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Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

Scuola di Scienze Politiche

Corso di laurea magistrale in:


Relazioni Internazionali

Tesi di Laurea in
Ideologia e legittimazione politica

TITOLO
Alla ricerca del comune: il potenziale “rivoluzionario” di un concetto.

CANDIDATO RELATORE

Davide Cattarossi Chiar.mo Prof.

Maurizio Ricciardi

CORRELATORE

Dott.
Massimiliano Trentin.

Sessione II
Anno Accademico 2014/2015
Alla ricerca del comune. Il potenziale “rivoluzionario" di un
concetto.

“Camminare verso il giusto e il vero


Combattere per il vero, il giusto
Conquistare il giusto, il vero”
Nazim Hikmet, Sofia, 1955
Un primo ringraziamento doveroso, sincero e tutt’altro che formale va a Sandro Mezzadra,
nonostante mi abbia “abbandonato”, per impegni accademici all’estero, nel momento della tesi. Le
lezioni e le chiacchiere assieme sono state per me di fondamentale impo rtanza per il raggiungimento
di questo piccolo grande traguardo. Eccellente professore con un gran lato umano. Davvero grazie.
Altrettanto sincero è il ringraziamento che mi sento in dovere di porgere a Maurizio Ricciardi.
Sempre puntale e preciso nelle sue osservazioni. Grazie per aver posto dei freni alla mia irrequieta
indisciplina nello scrivere. D’altronde avevi ragione; quando si prova ad “immaginare l’oltre è
sempre facile inciampare”. Spero di aver l’opportunità di lavorare con entrambi in un futuro
prossimo.
La lista dei ringraziamenti potrebbe non finire più visto che nutro la convinzione che ogni lavoro non
è mai un affare privato ma il prodotto di una molteplicità d’incontri produttivi e felici. È per questo
che ringrazio le persone che, da diverse latitudini, hanno contribuito a rendermi ciò che sono. Grazie
davvero a tutti.
Ai compagni e alle compagne “mezzadriani/e” del corso di “Frontiere della cittadinanza”; è qui che
questo lavoro sul tema del comune ha visto la luce. Lo ricordo come un momento felice ed
estremamente costruttivo.
A spino, amico di una vita, con il quale è sempre bello parlare e confrontarsi nonostante le nostre
visioni siano, a volte, divergenti.
A tutti coloro che si battono per un mondo di libertà e uguaglian za. A loro tutti va la mia più sentita
solidarietà e compiacenza.
Ai miei amici e ai miei parenti.
A mio padre e mia madre; per il loro infinito amore e soprattutto per avermi cresciuto da uomo
libero. Grazie.
A mia nonna, instancabile “politologa”; a lei devo la passione per la politica. È con te che le prime
discussioni “politiche” sono state intavolate. Ti voglio bene.
A mio nonno e a quel garage così sporco e disordinato, così tanto confuso e mal odorante, ma così
dannatamente reale e vero. Spesso ti ho pensato in questo anno solare in cui sei venuto a mancare.
A te, Giuggi, questa tesi, infine, è dedicata. Ho cominciato a scriverla quando ci eravamo “persi” e
l’ho finita, oggi, che ci siamo “ritrovati”. La dedico a te perché, così come il comune, l’amore è un
campo di battaglia sempre aperto; così doloroso e bello, così imperfetto e vero. Diffidiamo
dall’amore astratto impossibile da afferrare; così perfetto e allo stesso tempo così vuoto, così tanto
confortante ma allo stesso modo così tanto corrotto. D’altronde, come scriveva Spinoza, l’amore è un
atto materiale e politico, è una forza ontologica capace di comporre le differenze e di creare il
“reale”.
Libertà e uguaglianza, solidarietà e alterità; rabbia e dolore, sperimentazione e lotta, gioia e
rivoluzione. Ecco che cosa è l’amore. Ecco che cosa è il comune!
INDICE

Premessa
Il potenziale “rivoluzionario” di un concetto. p.5
Alla ricerca del comune…
Dai beni comuni al comune…
Comporre le differenze…

1 Agli albori della modernità politica.

1.1 Hobbes e Rousseau: singolarità vs comune. p.18


1.2 I punti ciechi della Storia: contro-geografie della Modernità. p.28
1.3 Oltre la dialettica Modernità-antimodernità. p.43

2 Le tante “albe” del capitale.

2.1 “Pecore che sbranano uomini”: vecchie e nuove “enclosures” p.54


2.1.1 L’individuo proprietario. p.63
2.2 La lunga marcia del neoliberalismo. p.68
2.3 Produzione biopolitica. Ovvero l’autonomia del lavoro? p.81

3 All’ombra del “mostro freddo”.

3.1 Lo Stato tra sovranità e governamentalità: trasformazione di un concetto. p.93


3.1.1 Nel limbo della violenza. p.107
3.2 Lo specchio infranto della rappresentanza: rappresentare l’irrapresentabile? p.112
3.2.1 Il dominio tollerato del Leviatano. p.118
3.2.2 La volontà generale: di tutti perché di nessuno? p.121
3.2.3 Fuori da ogni retorica: la democrazia siamo noi! p.125
3.3 (Ri)pensare la cittadinanza (del comune). L’irriducibilità del conflitto. p.131
3.3.1 I panni sporchi del cittadino moderno. p.133
3.3.2 Inclusione ed esclusione. p.137
3.3.3 L’antinomia costitutiva: una dialettica senza fine. p.139
3.3.4 Lotte lungo le frontiere della cittadinanza. p.144
4 Afferrare il comune (per non rassegnarsi alla “fine della storia”)

4.1 Uno spettro di nome moltitudine. L’uno e i molti. p.152


4.2 Costruire potere tra le maglie della governance neoliberale. Quale governo? p.168
4.3 Alla ricerca della democrazia del comune. p.179

Riferimenti bibliografici. p.188


Premessa
Il potenziale “rivoluzionario” di un concetto

“Ma chi ha detto che non c’è”


Gianfranco Manfredi, 1976

Il futuro sembra negato. Immaginarlo solamente sembra qualcosa di terrificante: precarietà,


incertezza, paura. Viviamo questo strano momento, inquietante e disperato, dove niente
sembra possibile. Niente si muove. Il capitalismo continua a dispiegare con arroganza la
propria logica mostrandosi incapace di rispondere alle crisi e ai disastri che esso stesso
genera. Il Dio capitale ad oggi sembra imbattibile: crudele, cinico, affascinante. La sua
fascinazione l’ha reso eterno. Eppure siamo convinti che di eterno non ci sia nulla. Forse
l’aldilà, ma nella testa di qualcuno. Ad oggi, non è tanto una qualche eternità del capitalis mo
a rendere impossibile – e impensabile - un’alternativa, ma il fatto che non vi siano
controforze sufficientemente potenti da poterne dichiarare la fine.
Il crollo del “socialismo reale”, che per quasi un secolo ha costituito l’alternativa al
capitalismo di stampo nordamericano, ha chiuso qualsiasi spazio per immaginare un oltre
alla logica dell’accumulazione del capitale. Qualcuno farfugliava che la storia stava finendo;
che era la fine della storia e il trionfo del capitalismo contro le forze del male. Un futuro di
pace e prosperità era all’orizzonte. Dovevamo rassegnarci. “Après moi le déluge”1 , è
attraverso l’espressione attribuita a Luigi XV che possiamo leggere l’immaginario degli
apologeti del capitalismo: oltre il capitalismo niente di desiderabile. Ecco che allora il
fallimento dell’Urss, la corruzione delle social-democrazie - che abbracciarono feliceme nte
il neoliberalismo -, le derive sovraniste delle sinistre europee, l’indebolimento dei sindacati,
la crescita dell’odio razziale e dei nazionalismi, rappresentarono tutti elementi che portarono

1Ripreso dal libro di Dardot P. e Laval C., Commun Essai sur la révolution au XXI siècle, Paris, La
Découverte, 2014, p.11 ; citato in Lowy M., Ecosocialisme, l’alternative radicale à la catastrophe
écologique capitaliste, Mille et une Nuits, Paris, 2011

5
a chiedersi se vi erano ancora forze capaci d’imporre modelli alternativi, modi di “stare al
mondo” e concetti politici nuovi che potessero indicare un cammino al-di-là del capitalis mo,
oppure se bisognava realmente rassegnarsi a quello stato di cose. Non ce ne voglia
Fukuyama2 ma fortunatamente la storia non è finita, è davanti a noi pronta ad essere agita e
scritta dalle lotte di migliaia di donne e uomini.

Alla ricerca del comune…

Si faceva riferimento all’esigenza di nuovi concetti e a nuove pratiche capaci d’immaginare


e prefigurare uno spazio alternativo del politico liberato dai rapporti di assoggettamento e
capace di proiettarsi oltre lo stato di cose presenti. Fino ad oggi, i filosofi, o chi per loro,
hanno in qualche maniera solamente “interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di
trasformarlo”3 . È da qui che muove questo lavoro di ricerca sul tema del comune, inserendos i
in un dibattito che oramai da vent’anni rappresenta un punto di riferimento imprescindib ile
per coloro che muovono nella ricerca costante di un alternativa, laddove quest’ultima
sembrava essere consegnata ad un passato nostalgico. Guardiamo indietro solamente per
poter andare avanti, consapevoli della necessità di nuovi concetti e nuovi linguaggi per
affrontare le trasformazioni di un presente che sembra sempre più illeggibile e disincantato.
Non stiamo dicendo di inventare il futuro dal nulla in maniera fantasiosa.
Gli apologeti del “socialismo reale” avevano rinchiuso il comunismo in una prigione
trascendente espropriandolo dal suo legittimo proprietario: il popolo. Se da una parte la fine
dei regimi comunisti aveva sancito il trionfo del capitalismo e della sua logica, consegnando
gli spazi dell’alternativa ad un mondo che non c’era più; dall’altra, però, proprio
l’implosione di questi spazi aveva permesso di liberare il pensiero dalla gabbia nella quale
era imprigionato, facendolo rivivere nella prassi e nelle lotte di milioni di donne e uomini.
D’altro canto è dalla prassi che dobbiamo ripartire. È solo intervenendo praticamente nel
corso del nostro presente che possiamo sovvertire lo stato di cose presenti e disegnare nuove

2 Cfr. Fukuyama F., La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992
3 XI tesi su Feuerbach

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traiettorie rivoluzionarie.4 La sfida – non semplice – sarà, allora, quella di creare nuove
esperienze teoriche e sociali, tradurre le pratiche e i desideri delle lotte in norme e istituzio ni,
proponendo nuovi modi di organizzazione sociale. Non stiamo aspettando nessun demagogo
o santone che ci indichi la via. Non c’è posto nel nostro mondo per avanguardie “dispotic he ”.
Come scrive giustamente Negri, “l’intellettuale non è più alla testa dei movimenti della storia
[…] è completamente al loro interno”5 . Nuove grammatiche e nuove verità dovranno essere
costruite per affermare il comune come nuovo paradigma attraverso il quale articolare un
nuovo progetto politico capace di rompere il disincanto del nostro presente e proiettarci verso
un nuovo futuro.

Dai beni comuni al Comune…

La rivendicazione del comune, inteso come articolazione di pratiche di rottura e nuovo


spazio politico da costruire, è stato portato alla ribalta dalle lotte sociali e culturali contro
l’ordine capitalistico e lo Stato “imprenditore”. Il comune, allora, è diventato il termine
centrale dell’alternativa al neoliberalismo e il terreno sul quale si sono dispiegate le lotte dei
movimenti che da oltre vent’anni resistono alle dinamiche del capitale dando luogo a forme
d’azione politica nuove capaci di immaginare e costruire sistematicamente, non senza
contraddizioni, lo spazio del comune. Lungi dall’essere una pura e semplice invenzio ne
concettuale, il comune vive nella prassi dei movimenti e nelle teorie delle correnti di pensiero
che intendono opporsi alla progressiva espansione dell’appropriazione privata di tutte le
sfere della società, della cultura e della vita.
Le rivendicazioni attorno al comune si sono imposte a livello globale grazie alla forza e alla
determinazione dei movimenti altermoderni ed ecologisti che, in diverse parti del mondo,
per primi, hanno resistito alla violenza del saccheggio neoliberale. Queste rivendicazio ni
parlavano il linguaggio dei commons, cercando di opporsi a ciò che appariva come una nuova
ondata di recinzioni. Sicuramente, oggi come all’epoca delle enclosures britanniche che

4 A riguardo si veda Tesi su Feuerbach (1845) di Marx, che riassumono in undici punti la critica alla filoso fia
di Feuerbach svolta nell’Ideologia tedesca
5 Hardt, M. e Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p.15.

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segnarono la nascita della proprietà privata, in un’epoca nella quale il capitalismo, al culmine
dei processi di globalizzazione e finanziarizzazione, sembra tornare a presentare alcune delle
caratteristiche che ne avevano segnato l’origine, il “comune” è nuovamente il principa le
terreno su cui si dispiegano i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale.
Battaglie come quella di Cochabamba, in Bolivia, contro la privatizzazione dell’acqua, o
quelle di Nandigram, in Bengala occidentale, contro l’esproprio di terre per conto della Tata,
hanno avuto risonanza globale proprio per la forza con cui hanno posto la questione del
comune.
La difesa dei commons, dei beni comuni, diventò ben presto la parola d’ordine attorno alla
quale costruire nuove pratiche di resistenza contro il saccheggio e la mercificazione operata
dal capitale. Simultaneamente all’emersione dei beni comuni nei dibattiti interni alle realtà
di movimento, i commons divennero l’oggetto di un’intensa riflessione teorica. Numerosi
lavori empirici cominciarono a prendere forma in contrasto a quella che l’ecologo Garreth
Hardin aveva definito The tragedy of commons6 . Sicuramente l’opera dell’economista Elinor
Ostrom, Governing the commons (1990), grazie alla quale l’autrice è stata insignita del
Premio Nobel per l’economia nel 2009, ha rappresentato una vera sfida alle fortunate tesi
presentate da Hardin. Il volume affronta una delle questioni più antiche e controverse nel
campo della gestione dei commons, dei beni comuni: come l’utilizzo di questi “beni” può
essere organizzato in modo tale da evitare sia la “tragedia”, enunciata da Hardin, del sovra
sfruttamento sia costi amministrativi troppo elevati. Ostrom sostiene, con analis i
appassionata e rigorosa, l’esistenza di soluzioni alternative alla privatizzazione, da una parte,
e al forte ruolo di istituzioni pubbliche e regole esterne, dall’altra. Queste soluzioni sono
fondate sulla possibilità di mantenere nel tempo regole e forme di autogoverno di uso
selettivo delle risorse. L’autrice, che prende in considerazione una gamma molto ampia di
casi studio, basa le sue conclusioni sul confronto di casi di successo e di fallime nto
dell’autogoverno e riassume alcune caratteristiche fondamentali dei sistemi di gestione delle
risorse comuni. Di qui la formulazione di veri e propri principi da rispettare nell’uso delle
risorse collettive. La ricchezza e la diversità delle fonti scrutinate dall’autrice e il suo rigore
d’analisi rendono l’opera un classico, una tappa fondamentale, nella costruzione di

6 http://www.sciencemag.org/content/162/3859/1243.full

8
un’alternativa che si proietti oltre le morse proprietarie, siano queste private e/o statali. Il
suo libro si chiude con un auspicio; che altri studiosi riprendano lo studio sulla gestione dei
commons e sulla costruzione del comune, come spazio possibile del politico, - aggiunge re i
io -. Cogliamo la suggestione dell’autrice consapevoli, però, che se, da una parte, il suo libro
ha segnato l’ingresso dei “beni comuni” nel mainstream accademico regalando al tema una
nuova centralità della quale non possiamo che essere soddisfatti; dall’altra, il rischio è che,
come scrive bene Sandro Mezzadra recensendo il libro di Ugo Mattei, Beni Comuni, un
Manifesto (2011), una volta trasformato in un buzzword, cioè in una parola alla moda buona
per tutti gli usi, il concetto di “beni comuni” può perdere “il suo rivoluzionario potenzia le
teorico e di prassi”.
Come mette in evidenza Ugo Mattei nel suo Manifesto, è proprio il potenziale rivoluziona r io
della categoria di “beni comuni” che dobbiamo cogliere e valorizzare. Il suo libro ci guida
attraverso quella che lui stesso definisce “l’emergenza del comune”, analizzando le diverse
modalità con le quali opera il saccheggio dei beni comuni, ovvero come le tante “albe” del
capitale continuano oggi, come allora – riferendosi all’epopea dell’enclosures nelle
campagne inglesi – a tracciare le traiettorie dell’accumulazione capitalistica. Al contempo
però il comune è anche il principale terreno sul quale si materializzano le lotte dei movime nti
che si oppongono al suo saccheggio, prefigurando nuovi scenari costituenti capaci, attraverso
le battaglie sui beni comuni, d’immaginare e costruire (contemporaneamente) lo spazio del
comune.
Se la questione del comune è diventata talmente centrale e importante oggigiorno, il motivo
è anche che sono giustamente venute meno le false credenze e speranze progressiste sul ruolo
dello Stato. Paradossalmente, è stato proprio l’avvento del neoliberalismo, che declassando
il ruolo dello Stato a “semplice” strumento della sua governance - spogliandolo da quelle
vesti che ne definivano la peculiarità e la forza - e imponendo un bouleversement del
pensiero politico, ad aprire lo spazio di possibilità del comune rompendo la dicotomia
Stato/mercato. Lo Stato non è l’argine ai processi selvaggi di privatizzazione. D’altro canto,
ha ragione Ugo Mattei a sottolineare come sia proprio lo Stato, agendo di concerto con grandi
gruppi oligarchici, a portare avanti quella lunga epopea delle enclosures, privatizzando ciò
che nei fatti poteva essere preservato come il frutto del lavoro comune. Sotto questa luce

9
vediamo chiaramente come la proprietà pubblica non costituisca una efficace difesa del
comune, ma rappresenti piuttosto una forma collettiva di proprietà privata ipotecata dalle
classi dominanti che la utilizzano a proprio piacimento. È lo stesso Mattei a mostrarci come
il continuo processo di privazione del comune e dei commons, sia stata dominata dalla
tensione, e in fondo dalla specularità, tra due modelli, ovvero quello dello Stato sovrano e
quello della proprietà privata che operando di concerto garantiscono la continuità
dell’accumulazione del capitale. Per quanto nella storia moderna questi due modelli abbiano
dato vita a una serie di opposizioni, ad esempio tra socialismo e liberalismo, pubblico e
privato, essi condividono una medesima logica “esclusiva”: se proprietà privata significa
proprietà “sottratta” al godimento altrui mediante una perimetrazione, altrettanto vale per lo
Stato sovrano nel rapporto che istituisce col “suo” territorio. Si tratta evidentemente di un
punto cruciale teoricamente e politicamente in quanto sollecita ad immaginare e costruire il
comune oltre il pubblico. È proprio questo il potenziale rivoluzionario che Mattei riconosce
alla categoria di beni comuni: “saremmo di fronte a una categoria nuova […] che sarebbe
non solo utile, ma addirittura indispensabile per capire – e forse anche per promuovere
processi nuovi”7 . Attraverso questa nozione di beni comuni sarebbe possibile superare la
“pervasività della dicotomia pubblico/privato”8 . Gli studi più importanti, e più attuali, che si
occupano di categorizzare i beni comuni, si pongono su un piano di equidistanza tanto al
privato quanto al pubblico, nel senso che il “comune” del bene non è sinonimo di “pubblico ”.
Troppo spesso si è fatta confusione sovrapponendo i termini fino a farli coincidere, anche da
parte di chi, pur avendo a mente la distinzione, ha portato avanti campagne in difesa dei beni
comuni arroccandosi su posizioni di difesa del servizio pubblico, riproducendo, di fatto, la
logica della proprietà statale. Soltanto nella misura in cui le lotte attorno alla categoria di
“beni comuni” si muovono su un terreno costituente, ovvero valorizzando la capacità dei
movimenti di aprire spazi di possibilità e di sperimentazione capaci realmente di andare oltre
la falsa dicotomia di pubblico e privato, possiamo caricare questa “nuova categoria
necessaria”, stando alle parole di Mattei, di tutto il suo potenziale rivoluzionario.

7Mattei, U., Beni comuni. Un manifesto, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2011, p.18
8Marella M. R., Introduzione a Id. (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni,
Verona, ombre corte editore, p. 11

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Altro punto degno di nota, sul quale è necessario soffermarsi e interrogarsi, è la distinzio ne
tra beni comuni e bene comune. Talvolta i discorsi sui beni comuni sembrano aspirare al
raggiungimento di un bene comune come fine ultimo dell’azione politica. Talvolta, dunque,
i due termini sono stati equivocati nella misura in cui si crede che l’uno implichi l’altro
arrivando a sovrapporli fino a farli coincidere. Come giustamente ha messo in evidenza
Maria Rosaria Marella, “la nozione di bene comune, nell’accezione resa nota dalla dottrina
di Aristotele […] indica il fine della legge che, in quanto tale, persegue attraverso i suoi
precetti la realizzazione del bene comune, ossia di ciò che giova all’intera collettività ”.
Aspirare al bene comune presuppone una comunità omogenea con una gerarchia di valori –
e di poteri – ben consolidata. Evidentemente un progetto politico che aspiri al bene comune
si piega facilmente a qualunque curvatura ideologica prefigurando i tratti cruenti di una -
quanto più lontana - pacificazione sociale, di una “comunità immaginata”9 – e per questo
chiusa su se stessa -. I beni comuni, per contro, non possono non far riferimento alle pratiche
politiche e alle teorizzazioni filosofiche che fanno del conflitto sociale la loro cifra
d’insieme. Ancora una volta concordiamo con Maria Rosaria Marella nel vedere i beni
comuni come risorse “di parte”, nel senso che il conflitto che porta al loro riconoscimento –
e alla loro affermazione - è parte costitutiva del bene comune stesso. I beni comuni sono “di
parte” proprio per il disegno politico che prefigurano. A meno che non si voglia spogliare la
categoria di beni comuni dalle sue vesti rivoluzionarie, rendendola un concetto neutro adatto
per tutti gli usi, bisogna affermare che la rivendicazione e l’affermazione politica dei
commons sono l’esito di pratiche di resistenza alle politiche neoliberali di saccheggio del
comune che trovano nel pubblico un potente alleato, considerando la svendita dei patrimoni
comuni di proprietà dello Stato e le massicce operazioni di privatizzazione. Da qui deriva la
consapevolezza della necessità di costruire quell’oltre rispetto alla pervasività dei due
modelli proprietari.
Se identifichiamo i beni comuni con quelle risorse sottratte dallo spossessamento del comune
e strettamente correlate ad una collettività, non possiamo occultare o sottovalutare il

9 Riprendo questa immagine da Benedict Anderson. And erson argomentava che qualunque comunità politca
la cui dimensione abbia superato una soglia minima (di cittadina o quartiere), non potendo più affidare la
percezione di appartenenza a un medesimo gruppo all’interazione faccia a faccia tra i suoi membri, deve
necessariamente fondare la percezione della propria identità e coesione.

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potenziale conflittuale a loro intrinseco, se non al prezzo di equivocarne la sostanza. Il nostro
comune non poggia sull’idea trascendente di uno spazio pacificato impermeabile alle
dinamiche della società. Non invochiamo nessun giardino dell’Eden.
Questa dimensione del conflitto viene sistematicamente occultata, o meglio negata, da una
buona parte di chi si occupa del tema oggetto di analisi. Nel discorso di alcuni economisti,
ad esempio, la sovrapposizione bene comune - fine ultimo e astratto di una collettività - e
beni comuni è resa possibile da questa visione alquanto essenzialista dei commons, che
prevede la loro esistenza come data, dunque come un a-priori, a prescindere dalla prassi
politica e alle teorizzazioni che conducono da una parte alla loro individuazione e dall’altra
alla loro rivendicazione e affermazione. C’è da dire che tutta l’elaborazione economica sul
tema dei beni comuni continua a confrontarsi con l’esigenza di confutare l’assolutezza della
tesi della “tragedia dei commons” di Hardin. Pertanto si preoccupa di individuare le
condizioni in cui è possibile limitare il free-riding, ovvero egoismi che mettono a rischio la
sopravvivenza dei beni comuni.
Siamo convinti che la definizione del concetto di comune (e di beni comuni) debba provenire
da più luoghi, da più parti, da più discipline. Se vogliamo coglierne il potenzia le
rivoluzionario, un processo di con-ricerca (collettivo) deve prendere forma e attraversare una
pluralità di aree disciplinari producendo nuove verità (del comune). Insomma, il comune è
un campo di tensione in cui diritto, sociologia, filosofia e prassi politica sono chiamate a
confrontarsi, scontrarsi e cimentarsi.
Michael Hardt e Antonio Negri, dal canto loro, sono riusciti a formulare la prima teoria sul
comune, spostando la riflessione dal piano delle esperienze concrete dei commons - al plurale
-, ad una concezione politicamente più ambiziosa di comune – declinato al singolare -10 .
Sotto il profilo teorico crediamo che sia necessario insistere sulla sconnessione tra il piano
del comune nominato al singolare e quello di “beni comuni”. Non si tratta semplicemente di
rigore terminologico, ma di una “cesura” concettuale preliminare per aprire un spazio di
sperimentazione e di possibilità politica capace di immaginare un futuro non capitalistico.
A Michael Hardt e Antonio Negri dobbiamo, quindi, la formulazione della categoria di

10Si veda la trilogia che ha portato alla concettualizzazione del Comune – Impero, Moltitudine,
Commonwealth -. Soprattutto Hardt, M. e Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli,
2010

12
comune declinata al singolare, nonché la sua conseguente diffusione all’interno degli studi
critici e nelle aree di movimento. All’interno di questo nuovo universo teorico non si tratta
più di leggere l’attualità del capitalismo come riproposizione continua della sue origini.
Come hanno giustamente affermato gli stessi autori, continuare a far riferimento ai commons
– declinati al plurale – significava, in qualche maniera, continuare a disegnare spazi del
comune precapitalistici che vennero distrutti dalle tante “albe” dell’accumulaz io ne
originaria. L’espressione comune, nominato al singolare, segna un punto di non ritorno, si
pone su un piano di irreversibilità, dal momento che la posta in gioco non è quella di
ripiegare, in maniera nostalgica, su un passato non propriamente idilliaco, ma di aprire spazi
di possibilità e sperimentazione. In quest’ottica il comune prefigura sicuramente un
fenomeno nuovo, in continuo divenire. Ecco che allora, piuttosto che uno spazio da
recuperare, il comune si presenta come la dimensione nascosta e la condizione negata del
capitalismo più avanzato. Non è ciò che è stato distrutto ma ciò che viene sfruttato e,
soprattutto, ciò che viene prodotto. Dunque, con il termine comune identifichiamo non tanto,
o meglio non solo, la ricchezza comune del mondo materiale (e naturale) – aria, acqua, frutti
della terra ecc.... – ma, con più precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale,
[…] “che è necessaria per l’interazione sociale e la prosecuzione della produzione, come le
conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via.”11 Oggigiorno questa
produzione comune del comune, inteso come prodotto dell’articolarsi delle singolarità in
quanto tali, tende a fissarsi al centro di tutte le forme di produzione sociale.
Assumere il concetto di comune – al singolare - non significa, però, squalificare o, peggio
ancora, scartare la categoria dei beni comuni. Il passaggio dal singolare al plurale – o meglio,
dal plurale al singolare - che segna la differenza concettuale tra comune e commons è
particolarmente importante, nei nostri dibattiti, nella misura in cui il primo termine consente
di evidenziare un processo continuo di produzione, immanente e materiale, e al contempo di
disegnare una cornice teorica all’interno della quale le rivendicazioni e le lotte attorno ai
commons acquisiscono forza nello spazio e nel tempo. Il nostro comune non è solamente una
condizione di possibilità che apre alle lotte attorno ai commons ma anche, e soprattutto, il
prodotto immanente dell’articolarsi delle singolarità che permette di proiettare, nello spazio

11 Hardt, M. e Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p.8

13
e nel tempo, quelle stesse condizioni di possibilità. In quest’ottica, allora, il comune non
potrà mai essere un punto d’arrivo, uno spazio pacificato dove finalmente deporremo le armi
e il conflitto politico e sociale verrà consegnato ai libri di storia e ipotecato dalla fine della
storia. La fine rappresenterà sempre un nuovo inizio. Prendiamo, dunque, congedo da
qualsiasi nozione di democrazia globale e da suggestioni, affascinanti ma fuorvianti, che ci
parlano di “comuni mondiali”12 . Non immaginiamo il comune come uno spazio liscio sul
quale ricamare un mondo privo di tutti i mali, sarebbe ingenuo. Non si tratta di essere
pessimisti, ma realisti. Siamo consapevoli che i tanti confini che attraversano e tagliano il
nostro presente continueranno a premere sul nostro comune. Le questioni di genere, di razza
e di classe non smetteranno in un battito di ciglia di corrompere il comune; nello spazio
famigliare, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. Non si tratta, dunque, come dicevamo prima,
di assumere il comune come un punto d’arrivo dove finalmente le singolarità, in uno spazio
pacificato e libero dalla corruzione, potranno felicemente esprimere la ricchezza delle
proprie differenze. Al contempo, però, dobbiamo diffidare da qualsiasi prospettiva che
ponga il comune solamente come punto di partenza, come una dimensione da recuperare, un
a-priori, che automaticamente (ri)aprirà lo spazio dell’alternativa. Dunque il comune non
sarà né la nostra partenza né tantomeno il nostro arrivo. Saranno il nostro passaggio e il
nostro percorso a rappresentare lo spazio e il tempo del comune. È nel presente e nelle
esperienze delle singolarità in lotta per il comune che si produce il comune stesso. Sotto
questa luce, il comune è il prodotto di un movimento senza fine che sistematicame nte
affermerà, difenderà e costruirà il comune all’interno dei rapporti di forza che si danno in un
determinato periodo storico. Solo in questo modo il comune, ovvero ciò che le singolar ità,
in quanto tali, producono e vivono, potrà radicarsi nell’immanenza della nostra prassi senza
dissolversi in una dimensione trascendente impossibile da afferrare. Un vero concetto di
comune può darsi solamente come prodotto di una praxis politica cosciente e quindi com-
porsi in un processo costituente. Il comune trova, allora, la sua origine non in oggetti o con-
dizioni metafisiche ma solo in attività delle singolarità in lotta per il comune.

12Mi riferisco nella fattispecie a quanto scritto nel libro di Dardot, P. e Laval,C. Commun, essai sur la
révolution au XXI siècle, Paris, La Découverte, 2014. Soprattutto si veda la proposition 8 et 9 pag. 527-568

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Comporre le differenze. Produrre il comune…

«Il n’y a pas de monde commun », […] « il faut le composer »13 , scrive il filosofo francese
Bruno Latour. D’altro canto, sono proprie le differenze a rendere il mondo ciò che è –
nonostante la bramosia del capitale tenda continuamente a codificarlo secondo la misura del
valore e renderlo uno spazio liscio -. Culture e religioni, credenze e opinioni, e ancora, affetti,
sessualità, dimensioni spirituali, sentimenti e passioni. Le differenze non sono superficia li,
passeggere, ma fondamentali. Sono le differenze a renderci ciò che siamo! Perché mai
dovremmo abbandonarle per poterci pensare come un noi politico? Qualcuno potrà dire:
siamo, sì, differenti per quanto riguarda le opinioni, le passioni, i sentimenti, ma in fondo
siamo tutti uguali, la nostra natura è la stessa e se siamo d’accordo a “sopprimere” ciò che
ci divide, allora potremmo vivere lo stesso mondo e abitare (condividere) lo stesso universo.
Una magra consolazione dietro alla quale si cela lo spettro dell’assoggettamento e del
disciplinamento. Se mettiamo da parte ciò che ci differenzia, ovvero quello che ci rende ciò
che siamo, allora non resta niente da condividere, nulla da mettere in comune. Ecco che
allora, il comune, la sua affermazione e la sua costruzione, non può che passare attraverso
una composizione delle differenze. Produrre il comune significa come sottolinea
magistralmente Judith Revel, immaginare, teorizzare e costruire, “qualcosa che permetta alle
differenze in quanto differenze, e a tutte le differenze, di riconoscersi come potenze
costituenti”. È dalla ricchezza espressa dalle differenze che dobbiamo ripartire. Possiamo
dire che il nostro comune, paradossalmente, si presenta come ciò che ci differenzia, in quanto
differenze; è allo stesso tempo la condizione di possibilità e il prodotto dell’articolaz io ne
delle differenze. Solo nel comune e col comune le differenze possono comporsi. « Pour
produire du commun, les différences doivent se composer entre elles, et non pas se
décomposer. Cela signifie que l’on renonce à raisonner en termes d’intérêts privés sans pour
cela renoncer à raisonner en termes de permanence des différences : en somme, que l’on
n’impose pas la massification, ou la dé-subjectivation, ou la normalisation, comme condition

13 Latour Bruno Il n’y a pas de monde commun : il faut le composer, Multitudes 45, 2011,
http://www.multitudes.net/il-n-y-a-pas-de-monde-commun-il/

15
préalable de la construction du commun »14 . Immaginiamo, allora, il comune come una
grande aggregazione che non cancella e non gerarchizza mai le differenze, né tantomeno
esclude qualcuno. Se lo pensiamo come ciò che le differenze producono in quanto differe nze
(in comune) allora, il comune, si presenterà non tanto come un oggetto, un prodotto, una
cosa, o una configurazione stabile e immutabile, ma come una creazione senza fine e un
movimento permanente, in continuo divenire.

14 Judith Revel, « Produire du la subjectivité, produire du commun : trois difficultés et un post-scriptum un


peu long sur ce que le commun n’est pas », séminaire « Du public au commun » séance du 5 décembre 2010,
p.6. http://1libertaire.free.fr/ERevel01.ht ml.

16
1) Agli albori della modernità politica

Guernica.1 Luca Manna


tecnica mista, 2009

17
1.1 Hobbes e Rousseau: singolarità e comune.

In questa prima parte proveremo ad indagare come l’avvento della modernità, e la sua
conseguente affermazione, abbiano saturato l’intero immaginario politico racchiudendo lo
all’interno di una gabbia d’acciaio duale nella quale i vari termini e concetti vengono fatti
giocare l’uno contro l’altro. Una riflessione sul tema del comune non può che partire da qui;
dagli albori della Modernità politica, ovvero dal momento in cui è stato squalificato e
relegato ad una dimensione pre-politica.
Il concetto di comune sarà allora stesso tempo il nostro punto di partenza, osservando come
nel corso della storia è stato mistificato e occultato in quanto dimensione e spazio (possibile)
del politico, e il nostro punto di arrivo, o meglio, l’orizzonte politico da perseguire per
afferrare e istituire il comune inteso come composizioni delle differenze. Questa operazione
obbliga necessariamente a percorrere a ritroso alcuni momenti della storia del pensiero
moderno, per poter fondare la materialità del comune attraverso un approccio critico, e
quindi, decostruttivo della tradizione politica moderna nella quale siamo tutt’ora immers i.
La sfida è dunque quella di esplicitarne i limiti, nella misura in cui consegna la politica allo
Stato e la libertà ad una mera astrazione racchiusa nella sua configurazione giuridica, per
cercare di scardinarne il perimetro e aprire spazi per altre immaginazioni possibili. Possiamo
dunque assumere il concetto di comune come una lente attraverso la quale rileggere in
controluce la “nostra” modernità politica mettendone in rilievo i vuoti, le aporie e, perché
no, aprirne le potenzialità. L’intento allora è quello di svelare le pretese di astratta
universalità che si celano dietro le grandi concettualizzazioni politiche moderne,
evidenziando come queste siano state storicamente condizionate e determinate da precise
logiche di potere.
L’avvento dell’età Moderna ha segnato il trionfo assoluto della Ragione. La lumière dei
Lumi aveva squarciato le tenebre dell’era “buia”, sconfitto la superstizione e soggiogato la
disragione. Come segnala Judith Revel, “il dualismo ragione/disragione, figlio della
modernità politica europea, era riuscito a controllare e mettere in ordine il reale nella sua
totalità, nella misura in cui niente poteva sottrarsi alla pretesa tassonomica raziona le,

18
nemmeno il suo opposto, il suo contrario”15 . Ciò che apparentemente sembrava sfuggire alla
ragione, ovvero ciò che non rispettava i suoi codici di condotta, risultava essere invece una
parte costitutiva di sé, o meglio il suo strumento di potere migliore16 . È attraverso un
continuo gioco di specchi che la modernità e tutto il suo armamentario concettuale hanno
dispiegato la propria forza plasmando la totalità della rappresentazione del politico e il suo
vocabolario. A riguardo, un grande filosofo francese, Jacques Derrida17 , a partite dalla metà
degli anni ’60, criticherà fortemente tutta una serie di opposizioni concettuali leggendovi la
morsa assoluta sul reale “della grande mitologia bianca”.
La Ragione illuministica era riuscita a strutturare e a sedimentare il pensiero partendo da una
serie di binomi concettuali: parte/tutto, individuale/collettivo, privato/pubblico,
particolare/universale ecc. Queste coppie mostrano come la struttura duale, ovvero lo
spartito logico della modernità, funziona e come pretende di saturare l’intero spazio del
pensiero politico.
Tornando al binomio particolare/universale, o meglio alla contrapposizione tra i due termini
della relazione, proviamo a porci allora la seguente domanda: come può il particolare, posto
in posizione dialettica all’universale, e quindi potenzialmente pericoloso per il suo opposto,
essere incluso all’interno dell’universale? Evidentemente è il quesito politico dal quale
emergerà la potente risposta delle teorie contrattualiste.
Ripercorriamo allora i passi di due grandi filosofi della nostra modernità, padri del
contrattualismo, come Hobbes e Rousseau, che attraverso le loro speculazioni, seppur da
angolazioni differenti, hanno dato forma allo spazio politico e sociale in cui viviamo e, in
qualche modo, saturato completamente il nostro immaginario politico rigettando il comune
dalla dimensione del politico (possibile) ad una sorta di limbo pre-politico. Se riprendia mo
il binomio particolare/universale è facile notare, in maniera abbastanza netta e radicale, che
non c’è posto per il termine comune nella relazione, a meno che non ci si accontenti di
collocarlo (e dunque confonderlo) col polo dell’universale.

15 Riporto un frammento degli appunti presi durante il corso.


16 Si vede ad esempio il tema della follia M.Foucault, Storia della Follia nell’età classica, Rizzoli,
Milano,1963
17 Jacques Derrida che introdurrà la pratica decostruttiva (del linguaggio), ovvero, riprendendo le sue

bellissime parole, la “denaturalizzazione del naturale”. In riferimento alla pratica decostruttiva si veda dello
stesso autore, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1968, trad. it. di R. Balzarotti,

19
A questo punto proveremo allora ad addentrarci all’interno delle teorie dei due pensatori
indagando appunto come, passo dopo passo, il comune come spazio possibile del politico
sia stato reso impensabile. Teniamo bene a mente la definizione che abbiamo dato dello
stesso, ovvero comune come composizione delle differenze, o ancora, come spazio possibile
del politico all’interno del quale il particolare non deve abbandonare la sua differenza per
potersi articolare in una dimensione per così dire “universale”.
La filosofia politica di Thomas Hobbes18 è edificata su due poli dicotomici: da una parte il
conflitto, il disordine, ovvero una condizione potenzialmente distruttiva, e, quindi, da
evitare; dall’altra l’ordine, o meglio, uno spazio pacificato da costruire in quanto desiderabile
per tutti gli uomini. La teoria hobbesiana fa del pessimismo antropologico il suo punto di
partenza. L’uomo è un elemento disordinato della natura, e questo disordine è dato appunto
dall’uguaglianza naturale degli uomini. Hobbes sostiene che in natura non ci sono gerarchie
stabili fra gli esseri umani e che tutti sono animati dalla stessa libertà. L’uomo non è dunque
solo naturalmente uguale,19 ma è anche dotato della medesima libertà e potere. Inimicizie,
diffidenza e paura sono i sigilli dello stato di natura; una guerra di tutti contro tutti dove
ognuno è mosso dal desiderio di ricchezza e comando. In natura c’è sempre guerra. La guerra
risulta essere un elemento strutturale di questo spazio, che rende impossibile una vita civile
evoluta, fondata sull’agricoltura, il commercio, l’industria e le scienze; anzi “c’è un continuo
timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole,
brutale e breve”20 . Con Hobbes viene meno l’immagine aristotelica dell’uomo inteso come
animale razionale e sociale. In natura non è possibile nessun ordine politico che possa
organizzare una vita associata tra gli uomini. Bisogna dunque organizzare un esodo dal
disordine permanente dello stato di natura; bisogna, parafrasando Hobbes, abbandonare le

18 Thomas Hobbes, nato nel 1588, entrò come precettore nella casa di W. Cavedish, futuro primo conte di
Devonshire. Tra il 1610 e il 1634 fece tre lunghi viaggi sul continente (Francia e Italia) entrando in contatto
con Galilei. Nel 1628 pubblicò una traduzione della Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide. Nel 1640,
alla vigilia della rivoluzione inglese, la reazione suscitata dal suo manoscritto degli Elements of Law, Natural
and Politic lo indusse a scappare in Francia dove scrisse il De cive (1642) e il Leviathan(1651). Rientrato nel
1651 nell’Inghilterra repubblicana, vi pubblicò il De corpore (1655) e il De homine (1658). Dopo la
restaurazione degli Stuart, Carlo II gli garantì una pensione. Venne accusato di eresia dalle gerarch ie
ecclesiastiche. Morì nel 1679.
19 Questa condizione di uguaglianza è, nella teoria di Hobbes, estesa anche alla figura della donna, in polemica

con tanta parte della tradizione filosofica e politica.


20 Thomas Hobbes; a cura di Tito Magri, Leviatano, Editori Riuniti, Roma, 1976, pag. 120

20
differenze proprie del particolarismo per cacciare negli inferi la paura della morte. Lo stato
di natura, che viene presentato, è uno spazio pre-politico o, in maniera più precisa, pre-
disciplinare, nella misura in cui l’individuo o, per dirla in maniera brutale, quella moltitud ine
difforme di singolarità, che come un branco di animali selvatici vaga liberamente in “natura”
regolato dalla legge del più forte, non è ancora investita dagli effetti di potere (la non-
appartenenza al paradigma statale viene letta come un “non spazio” e un “non tempo” della
politica, e quindi ricondotta al regno dell’animalità).
Organizzare l’uscita dallo stato di natura dicevamo. Come fare? Come creare un terreno
fertile (della politica) sul quale gli uomini (nella loro totalità) potessero vivere in pace?
L’obiettivo della politica era dunque quello di ricondurre quelle moltitudini diffor mi
all’unità, ovvero di costruire un’unità politica artificiale. E’ importante sottolineare come il
passaggio allo spazio politico, così come presentato dal nostro filosofo dell’ordine, si
dispiega attraverso una disgiunzione singolarità-comune e come questa si risolve attraverso
l’istituzione di un patto di tutti con tutti che funge da catalizzatore del diritto naturale di
ciascuno. La pace, l’ordine e la stessa vita si pagano al prezzo dell’alienazione irreversib ile.
Solamente de-singolarizzando le singolarità e sovrapponendo (e ancora una volta
confondendo) il comune con il corpo sociale era possibile costruire ed imporre un ordine
alla vita associata21 . Ecco che il comune inteso come composizione delle differenze viene
polverizzato, squalificato e relegato nel dimenticatoio dalla modernità politica. Ecco
all’opera la grande “mitologia bianca”.
Alla stesso modo di Hobbes, seppur da un punto di vista differente, Rousseau22 , nel
passaggio dallo stato di natura alla società, nuovamente da angolazioni molto differenti,
cadrà nella stessa trappola della disgiunzione singolarità-comune. Diversamente dal
pessimismo antropologico presente nelle teorie hobbesiane, Rousseau partirà dalla bontà
naturale dell’uomo per mostrare la corruzione che si dà nella società civile. Nelle sue

21 Sul concetto di moltitudine e il relativo problema dell’uno e i molti torneremo nel IV cap. cercando di
evidenziandone i limiti e le potenzialità quale nuovo soggetto politico rivoluzionario, soffermandoci inoltre sul
come fare moltitudine
22 Jean-Jacques Rousseau nasce a Ginevra nel 1712. Si trasferirà a Parigi dove avrà l’opportunità di partecipare

alla vita culturale della capitale. Nel 1750 scrive il Discorso sulle scienze e sulle arti, ottenendo una improvvisa
notorietà. Tornerà poi a Ginevra e scriverà il celebre Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini.
Nel 1761 scriverà il contratto sociale. Durante la Rivoluzione le sue ceneri vengono trasferite nel Panthéon di
Parigi.

21
teorizzazioni sembra quasi che la costruzione dello stato di natura funga da contro-altare
positivo attraverso il quale decriptare i “mali” della società civile. La natura con Rousseau
sembra vestire i panni di una dimensione utopica, un paradiso da ritrovare “governato” da
autonomia, comunanza di bisogni e assenza di desiderio – importante evidenziare come il
desiderio, in Rousseau, fa subito riferimento alla proprietà che a sua volta è il nerbo potente
dell’ingiustizia e l’origine della “depravazione sociale”.
Nonostante la positività attribuita allo stato di natura, l’ingresso in società diventa un
passaggio inevitabile ed è dovuto ad una caratteristica innata dell’uomo, la sua
“perfettibilità”. È proprio questa capacità “naturale” che è all’origine della corruzione e
costringe l’uomo ad uscire dallo stato di natura 23 .
Dicevamo che anche con Rousseau siamo costretti a disarticolare singolarità-comune, ad
abbandonare la singolarità per poter entrare nel contratto sigillando una comune
uguaglianza: “ [..] al posto della persona singola di ogni contraente, quest’atto di
associazione (il contratto) crea un corpo morale e collettivo (la posta in gioco è
l’organizzazione del molteplice da parte del potere), composto di tanti membri quanti sono
i voti dell’assemblea, che riceve da quest’atto stesso la sua unità, il suo io comune, la sua
vita, la sua volontà24 . Ancora una volta ci troviamo di fronte al problema dell’uno e dei molti
e siamo quindi costretti a polverizzare e (dis)perdere le differenze per poter pensare un noi
politico, tanto di più lontano da quel difficile tentativo di definire il comune come
composizione delle differenze. Nel comune le singolarità si articolano tra loro intreccia ndo
relazioni gioiose e ne escono potenziate. Solamente nel comune le singolarità possono
sopravvivere e rifiutare la loro massificazione e la loro de-singolarizzazione e, ancora,
solamente nel comune i Molti non vengono neutralizzati dall’esigenza di unità (astratta e
fittizia), mantenendo le proprie differenze.
Solo nel comune, e con il comune, i molti possono “indisciplinatamente” (nella misura in
cui è attraverso il disciplinamento che i molti vengono ricondotti all’unità) abitare un noi

23 Nuovamente sottolineerei come la natura viene costruita da Rousseau come pura finzione epistemologica
attraverso una logica di rovesciamento di ciò che è la società civile. In breve, si penserebbe la natura solo per
poter rendere evidente la critica della corruzione politica del nostro presente.
24 J.J Rousseau, Il Contratto Sociale, introduzione e traduzione di Valentino Gerratana. - 5. ed, Torino: Einaudi,

1961, p. 31

22
politico che sia realmente la condizione e il prodotto immanente dell’articolarsi delle
singolarità. Un noi politico fondato sulla prassi e dalla prassi. Non c’è nulla di trascendente
nel nostro comune, “è qui e ora”25 , è ovunque tra di noi. Badate bene, non si sta dicendo, per
dirla con una battuta, che come lo spirito santo, il comune “scenderà” su di noi
materializzandosi davanti ai nostri occhi, ma semplicemente che oggigiorno le forme del
comune non cessano mai di comporsi e ricomporsi nell’immanenza della nostra vita -
produzione comune, cooperazione, affetti, linguaggi, spazi- e che quindi le possibilità di
immaginare e costruire un oltre, sono potentemente accresciute26 . Anche qui, su
quest’ultima, affermazione c’è da far chiarezza: oggi ci sono troppe ragioni per ricercare un
luogo incontaminato, un rifugio dalla miseria del nostro presente- guerre, sofferenze,
depravazioni e sfruttamento caratterizzano sempre più il nostro mondo- eppure siamo
consapevoli che quell’oltre debba essere affermato e conquistato attraverso le lotte in questo
mondo. Il nostro paradiso è qui in terra, dobbiamo affermarlo con forza. Non invochia mo
nessuno spazio pacificato “al di fuori”, nessun giardino dell’Eden ipotetico dove cantare e
danzare. Certo, vogliamo cantare e danzare, ma in questo mondo, sottraendoci dalla morsa
dei rapporti di potere e immaginare nuovi modi di “stare al mondo” e vivere il mondo. Ciò
che interessa è mettere in evidenza che non c’è nessun fuori a questo mondo in cui vivia mo.
Se è vero dunque che siamo “costretti” a vivere questo mondo, e in questo mondo, nel bene
e nel male, nulla però ci vieta di immaginare e costruire un mondo in cui molti mondi sono
possibili27 .
Dopo questa breve digressione proviamo allora a tirare le somme: nelle due teorizzazio ni
che abbiamo analizzato, entrambi i filosofi operano una disgiunzione singolarità-comune.
Solamente una netta contrapposizione dei due termini, e un loro superamento, permette di
ricondurre i molti all’unità - attraverso un artificioso patto di tutti tra tutti (Hobbes) oppure

25 Riprendo una battuta (?) di Toni Negri pronunciata durante il seminario “la misura comune del divenire
democrazia” organizzato dal collettivo euronomade 25 in data 11 aprile 2014
26 A riguardo Hardt M. e Negri A., Comune Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010
27 Slogan zapatista. A riguardo si veda. Racconti per una solitudine insonne / subcomandante Marcos;

introduzione di José Saramago ; a cura di Juana Pons de Leon ; traduzione di Claudia Marseguerra, Milano :
Oscar Mondadori, 2001, Don Durito della Lacandona, Bergamo, Moretti & Vitali, 1998 e La storia dei
colori, Roma, Minimun Fax, 1999

23
per mezzo di un contratto espressione di una più che mai astratta volontà generale (Rousseau)
– e consente ad una moltitudine disordinata di scomporsi e ricomporsi in un popolo ordinato.
A riguardo, molto acuta e precisa, è la critica, nuovamente, di Judith Revel a domande del
tipo: le singolarità fondano il comune oppure il comune rende possibile il dispiegame nto
delle singolarità? Evidentemente porre le questioni in questi termini equivale nuovamente a
disgiungere singolarità e comune cadendo dunque nella stessa trappola. Da una parte, il
comune viene assunto come un prodotto dell’azione comune delle singolarità; dall’altra,
invece, viene pensato come un a priori, come un qualcosa da recuperare, per potere costruire
una comunità politica che sia la condizione di possibilità delle singolarità. Ecco che, allora,
interrogarsi sul rapporto di fondazione tra singolarità e comune (chi fonda cosa) risulta, se
non poco produttivo, al quanto fuorviante. Sarà oramai chiaro che il comune non è la natura,
né tantomeno uno spazio esistente, un a-priori da ritrovare e recuperare per riaprire il campo
della soggettivazione politica. Il comune non è neanche un prodotto, o più precisamente non
solo un prodotto. « Le commun […] doit à la fois être autre chose que ces différences qui le
construisent- le commun es une excédence -, et tout sauf un effacement des différences en
tant que différences. Produire du commun, c’est construire sous la forme d’un excès, d’un
surplus de réalité, quelque chose qui permette aux différences en tant que différences – à
toutes les différences – de s’y reconnaître comme puissance constituante »28 . Dunque il
comune sarà allo stesso tempo un prodotto e una condizione dell’essere. Il comune, in breve,
è la produzione di un movimento costituente senza fine, è «ce que les hommes choisisse nt
[…] de construire ensemble à partir de leurs différences. Le commun […] es le produit d’une
démarche que est à la fois constituante et stratégique, dynamique et politique, en devenir et
antagoniste »29 . La sfida, seppur difficile, è allora quella di pensare i due termini, singolar ità
e comune, insieme, e da qui porre le basi per poter costruire la moltitudine 30 .
Concludiamo da dove siamo partiti, ovvero dal momento in cui la modernità politica (e
giuridica) ha squalificato il comune saturando l’intero pensiero politico. Abbiamo usato

28 Judith Revel, « Produire du la subjectivité, produire du commun : trois difficultés et un post-scriptum un


peu long sur ce que le commun n’est pas », séminaire « Du public au commun » séance du 5 décembre 2010,
p.6
29 Ibidem.
30 Sul problema del “divenire principe della moltitudine”, secondo l’affascinante definizione di Hardt M. e

Negri A., e della questione del potere ritornerò più avanti nel capitolo IV.

24
l’immagine di una gabbia d’acciaio duale che impediva di costruire un’altra grammatica
politica (moderna). La cosiddetta “mitologia bianca” si era dispiegata cristallizzando la
tensione tra due modelli proprietari; da una parte quello dello Stato Sovrano e dell’altra
quello della proprietà privata. La morsa proprietaria soffocava dunque il comune. Come
sottolineano Michael Hardt e Antonio Negri “il corso delle tre grandi rivoluzioni borghesi
[...] mostra l’emergere e il consolidamento della repubblica della proprietà” e “[…] in
ognuna di queste rivoluzioni, la creazione di un ordine costituzionale e dello Stato di diritto
ha avuto lo scopo di difendere e legittimare la proprietà privata”31 .
Aveva ben ragione Rousseau quando criticava duramente la proprietà privata indicando la
come fonte di corruzione, sofferenze e miseria. Eppure, denunciando la privatizzazione del
comune e la sua corruzione, e ritenendo impossibile un ritorno a quel luogo incontaminato
che per lui era lo stato di natura, Rousseau è costretto a piegarsi ad un altro modello
proprietario. Ecco il contratto sociale, ecco la legittimazione e l’apogeo della proprietà
pubblica. Poiché la proprietà privata era la radice dell’ineguaglianza sociale e della
corruzione, come pensare un sistema politico che da una parte tenesse a bada gli appetiti
individuali e dall’altra “restituisse” ad un tutti più che mai astratto ciò che veniva sottratto
alla bramosia dell’individuo proprietario? Si creò un sistema dove tutto, appartenendo a tutti,
non era di nessuno. Lo stato in questa accezione rappresenta, nello stesso momento, tutti e
nessuno. Questo è precisamente quello che prevede il contratto sociale di Rousseau; ovvero
una gestione pubblica del comune, della sua ricchezza, della sua produzione. Con la gestione
pubblica dello Stato il comune viene comunque saccheggiato, occultato e squalificato. Una
discussione feconda sul tema del comune non può dunque che articolarsi andando a colpire
al cuore il concetto di proprietà. Si è sempre ragionato presupponendo che l’unica alternativa
alla proprietà privata fosse la proprietà statale, e viceversa. Come se il tutto si riducesse ad
un gioco a somma zero, dove più proprietà privata corrisponde a meno proprietà statale, e
viceversa. In quest’ottica l’unico argine ai mali della proprietà privata è lo Stato regolatore
e, a sua volta, la rigidità e la pesantezza dispotica di quest’ultimo possono essere superate
solamente attraverso l’azione salvifica della privatizzazione. È come se i due “modelli
proprietari” si alternassero, in momenti dati, per far fronte alle mancanze del proprio

31 Hardt M. e Negri A., Comune Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p. 23

25
“opposto”. Una spirale senza fine dove i due si susseguono sistematicamente. Bisogna
precisare che questi due modelli proprietari vengono solamente apparentemente contrapposti
in quanto entrambi condividono una medesima logica “esclusiva” (e quindi non comune),
seppur nel corso della storia sono sempre stati fatti giocare l’uno contro l’altro dando vita ad
una serie di opposizioni: socialismo/liberalismo, pubblico/privato, ecc. Il nostro comune
rifiuta la proprietà e rifiuta la violenza dei confini che vi si cercano di tracciare. « […] Le
commun n’est pas un objet de propriété. […] le commun politique est radicalement hors
propriété parce qu’il n’est pas un “bien” et qu’il n’y a de propriété, privée ou commun, que
de ce qu’est un bien »32 . Non è dunque un oggetto o un bene il nostro comune che può essere
appropriato e recintato. Come scrive Ugo Mattei riferendosi al modello di produzione e
sostentamento fondato sul comune, riscontrabile nell’età medievale, “[…] contrapposizio ni
moderne quali “avere una terra” o “essere su una terra” perdono ogni tipo di senso”33 e
aggiunge che questa produzione, basata su di un modello ecologico, aveva a che fare con
l’essere piuttosto che sull’avere e che quindi “prevaleva una dimensione qualitativa rispetto
a quella quantitativa”. Mattei coglie bene la natura relazionale e qualitativa del comune ma,
attraverso un gioco di specchi, descrive il comune come qualcosa che c’era già e che abbiamo
perso con l’ingresso nella modernità. Sembrerebbe far emergere un a priori, uno stato di
natura pre moderno desiderabile e da riacquisire (sulla scia di Rousseau). E questo stato di
natura, questo spazio del comune, lo rintraccia nel modo di produzione e nel modo di “stare
al mondo” del medioevo. Le sue pagine, con un tono al quanto nostalgico, ci guidano
attraverso un comune perduto e da ritrovare, una “società fondata sulla comunione delle
ricchezze”34 (anche se Mattei tiene a sottolineare che non c’è né nostalgia né tantomeno
romanticismo).
Per concludere; abbiamo visto come la modernità ha completamente strutturato il nostro
modo di pensare, creando un immaginario collettivo che ha plasmato la nostra quotidianità
creando la realtà che ancora abitiamo. Una realtà che di fatto ha escluso, o meglio, non ha
permesso di pensare e costruire il comune come spazio politico (possibile). Nella misura in
cui la modernità politica “illuminata” ha costruito, all’interno di precisi rapporti di potere, la

32 Dardot P. e Laval C., Commun Essai sur la révolution au XXI siècle, Paris, La Découverte, 2014, p. 238
33 Mattei U., Beni comuni. Un manifesto, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2011, p.28
34 Ibidem, p. 40

26
propria narrazione, ovvero come si racconta e viene raccontata; dobbiamo affermare una
contro-narrazione capace di tagliare trasversalmente la narrativa dominante e farvi rivivere
le mancanze, le aporie e gli occultamenti, svelando, in maniera radicale, “i punti ciechi della
storia”. Sicuramente tra quei punti ciechi c’è l’esperienza coloniale europea, la conquista
brutale del “Nuovo Mondo”, che in maniera minuziosa e chirurgica è stata banalizzata come
evento periferico ed estraneo dalla grande narrazione dell’Illuminismo. Non solo una pagina
nera d’altronde. Se il colonialismo è stato un vettore imprescindibile per la modernità allora
è facile intuire come questa modernità non può che definirsi, al contempo, europea e non
europea. Non possiamo che affermare che “la storia globale della modernità deve essere letta
da una pluralità di luoghi e di esperienze, all’incrocio tra una molteplicità di sguardi che
destabilizzano e decentrano ogni narrativa “eurocentrica”35 . Ecco che allora siamo
“costretti” ad incontrare la critica postcoloniale.

35 Mezzadra S. La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte, 2008,
p.11

27
1.2 “I punti ciechi della storia”. Contro-geografie della modernità.

Non abbiamo alcuna voglia di


conquistare il cosmo, vogliamo
soltanto allargare fino ai suoi ultimi
confini le frontiere della terra […]
abbiamo bisogno di specchi.
Stanislaw Lem, Solaris

La modernità si presenta come un giano bifronte che nasconde prepotentemente uno dei suoi
volti, quello scomodo ovviamente. Se da una parte si identifica con la Ragione, con l’età dei
lumi, con la rottura della tradizione e la secolarizzazione; dall’altra mostra il suo essere una
relazione di potere con il suo portato di sfruttamento e dominio36 . Una modernità che si
presenta come spartito gerarchico, come grande principio ordinatore, e ancora come
organizzazione dei rapporti di forza nel sistema-mondo37 . Evidentemente affermare questa
“duplicità” della modernità significa rompere in qualche maniera col mainstream che
vorrebbe la modernità come grande vettore di sviluppo e progresso, come forza neutra
capace di liberare il mondo dalle tenebre della superstizione. Questo altro sguardo che
dobbiamo assumere permette di sventrare la balena dal suo interno e far rivivere “i punti
ciechi”. Con Walter Mignolo diciamo che non c’è modernità senza colonialismo e, che
quest’ultimo, è costitutivo della modernità”38 . Non possiamo dunque neanche immaginare

36 Si veda a riguardo Hardt M. e Negri A. Impero, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2005
37 Il termine sistema mondo fa riferimento alla world-systems theory così come formulata Immanuel
Wallerstein , con i contributi importanti di vari altri autori (tra i quali si possono menzionare Samir Amin ,
Giovanni Arrighi, Christopher Chase-Dunn, Andre Gunder Frank, Peter Turchin, Andrey Korotayev, Janet
Abu Lughod, e Tom Hall). L’analisi del sistema-mondo ha due fondamentali ascendenze: la letteratura neo -
Marxista sullo sviluppo e la scuola francese degli Annales (particolarmente Fernand Braudel). Sul tema si veda,
Wallerstein I. Il sistema mondiale dell'economia moderna, Bologna, Il Mulino; sempre dello stesso autore Alla
scoperta del sistema mondo, Roma, Manifestolibri, 2003; Arrighi G. Il Il lungo XX secolo, Il Saggiatore,
Milano, 1996; si vedano anche i tre volumi Braudel F. Civiltà materiale, economia e capitalismo, XV-XVIII
secolo, Torino, Einaudi, 1977
38 Si veda Mignolo W.D. The idea of Latin America, Blackwll, Malden, Mass., 2005, ma anche Mellino M. La

critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e multiculturalismo nei postcolonial studies , Roma,


Meltemi, 2005.

28
la modernità, senza fare riferimento ai numerosi incontri che questa ha intrattenuto con altri
“tempi” e altri “spazi”. Se definiamo con Michael Hardt e Toni Negri la modernità un
insieme di relazioni di potere, possiamo porre fine all’immagine della modernità come un
movimento progressivo trascendentale e dunque come progetto non ancora concluso. “Se
intendiamo la modernità come un sistema di relazione di potere, il compimento della
modernità non può essere altro che la riproduzione indefinita del dominio”39 . In questo
senso, un elemento che ci permette di evadere dalla gabbia d’acciaio che avvolge la
modernità, è sicuramente l’analisi dei movimenti di resistenza che hanno agito all’inter no
dei rapporti di potere (assoggettamento/dominio) della modernità. Questo punto di vista
consente di pensare le forze dell’antimodernità come interne e costitutive della modernità
stessa. Assumendo uno sguardo post-coloniale possiamo osservare, in maniera chiara, come
la modernità non ha residenza né in Europa né tantomeno nelle colonie, ma nelle relazio ni
di potere materializzatesi dall’incontro/scontro tra spazi e tempi differenti. Se partiamo dal
presupposto che viviamo un tempo segnato dalla “postcolonialità”, ovvero un tempo
contrassegnato dall’esperienza coloniale, con il suo portato di violenza e dominio, quale
momento costitutivo della modernità occidentale, allora dobbiamo indagare le “formule” che
hanno gerarchizzato gli spazi e i tempi appunto, e prodotto la subalternità quale condizio ne
che condanna milioni di donne e uomini a posizioni di assoggettamento. Allo stesso tempo
però si tratta anche di svelare quelle che sono state, e continuano ad essere, pratiche di
soggettivazione e di sottrazione dall’ordine del discorso eurocentrico.
Parlare di un “tempo post-coloniale vuol dire “far continuamente riferimento ad un tempo in
cui, contemporaneamente, l’esperienza coloniale appare consegnata al passato e, proprio per
le modalità con cui il suo “superamento” si è realizzato, si installa al centro della nostra
esperienza contemporanea, con il suo portato di dominio e violenza, ma anche di
insubordinazione, che la contraddistingue”40 . Gli studi postcoloniali mettono in discussione
una lettura della Storia dell’espansione coloniale descritta come evento “perifirico ”,
occultandone la funzione costitutiva nell’esperienza globale della Modernità 41 .

39 Hardt M. e Negri A. Impero, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2005, p. 79


40 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale Storia e politica nel presente globale, ombre corte, Verona, 2008,
p. 25
41 Capuzzo P. Culture del consumo, Bologna, Il Mulino, 2006

29
Postcolonialismo significa, dunque, partire dall’assunto che la modernità dispiega le sue
energie con l’estrinsecazione dell’Europa, ovvero l’uscita da sé dell’Europa. Affermare ciò
significa, al contempo, definire la modernità come un fenomeno europeo e non europeo;
ovvero che la modernità non può essere concepita, pensate né tantomeno immaginata, senza
far riferimento ai numerosi incontri che l’Europa ha prodotto durante la sua fuoriuscita da
sé. Ponendo l’accento sulla nozione d’incontro, l’intento è quello di metterne in evidenza
soprattutto la natura conflittuale. Questi incontri sono segnati da violenza, saccheggio e
morte. È una storia di lotte tra dominio e resistenza. Molti critici dell’esperienza colonia le
europea si soffermano solamente sulla violenza e la brutalità di quegli incontri, conquista e
rapina dell’uomo bianco appunto, senza far riferimento minimamente alle formidab ili
resistenze che hanno animato quegli stessi scontri. La modernità nel suo farsi mondo non
incontra solamente delle differenze, qualcosa che possiamo definire altro da sé e che prova
con la frusta a sottomettere, ma delle vere e proprie resistenze. Ecco che allora il punto di
vista postcoloniale permette di decentrare il nostro sguardo aprendo le coordinate spaziali e
temporali della modernità problematizzandole: la tratta degli schiavi e le piantagioni di
cotone, la guerra di liberazione algerina e le insurrezioni contadine nell’India britannica. Il
contadino ribelle, l’eroe non celebrato dell’indipendenza britannica, e Toussaint Louverture,
ovvero la grande rivolta degli schiavi neri. Tutto ciò smette di essere relegato nel
dimenticatoio della storia fissandosi al centro della nostra contemporaneità, del nostro
presente globale. La lente degli studi post-coloniali fa emergere un campo di tensione
(costitutivo) all’interno del quale si articolano una pluralità di storie, di incontri, di pratiche
di lotta e di assoggettamento che ne definiscono la materialità. Gli studi postcolonia li
permettono anche di precisare un aspetto decisivo del nostro presente: un presente
caratterizzato da elementi tipicamente coloniali, ad esempio logiche di dominio tipicame nte
coloniali fuoriescono dagli spazi da cui hanno avuto origine, fino ad investire le nostre
metropoli42 : campi di concentramento, guerre totali, apartheid, ovvero dispositivi di dominio
che nel XXI secolo l’umanesimo liberal-borghese ha trasformato rispettivamente in campi
di detenzione per migranti e guerre umanitarie. La critica postcoloniale lavora e si confronta,

42 Si
fa riferimento Ashcroft B., Griffiths G., Tiffin H., The Empire writes back: theory and practice in post-
colonial literatures, London ; New York : Routledge, 1989

30
al fine di consegnarci una contro-storia e una contro-geografia della modernità e del
capitalismo contemporaneo nitidissima, con l’obiettivo di far emergere quelle violenze
economiche e culturali, e il razzismo, inflitte per secoli dal colonialismo su milioni di uomini
e donne, e che continuano, ancora oggi, a condannare il nostro presente globale. Incontrare
le opere di autori come Fanon, Cesaire, Said e del collettivo dei Subaltern Studies, per citarne
alcuni, ci porta ad un confronto obbligato con la nostra attualità e rappresenta un momento
fondamentale per una comprensione più efficace del nostro presente soprattutto per chi sente
l’esigenza di intraprendere un lavoro di critica radicale del sistema capitalistico moderno
nella ricerca costante, e indispensabile, di un’alternativa. Del comune.
In questo senso lavorano gli autori dei subaltetn studies: Gayatry C. Spivak43 e Ranajit
Guha44 su tutti, ma poi anche Partha Chatterjee, Dipesh Chakrabarty che, attraverso un
approccio interdisciplinare, tentano di ricostruire la storia del subcontinente indiano, dando
ascolto e voce ai subalterni, che la storiografia dominante, quella di stampo eurocentrico dei
colonizzatori britannici da un lato e quella dell’élite nazionalista dall’altro, avevano messo
a tacere. La storiografia coloniale “è un trucco illusionistico per far sparire la resistenza dalla
storia politica dell’India sotto il dominio britannico”45 . È dunque la definizione, e la
fissazione, di una contro-storia dell’India coloniale e post-coloniale l’oggetto del lavoro di
ricerca di questo collettivo. I loro scritti non rimangono, però, confinati all’interno di un
unico spazio e di un unico tempo storico ma si aprono ad una riflessione critica ben più
ampia che attraversa qualsiasi barriera e qualunque confine territoriale e razziale, portando
alla luce “l’irreversibile cesura che le lotte anticoloniali, con la loro dimens io ne

43 Gayatri Chakravorty Spivak (Calcutta, 24 febbraio 1942) è una filosofa statunitense, di origine bengalese.
Attiva nel campo degli studi postcoloniali, del femminismo, della teoria della letteratura e degli studi di genere.
Particolarmente interessata alla filosofia europea, nel 1976 traduce in inglese il fondamentale testo De la
grammatologie (Sulla grammatologia) di Jacques Derrida, partecipando in questo modo all'introduzion e
del decostruzionismo nel dibattito accademico americano. Oggi insegna alla Columbia University.
44 Ranajit Guha, storico indiano. Dopo essersi formato e aver insegnato in India, negli anni Settanta emigrò in

Gran Bretagna. Docente in vari atenei inglesi, statunitensi e australiani, Guha ha però conservato un forte
legame con gli storici del suo paese, diventando uno dei massimi esponenti della storiografia dei Subaltern
Studies Journal e post-colonial studies. Di orientamento marxista, ha sviluppato le categorie gramsciane di
“egemonia” e “dominio”, applicandole al sistema coloniale e in particolare al c aso indiano.
45 Guha R., Dominance without Hegemony : History and Power in Colonial India, Cambridge, Mass., London,

Harvard university press, 1997, p. 89

31
immediatamente globale, hanno inflitto al tempo della modernità” 46 .“C’è qualcosa di
psicotico nella convinzione secondo cui la modernità sarebbe un’invenzione esclusivame nte
europea”, autoimponendosi […] di negare sistematicamente il ruolo del resto del mondo e,
in special modo, delle parti del mondo subordinate al dominio degli europei, nell’opera di
costruzione e nel dispiegamento della modernità”47 .
La posta in gioco è allora quella di disegnare altre geografie della modernità, spiazzar la
letteralmente, strapparla dal suo presunto “centro” e farla rivivere in diverse latitudini, e al
contempo risvegliare (le) altre storie silenziate e addormentate dalla Storia (ufficiale), che
perfidamente esige la lettera maiuscola. Contro-geografie e contro-storie dunque. Da una
parte l’Inghilterra e la perla dell’Impero britannico, dall’altra la Francia e la sua gioiello delle
Antille. Da una parte due grandi Metropoli, centri politici ed economici della modernità,
come Londra e Parigi, dall’altra due colonie irrinunciabili per i due Imperi coloniali; l’India
e Santo Domingo. E ancora, da una parte le forze trascendentali della modernità, i vettori del
progresso e dell’accelerazione del tempo storico, dall’altra l’immanenza delle lotte, le forze
dell’antimodernità e le resistenze. Nessun tempo lineare e nessuno spazio pacificato.
Apriamo dunque l’archivio coloniale al fine di far risuonare le altre storie, quelle silenziate,
quelle minori, in modo tale da ridisegnare completamente le coordinate spaziali e temporali
della modernità.
Muovendo dall’analisi dal libro, “Subaltern studies - modernità e (post) colonialismo”48 ,
possiamo vedere come la storia dell’India britannica non si limiti ai soli rapporti tra le
autorità coloniali e le élite indigene dominanti, ma piuttosto come quella storia sia
incomprensibile e falsata, senza far continuamente riferimento ai movimenti autonomi delle
masse “subalterne”. La storia ufficiale dell’India risulterà dunque incompleta e parziale,
amputata da una sua dimensione costitutiva, ovvero il contributo essenziale portato dalle
masse subalterne alla formazione della nazione. Le storie plurali, silenziate dalla Storia
ufficiale, quindi, racconterebbero qualcosa di diverso di quello che siamo abituati a legger e

46 Mezzadra S., La condizione postcoloniale Storia e politica nel presente globale , Ombre corte, Verona, 2008
pag.27
47 Hardt M. e Negri A, Comune, Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p. 77.
48 Guha R. e Spivak G., Subaltern studies - modernità e (post) colonialismo volume curato da Sandro Mezzadra,

edito da ombre corte, Verona, 2002

32
nel paragrafo dedicato al colonialismo britannico in India nel nostro manuale di storia
contemporanea: non solo Ghandi, Nerhu49 e la “bontà” della “madre britannica” che aveva
adempito alla sua missione civilizzatrice, dietro all’edificazione dell’India “indipendente ”,
ma anche le masse subalterne di contadini che attraverso continue pratiche di sottrazione e
di lotta riuscirono, per primi, a mettere sotto scacco la governamentalità coloniale e dare
inizio alla lotta per l’indipendenza dell’India. Fondamentale risulta essere la figura del
subalterno, attorno alla quale ruota tutta l’opera critica dei subaltern studies. Quella della
subalternità è una categoria ripresa da Guha dai quaderni gramsciani nel tentativo di definire
il “soggetto rivoluzionario extra-occidentale”. Gli storici dei subaltern studies hanno il
merito di aver ri-concettualizzare il termine subalterno aprendone il campo semantico alle
masse eterogenee di contadini indiani. Gramsci maturò questo termine, che peraltro coniò in
sostituzione di “proletario” per sfuggire alla censura dei suoi carcerieri50 , mettendolo in
relazione ai gruppi socialmente subordinati al dominio della classe egemone, ovvero i
proletari che risultavano non essere né uniti né tantomeno organizzati 51 .
“Di rango inferiore”: è questa la definizione che possiamo trovare nei vocabolari e a cui si
rifà Guha in tutto il corso della sua opera, “per indicare l’attributo generale della
subordinazione nelle società dell’Asia meridionale [...] sia quest’ultima espressa in termini
di classe, casta, età, professione, genere”52 . Guha e gli altri storici del collettivo ne hanno
però complicato la portata aprendo radicalmente il campo semantico dello stesso termine in
chiave funzionale. Il termine subalterno è dunque legato a quella condizione di subalternità,
ovvero quella radicale mancanza di autonomia da parte del “soggetto”. Questa condizio ne
di fatto gli nega la parola, o meglio la sua parola viene forclusa, per utilizzare il termine
lacaniano riproposto da Spivak in relazione al soggetto subalterno. È quindi la mancanza di
parola, ancora prima della dimensione materiale, a caratterizzare la condizione di
subalternità. Spivak ci consegna una definizione di subalterno potentissima: è sulbaterno

49 Pandit Jawaharlal Nehru (Allahabad, 14 novembre 1889 – Nuova Delhi, 27 maggio 1964) è stato un politico
indiano, Primo Ministro indiano dal 1947 al 1964 ed una delle personalità politiche più in vista del mondo.
Erede spirituale di Gandhi, egli diede una fisionomia politica al movimento nazionalista della nonviolenza del
grande capo spirituale dell'India, e condusse la battaglia per l’indipendenza.
50 Si veda, G.CH.Spivak, The New Sulbaltern: A Silent Interview.
51 Per un maggior approfondimento dell’influenza gramsciana negli studi postcoloniali si veda: P. Capuzzo, I

subalterni da Gramsci a Guha, in: Gramsci, le culture, il mondo, Roma, Viella, 2009, pp. 41-51.
52 Prefazione al primo volume dei Subaltern studies, Renajit Guha.

33
colui che non ha una propria capacità di parola, ovvero un “essere rimosso/a da ogni linea di
mobilità sociale”53 . Un’ altra categoria fondamentale risulta essere, ancora una volta
recuperandola dall’archivio gramsciano, quella di egemonia intesa come capacità di dominio
di una classe su un’altra. L’egemonia non è solo potere coercitivo, è anche, e soprattutto,
potere di imporre “grandi narrazioni” attorno alle quali viene a costruirsi quel consenso che
di fatto le legittima. Il potere egemone è in grado di imporre una determinata visione delle
cose, del tempo, dello spazio e soprattutto della storia, questo però non significa che viene
meno il carattere coattivo e coercitivo del potere egemone.
Guha nel suo saggio “La prosa della contro-insurrezione” mette in evidenza quella relazio ne
binaria subordinazione/dominio secondo la quale i gruppi “di rango inferiore” sono sempre
soggetti alla attività dei gruppi dominanti anche qualora questi insorgono e si sottraggono
dall’ordine costituito. L’intento di Guha, come accennato in precedenza, è quello di
delegittimare le varie storiografie che si arrogano il diritto di narrare la Storia dell’Ind ia
mistificando e silenziando le pluralità di storie e la moltitudine di soggetti che emergono dal
basso. Le storiografie elitarie, del nazionalismo indiano e dell’amministrazione britannica,
celebrano l’ingresso dell’India nella modernità condannando all’irrilevanza ogni azione dei
subalterni. Possiamo qui ritrovare quell’analisi della modernità di Reinhart Koselleck 54
descrittaci come esperienza di accelerazione del tempo storico attraverso la riduzione dal
plurale delle storie tradizionali al “singolare collettivo” della Storia che diventa quindi un
movimento “unidirezionale e lineare” veicolato dal progresso. Le storie al plurale vengono
sussunte all’interno di un’unica Storia per permettere a quest’ultima di costituirsi come
Storia mondiale, come una storia che unifica e determina lo scorrimento del tempo verso una
finalità univoca scandita dal progresso. Il progresso determina quindi l’esistenza di un
mondo “civile”, dal quale questo progresso si mette in moto, contrapposto ad un mondo
barbaro arretrato e senza storia. Gli spazi altri dalla “civiltà” dovevano, dunque, essere
indirizzati verso quell’unilateralità della storia che, per dirla in termini hegeliani, “procedeva
da est verso ovest” e percorreva “stadi di sviluppo” predeterminati. “Prima in Europa e poi
nel resto del mondo” […] “confinando gli indiani, gli africani e le nazioni altrettanto “rozze”

53 Tratto dal passo inglese http://www.mcgill.ca/files/crclaw-discourse/Can_the_subaltern_speak.pdf


54 Si veda, Kosellek, R., Futuro passato: per una semantica dei tempi storici, Clueb, Bologna, 2007.

34
della storia in un’immaginaria sala d’aspetto della storia” 55 . Le popolazioni non europee,
secondo John Stuart Milss, in particolare indiani e africani, non erano ancora abbastanza
civilizzati per governarsi56 . Da qui la legittimazione della condizione di subalternità del
colonizzato, “non ancora pronto”. “Avanziamo tutti verso la medesima destinazio ne,
chiosava Mill, ma naturalmente alcuni popoli arriveranno prima degli altri” (facciamoce ne
una ragione) e di conseguenza avrebbero dovuto aspettare che la Storia gli investisse nel suo
tempo omogeneo e vuoto proiettandoli nella modernità. Ma contro quell’attesa imposta dai
coloni, il colonizzato rivendicava e affermava l’immediatezza dell’azione di resistenza,
insistendo radicalmente sull’adesso (now) come orizzonte temporale della loro liberazio ne.
Questa è la storia del contadino ribelle, l’eroe non celebrato della prima ondata di resistenza
contro il colonialismo britannico.
Nel saggio di Guha, già citato, vediamo come centrale nella sua riflessione risultano appunto
le insurrezioni contadine sviluppatesi in età colonia le. Il nostro autore insiste sul carattere
estremamente politico che assumono le insubordinazioni contadine e come queste siano
fondamentali alla comprensione dell’indipendenza indiana e del tramonto del sistema semi-
feudale. “Soltanto la violenza delle masse riuscì ad interrompere la trama del dominio
coloniale britannico”57 . Guha ci presenta l’insurrezione dei santal58 come il preludio della
grande ribellione del 1857 che poi rappresentò la strada maestra della lotta per
l’indipendenza indiana. Questo per sottolineare, ancora una volta, come la storiogra fia
colonialista, così come quella nazionalista, aveva palesemente silenziato e tacciato come
eventi “non storici” tutte le pratiche di insubordinazione e di sottrazione delle classi
subalterne al potere delle élite nazionali e dell’amministrazione coloniale. Guha illumina

55 Chackrabarty D., Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2000, p.22


56 Si vedano a riguardo due classici saggi liberali, Mill J.S; a cura di Michele Prospero, Considerazioni sul
governo rappresentativo, Roma, Editori riuniti, 1997; e Mill J.S.; introduzione, traduzione, note e apparati di
Giovanni Mollica, Sulla libertà, Milano, Bompiani, 2000.
57 Ranajit Guha, La prosa della contro-insurrezione in Subaltern Studies Modernità e (post) colonialismo,

ombre corte, Verona, 2002, p. 85


58 La più popolosa comunità indigena dell’India, largamente diffusa sull’altopiano del Chota Nagpur tra Bihar,

Jharkhand, Orissa e West Bengal. Parlano una lingua del gruppo mundari e utilizzano l’alfabeto olchiki
introdotto nel 1925. Un’ingente migrazione di santhal avvenne nel diciottesimo e diciannovesimo secolo
quando gli inglesi sfruttarono la loro forza-lavoro per deforestare e mettere a coltura larghi tratti di terreno. Le
condizioni economiche, politiche e sociali imposte dal regime coloniale minarono alla radice la sopravvivenza
e l’identità dei santhal. Si veda anche http://en.wikipedia.org/wiki/Santhal_rebellion, a rivolta contro gli inglesi
e contro gli indiani non autoctoni.

35
sulla falsità della storiografia ufficiale e di contro ci descrive uno spazio autonomo che è
quello della politica del popolo, lo spazio della rivolta, al di fuori e contro lo spazio della
politica delle élite. È uno spazio eterogeneo, meticcio, calpestato da una pluralità di soggetti
subalterni. È uno spazio che riguarda la mobiltà e la rivolta, ma in ragione di ciò, viene
continuamente omesso dalla Storia ufficiale dell’India. È uno spazio che ibrida e altera
quello spazio liscio e omogeneo presentatoci dalla trama discorsiva coloniale. “Tutte le volte
in cui un contadino si è ribellato al dominio esercitato dal Raj lo ha fatto violando
esplicitamente una serie di codici che definivano la sua condizione reale in quanto membro
della società coloniale [...] che ne determinava la condizione stessa di subalternità”59 . In
questo spezzone possiamo cogliere tutta la politicità e la potenza rivoluzionaria che Guha
rivendica per le rivolte contadine nell’India coloniale. Prioritaria risulta, dunque, la necessità
per lo storico subalterno di produrre un racconto opposto a quello mainstreaming, o almeno
nei termini di una critica radicale del racconto del potere al fine di sottrarvisi. È questo il
gesto per conquistare autonomia di parola e liberarsi dalle catene della subalternità. Insieme
a Guha riaffermiamo la capacità dei subalterni di produrre storia.

Questa consapevolezza dei contadini (ribelli)


sembra aver ricevuto ben poca attenzione nella
letteratura sul tema. La storiografia si è
accontentata di considerare il contadino ribelle
semplicemente come una persona empirica, o
come membro di una classe, ma non come essere
la cui volontà e la cui ragione giocavano un ruolo
essenziale nel costituire quella prassi chiamata
ribellione.60

59 Ranajit Guha, La prosa della contro-insurrezione in Subaltern Studies Modernità e (post) colonialismo,
ombre corte, Verona, 2002, p. 43.
60 Ivi, p. 45

36
Le sue pagine aprono al confronto obbligato con quel binomio inscindibile di potere/sapere
che ha permesso al colonialismo, prima, e all’imperialismo poi, di elevarsi a missioni sociali
volte a portare civiltà laddove vi era solamente barbarie e veicolare, grazie alla retorica del
progresso, i tempi e gli spazi altri verso la modernità europea. È il potere a determinare il
sapere che a sua volta legittima il potere. Se appunto subalterno è mancanza di parola, allora
potere è capacità di parola, ossia la capacità di produrre un discorso capace di dare un ordine
e un senso ai fatti. La verità, così come ogni relazione tra gli individui, è dunque intrisa di
forza e di potere e non è solo strumentale ad un determinato dominio (egemonia) ma è essa
stessa una forma di dominio, o meglio un microsistema di potere61 .
Guha attraverso una ricostruzione attenta e precisa delle varie pratiche ribelli messe in atto
dai contadini indiani, enfatizzandone il carattere radicalmente politico, cerca di scardinare i
codici del discorso coloniale che sostengono che le ragioni di tali insurrezioni risiedano nei
fattori di deprivazione economica e politica, fattori cioè che non hanno nulla a che vedere
con la coscienza contadina. Questa interpretazione condanna la ribellione ad essere una
specie di riflesso automatico, una risposta istintiva a sofferenze fisiche. L’insurrezione è
dunque vista come esterna alla coscienza contadina stessa. Secondo questa narrazione,
quindi, l’insurrezione viene privata di qualsiasi politicità e descritta come un istinto quasi
animale.
Ripercorrendo i passi di Guha, vediamo come la trama lineare della storia coloniale, fatta di
dominio e sfruttamento, tenta di occultare le lotte anticoloniali e farle passare come semplic i
inconvenienti della Storia. In quest’ottica, il soggetto colonizzato che tenta coscienteme nte
di liberarsi dalle catene del potere coloniale viene privato di ogni possibilità di interve nto
diretto sulla Storia. Le storie plurali di ribellione e di insorgenza vengono quindi silenziate
e spazzate via dall’ordine del discorso coloniale della Storia in quanto non ascrivib ili
all’Occidente. Ecco allora che la critica postcoloniale si lancia anche contro tutto quel filone
“marxista” reo di non riuscire a cogliere la straordinaria politicità delle rivolte nelle colonie
e incapace di sottrarsi dalla concezione lineare della transizione al capitalismo consegnando,

61 Per un approfondimento sul tema del potere si veda. Michel Foucault Microfisica del potere: interventi
politici, a cura di Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino, Einaudi, Torino 1977, nonché Sorvegliare e punire:
nascita della prigione (1975), trad. Alcesti Tarchetti, Einaudi, Torino 1976.

37
di conseguenza, la soggettività politica alla sola figura del cittadino e del proletario
condannando all’irrilevanza tutti gli altri soggetti subalterni, non ancora “toccati” dalla
Modernità. Con Guha insistiamo sul carattere radicalmente politico delle azioni contadine :
il contadino si liberava della sua subalternità, affermandosi come soggetto della propria
storia attraverso pratiche di lotta e resistenza.
Far risuonare il grido di battaglia del contadino ribelle non, da una parte, consente di
smascherare la violenza delle rappresentazioni e delle narrazioni della grande Storia della
Modernità, e al contempo aprire, con la stessa violenza con la quale vi sono stati confinata ti
i popoli “rozzi”, quella immaginaria sala d’attesa della storia (non così troppo immagina r ia
tutto sommato), già richiamata in precedenza; dall’altra, obbliga a cogliere tutta la potenza
delle forze dell’antimodernità che in un vortice dialettico di continuo incontro/scontro con
le forze della modernità ne hanno messo sotto scacco le forme del dominio 62 . È facile dunque
notare come sia proprio da quello scontro tra forze contrapposte che viene a determinarsi e
materializzarsi la stessa Modernità che, posta sotto questa nuova luce, rappresenta un campo
di tensione disseminato dalle resistenze alle forme del dominio. In questo senso allora
l’antimodernità è interna e inseparabile dalla Modernità.
Assumere lo sguardo globale della world history63 permette allora di spiazzare e
cortocircuitare la narrazione lineare della modernità aprendola nuovamente ad altri spazi e
ad altre latitudini, e raccontare un’alta storia, quella di Haiti, quella di una rivoluz io ne
moderna. Ancora una volta una storia silenziata, amputata dal suo portato rivoluzionario e
omessa dal grande Pantheon delle rivoluzioni. “Schiavi in rivolta” come amava apostrofarli

62 Ricordiamoci della definizione che ci siamo dati, assieme a Hardt, Negri, Mignolo ed altri, della modernità:
ovvero una grande macchina d’organizzazione dei rapporti di forza e non come movimento progressivo
trascendentale non ancora compiuto.
63 La world history (da non confondere con la storia mondiale o la storia universale), è un metodo di

insegnamento e di indagine storiografica emerso nel 1980 che vuole esaminare la storia da una prospettiva
globale superando le visioni monoculturali e parziali. Non deve es sere confusa con la storia comparata, che,
come la world history si occupa della storia di molteplici culture e nazioni, ma senza la visione globale.
La world history rileva e analizza schemi e modelli applicabili a tutte le culture umane nell'evoluzione storica.
Questa disciplina basa il suo studio su due categorie storiografiche principali: il sincretismo (come i processi
storici hanno avvicinato le culture più disparate) e la discrepanza (la varietà e le differenze tra i modelli sociali).
Per affrontare i temi riguardanti la world history, si veda; Giovanni Gozzini, Dalla "Weltgeschichte" alla "world
history": percorsi storiografici attorno al concetto di globale, in "Contemporanea" 1/2004, pp. 3-38, doi:
10.1409/12874; e Giovanni Venegoni, Alle origini della world history, in "Equilibri" 3/2013, pp. 413-422, doi:
10.1406/75333

38
Napoleone, “ostentando”, scriveva C.L.R James, “il più feroce disprezzo per una vicenda di
liberazione legittimamente germinata e cresciuta dal tronco delle istituzioni francesi”64 .
I francesi la chiamavano Saint-Dominigue. Haiti era, ed è, un luogo paradisiaco, la “perla
delle Antille, scoperta da Colombo dove gli spagnoli avevano sterminato tutti i nativi. L’isola
è stata ceduta dalla Spagna alla Francia nel 1697, assicurando a quest’ultima, nel 1790, i tre
quarti della produzione mondiale di zucchero e ne alimenta un terzo del commercio estero.
Era dunque il più ricco e produttivo possedimento francese d’Oltremare e le cose, salvo che
per i noir, andavano per il meglio: i latifondisti francesi, i grand blanc, che dall’econo mia
di piantagione legata alla schiavitù traevano la propria ricchezza, vivevano in un lusso quasi
parigino. Accanto a loro i cosiddetti petit blanc, artigiani, avventurieri ecc… In tutto 39000
bianchi a fronte di un esercito di 452000 schiavi neri. 27000 era il numero degli affanchis,
ovvero ex-schiavi resi “uguali” dall’atto giuridico con cui il proprio padrone li rendeva
“liberi”, e dei maroons. Sino al 1790 Santo Domingo era ancora la più ricca colonia di
Francia. Nessuno tra i coloni, e a Parigi, avrebbe mai pensato che di lì a poco l’intero sistema
coloniale nell’isola sarebbe stato scardinato da una vittoriosa rivoluzione di schiavi. Vi era
stata fino ad allora la convinzione che gli schiavi non fossero neppure in grado di immaginare
la libertà, figuriamoci affermarla e conquistarla politicamente.
Libertà, uguaglianza e fraternità, i grandi principi della Rivoluzione francese del 1789, con
i quali la modernità politica s’impone come movimento progressivo e liberator io,
ovviamente non riguardavano la popolazione di colore delle colonie francesi, né tantomeno
l’immensa “nation étrangère”65 che in esse viveva e soffriva. Due anni più tardi quel boato
rivoluzionario attraversò l’Atlantico componendosi in un “dolce canto” che sollevò gli
schiavi. Ad orchestrare quel “dolce canto” di libertà c’era un vecchio nero “liberato”, figlio
di schiavi. Il suo nome è Toussaint Louverture 66 .
“La Rivoluzione francese scoppiò e, nonostante le misure prese dai nostri padroni per tenerci
nascosti questi felici avvenimenti, gli spiriti più attenti tra di noi cominciarono a intravvedere

64 James C.L.R, Les Jacobins noirs. Toussaint Louverture et la Révolution de Saint-Domingue, trad. de Pierre
Naville, Parigi, Gallimard, 1949, p.362
65 Si fa riferimenti agli schiavi, quelli che Robespierre nominava come “non -libres”
66 La figura del generale haitiano divenne immortale e gli venne dedicato più di un’opera. Si veda James C.L.R.,

I giacobini neri: la prima rivolta contro l’uomo bianco; prefazione di Sandro Chignola; postfazione di Madison
Smartt Bell, Roma, DeriveApprodi, 2006

39
un barlume di speranza. Ben presto prendemmo le armi per reclamare una libertà che non
potevamo ottenere che da noi stessi, giacché ci si ostinava a rifiutarcela. […] volevamo
essere liberi, la libertà era la nostra sola guida”67 . Queste parole potentissime, pronunciate
da Toussaint, minavano al cuore l’universalismo, astratto e vuoto, dei principi della
Rivoluzione francese. Ecco che allora la maschera violenta dell’universalismo veniva
sradicata facendo emergere l’ipocrisia della narrazione liberale. La rivoluzione haitiana ha
avuto il merito di svelare, e mettere in tensione, i tanti confini che attraversavano e
definivano materialmente la libertà posta nella sua forma astratta dalle pretese
universalistiche delle rivoluzioni borghesi. Quel contenitore freddo e vuoto, all’interno del
quale la libertà era stata addormentata, venne scoperchiato e quest’ultima poté finalme nte
rivivere nell’immensa sollevazione dei “giacobini neri”.
La rivolta degli schiavi scoppiò sull’isola nel 1791e si protrasse per i successivi 12 anni,
strappando, dapprima, l’immortale decreto del 1973 68 che abolì la schiavitù, e poi la la
dichiarazione d’indipendenza dell’isola nel 1803. Non ci interessa qui ricostruire la grande
rivoluzione haitiana, contraddistinta peraltro da tendenze contraddittorie e da svolte
tragiche69 , né tantomeno idolatrare il suo simbolo Toussaint - tendenzialmente non amiamo
i monumenti -, ma semplicemente affermare che, storicamente, l’insurrezione antillese è
stata la prima rivolta contro la schiavitù a conoscere un esito positivo; la prima forma di
indisciplina di massa contro l’uomo bianco e la sua dominazione coloniale; il primo
indelebile scacco degli eserciti nazionali di fronte a una moltitudine di schiavi. Possiamo a
questo punto tranquillamente affermare che la violenta imposizione “dell’assoluto princip io ”
che nessun uomo avrebbe mai più potuto essere proprietà di un suo simile ha rappresentato
una “scossa essenziale nel mondo”, per dirla con Fanon. La Rivoluzione d’Haiti si poneva
allora in una posizione nettamente più avanzata rispetto alle ben più celebrate rivoluzio ni
moderne in Europa e in America. La posta in gioco era proprio la modernità, cosa

67 Frammento del manoscritto inedito, Archives Nationales,AF.III/210. Cito secondo la traduzione operata da
Sandro Chignola nel libro da lui curato; La libertà del popolo nero: scritti politici, Torino, La Rosa Editrice,
1997.
68 « Tous les nègres et sangmêlés actuellement dans l’esclavage sont déclarés libres pour jouir de tous les droits

attachés à la qualité de citoyens français »


69 Sugli esiti contraddittori della rivoluzione haitiana si veda nuovamente il libro curato da Sandro Chignola;

La libertà del popolo nero: scritti politici.

40
significasse essere moderni. Il merito della rivoluzione haitiana fu soprattutto quello di
denunciare il falso universalismo delle rivoluzioni borghesi evidenziandone l’ipocrisia. È
facile vedere allora come la schiavitù e il colonialismo non siano solamente profondame nte
interni, ma consustanziali e costitutivi della modernità stessa. Emergeva un assunto
fondamentale; nella misura in cui tutti gli uomini sono liberi e uguali, così come afferma va no
i principi astratti e vuoti delle Rivoluzioni borghesi, allora nessuno può e deve essere
schiavo. Nonostante la schiavitù rappresenti un elemento costitutivo della stessa modernità,
questa “realtà traumatica” è sempre stata disconosciuta e proiettata al di fuori dalla stessa,
relegandola in un tempo e in uno spazio pre-moderno. Per questo motivo la storia venne
silenziata, perché aveva posto violentemente le tre grandi rivoluzioni borghesi davanti al
proprio “mostro”: la schiavitù.
Le resistenze degli schiavi, intese come forze dell’antimodernità, da una parte hanno
risignificato, attraverso la violenza delle lotte, concetti quali libertà e uguaglianza; dall’altra,
hanno sfidato gli assetti gerarchici che infrastrutturavano le relazioni di potere nella
modernità. Ecco quindi la duplicità della modernità: da un lato; violente gerarchie, dall’altra,
con tutti i limiti e le contraddizioni, la potenza liberatrice dell’antagonismo. Sotto questa
lente allora la modernità si presenta come un campo conflittuale, dove forze contrapposte si
incontrano e scontrano continuamente definendone gli stessi caratteri.
Le storie del contadino ribelle indiano e quella dei giacobini neri diventano lenti che
consentono di leggere lo sviluppo della modernità e la sua violenta affermazione, da
angolazioni differenti, rompendo l’ordine del discorso e facendo riemergere i silenzi resi tali
dalla narrazione che la modernità si è data. È la storia e la geografia dei silenzi70 che ci
interessa, sono i “punti ciechi”. Non si tratta quindi di riscrivere una nuova storia e di
ridisegnare una nuova geografia, ma declinarle al plurale e complicarne il quadro
interpretativo. Se, come ci “suggerisce” l’epiteto iniziale, necessitiamo di specchi per
osservare il mondo da angolazioni differenti, e sfuggire quindi dalla grande visione della
“mitologia bianca”, sicuramente l’epopea del contadino ribelle in India e la lotta libertar ia
degli schiavi haitiani ci forniscono prospettive interessanti dalle quali far riemergere e

70 Si veda a riguardo l’importantissimo libro di Trouillot, M.R., Silencing the past : power and the production
of history, Boston, Beacon press, 1995

41
rivivere altre storie e altre geografie (plurali) della modernità. E allora, a quel punto, il
mondo, racchiuso violentemente in due dimensioni71 , imploderà e una nuova sintassi del
mondo potrà finalmente liberare le sue tante storie e le sue tante geografie. La terra è una
sfera. Ecco perché tutto, prima o poi, ritorna 72 .

71 Si fa riferimento alla violenza implicita nella rappresentazione a due dimensioni di uno spazio sferico
tridimensionale. Evidentemente il come rappresentare il mondo su una carta geografica non è una scelta
assolutamente neutra. Si vedano le antiche carte geografiche di Mercatore, geografo del 1500.
72 Come afferma Farinelli, professore ordinario di geografia all’Università di Bologna, la geografia è stata la

forma archetipa del sapere in occidente. Nessuna neutralità dunque.


A riguardo si veda Farinelli F. Crisi della ragione cartografica, Torino, Einaudi, 2009

42
1.3 Oltre la dialettica modernità/antimodernità.

Gli uomini lottano e perdono la loro


battaglia; ciò per cui avevano combattuto si
realizza comunque, malgrado la loro
sconfitta, ma poi si rivela altro da ciò che essi
credevano, e allora altri uomini devono
continuare a lottare per ciò che i primi
chiamavano con un altro nome.
William Morris

Ciò che si è tentato di fare nel precedente paragrafo, per così dire “postcoloniale”, è svelare
le relazioni di potere che innervano la modernità che, a questo punto, si presenta chiarame nte
come un campo di tensione permanente dove s’incontrano e si scontrano forze contrapposte.
Abbiamo sottolineato come l’antimodernità è allo stesso tempo interna e consustanziale alla
modernità ed evidenziato come quest’ultima, attraverso dispositivi governamentali - come
razzismo, colonialismo e schiavitù -, ha dispiegato le proprie energie costruendo precisi
rapporti di forza.
Questo schema interpretativo però sembrerebbe condannarci ad un impasse senza soluzio ne
laddove modernità e antimodernità si scontrerebbero continuamente in un gioco dialettico
senza fine. La domanda che si pone a questo punto è: come uscire da una gabbia dialettica
nella quale le forze dell’antimodernità risultano essere condannate ad un ruolo di mera
resistenza? Come andare oltre? Ovviamente si tratta di domande complesse che necessitano
di risposte, allo stesso modo, complesse. Abbiamo letto le forze dell’antimodernità non tanto
come un tentativo di preservare la premodernità, ovvero uno spazio di privazione, mancanze
e superstizione, ma come moltitudini in lotta per la libertà all’interno dei rapporti di potere
fossilizzati nella modernità. Non si tratta evidentemente di rifiutare l’incontro con la
modernità, con l’altro da sé, e ripiegare in maniera difensiva in un mondo chiuso in se stesso,

43
ma di sottrarsi ad un potere che, nell’incontro col “nuovo”, cerca di ricondurre tutto ai propri
codici, creando gerarchie e sfruttamento.
Nella misura in cui la modernità è indissolubilmente intrecciata in un rapporto costitutivo
all’antimodernità, anche quest’ultima ha ovviamente una relazione viscerale con la
modernità. Posta in questi termini l’antimodernità si presenta come secondaria rispetto alla
modernità, un suo riflesso antagonista. Collocando l’antimodernità all’opposizione si rischia
di rimanere impantanati in una dialettica senza fine dove la sua sintesi è sempre investita da
un nuovo movimento dialettico. Laddove la modernità avanza l’antimodernità resiste. Una
lettura foucaultiana di questo tipo, ponendo la simmetria tra modernità/antimodernità,
racchiude il rapporto in un circolo vizioso senza via d’uscita nel quale modernità e
antimodernità si succedono. Brevemente dunque, come scardinare la simmetria tra i due
poli? Come “armare” l’antimodernità e liberarla da uno stato d’immobilismo permanente
che la condanna ad essere solamente una reazione ad un’azione precedente? Prima di provare
ad articolare una risposta all’altezza di queste suggestioni, è necessario ricordare come la
tradizione marxista, nella sua componente maggioritaria, abbia abbracciato in maniera al
quanto contraddittoria la modernità e il paradigma ideologico dello sviluppo.
Fu proprio l’ingiunzione dello sviluppo che spinse Marx a dire che “il paese industrialme nte
più evoluto non fa che presentare al meno evoluto l’immagine del suo avvenire”73 . Un
importante segmento del marxismo ha celebrato la modernità come sinonimo di progresso,
in senso evoluzionista, e ha mistificato le lotte dell’antimodernità racchiudendole in uno
spazio prepolitico segnato dalla superstizione e dall’arretratezza. D’altronde è sempre Marx
a considerare la colonizzazione come un vettore potentissimo del progresso, introducendo
nelle colonie i rapporti di produzione capitalistici, quale condizione necessaria per lo
sviluppo di una soggettività operaia. Evidentemente la critica che si muove a Marx deve
essere, per forza di cose, contestualizzata: siamo negli anni cinquanta del XIX secolo. Se da
una parte, il marxismo è stato un immenso edificio di pensiero e, allo stesso modo, un
imponente apparato ideologico, nonché, un perverso strumento di potere; dall’altra, non
possiamo però dimenticare le formidabili “eresie” che, quella tradizione l’hanno attraversata
solamente per poterla superare, facendola rivivere nella materialità delle lotte e nei sogni

73 Cit. in Marx 1867, p.75 presente in Chackrabarty D., Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi, 2004, p. 21

44
delle grandi masse74 . Da un lato, troviamo tutta una parte del credo marxista, imbevuto di
modernismo e progressismo, che si è sempre prodigato nella ricerca del soggetto più
avanzato, della figura unitaria attorno alla quale costruire le basi della rivoluzio ne,
squalificando sistematicamente tutte le figure del lavoro e delle lotte che si trovavano fuori
dalla classe operaria; dall’altro lato, però, tutta una linea antimoderna è emersa dalla prassi
delle lotte di classe e di liberazione. Queste formidabili “eresie” si erano poste su posizio ni
eccedenti rispetto all’ortodossia marxista. La “linea del colore” aveva “corrotto” anche la
classe operaia. D’altronde, lo stretto nesso tra razzismo e classe operaia che innervava la
società statunitense, è messo in rilievo con estrema precisione dall’intellettuale afro-
americano W.E.B Du Bois: “i lavoratori bianchi, mentre ricevevano un basso salario, erano
in parte compensati da una sorta di salario pubblico e psicologico. Venivano loro riservati
deferenza e titoli di cortesia proprio perché erano bianchi, erano liberamente ammessi, con i
bianchi di tutte le classi, alle funzioni pubbliche, ai parchi pubblici, alle migliori scuole. La
polizia era reclutata tra le loro fila, e i tribunali, che dipendevano dai loro voti, li trattavano
con tale indulgenza da incoraggiarli quasi all’illegalità”75 . Un salario “pubblico e
psicologico” corrisposto ai bianchi sulla base della linea del colore, come evidenzia Sandro
Mezzadra nell’introduzione al libro dedicato a Du Bois 76 , e ancora, “uno scambio extra-
economico ed extra-giuridico che stabilisce e altera le condizioni dello scambio tra forza
lavoro e salario”77 . Una serie di confini artificiali investivano, allora, il movimento operaio
incapace di farsi carico delle nuove istanze liberatorie che stavano scoppiando al suoi interno
e che di fatto lo eccedevano.
Tornando alla questione del come liberare le forze dell’antimodernità da uno stato di stallo
permanente e da un immobilismo soffocante, dobbiamo compiere un passaggio ulteriore che
permetta di superare l’antimodernità e proiettare la resistenza al di là dei suoi limiti
intrinsechi. Fino ad ora abbiamo assunto la modernità come un campo di battaglia scandito
dal continuo incontro/scontro tra forze contrappose, senza però riuscire ad uscire dalla

74 A riguardo si veda Mezzadra Sandro, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, Roma,
Manifestolibri, 2014
75 Du Bois W.E.B., Black reconstruction in America, New York : ; Toronto : Maxwell Macmillan, 1992, p.700
76 Du Bois W.E.B., Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo , a cura di:

Mezzadra Sandro, Bologna, Il Mulino, 2010


77 Ivi, p. 46

45
dialettica modernità/antimdoernità. Laddove i poteri della modernità – razzis mo,
colonialismo e schiavitù (ribadiamo che non sono fenomeni sovrastrutturali, o incidenti di
percorso, ma apparati materiali della modernità) – hanno penetrato e attraversato le vite delle
popolazioni fissandosi sui loro corpi e sulle loro vite, queste hanno resistito, rifiutando lo
sfruttamento, il dominio e il servilismo. Il concetto di resistenza descritto da Foucault è un
concetto, per così dire, elementare che si colloca all’interno di una “microfisica del potere”.
Se il potere si applica a dei corpi, questi in maniera “fisica” resisteranno. Logicame nte,
essendo il potere dotato di azione, la resistenza verrà sempre dopo. E’ evidente, allora, che
la resistenza resterà, sempre e comunque, secondaria. Seguendo la traccia aperta da Michael
Hardt e Antonio Negri nel loro libro Commonwealth, possiamo però rovesciare questa
prospettiva elevando la resistenza, in quanto prioritaria rispetto al potere. Se è vero che il
potere “si esercita solo su soggetti liberi”, come sosteneva Foucault, allora […] la libertà dei
soggetti è prioritaria nei confronti dell’esercizio del potere. In tal senso, continuano gli
autori, “la resistenza non è altro che lo sforzo di ampliare, di consolidare e di rafforzare
questa libertà”78 . Tesi estremamente affascinante, da cogliere però con le dovute cautele e
diffidando da un immagine troppo estetizzante, anche perché il rovesciamento di prospettiva
può essere facilmente rovesciato a sua volta. Prendere per valida questa suggestione significa
anche, e soprattutto, affermare che la resistenza è, allo stesso modo del potere, una potenza
produttrice e quindi capace di immaginare e creare il reale. Non si tratta, ovviamente, di
un’operazione semplice, nella misura in cui nel corso della modernità, o meglio, nella
fuoriuscita da sé dell’Europa, le forze dell’antimodernità sono state trasformate in mostri.
Quel “Nuovo Mondo” era abitato da mostri si diceva. Il “bue-bipede vagava per le colonie;
mezzi uomini, la cui umanità si riduceva a quella del loro corpo. La costruzione di queste
immagini ha, da una parte, anticipato e accompagnato la conquista coloniale; dall’altra
legittimato tutta la violenza epistemica su cui si fonda la dominazione coloniale 79 .
I resoconti di avventurieri, commercianti ed esploratori, parlavano di sacrifici umani
consumati dagli amerindi e delle atrocità dei cannibali in Africa. Erano uomini il cui corpo
dominava la loro anima. Ecco che la schiavitù era per costoro iscritta nel loro essere, un

78Hardt M. e Negri A, Comune, Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p. 88


79Spivak, G.C. A Critique of Post-Colonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present , 1999, Harvard
University Press.

46
qualcosa di naturale, si diceva. Una tendenza ad essere dominati trascendeva i loro corpi e
le loro anime. Questa “verità”, però, veniva prontamente sfidata e falsificata dalla prassi dei
così detti mostri: “le prede per natura si rifiutavano ostinatamente di esserlo, resistendo alla
cattura e all’asservimento”80 . Un esempio significativo a riguardo è il Calibano anticolonia le
presentato da Aimé Césaire, nella sua riscrittura dell’opera shakespeariana “La Tempesta”.
È il Calibano che rifiuta le violente e disumane strutture di dominio e di conoscenza, imposte
da Prospero ad attirare la nostra attenzione. Nella Tempesta di Shakespeare, Calibano è una
creatura selvaggia e deforme da sottomettere, uno spirito abominevole da schiavizzare, un
mezzo uomo incapace di dominare i propri istinti e che aveva tentato di violare la verginità
di Miranda, la figlia di Prospero. Secondo questo testo, la mostruosità e la natura selvaggia
del nativo legittimano il potere del colonizzatore in nome della modernità. Ecco l’incontro
tra modernità e quelle antimodernità.
Come dicevamo, è il Calibano anticoloniale, lo schiavo ribelle che rifiuta qualsiasi forma di
dominazione, che interessa far emergere. Calibano, nell’opera di Césaire, scopre che “la sua
vita, il suo respiro, i battiti del suo cuore”81 sono gli stessi di quelli di Prospero. A questo
punto Calibano, che è stato per troppo tempo assoggettato, non può che ribellarsi al suo
padrone e riconquistare la libertà, non solo spezzando le catene materiali ma distrugge ndo
quella mostruosa immagine – sottosviluppato, incompetente e inferiore – che “l’uomo
bianco” gli aveva costretto ad interiorizzare.

80 Chamoyou G., Le cacce all’uomo, Roma, Manifestolibri, 2010, p. 15


81 Fanon, F. I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1972, p.15.

47
Prospero, tu es un grand illusionniste :
Le mensonge, ça te connaît.
Et tu m’as tellement menti,
menti sur le monde, menti sur moi-même,
que tu as fini par m’imposer
une image de moi-même :
Une sous-développé, comme tu as dis, un sous-capable,
voilà comment tu m’as obligé à me voir,
et cette image, la hais ! Et elle est fausse !
Mais maintenant, je te connais, vieux cancer,
et je me connais aussi !
(Césaire,1969)

È attraverso queste pratiche soggettive di continua sottrazione e resistenza che Calibano,


mosso da un “soprassalto di dignità”82 , può materializzare la propria libertà e rifiutare il
dominio dell’uomo sull’uomo.
Il Calibano anticoloniale fornisce, allora, la chiave di lettura per poter rompere la dialettica
nella quale il rapporto modernità/antimodernità è stato imprigionato. Nella sua lotta per la
liberazione, Calibano è dotato di altrettanta ratio e civiltà del suo padrone, è un essere
mostruoso solamente nella misura in cui il suo desiderio di libertà è eccedente rispetto ai
limiti del potere coloniale sul suo corpo e sulla sua vita. Calibano non si oppone soltanto alla
violenza del padrone bianco, in maniera per così dire “fisica” ma, grazie alla sua lotta, sfida
le gerarchie e il dominio che infrastrutturano la modernità, ponendo le basi per immaginare
e costruire un “oltre”, una nuova umanità, il “nostro” comune.
Calibano non solo rifiuta di essere escluso dall’umanità, ovvero di esserne confinato ai
margini esterni, da Prospero, ma ci indica la strada da percorrere per sovvertire “lo stato di
cose presenti” e fondare materialmente lo spazio del comune. Rileggere la tragedia
shakespeariana dal punto di vista della negritudine, come indicato da Césaire, permette di
cogliere tutta la potenza rivoluzionaria e creatrice di Calibano, o meglio di quelle forze

82 Césaire A. Discorso sul colonialismo, Verona, ombrecorte, 2010, p.94

48
libertarie capaci, allo stesso tempo, di distruggere le catene dello sfruttamento e rompere le
gerarchie intessute nella modernità; ma anche, e soprattutto, aprire spazi politici all’inter no
dei quali una nuova immaginazione politica 83 potrà finalmente tessere la trama di un’altra
società fondata sul comune.
Calibano è pieno di potenza creatrice ed immaginazione, ecco perché Prospero è costretto a
renderlo mostro, un mezzo uomo destinato ad essere schiavo per “natura”. Ovviame nte,
ancora una volta, non si tratta di fare un’apologia a-critica dell’antimodernità, anche perché,
come hanno messo bene in evidenza Horkheimer e Adorno, sono esistite e continuano ad
esistere delle forze antimoderne che non hanno nulla di liberatorio. Basti pensare ai grandi
progetti reazionari: dalle atrocità naziste alle aberranti “crociate per la bianchezza” del Ku
Klux Klan, passando per le allucinazioni delle nuove destre europee, fino ad arrivare alle
barbarie dello Stato Islamico che come un cancro maligno si diffonde a macchia d’olio su
tutto lo spazio mediorientale. E’ necessario, allora, prendere concedo dalle sue declinazio ni
reazionarie: razzismo, fascismo e sfruttamento, sono queste le parole d’ordine attorno alle
quali questi fenomeni articolavano – e articolano - i propri progetti di rottura con la
modernità. È alle forze che si opponevano, e continuano a farlo, al dominio dell’uo mo
sull’uomo che dobbiamo guardare per porre le basi per la costruzione di un comune politico.
È quella fiammella rivoluzionaria che dobbiamo cogliere. E ancora, è da quel desiderio di
una “nuova umanità”, di cui i movimenti di liberazione si facevano portatori, che dobbiamo
farci investire. Come già detto, non si tratta di fare nessuna apologia e chiudere gli occhi
davanti ai limiti e ai fallimenti.
Se guardiamo ai movimenti di liberazione nazionale che hanno combattuto il colonialis mo
e l’imperialismo – abbiamo già evidenziato che un rischio corso da queste forze è quello di
rimanere ingabbiate in forme di resistenza reattive e difensive - , non possiamo non vedere
come molti di quei progetti rivoluzionari animati da quel sogno di una “nuova umanità”, alla
fine, nel loro supposto successo, hanno riprodotto le relazioni di potere contro cui si sono

83S’intende l’immaginazione così come viene presentata da Spinoza: ovvero una grande forza materiale, un
campo aperto di possibilità che fa crescere la nostra potenza di pensare ed agire . È l’immaginazione che ci
permette di trasformare noi stessi e liberarci. Soltanto, dapprima, immaginandolo come spazio possibile del
politico, il comune può essere pensato e costruito nell’immanenza delle lotte attorno, appunto, la questione di
un comune politico

49
battute, riperpetuando il dominio dell’uomo sull’uomo. Tuttavia, nonostante queste forze
siano state prontamente imbrigliate e assopite all’interno di nuove (vecchie) relazioni di
potere, il loro portato di estrema libertà e il loro essere radicate sul comune, inteso come
fondamento e scopo delle lotte, non potrà mai essere cancellato. È questa impronta
rivoluzionaria che interessa recuperare, e seguire, per poter rompere il rapporto dialettico
che costringe la resistenza ad una mera posizione reattiva e risvegliarne la potenza creativa.
Guardiamo un momento al concetto di negritudine forgiato da Aimé Césaire. Benché si
presenti in prima battuta come un’arma identitaria per combattere le forze corruttrici della
storia – il colonialismo francese - possiamo vedere come la posta in palio sia qualcosa di
più grandioso, di più “alto”; “[…] per noi il problema non è di riproporre uno sterile e utopico
ritorno al passato, ma quello di un suo reale superamento. Non vogliamo far rivivere una
società morta, questo lo lasciamo agli amanti dell’esotismo. Non vogliamo nemmeno
prolungare l’attuale società coloniale, la più putrida che sia mai marcita sotto il sole.
Abbiamo bisogno di costruire, con l’aiuto di tutti i fratelli schiavi, una società nuova,
arricchita di tutte le capacità produttive moderne e sostenuta dal calore di tutta quell’antica
fratellanza”84 . Dunque, nonostante “l’apologia sistematica delle civiltà non-europee”,
Césaire non guarda indietro, non si accontenta di un ritorno al passato, peraltro definito
utopico e non desiderabile, ma proietta la resistenza oltre i suoi limiti: quella “nuova
umanità” doveva essere immaginata e costruita in comune. Césaire ci indica in qualche
maniera l’orizzonte politico da perseguire per poter uscire dalla dialettica e fondare un
alternativa capace di disegnare nuove forme di stare al mondo fondate dal comune e sul
comune.
Così come il poeta martinicano, non vogliamo rimanere impantanati nell’animodernità, né
tantomeno rimpiangere un tempo passato ma, come Césaire, cerchiamo di tessere la trama
di un’alternativa, una via di fuga dall’immobilismo dell’antimodernità. Come già detto, non
si tratta di rifiutare la modernità e il suo “farsi mondo” – da questo punto di vista, “la nostra
patria è il mondo intero” va oltre l’essere un semplice slogan ma rappresenta la condizio ne
di possibilità del comune - ma di rompere le relazioni di potere che innervano la modernità
e producono un “mondo a scomparti”, per riprendere Fanon. È alle forze politiche che

84 Césaire A. Discorso sul colonialismo, Verona, Ombrecorte, 2010, p.64

50
tagliano trasversalmente la modernità, che dobbiamo guardare. È la cesura che producono
che dobbiamo cogliere e interrogare. Sono queste le tendenze rivoluzionarie che aprono
spazi possibili del comune, nel fitto reticolato di poteri che strutturano la modernità. Sono
gli attriti e i punti di rottura, l’eccedenza dei bisogni e dei desideri sulla disciplina gerarchica
che dobbiamo mettere “a profitto” per immaginare nuovi orizzonti politici.
Troppe volte, le forze antimoderne che si sono scontrate contro il colonialismo e
l’imperialismo, articolando le lotte interamente attorno al paradigma identitario, non sono
riuscite ad andare oltre lo stallo dialettico che le condannava all’opposizione e, di
conseguenza, a veder fallire i propri progetti rivoluzionari. “Voler aderire alla tradizione o
riattualizzare le tradizioni abbandonate è non soltanto andare contro la storia, ma contro il
proprio popolo. […] Quando un popolo sostiene una lotta armata o anche politica contro un
colonialismo implacabile, la tradizione cambia di significato”85 . Le parole di Frantz Fanon
rompono letteralmente la staticità della contrapposizione tra modernità e antimoder nità
aprendo lo spazio dell’alternativa. Se la posta in gioco dell’intero processo rivoluziona r io,
per Fanon, deve essere la creazione di una nuova umanità, ovviamente questa non potrà
essere declinata in senso identitario, nella misura in cui l’identità stessa sarà investita e
trasformata dal suo divenire rivoluzionario. È qui che vediamo consumarsi la cesura rispetto
alle forze antimoderne che, arroccandosi su posizioni identitarie, in senso difensivo, non
sono riuscite a trovare una via di fuga verso l’alternativa, rimanendo una mera forza
d’opposizione. Bisogna ricordare che, da una parte, il paradigma identitario, attorno al quale
si sono sviluppate le lotte di liberazione nazionale e non solo, ha rappresentato quel “dolce
canto che solleva le masse”, descritto da Frantz Fanon; dall’altra, però, ha impedito di porre
le basi per la creazione di una nuova umanità. Il ricorso all’identità e alla sua valorizzaz io ne
costituisce un importantissimo vettore strategico del processo rivoluzionario - basti pensare
al concetto di negritudine forgiato da Aimé Césaire per far fronte al dispotismo cultura le
francese - ; eppure il suo esito finale, il suo divenire, non può che travolgere la stessa identità
e sopprimerla. Ovviamente, intraprendere una politica dell’identità significa assumere
posizioni volte alla conservazione di uno status quo (favorevole o meno che sia), chiudendo

85Fanon F., I dannati della terra prefazione di Jean-Paul Sartre; traduzione di Carlo Cignetti. - 5. ed
Torino : Einaudi, 1972, p. 162.

51
lo spazio ad immaginazioni politiche alternative, indirizzate alla trasformazione dello stato
di cose presenti. Sia chiaro, l’identità può essere uno strumento di emancipazione ma non di
liberazione.
Assieme agli zapatisti, allora, rivendichiamo non tanto un diritto ad “essere ciò che siamo”,
ma un diritto di “diventare ciò che vogliamo”. Non abbiamo interesse a conservare ma a
trasformare. Si badi bene, non si tratta di creare futuro dal nulla, facendo deserto bruciato di
tutto ciò che era prima, ma di avviare una metamorfosi all’interno della quale una nuova
società uscirà dal ventre di quella vecchia. Cos’altro è un processo rivoluzionario se non una
metamorfosi continua, un movimento autopoietico in continuo divenire che si pone sul piano
costituente? Se per Césaire e Fanon, la “nuova umanità” doveva rappresentare l’esito finale
di un processo rivoluzionario, per noi il comune è, allo stesso tempo, l’orizzonte politico
d’affermare per rompere le maglie del potere che innervano la modernità e, appunto, un
movimento costituente senza fine prodotto dalla composizione delle differenze in quanto
differenze.

52
2) Le tante “albe” del capitale.

Jean Dubuffet1 – Cite Fantoche

1 Jean Dubuffet è stato un pittore e scultore francese di fama mondiale, il primo a teorizzare ed introdurre
il concetto di Art Brut, cioè l’Arte che scaturisce in maniera del tutto naturale da individui totalmente
digiuni di cultura artistica, come i bambini o i malati psichiatrici.
2.1 “pecore che sbranano uomini”: vecchie e nuove enclosures

“Le vostre pecore […] che di solito son così dolci e si nutrono di così poco, mentre ora,
a quanto si riferisce, cominciano ad essere così voraci e indomabili da mangiarsi financo
gli uomini, da devastare, facendone strage, campi, case e città. In quelle parti infatti del
reame dove nasce una lana più fine e perciò più preziosa, i nostri nobili e signori e perfino
alcuni abati, che pur son uomini santi, non paghi delle rendite e dei prodotti annuali che
ai loro antenati e predecessori solevano provenire dai loro poderi, e non soddisfatti di
vivere fra ozio e splendori senz’essere di alcun vantaggio al pubblico, quando non siano
di danno, cingono ogni terra di stecconate ad uso di pascolo, senza nulla lasciare alla
coltivazione, così diroccano case e abbattono borghi, risparmiando le chiese solo perché
vi abbiano stalla i maiali; infine, come se non bastasse il terreno da essi rovinato a uso di
foreste e parchi, codesti galantuomini mutano in deserto tutti i luoghi abitati e quanto c’è
di coltivato sulla terra. Quando dunque si dà il caso che un solo insaziabile divoratore,
peste spietata del proprio paese, aggiungendo campi a campi, chiuda con un solo recinto
varie migliaia di iugeri, i coltivatori vengono cacciati via e, irretiti da inganni o sopraffatti
dalla violenza, son anche spogliati del proprio, ovvero, sotto l’aculeo di ingiuste
vessazioni, son costretti a venderlo […] E una volta che in breve, con l’andar di qua e di
là, hanno speso tutto, che altro resta loro se non rubare, per essere di santa ragione, si
capisce, impiccati, o andar in giro pitoccando? Sebbene […] anche in questo caso
vengono, come vagabondi, gettati in carcere, perché vanno attorno senza lavorare. Vero
è che, per quanto essi si offrano di gran cuore, non c’è nessuno che li prenda a servizio.
Dove nulla si semina, nulla c’è da fare pei lavori dei campi, a cui erano stati abituati. Un
solo pecoraio o bovaro, se pure, è sufficiente per quella terra serbata a pascolo, mentre
per coltivarla, per potervi seminare, occorrevano molte mani”2 .
Si tratta di pagine indimenticabili, quelle che Tommaso Moro scrisse nella sua Utopia nel
1516 denunciando le enclosures inglesi operate ai danni dei contadini a scopo di pascolo
intensivo delle pecore necessarie per la nascente industria tessile. Improvvisamente, la

2 Moro T., L’utopia o la migliore forma di repubblica, Laterza, Bari, 1972, pp. 42-43

54
“voracità” di quelle pecore cacciò senza pietà i contadini dalle proprie terre comuni. Le
foreste vennero chiuse. La spigolatura del grano vietata. La raccolta di legna e quella dei
frutti punita dalla legislazione. L’espulsione dei contadini da quelle che un tempo erano
terre comuni rappresentò una vera tragedia sociale. Come scrive Marx, in un noto passo
dei Grundrisse, a proposito di quella massa di soggetti espulsi dalle campagne: si trovò
“ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza-lavoro, oppure
nella mendicità, nel vagabondaggio, nella rapina. È constatato storicamente che essi
hanno tentato in un primo momento questa seconda via, e che da questa sono stati però
spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del
lavoro”3 . Quella moltitudine di poveri, resi tali dai nuovi standard di produttività imposti
dal modo di produzione capitalistico, non aveva molta scelta: poteva dedicarsi al
brigantaggio oppure andare a incrementare l’esercito di riserva delle nascenti imprese
industriali. È facile notare, allora, come quella “stretta via che conduce(va) al mercato del
lavoro” si caricasse di una violenza inaudita. È in questo momento che assistiamo al
formarsi del connubio tra proprietà privata e Stato. Senza legislazioni statali volte a
proteggere e sacralizzare la proprietà privata, nonché la sua progressiva
“naturalizzazione”, volta a mascherare la violenza del saccheggio e del “furto
proprietario”, il capitalismo non avrebbe potuto dispiegare la propria potenza e imporre
la propria logica. Fu proprio la necessità dell’accumulazione del capitale, la sua
condizione di dispiegamento, a dettare le politiche dello Stato e a sancirne l’alleanza con
la proprietà privata ai danni del comune. Una serie di legislazioni vennero deliberate per
autorizzare la privatizzazione dei commons, legalizzando, di fatto, quelle che per molto
tempo erano state pratiche arroganti di violenta appropriazione fondate sulla legge del più
forte. Il connubio tra capitalismo ed entità statale, sigillato dalla sacralità indiscussa della
proprietà privata, veniva esplicitato anche, e soprattutto, da una serie di legge edific ate
con l’intento di piegare alle esigenze del capitale quella moltitudine di diseredati prodotti
dal processo crescente di urbanizzazione. Servirono appunto, come ricordavamo
precedentemente, “la forca, la berlina, la frusta” per addomesticare le masse de gli
scacciati dalle campagne, convertendoli in lavoratori salariati. Una serie di istituti di
sicurezza e sorveglianza presero allora forma: carceri, manicomi e case per poveri
(workhouses).

3Marx, K., Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica: Grundrisse; traduzione di Giorgio
Backhaus, Roma, Manifestolibri, 2012, p. 138

55
L’accumulazione originaria, inaugurando la modernità capitalistica, aveva aperto la
strada alla distruzione di un modello di produzione – e di vita – fondato, con tutte le
contraddizioni del feudalesimo, sul comune e la sostituzione universale del paradigma
dell’avere a quello dell’essere. È proprio l’aspetto qualitativo, tipico dell’economia pre-
industriale, che viene spazzato via da quella forza estremamente materiale chiamata
capitalismo. Come afferma Ugo Mattei, riferendosi appunto al modello di produzione e
sostentamento delle società medievali – pre-industriali - “[…] contrapposizioni moderne
quali “avere una terra” o “essere su una terra” perdono ogni tipo di senso”4 e aggiunge
che questa produzione, basata su di un modello ecologico, aveva a che fare con l’essere
piuttosto che sull’avere e che quindi “prevaleva una dimensione qualitativa rispetto a
quella quantitativa”. Nelle società pre-industriali, continua Mattei, “il contadino coltiva
la terra assegnatagli insieme agli altri assegnatari e ha esclusivo diritto al primo raccolto
per la stagione in cui la terra spetta al suo gruppo. Ma chiunque, sempre, dopo la
trebbiatura può entrare nel campo a spigolare, proprio come chiunque può accedere al
bosco per trarne sostentamento. L’ “avere” in comune non era diverso dall’ “essere” in
comune”5 . In questa cornice pre-moderna, la vita – e la sua riproduzione – sembrava
svolgersi in una dimensione ecologica e qualitativa.
Ecco che allora, quella potente cesura prodotta dall’avvento del capitalismo, non poteva
che essere carica di violenza. Il passaggio da un’esistenza comunitaria di tipo qualitativo,
basata su un rapporto simbiotico tra il soggetto e il mondo che lo circondava, nonostante
la povertà dilagante nelle campagne che in qualche maniera “costringeva” alla vita
comunitaria, ad una società e un mercato fondato sull’individuo che possiede e accumula
nell’interesse proprio, non sarebbe stato evidentemente indolore e privo di resistenze. Il
contadino, vissuto sempre in campagna, non poteva o non voleva adattarsi a quella nuova
condizione di lavoratore salariato. Erano, dunque, necessari strumenti coercitivi, non solo
per piegare la riluttanza al lavoro di fabbrica di quel nuovo esercito di oziosi, ma anche e
soprattutto per trasformare l’orizzonte della vita di un agricoltore in quello di un operaio
salariato. Tutto un armamentario disciplinare doveva, allora, nel tempo di poche
generazioni, trasformare la percezione stessa della vita. Il lavoratore veniva letteralme nte
sradicato dal frutto del suo lavoro, da ciò che produceva, e alienato nella ripetitività del
lavoro in fabbrica. Fu proprio quel legame “viscerale” tra proprietà privata, organizzata
ora nella nascente impresa, e istituzioni statali a fornire gli strumenti coercitivi necessari

4 Mattei U., Beni comuni. Un manifesto, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2011, p.28
5 Ibidem.

56
al dispiegamento del capitalismo moderno. Leggi durissime, come le “poor laws”,
vennero deliberate con lo scopo di farsi carico del disciplinamento di quelle masse
provenienti dalle campagne. Era la loro forza lavoro, indispensabile per lo sviluppo degli
odierni apparati industriali, l’oggetto della “cattura” di questi provvedimenti. La loro
pigrizia e la loro oziosità dovevano essere piegate per ricondurre quella massa di soggetti
indisciplinati “sulla stretta via che conduceva al mercato del lavoro”. Nel momento in cui
si diede la transizione al capitalismo fu necessaria la costituzione – politica e giuridica –
del mercato del lavoro. Per far sì che quest’ultimo prendesse forma, esistesse, e si
riproducesse, fu essenziale produrre una merce assolutamente particolare ovvero la forza
lavoro che Marx considerava come “l’insieme delle attitudini fisiche e mentali racchiuse
all’interno di un corpo vivente”6 . È proprio la separazione delle attitudini dal suo
“contenitore” – il corpo umano – a determinare la condizione di possibilità
dell’affermazione del rapporto capitalistico. E ancora, è proprio la de-soggettivazione e
l’immediata massificazione - astrazione - del lavoro - e del lavoratore - a produrre la
forza lavoro come merce e a costringere gli individui a venderla, o meglio affittarla, per
poter riprodurre la propria esistenza. Un poderoso apparato disciplinare, nonché
ideologico, doveva mettersi in moto per consentire il dispiegamento del capitale e
legittimare la “violenta” organizzazione del lavoro che ne determinava le stesse
condizioni di possibilità.
Occorre notare come, contestualmente alla violenza delle origini, che ha aperto la strada
all’avvento del mercato del lavoro, il capitalismo assuma, fin da subito, grazie alla
conquista e al saccheggio delle Americhe, una immediata dimensione globale, investendo
tutti gli spazi e tutti i tempi, proprio per quel suo bisogno di espandersi continuame nte.
Scrive Marx nei Grundrisse: “La tendenza a creare il mercato mondiale è data
immediatamente con il concetto stesso di capitale. Ogni limite si presenta qui come un
ostacolo da superare”7 . Sotto questa luce, il capitalismo si presenta come una forza
materiale che apre, continuamente, nuovi spazi e tempi, come condizione – strutturale -
del suo stesso dispiegamento.
Marx, nel capitolo 24 del suo Capitale, s’interroga sull’origine del modo di produzione
capitalistico, proponendosi di studiare il momento in cui per la prima volta una serie di

6 Marx, K., Il capitale. Critica dell’economia politica, libro I, Il processo di produzione del capitale,
Einaudi, Torino 1975, p. 202
7 Riprendo la cit. di [Marx 1857-1858; trad. it.1970, 9] dal libro di Mezzadra S., Neilson B., Confini e

frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2013

57
astrazioni, diventando potenze reali capaci di trasformare le vite di migliaia di donne e
uomini, determinano le condizioni di una nuova realtà sociale. È attraverso astrazioni che
il capitale opera e costruisce il suo terreno di dispiegamento. D’altronde è proprio
l’incontro/scontro tra astratto e concreto, ovvero il cortocircuito tra queste due
dimensioni, a doversi ripetere ogni giorno affinché il modo di produzione capitalis tico
continui a riprodurre le sue stesse condizioni di possibilità 8 . È lo stesso Marx a definire
l’accumulazione, del resto, un processo continuo e interminabile – dal momento che
l’interruzione di quel “processo continuo” determinerebbe la fine del capitalismo -.
Se da una parte il “lavoro vivo” si riferisce all’eterogeneità delle capacità individua li,
ovvero alle differenze; dall’altra il “lavoro astratto”, indica l’unità di misura attraverso
cui il capitalismo disciplina l’eterogeneità del lavoro reale. L’obiettivo è, dunque, quello
di rendere il lavoro vivo di ogni individuo, differente per “natura”, “uniforme e
omogeneo”.
In quest’ottica, allora, la nostra attenzione dovrà focalizzarsi sull’attualità delle origini
del modo di produzione capitalistico, intendendola come una condizione costitutiva dei
rapporti sociali che quotidianamente si esprimono e non come un momento dato che vive
esclusivamente nel passato.
Abbiamo insistito, all’inizio del capitolo, sulla violenza delle origini, sulla “preistoria ”
del capitale, sulla sua genesi, nonché sulla legislazione “sanguinaria” necessaria affinc hé
il capitalismo dispiegasse tutte le sue forze; eppure crediamo che l’accumulazio ne
originaria non possa essere presentata solamente come punto di partenza – doloroso ma
necessario – del modo di produzione capitalistico e quindi rinchiusa in un determinato
momento storico, che ne segna, appunto, l’origine. In quest’ottica, allora, lungi dal
rappresentare la “lineare” transizione al sistema capitalistico, l’accumulazione origina r ia
sembra piuttosto evidenziare una modalità di dispiegamento dello stesso – capitalismo -,
attivabile in qualsiasi fase del suo sviluppo storico, ovvero ogni qualvolta il suo
funzionamento venga messo in discussione e bloccato.
Nonostante il capitalismo si espliciti nel passaggio lineare del lavoro salariato
formalmente libero come condizione “normale” di sussunzione del lavoro sotto il
capitale, altre forme di cattura del lavoro, come abbiamo avuto modo di vedere, erano –
e sono – strutturalmente necessarie per rendere disponibile la forza lavoro come merce –
pensiamo alle workhouses di cui ci parla Locke per rendere “profitable (the) employment

8 Chackrabarty, D., Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi Editori, 2004, cap. 2 pp. 71-134.

58
of the poor”9 -. Tutta una serie di dispositivi connotati da un altro grado di violenza furono
necessari per piegare l’indisciplina delle “attitudini fisiche e mentali” di un uomo al
lavoro (come norma), che vanno dalla schiavitù alla servitù a contratto, e per assicurare
la continuità dell’accumulazione capitalistica, nonché l’incontro tra capitale e forza
lavoro (prodotta).
Dal nostro punto di vista, o meglio dal punto di vista della riflessione sul comune e sui
commons, la categoria marxiana di accumulazione originaria risulta essere estremame nte
interessante per analizzare i nuovi processi di valorizzazione e saccheggio operati dal
capitale. Oggi come allora, il comune è ancora al centro di queste operazioni
capitalistiche. Se Marx nel suo celebre “capitolo 24” descriveva l’accumulazio ne
originaria come la “preistoria” del modo di produzione capitalistico, associandola al
morso che Adamo diede alla mela condannando il genere umano al peccato eterno, oggi
quell’immagine sembra sfumare, scomponendosi e ricomponendosi nell’attualità del
nostro presente. Un contributo straordinario a questo punto di vista, ovvero alla continua
riemersione, nello sviluppo del capitalismo, della violenza delle origini, proviene
dall’ormai celebre editoriale della rivista statunitense “Midnight Notes”, uscito
nell’autunno del 1990, significamente intitolato New Enclosures10 . Qui veniva proposta
l’attualità di alcuni temi e di alcuni concetti trattati dal capitolo 24 del Capitale,
soprattutto quello delle recinzione, delle enclosures, per (ri)leggere criticamente la grande
trasformazione del capitalismo globale che si era messa in moto dalla metà degli anni
Settanta. Nell’editoriale, il collettivo “Midnight Notes” scriveva: “Today, once again, the
Enclosures are the common denominator of proletarian experience across the globe. In
the biggest diaspora of the century, on every continent millions are being uprooted from
their land, their jobs, their homes through wars, famines, plagues and IMF ordered
devaluations (the four knights of the modern apocalypse) and scattered to the corners of
the globe”11 .
Ecco che allora la preistoria del capitale mostrava tutta la sua attualità. Quell’estre ma
violenza, che connotava la transizione al capitalismo moderno, finiva così di essere
relegata, grazie alla rilettura critica della categoria di accumulazione originaria, ad un

9 A report of the Board of Trade to the Lord Justices, Respecting the Relief and Employment of the Poor,
testo di John Locke che influenzò la formulazione del “workhouse bill” presentato al parlamento inglese
da Sir. Humphry Mackworth.
10 http://www.midnightnotes.org/pdfnewenc1.pdf
11 Cit. ripresa dall’editoriale “Introduction to the New Enclosures” p. 1 in “The New Encolosures”

Midnight Notes, 10, 1990

59
preciso momento storico. Non si tratta di focalizzarsi su quella che è stata definita “l’alba”
del capitale, ma di interrogare criticamente quelle che sono, come richiamato nel titolo
del nostro capitolo, le tante “albe” che aprono al violento processo di riorganizzazio ne
dell’accumulazione capitalistica. Dunque, il problema della “preistoria” riaffiora
continuamente nello sviluppo capitalistico, nel suo quotidiano funzionamento, in modo
particolare nei grandi momenti di trasformazione del capitalismo stesso.
Abbracciamo dunque la tesi che sembra emergere dalle pagine del collettivo Midnight
Notes, secondo cui l’accumulazione originaria, con il suo portato di violenza, ma anche
di resistenza, è in realtà una parte costitutiva del sistema capitalistico che riemerge
continuamente come uno spettro anche nel momento più alto del suo sviluppo.
Brevemente, è come se il capitalismo, inteso come forza materiale, al contempo estensiva
ed intensiva, nella misura in cui tende ad inglobare tutti gli spazi e sottomettere alla sua
logica l’intera vita sociale12 , si trovasse costretto a riprodurre costantemente le condizio ni
che ne determinarono l’origine.
«These New Enclosures, therefore, name the large-scale reorganization of the
accumulation process which has been underway since the mid-1970s. The main objective
of this process has been to uproot workers from the terrain on which their organizational
power has been built, so that, like the African slaves transplanted to the Americas, they
are forced to work and fight in a strange environment where the forms of resistance
possible at home are no longer available. Thus, once again, as at the dawn of capitalism,
the physiognomy of the world proletariat is that of the pauper, the vagabond, the criminal,
the panhandler, the street peddler, the refugee sweatshop worker, the mercenary, the
rioter »13 . Attraverso queste parole di Silvia Federici, membro del collettivo “Midnight
Notes”, possiamo osservare nuovamente il ripetersi delle dinamiche dell’accumulazio ne
primitiva e come il capitale si trovi costretto a riaffermare continuamente la
subordinazione del lavoro vivo al lavoro astratto. Le cosiddette “new enclosures”, che
tagliano e confinano il nostro spazio globale, non possono essere lette solamente come
forme di appropriazione e saccheggio delle terre comuni, ma anche come tentativi di
sradicare intere popolazioni native dalle loro terre “dove avevano costruito il loro potere

12 Si veda il libro di Mezzadra S. e Neilson B., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel
mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2013; soprattutto la prima parte del capitolo III “LE FRONTIERE
DEL CAPITALE”, pp. 85-102
13 Cit. ripresa dall’editoriale “Introduction to the New Enclosures” p. 3 in “The New Encolosures”

Midnight Notes, 10, 1990

60
e la loro organizzazione”, nonché la loro resistenza contro le pratiche predatorie
dispiegate dal capitale.
Le privatizzazioni portate avanti con estrema violenza in Patagonia ne sono un esempio
esemplare: popolazioni sradicate dalle loro terre sulle quali avevano appunto istituito il
loro potere e il loro modo di organizzazione sociale. Potremmo raccontare la storia di una
piccola comunità Mapuche in Argentina contro l’arroganza imprenditoriale del “buon
impresario trevigiano”, ma gli esempi sull’attualità di quella che Marx chiamava la
“preistoria” del capitale, la violenza delle origini, potrebbero essere moltiplicati a piacere.
Nel 1991, la famiglia trevigiana, a capo di un famosissimo marchio d’abbigliamento a
livello internazionale, acquistò 900 000 ettari di terre della Patagonia argentina alla
società britannica Argentine Southern Land Company, la quale deteneva imme nse
porzioni di terre in tutta la Patagonia. Ad oggi, il famoso marchio made in Italy alleva in
quelle terre un “esercito” di 300 000 pecore, da cui si ricava una pregiata lana. Ancora
una volta siamo costretti ad assecondare la voracità di questi animali una volta così
mansueti, stando alle pagine di Tommaso Moro già citate.
Ci troviamo in un luogo dimenticato, perduto nel cuore della Patagonia, che è diventato
l'epicentro di un conflitto oggi famoso a livello mondiale: Santa Rosa di Leleque, dove i
membri della comunità indigena Mapuche sono impegnati in una grande lotta per
riappropriarsi di terre che, come affermano gli stessi Mapuche, spettano loro di diritto.
Ovviamente, a quello che è considerato uno dei marchi d'abbigliamento più famosi al
mondo, poco importava che una piccola comunità rivendicasse un fantomatico diritto
d’abitare quella terra. Il certificato di proprietà di quella terra parlava chiaro: Benetton
Group. 14

“[…] Produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i suoi abitanti […]. Abbiamo
semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa, innovare,
operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro”. Luciano Benetton rigettò ai
mittenti le accuse di esproprio forzato delle terre Mapuche, insistendo sul fatto che il
problema delle terre indigene è un problema che ha radici antichissime in Patagonia e che
dunque non si poteva attribuire alla Benetton Group la paternità di tutti i mali. Benetton
si trovava lì, su quelle terre in Patagonia, per “business” e le loro pecore “d’oro” avevano
bisogno di spazio vitale: dai 3 ai 4 ettari cadauna, stando alle parole del responsabile della

14 Si veda il film-documentario, Colours At the End of The World, di Ale Corte, vincitore dell'EcoVisio n
Film Festival 2009, sulla questione della comunità di Santa Rosa, meglio nota come la questione Mapuche
vs Benetton.

61
comunicazione dell’azienda di Treviso. D’altro canto Benetton è sempre stato in prima
linea per la difesa dei diritti civili, per l’ambiente e per il futuro del pianeta, con tanto di
campagne patrocinate dalla bontà e dalla lungimiranza aziendale del “self-made man”.
La storia della diatriba Benetton passa per Atilio Curiñanco e Rosa Rúa Nahuelquir, una
coppia Mapuche, che nell’agosto del 2002 decise di tornare a vivere nelle proprie terre,
dopo aver lavorato per molti anni nella vicina città di Esquel. Nel giro di pochi mesi
dovettero piegarsi alla violenza dello sgombero, dopo aver rifiutato di abbandonare le
proprie terre, ormai proprietà della famiglia Benetton. “Ci hanno sfrattati dalla nostra casa
a Leleque con l’uso della forza fisica, confiscandoci tutti i beni e distruggendo poi la casa,
dicendoci che loro non facevano altro che difendere i diritti dei nuovi proprietari, coloro
che avevano comprato 900mila ettari di territorio, invadendo le nostre terre” –
racconta Curiñanco.
Non contento, Benetton citò a giudizio la famiglia Mapuche, rea, secondo l’ipocrita brand
di Ponzano Veneto, di “occupazione violenta ed occulta” e “di aver abbattuto di notte i
recinti che delimitavano alcuni possedimenti argentini di Benetton, occupandoli poi
abusivamente”. La famiglia di Curiñanco viaggiò in Italia nel 2004 per incontrare Luciano
Benetton. Dopo un intensa riunione, Benetton offrì una donazione di 2.500 ettari di terre
alla famiglia Mapuche, offerta che ovviamente venne rifiutata. Fa sorridere pensare che
Benetton cercò di offrire ai legittimi proprietari di quelle terre della Patagonia una parte
irrisoria dei 900mila ettari che gli aveva espropriato. Lo stesso governo della provincia
argentina di Chubut rifiutò l’offerta di Benetton, sottolineando che quei
duemilacinquecento ettari che voleva “donare” erano oltretutto improduttivi. Durante
l’incontro italiano Mapuche-Benetton si parlò di diritti legali e diritti legittimi, cercando
di far entrare in ragione Benetton. Non ci fu niente da fare, la famiglia Benetton aveva
ben chiari i propri obiettivi e considerava legale il proprio modus operandi, senza
riconoscere che aveva usurpato terre in cui le popolazioni indigene vivevano fin da tempi
ancestrali. D’altronde il proprio potere sociale, per parafrasare Marx, Benetton se lo
portava in tasca; denaro e complicità di un giudice senza scrupoli permisero al patron
trevisano di arrogarsi un diritto di proprietà su quelle terre che erano sempre state comuni
e vissute, da sempre, grazie allo sforzo e al lavoro comune delle comunità Mapuche 15 .
Come già ricordato precedentemente questa è solo una delle molteplici storie che si
possono raccontare per mettere in evidenza quel sacro vincolo che lega proprietà privata

15 http://gliasinirivista.org/2013/10/i-co lori-inv isibili-di-benetton-la-lotta-dei-mapuche-per-la-terra/

62
e proprietà pubblica ai danni del comune. Le coordinate geografiche delle tante “albe”
del capitale intrecciano oramai l’intero globo: dalle foreste dell’Amazzonia alle terre del
Bengala, dalla nuova spartizione economica dell’Africa fino allo sfruttame nto
indiscriminato del delicato ecosistema in Thailandia e in Bangladesh per l’allevame nto
intensivo di gamberetti, passando per le trivelle nell’Adriatico e la devastazione in Val
Susa. Ancora oggi, dunque, la terra è al centro di violenti processi di espropriazione e
saccheggio, nonché della sua messa a valore attraverso l’istituto della proprietà privata.

2.1.1 L’individuo proprietario.

“Il governo non ha altro fine che proteggere la proprietà”

John Locke, 1662

La trasformazione della terra in merce, ovvero l’atto di renderla un oggetto astratto in


base al suo rendimento produttivo “oggettivamente quantificabile ”, è una delle grandi
invenzioni della modernità e della logica capitalistica. La proprietà privata sulla terra, e
la sua conseguente mercificazione, è possibile solamente riducendola ad oggetto astratto
separato dalle soggettività che vi abitano. È nel pensiero di Locke che troviamo per la
prima volta la fondazione filosofica della proprietà privata 16 , che lo stesso autore
riconduce tra i diritti naturali, ovvero diritti dei quali ogni individuo è titolare fin dalla
nascita.

“Dio, che ha dato il mondo agli uomini in comune, ha anche dato loro la
ragione, per farne l’uso più vantaggioso alla vita e più comodo. La terra e
tutto ciò che vi si trova è data agli uomini per la sussistenza e il conforto della
loro esistenza. Ma, sebbene tutti i frutti ch’essa produce naturalmente e gli
animali ch’essa nutre, in quanto sono prodotti spontaneamente dalla natura,
appartengano agli uomini in comune, e sebbene nessuno abbia
originariamente, ad esclusione degli altri uomini, dominio privato su alcuno
di essi fin tanto che sono a quel modo nello stato naturale, tuttavia, dal

16John Locke; a cura di Luigi Pareyson, Due trattati sul governo, Torino, Unione Tipografico Editrice
Torinese, 1948

63
momento che son dati per l’uso degli uomini, vi deve essere necessariame nte
un mezzo per appropriarsene in una qualche maniera”17 .

Per Locke era proprio la proprietà privata il veicolo primordiale di uscita dallo stato di
natura e il motore dello sviluppo economico e sociale. Non interessa in questa sede
ripercorrere e decostruire il pensiero del filosofo liberale - che rincontreremo strada
facendo quando ci occuperemo della questione della cittadinanza, ovvero come il
cittadino è stato immaginato e costruito sotto il profilo concettuale e “istituzionale” a
partire dal XVII secolo- anche perché la logica con cui le sue formulazioni sono state
poste ha fatto sì che queste sopravvivessero per più di quattro secoli. Importante risulta,
allora, soffermarsi su alcuni passi del suo Trattato sul governo che mostrano come riesca
a fondare logicamente la legittimità della proprietà privata, ancorandola ad una supposta
origine “naturale”. La proprietà, in Locke, è in primo luogo proprietà della propria
persona. “Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure
ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il
lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi.
A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate,
egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le
rende proprietà sua. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha
poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il
comune diritto di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del
lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch’è stato aggiunto mediante esso,
almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone”18
È attraverso il lavoro che l’individuo può arrogarsi un qualsiasi diritto di proprietà, “[…]
il pesce che si prende nell’oceano, questo grande e sempre comune bene dell’uma nità
[…] diventa, per il lavoro che lo rimuove da quel comune stato in cui la natura l’ha
lasciato, proprietà di colui che vi ha dedicato la sua fatica. […] La lepre che uno sta
cacciando è considerata appartenente a colui che la bracca durante la caccia”. 19 Ogni
uomo ha dunque il diritto esclusivo alla proprietà privata di quanto produce e un diritto
naturale a sottrarre dalla comunione originaria il frutto del suo lavoro. L’obiettivo di
Locke, nel capitolo V del II Trattato sul governo, è quello di mostrare come gli uomini

17 Ivi, p. 260
18 Ibidem.
19 Ivi. 262-263

64
siano riusciti ad avere la proprietà di qualche parte di ciò che gli uomini avevano in
comune. Mediante il suo lavoro l’uomo è in grado di rimuovere da uno stato comune le
cose che la natura aveva posto appunto come proprietà comuni, ovvero “[…] quelle cose
dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto
il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà
sua”20 .
È dunque il lavoro il titolo che l’uomo deve presentare per possedere qualcosa che gli è
stata “donata” all’origine in comune. È con Locke dunque che la privatizzazione dei
commons, ovvero ciò che Dio aveva concesso agli uomini in comune, trova un suo
fondamento filosofico e una sua legittimazione. Possiamo dire che Locke ha attribuito
grande rilievo al problema dell’origine della proprietà, dando uno dei contributi più noti
alla teoria politica. Le sue analisi prendono le mosse da due premesse: da una parte il fatto
che la terra con tutte le sue risorse è originariamente data come proprietà comune a tutta
l’umanità come mezzo per il sostentamento e per il soddisfacimento dei bisogni umani;
dall’altra che ogni soggetto è padrone di se stesso e cioè delle proprie capacità, delle
attività che può svolgere e dei risultati che grazie ad esse ottiene, secondo un criterio di
reciprocità in base al quale sarebbe lecito appropriarsi di qualcosa che appartiene a tutti
anche senza il loro consenso, a condizione di lasciare agli altri la possibilità di fare
altrettanto. Finché tutta la ricchezza è destinata al consumo, e dunque al bisogno di
ciascuno, i criteri giustificativi formulati da Locke per difendere la proprietà privata
possono essere ritenuti adeguati: ognuno possiede legittimamente i beni che consuma e
che si è procurato applicando il suo lavoro a risorse che ha sottratto al possesso comune
originario rispettando il vincolo che anche gli altri possano appropriarsene in misura
analoga. Le dinamiche descritte da Locke avevano, tuttavia, poco a che vedere con la
realtà dell’Inghilterra del XVII secolo – e ancor meno con la nostra -; un mondo
caratterizzato dalla concentrazione della proprietà nelle mani di gruppi ristretti e da larghe
masse di soggetti privi di qualsiasi proprietà.
Eppure, muovendo da quelle due premesse, deriva, secondo Locke, che l’accumulazio ne
originaria di risorse non viola la legge di natura qualora sia motivata dal bisogno e alla
capacità umana di trasformare le risorse attraverso il lavoro. Per il filosofo liberale,
dunque, la proprietà privata si dà già nello stato di natura anticipando in qualche modo la
costituzione dello Stato. Con Locke, diversamente che con Thomas Hobbes, la proprietà

20 Ivi, 260-261

65
privata gode di una sorte di priorità logica nei confronti appunto dello Stato, in quanto “il
grande e principale fine per il quale gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un
governo è la salvaguardia della loro proprietà”. Vediamo come quel connubio fra
proprietà privata e Stato ai danni del comune, che in qualche modo riemerge
costantemente, non senza contraddizioni, nel corso di questo elaborato, emerge
chiaramente fin da subito nelle teorizzazioni di Locke prefigurando la massima
valorizzazione delle risorse che “Dio aveva concesso agli uomini in comune”. È proprio
quell’appartenenza comune del mondo materiale che gli individui, disciplinati alla, e
dalla, nuova logica dell’accumulazione capitalistica, dovevano far venir meno attraverso
il loro lavoro che viene posto a fondamento della proprietà privata.
Nonostante la logica ferrea con la quale Locke legittima la fondazione filosofica della
proprietà privata, pare non considerare la drammaticità di quella che Polanyi ha definito
la “Grande Trasformazione”, ovvero la violenza e la brutalità attraverso le quali sono state
poste le condizioni per l’avvento del capitalismo. D’altro canto, la messa a frutto di
ingenti risorse materiali non può di norma avvenire direttamente da parte di chi le
possiede, ma richiede l'impiego di altri soggetti (tipicamente lavoratori salariati), e
dunque la costruzione di un luogo fittizio che prende il nome di mercato del lavoro, nel
quale moltitudini di uomini scambierebbero “le proprie attitudini fisiche e mentali” contro
salario per poter riprodurre le proprie esistenze. In qualche modo, bisognava, attraverso
strumenti coattivi, mistificati dalla legge, “sollecitare” gli uomini a sottomettersi alla
norma del lavoro salariale per rispondere alla richiesta di forza lavoro della nascente
industria.
Riassumendo brevemente per concludere e aprire all’avvento del paradigma neolibera le
come nuova razionalità politica, abbiamo visto come la terra sia ancora oggi - dall’Afr ica
alla Cina, dall’India all’Europa - al centro di violenti processi di espropriazione e di
saccheggio21 , e come questa rappresenti ancora oggi il terreno sul quale si dispiega no
violentemente le traiettorie dell’accumulazione capitalistica. Se da una parte abbiamo
insistito sul fatto che le privatizzazioni selvagge, soprattutto in quelle che venivano
considerate le “periferie” del mondo, assumevano la terra come oggetto da “mettere a
valore” e sulla quale riprodurre le regole del capitale – ripercorrendo il pensiero di Locke

21Fondamentale è la formulazione della categoria di “accumulation by dispossession”, forgiata dal


geografo David Harvey, per analizzare i nuovi modi di operare del capitalismo all’indomani della svolta
neoliberale degli anni ’70-80 e rileggere, alla luce del nostro presente, alcune categorie dell’archivio
marxiano. Si veda David Harvey, THE ‘NEW’ IMPERIALISM: ACCUMULATION BY
DISPOSSESSION, http://socialistregister.com/index.php/srv/article/view/5811/2707#.VY0RS_nt mko

66
e la sua fondazione filosofica della proprietà privata - ; dall’altra, ci siamo soffermati sulla
violenta costruzione del mercato del lavoro, come luogo fittizio, dove individui, sradicati
dalle proprie terre, dovevano “recarsi” per poter riprodurre la propria vita.
Attraverso la reinterpretazione della categoria marxiana di “accumulazione originar ia ”,
ovvero affermando l’attualità di quella che Marx definiva la preistoria del capitale, la
violenza delle origini, abbiamo posto l’attenzione su quelle che possiamo definire le tante
“albe” del capitalismo. Il capitale è costretto a riprodurre costantemente le condizioni che
hanno reso possibile il suo dispiegarsi. Sono dunque le tante “albe” del modo di
produzione capitalistico che dobbiamo analizzare e interrogare criticamente, ovvero le
modalità attraverso le quali il capitale si reinventa continuamente per rispondere alle sfide
che si pongono nell’attualità. Sotto questa luce il neoliberismo si presenta allora come
una nuova “alba” del capitale, una rivoluzione - dall’alto - (vincente) che ha investito e
rimodulato tutti gli ambiti della vita, della società e della produzione. Una vera e propria
“distruzione creatrice” - per usare la felice espressione di Schumpeter - capace di imporre
nuovi linguaggi, nuove condotte e nuove discipline. Ancora una volta è il comune, sia
nella sua dimensione materiale ma anche, e soprattutto, nella sua (nuova) dimens io ne
immateriale, la quale verrà analizzata più avanti nel corso del capitolo- ad oggi, saperi,
linguaggi, cooperazione, sono diventati i motori dell’attuale sistema produttivo -, a
presentarsi come il terreno sul quale si dispiegano i processi di valorizzazione e di
accumulazione del capitale.

67
2.2 La lunga marcia del neoliberalismo.

“Economics are the method; the


object is to change the soul”
Margaret Thatcher, 1981

Come giustamente sostiene David Harvey nell’introduzione al suo libro Breve storia del
neoliberalismo (Il Saggiatore, 2005), in futuro gli storici guarderanno al biennio tra il
1978 e il 1980 come a un punto di svolta rivoluzionario nella storia sociale ed economica
del mondo.
Nel 1978 Deng Xiaoping aprì la strada verso la “liberazione” di un economia governata
dai comunisti in un paese che ospitava, già allora, un quinto della popolazione mondiale.
Il “paradossale” connubio tra dirigismo del partito comunista cinese e l’adozione
dell’economia di mercato trasformò la Cina “maoista” nel centro nevralgico della
ristrutturazione del capitale globale; da economia chiusa ed arretrata, a centro dinamico
della riorganizzazione del capitalismo, con tassi di crescita talmente sostenuti da non
avere confronti nella storia. Evidentemente la violenza e la brutalità della dittatura cinese
rispondevano perfettamente alla crisi dell’accumulazione del capitale dell’epoca. In
Inghilterra Margaret Thatcher era diventata prime minister a Westminster, con il mandato
di smantellare il potere dei sindacati e porre fine alla stagnazione inflazionistica che aveva
soffocato il paese nel decennio precedente. Contestualmente, sull’altra sponda
dell’Atlantico, fu l’elezione nel 1980 del repubblicano Ronald Reagan a spalancare le
porte al dispiegamento delle pratiche neoliberali; tutta una serie di politiche finalizzate a
contenere i sindacati, a deregolamentare l’industria, l’agricoltura e lo sfruttamento delle
risorse, vennero poste in essere con l’obiettivo di liberare le potenzialità della finanza a
livello globale. È da questi vari epicentri che si sono diramati e diffusi gli impuls i
rivoluzionari che hanno trasformato il mondo intorno a noi.
Porre in questi termini la questione dell’avvento del neoliberalismo sembrerebbe
consegnarne la paternità ad una macchinazione orchestrata dai vertici del potere politico

68
mondiale, una sorta di complotto internazionale. Ovviamente la nostra ingenuità non può
spingersi a tanto. Eppure mutamenti di questa portata ed estensione non si verifica no
accidentalmente. Come abbiamo precedentemente evidenziato, attraverso una citazio ne
di Marx, il capitale tende per sua stessa natura a trasformare ogni limite posto al suo moto
estensivo, in un ostacolo da superare. Dunque mettere sul banco degli imputati Reagan,
Thatcher e Deng Xiaoping non è una mossa del tutto ingenua e semplicistica. Sono loro
a rappresentare il volto “umano” di questa grande rivoluzione sul piano economico e
sociale. E ancora, sono loro i vettori attraverso i quali la dottrina neoliberale ha dispiegato
tutta la sua “distruzione creatrice”. Eppure non è minimamente sufficiente per provare a
spiegare le origini del neoliberalismo. Una nuova alba del capitale stava contrassegnando
un passaggio epocale. Indietro non saremmo più tornati. E in effetti indietro non si tornò.
Questi signori, appena citati, fecero uscire dall’ombra di una relativa oscurità una dottrina
nota come “neoliberalismo”22 , e la trasformarono nel principio guida della teoria e della
pratica economica. Il suo trionfo, appunto databile 1978-1980, si consacra non solo nel
mondo accademico e nel mainstream mediatico, attraverso la conquista di segmenti
strategici dei sistemi di informazione, ma guadagna spazio anche a livello politico
permeando i partiti politici e di conseguenze le strutture di potere dello Stato e delle
organizzazioni internazionali. È su questa dottrina – sulle sue origini, sul suo sviluppo e
sulle sue implicazioni – che ci soffermeremo in questo paragrafo, per poi vedere come è
ancora ciò che gli uomini producono in comune il motore dello sviluppo del capitale
globale oggigiorno e, dunque, ciò che quest’ultimo sfrutta per poter riprodurre le proprie
condizioni di possibilità.
Andiamo per ordine; le origini. Abbiamo datato questa svolta epocale nel biennio 1978-
1980 evocando le nuove politiche intraprese dalla Thatcher in Inghilterra e da Reagan
negli Stati Uniti, eppure, quasi un decennio prima, esattamente nel 1973, le ricette
neoliberali venivano imposte con la violenza più atroce nel Cile di Pinochet. Ecco che
allora, il neoliberalismo, inteso al contempo come dottrina di politica economica ma
anche come potenza estremamente materiale capace di imporsi come “nuova ragione del
mondo”, assume fin dalle sue origini una dimensione globale: lavorando furtivame nte
nell’ombra violenta della dittatura, faceva “pratica” nel “laboratorio cileno” per poi essere
sdoganata e sacralizzata dai paesi a cosiddetto capitalismo avanzato. Concedeteci una
piccola digressione. In precedenza avevamo etichettato la visione, per così dire,

22 Teniamo a mente che il termine neoliberalismo è utilizzato dai suoi critici piuttosto che dai sostenitori

69
complottistica dell’affermazione del neoliberalismo come ingenua e semplicistica.
Prendiamo in parte le distanze dalla tesi Harvey secondo il quale il trionfo del paradigma
neoliberale sarebbe da attribuire al tentativo - ampiamente riuscito – di restaurazione del
potere da parte delle élite economiche e delle classi dominanti indebolite dal
compromesso sociale – tra capitale e lavoro – nel secondo dopoguerra, esplicitato nello
Stato Sociale. Harvey sostiene che a fronte della crisi di accumulazione capitalis tica
emersa negli anni Settanta del novecento, gruppi oligarchici detentori di potenti interessi
privati abbiano messo in atto una guerra al lavoro e alla contrattazione collettiva con
l’obiettivo di rovesciare i rapporti di forza, che erano andati consolidandosi sotto la spinta
delle lotte operaie all’indomani della II Guerra Mondiale e ristabilire la propria
supremazia di classe.23 A questo riguardo, è stato proprio Harvey a coniare la categoria
di accumulation by dispossession, che abbiamo precedentemente utilizzato per
sottolineare le modalità di dispiegamento del capitalismo, per definire il processo di
neoliberalizzazione della società nella sua totalità. Ovvero un capitalismo predatorio che
opererebbe per distruggere i beni pubblici e le risorse collettive, trasformando li
progressivamente in beni economici privati attraverso processi di privatizzazione e
mercificazione, di finanziarizzazione speculativa e manipolazione dell’informazione. La
teoria del complotto, della grande macchinazione operata da non si sa chi, non ci convince
più di tanto, eppure l’esperimento cileno sembrerebbe spezzare una lancia a favore del
nostro storico marxista. Siamo però convinti che la questione sia ben più complicata e
complessa. Stando alle critiche rivolte a David Harvey da parte dei due studiosi francesi,
Dardot e Laval, identificare assiomaticamente “il beneficiario di un crimine con il suo
autore”24 , ci offrirebbe uno sguardo solamente parziale sul fenomeno del neoliberalismo.
Leggere, allora, il dispiegamento della nuova dottrina neoliberale unicamente come
processo economico risulta fuorviante e superficiale, dal momento che non risponderebbe
semplicemente ad una crisi dell’accumulazione del capitale a livello globale, bensì ad una
crisi di governamentalità che ha radici ben più profonde rispetto alla contingenza del
momento storico. Di conseguenza, la nuova società regolata dalla norma neolibera le,
emersa all’indomani delle numerose “crisi” che hanno scandito il periodo a cavallo tra gli
anni sessanta e settanta del novecento, non sarà il risultato semplicistico di una lotta

23 Harvey, D., Breve storia del neoliberalismo, Milano, Il Saggiatore, 2005. Si veda anche l’imponente libro
di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo /; traduzione di Sergio Arecco, Milano, Bompiani, 2014
24 Dardot, P. e Laval, C. La nouvelle raison du monde : essai sur la société néolibérale, Paris, La

Découverte, 2010, p. 14

70
deliberata messa in atto dal capitale bensì la moltiplicazione di risposte precise e puntali
a problematiche governamentali sull’onda di quelle che erano le trasformazioni sociali,
culturali e soggettive che agitavano il presente. Non possiamo ridurre dunque il
neoliberalismo ad un fenomeno puramente “economico”. Ovviamente il quadro generale
sarebbe di più semplice comprensione e le nostre ansie su chi sia veramente il nemico da
estirpare verrebbero placate. Eppure il nostro nemico non ha volto, a quanto pare, né
tantomeno ha un certificato di residenza, opera minuziosamente all’interno della società,
cambia pelle, è irriconoscibile. Tutto ciò ci spiazza, ci frustra, ci fa arrabbiare. Non si
tratta di enfatizzare un “mostro” che tenta continuamente d’imporsi sulle nostre vite
attraverso le sue logiche, né tantomeno di rassegnarsi timidamente ad uno stato di cose
presenti, ma complicare la lettura di un fenomeno, appunto, complesso. Dunque, lungi
dall’essere un processo lineare, uniforme e intellegibile, deciso a tavolino a Chicago, il
neoliberalismo si presenta più precisamente come una nebulosa tutt’altro che coerente,
eppure efficace, inglobando e permeando interamente la società in cui vivia mo.
“L’originalità del neoliberalismo è allora quella di creare un nuovo insieme di regole che,
oltre a definire un altro regime d’accumulazione, definisce in modo generale un’altra
società”25 . Riprendendo il titolo dell’imponente testo di Dardot e Laval, possiamo dire
che il neoliberalismo si pone magistralmente come nuova “ragione del mondo”, come una
pragmatica generale ben ancorata alla realtà, che non lascia spazio per immaginare
un’alternativa possibile – che non venga marchiata di surrealismo -.
Per comprendere quello che è stato lo sviluppo e l’affermazione del neoliberalismo come
nuova razionalità egemonica, e dunque capace d’imporsi e permeare interamente tutti gli
ambiti della società ponendosi oltretutto come regime di verità assoluta, è necessario
ritornare sulla crisi del liberalismo classico.
Partiamo dal principio: ovvero da quello che per noi è il nocciolo della questione. Com’è
noto, Foucault leggeva l’emergere del liberalismo – coevo a quello della biopolitica - in
termini di razionalità politica piuttosto che in qualità di teoria economica, ovvero come il
passaggio ad un regime governamentale, un’arte di governo, basato sulla politica
economica. Il liberalismo si presentava allora come una critica permanente al potere
sovrano attraverso lo strumento del mercato – inteso come nuovo spazio democratico-.26
Se da un lato la concezione dell’uomo come portatore di limiti naturali al potere sovrano
designa qualcosa che può essere definito come liberalismo classico, declinato al

25 Ivi, p. 16
26 Si veda A. Zanini, L’ordine del discorso economico, Ombre corte, Verona, 2010.

71
singolare, dall’altro questo stesso liberalismo, “lungi dall’essere emerso tutto d’un pezzo
da opere perfettamente univoche”, pensiamo alla “mano invisibile”27 smithiana e alla
naturale armonia del mercato, “ è in realtà fin dalle origini attraversato da tutte quelle
tensioni e divisioni che più tardi si trasformeranno in opposizione aperta sul terreno
ideologico, morale, politico o ancora scientifico”28 .
Se è vero che esistono numerosi punti di contatto tra il liberalismo, cosiddetto, classico e
la nuova dottrina neoliberale, non possiamo tralasciare quelli che sono i piani di
sconnessione tra i due, sia sotto il profilo teorico che sotto quello della pratica politica e
governamentale. Ciò che rimane immutato, nel passaggio dal liberalismo al
neoliberalismo, è la funzione del mercato come luogo di verità – rivolgiamoci al mercato
borsistico e costui ci dirà lo stato di salute del nostro paese, soltanto per fare un banale
esempio -. Quindi anche il neoliberalismo mira alla costruzione di una naturalità
economica veicolata da un regime governamentale di verità. In altri termini, riprendendo
Adelino Zanini, l’invariante formale della governamentalità sarà allora la “continua
produzione di limiti al potere sovrano, attraverso lo strumento del mercato”. Ciò che, al
contrario, cambia in maniera radicale sono le modalità attraverso le quali la pratica
governamentale si dispiega, ovvero la contingenza storica in cui si trova ad operare.
Sicuramente l’irruzione della questione sociale nel XIX secolo si scontra con la
propensione del “primo” liberalismo ad assolutizzare e sacralizzare il mercato. Eppure la
favola dell’immacolata concezione di un mercato naturale capace di autoregolarsi in
maniera spontanea era stato messo in tensione da più parti all’interno del variegato mondo
della teoria liberale, nonché dalla realtà quotidiana. Già nel 1935, Walter Lippman
scriveva:

“I predicatori di questo vangelo sono ben lungi dal metterlo in pratica. Esso
non è più la regola della loro condotta. Sostengono accanitamente che
l’economia è automaticamente autoregolatrice, che il libero gioco dell’offer ta
e della domanda regolerà la produzione e la distribuzione della ricchezza più

27 Adam Smith, padre dell’economia politica classica, nell’opera “La ricchezza delle nazioni”, (An Inquiry
into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776), sviluppò la teoria di una regolazione spontanea
dello scambio e delle attività produttive incentrata sulla nozione di mano invisibile. Il sistema economico
non richiede, secondo l’autore, interventi esterni per regolarsi, in particolare non è necessaria alcuna
ingerenza da parte dello stato poiché il libero funzionamento di un mercato concorrenziale fa convergere il
prezzo di mercato al prezzo reale e favorisce la crescita e lo sviluppo economico.
28 Dardot, P. e Laval, C. La nouvelle raison du monde : essai sur la société néolibérale, Paris, La

Découverte, 2010, p. 34.

72
efficacemente di una gestione e un ‘amministrazione coscienti e concertate.
Ma, nei fatti, essi non applicano moto questo principio. Quelli che insisto no
di più sull’ideale del laissez-faire sono gli stessi che, tramite diritti di dogana
e combinazioni, hanno organizzato la vita industriale del paese in sistemi di
imprese soggetti a un controllo altamente centralizzato. A parole, sono per il
libero scambio. Nei fatti interrompono il libero gioco dell’offerta e della
domanda per rimpiazzarlo ovunque sia possibile con la gestione cosciente
della produzione e la determinazione amministrativa dei prezzi e dei salari. 29

Fin dagli anni Trenta si era posta la questione non più nei termini dell’alternativa tra
mercato autoregolato e intervento dello Stato, ma questa alternativa riguardava più che
altro la natura dell’intervento governativo e i suoi scopi.
Dicevamo appunto dell’esplosione della questione sociale. Indubbiamente le
trasformazioni radicali che, agli albori del nuovo secolo, attraversavano la società
dovevano in qualche modo essere contenute, amministrate e meglio ancora indirizzate.
Un contesto di crescente urbanizzazione e di radicalizzazione del conflitto sociale portò
al centro il movimento operaio e le sue rivendicazioni facendo emergere il problema della
sicurezza sociale e della protezione collettiva. In quest’orizzonte, l’idea “libera le ”
secondo la quale, nel rapporto salariale, ogni individuo possegga un’eguale capacità
contrattuale, che consenta a ciascuno di “giocare la propria partita ad armi pari”, appariva
oramai come priva di senso, nonché completamente sconnessa da quella che era la tragica
realtà del rapporto salariale tra capitale e lavoro. Un pilastro della teoria liberale cominciò,
allora, a frantumarsi sotto le rivendicazioni operaie di inizio secolo in Europa. Era chiaro
a tutti, oramai, l’incapacità della dottrina del laissez-faire a produrre integrazione sociale
e quindi ordine societario. L’ideale di un mercato perfettamente concorrenziale, fonte
intrinseca di una supposta armonia naturale tra interessi privati e vantaggi diffus i,
cominciava ad essere messo in discussione, apparendo inconciliabile con la realtà del
nuovo capitalismo su vasta scala e con lo sviluppo dell’industria moderna, all’inter no
della quale più che la “mano invisibile” del mercato operava violentemente la mano
visibile della ferrea organizzazione del lavoro in fabbrica.

29W.Lippmann, The Permanent New Deal, In The New Imperative, Macmillan, London, 1935 pp. 42-44.
Opera citata in Dardot, P. e Laval, C. La nouvelle raison du monde : essai sur la société néolibérale, Paris,
La Découverte, 2010, p. 367.

73
Ecco che allora, l’inadeguatezza delle formule liberali nel rispondere ai bisogni di
strutturazione e regolazione della nuova società in fibrillazione avrebbe portato ben presto
alla crisi, teorica e pratica, di un liberalismo classico che, ripetiamolo, mai è emerso come
impianto teorico solido e unitario, ma è stato attraversato, fin dalle sue origini, da
numerose tensioni di carattere ideologico, morale, politico o ancora scientifico che ne
decretarono la fine prossima. Nella nostra ottica, riprendendo l’insegname nto
foucaultiano, la crisi del liberalismo classico è dunque da intendersi come crisi della
governamentalità30 liberale nel suo rapportarsi alla domanda, sempre crescente, di un
intervento politico in materia economica e sociale. Il libero scambio economico,
sacralizzato dalla teoria liberale come principio regolatore societario, non poteva più
essere considerato il fondamento di un ordine sociale stabile. La retorica dei diritti
inviolabili dell’uomo, il discorso sulla proprietà privata e la libertà del commercio, il
principio dell’equilibrio del mercato, visti come ingranaggi della macchina del progresso
e della coesione sociale andavano dissolvendosi sotto l’onda d’urto delle proposte di
riformismo sociale. Come sostengono giustamente Dardot e Laval, “a mettere in crisi il
liberalismo dogmatico […] è la necessità pratica dell’intervento governativo per far fronte
alle mutazioni dell’organizzazione del capitalismo, ai conflitti di classe che minaccia va no
la proprietà privata, ai nuovi rapporti di forza internazionali”31 .
La crisi del liberalismo è perciò una crisi interna al liberalismo stesso che si protrae dagli
ultimi decenni del XIX secolo agli anni Trenta del Novecento. Fu proprio Walter
Lippman a sostenere, nel 1935, che “anche una politica di laissez-faire andrebbe
amministrata deliberatamente”32 .
Abbiamo sottolineato, precedentemente, come nell’ambito del liberalismo la naturalità
del mercato fosse centrata attorno al paradigma dello scambio, distinto dall’artificio del
denaro e delle merci, ad esempio, nonché della forza lavoro. Al contrario, in un contesto
neoliberale, la naturalità del mercato è direttamente creata assieme all’artificiale princip io
della concorrenza, quale nuovo motore del mercato. In atre parole, viene maturando la

30 Il concetto di governamentalità si riferisce ai procedimenti atti a dirigere ed orientare la condotta degli


uomini attraverso l’azione di governo, dove quest’ultimo non viene inteso come istituzione bensì come
l’insieme delle tecniche e delle procedure tese a guidare gli individui nella loro esistenza. Andando oltre,
la governamentalità non è solo quell’azione esterna che mira a disciplinare le condotte degli uomini ma
anche quelle tecnologie del sé che mirano a produrre un auto -governo dell’individuo stesso. Devo la
definizione del concetto di governamentalità al libro di Revel, J., Vocabulaire de Foucault, Ellipses, Paris
cedex 15, 2002, voce “gouvernamentalité”.
31 Dardot, P. e Laval, C. La nouvelle raison du monde : essai sur la société néolibérale, Paris, La

Découverte, 2010, p. 162.


32 W.Lippmann, The Permanent New Deal, In The New Imperative, Macmillan, London, 1935 p.47

74
consapevolezza che la natura stessa avrebbe dovuto essere artificialmente fabbricata
affinché l’istituto della concorrenza economica, nuovo pilastro attorno al quale ruota la
teoria neoliberale, potesse imporre il suo corretto funzionamento. Enfatizziamo allora
questo elemento di discontinuità, di cesura radicale, che opera tra liberalismo e
neoliberalismo. Potremmo dire che è stata proprio l’esigenza di una certa continuità nella
pratica governamentale e nell’accumulazione capitalistica, a determinare una
discontinuità tra le due correnti di pensiero. Porre l’accento sul lato della discontinuità
significa soprattutto mettere in luce un tema centrale della governamentalità neolibera le,
ovvero la sua capacità d’adattamento. Sono ancora Dardot e Laval a delineare,
brillantemente, i tratti di un neoliberalismo che richiede costantemente agli esseri umani
e alle sue istituzioni di conformarsi – e piegarsi – ad una dinamica economica modellata
sul principio della concorrenza sfrenata. Questa prospettiva consente allora di smarcarsi
da alcune, per così dire, semplificazioni marxiste, per le quali la grande rivoluzio ne
operata dal neoliberalismo altro non è che un insieme di ricette di politica economica
messe a punto in qualche stanza dei bottoni di non si sa quale paese. Porre invece
l’attenzione sulla dimensione razionale del neoliberalismo inteso, appunto, come “nuova
ragione del mondo”, consente di inscrivere il suo sviluppo all’interno del complesso
sviluppo del capitalismo contemporaneo. Dunque, prima ancora, molto prima, di essere
una dottrina di politica economica, il neoliberalismo si presenta come prassi
governamentale volta a regolare e gestire politicamente lo sviluppo permanente
dell’accumulazione del capitale globale. Scrivono Dardot e Laval: “il neoliberalismo si
basa sulla duplice constatazione che il capitalismo ha aperto un periodo di rivoluzio ne
permanente dell’ordine economico, da un lato, ma che, dall’altro, gli uomini non si
adattano spontaneamente a tale ordine mutevole di mercato, essendo nati in un altro
mondo. Su questa base si giustifica una politica focalizzata sulla vita individuale, sociale
e complessiva”. Ma ovviamente, “l’adattamento dell’ordine sociale alla divisione del
lavoro è un compito immenso, che consiste – secondo l’espressione di Walter Lippmann–
nel trovare un nuovo sistema di vita per tutta l’umanità”33 . Se è vero che gli uomini si
mostrano “naturalmente” irrequieti di fronte all’accettazione dell’ordine freneticame nte
mutevole del mercato, allora saranno necessari strumenti coercitivi affinché questi
vengano disciplinati al nuovo ordine economico-sociale.

33Dardot, P. e Laval, C. La nouvelle raison du monde : essai sur la société néolibérale, Paris, La
Découverte, 2010, p.187.

75
Se la frusta e la berlina, segnando l’alba del capitalismo industriale, avevano letteralme nte
trasformato piccoli artigiani e contadini, vagabondi e diseredati, in operai salariati
“formalmente” liberi, oggi, al culmine dei processi di finanziarizzazione dell’econo mia,
tutta una serie di altri strumenti coercitivi – seppur velati dalla normalità dello stato di
cose presenti come il debito, la finanza ecc… - vengono utilizzati per fabbricare l’homo
neoliberalis piegato alla disciplina dell’imprenditorialità di se 34 . Esplicativo a questo
proposito è questo passaggio: “la razionalità neoliberista spinge l’io a mutare per
rinforzarsi e sopravvivere nella competizione”35 . È dunque anche, e soprattutto, sul piano
della produzione di soggettività – nuove - che opera minuziosamente la “mano invisib ile ”
del neoliberalismo. È l’uomo stesso, nel suo corpo e nella sua mente, nei suoi tempi e nei
suoi spazi, ad essere attraversato, investito e trasformato dal passaggio permanente delle
pratiche neoliberali. È la nostra vita a diventare oggetto di potere. È dunque dalla vita che
dobbiamo ripartire per costruire il comune come dimensione immanente. A partire dalla
sua potenza – ovvero dalla nostra potenza -. È proprio questo il “capolavoro” del
neoliberalismo; è la sua “presa” sulle nostre vite. È la formazione, appunto, di un neo-
soggetto auto-imprenditoriale e competitivo, disciplinato e rendicontabile, in cui si
articolano tutte le precedenti modalità di produzione di soggettività (soggetto giurid ico,
cittadino, consumatore).
Erroneamente abbiamo supposto che l’avvento del neoliberalismo altro non fosse che un
prolungamento del liberalismo classico, una sua estensione nello spazio e, ancora, un
processo lineare e continuativo. Abbiamo, invece, insistito sulla dimensione della cesura
e della discontinuità tra i due. Ecco che allora i pilastri attorno ai quali orbitavano le teorie
liberiste, ovvero il libero scambio, inteso come propulsore della divisione del lavoro, e il
mercato, come mediatore in un circolo virtuoso di aumento esponenziale della
produttività atto a garantire maggior ricchezza per tutti, venivano spodestati da un
modello basato sulla concorrenza, in un orizzonte di lotta generalizzata nel quale i meno
adatti – i meno produttivi, i meno efficienti – venivano sovrastati dalla ferrea legge
concorrenziale. Lo scambio, a questo punto, non era più un mezzo mediante il quale
ottenere un miglioramento delle proprie condizioni oggettive, un vantaggio, ma un

34 Si veda il bel libro di Lazzarato M., La fabbrica dell’uomo indebitato: saggio sulla condizione
neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2012
35 Dardot, P. e Laval, C. La nouvelle raison du monde : essai sur la société néolibérale, Paris, La

Découverte, 2010, p. 424.

76
terreno di scontro sul quale mettere alla prova le proprie capacità in un “gioco” che
ammetteva solo i vincitori.
Un’ ulteriore digressione. La Prima Guerra Mondiale e la Grande Depressione scaturita
dal ’29 portarono alla vittoria il “nuovo liberalismo"36 che andava assegnando allo Stato
un ruolo di regolazione, redistribuzione e controllo delle forze economiche attraverso
interventi pubblici. Lo stato diventava, allora, il garante della “libertà sociale” in
contrapposizione al “diritto dei più forti”, data la sperequazione delle forze tra capitale e
lavoro. Lo “spirito del tempo”, ma soprattutto una specifica logica governamenta le,
assegnavano allo Stato un nuova centralità che portò a concepire l’intervento statale non
come un ostacolo alla libertà degli individui, bensì come l’unica fonte in grado di
consentirne lo sviluppo. Semplicemente, ed erroneamente, si credeva che la libertà
individuale avrebbe potuto dispiegarsi solo ed esclusivamente all’interno dei perimetri
statuali. È proprio contestualmente al problema dell’ordine sociale ed economico di inizio
secolo (scorso) che, in un contesto in continua ebollizione e trasformazione, appariva
evidente l’inevitabilità dell’azione attiva e costituente del soggetto-Stato nella produzione
economico-sociale. Come affermò Polanyi, “la crisi degli anni Trenta suonò la campana
di un re-inserimento del mercato all’interno di sistemi di regolamentazione, di quadri
legislativi e di principi morali”. È quella che lo stesso autore definisce “grande
trasformazione”. Attraverso la lettura di Polanyi leggiamo la deriva del liberalis mo
classico come esplosione e passaggio alla socializzazione dell’economia in una logica di
“difesa della società”. È proprio da questa deduzione che Polanyi annunciò, ovviame nte
sbagliando, la fine del liberalismo. Evidentemente, non è stato così. Ciò che non tenne in
considerazione fu il fatto che il (neo)liberalismo, che andava prendendo forma, come
rivincita sulle conquiste ottenute dal lavoro sul tema del salario e del potere politico, non
coincideva (esattamente) con il laissez-faire - tanto caro ai liberali duri e puri – vecchi e
nuovi – e, soprattutto, che non era (assolutamente) avverso all’intervento statale, come
interpretazioni (a sinistra) troppo semplicistiche vorrebbero dimostrare.
Il nuovo liberalismo, quello che attribuisce una nuova centralità allo Stato in economia,
viene definito da Harvey, nel suo libro, più volte citato, Breve storia del neoliberalismo,

36Il nuovo liberalismo può essere definito anche socialismo liberale in quanto ingloba all’interno delle sue
logiche un’attenzione nuova alla questione sociale e una forte spinta all’interventismo e al riformis mo
sociale. Si differenzia però dal socialismo marxista in quanto non concepisce la lotta di classe come il
motore della trasformazione sociale. È da questa corrente che nascerà quello che viene chiamato lo Stato
sociale e in questo senso il nuovo liberalismo è altro rispetto al neoliberalismo.

77
embedded liberalism, come un liberalismo integrato in un tessuto di regolazioni e
restrizioni sociali. Si afferma così lo Stato sociale, fondato sul compromesso di classe tra
capitale e lavoro. Lo Stato diventa il veicolo della libertà e la tutela dei più deboli in vista
dell’interesse collettivo. Viene meno la falsa convinzione dell’uguaglianza dei soggetti
sul mercato. Ciò che in maniera dispregiativa viene etichettato come Stato
provvidenziale, si basa su una commistione tra Stato, mercato e istituzioni democratiche
– o pseudo-democratiche -. Ripetiamolo; sono ragioni governamentali a spingere lo Stato,
in quanto attore fondamentale nella costruzione di un ordine economico-sociale capace
di contenere – e depotenziare – lo scontro di classe tra capitale e lavoro, alla conquista di
una forte centralità all’interno del nuovo contesto politico e sociale che andava prendendo
forma agli albori del nuovo secolo (scorso). La finalità dello Stato sociale era il
mantenimento della coesione sociale grazie a politiche di welfare capaci di garantire un
insieme di protezioni e assicurazioni, mantenendo aperto il ciclo di accumulazio ne
capitalistica.
A questo punto sarà chiaro che sia il nuovo liberalismo (sociale) che il neoliberalismo si
presentano come risposte alla crisi della modalità di governo liberale nel suo relaziona rs i
alle radicali trasformazioni del capitalismo e al conflitto sociale emergente. Benché
(radicalmente) differenti, entrambi, miravano alla preservazione dell’accumulazio ne
capitalistica e alla “difesa” della società liberale 37 in un contesto estremamente mutevole,
anche alla luce delle derive totalitarie che molti stati stavano vivendo nei primi decenni
del Novecento. Dunque, parallelamente al trionfo dello Stato sociale, come nuovo attore
sociale, una fase embrionale del neoliberalismo stava prendendo corpo, muovendos i
sottotraccia per diventare, successivamente, la “nuova ragione del mondo”.
Ritorniamo al neoliberalismo. Abbiamo insistito sulla cesura operata in un dato momento,
per rispondere “praticamente” ad una serie di problematiche che emergevano nel tumulto
della “grande trasformazione”. Abbiamo constatato che il neoliberalismo, piuttosto che
una dottrina coerente – è proprio una certa indifferenza verso la coerenza teorica a far
trionfare praticamente il neoliberalismo- e ancora, piuttosto che una politica volta al
perseguimento di una serie di obiettivi, è forse più preciso leggerlo da un punto di vista
della pratica governamentale per avere una visione d’insieme più nitida.
Se la questione spinosa per il liberalismo è sempre stata quella del “troppo governo” e
dunque come porre un freno all’interventismo statale sul piano economico e sociale, non

37 Si rimanda a Foucault, M., Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998.

78
è stata la medesima anche per il pensiero neoliberale, nonostante sia sempre stato
presentato, dagli apologeti dello Stato duri e puri, come avverso all’azione statale. Essere
riluttanti a qualsiasi azione di intralcio al processo economico della concorrenza da parte
dell’entità statale non significa, però, ricercare una “ritirata” dello Stato. Lo Stato riveste
un ruolo primario nel gioco neoliberale; lo dimentichiamo fin troppo spesso. Se è vero
che il mercato della concorrenza deve essere purificato da qualsiasi azione correttiva o
compensativa, è altrettanto vero che questo deve essere sviluppato e sostenuto attraverso
una struttura giuridica ben costruita. I neoliberisti non soffrono dunque di una sorta di
“fobia dello Stato”, per richiamare Foucault, bensì riconoscono che l’ordine di mercato,
non essendo un dato di natura, è il prodotto di una costruzione politica, finendo per
sviluppare una razionalità governamentale volta a plasmare un nuovo concetto di società
all’interno della quale il benessere collettivo sarebbe stato perseguito liberando le risorse
e le capacità imprenditoriali dei singoli.
C’è un altro aspetto del liberalismo che è necessario interrogare. È probabilmente il più
interessante anche se il più elusivo. Questo passaggio ci consente di aprire, ancora una
volta, sul comune. Dentro il liberalismo c’è la libertà. Paradossalmente, la grande scoperta
dei rapporti di potere a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento è che, con il passaggio alla
produzione industriale e con la necessità di sussumere la potenza dei corpi della forza
lavoro, questi hanno bisogno di nutrirsi della libertà degli uomini. Su questo punto
interviene l’analitica del potere di Foucault. Il potere si nutre di libertà quando i rapporti
di potere sono dispiegati pienamente. È lo stesso Foucault ad evidenziare che esiste
qualcosa dentro il potere che ha bisogno del contrario del potere; ovvero la libertà. Quindi
il potere necessita di un continuo faccia a faccia oppositivo con il suo contrario, la libertà.
In pagine straordinarie di Sorvegliare e punire Foucault sostiene che non esiste nessuna
libertà fuori dal potere, che libertà e potere sono ormai inseparabili proprio perché il
potere ha cancellato qualsiasi cosa fuori da sé. Dunque non c’è nessun fuori rispetto al
potere e, di conseguenza, la libertà si gioca all’interno dei rapporti di potere. È sempre
Foucault a sostenere che il potere si esercita solamente su soggetti liberi.38
Nella misura in cui «la vie fait désormais partie du champ du pouvoir»39 , questa (la vita)
rappresenterà, allo stesso tempo, anche, e soprattutto, lo spazio sul quale le resistenze - al

38 Sui rapporti di potere si veda Foucault, M., Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Torino, Einaudi,
1993.
39 Antonio Negri, Fabrique de porcelaine, pour une nouvelle grammaire du politique, trad. Judith Revel,

Stock, 2006, p. 41

79
potere- possono trovare un campo d’azione per dispiegare le proprie potenzialità e
costruirsi come forme di antagonismo. È attraverso la potenza della vita che si manife sta
dunque la libertà. Sicuramente la cesura determinata dal passaggio dalla modernità alla
così chiamata post-modernità, ovvero il passaggio dalla produzione fordista al
capitalismo cognitivo – dalla fabbrica alla metropoli come dimensione della produzione
odierna -, ha accresciuto le possibilità di resistenza nella misura in cui il lavoro è diventato
sempre più immateriale, e cioè che la creatività e le capacità intellettuali sono diventate
sempre più centrali nella produzione di valore. È proprio un paradosso, ma il capitalis mo
ha bisogno di sussumere ciò che potenzialmente potrebbe decretarne la fine. Sarà
sufficiente?

80
2.3 Produzione biopolitica. Ovvero l’autonomia del lavoro?

Accumulazione flessibile (Harvey, 1989), tardo capitalismo (Mandel, 1972),


postfordismo (Lipietz, 1989), capitalismo cognitivo (Moulier Boutang 2007),
neoliberalismo (Harvey, 2005), Impero (Hardt e Negri, 2000): questi sono alcuni termini
circolati a livello accademico, e non, per descrivere le transizioni interne al capitalis mo
all’indomani di quella cesura che abbiamo cercato di far emergere nel paragrafo
precedente. Queste definizioni portano con sé particolari implicazioni empiriche e
teoriche, ora tracciando linee di continuità col passato, ora indicando l’emergere di una
forma storicamente nuova del capitalismo. Resta il fatto che assistiamo ad una
proliferazione di termini, volti ad immortalare una determinata fase storica, che dovrebbe
suggerirci che qualcosa stava cambiando o, meglio, che è in corso un qualche tipo di
transizione.
In questa parte mostreremo come quella cesura, cristallizzatasi su un piano di
irreversibilità, ha significato, al contempo, una trasformazione della produzione
economica e una metamorfosi nella composizione tecnica del lavoro – utilizza ndo
un’espressione marxiana -, nonché nella composizione del capitale. E ancora,
evidenzieremo come quella soggettività del lavoro, tanto cara a Marx, ovvero quella del
lavoratore salariato – formalmente- “libero”, è stata attraversata e sovrastata dalla
proliferazione di nuove forme di lavoro e da nuove figure del lavoro. Dunque, quale –
nuova - soggettività del lavoro?
Un elemento comune ai vari approcci sulla transizione interna al capitalismo, è l’enfas i
posta sui processi di finanziarizzazione nell’economia mondiale. Come sostengono le
teorie del sistema-mondo, l’espansione finanziaria è stata una fase caratteristic a dei cicli
storici di accumulazione e quindi non riconducibile all’ultima ondata di trasformazio ne
capitalistica. Nel suo libro Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, 2007), Arrighi mostra come
la finanziarizzazione altro non è che un processo di espansione speculativa che segna la
fine di un ciclo economico, prefigurando uno spostamento degli equilibri geo-economic i.
Oggigiorno il ruolo della finanza, il suo potere sistemico, non può essere identificato con
l’analisi di Arrighi. L’economia finanziaria è diventata pervasiva e, come sostiene

81
Christian Marazzi, si dispiega lungo tutto il ciclo d’accumulazione, ovvero, per dirla con
una battuta, lo accompagna dalla “culla alla bara”. La finanza è diventata “consustanzia le
a tutta la produzione di beni e servizi”40 . Utilizzare ad esempio il termine capitalismo
cognitivo, per indicare la transizione interna al capitalismo, permette di porre l’accento
sulla metamorfosi della produzione, ovvero di sottolineare come questa sia diventata
immateriale, senza però che questo significhi che la produzione industriale di beni e
servizi sia tramontata. Ad essere mutato è il ruolo della finanza nell’articolare e nel
comandare quella produzione e la conseguente divisone del lavoro, in maniera
radicalmente diversa rispetto ai processi di accumulazione e valorizzazione del
capitalismo industriale. È questa sconnessione tra il piano finanziario e la produzione di
beni e servizi a permettere ai mercati finanziari di “succhiare” plusvalore dal lavoro vivo
operaio.41 E, come scrive sempre Marazzi, i risultati sono noti: riduzione del costo del
lavoro, smantellamento delle organizzazioni sindacali, automazione di interi processi
lavorativi, delocalizzazioni in paesi con salari infami, precarizzazione di ogni forma di
lavoro subordinato e non – si veda l’esercito delle partite iva42 -. In qualche maniera,
potremmo dire che mentre, da una parte, i lunghi processi di finanziarizzazio ne,
all’indomani della crisi degli anni ’70, (Marazzi, 2009; Hardt e Negri, 2010) hanno aperto
nuovi spazi per la valorizzazione del capitale di fronte ai limiti posti dalla classe operaia
all’interno della fabbrica; dall’altra parte, è stato proprio il capitale stesso a rompere
quelle mura, esternalizzando il lavoro non solo ad altre latitudini, in quelle cosiddette
periferie del mondo – ci si riferisce al fenomeno della delocalizzazione di interi settori
produttivi43 - , ma all’intera società – la metropoli diventata lo spazio della produzione e
della riproduzione del valore –.
La finanziarizzazione del capitale ha rappresentato un chirurgico strumento di
governance neoliberale per far fronte a quello che lo stesso Foucault definì un
basculement de la société, laddove molte imprese, riprendendo le parole di Marazzi, si
mostrarono incapaci, di fronte alle vittorie operaie sul piano del salario, di succhiare
plusvalore dal lavoro vivo operaio e di garantire il carattere espansivo dell’accumulazio ne
capitalistica.

40 Marazzi, C., Finanza bruciata, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2009, p.24


41 Ivi, p.26
42 Rimando al bel editoriale di Maurizio Fontana su Sconnessioni precarie, Il declino del lavoro standard.

http://www.connessioniprecarie.org/2014/09/03/il-declino-del-lavoro-standard-2/
43 Si veda Masino G., Salento, A., La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del

lavoro, Roma, Carocci editore, 2013

82
Ad oggi, la produzione sta attraversando una transizione in cui le forme della produzione
capitalistica investono sempre più le relazioni sociali e le forme di vita. In altre parole,
“la produzione capitalistica, sta diventando biopolitica” 44 .
Torniamo dunque al metodo marxiano per analizzare la condizione contemporanea
dell’economia. Analizzando la sopracitata composizione tecnica del lavoro faremo luce
su chi produce, cosa si produce e come si produce nell’economia globale contemporanea,
a fronte di una tendenza del lavoro a occupare sempre più intensamente i tempi e le forme
di vita. Ecco che allora mettere in rilievo la metamorfosi della composizione tecnica del
capitale, nonché del lavoro, e dunque insistere sul passaggio dal fordismo al capitalis mo
cognitivo, dalla fabbrica alla metropoli come dimensione della produzione e, ancora dalla
classe operaia alla moltitudine per rispondere all’eterogeneizzazione delle forme di
lavoro, consentirà, non solo, di afferrare le attuali modalità, sfuggenti ed elusive, dello
sfruttamento e del controllo capitalistico, ma anche, e soprattutto, di verificare quali sono
i mezzi e gli strumenti a disposizione contro il capitale.
Analizziamo allora tre tendenze che consentono di delineare le principali trasformazio ni
del lavoro e dunque della produzione, in molte parti del mondo.
Andiamo per ordine. Prima di tutto è necessario cogliere la tendenziale egemonia della
produzione immateriale nei processi di produzione e valorizzazione del capitale. “La
dimensione immateriale dei prodotti prevale sulla loro realtà materiale”45 . È sul piano
estetico, sociale e simbolico che si produce valore, “sicché tutto l’effetto dipende dalla
camera oscura piuttosto che dall’oggetto reale”, riprendendo un frammento del Lo
Zibaldone di Giacomo Leopardi. Ad oggi le immagini, le informazioni, il sapere e,
ancora, gli affetti, i codici e le relazioni sociali, hanno controbilanciato la materialità della
merce nel processo di valorizzazione operata dal capitalismo. Questo non significa però
che la produzione di beni materiali, come automobili e nuovi apparecchi tecnologici, sia
venuta meno; anzi tutto il contrario vivendo d’altro canto in una società iper-
consumistica. Ciò che si vuole mettere in rilievo è che il valore di una qualsiasi merce,
intesa in senso lato, dipende sempre più da beni ed elementi immateriali. Assistia mo,
dunque, ad una subordinazione della materialità del bene a fattori immateriali, che
vengono in qualche modo dall’esterno rispetto al ciclo produttivo. Le forme del lavoro
connesse a questa trasformazione nella produzione hanno a che fare immediatamente col

44 Hardt, M. e Negri, A., Comune, oltre il privato e il pubblico, trad. a cura di Alessandro Pandolfi, Milano,
Rizzoli, 2010, p. 137.
45 Gorz, A., L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p.35.

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cervello e col cuore, ovvero interpellano direttamente le facoltà umane: dimens io ne
intellettuale e affettiva. Come scrivono bene Hardt e Negri, “occorre fare attenzione”, in
quanto “[…] lavoro cognitivo e affettivo non sono concentrati e isolabili in organi
specifici, ma coinvolgono allo stesso tempo la mente e il corpo. Anche quando i prodotti
sono immateriali l’atto produttivo è a un tempo corporeo e intellettuale”46 . Teniamo,
allora, fisso un punto, per noi fondamentale. Ovvero siamo di fronte ad una svolta
biopolitica dell’economia, nella misura in cui tutte le facoltà umane, immediatame nte
messe al lavoro, producono valore.
Una seconda tendenza da segnalare è la femminizzazione del lavoro, il suo divenir-donna
[Mezzadra e Nielson 2013, Hardt e Negri 2010]. Prima di tutto, abbiamo assistito ad una
crescita esponenziale della presenza femminile sul mercato del lavoro sia nei paesi
cosiddetti ricchi che in quelli poveri. In secondo luogo, questa tendenza ha significato una
tendenziale flessibilizzazione del lavoro – temporale e spaziale -, esplicitata nella
proliferazione di forme contrattuali nuove, deliberate all’unanimità dalle élite
economiche mondiali, rispondenti alle “trasformazioni del mondo” che ci circonda. Un
terzo elemento importantissimo è la progressiva inclusione di tutta una serie di specific ità,
associate da sempre al lavoro femminile come le emozioni, le capacità relazionali, gli
affetti ecc…, che stanno diventando centrali in moltissimi lavori. Questa tendenza a
divenir-donna del lavoro fa sfumare in qualche modo la distinzione tra tempo di lavoro e
tempo di vita. È dunque ancora una volta la vita ad essere investita e attraversata dai
processi di produzione e valorizzazione del capitalismo. È la produzione dell’uo mo
mediante l’uomo, come scrive Robert Boyer. Viene meno la distinzione tra lavoro
produttivo e riproduttivo, nella misura in cui la produzione è volta in maniera sempre più
massiccia alla produzione non solo di merci ma anche, e soprattutto, di relazioni sociali e
forme di vita47 . Cogliere questa tendenza nelle trasformazioni del lavoro non deve però
ingannare; per una triste ironia della storia, il divenir-donna del lavoro corrisponde
esattamente ad una sempre più profonda frattura di genere. Ecco che allora cogliere la
progressiva femminizzazione del lavoro significherà illuminare la dimensione biopolitica
del lavoro, il suo divenir biopolitico, passaggio che ci permette di evidenziare lo
scollamento dei confini tra lavoro e vita, nella misura in cui, ribadiamolo, è la vita stessa
ad essere messa a profitto. Oggigiorno il capitalismo sfrutta e traduce secondo il codice
del valore ciò che noi sogniamo, ciò che noi immaginiamo e ciò che noi desideriamo.

46 Hardt M. e Negri A, Comune, Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p. 138.
47 Ivi, p.139.

84
Una terza tendenza che caratterizza questa metamorfosi è legata ai fenomeni migrator i,
all’ibridismo e al meticciato. Possiamo allora tranquillamente dire che oggi nessuna
grande metropoli, né tantomeno le città più piccole, potrebbero esistere, produrre ed
essere competitive sul piano economico al di fuori della composizione, appunto, ibrida e
meticcia della loro popolazione e naturalmente del loro mercato del lavoro. Questo è un
dato di fatto! Basta alzare gli occhi al cielo e osservare i cantieri edili, oppure passeggiare
per il porto e rimanere storditi dai prodotti chimici utilizzati nella cantieristica o, ancora,
camminare per i mercati ortofrutticoli delle nostre città oppure nei campi agricoli dove si
lavora per paghe da fame. Le nostre economie, le nostre città, le nostre aziende, di
qualsiasi settore e dimensione, - dalle enormi corporations, fino alle piccole imprese, dal
settore agricolo a quello manifatturiero, dal lavoro domestico all’edilizia -, hanno
costantemente bisogno di un flusso di migranti per comporre la propria forza lavoro, sia
questa legale o illegale.
Il dato di fatto è che le migrazioni trasformano radicalmente il mercato del lavoro sia in
termini quantitativi, ovvero ne determinano la dimensione compiutamente globale, che in
termini qualitativi, nella misura in cui la composizione di genere del lavoro migrante è
cambiata al punto che le donne ne costituiscono una parte cospicua: le donne vengono
occupate sia nei lavori più tradizionalmente femminili, come lavoro domestico, lavoro
sessuale, cura di anziani e bambini, sia nelle cosiddette fabbriche globali affamati di
manodopera a basso costo e riluttanti a qualsiasi forma di tutela del lavoro. Dal settore
manifatturiero all’elettronica, passando per il tessile, fino ad arrivare alla produzione di
calzature e di giocattoli. Ecco che la figura della giovane donna migrante risponde
perfettamente al profilo del nuovo operaio globale; flessibile e contemporaneame nte
invisibile.48
Cogliere queste tendenze, che trasformano radicalmente la composizione tecnica del
lavoro, nonché del capitale, consente di registrare come la produzione biopolitica abbia
spostato il centro di gravità dell’economia dalla produzione materiale di merci alle
relazioni sociali provocando, come abbiamo constatato prima, lo sfaldamento dei confini
tra lavoro e vita. Ripetiamolo; la vita è investita completamente dalle nuove dinamiche di
produzione e valorizzazione del capitale. Riprendendo Marx, possiamo osservare come il

48 Rimando al libro di Ngai, P., Chan, J., Selden, M.; a cura di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, Morire
per un iPhone : la Apple, la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, Milano, Jaca book, 2015 e Pun Ngai
Nella fabbrica globale : vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn , edizione italiana
a cura di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, Verona, ombre corte, 2015.

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capitale è inteso come un continuo processo di creazione di plusvalore mediante la
produzioni di merci. Eppure Marx non si limita a questo e la sua ricognizione va ben oltre,
rilevando che il capitale non è un Leviatano, o un’entità trascendente che opera sopra le
nostre testa, ma è essenzialmente un rapporto sociale sempre aperto dove è in gioco la
stessa vita, ovvero la sistematica riproduzione di un rapporto sociale mediante la
produzione di merci e la connessa creazione di valore49 . La comprensione del capitale
come relazione sociale consente di aprire le porte alla produzione biopolitica. Per
analizzare al meglio questo tipo di produzione è necessario, allora, prendere congedo da
una serie di rigidità che guardano in maniera dicotomica ad un soggetto che produce e ad
un oggetto prodotto, come se si trattasse di due entità completamente distinte. Nella
produzione biopolitica la distinzione tra soggetto e oggetto sfuma, diventa elusiva. In
questo caso produttore e prodotto diventano entrambi soggetti; ovvero gli esseri umani
producono e gli esseri umani sono prodotti. Sotto questa lente il processo biopolitico non
si limita a riprodurre il capitale come rapporto sociale, ma si afferma come un qualcosa
di potenzialmente autonomo che potrebbe anche distruggere ciò che oggi invece
implementa, ovvero i rapporti capitalistici, e creare qualcosa di completamente diverso.
Rilevare il divenire biopolitico della produzione permette di osservare come questa,
eccedendo i rapporti capitalistici, amplifica e implementa sistematicamente il comune
come nuova dimensione del lavoro50 .
Questa è la tesi affascinante, seppur non priva di contraddizione e interrogativi, avanzata
da Hardt e Negri. Nella loro formulazione, l’accumulazione capitalistica si presenta in
gran parte come esterna ai processi produttivi, intesi come autonomi, e cioè assume la
forma di un’espropriazione del comune. È dunque la produzione di forme comuni della
ricchezza - i saperi, l’informazione, le immagini, gli affetti e le relazioni sociali51 - che
vengono espropriate dal capitale per creare (plus)valore. Secondo questa lettura vediamo
che il comune si presenta come potenza produttiva capace di creare mentre il capitale
altro non sarebbe che un’entità che si appropria di quella potenza produttiva intrinseca al
comune. Se da una parte il capitale opprime il lavoro biopolitico, espropriando il frutto
della sua produzione, dall’altra, oggigiorno, stando sempre alla tesi avanzata da Hardt e
Negri, non è più in grado di organizzare la cooperazione produttiva. Oggigiorno il
capitalista lungi dall’assicurare la cooperazione, la espropria come condizione struttura le

49 Mezzadra, S., Nei cantieri marxiani: il soggetto e la sua produzione, Roma, Manifestolibri, 2014.
50 Hardt M. e Negri A, Comune, Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 142-143
51 Ivi, p. 144.

86
per lo sfruttamento del lavoro biopolitico. Siamo lontani dai tempi in cui il capitalista,
all’interno delle mura della fabbrica, doveva, per forza di cose, ovvero affinché potesse
mettersi in moto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, predisporre le condizioni della
cooperazione: portare gli operai davanti ai cancelli della fabbrica, nonché fornire loro i
mezzi di produzione. Marx immaginava il capitalista come un generale sul campo di
battaglia. Oggi possiamo notare come per sua stessa essenza, il capitalismo cognitivo, in
qualche maniera, produce cooperazione in maniera del tutto autonoma. Sarebbero allora
le mutate condizioni della produzione, dei suoi processi e le nuove tecnologie ad attribuire
una certa autonomia al lavoro. Data l’autonomia del lavoro, il capitale si presenterà,
allora, sempre più esterno ai processi produttivi e alla generazione della ricchezza. Il
capitalismo diventa predatorio nella misura in cui cercherà continuamente – per poter
sopravvivere e riprodursi – di catturare ed espropriare quell’autonomia della ricchezza
prodotta in comune. Da questo punto di vista si potrebbe dire, allora, che la finanza, nella
misura in cui il lavoro biopolitico si fa sempre più autonomo, s’impone come lo strumento
migliore in mano al capitale per poter operare quell’espropriazione dall’esterno della
ricchezza comune. È proprio mediante l’astrazione che la finanza è in grado di
trasformare il comune, ovvero l’insieme degli affetti, dei codici e delle relazioni sociale
prodotte in comune, in valore. Paradossalmente il capitale finanziario, oltre ad essere il
“braccio armato” del capitalismo del XXI secolo, è anche una potentissima macchina che
fa emergere il comune, e cioè, ancora, le relazioni comuni e le reti complesse che orbitano
attorno alla produzione di una determinata merce, pensiamo a Facebook e alle potenti
relazioni sociali comuni che lo innervano e gli consegnano un valore stratosferico sul
mercato azionario.
Nella lettura marxiana del modo di produzione capitalistico, invece, è il capitale ad
organizzare il comune, la cooperazione sociale, al fine di piegarlo al suo servizio per
produrre plusvalore necessario all’accumulazione. La produzione in quanto tale doveva
essere comandata e orientata verso il profitto. Nelle società capitalistiche non c’è attività
economica, né tantomeno lavoro, senza la ricerca continua del profitto.
È probabilmente in questo punto che la formulazione di Hardt e Negri si scontra con le
perplessità dei più sfumando in una concezione per così dire “ideale” di comune. Sono
proprio Dardot e Laval ad evidenziare tutte le lacune di tale formulazione. Nel tentare di
consegnarci un’accezione positiva del concetto di comune, insistendo, cioè, sulla sua
potenza produttiva del comune, i nostri due autori mantengono una definizione negativa
di comune, intendendolo come l’oggetto di un furto e di una cattura proveniente

87
dall’esterno. Essendo dunque oggetto di un’espropriazione proveniente da fuori dei
processi produttivi, il comune sembrerebbe non poter esistere se non come insieme delle
sue potenzialità confiscate dal capitale per poter riprodurre le proprie condizioni di
possibilità. È proprio su questa questione che Dardot e Laval etichettano Antonio Negri
come neoproudhoniano accusandolo di riproporre, sotto nuove – finte - vesti, un vecchio
modello proprio di Proudhon, facendo del comune una dimensione del dinamis mo
sociale, della forza collettiva. È proprio questa “forza” immanente e spontanea l’oggetto
del “furto” operato dal capitale. È ciò che gli individui e le società producono
spontaneamente in comune - ad essere sfruttato e catturato dal capitale e messo a profitto
per ristretti segmenti della società per mezzo di un certo numero di dispositivi giuridici e
politici, la proprietà privata e lo stato. C’è una sorta di fiducia incondizionata verso la
natura spontanea del sociale. Come a dire che i tempi sono ormai maturi affinché la
moltitudine prenda coscienza della sua potenza e divenga Principe di se stessa,
occultando, completamente, il ruolo ancora pervasivo del capitale nell’organizzazione e
nella governance dei processi produttivi, nonostante le trasformazioni e le turbolenze
interne allo sviluppo del capitalismo.
Quando diciamo che il nostro concetto di comune ha un’accezione squisitamente positiva,
affermativa, intendiamo che occorre pensarlo non tanto partendo, come già fatto emergere
e ri-evidenziato nel corso del lavoro di ricerca, da una sua continua distruzione, e quindi
arroccarsi su posizioni difensive di fronte al saccheggio operato sistematicamente ai danni
del comune, bensì partendo da una sua continua produzione. Non si tratterà allora di
difenderlo, ma di promuoverlo ed instituirlo (ri)aprendo lo spazio dell’antagonismo. Nella
formulazione di Hardt e Negri – invece - il comune sembrerebbe esistere e sviluppa rs i
indipendentemente da quella che potremmo definire una sua “istituzionalizzazione”. È
come se il comune esistesse già data la natura e il dinamismo dell’attività produttiva, o
ancora come se il comune altro non fosse che il prodotto, o il risultato, della
trasformazione del capitalismo, ovvero della produzione biopolitica. Questo
ragionamento è reso possibile dal fatto che si presuppone che il lavoro abbia già, in
qualche maniera, in realtà non si sa precisamente come e quando, maturato una propria
emancipazione rispetto al comando capitalistico, incapace oggigiorno, date appunto le
mutate condizioni della produzione e dei suoi processi, di organizzare e dirigere la
“cooperazione dei cervelli”. La tesi sottostante questa formulazione è che la cooperazione
non è, o meglio non è più, un effetto della dominazione diretta del capitale sul lavoro
vivo, come al tempo della produzione industriale, ma, al contrario, un processo esterno,

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sociale e comune, che si sviluppa nella società al di fuori dei luoghi della produzione.
Ponendo l’accento sulla dimensione cognitiva e affettiva del lavoro, all’interno della
produzione biopolitica, sembrerebbe che il comune prenda forma e si sviluppi in maniera
del tutto spontanea ed autonoma ipotecando la fine prossima del capitalismo, che diventa,
per l’appunto, un ostacolo a questo moto produttivo comune. “Ogni volta che il capitale
interviene per controllare il lavoro biopolitico e per espropriare il comune, esso intralc ia
i processi produttivi costringendoli ad arrancare”52
Parrebbe esserci una fiducia smisurata nella conclamata “autonomia del lavoro”; come se
questa “nuova” libertà “del lavoro” di per sé, di cui la nuova produzione biopolitica
necessita, fosse sufficiente a costruire ed edificare il comune al di là dei rapporti
capitalistici. Se è vero che il capitalismo che ci governa sfrutta la cooperazione sociale
che emerge dal comune, e al contempo sussume ciò che potenzialmente potrebbe
distruggerlo, ovvero la libertà del lavoro vivo; è allo stesso modo vero, però, che quella
libertà, di cui oggi il capitalismo non può più fare a meno date le trasformazioni e le
turbolenze che l’hanno investito, quella libertà che in potenza potrebbe costruire
sistematicamente sempre nuove forme del comune, oltre la dimensioni del pubblico e del
privato, non è di per se minimamente sufficiente per immaginare una fuoriuscita dai
rapporti capitalistici. Un comune che si autoafferma? Beh, sembrerebbe uno scenario fin
troppo ottimistico nonostante le mutate condizioni del capitalismo abbiano fatto emergere
il comune come elemento essenziale in tutti i settori della produzione, accrescendo, di
conseguenza, potentemente le possibilità di conflitto, resistenza e di riappropriazione.
Non si tratta, come accusano Hardt e Negri, di osservare il mondo con i “paraocchi delle
ideologie dominanti”, né tantomeno di essere pessimisti, e quindi non cogliere le forme
del comune intorno a noi. Le vediamo, ne registriamo la potenza, le appoggiamo. Eppure
bisogna essere consapevoli delle difficoltà e delle contraddizioni che il comune incontra
nel suo prender forma. Non siamo troppo sicuri che la nuova dimensione creativa del
lavoro, nella sua espansione progressiva, di per sé, raggiungerà un livello tale per cui
sovrasterà una volta per tutte i rapporti capitalistici consegnandoli ai manuali di storia.
Dire che il comune è ovunque tra noi, è tanto affascinante quanto impreciso. Se è vero
che il comune (il comunismo) è l’altra faccia –buona- del capitalismo; è anche vero che
senza i rapporti di capitale quel comune, che Negri colloca ovunque intorno a noi, non
esisterebbe, o meglio non emergerebbe. Sempre seguendo le tracce degli spettri del

52 Ivi, p.154.

89
comune, come consigliano i due autori, e quindi cartografando quelle lotte che si danno
per qualcosa che non è né pubblico né privato, ma che pongono l’esigenza di inventare
una nuova dimensione politica – il comune – che non è né la mera natura, né tantomeno
la sfera statale – e quindi arroccarsi su posizioni difensive- ma ciò che noi uomini
facciamo e produciamo insieme, non possiamo, e non dobbiamo, dimenticare che non
esiste nessun comune già (pre)costituito, paziente di risorgere dalle ceneri di un sistema
di produzione prossimo alla fine, ma che questo deve essere inventato, prodotto e
contrattato all’interno di strutture di potere che segnano violentemente le nostre esistenze.
Dobbiamo quindi concentrarci sull’istituzione di un comune che non c’è ma che dovrà
essere, sulla difficile questione della composizione delle differenze, delle lotte e delle
soggettività capaci – in comune - di dare forma, per dirla con Marx, a quel “sogno di una
cosa” che cerchiamo ansiosamente di chiamare comune.

90
3) All’ombra del mostro freddo…

[…] «Stato» si chiama il più freddo di tutti i mostri. È freddo anche nel mentire; e la menzogna ch’esce
dalla sua bocca è questa: «Io, lo Stato, sono il popolo!».
È una menzogna! Quelli che suscitarono i popoli infondendo in loro la fede e l’amore furon creatori:
perchè in tal modo giovarono alla vita.
Distruttori invece sono costoro che tendono trappole a molti e le chiamano Stato: essi appendono sul lor
capo una spada e cento desideri.
Il vero popolo non comprende lo Stato e lo odia come il mal occhio o come un peccato contro il costume e
il diritto.
Questo vi sia il mio insegnamento: Ogni popolo parla a suo modo del bene e del male; e il suo linguaggio
non è compreso dal vicino. Questo linguaggio egli lo foggiò secondo i suoi usi e i suoi diritti.
Ma lo Stato mente in tutte le lingue sul conto del bene e del male; mente qualunque cosa egli dica; — e
tutto ciò che possiede è rubato.
Tutto è falso in lui: egli morde con denti rubati, e morde bene. Falsi sono pure i suoi visceri.
Babele del bene e del male: ecco la divisa dello Stato. In verità questa divisa significa la volontà di morire:
è un segnale che attrae i predicatori della morte.
Troppi sono gli uomini: per quelli che son di troppo fu inventato lo Stato.
Guardate un po’ come esso li attira a sè, quelli che son di troppo! Come li ingoia, come li mastica e
rimastica!
«Sulla terra nulla è di me più grande; io sono il dito di Dio» — così rugge il mostro. E non cadano in
ginocchio gli orecchiuti e i miopi soltanto
Ahimè, anche in voi, o anime sublimi, egli insinua le sue tristi menzogna! Ahimè, egli sa indovinare i cuori
ricchi che amano prodigarsi!
Si, egli ha indovinato anche voi, o debellatori dell’antico Dio! La lotta vi stancò, e la vostra stanchezza
ora serve al nuovo idolo!
Il nuovo idolo vuol trarre a sè anche gli onesti e gli eroi. Eg li si bea volentieri nella luce solare delle buone
coscienze — il freddo mostro!
Tutto egli vuol dare a voi, se voi lo adorate: in tal modo s’acquista lo splendore di una nuova virtù e lo
sguardo dei vostri occhi superbi.
E con voi egli vuole adescare anche coloro che son di troppo! Sì, con ciò fu inventato un artificio infernale,
un corsiero della morte tintinnante negli adornamenti divini.
Si, la morte di molti con ciò fu inventata, una morte che si dà a credere vita: un dono senza pari per i
predicatori della morte!
Lo Stato è là dove tutti, buoni e cattivi, si ubbriacono di veleno: là dove tutti perdono sè stessi: là dove il
lento suicidio di tutti si chiama «vita».
Guardate un po’ questi uomini inutili. Essi s’appropriano le opere degli inventori e i te sori dei savi: e
chiamano educazione il lor furto. Mercè loro tutto si tramuta in malattia e in miseria!
Guardate un po’ questi uomini superflui! Essi sono sempre ammalati, e vomitano il lor fiele, cui hanno
dato il nome di gazzetta. Essi si divorano a vicenda, ma non sanno neppur digerirsi. Guardate un po’ questi
superflui! Acquistano ricchezze e con ciò diventan più poveri. Ambiscono la potenza, e anzitutto il
grimaldello della potenza: danaro, molto danaro.
Guardate come s’arrampicano, queste agili scimmie! s’arrampicano l’una sull’altra, e vanno a finir tutte
nel fango e nell’abisso.
Tendono tutti al trono: la lor follia li spinge — come se sul trono fosse la felicità.
Spesso sul trono sta il fango — e molte volte anche il trono è sul fango!
Pazzi son tutti costoro; pazzi, e scimmie.
Il loro idolo male adora — il freddo mostro: — e tutti puzzano, questi adoratori dell’idolo.
O miei fratelli, vorreste forse esser soffocati dall’alito delle or pudrite bocche e delle loro malsane
bramosie! Piuttosto spezzate i vetri alle finestre e salvatevi all’aria libera!
Fuggite il cattivo odore! Fuggite l’idolatria degli uomini inutili. Fuggite il cattivo odore! Allontanatevi dai
tristi vapori che si esalano da questi sacrifizi umani!
Ancora la terra è libera per le anime grandi. Ci sono molti posti ancora per le anime solitarie e le gemelle,
intorno alle quali aleggia il profumo di mari tranquilli.
Ancor libera è la vita; libera per le anime libere. In verità chi poco possiede è poco posseduto: sia lodata
una siffatta povertà: solo là dove lo Stato cessa d’esistere incomincia l’uomo non inutile: di là solo
incomincia l’inno del necessario, il ritornello uniforme.
Là dove lo Stato cessa d’esistere — ma guardate un po’ là, miei fratelli: Non vedete laggiù l’arcobaleno,
e i ponti del superuomo?».

(Del Nuovo Idolo) Così parlò Zarathustra


Friedrich Nietzsche

Frontespizio dell’opera di
Thomas Hobbes, Leviatano

92
3.1 Lo Stato tra sovranità e governamentalità: trasformazione di un
concetto

“Quant’è vano e sciocco, pensai, per l’uomo


timido e sedentario, cercare di comprendere a modo
questa stupefacente balena, semplicemente
contemplandone lo scheletro morto e assottigliato,
disteso in un pacifico bosco. No. Soltanto nel cuore
dei più fulminei pericoli, soltanto sotto i vortici della
sua coda infuriata, soltanto nel mare profondo e
sconfinato, più la balena rivelarsi tutta intera in
verità e vita”
H.Melville, Moby Dick

Ci si chiederà perché lo Stato, ovvero perché fare giocare, uno contro l’altro, due concetti
inconciliabili come, appunto, Stato e comune. In primo luogo perché lo Stato è ancora al
suo posto nonostante un secolo di suggestioni più o meno fondate sulla crisi della forma-
stato, sul suo crepuscolo, e ancora sulla sua fine. Con la stessa intensità e rigore è stato
messo in discussione, negato e riaffermato, in base alle contingenze e alle poste in gioco
del momento. Non possiamo, però, far finta che la sua fine prossima sia un dato di fatto,
un qualcosa di assodato. Non possiamo pensare ad un gioco a somma zero dove, per dirla
banalmente, a più comune corrisponderebbe meno Stato, o viceversa. Così non è e così
non sarà. Qualcuno direbbe che per costruire il comune è necessario distruggere lo Stato,
sventrare il freddo mostro e dalle sue ceneri costruire qualcosa di nuovo. Sembrerebbe
tutto troppo semplice e lineare. Il problema evidentemente è quello di sapere, a questo
punto, che cos’è lo Stato, o meglio che cosa intendiamo con Stato. Con Foucault sappiamo
che non c’è più – e forse nemmeno c’è mai stato - nessun “palazzo d’inverno” da
conquistare, che non c’è un potere ma dei poteri disseminati ovunque nella società. In
quest’ottica lo Stato sarà allora solamente uno dei tanti luoghi del potere attorno al quale
si dovranno articolare le lotte del comune e per il comune, in un continuo gioco di
contrattazione per quote di potere. Ricordiamolo ancora una volta, il nostro comune non

93
prefigura uno spazio liscio e pacificato; è sotto questa luce che dobbiamo intendere il
rapporto tra Stato e comune.
Proprio perché vogliamo fare del comune una nuova dimensione concreta del politico, e
quindi porlo su un piano immanente ancorandolo alla realtà, non possiamo prescindere
dallo Stato, dalla sua analisi e dalla sua comprensione. Non possiamo pensare, ancora,
per comodità intellettuale o semplicemente per paura della sua indissolubile eternità, di
cancellarlo arrogantemente con un tratto di penna e congedarlo una volta per tutte. Il dato
di fatto è che, seppur in maniera più o meno claudicante, date le trasformazioni che hanno
investito logicamente anche la forma-stato, lo Stato è ancora lì, al suo posto, ancora in
grado di sovra-ordinare le nostre vite. La verità è che interpelliamo continuamente lo
Stato, lo riproduciamo in ogni nostra azione, tutti i giorni abbiamo a che fare con lo Stato,
con la sua dimensione simbolica e soprattutto con la sua dimensione materia le 1 .
Continuamente si riafferma nella quotidianità della nostra vita. È onnipresente il
“mostro”. Se è vero che lo Stato è vivo e vegeto, è anche vero, però, che questo non è né
immutato, né tantomeno immutevole. È stata, allora, proprio la sua capacità di
adattamento alle contingenze del momento storico e alle turbolenze che l’hanno investito
a decretarne la potenza e a sancirne la riproduzione continua. Sicuramente i controversi
processi della globalizzazione e la crisi – economica – permanente, coincidente con il
trionfo del pensiero neoliberale, hanno mostrato la contingenza dell’azione dello Stato,
dopo che per molto tempo, soprattutto nel periodo post-bellico, era stato capace di
intervenire efficacemente all’interno del ciclo economico.
Seguiamo allora le traiettorie dello “Stato (moderno)”2 , facciamone emergere al
contempo la forza e le fragilità e, ancora, interroghiamone la crisi – le crisi – e le
trasformazioni, senza però lasciarci abbagliare dalle suggestioni apocalittiche di un’
implosione prossima dello Stato su se stesso e, quindi, da chi decanta un suo superamento
immediato; e da chi, per interessi elettorali, a destra, o per nostalgia ideologica, a sinistra,
millanta un ritorno allo Stato, profetizzando una sua rinnovata centralità a fronte delle
sfide politiche economiche e sociali odierne. In troppi oggigiorno non tengono conto di
una cosa abbastanza banale; ovvero che i mutamenti di fronte ai quali si è venuto a trovare
–lo Stato- sfuggono al suo governo, alla sua presa, lo eccedono sistematicamente. La

1 È proprio Pierre Bourdieu a parlare di “violenza simbolica legittima” che “da forma” all’ordine sociale.
Si veda Bourdieu, P., Sullo Stato, Milano, Feltrinelli, 2013
2 Per un analisi precisa e accurata sullo Stato moderno si veda, Schiera, P., Lo Stato moderno: origini e

degenerazioni, Bologna, CLUEB, 2004.

94
forma-stato non è più in grado di contenere fenomeni che di fatto lo sovra-determina no,
trasformando radicalmente la natura stessa dell’oggetto della nostra analisi. Parlare di
crisi dello Stato, della forma-stato, significa dunque rilevare una tensione – permanente-
tra un dentro ed un fuori non più gestibile all’interno di quella forma politico-istituzio na le
che chiamiamo appunto Stato. Potremmo allora dire che lo Stato si presenta come lo
schermo che si dà tra un dentro e un fuori, o meglio tra un interno ed un esterno e, ancora,
tra una dimensione locale ed una globale.
Una domanda è necessario porsi: che cos’altro è lo Stato se non una condizione, ovvero
un modo d’essere della convivenza e, ancora, che cos’altro è se non una forma politico -
istituzionale che donne e uomini si sono dati per organizzare e ordinare il proprio vivere
insieme e far fronte ai rischi provenienti da fuori? Se questo è vero, allora, nulla ci vieta
di immaginare e provare a costruire nuovi modi di stare al mondo e nuove istituzio ni
capaci di dar forma a quel modo d’essere della convivenza che oggi chiamiamo Stato e
che in un futuro prossimo potremmo chiamare comune. Cogliamo allora la suggestio ne
di Nietzsche, riportata nell’epigrafe, e forse anche noi riusciremmo a cogliere, oltre la
gabbia d’acciaio dello Stato, la potenza dell’uomo, ovvero, a nostro modo di vedere, la
sua capacità di rompere le basi dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo ipotecato dalle
gerarchie dello Stato, e percorrere i “ponti” del comune. Dunque, che cosa c’è oltre e
dopo lo “Stato moderno” a fronte delle trasformazioni che ne stanno investendo la stessa
essenza?
È da circa un secolo che il pensiero politico s’interroga sulla crisi dello Stato moderno.
Negli anni Venti Carl Schmitt tentò di restituire allo Stato la necessaria profondità storica,
contro le tendenze liberali di confinarlo nel campo strettamente giuridico e politologico 3 .
Lo Stato, che andava assumendo le sembianze di un mostro, freddo e impersonale, doveva
essere riportato con i piedi per terra, ovvero inteso come ordinamento politico -
istituzionale concreto prodotto dalle pratiche sociali dell’uomo. La crisi di cui si discuteva
allora era riferibile ad una specifica forma della statualità: lo Stato liberale di diritto. Il
tentativo di far coincidere, senza residui e lasciti, legalità e legittimità, di spoliticizzare la
società, veniva messo radicalmente in tensione dall’irruzione delle masse nel campo della
politica.

3 Schmitt, C., Sul Leviatano, Bologna, Il Mulino, 2011

95
Come scrive Pier Paolo Portinaro “le diagnosi sulla morte dello Stato sono antiche quasi
quanto l’insediamento del concetto nel lessico politico europeo”4 . Oggi, la crisi dello
Stato sembra però avere assunto una tale intensità da spingere molti a mettere in
discussione la stessa autonomia della sua forma e delle sue funzioni. Piuttosto che
arenarci su tale constatazione, ovvero su ciò che lo Stato non è più, crediamo sia molto
più interessante e proficuo interrogarci su che cosa resta dello Stato, che cosa sia diventato
e, perché no, su che cosa potrà essere lo Stato, indagando la sua disarticolazione e
ponendo l’accento sulla sua porosità, sul fatto che lo Stato non si presenta come un rigido
monolite, ma come un qualcosa di mutevole e ambivalente. Seppur, nel corso dell’ultimo
ventennio, in molti hanno azzardato diagnosi sulla morte dello Stato, queste sono state
vanificate dall’evidenza empirica. Di conseguenza sembra più appropriato sofferma rs i
sulla trasfigurazione dello Stato piuttosto che paventarne – invano – la morte, a fronte dei
processi di ridislocamento dei poteri e di decostituzionalizzazione 5 che stanno
modificando, ancora una volta radicalmente, il volto degli Stati. Si tratta perciò di
analizzare la rilevanza dei processi di statalizzazione a fronte di un paesaggio
profondamente mutato e le modificazioni della sovranità oltre lo Stato.
Precedentemente abbiamo avanzato l’idea che lo Stato è una condizione, una forma della
convivenza che uomini e donne si sono dati per vivere in società. Affermare ciò signif ica
allora partire dal presupposto che lo Stato sia un concetto storico e che quindi bisogna
assumerlo come un qualcosa di mutevole e soggetto alle tensioni della storia. Non è quindi
un “universale” di cui possiamo osservare le concrete declinazioni nello spazio e nel
tempo ma, come ricorda Foucault, un avvenimento arbitrario “sotto il profilo della
conoscenza” e violento “in termini di potere”6 . Andiamo per ordine. Per prima cosa,
essendo una figura storica dell’organizzazione del potere, al pari della polis greca e
dell’ordine tribale o feudale, lo Stato non può che essere destinato alla trasformazione e
all’estinzione. Se è vero che lo Stato, nella sua forma paradigmatica, va progressivame nte
perdendo “il monopolio della decisione ultima”7 , come sosteneva Schmitt, e dunque è lo
stesso concetto di sovranità ad essere svuotato di significato; è anche vero, però, che lo
Stato è ancora capace di riattivare, in maniera contraddittoria, quella “violenza legittima ”

4 Portinaro, P.P., Stato: un tentativo di riabilitazione, pp. 34-63 in “Lo stato dello Stato”, a cura di.
O.Guaraldo, e L.Tedoldi, Verona, ombre corte, 2005
5 Ci riferiamo alla pressione posta dall’esterno dal cosiddetto “diritto globale” alle costituzioni nazionali. Il

sistema globale di fatto disegna nuove geografie di potere che penetrano all’interno delle realtà nazionali.
6 Foucault, M., Illuminismo e critica, Donzelli, Roma, 1997, p. 57
7 Schmitt, C., Le categorie del politico: saggi di teoria politica; a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo

Schiera, Bologna, Il mulino, 1972.

96
che gli consente di “decidere sullo stato d’eccezione”8 . In secondo luogo, lo Stato, quale
entità che accentrerebbe tutto il potere a sé, sembrerebbe inadeguato alle logiche di
società complesse che richiedono, e rivendicano, al contrario una dispersione dei poteri.
Assistiamo allora ad una “disaggregazione” dello Stato oppure ad un’estrema violenza a
cui lo Stato deve ricorrere per custodire l’essenza del suo potere. È stato proprio Niklas
Luhmann a criticare la concezione gerarchica e piramidale della società centrata
sull’esistenza del potere sovrano. Sembrerebbe dunque che oltre una certa soglia
evolutiva lo Stato mostri la sua inadeguatezza rispetto ai continui processi di
differenziazione sociale di una società complessa, trasformandosi in un “generatore
disfunzionale di complessità”.9 Parallelamente a Luhmann, è stato Foucault a contribuire,
negli anni settanta, a detronizzare lo Stato grazie alle sue analisi dei dispositivi del potere
e delle pratiche di governamentalità10 . È dunque necessario “studiare il potere al di fuori
del modello del Leviatano, al di fuori del campo delimitato dalla sovranità giuridica e
dall’istituzione dello stato”, rivolgendo il nostro sguardo al complesso diffuso, decentrato
e disperso delle “tecniche” e delle “tattiche della dominazione”11
Un terzo presupposto da tenere a mente è che lo Stato non è adeguato alle logiche della
globalizzazione, ovvero ogni fenomeno per così dire globale sfugge dal suo governo e dal
suo controllo, eccedendo sistematicamente il perimetro della sua forma. Di conseguenza
la sovranità dello Stato viene erosa dall’esterno a fronte di una incapacità di governare
localmente fenomeni globali. Nell’età della “deterritorializzazione della ricchezza e della
digitalizzazione” il potere degli Stati non si basa più in maniera predomina nte
sull’estensione territoriale e sulla densità della popolazione, bensì “su risorse a-
territoriali, come il capitale e i saperi”12 , per cui tutta una seria di poteri altri e istituzio ni
emergeranno per espletare funzioni non più riconducibili ad uno Stato definito, appunto,
territorialmente o da un governo unitario.

8 La sovranità dello Stato-nazione viene esplicitata oggi nello "spettacolo” della violenza frontaliera. Basti
pensare al confine turco-siriano, ai vari muri eretti vergognosamente in varie parti del mondo per bloccare
il passaggio di milioni di donne e uomini: Usa-Messico, Israele-Palestina, Ungheria-Serbia.
Si veda il capitolo VII “La macchina sovrana della governamentalità” in Mezzadra S. e Neilson B., Confini
e Frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 213-260
9 Luhmann, N., Teoria della società, a cura di. Raffaele De Giorgi. - 7. Ed. Milano, Angeli, 1995
10 Con il termine governamentalità si intende quella specifica «arte del governo» che attraverso un insieme

di «istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche» assicura la presa in carico de lle popolazioni
e garantisce il «governo dei viventi» (M. Foucault, La governamentalità, «Aut-aut», 167-168 (1978).
11 Foucault, M., Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 30.
12 Portinaro, P.P., Stato: un tentativo di riabilitazione, pp. 38 in “Lo stato dello Stato”, a cura di.

O.Guaraldo, e L.Tedoldi, Verona, ombre corte, 2005

97
Le due prerogative dello Stato, allora, territorialità e sovranità, vengono messe in tensione
proprio da quei continui processi di globalizzazione che progressivamente hanno portato
alla formazione di una Weltgesellschaft – società globale - e al contestuale indebolime nto
della posizione degli Stati nel contesto internaziona le, nonché al venir meno dello Stato
quale unico protagonista della scena mondiale 13 . Il sistema globale, all’interno del quale
gli Stati sono posizionati, in maniera ovviamente differenziata, disegna di fatto nuove
geografie di potere che penetrano all’interno delle realtà nazionali corrodendone i
perimetri e aprendolo alle dinamiche, appunto, globali. Va da sé, allora, che lo Stato non
può più essere assunto come solo e unico principio ordinatore della società moderna. Se
da una parte, come abbiamo constatato precedentemente, la forma-stato appare
progressivamente inadeguata tanto dal punto di vista organizzativo, cioè in relazione alla
dimensione globale dei rapporti capitalistici di produzione, quanto dal punto di vista
normativo; dall’altra dobbiamo considerare la “continuità della sua forma organizzativa ”
all’interno di un contesto sempre mutevole dove lo stesso “Stato”, però, “torna
costantemente in gioco, assumendo più o meno rilevanza all’interno delle dinamiche del
capitalismo globale e all’interno di un quadro di ordine giuridico transnazionale”14
Al pari dell’erosione della sovranità è ormai evidente come un altro elemento si presenta
concomitante all’avanzare della globalizzazione e all’affermazione della società globale:
lo scollamento tra Stato e nazione. Evidenziare questa sconnessione è di per sé sufficie nte
a rilevare l’indebolimento della legittimità del soggetto politico Stato. D’altro canto sono
stati, e continuano ad esserlo, proprio i crescenti flussi migratori ad accelerare i processi
di disintegrazione delle comunità nazionali, favorendo il proliferare di quei conflitti
attorno all’identità e alla cittadinanza che investono le società contemporanee rendendo,
di conseguenza, ancora più profonda quella scollatura tra Stato e nazione. “I movime nti
migratori sono per loro definizione indisciplinati e antisistemici ovvero ristruttura no
l’impalcatura nazionale, ibridano la composizione sociale di quel determinato spazio che
attraversano e alterano i codici nazionalistici di uno stato-nazione”15 , rendendo, di fatto,
qualsiasi fanatico rimando all’omogeneità nazionale e culturale, un qualcosa di surreale
e chiaramente populista. Eppure, il venir meno dello Stato-nazione, la sua progressiva
dissoluzione e, ancora, la fine del processo d’identificazio ne della nazione come

13 A riguardo si veda il libro di Sassen, S., Territorio, autorità, diritti: assemblaggi dal Medioevo all’età
globale, Milano, Mondadori, 2008.
14 Ricciardi, M., Dallo Stato moderno allo Stato globale, SCIENZA & POLITICA vol. XXV, no. 48, 2013,

p.82
15 Mezzadra S. e Ricciardi M., Movimenti indisciplinati, Verona, ombre corte, 2013, p.8.

98
“comunità emotiva di destino” e lo Stato – “una comunità oggetto di continua invenzio ne
simbolica e per questo immaginata e immaginaria”16 -, non significa, ancora una volta,
scomparsa dello Stato in quanto questo persiste in altre forme all’interno dei processi
globali. L’avvento, o meglio la diffusione su larga scala, dei nazionalismi oggi in Europa,
ad esempio, sembra segnare in maniera ancora più marcata la crisi dello Stato-nazione.
Non deve dunque stupire il fatto che le coordinate globali all’interno delle quali gli stati
si trovano a dover operare, rafforzano in qualche maniera reazioni di chiusura e di
arroccamento locale. Uno dei paradossi della globalizzazione consiste proprio nel
promuovere al tempo stesso “la società aperta e la comunità chiusa”17 .
Ritorniamo al concetto di sovranità e alle trasformazioni contemporanee che l’hanno
investita. Seguiamo allora il filo rosso tracciato da Foucault nel suo corso al Collège de
France Naissance de la biopolitique (1978-79) per aprire al tema della governamentalità.
Non si tratta di scandire cronologicamente lo sviluppo delle varie tecniche di potere e
quindi porre l’attenzione sul passaggio “lineare” dalla sovranità alla governamentalità 18 ,
ma di indagare come le varie pratiche del potere, quelle che lo stesso Foucault nella
Conferenza di Bahia del 1976 definisce “anatomopolitica”19 e “biopolitica”, si articolano
tra loro. È necessario soffermarsi allora sulla compresenza di queste realtà di poteri. Come
invitano a fare Mezzadra e Neilson, “interrogando questi due concetti foucaultiani”, alla
luce del concetto marxiano di forza-lavoro, “possiamo osservare che i loro eterogenei
bersagli soggettivi (individui e popolazione) ben corrispondono ai due lati della forza
lavoro: il corpo vivente prodotto come portatore di forza lavoro e la potenza umana
generale incarnata dal concetto, o […] l’esperienza individualizzata del lavoratore e la
sua vita nella realtà della cooperazione sociale”20 . Da questo punto di vista, l’enfas i
sull’eterogeneità di diverse tecnologie di potere che operano all’interno della società,
come le discipline e la biopolitica, si accompagna al tentativo di cogliere la razionalità
della loro articolazione funzionale al continuo sfruttamento del capitale sul lavoro vivo.
Foucault vedeva un’incompatibilità tra le nuove tecniche di potere, strumenti e procedure,
che andavano prendendo forma con l’emergere dello Stato costituzionale moderno,

16 Anderson,B., Comunità immaginate : origini e diffusione dei nazionalismi , Roma, Manifestolibri,1996.


17 Portinaro, P.P., Stato: un tentativo di riabilitazione, pp. 48 in “Lo stato dello Stato”, a cura di.
O.Guaraldo, e L.Tedoldi, Verona, ombre corte, 2005
18 Sandro Mezzadra e Brett Neilson nel loro libro Border as method or the multiplication of labour, London,

Duke University Press, 2013, ci invitano a ragionare su una ricezione non cronologica delle tre forme di
potere censite da Foucault: sovranità-disciplina-biopolitica.
19 Foucault M., Surveiller et Punir : naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975.
20 Mezzadra, S. e Nielsen, B., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale,

Bologna, Il Mulino, 2014, p. 247.

99
ovvero tra le discipline e la biopolitica e le – vecchie- logiche della sovranità. È lo stesso
Foucault ad evidenziare il passaggio dal primato del potere localizzato in un centro ad
una molteplicità di tecnologie e rapporti di potere, che ritrova nel Marx del Capitale,
laddove indaga la disciplina nel “segreto laboratorio della produzione”21 . Si tratta allora
di un cambio di paradigma irreversibile rintracciabile nella trasformazione radicale da un
potere capace di far morire e lasciare vivere ad un potere capace di far vivere e lasciare
morire, all’antico “diritto di morte” che qualificava il potere sovrano, andrà
progressivamente sostituendosi un inedito “potere sulla vita”22 . Questa trasfigurazio ne
del potere risponde alla “scoperta” della vita come cible du pouvoir, la vita sarà, d’ora in
avanti, investita dagli effetti di potere nella misura in cui questa si scopre come potenza
produttiva. Non c’è (più) nessun potere astratto che risiede sopra le nostre teste o un punto
centrale di sovranità che organizza “trascendentalmente” l’intero corpo sociale, ma
“regioni di potere” localizzabili storicamente e geograficamente, come ad esempio
l’istituto della schiavitù, della proprietà ecc. Come precisa Ricciardi aprendo al concetto
di Stato globale, “la sovranità da monopolio esclusivo diviene una pratica diffusa da una
serie di strutture sociali”23 . Eppure, nonostante il continuo indebolimento,
indietreggiamento e, ancora, la continua deformazione dello Stato, la carcassa morente
del mostro è sempre davanti a noi. Sempre con Foucault possiamo – e dobbiamo - a questo
punto leggere la crisi dello Stato sullo sfondo di una continua ri-organizzazione del potere
(dei poteri). Solamente in quest’ottica possiamo indagare il dispiegamento delle pratiche
governamentali, ovvero la polverizzazione della sovranità in una pluralità di strutture
sociali che detengono quote di potere, per dirla con Parsons 24 .
Torniamo alla Conferenza di Bahia, alle Maglie del potere. Qui Foucault propone una
riflessione sull’ascesa “trionfale” delle pratiche e delle tecnologie della disciplina che
“hanno riempito i vuoti delle monarchie europee” stabilendo “un potere continuo,
atomico e individualizzante: al posto dei controlli globali, di massa, bisognava poter

21 Macherey P. Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Verona, ombre corte, 2010.


22 Foucault, M., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1988, p.119
23 Ricciardi, M., Dallo Stato moderno allo Stato globale, SCIENZA & POLITICA vol. XXV, no. 48, 2013,

p.75
24 Se Foucault parla di disciplinamento dell’individuo, per Parson è l’individuo ad interiorizzare la

normativa sociale prodotta dalla società. È per questo motivo che l’ordine viene riconosciuto e mantenuto
anche quando il sovrano “si distrae” o è “sull’orlo del baratro”. Non è dunque necessario un ordine coattivo.
Contributo fondamentale di Parsons è l’analisi del potere: questo non può essere pensato come un gioco a
somma zero o addirittura applicandovi una teoria quantitativa. Si deduce, allora, che il potere è qualc osa di
prodotto dalla circolazione dello stesso all’interno della società. Il potere circola quando gli individui sono
titolari di quote di potere che decidono di mettere in comune. Si veda Parsons, T., Politics and social
structure, New York ; London, The free press, 1969

100
controllare ogni individuo, nel suo corpo e nei suoi gesti”25 . Concentrandosi sull’analis i
del panottico26 , la struttura della società “che insegna ai poveri e indisciplinati a diventare
individui”, Foucault parla di una microfisica del potere, ovvero di una modalità di
dispiegamento del potere che opera minuziosamente nella produzione di soggetti
disciplinati. Il potere diventa, allora, una modalità di relazione sociale tra gli individ ui.
Ogni relazione viene mediata dal potere. Nell’ottica foucaultiana è il potere a produrre i
soggetti e a collocarli attentamente all’interno della società (ri)producendo costantemente
una gerarchia societaria funzionale allo “sfruttamento” operato dal capitale. La
formulazione classica di Foucault di ciò che è la sua idea di disciplina è che, come ha
notoriamente sostenuto, deve “aumentare sia la docilità che l’utilità degli elementi del
sistema”27 , aumentando contemporaneamente la produttività e riducendo la resistenza. La
disciplina deve fare i lavoratori, i soldati e gli studenti più capaci e meno inclini a
ribellarsi.
Sempre alla conferenza tenuta a Bahia Foucault accenna al concetto di biopolitica,
all’emergere fin dal XVIII secolo di un “altro grande nucleo tecnologico intorno a cui si
sono trasformati i procedimenti politici dell’Occidente”28 . Non più coercizione ma
regolamentazione, gouvernementalité29 ; non più, o meglio non solo, l’individuo, ma la
popolazione. Foucault precisa che per popolazione dobbiamo intendere non tanto un
insieme di individui ma un vero e proprio artificio prodotto dal potere, “non soltanto un
gruppo umano numeroso, ma essere viventi attraversati, comandati e retti da leggi e
processi biologici. Una popolazione ha un tasso di natalità, di mortalità, ha una curva e
una piramide di età, una morbilità, uno stato di salute; una popolazione può estinguersi o,
al contrario, svilupparsi”30 .
Sebbene sembrerebbe che l’analisi foucaultiana si muova in maniera cronologica da “un
tempo della disciplina” ad “un tempo della biopolitica”, teniamo a sottolinearne la
compresenza. Come abbiamo evidenziato precedentemente è sulla razionalità
dell’articolazione tra disciplina e biopolitica che dobbiamo concentrarci. A questo

25 As Malhas do poder, conferenza tenuta all’Università di Bahia, pubblicata in due parti in “Barbarie”,
1982, n.4, pp. 23-27 e 1982, n.5, pp. 34-42; trad. it. Le maglie del potere, in Id., Archivio Fouacault.
Interventi, colloqui, interviste. III: 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Milano, Feltrinelli,
1998, p. 161
26 Foucault M., Surveiller et Punir : naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975.
27 Ivi., pp. 235-238 . E’ docile un corpo che può essere sottomesso, trasformato e perfezionato. (cfr.148)
28 Foucault, M., 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Milano, Feltrinelli, 1998, p.164
29 Con il termine governamentalità si intende quella specifica «arte del governo» che attraverso un insieme

di «istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche» assicura la presa in carico delle popolazioni
e garantisce il «governo dei viventi» (M. Foucault, La governamentalità, «Aut-aut», 167-168 (1978), 28)
30 Ibidem.

101
proposito, molto utile risulterà introdurre il concetto di assemblaggi di potere31 per
indicare appunto il momento dell’articolazione, ovvero la maniera in cui differenti forme
di potere si combinano modificando irreversibilmente la struttura e le funzioni dello Stato.
Questo concetto ci rimanda ad un altro caposaldo dello Stato: il territorio. Autrici come
Saskia Sassen [2006] e Aiwha Ong [2005] mostrano il modo in cui nuovi assemblaggi di
potere tendono a (ri)configurare il territorio e l’autorità dello Stato. Piuttosto che
sostituirli radicalmente, allora, ci troveremo di fronte ad uno spiazzamento di quelli che
erano considerati dei caposaldi della filosofia politica moderna. “Siamo allo stesso tempo
in presenza di una disaggregazione di poteri che erano saldamente incardinati nello Stato-
nazione e di una loro riconfigurazione in assemblaggi specializzati che combinano
tecnologia, politica e attori in forme diverse e talvolta instabili”32 .
Come evidenziano bene Mezzadra e Neilson, il luogo “privilegiato” per osservare il
dispiegamento di ciò che abbiamo definito assemblaggi di potere è il confine, o meglio
“le dinamiche di potere in gioco nella formazione, nel pattugliamento, nel rafforzame nto
e nell’attraversamento del confine”33 . Attraverso la lente del confine possiamo, allora,
scandire i momenti dell’articolazione delle varie formule di potere in gioco in quel
particolare spazio che segna violentemente la vita di migliaia di uomini e donne 34 . È lungo
la linea di confine che il potere sovrano dello Stato s’interseca a meccanismi disciplina r i
e a pratiche biopolitiche; e ancora, è lungo la linea di confine che prerogative del potere
statale, come il controllo dei confini, finiscono per staccarsi dal loro “legittimo” titolare
per essere condivise con organizzazioni intergovernamentali, ONG o agenzie private che
collaborano con gli stati per rendere efficace la governamentalizzazione dei confini35 .
Ancora una volta, questo sfumare del potere statale sovrano, non significa evidenziar ne
l’obsolescenza, ma far emergere le trasformazioni che lo investono e, ancora, il modo
attraverso il quale – lo Stato- si integra con nuovi dispositivi rilanciando la posta in gioco

31 Il termine assemblaggio designa un insieme contingente di poteri che operano attraverso diverse scale e
mappature politiche. Il concetto deriva per molti versi dall’opera di Gilles Deleuze e Félix Guattari Milles
Plateaux [1980].
32 Mezzadra, S. e Nielsen, B., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale,

Bologna, Il Mulino, 2014, p. 248.


33 Ibidem
34 Si veda Mezzadra S., Diritto di Fuga: migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Nuova ed. Verona,

Ombre corte, 2006


35 Eppure, le tecnologie di potere riconducibili alla sovranità statale continuano a ricoprire un ruolo cruciale

e perverso; basti pensare all’ecatombe del mediterraneo, alle responsabilità degli Stati di fronte alle stragi
dei migranti e dunque al “nuovo” ruolo necropolitico ricoperto dallo Stato nel panorama politico del nostro
presente.

102
di una sua possibile rifunzionalizzazione36 . In quest’ottica, lo Stato, lungi dall’essere
destinato a scomparire nel prossimo futuro, figura ancora un attore importante nei nuovi
assemblaggi di potere in cui è sempre più inserito, nonostante le molteplici tensioni che
ne stanno rimodellando la sovranità, nonché le strutture e le funzioni. Saskia Sassen nel
suo libro Territorio, autorità e diritti [2006] mette in evidenza come ad essere sfidata dai
continui processi di globalizzazione sia soprattutto la –supposta- pretesa degli Stati
all’esclusivo monopolio del potere su un territorio specifico. Alla luce di un presente
globale lo Stato è dunque costretto a continue negoziazioni del proprio potere con altri
attori, come agenzie, autorità indipendenti, potentati economici, e con fonti -altre rispetto
alla sua- del diritto (locali, transnazionali, globali).
Come esplicitato dalle dinamiche di potere in gioco attorno all’istituto del confine, siamo
di fronte, appunto, ad un progressivo deterioramento della sovranità statuale e ad una sua
polverizzazione in una pluralità di strutture giuridiche, militari e sociali. Lo Stato,
investito e risucchiato all’interno dei tumulti dei processi globali, diventa sempre meno
sovrano37 , sempre meno capace di svolgere quella funzione di cerniera ermetica tra un
dentro e un fuori. Chiaramente, il suo potere viene, allora, minato dall’esterno. Pensiamo
ai limiti posti allo Stato sovrano dal diritto internazionale e dalle Carte per la tutela dei
diritti umani, ma contemporaneamente sfidato dall’interno del perimetro supposto della
sua giurisdizione; anche in questo caso basti pensare all’avvento del sindacalismo e alle
continue sfide poste dai movimenti sociali sul piano del lavoro e del salario. A riguardo
fu uno dei più grandi giuristi italiani della prima metà del Novecento, Santi Romano, a
rilevare questa tensione interna allo Stato: “il diritto pubblico moderno […] non domina,
ma è dominato da un movimento sociale, al quale si viene stentatamente adattando”38 .
Torniamo dunque al punto da cui siamo partiti. Lo Stato si presenta come un elemento in
tensione, e di tensione. Una tensione permanente tra una dimensione interna ed una
esterna. È però vero che oggi quella tensione è diventata più profonda rendendo
permeabile uno spazio e un tempo dello Stato che mai e poi mai si è presentato come
liscio e omogeneo. Forse ha ragione Giacomo Marramao quando, intervenendo al

36 Chignola S., Sull’ “epoca” della biopolitica. Un commento, in Amendola A., Bazzicalupo L., Chicchi F.,
Tucci A., (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Quodibet, Macerata, 2008, p.
63.
37 È giusto notare che le trasformazioni dello Stato e delle sovranità, come abbiamo sottolineato in questo

contributo, al centro dei dibattiti contemporanei non sono realmente nuovi. Già nel XIX sec. un grande
dibattito si era sviluppato sulla crisi della sovranità e dello Stato moderno. Si veda Schmitt C. [Bologna,
2011]
38 Romano, S. Lo Stato moderno e la sua crisi: saggi di diritto costituzionale, Milano, Giuffre, 1969, p.15

103
seminario “Lo Stato dello Stato” organizzato a Roma nel 2015 dalla Libera Univers ità
Metropolitana (LUM), sostiene che lo Stato nazionale, così come lo conosciamo, si
mostra oggi come un punto interrogativo nella misura in cui non è più in grado, da una
parte, di far fronte alle sfide globali, ovvero il globale eccede sistematicamente la
dimensione dello spazio dello Stato-nazione; dall’altra, ai claims provenienti dall’inter no
dei suoi confini. Ciò conduce ad una situazione in cui, piuttosto che ad un venir meno
della sovranità, assistiamo all’evidenza che, stando alle parole di Saskia Sassen, “la
sovranità dello Stato articola condizione e norme sia sue proprie sia esterne”. E ancora,
che “la sovranità resta una proprietà sistemica ma la sua inserzione istituzionale e la sua
capacità di legittimare e assorbire ogni potere legittimante, di essere fonte del diritto, sono
diventate instabili. Le politiche della sovranità contemporanee sono molto più complesse
di quanto la nozione di territorialità reciprocamente esclusive riesca a cogliere”39 . La
nostra ipotesi, e ovviamente non solo nostra, è che in qualche modo il venir meno, lo
sfumare, il dissolversi di alcune prerogative dello Stato, s’inscriva all’interno, per dirla
con Foucault, di un “lungo processo di governamentalizzazione dello stato”40 . Non
parliamo, dunque, di un semplice tramonto dello Stato e della sovranità, ma di una
trasformazione dei suoi ruoli all’interno dei contemporanei rapporti di potere. La crisi
dello Stato parla allora dell’emergenza della govenamentalità come “nuova” categoria
politica che, piuttosto che decretarne la fine, ha consentito allo Stato di sopravvivere.
Brevemente cercheremo di introdurre il concetto di governamentalità, per evidenziare
nuovamente le trasformazioni dello Stato, per poi aprire ad un’altra categoria politica
fondamentale per la nostra analisi sul comune, ovvero la governance sulla quale
torneremo più avanti nel corso dell’elaborato di ricerca, intesa come forma storica (e
ultima?) della governamentalità. Nuovamente andiamo per ordine. Cosa intendiamo per
governamentalità? Il riferimento teorico principale è, ovviamente, la storia della
governamentalità tracciata da Foucault nei due corsi tenuti al Collège de France tra il ’77
e il ’79: Sicurezza, territorio, popolazione(1977-1978) e Nascita della biopolitica(1978-
1979). In quest’ottica, allora, considereremo la categoria politica di governance come
l’esito più recente di quel continuo processo di trasformazione del governo, ovvero di
quel lungo processo di governamentalizzazione dello Stato di cui parlavamo

39 Sassen, S., Territorio, autorità, diritti: assemblaggi dal Medioevo all'età globale, Milano, B.
Mondadori, 2008, p.524
40 Foucault, M., Sicurezza, Territorio, Popolazione. Corso al Collège de France 1978 -1979, trad.it., a

cura di Paolo Napoli, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 89

104
precedentemente, che il filosofo francese indaga a partire dalla pastorale cristiana nel
periodo medievale fino ad arrivare al liberalismo e al neoliberalismo. La
governamentalità è allora da intendersi come una tendenza progressiva che pone l’accento
sul governo, sull’arte del governare, rispetto all’ambito della sovranità e della disciplina 41 .
O ancora, parafrasando Foucault, la governamentalità è “un insieme di istituzio ni,
procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche che hanno storicamente promosso un
processo di radicale critica della sovranità a favore”, appunto, “di una preminenza del
governo”42 . Nuovamente grazie all’intuizione di Foucault per cui “governare signific a
strutturare il campo di azione possibile degli altri” o, in altri termini, condurre le
condotte43 , possiamo notare come è proprio in chiave governamentale che lo Stato viene
strutturato; ovvero, sono le tattiche di governo che definiscono sistematicamente quel che
compete allo Stato e quello che non gli compete, quel che è pubblico e quello che è
privato, quello che è statale e che non lo è.
La chiave di lettura fornitaci da Foucault permette di leggere la storia della razionalità
politica occidentale sullo sfondo di un progressivo processo di “governamentalizzazio ne
dello Stato”: da una governamentalità di tipo amministrativo risalente al periodo dello
State building, passando per la governamentalità classica e quella welfararista nel
secondo dopoguerra, si giunge al contesto del neoliberalismo, entro cui la governance
assumerebbe i tratti di uno sforzo razionale in vista di una ri-definizione dei rapporti tra
Stato, mercato e società. In questa lunga marcia della governamentalità, lo Stato, lungi
dal sventolare bandiera bianca a fronte delle sfide centrifughe poste dal nostro presente
globale, sembrerebbe ridefinirsi e ricollocarsi all’interno di un fitto e denso reticolato di
poteri globali. E ancora, piuttosto che decretare “la fine dello Stato”, si può sostenere, con
Maurizio Zanardi, che la governamentalità – e quindi la governance quale sua più recente
declinazione(neoliberale) – “è l’anima deteritorializzante dello Stato moderno”, quella
che si spinge nella direzione di un governo della popolazione globale e locale e che si
esercita attraverso una molteplicità di poteri sovrani trans-nazionali44 , basti pensare,
solamente per fare un esempio, alla violenza del capitale finanziario nel contesto della
crisi economica mondiale e al suo agire in maniera sovrana dettando agli Stati-nazio ne

41 Rimando al testo di Revel, J. Le vocaboulaire de Foucault.


42 Foucault, M. Sicurezza, territorio, popolazione, trad. it., a cura di. Paolo Napoli, Milano, Feltrinelli, 2008,
p.88.
43 Foucault, M., Come si esercita il potere, in H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault.

Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989, p.249.
44 Zanardi, M. Per una politica del Reale in Arienzo, A. e Caruso, D. Conflitti, Napoli, Libreria Dante &

Descartes, 2005, p. 255.

105
politiche “dall’alto”. Il capitale rappresenta sicuramente uno dei più potenti tra quella
“molteplicità di poteri sovrani transanazionali” che erodono e svuotano la sovranità dello
Stato. D’altronde, come mostra Saskia Sassen, non possiamo osservare la sovranità dello
Stato solamente laddove si manifesta nelle forme più tradizionali, ovvero dove è
direttamente collegata alle azioni dello Stato sovrano. Sono dunque gli effetti dissemina ti
della sovranità che bisogna analizzare. Oltre lo Stato.
Secondo Mezzadra e Neilson, la sovranità riemergerebbe ogniqualvolta governamenta lità
e quello che potremmo definire diritto globale “falliscono nel riprodurre il quadro
generale delle proprie operazioni”. La sovranità, in quest’ottica, funge da supplemento ai
nuovi regimi governamentali laddove razionalità e calcolo non riescono a plasmare il
reale e sprofondano sotto il peso della realtà. Ancora una volta, come mostrano i due
autori, il confine risulta il luogo privilegiato per osservare il dispiegarsi di queste
operazioni: “la fantasia di una migrazione just-in-time e to-the-point produce
efficacemente una governamentalizzazione del regime di confine che può essere
analizzata seguendo i molti modi in cui le sue operazioni sono informate da una
razionalità economica neoliberale. Ma per quanto produca effetti reali, è solo una fantasia.
[…] per permettere alla fantasia di riprodursi, è richiesta una differente forma di potere,
che spesso fa il suo ingresso in scena nelle vesti di una militarizzazione”45 . È importante,
allora, insistere sul fatto che la sovranità (dello Stato e oltre lo Stato) da una parte, tende
ad essere soggetta alla logica governamentale, ovvero viene informata e
progressivamente svuotata dai processi di governamentalizzazione; dall’altra, mantiene
una sua autonomia e trascende i meccanismi di governamentalità, fungendo da suo
supplemento46 .
Che cosa c’è dunque oltre e dopo lo Stato? Purtroppo, o per fortuna, non siamo veggenti
e di conseguenza deliri di onniscienza su ciò che sarà per certo lo lasciamo ad altri, eppure
siamo convinti di non poter sottrarci dall’opportunità che la crisi del presente ci “offre ”:
quella di sganciarsi, attraverso uno sforzo immaginativo, dalle “vecchie” forme che la
politica ha assunto fino ad oggi, scommettendo su concetti e categorie “nuove” che siano
in grado non solo di comprendere le trasformazioni che agitano il nostro presente, ma
anche di disegnare i contorni di un mondo a venire e, ancora, di spezzare le catene dello
sfruttamento dell’uomo sull’uomo e porre le basi per la costruzione del comune. Del

45 Mezzadra, S. e Neilson, B., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale ,
Bologna, Il Mulino, 2014, p. 256.
46 Mezzadra e Neilson introducono, a riguardo, il concetto di macchina sovrana della governamentalità

106
resto, non ci resta che ricorrere all’immaginazione politica e aprire lo spazio del possibile
verso orizzonti imprevisti. Sembrerebbe più realistico di ogni descrizione disincantata
che, pretendendo di spiegare saccentemente perché le cose stanno così, finisce per
giustificarle.

3.1.1 Nel limbo della violenza

Nel corso del paragrafo precedente abbiamo insistito sulla detronizzazione dello Stato,
sul “passaggio” tutt’altro che lineare e cronologico che va dalla sovranità alla
gorvenamentalità e, ancora, sulla inadeguatezza della forma-stato di fronte alle sfide poste
da un presente sempre più globale e la sua conseguente ri-funzionalizzazione all’inter no
dei nuovi regimi di governamentalità. Eppure abbiamo tralasciato un elemento chiave per
la determinazione e l’affermazione – storica – dello Stato, sul quale vale la pena ritornare:
la violenza.
La perdita di efficacia, l’erosione progressiva del principio di sovranità ha delle serie
conseguenze sulla natura stessa del potere, inteso come potere coercitivo ed esercizio
della forza per fini ordinativi e di controllo. Stando all’accezione classica, lo Stato è il
detentore esclusivo dell’uso della forza: “Se l’uso della forza è la condizione necessaria
del potere politico, solo l’uso esclusivo di questo potere ne è anche la condizio ne
sufficiente”47 .
Con Saskia Sassen abbiamo precedentemente sottolineato che non possiamo osservare la
sovranità solamente laddove si manifesta nelle forme più tradizionali, ovvero dove è
direttamente collegata alle azioni dello Stato sovrano, a fronte di un venir meno della
sovranità stessa in capo allo Stato. Pare dunque interessante soffermarsi sull’attua le
“stato” dello Stato impiegando una peculiare e allo stesso tempo essenziale “cartina
tornasole”: la violenza, laddove la sovranità dello Stato sembra oggi esaurirsi proprio
attorno a quella violenza che rappresenta il suo nucleo originario.
Com’è noto, il rapporto fra Stato moderno e violenza è, a dir poco, stretto, o, per dirla
brutalmente, la violenza diviene costitutiva dello Stato moderno, tanto da scandirne
l’esperienza storica. È lo stesso Hobbes, uno dei padri della modernità politica, a
suggerire che la violenza è lo sfondo sul quale si staglia la radicale uguaglianza fra tutti
gli uomini:

47 Bobbio N., Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Einaudi, Torino, 1985, p. 70

107
“La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà del corpo e della
mente, che, sebbene a volte si trovi un uomo chiaramente più forte o più
pronto di un altro, pure, in complesso, la differenza fra uomo e uomo non è
così considerevole […], per quanto riguarda la forza del corpo, il più debole
ne ha a sufficienza da uccidere il più forte, sia con qualche trama segreta, sia
alleandosi ad altri che corrono i suoi stessi pericoli”48

È altresì noto che la condizione in cui vivono donne e uomini nello stato di natura, in
assenza appunto di un Leviatano capace di sovra-ordinare le vite di ciascuno
ipotecandone la libertà, è quella di una “guerra di tutti contro tutti”. È l’assenza di
qualsiasi tipo di sicurezza a rendere impensabile ogni attività se non la più “animalesca ”
sopravvivenza. Nello stato di natura, scrive Hobbes, “non è possibile nessuna industr ia,
perché il suo frutto è incerto, e quindi non c’è agricoltura, né l’uso dei beni che possono
essere importati per mare […] Dominano la continua paura ed il pericolo di una morte
violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, povera, sordida, bestiale e corta”49 .
È di conseguenza necessario, per rendere la vita pacifica, sicura e produttiva, istituire uno
Stato, un potere visibile capace di tenere gli uomini in “soggezione”, ovvero che “superi
le singole volontà […], istituendo una volontà univoca, superiore e sovrana in grado di
abolire la guerra all’interno dei propri confini”50 . Lo Stato si presenta dunque come un
agente diretto della violenza, come il titolare, riprendendo l’efficace espressione di Max
Weber, del “monopolio dell’uso legittimo della forza”.
Il realismo politico, ponendo la violenza come uno stato di disordine “naturale” a cui si
oppone la creazione dell’ordine politico artificiale, dello Stato, la trasforma in pratica
monopolistica di un soggetto unitario, ovvero lo Stato, ed espelle dal proprio territorio
ogni forma di violenza che non sia legittimata dal Leviatano. Lo Stato, sotto queste vesti,
si presenta come un catalizzatore della violenza. Considerando il modello hobbesiano,
possiamo allora affermare che lo Stato si pone come argine a quella violenza diffusa che
innerva l’intera società. Il contenimento della violenza, il suo controllo e la sua
istituzionalizzazione, sembra allora essere la posta in gioco primaria. La fuoriuscita dallo

48 Hobbes T., Leviatano (1651), trad.it. di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2002 (1976), p.70
49 Ivi.,p.73
50 Guaraldo, O., Passaggi di stato: ordine e violenza nell’epoca globale, p. 133, in “Lo stato dello Stato”,

a cura di. O.Guaraldo, e L.Tedoldi, Verona, ombre corte, 2005

108
stato di natura dovrà, per forza di cose, passare attraverso il trasferimento della violenza
– potenziale - da una dimensione orizzontale ad una verticale. È facile osservare, però,
che tale spostamento non significa cancellazione della violenza ma piuttosto una sua
dissimulazione. Se da una parte, la violenza sembra sparire dalle relazioni umane,
dall’altra, rimane potenzialmente sempre presente nel ventre del “mostro”.
In questo spostamento della violenza dalla reciprocità assoluta alla sovranità è visib ile
non soltanto la costruzione razionale dell’entità statale, secondo l’ideologia del nascente
capitalismo, ma anche una strategia di contenimento e privatizzazione della violenza da
parte dello Stato. In quest’ottica la polizia e l’esercito divengono i due attori principali di
quel contenimento, facendo della violenza una pratica legittimata da norme e leggi
codificate. Lo Stato si presenta, allora, come la macchina “perfetta” dell’ordine
imbrigliando la violenza tra gli ingranaggi della sua sovranità e, ancora, come criterio e
struttura d’ordine che controlla la violenza e pacifica la società.
A contestare il discorso sovrano hobbesiano, basato appunto sulla presunta pacificazio ne
sociale e sulla contestuale espulsione della violenza come pratica “quotidia na ”,
contribuisce la magistrale analisi di Michel Foucault, secondo cui il potere non si è
limitato a funzionare secondo quanto descritto dal “patto”. “Il suo funzioname nto
“formale” ha liberato forze “sostanziali che hanno produttivamente messo in atto strategie
di controllo, di esclusione, di discriminazione che rappresentano il triste rovescio della
medaglia di un potere che si voleva razionale, giusto, indispensabile alla sopravvive nza
dei propri cittadini”51 . Di conseguenza, secondo Foucault, il modello della sovranità
introdotto da Hobbes dà solamente l’illusione che la società sia pacificata, costruita sul
consenso e regolata dall’impersonalità della legge burocratica. Stando all’analisi del
pensatore francese, dietro il paravento di queste garanzie formali che cancellerebbero la
violenza all’interno dei confini statali, vige uno stato di guerra continuo, quello che lo
stesso autore definisce un “sostrato sociale permanente” in cui niente e nessuno è
pacificato.
Lungi dall’essere espulsa dal territorio statale, la violenza permane ovunque nel tessuto
politico sociale dello Stato, caratterizzando non solo il ruolo coercitivo del potere, ma
un’infinità di altre pratiche diffuse e disseminate in tutta la società che sfuggano alla
funzione d’ordine della sovranità statale. Possiamo dunque sostenere che lo Stato rimane
impantanato in quella violenza che, originariamente, prometteva di estirpare dal tessuto

51 Ivi., p.136.

109
politico e sociale del suo territorio e, quindi, piuttosto “che essere il monopolizza tore
assoluto della violenza legittima, lo Stato sembra così muoversi all’interno di una
violenza che non riesce mai a neutralizzare veramente”52 , accompagnandolo nell’arco
della sua storia. D’altro canto “gli Stati sono stati responsabili di più morti violente che
rivoltosi, separatisti e terroristi messi assieme”53 . Parrebbe dunque che quella funzione di
protezione della vita che lo Stato sovrano sembrava promettere, almeno nelle
teorizzazione dei suoi “apologeti”, viene meno, lasciando campo libero ad una
proliferazione della violenza che sfugge sistematicamente al monopolio dello Stato e da
elemento ordinatore si trasforma al contrario in veicolo di disordine 54 .
La sovranità statale sembrerebbe perdere dunque, in un presente sempre più globale, la
funzione monopolistica della forza e con essa la capacità, e la ragion d’essere origina r ia,
di creare ordine e dunque definire spazi politici. Verrebbe ancora da chiedersi che cosa
resta della sovranità statale. In molti hanno evidenziato come la sovranità statale, svuotata
completamente, sopravvive solo ed esclusivamente nella sua veste repressiva e
securitaria.55
Lo Stato, attraverso questa lettura, sopravvivrebbe soltanto come decisore ultimo sullo
stato d’eccezione, secondo la celebre definizione di Carl Schmitt. A questo punto il potere
sovrano assumerebbe connotati sempre più arbitrari, e di conseguenza violenti,
disponendo della vita delle persone in maniera coercitiva e repressiva. È però vero che,
stando ancora una volta a Schmitt, la vera essenza del potere sovrano, “non consiste
primariamente nel creare norme che garantiscono l’ordine, ma nel sospenderle, con una
decisione che riconosce la presenza dell’eccezione”, ovvero del conflitto, “all’inter no
dell’ordine stesso”56 . Nulla di nuovo insomma; eppure ciò che muta radicalmente è che
quella decisione sovrana, come abbiamo visto precedentemente, viene investita e sussunta

52 Ricciardi, M., Dallo Stato moderno allo Stato globale, SCIENZA & POLITICA vol. XXV, no. 48, 2013,
p.76.
53 Ibidem.
54 Si sgretola quel legame, seppur precario, costitutivo e, ancora, produttivo, fra violenza e ordine.

Soprattutto sul piano internazionale assistiamo ad una diffusione, appunto, globale e incontrollata della
violenza. A riguardo si veda Galli, C. Guerra Globale, Roma, GFL editori Laterza, 2002. Riprendo
citazione dal libro: “L’età globale è l’età in cui guerra e politica non hanno spazio e non formano spazio, in
senso politico moderno, westefaliano. Che prevedeva la guerra come contenuta, si, nella politica, ma solo
in quanto strumento militare pubblico utilizzato dallo Stato nello spazio esterno, contro altri Stati sovrani
[…] La guerra globale è una guerra di tipo nuovo, postmoderna è una guerra senza frontiere, in cui non ci
sono avanzate o ritirate, ma solo atti che concentrano logiche di guerra, logiche economiche e logiche
tecnologiche in spazi puntuali e in tempo reale” cfr. p. 53-55.
55 Questa affermazione non è propriamente esatta nella misura in cui lo Stato, inserito all’interno di un fitto

e denso riticolato di poteri, inscrivibili a sistemi governamentali globali, ricopre un ruolo primario nella
circolazione del capitale globale e nella creazione della forza lavoro come merce.
56 Galli C., (a cura di), Guerra, cit. p. XXV.

110
dai processi governamentali, e, dunque, “chi decide sullo stato d’eccezione” non sarà più
lo Stato (nelle sue istituzioni rappresentative), bensì il suo esercito ordinato privo di
qualsiasi investitura democratica: la burocrazia, nelle sue mutevoli metamor fos i
contemporanee57 .
Ancora una volta, a fronte delle continue trasformazioni che investono, riqualificano e
rifunzionalizzono, lo Stato, non possiamo sottrarci dall’arduo compito di pensare il
comune oltre la dimensione statale. Immaginare quell’oltre è oggi più che mai
indispensabile in quanto le forme del comune che continuano a materializza rs i
nell’immanenza della nostra vita non possono e non devono essere catturate dal freddo
mostro.

57 A riguardo Alexis De Tocqueville ha coniato il termine dispotismo burocratico per disegnare una
situazione nella quale le strutture rappresentative dello Stato –legittimamente elette- sarebbero state
progressivamente erose dal peso dell’apparato burocratico. Si veda De la democratie en Amerique, Paris,
Bordas, 1973.

111
3.2 Lo specchio infranto della rappresentanza: rappresentare
l’irrappresentabile?

“Offrite gli spettatori come spettacolo, fateli


attori esse stessi, fate che ciascuno si veda e si
ami negli altri, affinché tutti siano più uniti”

J.J Rousseau (Lettere a D’Alembert sugli


spettacoli)

Se precedentemente abbiamo affrontato il tema della “crisi” dello Stato nelle sue diverse
connotazioni, ora non possiamo che continuare a riflettere su un altro istituto
indissolubilmente connesso allo Stato, ovvero la rappresentanza. Possiamo affermare che
le istituzioni di un paese sono da considerarsi rappresentative nella misura in cui i membri
dell’assemblea legislativa ottengono il mandato mediante elezione popolare58 .
L’elemento rappresentativo sembra dunque congiunto a quello democratico e sembra
caratterizzare la lunga uscita dall’assolutismo.
Nuovamente il nostro concetto di comune attraversa criticamente le categorie politic he
moderne, mettendo in tensione l’istituto rappresentativo. Come rappresentare il comune?
Come rappresentare l’irrapresentabile? E ancora, come dare forma a qualcosa che non
può – e non deve- essere sussunto dall’istituto rappresentativo, nella misura in cui il
comune, diversamente dal corpo politico e dalla volontà del popolo, è sempre presente e,
quindi, non si tratta di rendere presente ciò che è assente 59 ? Capiamo bene la grandezza
della posta in gioco e la fragilità delle suggestioni che possiamo avanzare, eppure siamo
convinti di non poter, ancora una volta, sottrarci dalla comprensione dei processi in atto
nella società che, in maniera più o meno diretta, rendono problematico l’istituto della
rappresentanza a fronte di una proliferazione di movimenti politico-sociali che fanno
emergere, con sempre maggior forza l’urgenza di nuovi schemi di partecipazione. Ad un
primo approccio il tema della rappresentanza politica può dare l’impressione di porci di
fronte ad un campo di particolare chiarezza concettuale. Banalmente si può affermare che

58 Si veda la voce Rappresentanza politica in Bobbio, N. e Matteucci, N., Dizionario di politica, Torino,
Utet, 1983.
59 Parziale definizione che potremmo dare al termine di rappresentanza.

112
è la rappresentanza a dare forma allo Stato, o meglio che è solo attraverso l’istituto della
rappresentanza che si può manifestare la volontà popolare che è alla base della
democrazia – formale, o appunto “rappresentativa” -. Lungi dall’essere sempliceme nte
uno strumento di connessione tra governanti e governati, la rappresentanza produce e dà
forma a qualcosa di non presente nella realtà. È solo nella misura in cui può essere
rappresentata che si dà l’identità di un corpo politico e, ancora, è solo la rappresentanza
a rendere presente e tangibile il popolo. Di fatto è solo un’assenza che può essere
rappresentata, secondo la semantica moderna della rappresentanza politica. E ancora, è
solo in quanto assenza, ovvero qualcosa che non esiste nella realtà, che l’unità del corpo
politico può essere rappresentata. Si può dunque dedurre che risulti estremame nte
difficile, se non illusorio, voler estrapolare una definizione esaustiva di rappresentanza
politica: “se è vero […] che con qualche sforzo siamo in grado di indicare con sufficie nte
approssimazione ciò che la rappresentanza non è, malgrado molti secoli di impegno
teoretico non possiamo dire cosa la rappresentanza è”60 . Se difatti dal punto di vista
strettamente etimologico possiamo affermare che rappresentare significa rendere presente
ciò che realmente non lo è e che quindi essa potrebbe essere intesa quale “subordinazio ne ”
di un soggetto, il rappresentante, al perseguimento degli interessi di un altro soggetto, il
rappresentato, considerando quindi l’istituto della rappresentanza politica lo strumento
con il quale si sopperisce ad una assenza con una presenza, dovremmo prendere atto dell’
insufficienza e della sostanziale approssimazione di questa definizione.
Ecco che allora, nella nostra narrazione del – e sul - comune, l’istituto della
rappresentanza appare estremamente problematico in quanto “alimenta processi di
spoliticizzazione nell’esatta misura in cui lavora alla produzioni di sintesi unitarie ” 61 .
Ancora una volta, come già si è visto nel primo capitolo, è il problema dell’uno e dei
molti ad interrogarci. Il nostro comune risulta dunque irrapresentabile proprio perché i
molti non possono essere ricondotti all’unità. Piuttosto che parlare di “sintesi unitar ie ”
vorremmo, e dovremmo, lavorare su processi di articolazione e composizioni delle
differenze e, ancora, su pratiche di connessione e d’assemblaggio, consapevoli che
all’interno dell’unità le differenze, che la compongono, vengono violenteme nte
squalificate in quanti tali.

60 Fisichella, D., La rappresentanza politica, Roma, Laterza, 1996, p. 6


61 Chignola, S. Che cos’è un governo? Saggio pubblicato sul sito Euronomade
http://www.euronomade.info/?p=4417

113
Abbiamo sottolineato il fatto che si rappresenta ciò che non è visibile, ciò che non
possiamo toccare con mano. In quest’ottica, allora, rappresentare significa in qualche
maniera personificare e non, come si è soliti a pensare, trasmettere un messaggio o portare
la parola di qualcun altro. Ciò che viene presentato attraverso l’azione rappresentativa è
appunto un assenza, perché il rappresentante, autorizzato da chi lo elegge, è libero di
prendere le decisioni che crede, dato che ciò che si rappresenta, nel nostro caso un
soggetto politico unitario, non ha realtà né tantomeno esistenza politica al di fuori appunto
dalla rappresentanza. Ripetiamolo nuovamente; è il corpo politico, il popolo e, ancora, la
nazione a dover essere rappresentata in quanto unità. È la fictio della sintesi unitaria che
deve emergere. Da questo punto di vista la rappresentazione si riferisce a ciò che è altro,
che appare solo attraverso di essa. La rappresentanza politica è collegata all’unità del
popolo o della nazione: rappresentabili soltanto nella misura in cui non sono
empiricamente presenti. In questa prospettiva s’inscrive, ad esempio, la pratica teologica
dell’eucarestia: che cos’altro è se non una “prassi” rappresentativa che rende presente ciò
che è assente, il corpo di cristo?62 Così come il corpo di cristo, anche la nazione o il
popolo o, ancora, l’unità del corpo politico vengono resi presenti dall’atto rappresentativo
in quanto assenti.
Dalla rivoluzione francese del 1789 in poi, nelle assemblee rappresentative ciò che veniva
rappresentato era appunto l’idea della nazione nella sua interezza. La nazione veniva
dunque inscritta nelle menti e nei cuori di tutti i rappresentanti sovra-determinando le
molteplici singolarità che abitavano un determinato territorio. La nazione si riproduceva,
prendeva forma, nella quotidianità dei singoli, fungendo da elemento omogeneizzante e
da “vettore sintetizzante”. È allora all’interno di questa prospettiva che dobbiamo leggere
la figura del mandato libero inteso come espressione della volontà unitaria del corpo della
nazione. D’altronde se i rappresentanti rappresentassero (tutti) il particolare non si
darebbe corpo politico. La moderna rappresentanza non può essere caratterizzata
dall’indipendenza propria del rappresentante. Se assumiamo il rapporto tra rappresentante
e rappresentati in termini di mandato imperativo, questo non potrà che dipendere da
determinate volontà e istruzioni e, di conseguenza, rispecchiare le volontà da cui dipende,
ma questa non sarà la volontà unitaria del popolo, bensì le particolari volontà di individ ui
o corpi intermedi organizzati63 (sindacati, corporazioni industriali ed economiche ecc ...).

62 Sulla fondazione teologica della politica moderna, nonché della rappresentanza , rimando al saggio di
Galli C. Il disagio della democrazia, Torino, Einaudi, 2011
63 Duso, G., La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Milano, Franco Angeli, 1988, p.86.

114
Di conseguenza, ipotecando il rapporto tra rappresentanti e rappresentati – governanti e
governati – in un vincolo dipendente – vincolo di mandato – allora verrebbe meno la
funzione costitutiva della rappresentanza politica moderna, ovvero la volontà generale del
corpo politico, la sua unità. Se come scriveva Hobbes sovrano è colui che rappresenta il
corpo politico nella sua unità, ovvero chi dà volto e azione alla potenza del corpo politico,
allora l’idea moderna di rappresentanza non può che basarsi sul mandato libero in quanto
il rappresentante rappresenta l’intera nazione.
Continuando a parafrasare quanto avanzato da Hobbes nel Leviatano, possiamo dire che
il rappresentante è come la maschera di un soggetto senza volto, ovvero un attore che non
compie azioni proprie ma dà corpo ad una realtà altra. Proprio come a teatro “[…]
impersonare è fare la parti di o rappresentare, se stessi o altri, e chi fa la parte di un altro
è detto dar corpo alla sua persona o agire in suo nome”64 . Ecco perché non vi può essere
vincolo di mandato nelle democrazie moderne. È la totalità e, ancora, la volontà generale,
a dover essere rappresentata.
Facile risulta allora intuire come la volontà generale, a cui tutti fanno ricorso in maniera
strumentale per legittimare discorsi e posizioni adottati a livello politico, sia possibile
solo nell’operazione che la sintetizza come unità; come il prodotto di una finzio ne
giuridica65 . È in nome del popolo che le leggi vengono ad esempio promulgate. Sotto
questa luce il Parlamento è il sommo tempio dove la volontà collettiva può afferma rs i,
ovvero quella del popolo, che esiste solamente per mezzo della sua rappresentazione da
parte degli eletti che esso ha, per mezzo di elezioni democratiche, “autorizzato” a parlare
a suo nome, dissolvendosi poi nella spoliticizzazione della vita quotidiana. Sembrerebbe
quindi che il popolo sussista solo nella misura in cui viene interpellato e rappresentato. In
questo sistema, allora, come sostenne in maniera lungimirante Tocqueville, il cittadino
uscirebbe dalla “servitù” solamente per eleggere il proprio padrone per poi rientrarvi
immediatamente66 . Come sarà oramai chiaro il nostro comune non può essere
rappresentato, almeno secondo la moderna accezione di rappresentanza politica, proprio
perché non può essere ridotto all’unità. È la molteplicità che rifiuta di essere sintetizzata

64 Hobbes, T., Il Leviatano, Torino, UTET, 1955, p.131


65 A riguardo si veda Ragazzoni, D., Carl Schmitt e Hans Kelsen: il problema della rappresentanza , in
"Rivista di filosofia" 1/2013, pp. 51-76, doi: 10.1413/73014 e anche Galli, C., Immagine e rappresentanza
politica: ipotesi introduttiva, in La rappresentanza politica: atti del convegno del 14-15 dicembre 1984,
pp. 27-52.
66 De Tocqueville, A., La democrazia in America, Milano, Rizzoli, 1996, p. 733.

115
e di essere ricondotta all’unità governabile a rappresentare l’elemento costitutivo del
(nostro) comune.
Ancora una volta, dunque, è il concetto di comune a mettere a nudo e ad attraversare
criticamente (supposti) universali quali popolo e nazione, nonché l’elemento che li rende
visibili e dunque presenti, ovvero la rappresentanza politica. Ovviamente il comune, non
potendo essere sintetizzato in un corpo unitario, non potrà essere rappresentato. È la
logica della differenza, costitutiva appunto del comune, a mettere in tensione l’istituto
rappresentativo moderno. La rappresentanza, che fino ad oggi conosciamo e che opera
attraverso sintesi unitarie, si sbarazza delle differenze proprio per poter rappresentare il
popolo come unico e indivisibile, nonché come base legittimante del potere politico.
Niente di più lontano dalla nostra idea del comune intesa come composizione delle
differenze.
Sarà allora sotto la spinta delle differenze, e della loro necessaria composizione a fronte
dei radicali mutamenti che interessano le nostre società, che entreranno in crisi le teorie
contrattualistiche e l’istituto rappresentativo. Saranno proprio le differenze, in quanto tali,
a svelare la finzione dell’unitarietà e dell’indivisibilità del corpo politico. Se alla base del
potere politico, come momento essenziale della legittimazione, sta il popolo, ovvero gli
individui con l’espressione della loro volontà, cosa succede se questo viene meno, o
meglio cosa succede se questo viene investito da profonde trasformazioni che ne mettono
in tensione gli stessi connotati? E ancora, che cosa succede se quella supposta omogeneità
del popolo, che per mezzo della rappresentanza prendeva forma, viene sfidata da un
proliferazione continua di differenze nella nostra società? Come rappresentiamo, o più
precisamente rendiamo presenti politicamente, le differenze in quanto differenze e,
ancora, le molteplicità produttive che innervano e ibridano (felicemente) le nostre
società? Nuovamente sarà allora la (perenne) questione dell’uno e dei molti, che
attraversa in sordina tutto il (nostro) lavoro di ricerca, ad interrogarci e ad aprire continui
spazi di problematizzazione. Se è vero che i richiami politici e retorici all’unità, in molte
lotte del lavoro e nella storia dei soggetti colonizzati, hanno risuonato in passato come
“dolci canti che solleva(va)no le masse”, per dirla con Fanon, è altrettanto vero che
oggigiorno “i linguaggi tradizionali dell’unità e le pratiche organizzative dell’agire
nell’unione sono stati sfidati dalle lotte e dalle insorgenze rispetto al genere e alla razza e
dalla crescente frammentazione della forza lavoro di fronte alle recenti trasformazioni del

116
capitalismo”67 . Quella supposta unità, dietro la quale si celava la violenza
dell’omogeneizzazione, andava quindi frammentandosi sotto la spinta delle differenze.
Ritorniamo alla rappresentanza. Abbiamo evidenziato come il popolo non esiste in quanto
tale se non attraverso istituti che ne determinino la forma, come la rappresentanza. In
questo senso l’identità del popolo è, e sarà, per forza di cose omogenea, uno spazio liscio
privo apparentemente di contraddizioni interne. Solamente in quanto l’omogeneità non è
un dato empiricamente esistente, ma frutto di una opera di finzione politica, che possiamo
rappresentare il popolo come uno e indivisibile. A questo punto una domanda sorgerà
spontanea: che cosa lega i membri di uno Stato e più precisamente ne incoraggia l’unio ne?
L’obbligazione politica. E su questo elemento tutti gli autori sembrerebbero essere
d’accordo. Il problema sorge nel momento in cui ci chiediamo come si fonda questa
obbligazione, ovvero qual è il suo fondamento68 . Più semplicemente basterebbe
domandarci per quale motivo donne e uomini obbediscono al potere anche quando questo
mostra il suo lato più perverso?
A questo proposito, possiamo distinguere due tipologie di obbligazione; morale e politica
a seconda che la ratio che la legittima sia interna o esterna al soggetto obbligato. Se la
ragione che sottende l’obbligazione viene dall’esterno parleremo di obbligazio ne
eteronoma, ovvero quando un soggetto agente riceve da fuori di se la norma della propria
azione, se la ragione è invece interna al soggetto agente parleremo di obbligazione interna.
L’obbligazione è dunque il collante che tiene insieme lo Stato e permette di pensarlo come
Uno. Eppure un altro elemento risulterà fondamentale alla coesione sociale, e dunque
all’obbligazione politica: la rappresentanza.
Di seguito cercheremo di intrecciare le riflessioni di tre grandi pensatori della politica
(Hobbes, Rousseau, Spinoza) sul tema rappresentanza politica e sul potere degli individ ui,
facendole giocare una contro l’altra e provando, ancora una volta, ad aprire, in maniera
tutt’altro che esaustiva, lo spazio possibile del comune.
Se da una parte abbiamo il discorso hobbesiano che rappresenta il tentativo più ferreo di
pensare la necessità di una fondazione eteronoma dell’obbligazione; dall’altra,
interessante sarà incontrare la figura di Rousseau e il suo rifiuto categorico della
rappresentanza politica e dell’eteronomia ad essa implicita, nell’intento continuo di
concepire l’obbligazione politica come assolutamente autonoma. All’interno di questo

67 Mezzadra, S. e Nielsen, B., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale,
Bologna, Il Mulino, 2014, p. 159.
68 Bernardi, B. Le principe d’obligation, Paris, Vrin, 2010, p. 20

117
quadro appena descritto sembrerebbe, allora, che più autonomia corrisponda
conseguentemente a meno rappresentanza e viceversa, ponendo Hobbes e Rousseau agli
antipodi. Una terza via possibile ci viene offerta dalla concezione spinoziana di
democrazia, sulla quale torneremo più avanti. Il riferimento a Spinoza risulterà dunque
un passaggio quasi obbligato per la nostra riflessione sul comune dal momento che il
filosofo olandese mostra la tensione permanente che intercorre tra il riconoscimento del
potere politico degli individui che costituiscono il corpo politico dello Stato e la forma
più o meno rappresentativa all’interno della quale il potere viene esercitato 69 . Grazie a
Spinoza proveremo dunque a tratteggiare i contorni di una democrazia alla continua
ricerca di radicalità; d’altronde come scriveva Walt Withman, la democrazia “è una
grande parola la cui storia […] non è ancora stata scritta, perché quella storia deve ancora
svolgersi”70 . Ne siamo convinti e teniamo a sottolinearlo. Non possiamo, e non dobbiamo,
perciò, accettare di entrare in democrazia una volta ogni tanto per eleggere il nostro
padrone per poi uscirvi immediatamente. Questo lavoro di ricerca muove proprio da
questa “urgenza”, ovvero dalla questione di come sarà possibile “rappresentare” i custodi
del diritto politico – i cittadini – senza con ciò estrometterli de facto dal suo reale esercizio
rendendolo un affare per pochi? Ancora più brevemente, come riportato nel titolo del
seguente paragrafo; come rappresentiamo l’irrapresentabile?

3.2.1 Il dominio “tollerato” del Leviatano?

Per quanto riguarda Hobbes sono due i punti principali sui quali soffermarsi: da una parte,
l’uso del principio di rappresentanza come fondamento dell’unità dello Stato71 ; dall’altr a,
il riconoscimento che l’obbligazione politica debba per forza di cose provenire
dall’esterno per essere realmente stabile e cogente. Per Hobbes centrale risulta la
distinzione tra moltitudine – l’insieme disordinato de eterogeneo delle singolarità – e il
popolo – l’unione delle singolarità nel corpo civile 72 . Com’è noto il passaggio dalla

69 A riguardo interessante è il libro a cura di Del Lucchese, F. Storia politica della moltitudine. Spinoza e
la modernità, Roma, Derive&Approdi, 2009.
70 Cit. Whitman, W. Prospettive democratiche; a cura di Mariolina Meliadò Freeth, Genova, Il melangolo,

1995.
71 Ripetiamo ancora una volta: è solo in quanto rappresentabile che si dà unità politica del popolo.

Attraverso la rappresentazione si rende presente ciò che di fatto è empiricamente assente, appunto il popolo,
la nazione, l’unità ecc..
72 A riguardo Hobbes, T. De cive: elementi filosofici sul cittadino, Roma, Editori riuniti, 1979, pp. 153-154

118
moltitudine al popolo è del resto l’atto di nascita dello Stato. È in questo passaggio che
opera il “violento” disciplinamento dell’individuo 73 . E, ancora, è in questo passaggio che
Hobbes, con una logica ferrea difficilmente aggirabile, “costringe” l’individuo ad
abbandonare la (propria) differenza, che lo rende ciò che è, per poter partecipare alla
banchetto celebrativo del popolo in quanto uno e indivisibile.

D’altra parte, “una moltitudine di uomini diventa una persona quando viene
rappresentata da un uomo o da una persona e ciò avviene con il particolare
consenso di ogni singolo componente di tale moltitudine. Infatti, è l’unità del
rappresentante e non l’unità del rappresentato che fa una la persona, ed è il
rappresentante che sostiene quella persona ed essa soltanto, non potendo
altrimenti l’unità essere compresa nella moltitudine”74 .

Questo consente a Hobbes di costruire la finzione giuridico-politica della rappresentanza


e identificare proprio nell’attore che rappresenta lo Stato in quanto Uno, la stessa essenza
della civiltà e della fuoriuscita dallo stato di natura. È proprio il meccanismo della
rappresentanza che consente d’altro canto di identificare il popolo con il sovrano 75 . Come
già sottolineato a più riprese, il principio di rappresentanza, essendo l’origine dell’unità,
è ciò che dà forma allo Stato in quanto tale e conseguentemente è il Sovrano - sia questo
un’assemblea oppure un singolo individuo, poca importa - colui che interpreta la volontà
di ciascun individuo di garantirsi la pace.
Torniamo all’obbligazione e alla sua forma eteronoma nella teoria hobbesiana. Sappiamo,
stando a quanto raccontatoci da Hobbes, che il problema dello stato di natura è la
mancanza di garanzie affinché le leggi di natura possano essere considerate cogenti anche
nel rapporto interpersonale, tra più individui, ovvero regolare un modo di stare insie me
della convivenza.
È dunque la mancanza di garanzie a portare un latente stato di guerra di tutti contro tutti,
cioè alla condizione peggiore desiderabile per ciascuno. La fuoriuscita da questa
condizione coincide con il dar vita a quella finzione giuridica della persona civile che

73 Importante dar conto dell’ambivalenza di questo passaggio nella misura in cui per Hobbes sono gli stessi
individui ad affidarsi ad “un terzo superpartes” capace di far rispettare il patto di tutti e garantire così pace
e sicurezza. Quello che emerge è dunque una tensione.
74 Hobbes, T., Leviatano, Milano, Einaudi, 2001, p. 271.
75 Cfr, Sul Cittadino, Cap. 6, p. 150. L’esempio drammaturgico non è causale ma fornisce la chiave

analogica per pensare il funzionamento di questa fondamentale struttura giuridica che è la rappresentanza

119
chiamiamo Stato che ha il compito di garantire, con la forza e col diritto, il reciproco
rispetto dei patti e l’applicabilità delle leggi di natura in modo tale da neutralizzare, o
meglio dissimulare, come abbiamo visto precedentemente 76 , quello stato potenziale di
guerra di tutti contro tutti.
Come detto più volte, l’interprete di questa persona artificiale che appunto chiamia mo
Stato è il Sovrano. Poiché l’unità dello Stato risiede nell’unicità del Sovrano, ne consegue
evidentemente che la moltitudine, disordinata e pericolosa, non può che ottenere la
propria unità se non nella figura del Sovrano, ovvero nello Stato. Proprio per questo
motivo la moltitudine deve farsi popolo, tracciando confini ben precisi al suo interno
abbandonando le differenze che ne ostacolano l’unità. Dicevamo che per Hobbes il
fondamento dell’obbligazione politica deve essere necessariamente eteronoma e,
soprattutto, che sono gli stessi individui a volerla 77 . Tutto il problema della fondazio ne
dell’obbligo politico si gioca allora sulle condizioni di garanzia che possono essere
fornite: lo stato di natura in questa prospettiva evidentemente non fornisce alcuna
garanzia che gli altri rispettino i patti, quindi non è razionale che qualcuno vi si attenga
secondo Hobbes. L’unica ratio nello stato di natura è la forza, per cui nessuno può
garantire per un altro. Proprio per questo motivo, soltanto un attore terzo, altro da tutti,
potrà garantire appunto per tutti. Questo terzo, inteso come figura esterna e diversa da
tutti, è il Sovrano, ovvero un arbitro super-partes capace di fornire garanzie volte a
conseguire la pacificazione societaria dalla forza animalesca dell’uomo sull’uomo.
Nelle teorizzazioni hobbesiane è ben evidente, da una parte, come l’eteronomia sulla
quale si fonda l’obbligazione politica sia un condizione necessaria dell’instaurazio ne
dello Stato; dall’altra, come l’architettura teorico-giuridica delineata mostri chiarame nte
il nesso intrinseco che lega il principio di rappresentanza con quello dell’eterono mia
dell’obbligo politico. Proprio perché per fondare uno Stato – cioè una persona civile che
dia unità alla moltitudine dispersa degli individui – è necessario offrire una garanzia
dell’applicabilità delle leggi di natura che nessun singolo individuo da solo può fornire, è
necessario che la fondazione dello Stato passi per l’istituzione di un garante terzo rispetto
a ogni individuo della moltitudine. Ma è contemporaneamente necessario che questo
garante non sia svincolato né indipendente dagli individui della moltitudine: egli deve

76 Rimando al 2.1 del medesimo capitolo sull’incapacità dello Stato di neutralizzare fino in fondo la
violenza, in quanto attore agente della violenza. Ne risulta l’impossibilità di una sua completa
neutralizzazione. Per questo motivo parliamo di dissimulazione della violenza nella società.
77 La necessità di questa eteronomia è un altro modo per pensare l’assolutismo del sovrano hobbesiano.

Solo in quanto superiore ed esterno il Sovrano può imporsi ai suoi sudditi.

120
infatti fornire proprio a questi individui le garanzie necessarie per uscire dallo stato di
guerra e quindi conservare la pace78 . Sotto queste vesti il Sovrano è il rappresentante degli
interessi di ciascuno, o più precisamente, il rappresentante di quella condizio ne
preliminare che consente la vita produttiva di ciascuno, ovvero il mantenimento della
pace.
Per il nostro discorso, ciò che va sottolineato è l’eteronomia nel rapporto rappresentante -
rappresentato: in quanto altro dal rappresentato, il rappresentante gli è esterno e,
nonostante ne faccia gli interessi e ne funga da attore agente, non vi è mai riducibile. Da
questo punto di vista il Sovrano non è mera emanazione dei sudditi. Tutto al contrario,
essendo il sovrano a rappresentare la condizione di possibilità di unità della moltitud ine,
gli individui possono essere riuniti solo perché c’è un sovrano che li rappresenta rendendo
dunque presente quell’unità assente nella realtà.

3.2.2 La volontà generale: di tutti perché di nessuno?

Diversamente da Hobbes, per Rousseau il problema centrale della politica è l’autono mia
degli individui, come costruire una convivenza senza che questa venga ipotecata dalla
“servitù”. Storicamente gli uomini vivono in servitù, ci dice. Per servitù dobbiamo
intendere l’essere soggetto al diritto di altri. Con il lavoro e i vincoli sociali questa
schiavitù, questo dominio dell’uomo sull’uomo, è stata istituzionalizzata e cementata in
sistema politico. Eppure, sostiene Rousseau, e come abbiamo avuto modo di vedere nel
Cap.1, è possibile che gli uomini essendo liberi per nascita, decidano liberamente di
scegliere una costituzione civile, stipulando un contratto, che preservi e tuteli la loro
naturale libertà e uguaglianza79 .
Come noto, la questione che agita Rousseau è come poter costruire vincoli politici sociali
tali per cui ciascuno potesse continuare ad essere libero nel vero senso della parola e non
servo. La risposta positiva del filosofo ginevrino si basa sul concetto di volontà generale:
«mon sujet peut s’énoncer en ces termes: “trouver une forme d’association qui défende
et protège de toute la force commune la personne et les biens de chaque associé, et par

78Cfr. Leviatano, Cap 14.


79Cfr. Toto, F., I costumi, il diritto. Dal ‘Discorso sull’origine della diseguaglianza’ al ‘Contratto
Sociale’, «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici», 2008 (1), pp. 79-90.

121
laquelle chacun s’unissant à tous n’obéisse pourtant qu’à lui-même et reste aussi libre
qu’auparavant"»80 . Evidentemente, piuttosto che essere un sistema politico, per così dire,
alla Hobbes, si tratta di un’opzione morale prima di tutto. La volontà generale sembra
dunque esistere solamente nell’atto stesso in cui si forma e viene istituita. In un certo
senso si tratta di un movimento di astrazione e de-singolarizzazione dal momento che tutti
siamo la volontà generale poiché nessuno è la volontà generale 81 . La volontà è dunque
generale proprio perché non è legata a nessuna istanza particolare, e dunque non sarà mai
la somma delle singole volontà, ma ha come obiettivo soltanto l’eguaglianza e la libertà
dei suoi membri. Recita Rousseau nel suo Contratto Sociale: « il y a souvent bien de la
différence entre la volonté de tous et la volonté générale ; celle-ci ne regarde qu’à
l’intérêt commun, l’autre regarde à l’intérêt privé, et n’est qu’une somme de volontés
particuliers : mais ôtez de ces mêmes volonté les plus et les moins qui s’entredétruisent,
reste pour somme des différences la volonté générale »82
Anche la volontà generale di Rousseau è il fondamento dell’unità dello Stato e la vera
incarnazione del popolo, in quanto distinto dalla mera moltitudine degli individ ui.
Tuttavia, lo scopo di Rousseau è rifiutare l’esito eteronomo dell’obbligo politico avanza to
da Hobbes. Dunque questo rifiuto non può che passare per la squalificazione dello stesso
principio di rappresentanza. La volontà generale, infatti, proprio perché costituisce
l’incarnazione sovra-individuale dell’unità di tutti i cittadini, non può in nessun modo
essere rappresentata da altri. E poiché la volontà generale è anche il sovrano, cioè incarna
il principio di sovranità politica, ne consegue che la sovranità è irrappresentabile 83 . È
proprio in quanto sovrana, secondo Rousseau, che la volontà generale risulta
irrapresentabile; dovendo fondare l’autonomia politica di ogni suo membro, essa – la
volontà generale - non può demandare ad una figura terza la sua rappresentanza. In un
certo senso Rousseau accetta l’implicazione, avanzata da Hobbes, tra rappresentanza
politica ed eteronomia ed è per questo che non può che rifiutare, in nome della libertà e
dell’autonomia, lo stesso principio. Tuttavia Rousseau riconosce come la rappresentanza
politica sia ineliminabile per la gestione del potere. Ma da un punto di vista teorico, è la
terzietà del rappresentante rispetto al rappresentato che il filosofo ginevrino si preoccupa
di combattere. È da questa tensione che nasce, nelle sue teorizzazioni, la distinzione tra

80 Cit. Rousseau, J.J., Contract Social, Paris, Gallimard, 1964, p. 360


81 È lo stesso problema che emerge nel momento in cui ci chiediamo chi è lo Stato. Banalmente, lo Stato,
così come la volontà generale, è, al contempo, tutti e nessuno.
82 Ivi. p.372
83 Cfr. Rousseau, J.J., Il Contratto Sociale, 5. ed, Torino: Einaudi, 1961, pp. 145-150

122
un potere legislativo incarnato dalla volontà generale, di per sé irrapresentabile, e un
potere esecutivo incarnato dal Sovrano. Quest’ultimo, sia chiaro, non è in nessun modo
un rappresentante della prima – della volontà generale - 84 . Stando a quanto detto, la
volontà generale risulterà irrapresentabile e, per forza di cose, ogni contratto tra cittadini
e governanti sarà, prima che illegittimo, impensabile logicamente 85 . In quest’ottica,
allora, il governo resterà una mera emanazione del potere sovrano e i governanti altro non
saranno che ministri, delegati, della volontà generale, semplici epifenomeni del suo
potere, amministratori e non custodi del diritto sovrano.
Per quanto riguarda ciò che a noi più interessa, è importante domandarsi se questo
tentativo di Rousseau di difendere l’autonomia, rifiutando categoricamente il principio di
rappresentanza, sia realmente applicabile. Riteniamo che non sia così. Se è vero che la
volontà generale non può essere rappresentata da terzi, è anche vero che essa stessa non
può essere intesa come rappresentante delle singole volontà dei suoi membri. Infatti,
proprio in quanto la volontà si considera generale è pure contraria ad ogni singola volontà
o particolarità. Sicuramente nella volontà generale trova un qualche eco anche la volontà
particolare, non certo in quanto portatrice di istanze particolari, ma piuttosto nella misura
in cui si accorda con la supposta volontà generale. Ancora una volta sono le differenze a
dover essere abbandonate. Logicamente, allora, la volontà generale sarà la sintesi
suprema della volontà di tutti e di nessuno, al contempo. Di tutti perché incarna tratti ed
esigenze che tutti condividono, ma di nessuno perché esplicitamente rigetta gli aspetti che
caratterizzano ciascuno in particolare, ovvero le differenze. Va da sé che non c’è posto
per le differenze e, dunque, solo de-singolarizzando le singolarità, potremmo dire, è
possibile pensare e articolare la volontà generale roussoviana.
Per dirla con una battuta, pare che la volontà generale avanzata da Rousseau mostri, in
qualche modo, le sue vesti più dispotiche e si presenti più mostruosa e imponente del
Leviatano hobbesiano. Se nel discorso di Hobbes gli interessi e le istanze dei singoli
cittadini in qualche maniera sopravvivono seppur all’ombra di una guerra sempre
incombente che lo Stato si propugna di neutralizzare86 , nella volontà generale di Rousseau
non sopravvive niente di tutto ciò: solo cancellando in sé le singole individualità, e dunque

84 Cfr. Il Contratto Sociale, cap. 16.


85 Cito Rousseau p. 434 dell’opera in francese «l’acte qui institue le Gouvernement n’est point un contract
mais une Loi».
86 Per Hobbes chiunque può calcolare che gli è più utile la pace che la guerra e quindi che gli è più utile

impegnarsi per l’istituzione dello Stato piuttosto che nella lotta continua di tutti contro tutti. La ragione
hobbesiana, in tal senso, guarda sempre all’utile di ciascuno come sua finalità ultima: la genericità del suo
approccio dipende soltanto dal fatto che chiunque può cercare il suo proprio utile individuale in tal modo

123
le differenze, ovvero ciò che ci rende ciò che siamo, la volontà generale può pensarsi
realmente in quanto tale. Il fine della volontà generale non è quello di fare l’utile e il bene
di ciascuno, né tantomeno quello di permettere ai singoli di perseguire i propri sogni e i
propri desideri ci verrebbe da pensare. La finalità è dunque strettamente morale, ovvero
far sì che gli uomini vivano liberi e uguali. Eppure sorge spontanea una domanda: come
possiamo pensare libertà ed eguaglianza sopprimendo le nostre singole volontà particolar i
per una supposta volontà di tutti? Probabilmente Rousseau non si pose neppure il
problema. O meglio, il suo intento era quello di pensare non tanto un patto di soggezio ne
ma di liberazione, come atto fondativo di una società realmente giusta. In quest’ottica
allora la volontà generale non si pone l’obiettivo di realizzare i singoli interessi di tutti gli
individui ma persegue le condizioni affinché tutti possano considerarsi liberi dalla
soggezione di altri.
Come già sottolineato, così come la volontà generale incarna il fondamento egualitario di
una società e quindi si esprime come volontà di-tutti-e-di-nessuno, così il governo che
amministra tale volontà non sarà tenuto a rappresentare alcun interesse specifico dei
cittadini. Ancora una volta sorge spontanea una domanda: dal momento che il potere
politico è nelle mani del governo, come è possibile far in modo che questo rispetti
veramente il principio di eguaglianza e di libertà che fonda la volontà generale? E
soprattutto, come è possibile che il governo non usi il proprio potere per usurpare la
volontà generale sovrana, che invece dovrebbe amministrare, sfruttando tutti i mezzi a
sua disposizione per convincere il popolo di operare per il suo bene?
Ovviamente reintrodurre il principio di rappresentanza farebbe crollare tutta
l’impalcatura edificata da Rousseau: “se il governo dovesse legittimare la propria azione
in quanto rappresentante degli interessi particolari dei cittadini, a venir meno sarebbe
proprio la volontà generale, che verrebbe relegata a principio ispirativo e praticamente
impotente”87 . In tal modo verrebbe vanificato il tentativo di Rousseau di costruire un
sistema politico e sociale basato sull’autonomia dell’obbligazione politica escludendo la
rappresentanza. Per contro, privandosi della rappresentanza si espone la volontà generale
all’egoismo degli interessi particolari. Una tensione ineliminabile sembrerebbe far da
cornice alla teorizzazione roussoviana. Di fatto, espropriando la volontà generale di ogni
formula rappresentativa verso gli individui, al fine di preservare eguaglianza e libertà,
Rousseau, involontariamente, sembrerebbe condannare quegli stessi individui al potere

87 Accarino, B. Rappresentanza, Bologna, Il Mulino, 2009, p.154.

124
discrezionale di un governo che, lungi dall’essere un semplice amministratore della
volontà generale, nonché un suo umile esecutore, assumerà le sembianze sempre più
precise e definite di un despota che agirà politicamente in nome di tutti, cioè di nessun
altro al di fuori di se stesso.
A questo punto, come abbiamo accennato inizialmente, dovremmo aprire alla
teorizzazione spinoziana della democrazia per provare ad avanzare possibili suggestio ne
a fronte dell’aporia appena riscontrata nel pensiero di Rousseau e, dunque, ancora una
volta cercare di tratteggiare lo spazio politico – possibile – del comune.

3.2.3 Fuori da ogni retorica: la democrazia siamo noi!

Siamo convinti che demandare il potere una volta è demandarlo per sempre. Sembrerebbe
echeggiare come uno slogan politico congiunturale, eppure riassume nuovame nte
un’aporia, una tensione che attraversa trasversalmente le teorizzazione dei filosofi della
politica fin qui abbracciati. Evidentemente tutte le élite che verrebbero a costituirsi, una
volta demandato il nostro diritto sovrano, finirebbero col gestire in pieno monopolio il
potere di cui è stato investito una sola volta, lavorando in maniera autoreferenziale per la
riproduzione del suo potere e dei suoi privilegi. Ecco che allora l’esigenza di farci
interrogare dalle riflessioni di Spinoza88 muove proprio dalla volontà di continuare quel
lungo e accidentato cammino che conduce alla democrazia, che apre alla ricerca di una
democrazia radicale e, ancora, alla democrazia del comune.

Leggiamo nel capitolo 16 del Trattato teologico-politico:

[…] in questo modo, dunque, senza alcun contrasto col diritto naturale, la
società può essere formata e ogni patto può essere sempre mantenuto con la
massima fedeltà; soprattutto se ciascuno trasferisce tutta la sua potenza alla
società, la quale soltanto, perciò, terrà tutto il diritto di natura su tutto, cioè il
potere sovrano, a cui ciascuno sarà tenuto ad ubbidire o liberamente o per
timore della pena capitale. Questo diritto della società si chiama democrazia,

88 Per uno studio approfondito su Spinoza si veda: Negri, T. Spinoza, Roma, DeriveApprodi, 2006.

125
la quale, perciò, si definisce come l’assemblea di tutti che collegialmente ha
il diritto a tutto ciò che può89 .

E poco oltre, Spinoza, conclude scrivendo:

[…] nessuno trasferisce il proprio diritto naturale ad un altro in modo che in


seguito non sia più consultato, ma lo trasferisce alla maggior parte di tutta la
società della quale è membro; e in questo modo tutti rimangono uguali, come
lo erano prima nello stato di natura90

Spinoza mostra come nel trasferimento democratico del diritto, ciascuno resta parte della
società a cui ha trasferito il proprio diritto sovrano. Sotto questa luce, allora, le decisioni
prese da un parlamento, ad esempio, varranno anche come sue decisioni e, dunque, la
democrazia adempierà alle esigenze di autonomia e libertà che Spinoza condivide con
Rousseau. Eppure su questo punto matura lo strappo con il filosofo ginevrino dal
momento che l’assemblea titolare del potere sovrano non è sovrapponibile alla volontà
generale roussoviana.
Per il filosofo olandese il punto fondamentale, così come lo è per noi, è che i singoli
cittadini, così come lo sono per noi le singolarità che abitano e danno vita ad uno spazio
politico, restino parte – costitutiva e costituente – del processo decisionale, senza che, per
questo motivo, debba imporsi un movimento di generalizzazione e impersonalizzazio ne,
quali garanzie di imparzialità e sovraordinazione, enucleate da Rousseau. Spinoza difende
l’esercizio diretto del potere politico e quindi si preoccupa di mantenere in seno a ciascun
individuo il proprio diritto sovrano. Condivide dunque con Rousseau la ricerca di un
fondamento autonomo dell’obbligazione politica e perciò si scaglia contro l’eterono mia
avanzata da Hobbes che, nella sua Etica, etichetta come un regime di completa schiavitù
delle passioni. Secondo Spinoza, Hobbes avrebbe ipotecato la sicurezza e la pace di tutti
all’interno di una gabbia d’acciaio nella quale la vita - di tutti e di ciascuno - dipende
dalla speranza e dalla paura, ostacolando, di conseguenza, le condotte razionali e singola r i
– di ciascuno – volte alla piena e potente realizzazione dell’uomo 91 .

89 Spinoza, B. Trattato teologico-politico, in Id., Tutte le opere, trad. it., Milano, Bompiani, 2010, p.1013.
90 Ivi, p. 1017
91 Cfr. Spinoza, B. L’etica, Milano, Istituto editoriale italiano, 1993, Cap. 6.

126
Le riflessioni di Spinoza, partendo dalla ri-lettura di Negri delle opere del filoso fo
olandese, permettono di aprire verso il divenire Principe della moltitudine, come
avevamo d’altronde già accennato nel I cap. L’idea di fondo, dalla quale partiamo, è
dunque quella che in democrazia, ovvero in un sistema politico costituito dalle pratiche
di donne e uomini e, ancora, che possa dirsi degno di questo nome, la moltitudine debba
essere un autentico Re. Solo in questa maniera può essere esplicita l’idea del popolo
sovrano. Non sbaglieremmo se dicessimo che il popolo sovrano ha le stesse limitazio ni
di un Sovrano in carne ed ossa, in quanto anche la moltitudine è composta da carne ed
ossa. Così come la persona del re non può essere sempre vigile, né tantomeno occuparsi
di tutto, e soprattutto cede sovente alle lusinghe o ai ricatti di chi lo circonda, così
ciascuno dei cittadini che costituisce l’assemblea, non può occuparsi sempre delle cosa
pubblica, né tantomeno farlo sempre con la debita imparzialità. Ogni cittadino ha infatti
una vita privata e interessi privati non sempre coincidenti o necessariamente identici a
quelli dell’amministrazione statale. Ogni cittadino ha poi parenti e amici con cui
intrattiene rapporti di forza che influenzano le sue azioni, creando moventi passionali
molto più forti e immediatamente presenti rispetto al perseguimento del bene pubblico.
Sebbene il gran numero dei cittadini renderà difficile che uno solo possa imporsi e
imporre il proprio utile privato a tutti gli altri, senz’altro questo stesso numero genererà
un’aperta conflittualità che farà dell’assemblea popolare l’arena per la battaglia di tutti ad
accaparrarsi i maggiori profitti92 . Tuttavia, se il potere democratico deve essere veramente
assoluto ed essere detenuto da quell’assemblea costituita da tutti i cittadini, qualora in
quest’assemblea alcuni non fossero nelle condizioni di esercitare realmente il loro diritto
politico, l’assemblea stessa non potrebbe esercitarlo. Si badi bene, Spinoza ci parla del
quorum legale per far sì che l’assemblea sia realmente espressione dell’interezza della
moltitudine infatti un altro passo del Trattato teologico-politico recita così: “[…] il
consiglio non potrà decidere nulla circa gli affari del governo se non saranno presenti tutti
i suoi membri”. In caso contrario l’assemblea non sarebbe nelle condizione per poter
esercitare quel diritto sovrano che appunto appartiene a tutti.
Eppure risulterebbe surreale pensare che tutti i cittadini di uno Stato possano sempre e
continuativamente presenziare un’ipotetica assemblea comprendente tutti i cittadini in
carne ed ossa e deliberare assiduamente in merito alla co-gestione della cosa pubblica.
Ma come impensabile è la situazione appena descritta, lo stesso può valere quando

92Cit. Sangiacomo A., Saggio pubblicato in Giornale Critico, Il potere dell’individuo e il principio di
rappresentanza. Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X 1, pp. 95-96.

127
pensiamo alla persona di un re sempre vigile, impeccabile nella gestione del bene comune
e libero da vizi e passioni “perverse”. Da un punto di vista strettamente teorico, potremmo
dire che la necessità che il potere dei cittadini si esprima tramite rappresentanti equivale
alla necessità che il potere di un re sia coadiuvato da quello di un consiglio: un popolo
sovrano, così come un sovrano in carne ed ossa, non ha i mezzi per restare sempre e
costantemente vigile e onesto verso la gestione della cosa pubblica, come invece sarebbe
necessario. I cittadini eserciteranno quindi il loro diritto politico eleggendo certi
rappresentanti per un periodo limitato di tempo, ai quali delegheranno il potere di
amministrare lo Stato secondo quelle promesse che essi si saranno impegnati a rispettare
e con le quali saranno riusciti a conquistare il voto 93 . Fin qui si potrebbe obbiettare che
nulla ci sia di diverso rispetto al funzionamento delle nostre conclamate democrazie.
Infatti una democrazia rappresentativa in cui l’atto del voto sia l’unico atto politico dei
cittadini crea una situazione passionale per cui i rappresentanti scelti saranno
naturalmente spinti a costituirsi come patriziato, facendo degenerare il regime
democratico in un’oligarchia dispotica. Se infatti, chiuse le urne, i cittadini non avranno
più alcuna possibilità per esercitare i loro diritti politici, i rappresentanti non avranno
alcun vincolo reale per fare realmente gli interessi dei cittadini, ma considerando la loro
posizione di forza e il monopolio del potere che gli è stato delegato, potranno anzi attuare
tutte quelle strategie ideologiche, propagandistiche e culturali volte a trasformare la loro
stessa élite, se non ciascuno dei suoi componenti, nel vero detentore del potere sovrano 94 ,
andando a costituire una vera e propria casta aristocratica. Ciò che è stato appena detto,
evidentemente, designa una situazione che abbiamo davanti ai nostri occhi tutti i giorni,
ovvero le degenerazioni di cui le “nostre” democrazie procedurali sembrano soffrire in
forme ormai croniche. È facile allora notare, a questo punto, come il sostegno popolare
di per sé non sia un elemento democratico, o meglio un indicatore di democraticità del
sistema politico.
Crediamo che la democraticità di un governo debba risiedere nel diritto di tutti i cittadini
a partecipare alla gestione della cosa pubblica e soprattutto che la democrazia radicale
che ricerchiamo e verso la quale avanziamo, possa realizzarsi solo ed esclusivame nte
nell’atto stesso in cui la moltitudine produttiva diventi principe di se stessa abbracciando
i processi decisionali e ponendosi su un piano costituente. Eppure siamo consapevoli che
questo diritto di ciascuno a partecipare al governo del comune debba in qualche modo

93 Ibidem.
94 Cfr. Ivi. p.98

128
essere rappresentato o meglio esprimersi attraverso una qualche formula politica che
dovrà essere creata, se il concetto di rappresentanza ci evoca l’implosione della
democrazia in un’oligarchia di potenti despoti.
Spinoza, ancora una volta, ci fornisce l’armamentario che può consentire di aprire spiragli
verso un cambiamento radicalmente democratico. Nei capitoli 6 e 7 del suo Trattato
teologico-politico riflettendo sulla monarchia analizza il rapporto tra il re e il suo
consiglio: il re ha bisogno di un consiglio come “la mente ha bisogno dei sensi”, per essere
informato, per essere appunto consigliato. Il consiglio ha quindi chiaramente una
funzione consultiva e organizzativa: deve elaborare le molteplici informazioni che gli
giungono, vagliare le priorità e esporre alla decisione del re le proposte che ritiene
migliori al fine di far fronte alla gestione ottimale del potere. Come accennato
precedentemente, il popolo sovrano ha gli stessi problemi e le stesse esigenze di qualsias i
altro monarca in carne ed ossa: non può accollarsi costantemente, nella totalità dei
cittadini che costituiscono il suo corpo, la responsabilità di ogni decisione e ogni delibera
relativa al governo, non può nella sua collettività discutere di ogni proposta o elaborare
ogni legge. A tutto ciò è delegato il consiglio dei rappresentanti. Ma affinché i
rappresentanti non solo rappresentino di diritto ma anche di fatto il potere di chi li ha
delegati, è necessario allora che nell’atto di trasferimento del diritto politico esercitato
con il voto, il popolo stesso, da buon sovrano, si riservi il diritto di veto sulle decisioni
del proprio consiglio. Il popolo, se vuole mantenere il possesso del proprio diritto politico,
deve cioè necessariamente mantenere il diritto di ratificare ovvero respingere le decisioni
prese dai suoi rappresentanti. In quest’ottica la rappresentanza diventa un strumento che
potremmo definire di convenienza politica per costituire un organo di governo capace di
deliberare nel modo più efficiente con le istanze politiche proveniente dalle moltitud ini.
Il metodo della rappresentanza diventerebbe strumentale al governo della moltitud ine
che, ovviamente, si riserverebbe il diritto di approvare o respingere le decisioni del
consiglio.
Se la democrazia è dunque realmente il regime politico assoluto, in cui il popolo è
sovrano, allora in essa il popolo deve riservarsi gli stessi diritti che si riserverebbe un
sovrano, per il quale demandare interamente ogni scelta a certi rappresentanti senza

129
riservarsi alcuna facoltà di intervenire in merito alle loro decisioni equivarrebbe ad
abdicare dal suo ruolo. È questo il ruolo della moltitudine 95 .
Evidentemente quello appena avanzato, grazie alle teorizzazioni di Spinoza, è solo un
parziale e incompleto contributo verso quella radicalità democratica che ci stiamo
(ostinatamente) impegnando a rintracciare con questo elaborato di ricerca. La strada è
ancora lunga e ovviamente non importa qui soffermarsi sui metodi concreti di una simile
pratica democratica, ma farne emergere la potenza teorica. Eppure, nonostante tutto, il
quesito spinoso del che fare non smetterà di interrogarci politicamente.
Se da una parte nuove pratiche teoriche sul comune, come nuovo spazio possibile – da
costruire – del politico, dovranno continuare ad essere prodotte e articolate feliceme nte
tra loro, dall’altra, però, il compito su come, praticamente, costituire il comune è
demandato sostanzialmente all’invenzione e alla sperimentazione delle soggettività che
si muovono all’interno del conflitto sociale che, lungi dall’essere neutralizzato e
pacificato, è tutt’intorno a noi. Ecco che allora si tratterà di seguire le tracce di quelli che
con Negri abbiamo chiamato gli spettri del comune e quindi cartografare quelle lotte che
si danno per qualcosa che non è né pubblico né privato, ma che pongono l’esigenza di
inventare una nuova dimensione politica – il comune.
Se, parafrasando Rousseau, il potere politico risiede sempre e necessariamente nei singoli
individui, è nostro diritto e dovere rifiutare questa forma della rappresentanza politica
composta da politici di “professione” e impegnarci nella costruzione di nuovi schemi di
partecipazione democratica, nella continua ricerca della democrazia del comune.
Ovviamente, come già ribadito più volte, questo contributo è solo un piccolo tassello, un
piccolissimo pezzetto di un mosaico che deve essere assemblato se vogliamo che
l’immagine del comune emerga e diventi reale. I pochi passi che abbiamo azzardato in
direzione del comune danno la misura di quanto ancora ci sia da fare.

95La critica della rappresentanza in rapporto a Hobbes, Rousseau e Spinoza la devo al testo di
Sangiacomo A., Saggio pubblicato in Giornale Critico, Il potere dell’individuo e il principio di
rappresentanza. Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X 1

130
3.3 (Ri)pensare la cittadinanza (del comune). L’irriducibilità del conflitto.

In quanto mestiza non appartengo a nessun


Paese, la mia terra natale mi ha cacciato via…
(In quanto lesbica non appartengo ad alcuna
razza, la mia gente mi ha disconosciuta, ma io
sono tutte le razze perché in tutte le razze c’è il
diverso che è in me.)
Gloria Anzaldùa,
Terre di confine.La frontera.

È indubbio che il principio della cittadinanza, che siamo abituati a considerare come un
principio basilare della forma democratica delle nostre società, stia subendo in questi
ultimi decenni delle importanti trasformazioni, per effetto dei processi di globalizzazio ne
che ridisegnano lo spazio politico in cui viviamo. In effetti, nel dibattito scientifico su
queste trasformazioni, un tratto comune a molti autori, pur da punti di vista diversi,
consiste nel considerare la cittadinanza come un principio in un certo senso superato nella
costruzione e definizione dell’appartenenza a una comunità, esauritosi con l’esperienza
dello spazio nazionale che i processi di globalizzazione tendono a rendere obsoleta 96 . Se
è vero che gli stati nazionali perdono potere, si osserva da più parti, allora non è più
l’appartenenza alla comunità nazionale che conta. Per quanto ci riguarda il concetto di
cittadinanza rimane centrale e imprescindibile nel dibattito teorico-politico odierno. Il
problema sarà piuttosto, lungi dall’ assumere la cittadinanza come un concetto oramai
svuotato di significato date le trasformazioni che l’hanno investito, rifondare il discorso
sulla cittadinanza e immaginare nuove pratiche di riscrittura dal basso delle relazioni tra
persone e cose, soprattutto ora che sono andati praticamente in frantumi i due pilastri su
cui poggiava la vecchia cittadinanza novecentesca e cioè la centralità del lavoro, da una
parte, e lo Stato sociale, dall’altra97 . È l’urgenza di nuove forme di appartenenza e di
nuove pratiche di fare politica che ci interroga e ci agita.

96 A riguardo interessante è il concetto di cittadinanza nomade avanzata da Rosy Braidotti nel suo libro. Il
postumano. La vita oltre il sé, oltre la specie, oltre la morte, Roma, Derive Approdi, 2014.
97 Mi riferisco alla lettura della cittadinanza fatta da Marshall, T.H., Cittadinanza e classe sociale, Torino,

Utet, 1976.

131
In questo paragrafo, vorremmo (in)seguire le tracce di quella tensione, interna e
costitutiva, del moderno concetto di cittadinanza: da una parte, concentrandoci sul
momento della “vestizione” dell’individuo, ovvero sulle “spesse vesti di cui l’individ uo,
nato “nudo”, si è andato progressivamente ricoprendo”98 ; dall’altra, facendo luce sulle
lotte dei migranti che sfidano i violenti confini, non solo geopolitici, costitutivi appunto
della (moderna) cittadinanza, determinandone la materialità. A questo proposito,
particolare attenzione sarà posta ai movimenti migratori e al rapporto che essi
intrattengono con le trasformazioni della cittadinanza. Ancora una volta, la sfida politica
sarà quella di immaginare un’altra cittadinanza: aperta, cosmopolita, svincolata dai
principi vuoti dell’universalismo occidentale e “libera” da ogni forma di esclusione che
l’universalismo borghese non è mai riuscito a metter fine, mostrandone il suo carattere
contraddittorio; una cittadinanza transnazionale ed evolutiva, per riprendere l’imma gine
della democrazia proposta da Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere, o ancora “a venire”.
E dunque per forza di cose conflittuale. È proprio l’elemento conflittuale che interessa
qui problematizzare al fine di riattivarlo.
La posta in gioca, la sfida e, ancora, la scommessa politica sarà, con Balibar, quella di
considerare la costante “difficoltà che oggi incontra la cittadinanza a mantenere aperta la
dialettica tra istituzione e conflitto”99 , nonché la dialettica tra una sua dimensio ne
giuridica e una sua dimensione politica.
Ma facciamo un passo indietro. Se, come ci indica Sandro Mezzadra nella sua antologia
Cittadinanza. Soggetti, ordine diritto100 , prendessimo in mano uno dei grandi diziona r i
della politica usciti in Italia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta 101 , forse saremmo
sorpresi che al termine di cittadinanza non sia dedicata nessuna voce. Potremmo dire
allora che vi era una sorta di consolidata convinzione che quello di cittadinanza fosse
primariamente un concetto giuridico, riassunto nelle fredde disposizioni di leggi e quindi
libero e immune dalle dinamiche squisitamente conflittuali che regolavano i campi della
politica. Come nota Pietro Costa, la crescente fortuna di cui gode il termine cittadina nza
coincide “con un processo di più o meno consapevole estensione del suo campo

98 Mezzadra, S. La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale , Verona, ombre corte,
2008, p. 43
99 Balibar, E., Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p. 133.
100 Mezzadra, S. Cittadinanza. Soggetti, ordine, diritto, Bologna, CLUEB, 2004
101 Si veda quello curato da Antonio Negri curato per l’Enciclopedia Feltrinelli Fischer (1970) oppure quello

curato per Utet da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino (uscito nella seconda edizione
nel 1983)

132
semantico”102 . Dunque, da semplice criterio giuridico- formale la cittadinanza tende a
trasformarsi in un concetto denso di valenze e carico di tensioni.

3.3.1 I panni sporchi del cittadino moderno.

Partiamo col porci una domanda: chi è il cittadino nella modernità politica europea?
Ancora una volta è Hobbes a fornire la risposta più precisa a riguardo. Il cittadino
moderno è l’individuo. Va da sé che questo individuo rappresenta prima di tutto un
problema. Abbiamo visto più volte come nello stato di natura l’individuo risulti inerme,
privo di protezione, e come la sua vita sia ipotecata dalla paura permanente della guerra.
Da questo stato privativo egli poteva uscire soltanto stipulando un patto con tutti gli altri
individui e, dunque, indossando le (spesse e numerose) vesti del cittadino. Nella
“condizione naturale” mancano, infatti, i presupposti antropologici e politici che
consentono una vita societaria. Vale la pena evidenziare, brevemente, l’eleme nto
radicalmente eversivo presente nel discorso politico hobbesiano, ovvero l’affermazio ne
dell’uguaglianza tra gli esseri umani, e la conseguente negazione della “natura le ”
esistenza di un qualsivoglia ordine. Passaggio potente e radicale, quello di Hobbes, che
di fatto nega la possibilità di legittimare, attraverso l’elemento naturale, diventato ormai
fonte ideologica di legittimazione, qualsiasi rapporto predeterminato di subordinazio ne
tra gli uomini. In quest’ottica va da sé che tutti i rapporti di sovra e subordinazio ne
appaiono, dunque, come costruzioni artificiali, frutto dell’ingegneria sociale dell’uomo.
Dopo questa piccola digressione torniamo al nostro discorso. Dicevamo appunto che
l’individuo nasce nudo e che, dunque, solo attraverso un’attenta “vestizione” può elevarsi
a cittadino e abitare lo “stato civile”. A questo proposito importante risulterà sofferma rs i
criticamente sul movimento di fabbricazione dell’individuo come cittadino 103 , ovvero sui
modi con cui quest’ultimo è stato immaginato e costruito prima sotto il profilo concettuale
e poi sotto quello “istituzionale-giuridico”. E ancora, sull’alterità come contraltare del
cittadino, ovvero su come il riferimento all’ “altro” risulti costitutivo dell’origine di un
modello di antropologia politica104 implicito nel discorso sulla cittadinanza.

102 Costa, P. Civitas: storia della cittadinanza in Europa, Roma, Laterza, 1999, p.VII.
103 Cfr. Mezzadra, S. Cittadinanza. Soggetti, ordine, diritto, Bologna, CLUEB, 2004, p.17 e Costa.P.,
Cittadinanza, Bologna, Il Mulino, 2005.
104 Ricostruire l’antropologia politica implicita nel moderno discorso della cittadinanza significa indagare

le spesse vesti di cui questo individuo, nato “nudo”, si è andato successivamente ricoprendo. È attraverso

133
L’antropologia politica moderna ha permesso all’individuo (moderno) di immagina rs i
prima e costruirsi poi come cittadino, tracciando, allo stesso tempo, confini precisi che
condannavano, e condannano, all’esclusione tutto ciò che è altro da se. “L'altro” è sempre
posto rispetto a qualcosa che si pensa come soggettività di riferimento. È proprio
attraverso questo movimento, violento e arrogante, che il soggetto europeo viene
costituendosi come soggetto di riferimento e di riflesso immagina tutto ciò che è altro.
Inoltre è, ancora, attraverso l’antropologia politica che viene progressivame nte
perimetrato lo spazio che consente alla borghesia di emergere quale soggetto storico del
capitalismo e di organizzare la propria egemonia, ordinando la società e ipotecando la
legittimazione dell’ordine politico a fronte dell’insorgenza dei nuovi soggetti prodotti
dalla rivoluzione capitalistica105 .
Ai fini del nostro discorso, cioè al fine di indagare come la “costruzione di una nuova
immagine dell’individuo moderno come cittadino corrisponda alla violenta istituzione di
precisi confini della cittadinanza”106 , fondamentale è il contributo di quello che
potremmo, a giusto titolo, definire il padre del liberalismo: John Locke.
Per Locke la proprietà risulta centrale. Nella sua teorizzazione proprietà è per prima cosa
proprietà di sé, proprietà della propria persona, ovvero la capacità dell'individuo di auto-
disciplinarsi, tenendo sotto controllo i propri impulsi. Questa capacità di sottoporsi a
disciplinamento, e quindi di essere proprietari della propria persona, è il presupposto,
secondo Locke, per l’appropriazione legittima di beni materiali – ovvero per la proprietà
privata. È dunque il disciplinamento a rappresentare la cifra d'insieme che permette agli
individui di accedere all' “arena” della cittadinanza. Scrive Locke nel suo Saggio
sull’intelletto umano: “se lo sfuggire alla condotta della ragione e il mancare del freno
dell’esame e del giudizio che ci impedisce di scegliere o di fare il peggio è libertà, la vera
libertà, […] allora i pazzi e gli scemi sono gli univi ad essere liberi; tuttavia credo che
nessuno sceglierebbe di esser pazzo per amor di tale libertà, se non chi è già pazzo”107 . È
dunque nella capacità dell’individuo di tracciare precisi confini alla propria differenza,
cioè di sopprimere gli istinti più irrazionali e oscuri e di controllare le “passioni”, che

questi passaggi che vengono introdotte le mediazioni che consentono, restando all’interno delle logiche del
contrattualismo, di “ammorbidire” gradualmente la secchezza del salto tra stato di natura e stato civile,
nonché, più in generale, di rendere maggiormente dinamico quello spazio politico che in Hobbes appariva
bloccato nel suo dipanarsi tra i due poli della libertà privata dell’individuo e del potere assoluto del sovrano.
105 Cfr. Mezzadra, S. La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre

corte, 2008, p. 45
106 Ivi., p.44
107 Cit. Locke, J., Saggio sull’intelletto umano (1960), p. 64, in Mezzadra, S. Cittadinanza. Soggetti, ordine,

diritto, Bologna, CLUEB, 2004, p. 18.

134
risiede la libertà. Di contro tutti coloro incapaci di porre i vincoli della ragione
all'irrazionalità costitutiva dell'individuo - nato nudo - non potevano essere titolari dello
status di cittadini. Ecco che allora quei confini, costitutivi dello stesso concetto di
cittadinanza, emergono chiaramente mostrando il loro carattere violentemente escludente.
Nell’ opera di “vestizione” dell’individuo moderno, tutta una serie di figure verranno
prodotte come altre: il folle, l’ateo108 , e il povero, colpevolmente incapace, quest’ultimo,
di sopperire alla propria riproduzione a causa del “vizio” e della “pigrizia”109 , sono solo
alcune di queste figure. Facile notare, allora, come sia proprio attraverso questo continuo
processo di esclusione che è andato progressivamente costruendosi il cittadino e, come
visto precedentemente, la soggettività borghese, quale soggettività storica del sistema
capitalistico. In quest’ottica, allora, il riferimento all’altro risultarà costitutivo di una
precisa immagine dell’individuo costruito(si) come cittadino, il quale andrà
progressivamente definendosi per negazione.
Eppure altri confini, oltre quelli evidenziati, verranno tracciati nella definizione della
cittadinanza. La donna veniva posta “naturalmente”110 come figura altra rispetto
all’immagine classica del cittadino moderno, che potremmo riassumere nella formula
maschio, bianco, proprietario. Locke deduce che in natura ci sia un “fondamento” per il
fatto che la donna viva in uno stato, appunto naturale, di soggezione nei confronti del
marito. Ancora una volta è la questione della proprietà, in quanto property in his own
person, ad agire in profondità nella definizione del soggetto-cittadino. Da questo punto
di vista appare evidente come la donna venga considerata, per forza di cose, predisposta
alla soggezione, alla subordinazione e all’inferiorità, proprio in quanto incapace di far
fronte all’irrazionalità delle sue emozioni e, ancora, perché non condividerebbe, con
l’uomo, quella capacità di auto-disciplinamento che rappresenta la cifra d’insieme che
definisce l’individuo come cittadino 111 .

108 Secondo Locke l’ateo, rifiutando Dio, si dimostra incapace di adempiere alle promesse, agli impegni e
ai giuramenti. Tutti questi elementi, che costituiscono i vincoli fondamentali di una società umana, non
hanno valore per l’ateo. Va da sé, dunque, che l’ateo non può essere cittadino, in quanto riluttante ai vincoli
posti dal vivere insieme.
109 È’ il tempo di quello che Foucault definisce il grande internamento: folli e poveri indisciplinati sono i

soggetti destinati a essere reclusi in manicomi e workhouses, a essere messi ai lavori forzati sulle grandi
navi della marineria atlantica.
110 Vale la pena rimarcare la distanza radicale rispetto alle teorizzazioni avanzate da Hobbes, il quale aveva

negato qualsiasi aprioristico rapporto di subordinazione della donna all’uomo. Anche in questo caso si tratta
di un rapporto fabbricato di subordinazione.
111 Sulla produzione della “naturale” inferiorità della donna agli albori della società politica, nonché sulla

questione dell’eterna condizione di passività storicamente prodotta dalla dominazione patriarcale si vedano:
Pateman, C. Il contratto sessuale, Roma, Editori riuniti, 1997 e Lonzi, C., Sputiamo su Hegel. La donna
clitoridea e la donna vaginale (1974), nuova ed. Milano, Gammalib ri, 1982.

135
Qui interessa tuttavia porre in evidenza come un ulteriore confine della cittadina nza,
quello della razza, trovi la propria formulazione all’interno del medesimo paradigma
“antropologico”. Ecco che allora la razza risulterà un confine altrettanto costitutivo di un
preciso modello di antropologia politica112 . La “linea del colore”, così com’è stata
formulata da W.E.B Du Bois, meno visibile rispetto ad altri confini forse per la semplice
ragione che era data per scontata, s’inscrive, fin dall’inizio, nel lavoro, al contempo
pratico e concettuale, da cui emerge la figura del cittadino cosiddetto europeo 113 .
Nella sua “missione civilizzatrice”, nella sua conquista coloniale, l'Europa ha sempre
cercato di riprodurre la propria immagine nello spazio dell'altro. Attraverso la lente della
razza possiamo indagare lo spazio altro, lo spazio delle colonie e aprire all’analisi di quel
metaconfine che suddivide tempo e lo spazio della metropoli da quello delle colonie, che
risulta centrale per il nostro contributo sulla cittadinanza. Parlare di metaconfine signif ica
allora far riferimento a quel confine assoluto, appunto spaziale e temporale, che nel
moderno “progetto coloniale”, per riprende l’espressione di Edward Said, divide lo spazio
e il tempo della civiltà (l'Europa) da quello delle barbarie (colonie) e, ancora, lo spazio e
il tempo della cittadinanza (metropolitana) da quello del suddito (coloniale). In questo
passaggio possiamo cogliere il carattere “pedagogico” del progetto coloniale europeo, che
inscrive le colonie all'interno della sua Storia veicolata dal progresso. È lo stesso confine
assoluto che ritroviamo nella filosofia della storia di Hegel, il quale immaginava una
permanente lotta tra storia e preistoria, ovvero dell'Europa contro i “popoli senza storia”,
“ansiosi”, secondo la narrativa coloniale, di ripercorrere il cammino europeo verso lo
sviluppo, di essere cioè investiti da quella storia unidirezionale che, seguendo “stadi di
sviluppo” prestabiliti, celebrava il loro accesso alla modernità. Bellissima è l'imma gine
che ci consegna Dipesh Chakrabarty a proposito delle colonie descritte come condannate
“in una sorta di sala d'attesa della storia”, in un perenne ritardo rispetto agli standard
europei. Fu d’altronde un grande giurista italiano, della prima metà del Novecento, Santi
Romano, ad impegnarsi a livello teorico per giustificare la contemporanea esistenza, nella

112 Si veda il saggio di Guillaumin, C. « Je sais bien mais quand même », ou les avatars de la notion de
race, in Jacquard, A. La Science face au Racisme, I numero della rivista Le genre Humain, Edition Arthème
Fayard, 1981. Riporto qui un frammento tanto bello quanto potente del testo scritto da Colette Guillau min :
«Cela [la race] n’existe pas. Cela produit pourtant des morts. Produit des morts et continue à assurer
’armature de systèmes de discrimination féroces [...]. Non la race n’existe pas. Si la race existe. Non certes,
elle n’est pas ce qu’on dit qu’elle est, mais elle est néanmoins la plus tangible, réelle, brutale des
réalités ».pp.55-57.
113 Di fatto il confine della razza ha permesso all'individuo, costituitosi come cittadino, di recintare, di

perimetrare lo spazio della civiltà e di esportare questo modello di riferimento al di fuori dei confini europei
che si inscrivono all'interno del discorso sulla cittadinanza “europea”.

136
metropoli e nelle colonie, del cittadino e del suddito coloniale: la condizione di
quest’ultimo veniva ricondotta al fatto che la specifica arretratezza storica in cui
versavano le colonie impone di costruire il rapporto metropoli-colonie non secondo il
modello dello Stato costituzionale, a cui appunto corrisponde la figura del cittadino ma
secondo quello dello Stato patrimoniale, che vigeva prima dello Stato costituzionale114 .
Quel metaconfine sembra oggi sfumare - scomponendosi e ricomponendosi all'inter no
delle nostre metropoli - riproducendo per l’appunto quella divisione coloniale tra suddito
e cittadino che segna violentemente i corpi e le vite di milioni di persone a posizioni
subalterne, seppur in maniera certamente contraddittoria e parziale. Eppure come non
trovare oggigiorno continuità tra la “città malfamata” algerina, descritta splendidame nte
da Fanon nei Dannati della terra, o gli slum di Calcutta e le banlieue a nord di Parigi115 ?
Come ostinarsi a non cogliere il carattere costitutivo del colonialismo e il conseguente
clevage razziale all’interno del moderno concetto di cittadinanza?

3.3.2 Inclusione ed esclusione

A questo proposito, le banlieue francesi, come allo stesso modo farebbero le (nostre)
periferie romane116 , offrono un angolo visuale privilegiato per osservare l’opera
violentemente materiale di ciò che abbiamo descritto come metaconfine. Una frattura al
cuore stesso del concetto di cittadinanza. Come sostiene Etienne Balibar, all’indo ma ni
delle rivolte parigine del 2005, “la banlieue in quanto tale”, si presenta come “una
frontiera, un’area di confine e un fronte”117 . Un campo di battaglia, dunque, dove in gioco
ci sono, da una parte, logiche disciplinari e governamentali che tentano di modellare la
soggettività di componenti indisciplinate della società, il più delle volte col mangane llo

114 Cfr. Mezzadra, S. Cittadinanza. Soggetti, ordine, diritto, Bologna, CLUEB, 2004, p.27
115 Non tutta la “peripherique” parigina d’altronde, come ho avuto modo di constatare nel mio soggiorno di
studio a Parigi, viene denominata, in maniera dispregiativa, “banlieues sales”, la periferia sporca, rozza.
Paradossalmente la stessa parola di banlieue sta ad indicare anche quartieri ricchi e perfino molto ricchi,
sempre come Villejuif oppure a Mountrouge. Stesso discorso vale per altri contesti metropolitani; penso al
conurbano di Buenos Aires, a quello spaccato abissale tra i quartieri recintati per ricchi, con tanto di
vigilantes privati e inquietanti inferiate alle finestre, come ho avuto modo di osservare, e i quartieri
estremamente poveri, le villas miseria. Eppure gli esempi di contesti metropolitani simili potrebbero
moltiplicarsi a piacere fino, addirittura, a comprendere le realtà cittadine più piccole. A riguardo Fanon nel
suo capolavoro I dannati della terra descrive magistralmente le dinamiche di un “mondo manicheo”.
116 Soltanto per fare un esempio, basterebbe nominare Torpignattara, quartiere alla periferia sud-est della

Capitale romane.
117 Balibar, E. Europa paese di frontiera, Lecce, Pensa multimedia, 2007, p.48

137
pensante della gendarmerie nationale, e, dall’altra, vere e proprie, pratiche di sottrazione
e di resistenza messe all’opera dai cosiddetti banlieusard118 . Interessante, a riguardo, è la
presa di posizione adottata da Ahmed Djouder all’indomani delle rivolte delle banlieue
parigine, in aperto disaccordo con tutta quella retorica politica che parlava di una mancata
integrazione da parte dei giovani (riottosi) banlieusard all’interno del tessuto sociale
francese. Nel suo libro Desintegration (2006) dichiara che i francesi amano la parola
integrazione, parlano di multiculturalismo e di mixité, perché li fa sentire capaci di
“addomesticare gli stranieri, trattati come se fossero animali selvatici”. Scrive Djouder
“chiederci di integrarci dopo che siamo qui da due o addirittura quattro generazioni, è una
vera presa per il culo”; e aggiunge, “noi non ci integreremo, perché questa parola è
ripugnante. Per dirla tutta, sa di campo di correzione”119 .
L’integrazione, sotto questa lente, appare come una socializzazione forzata volta alla
gerarchizzazione delle differenze e alla stratificazione della cittadinanza. Riprendia mo
quanto scritto da Djouder perché, vista da questa prospettiva, l’integrazione “puzza” di
pratica governamentale, ostacola cioè quella composizione delle differenze indispensab ile
per costruire un’altra dimensione del politico che sappia parlare di eguaglianza e libertà
e, ancora, del comune. Nell’atto dell’integrazione le singolarità sono costrette a rinunc iare
a ciò che hanno di più intimo, cioè a ciò che le differenzia in quanto differenze per poter
essere riconosciute ed accettate all’interno di una determinata polis. Di contro, è solo
nell’atto di una loro continua composizione, e ricomposizione, che le differenze possono
sopravvivere in quanto tali. Il termine integrazione, per le scienze sociali, indica l'ins ie me
di processi sociali e culturali che rendono l'individuo membro di una comunità. È
abbandonando ciò che siamo, la nostra differenza, la nostra storia e la nostra identità, che
abbiamo accesso ad una comunità politica. L’integrazione lavora come strumento di
soppressione della differenza. Detto tra noi, sa di rito d’iniziazione - l’atto attraverso il
quale viene “celebrata” “l'uscita da uno status in funzione dell'entrata in
uno status diverso, talora in modo radicale, dal precedente -”120 . Ecco perché diffidia mo
da questo termine. Ciò che sembra interessante sottolineare, per quanto riguarda la
questione delle lotte dei migranti e le rivendicazioni sul campo della cittadinanza, è

118 Si veda a riguardo il libro di Revel, J. Qui a peur de la banlieue, Paris, Bayard, 2008, ma anche il
magistrale film di Matthieu Kossovitz, La Haine (1995).
119 Djouder, D. Désintegration (2006), 89-91, cfr. in Mezzadra S. Confini e frontiere. La moltiplicazione

del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, p. 199


120 Prandi, C. “Iniziazione”, in Dizionario delle religioni, a cura di Filoramo Giovanni, Torino, Einaudi,

1993, p.377.

138
l’affermazione della differenza non tanto come un rifiuto dell’incontro, un momento di
chiusura su se stessi , né tantomeno una “cesura totale e assoluta”, ma come una pratica
radicalmente politica volta a far saltare ogni forma di “inclusione differenziale e
subordinata”121 del migrante - in quanto portatore di differenza-, all’interno del tessuto
societario.
Come sarà oramai chiaro, è la tensione intrinseca alle categorie di democrazia e
cittadinanza nella loro istituzione politica, che interessa mettere in evidenza. Da tale
questione si evince che uno dei problemi principali è l’esclusione dalla cittadinanza (come
abbiamo visto precedentemente a proposito di una serie di figure costruite come altre).
Problematico, da questo punto di vista, è il rapporto paradossale che si instaura, in epoca
moderna, tra un concetto di cittadinanza universalizzato – sia nel senso che si fonda su
principi universali e sia in quanto attraversa le differenze dei regimi politici- e determinate
forme di esclusione interna122 . Una domanda scomoda sorge a questo punto spontanea:
com’è possibile che, mentre l’umanesimo occidentale predica l’uguaglianza – formale –
tra tutti gli uomini, qualcuno viene trattato da “non uomo”, ovvero ci troviamo di fronte
figure sociali la cui uguaglianza viene messa fortemente in discussione? E dunque, come
spiegare che la cittadinanza moderna, fondata su principi universalistici, non soltanto non
mette fine a ogni forma di esclusione interna, ma tende a crearne di nuove e a conferire
loro una giustificazione universale, come abbiamo visto con l’opera di “vestizio ne ”
dell’individuo moderno?
“Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali. Le distinzioni sociali non possono che
essere fondate sull’utilità comune”, recita l’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino. È dunque su una emarginazione all’interno dell’umanità stessa
che si consuma tale discriminazione. Questo ci porta a suggerire che, da una parte, si può
avere tendenzialmente una sovrapposizione dei modelli di esclusione che si giustifica no
in termini idealistici, “rifacendosi a una definizione dell’uomo che lo rende predestinato
alla cittadinanza”123 , cioè ad una determinata immagine dell’individuo costruitosi come

121 Uno dei tratti salienti della globalizzazione capitalistica contemporanea, che opera attraverso una logica
di connessione così come attraverso una logica di sconnessione, che unifica e frammenta al tempo stesso
(Ferguson 2006), che imprime il proprio segno sulla vita di donne e uomini in ogni angolo del pianeta anche
quando produce catastrofici processi di “esclusione”. Il confine operano attraverso questo doppio
movimento di continua inclusione ed esclusione. Attraverso la categoria di inclusione differenziale, forgiata
da Saskia Sassen, ciò che si vuole fare è mettere in rilievo la porosità del confine e come q uesto sia
fondamentale per comprendere la produzione della forza lavoro come merce e dunque l’inclusione dei
migranti all’interno dei confini nazionali in una posizione differenziale e subordinata
122 Cfr. Balibar, nel suo libro Cittadinanza, Torino, Bollati Boringheri, 2012, pp. 11-17.
123 Ivi. p.108

139
cittadino, come abbiamo ricordato precedentemente. Dall’altra parte, ci troveremo di
fronte a dei modelli che si giustificano in termini materialistici, identificando le
caratteristiche fisiologiche o psicologiche che segnerebbero l’inferiorità delle capacità di
determinati esseri umani (donne, operai, anormali, stranieri, sudditi, immigrati). Se è vero
che gli individui non potevano essere esclusi dalla cittadinanza in base al loro status o alla
loro origine sociale per non cozzare contro la spessa armatura dell’umanesimo liberal-
borghese, dovevano per forza di cose essere esclusi in quanto uomini dall’istituto della
cittadinanza: in quanto tipi umani diversi dagli altri, impossibilitati a prendere parte alla
gestione della cosa pubblica. Ciò che nuovamente emerge è un problema, un paradosso
e, ancora, una tensione permanente. Quello con cui siamo costretti a fare i conti è allora
“la coesistenza tra un problema che non si può mai risolvere definitivamente e
l’impossibilità di farlo scomparire”124 . È allora il carattere “strutturalmente antinomico ”
della cittadinanza ad emergere con forza. Stando a quanto afferma Balibar, dunque,
sembrerebbe che al centro dell’istituzione della cittadinanza s’installi una
“contraddizione”, tra vocazione universale e meccanismi selettivi che “perimetrano” il
club della cittadinanza, che “nasce e rinasce incessantemente dal rapporto con la
democrazia”125 .
Troppe antinomie dunque nella cittadinanza? Sembrerebbe proprio così, non possiamo
certo nasconderlo; eppure rinunciare al tentativo di comprendere la cittadinanza e le sue
antinomie costitutive equivarrebbe, ancora una volta, a negarsi la possibilità di
immaginare altre forme della politica e di ideare nuovi modi di vivere in comune. La
costruzione del comune non può prescindere dalla ridefinizione della cittadinanza.

3.3.3 L’antinomia costitutiva: una dialettica senza fine

La nostra tesi, riprendendo il ragionamento di Balibar, è che il concetto di cittadina nza


sia il prodotto di un movimento perenne - e costitutivo - tra i due poli di ciò che
contraddistingue, e rende instabile, la politica moderna: da una parte, nei termini del
filosofo francese, una politica dell’insurrezione, dall’altra una politica della
costituzione.126 Per insurrezione, precisa Balibar, dobbiamo intendere l’azione di “coloro

124 Ivi. p.12


125 Ivi,p. 89
126 Balibar, E. Le frontiere della democrazia, trad. it, Roma, Manifestolibri, 1993, p. 89.

140
che si rivoltano collettivamente contro il dominio e per l’affermazione della libertà e
dell’uguaglianza”, che sono poi “coloro che la storia ha chiamato insorti, insorgenti,
insurgentes”127 . Non possiamo dunque pensare al concetto di cittadinanza senza far
continuamente riferimento a questa sua dimensione costitutiva, cioè l’istituto giurid ico
della cittadinanza che, oltre a cristallizzare determinati rapporti di forza nella società,
sancisce i diritti, gli obblighi e le garanzie a chi ne è titolare. Sotto questa luce la
cittadinanza appare come uno spazio di conflitto, un campo di contrattazione, dove la
posta in gioco è appunto la sua stessa (ri)definizione. Lungi dal poter essere ridotta
solamente a ciò che abbiamo definito il processo di “vestizione” dell’individuo, o, per
dirla con Foucault, a quel meccanismo di “fabbricazione” dell’individuo come cittadino,
la cittadinanza è attraversata e sfidata da un insieme di movimenti di soggettivazione che
si collocano sul terreno che Balibar ha definito della “politica dell’insurrezione”. È ai
margini della cittadinanza che allora dobbiamo posizionare il nostro ragioname nto.
Concentriamoci allora su quelle istanze di soggettivazione che rendono poroso l’istituto
freddo della cittadinanza, che lo sfidano dall’interno e che prendono le mosse appunto dai
suoi confini128 . Solo per citare un esempio: se da una parte la Rivoluzione francese del
1789 conduce sì alla proclamazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino; dall’altra, apre altresì un forte campo di tensione dove verrà tematizzata la
questione dei diritti politici129 . Qualche anno più tardi i sanculotti di Parigi cominciaro no
a mettere in discussione la stessa determinazione, astratta e vuota, dei diritti di
cittadinanza e dunque di quella formidabile carta di diritti. Vediamo qui il continuo
incontro/scontro tra una dimensione materiale (politica) e una dimensione giuridica.
Dalla rivoluzione francese in poi va diffondendosi l’idea che i diritti di cittadinanza, e i
doveri a essi corrispondenti, andassero perimetrati all’interno di un quadro nazionale. Il
concetto di nazione emergerà in tutta la sua potenza proprio dal formalismo cosmopolita
presente agli albori de la Révolution. Come scrive Sandro Mezzadra, “con il passare degli
anni, con la rivoluzione assediata dai suoi nemici esterni”, nel quadro delle guerre
napoleoniche, il popolo cessò di designare “unicamente un corpo politico e assunse il
significato di unità storica, appunto di quella nazione di cui da questo momento in avanti

127 Id. La paura delle masse, Politica e filosofia prima e dopo Marx (1997), trad. it., Milano, Mimesis,
2001, p. 246.
128 Cfr. Mezzadra S. Cittadinanza. Soggetti, ordine, diritto, Bologna, CLUEB, 2004, pp. 35-36.
129 Per approfondire la classica tripartizione formulata da Marshall si ved: Marshall T.H. Cittadinanza e

classe sociale; a cura di Paolo Maranini, Torino: Unione Tipografico-Editrice, c1976

141
si cercò di spiegare l’identità e di giustificare le pretese”130 . Anche il concetto di nazione,
d’altro canto, risulta profondamente ambivalente: da fondamentale veicolo
d’emancipazione, quel “dolce canto che solleva le masse” (per riprendere Frantz Fanon)
che diede avvio alle lotte di liberazione nazionale nel corso dell’Ottocento fino ad arrivare
alle lotte anticoloniali del secondo dopoguerra, ponendosi come base legittimante del
potere politico e dunque della cittadinanza 131 ; a istanza conservatrice, nonché reazionaria,
ipotecata dalle dottrine razziste e antisemite. Eppure sappiamo bene come, nel corso
dell’Ottocento, nel contesto dei processi di industrializzazione, la violenta affermazio ne
della “questione sociale” fece emergere tutte le contraddizioni di quella che era
immaginata come una compatta e omogenea “comunità nazionale”.
Lungi dal rappresentare un mero istituto giuridico, la realtà della cittadinanza, nel suo
inscindibile rapporto con la democrazia, si presenta come un conflitto non risolto, o
meglio come un conflitto che non riesce mai a produrre una sua vera sintesi. Un
movimento dialettico senza fine, dunque, che determina, da una parte, una sorta di crisi
permanente costitutiva del concetto stesso di cittadinanza; mentre, dall’altra, rappresenta
un campo di “speranza” e di sperimentazione sul terreno materiale della cittadinanza. Per
far luce sul concetto di cittadinanza non possiamo prescindere dalla dimensione politica,
conflittuale, della stessa. Dobbiamo, cioè, in qualche modo seguire le tracce di quello che
con Balibar abbiamo definito un conflitto non risolto, in continua evoluzione, che si
sviluppa “dietro le quinte della cittadinanza”132 , e che ha come contenuto le violenze
discriminatorie, le disuguaglianze di status e di diritti.
In base a quanto detto, interessante risulta insistere sulla riformulazione della
preposizione arendtiana del “diritto ad avere diritti diritti”133 proposta sempre da Balibar
nel tentativo di superare i limiti posti inizialmente dall’autrice. Balibar invita a cogliere
l’uso politico di questa formula, andando oltre la “definizione strettamente normativa” e
passando da un’idea di potere costituito a un’idea di potere costituente. È qui la novità
introdotta dallo studioso francese. Se per Hannah Arendt quel “diritto ai diritti ”
rappresenta, ci pare, un qualcosa di aprioristico, che trascende l’esistenza degli uomini e
che, dunque, si carica di forti tendenze umanistiche ipotecate dall’appartenenza allo
Stato-nazione, con Balibar quel “diritto ai diritti” non prefigura uno spazio (pre)costituito,

130 Cit. Mezzadra S. Cittadinanza. Soggetti, ordine, diritto, Bologna, CLUEB, 2004, p.38
131 Contestando il fondamento dinastico del potere.
132 Balibar. E., Cittadinanza, Torino, Bollati Boringheri, 2012, p.101.

133 Arendt, H., Le origini del totalitarismo, 1951, Edizioni di Comunità 1996, pp. 410-419.

142
bensì uno spazio di possibilità e di lotta, e, ancora, la capacità attiva di rivendicare dei
diritti in uno spazio pubblico, o meglio, di “non essere escluso(a) dal diritto di battersi
per i propri diritti”134 . In quest’ottica la formula arendtiana del “diritto ai diritti” rimanda
non tanto a una riflessione sull’istituzione della cittadinanza, quanto a una rifless io ne
sull’accesso alla cittadinanza, o alla “cittadinanza come accesso o come insieme di
condizioni di accesso”135 . È proprio con questo ostacolo che si scontrano molti gruppi
sociali nelle nostre democrazie “sperimentando il limite fluttuante tra la resistenza e
l’esclusione”136 . Potremmo dunque sostenere che quel “diritto ai diritti” si gioca, ancora
una volta, ai margini della cittadinanza, dove il confine labile tra inclusione ed esclusione
segna violentemente la vita di migliaia di individui che sperimentano, sulla propria pelle,
le contraddizioni dello stesso concetto di cittadinanza. È dunque sulle frontiere della
cittadinanza che viene esplicitato materialmente quel diritto ai diritti, cioè la possibilità
per le singolarità di esprimersi e rivendicare, e, ancora, di esistere politicamente137 .
Soffermiamoci ora sulle regole di inclusione e sulle regole di esclusione che determina no
l’ammissione al “club” della cittadinanza, per usare un cinico “tecnicismo” dei politolo gi.
A questo riguardo è importante insistere sulla correlazione tra regole di inclusione e
regole di esclusione, nonché sul loro ruolo strutturale nel determinare una comunità
politica. Banalmente si può affermare che l’esclusione politica è l’altra faccia della
costituzione della cittadinanza. È attraverso un continuo gioco di specchi che l’individ uo
ha costruito la sua immagine come cittadino, fabbricando, di contro, tutta una serie di
soggettività altre escluse appunto dall’istituto della cittadinanza. In altri termini, si dà
cittadinanza politica solo nella misura in cui operi questo movimento di continua
inclusione ed esclusione. Come dicevamo, è importante tenere a mente la correlazione tra
regole di inclusione ed esclusione per evitare di pensare che la violenza si collochi
unicamente sul versante dell’esclusione. Come si è già avuto modo di dire, l’inclus io ne
può essere altrettanto violenta, nella forma dell’assimilazione forzata (per riprendere la
categoria di integrazione che abbiamo citato precedentemente). Se la violenza è
onnipresente in questa sfera, sia sul lato dell’esclusione che su quello dell’inclusio ne,
allora, si potrebbe dire, che la cittadinanza è un istituto politico volto a mediare tale
violenza, senza però riuscire a sopprimerla mai del tutto. Da questo punto di vista la

134 Balibar. E., Cittadinanza, Torino, Bollati Boringheri, 2012, p 89.


135 Ivi., p. 100.
136 Ivi.p.90
137 Ibidem.

143
cittadinanza non corrisponde a una definizione preesistente della comunità, che porta a
discriminare i cittadini dai non cittadini, ma è la fotografia di un conflitto non risolto e,
ancora, l’istituzione, sempre parziale e mutevole, di un continuo movimento dialettico 138 .
Ciò che fin qui abbiamo tentato di fare è stato mettere in discussione l’idea di una
cittadinanza fondata sul consenso, o “che ricerca una forma superiore di consenso
comunitario”139 e, ancora, di una cittadinanza intesa come dimensione squisitamente
giuridica, immune dalla corruzione della politica. Piuttosto che leggere la cittadina nza
come un campo definito da titolarità di diritto, abbiamo cercato di farne emergere le
problematicità, le linee di tensione “tra gli ordinamenti oggettivi della politica e le forme
soggettive che premono per riaprire ciò che nei primi è dato per scontato e, quindi, almeno
in apparenza chiuso”140 . È sulla linea di frattura tra piano formale e pian(i) materiali della
cittadinanza che si gioca lo stesso concetto. Un concetto in movimento dunque, o meglio
un concetto messo in movimento, che oscilla continuamente tra una dimensione costituita
e una dimensione costituente.

3.3.4 Lotte lungo le frontiere della cittadinanza

Come accennato in precedenza, sono le figure, gli attori e, ancora, i gruppi sociali
“posizionati” lungo i confini della cittadinanza141 quelli sui quali dobbiamo porre la
nostra attenzione: dobbiamo cioè concentraci sui processi di soggettivazione che si danno
nell’atto stesso di sfidare un determinato confine e, ancora, sulle pratiche di lotta che
concorrono a trasformare l’immagine stessa della cittadinanza. Assumiamo cioè il punto
di vista della cittadinanza intesa una come pratica sociale che sfida continuamente i propri
confini. Stiamo qui riferendoci a donne e uomini che attraversano e che rimettono in
discussione i confini; a ciò che li disarticola e li obbliga a ricomporsi sotto altre forme.
Stiamo parlando dello scontro tra pratiche di soggettivazioni e dispositivi di controllo; di
mobilità, di esercizi di libertà, e di tentativi di imbrigliamento della mobilità, di quella
libertà. E ancora, di “macchine da guerra” che tracciano confini, che lavorano a costruire

138 Cfr. ivi., pp. 97-103.


139 Ivi.111
140 Chignola S., Lavoro e cittadinanza migrante; relazione al seminario di Uninomade del 13 febbraio 2010.

http://www.meltingpot.org/Lavoro-e-cittadinanza-migrante.html#.VjeT8rcvfcc
141 Ovviamente in questione non sono solo i confini «geopolitici» ma anche quelli di razza, di classe e di

genere, ovvero quei confini materiali che innervano, e gerarchizzano, le società al loro interno.

144
e fissare la cittadinanza come spazio ermetico, barricato a difesa di una presunta, quanto
mai fantasiosa, identità omogenea, e di donne e uomini i cui movimenti sfuggono al
controllo di quella macchina da guerra. Stiamo parlando di condizioni di coazione e di
ricerca di libertà.
Questa prospettiva, ovviamente, consente di lavorare su un concetto di cittadina nza
sempre aperto e in continuo divenire, o meglio di assumere la cittadinanza non tanto come
un istituto statico, dato una volta per tutte, ma come un processo inconcluso, un campo di
battaglia tra dimensione materiale e dimensione formale, e ancora tra pratiche di
soggettivazione e pratiche di controllo. È solo nella misura in cui assumiamo il carattere
mobile del concetto di cittadinanza che possiamo immaginare forme altre della
cittadinanza, capaci di andare oltre la mera attribuzione nazionale e aprirsi verso nuove
dimensioni comuni della convivenza.
È interessante soffermarsi sulla figura del migrante in quanto singolarità che destruttura
gli ordinamenti che attraversa, e cioè “prendere sul serio la possibilità che i processi di
soggettivazione e le lotte che si determinano nella migrazione concorrano a produrre una
trasformazione […] della stessa immagine della cittadinanza”142 .
Si tratterà allora di liberarsi dalle retoriche politiche che avvolgono il fenomeno
migratorio, veicolando l’immagine apocalittica dell’invasione e dell’emergenza. E
ancora, si tratterà di osservare quella che potremmo definire l’altra faccia delle
migrazioni, quella cioè che ne definisce il lato soggettivo. Uno sguardo “di parte”
potremmo anche dire, uno studio “dal basso” delle migrazioni contemporanee intese
come movimento sociale143 . Si badi bene, l’essere di parte non significa assumere un
approccio per così dire ideologico e quindi travisare la realtà fattuale. Significa più
precisamente cogliere la potenza di tale movimento nel “mette(re) radicalmente in
discussione l’insieme delle categorie e dei concetti sui quali la cittadinanza edifica la
propria definizione, revocandone in causa il riferimento antropologico-politico classico”,
ovvero “il cittadino”144 . Senza, per questo motivo, cadere nelle retoriche che, da una parte,

142 Cit. Mezzadra, S. Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, ombre corte, 2006,
p.136.
143 Intendere le migrazioni come movimenti sociali significa prendere sul serio una certa autonomia delle

migrazioni, sottolineando il protagonismo dei migranti, da un lato, e la pesantezza delle condizioni


oggettive di cui i migranti fanno quotidiana esperienza lungo tutto l’arco del percorso migratorio. Assumere
le migrazioni come movimenti sociali significa declinarle in chiave soggettiva, ovvero che al loro interno
confluiscono desideri, speranze, immaginari che possono nutrire “una radicale riqualificazio ne di concetti
quali, integrazione giustizia e libertà” (Mezzadra, 2006).
144 Cito testualmente dalla relazione Lavoro e cittadinanza migrante, presentata da Sandro Chignola in

occasione del seminario organizzato da Uninomade il 13 febbraio 2010 e presente in


http://www.meltingpot.org/Lavoro-e-cittadinanza-migrante.html#.VjjINLcvfcc

145
parlano in maniera per così dire apologetica della soggettività migrante in quanto agente
immediatamente rivoluzionario 145 , e dall’altra, rappresentano il migrante come soggetto
debole, come vittima da compatire e da accogliere in maniera paternalistica. Dunque non
un eroe, ma neppure una mera vittima. Con la consapevolezza, però, che l’esperienza
della migrazione, o detto altrimenti quella ricerca radicale di libertà del migrante, si
svolge, il più delle volte, all’ombra della guerra, della miseria, della paura146 . Non
possiamo dimenticarlo. Non possiamo non tenere a mente la drammatica materialità che
ne accompagna le pratiche, nonché la morte come contraltare di quella ricerca della libertà
e di uguaglianza147 che sta alla base della mobilità dei migranti.
Il migrante, in quest’ottica, è la soggettività di riferimento che attraversa – fisicamente -
e destruttura l’ordinamento giuridico della cittadinanza rendendone porosi i confini e
costringendolo ad aprirsi continuamente al movimento dialettico tra il polo
dell’insurrezione e il polo dell’istituzione, per riprendere la formula proposta da Balibar.
Come ha avuto modo di notare Sandro Chignola, in una sua relazione al seminar io
organizzato dalla rete Uninomade nel 2010, a cui torneremo a fare riferimento, il migra nte
è “il perturbante concreto della nozione giuridica astratta di cittadinanza”148 .
Nella nozione classica della cittadinanza convivono due aspetti: il riconoscime nto
formale e la tutela (pratica) dei diritti da un lato, un radicale principio di esclusione
dall’altro. Su questo secondo lato, la cittadinanza viene identificata in quanto status.
Eppure la cittadinanza non si presenta solo in quanto status. Essa è anche “empowerment”,
ovvero insieme di rivendicazioni e istanze conflittuali. È dunque su questo piano che (la
cittadinanza) si trova costitutivamente in tensione con le pratiche che la sfidano. Per
riprendere la felice espressione avanzata da Engin Isin, la cittadinanza deve essere
considerata come una “istituzione in scorrimento” (“citizenship is an institution in

145 Mi riferisco qui all’immagine della figura del migrante, quale nuovo soggetto rivoluzionario che si
muove all’interno dell’Impero, descritta da Negri e Hardt nel loro “monumento ” Impero. Mi pare, come
già ribadito nel capitolo II a proposito dell’autonomi del lavoro, che i due autori nutrano una smisurata fede
nella prossimità di un evento rivoluzionario che neanche loro sanno bene né quando né dove e soprattutto
chi ne sarà l’artefice.
146 Si veda il libro di Sossi, F. Migrare: spazi di confinamento e strategie di esistenza, Milano, Il saggiatore,

2007
147 Mi riferisco qui alle stragi registrare, per prendere un esempio a noi prossimo, nel mediterraneo; che

hanno letteralmente trasformato quella porzione di spazio marino in un luogo dove il potere mostra tutto il
suo volto necropolitico. Vere e proprie politiche di morte sono in azioni nei regimi di controllo e
pattugliamento dei confini, dove in gioco c’è la vita stessa. A riguardo si veda, Mbembe, A., Necropolitica,
Verona, Ombre Corte, 2014 e Sciurba, A. Campi di forza: percorsi confinati di migranti in Europa; Verona,
ombre corte, 2009.
148 Cito testualmente dalla relazione Lavoro e cittadinanza migrante, presentata da Sandro Chignola in

occasione del seminario organizzato da Uninomade il 13 febbraio 2010 e presente in


http://www.meltingpot.org/Lavoro-e-cittadinanza-migrante.html#.VjjINLcvfcc

146
flux”)149 , fluida; un’istituzione fratturata – costitutivamente – al suo interno da conflitti
politici e sociali nei quali si producono importanti processi di soggettivazione. È bene
dunque soffermarsi su quella dinamica di costante riconfigurazione soggettiva della
cittadinanza, perché non possiamo intenderla solamente, ripetiamolo ancora una volta,
come un blocco di diritti stabili o semplicemente come un principio di inclusione più o
meno aperto. Con Engin Isin possiamo dire che la cittadinanza coinvolge “attori”, “siti”
e soprattutto “azioni”.
Di attori di cittadinanza possiamo parlare solo andando oltre la griglia che perimetra
l’azione politica istituzionalizzata assegnata ai cittadini legalmente riconosciuti. Con
Saskia Sassen, ad esempio, possiamo parlare di nuove figure che premono continuame nte
su quelli che abbiamo definito i confini della cittadinanza cercando di ridefinir li
costantemente. “Soggetti autorizzati ma non riconosciuti” (come potrebbero essere le
figure del precariato sociale oggigiorno) e soggetti “riconosciuti ma non autorizzati” (i
migranti “clandestini”) attraversano, sfidandone i dispositivi di controllo, i quadri della
cittadinanza formale. Quelli che con Engin Isin chiamiamo “attori” della cittadina nza
sono quei soggetti i cui claims, le cui rivendicazioni e istanze, si dimostrano irricevib ili
nel sistema di rapporti stabilizzati nella formula giuridica della cittadinanza.
Quando parliamo di “siti” della cittadinanza, parliamo dei luoghi, degli spazi politici della
cittadinanza. Per cui, quali spazi? Per quanto riguarda il nostro discorso sul comune,
ovvero sulla costruzione comune di uno spazio altro della politica e dunque della
cittadinanza, dobbiamo sbarazzarci di alcuni concetti classici inerenti alla spazialità
politica. Quando Isin parla di “siti” della cittadinanza non sta riferendosi allo Stato, alle
nazioni o, ancora, a regioni di un mondo globale, ma a dei “luoghi di contaminazione in
cui vengono assemblate, montate, connesse rivendicazioni, questioni, revoche di
evidenza”150 . Sono dunque luoghi in cui si territorializzano i conflitti, violenti confronti
tra ricerca di libertà e dispositivi che tentano di controllarla e, ancora, scenari di scontro
che forzano quei maledetti confini della cittadinanza. Si badi bene, non si tratta di luoghi
“fisici” predeterminati in quanto la politicità di un determinato spazio è connessa
costitutivamente a quelli che chiamiamo gli “atti” di cittadinanza. Dunque, in quest’ottica ,
lo spazio politico viene prodotto dall’azione immanente di donne e uomini, dalla
territorializzazione di un conflitto. Negli anni ne abbiamo avuti dei formidabili esempi:

149 Isin, E.F. Citizenship in Flux. The figure of the Activist Citizen, in “Subjectivity”, vol.XXIX, PP.367-
388, 2009. http://www.palgrave-journals.com/sub/journal/v29/n1/full/sub200925a.ht ml.
150 Cfr. ivi. pp. 380-382

147
pensiamo alle lotte dei sans- papiers in Francia nel 2005151 , al “dìa sin migrantes” dei
latinos negli USA il 1 maggio 2006, quel “somos equales” nell’inno naziona le
statunitense cantato in spagnolo dai migranti messicani, e, ancora, alla formidabile lotta
che i migranti hanno portato avanti nell’estate di quest’anno a Ventimiglia, al confine tra
Italia e Francia. Al grido “we are not going back” stanno sfidando il “ping pong
(dis)umano” attuato dalle autorità francesi e da quelle italiane, rivendicando il loro diritto
a passare152 . Non possiamo esimerci, neanche in questa sede, dal ricordare lo sforzo di
tutti i migranti e gli attivisti impegnati tutt’ora in questa battaglia. A loro tutti va la nostra
solidarietà e il nostro appoggio.
Riprendiamo il filo del discorso. Quelle che abbiamo appena portato alla luce sono
evidentemente lotte capaci di materializzare politicamente la nozione di cittadinanza, di
farne una pratica concreta e, ancora, un esercizio di libertà, esattamente nella misura in
cui rendono elusivo il suo quadro formale e, disarticolandone i confini, evidenziano al
contempo l’irruzione dei processi di soggettivazione sul terreno dei diritti. D’altronde
siamo d’accordo con Judith Butler quando, coerentemente con la visione aredtiana della
libertà153 intesa come un esercizio plurale e concertato, vede nell’atto performativo del
“dirsi liberi”, un momento per così dire rivoluzionario 154 , in quanto capace di rompere i
limiti del reale e proiettarsi in avanti, configurando politicamente una situazione in
divenire. Sono “azioni di cittadinanza”, dunque, quelle dinamiche di attivazione sociale
che fanno emergere con forza un’istanza; sono quei claims di giustizia e di libertà che
provengono da chi non ha titolarità giuridica per farlo e che prendendo parola, qualifica
un’esclusione, la rende percepibile, rovesciando l’ordine del discorso sul quale vengono
assegnate le parti. Tornando all’atto performativo del “dirsi liberi”, a cui si riferisce Judith
Butler, i chicanos hanno modificato gli equilibri interni agli spazi di inclus io ne
democratica rifiutando le modalità della loro gestione. Per atti di cittadinanza dobbiamo
intendere quelle pratiche e, ancora, quei comportamenti – collettivi - che introducono
nuovi attori negli spazi della cittadinanza. In questo senso, i nuovi attori che si muovono
e agiscono lungo le linee di frontiere della cittadinanza contribuiscono a metterne

151 Rimando al piccolo «manifesto» di Etienne Balibar scritto in solidarietà all’occupazione, nel lontano
1996, della chiesa di Saint- Bernard da parte di un gruppo di circa 300 sans papiers per evidenziare la
drammatica situazione in cui versavano. Si chiedeva la legalizzazione del loro “soggiorno”, si rivendicava
il diritto al maledetto “papiers”. Il “discorso” di Etienne Balibar, Ce que nous devons aux sans-papiers,
1996, è consultabile sul sito http://eipcp.net/transversal/0313/balibar/fr.
152 A riguardo si veda il bellissimo libro di Gloria Anzaldua Terre di confine/La Frontera, Bari,

Palomar,2000.
153 Arendt H. Vita activa: la condizione umana, Milano, Bompiani, 1989
154 Cfr. J.Butler e G.Ch.Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione? Meltemi, Roma, 2009 pp.56-60.

148
continuamente in discussione le forme e le gerarchie interne. Da questo punto di vista, i
migranti, cioè quei “soggetti che attraversano e negoziano i paesaggi di confine
mondiali”155 , percepiti come “immanent outsiders” rispetto alla cittadinanza, per
riprendere una formula proposta da Engin Isin e Peter Nyers nel loro libro Routledge
Handbook of Global Citizenship Studies (2014), non vivono tuttavia in un rapporto di
esteriorità con lo spazio politico. Al contrario, come abbiamo visto, lo (de)istituisco no
come scena politica e come quadro sempre in tensione. Se accettiamo tutto ciò, cioè se
assumiamo la cittadinanza come una pratica politica e, ancora, come un’agency, ovvero
una capacità di agire che significa, d’altronde, capacità di sottrazione dall’ordine del
discorso dominante, di liberazione dalle rappresentazioni prodotte da altri e soprattutto
capacità di intervento diretto su uno spazio politico, allora possiamo dire che la
cittadinanza si qualifica come uno spazio di conflitto, come un terreno di lotta, e non tanto
nell’appello retorico, ma nella materialità appunto delle pratiche che la mettono sotto
scacco continuamente.
Evidenziarne le dinamiche conflittuali, si badi bene, non significa non tener conto della
dimensione giuridica della cittadinanza156 , bensì cogliere il carattere di movimento
dialettico costitutivo dello stesso concetto e sottolineare l’irriducibilità del conflitto. In
quest’ottica, allora, la cittadinanza sembrerebbe fotografare un’oscillazione interminab ile
“tra i due poli astratti di una cittadinanza senza conflitto civile e di un conflitto senza
istituzione”157 , senza mai riuscirne a produrre una sintesi. È quella che Balibar chiama
“l’unità dei contrari”. Istituzione e conflitto risultano due poli inscindibili che
configurano, di volta in volta, nuovi quadri giuridici e nuove pratiche materiali.
Ciò che emerge è dunque un’aporia, un paradosso al cuore dello stesso concetto di
cittadinanza democratica (o del comune), un “enigma senza soluzione definitiva”158 , e
ancora, un insieme di conflitti e di definizioni antitetiche. Tutto questo sembra suonare
all’orecchio di qualcuno come una rinuncia a (ri)cercare soluzioni capaci di andare oltre
la dinamica dialettica che sottende il concetto di cittadinanza. Rassegnazione ad uno stato

155 Cit. Mezzadra, S. e Neilson, B., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale,
Bologna, Il Mulino, 2014, p. 183.
156 Non dobbiamo dimenticare l’importanza cruciale che assume la dimensione giuridica: pensiamo a cosa

significa il permesso di soggiorno nelle esperienze di vita dei migranti, nelle loro aspettative di breve-medio
periodo. E soprattutto dobbiamo renderci conto della drammaticità di vivere la minaccia permanente
dell’espulsione. Per questo motivo non ha nessun senso dipingere in maniera estetizzante la condizione del
“clandestino” facendone la base per progetti di soggettivazione. Ovviamente rimane aperta una questione,
ovvero come immaginare una modalità d’inclusione che permetta in qualche modo i valorizzare la
differenza, quella che contraddittoriamente rifiuta la normalizzazione e dunque l’inclusione.
157 Cit. Balibar. E., Cittadinanza, Torino, Bollati Boringheri, 2012, p 131.
158 Ivi,p. 14.

149
di cose presenti? Crediamo piuttosto che si tratti di essere consapevoli del fatto che non
possiamo rinunciare a nessuno dei due poli che definiscono l’essenza della cittadina nza
stessa. Del resto è la stessa politica moderna nel suo complesso a essere contraddistinta
da una costitutiva instabilità159 . La sfida sarà allora, come richiamato all’inizio del
paragrafo, quella di mantenere aperto il movimento dialettico tra istituzione e conflitto,
laddove, oggigiorno, a fronte dei processi di de-democratizzazione operati dal
neoliberalismo160 , per usare una felice espressione di Wendy Brown, quest’ultimo viene
depotenziato e privato di ogni suo (nobile) significato. Si tratterà allora di riaprire spazi
di conflitto che le pratiche neoliberali cercano di silenziare e, peggio ancora,
criminalizzare. Il neoliberalismo tende a neutralizzare il più possibile l’elemento di
conflittualità insito nell’attività politica e a creare le condizioni di una società in cui le
azioni dei propri cittadini risultino prive di politicità. Crediamo che solo recuperando
l’essenza stessa della democrazia (vera), e cioè riattivando il polo insurrezionale, che
rappresenta la (sola) modalità attiva della cittadinanza, possiamo disegnare nuove
traiettorie democratiche capaci di parlare il linguaggio di quella che, sempre Balibar,
chiama egaliberté. Questa crediamo possa essere una buona via da seguire per provare a
spingere la nostra immaginazione politica, nuovamente, verso nuove forme democratiche
di convivenza e verso nuovi spazi nei quali affermare e costruire il comune come nuova
dimensione politica.

159Si veda Ricciardi, M. Rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 2001.


160 Brown, W., Edgework : critical essays on knowledge and politics, Princeton, Oxford, Princeton
university press, 2005

150
4) Afferrare il comune (per non rassegnarsi alla “fine della
storia”)

Spesso abbiamo stampato la parola democrazia. Eppure non mi


stancherò di ripetere che è una parola il cui senso reale è ancora
dormiente, non è ancora stato risvegliato, nonostante la
risonanza delle molte e furiose tempeste da cui sono provenute
le sue sillabe, da penne o lingue. È una grande parola la cui
storia, suppongo, non è ancora stata scritta, perché quella storia
deve ancora svolgersi.

Walt Withman,
Prospettive democratiche.

Jean Dubuffet - Affluence


4.1 Uno spettro di nome moltitudine. L’Uno e i Molti.

Come può una moltitudine cieca, che spesso non


sa cosa vuole… affrontare un’impresa ardua e di
ampio respiro come un sistema legislativo?
J.J.Rousseau,
Il Contratto sociale.

La peggiore delle moltitudini ha fatto qualcosa


per il bene comune.
Bernard de Mandeville,
L’alveare scontento.

Nel variegato mondo della politica radicale contemporanea in molti hanno provato ad
avanzare possibili soluzioni ad un presente rassegnatosi alla fine della storia,
all’immobilismo. In molti hanno cercato di tratteggiare i contorni di un futuro utopico.
Innumerevoli sono i progetti teorizzati (a prescindere dalla loro validità o meno)
egualitari, cosmopoliti, ecologi, democratici ecc., ma nessuno è riuscito a rispondere al
problema più complicato: chi ne sarà l’artefice? Chi è (se c’è) o chi sarà il soggett o
“potenzialmente rivoluzionario” capace oggigiorno di rompere le basi dello sfruttame nto
dell’uomo sull’uomo e aprire alla costruzione di uno spazio altro (della politica) fondato
sul connubio radicale tra libertà ed uguaglianza 1 ? E ancora, quale soggetto politico potrà
incoronarsi come “erede” (in netta discontinuità/continuità) del movimento operaio e di
chi voleva “dare l’assalto al cielo”?
Fermo restando che non c’è nessun cielo a cui dare l’assalto né tantomeno nessun
“palazzo d’inverno” da conquistare, inteso come centro supremo e superiore del potere,
quale nuova(vecchia) figura soggettiva della politica?
La ricerca di nuove figure di soggettività politica è stata al centro dei dibattiti critici
dell’ultimo ventennio, cioè dal momento in cui il crollo del “socialismo reale” e l’esaurirs i
della “missione storica”, di cui era stata investita la classe operaia, sembravano cadere

1 Si veda. Balibar, E. La proposition de l'égaliberté : essais politiques, 1989-2009, Paris, Presses


universitaires de France, 2010.

152
sotto il peso della storia e della sua conseguente fine. Eppure c’è chi alla “fine della storia”
non si è mai rassegnato.
Dicevamo nuove soggettività a fronte di un contesto completamente capovolto. Parlare
di soggettività significa per noi , come sottolineano puntualmente Sandro Mezzadra e
Brett Neilson nel loro ultimo libro più volte citato, farlo nello spirito di Marx, che ha
sempre puntato a combinare uno “specifico processo di costituzione della soggettività
nell’età del capitale, e perciò delle specifiche tecnologie o pratiche che hanno dato forma
a questo processo di costituzione”, con un’esplorazione del “tema della liberazione della
soggettività, in altre parole il tema della soggettività rivoluzionaria”2 . Questo porta a
considerare, con Foucault, la soggettività come un campo di battaglia, uno spazio
conflittuale dove pratiche di soggettivazione si scontrano con i molteplici dispositivi di
assoggettamento che cercano di plasmare le nostre vite. La soggettività è sempre una
posta in gioco e dunque un campo di tensione e di scontro. Soffermarsi sulla formula
“produzione di soggettività” significa prendere in considerazione che la soggettività è al
contempo prodotta e, a sua volta, capace di produrre. Come scrive Jason Read, questa
formula descrive “la costituzione della soggettività, di un particolare comportamento
soggettivo, e a sua volta il potere produttivo della soggettività, la sua capacità di produrre
ricchezza”3 .
Alla radice di questa ricerca vi è nuovamente la perenne questione dell’Uno e dei molti
visto che abbiamo posto la ricerca del comune in termini di composizione delle
differenze. Da questo punto di vista il concetto di moltitudine dà conto delle sfide poste
da un presente globale e da uno spazio che, lungi dal poter essere rappresentato come
omogeneo e pacificato, è sempre più eterogeneo e frammentato. Abbiamo rilevato nel II
capitolo come il lavoro biopolitico ecceda sistematicamente i limiti del comando
capitalistico, ovvero, per dirla banalmente, che il capitale non riesce più, a fronte delle
trasformazioni che caratterizzano il capitalismo odierno, a riprodurre le condizio ni
effettive per attivare il processo produttivo ma si “limita” ad espropriare ciò che il lavoro
produce autonomamente. Il capitale sarebbe dunque sempre più predatorio. Abbiamo
posto delle riserve ovviamente a questa visione alquanto ottimistica di quella che
potremmo definire una sorta di emancipazione del lavoro nei confronti del capitale.

2 Samaddar, R. The Emergence of the Political Subject, New Delhi, Sage, 2010, p.28, Cit. in Mezzadra, S.
Neilson, B., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale. Bologna, Il Mulino,
2014, p. 320.
3 Cit. Read, J. The micro-politics of capital: Marx and the prehistory of the present , New York, State

University of New York Press, 2003, p. 102.

153
Interessante è osservare come le forme della produzione capitalistica oggigior no
investono sempre più le relazioni sociali e le forme di vita. Le trasformazioni interne al
capitale hanno prodotto di conseguenza una radicale eterogeneizzazione delle forme del
lavoro non più rappresentabili per mezzo dell’unità della classe operaia. Quella supposta
unità è stata dunque sfidata da una proliferazione di figure soggettive. Partendo da questo
dato oggettivo, c’è da chiedersi quale (nuovo) soggetto politico possa in qualche modo
far fronte alle sfide poste da un presente sempre più globale e sempre meno intellegib ile.
A riguardo il concetto di moltitudine (si badi bene: non si sta parlando di un soggetto
politico preincartato e dunque pronto per agire politicamente) parrebbe essere uno
strumento decisivo per riflettere sulla nostra sfera pubblica contemporanea.
Che cosa intendiamo per moltitudine? Prima di essere, stando all’analisi che ne fanno
Hardt e Negri nei loro scritti, la sola base di partenza per poter pensare “un’azione politica
che miri alla trasformazione e alla liberazione”, ovvero l’insieme di tutti “coloro che
lavorano sotto il comando del capitale e dunque, almeno in potenza, come la classe di
tutti coloro che rifiutano il comando del capitale”4 , la moltitudine è ciò che ci consente di
prendere le distanze dall’unità fittizia del popolo.

La moltitudine è una molteplicità, un insieme di individualità, un complesso


di relazioni, che non è omogenea e identica al suo interno e mantiene un
rapporto indistinto e inclusivo con chi ne sta fuori. Il popolo invece tende
all’identità e all’omogeneità interne pur affermando la propria differenza da
chi ne sta fuori ed escludendolo. Mentre la moltitudine è un insieme di
rapporti non conclusi e da realizzare, il popolo è una sintesi realizzata pronta
per la sovranità. Nel popolo sono presenti una sola volontà e un solo agire
indipendente da e spesso in conflitto con le molteplici volontà e i molteplic i
agire della moltitudine. Ogni nazione deve trasformare la moltitudine in
popolo5 .

Questo ci riporta nuovamente a quel passaggio ambivalente presente nelle teorie


contrattualistiche che ha determinato la fuoriuscita dallo stato di natura. Per Hobbes,
come abbiamo visto precedentemente riflettendo sul concetto di rappresentanza, il

4 Hardt, M. e Negri, A. Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzo li,
2004, p. 130.
5 Cit.Ibidem.

154
contrasto politico decisivo è quello tra moltitudine e popolo, o meglio tra anarchia e Stato.
La guerra civile sempre incombente si gioca dunque su questa alternativa. La moltitud ine
è riconducibile allo “stato di natura”; dunque, a ciò che precede l’istituzione del “corpo
politico” in quanto Stato. La moltitudine, disordinata e plurale, deve essere ricondotta
all’unità e cioè trasformata in popolo. La moltitudine, secondo Hobbes, rifugge all’unità
politica e, proprio per il suo modo di essere e di agire, plurale e disordinato, è recalcitra nte
all’obbedienza. Nell’ottica del mantenimento dell’ordine, alla moltitudine viene attribuita
dunque un’accezione puramente negativa in quanto elemento di forte rischio per la
macchina statale. Paradossalmente è nell’inquietudine che Hobbes prova di fronte alla
moltitudine in quanto plurale e riottosa che possiamo rintracciare i caratteri
potenzialmente rivoluzionari che lo stesso autore le riserva. Scrive: “i cittadini, allorché
si ribellano allo stato, sono la moltitudine contro il popolo”6 . Evidentemente la
moltitudine nella riflessione hobbesiana rappresenta prima di tutto un problema, tanto è
vero che sono gli stessi individui a scegliere di trasferire i propri diritti naturali al sovrano
e dar vita ad un “corpo politico unico”. Hobbes riconosce le immense potenzialità
politiche della moltitudine ed è per questo che la detesta 7 ; “naturalmente” eversiva e
ferocemente antistatale.
Da Hobbes a Hegel, passando per Rousseau, la moltitudine è sempre stata concepita come
disordine, come elemento destabilizzante e pericoloso. Scrive Hegel: la moltitudine è
“una massa informe, il cui moto e il cui fare appunto perciò sarebbe soltanto elementare,
irrazionale, selvaggio e orribile”8 . Tutto il pensiero politico moderno ha trattato la
moltitudine come il problema da estirpare, il mostro da soffocare. Spinoza carica invece
il concetto di moltitudine di tutta la sua positività e incoronandola quale soggetto unico e
solo della titolarità politica. Per il filosofo olandese, la moltitudine “sta a indicare una
pluralità che persiste come tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva, nella cura
degli affari comuni, senza convergere in un Uno, senza svaporare in un moto centripeto”9 .
La moltitudine è la forma dell’esistenza sociale e politica dei molti in quanto molti,
nonché l’architrave di tutte le libertà civili. Per Hobbes, come sostiene giustame nte
Balibar, “l’unitarietà è l’essenza della macchina politica” […] Per Spinoza, l’unitar ietà

6 Cit. Hobbes, T. De Cive, XII, 8; in Del Lucchese, F., Tumulti e indignatio. Conflitti, diritto e moltitudine
in Machiavelli e Spinoza, Roma, Ghibli, 2004, p. 321.
7 Antonio Negri, L’anomalia selvaggia: saggio su potere e potenze in Baruch Spinoza , Feltrinelli, Milano

1981; Etienne Balibar, Razza, nazione, classe: le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma 1991.
8 Hegel, F. Lineamenti di filosofia del diritto. Al § 303.
9 Virno, P. Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, Catanzaro,

Rubbettino Editore, 2001, p. 5.

155
rappresenta”, appunto, “un problema”10 . E ancora, se con Hobbes il concetto di
moltitudine viene fatto giocare contro quello di popolo e i molti devono dissolvers i
nell’uno per poter esistere politicamente, con Spinoza la moltitudine diviene non solo il
principio di ogni forma di vita politica, ma anche un’inedita possibilità di pensare il
soggetto e l’individuo, un’ontologia11 . La sua idea di moltitudine pertanto “bandisce la
sovranità della politica”, sostituendola con “una politica di rivoluzione permanente […]
in cui la stabilità sociale deve essere sempre ri-creata tramite una costante
riorganizzazione della vita materiale, per mezzo di una perpetua mobilitazione di
massa”12 .
Per il nostro discorso sul comune il concetto di moltitudine è dunque centrale dal
momento che, per dirla molto banalmente, rappresenta il soggetto politico – plurale e
dunque democratico - capace, in potenza, di rompere le basi dello sfruttamento e costruire
uno spazio di libertà ed uguaglianza, il comune. Ciò che riteniamo importante nel concetto
di moltitudine è la sua capacità di essere un formidabile campo di tensione sul quale
dispiegare la produzione delle soggettività e la loro articolazione nella produzione del
comune. Ovviamente i problemi sono molteplici. Per prima cosa, crediamo, bisognerebbe
domandarsi quale tipo di soggettività si produce all’interno della cornice moltitudinar ia;
secondo, come le singolarità che la compongono si articolano tra loro in quanto differe nze
e dunque come la moltitudine possa aspirare o meno a divenire Principe di se stessa, per
richiamare un’espressione già utilizzata precedentemente, e trasformarsi in un attore
politicamente agente. Il concetto di moltitudine consente, nell’attuale contesto
biopolitico, di dar conto di una società caratterizzata da un pluralismo radicale, o meglio
da un’irriducibile molteplicità ed eterogeneità di singolarità, che si sbarazza di qualsias i
figura egemonica del lavoro, rendendo quindi problematica l’individuazione di una
precisa soggettività politica rivoluzionaria. È questa la posta in palio sulla quale
scommettere. Come articolare le molteplici singolarità che abitano la moltitudine? E
soprattutto come avviene questa articolazione? Questa come altre, sono le questioni che
ci interrogano.

10 Cit. Balibar, Razza nazione classe: le identità ambigue, Roma, Edizioni associate editrice internazionale,
1996.
11 Cfr Storia politica della moltitudine: Spinoza e la modernita; a cura di Filippo Del Lucchese Roma:

DeriveApprodi, 2009. p.XV.


12 12 Hardt, M. e Negri, A. Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzoli,

2004, p. 92.

156
Evidentemente non si tratta di un semplice problema di descrizione della moltitud ine,
ovvero chi sono e quali sono le singolarità che la compongono seppur in maniera
frammentaria e dis-continua. Nell’ultimo ventennio, ma probabilmente a partire dagli
anni Sessanta in poi, ovunque si danno moltitudini: da Seattle a Cochabamba, dal Messico
alla Grecia, passando per Genova e per le banlieue parigini. Ma gli esempi potrebbero
moltiplicarsi a piacere se solo riuscissimo a toglierci i paraocchi delle ideologie e cogliere
la radicale politicità che queste moltitudini in lotta esprimono. Si badi bene non interessa
dipingere un quadro a tratti estetizzanti. Ci limitiamo a rilevarne la potenza; e dunque la
capacità di produrre politicamente cambiamento. Insiemi colorati, disparati e nonostante
tutto coesi e potenti, ad ogni modo distanti dalle vecchie forme di organizzazione politica
alle quali siamo tutt’ora abituati: strutture burocratiche, comitati d’affari, carrieristi e
leadership sempre più dispotiche. Libere moltitudini dunque non più rivolte verso il volto
rassicurante del sovrano, come nel frontespizio del Leviatano che all’inizio del III
capitolo abbiamo deliberatamente capovolto, perché non hanno più bisogno di essere
rappresentate per esistere politicamente.
La moltitudine non è il popolo, come abbiamo visto, non è una popolazione X rispetto ad
una popolazione Y, non è una classe liscia e omogenea, né tantomeno un circolo di
“uomini di buona volontà”; non è la forma statica e ambigua di un contropotere che agisc e
solo reagendo al potere. E ancora, la moltitudine non è l’unità, la totalità, l’assoluta
identità, né la differenza chiusa in se stessa. La moltitudine non dovrebbe scegliere tra
l’identità e l’alterità: la moltitudine è allo stesso tempo singolare e comune, è al contempo
identità e alterità13 , è potenza implicita nella composizione stessa delle differenze. È una
serie infinita e molteplice di soggettività diverse 14 .
Concedeteci una piccola deviazione. Abbiamo cercato di evidenziare la costruzione di
uno spazio intersoggettivo, di uno spazio sociale ben diverso da quello che si va
costituendo nell’età moderna: cioè uno spazio in cui l’essere insieme non è un qualcosa
di aprioristico, dato all’origine da una appartenenza di specie o di natura bensì da un
processo di costituzione comune delle singolarità che, a loro volta, però, non cessano mai
di prodursi e reinventarsi nel loro articolarsi e nel loro farsi moltitudini. La moltitudine è
dunque la forma del divenire comune delle singolarità. Se questo è vero, allora, nulla ci

13 Possiamo utilizzare il termine différence come critica al circolo vizioso identità/alterità e, al contempo,
come composizione dei due termini andando oltre la loro dialettica. Si veda Revel J. La pensée verticale.
Une éthique de la problematisation”, in Foucault. Le courage de la vérité, sous la dir. De F. Gros, Paris,
P.U.F, 2002.
14 Revel J. Fare moltitudine, Catanzaro, Rubbettino, 2004, p. 59.

157
vieta di pensare, al contempo, la molteplicità come interna alla soggettività stessa.
Dunque, in primo luogo, la singolarità è indicativa ed è a sua volta definita da una
molteplicità esterna. Questo perché nessuna singolarità può esistere o essere concepita di
per sé come monade solitaria. Sia la sua esistenza sia la sua definizione dipendono dalle
sue relazioni con altre singolarità. Mentre l’identità è fissa, statica, immobile, un cimelio
da difendere, la singolarità è per sua natura mobile, fluttuante, sempre aperta verso la
differenza e, dunque, in costante divenire differente. In secondo luogo, invece, ogni
singolarità è indicativa di molteplicità che la costituiscono dall’interno. Innumere vo li
sono le linee di divisione che tagliano ogni singolarità trasformandola in un campo di
battaglia dove la posta in gioco sarà appunto la costituzione del sé, il suo continuo
divenire altro, potremmo dire.
Ciò significa che la moltitudine come composizione di differenze - come produzione del
comune -, come articolazione di singolarità la cui “coesione non è mai una riduzione ma
un raccoglimento, vale come processo di costituzione di sé”15 . Detto altrimenti, la
moltitudine non è solo esterna (composizione di varie soggettività), ma anche interna
(composizione di vari elementi singolari in una movimento senza fine di produzione di
sé).
Riprendendo il filo del discorso, dopo questa breve parentesi; sarà ormai chiaro che la
moltitudine a cui ci stiamo riferendo non è un soggetto già formato o un’entità pronta ad
agire politicamente. La moltitudine non è cosa fatta. Va immaginata, problematizzata,
costruita. Tenendo a mente quanto già detto, come definiamo la moltitudine? Come
pensarla politicamente?
Se vogliamo liberarci da una definizione per così dire “additiva” della moltitudine (la
moltitudine come una mano alzata + una mano alzata + una mano alzata), idea pertanto
ripresa da alcune versioni semplicistiche del ritorno alla partecipazione politica “dal
basso”, così come da una definizione “integrativa” (la moltitudine integra le singolar ità
nella misura in cui le trascende: la moltitudine è in questo caso la volontà generale) che è
alla base del sistema moderno della rappresentazione politica, allora non possiamo non
domandarci in che modo le singolarità producono la moltitudine mantenendo le proprie
differenze in quanto differenze.
Non si tratterà, dunque, di riattivare il concetto di moltitudine a fronte della sconfitta
seicentesca ad opera del popolo, agli albori della politica moderna, e quindi rispolverare

15 Cit. Ivi., p. 60

158
un antico soggetto politico a cui la storia aveva riservato un triste destino 16 . Né tantomeno
di descrivere empiricamente la moltitudine. Il problema, semmai, è quello di provare a
pensare teoricamente il modo in cui fare moltitudine17 , come questa si articola al suo
interno, come questa può funzionare e agire politicamente, come scompone e ricompone
i conflitti che l’attraversano e, ancora, quali sono le sue possibilità esterne di
affermazione. Seguiamo allora le varie critiche mosse al concetto di moltitudine e
proviamo a affrontare i vari limiti che questa incontra nel suo divenire.
Pierre Macherey, presentando il testo di Hardt e Negri, Moltitudine, all’università di
Lille18 , si pone il problema del se e del come le singolarità, che compongono la
moltitudine, sono capaci di agire politicamente, precisando che la politica esige la
capacità di prendere delle decisioni non a livello individuale ma su scala sociale. È dunque
lo stesso problema che abbiamo rilevato precedentemente, ovvero come le singolar ità
possono articolarsi tra loro e agire politicamente. “Come fa la carne della moltitudine a
diventare corpo?”, si chiede Macherey. Ovvero, come rendere politica l’articolazio ne
della molteplicità irriducibile che compone la moltitudine? Il problema che espone
Macherey è pienamente condivisibile nella misura in cui si domanda come può la struttura
orizzontale della moltitudine sopravvivere all’essenza della politica? Ovvero alla
decisione su scala sociale, che è appunto l’essenza della politica, senza sacrificare
l’autonomia delle singolarità che la compongono? Ovviamente la contraddizione di cui è
vittima la moltitudine nel suo divenire soggetto politico, come rivelata da Macherey non

16 Mi riferisco alla posizione di Paolo Virno nel suo breve testo, già richiamato, Grammatica della
moltitudine. Nel tentativo di scardinare “l’unità coesa del popolo”, ovvero la costruzione del popolo come
luogo di sospensione delle soggettività e affermazione di una sorta di monismo politico oggettivato, Virn o
capovolge il rapporto Molti/Uno, cioè la costituzione dei Molti a partire dall’Uno. Nella sua accezione
dunque la moltitudine appare come un soggetto preconfezionato, come l’origine occultata dal concetto di
“popolo” tanto caro al liberalismo. Moltitudine, scrive Virno, significa l’esser molti come forma di
esistenza sociale e politica, contrapposta all’unità coese del popolo. Con Virno la moltitudine è un semplice
aggregato di singolarità che possono finalmente differenziarsi e liberarsi. La singolarità è dunque un punto
d’arrivo dopodiché il cerchio si chiude. Se per Hobbes i molti era il nome attribuito agli uomini prima di
diventare popolo, per Virno, al contrario, quei molti sono le singolarità libere e svincolate l’una dall’altra.
In questo senso Virno disegna uno spazio dove finalmente le singolarità possono vivere libere e spogliarsi
delle spesse vesti imposte dal potere, ma nessuna nuova dimensione comune verrà prodotta.
17 Sembrerebbe dunque più corretto parlare di un fare moltitudine, di un divenire moltitudine delle

singolarità. È pensare, allo stesso tempo, una dimensione nuova della politica, il comune, e la permanenza
delle singolarità al suo interno. La sfida politica sarà allora quella di pensare insieme le singolarità e il
prodotto del loro comporsi, il comune – che le eccede sistematicamente senza mai cancellarle, e che, al
contrario, le rende singolarmente più potenti -, senza per questo cedere il passo a “sintesi unitarie”, a
elementi trascendentali o a dimensioni prepolitiche. Dunque, come legare il processo di soggettivazione e
la costituzione del comune come spazio di libertà ed uguaglianza.
18 Présentation par Pierre Macherey de l'ouvrage de Michael Hardt et Antonio Negri, Multitude, guerre et

démocratie à l’âge de l’Empire (trad. fr., éd. La Découverte, 2004) (Citéphilo, Palais des Beaux-Arts, Lille,
19/11/2004).

159
può che interrogarci e darci la misura di quanto ancora ci sia da lavorare su tale concetto.
È d'altronde per questo motivo che abbiamo posto il problema della moltitudine nei
termini del suo farsi, della sua composizione e della sua azione. Cogliamo ugualme nte
l’elemento di tensione e di forte ambivalenza, descritto da Macherey, eppure non
possiamo rassegnarci al gioco a somma zero: o si sacrifica l’orizzontalità e si adotta una
struttura unitaria e verticistica che dissolve di fatto la moltitudine, oppure si mantiene la
sua struttura al prezzo però della marginalità politica dell’incapacità di prendere
decisioni19 .
Anche Ernesto Laclau, dal canto suo, è d’accordo nel rilevare che oggi ci sono le
condizioni materiali necessarie affinché si possa affermare la moltitudine come nuovo
attore politico date le condizioni di radicale eterogeneità della società; eppure vede
nell’immanenza e nella pluralità impedimenti proprio al suo farsi soggetto (politico). Per
Laclau l’azione politica richiede che le singolarità riescano, sul piano di immanenza, ad
avviare un processo di articolazione20 per definire e strutturare tra loro delle relazioni
politiche; eppure, cogliendo la pluralità e il piano immanente come due ostacoli all’agire
politico, affinché le singolarità possano articolarsi felicemente tra loro in relazio ni
produttive, deve emergere una qualche istanza egemonica al di sopra del piano
d’immanenza capace di rendere effettuale il processo politico e fungere da centro
identificativo delle singolarità politiche. Scrive Laclau: “non c’è egemonia senza la
costruzione di un’identità popolare a partire dalla pluralità delle domande
democratiche”21 . Ricadiamo nuovamente in una sorta di sintesi trascendentale nella
misura in cui, come scritto precedentemente, nonostante la moltitudine dia conto
dell’eterogeneità della società, questa non conosce regole che possano in qualche maniera
presiedere alla sua composizione e, dunque, per forza di cose, necessiterà di un’ista nza
esterna ad essa, appunto trascendente, capace di ricomporre la moltitudine. Di farla agire
politicamente. Partendo dunque dal dato di fatto che la moltitudine è un soggetto(?)
disomogeneo, occorre stabilire una forza di articolazione fra le differenti parti di questa
disomogeneità per garantire la loro integrazione 22 . L’insistenza sull’auto-organizzazione,

19 Cfr. Ivi. e cfr. Hardt, M. e Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p. 171
20 Sul processo di articolazione si veda Laclau, E. e Mouffe, C. Egemonia e strategia socialista: verso una
politica democratica radicale, Genova, Il melangolo, 2011
21 Laclau, E. La ragione populista, Roma-Bari, Laterza, 2008, p.153.
22 Si vedano le ottime critiche di Antonio Negri a Laclau durante un intervento tenuta a Parigi alla

conferenza “Egemonia: Gramsci, Togliatti, Laclau” del 27 maggio 2015 alla Maison de l’Amerique Latine.
http://www.euronomade.info/?p=4956. Qui Negri critica la chiusura del pensiero di Laclau all’interno di
un orizzonte nazionale, e dunque identitario. Altro elemento posto in tensione da Negri è il concetto di
egemonia forgiato da Laclau in riferimento a Gramsci sia piuttosto debole e privo di potenza.

160
come giustamente ci dice Laclau, non può prescindere dalla necessità di creare temi
comuni e linguaggi omogeneizzanti che circolino attraverso le differenti organizzazio ni
locali. Tale articolazione, però, lungi dal ripetere il vecchio modello delle burocratiche e
“dispotiche” organizzazioni tradizionali (ovviamente il riferimento al partito politico),
deve in qualche modo essere avvicinata attraverso la nozione di “significa nte
vuoto”. Laclau non pensa la soggettività politica come l’espressione di una classe
omogenea ma come “posizione soggettiva” che rivendica una “mancanza” o appunto un
“significante vuoto”23 . È proprio questa mancanza che deve essere riempita. Per il filoso fo
argentino, allora, il populismo non possiede nessuna “unità referenziale proprio perché
non designa un fenomeno circoscrivibile, ma una logica sociale, i cui effetti coprono una
varietà di fenomeni”24 . Il populismo è, se vogliamo dirla nel modo più semplice, un modo
di costruire il politico, o meglio il modo con il quale si è costruito il politico durante la
modernità. Il gruppo sociale quindi che s’impossessa del popolo inteso come significa nte,
e non in quanto elemento oggettivo, riesce ad imporre la propria egemonia nella società.
Il popolo resta per Laclau un “universale vuoto” che viene occupato e risignificato nella
lotta per la propria egemonia nella società.
Essendo una logica sociale, il populismo si presenta allora come termine neutro, come
dispositivo o, ancora, come meccanismo volto a rendere equivalenti posizioni politic he
che non lo sono e, al contempo, creare una polarità che prima non esisteva che dia conto
dell’antagonismo costitutivo della società25 . In quest’ottica allora, esisteranno populis mi
di “destra” che esprimono posizioni nazionalistiche e populismi di “sinistra” capaci di
dare unità alle esperienze di sfruttamento con lo scopo di rovesciare i rapporti di forza
esistenti (ai quali si rifà Laclau osservandone lo sviluppo in America Latina).
Nonostante Laclau riesca a cogliere perfettamente gli elementi fondanti di una politica
“post-moderna” – differenze, molteplicità, eterogeneità – e dunque a vedere la
democrazia come un concetto di fatto vuoto “felice ostaggio” del “pluralismo agonistico ”
tra i soggetti in lotta, finisce per inscrivere il politico in un orizzonte dominato dalla
produzione di unità tramite una sintesi trascendentale. Come evidenziano bene Mezzadra
e Neilson, nel libro più volte citato Confini e frontiere (2013), “dietro al popolo di Laclau

23 Si tratta di concetti linguistici in cui i significanti non hanno precisi significati di riferimento, cioè sono
parole che non hanno corrispondenza con un oggetto preciso.
24 Laclau, E. La ragione populista, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 33.
25 Cfr. Ivi, pp. 85-88 e cfr. Ciccarelli R. Il post-marxismo di Ernesto Laclau.
http://www.doppiozero.com/materiali/teorie/il-post-marxis mo-di-ernesto-laclau.

161
si staglia così il fantasma dello Stato”26 . Concludendo brevemente la (ampia) parentesi
aperta su Laclau, ci pare che il momento di articolazione o di “equivalenza” tra lotte e
domande sociali eterogenee finisca per ricadere nuovamente all’interno del quadro
istituzionale dello Stato moderno, replicando la “posizione dello Stato nel mainstream
della filosofia politica moderna”27 .
Diversamente da Macherey e da Laclau, Paolo Virno, nel suo lavoro sul concetto di
moltitudine, non si preoccupata tanto di quella che potremmo definire la forma che va
assumendo la moltitudine in quanto soggetto politico, ma piuttosto della direzione e del
senso delle sue azioni politiche. È dunque un problema, non tanto, di forma, bensì di
contenuto. Per Virno la moltitudine è caratterizzata sì dalla solidarietà ma in egual misura
anche dall’aggressività. La potenza intrinseca alla moltitudine può essere votata al bene
come al male28 . Lo stesso Balibar dà conto della forte ambivalenza, riscontrata da Virno.
Chi garantisce sull’orientamento progressivo, liberatorio e antisistemico della
moltitudine, sembrerebbe domandarsi Balibar? D’altronde gli uomini, ricorda Spinoza,
“spesso combattono per la loro servitù come se combattessero per la loro salvezza”29 . La
moltitudine, dunque, può in egual misura essere veicolo dello sfruttamento e perpetrare il
dominio dell’uomo sull’uomo oppure costruirsi come formidabile movimento che vi si
oppone alla ricerca di nuovi spazi di ègaliberté, sempre per richiamare un concetto del
filosofo francese. A riguardo Balibar offre una splendida metafora: “potremmo anche
vedere nella moltitudine un vascello che dispiega le vele verso l’aperto, ma senza un
timone non c’è modo di sapere dove è diretta”30 . Con Balibar la questione fondamenta le
sembrerebbe essere chi, o eventualmente come in assenza di un chi, assumerà il timone
di un vascello che, seppur a vele spiegate, non sa dov’è diretto? 31
Per Slavoj Zizek non c’è alcuna ambivalenza nella moltitudine dal momento che essa è
perfettamente in linea col dominio, nonché simmetrica al dispiegamento del capitale.
Zizek sostiene che la moltitudine altro non è che una mascheratura che agisce come

26 Cit. Mezzadra S. e Neilson, B. Confini e frontiere, Bologna, Il Mulino, 2013 p. 324


27 Ibidem.
28 Cfr Virno, P. Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee,

Catanzaro, Rubbettino Editore, 2001, pp.11-30 e cfr., Virno, P. Il cosiddetto male e la critica dello Stato,
in “Forme di vita” 4, 2005, pp. 15- 30.
29 Si veda il libro di Lordon, F., Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel

lavoro contemporaneo, Roma, DeriveApprod i, 2015.


30 Cfr. Balibar, E., La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Milan,o Mimesis

Eterotopia, 2001, pp. 36-51. A riguardo rimando all’intervento di Balibar del 20 febbraio 2014 “après
l’utopie, libérer l’imagination”, tenuto all’Université Paris Ouest Nanterre in occasione del seminario
“Penser l’emancipation” 19-22 Fevrier 2014
31 Cfr., Hardt, M. e Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 170-174.

162
sostegno del dominio capitalistico. A questo proposito, andrebbe ricordato brevemente
che Zizek è convinto che gli antagonismi e le alternative che il capitalismo favorisce al
suo interno non facciano altro che sostenere e legittimare la struttura di potere
capitalistica. In quest’ottica, Zizek critica Marx per aver commesso l’errore di pensare
che lo sviluppo del capitalismo avrebbe generato, automaticamente, le condizioni della
sua stessa eclissi, che il suo sviluppo avrebbe dato vita ad un soggetto politico antagonista
che avrebbe portato a termine la sua “missione storica” di fare la rivoluzione. Dal canto
suo non vede nessuna possibilità di riuscita politica della moltitudine nella misura in cui,
secondo Zizek, una trasformazione radicale al sistema capitalistico non potrà mai essere
posta in essere da un soggetto che si costituisce all’interno dei rapporti e delle
contraddizioni del capitale32 . Verrebbe provocatoriamente da chiedersi, riflettendo su
quanto sostenuto da Zizek, come svincolarci dai rapporti di capitale se non standovi
pienamente al loro interno? E soprattutto dove dovremmo trasferirci visto che non c’è
nessuno fuori e che il capitale è un rapporto sociale sempre aperto, un campo di battaglia?
Se da una parte, non possiamo permettere di farci permeare dal pessimismo del filoso fo
sloveno; dall’altra, non possiamo neanche farci abbagliare dall’ottimismo che innerva la
riflessione attorno al comune e alla moltitudine avanzata da Hardt e Negri nel loro libro
Commonwealth (2010). I due autori, partendo dalle analisi femministe in particolare
quelle di Judith Butler33 , mostrano giustamente come la natura sia sempre presa in
processi di costituzione e di trasformazione. Ciò detto, non significa che la natura non
esiste, ma che è sistematicamente modificata dalle interazioni sociali e culturali. Questa
impostazione secondo cui la natura è soggetta a modificazioni è strettamente legata
all’idea di un’ontologia costituente, ovvero all’idea che l’essere è sempre un soggetto in
continuo divenire in cui agiscono pratiche sociali e politiche 34 . Tutto questo, ci spiegano
Hardt e Negri, ha direttamente a che fare con il nostro tema del comune, dato che il suo
“potenziale rivoluzionario”, per dirla con Ugo Mattei, fa venir meno la linea immagina r ia,
sulla quale si è basata la filosofia politica moderna, che divide la natura della società. Non
esiste un mondo naturale che sta al di fuori della società. Tutto è comune; dalla ricchezza
del mondo materiale – acqua, aria, fauna, flora, ecc. – agli elementi costitutivi della
socialità umana, i linguaggi, i codici, le immagini. I due autori continuano dicendo che il

32 Cfr. Zizek, S. The Parallax View, Cambridge, Mit Press, 2006. Pp.261-267.
33 Si veda Butler, J. Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Milano, Sansoni, 2004.
34 Si legga Negri, A. Anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza , Milano, Feltrinelli,

1981

163
“divenire politico da parte della moltitudine non implica l’abbandono dello stato di natura
come dettano le teorie della sovranità, bensì esso mette in gioco una metamorfosi del
comune che si verifica simultaneamente nella natura, nella cultura”35 .
Concordiamo con Hardt e Negri quando dispiegano la loro riflessione sulla moltitud ine
sul piano della produzione di soggettività come terreno principale su cui si accendono le
lotte politiche e soprattutto quando invitano a spostare la discussione sul tema della
moltitudine dal piano dell’essere moltitudine – ovvero chi è moltitudine – a quello “del
divenire e del fare moltitudine”. La moltitudine non è un “soggetto politico bello e
fatto”36 , occorre organizzarlo politicamente. Nonostante i due autori provino ad articolare
soluzioni più o meno astratte e sciogliere politicamente i quesiti che avevamo (tutti
quanti) posto ad inizio paragrafo, ovvero la capacità o meno della moltitudine di prendere
decisioni a livello sociale, che come ricorda Macherey è l’essenza del politico, le risposte
sembrerebbero non essere all’altezza della posta in gioco.
Ancora una volta, come abbiamo cercato di far emergere nel II capitolo, parrebbe che
tutto scivoli via troppo linearmente. Cerchiamo di capirci. Hardt e Negri, spiegando con
rigore d’analisi le metamorfosi interne al capitale che si producono nella svolta biopolitica
della produzione economico-sociale, colgono la tendenza del lavoro a diventare sempre
più autonomo rispetto al comando capitalistico ed è per questo che i dispositivi di
espropriazione e di controllo messi in funzione dal capitale diventano degli ostacoli che
intralciano la produttività. Scrivono i due autori: “La produzione biopolitica è come
un’orchestra che batte il tempo senza aver bisogno del direttore e che diventerebbe
improvvisamente silenziosa se a qualcuno venisse in mente di salire sul podio”37 . Beh che
dire, molto affascinante come immagine, eppure non riusciamo a cogliere questa
immediata correlazione tra una supposta autonomia del lavoro e l’azione politica di un
soggetto rivoluzionario. Potremmo dire, in maniera un po’ provocatoria, che la
concezione di una moltitudine creativa e antisistemica altro non è che una fantastiche r ia
allucinatoria (une rêverie hallucinée), come ha sottolineato Alain Badiou.
Evidenziando il divenire biopolitico della produzione, Hardt e Negri, colgono l’eleme nto
di autonomia del lavoro a fronte delle radicali trasformazioni che interessano il
capitalismo globale. Quella che possiamo considerare una tendenza, viene però
assolutizzata e innalzata a paradigma dai nostri due autori. Verrebbe da chiedere dov’è

35 Cit. Hardt, M. e Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 175-176.
36 Cit. ivi., p.174
37 Cit. Ivi. p. 179.

164
quell’autonomia del lavoro nelle fabbriche globali della Foxconn in Cina 38 , solo per fare
un esempio. Come non vedere la ferrea disciplina del lavoro e l’organizzazione quasi
militare del comando capitalistico? E quindi la complessa e fratturata geografia della
produzione globale? Tralasciando questo aspetto, non del tutto marginale evidenteme nte,
ciò che non convince è sicuramente l’eccessiva linearità dei loro discorsi: 1) svolta
biopolitica, 2) autonomia del lavoro, 3) moltitudine creativa, 3) rivoluzione. Abbiamo
banalizzato e ridotto forse in maniera troppo brutale la sofisticata e affascinante teoria
avanzate da Hardt e Negri. “Se è effettivamente possibile, scrivono Hardt e Negri, rilevare
le capacità di autorganizzazione e di cooperazione nella vita di tutti i giorni, nel loro
lavoro e più in generale, lungo tutto l’orizzonte della produzione sociale, allora la capacità
politica della moltitudine non è più un problema”39 . Tutto troppo lineare. Potremmo
riformulare quanto appena citato: se è effettivamente possibile rilevare le capacità di
autorganizzazione e di cooperazione nella vita di tutti i giorni, nei nostri lavori e più in
generale, lungo tutto l’orizzonte della produzione sociale, allora il problema sarà proprio
la capacità politica della moltitudine. Ancora una volta, come articolare questi momenti
del vivere e del produrre in comune dell’uomo e tradurli in un programma della
moltitudine capace di agire politicamente? Questo rimane secondo noi il nodo ancora da
sciogliere. Possiamo condividere tutta l’analisi di Hardt e Negri anche nelle sue
componenti più “molli”, dall’amore come forza che consente alle singolarità di comporsi,
all’amore come potenza che produce il comune, parafrasando Spinoza, alla metamor fos i
continua della moltitudine in quanto soggetto politico in continuo divenire; ciò nonostante
non riusciamo ad essere altrettanto lungimiranti e ottimisti, come i nostri due autori, nel
vedere un domani rivoluzionario e l’alba del comune all’orizzonte.
Un altro elemento sicuramente problematico, ambiguo, nonché debole, è appunto quello
che chiamano il momento dell’inversione, il kairos della moltitudine. Vedono nel
momento rivoluzionario, nella soggettivazione delle singolarità, non tanto la sintesi di un
movimento dialettico, bensì l’intervento di un evento, appunto del kairos soggettivo, “che
rompe le relazioni di dominio e abbatte il processo di riproduzione delle figure

38 Parliamo di fabbriche che contano centinaia e migliaia di lavoratori. Nella fabbrica di Longhua, Shenzen,
zona economica speciale(ZES) in Cina, si parla di numeri da capogiro: dai 230000 ai 450000 operai.
Fabbriche grosse quanto città, o più: sembrerebbe il titolo di un film di fantascienza. A riguardo si veda
Gambino, F. e Sacchetto, D. Nella Fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della
Foxconn, a cura di., Verona, Ombre corte, 2009. Si veda anche l’editoriale dell’Economist del 27/05/ 2010
“Suicides at Foxconn: Light and Death”, http://www.economist.com/node/16231588.
39 Cit. Hardt, M. e Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p 181.

165
dell’assoggettamento”40 . Eppure quando arriviamo al punto chiave della questione,
ovvero come il cambiamento dovrebbe rendersi concreto cominciano i problemi. Sono
gli stessi autori a dichiarare: “come questo – l’evento rivoluzionario, il kairos della
moltitudine – possa accadere non è a noi chiaro”41 . Dunque, oltre alla mancanza di
chiarezza, percepiamo una sorta di fatalismo, una fede smisurata nei confronti di quello
che chiamano il kairos. Scrivono:

“Anche se messi alla prova della disperazione, dovremmo ricordare che nel
corso della storia accadono eventi inaspettati e imprevedibili, in grado di
rimescolare del tutto le condizioni del potere politico e le possibilità. Non è
necessario essere un millenarista per ritenere che tali eventi politici si
ripeteranno. Non è solo una questione di numeri. Un giorno milioni di persone
manifestano in strada e non cambia niente, un altro l’azione di un piccolo
gruppo riesce a rovesciare l’ordine costituito. Questi eventi accadono a volte
in periodi di crisi economica, politica e di grande sofferenza. Altre volte
invece si verificano in periodi di prosperità, quando speranze e aspirazio ni
sono in crescita. È possibile anche in un futuro prossimo, che l’intera struttura
finanziaria crolli. O che i debitori acquisiscano convinzione e coraggio
decidendosi di non pagare. O le persone si rifiutino in massa di obbedire ai
detentori del potere. Che cosa faremo in questo caso? Che società
costruiremo?”42

A questo punto pare di ritrovarsi di fronte ad un’invocazione teorica all’irrazionale e


all’imprevedibile che così come potrebbe condurre alla costruzione del comune come
nuovo spazio della politica, potrebbe anche generare gli effetti più macabri e perversi
(una guerra fratricida o una dittatura sanguinosa, per esempio). Dovremmo forse vivere
nell’attesa che qualcosa prima o poi accada? E soprattutto, come dovremmo comportaci
una volta che il kairos si produrrà? Nonostante la moltitudine agisca come un orchestra
senza direttore sembrerebbe che la sua direzione, o peggio la sua sorte, venga affidata al
fato, o meglio all’imprevisto. Non si tratta di mancare di immaginazione politica, né
tantomeno di credere che leader e strutture centralizzate siano l’unico modo di

40 Cit. Hardt, M., Negri, A., Questo non è un manifesto, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 35.
41 Ivi., p. 60.
42 Ivi., p. 97-98.

166
organizzare progetti politici, ma di sottolineare, nuovamente, la misura di quanto ancora
ci sia da fare per avanzare verso una nuova dimensione della politica, del comune. Va da
sé dunque che i tempi in cui la moltitudine potrà finalmente indossare i panni del Principe
e governarsi da sé sono ancora (molto) lontani, così come molto lontane sono, senza
dubbio, le risposte ai problemi che la moltitudine incontra nella strada tortuosa del suo
divenire soggetto politico e che abbiamo cercato di evidenziare.
D’altronde la moltitudine è la forma del problema del comune, ovvero il comune è il
problema che la moltitudine in quanto soggetto politico deve risolvere, andando oltre la
sua impotenza e dunque oltre se stessa. Insomma, solo attraverso la moltitudine il comune
può porsi la questione del potere e dunque fissarsi come nuovo spazio della politica.
Ancora una volta dunque non possiamo esimerci dal continuare questo cammino di
ricerca.

167
4.2 Costruire potere tra le maglie della governance neoliberale. Quale
governo?

Non erano altro che persone che se ne stavano per


conto loro. Anche se erano accoppiate, anche quando si
accoppiavano, non erano altro che persone che se ne
stavano per conto loro. Ma quando erano tutte insieme
diventavano il cuore, i muscoli e il cervello di qualcosa
di pericoloso e di nuovo, qualcosa di strano che stava
crescendo, qualcosa di grande. Insieme, tutti insieme,
erano gli strumenti del cambiamento
Keri Hulme, The Bone People.

Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di cogliere alcuni aspetti del capitalis mo
contemporaneo ponendolo in rapporto con le trasformazioni che hanno investito le forme
della statualità. Abbiamo analizzato il divenire biopolitico della produzione sullo sfondo
di quella che potremmo interpretare come una riorganizzazione complessiva del potere a
partire dall’operatività dei criteri di legittimazione diversi, ed indipendentemente dai
tradizionali canali di formazione della rappresentanza. Cercando di leggere la crisi dello
Stato sempre sullo sfondo di una continua ri-organizzazione dei poteri siamo riusciti a
cogliere la polverizzazione della sovranità in una pluralità di strutture sociali. Abbiamo
visto con Foucault che il potere non è un qualcosa di astratto che risiede chissà dove sopra
le nostre teste, ma circola all’interno di qualsiasi rapporto sociale. La grande novità
introdotta da Foucault è proprio la visione del potere in quanto rapporto, che si muove,
che cambia e si ridefinisce nel tempo. Non ci sarà dunque un potere ma dei poteri che
innervano il tessuto della società nella quale viviamo.
Muovendo dall’analisi del lungo processo di governamentalizzazione dello Stato
abbiamo accennato al tema della governance intesa come forma storica e ultima della
governamentalità, ovvero come l’esito più recente di quel continuo processo di
trasformazione del governo che Foucault analizza a partire dalla pastorale cristiana fino
ad arrivare al neoliberalismo.
Ripartiamo, brevemente, dal concetto di governamenta lità per poi aprire alla governance
come modalità di gestione del potere. Cosa intendiamo per governamentalità?

168
Parafrasando Foucault per governamentalità dobbiamo intendere un’“insieme di
istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche che hanno storicame nte
promosso un processo di radicale critica della sovranità a favore”, appunto, “di una
preminenza del governo”43 . La chiave di lettura fornitaci da Foucault ci permette di
leggere la storia della razionalità politica occidentale sullo sfondo di un progressivo
processo di “governamentalizzazione dello Stato”: da una governamentalità di tipo
amministrativo risalente al periodo dello State building, passando per la governamenta lità
classica e quella welfararista nel secondo dopoguerra, si giunge al contesto del
neoliberalismo, entro cui la governance assumerebbe i tratti di uno sforzo razionale in
vista di una ri-definizione dei rapporti tra Stato, mercato e società.
In quest’ottica allora la governance si presenterebbe come uno sforzo razionale, una
maniera di gestire il(i) potere(i) alla luce delle turbolenze che investono il nostro presente
globale ridefinendo, come detto sopra, il rapporto tra Stato, mercato e società. Quello che
interessa in questa sede è seguire le tracce del concetto di governance, indagarlo
genealogicamente, e aprirlo eventualmente ad una declinazione diversa da quella
neoliberale. Una governance democratica, dato che i suoi meccanismi hanno il merito di
essere coerenti con il contesto biopolitico e di registrare la crescente autonomia delle reti
delle singolarità, la deterritorializzazione e l’incommensurabilità della produzione della
moltitudine nonché la crescente potenza del comune?
Governance, dunque: che cosa intendiamo con questa? Partiamo citando un breve
passaggio, tratto dal testo di James N. Rosenau, Governance, Order and Change in World
Politics.

“Governance non è sinonimo di governo. Entrambi [i concetti ] rinviano a


una condotta finalizzata, ad attività orientate verso obiettivi, a sistemi di
norme; ma il governo implica azioni che sono sorrette da un’autorità formale,
da forze di polizia che assicurino l’implementazione di politic he
correttamente determinate, mentre la governance rinvia ad attività sorrette da
obiettivi condivisi che derivano o meno da responsabilità giuridiche e
formalmente prescritte, senza appoggiarsi necessariamente a forze di polizia
per superare l’infedeltà o per conseguire l’obbedienza. In tal senso,
governance è un fenomeno più ampio del governo, che abbraccia istituzio ni

43Foucault, M. Sicurezza, territorio, popolazione, trad. it., a cura di. Paolo Napoli, Milano, Feltrinelli,
2008, p.88.

169
governative, ma che sussume inoltre meccanismi informali e non
governativi”44

Il politologo statunitense nel suo libro fa emergere le coordinate di un significa tivo


spostamento delle dinamiche di legittimazione politica nel quadro di crisi di un ordine
moderno nel quale i classici strumenti del government nazionale, ovvero gli ordinamenti
giuridico-politici della sovranità nella loro declinazione democratico-rappresentativa,
vengono ritenuti insufficienti a fronteggiare le sfide di un presente sempre più globale.
Sandro Chignola, nel suo saggio In the shadow of the State: governane,
governamentalità, governo, invita a soffermarsi sulla semantica del termine governance.
Se in italiano “governo” indica sia l’apparato esecutivo, sia l’ “arte” di governare, sia il
risultato dell’attività di governare: relazioni, appunto, “governate”, dice Chignola, in
inglese, invece, possiamo ritrovare tre diversi termini che danno conto del processo di
governo: “government”, per indicare l’aspetto per così dire istituzionale, l’esecutivo;
“governing”, a denotare l’attività generica, l’atto di governare; “governance”, infine, per
riferirsi al risultato dell’attività di governo, ovvero “il modello di relazioni che si
consolida tra gli attori (pubblici, privati ecc…) che partecipano al processo decisiona le
nell’ambito di un determinato settore di regolazione 45 . In quest’ottica, stando alle più
ricorrenti definizioni in ambito politologico, la governance designerebbe il complesso
sistema di relazioni e di responsabilità che descrive il rapporto tra chi deve prendere
decisioni vincolanti, ovvero gli attori che si muovono all’interno dell’arena istituziona le,
e i destinatari di quelle stesse decisioni, secondo una prospettiva che assume la
produzione di quest’ultime come non imbrigliata e come non canalizzata dai tradizio na li
meccanismi di formazione e di rappresentazione della volontà 46 .
Precedentemente, nell’analizzare l’istituto della rappresentanza, abbiamo, da una parte,
concentrato la nostra attenzione principalmente sulla sua “genealogia” filosofica, come
questa è stata pensata e come ha dato forma allo Stato democratico; dall’altra, abbiamo
analizzato alcune espressioni della sua critica. Eppure non abbiamo preso troppo sul serio
il modo in cui vengono oggi evolvendo gli equilibri politici e costituzionali che si

44 J. N. Rosenau, Governance, Order and Change in World Politics, in J. N. Rosenau – E. O. Czempiel


(Eds.), Governance without Government, Cambridge UP, Cambridge 1992, cit., p. 4.
45 Cit. Chignola,S., In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a

cura di), Governance. Oltre lo Stato? Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp.117-118.
46 Si veda il testo Giraudi G. e Righettini, M. S., Le autorità amministrative indipendenti. Dalla democrazia

della rappresentanza alla democrazia dell’efficienza, Roma-Bari, Laterza, 2001.

170
posizionano oltre gli assetti classici della rappresentanza politica. Oggigiorno, a fronte di
una fase piuttosto lunga nella quale la politica democratica appare in difficoltà – tantoché
si parla di una crisi permanente coincidente col trionfo del neoliberalismo come “nuova
ragione del mondo”, per riprendere una felice espressione di Dardot e Laval che abbiamo
incontrato nel II cap. – la governance viene da più parti proposta come uno strumento
capace di favorire prassi consensuali, trasparenti e responsivo, ovvero capace di
rispondere alla contingenza di crisi, anche se svincolato dai tradizionali processi
democratico-rappresentativi e, dunque, libero dall’essenza conflittuale della politica.
Quando parliamo di governance, allora, vogliamo mettere in luce proprio questo
significativo spostamento delle dinamiche di legittimazione della decisione.
Ma facciamo un passo indietro e fissiamo un’altra questione cruciale per comprendere la
governance. Sandro Chignola, seguendo Foucault, coglie un punto importante quando
sostiene che oggi il terreno sul quale la governance, come modalità iper-razionale di
gestione del potere, si trova ad operare, può essere indagato solamente assumendo il
mercato come luogo di veridizione e come principio autentico di realtà della stessa azione
di governo. Commenta Foucault, “è il mercato che detta al governo la regola della verità”
e che ne diventa, appunto il “luogo di veridizione”47 .
Fermo restando, come sostiene Giacomo Marramao in occasione del Seminario “lo stato
dello Stato” organizzato a Roma dalla Libera Università Metropolitana, a cui abbiamo
già guardato in precedenza, che la governance globale non esiste nel senso di un potere
occulto che organizza minuziosamente l’esistenza del pianeta, interessante è leggere la
produzione giuridica a livello globale come una sorta di negoziazione tra soggetti pubblici
e privati che dipende sempre più dal “rovesciamento efficentista e prestazionale della
legittimità”48 . A fronte di ciò, nel tempo presente, “sotto l’egida di un principio generale
e omnicomprensivo”, quale quello di “interesse”, si sta dunque consumando tanto la
ridefinizione dei tradizionali istituti di governo – lo Stato-nazione e i suoi canali
democratici-rappresentativi – quanto la transizione verso una loro progressiva
economicizzazione tesa a sostituire il principio di legittimità politica con criteri di
verificazione e vaglio dell’azione di governo secondo parametri legati tradizionalme nte

47 S. Catucci, Foucault, Laterza, Bari 2005, cit., p. 129.e Foucault M., Naissance de la biopolitique, Paris,
Gallimard, 2004, cit., p. 40
48 Cfr. Chignola,S., In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a

cura di), Governance. Oltre lo Stato? Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. 126-130.

171
al mercato49 . Interessante è allora notare il modo in cui il comando agisce sui differenti
livelli che lo caratterizzano nelle sue forme contemporanee marcando la più recente
evoluzione degli assetti istituzionali in direzione governamentale e postrappresentativa.
L’Europa, da questo punto di vista, né è un esempio eclatante. Il comando si avvale
sempre più di competenze non delegate e non delegabili caratterizzandosi per profili di
alta tecnicità, recluta expertises indipendenti e opera attraverso dicktat che prevalgono
sulle politiche nazionali assegnando un ruolo residuale ai singoli parlamenti (si veda il
recente caso greco). Il potere dunque si concentra, senza mai fissarsi, in istituti e agenzie
la cui legittimità guarda al futuro, ovvero si basa sul successo che essa promette di
realizzare, e non si fonda sul passato, secondo le procedure classiche della democrazia
rappresentativa. In quest’ottica viene allora configurandosi “un’azione di governo sciolta
da qualsiasi forma di controllo e commisurata soltanto alla propria promessa di
efficacia”50 , un “governo a distanza” potremmo dire. Assistiamo dunque al progressivo
spostamento da un operato legato alla politics, e dunque al government, ad un primato
della policy, ossia dei suoi esiti. Si ha così un profonda mutamento del termine stesso di
politico, ridisegnato dal ruolo centrale dell’expertising, ovvero il governo dei consulenti
e degli esperti, delle gerarchie informali e dalla base economica e finanziaria. La
rivoluzione manageriale della politica e dei suoi pilastri fondamentali è dunque in atto.
Seguendo Anna Luzzi nel suo ottimo articolo Governo, governance, governamentalità:
per un’analitica del potere nella crisi del moderno 51 , possiamo vedere come nell’arco
dell’ultimo trentennio la “cura” governamentale, nonché la ricetta della governance
neoliberale intesa come strumento procedurale e orientato all’esito per rispondere alle
deficienze della sfera politica democratica e, ancora, come argine per ottemperare i
conflitti prodotti dai processi di globalizzazione, è stata declinata “nell’invenzione e
nell’assemblaggio di tutta una serie di tecnologie e saperi esperti che collegano le strategie
sviluppate nei centri di decisione politica alle molteplici postazioni disperse nel territorio
e che rafforzano la capacità dello Stato di gestire la vita economica, la salute e le abitudini

49 Cit. Marzocca, O. Perché il governo: il laboratorio etico-politico di Foucault, Roma, Manifestolibri,


2007, p. 143.
50 Cit. Chignola S., Che cos’è un governo? Saggio pubblicato sul sito
http://www.euronomade.info/?p=4417.
51 Cfr. Luzi, A. Governo, governance, governamentalità: per un’analitica del potere nella crisi del

moderno, 2009, http://bidieffe.net/?p=341.

172
della popolazione”52 . È quello che all’interno dei Governmentality Studies viene tradotto
con la formula “governo a distanza”53 .
Non interessa in questo momento rimarcare nuovamente le trasformazioni dello Stato a
fronte di una sua rifunzionalizzazione all’interno del lungo processo di
governamentalizzazione che vede il suo apice nelle forme della governance, ma piuttosto
intercettare i metodi di funzionamento di quest’ultima e declinarli in seno al rapporto tra
governanti e governati così da poter far avanzare la nostra analisi sul terreno scivoloso
della produzione di soggettività quale campo di applicazione specifico dei dispositivi –
produttivi – della governance. Ponendo in tensione il rapporto tra governanti e governati,
evidenziandone dunque la forte ambivalenza e non la linearità, si tratterà brevemente di
fare luce su quello che in Foucault emerge come il problema del governo; la possibilità
di “modulare il processo di costruzione del soggetto attraverso la sedimentazione di
regimi di discorso”54 , ovvero la produzione del soggetto come oggetto di determinate
pratiche di governo. Si tratterà allora, ancora una volta, di prendere in seria
considerazione il punto di vista delle lotte che si danno nell’intersezione tra pratiche di
assoggettamento e (contro)strategie di soggettivazione.
Con il neoliberalismo, si afferma l’idea per cui governare significa individuare lo spazio
economico in ogni soggetto e gestire i rischi che la libertà comporta; non certo con il
riferimento a schemi universali, ma attraverso l’individualizzazione assai materiale della
responsabilità dei singoli. Nei dispositivi neoliberali di governance possiamo scorgere la
presenza attiva e costante di un’azione di governo che, pur in forme complesse e
rinnovate, tende comunque a riconfigurare il tessuto stesso della società in modo che al
suo interno siano sempre più i meccanismi della concorrenza a svolgere una funzio ne
regolatrice di primo piano. Nei dispositivi di governance la società - ovvero gli attori che
agiscono in essa e le relazioni che ci legano gli uni agli altri - assume sempre più la forma
dell’impresa. O, detto altrimenti, nella “ratio programmatica delle pratiche di governo
neoliberali è racchiuso l’intento di esternalizzare alla società […] il rischio d’impresa ” 55 .
È dunque sul terreno scivoloso della produzione di soggettività che si gioca la partita del

52 Cit. Ivi.
53 Con Governmentality Studies si indica un percorso di ricerca affermatosi da ormai un ventennio, in
particolare nel mondo anglosassone, a partire dall’applicazione dell’int erpretazione foucaultiana a singoli
settori in cui si è sviluppata la governamentalità neo -liberista (in particolare, le nuove scienze del
management, le tecniche assicurative, la bio-medicina e le bio-tecnologie).
54 Luce S., Processi di soggettivazione: tra perdita e cura di sé, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci,

A. Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 312.


55 A. Simoncini, Al setaccio di Schengen. Migranti laboriosi e migranti pericolosi nello spazio politico

europeo, G. Bonaiuti, A. Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita, cit., p.283.

173
neoliberalismo. A riguardo la strategia politica dal neoliberalismo ce la svela in maniera
lapidaria una vera e propria autorità in materia di neoliberalismo, la lady di ferro
Margheret Thatcher che nel 1988 pronunciò queste parole: “l’economia è il metodo, ma
l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima delle persone”56 . La sfida politica in atto è allora
quella di ridefinire radicalmente le forme di vita: il nostro rapporto col mondo, con gli
altri, con noi stessi. È la vita stessa ad essere investita da questa lotta. Con questa
espressione carica di emotività, la first lady sintetizzava la trasformazione dell’econo mia
in quella che potremmo definire una disciplina personale, dell’uno e dei molti, ovvero
una serie di tecniche per assoggettare e produrre soggetti conformi alla regola
fondamentale imposta dal neoliberalismo, la concorrenza.
Torniamo al rapporto governanti governati che abbiamo accennato in precedenza e
facciamolo leggendolo attraverso la lente del governo. Decentriamo, con Sandro
Chignola, il nostro sguardo sul lato dei governati. In che modo la figura del governato
rompe la staticità del rapporto nel quale è rinchiuso? Foucault tenta, agli inizi degli anni
’80, di tracciare il profilo di questa figura che in maniera indisciplinata sembra sfuggire
dal governante. Foucault parla di “epoca dei governati”57 , un’epoca nella quale l’irruzio ne
del “governato” come figura eccedente le sintesi rappresentative (il falso universale del
popolo, dell’uguaglianza del cittadino, ecc..) spinge alla risignificazione del potere sul
lato del “governo”58 . In quest’ottica allora il neoliberalismo e la governance come suo
strumento di gestione reticolare del potere vanno lette, anche, sullo sfondo di quella che
Foucault chiama l’epoca dei governati, ovvero il ciclo di lotte che ha costretto il potere
ha riorganizzarsi su nuove basi. Quelle che vanno configurandosi negli anni ’70 ’80 sono
lotte radicalmente differenti rispetto alle lotte dell’operaio massa che avevano costretto il
capitale al compromesso fordista nell’ottica di una riorganizzazione del potere a inizio
secolo scorso. Come scrive bene Chignola, seguendo Foucault, si tratta di lotte trasversali
che politicizzano desideri e bisogni: “la vita” in senso lato. Sono lotte an-archiche,
continua Chignola, nel senso che sono del tutto “disinteressate al tema classico della
conquista del potere che non cercano un nemico ultimo, ma quello più prossimo e

56 Riprendo l’espressione forgiata da Margareth Thatcher dall’ articolo di Amador Fernandez Savater, Le
anime e i cuori, pubblicato sul sito Effimera. http://effimera.org/le-anime-e-i-cuori-di-amador-fernan d ez-
savater/. E Amendola, A. Il lento divenire di un’efficace controcondotta, recensione del libro La nuova
ragione del mondo di Dardot e Laval, pubblicato sul Manifesto il 30 novembre 2013.
57 A riguardo si veda anche Chatterjee, P. Oltre la cittadinanza: la politica dei governati, a cura di Sandro

Mezzadra; traduzione di Matteo Bortolini, Roma, Meltemi, 2006.


58 Cfr. Chignola S., Che cos’è un governo? Saggio pubblicato sul sito
http://www.euronomade.info/?p=4417.

174
immediato che incontrano sui molti ed eterogenei livelli della circolazione del potere”59 .
In quest’ottica governare significa affrontare in permanenza il “governato” come una
resistenza che deve essere vinta e superata.
Nel titolo di questo paragrafo abbiamo evocato la necessità di costruire potere all’inter no
della normatività neoliberali. Ripartiamo da qui, dunque. Dalla necessità, ancora una
volta, di ricercare le condizioni in cui la costruzione di potere possa rappresentare al
contempo la nuova base per praticare molteplici rotture del comando neoliberale e per
immaginare uno spazio altro della politica, del comune.
Cercando di rintracciare le coordinate di sviluppo della governance neolibera le,
nell’attuale contesto biopolitico, abbiamo cercato di far emergere le contraddizioni su cui
si dispiegano i processi di produzione delle soggettività; da una parte, come il biopotere
agisce sui corpi e le menti degli individui forgiando un soggetto attraverso
l’interiorizzazione di un’etica della prestazione che lo spinge verso una mai conclusa
“impresa di sé”, una ultra-soggettivazione60 , come scrivono Dardot e Laval, dall’altr a,
come l’irruzione del “governato” nel campo della politica spinge costantemente il potere
a ridefinirsi in maniera strategica.
Creare potere, dicevamo. Cosa significa? Abbiamo puntualizzato più volte che non c’è
nessun “Palazzo d’inverno” da conquistare e, nel nome di una continua ricerca di una
democrazia radicale, di una democrazia del comune, abbiamo quindi criticato le rigid it à
dei marxismi: il mito, appunto, della presa del potere nel senso dell’appropriazione della
macchina dello Stato borghese (per utilizzare un’espressione marxiana); la chiusura della
potenza rivoluzionaria all’interno delle strutture del potere costituito; la transizio ne
rivoluzionaria guidata da una qualsivoglia dittatura (come se libertà ed uguaglianza si
affermino con il terrore e il servilismo). Evidentemente porre il problema del potere
significa immediatamente porre il problema del governo, o meglio delle pratiche di
governo, senza tuttavia ridurre l’intera questione attorno alla conquista di “un governo”,
sia questo nazionale, regionale, municipale (ovviamente non possiamo esimerci dal
salutare felicemente l’esperienza di governo municipale di Ada Colau con la plataforma
ciudadana “Barcelona en Comú”). Si tratta di realismo politico; sappiamo bene che il

59 Cit. Ibidem
60
La “razionalità” neoliberale spinge il soggetto ad autorappresentarsi come capitale umano; ciò significa
spostare sempre in avanti la barra della prestazione che ci si autoimpone e del godimento che si ricerca, in
un superamento indefinito di se stessi. Potremmo dire che siamo di fronte ad un divenire impresa da parte
del soggetto. Quante volte ci siamo sentiti dire investi sulla tua formazione, aggiorna il tuo profilo, sii
flessibile al mercato.

175
potere finanziario non può essere né spezzato né tantomeno piegato da semplic i
“governi”, per di più “corrotte” dalla penetrazione al loro interno dei criteri e della
razionalità neoliberale (sulla quale poggia il capitale finanziario) 61 . Come scrivono
puntualmente Mezzadra e Negri, si tratta di “innestare processi di una nuova verticalità
sull’orizzontalità delle lotte, capaci tanto di dare vita a istituzioni autonome, a vere e
proprie forme di contropotere, quanto di fare irruzione all’interno delle istituzio ni
pubbliche esistenti piegandole a un progetto di liberazione”62 . Ovviamente “l’irruzione ”
all’interno delle istituzioni pubbliche deve essere letta come momento strategico e al di
là di della diatriba riformismo e rivoluzione che si impose all’interno del movime nto
operaio nel primo Novecento. Bisognerà a questo punto provare ad immaginare un lungo
processo di articolazione tra lotte sociali, costruzione di potere e pratiche di governo,
ovvero d’impiantare la verticalità sull’orizzontalità della moltitudine. Dovrebbe essere
ormai chiaro che quando parliamo di verticalità non ci riferiamo all’istituto della
rappresentanza politica ma al fatto che bisogna pensare (e praticare) una relazione
organizzativa che faccia leva da un lato sulle capacità della moltitudine di imporre agende
in totale autonomia rispetto alle mediazioni di partiti o sindacati63 e sui processi di
soggettivazione delle singolarità dei governati o, più brevemente, sul fare moltitud ine
(4.1); e dall’altra, sulla capacità di fissare il potere prodotto dalle dinamica e dal ritmo
delle lotte in una stabile configurazione istituzionale senza che il rapporto di
composizione tra queste due dimensioni venga interrotto o chiuso.
Proviamo ad azzardare una suggestione allora: possiamo immaginare di declinare in
senso democratico il concetto di governance, dato che i suoi meccanismi hanno il merito
di adattarsi al contesto biopolitico, al continui processi di globalizzazione, e render conto
dei processi di globalizzazione che hanno determinato la crescente autonomia delle reti
delle singolarità, nonché della deterritorializzazione e dell’incommensurabilità delle
forme del valore prodotto dalla moltitudine? Potrebbe suonare come una provocazione;
eppure, crediamo che la questione del potere debba porsi con tutta la sua urgenza senza
però essere vittime di logiche meramente reattive che propongono di contrapporre alla
governance neoliberale le strutture giuridiche del governo statuale sia la soluzione. Non

61 Cfr. Mezzadra, S. e Negri, A. Politiche di coalizione nella crisi europea


http://www.euronomade.info/?p=5397.
62 Cit. Ibidem.
63 Riporto un’espressione di Carl Schmitt sulla natura antidemocratica della rappresentanza: “il

rappresentativo contiene cioè proprio il non democratico in questa “democrazia” in Schmitt, C., Dottrina
della Costituzione, Giuffré, Milano, 1984, p.288.

176
crediamo sia così; del resto, come già ribadito più volte, tutta una serie di fenomeni globali
sfuggono alla presa dello Stato, eccedono sistematicamente la rigidità delle strutture
giuridiche della statualità. D’altronde il passaggio dal governo, inteso come government,
alla governance, può essere descritto in termini giuridici come il passaggio da un sistema
compatto e unificato a una configurazione, potremmo dire, più plastica e pluralistica.
Come già segnalato, le tecniche e le pratiche della governance possiedono la flessibilità
e la fluidità necessarie per adattarsi in maniera costante ai mutamenti delle situazioni.
Dovremmo dunque impossessarci del concetto di governance e declinarlo nello strumento
della democrazia? Forse, visto la velocità e la turbolenza delle trasformazioni che
investono le nostre vite. Gli strumenti della governance tendono ad eccedere la rigid ità
dei sistemi giuridici e delle strutture normative, cogliendo perfettamente la
frammentazione dei sistemi giuridici sotto la pressione della qualità dei conflitti che
investono lo spazio globale.
Come evidenziato abbiamo la necessità di costruire potere, o meglio la necessità di
ricercare le condizioni affinché questo possa essere costruito. E bisogna farlo dall’inter no
dei rapporti di potere ipotecati dalla governance neoliberale, dall’interno del ventre della
bestia. Porre con forza la questione del potere significa invocare immediatamente la
questione del governo e soprattutto significa interpellare la moltitudine in quanto è solo
attraverso questa che il comune può pensare la questione del potere. In quest’ottica il
comune si presenta come il problema che la moltitudine deve risolvere andando oltre la
sua impotenza e divenire essa stessa principe. La via dell’autogoverno è sicurame nte
molto lontana, ecco perché dovremmo piuttosto porci il problema del come dare
verticalità alle azioni politiche della moltitudine. È sullo iato aperto tra libertà e dominio,
tra autonomia e controllo, che dobbiamo posizionarci e pensare il rapporto sempre aperto
del governo. Come governare l’ingovernabile?
Se è vero che la(le) questione(i) rimane aperta e il cerchio non riesce a chiudersi, è anche
vero che solo pensando il problema del potere la moltitudine potrà finalmente superare i
suoi limiti, l’impotenza, e costruire il comune come nuovo spazio politico di libertà e
uguaglianza.

177
4.3Alla ricerca della democrazia del comune!

Abbiamo la possibilità di ricominciare la


storia del mondo. Una situazione simile
non si è più ripetuta dai tempi di Noè.
Thomas Paine,
Senso comune

Non possiamo certo festeggiare l’avvento dell’anno zero come fece Thomas Paine nel
suo pamphlet Common sense, pubblicato per la prima volta il 10 gennaio 1776 e rivolto
ai cittadini delle colonie americane. Sarebbe tutto molto più semplice ma purtroppo o per
fortuna non c’è nessun anno zero da cui (ri)partire. La storia non è mai finita, così come
non si sono mai estinte le forme della violenza e del dominio dell’uomo sull’uomo. Non
c’è nessun libro da cominciare da zero, ma un libro da continuare a scrivere. Eppure la
storia a volte può prendere strade inaspettate sotto la spinta delle lotte per la libertà e
l’uguaglianza. Si tratta dunque di ripartire da qui, o meglio di continuare a camminare
alla ricerca frustrante e contradditoria della democrazia, perché la sua storia, crediamo,
come scrive Walth Withman, debba essere ancora scritta. Questo passaggio lo si può
compiere solo nel tempo perché il passato presenterà sempre il suo conto, e questo
passato, appunto, è carico di violenza e dominio. Nessun mondo nuovo dunque, ma questo
mondo sul quale abitiamo, soffriamo, amiamo e lottiamo. Ovvero il mondo che
costruiamo e prende forma quotidianamente nell’immanenza delle nostre vite. Nessuno
spazio idilliaco, pacifico e privo di contraddizioni. Quello sarebbe il paradiso.
Ecco che allora sarà dall’interno delle maglie del potere neoliberale che dobbiamo
muoverci per la ricerca e la costruzione del comune. È sulle linee di confine che
attraversano i luoghi e i tempi della politica che dovrà affermarsi un nuova dimens io ne
politica. E ancora, è dentro e contro la “ragione neoliberale” che dovrà fissarsi quella che
Dardot e Laval chiamano la ragione del comune della quale si rintracciano le orme nelle
pratiche generate dalla cooperazione sociale. È dunque dalla democrazia che dobbiamo
ripartire laddove, parafrasando Wendy Brown, il neoliberalismo opera attraverso processi
di de-democratizzazione nel tentativo di spoliticizzare la società, rimuovere il conflitto e

178
ipotecare i rapporti di dominio che innervano l’intero tessuto politico-sociale-econo mico
della società. È verso una radicalizzazione della democrazia che dobbiamo orientarci per
coglierne il significato più vero e, quindi, provare a disegnare traiettorie democratiche
capaci di parlare il linguaggio della libertà e dell’uguaglianza, il linguaggio del comune.
Riprendiamo allora Etienne Balibar per afferrare il carattere conflittuale della
democrazia, nonché per rintracciare il “processo istituzionale” che deve accompagnare la
costruzione del (nostro) comune.
Andiamo per ordine. Nel variegato mondo delle scienze sociale, la corrente maggiorita r ia
considera il contratto sociale come il fondamento delle istituzioni, l’altra, che per forza di
cose dobbiamo qualificare come minoritaria, ritiene che l’origine e il motore delle
istituzioni sia il conflitto sociale. Mentre la prima, permeata dall’idea hobbesiana per cui
il consenso al contratto è dato a condizione che il diritto sia immunizzato dal pericolo
della ribellione, si propone di salvaguardare l’ordine sociale eludendo il conflitto, la
componente minoritaria, invece, ritiene che il conflitto sia immanente alla società in
quanto ne costituisce una dinamica costituente, o più semplicemente è attraverso il
conflitto che prende forma e vive la società. Il fenomeno del conflitto, nella modernità,
“ha sempre evocato un “fantasma” minaccioso per il potere e la sovranità degli Stati”64
ed è per questo motivo che è sempre stato condannato cercando di esorcizzarne il
potenziale destabilizzante. Machiavelli e Spinoza non si riferiscono soltanto al conflitto
come fondamento delle istituzioni, e cioè alle insorgenze contro l’autorità, ma soprattutto
come motore interno della moltitudine nel suo divenire. Lo sviluppo delle istituzioni può
essere democratico soltanto se resta rispondente e aperto al conflitto in quanto “fattore
costituente delle istituzioni”65 .
La società, in quanto complesso organizzato di individui, si basa su una serie di regole e
ordinamenti che le conferiscono stabilità e al tempo stesso pongono le basi del suo vivere
interno. Queste regole sono appunto ciò che definiamo istituzioni. Potremmo anche dire
che le istituzioni rappresentano in qualche modo lo spirito del tempo e quindi sono
soggette a determinati contesti storici e geografici, nonché a determinati rapporti di forza
che sono andati consolidandosi nella società.
Se rappresentiamo le istituzioni attraverso la lente della linea maggiorita r ia,
l’insurrezione, che rappresenta il polo dell’antinomia costitutiva del concetto stesso di

64 Cit. Del Lucchese, F., Tumulti e indignatio: conflitto, diritto, moltitudine in Machiavelli e Spinoza,
Roma, Ghibli, 2004, p. 15
65 Hardt, M. E Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p.353.

179
democrazia, sembrerebbe bloccarsi nel momento in cui incontra, o si scontra, con
l’istituzione. Da una lato, le rivolte e le ribellioni che non hanno la possibilità di darsi una
continuità istituzionale sono condannate a essere rapidamente assorbite dall’ordine
costituito; dall’altro, la loro cooptazione all’interno dei regimi istituzionali è funzionale a
ricucire gli strappi provocati dalle insorgenze e a dissimulare il conflitto. Un processo
istituzionale radicato sul conflitto invece, secondo la così detta linea minoritaria, può
consolidare l’insurrezione senza con ciò negare la sua capacità di rottura e il suo potere.
Piuttosto che assumere una o l’altra posizione, ciò che risulta essere interessante è mettere
in rilievo il carattere ambivalente e la forte tensione che intercorre tra il polo
insurrezionale e quello istituzionale. È necessario allora ritornare sulla questione di
principio sottesa all’aporia di una istituzionalizzazione del conflitto, che avevamo già
sollevato parlando del concetto di cittadinanza, in quanto in tale questione possiamo
rintracciare le ragioni per cui “la democrazia deve apparire come un regime
“impossibile”, ma anche paradossalmente […] ineliminabile”66 . In un certo senso
potremmo dire che la democrazia è il regime che rende il conflitto legittimo. In altri
termini, la democrazia si presenta come la macchina istituzionale che trasforma i conflitti
senza abolirli, facendoli passare da una funzione distruttiva a una costruttiva, o più
semplicemente da una forma selvaggia e disordinata a una civilizzata 67 . Ancora una volta,
come nella discussione sulla cittadinanza, assumere il movimento tra un polo
insurrezionale e uno istituzionale come elemento costitutivo, e ineliminabile, della
democrazia, non significa imbrigliare la nostra immaginazione politica ad uno schema
dialettico predefinito e senza fine, ma essere realisti e collocare gli spazi di possibilità
politica del comune all’interno delle contraddizioni del nostro presente. Facciamo
piuttosto emergere il carattere conflittuale della democrazia o, per dirla con Balibar,
“l’aporia di una democrazia conflittuale”.
La ricerca di una democrazia radicale, assoluta, non può che partire dalla critica all’idea le
democratico “neutro” sotteso alle formulazioni liberali della democrazia. Il liberalis mo
politico definisce lo stato democratico come moralmente neutro, cioè rispettoso e super
partes rispetto alle varie concezioni morali. Questa credenza è però infondata, dato che
le nozioni di giusto e razionale hanno un carattere prettamente morale. È, in fondo, l’idea
occidentale e liberale contemporanea della democrazia, la quale aspira a delegittimare gli

66 Balibar, E. Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p.116.


67
Si veda Geuna, M., Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica . Pubblicato in Conflitti, a cura
di Arienzo, A. e Caruso, D., Napoli, Dante & Descartes, pp. 19-57.

180
“avversari”, le forze definite antisistemiche perché ne mettono in discussione le
fondamenta, restando però neutrale. Per questo motivo essa incarna una concezione
morale specifica e unilaterale, che attribuisce certi significati alla giustizia e alla libertà 68 .
Il problema fondamentale allora sarà quello di riuscire a conciliare l’ideale democratico
di sovranità popolare con i principi del liberalismo – divisione dei poteri, diritti civili
ecc…-, dato che il rispetto dei secondi escluderebbe e delegittimerebbe ogni proposta
politica, come invece sembrano consigliare i principi della democrazia. È qui il paradosso
del liberalismo politico. In realtà la nozione di conflitto non è assolutamente estranea alla
tradizione liberale. In quanto dottrina politica, il liberalismo si caratterizza per la propria
insistenza sull’importanza del pluralismo in politica. Eppure, questo pluralis mo
sembrerebbe un concetto vuoto, in quanto privo di un certo grado di antagonismo, di
agonismo, per dirla come Chantal Mouffe69 . Questo indica come tale approccio assuma
una dimensione prettamente morale nel conferire un ruolo centrale ai valori liberali
rispetto a quelli democratici e come il discorso politico liberale ha via via ristretto la
potata e il campo dei conflitti che potevano entrare nel gioco del pluralismo e del suo
intrinseco agonismo. Va da sé che la razionalità normativa, intesa come base del
liberalismo, non può essere neutrale ma difende una concezione morale molto forte, che
di fatto rende legittime le sole istituzioni liberali, rendendo illegittime ogni opposizione
a queste.
Nelle teorizzazioni del liberalismo politico troviamo il presupposto implicito che il
consenso, alla fine, deve avere la meglio sulla manifestazione della contraddizione. Il
liberalismo sembrerebbe dunque oscillare tra “una umanità imposta o immaginata senza
conflitto e una comunità risultante dalla regolazione del conflitto sotto la guida della
ragione”70 . Ma la conseguenza di ciò, rileva Balibar, è dunque un’aporia propria del
liberalismo: nel momento in cui il conflitto eccede le forme di espressione puramente
simboliche, le convenzioni del dibattito pubblico, oppure fugge dai canali istituzio na li
esistenti e riconosciuti e, dunque, rompe in qualche maniera quell’asse tra governo e
obbedienza, allora la ratio politica liberale non è più sostenibile e dovrà dunque cedere il
passo all’alternativa della neutralizzazione del conflitto politico. Quello che salta subito
all’occhio, ci pare, è che un conflitto piegato alle regole che gli impongono di contribuire
al consenso, o tradotto in un conviviale scambio di argomentazioni e, dunque, un conflitto

68 Cfr. Rawls, J. Liberalismo politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994.


69 Mouffe, C., The democratic paradox, London e New York, Verso, 2000.
70 Cit. Balibar, E. Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 121.

181
politically correct, perda tutta la sua potenza e si trasformi in una finzione giuridica. Il
conflitto è accettato a patto che sia limitato dunque. Sorge spontanea una domanda a
questo punto: parlare di conflitto limitato o autolimitato non significa in qualche modo
escludere a priori quelle che sono le vere poste in gioco politiche: le lotte di liberazio ne,
le rivolte contro le ingiustizie, le istanze di libertà ed uguaglianza; e dunque condannare
la democrazia ad uno stato latente d’immobilismo?
In quest’ottica, un conflitto che si vuole reale non può limitarsi mai al rispetto delle regole
stabilite, in quanto il suo bersaglio non può non essere il contenuto stesso del pluralis mo
liberale. Possiamo a questo punto dire, con Balibar, che ogni conflitto politico effettivo
porta con sé un elemento di illegittimità e che, nella misura in cui democrazia e conflitto
si trovano in un rapporto costitutivo, la democrazia sarà allora un “regime di potere
illegittimo”71 . Una volta constatata l’irriducibilità del conflitto ne risulta che la
manifestazione periodica o permanente non può ridursi alle semplici regole del gioco, ma
si pone sempre in eccesso rispetto a qualsiasi consenso, “al di là dei limiti di un pluralis mo
coerente”72 . Ritroviamo qui l’idea proposta da Chantal Mouffe: la democrazia è una
forma paradossale della politica, in quanto un agonismo puro è insostenibile. “Quello che
l’agonismo cerca disperatamente di inscrivere nella democrazia stessa non è una
complementarietà del conflitto e dell’istituzione, ma piuttosto una immanenza di ciascun
termine nell’altro”73 . Ciò ci permette di definire ciascuno dei due termini – istituzione e
conflitto – con il suo contrario: ogni conflitto può evolversi ed essere sussunto in una
istituzione, e ogni istituzione è al contempo il luogo potenziale di un conflitto futuro.
Ciò che propone la filosofa belga, riprendendo il Foucault di Bisogna difendere la società
che suggerisce di rovesciare la famosa formula di Clauwewitz e di vedere nella politica
“la continuazione della guerra con altri mezzi”, è di passare dall’antagonis mo
all’agonismo. Brevemente, significa smettere di percepire l’altro come un nemico da
distruggere, per considerarlo un avversario da fronteggiare e combattere. In quest’ottica,
dice Mouffe, l’avversario viene legittimato nel contesto plurale di agonismo, ovvero di
scontro/confronto tra diversi posizioni, poiché anch’egli si riconosce nei princip i
democratici comuni, ovvero di libertà e di eguaglianza. A differenza di Rawls e di
Habermas, però, il significato di questi due principi viene definito grazie al conflitto che
permea la democrazia, e non attraverso la discussione razionale. Nel tentativo di far

71 Cit., ivi., p. 123.


72 Ivi. p. 127
73 Ibidem.

182
emergere il conflitto come ineliminabile all’interno del contesto democratico, in quanto
sua essenza costitutiva, Mouffe propone un agonismo che, nonostante essere
maggiormente ricettivo delle sfide politiche odierne derivanti dalle molteplici istanze
delle nostra società globale, sembrerebbe volto solamente a rettificare una concezione
liberale della politica come regno dell’argomentazione e della norma giuridica senza vera
alternativa74 .
Come abbiamo visto per il discorso sulla cittadinanza, Balibar rileva l’impossibilità di
uscire dall’aporia costitutiva della democrazia, ovvero da ciò che la rende di fatto “un
regime tanto impensabile quanto ineliminabile”. Rimaniamo dunque ancorati a questa
idea di democrazia conflittuale per avanzare verso la dimensione del comune. D’altronde,
come già sottolineato precedentemente, è proprio lo stesso concetto di politica ad
anticipare quell’oscillazione interminabile che deriva “dall’unità dei contrari”:
insurrezione e costituzione, potere costituente e potere costituito. Ancora una volta,
riconoscere e far emergere la dimensione aporetica della democrazia non signif ica
deporre le armi e adagiarsi allo stato di cose presenti, ma essere realisti e comprendere
che la posta in gioco è proprio quella di collocare la nostra immaginazione politica
all’interno di queste contraddizioni per poter aprire spazi di possibilità politica, capaci di
parlare il linguaggio della libertà e dell’eguaglianza, del comune 75 . Questa prospettiva
permette di pensare, appunto, una trasformazione incessante, “che impedisce al politico
di trovare una forma definitiva”76 e dunque di lasciare aperti gli spazi possibili del
comune.
Ecco che allora il nostro discorso sulle istituzioni democratiche del comune non può che
fissarsi all’interno di questo campo di tensione e problematizzazione; come far vivere il
conflitto all’interno delle istituzioni, o meglio come immaginare istituzioni sempre in
divenire, caratterizzate da una temporalità sempre aperta? Potremmo dire che le lotte, o
le rivolte, diventano potenti e durature quando sono in grado di inventare e
istituzionalizzare nuove pratiche collettive, ovvero quando sono in grado di creare nuove
forme di vita e nuovi modi di “stare al mondo”. In questo senso si è mossa la rivolta

74 Cfr. Ivi.p. 129.


75 È lo stesso Tocqueville ne La Democrazia in America ad osservare la forza espansiva dell’uguaglianza:
prima o poi, sosteneva, gli uomini sarebbero divenuti uguali in tutti i campi (si riferiva ovviamente
all’uguaglianza politica più che a quella sociale). Questa sua constatazione coglie nel segno questo senso
di movimento e trasformazione permanente intrinseco alla politica: una volta dichiarata l’uguaglianza – e
la libertà – come principio questa diventa un motore costante di mobilitazione, la cui potenza non può
certamente essere contenuta, e ridotta, all’interno di un ordine costituzionale, nonostante Napoleone
affermò nel 1799 che la rivoluzione essendo ancorata ai principi che l’hanno cominciata è perciò finita.
76 Balibar, E. Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p.132.

183
zapatista del 1994, assumendo una dimensione costituente con l’istituzione delle
assemblee autonome, i caracoles, strutture comunitarie di base e le juntas del buon
governo77 . L’esperienza zapatista dal nostro punto di vista è importante nella misura in
cui, oltre ad essere un potente produttore di immaginario politico per le varie lotte che si
pongono immediatamente sul piano del comune, mostra come il neolibera lismo non sia
la fine della storia, come abbiamo riaffermato più volte, ma il contesto nel quale
“produrre” materialmente lo spazio del comune. E ancora, ci mostra come il divenire
istituzione del processo “rivoluzionario” non ha sicuramente ricucito lo strappo prodotto
ma lo ha allargato. Dunque l’istituzione consolida usi, costumi, pratiche, capacità
collettive che sono in fondo le sostanze di nuove forme di vita; un’ontologia. L’istituzio ne
non dovrebbe dunque formare, fabbricare, individui e identità, ma essere il prodotto
dell’azione comune delle singolarità. In quest’ottica il processo istituzionale è una tappa
obbligatoria del fare moltitudine in quanto permette “alle interazioni e ai comportamenti
delle singolarità di acquisire gradi di consistenza e con ciò trasformarsi in modi di vita
senza cristallizzarsi in rigidità identitarie”78 . Dicendo questo, però, un’obiezio ne
“scientifica” potrebbe immediatamente essere avanzata: l’istituzione che si sta
immaginando non può costituire la base della sovranità. Questa prospettiva presuppone
che la nostra vita sia caratterizzata, come nello stato di natura, dal pericolo costante. È
solo entrando a far parte delle istituzioni, ovvero conformandosi alle norme e gli usi della
società, e trasferendo contestualmente una parte dei loro diritti e dei loro poteri all’autor ità
sovrana che gli individui possono ottenere protezione. Se è vero che le istituzioni nella
società sono le fondamenta dell’ordine costituito 79 , formano cioè l’ordine costituziona le
della sovranità, allora abbiamo bisogno di inventare istituzioni altre, sembrerebbero
affermare Hardt e Negri. Secondo questa accezione allora le istituzioni non sarebbero un
potere costituito, cristallizzato una volta per tutte, ma un potere costituente nella misura
in cui norme e obblighi istituzionali non sono gli effetti di un trasferimento di diritti
sovrani ma gli effetti di interazioni regolari e, dunque, sistematicamente aperte al
processo evolutivo delle singolarità.

77 Rimando ad un testo digitale sul funzionamento della struttura organizzativa delle comunità zapatiste
in Chiapas Gasparello, G. Dai Municipi Autonomi alle Giunte di Buon Governo: il cammino
dell’autogoverno nelle comunità indigene zapatiste, 2004. http://www3.unisi.it/cisai/gasparello.htm
78 Hardt, M., Negri, A. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p. 356.
79 All’interno delle istituzioni il rapporto tra il diritto e l’obbligazione deve essere finalizzato al

mantenimento dell’ordine sociale.

184
Immaginare nuove istituzioni capaci di afferrare e far emergere in tutta la sua potenza il
comune, è oggigiorno più che mai urgente soprattutto a fronte dei continui processi di de-
democratizzazione della democrazia avanzati dal neoliberalismo 80 . Come abbiamo visto
nel II capitolo prendendo in esame il libro di Dardot e Laval La nuova ragione del mondo:
critica della razionalità neoliberale, tra il liberalismo e il neoliberalismo c’è una
differenza sostanziale. L’autonomia relativa della sfera economica e di quella politica,
cioè la tesi dell’esteriorità dello Stato rispetto all’economia è ormai chiaramente obsoleta.
Diventa dunque possibile combinare la deregolazione del mercato con permanenti
interventi dello Stato o di altri istituti del potere nel campo della società civile, interventi
che mirano a creare individui completamente nuovi, unicamente governato dalla logica
del calcolo economico. È chiaro che a fronte dei continui processi di de-
democratizzazione della democrazia la sfida sarà quella, nuovamente, di mantenere aperta
la dialettica politica tra insurrezione e istituzione laddove il neoliberalismo tende non
soltanto a “neutralizzare quanto più possibile l’elemento di conflittualità insito nella sua
figura classica, ma vuole privarla preventivamente di ogni significato, e creare le
condizioni di una società in cui le azioni degli individui […] rientrano ormai in un unico
criterio: quello dell’utilità quantificabile” 81 . Riprendendo Foucault e la sua categoria di
governamentalità82 , Brown afferma che la governamentalità neoliberale istituisce un
soggetto “libero” che decide razionalmente tra diverse linee di azione, opera scelte,
calcoli ed è responsabile delle conseguenze del suo agire razionale. In questo modo lo
Stato dirige e controlla i soggetti senza essere responsabile per essi; in quanto
imprenditori individuali in ogni aspetto della vita, i soggetti diventano interame nte
responsabili del loro benessere. In questo quadro plasmato dalla ragione neoliberale i
soggetti sono controllati attraverso la loro libertà, non semplicemente perché la libertà nel
quadro di un regime di dominio può essere uno strumento del dominio stesso, ma in virtù
della moralizzazione delle conseguenze della libertà. Ciò significa che il ritiro dello Stato
da alcune atee e la privatizzazione di alcune funzioni statali non corrispondono a un
annullamento del governo, ma piuttosto costituiscono, per dirla con Foucault, ad una

80 Si veda, in Edgework. Critical Essays on Knowledge and Politics, Princeton – Oxford, Princeton
University Press, 2005.
81 Balibar, E. Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp.135-136.
82 Va rammentato cosa bisogna intendere per governamentalità in senso foucaultiano: si tratta dell’insieme

di pratiche attraverso le quali un comportamento spontaneo degli individui può essere modificato, ovvero
dell’esercizio di un potere sul loro potere di resistenza e di azione, o con la disciplina, o con la diffusione
di modelli di comportamento culturale.

185
tecnica di governo83 . Il neoliberalismo in quest’ottica sposta “la competenza regolatoria
dello Stato” verso individui razionali, incoraggiando dunque gli stessi individui a dare
alle loro vite una specifica forma imprenditoriale. Va da sé che il neoliberalismo, secondo
Wendy Brown, non si è accontentato di agire nel senso di una ritirata del politico (come
abbiamo ripetuto più volte non c’è nel pensiero neoliberale una “fobia per lo Stato”, per
dirla con Foucault), ma si è impegnato appunto a ridefinire il politico, ad imporre una
“nuova razionalità”. Oggi la rivoluzione neoliberale assume i tratti mostruosi della crisi
permanente e irreversibile, che permea tutti gli ambiti della società. Come rileva in
maniera molto precisa Wendy Brown, riprendendo l’idea foucaultiana della produttività
del potere, per “nuova razionalità” neoliberale dobbiamo intendere una soluzione storica
ai problemi di adattamento dei soggetti al capitalismo, ovvero dell’adeguamento dei
comportamenti individuali alle “nuove” logiche del capitale.
Sarà allora dentro e contro la “nuova razionalità” neoliberale che dobbiamo giocare la
carta politica del comune. Il comune, in quest’ottica, si presenta al contempo come
orizzonte da perseguire e dimensione politico sociale da costruire ed affermare contro i
continui processi di de-democratizzazioni operati dal capitale. A questo riguardo
interessante è concludere con la “democratizzazione della democrazia” avanzata da
Balibar; non si tratta di un processo di perfezionamento del regime democratico né
tantomeno uno stato che trascende qualsiasi regime possibile, sempre a venire, ma indica
un “differenza rispetto alle pratiche attuali della politica, o meglio ancora: un differenzia le
che disloca le pratiche politiche in modo da affrontare apertamente la carenza di
democrazia delle istituzioni esistenti e da trasformarle più o meno radicalmente”84 . E,
ancora, implica che si dia priorità all’obiettivo positivo di trasformazione del concetto,
ovvero di invenzione democratica, a fronte delle continue sfide apportate dai processi di
de-democratizzazione della democrazia da parte del capitale. Democratizzazione della
democrazia ovviamente non sta solamente a significare una trasformazione delle
istituzioni o dei rapporti di potere, ma implica al contempo la produzione di soggettività
che nella terminologia foucaultiana corrisponde al passaggio dall’assoggettamento alla
soggettivazione e prevede il superamento della “servitù volontaria” descritta da Etienne
de La Boétie. Nuovamente, come sottolinea Balibar, insurrezione significa conquista
della democrazia, ma ha sempre come contenuto la “ricerca dell’emancipazione collettiva
e della potenza che questa conferisce ai suoi partecipanti, in contrapposizione all’ordine

83 Cfr.Brown, W. Neoliberalism and the End of Democracy (2003), pp. 37-58.


84 Balibar, E. Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p.161.

186
costituito che tende a reprimere questa potenza”. Il momento storico che oggi viviamo ci
illustra perfettamente la radicalità di questa alternativa e la forte incertezza che comporta.
Tanto c’è ancora da fare. Se la democrazia del comune appare oggi come un miraggio
lontano nel deserto che ci circonda non resta che continuare a immaginare nuove ipotesi
costituenti capaci di creare materialmente nuovi spazi di libertà e di uguaglianza, nuovi
spazi del comune. Ancora una volta, non si tratta di conquistare o cambiare un governo,
né tantomeno di fantasticare su un mondo idilliaco che mai verrà sulla terra, ma piuttosto
di alimentare un processo molteplice di articolazione e di autodeterminazione della vita .
D’altronde l’abbiamo ripetuto più volte; è dalla nostra vita che dobbiamo ripartire per
inventare e costruire lo spazio immanente del comune. Ricominciare a sperimentare
quotidianamente e rasoterra sulle forme di vita: “pensare e mettere in opera nuove
pratiche collettive, espanderle, immaginare nuove mappe, bussole e linguaggi per
nominarle e comunicarle. La politica è il metodo, ma l’obiettivo è quello di cambiare le
nostre anime e i nostri cuori”85 . Solo così potrà prendere forma quel “sogno di una cosa”
che chiamiamo comune.

85 Fernandez, S. Le anime e i cuori, articolo pubblicato sul sito Effimera, http://effimera.org/le -anime-e-i-
cuori-di-amador-fernandez-savater/

187
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