezioni generali del 2019 nel Regno Unito
l’ormai ex gigante della politica scozzese è stato polverizzato, riuscendo a mante-
nere solo un seggio a nord del confne.
4. Nel giugno 2021, l’ex primo ministro britannico Gordon Brown – laburista,
ultraunionista e scozzese – ha affermato che il futuro dell’unione non è mai stato
tanto in pericolo come ora nella sua secolare storia. Questa importante dichiara-
zione è arrivata dopo soli sette anni dalla sconftta dell’indipendentismo nel refe-
rendum del 2014. I sondaggi hanno confermato la sua interpretazione: dalla tarda
primavera 2020 il Sì sembra aver raggiunto una percentuale tra il 50 e il 55% degli
intervistati.
Seppur con qualche oscillazione, la tendenza è rimasta la stessa. I sondaggi
suggeriscono anche che le donne, più scettiche verso l’opzione separatista rispet-
to agli uomini nel 2014, sono ora più convinte, così come lo è la stragrande mag-
gioranza della popolazione di entrambi i sessi sotto i 25 anni. Il supporto all’unio-
ne, al contrario, è più forte tra gli anziani, specialmente tra gli ultrasessantacin-
quenni. Alcuni commentatori hanno quindi osservato che l’unionismo starebbe
letteralmente morendo.
Ancora, con le ultime elezioni al parlamento scozzese del maggio 2021, l’Snp
è tornato partito di maggioranza e lo ha fatto avendo espressamente chiesto un
mandato per negoziare un nuovo referendum sull’indipendenza. Grazie al sup-
porto dei Verdi, attualmente la maggioranza assoluta del parlamento di Edimbur-
go persegue questo obiettivo.
Nell’analizzare queste tendenze è importante sottolineare come quel 45% di
votanti a favore nel 2014 non abbia cambiato idea; anzi, quella percentuale si è
rivelata una solida base per un ulteriore aumento del sostegno all’indipendenza. Il
principale fattore che ha portato molti a sposare questa causa è stato il Brexit. Gli
scozzesi hanno votato convintamente per rimanere nell’Unione Europea, mentre
Inghilterra e Galles si sono espressi, con meno convinzione, per lasciarla. In ogni
caso il Brexit c’è stato. L’enorme opposizione democratica scozzese è stata ignora-
ta durante le lunghe negoziazioni che alla fne hanno portato all’uscita del Regno
Unito dall’Ue, a condizioni ben più dure di quanto entrambe le parti si aspettasse-
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56
IL REGNO DISUNITO
LA SCOZIA INDIPENDENTE
NON HA UN PROGETTO di Michael KEATING
I separatisti di Edimburgo hanno le idee chiare solo su un secondo
referendum e sull’adesione alla Nato in caso di secessione. Per il
resto è buio: moneta, rapporto con l’Ue, confine con l’Inghilterra.
La popolazione è spaccata a metà. Small is better, una fantasia.
comportati come sconftti e gli sconftti come vincitori. Alle elezioni britanniche del
2015, l’Snp ha ottenuto 56 seggi sui 59 riservati alla Scozia e successivamente ha
prevalso in ogni elezione, da quelle locali del 2016 e del 2021 a quelle generali del
2017 e del 2019, pure in quelle europee del 2019. Ha inoltre incrementato massic-
ciamente i propri iscritti. I conservatori si sono leggermente ripresi nel 2016-17 ma
nel 2019 hanno nuovamente ottenuto un solo seggio a Westminster fra quelli desti-
nati alla Scozia. Il sostegno all’indipendenza è rimasto attorno a quota 45%.
Il quesito referendario nel 2014 recitava: «Dovrebbe la Scozia essere un paese
indipendente?». Formula piuttosto chiara, ma l’indipendenza può essere interpreta-
ta in modi diversi. Nonostante l’Snp abbia sempre preferito, esattamente come il
governo britannico, un’Europa intergovernativa a una sovranazionale, a partire da
metà anni Ottanta il partito ha abbandonato l’antica ostilità nei confronti dell’Unio-
ne Europea, scorgendovi un’importante fonte di supporto esterno per piccoli pae-
si indipendenti. Il dibattito verteva non sulla desiderabilità dell’Ue, su cui Londra e
Edimburgo concordavano, ma sulla possibilità per la seconda di aderirvi una volta
staccatasi dal resto del paese. In teoria non ci sarebbe dovuto essere alcun ostaco-
lo, perché in base all’accordo del 2012 il Regno Unito avrebbe riconosciuto la
Scozia e Holyrood aveva già acquisito il diritto comunitario. Il campo unionista
aveva avvertito di un possibile veto spagnolo, per via del timore di creare un pre-
cedente per la Catalogna, ma il ministro degli Esteri iberico aveva poi smentito una
simile eventualità 3.
Una questione più diffcile riguardava la valuta. L’Snp intendeva continuare a
usare la sterlina, in un’unione monetaria con Londra. Quando il governo britannico
ha chiarito che non gliel’avrebbe permesso, il partito ha dichiarato che avrebbe
continuato a usarla lo stesso, unilateralmente, anche se non ha mai spiegato come.
Sia come sia, adottare il conio di un altro paese signifca rinunciare al controllo
della politica monetaria e di conseguenza a buona parte della fscalità. In assenza
di un’unione formale, la Scozia non avrebbe avuto voce in capitolo sulle futtuazio-
ni della valuta. Si sarebbe potuto pensare all’euro, ma dopo la recente crisi del
debito tale opzione è diventata assai sgradita a livello politico.
2. Al referendum sul Brexit nel 2016, il Regno Unito ha votato per lasciare l’Ue
(52% contro 48%). In Scozia il 62% ha votato per rimanervi. La dirigenza dell’Snp
ha subito interpretato il risultato come giustifcazione a richiedere una seconda
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L’ECONOMIA SCOZZESE AD
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Città universitarie
Biotecnologia R E G N O U N I T O
Energie rinnovabili
Turismo
Distillerie di whisky
Pisciculture
59
LA SCOZIA INDIPENDENTE NON HA UN PROGETTO
hanno votato per staccarsi da Londra ha anche votato per il Brexit: evidentemente
la tattica dell’Snp di collegare l’Ue all’indipendenza ha avuto un successo limitato 5.
Alle elezioni generali del 2017, il partito ha perso parte dei consensi e i conserva-
tori scozzesi hanno guadagnato qualche seggio.
Negli ultimi due anni, tuttavia, questa posizione è cambiata. Un numero con-
sistente di seguaci del Remain contrari all’indipendenza nel 2014 ha iniziato a
pensare alla secessione come modo per rientrare nell’Ue. Anche alcuni sostenitori
del Leave favorevoli all’indipendenza hanno cambiato idea ma in un numero infe-
riore al gruppo precedente. Così, l’idea di separarsi dal Regno Unito, rimasta dal
2014 più o meno fssa attorno al 45%, ha raggiunto la metà dell’elettorato. Nel 2020,
durante la crisi del Covid-19, a cui nell’immediato il governo scozzese ha dato
l’impressione di reagire meglio di quello londinese, è addirittura arrivata al 55%,
poi rientrando al 50% quando è passata la fase più acuta dell’emergenza sanitaria.
Per la prima volta si sono allineati quattro astri: sentirsi fortemente scozzesi,
desiderare l’indipendenza, votare Snp ed essere flo-Ue. Sull’altra sponda c’è un
blocco meno consistente di elettori decisamente contrari a un secondo referen-
dum, favorevoli al Brexit e seguaci del Partito conservatore. Questa realtà ha pola-
rizzato l’opinione pubblica come mai prima d’ora.
La polarizzazione è stata esacerbata anche dall’erosione del cosiddetto cen-
tro costituzionale. Sinora, una maggioranza relativa di elettori chiedeva in gene-
rale qualcosa di più della devoluzione e qualcosa di meno della secessione. In
virtù di questa via di mezzo, i nazionalisti invocavano un’indipendenza leggera
(indepencence-lite) e gli unionisti la massima devoluzione possibile (devolution-
max). Per un breve lasso di tempo dopo il Brexit, l’Snp ha cercato di conquistar-
si questo centro proponendo che la Scozia restasse nel mercato unico, a diffe-
renza di Galles e Inghilterra 6. Idea nemmeno presa in considerazione dal gover-
no britannico, anche se qualcosa del genere è stato stipulato per l’Irlanda del
Nord. Ora però le ambiguità sono superate e per Edimburgo la scelta è netta: o
stare del tutto fuori dall’Ue assieme al resto del Regno Unito o diventare indipen-
dente e rientrare nell’Ue.
5. C. PROSSER, E. FIELDHOUSE, A tale of two referendums – the 2017 election in Scotland, British Election
Study, 2017, bit.ly/3xxpkC9
60 6. Scotland’s Place in Europe, Scottish Government, 2016.
IL REGNO DISUNITO
assoluta per un solo seggio ma se l’è assicurata grazie a quelli dei Verdi. I partiti
indipendentisti hanno raccolto il 49% dei suffragi nei collegi elettorali e il 50%
delle liste regionali 7. È una fotografa piuttosto precisa del livello di popolarità
della secessione.
Ci si è subito chiesti se, come e quando potrebbe celebrarsi un secondo refe-
rendum. Qualcuno sostiene che il popolo scozzese abbia un riconosciuto diritto
all’autodeterminazione e che pertanto debba esserci un modo di esercitarlo demo-
craticamente. Conquistare la maggioranza parlamentare in un sistema proporziona-
le e indire una consultazione popolare sarebbe sicuramente il metodo più demo-
cratico per farlo. Qualcun altro, cioè il governo britannico e i partiti unionisti,
contesta non il diritto all’autodeterminazione in sé ma che sia il momento adatto:
è passato troppo poco tempo dal primo referendum, la crisi del Covid-19 ha la
priorità, la gente non vuole un altro voto, il tema è troppo divisivo e le elezioni
riguardavano altro.
L’esecutivo scozzese guidato dall’Snp insiste e vuole una riedizione dell’ac-
cordo di Edimburgo del 2012, cioè l’autorizzazione di Londra a celebrare il refe-
rendum tramite un altro section 30 order. È conscio che una mossa alla catalana
(referendum e dichiarazioni d’indipendenza unilaterali) non avrebbe il sostegno
dell’opinione pubblica. Il consenso del governo britannico sarebbe necessario
affnché l’eventuale indipendenza fosse riconosciuta dagli altri paesi. Qualche
critico all’interno dell’Snp e del partito da esso staccatosi (Alba, guidato dall’ex
premier Alex Salmond) invoca un piano B in caso di rifuto di Londra. Alcuni
propongono un referendum consultivo: sarebbe legale ma, per defnizione, non
vincolante per il governo britannico. Di più: molto probabilmente gli unionisti lo
ignorerebbero o consiglierebbero i propri elettori di astenersi, privandolo di forza
politica.
Se questo è indubbiamente il punto debole dell’argomento nazionalista, quel-
lo degli unionisti è che l’esecutivo londinese non può dire per sempre che il mo-
mento non è adatto. La stessa espressione implica che prima o poi lo sarà. Altri-
menti smette di essere un argomento e diventa un pretesto per rifutare il referen-
dum perché è suo potere farlo. In altre parole, l’unione cessa di essere una que-
stione di consenso e inizia a poggiare puramente sulla legge e sulla potenza 8.
10. Scotland: The New Case for Optimism, Sustainable Growth Commission, 2018.
11. H. BALDERSHEIM, M. KEATING (a cura di), Small States in the Modern World. Vulnerabilities and Op-
62 portunities, Cheltenham 2015, Edward Elgar.
IL REGNO DISUNITO
C
OR
Percentuale della popolazione
che parla il gaelico (2011)
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≤ 1,125% (media nazionale)
< 15% D
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> 50%
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≥ 50%
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Edimburgo
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SCOTTISH
BORDERS
AYRSHIRE
MERIDIONALE
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R E G N O U N I T O
Fonte: www.gov.scot
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SOGNANDO
LEUROPA
A EDIMBURGO di Fabrizio MARONTA
I secessionisti di Scozia coltivano una visione manierata dell’Ue,
assunta a vessillo anti-inglese. La costruzione della nazione
scozzese. La tempestiva giravolta di Sillars. Le spensierate ambiguità
dell’‘indipendenza in Europa’ possono costare care.
2. Tra i molti dibattiti che dividono gli storici vi è quello relativo al rapporto
tra nazione e nazionalismo. Se cioè l’una preesista all’altro come entità storico-ge-
1. N. STURGEON, «Scotland will always uphold international law», Politico, 8/10/2020. 65
2. N. STURGEON, «EU citizens will always have a home in Scotland», Politico, 23/6/2021.
SOGNANDO LEUROPA A EDIMBURGO
resti a lungo pura teoria, come la pretesa alterità rispetto al resto del regno e al suo
cuore geopolitico: l’Inghilterra.
3. Per un sunto del dibattito in questione con particolare riferimento al caso scozzese, cfr. A. ICHIJO,
Scottish Nationalism and the Idea of Europe, London 2004 (ed. 2016), Routledge, pp. 33 ss.
4. Ibidem; R.C. ALLEN, La rivoluzione industriale inglese, Bologna 2011, il Mulino.
5. W. FERGUSON, The Identity of the Scottish Nation: An Historic Quest, Edinburgh 1998, Edinburgh
University Press.
6. T. NAIRN, A. BARNETT, The Break-Up of Britain: Crisis and Neo-Nationalism, London-New York 2021
66 (prima ed. 1977), Verso.
IL REGNO DISUNITO
LL
16,1 miliardi di sterline
AS
19%
CO
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SCOZIA
LITUANI
15.000
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91.000
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13.000
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ZIO 13.000
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I TÀ S T
RANIER E PIÙ PRESENTI
IRLANDESI
17.000 INDIANI
13.000
3. Il quadro cambia tra fne Ottocento e primo Novecento. L’Snp vede la luce
nel 1934, ma è solo negli anni Sessanta che comincia ad acquisire un certo seguito.
Prima di allora gli elettori scozzesi erano in gran parte fedeli al Partito liberale, cui
affdavano la loro rappresentanza al parlamento londinese. 67
SOGNANDO LEUROPA A EDIMBURGO
romano nella parte occidentale della Scozia, al pari del più recente affusso di
italiani e polacchi 10.
Non l’etnia. Il carattere composito della popolazione scozzese, in virtù delle
numerose ondate migratorie – inglesi, irlandesi, italiani, polacchi, lituani, ebrei
est-europei e ancora cinesi, indiani, pakistani, bengalesi – susseguitesi dal Sette-
Ottocento in poi, rende impossibile indicare nell’omogeneità «razziale» un fattore
unifcante. Già in epoca premoderna, il suolo scozzese fu calcato da pitti, irlandesi,
romani (intenti a pacifcare la Caledonia), britannici (che ne colonizzarono il Sud),
sassoni, normanni, norreni di ceppo germanico. Tutti giunti in ondate successive 11.
Il documento Scotland’s Right, Scotland’s Parliament, prodotto nel 1995 dal-
l’Snp in vista del referendum che due anni dopo decreterà la nascita del parlamento
di Holyrood, adottava non a caso il criterio della residenza come unico discrimine
per la concessione del voto. Mentre l’odierna premessa all’autodeterminazione è
indicata dal partito nel «nazionalismo civico», espressione di una (vera o presunta)
comunanza valoriale che prescinde da attributi storici e biologici.
Eppure storia e confni sono forse i due elementi di maggior continuità della
vicenda scozzese, per questo sovente richiamati a suffragio della relativa identità.
Le genti di Scozia formano e mantengono il loro regno dal medioevo al 1707, re-
sistendo – anche in virtù del cruciale ausilio francese – ai ricorrenti tentativi inglesi
di assoggettamento. Ciò determina una certa divergenza della traiettoria storica
scozzese da quelle inglese, irlandese e gallese. Tanto che la Scozia conserva i suoi
miti fondanti, come la leggenda della Pietra di Scone (donde gli irresistibili dolci)
su cui i sovrani scozzesi erano incoronati. Anche in virtù di questo, i confni della
Scozia permangono relativamente stabili nel tempo. Da ultimo, ma non da meno,
gli scozzesi hanno negli inglesi la loro nemesi geopolitica, il che ne aiuta (ieri come
oggi) la defnizione identitaria per antitesi 12.
zia (rispetto alla sua importanza nell’assetto britannico) alle fnanze generali con gli
introiti petroliferi 15. Qui sta il defcit democratico: gli animi del Boston Tea Party in
chiave scozzese alfne incendiati dal petrolio.
Il tema è ravvivato dal referendum del 2016, che sancendo l’uscita della Sco-
zia dall’Ue ne tradisce la volontà referendaria. Quello del tradimento è argomento
caro all’indipendentismo scozzese, che prima del Brexit lo applica alle proposte di
devoluzione negate o attuate in forma insuffciente 16. Soluzione: recidere l’unione
politica con l’Inghilterra e il resto del regno, restando però «legati alle altre nazioni
del Regno Unito tramite (…) l’area della sterlina e la Nato» 17. Nonché all’Unione
Europea, dopo lo sgambetto del Brexit.
Qui alligna, tuttavia, una (altra) contraddizione. Il nazionalismo è solitamente
rivendicazione di sovranità esclusiva; l’integrazione europea tende all’opposto: ces-
sione di sovranità a Bruxelles. L’antinomia non sfugge all’Snp, già noto per le sue
posizioni anti-europee (salvo una parentesi nell’immediato secondo dopoguerra).
Tanto che al referendum del 1975, in cui il governo laburista (di Londra) chiede se
il Regno Unito debba restare o meno nella Comunità economica europea, il No in
Scozia spopola anche tra i nazionalisti 18.
Ma allora perché gli scozzesi agognano l’Ue? La risposta più scontata è: perché
la percepiscono come mezzo per ottenere ciò che vogliono. Ma è una risposta
parziale: nulla dice della contraddizione nazionalismo/europeismo, che da quando
l’Ue – con l’euro e ora con la proto-unione fscale del Recovery Plan – è andata
assumendo tratti sovrannazionali, pare accentuarsi.
Occorre allora risalire all’origine dell’europeismo scozzese, grande novità degli
anni Ottanta: nel volgere di un lustro, l’avversione dell’Snp all’integrazione euro-
pea si stempera in un euroentusiasmo senza pari in Scozia e forse nel resto del
regno. Il voltafaccia si deve in gran parte all’intuizione di Jim Sillars, parlamentare
scozzese che dopo il collasso dei laburisti locali, nel 1980, transita nelle fle degli
indipendentisti. Già fero euroscettico – la Cee andava avversata in quanto progetto
capitalistico e centralista – Sillars prende a sostenere la necessità per la Scozia di
un’«indipendenza in Europa», articolando la tesi in un libro del 1986 19. Nel mondo
moderno, vi si legge, una sovranità statale assoluta è impossibile per via della cre-
scente globalizzazione economica e delle interdipendenze geopolitiche che ne de-
rivano, accentuate dal sistema di alleanze internazionali (al tempo ancora impron-
tato al canone della guerra fredda). È tuttavia importante che la Scozia riguadagni
una misura di sovranità tale da poter negoziare in modo autonomo e conveniente i
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termini della sua appartenenza a insiemi più ampli. Il rischio maggiore, in quest’ot-
tica, è che una brusca scissione dal Regno Unito sigilli il confne con l’Inghilterra
15. S. WHIGHAM, «Nationalism, party political discourse and Scottish independence: comparing discur-
sive visions of Scotland’s constitutional status», Nations and Nationalism, 7/6/2019.
16. Ibidem.
17. Scotland’s Future: Your Guide to an Independent Scotland, cit., p. 215.
18. A. ICHIJO, «Sovereignty and Nationalism in the Twenty-First Century: The Scottish Case», Ethnopo-
litics, 8, 2, 2009, pp. 155-172.
70 19. J. SILLARS, Scotland: The Case for Optimism, Edinburg 1986, Polygon.
IL REGNO DISUNITO
EUROBAROMETRO
Finlandia
Svezia
Estonia
Lettonia
Danimarca Lituania
Oceano
Atlantico
Irlanda Polonia
Belgio
Lussemburgo Rep. Ceca
chia
vac
Slo
Francia Austria Romania
Ungheria
Slovenia
Croazia
Bulgaria
Portogallo Italia
Spagna Grecia
Mar Mediterraneo
Malta
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Cipro
Quanto conta la voce del mio paese nell’Ue Immagine positiva L’appartenenza all’Ue
(in percentuale) dell’Ue è una cosa buona
89 Germania 71 Malta 51 Slovacchia Dal 77 al 60% Dal 67 all’87%
85 Paesi Bassi 70 Romania 49 Estonia dal 50 al 59%
81 Irlanda 70 Polonia 44 Bulgaria dal 50 al 66%
81 Danimarca 67 Austria 41 Lettonia dal 36 al 49%
79 Svezia 65 Croazia 41 Cipro dal 39 al 49%
78 Portogallo 57 Finlandia 40 Rep. Ceca
75 Lussemburgo 55 Lituania 39 Slovenia
74 Francia 54 Ungheria 35 Italia
74 Belgio 53 Spagna 33 Grecia Fonte: Eurobarometer Survey 94.2, Parlamento europeo, marzo 2021. 71
SOGNANDO LEUROPA A EDIMBURGO
nella Ue». Il flo-europeismo scozzese non ha eguali nel Regno Unito: sebbene
i conservatori locali si siano schierati per l’uscita dall’Unione, in tutte le elezioni
tenutesi in Scozia dopo il 2016 formazioni avverse al Brexit, ergo flo-europee (a
cominciare dall’Snp), hanno ottenuto i risultati migliori 21. L’Europa va di pari passo
con l’indipendenza, tanto da esserne quasi sinonimo. Come tale, è vista attraverso
il prisma della sovranità.
80
73,3
65,9
61,1
60 54,8
46,4
40 38,6
20
0
Britannica Inglese Europea Scozzese Gallese Altre
Questo è un problema: negli anni l’Ue si è spansa sul discorso politico scoz-
zese come una macchia d’olio, coprendone la superfcie ma lasciandone intatti gli
strati più profondi. Il dibattito è improntato a robusta ideologia e generale disinfor-
mazione, risultando in buona misura disconnesso dai principali temi all’ordine del
giorno: si tratti di fsco, Next Generation Eu, relazioni con Cina e Stati Uniti, Stato
di diritto (vedasi alla voce «Europa centrale»). Non stupisce pertanto che il tema
delle relazioni tra l’Unione e una Scozia indipendente resti avvolto dall’indetermi-
natezza, sebbene su molte questioni – pesca, giustizia, istruzione, sanità, dogane,
programma Erasmus, tanto per fare alcuni esempi rilevanti – sarebbe opportuno
avere le idee chiare al momento di perseguire un’adesione senza (contro) Londra.
A prevalere sono invece questioni basilari – se una Scozia indipendente deb-
ba o meno entrare a piè pari nella Ue e con che tempi – e posizioni sovente
massimaliste. Snp e Verdi scozzesi abbozzano visioni dell’«indipendenza in Euro-
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pa» post-Brexit, pur rimanendo sul vago in merito agli eventuali rapporti con ciò
che resterebbe del Regno Unito; laburisti, conservatori e liberaldemocratici evitano
ogni riferimento, quasi che il Brexit non si fosse consumato 22.
Tale reticenza, frutto del piatto disinteresse per i dettagli di un’adesione alla
Ue impugnata come vessillo politico, porta l’indipendentismo scozzese a (fngere
di) ignorare, o comunque a sottovalutare spiacevoli circostanze. Come il fatto che
dopo il fasco del 2014 e alla luce del precedente catalano, un ritorno della Scozia
nell’Ue passerebbe con ogni probabilità per Westminster: le capitali europee han-
22. Ibidem. 73
SOGNANDO LEUROPA A EDIMBURGO
no infatti segnalato di preferire che un simile passo sia prima vidimato da Londra
(via parlamento e tribunali), per non avallare secessioni unilaterali. O che rientrare
nell’Ue impegnerebbe Edimburgo per diversi anni: ce ne sono voluti cinque solo
per perfezionare il Brexit e niente lascia intendere che la separazione dal regno
e il ritorno alla «casa europea» sarebbero più celeri – verosimilmente, il contrario.
Sarebbe poi improbabile ereditare le eccezioni pretese dall’invisa Thatcher per il
Regno Unito: dunque piena adesione (almeno iniziale) alla disciplina agricola e
di pesca, all’euro e all’acquis communautaire; ma anche addio ai rebates (sconti)
che temperavano il contributo britannico al bilancio europeo, in assenza dei quali
la Scozia – area ad alto reddito se paragonata a molte altre dell’Unione – sarebbe
forse un contributore netto (che versa cioè più di quanto riceve), tra l’altro orfano
dei corposi trasferimenti da Londra 23.
Infne, la questione del limes: analogamente a quanto avvenuto per l’Irlanda
del Nord con il Brexit, il rientro di Edimburgo nell’Ue trasformerebbe il confne
anglo-scozzese in una frontiera esterna dell’Unione, con tutto quanto ne consegue
per la libera circolazione di cose e persone. Considerato che oggi la Scozia com-
mercia con il resto del Regno Unito molto più che con l’Ue, almeno in un primo
tempo (forse non così breve) si prospetterebbe quell’isolamento economico per
scongiurare il quale l’«indipendenza in Europa» fu concepita. La Scozia, in barba
alla retorica europeista, potrebbe optare per il solo Spazio economico europeo,
accedendo al mercato unico ma non alla relativa area doganale 24. Così subirebbe
però la disciplina e le decisioni europee senza poterle infuenzare: amara beffa
della ritrovata sovranità.
Per il nazionalismo scozzese, quell’Europa che sa di grande opportunità ri-
schia dunque di rivelarsi un grande, oneroso equivoco. Ma oggi in pochi se ne
curano: vista da Edimburgo, Leuropa è poco più di un’idea.
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23. A. PAUN, J. SARGEANT, J. KANE, M. THIMONT JACK, K. SHUTTLEWORTH, «Scottish independence: EU mem-
bership and the Anglo-Scottish border», Institute for Government, marzo 2021.
74 24. Ibidem.
IL REGNO DISUNITO
(SCOZIA VS SCOZIA)
VS INGHILTERRA di Jeremy BLACK
L’Snp, frustrato alle recenti elezioni, minaccia un nuovo referendum
contro Londra. Ma al suo interno si divide sull’idea di nazione
scozzese, oltre che sulle alleanze esterne. Il fantasma nordirlandese.
I riflessi sul Galles. I trascorsi storici spiegano, non aiutano.
802 - 839
871 - 901
901 - 925
925 - 940
940 - 955
Strade
Lincoln
Nottingham
Vallo di Ofa
Derby
G a l
Stamford
Leicester
l e
GALLES
s
Mare Londra
Celtico Regno del Wessex
La Manica
persone nel 1901, mentre in quel periodo la Scozia passò da 2,9 a 4,5 milioni. Che
la Scozia conservasse notevole indipendenza all’interno del Regno Unito giocava
contro il nazionalismo politico: aveva propri sistemi d’istruzione e giuridico, inoltre
nel 1885 fu creato lo Scottish Offce mentre nel 1746 era stata la volta del Secretary
of State (ministro) for Scotland. Il XIX secolo vide riemergere un’identità culturale,
con i kilt e la letteratura, ma non una vera spinta all’indipendenza. Lungi dall’esse-
re separata, la Scozia era parte integrante della politica britannica: i liberali, ma
anche i conservatori vi raccoglievano vasti consensi; cinque dei dieci primi ministri 77
(SCOZIA VS SCOZIA) VS INGHILTERRA
britannici tra il 1880 e il 1935 furono scozzesi. Creata nel 1853, l’Associazione na-
zionale per la difesa dei diritti scozzesi premeva per la devoluzione e la rappresen-
tanza a livello governativo, ma non era esplicitamente nazionalista.
Negli anni Sessanta del Novecento il Partito nazionale scozzese (Snp) comin-
ciò la propria ascesa, ma fu solo negli anni Novanta che il nazionalismo scozzese
concorse a minare l’idea di britannicità in Scozia. La crescita del sostegno all’Snp
dagli anni Sessanta in poi penalizzò sia i laburisti sia i conservatori. Inoltre, la de-
bolezza dei governi britannici negli anni Settanta diede impulso alla questione
scozzese, stante anche il timore che la Scozia potesse seguire l’Irlanda del Nord
sulla via della violenza. Alle elezioni dell’ottobre 1974 l’Snp ottenne il 30,4% del
voto scozzese e portò undici rappresentanti in parlamento, risultando il secondo
partito più votato in altre 36 circoscrizioni. Una legge presentata nel 1976 dal go-
verno laburista propose assemblee per Scozia e Galles con competenze su sanità,
servizi sociali, istruzione primaria e secondaria, sviluppo e governo locale, ma
senza potere d’imposizione fscale e con un diritto di veto a Westminster. La legge
fu avversata dai nazionalisti scozzesi, secondo cui non concedeva abbastanza, ma
soprattutto dai conservatori e da alcuni parlamentari laburisti, per i quali metteva a
repentaglio l’unità dello Stato britannico. Per farla approvare il governo doveva
sottoporla a referendum, che tenutosi nel 1979 vide trionfare il Sì alla devoluzione
in Scozia, dove tuttavia non si raggiunse il quorum del 40% di aventi diritto.
A rammentare la dipendenza degli sviluppi scozzesi dalla politica britannica
intervennero le elezioni generali del 1979, che riportarono i conservatori al gover-
no con Thatcher prima e John Major poi: fgure per nulla propense a modifcare
l’assetto vigente in Scozia. A contrapporsi non erano Scozia e Inghilterra, come
pretendevano gli indipendentisti, bensì fazioni interne a ciascun campo: una dina-
mica risalente al medioevo.
3. Con l’avvento nel 1997 dei nuovi governi laburisti britannico e scozzese,
nonché delle relative maggioranze parlamentari, il separatismo divenne un pro-
cesso incrementale che avrebbe fnito per intaccare l’identità britannica. Come
questa identità era stata creata con atto parlamentare, così poteva essere dissolta
per la medesima via dai parlamenti di Londra e Edimburgo, sebbene ora il refe-
rendum avrebbe svolto un ruolo centrale. Il 22% dei voti scozzesi alle elezioni del
1997 andò all’Snp, che nel 2007 conquistò il governo di Edimburgo. Nel 2002 il
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Daily Record, il tabloid più letto in Scozia, istigò gli scozzesi a sostenere gli avver-
sari dell’Inghilterra ai mondiali di calcio e i tifosi eseguirono, con grande shock
degli inglesi. Alla fne degli anni Dieci documenti e pareri legali – come il rappor-
to prodotto nel 2009 dalla commissione Calman, creata dopo il referendum del
2007 – cominciavano a indicare la sovranità condivisa come soluzione costituzio-
nale. Inoltre, sondaggi condotti in quel periodo indicavano che circa l’84% degli
scozzesi si identifcava come tale, non come britannico; nel referendum del 2014
il 44,7% votò per l’indipendenza della Scozia, mentre alle elezioni generali del
78 2015 l’Snp ottenne tutti i seggi scozzesi a Westminster eccetto tre. Nel 2016 il 62%
IL REGNO DISUNITO
dei votanti scozzesi optò per restare nell’Unione Europea e tre anni dopo l’Snp
ottenne 48 seggi su 59 alle elezioni generali, sebbene solo il 45% dei voti. Gli
episodi di bullismo ai danni di bambini inglesi nelle scuole scozzesi e i pestaggi
di studenti inglesi nelle strade di Scozia si intensifcarono. L’affermazione di un
punto di vista prettamente scozzese sovente opposto a quello di Londra è stata
promossa da due tv scozzesi indipendenti – Scottish Television (nata nel 1958) e
Grampian Television (in onda dal 1960) – che trasmettevano solo in Scozia. Il
successo dell’Snp era in linea con il racconto, ora uffciale, di storia e identità
scozzesi: il nuovo Museo nazionale scozzese di Edimburgo sminuisce fortemente
il ruolo della Scozia nell’impero britannico, mentre la Biblioteca nazionale scoz-
zese esalta gli aspetti locali in mostre ed esposizioni.
All’inizio del 2021 la pressione per un secondo referendum era di nuovo for-
te. Questo era l’obiettivo dell’Snp, che auspicava di tenere il referendum in un
momento a esso propizio: doveva solo vincere una volta per trionfare, ma come
in Québec ogni sconftta avrebbe rappresentato un fallimento potenzialmente
capace di invalidare la causa, oltre che di stroncare la carriera di chiunque fosse
alla testa del partito in quel momento. Visto da fuori l’Snp era e resta un gruppo
coeso che lotta per l’indipendenza, ma in realtà è fortemente diviso su obiettivi,
mezzi e personalità. L’apparente unità in vista dell’indipendenza è minata dalle
diverse vedute sulla società e sull’ethos di una Scozia indipendente, divergenze
che rifettono contrasti ideologici e anche il dibattito sul fatto se l’Snp sia o meno
una coalizione, data la natura estremamente varia della Scozia e la misura in cui
il partito ha sottratto consenso ad altre formazioni politiche. Di conseguenza,
all’interno i contrasti divampano.
Nei ranghi dell’Snp vi è uno scontro – o almeno una notevole tensione – sul-
le alleanze internazionali; scontro che non può rifarsi all’antica storia della Scozia
indipendente, dati i profondi cambiamenti intervenuti da allora. La massima «il
nemico del mio nemico è mio amico» fornisce almeno un criterio per accordarsi
su alcuni punti. Come la Repubblica d’Irlanda è stata capace di usare l’apparte-
nenza alla Ue per esercitare pressioni nella sua relazione con la Gran Bretagna,
specie dopo il Brexit, così la Scozia ha una lunga tradizione – che rimonta al XII
secolo – di uso delle tensioni anglo-francesi a proprio vantaggio. Stante l’ascen-
dente francese sull’Unione Europea, specie in politica estera, l’attrazione per Pa-
rigi e Bruxelles è palese.
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80
IL REGNO DISUNITO
EDIMBURGO INVOCA
L’INDIPENDENZA MA
NON LA VUOLE DAVVERO di Antonia COLIBASANU
La secessione della Scozia è oggi più difficile e improbabile che
nel 2014. L’Ue è distratta, Londra decisa per ragioni strategiche a
impedirla. Agitare lo spettro di un nuovo referendum permette però
agli scozzesi di negoziare condizioni migliori nel Regno Unito.
ni tra Edimburgo e Londra. Malgrado fosse al governo, l’Snp lanciò una pervasiva
campagna anti-establishment e si confermò alfere della campagna volta a separare
la Scozia dall’unione di cui aveva fatto parte per secoli. Il sentimento indipenden-
tista è riemerso dopo il referendum sul Brexit, nel quale la maggioranza degli
scozzesi ha votato per restare nell’Unione Europea, e viene oggi usato dagli indi-
pendentisti non solo quale strumento di propaganda elettorale ma anche per strap-
pare a Londra condizioni più favorevoli.
Ostacoli e priorità
Lo scorso maggio l’Snp ha vinto le elezioni scozzesi per la quarta volta conse-
cutiva. Insieme ai Verdi – con i quali ha formato un governo di coalizione – con-
trolla il 55,8% dei seggi parlamentari, ma la strada verso l’indipendenza resta disse-
minata di ostacoli.
Il primo è la contrarietà di Boris Johnson a un nuovo referendum, espressa
chiaramente in occasione dei colloqui con i rappresentanti di Scozia, Irlanda del
Nord e Galles andati in scena immediatamente dopo la recente vittoria elettorale
dell’Snp. Il consenso del premier britannico è vincolante. La sezione 30 dello Scot-
land Act del 1998 autorizza il parlamento scozzese a legiferare su materie tradizio-
nalmente di competenza di Westminster e gli conferisce il potere di indire un refe-
rendum sull’indipendenza, ma solo previa approvazione di Londra.
Il secondo ostacolo riguarda la natura stessa dell’eventuale indipendenza. Il
referendum del 2014 ha innescato dibattiti sull’autodeterminazione, sul sistema di
governo, sui processi decisionali. La società scozzese si è politicizzata. Sono nati
nuovi movimenti sociali, alcuni dei quali a forte connotazione nazionalista. Il go-
verno scozzese deve dunque presentarsi di fronte all’opinione pubblica con un’i-
dea precisa della futura Scozia indipendente. Compito di per sé diffcile che la
necessità di negoziare i contorni di tale visione con i Verdi e le conseguenze dell’e-
pidemia di Covid-19 rendono improbo.
Infne, l’economia. Il citato rapporto pubblicato dal governo scozzese a metà
luglio evidenzia che negli scorsi cinque anni le relazioni commerciali tra Edimbur-
go e Bruxelles hanno fatto segnare una battura d’arresto, soprattutto in alcuni set-
tori, e che a causa delle sue peculiari dinamiche demografche la Scozia ha bisogno
di un alto tasso d’immigrazione dall’Europa continentale per sostenere la propria
crescita economica. Il rapporto non si sofferma sulle conseguenze dell’emergenza
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più di quanto abbia mai dipeso dall’Unione Europea. La maggior parte dei beni e
dei servizi scozzesi viene venduta nel mercato britannico e dopo la crisi del 2008
il governo di Sua Maestà ha rilevato la Royal Bank of Scotland.
I legami economici tra la Scozia e il resto del Regno Unito sono così profondi
che nel 2014 il fronte pro indipendenza proponeva di creare un’unione monetaria
in caso di vittoria del Sì e di continuare a usare la sterlina anche in assenza di un
accordo con Londra in tal senso – opzione giudicata preferibile all’adozione dell’eu-
ro o di una moneta nazionale scozzese.
La dimensione strategica
La Scozia sa perfettamente che malgrado il suo europeismo rientrare nell’Unio-
ne Europea non sarà facile. Tra l’affermazione dell’opzione indipendentista in un
eventuale referendum e la separazione uffciale dal Regno Unito passerebbero
molti anni. Ancora di più ne servirebbero a Edimburgo per raggiungere gli stan-
dard necessari all’ammissione all’Ue, per la quale è indispensabile il voto unanime
dei 27 Stati membri.
I fautori dell’indipendenza promettono che il processo di riadesione sarà cele-
re, in ragione della passata partecipazione della Scozia all’Unione Europea, ma le
dinamiche interne al blocco continentale complicano notevolmente la situazione.
L’eventuale secessione dal Regno Unito verrebbe monitorata attentamente dagli
Stati al cui interno si agitano analoghe tendenze separatiste, come quelle catalane
in Spagna, i quali avrebbero naturalmente tutto l’interesse a complicare il processo
di riadesione della Scozia.
Il governo scozzese non può inoltre ignorare le questioni legate alla Difesa e
alla sicurezza. Durante la campagna referendaria del 2014 l’Snp promise che la
Scozia avrebbe chiesto di essere ammessa alla Nato. Come nel caso della riadesio-
ne all’Ue, tuttavia, Edimburgo dovrebbe soddisfare diversi standard e la sua ammis-
sione all’Alleanza Atlantica sarebbe vincolata all’approvazione unanime degli Stati
membri. Alcuni dei quali vedrebbero nell’indipendenza della Scozia un precedente
pericoloso e potrebbero dunque opporsi al suo ingresso.
Va inoltre tenuto in considerazione che malgrado la dimensione politica
dell’Alleanza stia bilanciando sempre più quella militare, il Regno Unito resta uno
dei membri principali della Nato. È il paese che vi contribuisce di più in termini di
capacità militari dopo gli Stati Uniti, dei quali è un importante partner a livello
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«Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il
sole»: non è solo un tagliente aforisma biblico, è la norma di ogni analista geopoliti-
co che scruta il futuro solo nella misura in cui sa apprendere le lezioni del passato.
Anche così, illustrare come gli Stati Uniti vedano la prospettiva di una Scozia indi-
pendente è una sfda. Se la Scozia decidesse di secedere dal Regno Unito dopo 314
anni di successo reciproco, alla politica estera statunitense si presenterebbe un di-
lemma inedito. Gli Stati Uniti non hanno esperienza di relazioni con la Scozia fuori
dal Regno Unito; anzi, Washington non ha nozione di un regno britannico che non
sia unito. L’immaginazione deve pertanto subentrare dove la storia si arresta.
Prima, una puntualizzazione: la questione dell’indipendenza scozzese è, alme-
no nel prossimo futuro, puramente ipotetica. È vero che secondo un recente son-
daggio 1 una ristretta maggioranza di scozzesi voterebbe per l’indipendenza se
domani si tenesse un nuovo referendum. Altri sondaggi 2 indicano però l’opposto,
o quantomeno la presenza di un margine d’indecisi tale da rendere impossibile
formulare previsioni. Le recenti elezioni scozzesi hanno consolidato la posizione
del Partito nazionale scozzese (Snp), che tuttavia per un seggio ha mancato la
maggioranza al parlamento di Edimburgo. Non proprio il risultato travolgente au-
spicato dalla premier Nicola Sturgeon quando ha promesso di tenere un altro refe-
rendum sull’indipendenza a fne 2023.
Ancor più frustrante per Sturgeon è l’intransigenza 3 del primo ministro britan-
nico Boris Johnson, che ha dichiarato più volte di considerare il referendum scoz-
zese del 2014 «un evento eccezionale»: non intende dunque avallarne altri 4. Non è
questa la sede per disquisire se il governo scozzese abbia o meno il potere di in-
dire un referendum legittimo e legale senza l’approvazione di Westminster; la
materia è troppo intricata per dipanarla. Basti dire che l’indipendenza scozzese,
sebbene più verosimile nei prossimi anni di quanto lo sia stata nell’intera storia del
Regno Unito, non è un esito scontato. E nemmeno il più probabile. Immaginare
come reagirebbero gli Stati Uniti è dunque un utile e stimolante esperimento, più
che una previsione.
Veniamo ora al punto. Il governo statunitense non ha una posizione uffciale
in materia. Tuttavia, il recente monito 5 di Joe Biden sul fatto che un futuro accordo
commerciale Usa-Regno Unito sarà soggetto al rispetto dell’accordo del Venerdì
santo da parte di Westminster e alla tutela della pace in Irlanda del Nord, offre un
indizio. La preoccupazione statunitense sull’Irlanda del Nord si inscrive nel perdu-
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rante braccio di ferro tra Regno Unito e Unione Europea sull’assetto post-Brexit.
Che gli Stati Uniti subordinino un futuro accordo commerciale anche al rispetto
1. «Scottish Political Monitor, Wave 2 – November 2020. Holyrood Elections Polling», Ispso, 30/11/2020,
urly.it/3dw9y
2. C. MATCHETT, «Scots split on SNP mandate for referendum with independence “top priority” for just
one in 11», The Scotsman, 16/5/2021.
3. J.L. SHAPIRO, «Brexit Isn’t Boris Johnson’s Biggest Challenge. Scotland Is», Linkedin, 13/12/2019, urly.
it/3dw9_
4. Ibidem.
5. V. WOOD, «Biden speaks out on US-UK trade deal, saying Good Friday Agreement can’t “become a
88 casualty of Brexit”», The Independent, 1/1/2021.
IL REGNO DISUNITO
degli accordi in via di defnizione tra Bruxelles e Londra indica che lo scopo ame-
ricano è mantenere il regno britannico unito e pacifco; e che a tal fne Washington
non esita a usare il proprio ascendente economico per forzare la mano alle parti.
Non solo Westminster, ma anche Holyrood (il parlamento scozzese) dovrebbero
prendere nota.
In via di principio, gli Stati Uniti non sono inclini o interessati ad avallare l’in-
dipendenza scozzese. L’America ha molte questioni più importanti da affrontare,
tra cui la ridefnizione degli equilibri nell’Indo-Pacifco rispetto a una Cina in asce-
sa, il contenimento della Russia per evitarne nuove sortite in Ucraina o Bielorussia,
il ritiro dalle «guerre eterne» 6 in Medio Oriente, la denuclearizzazione nordcoreana,
la defnizione di un approccio globale al cambiamento climatico. Il Regno Unito
resta l’alleato più stretto di Washington e la sua disintegrazione lo renderebbe me-
no effcace, introducendo nella relazione speciale un’incertezza indesiderata e
inopportuna. Gli Stati Uniti non sosterrebbero apertamente l’indipendenza della
Scozia in mancanza di una chiara e legittima volontà di quest’ultima, ma nei limiti
del possibile esorterebbero Edimburgo a tornare sui propri passi con promesse
(minacce) simili a quelle ventilate da Biden a Johnson.
Cosa accadrebbe però se la Scozia andasse comunque avanti per la sua strada?
La posizione statunitense dipenderebbe in ultima analisi dalle modalità dell’even-
tuale secessione. Da qui la necessità di ipotizzare vari scenari, sulla scia dell’edim-
burghese Arthur Conan Doyle il cui immortale Sherlock Holmes proclama: «Una
volta che elimini l’impossibile, tutto ciò che resta, non importa quanto improbabile,
dev’essere la verità».
6. S.M. WALT, «What Comes After the Forever Wars», Foreign Policy, 28/4/2021.
7. A. IBRAHIM, «Scottish Independence Is a Security Problem for the United States», Foreign Policy,
8/3/2021.
8. O. STANDO, «Trident: 8 things you need to know», Snp, 16/3/2021. 89
PER GLI USA LA SCOZIA RESTERÀ BRITANNICA. O FORSE NO?
La reazione del governo spagnolo alla secessione catalana e quella del gover-
no britannico al referendum scozzese del 2014 non potrebbero essere più diverse.
Malgrado la calma ostentata da Londra, la prospettiva di un’indipendenza scozzese
era seriamente temuta; tuttavia, il governo britannico stimò che avrebbe fatto più
danno vietando il referendum. L’allora premier David Cameron scommise che una
maggioranza di scozzesi non credeva all’indipendenza, o reputava che la Scozia ne
avrebbe tratto eccessivo pregiudizio. Aveva ragione: il 55,3% dei votanti la rigettò.
Cameron usò la stessa tattica due anni dopo nel referendum sul Brexit, che
tuttavia vide il 51,9% dei votanti optare per l’uscita dall’Ue. Nell’insieme, però, la
Scozia si espresse nettamente per la permanenza nell’Unione: il 62% degli scozzesi
votò in tal senso, molti più di quanti avevano optato per restare nel Regno Unito.
Così il Brexit fnì per rinvigorire l’indipendentismo, in quanto molti scozzesi ritenne-
ro che le loro preferenze democratiche fossero ignorate. Alcuni – abbastanza per far
oscillare il pendolo verso l’indipendenza? – votarono per restare nel regno solo per-
ché credevano che Londra non li avrebbe costretti a lasciare l’Ue contro la loro vo-
lontà. Il Brexit ha dunque rafforzato la causa dell’indipendenza scozzese e ha posto
le premesse per un secondo referendum. L’elezione di Johnson a premier e la sua
claudicante gestione del Covid-19 hanno reso ancor più inclini gli scozzesi a rivotare.
Il punto è se il Regno Unito seguirà lo stesso approccio del 2014, lasciando
alla Scozia libertà di scelta e aspettandosi che la mera concessione di tale margine
induca gli scozzesi a restare in uno Stato da cui hanno tratto enormi benefci; op-
pure se deciderà di reprimere con la forza l’affato indipendentista, come fatto da
Madrid in Catalogna. Se Londra vietasse un secondo referendum gli scozzesi po-
trebbero tentare di celebrarlo comunque, in stile Barcellona; potrebbero fnanche
dichiarare l’indipendenza se l’esito del voto lo consentisse, come i catalani. In tal
caso il governo britannico farebbe arrestare Nicola Sturgeon? Spiegherebbe la po-
lizia in strada per chiudere i seggi?
Come la Catalogna, la Scozia è molto più piccola e debole rispetto allo Stato
cui pertiene. Se Londra decidesse di reprimerne la secessione, Holyrood potrebbe
ben poco e dovrebbe sperare in una massiccia campagna di disobbedienza civile,
pregando che non diventi violenta. Potrebbe puntare su solidarietà esterne per
premere sull’Inghilterra, ma non potrebbe contare sul sostegno europeo, né su
quello di Washington. In prospettiva, tale scenario danneggerebbe seriamente le
relazioni britannico-statunitensi e minerebbe la coesione del Regno Unito. Tuttavia,
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diffcilmente gli Stati Uniti interverrebbero in ciò che sarebbe considerato un affare
interno britannico.
Prima dell’unione del 1707 non vi era una singola autorità che controllasse le
isole britanniche. Una nazione insulare è forte solo se aggregata da un potere
centrale: ciò spiega perché l’Inghilterra abbia speso quasi cinquecento anni nel
tentativo di unifcare la Gran Bretagna. La Scozia, relativamente povera di risorse
e molto meno popolata dell’Inghilterra, aveva l’imperativo esattamente opposto:
scongiurare la dominazione inglese. L’unica via era offrire la propria fedeltà ai
nemici di Londra, ciò che la Scozia fece per quasi tre secoli: dal 1295 al 1560
qualsiasi regnante scozzese e francese, eccetto Luigi XI, rinnovò uffcialmente
quella che passò alla storia come Auld Alliance (la storica Elizabeth Bonner sostie-
ne che la parentesi di Luigi XI non segnala un indebolimento dell’alleanza, bensì
il fatto che questa fosse data per scontata, per cui il sovrano francese non ritenne
di doverla ribadire).
Né la Scozia né la Francia riuscirono a sconfggere l’Inghilterra e in varie occa-
sioni violarono i termini del loro sodalizio, concordando tregue con Londra o non
accorrendo in reciproco aiuto. Ma la mera esistenza della Auld Alliance rese i trion-
f inglesi contro Edimburgo e Parigi delle vittorie di Pirro. Non fosse stato per l’al-
leanza, l’Inghilterra avrebbe potuto conquistare la Scozia e persino la Francia nel
XIV secolo. Opportunisticamente, Francia e Scozia rinnovarono e se necessario
rafforzarono il legame ogniqualvolta emergeva una minaccia da parte inglese. Per
almeno tre volte nel Trecento le armate scozzesi furono fnanziate da Parigi per
invadere l’Inghilterra e, sebbene venissero puntualmente sconftte, rappresentaro-
no un’onerosa distrazione degli sforzi inglesi contro la Francia. Quando le ostilità
anglo-scozzesi ripresero nel 1385, Parigi inviò navi e soldati a sostegno dell’indi-
pendenza di Edimburgo. Verso la fne della guerra dei Cent’anni la Francia aveva
disperato bisogno di rinfoltire il proprio esercito e nel 1419 un corpo scozzese di
6 mila uomini giunse sul continente, assicurando la vittoria francese nella battaglia
di Baugé del 1421.
A metà del XVI secolo Enrico VIII decise di completare la conquista della Sco-
zia mancata dai suoi predecessori, ma la Francia intervenne di nuovo per difende-
re Edimburgo da quello che divenne noto come «brutale corteggiamento». Lo sto-
rico Michael Lynch ha stimato che tra il 1548 e il 1550 Parigi investì in Scozia più
dell’Inghilterra, riversandovi 2 milioni di lire solo nel 1549. Inviò anche 6 mila
soldati in questo periodo e mantenne cinque guarnigioni per un totale di circa 400
soldati dopo che la minaccia immediata fu sventata.
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Scozia che diede una rilevanza a detti interessi. Nel 1707 Edimburgo si unì a Londra
non da cliente, vassallo o feudo, ma da parigrado.
Sarebbe questo uno scenario alquanto problematico per gli Stati Uniti, tale da
sconvolgere le loro relazioni con le isole britanniche e metterne alla prova i fonda-
menti. Washington si sta preparando a un’èra di competizione su vasta scala con
la Cina e per quanto importanti siano i rapporti con il Regno Unito, quelli con
l’Unione Europea lo sono di più. Tra le ragioni della relazione speciale britannico-
statunitense vi è la condivisione di un interesse strategico: prevenire l’ascesa di un
egemone in Eurasia. Se la Scozia si staccasse da Londra e perseguisse una strategia
volta a minare il potere dell’Inghilterra di concerto con potenze europee, indebo-
lirebbe considerevolmente ciò che resta del Regno Unito. Senza contare che sareb-
be anche nel pieno interesse degli Stati Uniti mantenere forti legami con l’Ue per
scongiurare ogni ambizione egemonica di Cina, Russia, Turchia o di una combina-
zione delle tre.
alleati nell’Atlantico settentrionale. Considerato quanto sin qui speso da Pechino per
paesi molto meno strategici nell’ambito della Belt and Road Initiative, non pare es-
servi limite a ciò che sarebbe disposta a sborsare per la Scozia.
Questo scenario è ai limiti della fantageopolitica per diverse ragioni. Anzitutto
gli Stati Uniti non lascerebbero scivolare Edimburgo nelle braccia della Cina, a
meno di non essere totalmente assorbiti da altre, più pressanti emergenze. Anche
l’Ue è divenuta molto più guardinga verso Pechino dopo il Covid-19 e sarebbe
altrettanto a disagio se le relazioni sino-scozzesi si intensifcassero. Ma soprattutto,
la Scozia ha un’antica storia di democrazia e libero pensiero: è in virtù di tale tra-
dizione che gli scozzesi hanno votato per restare nella Ue, ritrovando con il Brexit
l’affato indipendentista. Diffcilmente la Scozia consumerebbe la sua secessione
solo per appaltarla a un’altra potenza, peraltro autoritaria.
Ciò detto, non bisogna dimenticare che alla vigilia della seconda guerra mon-
diale Londra chiese più volte all’Irlanda di coordinare le rispettive politiche di sicu-
rezza, ma gli irlandesi preferirono mantenersi neutrali nel confitto. Per quanto
improbabile, tale scenario non si può scartare a priori con riferimento alla Scozia.
A conti fatti, un’eventuale indipendenza scozzese presenta numerosi risvolti
potenzialmente negativi per gli Stati Uniti. È dunque nell’interesse di Washington
fare tutto il possibile per incoraggiare Londra e Edimburgo a rafforzare la loro unio-
ne, invece di minarla. Se la seconda insiste sulla via della secessione, è il modo in
cui questa si consumerebbe a determinare la reazione statunitense. Nella migliore
delle ipotesi, il nuovo Stato sarebbe accolto senza troppi scossoni nell’Anglosfera.
Nella peggiore, Washington si vedrebbe costretta a intervenire per scongiurarne
esotiche derive.
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94
IL REGNO DISUNITO
2. Il Regno Unito è oggi il principale alleato della Francia nello spazio euro-
peo. Anche dopo il divorzio britannico dall’Ue, Parigi non ha interesse a rompere
con Londra. Deve al contrario cercare di rafforzare i rapporti per controbilanciare
la potenza tedesca. La Germania non ha certo esitato ad allearsi con la Russia
(Nord Stream 2) nonostante quest’ultima sia sottoposta alle sanzioni della Commis-
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peo. In esso, la Francia è nella posizione in cui si trovava alla caduta di Napoleone.
Di fronte alle forze dell’asse germanico in costruzione (Prussia e impero d’Austria),
Luigi XVIII e Luigi Filippo si erano giocati la carta inglese per ridare peso e rango
al loro paese. Ciò aveva portato alla prima visita della regina Vittoria in uno Stato
straniero, a Eu in Normandia nel 1843, nella residenza familiare del sovrano della
casa di Orléans. Fu l’inizio di un movimento verso la cordiale intesa (entente cor-
diale) che permise ai due Stati di riavvicinarsi e di concludere alleanze difensive
poi in opera durante le due guerre mondiali.
Una nuova intesa di questo tipo sarebbe necessaria, ma è lungi dal concretiz-
zarsi. Invece di intrattenere rapporti cordiali, i governi di Londra e Parigi si scontra-
no in una «guerra della salsiccia» scoppiata a causa della spinosa questione della
frontiera irlandese. A Boris Johnson che spiegava l’incongruenza di dazi sullo
scambio di merci tra Tolosa e Parigi, Emmanuel Macron ha risposto che ciò non
sarebbe possibile in Francia perché le due città sono situate nello stesso paese.
Affermazione che lascia intendere che Ulster e Inghilterra sono due paesi diversi.
Parole chiaramente inaccettabili per Londra.
La questione della frontiera nordirlandese è il principale punto critico del Bre-
xit, nonché l’angolo d’attacco per i suoi avversari. Su questo dossier, la Francia si è
allineata agli Stati Uniti e ai membri dell’Unione Europea, sostenendo che ci debba
essere un’uscita d’emergenza (backstop) che mantenga le due porzioni dell’isola
irlandese nel medesimo spazio doganale. Ciò che ovviamente è inaccettabile per
gli unionisti che non vogliono stare sotto Dublino. E pure per i partigiani del Brexit
duro a Westminster. Da cui querelle infnite e questa crisi della salsiccia.
La Francia gioca una partita diffcile: ha interesse a indebolire il Regno Unito,
ma non troppo, in quanto è l’unico paese su cui si può appoggiare nel faccia a
faccia con la Germania. Londra non deve tornare eccessivamente potente, ma
nemmeno smettere di esserlo del tutto. Gestire la questione celtica è dunque affa-
re delicatissimo.
È giocoforza constatare che per il momento in Francia non c’è alcuna rifessio-
ne strategica. Il Brexit è stato una sorpresa per molti e il suo sviluppo fnora paci-
fco una sorpresa ancora maggiore. La gran parte degli osservatori francesi spiega-
va che il divorzio dall’Ue non sarebbe andato in porto, che né Theresa May né
Boris Johnson potevano trovare un accordo. Fatica sprecata, il Brexit è successo
davvero. E per ora non si è verifcato nemmeno lo scenario che tutti davano per
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3. C’è dunque una nuova azione diplomatica da imbastire con Scozia e Irlan-
da, in virtù di antichi e profondi legami storici e culturali con queste due nazioni.
Partiamo dalla prima, dossier forse più semplice da scandagliare. La Francia
non ha interesse in una Scozia indipendente e deve fare di tutto per sostenere la
posizione inglese. Certo, nel corso della storia il regno scozzese e quello francese si
sono spesso spalleggiati contro l’Inghilterra, sin dall’Auld Alliance (vecchia alleanza)
conclusa informalmente nel 1295, ratifcata l’anno successivo dal parlamento di
Edimburgo e confermata da Roberto Bruce nel 1326. Dalla battaglia di Bannockburn
nel 1314 in cui gli scozzesi si staccarono dall’Inghilterra fno all’atto d’Unione del
1707 che creò la Gran Bretagna, i due regni sono stati sempre vicini. La marche des
soldats de Robert Bruce è ancora una delle principali marce dell’esercito francese.
Nel 1588 Maria Stuarda sposò Francesco II, portando una regina di Scozia sul trono
di Parigi. L’alleanza si indebolì quando la nobiltà scozzese aderì alla riforma prote-
stante, mentre il re di Francia restava protettore della Chiesa cattolica.
Oggi, però, la voglia scozzese d’indipendenza è pericolosa per la Francia. L’e-
mancipazione di alcune regioni d’Europa, come la Catalogna in Spagna o il Koso-
vo nei Balcani, dissolve l’idea di Stato attorno a cui si struttura il pensiero francese
dai Capetingi in poi e che la rivoluzione e la Repubblica hanno soltanto ripreso e
sviluppato. Parigi non può sostenere la secessione della Scozia senza mettere a
repentaglio il controllo sulla Corsica o sulla Nuova Caledonia. Se difende il diritto
dei popoli a disporre di loro stessi a Edimburgo come può opporvisi a Bastia o a
Nouméa? Il separatismo scozzese è indubbiamente seducente sulla carta perché
indebolirebbe l’Inghilterra e permetterebbe all’Unione Europea di recuperare terre-
no. Ma l’ossessione per la Germania e i timori dei nostri indipendentisti ci impedi-
scono di desiderare un’Inghilterra così debole. La Auld Alliance non ha davvero più
corso oggigiorno e non è nell’interesse della Francia riesumarla. Al contrario, Pari-
gi deve giocare con Londra contro i celti.
Passiamo all’Irlanda. Grandi sono i suoi legami culturali e affettivi con la Fran-
cia. Il cattolicesimo e il nemico comune inglese hanno contribuito in passato ad
avvicinare i due popoli. Numerosi scrittori irlandesi sono venuti nel nostro paese,
trovandovi successo: Oscar Wilde, James Joyce, Samuel Beckett. Da Michel Déon
a Michel Houellebecq, sono numerosi anche gli scrittori francesi a essersi appas-
sionati alle bellezze paesaggistiche dell’isola e alle sue generose condizioni fscali
per i letterati. Nondimeno, l’Irlanda ha poco peso economico e geopolitico; un ri-
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fare granché. Dall’altro perché Londra ci serve in funzione antitedesca. Una nuova
intesa cordiale è dunque la migliore delle soluzioni, anche se tale opzione è poco
presa in considerazione e, ancora peggio, compresa.
bra molto chiara fra chi deve restare nell’Unione ed è dunque punito per aver
osato uscirne e chi si minaccia di cacciare. Una politica floceltica potrebbe man-
dare invece un monito molto preciso ai paesi dell’Europa centro-orientale.
Sono dunque percorribili diverse opzioni strategiche e Parigi dispone di molte
carte da giocarsi. Ma per il momento predomina un’assenza di visione strategica. Il
Brexit ha creato sbalordimento, a maggior ragione per il suo successo (meglio, per
il mancato tracollo). Dunque, benché dotata di tante scelte possibili, la Francia non
ha le idee chiare. Non sosterrà l’indipendenza della Scozia perché troppo perico-
losa, ma non giocherà nemmeno la carta inglese contro la Germania. Parigi non 99
NÉ I CELTI CONTRO LONDRA NÉ LONDRA CONTRO BERLINO: PARIGI NON SA SCEGLIERE
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100
IL REGNO DISUNITO
Parte II
l’ULSTER CONTESO
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IL REGNO DISUNITO
roborare il sentimento secessionista. Ancora più rilevante, dopo aver imposto nel
1998 un accordo smaccatamente anti-inglese, gli Stati Uniti si percepiscono garanti
dell’unifcazione, impegno condiviso dalla maggior parte degli americani, che ha
nell’Irlanda il secondo paese di origine. Unica speranza per Londra: i nazionalisti
non sono ancora maggioranza e gli irlandesi temono il costo economico dell’unif-
cazione. Ma la situazione è segnata da drammatica precarietà. Approfondita dall’e-
terogenesi dei fni avviata dal Brexit, destinata a dipanarsi attraverso la violenza.
Nel territorio più strategico per il regno. 103
QUANTO RISCHIA LONDRA NELL’IRLANDA AMERICANA
2. L’Irlanda del Nord è tra le questioni più intricate del pianeta, per storia,
valenza strategica, antropologia. Avanzo della colonia inglese d’Irlanda, composto
da sei delle nove contee che storicamente formano l’Ulster (più Cavan, Donegal,
Monaghan), abitato da appena 1,8 milioni di persone, pressoché divise equamente
tra cattolici e protestanti, sebbene celtiche come i vicini meridionali. Qui si vive in
una società interamente segregata, con i matrimoni interconfessionali fermi al 12%
del totale. La capitale Belfast è costituita da zone destinate separatamente ai due
ceppi principali, divisa lungo la linea est-ovest, con i quartieri orientali fortemente
unionisti e quelli occidentali prettamente repubblicani, cui si aggiungono le aree
settentrionali oggi a maggioranza cattolica dopo decenni di dominio protestante e
quelle meridionali tuttora lealiste.
Provincia impossibile da cedere per Londra, altrettanto impossibile da rinne-
gare per Dublino, l’Irlanda del Nord è storicamente segnata da cicliche rapsodie
di violenza. Come previsto dalla grammatica strategica, fn dal medioevo Londra
necessita di controllare l’isola smeraldina per scongiurare locali offensive ai suoi
danni, per spezzare il legame tra i gaelici di Scozia e Irlanda, per scongiurare che
il territorio diventi trampolino per un’invasione della Gran Bretagna.
Durante i secoli numerosi soggetti provarono a stanziarsi in Irlanda per sbar-
care in Inghilterra. Soldati italiani e spagnoli mandati dal pontefce, francesi spediti
da Luigi XIV e dai rivoluzionari di fne Settecento. Perfno i tedeschi pensarono di
prenderla durante la seconda guerra mondiale nell’ambito dell’Operazione Green.
Di qui la colonizzazione inglese dell’isola, assai complessa da realizzare, per
irriducibile alterità degli abitanti. Londra provò numerose volte ad assimilare l’Ir-
landa. Dopo il periodo del fortino Tudor intorno a Dublino (the pale), nel XVI
secolo cominciarono le cosiddette Piantagioni, ovvero la confsca delle proprietà
autoctone in favore di coloni principalmente inglesi e gallesi. Con l’obiettivo di
addomesticare gli indigeni, associandoli al dominante ceppo anglosassone. Con
scarsi risultati. Soltanto la Piantagione del 1609 riuscì nell’intento, perché realizzata
da coloni scozzesi nella parte settentrionale dell’isola. Impresa che avrebbe cam-
biato la storia.
Allora circa 9 mila squatters scozzesi di confessione presbiteriana abbando-
narono le terre basse per giungere nelle contee dell’Ulster, dove sottomisero gli
indigeni – cui si aggiunsero circa 3 mila coloni inglesi 1. Si trattava dei più feroci tra
i celti, pronti a ogni sacrifcio per ottenere la terra. Sforzo tanto strategico da mutare
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1. Cfr. J. BARDON, The Plantation of Ulster: The British Colonization of the North of Ireland in the 17th Century,
104 Gill Books, Dublin 2013.
IL REGNO DISUNITO
irlandese e a dividere gli scozzesi presenti sulle sponde opposte del Canale del
Nord. Principale contraddizione dell’attuale Regno Unito.
Successivamente alcuni discendenti degli scozzesi d’Irlanda emigrarono negli
Stati Uniti, dove si fusero nel ceppo dominante, divenendo Scot(ch)-Irish, dizione
blasfema usata soltanto Oltreoceano. Qui comandarono per oltre un secolo le
Forze armate. E produssero almeno tre presidenti: James Polk, William McKinley,
Woodrow Wilson. Si palesava la differenza dell’Ulster, per secoli governato dai soli
protestanti, bastione londinese in terra irlandese, inalienabile avamposto strategico,
territorio altamente infammabile. Col tempo l’Irlanda divenne metro della potenza
britannica.
All’inizio della sua ascesa planetaria l’Inghilterra si annesse l’intera isola (1801),
prima della rivolta che rivelò il declino dell’impero (1916). Tra i ribelli fgurava il
futuro presidente Éamon de Valera, incubo sintetico per gli inglesi giacché nato
a New York da padre spagnolo, portatore di geni afferenti al principale nemico
antico e alla nazione attualmente protettrice della causa irlandese.
In seguito ai tumulti, nel 1921 Londra fu costretta ad accettare la partizione
dell’isola, con le sei contee che compongono l’Ulster rimaste sotto il Regno Unito
per appartenenza culturale e geopolitica. Prima che nel 1937 Dublino si rendesse
defnitivamente indipendente con il nome di Eire, con la perdurante eccezione del
Nord. Di fatto, la condizione attuale, foriera di inevitabili contrasti.
Puntualmente palesati negli anni Settanta, quando l’impero inglese tramontò
defnitivamente. Allora esplosero i cosiddetti Troubles, trent’anni (1968-98) di vio-
lenze tra cattolici e protestanti, con l’azione dei gruppi paramilitari repubblicani e
il massiccio intervento dell’esercito di Sua Maestà, la più grande campagna militare
inglese della storia. Alla fne la «lunga guerra» causò la morte di oltre 3.500 persone,
tra queste 1.800 civili e 750 soldati britannici 2.
Il tributo di sangue condusse all’accordo del Venerdì santo, pensato per rifor-
mare il sistema istituzionale locale, per reimpostare le relazioni tra le due Irlande e
quelle tra Belfast e Londra. Il negoziato fu fortemente infuenzato dalla convinzio-
ne americana che l’Irlanda sia destinata all’unifcazione e che l’Ulster britannico sia
un accidente della storia – nel 1994 l’amministrazione Clinton invitò a Washington
Gerry Adams, leader del partito repubblicano dello Sinn Féin, per innescare il
cambiamento.
Al termine di una dolorosa trattativa, gli inviati statunitensi – su tutti il senatore
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2. Cfr. D. Mckittrick, D. Mcvea, Making Sense of the Troubles: A History of the Northern Ireland Confict, London
2012, Penguin. 105
QUANTO RISCHIA LONDRA NELL’IRLANDA AMERICANA
IRLANDA/IRLANDE
Irlanda del Nord
Repubblica d’Irlanda
Confne politico
Confne regionale
Confne di contea Derry
DERRY ANTRIM
DONEGAL
IRLANDA
DEL Belfast
TYRONE
NORD
FERMANAGH DOWN
ARMAGH
SLIGO MONAGHAN
LEITRIM CAVAN
MAYO LOUTH
ROSCOMMON LONGFORD
C O N N A C H T MEATH
WESTMEATH
GALWAY L E I N S T E R Dublino
Galway OFFALY DUBLINO
KILDARE
LAOIS WICKLOW
CLARE
CARLOW
Limerick
TIPPERARY KILKENNY
LIMERICK WEXFORD
M U N S T E R Waterford
KERRY WATERFORD
CORK
Cork
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XVII secolo appariva più dentro l’isola smeraldina che sotto Londra, di cui non
condivide la fscalità. Sviluppo esiziale per la strategia inglese, in grado di accelera-
re la fne del regno. Tra i principali eventi della contemporaneità. Colto dalla scoz-
zese Nicola Sturgeon che vorrebbe applicare il medesimo protocollo alle Highlan- 107
QUANTO RISCHIA LONDRA NELL’IRLANDA AMERICANA
posizione degli interlocutori continentali, specie della Francia soddisfatta dal colpo
inferto al nemico di un tempo.
Massima caducità del territorio, resa più angosciante dalla crescita della po-
polazione cattolica dell’Irlanda del Nord, fattore potenzialmente decisivo per la
6. Citato in J. CAMPBELL, «Brexit: DUP leader calls for renegotiation of Brexit deal», Bbc News, 19/7/2021.
7. Citato in P. KENNY, «Sinn Féin leader: Calls to abolish NI protocol “not grounded in reality”», Euractiv, 24/6/2021,
8. Citato in S. POGATCHNIK, «Inspectors pulled from Brexit checks at Northern Ireland ports over threats», Politico.
eu, 2/2/2021.
9. Citato in S. MORRIS, «Brexit: UK calls for “signifcant changes” to Northern Ireland Protocol – but EU says no to
108 renegotiation», Sky News, 21/7/2021.
IL REGNO DISUNITO
futura defnizione dell’isola. Aumento in corso dal 1971, quando i fedeli di Roma
costituivano il 35% del totale. Secondo specifche proiezioni, nel 2021 i cattolici
nordirlandesi dovrebbero raggiungere i protestanti intorno al 41% del totale, con
la certezza di un ulteriore scatto garantito dalla loro preminenza tra gli under 50.
Sorpasso che, stando all’accordo del Venerdì santo, consentirebbe ai nordirlandesi
di esprimersi sul proprio futuro, per scegliere se unirsi a Dublino oppure rima-
nere con Londra. Con la concreta possibilità che l’Ulster stabilisca di passare alla
Repubblica d’Irlanda per volontà della maggioranza. Evoluzione tuttora segnata
da notevoli ambiguità. Ma capace di togliere il sonno agli apparati londinesi. E di
allertare il resto del pianeta.
4. Per Londra l’Irlanda del Nord è semplicemente decisiva. Al punto che ogni
anno il governo britannico versa 9,5 miliardi di sterline nelle casse di Belfast, af-
fnché pure la popolazione cattolica ritenga vantaggioso vivere nel Regno Unito
anziché nell’Eire – esercizio replicato in molti territori di frontiera, così nel nostro
Alto Adige cui è consentito trattenere le tasse per inibire i propositi secessionisti.
Manovra che negli anni ha centrato notevoli risultati, specie in materia sanitaria,
con il servizio nazionale britannico considerato «patrimonio inalienabile» dagli stes-
si repubblicani.
Nonostante i dati relativi alle dinamiche confessionali, recenti sondaggi mo-
strano una notevole incertezza in merito al futuro dell’isola. Per cui soltanto il 35%
degli ulsteriani vorrebbe l’Irlanda unita, contro il 44% che si dice contrario e l’11%
indeciso 10.
Negli ultimi dieci anni il numero dei secessionisti è cresciuto del 10%, ma
resta ancora lontano l’avvento di una maggioranza schiacciante. Tiepidezza che si
attaglia all’utilitaristico sentimento coltivato nel Sud dell’isola. Per cui il 67% degli
irlandesi è favorevole all’unifcazione, ma il 54% non intende pagare ulteriori tasse
per raggiungere il proposito. Impossibile confutazione post-storica della necessità
per ogni rivoluzione di sostenere notevoli sacrifci.
Eppure, a differenza di quanto accade in Scozia, la situazione resta incande-
scente perché qui intervengono alcuni soggetti esterni. Vero elemento fondamen-
tale della vicenda. Su tutti: Irlanda e Stati Uniti. In seguito all’accordo del Venerdì
santo Dublino ha depennato dalla costituzione il progetto di conquistare con ogni
mezzo il Nord dell’isola. Ma negli ultimi anni s’è mostrata molto attiva nel persegui-
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5. Per sopravvivere Londra confda nel post-storicismo degli irlandesi tutti, dal
Nord al Sud, cattolici e protestanti. Altrimenti il destino è segnato. Nell’Ulster, come
nel resto del regno. Soltanto un approccio utilitaristico alle cose del mondo può
110 suggerire agli isolani irredenti di rimanere sotto/con gli inglesi. Nessuna collettività
IL REGNO DISUNITO
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111
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IL REGNO DISUNITO
L’ETERNO DILEMMA
IRLANDESE
DELL’INGHILTERRA di Federico PETRONI
Il contestato destino dell’Irlanda del Nord, bastione britannico
sull’orlo dell’ennesima crisi di nervi, conferma che l’isola
smeraldina è sfida permanente alla potenza inglese. Perché
Dublino dubita di volere l’Ulster. La guerra civile è possibile.
In your head, in your head
they are still fghting.
Zombie, The Cranberries
2. Da quando esistono come potenza, gli inglesi hanno sempre avuto necessi-
tà di stare fsicamente in Irlanda. Per ineludibili ragioni strategiche. Innanzitutto,
evitare incursioni attraverso lo stretto mare che separa le due isole, fra le motiva-
zioni dell’invasione cambro-normanna del 1169 condotta da Arcoforte (Strongbow,
al secolo Richard de Clare). La costa orientale dell’Irlanda è storicamente più ricca
di porti naturali e insediamenti rispetto a quella occidentale, resa impervia dall’At-
lantico. Poi, bisognava impedirle di fare da piattaforma di lancio per i pretendenti
al trono d’Inghilterra, come capitato nel tardo Quattrocento con le rivendicazioni
yorkiste e nel Seicento con quella stuarda, tutte appoggiate da élite irlandesi in
funzione anti-inglese.
Inoltre, occorreva spezzare la solidarietà intraceltica tra le Highlands scozzesi
e le brughiere irlandesi, unite più che separate dal Canale del Nord, ampio soli 21
chilometri nel passaggio più stretto, al punto da essere noto in gaelico unicamente
col nome di Sheuch, fosso. Fu proprio per rompere i legami fra le genti sui due
lati di quel fosso che nel 1609 venne lanciata la cosiddetta Piantagione dell’Ulster,
inviando migliaia di contadini e briganti a colonizzare l’estremità nord-orientale
dell’Irlanda, gli avi dell’attuale comunità protestante di Belfast e dintorni. Non trop-
po curiosamente, a ordinarla fu un re scozzese, Giacomo I Stuart, deciso a domare
gli zotici delle alture.
Quindi, l’Inghilterra doveva garantire la compattezza dell’arcipelago, condizio-
ne senza la quale era semplicemente impossibile dedicarsi ad avventure straniere
senza temere pugnalate in patria. La colonizzazione dell’Eire e l’impero britannico
sono coevi, l’una necessaria all’altro. Lo storico sudafricano John Benyon qualifca
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accessi all’oceano, sia attraverso i cruciali Canale del Nord e Canale di San Giorgio,
sia complicando il passaggio delle navi inglesi dai porti sud-orientali dalla Manica
all’Oceano.
Per questo l’Inghilterra è storicamente intervenuta per scongiurare che poten-
ze straniere occupassero l’Irlanda, attirate dalla propensione locale a cercare aiuti
esterni per ribellarsi e desiderose di stroncare l’ascesa di Londra ai vertici del suo
molle ventre gaelico. Proprio mentre Enrico VIII proclamava la supremazia della
Corona inglese sull’autorità del papa (1534), il conte di Kildare s’intestò l’isola of-
frendosi alla Chiesa e all’imperatore Carlo V. La rivolta consigliò il sovrano Tudor
di farsi incoronare anche re d’Irlanda, inaugurando le guerre di conquista. Poi, a
cavallo tra XVI e XVII secolo, la invasero mercenari spagnoli e italiani al soldo del
papa. Sempre gli iberici appoggiarono l’infruttuosa resistenza del conte gaelico
O’Neill nel Nord. La Francia di Luigi XIV sbarcò truppe sull’isola nel 1690 a soste-
gno del deposto re cattolico Giacomo II Stuart. E lo stesso accadde durante le
guerre rivoluzionarie francesi nel tardo Settecento. Quest’ultima occasione, prelu-
dio all’insurrezione irlandese del 1798, convinse defnitivamente gli inglesi ad an-
nettere l’isola, cioè a creare il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda (1801).
Nelle parole del luogotenente, Lord Camden, al primo ministro William Pitt: «C’è
una misura che può rendere questo paese e l’Irlanda così uniti da tramutarla in
vantaggio, invece di una tremenda vulnerabilità in tutte le guerre future: intendo
un’unione» 3.
3. Cit. in House of Lords Parliamentary Debates – Hansard, serie 2, vol. 13, seduta del 17/5/1825, p. 679. 115
L’ETERNO DILEMMA IRLANDESE DELL’INGHILTERRA
Ha sì offerto come alla Scozia un accesso alle fortune dell’impero, ma assai più
ristretto e tardivo. A lungo l’isola è stata trattata puramente come colonia, tenuta al
di fuori dei lucrosi circuiti economici d’oltremare. L’industria si è radicata soltanto nel
Nord-Est protestante, rendendolo assai più simile al panorama manifatturiero britan-
nico che non al resto dell’isola, essenzialmente agricolo. È sì nata un’élite anglo-ir-
landese, fedelissima al regno, capace di dare un contributo decisivo all’impero 4. Vi
afferivano il duca di Wellington e il ministro degli Esteri Lord Castelreagh; il feldma-
resciallo Frederick Roberts, comandante in capo in India, e il governatore di Hong
Kong, sir Henry Arthur Blake; letterati come Oscar Wilde e William Butler Yeats.
Tuttavia, la cosiddetta protestant ascendancy era classe assai selezionata, per-
cepita come aliena, come dirigenza coloniale dal resto della popolazione, che per
sottolineare l’alterità ha conservato una diversa fede, quella cattolica, e riscoperto
le tradizioni gaeliche. Ciò che agli occhi dell’occupante appariva prova di fedeltà a
una potenza straniera (il papa) altro non era che il rifuto di mescolarsi all’occupan-
te. All’epoca della conquista Tudor nel Cinquecento, il territorio in mano agli ingle-
si era noto come the pale, la palizzata, dal nome della fortifcazione che cingeva i
dintorni di Dublino, a testimoniare l’ostilità del contesto. Quattro secoli più tardi, al
termine dell’esperienza dell’unione, benché formalmente l’intera isola fosse sotto
la sovranità britannica, quello iato era rimasto incolmabile.
Per gli inglesi, l’aggettivo British doveva essere solo il marchio dell’impero,
fumo di Londra con cui confondere le genti sottomesse. Non hanno mai dato vita
a una nazione compiutamente britannica. Non in Irlanda e non in Scozia. E nem-
meno in qualunque altro angolo del mondo. Ovunque siano andati, hanno vissuto
in diaspora, al massimo si sono fusi con i celti a cui allargavano l’impresa imperia-
le, generando nuovi popoli. Dai canadesi agli australiani passando per i neozelan-
desi. Oltre ovviamente all’esempio più chiaro, gli statunitensi che già nel Settecen-
to percepivano tanto acuta la differenza con la madrepatria da staccarsene violen-
temente. Gli appelli di Churchill agli English-speaking peoples o quelli degli strate-
ghi odierni all’Anglosfera suonano come sghembi rattoppi alla fallita assimilazione.
Cruciale defcit strategico che in Irlanda ha manifestato tutta la sua gravità. Nel
1921 gli inglesi sono stati quasi completamente cacciati dall’isola. Quasi, non fosse
stato per un’altra irriducibile alterità.
4. K. JEFFEREY (a cura di), An Irish Empire?: Aspects of Ireland and the British Empire, Manchester 1996,
116 Manchester University Press.
IL REGNO DISUNITO
milioni di abitanti. Maggioranza non assoluta, ma relativa, sia pure risicata sui cat-
tolici, invece più propensi all’unifcazione con la Repubblica d’Irlanda, dunque
noti come repubblicani.
Detengono il potere da un secolo, da quando è nata l’Irlanda del Nord. Anzi,
hanno determinato la divisione dell’isola perché esattamente cento anni fa non
accettarono di condividere l’autorità con il parlamento di Dublino, pretendendone
uno a Belfast, controllato dai loro partiti. In seguito, per conservarsi maggioranza,
hanno condotto pulizie etniche, creato un’amministrazione monoetnica, discrimi-
nato i nordirlandesi cattolici, per esempio nelle politiche abitative. Fino a combat-
tere le milizie repubblicane (Ira) desiderose di unifcare l’isola con propri gruppi
paramilitari durante i cosiddetti Troubles (1969-98). Avvertenza: il confitto in Irlan-
da del Nord non è religioso. Non ci si è ammazzati per convertire l’altro al proprio
credo. La confessione non è causa degli scontri, ma conseguenza della determina-
zione a restare separati dall’altra comunità.
Il principale movente degli unionisti ulsteriani è l’incrollabile paura di sparire
come collettività. Vogliono restare maggioranza nel Nord e rifutano di diventare
minoranza nel Sud perché convinti che sarebbero annientati dai cattolici. Hanno
un profondo senso della loro storia. È lì che conviene cercare le fonti della loro
psicologia.
Ricordano perfettamente quando e soprattutto come arrivarono in Irlanda dalla
Scozia. Furono spediti nel 1609 a colonizzare la parte settentrionale dell’isola, la più
restia alla conquista inglese, occupando ed espropriando 5.600 miglia quadrate di
terreni, quasi l’equivalente della superfcie della Campania. Sino a quel momento
diverse colonie erano fallite. La cosiddetta Piantagione dell’Ulster (carta) riuscì per-
ché strategicamente completa. Possedeva una forte motivazione geopolitica: separa-
re gli irlandesi da loro stessi, nelle parole del consigliere di re Giacomo, Lord Chi-
chester 5. Una missione civilizzatrice: elevare gli incolti irlandesi. Un vettore ideolo-
gico: l’ardore della riforma protestante con cui convertire i papisti. E violentissimi
esecutori materiali: «gente pugnace con un tocco scotch, una razza molto testarda»,
disse dei loro discendenti tre secoli dopo il premier britannico Lloyd George 6.
La Piantagione introdusse defnitivamente un’alloctona e privilegiata stirpe co-
loniale (planter stock) che rimpiazzò l’autoctona e inaffdabile stirpe gaelica (old
gaelic stock). Una volta impiantatasi, questa stirpe provò a procedere verso sud, ma
venne fermata dagli irlandesi cattolici con la battaglia di Benburb (1646). Da allora
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5. P. LENIHAN, Consolidating Conquest: Ireland 1603-1727, London 2007, Routledge, pp. 41-65.
6. Cit. in D. FERRITER, The Border: The Legacy of a Century of Anglo-Irish Politics, London 2019, Profle
Books, p. 13. 117
L’ETERNO DILEMMA IRLANDESE DELL’INGHILTERRA
Non tutti gli scozzesi arrivati secoli fa nel Nord sottrassero la terra ai nativi.
Alcuni possidenti oggi sventolano contratti d’acquisto risalenti persino al 1737 nel
disperato tentativo di dimostrare di essersi stabiliti con metodi legali e incruenti.
L’urgenza di un simile gesto testimonia l’esistenza di una rappresentazione geopo-
litica dei protestanti ulsteriani come progenie di usurpatori. E anche gli interessati
più o meno consciamente rammentano il peccato originale. La paura degli unioni-
sti è dunque di subire per contrappasso la sorte riservata dai propri avi ai cattolici:
spossessamento e violenta riduzione a minoranza svantaggiata.
L’Ulster è il fortino dei protestanti. L’assedio la loro tipica mentalità. Le celebra-
zioni più sentite lo testimoniano perfettamente. Ogni anno, il Dodicesimo di luglio
commemorano la vittoria del Boyne (1690) al fanco di Guglielmo d’Orange. A cui
si allearono non per la comune fede protestante, bensì per timore di fnire sotto i
seguaci irlandesi del suo avversario, il cattolico Giacomo II. Inoltre, bruciano Lun-
dy the traitor, un fantoccio del governatore di Derry cacciato nel 1689 perché in-
tenzionato a consegnarsi ai giacobiti, mentre gli abitanti sopportarono centocinque
giorni di indicibili sofferenze pur di non cedere alle truppe nemiche accampate
presso le mura della città. Infne, i tipici falò (bonfre) delle notti d’estate ricordano
sì con gioia i fuochi appiccati per agevolare lo sbarco delle armate guglielmine. Ma
in origine erano segnali d’allarme in caso di attacco. Ogni volta che in Irlanda del
Nord s’accende una pira, in ogni lealista echeggia un monito a restare vigile. E
quando i repubblicani nordirlandesi criticano gli eccessi alcolici da sagra paesana,
gli unionisti scattano: se negate le nostre tradizioni, che posto mai ci sarà per noi
in una Irlanda unita? 7.
Il terrore unionista è medaglia a due facce. All’assimilazione nella Repubblica
d’Irlanda corrisponde il timore di essere abbandonati da Londra. In quanto stirpe
celtica, i protestanti dell’Ulster non hanno amore per gli inglesi. Figli di un mecca-
nismo imperiale, all’impero devono la loro lealtà, la loro continuità collettiva. Forse
unici sudditi di Sua Maestà a sentirsi davvero britannici, non per forza sono leali al
governo britannico. Nella storia hanno sì entusiasticamente sacrifcato al regno i
propri fgli, come la 36ª divisione dell’Ulster sulla francese Somme nel 1916. Però
si sono anche insubordinati: ogni volta che il cordone ombelicale con la Gran Bre-
tagna è stato messo in discussione, hanno creato milizie fuorilegge. Per combattere
non solo i paramilitari del Sud, ma all’occorrenza pure le truppe britanniche.
Il rischio che i lealisti si armino contro le forze regolari è attuale, con il confne
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doganale nel Mare d’Irlanda eretto da Londra in conseguenza del Brexit e aperta-
mente contestato dai paramilitari unionisti. Boris Johnson è il primo ministro più
detestato a Belfast a memoria d’uomo. Troppo inglese, troppo poco britannico.
5. L’Irlanda era già divisa nei fatti prima di esserlo di diritto con la partition del
1921. Tuttavia quel diritto non è granitico. Un altro dei motivi per cui gli unionisti
non si fdano completamente del governo londinese è che i britannici stessi con-
7. Si veda per esempio A. FOSTER, «Republican sneering at Unionist bonfres shows there would be no
118 space for us in a united Ireland», The Telegraph, 11/7/2021.
IL REGNO DISUNITO
Earldom di Derry
Tyrconnell
O’Neill
Oceano Atlantico O’Donnell Earldom
Donegal O’Neill di Tyrone
Fermanagh Down
Armagh
Maguire
O’Rourke
Sligo Monaghan
O’Connor
Leitrim Cavan
O’Reilly
Mayo Mac Dermot Louth
Roscommon Longford
O’Connor Meath
West Meath
Earldom di
Galway Clanricarde Dublino
King’s County Kildare
Queen’s Wicklow
Earldom di County
Thomond
O’Brien
Carlow
Tipperary Kilkenny
Limerick Earldom di
Ormonde Mare
Wexford d’Irlanda
Waterford
Kerry Cork
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cepirono la divisione dell’isola come temporanea. E l’Irlanda del Nord come entità
provvisoria, quantomeno dai confni non defnitivi.
Mentre la bisecava, Londra lasciò la porta aperta a una successiva riunifcazio-
ne. Addirittura, il premier dell’epoca Lloyd George spiegò a uno dei capi dei ribel-
li dublinesi, Michael Collins, che una cospicua presenza di cattolici nel Nord era un 119
L’ETERNO DILEMMA IRLANDESE DELL’INGHILTERRA
ne che dannosi alla strategia. Riferendosi all’unità irlandese, già nel 1919 Lord
Balfour scolpiva una sentenza defnitiva: «Finché l’Ulster rimane l’Ulster che cono-
sciamo questo ideale non può realizzarsi» 9.
Tanta crudezza ha storicamente alimentato negli irlandesi repubblicani l’in-
crollabile certezza della malignità di Londra, che avrebbe diabolicamente praticato
il divide et impera per conservarsi sull’isola. Al punto da soddisfare qualunque ri-
chiesta degli unionisti, da avallare qualsiasi loro misfatto pur di preservare l’Ulster.
È un fattore onnipresente nella mentalità dei dirigenti dublinesi. Eppure non corri-
sponde interamente a realtà. Certo, la pratica di reclutare gli orangisti per sedare le
ribellioni è antica, risalente già all’insurrezione del 1798, in atto a ogni crisi ottocen-
tesca, tramutata nel secolo successivo in cospicue forniture di armi o nella collusio-
ne durante i Troubles di unità dell’intelligence militare britannica con le milizie
lealiste. Tuttavia, come spiegava nel 1881 il conte di Spencer, già lord luogotenen-
te d’Irlanda, «il supporto attivo degli orangisti e dei protestanti è la risorsa di ultima
istanza del controllo inglese in Irlanda, ma deve essere tenuta in mano fnché ogni
altra carta è stata giocata» 10.
Londra fnanzia abbondantemente l’Ulster. Senza rilasciare assegni in bianco.
Senza farsi dettare alcunché. Letteralmente. Il 13 giugno 1921 re Giorgio V inaugurò
il neonato parlamento di Belfast, massimo giubilo degli unionisti locali. L’entusiasmo
era tale che il primo premier dell’Ulster, James Craig, era convinto che gli sarebbe
spettato l’onore di scrivere il discorso del sovrano. Quando spedì l’ispiratissima boz-
za, il monarca andò su tutte le furie, rifutandosi di abbassarsi a «portavoce dell’Ulster
invece che dell’impero». E nella sua allocuzione esortò gli irlandesi (tutti) a «unirsi
per portare amore a questa terra». Costernazione fra gli astanti. L’Irlanda veniva pro-
clamata unibile nel giorno dell’istituzionalizzazione della sua divisione 11.
Benché motivata da valutazioni strategiche, Londra ha permesso a questa idea
della temporaneità dell’Ulster di persistere. Di alimentare le fobie degli unionisti, le
ambizioni dei repubblicani, le convinzioni degli americani. Contribuendo a darle
realtà. A renderla esito atteso. Sbocco naturale.
in cattività, nelle mani dello straniero, che ha cercato di sottrarmelo. Ma i miei fgli
hanno fgli, coraggiosi come i loro padri. Il mio quarto campo verde forirà una
volta ancora».
Allegoria potente, cui l’accorata voce di Makem conferisce una bellezza unica.
Eppure, perfetta sintesi delle aporie della mentalità repubblicana. Il campo dell’Ul-
ster non è soltanto in mano straniera. Lo lavorano ormai altri irlandesi, che si sen-
tono diversamente irlandesi. Puoi scacciare il latifondista inglese, ma che fare dei
braccianti protestanti? Scacciare anche loro in quanto stranieri? Questo la ballata
non lo dice. E non lo dice perché testimonia una diffcoltà, costante nella storia,
della nazione irlandese cattolica ad assegnare un posto nella storia patria ai prote-
stanti settentrionali. Un’ombra offusca lo sguardo di un nazionalista quando lo si
interroga su che cosa intenda fare degli unionisti settentrionali. «A scuola, la nostra
storia non discute seriamente le idee e le politiche degli uomini del 1916 (l’insur-
rezione indipendentista, n.d.r.) in relazione ai protestanti dell’Ulster», ammetteva
nel 1972 lo storico e statista dublinese Conor Cruise O’Brien 12. Uno psicologo
delle collettività diagnosticherebbe forse una rimozione post-traumatica.
Nella mentalità irlandese esiste un irrisolto confitto fra nazione in senso geogra-
fco e nazione in senso umano. È molto geopolitico il desiderio alla compiutezza
strategica, a non avere agenti stranieri sull’isola. Ma lo è altrettanto l’imperativo di
stabilire che fare con chi percepisci alieno (ricambiato). Tale cortocircuito si evince
anche dall’espressione «riunifcazione dell’Irlanda». Impossibile perché l’Irlanda non
è mai stata unita. Se non sotto l’impero degli inglesi. Nella storia non è mai esistita
un’entità indipendente con tale nome o che governasse l’intera isola. Da oltre un
millennio sono presenti elementi allogeni provenienti dalla Gran Bretagna.
Tale ostacolo inibirebbe chiunque. Per una collettività esigua (3 milioni di abi-
tanti nel 1920, oggi quasi 5) al cospetto di una grande potenza, è quasi esiziale.
Dublino ha sempre mostrato riluttanza ad andare fno in fondo con l’unifcazione.
Ha inserito in costituzione la rivendicazione del Nord (articolo poi rimosso). Ma nei
primi decenni di libertà si è dovuta concentrare su sé stessa, troppo debole per an-
dare allo scontro risolutore, preferendo proteggere l’omogeneità culturale al Sud,
per non importare la peste comunitaria, preferendo contenerla nella quarantena
ulsteriana. Nel 1938, Seán McEntee, uno dei ministri del governo di Éamon De Va-
lera, scriveva irato al primo ministro contro la sua bellicosa e martellante propagan-
da sull’unità: «Siamo pronti a sottoporre il nostro popolo a ulteriori e intense diffcol-
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7. La necessità inglese di restare in Irlanda del Nord c’è ancora tutta. Un Por-
togallo ulsteriano le permette di esercitare una più effcace pressione su Dublino.
Deve inoltre continuare a frapporsi fra irlandesi e scozzesi lungo il Canale del Nord
– i due popoli non si amano, ma se entrambi fossero pienamente sovrani, sicura-
mente coopererebbero almeno per creare circuiti economici in funzione anti-ingle-
se. Infne, e decisivo, non si può abbandonare chi ancora si riconosce britannico.
Non è facile formulare una politica che apertamente rinunci al milione circa di
nordirlandesi favorevoli all’unione (non tutti protestanti lealisti). Soprattutto se que-
sti minacciano la guerra civile.
La mano di Londra è però debole. Per più di un fattore.
Primo, l’Irlanda è tornata nella disponibilità di altre potenze. È membro con-
vinto dell’Unione Europea, non potenza ma sistema normativo alternativo da cui
gli inglesi si sono voluti estricare. Si presta alla brussellese (e tedesca e francese)
determinazione a rendere più dannoso possibile l’esito del Brexit. Con effetti ever-
sivi perché ha preteso dagli altri paesi europei di appoggiarla nell’ottenere che la
barriera doganale venisse eretta non al confne tra le due Irlande ma tra Ulster e
Gran Bretagna. Pure esultando. «Per la prima volta l’Irlanda è più forte di Britannia»:
il biglietto di congratulazioni e ringraziamenti spedito da ignoti alla Commissione
europea ha fatto imbestialire gli inglesi 14.
Secondo, gli unionisti ulsteriani sono sul piede di guerra. Sono convinti che
Dublino abbia velatamente minacciato il ritorno delle violenze (dogane al confne
= bersaglio per il terrorismo repubblicano) allo scopo di tenersi letteralmente aper-
ta la porta della riunifcazione15. E temono che l’ascesa dei nazionalisti a Edimbur-
go incoraggi i repubblicani nordirlandesi a simili colpi di mano. «Quella cosa
dell’indipendenza scozzese sta infuenzando la gente, perché se la Scozia diventa
indipendente noi siamo assolutamente battuti», nelle parole di un (ex?) paramilitare
lealista16. Gli scontri ripresi lo scorso Venerdì santo sono un fosco presagio.
Terzo, la nazione inglese non sembra fare particolari tragedie all’idea di per-
dere scozzesi e nordirlandesi. Dai sondaggi emerge che se il Brexit comportasse
salutare Edimburgo e Belfast, allora il prezzo varrebbe la candela. E la dirigenza
conservatrice raccoglie sempre più questa insofferenza. Sarebbe un inquietante
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sintomo di post-storicismo, non fosse per l’ancor più inquietante dubbio che un
popolo così violento e uso a imporsi sulle genti circostanti non ricorrerà alla forza.
Lo scollarsi dell’impero interno non cancella anzi rende più palese la necessità
degli inglesi di imporsi sulle nazioni celtiche. Brexit ne è non primo esempio.
14. Z. O’BRIEN, «Juncker and Varadkar show off “thank you card from Irish family” that declares: “For
the frst time ever, Ireland is stronger than Britain thanks to the EU”», The Daily Mail, 6/2/2019.
15. V.D. NICHOLLS, «On the ground in Belfast: Loyalists warn of “biggest threat to peace yet”», The Te-
legraph, 12/5/2021.
16. S. MCKAY, Northern Protestants: On Shifting Ground, Newtownards 2021, Blackstaff Press, ed.
Kindle. 123
L’ETERNO DILEMMA IRLANDESE DELL’INGHILTERRA
Quarto, qui Londra ha contro gli americani. Gli Stati Uniti sostengono l’unità
dell’isola per inerzia e per tradizionale antipatia verso gli imperi, in particolare
quello dell’ex nemico inglese. Hanno sempre pensato che la divisione sarebbe
stata temporanea. A inizio Novecento, quando la diaspora irlandese era meno as-
similata e loro più provinciali, si lamentarono coi britannici del trattamento della
colonia. Ma in presenza di minacce esistenziali alla loro sfera d’infuenza, cioè
l’Urss durante la guerra fredda, persino il loro primo presidente cattolico d’origine
irlandese John Fitzgerald Kennedy spiegava all’ambasciatore di Dublino di non
poter imporre al Regno Unito una dichiarazione sull’unità. Ora che Mosca non è
più pericolo così imminente, chiedono agli inglesi di non compromettere la pace
e dedicarsi alla Nato.
Tuttavia, Londra non ha esaurito tutte le carte. Non è costretta a giocarsi l’ulti-
ma, il sostegno poco condizionato agli unionisti violenti. Perché conscia che un
ritorno degli scontri la costringerebbe a cedere un altro pezzo di controllo. Nel
frattempo, gioca sulla riluttanza irlandese a importare l’instabilità ulsteriana. Prova
a spiegare agli americani che non conviene loro sia in Scozia sia in Irlanda avere
un fedele alleato impelagato in disordini interni e meno pronto a seguirli in ogni
impresa antirussa e anticinese. Conta sul quinto dei nordirlandesi che non si def-
nisce né britannico né irlandese ma, appunto, nordirlandese. Spera che quel quin-
to sia lo stesso quinto di persone che nei sondaggi si defnisce indeciso in caso di
referendum. Confda che le domande di questa gente, soprattutto di stampo eco-
nomicistico (chi paga?), favoriscano il mantenimento della condizione attuale – una
popolazione minimalista è meno incline a salti nel buio. Scommette sul Servizio
sanitario nazionale, nettamente superiore al welfare irlandese e indicato dal 95%
dei nordirlandesi come motivo di attaccamento alla provincia.
Se si trovasse spalle al muro, potrebbe ritardare il momento di indire un refe-
rendum facendosi campionessa dei diritti dei protestanti, gettando dubbi sul tratta-
mento che potrebbero ricevere e pretendendo garanzie. Potrebbe riproporre due
soluzioni estreme. L’indipendenza dell’Irlanda del Nord, se l’identità omonima cre-
scesse, magari con ingresso nella Nato per tutelarla e rimettervi piede. Oppure una
repartition, una nuova divisione dell’isola, per cedere alla Repubblica d’Irlanda
territori a maggioranza cattolica presso il confne e rimpicciolire l’Ulster unionista.
Non sarebbe la prima volta, essendo state entrambe studiate sia da Harold Wilson
sia da Margaret Thatcher nei momenti più drammatici dei Troubles.
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L’UNIONE IRLANDESE
SARÀ DI TUTTI
O NON SARÀ di Marianne ELLIOTT
John Hume aveva visto giusto: senza il mutuo riconoscimento
di cattolici e protestanti, l’Irlanda del Nord è un rebus insolubile.
I danni dello Stato orangista. La parabola della polarizzazione
settaria e la svolta del 1998. Il Brexit è un passo indietro.
1. D
OPO L’USCITA DEL REGNO UNITO
dall’Unione Europea, l’Irlanda del Nord – che si era espressa in maggioranza per
restare nell’Ue ma che, per vincolo costituzionale, ha dovuto seguire il resto del
paese – è fnita al centro dell’attenzione. Lo scoppio di nuove violenze settarie ad
aprile ha fatto notizia, come nelle intenzioni dei facinorosi. Vent’anni fa pubbli-
cai una monumentale storia dei cattolici dell’Ulster 1: l’identifcazione con questa
regione indispettì alcuni nazionalisti radicali che chiaramente non si erano pre-
murati di leggere il libro, il quale coprendo oltre mille anni ben inquadra e giu-
stifca il riferimento alla storica provincia dalle nove contee. Eppure conoscevo le
ragioni del loro risentimento: la partizione dell’Irlanda risale a un secolo fa e oltre
a dividere l’isola lungo linee settarie ha spaccato la storica provincia dell’Ulster,
lasciando tre delle contee più cattoliche fuori dal nuovo Stato nordirlandese. Ecco
perché molti nazionalisti e tutti i repubblicani si riferiscono all’Irlanda del Nord
come al «Nord», disconoscendo la partizione dell’isola e lo Stato nordirlandese che
ne è sorto, pur compartecipando delle sue istituzioni. Dall’accordo del Venerdì
santo del 1998 c’è stato un aumento del numero di cattolici che si identifcano
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come «irlandesi del Nord», ma nel complesso l’aspirazione a vedere l’isola riunif-
cata resta forte tra i cattolici.
La partizione irlandese avvenne in un clima di incertezza e violenza generaliz-
zate. I cattolici erano così certi che sarebbero stati inclusi nella neonata Repubblica
d’Irlanda che alle elezioni locali del 1920 le aree cattoliche dell’Ulster (quasi tutto
l’Ovest e il Sud dell’egualmente novello Stato nordirlandese) espressero fedeltà al
nuovo governo di Dublino. Ciò incrementò il senso di vulnerabilità dei protestanti
e la loro convinzione di essere sotto assedio da parte di cattolici impossibili da con-
1. M. ELLIOTT, The Catholics of Ulster: A History, New York 2001, Basic Books. 125
L’UNIONE IRLANDESE SARÀ DI TUTTI, O NON SARÀ
siderare «leali». In realtà, allora e successivamente i cattolici del Nord erano molto
meno favorevoli alla militanza di quelli del Sud; eppure, ogni atrocità compiuta
dall’Ira tra il 1920 e il 1922 provocò rappresaglie settarie contro i cattolici del Nord,
specialmente a Belfast. Vi furono incendi di massa di negozi, espulsioni dalle case
e dai luoghi di lavoro. Anche molti civili protestanti trovarono la morte, ma a Bel-
fast le vittime cattoliche furono sensibilmente di più. La sanguinosa faida lasciò un
terribile strascico di amarezza nello Stato nordirlandese. Come nei futuri Troubles
(1969-98), la polarizzazione settaria ne risultò intensifcata perché la gente cercò
sicurezza nelle aree religiosamente omogenee.
Il moderato Patrick Shea – uno dei primi cattolici a entrare nell’amministra-
zione civile nordirlandese – osservò le conseguenze immediate dei terribili eventi
dei primi anni Venti: «Un gran numero di persone affollava Falls Road: intimiditi
e scorati, avevano visto violenza e morte, l’incendio di case e negozi, l’espulsione
dei loro uomini dai cantieri navali, dalle fabbriche e dai cantieri edili. Temevano i
loro vicini protestanti, covando la rabbia di gente sottomessa con la forza e lascia-
ta senza alcun mezzo di rivalsa» 2. Shea descrive così il senso di amara sconftta e
abbandono che avrebbe caratterizzato il pensiero nazionalista per gran parte dei
successivi cinquant’anni. Il Sud ha sempre esibito scarsa comprensione, quando
non aperto rigetto verso i nazionalisti del Nord, che infatti fgurano appena nei
negoziati tra Londra e Dublino sulla partizione. Quanto agli unionisti (protestanti),
si sentivano troppo insicuri per tentare una riconciliazione. Solo un cattolico, Sir
Denis Henry, è stato eletto al parlamento nordirlandese nelle liste unioniste prima
del 1998: le elezioni si giocavano quasi esclusivamente sulla minaccia costituziona-
le all’unione rappresentata dalla possibile riunifcazione dell’isola.
126 2. P. SHEA, Voices and the Sound of Drums. An Irish Autobiography, Newtownards 1981, Blackstaff Press, p. 112.
IL REGNO DISUNITO
Eppure dobbiamo chiederci: se l’Irlanda del Nord era aspramente divisa, come
indicano fn troppe campagne elettorali, perché non è precipitata nella guerra
civile? Nemmeno i Troubles possono infatti essere classifcati come tali. Malgrado
le numerose misure discriminatorie, non c’era uno Stato di polizia; crescendo a
Belfast negli anni prima dei Troubles, noi cattolici non vedevamo le forze dell’or-
dine come un nemico (fatta eccezione per i riservisti esclusivamente protestanti, i
B-Specials, che prestavano servizio soprattutto nelle aree rurali). L’Irlanda del Nord
era un buon posto dove vivere, comunque la si pensasse sulla riunifcazione. Era
più dura essere poveri nel Sud: un divario che si accrebbe sensibilmente negli anni
Quaranta quando in Irlanda del Nord fu introdotto lo Stato sociale, in particolare il
Servizio sanitario nazionale (Nhs). I cattolici cominciarono a sentirsi più a loro agio
nello Stato e presero a criticare la negatività della politica nazionalista. Fu questo
il retroterra del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, periodo che vide
emergere John Hume a leader di una politica nazionalista più costruttiva. Ai prote-
stanti della classe lavoratrice, tuttavia, cresciuti a suon di moniti sui pericoli del «pa-
pato» e nel mezzo della prima recessione economica della loro vita, il movimento
dei diritti civili appariva l’avanzata del papato. La loro reazione violenta concorse a
innescare i Troubles, che iniziati nel 1969 si sarebbero chiusi oltre trent’anni dopo
con l’accordo del Venerdì santo.
I Troubles posero una seria ipoteca sulle chance di riconciliazione, nonché
sulla riunifcazione irlandese. Man mano che la gente si rifugiava nei «ghetti» reli-
giosamente uniformi in cerca di sicurezza, le aree di fede mista scomparivano, per
sempre: oggi oltre il 90% dell’edilizia sociale è segregata lungo linee religiose, al
pari delle scuole. L’accordo del 1998 è stato un evento storico: i critici dicono che
istituzionalizza il settarismo (dando veste strutturata alla condivisione del potere tra
le due comunità) e in certa misura è vero. Tuttavia è stato pensato per impedire
che una tradizione politico-religiosa governi in permanenza, come avvenuto dal
1921 al 1974 durante il governo a maggioranza unionista. Proteggerà anche i pro-
testanti se i cattolici dovessero divenire maggioranza: una prospettiva rilevante ai
fni dell’eventuale riunifcazione irlandese, anche se non se ne parla spesso.
Ma la pace è fragile e il Brexit destabilizzante. Di tutti i governi britannici dal
1998, quello attuale presieduto da Boris Johnson è il più inaffdabile sulla questio-
ne nordirlandese. L’accordo del Venerdì santo fu raggiunto nel contesto europeo:
appartenere all’Ue forniva un’identità ombrello che in parte trascendeva le dico-
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ginalmente. Dal 2019 i favorevoli alla riunifcazione sono aumentati del 10%; ora
raggiungono il 30%, contro un 54% di contrari e un 16% di indecisi. Eppure il 58%
pensa che il Brexit renda più probabile l’unifcazione dell’Irlanda. Relativamente ai
cattolici, c’è più realismo di quanto i timori protestanti o le speranze repubblica-
ne inducano a credere. Secondo il più recente Life and Times Survey (sondaggio
annuale molto affdabile commissionato dalla Queen’s University di Belfast) realiz-
zato tra il 2020 e il 2021, solo il 12% ritiene «molto probabile» un’Irlanda unita nei
prossimi vent’anni, mentre un 30% la considera «abbastanza probabile».
Nella storia dei cattolici in Irlanda del Nord questo realismo ha prevalso, mal-
grado la retorica spesso più estrema dei loro rappresentanti politici. Il nazionali-
smo costituzionale, cioè non violento, è stata la norma in Irlanda più che altrove.
Le intermittenti campagne dell’Ira non erano sostenute dal grosso dei cattolici; il
voto allo Sinn Féin decollò solo quando i repubblicani posero fne alla violenza.
Il ritratto fatto dai lealisti protestanti di una Chiesa cattolica a vario titolo complice
dell’Ira non potrebbe essere più falso: nella storia moderna la Chiesa ha sempre
condannato la violenza. Pur riconoscendo la «ostinata e sottile discriminazione»
contro i cattolici nell’Irlanda del Nord negli anni Cinquanta, il vescovo cattolico
Eugene O’Callaghan condannò l’Operation Harvest (Operazione Raccolto) con-
dotta dall’Ira tra il 1956 e il 1962: «Il confne non è solo una divisione geografca.
È una divisione spirituale di cuori e menti che la forza fsica non può sanare, ma
solo aggravare».
Era questa l’essenza del nazionalismo più pragmatico degli anni Cinquanta e
Sessanta e fu in tale clima che emersero il movimento dei diritti civili e John Hume.
Il mancato riconoscimento dell’Irlanda del Nord era una postura profondamente
incostituzionale per una cultura attenta alla legge, sosteneva Hume, e continuando
di questo passo si rischiava di consegnare la tradizione nazionalista allo Sinn Féin.
«Chi ambisca a creare un’Irlanda unita per via costituzionale», scrisse Hume nel
1964, «deve accettare una posizione costituzionale». L’associazione esclusiva nazio-
nalismo-cattolicesimo era un’altra contraddizione, diceva, in quanto non conside-
rava parimenti legittima la tradizione protestante. «Il fatto è che un’Irlanda unita, se
verrà e se la violenza sarà fnalmente bandita, deve scaturire da una evoluzione,
cioè dalla volontà della maggioranza nel Nord».
Al principio degli anni Novanta Hume aveva raffnato la sua argomentazione
nel cosiddetto nuovo nazionalismo di un’«Irlanda consensuale», basato sulla legitti-
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da sé. Una volta che la gente comincia a lavorare insieme, si schiude un’Irlanda
completamente nuova».
Gli sforzi di Hume per persuadere l’Ira ad abbandonare la violenza comin-
ciarono presto, nel 1972; fondamentale al riguardo era la sua idea che il Regno
Unito non fosse più il problema. No, il problema era la divisione tra nazionalisti
e unionisti: non c’è dubbio che lo Sinn Féin cercasse maggiore partecipazione
politica e la trovò, ottenendo seggi nei consigli locali nordirlandesi dal 1983 e ini-
ziando a segnalare di voler deporre le armi. Nel 1993 ho passato del tempo con
membri dello Sinn Féin che seguivano questo approccio, mentre lavoravo nella
commissione internazionale Opsahl: dai sostenitori proveniva chiara una richiesta
di pace, la «guerra» si rivelava un vicolo cieco e il governo britannico stava giun-
gendo alla stessa conclusione. Il sostegno alla partecipazione politica resta alto tra
i cattolici del Nord: le critiche allo Sinn Féin per non essere tornato all’assemblea
nordirlandese nel 2019 si sono tradotte in una fuga degli elettori cattolici dal par-
tito alle elezioni di quell’anno.
L’accordo del Venerdì santo ha posto fne al veto unionista – di cui il vecchio
nazionalismo si lamentava – e alle pretese di Dublino sul Nord, che tanto avevano
contribuito ad alimentare le paure degli unionisti. Ha garantito anche molto di
quanto il movimento per i diritti civili chiedeva negli anni Sessanta. Ma soprat-
tutto, ha accolto le idee avanzate da Hume per trent’anni: la legittimità delle due
identità nordirlandesi, il loro diritto di decidere del proprio futuro a lungo termine
e la garanzia che Londra e Dublino avrebbero agevolato il processo.
Ma siamo solo agli inizi e i tumulti lealisti del 2021 mostrano che di strada da
fare ne resta molta. Le ostentazioni aggressive di cultura protestante non scaturi-
scono dalla fducia, non lo hanno mai fatto. Nella Repubblica d’Irlanda i sondaggi
mostrano ancora una solida maggioranza (67%) favorevole alla riunifcazione, ma
quando se ne presenta il conto i consensi scendono al 12,5%. Il Regno Unito sussi-
dia l’Irlanda del Nord per quasi 9,5 miliardi di sterline (11 miliardi di euro) all’anno.
Per quanto Londra possa continuare a erogare fnanziamenti, in caso di riunifca-
zione le tasse irlandesi quasi certamente salirebbero e di recente l’Irish Times ha
stimato che il tenore di vita potrebbe calare del 5-10%. Né, malgrado la retorica, vi
è alcuna certezza che una maggioranza di cattolici in Irlanda del Nord voterebbe
per la riunifcazione a un ipotetico referendum, specie se si tenesse a breve. Anche
loro temono di perdere alcuni benefci derivanti dall’appartenenza al Regno Unito,
in primo luogo la sanità pubblica.
Ironicamente, i recenti governi irlandesi hanno compreso molto meglio di
Londra gli interessi degli unionisti, ma ciò potrebbe cambiare se lo Sinn Féin si
schierasse apertamente per la Repubblica d’Irlanda. Il partito ha il pieno diritto di
perseguire per via politico-costituzionale la riunifcazione di un paese diviso, ma le
sue frequenti richieste di un referendum nordirlandese in tempi brevi aiutano gli
agitatori a giocare sulle paure dei protestanti. L’ultimo John Hume riconobbe che
il confne stava anzitutto nella testa della gente e che quello fsico sarebbe caduto
quando fosse venuto meno il primo. I nazionalisti moderati, incluso l’attuale go-
verno irlandese, ne sono consapevoli e sono inclini a posticipare il referendum a
un futuro indefnito. Purtroppo, nessun politico della Repubblica d’Irlanda ha mai
preso voti grazie alla saggezza sull’Irlanda del Nord.
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130
IL REGNO DISUNITO
SE L’IRLANDA
DIVENTA UNA di Feargal COCHRANE
Venerdì santo del 1998. Al pari dell’accordo di recesso (del Regno Unito dall’Ue),
quello del Venerdì santo è un trattato internazionale tramutato in legge dai parla-
menti di Regno Unito e Irlanda e ratifcato da referendum svoltisi contemporanea-
mente nel 1998 in Irlanda del Nord e nella Repubblica d’Irlanda. L’accordo e le sue
aggiunte successive sono dunque quanto di più simile esista a una costituzione
nordirlandese e sono il riferimento per qualsiasi modifca all’assetto costituzionale.
Il trattato del 1998 si basa sul principio del consenso, richiesta chiave degli unio-
nisti durante il processo di pace. Esso statuisce esplicitamente che «l’Irlanda del Nord
132 resta nella sua interezza parte del Regno Unito e non dovrebbe smettere di esserlo
IL REGNO DISUNITO
zione. Per accogliere l’Irlanda del Nord il testo potrebbe prevedere assetti diversi
dal modello di Stato centralistico, magari in senso federale con l’Assemblea e l’e-
secutivo nordirlandesi che lavorano di concerto con le istituzioni politiche a Du-
blino. Potrebbe anche defnire modifche culturali come una nuova bandiera, o
soluzioni per il funzionamento di ambiti come il sistema sanitario, l’istruzione, le
carceri e la giustizia.
Lo scoglio fnale dell’unifcazione, posto che gli altri vengano superati, sareb-
bero i tempi con cui l’Irlanda del Nord lascia il Regno Unito e si incorpora alla
Repubblica d’Irlanda. La complessità di questa fase è notevole, ma qualsiasi crono- 133
SE L’IRLANDA DIVENTA UNA
cation Referendums on the Island of Ireland, che analizzano alcune delle questioni
tecniche, costituzionali, economiche e politiche concernenti la possibilità di un
referendum, il suo oggetto e i suoi possibili esiti.
Nella società civile sono sorti numerosi altri gruppi che spingono per il refe-
rendum e la riunifcazione, ma anche che sostengono la permanenza dell’Irlanda
del Nord nel Regno Unito. Uno dei principali è Ireland’s Future, che propugna la
riunifcazione come modo migliore per mitigare i danni del Brexit. Non si tratta di
un partito politico, sebbene i suoi oppositori lo considerino fortemente allineato
134 allo Sinn Féin. Il gruppo respinge ogni insinuazione, affermando di essere aperto
IL REGNO DISUNITO
al dialogo con qualsiasi parte politica e di interagire con partiti di diverso orienta-
mento su entrambi i lati del confne irlandese.
Il Brexit ha certamente innescato un vigoroso dibattito su tali questioni nelle
due parti dell’isola, benché molti unionisti restino riluttanti a prendervi parte per
timore che la riunifcazione sia un risultato scontato. L’ex leader del Dup Peter
Robinson ha dissentito da questo approccio, affermando che gli «anti-referendum»
seguono una linea «compiacente e pericolosa». Robinson, insieme ad altri unionisti
di spicco, crede che il proprio campo debba articolare posizioni dettagliate in vista
di un evento che considera inevitabile nei prossimi anni. Il suo appello all’istituzio-
ne di un centro studi flo-unionista che svolga ricerche per produrre argomentazio-
ni a favore dello status quo non ha avuto seguito sinora. Tuttavia stanno sorgendo
alcuni gruppi che riempiono questo spazio, consci della necessità di contrastare il
consenso montante a un referendum. UnitingUK è forse il più in vista: si tratta di
un’iniziativa comunitaria che si defnisce flo-unionista e interpartitica. Fondato nel
dicembre 2020, mira a costituire una coalizione inclusiva e progressista per soste-
nere la permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito, ma in un modo che ne
preservi le peculiarità e rafforzi i legami tra la regione e la Repubblica d’Irlanda.
In ultima analisi, tuttavia, non saranno gli unionisti o i nazionalisti a decidere
l’esito di un eventuale referendum; saranno gli elettori oggi indecisi. La speranza è
che, a prescindere dal risultato, i possibili assetti futuri siano ben concepiti, adegua-
tamente discussi e suffcientemente compresi. Nel gioco a somma zero alla lunga
perderebbero tutti.
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135
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IL REGNO DISUNITO
DUBLINO VUOLE
L’IRLANDA UNITA
PURCHÉ NON COSTI TROPPO di Owen POLLEY
Il Brexit ha destabilizzato l’accordo del Venerdì santo. La disputa
su backstop e confine marittimo nel Mare d’Irlanda. Il nazionalismo
della Repubblica, frenato dal sovvenzionamento dell’arretrato Ulster
in caso di unificazione. Nuovi Troubles in vista?
Nord. Questa intesa, più comunemente nota come accordo del Venerdì santo,
modifcò quei controversi articoli irredentisti della costituzione irlandese. Anziché
rivendicare l’Irlanda del Nord come parte del «territorio nazionale», l’articolo 2 ora
affermava «la facoltà e il diritto di nascita di ogni persona nata sull’isola d’Irlanda,
che include le sue isole e i suoi mari, di essere parte della nazione irlandese». Si-
gnifcativamente, l’articolo 3, che prima descriveva la «reintegrazione» del presunto
«territorio nazionale» come «in sospeso», ora riconosceva che qualsiasi futura «Irlan-
da unita» sarebbe dipesa dal «consenso della maggioranza del popolo, espresso
democraticamente, in entrambe le giurisdizioni dell’isola».
Anche se i riferimenti a «l’isola d’Irlanda» svelavano la perdurante convinzione
che la geografa rendesse inevitabile l’unione politica, questa riformulazione quan-
tomeno rifetteva il «principio del consenso», che era centrale nell’accordo di Belfast
e che assicurava «la legittimità di qualsiasi scelta liberamente esercitata dalla mag-
gioranza del popolo dell’Irlanda del Nord riguardo al suo status». Inoltre, nell’ac-
cordo del Venerdì santo i frmatari riconoscevano che «l’attuale volontà della mag-
gioranza della popolazione in Irlanda del Nord, espressa liberamente e legittima, è
di mantenere l’Unione. E quindi lo status dell’Irlanda del Nord come parte del
Regno Unito rifette e si basa su questa volontà».
Il fatto che la Repubblica accettasse formalmente che gli elettori in Irlanda del
Nord determinassero il proprio futuro costituzionale permise una relazione più
costruttiva tra le isole britanniche. Creando le condizioni perché avessero luogo
eventi storici come la visita della regina a Dublino nel 2011. In quell’occasione, Sua
Maestà depose delle ghirlande al Garden of Remembrance – il giardino dove ven-
gono commemorate le vittime degli scontri con il Regno Unito, coloro che avevano
imbracciato le armi per «la causa della libertà irlandese» – e ai National War Memo-
rial Gardens, dove si ricordano i caduti irlandesi della Grande guerra che avevano
combattuto per l’esercito britannico.
Durante una cena di Stato al Castello di Dublino, la regina disse ai commen-
sali: «Con il senno di poi, notiamo tutti cose che avremmo preferito fossero state
fatte diversamente o non fossero state fatte del tutto. Ma è anche vero che nessuno
che nei secoli passati avesse guardato al futuro avrebbe potuto immaginare la forza
dei rapporti che ora intercorrono tra i governi e i popoli delle nostre due nazioni,
lo spirito di collaborazione di cui ora godiamo e la relazione duratura che ci lega».
Le sue parole racchiudevano perfettamente la complessità della storia, ma rifette-
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vano anche la diffusa speranza che il Regno Unito e la Repubblica d’Irlanda rima-
nessero per sempre nazioni amiche.
Nei cinque anni successivi al voto britannico a favore del Brexit quell’ottimi-
smo fu scosso e messo a dura prova. Nella Repubblica il risultato del referendum
del 2016 fu accolto con sgomento. Si aveva infatti la sensazione che i complessi
problemi dell’isola fossero stati ignorati dagli elettori britannici e che il Regno
Unito avesse abbandonato una parte importante del progetto che teneva insieme
Londra e Dublino. Allo stesso tempo, molti politici esortavano al pragmatismo,
138 sottolineando che i due paesi avrebbero dovuto continuare a cooperare, anche
IL REGNO DISUNITO
perché l’economia della Repubblica era strettamente legata a quella del Regno
Unito. Gli irlandesi si sentivano delusi e snobbati, ma credevano anche che attra-
verso la collaborazione qualsiasi problema creato all’Irlanda dal Brexit potesse
essere superato.
Tuttavia, quando lo «status speciale» divenne il backstop – ossia la clausola che la-
scia l’Irlanda del Nord nell’unione doganale con l’Ue a differenza della Gran Bre-
tagna – May accettò una forma di separazione tra l’Irlanda del Nord e il resto del
Regno Unito. Nel novembre 2017, la Gran Bretagna accolse questo tipo di soluzio-
ne. I negoziatori irlandesi ed europei rimasero sbalorditi. Il giornalista di Politico
Tom McTague riferì che una fonte dell’Ue aveva commentato: «Non potevamo
credere che la Gran Bretagna avesse approvato quel testo. Sapevamo perfettamen-
te che non sarebbe stato accettabile per gli unionisti».
Mentre i negoziati procedevano, il progetto di May diventava più chiaro. Un
reporter udì il capo negoziatore del governo, Olly Robbins, parlare del backstop
come di un «ponte» verso una nuova relazione doganale tra Bruxelles e Londra. In
pratica, May aveva in mente di sfruttare la delicata posizione dell’Irlanda del Nord
per persuadere i membri scettici del parlamento di Westminster ad accettare un più
stretto allineamento doganale tra l’Ue e l’intero Regno Unito. Quando May fu sosti-
tuita da Boris Johnson, il «backstop» divenne il «protocollo dell’Irlanda del Nord».
Questa versione dello «status speciale» fu negoziata dall’Ue e dal Regno Unito alla
fne del 2019 e applicata all’inizio del 2021. Durante le sue visite a Belfast, Johnson
prometteva: «Dovranno passare sul mio corpo prima di stabilire un confne nel
Mare d’Irlanda». Eppure l’Irlanda del Nord rimane fnora nel mercato unico euro-
peo e applica le regole doganali europee, laddove il resto del Regno Unito non è
più strettamente allineato a questi regimi. I legami economici tra Ulster e Repubbli-
ca d’Irlanda sono stati privilegiati rispetto a quelli di maggior volume tra il primo e
i suoi compatrioti del Regno Unito.
Come risultato la provincia ha sperimentato scaffali vuoti, prezzi più alti e ca-
tene di approvvigionamento interrotte nei mesi successivi all’attuazione del proto-
collo. Questa minuscola regione di 1,8 milioni di abitanti esegue più di un quinto
del totale dei controlli burocratici alle frontiere delle merci per tutta l’Ue. Probabil-
mente in futuro ci saranno ulteriori problemi con la fornitura di alimenti e medici-
ne, una volta che i «periodi di grazia» temporanei saranno trascorsi. Le imprese
avvertono di una «tempesta perfetta» in arrivo con l’introduzione di altre misure
relative alla frontiera del Mare d’Irlanda in ottobre. Nel frattempo, la Repubblica
d’Irlanda, ora governata da una coalizione Fianna Fáil/Fine Gael, con Micheál Mar-
tin come Taoiseach, ha chiesto un’attuazione più rigorosa delle barriere commer-
ciali tra l’Ulster e la Gran Bretagna, non una revisione che guardasse alle condizio-
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suo paese, in un momento diffcile della sua storia. Altri ritengono che stesse in-
vece utilizzando una retorica nazionalista per migliorare le sue prospettive eletto-
rali, dal momento che il sentimento antibritannico stava crescendo nella Repub-
blica e che lo Sinn Féin, un partito repubblicano dalla linea dura legato all’Ira,
cresceva nei sondaggi.
Questo nuovo stato d’animo aggressivo e nazionalista non si limitava ai nego-
ziati sul Brexit. Leo Varadkar e i suoi funzionari, più dei precedenti governi di
Dublino, amavano calarsi nell’Irlanda del Nord senza troppe formalità e adoperare
un linguaggio che lasciava intendere l’estensione della loro autorità anche su que-
sta parte dell’isola. Durante il suo mandato, il Taoiseach provò persino a introdur-
re una normativa che estendeva il diritto di voto per il presidente della Repubblica
d’Irlanda anche agli elettori nordirlandesi. Questa misura provocatoria affondò con
la caduta del governo di minoranza del Fine Gael all’inizio del 2020.
Quando l’esecutivo nordirlandese basato sulla condivisione del potere non
riuscì a funzionare per tre anni, tra il gennaio 2017 e il gennaio 2020, Varadkar e
Coveney dissero che non potevano accettare il ripristino del governo diretto di
Londra, sostenendo che l’autorità decisionale dovesse essere invece devoluta a
corpi intergovernativi britannico-irlandesi. Tale proposta era in contrasto diretto
con l’accordo di Belfast, che escludeva il coinvolgimento della Repubblica negli
affari interni delle sei contee. Dublino sembrava convinta di godere già di una for-
ma di autorità congiunta con la Gran Bretagna sull’Irlanda del Nord, nonostante
sulla carta la Repubblica accettasse la piena partecipazione della provincia al Re-
gno Unito, almeno fno a quando il suo popolo non avesse deciso altrimenti.
Parallelamente a questi costanti, puntigliosi attacchi alla sovranità di Londra
sull’Irlanda del Nord, cresceva il sentimento antibritannico nella Repubblica. Gior-
nalisti di quotidiani fno a quel momento bilanciati, come l’Irish Times, si sentivano
liberi di lasciarsi andare alle più disparate generalizzazioni sulla popolazione del
Regno Unito. La scrittrice Ellis O’Hanlon arrivò ad accusare Fintan O’Toole, un
giornalista particolarmente infuente tra i lettori irlandesi liberali, di voler fomenta-
re una «pericolosa nuova ondata di anti-Britishness in Irlanda».
Nella cultura giovanile sembrava emergere un crescente gusto per gli insulti
gratuiti antibritannici e per le glorifcazioni della violenza repubblicana. Alcuni
giovani irlandesi iniziarono ad appellare abitualmente i britannici «tans», in riferi-
mento ai soldati noti colloquialmente come «black and tans» reclutati dalla Royal
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Dublino sia da canali non uffciali. Per chi in Irlanda del Nord e in Gran Bretagna
supporta il mantenimento del Regno Unito, i termini «unità irlandese» e «riunifcazio-
ne» sono di per sé prevenuti e fuorvianti: l’Irlanda fu unita politicamente solo sotto
la Corona britannica. Gli unionisti capivano la necessità della partizione dell’isola
nel 1921, visto il crescente sentimento nazionalista, ma erano anche traumatizzati e
delusi dalla divisione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Qualsiasi Stato
unitario irlandese avrebbe inevitabilmente diviso di nuovo il Regno Unito e gli ef-
fetti sarebbero stati anche peggiori rispetto alla volta precedente, perché non ci
sarebbe più stata una patria naturale sull’isola per coloro che si sentivano britannici.
Ciononostante, Varadkar ha recentemente affermato in una conferenza del suo
partito: «Io credo nell’unifcazione della nostra isola e penso che possa realizzarsi
durante la mia vita». La sua risposta alle preoccupazioni degli unionisti è semplice-
mente questa: «Nessun gruppo può avere potere di veto sul futuro d’Irlanda». Inve-
ce, l’attuale Taoiseach, Micheál Martin, ha optato per un approccio meno confit-
tuale. Afferma a sua volta di essere a favore di un eventuale assorbimento dell’Ir-
landa del Nord da parte della Repubblica, ma si mostra meno ottimista in merito
alle tempistiche. Ad esempio, ha escluso un referendum sulla questione entro i
prossimi cinque anni, anche se ha parlato di «rafforzare l’unità dell’isola condivisa»
(«Shared Island Unit») per prepararsi alla possibilità che «l’Inghilterra venga respin-
ta dall’Irlanda del Nord».
Le sei contee dell’Ulster costituiscono una delle regioni più povere del Regno
Unito, con un’alta percentuale di lavoratori impiegati nel settore pubblico. Prima
dell’epidemia, l’Irlanda del Nord percepiva circa 10 miliardi di sterline in più all’an-
no dal governo di Londra rispetto alle proprie entrate fscali. Tale somma dev’es-
sere aumentata sostanzialmente durante il Covid-19, visto che Londra ha pagato gli
stipendi dei lavoratori «in aspettativa» e ha fnanziato il programma vaccinale. L’u-
nico piano nazionalista serio che preveda il mantenimento di questo fusso di de-
naro, senza causare improvvisi e insostenibili disagi, si basa sulla fantasia che il
Regno Unito continui a pagare anche decenni dopo l’assorbimento dell’Irlanda del
Nord nella Repubblica d’Irlanda.
Edgar Morgenroth, dell’Istituto di ricerca economica e sociale d’Irlanda, stima
che gli irlandesi potrebbero subire un crollo dell’11% del pil pro capite se formas-
sero uno Stato unitario. Queste previsioni economiche sarebbero proibitive, anche
considerando i potenziali disordini sociali che ne conseguirebbero. Uno Stato indi-
pendente con 32 contee sarebbe un’entità completamente nuova, che dovrebbe
confrontarsi fn da subito con la sfda di dover assorbire una consistente minoran-
za britannica che si sentirebbe strappata dal Regno Unito contro la sua volontà.
Allo stesso tempo, l’esistenza dell’Irlanda del Nord è di per sé un compromes-
so politico che rifette le diverse lealtà del popolo irlandese. I nazionalisti credono
che l’isola sia stata divisa in maniera ingiusta, gli unionisti rimpiangono la perdita
delle 26 contee del Regno Unito. Se però la provincia ha avuto una storia relativa-
mente turbolenta, è anche vero che oggi offre una residenza tranquilla alla maggior
parte della sua popolazione.
Il questionario Northern Ireland Life and Times è la ricerca più completa sulle
attitudini politiche e sociali nell’Ulster: il suo ultimo sondaggio, risalente al 2020, ha
riportato che l’83% degli intervistati sente «probabilmente» o «assolutamente» di ap-
partenere all’Irlanda del Nord. In una regione la cui esistenza è stata sotto attacco
per un secolo – sia da parte di attivisti politici sia per effetto di una feroce insor-
genza separatista – è un risultato eccezionale.
Non è verosimile che politici della Repubblica d’Irlanda, inclusi quelli aperta-
mente ottimisti sulle prospettive di uno Stato unitario irlandese, come Leo Va-
radkar, siano ciechi rispetto a queste complicazioni. È invece più probabile che
percepiscano una pressione politica che li porta a fare ricorso a una retorica nazio-
nalista, innanzitutto perché le opinioni antibritanniche sono cresciute sulla scia del
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Brexit. E, in secondo luogo, perché c’è stata una costante copertura mediatica
della possibilità di realizzare una Repubblica di Irlanda di 32 contee dopo il refe-
rendum nel Regno Unito.
È vero che l’atteggiamento di Dublino verso l’Irlanda del Nord si basa su pre-
supposti nazionalisti. Il principale dei quali è l’idea che la geografa determini il
destino politico di un paese e che, a prescindere dalla lealtà della sua gente verso
la Gran Bretagna, la provincia non dovrebbe essere davvero parte del Regno Uni-
to. È questo atteggiamento che ha permesso ai vari governi di Dublino, indipen-
dentemente dalla loro accettazione dell’accordo di Belfast e del «principio del con- 143
DUBLINO VUOLE L’IRLANDA UNITA PURCHÉ NON COSTI TROPPO
senso», di agire come se avessero sempre più voce in capitolo negli affari interni
dell’Irlanda del Nord e di insistere sul fatto che il commercio e le strutture in tutta
l’isola fossero indispensabili alla pace, al contrario dei legami dell’Ulster con il resto
del Regno Unito.
La Repubblica vuole infuenza e autorità sull’Irlanda del Nord, senza però as-
sumersi la responsabilità della sua società divisa e senza foraggiare la sua econo-
mia. Le sue azioni, in particolare dal 2016, sono state destabilizzanti e hanno incen-
tivato la campagna all’interno della provincia per un referendum sul suo futuro,
poiché gli attivisti nazionalisti credono di essere appoggiati dal governo di Dubli-
no. La verità è che quello stesso governo sarebbe terrorizzato se domani dovesse
contemplare un’immediata unifcazione con l’Irlanda del Nord, soprattutto per i
costi che ciò comporterebbe.
(traduzione di Veronica Stigliani)
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144
IL REGNO DISUNITO
PERCHÉ L’AMERICA
SOSTERRÀ
L’UNITÀ D’IRLANDA di Jacob L. SHAPIRO
la Casa Bianca chiese di stanziare 400 milioni di dollari in aiuti. Spiegando che la
somma rappresentava meno di un decimo di punto percentuale della spesa totale
statunitense durante la guerra mondiale, un investimento necessario alla stabilità e
alla pace conquistate con i dollari e il sangue degli americani. (Quanti altri investi-
menti del genere sono stati compiuti negli anni seguenti?)
Fu la nascita della cosiddetta dottrina Truman, che defnì la politica estera di
Washington per i successivi 69 anni. Nelle parole del suo estensore, «i liberi po-
poli del mondo guardano a noi per essere aiutati a preservare le loro libertà. Se
la nostra guida fallisse, potremmo mettere in pericolo la pace mondiale. E sicu- 145
PERCHÉ L’AMERICA SOSTERRÀ L’UNITÀ D’IRLANDA
ce n’è bisogno per affrontare altre minacce: Cina, Asia meridionale, Africa – ha
elencato in un recente discorso. Trump si trastullava con l’interventismo – conside-
rando un’opzione militare contro la Corea del Nord o autorizzando attacchi all’Iran
– ma in generale ha rifutato l’idea che gli interessi degli Stati Uniti siano sempre
soddisfatti usando la forza all’estero.
venire il governo di Sua Maestà nel Regno Unito e il governo dell’Irlanda». Benché
ampollosa, è una frase degna di nota. In chiaro, signifca che il governo britannico
è obbligato a prendere provvedimenti che supportino l’unifcazione dell’isola se/
quando una maggioranza degli abitanti di Irlanda e Irlanda del Nord la desidererà.
La formulazione impegna anche gli Stati Uniti, attore chiave nel raggiungi-
mento dell’accordo e nei negoziati, a sostenere la suddetta unifcazione se/quando
esisterà una maggioranza a favore. In altre parole: Washington si è già impegnata
ad agevolare l’unità dell’isola in presenza di condizioni che quasi certamente si
presenteranno nel prossimo decennio. 147
PERCHÉ L’AMERICA SOSTERRÀ L’UNITÀ D’IRLANDA
Quando si tratta dell’Irlanda del Nord e dell’eventuale unità irlandese, gli Stati
Uniti hanno un solo interesse cogente: che tutto non cada a pezzi, che il centro
regga, che l’anarchia resti confnata a teatri distanti dal sicuro e familiare Nord
Atlantico, senza minacciare in alcun modo le relazioni fra l’America e i suoi più
stretti alleati. Più facile a dirsi che a farsi. Perché, come Yeats, viviamo in tempi di
tremendi cambiamenti, in cui troppo spesso l’appassionata intensità dei peggiori
affoga le convinzioni dei migliori.
In un mondo del genere, gli Stati Uniti saranno costretti ad apprendere una
lezione più umile: non possono essere ovunque per chiunque, non ogni problema
può o deve essere risolto e quanto più pesante la mano dell’intervento americano
tanto minori i risultati, anche nell’ottica dell’investimento chiesto da Truman quasi
75 anni fa. Il mondo democratico imparerà a propria volta una lezione altrettanto
umile: la potenza degli Stati Uniti ha dei limiti e nessun paese potrà reggere il cen-
tro da solo. Washington sosterrà l’accordo del Venerdì santo di modo che il desti-
no dell’unifcazione irlandese sia nelle mani dei popoli irlandese, nordirlandese e
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britannico. Il tempo ci dirà se si tratta di una buona scelta. Prima di quanto pensi
Boris Johnson.
150
IL REGNO DISUNITO
LA CONTRADDITTORIA
EREDITÀ DEGLI
SCOTS-IRISH IN AMERICA di Judith RIDNER
I discendenti dei presbiteriani scozzesi emigrati dall’Ulster
incarnano tratti tipici degli Stati Uniti: dalla violenza all’ostilità per
il diverso, dall’ambizione all’attaccamento alla comunità. La loro
visione del mondo e il loro stile di vita vengono prima di tutto.
2. Come molti dei primi immigrati nelle colonie americane, la storia degli
Scots-Irish inizia in Europa e nel secolare sforzo inglese di conquistare l’Irlanda. A
partire dal XVI secolo sotto Elisabetta I e in particolare nel Seicento durante i regni
della monarchia stuarda di Giacomo I e Carlo I, gli inglesi cercarono di colonizzare
l’isola celtica con insediamenti protestanti. Il loro obiettivo era pacifcare i cattolici
irlandesi e assicurarsi l’egemonia incoraggiando l’immigrazione e l’insediamento
di coloni protestanti modello. Alcune delle reclute venivano dall’Inghilterra, ma
il grosso era formato da presbiteriani delle terre basse di Scozia (Lowlands). Le 151
LA CONTRADDITTORIA EREDITÀ DEGLI SCOTS-IRISH IN AMERICA
3. Questi Scots-Irish, come divennero noti negli Stati Uniti, si distinsero velo-
cemente come il più nutrito gruppo di europei non inglesi a sbarcare nelle colonie
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inaugurato nel 1746. Anch’esso nacque prima di tutto per istruire alla mentalità
evangelica il clero presbiteriano, ma acquisì nel tempo anche una considerevole
infuenza politica sotto la guida di uno dei suoi primi presidenti, John Witherspo-
on, religioso scozzese di nascita. Il quale fu uno degli estensori della scuola floso-
fca del senso comune e attrasse molti futuri leader politici e intellettuali d’America,
fra cui James Madison, che sarebbe diventato il quarto presidente degli Stati Uniti.
Gli Scots-Irish infuenzarono la politica americana anche in altri modi. La strut-
tura congregativa della loro Chiesa gli aveva insegnato l’importanza delle forme di
governo partecipative e rappresentative. La loro esperienza in Irlanda li aveva ad- 153
LA CONTRADDITTORIA EREDITÀ DEGLI SCOTS-IRISH IN AMERICA
4. Nonostante i loro molteplici traguardi, gli Scots-Irish nel corso del tempo
sono stati oggetto di sospetti e sprezzo. I loro capisaldi presbiteriani sono stati cri-
ticati perché dogmatici e il loro clero in quanto autoritario. Presagendo le denunce
rivolte in seguito agli immigrati cattolici irlandesi, alcuni dei loro primi detrattori
sostenevano addirittura che il presbiterianesimo alimentasse una vita separata in
clan del tutto anti-americana. Gli studiosi contemporanei li hanno condannati per
aver posseduto schiavi, dettagliando come l’ala meridionale della Chiesa presbite-
riana in particolare condonasse la schiavitù. Hanno anche denunciato il sostegno
degli Scots-Irish democratici alle politiche federali di rimozione degli indiani, spe-
cialmente di quelle tacciate di trattamenti ingiusti e di espulsione coatta dei nativi
dalle loro terre.
Le voci più critiche hanno rivolto tuttavia la massima furia soprattutto verso i
coloni di frontiera, la cui poco profttevole esistenza nell’America remota è valsa
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gente depravata, virtualmente una razza a parte rispetto agli altri bianchi. Selvaggi
bianchi, insomma. Per questi coloni, però, le loro azioni erano pienamente giu-
stifcabili. Trovandosi a vivere così vicini ai nativi, i cui interessi erano contrari al
loro desiderio di terra e la cui presenza metteva in pericolo la sicurezza di intere
famiglie, fattorie e imprese, gli Scots-Irish erano disposti a combattere e a uccidere
perché convinti di proteggere quel che spettava loro di diritto in America. I loro
scopi, la loro visione del mondo, il loro stile di vita venivano prima di tutto.
In questo senso, gli Scots-Irish sono un utile campione per valutare le contrad-
dizioni insite nell’esistenza americana. Con la loro ascendenza bianca ed europea
e il loro protestantesimo, non solo si sono assimilati, ma hanno anche modellato
il tipo di ambizione, la spinta imprenditoriale e il moralismo che ha defnito e de-
fnisce tuttora gli Stati Uniti. Eppure, in quanto gruppo spesso ostile e addirittura
violento nei confronti del diverso, gli Scots-Irish impersonano anche l’intollerante
ma pervasivo ventre dell’America. Questa «gente sobria, industriosa e pia» è una
stirpe contraddittoria. Come gli Stati Uniti stessi.
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155
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IL REGNO DISUNITO
Parte III
gli INGLESI
alla PROVA della VITA
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IL REGNO DISUNITO
BRITANNIA SÌ
MA POCO GLOBALE di Andrew GAMBLE
La retorica della Global Britain coltivata da Johnson per inverare
il Brexit rischia di farsi boomerang. Dal commercio alla Difesa,
dal soft power all’aiuto allo sviluppo, il paese si scopre troppo piccolo
per contare. Il nodo delle diseguaglianze azzoppa l’agenda liberista.
reale signifcato del Brexit, i cui fautori hanno fnito per vederci ciò che volevano.
Nei cinque anni trascorsi dalla consultazione referendaria i governi britannici
hanno faticato ad articolare una visione per il paese nel post-Brexit. Non da ulti-
mo perché le quattro nazioni che integrano il Regno Unito hanno votato in modo
diverso e il ventaglio di Brexit possibili era molto ampio. Quando Boris Johnson
è divenuto primo ministro, nel 2019, ha puntato ad «attuare il Brexit» a tutti i costi
abbandonando il cauto compromesso che Theresa May aveva provato a stilare per
limitare i danni dell’uscita dalla Ue, ora perseguita in modo netto. È stato negozia- 159
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160
L’AMERICA BRITANNICA 1 MASSACHUSETTS
2 RHODE ISLAND/CONNECTICUT
C A N A D A 3 NEW JERSEY
4 DELAWARE
5 MARYLAND/DC
6 NEW HAMPSHIRE MAINE
WASHINGTON
7 VERMONT
MONTANA MINNESOTA 7
NORTH DAKOTA MICHIGAN 6
BRITANNIA SÌ, MA POCO GLOBALE
o
OREGON
SOUTH DAKOTA
IDAHO 2
WYOMING PENNSYLVANIA
3
IOWA
Pacific
NEBRASKA 5
NEVADA OHIO
INDIANA WEST 4
no
S T A T I U N I T I VIRGINIA
ILLINOIS
UTAH
VIRGINIA
KANSAS MISSOURI
O cea
COLORADO KENTUCKY NORTH
CAROLINA
t i c o
OKLAHOMA CAROLINA
NEW MEXICO
At
GEORGIA
n
a
e
c
TEXAS
O
FLORIDA
LOUISIANA
M E S S I C O
Contee in cui la maggioranza relativa della popolazione
dichiara un’ascendenza britannica (censimento 2010)
Regno Unito
Canada
Pakistan La popolazione
Malta Cipro
Bangladesh totale supera
Bahamas i 2 miliardi,
India di cui quasi il 60%
Belize Giamaica Gambia under 30
Trinidad e Tobago
Guyana Maldive
La regina Elisabetta II Sierra Leone Uganda Brunei Nauru
a ia Sri Lanka
è il capo di Stato di 16 nazioni an er n Kenya Malaysia
“reami del Commonwealth” Gh Nig eru Ruanda Tanzania Papua Nuova Guinea
m Singapore Isole Salomone
(Antigua e Barbuda, Australia, Bahamas, Ca Seicelle
Malawi Tuvalu Kiribati
Barbados, Belize, Canada, Giamaica, Grenada, Zambia Samoa
Isole Salomone, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Mozambico Vanuatu Figi
Namibia Maurizio Tonga
Saint Lucia, Saint Kitts e Nevis, Australia
Saint Vincent e Grenadine, Tuvalu, Regno Unito) Botswana eSwatini
Lesotho
Edimburgo Mosca
Toronto Londra
Francoforte Seoul
Boston Parigi
Chicago Zurigo/Ginevra
Connecticut Milano
New York
Washington D.C.
San Francisco Tōkyō
Shanghai
Hong Kong
Mumbai
m
ESTONIA ug
a
sca Gasdotto strategico
CANADA
Strea
LETTONIA Mo russo-tedesco
IRLANDA nente
USA
Nord
REGN DANIMARCA erma Nuove vie della seta
PAESI LIT. nessione p
BASSI A Con (sfda cinese)
S S I FEDERAZIONE RUSSA
Legame di consanguineità e 5 eyes A NI A-RU BIELORUSSIA
O UNITO
Greifswald GERM
GERMANIA Sorella inquieta
della Russia KAZAKISTAN
Berlino
USA
-GE BELGIO
POLONIA
RMA
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escente REP. CECA UCRAINA
Oceano Atlantico SLOV.
FRANCIA
Alleato storico AUSTRIA
UNGHERIA Mar
e sentimentale Trieste SLOV. Caspio
ma autocentrato Genova CROAZIA ROMANIA
PORTOGALLO BOSNIA- GEORGIA
ERZ. SERBIA Mar Nero
ITALIA
SPAGNA Spazio strategico MONT. KOS. BULGARIA Istanbul
ma inafdabile M.D.N.
ALB. Teheran
GRECIA TURCHIA
Pseudoalleato con IRAN
IRAQ
ambizioni imperiali
MAROCCO Atene/Pireo
ALGERIA (hub cinese) SIRIA
UCRAINA e GEORGIA
Impero europeo dell’America in lista d’attesa per la Nato
CIPRO
Polonia e Romania TUNISIA
perni antirussi Mar Mediterraneo ISRAELE Territori controllati da Mosca
Gemello strategico GIORD. TRANSNISTRIA
GERMANIA RUSSIA DONBAS
Paese chiave “alleato” Nemico necessario LIBIA ABKHAZIA
quasi nemico EGITTO OSSEZIA DEL NORD
ARABIA S. BALCANI balcanici
3 - ANTIEUROPA, L’IMPERO EUROPEO DELL’AMERICA
4 - L’EUROPA MONDIALE (1900)
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IL REGNO DISUNITO
2. Com’è andata la Global Britain negli ultimi due anni? A renderne diffcile la
valutazione è il fatto che prima del Brexit il Regno Unito era tutt’altro che isolazio-
nista e autocentrato. Era già una delle società più aperte al mondo, sotto il proflo
culturale ed economico. Il fusso di idee, persone e beni verso e dal regno è andato
gradualmente crescendo. L’appartenenza alla Ue non è mai stata un ostacolo: nei
quarant’anni che è durata gli scambi economico-culturali con gli altri Stati membri
sono notevolmente aumentati. Ma sono aumentati anche quelli con altri paesi del
mondo. La fnanza e le università britanniche sono divenute riferimenti globali; il
manifatturiero si è contratto, ma nuove industrie dei servizi di portata mondiale ne
hanno preso il posto. La vitalità e la creatività delle grandi città britanniche attrae-
vano immigrati da tutte le parti del mondo.
Se l’asserzione costantemente ripetuta dal governo Johnson circa il fatto che
il Regno Unito post-Brexit sarebbe stato «globale» aveva un senso, questo doveva
stare nell’idea che l’uscita dalla Ue fosse seguìta da una profonda deregolamenta-
zione, tale da trasformare il paese in una Singapore nordica. Ciò richiederebbe una
radicale divergenza dal modello normativo europeo, una drastica riduzione del
prelievo fscale su reddito e imprese, tagli proporzionali della spesa pubblica. Molti
fautori del Brexit afferenti al campo conservatore appoggiavano questo program-
ma, sostenendo che l’economia britannica avesse bisogno di una terapia d’urto per
togliere di mezzo settori vecchi e scarsamente produttivi, lasciando campo libero
a un capitalismo più dinamico e intraprendente. Johnson ha parlato di riportare in
auge lo «spirito bucaniere» del Regno Unito.
L’impatto della retorica britannico-globalista è stato alquanto ridimensiona-
to dal nuovo panorama politico successivo al Brexit. Nel 2019 Johnson ha vinto
convogliando verso i conservatori i voti dell’Ukip e degli altri fautori del Leave,
mentre i voti dei contrari all’uscita dalla Ue si frammentavano tra diversi partiti
d’opposizione. Il resto lo ha fatto il secco uninominale britannico, che ha garantito
a Johnson una larga maggioranza. Il problema è che gli elettori più in sintonia con
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la Global Britain tendono a collocarsi nel campo del Remain, molti dei quali non
votano più conservatore. Il campo degli anti-Ue è assai eterogeneo, ma perlopiù –
specie nelle vecchie aree industriali e nelle decrepite cittadine costiere – ostile ad
ampie parti dell’agenda «globale». Questi elettori chiedono sicurezza, più intervento
statale a protezione di comunità e impieghi, la fne dell’immigrazione. Johnson ha
promesso che tutto ciò sarebbe stato ottenuto mediante l’altra sua grande agenda,
il «livellamento al rialzo»: alle aree lasciate indietro sarebbero state date risorse per
reinventarsi e recuperare terreno, la spesa in istruzione e sanità sarebbe stata tute-
lata e ampliata, i confni sarebbero stati chiusi. 161
BRITANNIA SÌ, MA POCO GLOBALE
Quanto sopra implica ridurre la diseguaglianza nel Regno Unito, uno dei pa-
esi più diseguali della Ue, ma il programma di deregolamentazione e concorrenza
radicale della Global Britain comporta che la diseguaglianza continui a crescere,
poiché ricchezza e competenze sono già fortemente concentrate in alcune parti
del paese. Johnson colma il divario tra le due strategie con la retorica, affermando
che sono complementari; come asserito in una nota dichiarazione che compendia
il suo stile politico e rifette la sua tendenza a evitare scelte diffcili, è possibile
salvare capra e cavoli. «La mia politica sulla torta è che si può mangiarla e man-
tenerla intera in dispensa», ha chiosato (have your cake and eat it too è il detto
originale inglese, n.d.t.).
Questo esecutivo si è dimostrato sinora poco capace di risolvere problemi
complessi, specie se attengono alle sue principali politiche. Provare a cambiare la
rotta del paese nel mezzo di una grande epidemia non ha aiutato, ma il governo
non è riuscito a delineare chiaramente la direzione cui vuole tendere. Ha insisti-
to a proclamare alcuni grandi successi sul Brexit per dimostrare che gli scettici
avevano torto, ma il divorzio da Bruxelles non gode più di grande popolarità. I
sondaggi mostrano che un’ampia maggioranza lo ritiene una cattiva idea e pen-
sa che il governo lo stia gestendo male. I costi e le frizioni conseguenti a quella
decisione sono già ovvi in molti ambiti, al contrario dei vantaggi. Non passa set-
timana senza nuove brutte notizie, dalla piaga dell’industria ittica al ripristino da
parte di alcune aziende telefoniche delle tariffe di roaming per i clienti britannici
in viaggio nella Ue.
Gibilterra
Cipro (Akrotiri e Dhekelia)
Terr. britannico Australia
Sudafrica Nuova
dell’Oceano Indiano Zelanda
Ascensione
Sant’Elena
Tristan da Cunha Territorio antartico britannico Isole Vergini Britanniche
Isole Falkland Isole Pitcairn Turks & Caicos
Georgia del Sud Montserrat Bermuda
e Isole Sandwich Meridionali Anguilla Isole Cayman
mano che il Regno Unito non dovrebbe perdere tempo con i trattati commerciali:
molto meglio fare come nel XIX secolo, aprendosi al libero scambio indipenden-
temente dal fatto che le controparti seguano a ruota. Ma il governo Johnson si è
fnora guardato bene dal seguire il consiglio, dato che metterebbe a rischio molte
cittadine e comunità che hanno votato per uscire dalla Ue.
Quel che Londra non riesce a conseguire con gli accordi, lo compensa con
i colpi di teatro. Questo è un esecutivo teatrale. Nel mezzo dell’epidemia di Co-
vid-19 il governo ha annunciato di voler commissionare un nuovo yacht reale da
200 milioni di sterline per realizzare campagne promozionali fnalizzate a incenti-
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vare il commercio estero britannico. L’ultimo yacht reale fu smantellato nel 1997
perché considerato non redditizio: stava alla fonda per gran parte dell’anno. La
costruzione dello yacht in un cantiere navale inglese creerebbe qualche benefcio
economico, ma anche questo è da vedere perché con le attuali regole degli appalti
pubblici la commessa potrebbe andare a un cantiere della Ue, così come la stampa
del nuovo passaporto britannico blu – simbolo dell’indipendenza dall’Unione Eu-
ropea – è andata a una tipografa francese.
Un altro gesto teatrale è l’annuncio di voler entrare nella Trans-Pacifc Partner-
ship (Tpp). Londra ne ha fatto richiesta formale: ciò dovrebbe attestare che il Re- 163
BRITANNIA SÌ, MA POCO GLOBALE
gno Unito è di nuovo attore globale e per dimostrarlo la nuova portaerei britannica
è stata inviata nel Pacifco a mostrare la bandiera. Johnson è noto per la sua nostal-
gia imperiale: in visita nel Myanmar da ministro degli Esteri prese a recitare ad alta
voce il famoso poema imperialista di Rudyard Kipling (La strada per Mandalay),
fnché l’ambasciatore britannico non gli consigliò di desistere. Il Regno Unito non
ha più alcun possedimento coloniale di rilievo a est di Suez, ma aderire alla Tpp
sancirebbe che esso si pensa potenza globale, non già paese europeo. Di nuovo, si
tratta di una recita: con ogni probabilità, i reali benefci economici di questo blocco
commerciale per un paese così distante dai relativi mercati saranno esigui.
La Global Britain non sta facendo molto di più per proiettare l’infuenza britan-
nica nel mondo. Quest’anno il paese è sede di due grandi appuntamenti, il G7 e la
conferenza delle parti (Cop26) sul clima. Tutto il lavoro diffcile è stato fatto dall’am-
ministrazione Biden e da John Kerry, l’inviato americano per le questioni climati-
che; il governo britannico non si interessa minimamente all’evento. Ha conseguito
notevole prestigio per il rapido sviluppo dei vaccini contro il Covid-19 e l’altrettanto
effcace campagna vaccinale, ma ne ha dilapidato non poco con il recente rilassa-
mento delle restrizioni e la nuova impennata dei contagi che ne è seguita. Johnson
voleva usare il Freedom Day (19 luglio) per annunciare che il Regno Unito ha bat-
tuto il virus grazie al programma di vaccinazione e alla lungimiranza del governo,
ma a rompergli le uova nel paniere è giunta la nuova ondata epidemica, che lo ha
costretto all’isolamento perché il ministro della Sanità è risultato positivo.
a prestito 400 miliardi di sterline per fnanziare follie come un fallimentare sistema
di tracciamento del Covid-19 da 37 miliardi, mentre sostiene di dover risparmiare
4 miliardi sull’aiuto all’estero.
Un andazzo simile si osserva altrove. Il presidente conservatore del Comitato
affari esteri, Tom Tugendhat, ha criticato la decisione governativa di ritirare tutte
le truppe dall’Afghanistan dopo la smobilitazione americana. Le rimanenti unità,
ha evidenziato, non sono combattenti, limitandosi a istruire e coadiuvare l’esercito
afghano. Il taglio delle missioni sul campo a vantaggio di operazioni ad alta visi-
164 bilità come le nuove portaerei è, secondo Tugendhat, segno che l’esecutivo non
IL REGNO DISUNITO
fa sul serio quando dice di voler mantenere per il paese un ruolo di rilievo nella
sicurezza internazionale. C’è molta retorica sulla Global Britain e sul fatto che il
Regno Unito riesca a spingersi oltre le aspettative, ma la sostanza è poca. I ministri
oggi rendono dichiarazioni sullo sfondo di due gigantesche bandiere britanniche,
ma i vessilli sono un magro sostituto della politica.
Il problema della Global Britain è che non è chiaro quale debba essere il suo
ruolo nel mondo sempre più dominato da grandi blocchi: Stati Uniti, Cina, Unione
Europea. Alcuni fautori del Brexit vogliono sviluppare il concetto di Anglosfera,
ma a dispetto della cooperazione tra i Five Eyes nel campo della sicurezza e degli
intensi scambi economico-culturali, i paesi anglofoni non sentono il bisogno di
nuove strutture formali. L’amministrazione Biden vuole una rinvigorita alleanza
occidentale e avrebbe preferito che il Regno Unito fosse rimasto nella Ue. Non ha
alcun ruolo speciale da offrire a Londra.
Il rischio è che l’ambizione di promuovere una Global Britain sia costante-
mente minata da considerazioni di politica interna, specie dalla necessità di rab-
bonire i favorevoli al Brexit che hanno votato conservatore nel 2019, molti per la
prima volta. Ma il governo mostra anche di non fare granché sul fronte del «livella-
mento al rialzo»: molte delle risorse, come la City (il distretto fnanziario londinese)
e le università, elementi chiave della Global Britain ben prima che lo slogan fosse
coniato, sono state danneggiate dal Brexit e il governo Johnson ha spesso accre-
sciuto il danno perseguendo uno scontro ideologico che prende di mira alcune
delle istituzioni patrie globali per eccellenza, come la Bbc.
Il Regno Unito non sembra avviato a divenire la nazione fduciosa, estroversa,
intraprendente e a proprio agio con sé stessa che la narrazione della Global Britain
dipinge. Piuttosto, l’unione interna è soggetta a forti tensioni in Scozia e in Irlanda
del Nord, mentre una nuova retorica del declino e del ripiegamento rischia di pren-
dere piede. La Global Britain non appare molto globale al momento.
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165
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IL REGNO DISUNITO
plessa della campagna oceanica, con il Csg21 chiamato a operare nelle acque
contese del Mar Cinese Meridionale e attraverso gli stretti infuocati che ne cingo-
no la periferia. Il bacino è fnito al centro delle dispute territoriali fra i paesi rivie-
1. Il Csg21 è composto dalla portaerei HMS Queen Elizabeth, dai cacciatorpediniere HMS Diamond e
HMS Defender, dalle fregate HMS Kent e HMS Richmond, dalle navi logistiche RFA Tidespring e RSA
Fort Victoria, da un sottomarino nucleare d’attacco di classe Astute, dal cacciatorpediniere americano
USS The Sullivans e dalla fregata olandese HNLMS Evertsen. Lo stormo imbarcato dall’ammiraglia
conta 32 velivoli fra cacciabombardieri di quinta generazione F-35B inglesi (8 apparecchi) e america-
ni (10), oltre a elicotteri inglesi Wildcat e Merlin. 167
EST! EST! EST! LA ROYAL NAVY RITORNA OLTRE SUEZ
raschi e la Repubblica Popolare, che lo rivendica tutto per sé, ed è qui che gli
Stati Uniti intendono strangolare l’ascesa marittima della Cina. Londra ha segnala-
to da tempo la disponibilità a partecipare al contenimento di Pechino: negli ultimi
anni ha inviato nella regione un’unità anfbia e una coppia di fregate. Stavolta
porterà in dote a Washington il for fore della sua rigenerata Marina, un fatto ri-
levante che non mancherà di provocare le ire cinesi. Sfdare le rivendicazioni
della Cina, inoltre, consentirà al Regno Unito di riaffermare concretamente l’ambìto
ruolo di potenza dei mari, rendendo un po’ meno vago il concetto di Global Bri-
tain su cui insiste il governo conservatore del premier Boris Johnson. Senza con-
siderare la possibilità di garantirsi la benevolenza americana qualora divenisse
impellente contrastare energicamente le spinte separatiste delle nazioni celtiche
che abitano il regno.
giunta quasi al punto di rottura a causa degli assalti dei sommergibili tedeschi in
Atlantico e dello scontro con la micidiale fotta nipponica fra l’Indiano e il Pacifco.
Il canto del cigno della Marina britannica è stata la spettacolare vittoria ottenu-
ta sugli argentini nella guerra delle isole Falkland/Malvinas del 1982, che fu l’ultima
dimostrazione di forza di una fotta destinata a conoscere un brusco ridimensiona-
mento con la fne della guerra fredda a causa di tagli draconiani a bilancio, perso-
nale e mezzi. In tempi più recenti l’esigenza di dare la priorità alle operazioni ter-
restri in Afghanistan e in Iraq le ha assestato altri durissimi colpi, come la
168 radiazione anticipata della portaerei leggera HMS Invincible (2005), il ritiro dal
IL REGNO DISUNITO
servizio attivo del caccia imbarcato Harrier II (2010) e la vendita al Cile di tre fre-
gate Type-23 sottratte direttamente dalla spina dorsale della fotta (2006-8). L’uscita
di scena dei caccia e successivamente delle due portaerei superstiti HMS Ark Royal
(2011) e HMS Illustrious (2014, trasformata nel frattempo in una portaelicotteri) si
rivelò particolarmente gravosa poiché privò la Royal Navy di una capacità ambita
che possedeva dai tempi della Grande guerra, oltre che in grado di fare la differen-
za nelle gerarchie navali del pianeta.
Il decadimento non è stato soltanto numerico ma anche qualitativo e ha fnito
per intaccare il vantaggio tecnologico sui rivali e l’attitudine a innovare che sono
sempre stati dei punti di forza della Marina britannica. Valgano gli esempi dell’in-
venzione della carronata nel Settecento e dell’adozione della propulsione a vapore
nell’Ottocento, oppure della nascita della nave da battaglia con cannoni monocali-
bro al principio del Novecento e poi dell’introduzione del ponte angolato e delle
catapulte per le portaerei. Oggi invece è particolarmente emblematico il caso dei
sei possenti cacciatorpediniere classe Daring, navi che sono l’orgoglio e il vanto
della fotta grazie a capacità antiaeree d’avanguardia ma che pure appaiono fatal-
mente meno fessibili sul piano operativo rispetto a unità equivalenti in servizio
con altre Marine. Diversamente dagli incrociatori e dai cacciatorpediniere america-
ni, i Daring non sono in grado di ingaggiare bersagli terrestri né minacce balistiche
e hanno capacità antinave tutto sommato limitate per imbarcazioni che dislocano
oltre ottomila tonnellate: è un limite che ne vincola pesantemente le possibilità
d’impiego. Dettaglio di non poco conto per una fotta divenuta nel frattempo mol-
to più piccola rispetto al passato.
2. «Carrier Strike – Preparing for deployment», National Audit Offce, Ministry of Defence, 26/6/2020,
bit.ly/3i359Xh 169
EST! EST! EST! LA ROYAL NAVY RITORNA OLTRE SUEZ
dell’unità statunitense, che è di una generazione successiva e che per questo ne-
cessita di esami ben più articolati della controparte, lo scarto temporale destinato a
intercorrere fra l’ingresso in servizio delle due portaerei è un indicatore pregevole
del senso di urgenza che caratterizza il nuovo corso marittimo di Londra.
Oltre alle portaerei la nuova giovinezza della Royal Navy passa per almeno
altri quattro grandi progetti di rinnovo, uniti dal comune obiettivo di trasformare la
fsionomia della fotta per consentirle di recitare un ruolo di spicco nel XXI secolo.
Fra questi svettano i programmi per acquistare otto fregate antisottomarino Type-26,
cinque fregate multimissione Type-31, quattro sottomarini nucleari lanciamissili
balistici classe Dreadnought e tre grandi navi rifornitrici per il trasporto di munizio-
namento, cibo e altri materiali per le portaerei. Il loro costo complessivo ammonta
a oltre 43 miliardi di sterline. Se le nuove fregate dovranno modernizzare la spina
dorsale della fotta di superfcie ancora largamente composta da navi entrate in
servizio negli anni Novanta del Novecento, i sottomarini consentiranno al Regno
Unito di continuare a mantenere il proprio deterrente nucleare strategico basato in
mare mentre le unità logistiche inietteranno nuova linfa nella cantieristica naziona-
le, sfruttando conoscenze e infrastrutture accumulate in questi anni costruendo
proprio le due portaerei.
La riscoperta del mare è parte del tentativo di arrestare il declino geopolitico
del Regno Unito dopo la fne dell’impero, a maggior ragione da quando sul paese
aleggiano gli spettri della secessione scozzese e della riunifcazione irlandese risve-
gliati dal Brexit. Sotto questo proflo lo scorso marzo due rilevanti documenti stra-
tegici diffusi dal governo britannico – la Integrated review of security, defence,
development and foreign policy 3 e il Defence command paper 4 – ridefnivano il
ruolo della Gran Bretagna nel mondo dopo l’uscita dall’Ue e ne modulavano lo
strumento militare rilanciando proprio il Senior Service. Le visite all’ammiraglia
poco prima della partenza da Portsmouth da parte della regina Elisabetta II e del
premier Johnson hanno infne simboleggiato il completo sostegno all’impresa da
parte delle massime autorità del paese. Si è trattato di azioni che si pongono in
perfetta continuità con la tradizione inglese per cui le Forze armate sono uno stru-
mento per l’affermazione del Regno Unito nel mondo.
4. Rotta, esercitazioni in mare e interazioni terrestri del gruppo del Queen Eli-
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zabeth dicono molto a proposito degli attuali interessi strategici di Londra.
Durante il transito nel Mediterraneo la portaerei ha colto l’occasione di dare
sfoggio della sua potenza bellica colpendo obiettivi dello Stato Islamico in Siria con
i caccia imbarcati di quinta generazione F-35B, mentre due unità venivano distac-
cate alla volta del Mar Nero per sfdare le pretese egemoniche russe nel bacino e
provocare l’irata reazione del Cremlino per essersi spinte tanto a ridosso della Cri-
3. «Global Britain in a Competitive Age: the Integrated Review of Security, Defence, Development and
Foreign Policy», Cabinet Offce, 16/3/2021, bit.ly/2VbjpUQ
4. «The Defence Command Paper Sets out the Future for our Armed Forces», Strategic Command,
170 23/3/2021, bit.ly/3zDwdCB
IL REGNO DISUNITO
Zona marina Zona di separazione Acque territoriali Flussi di navigazione Punta Doncella
interdetta al volo di Gibilterra Linee di base
Limite d’equidistanza virtuale (3 miglia nautiche)
Base navale
Rota americana
Zahora S P A G N A
Capo
Trafalgar Algeciras GIBILTERRA (GB)
Windy Hill
Punta de la Peña (stazione radar)
Oceano
Tarifa
Atlantico
Punta Tarifa Mar
Mediterraneo
mea. Oltre a palesare la fera postura antirussa del governo di Sua Maestà nelle
stesse ore in cui i leader di Francia e Germania si dicevano disposti a incontrare il
presidente russo Vladimir Putin 5, le manovre eusine e il passaggio nel mare di
mezzo hanno segnalato in maniera incontrovertibile la volontà del regno di torna-
re protagonista in uno spazio reputato fondamentale per la sua proiezione verso
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l’Indo-Pacifco. Quest’ultima, difatti, non può prescindere dall’accresciuta presenza
militare britannica anche nel fu mare nostrum e nei bacini attigui, specialmente se
ciò consente a Londra di ambire al controllo di un settore cruciale dell’impero dei
mari americano verso cui Washington destina meno risorse che in passato. In tale
ottica, Londra punta molto sul rafforzamento dei rapporti con i partner locali me-
diante le esercitazioni militari e le intense attività di diplomazia navale condotte
dalle navi del Csg21 fra Gibilterra e Suez. Appartengono al primo novero le mano-
5. «France, Germany propose EU summit with Russia’s Putin, diplomats say», Reuters, 23/6/2021, reut.
rs/3i4z2GK 171
EST! EST! EST! LA ROYAL NAVY RITORNA OLTRE SUEZ
vre di Steadfast Defender con gli alleati Nato al largo del Portogallo, quelle di
Gallic Strike con la Marine Nationale a ridosso di Corsica e Sardegna, infne di
Falcon Strike 21 con le Aeronautiche italiana e israeliana sui cieli di Tirreno e Ionio.
Al secondo, invece, la successione di visite per celebrare la nuova potenza della
Royal Navy e l’amicizia della Gran Bretagna nei porti di Augusta e Messina (Italia),
Bar (Montenegro), Istanbul (Turchia), Odessa (Ucraina), Batumi (Georgia), Limas-
sol e Larnaca (Cipro), Alessandria (Egitto), Haifa (Israele), Pireo e Baia di Suda
(Grecia).
Conclusa la fase mediterranea di Fortis, l’attraversamento del canale egiziano
ha proiettato il gruppo navale direttamente nell’Indo-Pacifco. Qui le portaerei in-
glesi sono assenti come forze stanziali da circa cinquant’anni, vale a dire da quan-
do furono decisi lo scioglimento della Flotta dell’Estremo Oriente (1971) e la radia-
zione della grande portaeromobili HMS Eagle (1972). Adesso l’arrivo della più
potente squadra mai messa in mare dalla Royal Navy è il segnale che la Gran
Bretagna vuole recuperare un ruolo di spicco anche in questo smisurato teatro
marittimo. Non sarà impresa facile: il ritorno a est di Suez si verifca in un frangen-
te in cui la competizione geopolitica fra le principali potenze del pianeta ha trova-
to proprio nel dominio marittimo una sua dimensione fondamentale. Dal Golfo
Persico a Aden, da Malacca a Taiwan e Tsushima, i mari e i passaggi che cingono
la pancia dell’Eurasia sono attraversati dalla tensione e le Marine locali riarmano a
ogni latitudine. Londra punta ad affermarsi radunando in primo luogo le nazioni
spaventate dall’ascesa della Cina, scommettendo su rapporti navali di prim’ordine
con alcune delle principali potenze d’area. È il caso del Giappone, che infatti è
stato il primo paese indo-pacifco a condurre delle esercitazioni antipirateria con il
Csg21 al largo del Corno d’Africa. Altre manovre seguiranno in Asia orientale, dove
i britannici avranno modo di interagire anche con le Marine di Stati Uniti, Francia,
Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud operando nel Mar delle Filippine. T§ky§
guarda con interesse all’arrivo della squadra inglese poiché in questi anni ha deci-
so di ricostruire la capacità portaerei della fotta allo scopo di contrastare l’asserti-
vità navale della Cina. A tale proposito sta modifcando due portaerei leggere
classe Izumo per imbarcare gli F-35B e, proprio come i britannici, ha chiesto ai
Marines americani di schierare i loro velivoli a bordo quando le unità saranno
pronte a uscire in mare.
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F-35B dei Marines sull’ammiraglia britannica e il fatto che nella sua scorta navighi
anche il cacciatorpediniere USS The Sullivans, che ne ha assunto le funzioni di di-
fesa aerea in occasione del transito nell’Oceano Indiano. La rapidità con cui la
Royal Navy ha potuto mettere in mare e poi mandare in missione la sua nuova
ammiraglia è anche il frutto della relazione privilegiata che vanta con la fotta Usa
– la quale dopo l’uscita di scena degli Harrier e della classe Invincible non ha mai
smesso di condividere esperienza e lezioni sul funzionamento delle portaerei e su
cosa occorra fare per operarle in maniera effcace.
task force più potenti, tenute in riserva nelle acque di casa. Oltre alle sopracitate
unità destinate all’Indo-Pacifco, è il caso dei pattugliatori dislocati in permanenza
nei Caraibi, alle Falkland e a Gibilterra – quest’ultimo con raggio d’azione esteso
dal Mediterraneo al Golfo di Guinea.
6. La Royal Navy uscita dalla guerra fredda era una fotta focalizzata sulla lotta
antisottomarino in Artico e nell’Atlantico, dunque con la prospettiva di combattere
a ridosso delle isole britanniche per inchiodare sul Giuk gap ogni velleità offensiva
174 che avessero mostrato i mezzi subacquei di Mosca in caso di confitto.
IL REGNO DISUNITO
Trent’anni più tardi, la Marina di Sua Maestà è di nuovo una forza concentrata
sulla proiezione del potere aeronavale grazie al recupero della capacità portaerei,
anche se in un contesto radicalmente mutato rispetto alla precedente esperienza
novecentesca. Oggi come allora la competizione fra le principali potenze del pia-
neta è tornata ad accendersi, ma nel frattempo potere e infuenza globali della
Gran Bretagna sono scemati rispetto a un secolo fa. La trasformazione della fotta
britannica è comunque importante perché non riguarda solamente l’acquisizione
di nuove piattaforme portaeromobili, ma ha a che fare con la pluralità di mezzi,
sistemi e infrastrutture che si rendono necessari per renderle pienamente effcienti
(aerei, scorte, rifornitrici e strutture di sostegno terrestri) e che nel complesso con-
tribuiscono a farne una delle tre fotte del pianeta capaci di spingersi ovunque nel
mondo, privilegio condiviso con le Marine americana e francese.
Sono cambiamenti tanto più degni di nota poiché si verifcano in un momen-
to cruciale per il futuro del regno, appena uscito dall’Unione Europea e a rischio
implosione interna a causa dell’agitazione di scozzesi e nordirlandesi. Senza il
rinnovamento della Royal Navy, per il Regno Unito sarebbe semplicemente im-
pensabile darsi un nuovo orizzonte strategico guardando ai mari lontani, fgurarsi
pensare di reclamare un rango di spicco sulla scena mondiale. A tale proposito,
Londra dimostra di scommettere sulla portaerei non solo come piattaforma bellica
ma soprattutto in quanto aggregatore di forze e capacità alleate da impiegare al
servizio dei suoi interessi nazionali – opportunamente camuffati dietro formule
retoriche quali la necessità di difendere la libera navigazione in Asia orientale
contro l’oppressore di turno.
I prossimi mesi saranno decisivi per stabilire fno a che punto la Gran Bretagna
potrà ritagliarsi un margine d’azione autonomo a fronte di risorse nazionali comun-
que limitate, incognite di vario tipo (specie riguardo a scorte e basi) e con la ne-
cessità di mantenere la rotta attraverso mari che volgono a tempesta. Il che non è
necessariamente uno svantaggio. Le potenze dell’Indo-Pacifco che si oppongono
alle rivendicazioni di Pechino e che guardano con preoccupazione alla sua ascesa
hanno vissuto con un senso di attesa la spinta della Royal Navy verso il teatro. Lo
dimostra la gran quantità di esercitazioni navali effettuate dal Csg21 lungo la sua
rotta a est: dopo gli indiani nella Baia del Bengala, è stata subito la volta di thailan-
desi e malesi intorno allo Stretto di Malacca. Persino la Corea del Sud guarda con
interesse all’arrivo della portaerei Queen Elizabeth, visto che al pari dei nipponici
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175
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IL REGNO DISUNITO
manziere inglese John Le Carré, che ha insegnato a Eton per diversi anni, ha rac-
contato la mentalità da razza superiore, da Herrenvolk dei suoi alunni. I quali
tendevano a reputare pure i propri insegnanti come una sorta di servi. Un altro
frequentatore dell’istituto, George Orwell, noto dopotutto per non essere un gran-
de fan della dittatura (1984), si è invece goduto la permanenza a Eton.
Boris Johnson e David Cameron incarnano per molti aspetti le attitudini eto-
niane, in particolare una certa noncuranza perfno per le questioni più serie, come
il referendum sul Brexit del 2016 e la recente epidemia di coronavirus. Possono 177
INGLESE, TROPPO INGLESE: BORIS JOHNSON DISUNISCE IL REGNO
2. Più importanti, forse, dal punto di vista del futuro dell’Inghilterra e del Re-
gno Unito sono le persone che Johnson ammira e le sue idee sulla storia inglese.
Il suo grande eroe è Winston Churchill, da lui defnito «forse il più grande uomo
della storia del mondo». Mentre promuoveva la propria carriera politica, Johnson
ha pubblicato nel 2014 il libro celebrativo The Churchill Factor: How One Man
Made History. In esso, lodava lo statista per essersi rifutato di seguire «il fusso
degli eventi», cercando invece di «deviarne il corso» affnché si conformassero alle
sue idee, ai suoi ideali. Ecco perché, contro ogni pronostico, fu in grado nel 1940
di chiamare a raccolta «l’Inghilterra» – entrambi usano spesso questo toponimo
quando intendono l’intera Gran Bretagna – per affrontare, da sola, Hitler. Johnson
sembra aver adottato una churchillesca intransigenza sul Brexit, dichiarando nel
2019 che, accordo o non accordo, avrebbe portato il paese fuori dall’Unione Euro-
pea entro il 31 ottobre di quell’anno. «Meglio morto in un fosso» che chiedere una
proroga a Bruxelles, come poi è stato invece costretto a fare.
Un’altra cosa mutuata dal suo eroe è l’atteggiamento nei confronti dell’impero
britannico. Un celebre aforisma di Churchill del 1942 recita: «Non sono diventato il
primo ministro del re per presiedere alla liquidazione dell’impero britannico». Egli
credeva negli Stati Uniti d’Europa e li promosse attivamente, ma senza la presenza
della Gran Bretagna. La quale, diceva, è in Europa ma non è dell’Europa. Avrebbe
continuato a curarsi del proprio impero, mantenendo una relazione speciale con
gli Stati Uniti d’America. Churchill aveva una profonda fede nell’unità e nel destino
comune di popoli anglofoni, ciò che altri hanno preso a chiamare Anglosfera.
Queste idee separano nettamente l’Inghilterra dall’Europa, intesa come con-
tinente. L’euroscetticismo, cioè la sfducia nell’Europa e negli intrecci europei, è
da sempre un forte tratto inglese, risalente almeno al tempo dei Tudor, quando
l’Inghilterra si concepì come «la nazione protestante» per difendersi da potenze
cattoliche quali Spagna e Francia. La sconftta dell’Invincibile Armata nel 1588 –
un fortunato incidente – resta profondamente impressa nella memoria nazionale.
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Fu invocata ancora nel 1940, quando le «isole di Britannia bordate dal mare», nel-
le parole di Churchill, erano tutto ciò che si frapponeva tra la libertà e il fascismo
continentale.
Scozzesi e irlandesi, invece, non condividono questo euroscetticismo. Si sono
sempre sentiti più connessi al continente. Per l’Irlanda ciò ha molto a che vedere
con la maggioranza cattolica della popolazione. Anche quando la porzione fedele
alla Chiesa di Roma si separò dal Regno Unito nel 1921, l’Irlanda del Nord continuò
ad avere forenti rapporti con la terraferma. Pure gli scozzesi, prima della riforma
178 protestante, intrattenevano strette relazioni con la Francia, fonte di importante aiu-
IL REGNO DISUNITO
degli Esteri australiano, Gareth Evans, riteneva «bizzarra» l’idea secondo cui «un
autoesiliato Regno Unito troverà nuova rilevanza globale, addirittura un ruolo di
guida, quale centro dell’Anglosfera».
3. Il problema più importante però è che, se darà seguito a ciò che alcuni
chiamano Global Britain e altri (perlopiù critici) Empire 2.0, l’Inghilterra potrebbe
fnire per trovarsi sola. Questo è il vero signifcato del Brexit: ha esposto le profon-
de linee di faglia interne al Regno Unito. Storicamente, a comporlo sono quattro
nazioni: inglese, gallese, scozzese e irlandese. Ma non sono mai state alla pari fra 179
INGLESE, TROPPO INGLESE: BORIS JOHNSON DISUNISCE IL REGNO
loro. Gli inglesi sono sempre stati dominanti. Nel medioevo conquistarono i galle-
si e gli irlandesi. Non ci riuscirono mai con gli scozzesi, nonostante innumerevoli
tentativi, ma nel 1707 colsero al volo la loro debolezza per costringerli in un’unio-
ne, chiamandola Gran Bretagna. Nel 1801 essa divenne formalmente il Regno
Unito di Gran Bretagna e Irlanda quando la seconda perse il proprio parlamento e
venne governata direttamente da Londra.
Gli inglesi hanno mantenuto la propria preminenza nell’unione sino a oggi.
Adesso, l’Inghilterra contiene oltre l’80% del benessere del regno e l’86% della po-
polazione. Il governo è centrato sul parlamento di Westminster e tutte le grandi
istituzioni culturali – dalla National Gallery al British Museum, dalla Tate Gallery
alla Royal Opera House, fno al centro sportivo dello stadio di Wembley – si trova-
no a Londra, la capitale inglese. La città attrae, come ha sempre fatto, le persone
più brillanti e ambiziose da ogni angolo del paese. Nelle parole del grande scritto-
re ottocentesco Samuel Johnson, «la prospettiva più nobile che uno scozzese possa
mai avere è la grande strada che lo conduce in Inghilterra».
Il Regno Unito è sempre stato un edifcio sgangherato, messo assieme nel
corso dei secoli per infnite ragioni, economiche e strategiche. Non ha mai avuto
una costituzione. Il parlamento di Westminster è sovrano. Può legiferare come
crede per il resto del regno, limitato solo dai regolamenti interni, modifcabili a
piacimento. Questo Regno Unito non assomiglia minimamente a creature ottocen-
tesche come l’Italia unita o la Germania unita, formate in pochi drammatici anni
con costituzioni formali che regolano le relazioni fra le loro componenti.
Le tre cosiddette nazioni celtiche – i gallesi, gli scozzesi e gli irlandesi – hanno
storie molto diverse fra loro all’interno del regno e con gli inglesi che lo dominano.
I gallesi sono stati i primi a essere conquistati e, privi di una propria tradizione
statuale (non è mai esistita una monarchia gallese), sono stati velocemente assor-
biti nell’amministrazione, diventando semplicemente una provincia dell’Inghilterra
nel XVI secolo. Molti inglesi si sono trasferiti in Galles per viverci e lavorarci, con
il risultato che la popolazione è assai mista. È dunque molto diffcile che esso par-
li con una voce sola. E non stupisce che abbia seguìto gli inglesi sul Brexit.
Ma il Galles ha mantenuto una forte e specifca tradizione culturale, basata
sulla sopravvivenza della lingua, oggi insegnata in tutte le scuole. Quando il gover-
no di Tony Blair introdusse le radicali misure di devoluzione nel 1999, gli fu data
una propria assemblea. Ha ora la possibilità di sviluppare la propria identità nazio-
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4. La minaccia più immediata all’integrità del Regno Unito non viene però
dall’Irlanda del Nord, bensì dalla Scozia. Quest’ultima ha una lunga storia di indi-
pendenza, con una forte monarchia e un proprio parlamento. Ironicamente, fu un
suo re, Giacomo I, a unire nella propria persona i regni di Inghilterra e Scozia,
provando a creare una Gran Bretagna. Fallì, ma un secolo più tardi l’unione par-
lamentare del 1707 ebbe molto più successo. La Scozia ha condiviso i frutti della
rivoluzione industriale britannica e dell’impero britannico. Alcuni dei suoi fgli
sono arrivati alle posizioni apicali della cultura e della politica britanniche. Il pri-
mo direttore generale della Bbc, John Reith, era scozzese e nel governo laburista 181
INGLESE, TROPPO INGLESE: BORIS JOHNSON DISUNISCE IL REGNO
di Tony Blair non solo il primo ministro in persona lo era ma pure sette altri
membri del gabinetto.
La lunga luna di miele è giunta a conclusione. La supremazia industriale bri-
tannica non è più, l’impero è andato. I testardi scozzesi non scorgono più alcun
benefcio pratico nell’essere sottoposti al giogo inglese e vorrebbero mettere le
mani sul restante petrolio del Mare del Nord, senza condividerlo col resto del
paese. Il nazionalismo scozzese, che invoca a gran voce l’indipendenza, è netta-
mente cresciuto dagli anni Novanta. Negli accordi sulla devoluzione del 1998 è
stato ripristinato lo storico parlamento di Edimburgo. Ora a controllarlo è il seces-
sionista Partito nazionale scozzese (Snp). Nel 2014 al referendum sulla separazio-
ne il Sì è stato battuto di poco, ma due anni dopo è venuto quello sul Brexit, nel
quale quasi due terzi degli elettori hanno votato per restare nell’Unione Europea.
Siccome l’uscita dall’Ue ha nettamente cambiato le carte in tavola, l’Snp invoca un
secondo referendum per staccarsi dal Regno Unito. I sondaggi mostrano che sta-
volta potrebbe farcela.
Per ora, il governo britannico di Boris Johnson si è rifutato di autorizzare una
nuova consultazione. Il diritto di organizzarla deve essere approvato dal parla-
mento di Westminster. Ma è diffcile immaginare che l’esecutivo londinese possa
permettersi di ignorare a lungo i desideri della maggioranza del popolo scozzese.
La pressione per un secondo referendum diverrà schiacciante. Se e quando si
terrà, è probabile che gli scozzesi, come i nordirlandesi, votino per lasciare il Re-
gno Unito, privando quest’ultimo di oltre sette milioni di abitanti e di più di un
terzo del territorio.
«Come on, England!», ha twittato Boris Johnson appena prima della semifna-
le dell’europeo tra Inghilterra e Danimarca il 7 luglio scorso. Il premier è apparso
fuori dalla sua residenza londinese, al civico 10 di Downing Street, con un gigan-
tesco vessillo della rossa croce di San Giorgio su campo bianco. La simbolicità
non è sfuggita ai commentatori. «Alla faccia dell’unione», ha sottolineato Simon
Jenkins del Guardian, riferendosi all’adesione al nazionalismo inglese e all’evi-
dente scarsa cura per il Regno Unito, la cui bandiera, la Union Jack, deriva il
proprio nome da Giacomo I. L’Inghilterra ha vinto la partita, per la gioia delle
migliaia di tifosi trionfanti allo stadio di Wembley sventolanti il simbolo bianco-
rosso. Pure nella fnale, al di là della sconftta contro l’Italia, abbiamo assistito a
poco edifcanti scene nazionaliste.
Gli inglesi – la «gente segreta», il «popolo che non ha ancora mai parlato»,
come osservò G.K. Chesterton nel 1915 – sembra infne aver trovato la propria
voce. Che sia uno sviluppo positivo o negativo, per gli inglesi e per gli altri, resta
da vedere. Più chiaro invece che un ex etoniano, David Cameron, con il suo re-
ferendum sul Brexit, abbia iniziato iniziato un processo di disintegrazione del
Regno Unito. E che un altro ex etoniano, Boris Johnson, potrebbe completarlo.
Non Floreat, si potrebbe pensare, ma Pereat Etona!
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183
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IL REGNO DISUNITO
L’INTELLIGENCE
DI SUA MAESTÀ
CONTRO LA SCOZIA di Luca MAINOLDI
Preoccupati dalla possibile secessione, gli 007 minacciano di
isolare il territorio scozzese mentre screditano l’Snp e i suoi leader.
Il caso degli indipendentisti manipolati e le manovre di russi e
cinesi. Che succede se di Edimburgo si occupa l’MI6?
studio già citato, ricercatore presso lo Scottish Centre for Crime and Justice Re
1. Cfr. C ATKINSON, «The Scottish MI5 station will change to MI6. And you know what MI6 does! Un
derstanding the hidden politics of intelligence in Scotland’s independence referendum debate», The
Scottish Journal of Criminal Justice Studies, vol. 21, ottobre 2015.
2. La frase è di un anonimo partecipante ai lavori poi sfociati nello studio predetto, che ha così rias
sunto lo spirito presente nei servizi segreti britannici (MI5 e MI6) riguardo all’indipendenza scozzese.
«Secondo una battuta ricorrente negli ambienti dell’intelligence, in caso di indipendenza la stazione
scozzese dell’MI5 sarebbe assegnata all’MI6. E si sa cosa fa l’MI6», ivi, p. 13. In base all’Intelligence
Services Act 1994, gli agenti dell’MI6 sono autorizzati a commettere crimini all’estero, ovviamente
anche in una Scozia indipendente. 185
L’INTELLIGENCE DI SUA MAESTÀ CONTRO LA SCOZIA
3. Cfr. L. MAINOLDI, «Five Eyes, la famiglia delle anglospie», Limes, «Brexit e il patto delle anglospie», n.
6/2016.
4. Cfr. C. ATKINSON, op. cit., p.16.
186 5. Citata in K. MCKENNA, «Would independent Scotland have its own spies?», The Observer, 8/4/2014.
IL REGNO DISUNITO
6. Cfr. J. KIRKUP, «MI5 plans Scottish base to target terrorists», The Scotsman, 20/1/05.
7. Cfr. K. MCKENNA, op. cit. 187
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188
FOR YOUR EYES ONLY
SVEZIA
ESTONIA
1-REP. CECA ITALIA LETTONIA
2-SVIZZERA LITUANIA
3-AUSTRIA GERMANIA POLONIA
4-UNGHERIA BELGIO 1
5-CROAZIA 3 ROMANIA
LUSSEMBURGO 2 5 4
6-SPAGNA BULGARIA
Norvegia 7-PORTOGALLO ITALIA
7 6 TURCHIA
REGNO
UNITO GRECIA
Danimarca
CANADA Paesi Bassi
Francia MONGOLIA
L’INTELLIGENCE DI SUA MAESTÀ CONTRO LA SCOZIA
sede scozzese dell’MI5 non si trova lontano dalla statua di La Pasionaria, al secolo
Dolores Ibárruri, storica leader repubblicana e comunista nella guerra civile spagno
la, eretta sulle banchine del fume Clyde per «onorare i volontari scozzesi caduti nel
confitto».
Una Scozia indipendente segnata da una radicale politica di sinistra sarebbe
considerata una minaccia alla sicurezza non soltanto di Londra ma pure di Washing
ton, spaventata dalla prospettiva di «una Cuba europea nella Nato» 8. Una chiamata
alle armi degli 007 sul Tamigi ai colleghi sul Potomac, tanto più che «vi sono dozzine
di scozzesi nella comunità d’intelligence britannica e nel corpo diplomatico, alcuni
dei quali in caso di indipendenza nutriranno sentimenti nazionalisti» 9. Pronti, ancora
secondo The Observer, «a diventare agenti dormienti all’interno delle agenzie inglesi,
fornendo segreti alla madrepatria qualora la loro coscienza lo imponesse».
Preoccupazione apparentemente non condivisa dal governo di Boris Johnson,
che ha nominato a capo dell’MI5 Ken McCallum, scozzese laureato in matematica
all’Università di Glasgow che si è fatto le ossa nell’Ulster e che è stato responsabi
le della sicurezza alle Olimpiadi di Londra del 2012.
Preoccupazione percepita invece dai nazionalisti scozzesi, terrorizzati dalle
infltrazioni nelle proprie fle degli agenti di Sua Maestà.
Tanto più che il Partito nazionale scozzese (Snp) è divenuto oggetto di una
campagna di rivelazioni sul suo passato, prima flonazista e poi di sospette simpa
tie maoiste. Prove uscite direttamente dagli archivi dei servizi, nel tentativo di scre
ditare i nazionalisti e allo stesso tempo di avvertirli («vi abbiamo sempre tenuto
d’occhio»). Dai documenti ora disponibili presso il National Records of Scotland è
emerso che William Wolfe, leader dell’Snp negli anni Settanta, era stato attenziona
to nel decennio precedente per il suo coinvolgimento nella ScotlandChina Asso
ciation, ritenuta vicina a Pechino 10. Ancora più infamanti i sospetti afforati nei
confronti di Arthur Donaldson, capo dell’Snp dal 1960 al 1969, accusato da docu
menti dell’MI5 d’aver lavorato per la nascita di un governo flonazista in caso di
invasione tedesca della Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale. Storia
già nota ma rilanciata nel 2020 da The Express in modo eclatante 11.
«Il rapporto dell’intelligence afferma che l’ex leader dell’Snp ha cospirato per
istituire un governo in stile Vichy, con sé stesso come quisling scozzese. Nel 1941
Donaldson avrebbe comunicato a uno stretto confdente, in realtà un agente bri
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tannico, che una rete di simpatizzanti nazisti stava pianifcando di minare lo sforzo
bellico». In queste poche righe si rimarcano i principali messaggi inviati dall’intelli
gence di Sua Maestà: gli indipendentisti sono infdi e pesantemente infltrati dai
servizi. Così si scredita l’avversario al cospetto dell’opinione pubblica interna e
8. Ibidem.
9. Tra questi si dovrebbe includere James Bond, scozzese per parte di padre, il cui primo indimenti
cabile interprete, Sean Connery, era un ardente sostenitore della causa nazionalista scozzese.
10. Cfr. M. HANNAN, «SNP leader was spied on by British state documents reveal», The National,
10/4/2019.
11. Cfr. M. BET, «SNP leader’s “secret Nazi plot” laid bare by bombshell MI5 dossier», The Express,
25/7/2020. 189
L’INTELLIGENCE DI SUA MAESTÀ CONTRO LA SCOZIA
mondiale, mentre si semina confusione e sospetti nelle sue fle. Guerra psicologica
da manuale.
Tanto più che l’MI5 ha lanciato apertamente una campagna di reclutamento
nazionale estesa ovviamente alla Scozia 12. Così smentendo indirettamente chi
avanza timori su talpe nazionaliste all’interno degli apparati, mentre si alimenta lo
spettro dell’infltrazione nelle fle dell’Snp.
«Non ho dubbi che ci siano alcuni nell’Snp che trasmettono informazioni
alle agenzie britanniche, come l’MI5 e lo Special Branch. È sempre stato così. Ma
la sensazione tra alcuni sostenitori dell’indipendenza è che le spie britanniche
nel partito non siano più semplici canali per passare informazioni. Ora si sostie
ne che alcuni agenti britannici abbiano raggiunto posizioni così elevate da in
fuenzare la politica del partito, come l’immediato perseguimento dell’indipen
denza, obiettivo tutt’altro che urgente» 13, scrive nel suo blog Campbell Martin, un
ex parlamentare dell’Snp, divenuto critico per la linea «moderata» adottata dalla
dirigenza del partito.
Accuse probabilmente strumentali ma che non cadono nel vuoto. Nel corso
dei decenni i servizi di sicurezza britannici si sono dimostrati capaci di inserire
agenti e informatori nei ranghi di organizzazioni terroristiche ed estremiste 14 o
anche di movimenti come quello animalista 15.
Non sorprende quindi che la maggioranza delle forze politiche nel parlamento
scozzese abbia respinto il controverso disegno di legge in discussione a Westmin
ster, che concede immunità agli agenti infltrati in organizzazioni terroristiche o
criminali per commettere delitti anche gravi nell’ambito dell’attività di raccolta in
formativa. Il Covert Human Intelligence Sources Bill è stato rigettato dall’aula del
parlamento di Edimburgo nel gennaio di quest’anno con il voto dei deputati del
l’Snp, dei laburisti, dei verdi di Scozia e dei liberaldemocratici 16. Questo perché,
rientrando gli organi di polizia nei poteri devoluti, il disegno di legge richiede il
consenso legislativo del parlamento scozzese per essere applicato in Scozia.
Già nel 2015 la notizia di un cambiamento delle regole interne all’Agenzia per
lo spionaggio elettronico, volto a permettere l’intercettazione dei membri dei par
lamenti di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, aveva suscitato le forti proteste di
Nicola Sturgeon, che lamentava una differenza di trattamento rispetto ai membri di
Westminster, le cui comunicazioni rimanevano al di fuori della portata dei servizi 17.
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Segno di un’attenzione dell’intelligence verso le nazioni celtiche del regno, una di
12. Cfr. S. LAW, «MI5 is looking for new recruits – here’s how Scots can apply», Daily Record 29/7/20;
A. CLARK, «MI5 is hiring – how to apply if you live in Edinburgh», Edinburgh Live, 29/7/2020.
13. Cfr. British spies in the Snp, campbellmartin.blogspot.com, 16/9/2020, bit.ly/3iiCTPt
14. Sul ruolo giocato dagli infltrati dell’intelligence inglese nell’Ira e nello Sinn Féin per raggiungere
l’accordo di pace nell’Ulster sono stati pubblicati due libri con conclusioni opposte. A. EDWARDS,
Agents of Infuence Britain’s Secret Intelligence War Against the IRA, Newbridge 2021, Merrion Press;
T. LEAHY, The Intelligence War against the IRA, Cambridge 2020, Cambridge University Press.
15. Cfr. S. HATTENSTONE, M. KENNEDY, «Confessions of an undercover cop», The Guardian, 26/3/2011.
16. Cfr. S. CARRELL, «Scottish parliament rejects Westminster’s “spy cops” bill», The Guardian, 19/1/2021.
17. Cfr, S. CARRELL, S. MORRIS, I. COBAIN, H. MCDONALD, «Nicola Sturgeon asks whether UK agencies spied
190 on Scottish politicians», The Guardian 24/7/2015.
IL REGNO DISUNITO
3. Nelle vicende scozzesi si inseriscono gli storici nemici di Londra, come de
nuncia un recente rapporto presentato dal deputato scozzese Stewart McDonald,
responsabile del settore difesa dell’Snp a Westminster 20. «Russia, Cina e Iran sono
accusati in modo credibile d’aver tentato di distorcere l’ecosistema dell’informazio
ne nella vita pubblica scozzese, utilizzando una serie di piattaforme e media per
manipolare l’opinione pubblica. Queste campagne di per sé non creano sfducia o
divisione, ma sfruttano le fratture esistenti nella società e i sentimenti preesistenti»,
recita la prefazione.
Citando un rapporto di Facebook 21, McDonald afferma che la Repubblica Isla
mica avrebbe cercato di infuenzare il referendum del 2014 attraverso numerosi
social network. In particolare, l’iraniana Press Tv produsse articoli che accusavano
i servizi di Londra di usare mezzi illeciti per bloccare l’indipendenza scozzese 22. Gli
sforzi di Teheran, sebbene meno sofsticati di quelli russi, ricordano che «Stati po
tenzialmente ostili stanno cercando di manipolare i sentimenti dell’opinione pub
blica scozzese». E in caso di nuovo referendum la campagna iraniana potrebbe ri
prendere con vigore.
Così la russa Sputnik nel 2016 aveva aperto una sede a Edimburgo «con l’obiet
tivo di raccontare l’indicibile al pubblico scozzese e britannico» 23 – prima di chiu
derla lo scorso aprile per contenere i costi. «In Scozia il governo russo ha fatto
ampio uso delle sue piattaforme mediatiche, dando spazio a George Galloway e
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18. Willie MacRae era considerato un amico di Israele avendo contribuito da giurista a elaborare il
codice marittimo dello Stato ebraico. Cfr. Members of the Scottish National Party visit Rabin Park,
Keren Kayemeth LeIsrael, Jewish National Fund, 7/11/2016.
19. Cfr. T. GORDON, «Alex Salmond probe conspiracy theory about MI5 debunked», The Herald Scot-
land, 28/8/2018.
20. Cfr. S. MCDONALD, Disinformation in Scottish Public Life, stewartmcdonald.scot, giugno 2021.
21. Cfr. Threat Report: The State of Infuence Operations 2017-2020, Facebook, 1/5/2021.
22. Si veda J.M. MCCANN, «How MI5 and GCHQ are trying to subvert the Scottish independence mo
vement», Presstv.com, 25/2/20.
23. Cfr. «Russian news agency Sputnik sets up Scottish studio», Bbc News, 10/8/2016. 191
L’INTELLIGENCE DI SUA MAESTÀ CONTRO LA SCOZIA
Per quel che concerne la Cina, il rapporto getta luce sulla penetrazione di Pe
chino nelle università scozzesi attraverso gli Istituti Confucio. Citando il Times
spiega che «la Scozia ha la più alta concentrazione al mondo di Istituti Confucio
nelle sue università, tutti dotati di personale fornito e formato dai cinesi». «Benché
gli Istituti Confucio non siano impegnati in vere campagne di disinformazione, i
loro tentativi di distorcere il sentimento politico li rendono un attore chiave nella
cosiddetta guerra dell’informazione», afferma McDonald.
Per contrastare l’infuenza cinese e russa sul Web (e per promuovere i propri
interessi) il governo di Londra si è dotato della 77a brigata, struttura specializzata in
operazioni psicologiche, e dell’Integrity Initiative, rete di agenzie informative gui
data dall’Institute for Statecraft, associazione no proft registrata proprio in Scozia.
La sede scozzese dell’Integrity Initiative si trova in un edifcio semiabbandonato,
mentre quella reale è collocata in una lussuosa area londinese, dove risiedono altre
istituzioni legate all’establishment.
Londra affla le armi per contrastare le operazioni di infuenza avversarie vere
o presunte. Operazioni che nel teatro scozzese potranno essere utilizzate dall’intel
ligence di Sua Maestà per screditare i sostenitori dell’indipendentismo, accusando
li d’essere quanto meno manipolati dai nemici del Regno Unito e della stessa
Scozia. Il gioco di specchi è destinato a continuare a lungo.
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192
IL REGNO DISUNITO
L’ITALIA DI FRONTE
A GLOBAL BRITAIN di Germano DOTTORI
Con l’invio del meglio della sua flotta nell’Indo-Pacifico, Londra torna
sul palcoscenico della grande geopolitica. Il Regno Unito è anche
potenza mediterranea. E lo rimarrà persino in caso di secessione
scozzese o nordirlandese. Roma non deve remare contro gli inglesi.
3. Andiamo con ordine: gli inglesi sono 55 milioni. Dispongono della piazza
fnanziaria di Londra, così come di tutti gli asset che fanno della Gran Bretagna una
grande potenza: il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
il deterrente nucleare, la fotta e l’industria dei materiali d’armamento. Elementi di
hard power ai quali andrebbero aggiunte anche le reti informali dei club e delle as-
sociazioni transnazionali sorte nel Regno Unito, attraverso le quali valori, visioni e in-
teressi britannici vengono veicolati nel mondo. Nessuno di questi elementi verrebbe
meno in seguito all’eventuale secessione di Edimburgo o all’unifcazione irlandese.
Dal punto di vista geostrategico, la Royal Navy perderebbe la titolarità delle
basi dalle quali ha storicamente minacciato le linee di comunicazione della Germa-
nia e controllato le escursioni navali dei russi. Londra potrebbe però affttarle dietro
congruo compenso agli scozzesi. Inoltre, persino rinunciandovi, l’Inghilterra con-
serverebbe comunque il controllo delle infrastrutture di cui si è valsa per conqui-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
stare a suo tempo il primato sui mari. È da Portsmouth, infatti, che Londra proietta
la propria potenza navale verso il resto del pianeta, come prova la circostanza che
sia il porto in cui sono ormeggiate – peraltro raramente, dato che stanno sempre
in giro a esercitarsi – le due portaerei classe Queen Elizabeth.
Quanto alla City, non vive certamente di asset scozzesi o irlandesi e la stessa
revisione strategica appena ultimata dal governo britannico evidenzia come l’im-
2. In realtà, il nostro presidente della Repubblica è stato salutato all’arrivo dal premier britannico Boris
Johnson, mentre è più incerta la ricostruzione di quanto sarebbe accaduto al termine del match con
il duca di Cambridge, William, secondo nella linea di successione al trono. Cfr. «Euro 2020, il principe
William via da Wembley senza salutare Sergio Mattarella: spunta il video», Il Tempo, 14/7/2021. 195
L’ITALIA DI FRONTE A GLOBAL BRITAIN
portanza della piazza fnanziaria londinese sia ritenuta un fattore di potenza rile-
vante per il Regno Unito 3, come del resto lo sono alcuni media d’impatto globale,
la cui infuenza non pochi politici italiani hanno già sperimentato tanto a proprio
favore quanto a loro svantaggio 4.
Quanto a noi, siamo un paese immerso nell’acqua salata, che muove buona
parte delle proprie esportazioni e riceve il grosso delle proprie importazioni via
mare. Da un punto di vista strettamente militare, l’Italia non ha mai tratto alcun
vantaggio dal contrapporsi alle più forti potenze navali del momento. E il Regno
Unito non solo è tornato a esserlo, ma ha dato segno di volerlo far comprendere a
tutti i propri interlocutori. Tale circostanza non è trascurabile, specialmente in un
momento storico nel quale l’alleato americano tira i remi in barca e lascia ai suoi
partner il compito di occuparsi dei teatri ritenuti ormai secondari, come sono molti
fra quelli di nostro maggior interesse nazionale, tutti situati nel cosiddetto Medi-
terraneo allargato dal quale Washington sembra volersi disimpegnare. Inimicarsi
Londra avrebbe ancora meno senso sul piano fnanziario, dal momento che il no-
stro paese dipende dai mercati e dalla loro opinione per servire il proprio ingente
debito pubblico e potrebbe pertanto pagare a caro prezzo, presumibilmente sotto
forma di attacchi reputazionali più o meno mirati, azioni di disturbo che fossero
giudicate irritanti a Downing Street o a Whitehall.
Esiste un motivo ulteriore che dovrebbe suggerire di non cedere alla tentazio-
ne di associarsi al gruppo di paesi che desidera l’indebolimento del Regno Unito.
In questo momento, la leadership di Mario Draghi assicura all’Italia una posizione
più forte nel contesto europeo. Per varie ragioni, le principali delle quali sono il
prestigio personale acquisito negli anni trascorsi alla testa della Bce, la rete dei
rapporti stabiliti e, soprattutto, le forti entrature di cui il nostro premier dispone
nell’establishment economico, accademico e politico americano. Questa particola-
re condizione attenua temporaneamente la debolezza del nostro paese in Europa,
anche perché coincide con il tramonto della lunga èra merkeliana e con una fase
di accentuate diffcoltà per il presidente francese Emmanuel Macron, che è atteso
da una diffcile campagna elettorale il prossimo anno. Non ne rimuove tuttavia le
cause di fondo, che risiedono nella fragilità istituzionale italiana e nel declino cui è
andato incontro il sistema produttivo del Belpaese negli ultimi trent’anni.
Per compensare la propria inferiorità rispetto ai vagoni di testa del convoglio
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comunitario, l’Italia ha sempre avuto bisogno di equilibratori esterni. Gli Stati Uniti
sono stati quello principale: al punto che non è esagerato affermare che almeno
durante la guerra fredda Washington abbia difeso Roma non soltanto dal blocco
guidato dall’Unione Sovietica, ma altresì e forse soprattutto da alcuni dei suoi part-
ner e alleati europei, che avevano tentato di conservare almeno in parte l’infuenza
e la potenza di cui disponevano nel Mediterraneo prima del 1939. Nel 2002, in uno
3. Global Britain in a competitive age. The Integrated Review of Security, Defence, Development, and
Foreign Policy, Hm Government, marzo 2021.
4. Particolare risonanza ebbe una copertina dell’Economist che defniva Berlusconi «unft» a governare
196 l’Italia.
IL REGNO DISUNITO
scenario sensibilmente mutato dagli attacchi jihadisti dell’11 settembre, Silvio Ber-
lusconi, allora presidente del Consiglio, immaginò di allargare questo schema per
ricomprendervi anche la Federazione Russa che si credeva ormai alleata dell’Occi-
dente almeno nella lotta al terrorismo transnazionale.
Ma da allora sono accadute molte cose. In particolare, la diminuzione dell’in-
teresse americano per il Mediterraneo allargato e la crescita delle tensioni con
Mosca, che ormai persegue in Libia interessi divergenti rispetto ai nostri, hanno
ridotto i margini disponibili per compensare la nostra debolezza nei confronti di
Francia e Germania giocando di sponda con Stati Uniti e Russia. Proprio per que-
sto motivo, nella misura in cui divenisse un dato strutturale, il ritorno di Londra
potrebbe rappresentare un’alternativa in grado di mitigare le conseguenze del
disimpegno di Washington e dell’assertività russa. Di qui, l’interesse a non anta-
gonizzare il Regno Unito e a non assecondare le azioni di disturbo che i nostri
alleati europei dovessero intraprendere per indebolire gli inglesi. Vanno invece
individuate le possibili sinergie, tenendo sempre presente il realismo che tradizio-
nalmente ispira l’azione politico-militare di Londra.
Tutto quanto precede, naturalmente, non signifca che la relazione italo-bri-
tannica sia equilibrata o facile da gestire. Non lo è, non lo è mai stata né potrà
esserlo nel prossimo futuro. È infatti un rapporto tra paesi di peso, status e capa-
cità del tutto diversi, che ci vede relegati al ruolo di junior partner esposto all’in-
fuenza di Londra senza essere in grado di esercitarne una di qualche rilievo sulla
Gran Bretagna, che tra l’altro dispone in Italia di proprie reti e di un signifcativo
patrimonio di simpatie.
Sulla base di questo dato di fatto, è auspicabile che Roma monitori attenta-
mente quanto il Regno Unito fa nelle aree geopolitiche per noi di maggiore inte-
resse nazionale, per comprenderne al meglio aspirazioni e obiettivi e per cercare
di armonizzarli con i nostri. Nel 2011 abbiamo sofferto la scelta britannica di as-
sociarsi a Stati Uniti e Francia nel muovere guerra al regime libico del colonnello
Muammar Gheddaf. Ma successivamente, proprio in Libia, Italia e Gran Bretagna
si sono trovate spesso dallo stesso lato, come è in particolare accaduto dopo gli
accordi di 3aœøråt, quando furono unità militari inglesi e italiane a permettere
l’arrivo a Tripoli dell’allora capo del neoistituito Governo di accordo nazionale,
Fåyiz al-Sarråã.
Pertanto quello che qui si suggerisce non costituisce affatto un esercizio im-
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possibile, è piuttosto una linea d’azione che ci conviene. E che vanta precedenti
importanti: Cavour si servì infatti dell’aiuto francese per acquisire al Piemonte il
grosso dell’Italia settentrionale, ma poi volse a nostro vantaggio l’interesse britanni-
co a creare un equilibrio di potenza nel Mediterraneo, favorendo il completamento
dell’unifcazione nazionale italiana anche per creare un contrappeso a Parigi.
La nostra stessa posizione geografca ci rende nuovamente rilevanti per chi è
tornato a vedere nelle linee di comunicazione mediterranee una retrovia di rilevan-
za strategica lungo le rotte che conducono all’Indo-Pacifco – quelle che in parte,
almeno fno a Gibuti e a Aden, solchiamo anche noi. 197
L’ITALIA DI FRONTE A GLOBAL BRITAIN
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198
IL REGNO DISUNITO
LA LEZIONE
CATALANA di Elisenda CASANAS-ADAM
Lo scontro Madrid-Barcellona del 2017 insegna molto. A Londra, che
conculcare l’indipendentismo alla lunga lo rafforza. A Edimburgo,
che senza un iter legittimo e legale si rischia il deragliamento. Dopo
il voto del 6 maggio, la palla è di nuovo al centro.
1. A
LLA VIGILIA DELLE ELEZIONI
scozzesi del 6 maggio 2021, la possibilità di un altro referendum sull’indipendenza
della Scozia è stata al centro del dibattito politico e costituzionale. Il Partito na-
zionale scozzese (Snp), indipendentista, ha pubblicato un piano in undici punti
secondo il quale se fosse rimasto al governo – come effettivamente è avvenuto – e
ci fosse stata una maggioranza parlamentare favorevole, avrebbe richiesto all’ese-
cutivo britannico un ordine ex sezione 30 (dello Scotland Act del 1998, che auto-
rizza il parlamento scozzese a legiferare in aree di norma riservate a Westminster,
n.d.t.) per blindare la legalità del referendum e consentirgli di procedere su base
negoziale. Tuttavia, il piano dell’Snp prevede anche che se il governo di Londra si
rifutasse di concedere l’ordine Edimburgo indirebbe ugualmente il referendum; a
tal fne, ha pubblicato un’apposita bozza di legge.
Londra ha ribadito più volte che non avrebbe concesso un ordine ex sezio-
ne 30, a prescindere dall’esito del voto, sottolineando inoltre che se il governo
scozzese legiferasse in materia referendaria lo farebbe illegalmente. Una recente
interpellanza privata per chiarire se il parlamento scozzese abbia la competenza
per legiferare in modo unilaterale sul referendum indipendentista non ha avuto
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buon esito, in quanto la Camera esterna della Court of Sessions (la Corte suprema
civile di Scozia) ha affermato 1 che la questione è ancora ipotetica, accademica e
prematura. Giudizio confermato 2 dall’altra Camera dell’organismo, quella interna.
Questo sembra preludere a un esito molto diverso da quello del 2014, quando
la prima consultazione sull’indipendenza fu svolta in base all’accordo di Edimbur-
1. «Opinion of Lady Carmichael in the cause: Martin James Keatings against the Advocate General for Scotland
and the Lord Advocate», Outer house, Court of session, 5/2/2021, urly.it/3d-g8
2. «Opinion of the Court delivered by Lord Carloway, the Lord President in the Reclaiming Motion by Martin
James Keatings against the Advocate General for Scotland and the Lord Advocate», First Division, Inner House,
Court of Session, 30/4/2021, urly.it/3d-gc 199
LA LEZIONE CATALANA
l
GRECIA 19
C -25 Manresa
el
E-804 Saragozza Lleida Terrassa
rg
1236 Mataró
U
’
d Badalona
F. AP-2 a Barcellona
Ebr Pl 2.958.040 teu nel 2020 (-11% sul 2019),
A-2 o 858 mila passeggeri nel 2020 (-81,5% sul 2019)
A-2
1201
52,6 milioni di passeggeri nel 2019 – 12,7 milioni nel 2020
Verso Madrid Reus
Tarragona
Porti
CATALOGNA AP-7
Aeroporti
SPAGNA M a r M e d i t e r r a n e o
Ferrovia Alta velocità (AVE)
Strade principali
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CHE LINGUE SI PARLANO IN CATALOGNA
Perpignano
F R A N C I A
Castigliano 3.366
ANDORRA
Catalano 2.010
Altre lingue 197,9 58,8%
54,1%
Catalano e castigliano 176,4 ALT PIRINEU
I ARAN Gerona/
Arabo 140,3 59,6% Girona
COMARQUES
Romeno 70,5 CENTRAL COMARQUES
Galiziano 49 C a t a l o g n a GIRONINES
Berbero 34,4 Manresa
Bielorussia
Irlanda
Galles Regno Rep. Popolare
Unito Paesi Polonia
di Luhans’k
Bassi Germania
Ucraina
Fiandre Rep. Popolare
Belgio Slesia di Donec’k
Luss. Rep. Ceca
Slovacchia Transnistria
Oceano Atlantico Baviera Moldova
Austria Minoranze ungheresi
Francia in Slovacchia, Romania
Ungheria
Svizzera e Ucraina
Alto Adige/Südtirol Slovenia Romania Mar Nero
Pa Croazia Vojvodina
e se Veneto
Bas Rep. Srpska
Galizia co Bosnia Serbia
Erz. Bulgaria
Italia Mont. Kos.
Corsica M.D.N.
Portogallo
Catalogna Albania Turchia
Spagna
Sardegna Grecia
M a r M e d i t e r r a n e o
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L’AFFERMAZIONE DELLE NAZIONALITÀ Nazionalità che hanno ottenuto
l’indipendenza nel XX secolo
E DELLE MINORANZE IN EUROPA
NEL XX SECOLO Le principali minoranze
nazionali in Europa
astenessero dal contribuire alle deliberazioni che assicurino un iter decisionale ben
informato, alla fne tutto il procedimento potrebbe essere tacciato di illegittimità. La
percepita legittimità del referendum è fondamentale per il riconoscimento del suo
esito, in ambito interno e internazionale. Il caso catalano, in cui Madrid ha conte-
stato fn dall’inizio la validità del voto, sta lì a dimostrarlo. Nel caso della Scozia,
tuttavia, il boicottaggio sarebbe una scommessa azzardata da parte unionista: se il
referendum fosse dichiarato pienamente legale, in assenza di una campagna ben
organizzata a difesa dello status quo potrebbero infatti registrarsi un’alta affuenza
e una vittoria dell’indipendenza.
In questa evenienza, o se comunque vincessero gli indipendentisti in un re-
ferendum valido, la dissoluzione dell’unione richiederebbe atti legislativi del par-
lamento di Westminster. Come nel 2014, il referendum avrebbe valore consultivo
e in caso di azione unilaterale niente garantisce che il governo britannico accetti il
risultato. Tuttavia, anche se la Corte suprema affermasse che il parlamento scozze-
se ha facoltà di indire un referendum, questo andrebbe comunque negoziato con il
governo di Londra e da esso vidimato, tanto nel suo svolgimento quanto nei passi
successivi. Il mancato appoggio internazionale al referendum catalano evidenzia i
rischi del tentare di ottenere l’indipendenza in aperta inottemperanza dei requisiti
costituzionali interni. Nel caso scozzese, comunque, l’esito chiaramente favorevole
all’indipendenza di un referendum legalmente organizzato metterebbe verosimil-
mente sotto pressione il governo britannico, che faticherebbe a giustifcare il di-
sconoscimento del voto.
Se invece la Corte suprema decretasse che il parlamento scozzese non è
competente in materia, cosa potrebbe fare Edimburgo? È stato ventilato un piano
B che consiste nel considerare le elezioni parlamentari alla stregua di un referen-
dum, o almeno come mandato al governo scozzese per intavolare negoziati con
quello britannico ai fni dell’indipendenza. Gli indipendentisti catalani avevano
anche tentato di svolgere un plebiscito per l’indipendenza nel 2015, ma non fu ri-
tenuto valido dai partiti unionisti o da altri Stati dell’Unione Europea. Sembra che
in Scozia accadrebbe lo stesso, dato che il recente dibattito sul sistema elettorale 3
ha evidenziato la differenza tra rappresentanza parlamentare e referendum, il cui
esito fnale rispecchia in modo aritmetico il principio «una testa, un voto». È altresì
diffcile immaginare che il governo britannico accetti di negoziare l’indipendenza
scozzese dopo una consultazione cui abbia negato la legittimità di un ordine ex
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sezione 30.
Ciò non vuol dire tuttavia che il governo scozzese manchi di alternative. Seb-
bene una maggioranza flo-indipendentista a Holyrood non potrebbe obbligare
Londra a emettere l’ordine suddetto, il precedente del 2014 implica che il governo
britannico non possa rifutarlo indefnitamente, specie senza una valida giustifca-
zione. L’argomentazione iniziale del governo britannico secondo cui la questione è
stata risolta una volta per tutte dal referendum del 2014 (in cui una risicata maggio-
ranza si espresse per restare nel Regno Unito, n.d.t.) è stata messa in discussione,
dato il notevole cambiamento di scenario indotto dal Brexit. Più recentemente 201
LA LEZIONE CATALANA
C A T A L U N Y A
Lleida
Barcellona
M a r M e d i t e r r a n e o
S P A G N A
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Alacant SARDEGNA
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3. D. KLEMPERER, «A gameable electoral system? The Additional Member System in Scotland», The Constitution
202 Society, 21/4/2021.
IL REGNO DISUNITO
tenere un secondo referendum al centro del dibattito politico e per premere con
forza su Londra affnché lo conceda. La Catalogna vale qui da monito per le au-
torità britanniche: anni di referendum sull’indipendenza negati da Madrid, anche
con la forza, non sono valsi a ridurre il sostegno alla causa indipendentista nella
regione o a rimuovere la questione dal centro del dibattito politico e costituzionale.
Le recenti elezioni catalane hanno prodotto di nuovo una maggioranza favorevo-
le all’indipendenza, il cui governo continuerà verosimilmente a lavorare per una
nuova consultazione.
Niente esclude dunque che la maggioranza uscita dal voto scozzese del 6
maggio non intraprenda il cammino verso un secondo referendum. A leggi vigenti
e in assenza di un accordo con il governo britannico, è pienamente legale e legitti-
mo per Edimburgo procedere in tal senso: questo sembra l’unico modo di risolvere
la questione legale concernente la competenza del parlamento scozzese. Se, come
probabile, la legge scozzese sul referendum fosse sottoposta alla Corte suprema,
la decisione di quest’ultima determinerebbe il percorso legale che il referendum
dovrà seguire in futuro. Niente lascia intendere che il governo scozzese rifutereb-
be di seguire le indicazioni della Corte. Qualunque esse siano, pare comunque
diffcile che un parlamento scozzese maggioritariamente incline all’indipendenza
possa essere ignorato.
Le preoccupazioni su un possibile referendum illegale sono pertanto infonda-
te, o almeno premature. Tuttavia, sebbene l’attuale contesto scozzese appaia per
molti aspetti diverso da quello catalano del 2017, sono numerose le lezioni che
Londra e Edimburgo possono apprendere dalla Catalogna.*
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* Una prima versione di questo articolo è apparsa sul sito della Constitution Society (consoc.org.uk). Le opinioni
qui espresse pertengono strettamente all’autrice e non impegnano in alcun modo la Constitution Society. 203
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IL REGNO DISUNITO
BOTSWANA-ZIMBABWE
IL MURO DELLA DISCORDIA di Lorenzo BRUNI
Da anni Gaborone mantiene una barriera al confine con il derelitto
vicino. Scopo ufficiale: proteggere il bestiame dall’afta epizootica.
Fine reale: bloccare l’immigrazione. L’impatto socioecologico. Gli
(inconfessabili) interessi europei. Il Sudafrica ringrazia dell’idea.
1. I
L «MURO DI CONFINE», L’IDEA CHE LA
linea di contatto fra due Stati vada fortifcata e resa impenetrabile per sventare o
ridurre al minimo le minacce esterne, è strumento geopolitico particolarmente at-
tuale. Da sempre tale politica impronta le relazioni fra entità in contrasto, come nei
casi della Grande muraglia cinese o del Vallo di Adriano. Negli ultimi sessant’anni,
però, l’edifcazione di stabili barriere di confne è aumentata in modo esponenzia-
le: dopo il crollo del Muro di Berlino, barriera geopolitica per antonomasia, si sono
moltiplicate le aree separate in maniera stabile (spesso violenta) da muraglie, reti-
colati e berme. Ad alcune barriere note – il muro di Tijuana tra Stati Uniti e Messi-
co; la barriera che separa Israele e Palestina – se ne aggiungono molte altre, meno
conosciute ma non meno importanti, per un numero complessivo che si avvicina
al centinaio.
Tra queste la recinzione in flo spinato elettrifcato costruita tra Botswana e
Zimbabwe a partire dal punto di contatto più settentrionale – dove il fume Zam-
besi divide i due paesi – e procedendo verso sud, lungo la linea di confne. Lo
sbarramento, che si sviluppa per circa 482 km su un confne di 813 km (resta
esclusa la parte meridionale, segnata dal corso dei fumi Ramaquabane e Shashe)
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con un’altezza media di 2,4 metri 1, è costato 34 milioni di euro. Tale cifra, proibi-
tiva per molti Stati africani, sarebbe stata erogata dall’Unione Europea in virtù dei
non trascurabili interessi economici in Botswana 2. Il commercio con l’Ue copre
infatti il 24% delle esportazioni del paese, che per il resto scambia soprattutto con
1. Il progetto originario prevedeva che la barriera raggiungesse i quattro metri e fosse elettrifcata con
voltaggi letali; l’assenza di queste caratteristiche ha attirato critiche locali, secondo cui il reticolato è
troppo vulnerabile.
2. P. CRIPPA, «Il muro tra Botswana e Zimbabwe», Lavocedinomas, 11/11/2014. 207
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208
IL MURO DELLA DISCORDIA Lago
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BOTSWANA-ZIMBABWE, IL MURO DELLA DISCORDIA
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spinato elettrifcato
Confne fortifcato
presidiato dall’esercito S U D A F R I C A ESWATINI
sudafricano
Delta dell’Okavango
IL REGNO DISUNITO
l’Asia (59,8% dell’export) e in particolare con l’India (da cui proviene il 21,6% del-
le importazioni nazionali)3.
La decisione di erigere la barriera, fortemente voluta da Festus Mogae (espo-
nente del Partito democratico ed ex presidente del Botswana) risale al periodo
successivo agli eventi del 2001, anno in cui una terribile epidemia di afta epizooti-
ca falcidiò circa 13 mila capi di bestiame, provocando la scomparsa di gran parte
degli allevamenti 4. A uscirne penalizzata fu l’esportazione di carni bovine verso
l’Ue, di cui dagli anni Settanta del Novecento il Botswana è grande fornitore 5. Do-
po una nuova impennata dei contagi nel 2003, il governo di Mogae – che accusava
lo Zimbabwe di non prevenire adeguatamente il virus – procedette alla graduale
fortifcazione del confne, conclusasi nel 2008. Ciò gli ha attirato le pesanti critiche
del governo di Harare 6, presieduto fno al 2017 dal generale Robert Mugabe e og-
gi, dopo il colpo di Stato, retto da Emmerson Mnangagwa.
La barriera è considerata un danno ambientale e un ostacolo alla sopravvi-
venza di molti animali (in particolare la ricca fauna proveniente dal delta dell’O-
kavango), che hanno dovuto modifcare drasticamente i propri itinerari per pro-
cacciarsi il cibo e migrare, con risultati spesso fatali. Il Botswana è infatti caratte-
rizzato da scarsa disponibilità di risorse idriche, rare precipitazioni, clima semiari-
do e venti afosi che favoriscono la desertifcazione. Lo Zimbabwe, di contro, ha
numerosi bacini idrici (come il fume Zambesi e il lago Kariba), clima tropicale
(moderato nei territori più elevati) e una stagione delle piogge che si protrae da
novembre a marzo: ciò favorisce l’agricoltura (1.740 kmq le terre irrigate nel 2012,
contro gli appena 20 kmq del Botswana) e la vegetazione (nel 2011 il 39,5% del
territorio dello Zimbabwe era coperto da foreste), nonché la bellezza del paesag-
gio. Le conseguenze per le tribù di confne sono state anche peggiori: in molti
casi i pastori si sono trovati separati dalle fonti idriche cui attingevano, o dai pa-
scoli e dai campi coltivati. Non mancano inoltre i dubbi sull’utilità effettiva della
barriera, che blocca gli animali di media e grande stazza ma non i piccoli roditori,
potenziali portatori di afta epizootica.
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nel 2009 gli irregolari in territorio botswano provenienti dallo Zimbabwe erano
stimati tra 40 e 100 mila 8. Non meno profonde delle differenze geografche tra i
due Stati sono infatti quelle socioeconomiche. Il Botswana, che dopo l’indipenden-
za dal dominio britannico è riuscito a migliorare le tecniche di allevamento e a
rendere la propria industria diamantifera la più importante del mondo (nel 2019 ha
esportato gemme e minerali preziosi per 4,8 miliardi di dollari, pari al 91,4% dell’ex-
port totale 9), è uno dei paesi più ricchi dell’Africa: nel 2020 il pil pro capite (il
quinto del continente) era di 18.146 dollari, con una crescita nell’ultimo decennio
compresa tra il 3,4% e il 4% 10. Con 2.277 dollari pro capite nel 2019, lo Zimbabwe
è invece tra gli Stati africani più poveri 11: le disastrose riforme agrarie volute da
Mugabe negli anni Novanta per espropriare le terre all’invisa popolazione bianca
ne hanno compromesso la produzione agricola, demolendo un’economia già gra-
vata dalle spese per la partecipazione alla seconda guerra del Congo. A ciò si sono
aggiunte numerose epidemie di Aids, che continuano a mietere vittime e a depri-
mere l’aspettativa di vita.
Dagli anni Novanta i rapporti bilaterali sono ulteriormente peggiorati per l’o-
dio che è andato montando in Botswana verso gli zimbabwani, considerati inclini
al furto e alla criminalità 12: la stampa locale ci ha sicuramente messo del suo, ma
ciò non toglie che dal 2006 quasi il 50% dei crimini commessi ogni anno in Bot-
swana sia compiuto da immigrati irregolari provenienti dallo Zimbabwe. Particola-
re allarme e astio destano le violenze sessuali, considerando anche che l’Hiv non
è ancora debellato: colpisce il 20,7% della popolazione botswana tra i 15 e i 49
anni (380 mila persone) e il 12,8% di quella dello Zimbabwe (1,4 milioni di perso-
ne) 13. Esecrati anche il furto e l’abbattimento dei bovini, basilari nell’economia del
Botswana e venerati dall’etnia tswana.
L’immigrazione è poi un fardello per l’erario di Gaborone: l’intercettazione
degli immigrati irregolari e la loro distribuzione nei centri di accoglienza – ne ar-
rivano mediamente cinquemila al mese per essere rimpatriati – costano circa
1.700 pula (oltre 130 mila euro) all’anno 14. Cui si aggiungono le spese per la ma-
nutenzione della barriera di confne, pesantemente danneggiata dai migranti che
cercano di superarla (utilizzando a volte elefanti lanciati a tutta velocità sul retico-
lato) e dai residenti di zona, infuriati per essere stati separati dalle proprie fonti di
sostentamento.
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8. A. BETTS, E. KAYTAZ, «National and international responses to the Zimbabwean exodus: implications
for the refugee protection regime», Unhcr, Research Paper 175, luglio 2009.
9. D. WORKMAN, op. cit.
10. O. SEN NAG, «What is the richest country in Africa?», World Atlas, 14/9/2020.
11. Ibidem.
12. E. CAMPBELL, J. OUCHO, «Changing Attitudes to Immigration and Refugee Policy in Botswana», Wilfrid
Laurier University, Southern African Migration Programme Papers n. 28, 2003.
13. «Hiv around the world», Avert, 14/4/2017.
14. I rimpatri, malgrado la barriera, non sono diminuiti sensibilmente: nel 2002 Gaborone dichiarò
26.717 rimpatri, nel 2012 17.402, nei primi dieci mesi del 2013 22.675. Cfr. «More than 26,000 Zimbab-
weans repatriated from Botswana last year», Associated Press, 16/7/2003; N. KITSEPELE, «Botswana kicks
210 out more illegal Zimbabwe immigrants», Africa Review, 30/11/2013.
IL REGNO DISUNITO
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15. C. GENTILI, «Il Sudafrica costruisce una barriera lungo il confne con lo Zimbabwe», Osservatorio
sulla sicurezza internazionale, Luiss, 23/3/2020; D. SLATER, «Zimbabwe border fence completed», Engi-
neering News, 4/5/2020. 211
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IL REGNO DISUNITO
Di notte, in fabbrica,
Cerbero e Ciacco
di Antonio PENNACCHI
1. Sull’esattezza dei colori però non giurerei, essendo – come dice anche mia moglie – un po’ daltonico. 213
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
metri di un tondino scuro scuro, quasi nero, con un diametro di dodici millimetri:
un centimetro e venti (adesso ci sono i laminatoi a colata continua che fanno ma-
tasse anche di cinque o seicento metri; il primo, in Italia, lo realizzò proprio la
Fulgorcavi a Fisciano e subì, appena partito, un tentativo di sabotaggio. “Qui, per
me, ‘a Pirelli g’ha missu u beccu” insinuò il padrone nostro Aldo Dapelo genovese
– riposi in pace – morto a cent’anni tre mesi fa, nel febbraio 2021, dopo essersi
vaccinato da poco contro il Covid: “Se nu me favu fâ u vaxìn, fggéu, campàvu
ancùn, belìn!” deve avere pensato prima di andarsene).
I matassoni di vergella grezza venivano quindi immersi nelle vasche di deca-
paggio – dove a forza di acidi perdevano ogni impurità ed acquistavano il classico
colore giallo-rossastro del rame, quasi oro – per essere avviati agli sbozzatori del
Metallurgico, certi macchinoni grossi che traflavano a freddo la vergella facendola
passare attraverso una serie di fliere di widia e di diamante. Ce ne erano – di sboz-
zatori – a sei, a nove e anche a undici passaggi che, emulsionati continuamente
con l’olio di colza, toglievano alla vergella non solo tutti i bozzi e asperità, ma
progressivamente la sfnavano vieppiù, portandola dai dodici millimetri iniziali a
solo tre o due millimetri di diametro. E mentre ovviamente il diametro in macchina
calava, cresceva sempre più vertiginosamente la lunghezza e velocità del flo.
A due o tre millimetri, però, il flo di rame uscito dagli sbozzatori era ancora
troppo grosso – poco malleabile – per la lavorazione diretta. Passava allora ai ban-
chi trafla-rame a freddo che – pure loro con ripetuti passaggi nelle fliere più pic-
cole di diamante o di widia e l’olio di colza – lo riducevano ai diametri voluti: dai
sette ai sei, ai quattro o ventotto decimi di millimetro per i cavi telefonici o le tre-
folatrici, cordatrici e riunitrici fno addirittura ai capillari per la Smalteria, che aveva
un reparto trafleria per conto suo, al cui sbozzatore lavorava Ghersevich (era di
Fiume Ennio Ghersevich: una roccia che al paese suo aveva giocato a calcio in
serie B con la Fiumana e – dopo l’annessione titina – nella serie A iugoslava con il
Kvarner Rijeka/Quarnero Fiume. Esodato come tanti altri italiani nel 1948, fu una
delle colonne del Latina in serie C nel campionato 1950-51 – segnando una rete
con la Carrarese – e in quello 1951-52 segnandone tre: con il Catanzaro, il Lecce
ed il Foggia. Poi venne a lavorare in Fulgorcavi allo sbozzatore della Smalteria.
Riposa in pace anche tu – Ennio Ghersevich – e sempre forza Latina, forza Fiuma-
na, forza Fulgorcavi).
Noi eravamo però rimasti alla Maillefer, al cavalletto di svolgimento all’inizio
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della linea, dove la corda o il cavo semilavorato venivano trainati da due cingoli
tipo “caterpillar” e spinti ad inflarsi dentro le teste di due estrusori a caldo che –
perpendicolari alla linea – lavoravano in tandem a un paio di metri l’uno dall’altro.
Il primo era un Cortinovis 120, una trafla gomma che estrudeva il riempitivo per
colmare gli interstizi e spazi vuoti risultati sull’elica – dopo la riunitura alla conica
dei cavi tripolari – tra ognuno dei tre conduttori; così quando uscivano dalla fliera
della Cortinovis erano divenuti un cavo solo a diametro costante, pronto fnalmen-
te per fare ingresso nella testa della Maillefer 120, l’ammiraglia vera e propria che
214 dava appunto nome alla linea.
IL REGNO DISUNITO
Aveva al suo interno una lunga vite senza fne di acciaio purissimo, con dia-
metro di dodici centimetri, che girando girando perpendicolarmente alla linea ed
al cavo – a due o trecento gradi centigradi – mescolava i granuli di resina di pvc
sino ad espellerli dal punzone, come pasta omogenea calda, dentro la testa di
estrusione a ricoprire le corde e i semilavorati che stavano per imboccare la fliera,
da cui uscivano quindi protetti da una guaina di pvc a misura.
Tirato da un altro caterpillar – quello posto poco prima del cavalletto di rac-
colta – il cavo inguainato, ma ovviamente ancora caldo e deformabile, entrava
nella canaletta di raffreddamento, dove ci pensava l’acqua corrente, via via che
viaggiava verso l’arrivo, a solidifcarlo abbassandone la temperatura.
In testa alla linea – al cavalletto fnale di raccolta – il cavo oramai pronto per
l’ultimo collaudo e la spedizione sui tir veniva arrotolato su quelle grosse bobine
di legno che si vedono ogni tanto anche in giro per le strade o nei cantieri, dove
viene posato e steso nelle condotte sotterranee perché cominci fnalmente a fare il
suo mestiere: portare l’energia elettrica, ma anche la telefonia fssa o le fbre otti-
che, ovunque serva.
I cambi di bobina – sia dietro che davanti – avvenivano ovviamente al volo.
Non è che ad ogni pezzatura si potesse fermare la trafla, se no che “linea a caldo
continua” sarebbe stata? Doveva sempre andare avanti. I cambi erano al volo, e
dietro – ai cavalletti di svolgimento – non c’era alcun problema, poiché i cavalletti
fssi erano due e il caricamento delle bobine da Duemila avveniva tranquillamente
con il carroponte. All’inizio e alla fne di ogni corda o cavo semilavorato, a bobina
ferma si predisponevano col flo di acciaio gli anelli ed i ganci sulle teste, così
quando terminava di svolgersi una bobina le si agganciava subito appresso l’altra.
Quando la giunta usciva poi dalla fliera dell’estrusore, il capomacchina la tampo-
nava con la resina calda per non far entrare nei cavi – tra la guaina ed il rame
delle corde – l’acqua della canaletta di raffreddamento e il gioco era fatto.
Davanti invece – dove sulle bobine di legno si avvolgeva man mano il cavo
oramai inguainato, raffreddato e fnito – era un po’ più complicato, perché il caval-
letto di raccolta era uno solo, anche se automatico. Bastava comandarlo con la
pulsantiera e faceva tutto da sé – apriva o richiudeva i bracci con cui sollevava o
riabbassava le bobine, oltre a farle girare con il suo motore – ma sempre uno solo
era, perché di fronte aveva il corridoio per i carrelli ed il portone d’uscita del ca-
pannone, mentre di fanco la piattaforma dello Shaw. Non c’era quindi stato lo
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Gli altri due intanto dovevano affrettarsi ad avvolgere le ultime spire sulla bo-
bina già colma, legarne con lo spago la testa sull’elica di legno, abbassare i bracci
del cavalletto sino a far toccare terra alla bobina, allargarli per liberarla e spingerla
poi a forza di braccia – un bobinone alto due metri e con quaranta quintali, quattro
tonnellate di corda di rame addosso – fuori del cavalletto, direttamente tra le forche
del carrello semovente che la trasferiva al Collaudo o alle Spedizioni.
Vai quindi a spingere la bobina vuota nel cavalletto, infla le boccole nei due
fori dell’asse, stringi i bracci dentro le boccole, solleva la bobina da terra, infla la
testa del cavo nuovo nel guidaflo, fssala al tamburo e avvia il motore del cavallet-
to, accompagnando a mano il recupero e avvolgimento dei metri di cavo nuovo
che nel frattempo sono usciti dal caterpillar. Ma era tutto un lavoro da fare di corsa
(al volo, appunto) perché se ti attardavi o accadeva qualche inciampo, il cavo nuo-
vo in arrivo si ammassava in eccesso per terra e – se era grosso – non riuscivi più
a piegarlo sino a farlo entrare nel guidaflo e poi sul tamburo. Se invece era fno e
veloce, e le spire s’erano accatastate l’una sull’altra per terra, quando ripartivi a
tutta gallara con l’avvolgitore – per recuperarle al più presto sulla bobina vuota e
metterti in linea con il cavo nuovo che arrivava – le spire in terra s’accavallavano
tra loro sino a formare una specie di nodo e arrivederci e grazie: bisognava taglia-
re tutto e addio pezzatura. Tutta allo scarto fniva: le guaine – pelati coi coltelli i
cavi – andavano al recupero resina mentre le corde di rame, tagliate a pezzi e
paccottate alla pressa, tornavano in fonderia. Un mare di danni. Per questo dove-
vamo correre.
L’equipaggio della Maillefer era quindi costituito da tre addetti: un capomac-
china di prima-super e due aiutanti di prima. Di questi, uno restava normalmente
fsso dietro – veniva davanti solo per i cambi, a reggere o dipanare il cavo che
usciva dal caterpillar – riforniva di bobine con il carroponte i cavalletti di svolgi-
mento; preparava le teste di entrata e di uscita dei cavi; provvedeva a tutte le biso-
gne della linea: caricava e scaricava i sacconi della gomma o della resina di pvc
dentro le tramogge, approvvigionava ogni cosa e dava una mano al capomacchina-
conduttore della trafla.
L’altro aiutante invece era fsso davanti, al cavalletto di raccolta. Era il bobina-
tore e controllava per tutte le otto ore del turno che il cavo si avvolgesse per bene
sulla bobina di legno. Questo cavalletto era infatti automatico – si spostava da solo,
insieme al guidaflo, per arrotolare il cavo senza fargli troppo deviare l’asse di usci-
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ta dal caterpillar – ma ogni tanto si incantava. Sempre con gli occhi addosso gli
dovevi stare, perché se le spire attorno al tamburo si allentavano, o si accavallava-
no l’una sull’altra, al momento di posare poi in opera i cavi lungo le strade o i
cantieri, il nodo glielo avrebbe fatto lui ai posatori. E sarebbero stati altri guai. Bi-
sognava quindi stare sempre lì – magari seduti su una sedia davanti al bancone di
servizio a fanco al muro perimetrale, dove erano riposti i materiali e le attrezzatu-
re di ricambio: le viti senza fne, le teste, i punzoni, le fliere – e correre appena
succedeva qualcosa, e soprattutto ogni volta che il cavo, arrivato a ridosso della
216 sponda interna della bobina avendo completato un intero giro di spire sul tambu-
IL REGNO DISUNITO
– ad accompagnarlo a mano nella prima spira, stretto stretto sul tamburo. Ci avrà
messo una ventina di minuti abbondante, a completare il giro. Ho aspettato che
superasse l’angolo, ho invertito la direzione del guidaflo, ho reinserito l’automati-
co e sono fnalmente uscito da lì per tornare alla sedia e ai fatti miei, quando mi
sono accorto che Nando non se n’era riandato alla trafla, ma stava ancora in piedi
davanti al bancone mio, chino a leggere il Dante minuscolo – quello piccolo pic-
colo dell’Hoepli, otto centimetri per dodici ma 584 pagine fne fne, con l’intera
Divina Commedia dentro – che avevo lasciato aperto al VI canto dell’Inferno,
quello di Cerbero e di Ciacco, sopra il ripiano del bancone. 217
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
Come m’ha sentito arrivare, Nando Pacilli ha alzato la testa: “Ammazza, ahò! È
forte, questo!”
“Sei riuscito a capire tutto?” gli ho sorriso incuriosito, poiché non era uno che
leggesse molto. Giusto qualche volta Tex o il Corriere dello Sport – come tutti gli
altri, del resto; a parte gli iuventini Tuttosport e milaninteristi La Gazzetta – i gior-
nali porno e i comunicati sindacali attaccati con lo scotch sulle macchinette del
caffè.
“Be’, proprio tutto no, ma la gran parte si capisce” mi ha risposto. E subito
dopo: “È forte questo”, ripeté, “cià la castagna!” che nel pugilato è il colpo da ko,
quello che se ti piglia ti stende, con la potenza intera del corpo espressa fulmine-
amente tutta nel braccio (e questa stessa cosa della castagna – a proposito sempre
di Dante – la sentii qualche tempo dopo anche da Vittorio Gassman in televisione:
“Avrà fatto pugilato pure lui” mi ricordo che pensai, a parte ovviamente I mostri ed
I soliti ignoti).
“Ma chi è sto Ciacco?” chiese poi Nando: “Che aveva fatto? Che storia cià?”
“Non si sa” gli risposi.
“Come non si sa? E di tutti gli altri pure non si sa?”
“No. Degli altri sappiamo quasi tutto. Vita, morte e miracoli, si può dire”.
“Ah, sì? E solo Ciacco no? A me, me pare strano… Dante gli scrive tutta quella
roba e nessuno sa chi è? Ma vaffallippavà, non può essere!”
“Ahò”, allargai le braccia: “Che vuoi da me? Io una mezza idea ce l’avrei pure,
ma i commentatori dicono tutti che non si sa. Pìgliatela con loro”.
“Sarà…” accendendosi una sigaretta: “Però quel demonio che in mezzo alla
pioggia li scuoia e li squadra è proprio forte”.
“Be’…” mi toccò disilluderlo un’altra volta: “Cerbero non è che li squadri: li
squarta”.
“E chi l’ha detto?” s’è arrabbiato Nando Pacilli: “Lì c’è scritto squatra!”
“Sì, ma s’intende squarta” ridendo: “Lo spiegano tutti i professori e commenta-
tori. È una metatesi…”
“Metaché? Che roba è questa, mo’?”
“Una fgura retorica. Lo spostamento di alcune lettere all’interno di una parola,
tipo drento per dentro, o battecca per bacchetta e squatra per squarta”.
“Ma vaffanculo a te e i commentatori”, Pacilli: “Che cazzo ve dice la capoccia?
Non capisci che se quello li squarta, dopo je fa ‘na pippa, a loro, l’acqua zozza?
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Che danno te po’ fà più la piova, ‘na volta che t’hanno squartato, Anto’? Ripènsace
e diglielo pure a quelli là: il mostro – come se chiama, Cerbero? – è solo una specie
di sbozzatore come quelli nostri al Metallurgico, altro che Jack lo squartatore: li
squadra e basta, per prepararli all’acqua. È lei, che je fa sconta’ tutte le pene. Studia
che te ristudia, voi alla fne ‘nciavete capito ‘ncazzo… Mo’ bobina, va’!” e s’avviò,
pure un po’ arrabbiato.
Tornò alla trafla, ma io – ad anni ed anni di distanza – ancora ci ripenso. Pu-
re Benedetto Croce, del resto, diceva che non si dovrebbe leggere Dante con l’os-
218 sessione delle allegorie o scambiando le parti strutturali della Commedia per
IL REGNO DISUNITO
insistere in quelle e soffermarsi in altro: leggere Dante proprio come i lettori ingenui lo
leggono e hanno ragione di leggerlo, poco badando all’altro mondo, pochissimo alle
partizioni morali, nient’affatto alle allegorie, e molto godendo delle rappresentazioni
poetiche, in cui tutta la sua multiforme passione si condensa, si purifca e si esprime 2.
È difatti proprio a partire dal livello di comprensione linguistica del testo, che
Dante è il Sommo Poeta che è. Si provi pure, se si vuole, a far leggere Petrarca a
un operaio o anche a un ragazzo che abbia dato la maturità classica – ma non
ancora un esame di flologia all’università, o di letteratura italiana delle origini – e
si veda se riusciranno a cogliere almeno il succo di ciò leggono, senza che qualcu-
no glielo spieghi.
No, Petrarca non viene più inteso, se mai lo è stato; anche se secondo Pier-
giorgio Ensoli – un mio amico che insegna nelle scuole superiori – i ragazzi di
oggi non capiscono nulla di qualunque cosa leggano. Abituati alle letture velocis-
sime di twitter, telefonini e messaggini, appena trovano qualcosa di più articolato
si perdono nella complessità sintattica e gli si fa il buio più completo: “Assistiamo
a un generalizzato analfabetismo di ritorno” dice sconsolato Piergiorgio Ensoli.
Io non sarei così drastico. Anche una volta leggevano in pochi, ma oggi si legge
molto di più; o almeno si vendono più libri, che è ciò che interessa a chi li scrive.
In ogni caso quella notte, settecento anni dopo, Nando Pacilli in Fulgorcavi
s’era letto il VI dell’Inferno, lo aveva capito e gli era piaciuto: “Cià la castagna”.
Provaci con Petrarca appunto, che oltre tutto la castagna non ce l’ha – giusto
Jacopone e Cecco Angiolieri ce l’hanno; e poi Boccaccio – e gira che ti rigira è
solo fumo di lauro dalla pipa, che s’avvita attorno alla sua superbia ed al sovruma-
no concetto di sé. Petrarca è uno che ha il coraggio di scrivere 3 e pensare – quasi
testualmente – “Beato il pecoraio che non capisce un cazzo”:
mentre lui invece – il grande intellettuale – non chiude occhio tutta la notte, pove-
raccio; s’arrovella e si “strugge” d’angoscia dentro il letto: “fne non pongo al mio
obstinato affanno”. Altroché l’umane e basse genti: soffre solo lui a questo mondo.
Dante invece no: è sempre uomo come gli altri uomini. Il suo realismo – che
lo porta a riconoscere anche nei dannati uno sprazzo di bene, e nei salvati talora
2. B. CROCE, La poesia di Dante, Bari 1966 (19201), pp. 66-67.
3. Cfr.: F. PETRARCA, “Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina” in: Canzoniere, 50, vv. 29-52.
219
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
(…) piova 7
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
motoseghe e raspatrici giganti attaccate ai bulldozer), prima di avviarli sui carri alle
segherie per farne palanche, tavole o pali.
Bisogna avere contezza del reale come ce l’ha Dante, per poterne in qualche
modo fare poesia. Ma bisognerebbe averne soprattutto per poter interpretare cor-
rettamente le rappresentazioni poetiche, perché se no – come asseriva Nando –
studi studi e poi ti perdi: “Chi capisce solo di calcio, non capisce niente di calcio”
dice Josè Mourinho; forza Magica Roma, alé!
Sono quindi integralmente esposti – gli spirti – a quel misto freddo di grandine
grossa, acqua sporca e neve, che continua a cadere senza interruzione o attenua- 221
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
zione alcuna, in molesta e sempiterna quantità. Puzza perfno la terra, che man
mano la riceve. E loro tutti ignudi, scuoiati e squadrati, a urlare come cani senza
più un solo centimetro di pelle – né tra le dita dei piedi, né dentro il naso o fra le
natiche – ma tutto il corpo in carne viva sotto la piova, per omnia saecula saecu-
lorum, amen. Altro che ragadi o l’ascesso dei Buddenbrook.
E tu vuoi cancellare tutto questo facendoli – sic et simpliciter – “squartare” al
volo da Cerbero? Ma che ti passa, per la capoccia?
“No, guarda: sei tu che non hai capito” dicono tirando fuori l’Ottimo commen-
to alla ‘Commedia’ – scritto da un forentino nemmeno tredici anni dopo che Dan-
te era morto – che spiega come lo squartamento sia la giusta pena per i golosi,
come contrappasso al loro scuoiare, squartare e sbranare cibi in vita 6. Per questo
nel Roman de la Rose – composto in Francia quando Dante era ancora ragazzino,
ma a cui lui poi si ispirerà per il Fiore ed il Detto d’Amore – Cerbero ingurgiterebbe
uomini e donne a brandelli nelle sue gole 7.
“Ci sono le fonti, che parlano!” insistono: “E non solo il Roman de la Rose, ma
fn dalle Georgiche di Virgilio 8 e dalle Metamorfosi di Ovidio 9, Cerbero è un mo-
struoso cane a tre teste e tre gole. Virgilio poi nell’Eneide lo ritrae disteso nel suo
antro buio all’ingresso degli Inferi, sopra il mucchio di ossa delle anime squartate
e divorate 10. E Virgilio è proprio la guida, pilota e duca, che Dante si è scelto per
il suo viaggio all’Oltremondo. È la sua fonte privilegiata e quindi Cerbero non può,
nel VI dell’Inferno, che squartare i suoi spirti”.
Ho capito che Virgilio è la sua fonte, come pure il Roman de la Rose, le Geor-
giche, Ovidio e chissà quanti altri. Era un pozzo di scienza, Dante. Ma una cosa è
avere in mente una fonte – o avere letto tutti i libri di questo mondo – e un’altra è
copiarla pari pari. Mica si fa così la poesia – così si fanno i centoni – ed è un grave
errore volerla andare a cercare, e cercarne insieme le risposte a chissà quali do-
mande, non nei testi così come sono usciti dalle viscere dei poeti 11, ma nelle loro
presunte fonti. L’intertestualità – quando deborda nella paranoia dell’intertestuali-
smo – prevarica, obnubila ed uccide le opere. Che te ne fai di quei lunghi studi ed
elenchi – si chiese Benedetto Croce 12 davanti alle oltre seicento pagine di Pio Rajna
che squadernavano, una per una, tutte le fonti del Furioso 13 – se poi sei sordo alla
poesia, e da quell’orecchio proprio non ci senti?
6. Cfr. A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Inferno, c. VI, Meridiani Mondadori, Milano 1991, che a p. 181, nella
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nota al verso 18, trascrive dall’Ottimo commento: “e come squartano li cibi, così sono squartati ellino”.
7. Cfr. G. DE LORRIS, J. DE MEUNG, Roman de la Rose, versi 19830-19831. Il Roman venne iniziato intorno
al 1237 da Guillaume de Lorris e poi ripreso, proseguito ed ultimato da Jean de Meung nel 1280. Nel
1265 era intanto nato a Firenze anche Dante Alighieri, ma a quel tempo – anche se non c’era ancora
la stampa, e tanto meno Amazon o Google – i manoscritti circolavano per l’Europa, tra gli interessati,
quasi come adesso; se non di più, soverchiati oramai da twitter e serie tv.
8. Cfr. VIRGILIO, Georgiche, IV, 483.
9. Cfr. OVIDIO, Le metamorfosi, IV, 450-451; ma anche: VII, 413; IX, 185; XIV, 65.
10. Cfr. VIRGILIO, Eneide, VIII, 296-297; ma anche: VI, 417-423.
11. Cfr. LUCILIO, Saturae, 590-591: “ex praecordiis ecfero versum”.
12. Cfr. B. CROCE, La poesia, Bari 1966 (19351), p. 343. Sulla critica delle fonti cfr. però anche: ID.,
Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari 1929 (19201), pp. 30-31.
222 13. Cfr. P. RAJNA, Le fonti dell’‘Orlando Furioso’, Firenze 1975 (18751).
IL REGNO DISUNITO
Ciò non signifca che lo studio delle fonti non serva, ma va fatto cum grano
salis e profondo rispetto dello spirito e della lettera dell’autore, che può certo ave-
re avuto in mente un preciso riferimento, ma poi lo ha elaborato, trasformato, tra-
sfgurato – ne ha fatto un suo individualissimo sentimento – riuscendo così a darne
una nuova e universale intuizione lirica. Se no – ripeto – faceva un centone, cosa
che l’Inferno e la Commedia di Dante non sono.
Cerbero in primo luogo – per tutte le suddette fonti – era un mostruoso cane
a tre teste, con la coda di serpente e un nugolo assatanato di altri serpenti intorno
ad ogni collo. Anzi, secondo le più antiche fonti greche 14 – che però Dante quasi
sicuramente non conosceva 15 – non aveva tre teste sole, ma cinquanta o addirittu-
ra cento.
Lui invece che fa? Gli dà fgura d’uomo – antropomorfa e non cinomorfa –
sempre a tre teste ma senza coda, senza serpenti al collo (o meglio: ai colli), gli
occhi vermigli, la barba lunga e atra, un bel pancione grosso, il “ventre largo”, e
soprattutto, esclusiva assoluta del genere umano, le mani; pure se unghiate come
Edward mani di forbice.
Come s’è permesso – mi spiegassero allora quelli là – di usare questa violenza
alle sue fonti millenarie, modifcandole così? S’è permesso perché era poeta. E il
poeta ri-crea ogni volta e ri-forma come meglio pare a lui.
In realtà, però, la questione di fondo è che Dante non inserisce Cerbero nella
Commedia perché stava già nell’Eneide e le Georgiche – “Ahò, ce lo ha messo
Virgilio, bisogna che ce lo infli a tutti i costi pure io!” – mica glielo aveva ordinato
il dottore.
No. Lui lo ha messo in campo perché gli serviva come elemento strutturale
della narrazione. Con tutto il rispetto per Virgilio Ovidio e gli altri, a Dante occor-
reva un qualcosa o qualcuno che manipolasse le anime come avrebbe fatto una
grossa raspa o piallatrice – o lo sbozzatore nostro al Metallurgico, e ai tempi suoi
uno scalpellino o boscaiolo – per metterle nella condizione più atta a subire il
massimo grado di molestia e supplizio dalla pena infitta. È per questo, che gli
abbisogna Cerbero.
Ma se tu invece glieli fai squartare fnisce tutta la suspense; svanisce come un
anello di fumo di Emmeesse dura. A che serve più quell’ambaradan di piova “et-
terna, maladetta, fredda e greve” che Dante s’era inventato? È il turbine infnito di
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pioggia grandine e neve l’unica e precipua pena – “che s’altra è maggio, nulla è sì
spiacente” – del VI. Ci ha messo 95 versi per raccontarla – dal 6 al 101: “Sì trapas-
sammo per sozza mistura / de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti” – e tu glieli
14. Presente frequentemente già nella pittura vascolare greca del sec. VI a.C., il nome di Cerbero non
compare però in Omero, che lo defnisce solo con l’espressione “cane” o “custode” di Ade. Compa-
rirà in Esiodo, in Ecateo, in Euripide – che in Eracle, 611, ne darà l’immagine canonica a tre teste e
coda serpentina – e Apollodoro ed Esichio.
15. La cultura e la lingua greca approderanno a Firenze solo agli albori del Quattrocento, attraverso
lo studium che vi istituì dal 1397 al 1400 – dando forte impulso all’Umanesimo – Manuele Crisolora,
dignitario di Bisanzio in visita. 223
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
16. CROCE, La poesia di Dante, cit., p. 5: “E quando l’autore di quel prodotto non lascia un espresso
documento per dichiarare l’atto di volontà da lui compiuto, porgendo al lettore la ‘chiave’ della sua
allegoria, è vano ricercare e sperare di fssarne in modo sicuro il signifcato”. Ma sull’allegoria cfr.
anche: ID., Nuovi saggi di Estetica, Napoli 1991 (19201), pp. 329-338; Conversazioni critiche V, Bari
224 1951 (19391), pp. 7-14.
IL REGNO DISUNITO
Questa è purtroppo la pena che Dante riserva – nei versi 22-42 – al profeta
Maometto e a suo genero Alì. Versi che oggi, secondo alcuni, bisognerebbe toglie- 225
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
C’è stato chi ha parlato qui addirittura di una sorta di compiacimento e quasi di “fasci-
no morboso” che induce il poeta a frugare e sviscerare in ogni suo aspetto una mate-
ria laida e truce (…) e dar voce indiretta al suo sentimento polemico. Musa del canto
è l’orrore, e affonda le sue radici nell’angoscia…18.
E arriviamo a Ciacco.
Nessuno sa chi sia questo Ciacco, che “ratto” tra “l’ombre” su cui passano
Dante e Virgilio – adunate strette strette per terra l’una all’altra – all’improvviso si
leva a sedere e chiede a Dante: “Tu chi sei? Riconoscimi, se sai”.
Lui gli risponde e comincia un dialogare e profetare che prosegue per tutto il
canto, dimodoché si può ben dire che il VI dell’Inferno è il “canto di Ciacco” anche
se, ripeto, nessuno pare sappia chi egli fosse.
Per Natalino Sapegno, Ciacco
poteva essere soprannome con signifcato dispregiativo (e il Butti ci informa che era
“nome di porco, onde costui era così chiamato per la golosità sua”); ma era certo
anche nome proprio di persona (…) Di questo personaggio (…) quasi nulla sappia-
mo, oltre quello che qui ne dice il poeta 19.
Per lui però – lui Sapegno – Ciacco è “forentino”, nonostante spieghi a Dante,
a proposito di Firenze: “La tua città (…) seco mi tenne in la vita serena” (v. 49). Ed
immediatamente dopo (v. 52) ribadisca: “Voi cittadini mi chiamaste Ciacco”. Ciò
porterebbe ad escludere una sua origine forentina e a pensare invece che venisse
da fuori. Però c’è poco da fare: qui ognuno, davvero, legge in Dante quello che gli
pare.
Sapegno comunque esclude che possa essere il Ciacco dell’Anguillaia “di cui
son conservate alcune rime nei codici antichi” 20, e defnisce romanzesco – “ma che
potrebbe conservarci l’eco di una tradizione autentica” 21 – il ritratto che del Ciacco
dantesco fa Boccaccio:
uomo non del tutto di corte, ma percioché poco avea da spendere, (…) dato del tut-
to al vizio della gola. Era morditore di parole, e le sue usanze erano sempre co’ gen-
tili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e delicatamente
mangiavano e bevevano, da’ quali, se chiamato era a mangiare, v’andava e similmen-
te, se invitato non era, esso medesimo s’invitava 22.
sostiene in internet24, oltre che in vari libri, che l’Angiolieri – e non Brunetto Latini
– sarebbe stato il vero maestro di Dante. Anzi, l’autore materiale di tutti i primi la-
vori di Dante – dal Fiore alla Vita Nova al De vulgaris eloquentia – sarebbe stato
proprio Cecco Angiolieri, che glieli avrebbe poi falsamente attribuiti. Era un grande
notaio, secondo Menotti Stanghellini, e grandissimo falsario: suoi magnifci lavori
sarebbero pure i capostipiti delle opere di Platone ed Aristotele – li ha scritti lui! –
come pure quelli di Cicerone ed il Decameron di Boccaccio. Sia l’Umanesimo che
l’intera cultura occidentale sarebbero quindi nati da lui: fgli di tutti i falsi suoi. Poi
dice perché l’accademia – vabbe’ che nel bene e nel male l’accademia è sempre
l’accademia – non ne vuole sentir parlare.
Per me però il Ciacco dell’Inferno è Cecco Angiolieri da anni ed anni prima
che Massimiliano Lanzidei mi segnalasse l’esimio Stanghellini su internet. Già dai
tempi del primo geometri, oserei dire, quando come tutti gli adolescenti di una
volta – non quelli di adesso di Piergiorgio Ensoli – m’innamorai di S’i fosse foco
arderei ‘l mondo. È Cecco, è Cecco e non si discute.
Dice: “Scusa, eh? Ma non era ancora vivo, Cecco Angiolieri, quando Dante
scrive la Commedia?”
Sì, ma che vuol dire? Pure Bonifacio VIII era ancora vivo, ma Dante lo dà già
bello che morto. Qualunque poeta o romanziere fa come gli pare, nell’universo
che sta creando. È lui che scrive le regole – interne ed esterne – su cui si regge la
macchina narrativa. Le fa e le disfa come meglio crede. Tu l’unica cosa che puoi
eccepire è se c’è coerenza o meno di questo universo con le leggi, paletti e regole
che lui gli ha dato. Poi, certo, se una volta il cielo lo fa blu e quella dopo invece si
scorda e diviene giallo a pallini viola, tu hai ragione a protestare: “Che cazzo stai a
fà?”. Ma se ci mette i vivi o i morti a piacere suo – “Tu campi ancora e tu invece
no” – sono affari suoi e basta. Chi sei tu per reclamare?
Dice: “Vabbe’. Ma hai almeno qualche fonte, che ti suffraghi Cecco Angiolieri?”
No. Neanche l’ombra o lo straccio di una fonte. Ma a questo punto si dovreb-
be anche essere capito in quale conto teniamo – Nando Pacilli, Benedetto Croce
ed io – le fonti. In ogni caso quei due – Cecco e Dante – si conoscevano e proba-
bilmente molto bene.
Di Siena uno e di Firenze l’altro, avevano pressappoco la stessa età – Cecco
un po’ più grande, del 1260; Dante del 1265 – poeti tutti e due e a un tiro di schiop-
po, vuoi forse che non sapessero l’uno dell’altro? Combatterono anche assieme nel
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1289 a Campaldino, quando i guelf senesi e forentini – alleati tra loro, quella
volta – sconfssero i ghibellini di Arezzo. Il nostro è sempre stato, come si sa, un
Paese molto unito e felice, con un’enorme e diffusa voglia di pace, amore e solida-
rietà. Pure a quei tempi, pensa tu.
Insomma Cecco e Dante non solo si conoscevano, ma fno a un certo punto
debbono avere avuto rapporti amichevoli e di stima che li portarono – come usava
a quel tempo, ma pure oggi tra i cantautori rapper ed hip hop 25 – ad ingaggiare
una tenzone poetico-cavalleresca: Dante coi toni del dolce stil novo forentino e
Cecco Angiolieri con quelli suoi iconoclasti della poesia maledetta. I testi danteschi
di questa tenzone sarebbero però andati persi, restandone solamente tre sonetti di
25. Pare che i ragazzi di Ensoli chiamino dissing – dal verbo disrespecting (mancare di rispetto) dello
slang afroamericano – il frequente uso di scagliarsi ingiurie l’un l’altro, tra i gruppi hip hop o i rapper
emergenti che per farsi largo debbono per forza sgomitare. Alcuni, negli Usa, sono arrivati alle pisto-
lettate. Ma pure qui niente di nuovo: anche Benedetto Croce – per una polemica di troppo con lo
Zumbini – dové battersi in un duello all’arma bianca. O meglio: lui giovanotto di neanche trent’anni
aveva scritto un paio di saggi demolendo l’estetica di Bonaventura Zumbini, quasi sessantenne. A
difendere Zumbini s’alzò un suo allievo, Pasquale R. Trojano, con un controsaggio ai limiti dell’inso-
lenza, a cui Croce rispose per le rime e pure peggio: “À bon homme, bon homme; à corsaire, corsai-
re et demi” si diceva una volta. Fatto sta, quello lo sfda a duello, così Croce e Trojano si mandano i
rispettivi padrini che si incontrano e – dopo lunga discussione – convengono che non essendo rav-
visabili negli scritti del Croce insulti veri e propri allo Zumbini, la questione dovesse andare chiusa
senza duello, con la rappacifcazione tra le parti. Di lì a qualche giorno, però, Benedetto Croce venne
a sapere che uno dei suoi padrini, il duca Riccardo Carafa d’Andria – militare di professione, suo
carissimo amico e grande schermitore – s’era vantato in un qualche salotto napoletano di aver fatica-
to quattro camicie per riuscire a convincere i padrini avversi a lasciar stare ed annullare il duello: “Che
facevo sennò, glielo lasciavo ammazzare? Croce è bassetto poverino, impacciato, non ha mai visto
un’arma ed è pure claudicante, ha una gamba offesa” poiché a diciassette anni, nel 1883, era rimasto
sepolto per diverse ore sotto le macerie del terremoto di Casamicciola, dove erano però morti il pa-
dre, la madre e la sorella; s’erano salvati solo lui e il fratello. In ogni caso, quando lo andarono a ri-
ferire a Croce (“E come te sbaji?” m’interruppe Nando Pacilli mentre raccontavo: “Nun manca proprio
mai, a sto mondo, chi ‘nze fa li cazzi sua?”) diventò una bestia: “Che fgura m’hai fatto fà? Tutti mo’ si
credono che mi fossi messo paura” e sfdò lui, stavolta, l’ex padrino suo Carafa. Non ci fu verso di
farlo recedere – “No, no, i’ t’aggia accìdere! Mo’ ‘o facimme nuie, sto sfaccimme ‘e duello” – e andò
in palestra a prendere lezioni di sciabola da Almerico Melina, che poi però lo defnì: “Lento ed im-
pacciato nei movimenti, così come è veloce ed agile con la mente”. Al posto della sciabola, sembrava
avere in mano un bastone. Il duello si tenne, secondo l’uso, all’alba del 25 aprile 1895. Carafa dovet-
te faticarne otto, stavolta, di camicie, per riuscire a parare senza però fargli male le irruenti cariche a
colpi di tortore del Croce Furioso, fnché riuscì a ferirlo lievissimamente alla guancia sinistra, dando
così modo ai padrini: “Primo sangue! Primo sangue!” di interrompere il duello, dichiararlo terminato,
asciugargli il sangue e proclamare con gioia di tutti – eccetto forse Croce – la rappacifcazione (sull’in-
tera questione cfr.: B. CROCE, Critica letteraria. Questioni teoriche, 1894, ora in Primi saggi, Bari 1919;
P. R. TROJANO, Per la critica letteraria. Replica a B. Croce, Napoli 1895; B. CROCE, Intorno alla critica
letteraria. Polemica in risposta ad un opuscolo del Dr. P. R. Trojano, Napoli 1895; P. CRAVERI in Il Mat-
tino di Napoli, 19/03/2017).
“Me piace, a me, sto Croce!” disse Nando, terminato il racconto, alla macchinetta del caffè: “Doveva
èsse ‘n bel testadecazzi pure lui, però” con ammirazione.
La cosa comunque più interessante è che lui – lui Croce, non Nando; il cui giudizio esce peraltro
rafforzato – nel primo suo scritto che dà origine a tutta la quaestio accusa il povero Zumbini (desan-
ctisiano come lui) di non tenere nel dovuto conto, ma anzi di “parlarne non senza disdegno”, anche
delle ricerche flologiche, delle fonti, delle indagini biografche, delle notizie dei codici, delle varian-
ti e delle curiosità che possano riguardare anche gli ascendenti o discendenti dell’opera o la persona
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stessa di un autore. In questo modo – dice Croce – Zumbini “viene a sconoscere o a diminuire l’im-
portanza e l’indipendenza di alcuni gruppi di questioni e lavori” che, seppure non costituiscano in
sé l’esaustiva considerazione storico-estetica, non sono nemmeno da sottovalutare (cfr. CROCE, Primi
saggi, cit., p. 83 e nota 1). Ergo: Benedetto Croce si mise a litigare nel 1894 con quelli del suo stesso
campo – fno a dover lavare col sangue il disonore – perché Zumbini sottovalutava le fonti e le va-
rianti. Ed è però il medesimo Croce che – cinquant’anni dopo – avrebbe fatto volentieri a spadate
pure con Contini, perché le sopravvalutava: “Non sta lì, t’ho detto, lo specifco poetico”. Poi vedi tu,
se non ha ragione Nando.
Il duca Riccardo Carafa d’Andria invece – ex padrino e poi co-duellante con Croce – era molto pro-
babilmente anche proprietario di quel latifondo su cui l’Opera combattenti, dopo averlo espropriato,
costruirà nel 1929 il borgo di fondazione di Montegrosso, nel comune di Andria, il cui piano regola-
tore Savoia-Pappalardo sarà glorioso archetipo di quello di Littoria-Latina del 1932: “Tout se tient”
dicono anche, del resto, i francesi. 229
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
Cecco: due in tono appunto giocoso e cavalleresco; il terzo ed ultimo un po’ fero-
ce, per non dire cattivo.
Le amicizie sono così – qualche volta si rompono – ma come e perché si sia
rotta la loro non lo so. Quando si rompono però – e soprattutto quanto più erano
state strette e forti prima, come Gianni Brera e Giovanni Arpino, che era però iu-
ventino – tanto più si fanno astiose, crudeli e non c’è verso di ricomporle: mica
sono, purtroppo, i mucchietti di cenere delle Malebolge.
Nell’ultimo sonetto “cattivo” – il CII 26 in risposta ad uno di Dante andato, se-
condo le fonti, perduto – Cecco Angioleri gli dice, papale papale:
e già qui, poi dice l’intertestualità, Cecco Angiolieri sembra anticipare – a me-
no che non ne sia stato proprio il riferimento e causa prima – il ritratto che di
Ciacco (vedi supra) avrebbe fatto il Boccaccio: “Se invitato ci andava, se non invi-
tato ci andava lo stesso”. E poi Cecco continua:
In chiusura del sonetto, lo invita quindi a farla fnita che gli conviene, perché
se invece “vòi dicere piùe”,
Ecco, a me sembra strano che l’Alighieri si sia taciuto e non abbia risposto.
Non è credibile che uno come Dante, che non s’è mai piegato di fronte a nessuno;
che ha sempre preso di petto tutti; che pur di non chiedere semplicemente “Scusa”
come pure gli avevano offerto i forentini per potergli togliere il bando e farlo tor-
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nare sano e salvo in patria gli rispose: “Fatevi in culo! Piuttosto muoio in esilio” – “E
muori allora, crepa!” s’incazzarono giustamente quella volta i forentini stessi, che
adesso però vorrebbero ogni tanto, un po’ meno giustamente, traslarne a Firenze
le ossa; “E rivaffanculovà”, direbbe di nuovo lui: “Non m’hai voluto da vivo e mo’
mi vuoi da morto? Ma manco se ti spari… Voglio resta’ a Ravenna, ch’av vegna un
càncher!” – uno così, consentiva all’Angiolieri di mettergli la mordacchia senza re-
agire, senza colpo ferire, senza rimettersi al centro del ring come Mike Tyson che
staccò a morsi un orecchio a Evander Holyfeld e non gli dava almeno una randel-
lata? Altro che il dissing dei rapper oggi. No, no, dài retta a me: Dante non avrebbe
mai lasciato in sospeso un conto di questi.
Dice: “Vabbe’, ma che ci vuoi fare? Mica è colpa nostra se le risposte sue sono
andate perse e in tutti i codici non ne è rimasta traccia”.
Ah sì, non ne è rimasta traccia? E il VI dell’Inferno allora che è, si chiederebbe
Nando: “Fregna 27 de pecora?”
Qui innanzitutto Dante lo chiama Ciacco – porco appunto come la nota Cinta
Senese 28 già apprezzata, pare, dagli antichi romani – e lo storpiamento dei nomi è
fn da bambini, in tutti i popoli del creato, uno dei primi e più diffusi dileggi.
Non appena poi Cecco/Ciacco si mette a sedere, subito gli fa dire: “riconosci-
mi, se sai: / tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto”, dove per tutti signifcherebbe solo
che era più vecchio. Nato prima.
Dice: “Be’, non ti convince?”
Non tanto. Si potrebbe anche pensare ad una sorta di resa, che Dante mette in
bocca a Cecco Angiolieri – disfatto quasi, come artista – di fronte a lui che oramai
è fatto Poeta Sommo, consacrato come tale in Italia e in tutto il mondo allora co-
nosciuto (anche se S’i fosse foco rimane comunque – come Ed è subito sera – un
capolavoro che vale, da solo, la vita d’un poeta).
Dice: “Vabbe’, ma come identifcazione non è un po’ forzata?”
Non so. A me pare di no. In ogni caso è più sapida di un semplice “Sono na-
to prima di te” e – come diceva Andreotti – spesso a pensare male ci si azzecca
Nel corso del racconto Dante inframmezza poi – lui è Dante ahò, mica è Cec-
co, e noblesse oblige – espressioni di pietas, empatia e compassione per il malcapi-
tato: “L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente” (43-44); “Ciacco, il
tuo affanno / mi pesa sì, ch’a lagrimar m’invita” (58-59) fnché inizia la serie delle
cosiddette profezie. “Cosiddette” perché non è Ciacco che le fa, bensì è Dante che
gliele mette in bocca e sono tutte – in realtà – previsioni post eventum. “So’ profezie
destocazzo” direbbe Nando: “So’ bono pur’io!”
Il periodo di composizione della Commedia è difatti fssato – come noto – dal
1304/1307 al 1321, quando Dante muore. Lui però – che nel 1302 era stato bandi-
to da Firenze: “Se ti pigliamo t’accoppiamo” – all’inizio dell’Inferno spiega che
questo suo viaggio all’Oltremondo sarebbe avvenuto nella primavera del 1300 (il
25 marzo o l’8 aprile). Così si fa profetizzare – dice lui – dall’ombra di Ciacco ciò
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che era tutta bella gente – a partire dal Mosca – foriera dei peggio guai, discordie
ed uccisioni.
Sicché apodittica suona l’ironia antifrastica – se non il sarcasmo – di quei “sì
degni” e “ch’a ben far puoser l’ingegni”; proprio come da noi quando qualcuno, in
Fulgorcavi, faceva una cazzata e tutti: “Bravo, che bel capolavoro! Mo’ te damo ‘na
medaglia”.
“Sì, sì, davvero bravi!” manca solo che aggiunga Dante: “Gli venisse un colpo
a tutti”. E di nuovo incalza Ciacco:
Ma la risposta è quanto di più icastico, e oserei dire divertente, sia mai uscito
dalla penna di Dante:
e lui infatti li troverà laggiù, agli sprofondi dell’Inferno, e il Mosca dei Lamber-
ti al XXVIII, dove davvero squartano la gente, con
Mo’ però, tornando di palo in frasca agli squartatisti, tu mi devi dire perché
Dante non lo ha fatto a pezzi direttamente al VI il Mosca, per mano di Cerbero –
visto che ci stava – ma se lo è riservato in imis, in fondo al XXVIII?
Te lo dico io il perché: perché il canto dell’orrido, del truce, del laido e san-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a guinolento è il XXVIII, mentre il VI – che fa immediato seguito al sentimento della
compassione per Paolo e Francesca, che dominava il V – il VI è il canto precipuo
dell’ironia, del comico, dello scherno e del sarcasmo perfno, in cui aleggia però
sempre la leggerezza d’una tenzone al primo sangue. Qui non si usa la spada, ma
il foretto e – per squartare – Dante dissolve, taglia, squarta e ricompone altrove
(non parliamo più di ingoiare, per piacere).
“Ma quando tu sarai nel dolce mondo”, fa dire infne a Cecco/Ciacco:
Quello insomma gli chiede proprio: “Fammi questo piacere, Dante, ti prego!
Che se no di me non si ricorderà più nessuno”.
Hai capito?
Eccola qui la risposta che tu andavi cercando come Maria per Roma – “Ndo’
sta Zazà, ndo’ sta Zazà? È andata perduta, è andata perduta!” – a quello sprezzante
“Dante Alighier, s’i’ son bon begolardo”.
Sta nel VI dell’Inferno: “Cecco Angiolie’, tu appetto a me ‘nvali ‘ncazzo. Il
mondo si ricorderà di te, nei secoli dei secoli, solo perché ti ho nominato io qui
sopra”.
Dopodiché – alla faccia dell’orrido – giganteggia sublime la laevitas dell’ironia
del VI:
Non so se sono chiari, anche qui, l’umorismo e l’ironia. Ma quel “più non si
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desta / di qua dal suon de l’angelica tromba” è un motto di spirito tuttora vivo
nella lingua dei parlanti. Noi lo dicevamo – di notte – ogni volta che trovavamo
qualcuno imboscato che ronfava tranquillo tra i banconi, o nascosto in mezzo alle
bobine sopra i cartoni d’imballaggio del politene dello Shaw: “Questo ‘nze sveja
più, fnché non sona la sirena”.
Subito, allora, chi gli mollava una pedata o chi invece gli inflava un giornale
accartocciato tra le mani, dandogli poi fuoco. Quello continuava a dormire – con
noi attorno ad osservare la famma che avanzava – fnché sbattendo all’aria le ma- 233
DI NOTTE, IN FABBRICA, CERBERO E CIACCO
ni incendiate si svegliava di botto con un balzo: “Sti fìdenamignotta! Che cazzo sta
a succède?”
E noi a ridere: “Che hai preso: la fabbrica pe’ n’albergo? Dicci grazie piuttosto,
che se n’era pe’ noi arrivavi al Giudizio Universale” esattamente come – o pressap-
poco – Dante e Virgilio a Cecco nel VI dell’Inferno.
Amen.
A Mario Scotti,
che mi fece studiare Croce
a Rino Caputo
maieuta di questo parto.
(maggio 2021)
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JEREMY BLACK - Professore emerito di Storia, Università di Exeter.
EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di
Roma, è titolare degli insegnamenti di Geografa e di Geopolitica. Consigliere scientifco di
Limes.
LORENZO BRUNI - Studioso, laureato con lode in Scienze storiche presso l’Università di Pisa.
ELISENDA CASANAS-ADAM - Docente di Diritto pubblico e Diritti umani, Edinburgh Law School.
Direttore associato dell’Edinburgh Centre for Constitutional Law.
FEARGAL COCHRANE - Professore emerito di Analisi dei confitti internazionali, Università del Kent.
ANTONIA COLIBASANU - Senior Analyst e Director for Strategic Relations, Geopolitical Futures.
ALBERTO DE SANCTIS - Giornalista, consigliere redazionale e responsabile per la geopolitica dei
mari di Limes, analista presso l’uffcio Analisi & strategie di Utopia.
TOM DEVINE - Professore emerito di Storia scozzese, Università di Edimburgo.
GERMANO DOTTORI - Consigliere scientifco di Limes.
MARIANNE ELLIOTT - Professore di Studi irlandesi, Università di Liverpool.
DARIO FABBRI - Giornalista, consigliere scientifco e coordinatore America di Limes. Esperto di
America e Medio Oriente. Vicedirettore della Scuola di Limes.
ANDREW GAMBLE - Professore presso il dipartimento di Scienze politiche e Relazioni internazionali
dell’Università di Sheffeld.
MICHAEL KEATING - Professore di Politica, Università di Aberdeen e Università di Edimburgo.
Direttore del Centre on Constitutional Change.
KRISHAN KUMAR - Professore di Sociologia, Università della Virginia.
LUCA MAINOLDI - Consigliere redazionale di Limes. Ricercatore associato, Istituto Gino Germani
di Scienze sociali e Studi strategici.
FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scientifco e responsabile relazioni internazionali di
Limes.
JEAN-BAPTISTE NOÉ - Dottore in Storia. Professore all’Università Cattolica di Angers. Caporedattore
della rivista Confits.
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ANTONIO PENNACCHI - Scrittore.
FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes, cultore di Geopolitica all’Università Vita e
Salute-San Raffaele e presidente di Geopolis. Coordinatore didattico della Scuola di Limes.
OWEN POLLEY - Analista freelance, collabora con The Guardian, Irish Times, The Belfast Telegraph.
JUDITH RIDNER - Docente di Storia, Mississippi State University, Usa.
JACOB L. SHAPIRO - Analista geopolitico.
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La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
tornante politico così decisivo ha messo a nudo. Sul piano geografco si pensi ad
esempio al solco tra Londra, ormai una vera e propria città Stato, e il resto del
paese: due mondi opposti per risorse materiali a disposizione, per capacità di rea-
gire alle crisi e, come ha dimostrato il voto di quel referendum, anche per atteggia-
menti politici. Il Remain, sconftto a livello nazionale, a Londra ha ottenuto circa il
60% dei voti.
In generale, ogni territorio ha seguìto logiche proprie, con esiti diversifcati: il
Galles a favore dell’uscita come l’Inghilterra, mentre la Scozia e l’Irlanda del Nord
erano contrari ma per ragioni diverse. Esattamente lo schema tipico della tradizio-
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ne cartografca dove l’Anglia, comprendente sia l’Inghilterra sia il Galles, veniva
nettamente distinta dalla Scotia e dall’Hibernia, tutti toponimi impressi con carat-
teri marcati nell’immagine 3.
Fonte: G. MERCATORE, «Anglia, Scotia et Hibernia», da Atlas sive cosmographi-
cae meditationes de fabrica mundi et fabricati fgura, Duisburg 1595.
4. Ancora nel XIV secolo l’inglese era parlato solo nell’Inghilterra meridiona-
le. Oggi quella regione non è che una porzione minima del mondo anglofono dal
momento che l’inglese è più usato fuori di essa che al suo interno. Il segreto di
tanto successo non va certo ricercato nella semplicità dei tempi verbali, dove basta
aggiungere «ed» per costruire il passato, o dei plurali, che chiedono solo una «s».
Piuttosto, in ben noti fenomeni storici di colonialismo e imperialismo politico e
dunque anche linguistico. I primi a farne le spese furono i popoli vicini delle stesse
isole britanniche dove si parlavano lingue, quali il bretone e il gaelico, talmente
diverse dall’inglese da appartenere a un altro gruppo linguistico (celtico invece
che germanico). Per secoli i territori di questi popoli hanno conosciuto il bilingui-
smo, con le persone che usavano abitualmente due lingue diverse in base alla spe-
cifca situazione: l’idioma locale nella sfera famigliare e invece l’inglese, accredita-
to di maggior prestigio sociale, in quella pubblica (a scuola, al lavoro, nei rapporti
con l’amministrazione). Ovviamente i diversi idiomi non si equivalevano ma l’in-
glese era dominante, lasciando quello locale in posizione subalterna. Tale contra-
sto è divenuto sempre più stridente e oggi relega alcune lingue locali a una dimen-
sione poco più che folkloristica. Tuttavia, rallegra rilevare che la rinuncia alla po-
sizione dominante della lingua originaria non ha sempre comportato l’annienta-
mento culturale del gruppo etnico. Contro il buon senso che fa della lingua un
elemento fondamentale dell’identità, irlandesi, scozzesi e gallesi hanno dimostrato
di essere riusciti a conservare senso identitario pur subendo l’imperialismo degli
inglesi e dell’inglese.
Gli stessi conquistatori hanno giocato sull’orgoglio del richiamo alla lingua
d’origine. Ad esempio quando si trattava di ricorrervi per arruolare soldati a dife-
sa di cause comuni. L’immagine 4 riproduce un manifesto in gallese fnalizzato al
reclutamento per l’esercito britannico durante la prima guerra mondiale. Il proflo
del Galles, che spicca sul colore neutro dello sfondo, mobilita la dimensione emo-
tiva dell’individuo. Il testo in basso serve a rafforzare il concetto e riporta: «Alle
armi, uomini del Galles! Odioso è l’uomo che non odia i nemici del suo paese.
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