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Enrica Perucchietti

Prefazione di Pino Cabras

FALSE FLAG
SOTTO FALSA
BANDIERA
STRATEGIA DELLA
TENSIONE
E TERRORISMO DI
STATO

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coordinamento Sara Broccoli


editoriale

revisione Emanuele Cangini

editing D. Ganzerla, V. Pieri

copertina Matteo Venturi

I edizione giugno 2016


eBook

isbn 9788865881439

© Arianna Editrice 2016


è un marchio del Gruppo Editoriale Macro
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Telefono e fax: 051.8554602
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«…Una volta, quando a lui capitò di accennare alla guerra
contro l’Eurasia, lei lo lasciò di stucco, dicendogli con
nonchalance che a parer suo non c’era una guerra in corso.
Le bombe razzo che ogni giorno cadevano su Londra
venivano probabilmente lanciate dallo stesso governo
dell’Oceania, “giusto per tenere la gente nel terrore”».
GEORGE ORWELL, 1984
«Molti uomini intelligenti diedero per scontato che, in un
modo o nell’altro, i veri cospiratori non erano altro che gonzi
e strumenti di uomini più scaltri di loro e che nella loro matta
impresa fecero il gioco voluto dai ministri dello Stato».
PADRE JOHN GERARD
«Naturalmente la gente non vuole la guerra. Perché un
povero diavolo di una fattoria dovrebbe voler rischiare la
propria vita in una guerra quando al massimo può ottenere di
tornare alla sua fattoria tutto intero? […]
Ma, dopotutto, sono i governanti del Paese a determinare la
politica, ed è sempre facile trascinare con sé il popolo, sia
che si tratti di una democrazia, di una dittatura fascista, di un
parlamento o di una dittatura comunista.
Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al
volere dei capi. È facile. Tutto quello che si deve fare è dir
loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza
di patriottismo e per esporre il Paese al pericolo. Funziona
allo stesso modo in tutti i Paesi».
HERMANN GÖRING
«La storia può essere ridotta a farsa, soprattutto se è
asservita a un disegno politico».
ZBIGNIEW BRZEZINSKI
«La tecnica della false flag operation è vecchia quanto la
lotta per la conquista del potere sulla Terra».
ANDREAS VON BÜLOW
«Il terrorismo, nell’epoca moderna, è il mezzo con cui le
oligarchie scatenano contro i popoli guerre segrete che
sarebbe politicamente impossibile fare apertamente. […]
Il programma dell’oligarchia è perpetuare l’oligarchia».
WEBSTER TARPLEY
INDICE
PREFAZIONE di Pino Cabras
ANTEFATTO
INTRODUZIONE
Opportunità
CAPITOLO 1 - FALSARE LA STORIA DALL’USS MAINE A
PEARL HARBOR
USS MAINE
L’indagine dell’ammiraglio Rickover scagiona gli Spagnoli
L’incidente di Mukden
Un casus belli per Wilson
La nave da crociera Lusitania
L’incendio del Reichstag
Serve un capro espiatorio
Lo zimbello di turno: van der Lubbe
Il dossier Knospe
Pearl Harbor
Il giorno dell’inganno
CAPITOLO 2 - FALSI ATTENTATI IN PIENA GUERRA
FREDDA: DALL’EGITTO A CUBA, DA JFK A MORO
False flag in Medio Oriente
Il disastro di Baghdad
L’Unità 131
Cuba: il Progetto Mangusta
L’Operazione Northwoods
L’incidente del golfo del Tonchino
Il caso JFK
La controinchiesta della famiglia Kennedy
Le confessioni di John Hunt
Il caso Moro
CAPITOLO 3 - GLI ANNI DI PIOMBO TRA SERVIZI
DEVIATI, GLADIO E DEPISTAGGI
Enrico Mattei e le “Sette sorelle”
Piazza Fontana
Piazza della Loggia
Gladio
Strategia della tensione
P2
CAPITOLO 4 - COLPI DI STATO ETERODIRETTI. LA CIA
IN AMERICA LATINA
Le Confessioni di John Perkins
Un sicario dell’economia
Salvador Allende va eliminato
Due binari per eliminare Allende
Il golpe cileno
Gli archivi del terrore
Gli anni Ottanta
L’invasione di Panama
Saddam non si fa abbindolare da Washington
Le accuse di Chavez
INTERMEZZO
CAPITOLO 5 - LA GUERRA DI QUARTA GENERAZIONE:
DALLA SERBIA ALL’UCRAINA
Un passo indietro: massoneria e Rivoluzione francese
La Rivoluzione bolscevica
La longa manus di… George Soros
Il conflitto russo-ucraino
Il mistero del volo MH17
Il Nuovo Medio Oriente
Otpor!
False flag Srebrenica
Caos pianificato
La guerra di “quarta generazione” in Kosovo
Il Club Bilderberg dietro la guerra?
La misteriosa morte di Milošević
Operazione Horseshoe
CAPITOLO 6 - LA LIBIA NEL CAOS. GHEDDAFI E IL
“TRATTAMENTO MILOŠEVIĆ”
Le relazioni con l’Italia
Gheddafi finanzia Sarkozy
Le risorse del suolo libico e il Dinaro oro
La rovina del dollaro e dell’euro
Verso uno Stato africano unico
Le origini ebraiche di Gheddafi
Gli USA finanziano l’immigrazione?
CAPITOLO 7 - INGANNARE IL MONDO. DALL’UNDICI
SETTEMBRE A OGGI
Una nuova Pearl Harbor
La dottrina della guerra “preventiva”
Un evidente conflitto di interessi: Philip Zelikow
Ancora Brzezinski
Cui prodest?
Storia del WTC 7, l’edificio che non poteva crollare
L’ipotesi della termite
L’attacco al Pentagono
Una false flag?
Per il ministro Meacher la guerra al terrorismo è una
“fandonia” 182 Gli interessi della Casa Bianca
L’errore di Saddam
La trappola afghana
Gas, petrolio e oppio
CAPITOLO 8 - DIVIDERE PER UNIRE. IL MODELLO DEL
NEMICO NUMERO UNO, DA EMMANUEL GOLDSTEIN A
PUTIN
Il paradigma del controllo
L’alienazione dello spettacolo
Il potere dell’immaginazione
Le verità sulla fine di bin Laden
L’effetto politico
L’uomo che morì nove volte
Per i servizi segreti francesi al-Qaeda non esiste
Pubblicato un dossier francese dei segreti classificati
La malattia di Osama
Terrorismo in franchising
ISIS, una creazione della CIA?
Vladimir Putin
CAPITOLO 9 - SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO. QUANDO È
DIFFICILE DISTINGUERE TRA REALTÀ E FINZIONE
«Charlie Hebdo»
La presenza del Mossad
Lo schema dei wargames
Due morti misteriose
Le anomalie della strage
I fratelli Kouachi
L’ipotesi di false flag
La provenienza delle armi
L’attentato sul treno Amsterdam-Parigi
Gli attacchi di Parigi
Un messaggio per Francia e Germania?
CONCLUSIONI
PREFAZIONE
D a sempre il potere proclama dei valori
attraverso i quali si legittima, ma li nega con
una parte delle sue azioni con le quali si rafforza.
È una questione che si ripropone nel corso del
tempo. Niccolò Machiavelli affermava, ne Il
Principe, che «è molto più sicuro essere temuto
che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’
dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non
esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più
crudele, e guai ai vinti.
Nella variante moderna il potere vuole farsi
amare dal popolo promettendo la democrazia,
ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la
paura come strumento di governo, solo che ha
bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla
attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le
false flag, aggressioni ricevute sotto falsa
bandiera, attentati terroristici da addossare a
nemici veri o inventati, contro i quali scatenare
l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina
interi popoli.
Le false flag aiutano il nucleo più interno del
potere a conquistare il consenso sufficiente per
imporre la disciplina dettata dalla paura: gli
diventa più facile restringere le libertà,
neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo
ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle
vecchie costituzioni. Così come il maiale
Napoleone, ne La fattoria degli animali di Orwell,
diceva: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni
sono più uguali degli altri», oggi i governanti
sembrano dirci: «Tutte le libertà sono in vigore,
ma alcune lo sono meno delle altre».
Il prezzo da pagare può essere altissimo. Il
preavviso passa attraverso i secoli e ci viene da
uno dei padri costituenti degli Stati Uniti
d’America, Benjamin Franklin: «Chi è pronto a
dar via le proprie libertà fondamentali per
comprarsi briciole di temporanea sicurezza non
merita né la libertà né la sicurezza».
Il libro che avete in mano ricostruisce una serie
impressionante di vicende diverse, attribuibili a
differenti Stati e legate a circostanze storiche non
sempre connesse direttamente fra di loro, ma
accomunate da un metodo che sembra essere uno
strumento essenziale della moderna “arte di
governo”. Enrica Perucchietti entra nel dettaglio
sui misteri e le scoperte che rivelano, da un’altra
prospettiva, decine di incidenti militari, attentati e
azioni terroristiche: di fronte a tanti gialli politici,
per i quali i governi forniscono su due piedi
spiegazioni piatte, sprovviste di profondità,
riduttive, banali, riferite a killer solitari e a gruppi
isolati che non godrebbero di indecenti connivenze
dentro gli apparati dello Stato fra chi potrebbe
bloccarli, l’autrice del saggio fa invece affiorare
indizi, prove, collegamenti clamorosi, fino a
raccontare le storie che la censura di tipo moderno
aveva eclissato in mezzo alla sua immensa
produzione di notizie inutili. Perciò, nel libro
viene citato regolarmente il saggista statunitense
Webster Tarpley, che ha coniato un termine
efficacissimo, “terrorismo sintetico”, per
descrivere questo sistema, il quale altro non è che
«il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i
popoli guerre segrete che sarebbe impossibile fare
apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre
lo stesso programma politico. […] Il programma
dell’oligarchia è di perpetuare l’oligarchia».
In tante pagine il vostro sguardo potrà posarsi
su un secolo intero di vicende storiche innescate o
favorite dalle false flag, fino a notare come queste
diventino sempre più numerose. Episodi più
lontani nel tempo, come l’affondamento del
Lusitania, l’incendio del Reichstag o l’incidente
del Tonchino, diventano – decennio dopo decennio
– una prassi rodata e frequente che si moltiplica
nel corso degli ultimi quindici anni.
E cos’ha inaugurato quest’ultimo periodo?
Esattamente la più spettacolare e visionaria delle
false flag, lo scenario apocalittico dell’Undici
settembre 2001.
Quel che è venuto dopo – ossia la “guerra
infinita”, la “guerra al terrorismo”, lo spionaggio
totalitario coperto dal Patriot Act e altre leggi
liberticide – una volta illuminato dalla luce
terribile dell’Undici settembre, si è avvalso di una
sorta di “terapia di mantenimento” a base di
attentati piccoli e grandi, perpetrati da gruppi di
terroristi presso i quali sono sempre riconoscibili
l’ombra e l’impronta dei servizi segreti.
I servizi segreti sono il grande convitato di
pietra, sempre più ingombrante eppure ancora
sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e
giornalistiche. Anche se sono formalmente
subordinati al potere politico ed esecutivo, gli
apparati di intelligence hanno risorse enormi in
grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza
che possono mettere in campo le eventuali
commissioni parlamentari di controllo; pertanto
sono capaci di costruire delle reti di interessi che
in tutta autonomia possono condizionare sia
l’agenda politica, sia l’agenda dei media. Settori
interi di questi servizi giocano partite
autosufficienti, grazie a budget incontrollabili ed
enormi in grado di mettere in campo forze
pervasive.
All’interno di quello che certi politologi
definiscono “lo Stato profondo”, esistono settori
ombra del governo, dotati di proprie catene di
comando presso le Forze armate e di budget non
rendicontabili che uniscono risorse pubbliche e
autofinanziamento in simbiosi con le attività
criminali delle mafie, provvisti di idee proprie in
merito al modo di intendere l’interesse nazionale,
portati a costruire ogni tipo di rapporto con gruppi
terroristici, che poi manovrano con “leve lunghe”
e irriconoscibili.
Le attività sono organizzate e adempiute
mascherando ogni responsabilità riconducibile ai
governi, tanto che immense risorse vengono spese
per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte
con il noto principio della “plausible deniability”,
ossia la “smentita plausibile”.
Ove rimanesse ancora una notizia impossibile
da smentire, la si potrà disinnescare grazie
all’immenso arbitrio in mano ai dirigenti dei
media più importanti, che hanno mille intrecci con
il mondo dei servizi. Il giornalista tedesco Udo
Ulfkotte, che ha a lungo lavorato per «Frankfurter
Allgemeine Zeitung», uno dei principali quotidiani
tedeschi, ha scritto un saggio, divenuto un
bestseller, Gekaufte Journalisten (“Giornalisti
venduti”), in cui rivela che per molti anni la CIA
l’aveva pagato per manipolare le notizie e che
questa è una consuetudine ancora attuale nei
media germanici. Tutto fa pensare che la
consuetudine sia identica anche altrove. Di certo
non leggerete su «la Repubblica» una recensione
sul libro di Ulfkotte, mentre leggerete le geremiadi
dei suoi editorialisti su “dove andremo a finire con
questi complottisti, signora mia…”.
Come spiegarsi, altrimenti, il silenzio che
circonda certe notizie, che vengono pur date per
salvarsi la coscienza, ma non hanno un prosieguo,
una campagna di inchieste, alcun impegno?
Eppure perfino Human Rights Watch (HRW) ha
denunciato: «L’agenzia FBI pagava dei musulmani
per compiere attentati». Secondo un’indagine
compiuta su 27 processi e 215 interviste, l’agenzia
di intelligence interna americana «ha creato dei
terroristi sollecitando i loro obiettivi ad agire e
compiere atti di terrorismo».
Notare bene: “creato dei terroristi”. In che
modo?
«In molti casi il governo, usando i suoi
informatori, ha sviluppato falsi complotti
terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo
pressione su alcuni individui per farli partecipare e
fornire risorse per attentati», scrive HRW. Per
l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte
di operazioni portate avanti con l’inganno, e nel
30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato
un ruolo attivo nel complotto. «Agli americani è
stato detto che il governo veglia sulla loro
sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo
all’interno degli Stati Uniti», ha dichiarato Andrea
Prasow, vicedirettore di HRW a Washington, «ma
se si osserva da vicino, si scopre che molte di
queste persone non avrebbero mai commesso dei
crimini, se non fossero state incoraggiate da agenti
federali, e a volte anche pagate». La notizia, se
non la vogliamo ignorare, è semplice e terribile:
gran parte degli attentati terroristici sul suolo USA
è indotta dalla stessa organizzazione che li
dovrebbe combattere, cioè l’FBI.
Gli organi di informazione che hanno lasciato
appesa al nulla questa notizia impressionante sono
gli stessi che per anni – ad ogni attentato avvenuto
o sventato – hanno ripetuto i comunicati dell’FBI
senza chiedere spiegazioni. Queste veline
diventavano titoli urlati in prima pagina, notizie di
apertura dei telegiornali. Quando la verità emerge,
spesso molti anni dopo, non gode certo degli stessi
spazi, ma rimane confinata in qualche
insignificante pagina interna, in taglio basso. Chi
aveva voluto raggiungere un certo effetto con i
titoli cubitali, lo aveva già ottenuto. Resta,
viceversa, la prima impressione dell’allarme,
quando l’annuncio strillato e falso si deposita nella
coscienza di lettori e spettatori. Ed è per
responsabilità di quest’informazione – che si è
curata solo di aizzare (quando è stato comandato),
o di “sopire e troncare ” (quando era comodo) –
che ogni giorno ci è stato depredato un pezzo di
libertà, di sovranità, e infine imposto lo spionaggio
totalitario della NSA, l’agenzia che perfino di
ciascun lettore di questo libro, in nome della
sicurezza, possiede tutte le tracce delle
comunicazioni, tutte le e-mail, e conosce gli
orientamenti, i segreti personali; naturalmente è
anche in grado di ricattare ogni politico-
maggiordomo occidentale, esposto al tempismo di
qualche scandalo che lo potrebbe colpire e
affondare, se dovesse ribellarsi ai padroni dei
segreti.
Enrica Perucchietti ricompone un vasto
mosaico di false flag, che nell’insieme disegnano
un allarmante sicurezza permanente che ha fatto
da base giuridica e premessa politica per le guerre
di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché
per le leggi che hanno consentito lo spionaggio di
massa indiscriminato oltre ad aver reintrodotto gli
arresti extralegali assieme alla tortura.
In questo quadro emerge chiaramente il fatto
che il terrorismo sintetico è un’interminabile
catena di azioni in cui gli attori hanno sempre il
fiato sul collo dell’intelligence, che li manipola per
i propri fini. Quello che nel senso comune si
chiama “terrorismo” è in prevalenza una forma di
manipolazione di massa, coperta da entità statali e
usata con l’accordo dei pochi proprietari della
quasi totalità dei media mainstream, i quali sono
adibiti a organizzare a comando gli isterismi
collettivi e a rinfrescare la paura, ricordando certe
vittime innocenti e dimenticandone altre.
Nel saggio si sottolinea, ad esempio, come ci
sia una notevole compartecipazione tra servizi
segreti e gruppi islamisti, compresa l’ISIS/ Daesh.
Enrica Perucchietti pone la domanda che per la
maggior parte dei nostri media è tabù: «Spuntando
dal nulla nel giro di pochi mesi, l’ISIS si è
assicurata un gran numero di risorse, armi,
attrezzature multimediali high-tech e specialisti in
propaganda. Da dove provengono i soldi e le
tecniche di guerriglia?».
L’ISIS, cioè lo Stato islamico dell’Iraq e del
Levante (Siria), è uno Stato-non-Stato che, nel
costituire per definizione un’entità terrorista, si
prende il “diritto” di non attenersi ad alcuna
legalità, come se i suoi appartenenti fossero i
corsari dei giorni nostri. Nell’epoca dei paradossi,
gli USA – con buone ragioni – definiscono l’ISIS
e altre organizzazioni della galassia jihadista come
“organizzazioni terroriste”; ma quando sentiamo
vecchi astri della politica imperiale statunitense
quali Zbignew Brzezinski e John McCain definire
i jihadisti come “i nostri asset”, sembra quasi che
la definizione “terroristi” implichi proprio il
diritto-dovere di essere terroristi. Catalogarli così
somiglia quasi a una “lettera di corsa” da parte
della superpotenza nordamericana, simile a quelle
autorizzazioni con cui le potenze di un tempo
abilitavano i corsari ad attaccare e razziare le navi
di altre potenze. Mentre i soldati “normali”
sarebbero in una certa misura esposti al dovere di
rispettare le Convenzioni di Ginevra e altri
elementi del Diritto internazionale, i terroristi-
corsari, viceversa, costituiscono una legione che
infrange questi limiti nascondendo la catena delle
responsabilità. Quelli dell’ISIS condividono i
valori oscurantisti e l’uso delle decapitazioni con
la dinastia saudita che li appoggia e foraggia, ma
siccome l’Arabia Saudita è «un’ISIS che ce l’ha
fatta» – come dice il «New York Times» – il ruolo
della canaglia rimane comodamente attaccato solo
alla manovalanza di assassini che si rifà al
jihadismo, senza estendersi ai mandanti occulti.
Ma poi è arrivato l’intervento in Siria
dell’aeronautica russa.
Gli aerei di Mosca hanno distrutto quasi tutte
le migliaia di autobotti con cui il petrolio razziato
dai nuovi corsari veniva smerciato in un Paese
NATO, la Turchia, proprio con il consenso di
Ankara (altro grande sponsor dell’ISIS). La mossa
strategica di Mosca ha perciò aperto una nuova
fase che spinge molti Paesi a porsi un semplice
problema: che rapporto devo avere con la Russia
di Vladimir Putin, ora che i miei alibi sono stati
bruciati?
Non è un caso che, dopo l’intervento russo, gli
attentati jihadisti, con tutto il loro tipico fumo di
false flag, si stiano intensificando
drammaticamente, aumentando la pressione e il
ricatto sui sistemi politici di mezzo mondo e
mostrandosi come una presenza ormai permanente
della scacchiera internazionale. Una scacchiera
che possono demolire.
Sarebbe il momento giusto per fare chiarezza,
ma le istituzioni si chiudono a riccio, come nel
caso dell’inchiesta sulla strage di «Charlie
Hebdo»: mentre emergevano particolari
inquietanti su quell’attentato e i suoi torbidi
contorni, il ministro degli Interni francese,
Cazeneuve, decideva che l’inchiesta doveva essere
subito insabbiata. Perché? “Segreto militare”. Il
che implica – come il lettore vedrà poi in dettaglio
in questo saggio – che l’evento terroristico, ancora
una volta, andava oltre l’attentato “islamico”,
perché erano coinvolti degli organi di Stato che
agivano da complici, se non da pianificatori
dell’atto, ed erano quindi corresponsabili di un
delitto che sacrificava dei cittadini. Le nuove
norme eccezionali approvate in Francia si
presentano come l’annuncio di una tendenza
generale, e già ci sono le avvisaglie del fatto che
queste norme saranno usate per restringere le
libertà e i diritti, ad esempio, di lavoratori o
cittadini che manifestino per rivendicare migliori
condizioni di vita.
Gran parte degli intellettuali – freschi reduci di
un’indigestione retorica di “Je suis Charlie” – non
leva una sola voce contro le restrizioni della
libertà, nemmeno quando toccano in modo
massiccio un Paese NATO come la Turchia, che ha
praticamente schiacciato un’intera generazione di
giornalisti che osavano indagare sulle complicità
del governo con il terrorismo. Per colmo,
accusandoli di terrorismo.
Occorre un risveglio intellettuale e morale che
accompagni un rinnovamento politico; occorre
spostare il pendolo del potere dalle istituzioni
modellate dalla “eccezione” e dalla paura verso le
istituzioni ispirate alla sovranità popolare e alla
corretta informazione. Smascherare il sistema
fondato sulle false flag non è una condizione
sufficiente per questo risveglio (che ha bisogno
anche di coraggio e partecipazione di massa), ma
rivelare ai molti cittadini obnubilati dalla bolla
mediatica dominante la verità sugli inganni che
hanno subito è una condizione necessaria per
difendere e ampliare le proprie libertà. Questo è un
buon punto di partenza.
PINO CABRAS
ANTEFATTO
nnibale è alle porte!», viene urlato ai
«A bambini per spaventarli. Il condottiero e
politico cartaginese è infatti un’ombra che
perseguita ancora, a distanza di anni, gli incubi dei
più piccoli. Anche gli adulti, che serbano il ricordo
delle battaglie, rivivono l’angoscia per le capacità
tattiche e strategiche del grande generale.
I Romani non hanno dimenticato il flagello
della seconda guerra punica, nonostante siano
riusciti a sconfiggere i cartaginesi nella battaglia di
Zama del 202 a.C.
Marciando dalla Spagna attraverso i Pirenei e
le Alpi, con decine di migliaia di fanti e cavalieri e
trentasette elefanti, Annibale Barca ha reagito ai
numerosi imprevisti – sconfiggendo le tribù
montane, le difficoltà del terreno e le intemperie –
e ha lasciato alla storia una delle imprese militari
più memorabili del mondo antico. Con il suo
audace piano è riuscito infatti a sbaragliare le
legioni romane in quattro battaglie principali e
altri scontri minori, passando così alla leggenda.
A distanza di anni, l’eco delle sue imprese è
ancora vivo e il terrore si alimenta con il solo
nome del nemico numero uno di Roma.
A tremare non sono così soltanto i bambini. Lo
spauracchio del ritorno di Annibale mette i brividi
anche ai più temerari tra i Romani.
***
La battaglia di Zama segna non soltanto la fine
della guerra, ma anche il nuovo destino di
Cartagine. Scipione l’Africano ha preferito fare
dell’antica città un cliente di Roma, invece che
una provincia; questa decisione non è però
condivisa da alcune famiglie patrizie e da coloro
che speravano di arricchirsi con nuove conquiste.
Ai Punici è comunque imposta una pesante
indennità di guerra e la loro marina viene
fortemente ridotta a dieci triremi, appena
sufficienti per frenare i pirati. Una delle clausole
per la pace prevede inoltre il divieto assoluto di
prendere le armi senza il permesso dei Romani.
Questo limite favorisce con il tempo la Numidia di
Massinissa, che ne approfitta per annettersi, man
mano, larghe parti del territorio cartaginese. Il re
di Numidia, alleato di Roma, sa infatti che i Punici
non possono permettersi di difendere i propri
territori senza il consenso di Roma. Hanno, di
fatto, le armi spuntate.
Nel 149 a.C., però, dopo anni di ripetuti
attacchi, Cartagine non può che rispondere agli
assalti di Massinissa. La ribellione avviene per
frustrazione e necessità. L’antica città, infatti, ha
rispettato per mezzo secolo ogni obbligo imposto
da Roma, sia come partner commerciale, sia
rifornendo gli eserciti romani impegnati nelle
guerre in Oriente. Non è stata però autorizzata
preventivamente da Roma a difendersi. La mossa
fornirà ai Romani il casus belli per scatenare la
terza guerra punica.
Ma non solo… Perché dietro gli attacchi
ripetuti di Massinissa si cela il disegno di una
parte dell’aristocrazia romana, che ha deciso di
esasperare Cartagine affinché essa reagisca
rompendo così una delle clausole del patto, e poter
finalmente avere un pretesto per dichiararle
guerra.
***
La sopravvivenza di Cartagine la si deve alla
decisione di Scipione l’Africano, il cui ritorno in
patria, però, non sembra aver portato fortuna alla
sua famiglia, la Gens Cornelia, che inizia a
decadere inesorabilmente. La colpa è dei processi,
che coinvolgono il fratello Lucio e lo stesso Publio
Scipione, iniziati da Catone e della feroce
campagna denigratoria guidata dai loro avversari
politici, delusi dalla mitezza delle condizioni di
pace e fortemente allarmati dalla loro potenza,
ricchezza e influenza sulla popolazione.
I processi rappresentano in realtà uno scontro
politico che oppone tra loro due parti della classe
aristocratica romana: quella capeggiata da Catone,
che gode anche dell’appoggio dell’ala democratica
formata dai grandi latifondisti, e quella
rappresentata dagli Scipioni, formata dai
proprietari terrieri legati all’economia tradizionale
italica e ai rapporti clientelari.
Per questo motivo Catone – che vorrà a tutti i
costi la completa distruzione di Cartagine – si
dimostra tenacemente ostile agli Scipioni e ai
Flamini, che hanno vinto importanti conflitti, ma
ai suoi occhi sono colpevoli di aver concluso
trattati di pace troppo miti con Annibale, con
Filippo V e con Antioco III.
Deluso dell’accanimento nei suoi confronti e
dalle accuse di corruzione che ne offuscano
l’onore, Publio Cornelio Scipione Africano si ritira
nella propria villa a Liternum, in Campania. Si
spegne a 52 anni, nel 183 a.C., lontano dalla sua
patria che, ingrata di fronte alle sue imprese, non
merita di seppellire le sue ossa, come egli avrà a
mormorare durante la malattia.
La tradizione fa coincidere la sua morte con il
periodo in cui a Libyssa, sulle spiagge orientali del
Mar di Marmara, muore, suicida, la sua nemesi,
Annibale. I due nemici si spengono insieme,
portando con loro l’eco delle proprie imprese e la
salvezza di Cartagine. Le ali della morte
risparmiano loro di assistere alla distruzione della
città.
Dietro l’attacco di Massinissa, infatti, si ritiene
vi sia la longa manus della nuova fazione, che si è
affermata a Roma e che ha perseguitato
l’Africano. Cartagine, in difficoltà, si è vista
costretta a difendersi dall’attacco, rompendo così
il trattato firmato cinquant’anni prima. Roma ne
approfitta per attaccare e cingere d’assedio
Cartagine. Dopo tre anni viene espugnata e data
alle fiamme e gli abitanti superstiti sono venduti
come schiavi.
A capo dell’esercito vittorioso troviamo ora il
nipote dell’Africano, Publio Cornelio Scipione
Emiliano. Inizialmente contrario, come il nonno,
avrebbe deciso di cavalcare la rottura dell’accordo
per poter aggredire Cartagine e prendersi il merito
della vittoria.
***
Volto bianco, sorriso beffardo, guance rosse,
baffi all’insù e un sottile pizzetto nero: è questa la
maschera del terrorista Guy Fawkes realizzata
dall’illustratore David Lloyd per il fumetto V per
vendetta di Alan Moore, che nel 2005 ispirò a sua
volta l’omonimo film dei fratelli Wachowski con
Hugo Weaving e Natalie Portman.
Successivamente, l’immagine dell’antieroe per
eccellenza è stata utilizzata dai membri della
comunità di hacktivits (attivisti hacker) di
Anonymous per poi divenire il simbolo di alcune
proteste di piazza come Occupy Wall Street e
Indignados.
Protagonista della cosiddetta “Congiura delle
polveri”, Guy Fawkes è entrato nell’immaginario
comune come un giustiziere anarchico, simbolo
della lotta al potere costituito, a cui si ispirano
ancora oggi i movimenti pacifisti che avversano la
globalizzazione.
Fawkes è divenuto celebre come autore del
fallito complotto ordito da un gruppo di cattolici
inglesi per far esplodere il Parlamento e uccidere il
re Giacomo I Stuart. Il piano dei congiurati
consisteva nel fare saltare in aria la Camera dei
Lord – durante la cerimonia di apertura del
Parlamento inglese, lo State Opening, che si
sarebbe tenuta il 5 novembre 1605 – ed eliminare
così in un colpo solo il Re e il suo governo.
In quell’anno, il re protestante Giacomo, che
riuniva sotto la sua corona i regni di Scozia e di
Inghilterra, stava valutando l’idea di attuare una
politica di compromessi con la Spagna, all’epoca
la maggiore potenza cattolica. Il sovrano stava
inoltre prendendo in considerazione alcune misure
di tolleranza verso i cattolici nel suo regno.
Quell’accordo con la Spagna, però, a Londra
era inviso a «un influente gruppo, spalleggiato
all’estero dai servizi segreti veneziani, [che]
cercava di spingere Giacomo I a uno scontro con
l’Impero spagnolo, da cui fra l’altro sperava di
trarre grandi profitti personali»1. Tale gruppo
cercava il modo di manipolare il re affinché
continuasse a perseguitare i cattolici.
A capo di questo movimento segreto c’era il
cancelliere reale lord Robert Cecil, conte di
Salisbury. Per dissuadere Giacomo dalle sue
politiche di tolleranza, Cecil decise di adottare
come arma una forma di terrorismo ante litteram.
Agendo come un burattinaio da dietro le quinte,
dove non sarebbe stato scoperto, Cecil cooptò
alcuni cattolici, tra cui Thomas Percy, che utilizzò
come spie per dirigere alcune operazioni di un
gruppo di sprovveduti e fanatici cattolici
sapientemente manipolati. Si trattava dello stesso
gruppo con a capo Guy Fawkes.
Non ci fu nemmeno bisogno che il Parlamento
saltasse in aria. Fawkes venne arrestato la notte
prima del crimine, mentre cercava di accedere ai
sotterranei del palazzo per imbottirlo di esplosivi.
Torturato e poi impiccato insieme ai compagni,
egli divenne il capro espiatorio che Cecil cercava.
Il fallito attentato non solo aveva sconvolto
l’opinione pubblica, ma aveva anche fatto
desistere il sovrano dal portare avanti le politiche
di tolleranza verso i cattolici. L’Inghilterra, inoltre,
sotto la sua guida avviò quel secolo di guerre
contro la Spagna e il Portogallo da cui sarebbe poi
nato l’Impero britannico.
Quello che sarebbe poi divenuto un antieroe
nazionale, era stato in realtà la pedina
inconsapevole di un disegno più grande di lui.
Fawkes e i compagni avevano cioè ricoperto a loro
insaputa un ruolo completamente diverso, rispetto
a ciò che volevano attuare, «facendo il gioco di
cospiratori molto più astuti di loro»2, come
avrebbe poi spiegato il gesuita padre John Gerard,
uno dei due preti che aveva informato il Consiglio
privato della cospirazione.
Erano stati cioè vittime di un embrionale
progetto di terrorismo di Stato. Pedine
inconsapevoli sulla scacchiera di cospiratori scaltri
e manipolatori.
ENRICA PERUCCHIETTI
INTRODUZIONE
S ono le ore 21:15 del 27 febbraio 1933. Una
stazione dei pompieri di Berlino riceve
l’allarme che il palazzo sede del Reichstag, sede
del Parlamento, ha preso fuoco. Le sirene della
città iniziano a suonare all’impazzata. Quando
arrivano i soccorsi, il palazzo è avvolto dalle
fiamme. L’incendio è doloso ed è stato appiccato
in diversi punti. Mentre i pompieri lottano per
domarlo, la polizia individua un uomo con il viso
annerito e i brandelli dei vestiti bruciati che cerca
inutilmente di nascondersi tra le macerie. È il
ventiquattrenne olandese Marinus van der Lubbe,
un provocatore comunista dalla psiche fragile e
facilmente manovrabile.
Giunti poco dopo sul luogo, Hitler e Göring
convincono le Forze dell’ordine della
colpevolezza dell’uomo. «Il fuoco è stato
appiccato dai comunisti», sostiene con forza il
futuro numero due del Reich. Göring consegna ai
funzionari della polizia prussiana una lista con
4000 nomi di esponenti comunisti di primo piano.
La “caccia alle streghe” ha inizio.
Di lì a poco vengono arrestati i capi del partito
e processati i comunisti bulgari Georgi Dimitrov
(in seguito primo ministro della Repubblica
popolare di Bulgaria), Blagoj Tanev e Vasil Popov.
Durante il processo Dimitrov avrebbe
sostenuto la totale estraneità del Comintern1 ai
fatti, sollevando anzi il dubbio che i veri colpevoli
dell’incendio fossero gli stessi Hitler, Göring e
Goebbels. Si sarebbe cioè trattato di una
montatura per poter far ricadere la colpa sui
comunisti e avviare una serie di procedimenti che
non sarebbero mai stati accettati e promulgati in
tempi “di pace”.
Hitler ne approfitta infatti per dichiarare lo
stato di emergenza e incoraggiare l’anziano
presidente Paul von Hinderburg a firmare il
Decreto dell’incendio del Reichstag (Verordnung
des Reichspräsidenten zum Schutz von Volk und
Staat, “Legge per la protezione e la difesa del
popolo tedesco”), che avrebbe abolito la maggior
parte dei diritti civili forniti dalla Costituzione
della Repubblica di Weimar per garantire la
“sicurezza” pubblica.
Tale provvedimento dà al Governo centrale e
alla Cancelleria il potere di esercitare l’autorità
totale su tutti i distretti della Germania e di
emanare condanne capitali per qualunque atto
considerato contro lo Stato: vengono dunque
sospesi gli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e
153 della Costituzione.
Il decreto porta all’arresto dei leader comunisti
prima delle imminenti elezioni. Entro la fine di
marzo 1934 tutto il Paese è sotto il controllo
nazista.
Solo successivamente gli storici
evidenzieranno come l’attentato – sebbene
rimangano oscure le modalità dell’incendio –
avrebbe posto le condizioni per la presa del potere
nazionalsocialista, cambiando il destino
dell’Europa e del mondo.
Van der Lubbe fu soltanto uno dei tanti “utili
idioti” di cui si serve il terrorismo di Stato per
portare avanti i propri subdoli piani.
***
Il 26 ottobre 2001 il presidente americano
George W. Bush firma un disegno di legge
presentato solo tre giorni prima dal repubblicano
James Sensenbrenner e approvato dalla Camera e
dal Senato. Si tratta dell’Uniting and
Strengthening America by Providing Appropriate
Tools Required to Intercept and Obstruct
Terrorism Act of 2001, meglio noto come “USA
Patriot Act”. L’autore della legge federale è Viet
Dinh, assistente del Procuratore generale degli
Stati Uniti. La norma rinforza il potere dei corpi di
polizia e di spionaggio statunitensi allo scopo di
ridurre il rischio di attacchi terroristici quali quelli
avvenuti appena un mese e mezzo prima.
In questo modo la Casa Bianca è riuscita a
introdurre delle restrizioni sulla privacy e, più in
generale, delle misure “draconiane” per inasprire
la sorveglianza dei cittadini e di tutti coloro che si
apprestino a entrare sul suolo americano. Misure
che sarebbero state impensabili e non sarebbero
mai state accettate prima dell’Undici settembre.
Questa tragica data è stata infatti intesa
dall’amministrazione Bush come “un’occasione”,
una “nuova Pearl Harbor”. David Rumsfeld
avrebbe ammesso che l’Undici settembre aveva
creato «il genere di opportunità offerto dalla
seconda guerra mondiale per rimodernare la
guerra». Anche il presidente Bush e Condoleeza
Rice avrebbero parlato dell’Undici settembre in
termini di opportunità. Sulle macerie del World
Trade Center sarebbe così nata l’occasione di
soddisfare quelle che per i neocon erano le
condizioni essenziali per promuovere
l’imperialismo americano: l’attacco
all’Afghanistan e all’Iraq, l’incremento delle spese
belliche e la promozione della nuova dottrina della
guerra preventiva.
Come per Pearl Harbor, quest’evento avrebbe
diviso il passato e il futuro in un prima e un dopo.
Uno spartiacque storico che avrebbe modificato
per sempre l’immaginario e le strategie
geopolitiche. Un tale shock collettivo, una crisi
talmente profonda e devastante per l’opinione
pubblica, che nulla dopo di esso sarebbe più stato
come prima. Gli Stati Uniti avrebbero potuto
rispondere con misure drastiche, ridurre le libertà
civili, inasprire le misure di sorveglianza nei
confronti dei cittadini, ricorrere alla detenzione
preventiva dei sospetti e utilizzare la violenza fino
in fondo2.
***
OPPORTUNITÀ
Si tratta di creare i presupposti per poter poi
raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate
con cura e, in alcuni casi, di lasciare che gli eventi
“avvengano” per poi strumentalizzare l’accaduto,
anche qualora comporti tragedie e perdite di vite
umane; altre volte si tratta di pianificare i
cosiddetti “attacchi sotto falsa bandiera” per poter
conseguire un determinato obiettivo, dopo avere
manipolato degli “utili idioti” che poi divengono
capri espiatori, e aver cooptato talpe, spie,
dirigenti, informatori. Ciò avviene sempre, però, in
base a obiettivi precisi, strategie studiate a tavolino
e interessi personali. Interessi che non
corrispondono mai a quelli delle masse. Si tratta
delle cosiddette “false flag operations” o
“operazioni sotto falsa bandiera”: gli attacchi sotto
falsa bandiera per incolpare il nemico sono sempre
avvenuti – lo dimostra persino la storia antica – e
non sono questione recente, né materia per
“complottisti”. Anche quello di creare un nemico
esterno/capro espiatorio per coalizzare l’opinione
pubblica contro tale fantomatico pericolo – come
splendidamente descritto da George Orwell in
1984, con il nemico pubblico numero uno del
Partito, Emmanuel Goldstein – è uno dei trucchi
più vecchi del mondo.
L’espressione “false flag” ha origine nei
combattimenti navali, in cui l’utilizzo di una
bandiera diversa da quella reale, nell’imminenza
di un attacco, è considerato accettabile, a
condizione che la vera bandiera venga innalzata
nel momento in cui inizia l’attacco vero e proprio.
Con l’espressione “false flag operations”,
invece, si è passati a indicare delle operazioni
belliche autocreate, ideate cioè per far credere che
l’attacco sia stato effettuato da gruppi diversi,
rispetto ai reali esecutori, al fine di addossare loro
la responsabilità di quanto accaduto, legittimando
così eventuali rappresaglie, oppure, come si
preferisce ammettere a denti stretti, di “sfruttare”
qualche ghiotta opportunità. Dall’antichità a oggi
le modalità si sono affinate, ma le strategie
belliche di strumentalizzazione sono rimaste
immutate.
La maggior parte degli storici, per esempio,
ritiene che anche l’incendio di Roma sia stato
appiccato su ordine di Nerone per poter effettuare
la ricostruzione della città, di cui esistevano già i
progetti. La colpa del disastro sarebbe ricaduta sui
cristiani, perfetti capri espiatori dell’epoca.
Qualunque ne sia stata l’origine, l’incendio offrì
all’imperatore la possibilità di far ricostruire la
città a suo piacimento, esaudendo così un suo
preciso desiderio precedente all’incendio.
Nel 1933 l’incendio del Reichstag permise a
Hitler e a Göring di incolpare i comunisti e
convincere l’ormai anziano presidente von
Hinderburg a firmare un decreto che altrimenti
sarebbe stato impensabile. Similmente, per
giustificare l’invasione della Polonia agli occhi
dell’opinione pubblica nel settembre del 1939,
Hitler organizzò un finto attacco alla stazione
radio tedesca di Gleiwitz, nella regione della
Slesia, situata lungo la frontiera con la Polonia.
Il cosiddetto “incidente di Gleiwitz” è un caso
accertato di falsa bandiera che offrì a Hitler il
casus belli per dare il via alla seconda guerra
mondiale: Hitler si inventò un pretesto per far
cadere la colpa sui polacchi e giustificare agli
occhi dell’opinione pubblica l’invasione della
Polonia. Il 31 agosto radunò un gruppo di detenuti
e fece loro indossare uniformi polacche3. Furono
poi condotti alla stazione radio di Gleiwitz e
mitragliati a morte4. I loro corpi furono disposti
intorno alla stazione radio per far supporre, a
coloro che li avrebbero successivamente rinvenuti,
che fossero stati uccisi mentre prendevano
d’assalto l’edificio5. Per offrire anche un
“movente”, alle ore 20:00 dello stesso giorno
tredici nazisti simularono l’assalto alla stazione
radio tedesca: fecero irruzione nel corso di un
programma radiofonico e lessero in polacco una
dichiarazione antitedesca in cui si annunciava che
le forze antipolacche avevano preso Gleiwitz. Dal
microfono il pubblico udì grida, spari e le
farneticazioni del falso commando. Prima di
allontanarsi, i nazisti lasciarono sul campo i corpi
ben distribuiti dei detenuti sacrificati per la farsa.
Il falso attacco ottenne il risultato sperato: il
consenso della popolazione tedesca all’invasione
della Polonia, che avvenne il primo settembre
dello stesso anno. Questo fu un caso classico e
storicamente accertato di falso attacco e di
terrorismo strategico di Stato, messo cioè in atto
dallo Stato stesso che ne denuncia l’evento. Il
pretesto della sicurezza nazionale avrebbe
permesso a Hitler di agire secondo i piani
prestabiliti, senza inimicarsi l’opinione pubblica.
Come vedremo, farse del genere non sono state
inscenate solo dai nazisti.
Con la scusa della sicurezza nazionale, anche
Washington avrebbe poi sfruttato l’occasione degli
attentati dell’Undici settembre per dichiarare
guerra all’Afghanistan e all’Iraq e inaugurare così
la “dottrina Bush” sulla guerra preventiva.
Vedremo più avanti i dubbi di numerosi
ricercatori, ma anche di ex ministri, capi di Stato e
analisti sugli eventi di quel tragico giorno.
Solo a distanza di decine di anni, se non
addirittura di secoli, la storia e la storiografia
possono sperare di arrivare alla reale ricostruzione
dei fatti. Sull’onda dell’emotività di eventi tragici
che coinvolgono la mente e la “pancia”
dell’opinione pubblica, si possono introdurre dei
provvedimenti che sarebbero inimmaginabili in un
clima sociale sereno. Senza l’Undici settembre,
non si sarebbe riusciti a convincere l’opinione
pubblica a introdurre una serie di restrizione della
privacy sul modello del Patriot Act, proprio come
cinquant’anni prima non si sarebbero convinti gli
americani a entrare in guerra senza l’attacco di
Pearl Harbor. Due episodi tragici hanno segnato
non solo la storia, ma anche il destino del Paese e
del mondo, con una serie di reazioni a catena
impossibili da fermare o invertire.
Nell’estate del 2002 un comitato di consulenti
del Pentagono propose, ci ricorda Pino Cabras,
«… la creazione di una squadra di un centinaio di uomini, il
P2OG (Proactive Preemptive Operations Group, ossia
Gruppo azioni attive e preventive), con il compito di
eseguire missioni segrete miranti a “stimolare reazioni” nei
gruppi terroristici, spingendoli a commettere azioni violente
che poi li metterebbero nelle condizioni di subire il
“contrattacco” delle forze statunitensi.
Il paradosso di una simile operazione è spinto fino a limiti
estremi. Pare che il piano debba in qualche modo opporsi al
terrorismo causandolo. […] Un’organizzazione come questa
è perfetta per creare confusione e depistaggi, quel genere di
caos che si determina nel passaggio dall’infiltrazione alla
provocazione. Il documento del Pentagono si spinge poi a
spiegare che l’uso di questa tattica consentirebbe di
considerare responsabili degli atti terroristici provocati quei
Paesi che ospitassero terroristi, a quel punto considerati dei
Paesi a rischio sovranità»6.

Come vedremo, delle operazioni clandestine


sono state approvate dalla CIA in funzione
anticomunista dal 1948 in poi, anche se l’utilizzo
di false flag è ben più “antico”.
Stragi, omicidi e attentati hanno però sempre
un obiettivo specifico: generare paura; consolidare
il potere o, all’opposto, produrre un cambio al
vertice; indurre colpi di Stato od ottenere un casus
belli per legittimare agli occhi dell’opinione
pubblica una guerra; promuovere una svolta
autoritaria oppure l’ennesima restrizione della
libertà, che in tempi “normali” sarebbe
impensabile proporre ai cittadini.
Come ha spiegato lo stratega polacco
Zbigniew Brzezinski – membro del CFR, già
consigliere per la Sicurezza nazionale sotto Jimmy
Carter e mentore di Obama – l’unico modo per
ottenere il consenso dell’opinione pubblica, o
addirittura una mobilitazione generale e
l’accettazione di gravi sacrifici, è che si palesi una
«minaccia estrema e globale». Soltanto la
percezione di un pericolo esterno, immediato e
diffuso può compattare la popolazione e spingerla
a sottoporsi a sacrifici altrimenti impensabili.
Come vedremo, non è però necessario che tale
minaccia esterna sia effettivamente reale o che la
sua genesi – qualora effettivamente si manifesti –
sia avvenuta nel modo in cui verrà poi divulgato
alle masse. Una minaccia esterna, infatti, può
nascere in seguito a ripetute azioni messe
deliberatamente in atto per infastidire e spingere
alla reazione chi o cosa si è deciso di far diventare
il nemico di turno; la reazione verrà poi
strumentalizzata come casus belli di fronte
all’opinione pubblica per giustificare interventi di
diversa natura, financo la guerra.
Nel 1997, ne La Grande Scacchiera, Brzezinki
citava il caso di Pearl Harbor: prima di tale evento
la popolazione era contraria alla guerra, ma, in
seguito allo shock collettivo per l’attacco
giapponese, «la partecipazione alla seconda guerra
mondiale trovò consensi». Ed era proprio, come
vedremo, ciò che voleva e aspettava il governo
Roosevelt.
Così, anche all’indomani della strage di
«Charlie Hebdo» e dei successivi attacchi parigini
del 13 novembre 2015 si è iniziato a discutere
della necessità di introdurre anche in Europa delle
norme draconiane per la sicurezza sullo stile del
Patriot Act americano.
Persino in Italia i telegiornali e i quotidiani
hanno iniziato a caldeggiare la necessità di
adottare delle misure per garantire una maggiore
sicurezza. Già nel gennaio del 2015 «Skytg24»
aveva promosso una sorta di sondaggio telematico
per chiedere agli spettatori, sull’onda
dell’emotività della strage di «Charlie Hebdo», se
sarebbero stati disponibili a cedere parte della
propria libertà per sentirsi più sicuri. Eppure una
delle massime incongruenze di quanto accaduto a
Parigi è rappresentata proprio dall’assenza,
dall’incapacità o dal ritardo delle Forze
dell’ordine.
Ad ogni tragedia il clima di isteria,
sapientemente manipolato dai media, riesce a
convincere l’opinione pubblica ad abdicare alla
propria libertà – e alle convinzioni difese
strenuamente fino a un attimo prima – per sentirsi
protetta dall’ennesimo spettro, uno spettro
costruito, ideato e alimentato da noi e che noi
intendiamo ingenuamente combattere attraverso
l’odio.
Non importa neppure se, a distanza di anni,
qualche documento desecretato o qualche
retroscena o confessione in punto di morte svelano
un’altra realtà, una realtà ben diversa da quella che
ci è stata trasmessa fino a quel momento e che mai
avremmo osato immaginare.
Le operazioni sotto falsa bandiera sono sempre
esistite. Non sono figlie della nostra epoca, né
tantomeno sono sgusciate fuori dagli zibaldoni di
qualche complottista. Liquidare la tematica come
“bufala” – termine che va ormai di moda per
eludere il confronto – o “delirio cospirazionista”
significa liquidare il problema e piegare la storia ai
propri interessi.
Vi sono dei casi eclatanti e ben documentati i
quali dimostrano che non ci si trova di fronte a
deliri paranoidi, ma a un tema drammaticamente
reale. Vi sono altri casi in cui, non essendo stati
ancora desecretati i documenti, rimane il dubbio
che si possa essere trattato di azioni sotto falsa
bandiera. Un dubbio quantomeno lecito, alla luce
di quanto la storia ci insegna. Un dubbio che
dovrebbe stimolare la ricerca e non affossarla a
priori.
Lo scopo del presente saggio è pertanto quello
di offrire una rassegna dei casi più celebri e
storicamente accertati e di quelli che, dall’Undici
settembre a oggi, sollevano plausibili dubbi sulle
reali dinamiche degli eventi, senza avere la velleità
di mettere la parola fine a ricerche che, si spera,
continuino fino ad accertare, un giorno, la verità.
ENRICA PERUCCHIETTI
CAPITOLO 1

FALSARE LA STORIA
DALL’USS MAINE A
PEARL HARBOR
«La storia era un palinsesto che poteva essere raschiato e
riscritto tutte le volte che si voleva».
GEORGE ORWELL, 1984
«I vasti interessi bancari erano profondamente a favore della
[prima] guerra mondiale, viste le ampie opportunità di
raggiungere grossi profitti».
WILLIAM JENNINGS BRYAN, 41° SEGRETARIO DI STATO
USA
«Non fu una vittoria, perché mancarono i nemici».
OSWALD SPENGLER, 1933

evin, il novantanove per cento di quello che


«K fai nella serie succede davvero. L’uno per
cento è sbagliato, perché non potresti mai far
passare una legge sull’istruzione così
velocemente»1. In un’intervista alla rivista
«Gotham» l’attore Kevin Spacey – produttore e
protagonista, nel ruolo di Frank Underwood, della
serie TV House of Cards – ha raccontato che
nell’aprile del 2015 l’ex presidente degli Stati
Uniti Bill Clinton – suo caro amico e fan della
serie – gli avrebbe rivelato tra il serio e il faceto
che il telefilm riflette al 99% gli intrighi che si
consumano per davvero tra le mura della Casa
Bianca.
Clinton ha così confermato che complotti e
manipolazione dell’opinione pubblica sono
all’ordine del giorno, a Washington.
Ma fino a che punto? Per scoprirlo dobbiamo
risalire alla fine del XIX secolo e rispolverare certi
episodi della nostra storia contemporanea sepolti
dalle sabbie del tempo e da chili di retorica e di
menzogne.
USS MAINE
È il 15 febbraio del 1898. Alle ore 21:40 la
corazzata USS Maine esplode nella baia
dell’Avana, trascinando sul fondo del mare i corpi
senza vita di 266 marinai. Il porto è gestito e
controllato dagli spagnoli. La tragedia diviene così
il pretesto per lo scoppio della guerra ispano-
americana.
Questo breve ma importantissimo conflitto –
con cui gli Stati Uniti toglieranno alla Spagna il
controllo su Cuba e Portorico, nell’Atlantico, e su
Guam e le Filippine, nel Pacifico – segna l’inizio
dell’espansionismo americano. La guerra viene
scatenata da un pretesto per aggirare il divieto
previsto dalla Costituzione americana di aggredire
per primi uno Stato estero. La tragedia focalizza
infatti l’attenzione dell’opinione pubblica
americana su Cuba. Il presidente William
McKinley, inizialmente titubante, viene convinto
dal suo gabinetto a muovere guerra alla Spagna.
I dubbi iniziano a serpeggiare fin da subito, ma
l’occasione è troppo ghiotta per non sfruttarla.
Come sono andate invece realmente le cose?
All’epoca del presunto attentato nemico, il
futuro presidente Theodore Roosevelt era ministro
della Marina e disponeva di un piano per
l’invasione navale dell’isola che aspettava
solamente l’ordine di esecuzione. Mancava però
un pretesto per dare il via all’operazione, e questo
venne trovato nell’esplosione dell’incrociatore
USS Maine. Il governo degli Stati Uniti ne
approfittò per accusare gli spagnoli di aver
collocato clandestinamente dell’esplosivo a bordo
della nave e – secondo uno schema che da quel
momento in poi si ripeterà fino alla nausea –
l’episodio venne utilizzato dai media per
fomentare l’indignazione popolare necessaria al
Congresso per legittimare la guerra.
La stampa sensazionalista dell’epoca, la
cosiddetta “yellow press” del magnate William
Randolph Hearst e di Joseph Pulitzer, contribuì
infatti in modo determinante, insieme alla
propaganda dei dissidenti cubani stanziatisi negli
USA, a orientare l’opinione pubblica degli
statunitensi verso la volontà di muovere guerra
alla Spagna2. I giornali di Hearst inventarono di
sana pianta la dinamica dell’incidente, addossando
la colpa agli spagnoli. Il peso che la stampa ebbe
in quest’occasione si sarebbe replicato ogni
qualvolta un’amministrazione avrebbe potuto
strumentalizzare un grave incidente per dichiarare
una guerra che altrimenti non sarebbe mai stata
accettata dall’opinione pubblica. Hearst aveva
persino inviato a Cuba un fotografo per
immortalare l’imminente guerra con la Spagna.
Quando il fotografo gli chiese di quale guerra si
trattasse, dato che non ne era a conoscenza, Hearst
si limitò a rispondere: «Tu fai le foto e io
procurerò la guerra»3. Di lì a poco avvenne
l’esplosione dell’USS Maine.
Vennero realizzate a scopo propagandistico
anche delle vignette che mostravano degli spagnoli
intenti a far esplodere una mina per affondare la
nave statunitense. Le vignette ancorarono
nell’opinione pubblica una ricostruzione
plausibile, pur se inventata, dei fatti. Le immagini
fanno più presa di litri di inchiostro e di mille
pagine stampate. I lettori si convinsero che la
responsabilità della tragedia ricadesse
effettivamente sulla Spagna: perché mai il governo
e la stampa statunitense avrebbero dovuto
mentire? La guerra era la logica conseguenza di
quell’evento sanguinoso.
Nonostante la Spagna negasse il proprio
coinvolgimento nella strage fino al punto di
chiedere l’istituzione di una commissione mista
per indagare sulle vere cause dell’affondamento,
gli USA le dichiararono guerra e l’attacco ebbe
inizio il 24 aprile dello stesso anno.
Il comandante dell’USS Maine, il capitano
Sigsbee, che si era opposto a queste conclusioni
affrettate e aveva chiesto un’indagine completa
sulla causa dell’esplosione4, venne attaccato con
violenza dalla stampa per il comportamento
antipatriottico che sfiorava il tradimento: la rivista
«Atlantic Monthly» scrisse che il solo supporre
che l’esplosione non fosse altro che un’azione
deliberata della Spagna «sfidava completamente le
leggi della probabilità»5.
In brevissimo tempo l’intera flotta navale
spagnola colò a picco sotto le cannonate della
Marina statunitense. Gli spagnoli furono così
costretti a firmare la resa incondizionata siglata
con il Trattato di Parigi.
L’influenza esercitata dalla stampa, che aveva
avuto un ruolo determinante nel manipolare
l’opinione pubblica, contribuì a dipingere
Theodore Roosevelt – che a Cuba aveva
dimostrato non solo la propria abilità di comando,
ma anche quella propagandistica, mandando
resoconti dettagliati delle proprie imprese a tutti i
principali giornali in patria – come un eroe di
guerra, favorendolo così nelle successive elezioni
presidenziali. La sua scalata al pantheon della
politica era quasi conclusa.
L’INDAGINE DELL’AMMIRAGLIO
RICKOVER SCAGIONA GLI SPAGNOLI
Nel 1975 un’indagine guidata dall’ammiraglio in
pensione Hyman Rickover – padre della Marina
nucleare statunitense – esaminò i dati recuperati
nel 1911 da un’analisi del relitto e concluse che
non vi era alcuna prova di un’esplosione esterna;
la causa più probabile dell’affondamento era
l’esplosione della polvere di carbone contenuta in
un serbatoio imprudentemente piazzato vicino ai
depositi di munizioni della nave. Gli spagnoli non
avevano avuto alcuna responsabilità nell’attentato.
L’esplosione era avvenuta probabilmente «a causa
di esplosivi fatti collocare troppo vicino alle
caldaie dal capitano della nave» e gli americani
semplicemente avevano approfittato
dell’occasione come casus belli.
L’ammiraglio Rickover non fu in grado di
escludere che l’esplosione fosse stata la
conseguenza di una bomba piazzata
deliberatamente dagli stessi americani, lasciò però
aperta quest’eventualità6. Una sola cosa era chiara:
gli spagnoli non avevano avuto alcuna colpa.
Quest’episodio rappresenta solo uno dei
numerosi casi in cui una nazione ha sfruttato un
pretesto che si è palesato per dichiarare guerra a
un altro Stato. Spesso è difficile appurare se si sia
trattato di un mero incidente poi utilizzato come
casus belli o se, al contrario, esso sia stato
organizzato a tavolino (come si voleva fare, ad
esempio, con l’Operazione Northwoods) e
inscenato sacrificando delle vite umane (il caso di
Gleiwitz).
Beffa del destino, nel 1906 Roosevelt fu anche
insignito del premio Nobel per la pace per il suo
ruolo di mediatore tra russi e giapponesi nella
guerra russo-giapponese, la cui pace venne firmata
il 5 settembre del 1905. Nulla di insolito, dato che
l’onorificenza sarebbe poi stata assegnata anche a
Henry Kissinger e Barack Obama.
In base al Trattato di Portsmouth, che ebbe
l’avallo di Roosevelt, il Giappone si assicurava
così porti, territori e ferrovie nella Manciuria
meridionale (compreso il controllo della strada
ferrata di Mukden). La Russia, sconfitta,
conservava soltanto i vecchi privilegi nella
Manciuria del Nord e cedeva al Giappone la metà
meridionale dell’isola di Sakhalin, che era stata
sino ad allora sotto il dominio russo. I russi,
inoltre, dovettero rinunciare al controllo della base
navale di Port Arthur e della penisola circostante;
infine, dovettero ritirarsi dalla Manciuria e
riconoscere la Corea come zona di influenza
giapponese7.
Costretta a sottoscrivere l’accordo, la Cina
manteneva la sovranità simbolica sulla Manciuria,
ma di fatto tutti i centri importanti della regione
passavano sotto il controllo dei giapponesi.
Quando poi, nel 1910, il Giappone tolse le ultime
velleità di indipendenza alla Corea, la Cina si
ritrovò i soldati del Sol Levante alla frontiera del
fiume Yalu e alcuni avamposti nipponici già
saldamente arroccati in casa8. Era il primo
trampolino, per Tokio, di una grande operazione di
conquista9.
Gli eventi peggiorarono con la prima guerra
mondiale, quando il governo di Washington
rivolse tutta la sua attenzione all’Europa. I
giapponesi ne approfittarono presentando ventuno
richieste, che reclamavano, fra l’altro, il diritto di
sfruttare in esclusiva tutte le ricchezze minerarie
della Manciuria meridionale fino alla Mongolia
interna10. I cinesi furono costretti a cedere ancora
una volta sulla Manciuria. Finita la guerra,
sperarono che il Trattato di Versailles, con il
principio dell’autodeterminazione dei popoli,
avrebbe fatto giustizia, ma invano11. Una grande
rivolta studentesca, il movimento del Quattro
Maggio, portò al mondo l’indignata protesta della
gioventù cinese contro i predatori più disinvolti:
inglesi e nipponici.
Si arriva così al 1931, anno in cui un attentato
sotto falsa bandiera, cioè attuato e pianificato dal
Giappone ai danni dei cinesi, avrebbe fatto
riesplodere la guerra.
L’INCIDENTE DI MUKDEN
La sera del 18 settembre 1931 una bomba esplose
fra i binari della ferrovia della Manciuria
meridionale, vicino alla storica città di Mukden.
Questo fu il segnale che diede il via alla guerra
cino-giapponese: la storia lo avrebbe ricordato
come “l’incidente di Mukden”.
La guarnigione nipponica in Manciuria, già in
stato di allarme per la morte di un ufficiale ucciso
per sbaglio da soldati cinesi, entrò sparando a
Mukden, con un’azione di rappresaglia che
inaugurava di fatto l’invasione12. I militari
giapponesi accusarono immediatamente i terroristi
cinesi, fornendo così un pretesto per l’annessione
della Manciuria all’Impero del Giappone, anche se
nessuna autorizzazione era giunta da Tokyo.
L’Unione Sovietica non reagì, mentre le nazioni
occidentali si limitarono a una protesta
diplomatica.
Tutte le indagini sulla famosa bomba della
ferrovia hanno indirettamente provato che fu il
servizio segreto nipponico a farla esplodere, per
fornire il pretesto dell’intervento bellico.
L’incidente di Mukden fu così deciso a freddo
dai generali giapponesi, che puntavano a un
regime militare supernazionalista; ma per arrivare
a ciò avevano bisogno di una giustificazione.
Per i giapponesi fu un colpo di mano
straordinariamente facile su una delle zone più
ricche e ambite dell’Estremo Oriente. La guerra
era in aria da tempo, preparata da una situazione
interna cinese che risaliva al disfacimento del
Celeste Impero, crollato nel 1911. La Cina era
sola, disorganizzata e lacerata dalla guerra contro
una delle più efficienti potenze militari esistenti al
mondo.
UN CASUS BELLI PER WILSON
Facciamo un passo indietro e torniamo in
Occidente, nel pieno della prima guerra mondiale.
È il 1915 e il presidente americano Woodrow
Wilson si sta scervellando su come legittimare
l’entrata in guerra degli Stati Uniti di fronte
all’opinione pubblica; ha infatti dichiarato alla
nazione che l’America sarebbe rimasta neutrale e
non può sconfessare quella promessa senza un
pretesto valido per cambiare il corso della storia.
La sua campagna elettorale – come quella di
tutti i futuri inquilini della Casa Bianca – è stata
finanziata in modo massiccio dai poteri forti. I
colossi bancari hanno messo gli occhi sul conflitto
mondiale come opportunità per «raggiungere
grossi profitti», come avrebbe ammesso lo stesso
segretario di Stato William Jennings13. Il problema
è «tutelare gli interessi commerciali degli
statunitensi, che avevano fortemente investito
negli alleati europei. Almeno due miliardi e mezzo
di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a
partire dal 1915»14. I banchieri temono, infatti, che
se la Germania dovesse vincesse la guerra, i loro
prestiti agli alleati europei non vengano
rimborsati.
Il più grande banchiere statunitense dell’epoca,
J.P. Morgan, fa di tutto per trascinare gli Stati
Uniti in guerra, e finisce per convincere il
presidente Wilson; l’obiettivo: «Proteggere gli
investimenti delle banche americane in Europa»15.
Il marine più decorato nella storia, Smedley
Butler, avrebbe confessato al «Washington’s Blog»
di aver combattuto essenzialmente per proteggere
gli interessi delle banche americane:
«Ho alle spalle trentatré anni e quattro mesi di servizio
militare attivo e ho trascorso gran parte di questo tempo a
fare il supersoldato per quelli del Big Business, per Wall
Street e per tutti i grandi banchieri. In poche parole, sono
stato un camorrista, un gangster del capitalismo»16.

Ancora una volta, si dovevano salvaguardare


gli interessi delle élite. Era però necessario trovare
un casus belli per trascinare il Paese in un conflitto
di portata globale che il popolo americano non
voleva.
LA NAVE DA CROCIERA LUSITANIA
«Cosa farebbero gli americani se i tedeschi
affondassero una nave da crociera con a bordo dei
passeggeri americani?», domandò con un sorriso
beffardo il ministro degli Esteri britannico sir
Edward Grey al principale consigliere del
presidente Wilson, il colonnello Edward Mandell
House. Questi si limitò a ribattere che «un’ondata
di indignazione travolgerebbe gli Stati Uniti, e
questo sarebbe di per sé sufficiente a farci entrare
in guerra». House aveva capito benissimo che cosa
gli stava “suggerendo” il ministro britannico. Era
possibile inscenare un falso attentato in modo da
traumatizzare l’opinione pubblica e rendere
necessario l’intervento a sostegno degli alleati in
Europa. Più alto sarebbe stato il numero delle
vittime statunitensi, maggiore sarebbe stata
l’ondata di indignazione della nazione.
I propositi di Grey si avverarono con
l’esplosione della nave da crociera Lusitania.
All’inizio della prima guerra mondiale, proprio
per evitare che le navi da crociera dotate di
supporti bellici partecipassero alle operazioni in
funzione ausiliaria o rifornissero la madrepatria di
materie prime, la Germania aveva disposto un
blocco navale intorno alle coste dell’Inghilterra.
Il 22 aprile 1915, non volendo intraprendere
una guerra contro gli Stati Uniti, l’ambasciata
tedesca, con il consenso del capo del servizio
segreto tedesco Franz von Papen, si era premunita
di pubblicare a proprie spese un avviso sul «New
York Times» in cui si ammonivano i civili
americani a non imbarcarsi sul transatlantico
britannico Lusitania17.
L’annuncio non ebbe l’esito sperato perché il 7
maggio 1915 la nave da crociera venne
volutamente spinta nella zona dov’era dislocata la
flotta militare tedesca e, come previsto, venne
silurata e affondata da un sommergibile tedesco U-
20. Lo scoppio del siluro si limitò a far sbandare la
nave. Pochi minuti dopo l’impatto, però, ci fu una
seconda esplosione, dovuta alla presenza del
carico di munizioni e di altro materiale bellico che
era a bordo, stivato dietro la paratia che dava sulla
sala caldaie. Il comandante tedesco Schwieger si
accorse solo dopo l’attacco di aver colpito il
Lusitania, che secondo gli accordi non avrebbe
dovuto trovarsi nelle acque tedesche.
Il Lusitania affondò completamente appena 18
minuti dopo il siluramento; delle sue quarantotto
scialuppe, soltanto sei raggiunsero Queenstown
portando a termine la loro opera di salvataggio. I
morti furono 1201, di cui 123 statunitensi e 3
tedeschi che si erano imbarcati per ordine
dell’allora addetto all’ambasciata tedesca negli
Stati Uniti, Franz Joseph von Papen, per cercare e
fotografare il materiale bellico a bordo.
La notizia del disastro giunse a Londra la sera
stessa, durante un pranzo di gala all’ambasciata
americana, e il colonnello Edward Mandell House
colse al volo l’opportunità – già anticipata da sir
Grey – per caldeggiare l’entrata in guerra degli
Stati Uniti entro la fine di maggio.
Era tutto pronto. Ora Washington aveva il suo
casus belli da proporre all’opinione pubblica.
L’INCENDIO DEL REICHSTAG
Se i tedeschi non avevano voluto trascinare
l’America nel primo conflitto mondiale, i nazisti
non avrebbero avuto nulla da invidiare ai nemici
nel creare situazioni ad hoc da sfruttare per
manipolare l’opinione pubblica e avrebbero
condiviso con Washington l’ossessione per i
comunisti.
Non potevano neppure provare invidia per
alcun altro Paese riguardo al carisma e alla
lungimiranza del loro condottiero. L’ascesa al
potere di Hitler non fu solo veloce e capillare, ma
ebbe anche un «carattere di tempestosa
violenza»18. Le scettiche predizioni che negavano
la durata del suo cancellierato, nella convinzione
che questi fosse prigioniero delle derive
conservatrici degli alleati, si sarebbero presto
scontrate con le sue velleità rivoluzionarie. Anche
coloro che ritenevano il futuro Führer un
dilettante, o che avevano predetto la resistenza
della massa, sarebbero stati presto smentiti.
Mentre i nazionalsocialisti penetravano
nell’apparato amministrativo e la polizia veniva
infiltrata dai gerarchi delle SA, i nemici e coloro
che opponevano resistenza erano destinati a
cadere, uno dietro l’altro, come carte da gioco.
Tra il 1932 e l’inizio del 1933 era diventato
ormai chiaro che i comunisti erano l’ostacolo
maggiore da eliminare. In quel periodo, come
ricorda Joachim Fest, Hitler ammise in alcune
occasioni il ricorso alla violenza per la scalata al
potere: «Le misure da me intraprese»19, assicurò
Hitler, «non verranno certo ostacolate da scrupoli
giuridici di qualsiasi tipo. Le mie misure non
verranno ostacolate da alcun intervento
burocratico. Io mi trovo qui a dover esercitare la
giustizia, io qui devo solo distruggere e togliere di
mezzo, e basta!»20.
Per conquistare il potere assoluto, i nazisti
avrebbero dovuto eliminare l’opposizione
parlamentare. Dal momento che non era ancora
possibile ottenere questo risultato con la violenza
(troppo forti erano ancora le organizzazioni della
classe operaia, mentre l’esercito non dava garanzia
di affidamento), era indispensabile assicurarsi una
solida maggioranza parlamentare; il neocancelliere
decise perciò di sciogliere il Reichstag e di indire
nuove elezioni per il successivo 5 marzo. Per
ottenere questo risultato, Hitler aveva bisogno di
qualcosa che galvanizzasse i suoi uomini,
intimorisse l’elettorato moderato facendolo votare
per i nazisti e consentisse un’offensiva legale
contro il Partito comunista tedesco e contro i
socialdemocratici.
La rivoluzione legale che si sarebbe compiuta
di lì a poco alle urne richiedeva furbizia e
strategia. Si doveva cioè spingere il nemico a
«fornire pretesti e giustificazioni per misure
repressive legali»21.
Il 31 gennaio Goebbels scriveva nel suo diario:
«Per il momento eviteremo dirette contromisure
(nei confronti dei comunisti). Prima bisogna che il
tentativo rivoluzionario bolscevico prenda il via,
così noi potremo colpire al momento
opportuno»22. Eppure Hitler aveva sollevato dei
dubbi sulla capacità sovversiva dei comunisti.
Necessitavano quindi di una “spinta”. Ci
pensarono i nazisti: da un lato fecero un’attività
propagandistica senza precedenti, dall’altra furono
sempre loro a mettere in giro le voci di un
presunto attentato ai danni di Hitler nel febbraio
del 1933. L’incendio del palazzo del Reichstag si
inserisce su questo sfondo.
Göring dichiarò immediatamente che il fuoco
era stato appiccato dai comunisti e fece arrestare i
capi del partito. Vennero così fermati e processati i
comunisti bulgari Georgi Dimitrov, Blagoj Tanev
e Vasil Popov. Hitler si avvantaggiò della
situazione per dichiarare lo stato di emergenza e
incoraggiare il vecchio presidente Paul von
Hindenburg a firmare il Decreto dell’incendio del
Reichstag, che aboliva la maggior parte dei diritti
politici forniti dalla Costituzione del 1919 della
Repubblica di Weimar.
L’incendio aveva risposto alle aspettative dei
nazisti. Parlando al Consiglio dei ministri la
mattina successiva all’incendio, Hitler dichiarò
apertamente – secondo quanto riporta il verbale –
che «il momento psicologico del confronto è
giunto. Non c’è ragione di attendere oltre. II
Partito comunista si è dimostrato deciso
all’estremismo. La lotta contro di esso non
dovrebbe dipendere da motivazioni giuridiche»23.
Come abbiamo visto, i comunisti respinsero
con forza l’attribuzione dell’incendio, che non
avrebbero avuto motivo di provocare. Ma non
bastò.
La propaganda di Göring avvenne sulla base di
«… affermazioni propagandistiche, di testimoni subornati e
di documenti falsificati. Senza contare che le concomitanze
criminologiche del fatto offrivano validi spunti alla fantasia
di ambiziosi cronisti, ragione per cui l’episodio ben presto
venne sopraffatto e obnubilato da una fioritura di menzogne
opportunistiche, in parte veniali, in parte invece sfacciate,
per cui l’evento stesso finì per risultare falsificato nei suoi
aspetti incontrovertibili»24.

SERVE UN CAPRO ESPIATORIO


L’incendio del Reichstag fu quindi uno dei primi
attacchi sotto falsa bandiera in cui la stampa si
scatenò a falsificare i fatti generando confusione e
diffondendo menzogne. Questa modalità si
sarebbe poi affinata nei decenni a venire, facendo
dei media uno degli elementi imprescindibili del
“terrorismo di Stato” per manipolare l’opinione
pubblica.
Secondo lo storico Webster Tarpley, il
terrorismo sintetico, nell’era moderna,
«… è il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i
popoli guerre segrete che sarebbe impossibile fare
apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre lo stesso
programma politico. […] Il programma dell’oligarchia è di
perpetuare l’oligarchia»25.

Il terrorismo di Stato può avere diversi scopi:


creare i presupposti per una guerra o una riforma
radicale, manipolare e destabilizzare l’opinione
pubblica, eliminare un politico o qualche pezzo
grosso dell’economia, indirizzare il governo verso
una determinata direzione. A questo scopo il
“terrorismo sintetico” riunisce gli sforzi di svariati
componenti, tra cui gli zimbelli o capri espiatori
come Guy Fawkes (poi assurto a eroe nazionale),
Lee Oswald, Mohammed Atta.
La presenza di un capro espiatorio, zimbello,
pedina o “utile idiota” a cui addossare la
responsabilità materiale dell’incidente è infatti un
elemento determinante, sebbene – come vedremo
– emerga sempre l’impossibilità fisica che questi
abbia potuto agire da solo. I media faranno di tutto
per nascondere le anomalie del caso e i limiti fisici
o psichici dello zimbello di turno.
Normalmente il capro espiatorio ha infatti dei
problemi psichici o comportamentali, è psicolabile
o sociopatico, borderline, mentalmente fragile e
facilmente manovrabile, e ciò fa sì che la paternità
delle false flag rimanga segreta.
I migliori candidati per il ruolo di capri
espiatori, osserva Tarpley,
«… possono essere fanatici nei quali si scatenano energie e
intenzioni criminali, oppure patetici ideologi e babbei.
Spesso sono anche disadattati, scioperati e, in genere,
maldestri nelle operazioni che intraprendono»26.

Questo è importante perché, una volta


utilizzati, essi devono essere facilmente raggiunti
dalla polizia e arrestati (o, ancora meglio,
trucidati), lasciando dietro di sé una lunga scia di
dettagli (si pensi, andando dall’Undici settembre
fino agli attentati parigini, ai passaporti degli
attentatori rinvenuti intatti sul luogo del crimine).
Essi devono cioè farsi notare e attirare l’attenzione
su di sé, in modo che in seguito non si generino
dubbi circa la loro responsabilità.
Una volta che sono stati fermati dalla polizia,
le talpe negli apparati di governo, che erano stati i
loro protettori fino a quel momento, diventano i
loro persecutori: «Gli zimbelli vanno inseguiti,
scoperti e, preferibilmente uccisi sul posto», come
accaduto, ad esempio, con gli attentatori parigini
di «Charlie Hebdo». Ritorneremo su questo punto.
In ogni caso, «le loro facce e le loro vite vanno
demonizzate come l’ultima manifestazione del
male assoluto». Il caso di bin Laden ne
rappresenta il modello perfetto.
La missione di questi soggetti consiste così nel
far parte di gruppi sotto falsa bandiera che devono
mostrare di lavorare per una causa, mentre in
realtà sono diretti da una rete privata interna al
governo stesso. Ovviamente, conclude Tarpley,
«… per i gestori dei terroristi è di vitale importanza che gli
zimbelli non si rendano conto che questo o quel compagno
d’armi è in realtà un doppio agente, un provocatore al soldo
della CIA parallela o di qualche altra agenzia complice»27.

Essendo spesso imbranati o addirittura


psicolabili, hanno bisogno di una rete che li
appoggi e li segua passo per passo, prima di
scaricarli al loro destino:
«Potrebbero aver bisogno di aiuto per affittare un
appartamento o per trovare un lavoro di copertura. Sembra
sempre che si caccino nei guai con la polizia e poi è
necessario che escano dietro cauzione il prima possibile. Se
stanno soli, possono aver bisogno di agenti segreti sessuali
addestrati all’uopo per confortarli o persino per sposarli – il
KGB e la Stasi chiamavano le loro truppe sessuali le
“rondinelle” –; soprattutto richiedono costante assistenza
finanziaria al fine di viaggiare per il mondo, come sembrano
poter fare senza alcun mezzo di appoggio visibile. La cosa
più importante sugli zimbelli è che sono quasi sempre
fisicamente, mentalmente e tecnicamente incapaci di
compiere i crimini di cui sono accusati. È una questione di
insufficiente abilità e capacità, e non di mancanza di intenti
criminali, che spesso abbondano»28.

Studiando le vite dei capri espiatori, ci si rende


conto che essi sono incapaci di operare per contro
proprio, che non avrebbero potuto organizzare una
strage (“mutanda bomber” e il “bombarolo della
scarpa”), mirare e sparare con precisione (il caso
JFK), sabotare, pilotare boeing e farli virare contro
obiettivi strategici (Undici settembre), scappare
indisturbati mentre sono intenti a perdere scarpe e
a lasciare i documenti nel cruscotto («Charlie
Hebdo»).
LO ZIMBELLO DI TURNO: VAN DER
LUBBE
Nel caso dell’incendio del Reichstag, la colpa
ricadde sul ventiquattrenne olandese Marinus van
der Lubbe.
«La dinamica dell’attentato», spiega Roberto
Roggero,
«e soprattutto la personalità del presunto piromane
ricordano quella dell’assassino di Sergej Kirov a
Leningrado, cioè di un elemento mentalmente instabile e
facilmente manovrabile. […] Nel 1931 si unisce a un
movimento olandese noto come Partito comunista
internazionale, avverso anche al regime di Mosca. Attirato
dall’attività politica berlinese, nel 1933 arriva nella capitale
tedesca, dove rimane deluso dall’inattività degli affiliati
locali, ed è allora, sembra, che decide di compiere alcune
azioni particolari per spronare i compagni di lotta.
Secondo i rapporti della polizia, van der Lubbe avrebbe
acquistato il 25 febbraio una miscela incendiaria usata per le
caldaie a carbone, dopodiché avrebbe appiccato il fuoco a
tre diversi edifici pubblici: il Centro assistenza del sobborgo
di Neukolln, il Municipio di Schonnberg e il vecchio
Palazzo imperiale. Questi dati risulterebbero dalla
testimonianza resa dallo stesso van der Lubbe, il quale,
solamente dopo questi atti, si reca presso il locale ufficio di
polizia per essere registrato come “cittadino straniero”. […]
La polizia aveva l’abitudine di catalogare e prendere
informazioni su ogni persona sospetta che entrasse in
Germania in quel delicatissimo periodo, quindi, con tutta
probabilità, sa chi è Marinus van der Lubbe fin dal giorno in
cui viene registrato agli archivi del commissariato, e l’idea
di “utilizzarlo” nasce allora»29.

Il momento culminante del processo si ha con


il confronto tra Göring, presidente e ministro degli
Interni del governo prussiano, e Dimitrov, il
rivoluzionario comunista. Dimitrov riuscì a
smantellare il castello di accuse del suo avversario,
lo mise con le spalle al muro e lo costrinse a
perdere il controllo dei propri nervi.
Dimitrov e i suoi compagni bulgari vennero
assolti, van der Lubbe fu invece condannato a
morte e ucciso. Il processo di Lipsia, però,
rappresentò una grandissima sconfitta per il
nazismo. Certo, la provocazione fatta con
l’incendio del Reichstag era riuscita: Hitler aveva
conquistato il potere assoluto e i comunisti erano
stati dichiarati fuorilegge. Il processo servì a
smascherare la provocazione nazista e a
denunciare i veri responsabili dell’incendio30.
Nel 1959 il corrispondente americano William
Shirer spiegò come van der Lubbe era stato
“arruolato” dai nazisti, che lo avevano
incoraggiato a dar fuoco al palazzo, anche se «il
lavoro principale – naturalmente senza che lui lo
sapesse – doveva essere compiuto dagli uomini dei
reparti di assalto»31. Secondo Shirer,
«Ai nazisti questo piromane semideficiente sembrò inviato
dal cielo. Era stato fermato dalle SA un paio di giorni prima,
essendo stato sorpreso mentre si vantava in un bar di aver
tentato di dare fuoco a diversi edifici pubblici e diceva che
prossimamente avrebbe tentato di incendiare il
Reichstag»32.

L’idea dell’incendio
«… era nata nelle menti di Goebbels e di Göring. Hans
Gisevius, a quel tempo funzionario del ministero prussiano
degli Interni, ha testimoniato a Norimberga che “fu
Goebbels a pensare per primo a dar fuoco al Reichstag”, e in
una sua testimonianza giurata Rudolf Diels, capo della
Gestapo, ha aggiunto che “Göring sapeva esattamente come
l’incendio doveva essere appiccato”, e che a lui aveva
ordinato “di preparare, prima dell’incendio, una lista di
persone da arrestare subito dopo di esso”. Il generale Franz
Halder, capo dello Stato maggiore tedesco durante la prima
parte della seconda guerra mondiale, ricordò, a Norimberga,
come in un’occasione Göring si fosse vantato del suo
atto»33.

IL DOSSIER KNOSPE
Ci vollero trent’anni per assistere a una prima
indagine accurata sull’incendio del Reichstag: la
pubblicazione avvenne nel 1960 per opera del
giornalista Fritz Tobias34 che, grazie ad analisi
accurate, smascherò non solo le numerose
falsificazioni della propaganda nazista, ma anche
la contropropaganda inglese volta ad accusare, con
altrettanta miopia, i nazisti dell’incendio. Willi
Münzenberg, dirigente del KPD (il Partito
comunista tedesco), aveva infatti guidato il contro-
processo a Londra in cui era riuscito a far
attribuire la colpa per l’incendio del Reichstag ai
nazisti. Tra il 1933 e il 1934 il Münzenberg Trust
aveva pubblicato due libri di grande successo: Il
libro nero dell’incendio del Reichstag e il terrore
hitleriano e il suo seguito, Il secondo libro nero
dell’incendio del Reichstag. I due libri furono
accettati dagli storici fino alle ricerche di Tobias,
che dimostravano le numerose imprecisioni
contenute nei due testi.
Arriviamo così al 196935:
«Da tempo la Commissione permanente di studi sulla
seconda guerra mondiale sta svolgendo indagini sulle cause
e le conseguenze dell’incendio del Reichstag: lo jugoslavo
Eduard Caliç ne è il segretario, il tedesco Willi Brandt, il
francese Andrè Malraux e il lussemburghese Pièrre
Gregoire ne sono i presidenti. È Caliç a ricevere una
telefonata da un certo Franz Knospe che asserisce di
conoscere tutta la verità sul “caso Reichstag”. […] Nasce
così il “Dossier Knospe”. Durante ulteriori colloqui, e
secondo il memoriale redatto dallo stesso Knospe,
l’incendio è stato il tipico esempio dei metodi di
intimidazione nazista. Il processo, che finisce con la
condanna a morte di van der Lubbe, sarebbe stato
organizzato ad arte da Goebbels, da Göring e dallo stesso
presidente della Corte, giudice Bunger. […] Il “Dossier
Knospe” rivela inoltre l’esistenza di un altro testimone
anonimo, uno studente che avrebbe sentito infrangersi i vetri
della finestra al primo piano del palazzo. […] Sempre
secondo Knospe esisterebbero altre persone, fuggite
all’estero, che sarebbero state testimoni oculari dei fatti
accaduti nei saloni del Reichstag, come ad esempio l’ex SA
Heinz Jurgens, il quale afferma che sarebbe stato Goebbels
in persona a introdurre van der Lubbe nella Sala Bismarck,
o come Ernst Kruse, ex cameriere personale di Roehm, che
imputa l’attentato alle Camicie brune. Per avere
l’opportunità di arrestare Ernst Torgler, la persona che più di
ogni altra doveva essere “allontanata”, saltano fuori le
testimonianze di due ex appartenenti al Partito comunista
passati nelle file dell’NSADP, i quali asseriscono che il
primo deputato della Sinistra si sarebbe attardato molto oltre
il normale orario all’interno del Parlamento. Le tre
misteriose persone con le quali Torgler sarebbe stato visto
dal già citato cameriere Elmer vengono ben presto
identificate: sono Wassili Taneff, Georgj Dimitrov e Blagoj
Popoff, di nazionalità bulgara ed esponenti di primo piano
dell’Internazionale comunista clandestina, in particolare
Dimitrov»36.

Nel 1970 Caliç pubblica così L’incendio del


Reichstag, in cui riassume i risultati di queste
ricerche: ha studiato più di trentamila pagine di
documenti e verbali del processo e la bibliografia
di riferimento è considerevole; ha consultato
centinaia di testimoni e di esperti; ha incontrato i
familiari di Marinus van der Lubbe, nonché Blagoi
Popov, uno degli imputati del processo di Lipsia. Il
risultato è una ricostruzione dettagliata della
provocazione nazista che elimina ogni possibile
dubbio sulla diretta e personale responsabilità dei
nazisti nell’ideazione, organizzazione e attuazione
del crimine. Nulla di diverso, in fondo, da quanto
sarebbe avvenuto sei anni dopo alla stazione
radiofonica di Gleiwitz, contro cui Hitler inscenerà
un falso attacco per avere l’alibi che avrebbe
giustificato agli occhi dell’opinione pubblica
l’invasione della Polonia.
PEARL HARBOR
Due anni dopo l’attacco sotto falsa bandiera alla
stazione radio di Gleitwitz anche gli USA seppero
cogliere un pretesto altrettanto tragico per
legittimare l’entrata in guerra a fianco degli alleati.
A distanza di più di settant’anni l’attacco di
Pearl Harbor mantiene ancora la sua coltre di
mistero, non potendosi dimostrare – né in un senso
né nell’altro – una volta per tutte se si sia trattato
di mera negligenza da parte degli americani
oppure se la Casa Bianca fosse a conoscenza
dell’imminente attacco e abbia lasciato che questo
avvenisse per poter successivamente sfruttare
l’occasione ed entrare in guerra.
Washington ha strumentalizzato l’accaduto per
poter soddisfare i propri piani bellici o si è
addirittura spinta fino a “permettere” l’attacco
giapponese, in modo da poterlo poi sfruttare agli
occhi dell’opinione pubblica come casus belli?
Pearl Harbor ha costituito comunque uno
spartiacque nella storia contemporanea, colpendo
l’opinione pubblica a tal punto da giustificare
l’ennesimo conflitto che fino al giorno prima
sarebbe stato impensabile.
Il 7 dicembre 1941 le flotte aereonavali
giapponesi attaccarono la flotta americana di
stanza a Pearl Harbor, nelle isole Hawaii,
provocando 2403 morti statunitensi e 1178 feriti.
L’attacco suscitò l’indignazione del popolo
americano e un odio feroce nei confronti del
nemico. L’ammiraglio statunitense William Halsey
si fece portavoce del risentimento collettivo
dichiarando: «Non la faremo finita con loro finché
il giapponese non sarà parlato solo all’inferno37».
Il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva
il pretesto per entrare in guerra. Non perse tempo e
parlò di Day of infamy nel discorso che tenne l’8
dicembre alla nazione: «Ieri, 7 dicembre, data che
resterà simbolo di infamia, gli Stati Uniti
d’America sono stati improvvisamente e
deliberatamente attaccati da forze aeree e navali
dell’Impero giapponese».
L’attacco, denominato Operazione Hawaii,
concepito e guidato dall’ammiraglio Isoroku
Yamamoto, era avvenuto in assenza di
dichiarazione di guerra, cogliendo apparentemente
di sorpresa gli americani. Le numerose forze aeree
da caccia dell’USAAF presenti nelle Hawaii non
poterono dispiegare una difesa efficace; i velivoli
furono in gran parte distrutti al suolo e solo
un’esigua minoranza di piloti riuscì a decollare e a
intraprendere il combattimento contro il nemico.
La dinamica degli eventi, però, fin da subito
insospettì molti, sia militari che civili. Sorsero così
numerose polemiche e perplessità sullo
svolgimento dei fatti e sulle responsabilità
politiche e militari dell’accaduto. La Commissione
Roberts (la prima delle otto che nel corso degli
anni si sono occupate dei fatti di Pearl Harbor)
ritenne gravemente negligenti e colpevoli di scarsa
preparazione soprattutto gli ammiragli Stark e
Kimmel e il generale Short, che vennero sostituiti.
Nel 1946 il Congresso istituì una commissione
di inchiesta che tenne una serie di approfondite
sedute dalle quali emerse la conferma delle
responsabilità militari dei comandanti sul posto,
ma anche la responsabilità dei dirigenti a
Washington – in particolare, di Knox, Stark,
Marshall e dello stesso Roosevelt – colpevoli di
aver sottovalutato la minaccia.
Un’altra corrente di pensiero ritenne molto
dubbio l’andamento della vicenda e non accettò la
versione ufficiale; si diffuse cioè il sospetto che il
disastro fosse da attribuire a fattori più gravi della
confusione e dell’incapacità dei servizi segreti
americani. Fin da subito alcuni ricercatori
sospettarono che Roosevelt avesse pianificato il
disastro di Pearl Harbor per spingere il Paese a
entrare in guerra.
Il contrammiraglio Robert Alfred Theobald
puntò il dito contro Roosevelt, reo, a suo dire, di
aver favorito l’attacco nemico non riferendo nulla
in merito – pur essendo informato dettagliatamente
dei progetti giapponesi tramite il sistema Magic –
all’ammiraglio Kimmel. Tale tesi sembrò in parte
confermata dalla politica intransigente verso il
Giappone portata avanti da Roosevelt e Hull, e
dall’atteggiamento di calma e serenità del
presidente alla notizia dell’attacco.
La tesi cospirazionista del contrammiraglio
Theobald venne però respinta negli anni Sessanta
e Settanta da vari studiosi, che confermarono
piuttosto le conclusioni della commissione
congressuale e ritornarono alla teoria della
mancanza di vigilanza e dell’eccessivo ottimismo
degli statunitensi. Costoro avrebbero cioè
sottovalutato il pericolo e, in seguito all’attacco,
sfruttato il pretesto per farlo divenire un casus
belli.
IL GIORNO DELL’INGANNO
Nel 2000 il fotografo Robert Stinnett38 ha
riproposto la teoria della cospirazione architettata
da Roosevelt e dai suoi collaboratori per indurre i
giapponesi ad attaccare Pearl Harbor. In base a
quanto egli sostiene nel suo Il giorno dell’inganno,
Roosevelt avrebbe applicato un piano per
provocare l’attacco giapponese contro gli Stati
Uniti e all’ammiraglio Kimmel sarebbe stato
impedito di condurre delle esercitazioni che
avrebbero fatto scoprire la flotta giapponese in
arrivo; flotta che in realtà, secondo Stinnett, non
avrebbe mantenuto il silenzio radio e anzi i suoi
messaggi sarebbero stati intercettati e decifrati dai
servizi statunitensi.
La tesi centrale dell’opera, smentita però da
numerosi storici, è che il 7 ottobre 1940 il capitano
di corvetta Arthur McCollum, capo dell’ONI
(Office of Naval Intelligence) per l’Estremo
Oriente, avrebbe presentato a Roosevelt un piano
in otto punti per provocare l’attacco giapponese
contro gli Stati Uniti che sarebbe stato fedelmente
applicato dal presidente nei mesi seguenti. Di
fatto, le stesse ricerche di Stinnett non hanno
portato alla luce alcuna prova che il memorandum
di McCollum sia mai stato inoltrato né che
Roosevelt lo abbia mai letto. McCollum ha inoltre
sempre negato l’esistenza di questo piano,
rendendo impossibile verificare la fondatezza della
teoria di Stinnett.
La possibilità di un attacco a Pearl Harbor
arrivò però sulla scrivania di John Edgar Hoover,
l’allora direttore dell’FBI, attraverso dei contatti
informali con i servizi segreti britannici, che
passarono agli USA il loro agente Dušan Popov, al
servizio dei tedeschi ma in realtà doppiogiochista
schierato con gli alleati. Popov informò i suoi
superiori sull’attenzione mostrata dai giapponesi
verso l’attacco di Taranto e le installazioni militari
alle Hawaii. L’FBI, però, non ritenne Popov
affidabile e non prese in considerazione le sue
soffiate, ostinandosi inoltre a non collaborare con i
servizi segreti britannici. Subito dopo l’attacco
Hoover si accorse di aver commesso un grave
errore e diventò uno dei registi occulti delle teorie
cospirative contro Roosevelt, in modo da creare
una cortina di nebbia attorno alla propria
negligenza.
Se non si è trattato di un attacco sotto falsa
bandiera, Washington ha però sicuramente
sfruttato un’occasione, nonostante si fosse
macchiata di una tragica leggerezza nel non
prendere sul serio delle informazioni su una
possibile offensiva.
Secondo un sondaggio realizzato nel settembre
del 1940, l’88% circa della popolazione americana
era allora contrario a entrare in guerra; Roosevelt
era stato eletto anche grazie alla sua promessa che
non avrebbe mai trascinato la nazione in un
conflitto («…vi do un’altra assicurazione. L’ho già
detto altre volte, ma lo ripeterò all’infinito. I vostri
ragazzi non verranno mandati a combattere alcuna
guerra straniera. Potete quindi definire qualsiasi
discorso sull’invio di eserciti in Europa come una
pura menzogna»). All’indomani del 7 dicembre
1941, sull’ondata emotiva dell’attacco di Pearl
Harbor, l’opinione pubblica mutò radicalmente
posizione optando per l’intervento bellico.
Il caso di Pearl Harbor, come vedremo in
seguito, ha molto in comune con l’Undici
settembre. Questi due attacchi hanno diviso il
passato e il futuro in un prima e un dopo,
legittimando dei provvedimenti che fino a quel
momento sarebbero stati impensabili.
Con Pearl Harbor, Washington poteva
giustificare l’entrata in guerra; con l’Undici
settembre, gli Stati Uniti «avrebbero potuto
rispondere con misure draconiane, ridurre le
libertà civili, inasprire le misure di sorveglianza
nei confronti dei cittadini, ricorrere alla detenzione
preventiva dei sospetti e utilizzare la violenza fino
in fondo»39.
Non solo. In seguito agli attentati del 2001,
George W. Bush avrebbe deciso di invadere
l’Afghanistan, nonostante i talebani avessero
chiarito che non c’entravano nulla con l’attentato,
e di inviare una seconda coalizione nel 2003 in
Iraq per rovesciare il regime di Saddam,
ufficialmente per la presenza di armi di distruzione
di massa, che invece, come la storia ha
confermato, non esistevano affatto.
I piani di invasione dell’Afghanistan e
dell’Iraq, però, erano già pronti dal 2000 e
l’attacco al World Trade Center fu semplicemente
ritenuto “un’occasione”, come ammisero senza
giri di parole Bush-Cheney-Rice-Rumsfeld. Gli
attacchi dell’Undici settembre vennero così
sfruttati come una nuova Pearl Harbor. Come ha
spiegato ampiamente David Ray Griffin,
«L’Undici settembre permise all’amministrazione Bush-
Cheney di attaccare l’Afghanistan e l’Iraq, di dare inizio alla
trasformazione tecnologica dell’esercito, di ottenere un
enorme incremento delle spese belliche e di dichiarare, con
scarsa opposizione, la nuova dottrina della guerra
preventiva, divenuta nota come “dottrina Bush”»40.

L’Undici settembre condusse il Governo a


rispolverare anche il Patriot Act, che giaceva
dimenticato sulla scrivania di Bush jr. in attesa che
un evento straordinario – «una nuova Pearl
Harbor», come l’aveva evocata l’ex consigliere
per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski
nel 1997 nel suo La Grande Scacchiera –
sconvolgesse a tal punto l’opinione pubblica da
poter stringere il cappio della sicurezza e trovare
un movente per l’occupazione prima
dell’Afghanistan e poi dell’Iraq.
Le conseguenze sono storia.
La Pearl Harbor auspicata da Brzezinki
avvenne puntualmente l’Undici settembre. Perché,
come scriveva Marx nel Il 18 brumaio di Luigi
Bonaparte, i grandi avvenimenti della storia si
ripetono due volte, la prima come “tragedia” e la
seconda come “farsa”.
CAPITOLO 2

FALSI ATTENTATI IN
PIENA GUERRA
FREDDA: DALL’EGITTO
A CUBA, DA JFK A
MORO
«Tutto quello che occorre [per esercitare il controllo] è che
esista uno stato di guerra».
GEORGE ORWELL, 1984
«La stragrande maggioranza dei rapporti, se fossero stati
usati, avrebbero raccontato un’altra storia: che non c’era
stato nessun attacco. Perciò si tentò deliberatamente di
dimostrare che l’attacco era avvenuto […] ci si impegnò
attivamente per far sì che le informazioni di SigInt si
accordassero con ciò che si asseriva fosse accaduto la sera
del 4 agosto nel golfo del Tonchino».
NSA, NOVEMBRE 2005
«Se il cedimento verso il comunismo non viene arrestato, le
conseguenze saranno disastrose per tutto l’Occidente».
HENRY KISSINGER
«Sono soltanto un burattino».
LEE HARVEY OSWALD

D odici giugno 2014: a Hebron, in Cisgiordania,


tre giovani studenti israeliani – Eyal Yifrah,
Gilad Shaar e Naftali Fraenkel – vengono rapiti. Il
movente, per l’opinione pubblica, è scontato:
l’odio tra israeliani e palestinesi.
Il 30 giugno vengono rinvenuti i corpi senza
vita dei tre giovani in una fossa poco profonda a
Halhul, a nord di Hebron1. I media divulgano
subito i nomi dei sospettati: si tratta di Marwan
Kawasmeh e Amar Abu Ayshe, entrambi membri
di Hamas, che però non rivendica il crimine.
L’azione israeliana non si fa attendere e nei giorni
successivi decine di civili palestinesi vengono
attaccati e uccisi.
Le “ricerche” dei tre ragazzi da parte del
governo israeliano portano all’arresto e al
pestaggio di almeno 600 membri di Hamas (tra cui
alcuni parlamentari), alla distruzione di circa 2100
abitazioni e all’uccisione di almeno 7 palestinesi2.
Le forze israeliane riprendono inoltre gli attacchi
aerei quotidiani sulla Striscia di Gaza, bloccati dal
settembre del 20063.
La modalità del triplice omicidio sembrerebbe
chiara e in apparenza il caso sarebbe chiuso. La
responsabilità di Hamas è ovvia, anche se non è
stata dimostrata. Nei giorni successivi al
ritrovamento dei corpi emergono però delle ombre
sulla vicenda. Numerosi particolari, taciuti dal
governo israeliano, mettono in dubbio la
responsabilità di Hamas nel rapimento4.
Karin Brothers, la scrittrice freelance ed
editorialista del portale canadese
globalresearch.ca5, in un suo articolo intitolato
Were the Three Settler Kidnappings an Israeli
“False Flag” Operation?6 analizza alcuni aspetti
poco chiari del rapimento7. Quando, l’1 luglio,
Israele ha rimosso l’ordine di riservatezza su tutte
le informazioni riguardanti tale rapimento, si sono
infatti apprese delle notizie tenute deliberatamente
nascoste. Scrive la Brothers:
«Il governo israeliano aveva già comunicato alla stampa –
intorno al 15 giugno – di essere a conoscenza che gli
studenti erano stati uccisi, ma aveva imposto la segretezza
su quest’informazione […].
Le Forze di Difesa israeliane (IDF) sono state chiamate
solo 8-9 ore dopo la prima segnalazione del rapimento.
Uno dei tre studenti aveva chiamato il numero verde della
polizia 10 minuti dopo aver accettato un passaggio in
autostop dicendo che stava per essere rapito, poi si è sentito
qualcosa che sembravano alcuni spari e gemiti, poi il
silenzio: la telefonata è durata 49 secondi. La polizia ha
ignorato questa telefonata.
Benché fosse già in possesso di tutte le prove del
rapimento e degli omicidi, il governo israeliano non ha
rivelato nessuna delle prove conosciute che potessero
indicare la responsabilità dei fatti e tutte le persone che
hanno avuto una qualsiasi relazione diretta con le telefonate
o con il ritrovamento dei corpi sono rimaste sconosciute.
Il primo ministro Netanyahu ha approfittato di quest’evento
per usarlo come arma politica:
• per creare divisioni nell’ambito della nuova “unità
governativa” di Fatah e Hamas;
• per punire fisicamente i membri di Hamas e la causa
della resistenza palestinese;
• per far approvare al Knesset una legge che blocca il
ritorno di Gerusalemme Est ai palestinesi;
• per provare a fomentare una terza intifada e legittimare
altri attacchi contro i palestinesi;
• per far montare un tale odio contro i palestinesi che per
loro è diventato pericoloso anche solo farsi vedere sulle
strade israeliane»8.

Come nel caso dell’USS Maine, il primo


ministro israeliano ha “strumentalizzato” un
terribile fatto di cronaca per poter intensificare le
violenze contro il nemico, in questo caso contro la
resistenza palestinese, per legittimare una reazione
punitiva contro Hamas – sebbene non si sia
dimostrato il suo coinvolgimento nel triplice
omicidio – e, più in generale, per incrementare
l’odio contro i palestinesi.
Come vedremo, dietro lo stucco della retorica
sbandierata da politici e media, questo genere di
strumentalizzazione è all’ordine del giorno e,
soprattutto, è utilizzato da decenni. Il divide et
impera serve infatti a innalzare il livello di paura e
di tensione per legittimare agli occhi del popolo
azioni e violenze che altrimenti sarebbero
impensabili.
FALSE FLAG IN MEDIO ORIENTE
Più in generale, in Medio Oriente sono molti i
conflitti o i colpi di Stato scoppiati per mantenere
il controllo sui giacimenti petroliferi e impedire la
penetrazione prima sovietica e poi russa. Per
questo, e per vari altri motivi, nel periodo
successivo alla seconda guerra mondiale il
principale Stato terrorista è infatti rappresentato
dagli USA, spesso in azione in Europa con l’MI5 e
l’MI6, i servizi segreti inglesi. Anche Israele ha
però utilizzato le tecniche delle false flag, a partire
dagli anni Cinquanta, per soddisfare i propri
obiettivi a seconda dei casi.
Nel 1953 il Regno Unito e gli USA
organizzarono la cosiddetta “Operazione Ajax” per
sovvertire il regime democratico dell’Iran, allora
governato dal nazionalista Mohammad Mossadeq,
che aveva da poco nazionalizzato l’industria
petrolifera. Londra puntava a rafforzare il potere
personale di Mohammad Reza Pahlavi per
recuperare il controllo sui redditizi giacimenti
petroliferi iraniani. Washington temeva che la crisi
economica e politica della Persia potesse aprire la
porta, in piena guerra di Corea, alla penetrazione
sovietica in Medio Oriente.
Il colpo di Stato, coordinato da Kermit
Roosevelt e da Norman Schwarzkopf senior,
depose il primo ministro Mohammed Mossadeq,
colui che aveva deciso di nazionalizzare l’industria
petrolifera. Gli Stati Uniti si garantirono così, alle
frontiere meridionali dell’URSS, una base ideale
per sorvegliare le attività aeree e missilistiche di
Mosca. Gli Stati Uniti, inoltre, presero in Iran il
posto degli inglesi: lo Shah divenne il gendarme
del Golfo e gli americani iniziarono a vendergli
armi per miliardi di dollari, infiltrando a loro volta
nel Paese circa cinquantamila consiglieri militari.
IL DISASTRO DI BAGHDAD
In questo periodo di delicati equilibri, nella
primavera del 1950 ebbe inizio improvvisamente
una serie di attentati che sembravano avere come
obiettivo la comunità ebraica in Iraq. Qui il
neonato Mossad avrebbe cominciato la sua
carriera con uno dei peggiori fallimenti della
storia, il cosiddetto “disastro di Baghdad”.
In aprile venne attaccato con bombe a mano il
caffè Al Bayda di Baghdad: l’assalto provocò il
ferimento di quattro ebrei. Nel gennaio del 1951
rimasero uccise tre persone in un attentato
all’ufficio del registro degli emigranti ebrei della
sinagoga Masuda Shem-Tov. Successivamente
vennero attaccati negozi e abitazioni ebraici, e
infine l’ufficio dell’USIS all’ambasciata USA.
Il 22 maggio 1951, a mezzogiorno, le forze di
sicurezza irachene arrestarono Yehuda Tajjar e
Mordechai Ben-Porat, due ebrei di origine
irachena trasferitisi in Palestina e rientrati
successivamente in Iraq, sotto falsa identità, per
organizzare una rete del Mossad nel Paese. I due
vennero fermati all’uscita di un grande magazzino
di Baghdad da tre agenti iracheni in borghese e
trascinati al comando della polizia di sicurezza9. Il
loro arresto provocò «l’immediato crollo della
“rete irachena”, una delle più efficienti
organizzazioni di spionaggio e immigrazione
clandestina israeliane»10. L’emigrazione ebraica,
vietata fino al 1949, era stata legalizzata l’anno
successivo, ma veniva ancora gestita da agenti
israeliani illegali11.
Le autorità di Baghdad smantellarono una rete
spionistica composta da ventotto ebrei e nove
arabi, che furono successivamente processati per
spionaggio e possesso illegale di armi12. Alcuni di
loro vennero anche condannati per gli attentati dei
mesi precedenti alle istituzioni ebraiche e
all’USIS. Ulteriori arresti, torture e perquisizioni
portarono alla scoperta
«… della rete di difesa della comunità ebraica di Baghdad,
la Shura (linea) addestrata dall’Ahaganah, detta anche
Movimento pionieri di Babilonia. I suoi depositi segreti di
armi furono confiscati: contenevano oltre 400 bombe a
mano, 200 pistole e alcune decine di mitra. Esplosivi,
archivi, macchine per scrivere, macchine per la stampa ed
elenchi di simpatizzanti furono poi scoperti in sinagoghe o
abitazioni private. […] Entro la fine di giugno del 1951
erano stati arrestati più di ottanta ebrei»13.

L’ondata di arresti condusse a tre processi, che


cominciarono nell’ottobre del 1951 e si conclusero
nel gennaio del 1952. Alcuni imputati furono
accusati dell’assalto con bombe a mano al caffè Al
Bayda di Baghdad, avvenuto nell’aprile del 1950,
in cui erano rimasti feriti quattro ebrei. La
pubblica accusa sostenne che questi attentati sotto
falsa bandiera
«… miravano a minare il regime, a dargli una cattiva fama
(antisemitica) e a provocare risentimento fra l’Iraq e le
potenze occidentali»14.

L’idea del coinvolgimento del Mossad negli


attentati era per altro condivisa dall’indagine
ufficiale della CIA, come ebbe a confermare
l’agente americano Wilbur Crane Eveland, ai
tempi incaricato di indagare sull’attentato alla
biblioteca dell’USIS. Secondo Eveland, i sionisti
avevano “sacrificato” delle vittime ebree «nel
tentativo di presentare gli iracheni come
antiamericani e terrorizzare gli ebrei»15.
L’UNITÀ 131
Tre anni dopo il disastro di Baghdad il Mossad
ritornò a utilizzare le operazioni sotto falsa
bandiera, spostandosi però in Egitto. Una cellula
del servizio segreto israeliano denominata “Unità
131” diede il via a una serie di attentati
antibritannici e antiamericani al Cairo, allo scopo
di creare difficoltà al regime appena instaurato di
Nasser e ritardare il ritiro delle forze britanniche
dal Paese, se non anche di provocare una vera e
propria guerra tra Egitto e Regno Unito.
L’Unità 131
«… era stata costituita la prima volta nel 1948 come sezione
supersegreta nella divisione politica di Boris Guriel, con il
compito di effettuare sabotaggi e operazioni di propaganda
“sporca” dietro le linee nemiche. Dopo la guerra, nonostante
le proteste della divisione politica, l’Unità 131 fu trasferita
alle IDF [Forze di difesa israeliane], che erano riuscite a
sostenere che i suoi obiettivi erano militari.
A un reparto simile, l’Unità 132, venne affidato il compito
della guerra psicologica».

Nel 1954 Avri Eklad, un agente dell’Aman, la


sezione informazioni militari delle Forze di difesa
israeliana, ricevette l’ordine di
«… assumere il comando della rete egiziana e farla operare
contro obiettivi egiziani, britannici e americani. Dopo aver
ricevuto a Parigi le necessarie istruzioni, Eklad rientrò in
Egitto a fine giugno con un passaporto tedesco a nome di
Paul Frank, commerciante»16.

I servizi segreti israeliani inscenarono una serie di


attentati in Egitto contro gli occidentali (in
particolare contro obiettivi britannici) per far
ricadere la colpa sugli egiziani, del tutto estranei
invece agli eventi. Nella primavera del 1954
Londra stava per siglare un accordo con il regime
di Nasser per il ritiro delle sue truppe in stanza
nella zona del canale di Suez e la conseguente
cessione all’Egitto di tale zona. Israele lo
considerava una minaccia, dal momento che
sarebbe venuta a mancare una zona occupata da un
esercito neutrale, rispetto a un’eventuale ripresa
del conflitto arabo-israeliano. Era quindi nel suo
intento rallentare tale processo con ogni mezzo
possibile.
Le Forze di difesa israeliane decisero quindi di
ritardare la partenza degli inglesi organizzando
una serie di attacchi contro obiettivi strategici
occidentali, in particolare britannici, in Egitto. Gli
attentati sotto falsa bandiera avrebbero potuto far
naufragare l’intesa sullo sgombero fra Londra e Il
Cairo.
Il 2 luglio del 1954 furono collocate delle
bombe incendiarie in numerose cassette postali di
Alessandria. Il 14 e il 23 luglio altri piccoli ordigni
esplosero nei centri culturali statunitensi del Cairo
e di Alessandria e in alcuni cinema17. Uno di
questi, però, deflagrò prima del tempo in tasca a
uno degli attentatori, Philip Natanson, mentre
stava cercando di entrare nel cinema Rio di
Alessandria. Grazie al suo arresto, la polizia
egiziana catturò nella notte del 23 luglio il resto
della rete israeliana. Si trattava dei componenti
dell’Unità 131.
Anche questa volta una commissione di
inchiesta del Mossad, non potendo negare la
condizione di agenti israeliani degli arrestati,
stabilì comunque che dallo Stato ebraico non era
partito alcun ordine “esplicito” per l’esecuzione di
attentati antibritannici.
CUBA: IL PROGETTO MANGUSTA
«Il terrorismo di Stato patrocinato dagli Usa in genere ha
mirato al mantenimento di ciò che può chiamarsi la
divisione del mondo in sfere di influenza, come stabilite dal
vertice dei Tre Grandi (USA, GB e URSS) a Yalta, in
Crimea, verso l’inizio del 1945. Poiché gli USA non
potevano semplicemente arrestare e uccidere i loro
oppositori come poteva fare Stalin, il terrorismo fu uno
strumento da loro privilegiato nel tentativo di mantenere il
dominio e la disciplina all’interno del blocco
occidentale»18,

spiega Tarpley. Terrorismo, guerra psicologica,


operazioni coperte, falsi attentati.
Il 18 giugno 1948, con la direttiva 10/2, l’NSC
(National Security Council) aveva autorizzato la
CIA a organizzare delle “operazioni clandestine”
in tutto il mondo. La direttiva era chiara nel
definire la genesi e gli obiettivi di tali missioni
segrete, che vennero «condotte o promosse» dal
governo americano
«… contro Stati o gruppi di Stati stranieri od ostili o a
sostegno di Stati o di gruppi di Stati amici, ma pianificate ed
eseguite in modo tale che ogni responsabilità a loro riguardo
da parte del governo americano non sia evidente alle
persone non autorizzate o, se scoperta, possa essere
plausibilmente smentita»19.

A questo scopo venne istituita un’apposita


divisione, l’Office of Special Projects (OSP), in
seguito denominata Office of Policy Coordination,
volta a «pianificare e portare a termine operazioni
clandestine20». La direttiva NSCD 10/2 avrebbe
condotto, come spiega Pino Cabras,
«… all’allestimento e alla copertura di eserciti occulti
anticomunisti (come Gladio in Europa occidentale), ma in
modo esplicito lasciava fuori la guerra convenzionale e le
azioni di spionaggio e controspionaggio. Venne così creato
quel corpo di intelligence statunitense che a partire dagli
anni Cinquanta operò in modo sempre più penetrante, tanto
nel territorio nazionale quanto in tutto il mondo, fuori dalla
portata di un qualsiasi controllo da parte dei cittadini
statunitensi»21.

Queste operazioni clandestine, scrive Daniele


Ganser, si occupavano di
«… ogni attività riferibile a propaganda, guerra economica,
azioni dirette preventive, compreso il sabotaggio,
l’antisabotaggio, la distribuzione e misure di evacuazione;
sovversione contro Stati ostili, compreso il sostegno a
gruppi di resistenza occulti, guerriglia, raggruppamenti di
rifugiati e aiuto a elementi anticomunisti autoctoni nei Paesi
minacciati del mondo libero»22.

In questa dinamica rientrano il Progetto


Mongoose (letteralmente Mangusta) e
l’Operazione Northwoods, entrambi fortemente
voluti dalla presidenza Kennedy dopo il fallimento
e l’umiliazione della Baia dei Porci.
L’Operazione Mongoose, conosciuta anche
come The Cuban Project, è un’operazione
disegnata e condotta dalla CIA a partire dal 1961
sotto la spinta dell’allora ministro della Giustizia
Robert Kennedy. Dopo la Baia dei Porci, infatti,
JFK accarezzò l’idea di distruggere la CIA, poi
decise di affidarne il controllo al fratello Robert e
«i due uomini diedero libero sfogo all’attività
clandestina, con un vigore senza precedenti»23,
avviando 163 operazioni segrete in meno di
quattro anni.
Nel novembre del 1961, come spiega Tim
Weiner, il corrispondente del «New York Times»
esperto di CIA, «nella massima segretezza, John e
Bobby Kennedy crearono una nuova cellula per la
pianificazione dell’attività clandestina: il Gruppo
speciale (allargato). Era una squadra alle
dipendenze di Robert e aveva una missione:
eliminare Castro»24.
Per portare (inutilmente) a segno l’obiettivo, i
Kennedy passarono dalle operazioni di sabotaggio
e dalle azioni terroristiche alla pianificazione
dell’omicidio di Castro. Per Robert, infatti,
rovesciare Castro era «la massima priorità per il
governo degli Stati Uniti». Il ministro della
Giustizia dettò le sue volontà a John McCone, il
neodirettore della CIA, nonostante i saggi e cauti
consigli di questi, dichiarando che l’Agenzia
avrebbe dovuto investire il massimo in tempo,
risorse, uomini e denaro per portare a termine la
missione. I due fratelli volevano «un atto di
sabotaggio rapido e silenzioso per deporre
Castro»25.
Robert Kennedy dettò quindi
«… un elenco di cose che la CIA avrebbe dovuto fare:
ingaggiare e mettere in campo la Chiesa cattolica e la
malavita cubana nella lotta contro Castro, incrinare il
regime all’interno, sabotare l’economia, sovvertire la polizia
segreta, distruggere i raccolti con una guerra biologica o
chimica e ottenere un cambio del regime sull’isola prima
delle elezioni del Congresso, che si sarebbero tenute nel
novembre del 1962»26.

Fu così che il futuro direttore della CIA,


Richard Helms, allora Director of the National
Clandestine Service (direttore dei piani) creò una
task force indipendente che faceva riferimento a
Ed Lansdale e a Robert Kennedy. Mise insieme
«… una squadra di persone di tutto il mondo, creando quella
che resta a tutt’oggi la più grande operazione di intelligence
mai realizzata dalla CIA in tempo di pace. […] A proporre
alcuni “folli complotti” contro Castro erano il Pentagono e
la Casa Bianca, ha raccontato Helms. Uno prevedeva di far
saltare una nave americana nel porto di Guantanamo e di
mettere in scena un attacco terroristico contro un aereo di
linea americano per giustificare una nuova invasione.
L’operazione aveva bisogno di un nome in codice, e Sam
Halpern propose Mongoose, “mangusta”»27.

A capo di Mongoose venne inizialmente messo


William K. Harvey. Questi, nell’aprile del 1962,
decise di arruolare la mafia nel piano per
sovvertire Castro28. Si incontrò personalmente a
New York con il mafioso John Rosselli – poi
coinvolto anche nell’omicidio di JFK – cui
consegnò un lotto di pillole di veleno con le quali
la mafia avrebbe dovuto uccidere Castro29.
Quando Robert Kennedy lo venne a scoprire, si
infuriò, non per l’idea di avvelenare il nemico, ma
per l’arruolamento della mafia30. Evidentemente le
cose andavano fatte, ma a modo suo. Al
coinvolgimento della mafia sarebbe stato
preferibile un attacco sotto falsa bandiera a un
aereo di linea americano.
Grazie a cinquanta milioni di dollari investiti e
alla creazione di una piccola rete di spie,
Mongoose in soli quattro mesi portò a
realizzazione 5780 azioni terroristiche e 716
sabotaggi a infrastrutture economiche cubane. Al
fine di destabilizzare il regime di Castro,
l’operazione – che già prevedeva l’impiego della
forza militare, azioni di sabotaggio e l’assassinio
dei principali dirigenti cubani – includeva
addirittura l’uso di armi chimiche non letali,
destinate a far ammalare gli operai azucareros e ad
allontanarli dal lavoro per qualche giorno, allo
scopo di colpire la produzione del Paese. Le azioni
non condussero però ad alcuna rivoluzione
sull’isola, e tantomeno alla morte di Castro. Bobby
Kennedy, nel frattempo, iniziava a perdere la
pazienza e «… continuava a chiedere invano che
dei commando facessero saltare centrali elettriche,
fabbriche e zuccherifici sull’isola»31.
Il 21 agosto del 1962 Robert Kennedy chiese a
McCone se la CIA poteva «inscenare un attacco
fasullo alla base militare di Guantanamo come
pretesto per un’invasione americana di Cuba»32.
Fortunatamente McCone si oppose, ritenendolo un
grave errore, e rivelò i suoi timori – di lì a poco
confermati – sulla possibile presenza di missili
sovietici e armi nucleari a Cuba. Il presidente,
però, arrivò persino a ipotizzare una guerra
nucleare con Cuba33. Insomma, «i Kennedy
stavano per menare colpi alla cieca. La CIA era la
loro arma spuntata»34.
Il ministro della Giustizia continuò dunque a
insistere affinché la CIA inviasse degli «agenti a
Cuba con il compito di minare porti e rapire
soldati cubani per interrogarli, un ordine che portò
all’ultima missione dell’operazione Mongoose a
ottobre quando, al culmine della crisi nucleare,
una cinquantina di spie e di sabotatori furono
mandati a Cuba a bordo di un sommergibile»35 per
infiltrarsi. Avevano l’ordine di attaccare le navi
sovietiche. La speranza dei Kennedy era di indurre
una controrivoluzione per far cadere Castro.
Quando vennero fotografati e scoperti i missili
sovietici a Cuba, Mc-Cone cercò di frenare
l’operazione e di spostare le risorse su ciò per cui
la CIA era nata: la raccolta di informazioni di
intelligence per il Pentagono36. Inutilmente,
perché dalla Casa Bianca, dopo il fallimento
dell’operazione voluta da Harvey coadiuvato dal
mafioso John Rosselli, nell’estate e poi
nell’autunno del 1963 partì una nuova missione
che aveva lo stesso obiettivo della precedente:
uccidere Castro37. Questa volta la CIA progettò di
usare come sicario l’agente Rolando Cubela, il
quale si era offerto volontario per l’esecuzione38.
L’OPERAZIONE NORTHWOODS
In questo clima, volto all’eliminazione del leader
cubano, nasce l’Operazione Northwoods: si
trattava di un piano collaterale concepito nel 1962
da alti dirigenti del ministero della Difesa
statunitense (firmato dal generale Lyman
Lemnitzer, capo degli Stati maggiori riuniti) allo
scopo di suggestionare l’opinione pubblica
statunitense e indurla così a sostenere un eventuale
attacco militare contro il regime cubano.
Il piano, che non fu mai messo in atto,
prevedeva l’esecuzione di una serie di azioni
organizzate da entità governative USA e condotte
sotto copertura – inclusi alcuni attacchi terroristici
da portare a termine contro obiettivi all’interno del
territorio nazionale degli Stati Uniti – che
sembrassero dirette da nazionalisti cubani. Esso
prevedeva dunque la messa a punto di attentati
sotto falsa bandiera allo scopo di screditare il
regime di Castro e generare un’ondata di
indignazione nell’opinione pubblica. I primi
documenti del piano furono pubblicati nel 1997 ad
opera del John F. Kennedy Assassination Records
Review Board; gli allegati furono pubblicati nel
1998 dal National Security Archive.
Come spiega James Bamford in Body of
Secrets,
«L’Operazione Northwoods, che aveva l’approvazione per
iscritto del capo e di tutti i membri degli Stati maggiori
riuniti [degli USA], richiedeva che si sparasse a persone
innocenti nelle strade d’America; che si affondassero in alto
mare barche cariche di rifugiati in fuga da Cuba; che si
scatenasse un’ondata di terrorismo violento a Washington,
D.C., Miami e altrove. Degli innocenti sarebbero stati
incastrati per attentati dinamitardi che non avevano
commesso; degli aerei sarebbero stati dirottati»39.
L’operazione intendeva inscenare delle false
flags, da imputare poi ai cubani; nei documenti
dell’epoca si legge:
«L’opinione mondiale e il forum delle Nazioni Unite
sarebbero favorevolmente colpiti se il governo cubano
apparisse a livello internazionale sempre più rozzo e
irresponsabile, tanto da rappresentare un’inquietante e
imprevedibile minaccia per la pace in tutto l’emisfero
occidentale».

E ancora:
«Sarebbe possibile organizzare un incidente del tipo
“Remember the Maine”, che potrebbe assumere varie
forme: potremmo far saltare una nave USA nella baia di
Guantanamo e dare la colpa a Cuba. […] Far saltare un
deposito di munizioni dentro la base [di Guantanamo];
appiccare incendi; incendiare un aereo in una base aerea;
lanciare proiettili di mortaio dall’esterno di una base verso
l’interno. Produrre qualche danno alle installazioni. […] La
campagna terroristica potrebbe essere diretta contro i
profughi cubani che cercano rifugio negli Stati Uniti.
Potremmo affondare un’imbarcazione (vera o contraffatta)
carica di cubani diretti in Florida. Potremmo organizzare
attentati contro la vita di rifugiati cubani negli Stati Uniti
arrivando a causare feriti, così da avere dei casi a cui dare
ampia pubblicità»40.

L’Operazione Northwoods intendeva così,


almeno sulla carta, seguire le direttive del ministro
della Giustizia, che aveva caldeggiato apertamente
la possibilità di creare degli attacchi sotto falsa
bandiera:
«È possibile creare un incidente che serva a dimostrare in
modo convincente che un aereo cubano ha attaccato e
colpito un aereo di linea civile noleggiato per percorrere una
certa rotta, dagli Stati Uniti alla Giamaica o al Guatemala, a
Panama, al Venezuela. La destinazione sarebbe scelta solo
in funzione della necessità che il piano di volo comporti
l’attraversamento della zona di Cuba. I passeggeri
potrebbero essere un gruppo di studenti universitari in
vacanza, oppure un qualsiasi gruppo di persone che hanno
un interesse comune, in modo da giustificare un volo charter
non programmato»41.

L’intenzione di sacrificare delle vite umane per


poi attribuire la colpa al regime cubano c’era, ma
questa volta non venne concretizzata.
Ci pensò invece l’allora vicepresidente Lyndon
Johnson a sfruttare una messinscena per ottenere il
casus belli che gli sarebbe servito solo due anni
dopo per trascinare il Paese nella sciagurata guerra
del Vietnam.
L’INCIDENTE DEL GOLFO DEL TONCHINO
«Ieri sera ho annunciato al popolo americano che
il regime nord vietnamita ha attaccato ancora una
volta e deliberatamente navi della marina
americana in acque internazionali…»42: con
queste parole, il mattino del 5 agosto 1964, il
presidente Lyndon B. Johnson esordì di fronte al
Congresso, trascinando il Paese nella guerra del
Vietnam. Una guerra, però, nata da una menzogna.
Tre giorni prima, il 2 agosto 1964, una nave da
pattuglia nord vietnamita aveva aperto il fuoco
contro la USS Maddox. Era l’occasione che
desiderava il presidente Johnson, nel frattempo
subentrato allo scomparso Kennedy, per scuotere
l’orgoglioso spirito nazionalista americano. Due
giorni dopo venne diffusa la notizia, poi rivelatasi
falsa, che un’altra nave statunitense era stata
attaccata da siluri vietnamiti nel golfo del
Tonchino. La bugia scosse Washington, che
autorizzò il presidente a «prendere tutte le misure
necessarie per respingere gli attacchi e prevenire
future aggressioni».
Nonostante la confusione dei rapporti
sull’evento del 4 agosto, Johnson e i suoi
collaboratori sfruttarono questo presunto secondo
attacco per presentare finalmente al Congresso il
documento che avrebbe dato all’amministrazione
il via libera per approvare la Risoluzione del golfo
del Tonchino, la quale autorizzava il presidente a
dare il via alla partecipazione statunitense alla
guerra contro il Vietnam del Nord senza dichiarare
guerra (Joint Resolution of Congress H.J. RES
1145)43.
Il secondo presunto attacco passò poi alla
storia come “l’incidente del golfo del Tonchino”,
ovvero la causa scatenante della “Guerra dei
diecimila giorni”, la più lunga nella storia degli
Stati Uniti. Costò 200 miliardi di dollari ai
contribuenti USA, nonché la vita di 58mila
americani e di 3 milioni di vietnamiti.
L’attacco aveva offerto al presidente il pretesto
per realizzare un disegno già pronto: intensificare
lo scontro aperto con il Vietnam comunista. Il 7
agosto, con i voti del Congresso e l’appoggio
dell’opinione pubblica americana, Johnson ottenne
l’approvazione per un intervento illimitato. Iniziò
quindi la campagna dei bombardamenti aerei. La
Risoluzione del Tonchino nacque così: per
«prevenire ogni aggressione contro l’America […]
preservare la pace e la sicurezza internazionale».
Espressioni, queste, che all’indomani dell’Undici
settembre e della “dottrina Bush” sulla guerra
preventiva risuonano tragicamente familiari.
Alcuni studi recentemente pubblicati dall’NSA
(National Security Agency)44 hanno però
sconfessato la versione ufficiale dei fatti diffusa
dal Pentagono all’epoca. Secondo una relazione
dell’NSA, desecretata nel novembre del 200545, il
2 agosto 1964 fu la USS Maddox a sparare per
prima, esplodendo tre colpi di avvertimento
all’indirizzo delle navi nordvietnamite; inoltre, al
momento del confronto, la Maddox si trovava
all’interno di quelle che il Vietnam del Nord
riteneva le proprie acque territoriali, sebbene gli
Stati Uniti non le riconoscessero come tali.
L’incidente del Tonchino, dunque, sarebbe stato
deliberatamente “cercato” dalle Forze americane,
che avevano già deciso di «incrementare le
incursioni via mare»46. Il cacciatorpediniere USS
Maddox, affidato al comando del capitano John
Herrick, aveva ricevuto l’ordine di «stimolare e
registrare»47 le reazioni delle Forze
nordvietnamite alle incursioni americane nelle loro
acque: si voleva, cioè, istigarle a una reazione
violenta.
La versione raccolta dall’NSA è racchiusa,
rigidamente coperta dal segreto, in un fascicolo di
quattrocento pagine compilato da Robert Hanyok,
storico dell’NSA. Intitolato Spartans in Darkness
(letteralmente “Spartani nelle tenebre”), il
fascicolo ricostruisce una sconvolgente catena di
errori, depistaggi e falsificazioni che, come
ammesso dal ricercatore indipendente con fonti
nell’NSA e nella CIA Matthew Aid48 durante
un’intervista al «New York Times», ricalca da
vicino la mistificazione operata dalla Casa Bianca
per vendere all’America e al mondo la guerra
all’Iraq (la bufala delle armi di distruzione di
massa).
In estrema sintesi, dunque, lo studio dell’NSA
ha concluso che il 4 agosto 1964 non c’erano navi
nordvietnamite intorno alla Maddox e al Turner
Joy: i due cacciatorpedinieri avrebbero scambiato
le proprie ombre per il nemico, finendo per sparare
a «obiettivi fantasma», come avrebbe confermato
successivamente James Stockdale, comandante
della squadriglia della Navy in volo di scorta sopra
le navi. Gli americani stavano «sparando alle
proprie ombre»49.
Il capitano Herrick aveva messo in dubbio la
realtà dell’attacco del 4 agosto («l’intera azione
lascia molti dubbi», riferì a un’ora dall’attacco
fantasma50), ma Washington occultò
volontariamente quei dubbi. Anche l’NSA,
nonostante si fosse resa conto subito dell’errore,
decise di tacere e di nascondere la ricostruzione
reale dei fatti: «Tutti – tutti, anche chi dubitava –
decisero di rimanere in silenzio»51, facendo
addirittura sparire i documenti che avrebbero
potuto smentire l’accaduto.
Il secondo attacco al cacciatorpediniere
statunitense USS Maddox è stato dunque il
risultato di una simulazione, di un falso allarme o
addirittura di una deliberata montatura.
Lyndon Johnson era infatti pronto a far
bombardare il Vietnam del Nord già da due mesi:
«Su suo ordine, Bill Bundy, sottosegretario di Stato per
l’Estremo Oriente, fratello del consigliere del presidente per
la Sicurezza nazionale e analista veterano della CIA, aveva
stilato una risoluzione di guerra da sottoporre al Congresso
quando i tempi fossero stati maturi»52.

Si trattò, pertanto, di una sceneggiata politica,


di un falso attacco mai realmente avvenuto, che
servì come pretesto per trascinare il Paese in
guerra.
Nel novembre del 2005 l’NSA rese pubblica la
confessione dell’occultamento delle prove fino ad
allora:
«La stragrande maggioranza dei rapporti, se fossero stati
usati, avrebbe raccontato un’altra storia: che non c’era stato
alcun attacco. Perciò si tentò deliberatamente di dimostrare
che l’attacco era avvenuto… ci si impegnò attivamente per
far sì che le informazioni di SigInt si accordassero con ciò
che si asseriva fosse accaduto la sera del 4 agosto nel golfo
del Tonchino»53.

Le informazioni di intelligence, riporta il


rapporto dell’NSA, «furono distorte
deliberatamente per suffragare l’idea che ci fosse
stato un attacco»54. Per far ciò, e avere il casus
belli che serviva al Pentagono, i funzionari della
CIA «eliminarono consapevolmente le prove che
contraddicevano quella verità»55. Lyndon Johnson
dovette ammettere l’errore quattro anni dopo,
quando si lasciò sfuggire una dichiarazione che
passò alla storia: «Diavolo! Quei maledetti idioti
di marinai sparavano ai pesci volanti!»56.
Nell’estate del 1964 egli non poteva prevedere
il disastro e l’alto numero di vite umane che quella
guerra avrebbe richiesto. Non poteva immaginarlo,
perché non conosceva e non capiva il nemico. Il
suo Paese non poteva sconfiggere un nemico «che
non erano in grado di comprendere»57.
Il nome di Lyndon Johnson non è stato legato
solo alla montatura dell’incidente del golfo del
Tonchino, al progetto Mongoose e all’Operazione
Northwoods (all’epoca era vicepresidente della
giunta Kennedy). Il suo nome è stato macchiato
anche da uno dei crimini più misteriosi della
storia: il caso JFK, ossia l’assassinio del presidente
John Fitzgerald Kennedy, avvenuto a Dallas il 22
novembre 1963.
IL CASO JFK
Il 12 novembre 1963, durante un discorso alla
Columbia University, il presidente Kennedy svelò
l’esistenza di un complotto che coinvolgeva la
Casa Bianca e che avrebbe rischiato di distruggere
la libertà del popolo americano. JFK sembrava
determinato a scoprire le trame di questa
cospirazione prima di concludere il proprio
mandato.
Esattamente dieci giorni dopo, il 22 novembre
1963, JFK veniva ucciso a Dallas (Texas) da tre
colpi di arma da fuoco sparati, secondo la
ricostruzione ufficiale, da Lee Harvey Oswald, il
quale due giorni dopo venne a sua volta
assassinato da Jack Ruby.
La Commissione Warren archiviò il mistero
della morte di Kennedy individuando in Oswald
l’unico responsabile del delitto e dipingendolo
come il protagonista squilibrato di un gesto
solitario di violenza. Oswald, quando venne
arrestato, si limitò a dichiarare che era soltanto un
«burattino», evidentemente il capro espiatorio di
una macchinazione governativa.
Nel 1979, però, la United States House Select
Committee on Assassinations dichiarò che l’atto di
Oswald era stato probabilmente frutto di una
cospirazione, come aveva tanto tenacemente
sostenuto il procuratore distrettuale di New
Orleans Jim Garrison58 che nel 1966 era stato
incaricato delle indagini sull’omicidio del
presidente. L’inchiesta del magistrato era sfociata
nel clamoroso processo del 1967 contro
l’imprenditore Clay Shaw59, nel corso del quale
Garrison aveva cercato inutilmente di dimostrare
che il delitto era il frutto di una cospirazione che la
Commissione Warren si ostinava invece a
insabbiare.
Per Garrison si sarebbe trattato di un golpe
compiuto dall’interno del sistema, in modo da
defenestrare il vertice della presidenza senza però
intaccare il resto del governo. Si sarebbe quindi
trattato di un colpo di Stato «proposto e
programmato con notevole anticipo da fanatici
anticomunisti membri dell’intelligence degli Stati
Uniti», realizzato,
«… molto probabilmente senza un’approvazione ufficiale,
da individui della CIA appartenenti agli apparati delle
operazioni segrete e da altri collaboratori esterni non
appartenenti direttamente alle agenzie governative, e
mascherato da gente con le stesse opinioni politiche
dell’FBI, del Secret Service, del dipartimento di Dallas e
degli ambienti militari»60.

Secondo l’ipotesi di Garrison e del giornalista


Jim Marrs61, il complotto sarebbe stato studiato e
pianificato dai più alti vertici dei servizi segreti
statunitensi in collaborazione con la mafia
americana e con l’estrema destra, e con l’avallo
dell’allora vicepresidente in carica Lyndon
Johnson, per poter proseguire la guerra del
Vietnam a vantaggio delle gerarchie militari e dei
fornitori di armi.
Nel 1963 Kennedy aveva infatti cominciato a
pianificare la ritirata di alcune migliaia di soldati
dal Vietnam: come abbiamo visto, l’escalation
militare sarebbe stata solo opera di Johnson, che
avrebbe sfruttato l’incidente (falso) del golfo del
Tonchino per trascinare la nazione in guerra.
L’allora segretario della Difesa, poi presidente
della Banca mondiale62, Robert McNamara
ammise successivamente, nel film The Fog of War,
che Kennedy non aveva alcuna intenzione di
impegnarsi nella guerra in Vietnam: in un
memorandum, datato 11 ottobre 1963, Kennedy
avrebbe infatti ordinato il ritiro di mille uomini dal
Vietnam; decisione, questa, immediatamente
annullata da Johnson appena divenuto presidente.
In base a quanto emerge dalle ricerche di
Garrison – così come dall’inchiesta ordinata dalla
stessa famiglia Kennedy – vi sarebbero state
diverse concause che avrebbero portato
all’eliminazione di un presidente divenuto ormai
scomodo per le élite di Wall Street, per il
Pentagono, per la CIA e per la mafia. Oltre alla
politica estera e alla posizione contro la ricerca
sull’energia nucleare63, per alcuni ricercatori il
decreto presidenziale 11110, con il quale JFK
intendeva nazionalizzare l’emissione di moneta,
sarebbe stato una di queste cause.
LA CONTROINCHIESTA DELLA FAMIGLIA
KENNEDY
Il 9 agosto 2011 i quotidiani di tutto il mondo
pubblicarono con stupore la notizia che Jackie
Kennedy era convinta che Lyndon Johnson avesse
architettato l’omicidio di suo marito. Lo sfogo
della first lady era stato raccolto nel 1964, a soli
quattro mesi di distanza dall’attentato di Dallas,
dall’amico e principale consigliere del presidente
Arthur Schlesinger. La conversazione, della durata
di quattro ore, venne registrata e conservata nella
cassaforte della John F. Kennedy Presidential
Library di Boston, e fu resa nota nell’estate del
2011 dalla figlia di Jackie e John, Caroline, decisa
a pubblicare il contenuto dei nastri in cambio della
soppressione della miniserie The Kennedys da
parte della rete «ABC».
Jackie condivideva i dubbi del cognato Robert,
che all’indomani dell’omicidio del fratello John
aveva nascosto dei documenti in una cassaforte, in
modo che neppure la Commissione Warren – di
cui evidentemente non si fidava – potesse
accedervi. Bob, infatti, era convinto del
coinvolgimento dei poteri forti, della mafia (in
particolare nella persona di Jimmy Hoffa) e dei
servizi segreti.
Quando la Commissione informò il mondo che
JFK era morto per mano di un pazzo solitario, Lee
Harvey Oswald, Bob Kennedy decise di affrontare
l’inchiesta con mezzi indipendenti e si rivolse a un
amico fidato, Daniel Moynihan, dandogli il
mandato di indagare sulle trame che avevano
portato alla morte del presidente. Nacque così un
dossier in forma di libro che, grazie anche all’aiuto
dell’intelligence francese su mandato personale
del presidente Charles De Gaulle, sconfessa i
risultati della Commissione Warren, i quali, infatti,
nel 1976 vennero contraddetti dal Congresso
statunitense che istituì l’HSCA (House of
Representative Select Committee on
Assasinations) per investigare sulle reali
circostanze delle morti di JFK e di Martin Luther
King.
Come ricorda Stefania Limiti nell’introduzione
della versione italiana di Farewell America, edita
con il titolo Il Complotto, grazie all’HSCA
«Ci fu un piccolo passo in avanti sul golpe di Dallas: la
commissione lavorò per due anni, fino al 1978, e poi nel
1979 rese noto il suo rapporto finale, nel quale affermava
che il presidente Kennedy era stato ucciso da Lee Harvey
Oswald, ma che un gruppo di uomini legati alla Cia e alla
mafia aveva complottato per ottenere quel risultato»64.
Il dossier della famiglia Kennedy, invece, va
ben oltre i risultati ottenuti dall’HSCA ipotizzando
il ruolo di pedina inconsapevole di Oswald: costui
sarebbe stato addirittura all’oscuro dell’attentato, e
avrebbe semmai creduto di dover prendere parte a
un’esercitazione. Fu lo stesso Oswald, poco prima
di venire a sua volta ucciso da Ruby, a lamentarsi
di essere soltanto uno “zimbello”, un capro
espiatorio, come già evidenziato da Garrison.
Nel 2003 anche l’avvocato di Lyndon Johnson,
Barr McLellan si disse convinto che il suo cliente
avesse preso parte alla cospirazione che aveva
portato all’omicidio di JFK e descrisse il suo
assistito come un uomo ricattabile, «senza pietà e
violento», disposto a tutto pur di ottenere il potere.
Secondo James Hepburn, l’autore di Farewell
America, infatti,
«Kennedy fu fatto fuori da un “Comitato” costituito da
esponenti dei grandi monopoli industriali, essenzialmente
miliardari petroliferi texani che controllavano polizie,
quadri militari, servizi segreti: niente di nuovo, se non fosse
che Hepburn nel 1968, alla vigilia dell’assassinio di Robert
Kennedy, fa nomi e cognomi. Indica in Haroldson Lafayette
Hunt ed Edwin Walker […] i massimi dirigenti del
Comitato che ha pensato e portato a termine l’operazione
dell’uccisione di JFK e rivela pure che Edgar Hoveer, capo
dell’FBI – e anche di una struttura parallela costituita da
killer professionisti e addetta ai lavori sporchi, ad esempio
fa sparire i testimoni scomodi dell’assassinio di Dallas,
secondo il racconto di un ex agente alle sue dipendenze,
Michael Milan – era al corrente del complotto, così come lo
stesso vicepresidente Lyndon Johnson»65.

LE CONFESSIONI DI JOHN HUNT


Ad accreditare ulteriormente la controinchiesta
della famiglia Kennedy intervenne Howard
Hunt66, ex agente operativo della CIA,
personaggio chiave dell’amministrazione Nixon,
dello scandalo Watergate e della Baia dei Porci;
egli, in punto di morte, raccontò al figlio Saint
John le modalità del complotto, rivelando i nomi
dei corresponsabili dell’omicidio del presidente67.
Tra questi vi erano: Lyndon Johnson, Edgar
Hoover (allora direttore dell’FBI), Cord Meyer
(agente della CIA, direttore del dipartimento di
disinformazione dell’operazione “Mockingbird”68
e marito della pittrice Mary Pinchot Meyer, una
delle amanti di Kennedy che venne uccisa un anno
dopo la morte di JFK e due anni dopo il “suicidio”
di Marylin Monroe69), David Atlee Philips e
William Harvey della CIA, Frank Sturgis, David
Morales (killer della CIA) e Lucien Sarti
(assassino corso e trafficante di droga),
probabilmente il “cecchino francese”, il secondo a
sparare dalla Grassy Knoll.
I video amatoriali e altre prove materiali, per
quanto censurate dalla Commissione Warren,
hanno dimostrato infatti la presenza sulla collinetta
di un altro cecchino – o più cecchini, oltre a
Oswald – che avrebbe sparato con un fucile in
direzione frontale rispetto a JFK, facendolo così
schizzare all’indietro al momento dell’impatto.
Oswald sarebbe stato “usato” in maniera
inconsapevole e poi trattato come il perfetto capro
espiatorio. Le indagini di Garrison lo condussero a
convincersi che Oswald non poteva aver colpito da
solo il presidente e che una «… parte
dell’intelligence si era preoccupata di guidarlo, e
che c’era stato qualcuno che lo aveva impersonato.
In altri termini, era stato proprio quello che disse
di sé quando fu arrestato: un burattino»70.
Nelle settimane precedenti l’omicidio, infatti,
qualcuno che si spacciava per Lee o Leon Oswald,
ma con alcune caratteristiche fisiche diverse (ad
esempio i capelli e l’altezza)71, aveva fatto di tutto
per farsi vedere in giro e lasciare tracce evidenti
del suo passaggio e della sua presunta follia, in
modo che gli inquirenti potessero arrestare subito
senza ombra di dubbio il vero Oswald.
Garrison concludeva le sue ricerche sulla
manipolazione dell’intelligence su Oswald
definendolo «come un pedone sulla scacchiera,
che andava dove gli dicevano di andare, finendo
sempre nel posto assegnatogli»72. Una modalità
simile a quanto sarebbe poi avvenuto con le «linee
biografiche parallele e incompatibili di “vari”
Mohamed Atta»73 per l’Undici settembre: nei casi
di false flag si ripete cioè la modalità in cui vi è
una persona che fa di tutto per lasciare le proprie
tracce e non passare inosservata (il che è assurdo e
controproducente), mentre i veri autori delle stragi
fanno esattamente il contrario, ossia si muovono
nell’ombra in modo da non lasciare indizi – a detta
di alcuni ricercatori, lo stesso sembra essere
successo anche nel caso recente dell’attentato sul
treno Amsterdam-Parigi –, si utilizzano cioè
persone inconsapevoli e in buona fede; persone,
come spiega Giulietto Chiesa,
«… ciascuna delle quali esegue gli ordini in perfetta buona
fede, senza minimamente sospettare di essere parte di una
catena di operazioni – una specie di catena di montaggio del
complotto – il cui scopo è del tutto diverso da quello che
essi possono dedurre analizzando con precisione l’anello in
cui si trovano»74.

Così i dirottatori dell’Undici settembre


disseminano una mole di indizi che permette di
arrivare facilmente a loro. Un altro elemento, che
ritroviamo anche negli attentati parigini di
«Charlie Hebdo», è il facile recupero di documenti
appartenenti ai terroristi. Dalla valigia di
Mohamed Atta, restata inspiegabilmente a terra e
non imbarcata, per esempio, emerge di tutto:
passaporto, testamento, manuali di volo del
Boeing 767, istruzioni per i dirottatori, divise di
volo rubate all’American Airlines75. Manca solo
un’insegna luminosa. Il bagaglio ovviamente viene
facilmente trovato dalla polizia con i contenuti
«utilissimi», come ironizza Cabras, «per esser dati
in pasto ufficialmente ai media con la subitanea
identificazione del gruppo di fuoco che ha
perpetrato l’attacco terroristico»76.
Similmente, a Parigi i terroristi della strage alla
redazione di «Charlie Hebdo» si dimenticheranno,
durante la loro fuga dai tempi stranamente
“rilassati”, i documenti di identità nel cruscotto,
quasi a volersi far identificare. Lo stesso avverrà
negli attentati del successivo 13 novembre. Queste
anomalie hanno senso solo se i presunti terroristi –
o chi per loro – stanno costruendo una falsa traccia
di prove che si vuole vengano scoperte dalla
polizia subito dopo gli attentati.
Ancora Garrison, a proposito di Oswald e delle
numerose anomalie nelle settimane precedenti
l’omicidio di Dallas evidenziate nella sua
biografia, evidenziava come questi fosse stato
«programmato come capro espiatorio
comunista»77, probabilmente a sua insaputa.
Garrison spiegava che «negli ambienti dei servizi
segreti c’è un termine per questo genere di
comportamento manipolato e pianificato per
creare un’immagine desiderata: sheepdipping,
“inzuppare la pecora”»78.
Oswald era stato “inzuppato” prima a New
Orleans e poi a Dallas.
IL CASO MORO
«La catena di morti seguiti all’attentato di John
Fitzgerald Kennedy, e quello al fratello Robert e
poi ad Aldo Moro, confermava come quel primo
assassinio emanasse una luce potente e duratura,
mettendo in mostra piani e legami tra le varie
storie»79.
Così il giudice Ferdinando Imposimato, che si
è occupato delle indagini sul caso Moro, ha
condiviso un parallelo tra i due statisti, vedendovi
forti somiglianze che avrebbero condotto sia John
Kennedy che Moro a «divenire bersagli degli
stessi nemici, tra America e Italia, ostili a
qualunque dialogo con le forze progressiste»80.
Secondo Imposimato, infatti,
«pur essendo, come cattolici, convinti anticomunisti,
entrambi non accettavano la demonizzazione del
comunismo, riconoscendo in esso una grande rivoluzione
sociale, che aveva coinvolto, con nuove speranze di riscatto
e di eguaglianza, miliardi di persone»81.

L’1 luglio 1963 JFK venne in visita in Italia


per benedire il progetto di Aldo Moro di un
governo di socialisti. La visita di Kennedy
scavalcava la precedente direttiva di Eisenhower
del 1953, contraria a eventuali accordi con i
socialisti. Fu allora che «i destini dei due statisti
della nuova frontiera si incrociarono e divennero
tragicamente inscindibili»82. Il presidente
americano era infatti un sostenitore del leader
democristiano Aldo Moro, che sarebbe morto
quindici anni dopo, il 9 maggio 1978, dopo 55
giorni di prigionia, in seguito al sequestro di Via
Fani.
Il supporto del presidente americano a Moro,
però, sconfessava le precedenti amministrazioni,
ponendosi così su un binario altamente pericoloso
per entrambi. In Italia, la CIA aveva creato
Gladio, che aveva come obiettivo «la formazione
di agenti pronti a compiere attentati di ogni genere
con il pretesto di arginare l’improbabile invasione
della penisola da parte dell’Armata Rossa»83.
Il tentativo di Moro di dialogare con i
comunisti sarebbe stato visto come un pericolo da
Washington, che si premunì di avvertire lo statista
con una minaccia diretta. Così, subito dopo la
morte di Kennedy, partì una campagna americana,
capeggiata da Henry Kissinger, volta a screditare
Moro84.
La vedova Moro, Eleonora, raccontò che il
marito, al suo ritorno da un viaggio negli USA, le
aveva rivelato di essere stato minacciato da un
importante esponente politico con questa frase:
«Onorevole Moro, lei deve smettere di perseguire
il suo disegno politico per portare tutte le forze del
suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei
smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara»85.
In seguito numerosi ricercatori sarebbero stati
concordi nell’identificare l’autore di questa
minaccia nello stesso Kissinger, che aveva già
messo in guardia i Paesi che rischiavano
un’apertura a “sinistra”: «Se il cedimento verso il
comunismo non è arrestato, le conseguenze
saranno disastrose per tutto l’Occidente»86. Anche
in Italia, come avrebbe rivelato in seguito Cossiga,
c’erano spinte per dichiarare fuorilegge il PCI87.
Il destino di Moro, però, sembrava segnato da
almeno quattro anni, dalla notte tra il 3 e 4 agosto
1974 in cui esplose un ordigno sulla vettura
numero 5 di un treno espresso carico di lavoratori
e turisti, provocando 12 morti e 105 feriti. Il treno
espresso numero 1486 delle Ferrovie dello Stato
era l’Italicus, e quel giorno Aldo Moro avrebbe
dovuto essere su quel convoglio diretto verso il
Brennero per andare in vacanza, ma all’ultimo
momento era sopraggiunto un impegno che gli
aveva impedito di salire sull’Italicus.
Una coincidenza, questa, che gli avrebbe
permesso di vivere altri quattro anni.
CAPITOLO 3

GLI ANNI DI PIOMBO


TRA SERVIZI DEVIATI,
GLADIO E DEPISTAGGI
«Spacciare deliberate menzogne e credervi con purità di
cuore, dimenticare ogni avvenimento che è divenuto
sconveniente, e quindi, allorché ridiventa necessario, trarlo
dall’oblio per tutto quel tempo che abbisogna, negare
l’esistenza della realtà obiettiva e nello stesso tempo trar
vantaggio dalla realtà che viene negata… Tutto ciò è
indispensabile, in modo assoluto».
GEORGE ORWELL, 1984
«A Piazza Fontana ha le mani sporche il servizio di
intelligence militare dell’esercito americano».
FRANCESCO COSSIGA
«Il SID infiltrava gruppi di estrema destra. E viceversa. Tutti
infiltravano tutti. Era un groviglio indescrivibile».
GEN. GIANADELIO MALETTI
«L’Italia è su un sentiero di spine».
DAVID CARRETT

ENRICO MATTEI E LE “SETTE SORELLE”

I l periodo degli omicidi di Stato, degli


insabbiamenti, dei depistaggi,
coinvolgimento dei servizi deviati e di quelli
del

stranieri, in Italia, parte dalla metà degli anni


Cinquanta e comprende i cosiddetti “anni di
piombo”, i tentati golpe (come quello Borghese) e
le stragi impunite. Sullo sfondo, Stay Behind1, la
strategia della tensione, la P2 di Licio Gelli, la
guerra psicologica e gli attentati sotto falsa
bandiera per destabilizzare il governo e soprattutto
impedire che i comunisti acquisissero un maggior
potere. Non mancano neppure gli omicidi “di
Stato”.
Uno dei primi casi che vedono il possibile
coinvolgimento americano è quello del presidente
dell’ENI, Enrico Mattei, che si distingue anche per
il criterio di corruzione «che utilizza come sistema
nei confronti del potere politico»2. Per offrire
all’Italia il massimo dell’autonomia energetica,
egli introdusse come prassi la corruzione nei
rapporti tra potentati economici e partiti, dato che,
come dichiarava candidamente, usava i partiti
come i taxi («Uso i partiti allo stesso modo di
come uso i taxi: salgo, pago la corsa e scendo»).
Egli venne così definito un «incorruttibile
corruttore», in quanto la corruzione era il mezzo
per raggiungere uno scopo non personale ma
pubblico3.
L’incidente aereo, in cui perse la vita insieme
al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano
William McHale la sera del 27 ottobre a Bascapé,
alle porte di Milano, suscitò fin da subito dei
dubbi, mai chiariti, sulle modalità. Soltanto nel
2005, nell’ambito dell’inchiesta della Procura di
Pavia, fu stabilita la natura dolosa dell’incidente;
vennero infatti ritrovati segni di esposizione a
un’esplosione su parti del relitto, sull’anello e
sull’orologio di Mattei. Si era trattato di un
sabotaggio.
Emersero poi delle testimonianze – all’epoca
volutamente ignorate, come sarebbe avvenuto
anche per gli atti terroristici successivi degli anni
di piombo – di persone che avevano visto
esplodere in volo l’aereo come se vi fosse stata
una bomba a bordo, mentre schegge metalliche e
tracce di esplosivo furono rinvenute, dopo la
riesumazione del 1995, non solo sul corpo di
Mattei e delle altre due vittime, ma anche in un
pezzo dell’aereo conservato intatto da un
dipendente ENI. L’insabbiamento del crimine
venne addossato ai servizi.
Per quale motivo Mattei era considerato un
uomo scomodo?
Nell’immediato dopoguerra Mattei era stato
incaricato dallo Stato di smantellare l’Agip, creata
nel 1926 dal regime fascista, ma invece di seguire
le istruzioni del governo, egli riorganizzò
l’azienda, fondando nel 1953 l’ENI, di cui l’Agip
divenne la struttura portante. Mattei diede un
nuovo impulso alle perforazioni petrolifere nella
Pianura Padana, avviò la costruzione di una rete di
gasdotti per lo sfruttamento del metano e aprì la
via all’energia nucleare.
Sotto la sua presidenza, l’ENI negoziò
rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente
e un importante accordo commerciale con
l’Unione Sovietica. Queste iniziative
contribuirono a rompere l’oligopolio delle
cosiddette “Sette sorelle”, ossia le grandi imprese
petrolifere che detengono il monopolio petrolifero
mondiale. Si tratta delle seguenti compagnie
petrolifere: Standard Oil of New Jersey
(statunitense, oggi Exxon-Mobil), Royal Dutch
Shell (anglo-olandese, rimasta Shell), Anglo
Persian Oil (britannica, oggi BP), Standard Oil of
New York (statunitense, oggi Chevron-Texaco),
Socony (statunitense, oggi Chevron-Texaco),
Standard Oil of California (statunitense, oggi
Chevron-Texaco), Gulf Oil (statunitense, oggi
Chevron-Texaco).
L’obiettivo dell’imprenditore era quello di
stabilire nuovi rapporti tra i Paesi industrializzati e
i fornitori di materie prime. Iniziò così a trattare
con la Libia per sfruttare il petrolio del Sahara,
finanziò i movimenti di liberazione in Algeria,
firmò contratti con la Tunisia e il Marocco e
intavolò degli accordi con l’Iran, con l’Egitto e
infine con la Russia.
Mattei, infatti, aveva chiaro il suo obiettivo:
decretare la fine del monopolio petrolifero
americano, come sosteneva egli stesso nei suoi
appunti inediti per una conferenza che avrebbe
dovuto tenere nel 1960 a Tunisi:
«Io credo alla decolonizzazione, non solo per ragioni morali
di dignità umana, ma per ragioni economiche di
produttività. Senza la decolonizzazione non è possibile
suscitare nei popoli afroasiatici le energie, l’entusiasmo
necessario alla messa in valore dell’Africa e dell’Asia. […]
Il fatto coloniale non è solo politico: è anche, e soprattutto,
economico. Esiste una condizione coloniale quando manca
un minimo di infrastruttura industriale per la trasformazione
delle materie prime. […] Io lotto contro il cartello non solo
perché è oligopolistico, ma perché è maltusiano e
maltusiano ai danni dei Paesi produttori come ai danni dei
Paesi consumatori»4.

Era l’inizio di un nuovo sistema. Una strategia,


però, inaccettabile per le grandi compagnie
petrolifere che si spartiscono ancora oggi le
ricchezze del mondo.
Mattei introdusse inoltre il principio per il
quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano
ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo
sfruttamento dei giacimenti. I suoi rapporti con i
Paesi del Terzo Mondo produttori di petrolio
avevano urtato il cartello petrolifero delle “Sette
sorelle” e gli interessi delle lobby ebraiche. Il
cartello reagì furiosamente, giungendo a
rovesciare i governi, come quello libico, che
avevano accettato l’offerta e aperto all’ENI
prospettive di grandi forniture. Nel 1962, quando
si andava prospettando la soluzione della
questione algerina, Mattei era riuscito ad aggirare
il blocco.
Il 27 luglio 1993 il “pentito” di mafia Gaetano
Iannì aveva dichiarato che la morte di Mattei era
stata organizzata grazie a un accordo tra
“americani” e “Cosa nostra” siciliana5. A mettere
una bomba sull’aereo di Mattei sarebbero stati
alcuni uomini della famiglia mafiosa capeggiata da
Giuseppe Di Cristina6. Anche Tommaso Buscetta
rivelò che la mafia americana chiese a “Cosa
nostra” il favore di eliminare Enrico Mattei
«nell’interesse sostanziale delle maggiori
compagnie petrolifere americane». La riapertura
delle indagini, frettolosamente archiviate
dall’Aeronautica e dalla Procura, venne chiesta,
come spiega Riannetti,
«… anche da una campagna stampa del settimanale “Le ore
della settimana” e da una serie di interrogazioni
parlamentari. L’interesse attorno alla misteriosa fine del “re
del petrolio italiano” riceve nuovo impulso dalle indagini
sulla scomparsa del giornalista de “L’Ora” di Palermo
Mauro De Mauro il 16 settembre 1970. Una delle piste
seguite dall’inchiesta sulla fine di De Mauro ipotizza infatti
che il giornalista palermitano sia stato sequestrato e ucciso
per aver scoperto qualcosa di molto importante circa la
morte del presidente dell’ENI: De Mauro aveva infatti
ricevuto dal regista Rosi l’incarico di collaborare alla
preparazione della sceneggiatura del film Il caso Mattei,
ricostruendo gli ultimi due giorni di vita trascorsi dal
presidente dell’ENI in Sicilia»7.

PIAZZA FONTANA
Era considerata la fantasia più folle dei dietrologi.
C’era chi ci rideva sopra, negli anni Settanta,
denigrando con ferocia i cosiddetti “complottisti”,
ossia coloro che avanzavano l’ipotesi di un
coinvolgimento dei servizi deviati nelle stragi di
quel periodo. Sembrava soprattutto impossibile,
allora come oggi, che il servizio segreto di un
Paese alleato potesse avere un ruolo attivo dietro
le quinte nelle stragi. Solo a distanza di anni si
sarebbe in parte svelata la funzione della CIA e dei
servizi deviati nelle stragi che sconvolsero l’Italia.
La stessa Gladio, in Italia, fu organizzata in
ambito NATO e venne parzialmente finanziata
dalla CIA durante la guerra fredda allo scopo di
contrastare l’influenza politica e militare dei Paesi
comunisti con forme di guerra psicologica e l’uso
di false flag.
La strategia della tensione e l’ingerenza
americana nella politica italiana per arginare il
pericolo del comunismo avrebbero poi avuto una
data simbolo nel 12 dicembre 1969, giorno della
strage della Banca dell’Agricoltura nota come “la
strage di piazza Fontana”. Sette minuti dopo anche
a Roma scoppiò una bomba – che provocò il
ferimento di quattordici persone – nella sede della
Banca Nazionale del Lavoro, a cui seguirono altre
due esplosioni a piazza Venezia.
Tali attentati sarebbero stati da subito
volutamente affiancati alla pista anarchica, con il
fermo dell’anarchico Giuseppe Pinelli, dipendente
delle Ferrovie dello Stato, morto poi in circostanze
mai ben chiarite con un volo dalla finestra della
Questura di Milano il 15 dicembre, dopo tre giorni
di incessanti interrogatori, e del ballerino Pietro
Valpreda. Si voleva cioè addossare la colpa della
strage agli anarchici, in modo da creare un clima
di terrore e tensione.
Come avrebbe ammesso l’ex terrorista
Vincenzo Vinciguerra, membro di Avanguardia
Nazionale e di Ordine Nuovo, tutte le stragi
impunite che avrebbero insanguinato l’Italia a
partire dal 1969
«… appartengono a una sola matrice organizzativa. Le
direttive partono da apparati inseriti nelle istituzioni e in
particolare da una struttura parallela e segreta del ministero
dell’Interno più che dai Carabinieri»8.

La strage di piazza Fontana, per Vinciguerra,


sarebbe stata pianificata per spingere l’allora
presidente del Consiglio Mariano Rumor a
dichiarare lo stato di emergenza9. Il piano però
fallì. Rumor, contrariamente a quanto i gruppi
eversivi si attendevano, dopo la strage di piazza
Fontana non proclamò lo stato di emergenza, atto
essenziale per l’instaurazione di un regime
autoritario. Coloro che tramavano nell’ombra
decisero di fargliela pagare. L’occasione fu offerta
il 17 maggio del 1973 da una sua visita alla
Questura di Milano. Gianfranco Bertoli (anarchico
ma legato ai servizi) lanciò una bomba tra la folla.
Rumor scampò all’attentato, ma morirono quattro
persone10.
Venne poi messo sotto processo David Carrett,
ufficiale dell’U.S. Navy, uomo della CIA in Italia,
per spionaggio politico-militare e concorso nella
strage di piazza Fontana e in altri attentati avvenuti
in quegli anni11. Carrett sarebbe stato a
conoscenza della strage in programma, secondo
quanto rivelato dal suo informatore Carlo Digilio,
infiltrato come neofascista di Ordine Nuovo, poi
giudicato colpevole e condannato per la strage di
piazza della Loggia a Brescia12. Dopo lo
scioglimento di Ordine Nuovo e l’esilio a Santo
Domingo (prima di essere espulso e consegnato
all’Italia nel 1992), Digilio raccontò di aver
continuato a collaborare con i servizi segreti
americani reclutando esuli cubani da impiegare
contro Castro13.
Quando Digilio avvertì in anticipo Carrett
dell’attentato, questi rispose che «sapeva
benissimo che la destra stava preparando qualcosa
di grosso nella direzione di una presa di potere da
parte delle forze militari»14. Fu in quest’occasione
che Carrett sentenziò: «L’Italia è su un sentiero di
spine»15. Come ricorda Gianni Flamini, Carrett
tranquillizzò persino Digilio per le indagini che si
stavano indirizzando verso Ordine Nuovo,
dicendo: «Non ti preoccupare, ricordati che noi
americani qui in Italia teniamo la situazione in
pugno, noi sappiamo come direzionare questa tua
piccola Italia»16.
I presunti colpevoli – Pinelli e Valpreda –
divennero da subito vittime di un’offensiva
giudiziaria, che si sarebbe avvalsa del braccio
destro dei media per incastrarli agli occhi
dell’opinione pubblica. La stampa, infatti, avrebbe
indicato nella pista rossa, anarchica, la strada
giusta. Si sbagliavano.
Si era cioè deciso fin da subito, spiega
Imposimato,
«… sulla base delle indicazioni dell’Ufficio Affari Riservati
del Viminale, che Pinelli fosse il perno di una mostruosa
macchinazione terroristica. La diabolica regia degli strateghi
occulti delle stragi condizionò le indagini in due direzioni:
incastrare gli anarchici e distruggere ogni indizio esistente
contro i neofascisti, i mandanti politici e gli uomini delle
istituzioni»17.

Da qui i depistaggi e gli insabbiamenti


avvenuti fin da subito durante le indagini e che si
sarebbero ripetuti a margine della strage di
Bologna, di piazza della Loggia, dell’Italicus, del
rapimento Moro. Questi fatti di sangue, secondo
Imposimato,
«… non erano episodi isolati e occasionali, ma ideati e
realizzati per destabilizzare il sistema politico esistente,
precludendo qualunque nuova esperienza di governo verso
equilibri più avanzati. Tutto questo attraverso un
perturbamento costante dell’ordine pubblico che spingeva i
cittadini a rifiutare i governi di centrosinistra e a reclamare
governi forti e misure emergenziali»18.

Le indagini si rivolsero presto contro Yves


Guérin Sérac, neonazista francese a capo
dell’agenzia di stampa Aginter Press, «in realtà
centro di reclutamento e addestramento per la
guerra non convenzionale Stay Behind». Il suo
nome sarebbe ricomparso in altre occasioni. I
depistaggi, però, avrebbero riportato le indagini
sulla pista anarchica, nonostante le evidenze in
senso contrario.
Il pubblico ministero Ugo Paolillo fu tra i
pochi a intuire che la strage di piazza Fontana non
era avvenuta all’improvviso e che non era di
matrice anarchica. Paolillo seguì la pista nera
nonostante il boicottaggio dei colleghi e della
stampa.
Nell’agosto del 2010 l’ex presidente della
Repubblica Francesco Cossiga avrebbe dichiarato,
durante la sua ultima intervista concessa a Renato
Farina, che «a Piazza Fontana ha le mani sporche
il servizio di intelligence militare dell’esercito
americano»19. I servizi americani, secondo
Cossiga, «temevano l’invasione sovietica»20 e
«desideravano il controllo della destra nelle zone
che avrebbero, in caso di guerra, costituito il
retroterra del fronte». Gli americani «volevano una
sequenza di attentati che facessero pensare a un
attacco concentrico di forze eversive. Coinvolsero
per questo gli anarchici»21.
PIAZZA DELLA LOGGIA
Stessa dinamica sarebbe avvenuta per la strage di
piazza della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia,
in cui le indagini «furono caratterizzate da errori
così clamorosi che lasciavano francamente pensare
all’ennesimo disegno di vanificare le prove
oggettive che potevano e dovevano essere raccolte
nell’immediatezza dei fatti»22. Il vicequestore
Aniello Diamare, per esempio, diede ordine di
lavare con le autopompe la piazza prima
dell’arrivo del magistrato, cancellando così gli
indizi sulla scena del crimine23.
Nonostante il fatto che l’attentato fosse
avvenuto durante una manifestazione del Comitato
antifascista per protestare contro le violenze di
matrice nera, anche in questo caso le indagini si
spostarono, portando all’ennesimo depistaggio.
Soltanto dopo quarantun’anni di indagini e
processi la sentenza della Corte di assise di appello
di Milano del 2015 ha sentenziato che la strage fu
di matrice ordinovista24.
Dopo molti anni di indagini e processi vennero
condannati o riconosciuti colpevoli alcuni membri
di Ordine Nuovo; come esecutori materiali
vennero riconosciuti responsabili Ermanno Buzzi
(nel frattempo assassinato in carcere) e Maurizio
Tramonte (ex Fonte Tritone dei servizi segreti,
condannato in appello), assieme ai già deceduti
Carlo Digilio e Marcello Soffiati. Come mandante
è stato condannato all’ergastolo, in appello, il
dirigente Carlo Maria Maggi.
GLADIO
La verità andava cercata nella pista che conduceva
ai servizi segreti italiani e americani e a Ordine
Nuovo, movimento eversivo di estrema destra
fondato da Pino Rauti nel 1956. Il movimento si
ispirava a teorie antidemocratiche. Rauti predicava
infatti «la rivoluzione che tutto doveva distruggere
per ricostruire»25 e formava di nascosto i Nuclei di
difesa dello Stato che rivolgevano la loro
propaganda alle Forze armate della polizia. Molti
dirigenti di ON, infatti,
«… erano in diretto contatto con ufficiali dei servizi segreti
e funzionari di polizia. La collaborazione, la contiguità e in
molti casi l’appartenenza diretta di neofascisti di Ordine
Nuovo agli apparati dello Stato garantivano ai vertici
politici e militari che attacchi da destra alle forze di polizia
non ne sarebbero mai venuti»26.

Secondo i suoi fondatori, il movimento era


stato creato
«… per difendere lo Stato, ormai ostaggio delle masse
organizzate capaci in ogni momento di paralizzarne la vita,
continuando a rafforzare lo storico contatto con alcuni
settori dell’Arma dei carabinieri, delle Forze armate, del
Viminale e dei servizi di informazione»27.

Dal lavoro del giudice istruttore Guido Salvini


è inoltre emerso che le organizzazioni eversive di
quegli anni – La Fenice, Avanguardia Nazionale,
Ordine Nuovo – «non erano che le truppe di
trincea di un esercito occulto, teleguidato da
esponenti degli apparati dello Stato e legato alla
CIA. In questo scenario, la strage di piazza
Fontana diventa qualcosa di più di un attentato
terroristico»28. La CIA non solo era a conoscenza
di quando e come sarebbero avvenute le stragi, ma
“agiva” anche in vista di un golpe.
Le rivelazioni di Vinciguerra al giudice Felice
Casson, a partire dal 1984, avevano inoltre iniziato
a portare alla luce delle notizie riguardanti
l’organizzazione paramilitare clandestina Gladio,
di cui si sospettava l’esistenza e che utilizzava
anche le tecniche di false flag.
La struttura, alle dipendenze dell’Ufficio R del
SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate), era
stata creata nel 1952 in seguito a un patto segreto
stipulato tra la CIA e il capo del SIFAR, e, come
spiega Solange Manfredi,
«… era articolata in quaranta nuclei, dei quali sei
informativi, dieci di sabotaggio, sei di propaganda, sei di
evasione e fuga, dodici di guerriglia. Inoltre, erano state
costituite cinque unità di guerriglia di pronto impiego in
regioni di particolare interesse»29.

Vinciguerra contribuì così a rivelare l’esistenza


di Gladio:
«… una struttura parallela alle Forze armate, composta da
civili e militari, con una funzione anti-comunista che era
quella di organizzare una resistenza sul suolo italiano contro
l’esercito russo… un’organizzazione segreta, una sovra-
organizzazione con una rete di comunicazioni, armi ed
esplosivi, e uomini addestrati all’utilizzo delle stesse… una
sovra-organizzazione la quale, mancando un’invasione
militare sovietica, assunse il compito, per conto della
NATO, di prevenire una deriva a sinistra della nazione.
Questo hanno fatto, con l’assistenza di ufficiali dei servizi
segreti e di forze politiche e militari».

Essendo nata da un accordo segreto in assoluta


illegittimità costituzionale, solo poche persone
erano a conoscenza dell’esistenza della struttura: si
trattava di «alcuni politici, alcuni ufficiali dei
servizi segreti e la massoneria deviata (in logge
massoniche collegate con la P2 troviamo anche
uomini del calibro di Stefano Bontade, Michele
Greco e Pino Mandatari, commercialista di Riina).
Solo loro erano a conoscenza della struttura e solo
loro, probabilmente, potevano attivarla»30.
L’esistenza di Gladio sarebbe poi stata
riconosciuta ufficialmente dal presidente del
Consiglio Giulio Andreotti quando questi venne
chiamato a riferire alla Camera dei Deputati il 24
ottobre 1990; Andreotti ammise l’esistenza di una
«struttura di informazione, risposta e
salvaguardia», formata da 622 unità
(ufficialmente, tutti i partecipanti, dalla fondazione
allo scioglimento dell’organizzazione), che
«aveva lo scopo di difendere l’Italia da una possibile
invasione sovietica. Non essendoci mai stata
un’occupazione sovietica, la struttura non fu mai attivata e,
soprattutto, non avrebbe mai interferito con la vita
democratica del Paese»31.

Da più parti, tuttavia, questa lista dei 622


gladiatori è stata considerata incompleta, sia per il
ridotto numero di uomini, ritenuto troppo basso
rispetto ai compiti dell’organizzazione estesi in
quasi quarant’anni, sia per l’assenza nella lista dei
nomi di alcuni personaggi che da indagini
successive sono risultati aver fatto parte
dell’organizzazione. Francesco Cossiga dichiarò
che nell’organizzazione vi erano dai 1000 ai 1200
elementi, quasi il doppio rispetto alla stima di
Andreotti.
Dal materiale raccolto nel corso delle indagini
da Casson e dai sostituti procuratori militari di
Padova Sergio Dini e Benedetto Roberti emerse
inoltre che la versione offerta da Andreotti era
stata edulcorata: fin dalla sua nascita Gladio era
stata coinvolta attivamente nella vita politica del
Paese. Si evinse quindi, come riassume Solange
Manfredi,
«1. Come i gladiatori venissero addestrati a tutta una serie di
attività terroristiche:
- con finalità intimidatorie (lancio di bombe contro
sedi di partito);
- di provocazione, ovvero pestaggi e azioni che
facessero degenerare delle manifestazioni pacifiche
in scontri con la polizia (ricordate il G8?);
- atti di terrorismo da addossare ad altri.
2. Come la struttura fosse organizzata su più livelli, al fine
di poter renderne opportunamente divulgabili alcuni settori
in caso di necessità (ovvero di scoperta). Mentre, in
posizione occulta e da tenere nascosta ad ogni costo, vi era
una struttura più profonda, formata da soggetti i cui nomi
dovevano rimanere ignoti (e che tutt’ora in effetti lo sono).
La struttura più profonda avrebbe avuto funzioni di
turbativa della vita politica nazionale»32.

STRATEGIA DELLA TENSIONE


Anche il generale Gianadelio Maletti, ex capo del
Reparto D del SID del controspionaggio italiano,
ascoltato il 21 marzo 2001 dal tribunale di Milano
in merito al processo sulla strage di piazza Fontana
(per cui nel 1987 era stato condannato per
depistaggio) dichiarò che esisteva una «regia
internazionale» delle stragi relative alla strategia
della tensione, che la CIA finanziava il SID («La
Cia sosteneva economicamente il SID ma non
forniva alcuna informazione. So per certo che la
base di capo Marrargiu, quella usata da Gladio, fu
realizzata grazie ai fondi Usa»33) e che l’Agenzia
americana avrebbe fatto di tutto per impedire uno
spostamento a sinistra del governo italiano. Il
generale sostenne che l’esplosivo utilizzato a
piazza Fontana «proveniva da una base NATO in
Germania»34 e che a «dare l’impulso erano stati
gli americani, fornendo tritolo avvolto nel
plastico»35; ancora: «Il Sid infiltrava gruppi di
estrema destra. E viceversa. Tutti infiltravano tutti.
Era un groviglio indescrivibile»36.
Le stragi di quel periodo, secondo il generale,
andavano quindi inquadrate nella strategia della
tensione.
Secondo Thierry Meyssan e Fabrice
Boudinet37, la strategia della tensione di quegli
anni sarebbe simile a quella contemporanea,
utilizzata sempre dagli Stati Uniti per imporre un
fantomatico scontro di civiltà e legittimare la
guerra in Medio Oriente. Si tratterebbe
semplicemente di una forma di continuazione
nell’utilizzo deliberato della medesima tattica di
guerra piscologica. Per i due autori, gli attentati
del 7 luglio 2005 a Londra – tre treni della
metropolitana colpiti e in poco meno di un’ora
scoppiò un autobus provocando 50 morti e circa
700 feriti – avrebbero molto in comune con la
strategia sopra descritta. I fatti di Londra sarebbero
l’ennesimo tassello nella strategia della tensione
portata avanti dal complesso militare-industriale
anglosassone. È utile, in questo caso, ricordare che
gli attentati di Londra sono avvenuti in
concomitanza con alcune esercitazioni
antiterroristiche – generando evidente confusione
e trambusto – similmente a quanto avvenuto
l’Undici settembre e per gli attentati del 22 luglio
2011 a Oslo e Utøya, che causarono in totale 77
vittime38.
In un rapporto affidato al giudice Guido
Salvini, nell’ultima istruttoria su piazza Fontana,
l’ex ordinovista Vinciguerra ha dichiarato che la
strategia della tensione era nata agli inizi degli
anni Sessanta durante una riunione a Berna che
aveva siglato un accordo di «tutti i servizi segreti
occidentali»39, a partire dagli Stati Uniti fino alla
Francia. Essa divenne attiva subito in Italia, per il
rischio concreto di una vittoria elettorale
comunista, e pian piano anche in altri Paesi.
P2
All’inizio degli anni Settanta iniziarono a
emergere alcuni indizi in merito a un possibile
coinvolgimento della loggia P2 in alcuni attentati.
Si sussurrava, infatti, «tra magistrati e giornalisti
che la sigla “signor P” quale mandante della strage
di piazza Fontana» non si riferisse «a un singolo
[…] bensì a un’organizzazione contrassegnata
appunto dalla lettera P, quella del Maestro
Venerabile»40 Licio Gelli.
Già nella prima sentenza del giudice istruttore
di Bologna Angelo Vella, venne individuato un
ruolo di primo piano della P2 nella strage
dell’Italicus dell’agosto 1974, attraverso il
memoriale dell’ingegnere Francesco Siniscalchi di
Roma. Nel documento,
«… si riferiva di collegamenti tra esponenti di rilievo della
massoneria italiana e la CIA e di rapporti tra esponenti
massonici di livello elevato, come Licio Gelli, e personalità
del mondo politico e militare (Vito Miceli e Gianadelio
Maletti), finanziario (Sindona) italiano e straniero»41.

Nella denuncia Siniscalchi riportava il timore


del gran maestro Lino Salvini riguardo a un
presunto colpo di Stato preparato da Gelli42.
Nel 2003, in una celebre intervista rilasciata a
Concita De Gregorio per «la Repubblica», Gelli
ammetteva serenamente che, osservando la
situazione politica italiana, gli sembrava che tutti i
cinquantatré punti del suo programma si stessero
concretizzando: «Guardo il Paese, leggo i giornali
e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco,
pezzo per pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti
d’autore. La giustizia, la TV, l’ordine pubblico. Ho
scritto tutto trent’anni fa in cinquantatré punti»43.
Il Venerabile dichiarava anche, in modo
sibillino, che nonostante l’esistenza di molti
burattini in politica, a quel tempo giudicati
mediocri e ricattabili, a muovere i fili da dietro le
quinte rimaneva sempre e solo una persona – «Il
burattinaio è sempre uno, non ce ne possono
essere diversi»44 – facendo così sorgere dei dubbi
su chi realmente si celasse dietro le quinte e
muovesse i fili, allora come oggi. Ma qual era il
programma di Gelli?
La P2 (Propaganda due), nata ufficialmente nel
1971 e definita poi da Sandro Pertini una
«associazione a delinquere», ha rivitalizzato la P1
(Propaganda massonica), una loggia coperta
fondata nel 1895 e aderente al Grande Oriente
d’Italia, assumendo però forme deviate rispetto
agli statuti della massoneria ed eversive nei
confronti dell’ordinamento giuridico italiano
durante la conduzione di Gelli. Egli riuscì a riunire
in segreto almeno un migliaio di personalità di
primo piano, principalmente della politica e
dell’amministrazione dello Stato, a fini di
sovversione dell’assetto socio-politico-
istituzionale italiano, suscitando uno dei più grossi
scandali politici nella storia della Repubblica
italiana. La P2 è stata, come spiega lo storico
Giorgio Galli,
«… il prodotto logico e la stanza di compensazione
dell’economia della corruzione, basata sulla distribuzione
delle tangenti e delle cariche gestite a fini di arricchimento
personale o di gruppo. Non il colpo di Stato, ma
l’organizzazione di un potere occulto che consenta di gestire
interi settori della vita e dell’economia italiana è il vero fine
sociale della Loggia»45.

Quando, nel marzo del 1981, i giudici istruttori


Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito
di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere
Michele Sindona, fecero perquisire la villa di Gelli
a Castiglion Fibocchi e la fabbrica di sua
proprietà, gli inquirenti trovarono una lunga lista
di nomi di alti ufficiali delle forze armate e di
funzionari pubblici aderenti alla P2. L’elenco
indicava 962 iscritti e includeva anche, oltre
l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani,
parlamentari, industriali, giornalisti e personaggi
facoltosi come Berlusconi, Vittorio Emanuele di
Savoia, Fabrizio Cicchitto, Angelo Rizzoli,
Roberto Calvi, Pietro Longo, il “dissidente” Mino
Pecorelli (poi assassinato a Roma in circostanze
mai chiarite, forse legate al rapimento Moro) e
Maurizio Costanzo (che secondo Gelli si sarebbe
“pentito” dell’affiliazione46). Vi sono molti
elementi, a partire dal numero, che lasciano
tuttavia ritenere che la lista rinvenuta fosse
incompleta, mentre molti degli iscritti negarono la
loro affiliazione lasciando aperto il dibattito sulla
sua veridicità47.
Il “Piano di rinascita democratica”, sequestrato
qualche mese dopo all’aeroporto di Fiumicino nel
doppiofondo della valigetta della figlia di Gelli,
Maria Grazia, conteneva le tappe necessarie per la
penetrazione di esponenti della loggia nei settori
chiave dello Stato, indicazioni per l’avvio di opere
di proselitismo e un preventivo dei costi per
l’acquisizione delle funzioni vitali del potere48.
Tale “Piano di rinascita democratica”
prevedeva un’azione di pressione politica sulle
cariche istituzionali volta a orientare le loro scelte
per realizzare una Repubblica presidenziale. In
estrema sintesi, intendeva semplificare il
panorama politico portando alla costituzione di
due soli partiti, uno di destra e uno di sinistra,
nonché ottenere il controllo dei quotidiani e la
liberalizzazione delle emittenti televisive (piano
che sarebbe stato realizzato vent’anni dopo da
Berlusconi), l’abolizione del monopolio RAI e la
sua privatizzazione, la distinzione di ruoli tra
Camera e Senato, l’abolizione del numero dei
parlamentari, l’abolizione delle province, la
riforma della Magistratura. Le persone “da
reclutare” nei partiti, dal canto loro, avrebbero
dovuto ottenere il “predominio” sulle proprie
organizzazioni, mentre i giornalisti “reclutati”
avrebbero dovuto “simpatizzare” per gli uomini
segnalati dalla “loggia”. I fini primari del
programma indicavano espressamente l’intento di
dare vita a una svolta autoritaria.
Tornando a Berlusconi, il leader di Forza Italia
ha sempre smentito di avere fatto parte della P2 –
«Io non ho mai fatto parte della P2. E comunque,
stando alle sentenze dei tribunali della Repubblica,
essere piduista non è un titolo di demerito»49 –
nonostante gli indizi a suo carico per l’affiliazione
(ad esempio la celebre ricevuta di pagamento) e le
dichiarazioni di Gelli che ne ha sempre ricordato
l’iniziazione. Di fatto, molti hanno osservato che il
“Piano di rinascita” sembra aver ispirato il
programma politico dell’ex Cavaliere50 e
addirittura, secondo l’ex ministro della prima
Repubblica Rino Formica51, quello di Matteo
Renzi52.
CAPITOLO 4

COLPI DI STATO
ETERODIRETTI. LA CIA
IN AMERICA LATINA
«Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che
calpesta un volto umano – per sempre».
GEORGE ORWELL, 1984
«È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al
popolo, apparterrà ai lavoratori. L’umanità avanza verso la
conquista di una vita migliore».
SALVADOR ALLENDE, UNDICI SETTEMBRE 1973
«L’America latina era l’area più pericolosa del mondo».
ROBERT KENNEDY
«Quello che mi interessa è ciò che si può fare con il potere».
HENRY KISSINGER

LE CONFESSIONI DI JOHN PERKINS

O micidi “di Stato” come quello dei fratelli


Kennedy o di Moro sono comuni a partire
dalla guerra fredda fino a oggi. L’ex presidente
della Repubblica Francesco Cossiga ammise, in
un’intervista ad Andrea Cangini, che «violenze,
assassinii e colpi di Stato fanno parte a pieno titolo
del gioco politico»1.
A spiegare le modalità con cui una nazione
alterna il terrorismo sintetico con l’intervento dei
militari, fino ad arrivare all’uccisione pianificata
degli uomini “scomodi”, è stato l’ex banchiere
John Perkins che, nella famosa autobiografia
Confessioni di un sicario dell’economia e nei suoi
successivi saggi, ha inquadrato una lunga scia di
sangue, violenza e guerre all’interno del
meccanismo di perpetuazione del processo di
espansione dell’impero globale e di asservimento
delle masse attraverso la figura del “sicario
dell’economia”.
I “sicari dell’economia”, citati nel titolo
dell’opera, sono un’élite di economisti ben
retribuiti che hanno il compito di trasformare la
modernizzazione dei Paesi in via di sviluppo in un
progressivo e continuo processo di indebitamento
e asservimento agli interessi delle multinazionali,
delle lobby e dei governi più potenti al mondo,
quello USA su tutti; sono i principali artefici
dell’impero di cui sono chiamati a disegnare la
vera struttura politica e sociale. Questi
professionisti lavorano ovviamente dietro le
quinte, falsando bilanci e proiezioni per portare i
Paesi in via di sviluppo all’indebitamento cronico
e dunque all’asservimento.
John Perkins era uno di loro. Reclutato
giovanissimo dall’NSA, decise di entrare a far
parte della MAIN come consulente, o meglio
come “sicario dell’economia”, e arrivò ai vertici
dell’azienda.
Prima di affrontare una graduale presa di
coscienza che lo avrebbe poi portato alle
dimissioni e a un cambiamento repentino della sua
vita, Perkins ha lavorato per dieci anni all’interno
di questo sistema. Da insider ha rivelato, in
numerosi scritti autobiografici documentati e
attendibili, i meccanismi della globalizzazione.
Egli ha infatti toccato con mano il lato più oscuro
della globalizzazione in Indonesia, in Iraq, in
Arabia Saudita e a Panama, rendendosi
protagonista delle macchinazioni e delle
conseguenze che hanno avuto luogo in questi
Paesi.
In seguito all’uccisione, nel 1981, di Omar
Torrjios, presidente di Panama, e di Jaime Roldós,
presidente dell’Ecuador, e alla successiva
invasione statunitense di Panama nel 1989 e
all’arresto di Manuel Noriega, Perkins si è
allontanato progressivamente da quel mondo e ha
iniziato a denunciare la corruzione e le dinamiche
di asservimento della corporatocrazia, che decide
il destino dell’umanità per la realizzazione di un
impero globale. Perkins stimava Roldós e Torrjios,
le cui morti in terribili incidenti furono, a suo dire,
tutt’altro che casuali:
«Vennero assassinati perché si opponevano a quella
congrega di signori delle multinazionali, dei governi e delle
banche che si prefiggono l’impero globale. Noi sicari
dell’economia non eravamo riusciti a persuadere Roldós e
Torrjios, perciò erano intervenuti sicari di un altro tipo, gli
sciacalli della CIA che avevamo sempre alle spalle»2.

UN SICARIO DELL’ECONOMIA
Come spiega Perkins, lo scopo di un “sicario
dell’economia” (SDE) è quello di giustificare,
cifre alla mano, grossi finanziamenti a Paesi
stranieri volti alla realizzazione di progetti di
ingegneria e di lavori pubblici, i cui appalti
vengono pilotati e fatti vincere a multinazionali
legate al governo statunitense.
Lo scopo ultimo del sicario, però, non è quello
di arricchire le grosse imprese americane e i
politici collusi con esse (come la famiglia Bush,
Cheney, Rumsfeld, Rice ecc.), ma quello di
mandare sull’orlo della bancarotta queste nazioni
proprio attraverso l’eccessivo indebitamento; in tal
modo si avvia un meccanismo di indebitamento e
di dipendenza economica tra questi Paesi e gli
Stati Uniti e l’FMI, che nel tempo assume i
contorni del ricatto mafioso: ogni qualvolta
Washington ha bisogno di “favori”, come
l’apertura di basi militari sul loro territorio o il
voto all’ONU, i Paesi indebitati non possono che
accondiscendere alla volontà del creditore. I leader
che soccombono a questo meccanismo «restano
intrappolati in una trama di debiti che ne
garantisce la fedeltà».
I livelli insostenibili di indebitamento, non
potendo essere saldati, conducono a forme di
ricatto da parte dei Paesi creditori, che possono
assumere, come abbiamo visto, diverse forme.
Quando però i sicari falliscono l’obiettivo,
quando cioè non riescono a piegare un Paese alla
loro cupidigia – in questo senso Perkins porta
come esempi Panama, Ecuador e Iraq –,
subentrano gli sciacalli della CIA, che hanno il
compito di sopprimere fisicamente l’obiettivo
considerato “scomodo” dai gruppi di potere.
L’eliminazione fisica viene fatta passare, per lo
più, come “incidente” o suicidio. L’elenco degli
statisti, dei politici o dei pensatori eliminati dagli
sciacalli della CIA, secondo Perkins e altri
ricercatori, è lungo e vi figurano nomi come
Salvador Allende, Omar Torrijos, Jaime Roldós,
Olof Palme (di cui abbiamo ampiamente parlato in
Governo globale), Lech Kaczynski, Jörg Haider,
Enrico Mattei, Roberto Calvi ecc.
Altrettanto lunga è la lista dei golpe pianificati
o diretti dietro le quinte da Washington.
SALVADOR ALLENDE VA ELIMINATO
«L’America latina è l’area più pericolosa del
mondo», sosteneva Bob Kennedy, che avrebbe
concentrato buona parte delle operazioni della CIA
nell’area incriminata.
Il 15 agosto 1962 il direttore della CIA
consegnò al presidente Kennedy
«… la nuova dottrina della CIA sulla repressione delle
insurrezioni, insieme a un secondo documento in cui erano
esposte per sommi capi le operazioni clandestine in corso in
undici nazioni: Vietnam, Laos e Thailandia; Iran e Pakistan;
nonché Bolivia, Colombia, Repubblica Dominicana,
Ecuador, Guatemala e Venezuela»3.

A quest’elenco si sarebbe aggiunto, sotto la


presidenza Nixon, anche il Cile, definito
dall’allora consigliere per la Sicurezza nazionale
Henry Kissinger – futuro segretario di Stato e
premio Nobel per la Pace – «un pugnale puntato al
cuore dell’Antartide». Kissinger, per fare colpo su
Nixon, guidò il golpe che avrebbe destituito
Salvador Allende e battezzato l’inizio di un
periodo sanguinario e di paura per la storia cilena:
i diciassette anni di dittatura del generale Augusto
Pinochet. Per Kissinger, infatti, non vi era alcun
motivo per permettere a un certo Paese di
«scegliere il comunismo a causa
dell’irresponsabilità del suo stesso popolo». Il
Cile, all’epoca di questa dichiarazione, aveva la
meritata fama di essere la democrazia pluralistica
più evoluta del Sudamerica. Negli anni della
guerra fredda quel pluralismo significava che
l’elettorato cileno era per circa un terzo
conservatore, per un terzo socialista e comunista, e
per un terzo democristiano e centrista. Ciò aveva
reso relativamente facile impedire l’ingresso al
governo della componente marxista, e dal 1962 la
CIA si era per lo più accontentata di finanziare gli
elementi giudicati affidabili. Questo, però, non era
bastato e non era bastato neppure l’ordine di
Nixon di falsare le elezioni presidenziali del 1970:
Allende aveva conquistato una modesta
maggioranza del 36,2%.
La CIA si era già messa al lavoro in primavera,
grazie a una cascata di finanziamenti alla stampa
estera e cilena, per screditare la campagna di
Allende. Così, un numero di «Time», poi divenuto
celebre, con copertina dedicata, «si basava in gran
parte su materiali scritti e informative fornite dalla
CIA»4. In Cile «si stampavano manifesti, si
rifilavano false notizie ai giornali, si suggerivano
editoriali, si facevano circolare voci, si
disseminavano volantini e si distribuivano
pamphlet»5 per affossare il candidato della sinistra
e terrorizzare l’elettorato. Evidentemente, tuttavia,
quest’imponente macchina del fango non bastò.
Il nome di Allende era però intollerabile per
l’estrema destra cilena, per alcune potenti società
che facevano affari in Cile e negli Stati Uniti – in
particolare l’Itt, la Pepsi-Cola e la Chase
Manhattan Bank – e per la CIA, che decise di
intervenire per evitare la ratifica. Il Parlamento
cileno aveva infatti cinquanta giorni di tempo per
ratificare il risultato delle elezioni e confermare la
maggioranza ottenuta da Allende, e la CIA «aveva
sette settimane per ribaltare l’esito delle elezioni
cilene»6. Nixon, inoltre, aveva un debito personale
con Donald Kendall, direttore esecutivo della
Pepsi-Cola, perché gli aveva offerto il suo primo
incarico internazionale quando egli, fallita per il
momento la sua carriera politica, era andato a
lavorare in uno studio legale di Wall Street. Il
presidente doveva quindi ricambiare il favore. Si
iniziò dunque a valutare la possibilità di un golpe.
Una settimana dopo le elezioni Donald
Kendall e Agustin Edwards, uno degli uomini più
potenti del Cile, proprietario di miniere di rame e
del maggiore quotidiano nazionale, «El
Mercurio», si incontrarono a Washington con
Kissinger, e poi con Nixon in persona, per
chiedere l’intervento degli USA ed eliminare
Allende dal governo. Kissinger, a sua volta, si
incontrò con David Rockefeller della Chase
Manhattan Bank e con il direttore della CIA
Richard Helms, poi si recò con quest’ultimo alla
Casa Bianca.
Gli appunti presi dallo stesso Helms
dimostrano come Nixon avesse messo a
disposizione, nella primavera del 1970, dieci
milioni di dollari per evitare che Allende arrivasse
al governo. Dopo la riunione con Edwards e
Kendall, Kissinger
«… approvò lo stanziamento di altri 250.000 dollari per
azioni di political warfare in Cile. In totale la CIA versò
1,98 milioni di dollari direttamente a Edwards, a “El
Mercurio” e alla loro campagna contro Allende»7.

DUE BINARI PER ELIMINARE ALLENDE


Venne anche istituito un gruppo a Langley, sede
della CIA, allo scopo di portare avanti una politica
“del doppio binario” nei confronti del Cile: da una
parte, la normale politica diplomatica alla luce del
sole; dall’altra – per volere di Nixon, all’insaputa
del dipartimento di Stato, del segretario della
Difesa, del capo della stazione di Santiago e
dell’ambasciatore statunitense in Cile Edward
Korry –, una strategia di destabilizzazione, con
rapimenti, assassinii e operazioni sotto falsa
bandiera, tesa a provocare un colpo di stato
militare. Vi erano a disposizione quarantanove
giorni per bloccare la ratifica dell’elezione di
Allende.
L’operazione conobbe però una serie di
ostacoli, nel breve intervallo di tempo prima che
Allende prestasse giuramento; in particolare, come
riporta Christopher Hitchens di «Harper’s
Magazine»,
«… il fatto che tradizionalmente i militari cileni si
astenevano da ogni coinvolgimento politico. Era una
tradizione che distingueva nettamente il Cile dai Paesi
vicini, e non poteva certo venire meno dall’oggi al domani.
L’ostacolo di breve periodo era un uomo: il generale René
Schneider, capo delle Forze armate cilene, che era
fermamente contrario a che i militari si immischiassero nel
processo elettorale. In una riunione, che si svolse il 18
settembre 1970, fu deciso di toglierlo di mezzo. Il piano,
come hanno ampiamente documentato Seymour Hersh e
altri, era di far rapire Allende da alcuni ufficiali estremisti,
ma in modo da far sembrare il rapimento opera di elementi
di sinistra e vicini ad Allende. Ne sarebbe nata una certa
confusione che, si sperava, avrebbe gettato nel panico il
Congresso cileno, inducendolo a non ratificare la nomina di
Allende»8.

Hitchens ricorda come l’operazione, che


avrebbe portato poi al golpe dell’Undici settembre
1973, fosse stata organizzata da Henry Kissinger,
privo di qualsiasi carica elettiva, il quale si era
incontrato con altri,
«… all’insaputa del Congresso e senza la sua
autorizzazione, per pianificare il rapimento di un alto
funzionario, legalmente nominato da un Paese democratico
con cui gli Stati Uniti non sono in guerra e con cui
mantengono relazioni diplomatiche cordiali»9.

Il gruppo istituito a Langley organizzò quindi


“l’operazione Allende”, che divise in due parti,
due binari separati. Racconta Weiner:
«Il Binario Uno consisteva nel political warfare, pressioni
economiche, propaganda e inflessibilità diplomatica. Mirava
a comprare abbastanza voti al Senato cileno per bloccare la
ratifica dell’elezione di Allende […] Il Binario Due era un
golpe militare»10,

e l’ambasciatore Korry ne era totalmente


all’oscuro, come aveva voluto Nixon.
Per guidare la task force cilena Helms chiamò
il capo della stazione CIA in Brasile, David
Phillips. Per il Binario Uno, Phillips
«… aveva sul suo libro paga ventitré giornalisti stranieri con
il compito di smuovere l’opinione pubblica internazionale.
[…] Per il Binario Due, aveva una squadra di uomini della
CIA che agivano sotto falsa bandiera e i cui passaporti falsi
garantivano una copertura sicura»11.

Il 15 settembre 1970 Kissinger venne a sapere


che il generale Roberto Viaux, un militare di
estrema destra legato a Patria y Libertad, era
disposto ad accettare l’incarico segreto di rapire il
generale Schneider. Il gruppo assegnato da
Kissinger al “secondo binario”, però, autorizzò la
fornitura di mitragliatrici e di granate lacrimogene
agli uomini di Viaux e pare non abbia mai
domandato che cosa ne avrebbero fatto, del
generale, dopo averlo rapito. Il direttore della
stazione di Santiago, Henry Hecksher, provò
inutilmente a sconsigliare qualunque azione
militare promossa da Viaux, che aveva la fama di
essere pazzo e sanguinario. Il 7 ottobre 1970
Hecksher inviò al quartier generale un messaggio
per comunicare che «un golpe di Viaux
produrrebbe soltanto un enorme bagno di
sangue»12. Le sue parole vennero accolte con
fastidio e ignorate.
Il 22 ottobre, due giorni prima che il
Parlamento cileno fosse chiamato a riunirsi per
ratificare l’elezione di Allende, una banda di
uomini armati, equipaggiati con le granate
lacrimogene consegnate dalla CIA, tese
un’imboscata al generale Schneider. Crivellato dai
colpi, il generale morì in ospedale, però dopo che
il Parlamento aveva investito Allende della carica
di presidente.
I tentativi della CIA per impedirlo erano falliti,
ma, come predetto da Hecksher, un primo bagno
di sangue c’era stato.
IL GOLPE CILENO
Il 9 novembre Kissinger fu l’estensore del
Memorandum di Decisione 93 del National
Security Council, in cui si riesaminava la politica
nei confronti del Cile, immediatamente dopo la
conferma dell’elezione. Kissinger sostenne la
necessità di mantenere “rapporti stretti” con i
leader militari dei Paesi confinanti. Una decisione,
come spiega Hitchens,
«… presa per agevolare sia il coordinamento delle pressioni
sul Cile, sia la preparazione dell’opposizione interna al
Paese. Una decisione che prefigura a grandi linee le
rivelazioni emerse in seguito sull’Operazione Condor, una
collusione segreta fra le dittature militari di tutto il
Sudamerica messa in piedi con la piena consapevolezza e
tolleranza del governo degli Stati Uniti»13.

La CIA continuò l’operazione, spendendo il


budget concesso da Nixon per seminare il caos
politico ed economico nel Paese. Il nuovo capo
della stazione CIA di Santiago, Ray Warren, mise
in piedi una «rete di sabotatori politici, che
dovevano cercare di smuovere l’esercito cileno
dalle sue fondamenta costituzionali»14. Allende
rispose a queste pressioni con un errore che gli
sarebbe stato fatale, creando un esercito segreto
finanziato da Castro e chiamato Grupo de Amigos
del Presidente. Questa mossa venne osteggiata dai
militari cileni.
Il terreno era ormai pronto.
Il governo venne rovesciato l’undici settembre
1973. Il golpe fu veloce e cruento. Il generale
Pinochet fu messo a capo delle operazioni, in
quanto comandante delle Forze armate. Fino
all’ultimo, Allende non volle credere che Pinochet
lo avesse tradito.
Secondo la versione ufficiale, Allende, per
evitare di essere catturato, si sarebbe tolto la vita
con un fucile automatico AK-47, regalo personale
di Castro15; in realtà le circostanze della sua morte
non sono mai state chiarite. La versione del
suicidio venne subito confermata dal suo medico
personale, Patricio Guijon, mentre altri da subito
sostennero che Allende era stato ucciso dai
golpisti di Pinochet mentre difendeva il palazzo
presidenziale.
Iniziava così ufficialmente uno dei periodi più
bui e sanguinari della storia: la dittatura di
Augusto Pinochet, che avrebbe fatto una
carneficina di oppositori politici e civili.
GLI ARCHIVI DEL TERRORE
Quello stesso anno Kissinger – che aveva
negoziato la fine della guerra del Kippur – venne
insignito del premio Nobel per la Pace.
Alle udienze del Senato per la conferma della
sua nomina a segretario di Stato aveva negato
qualunque coinvolgimento del governo degli Stati
Uniti nel golpe cileno. La verità sarebbe emersa in
seguito. Nel 1993 sono stati desecretati dei
documenti sulla connivenza di Nixon e Kissinger
con il generale Pinochet. Il vaso di Pandora era
aperto.
L’anno prima, infatti, il giudice paraguaiano
José Fernandez aveva scoperto, nel corso di
un’indagine su una stazione di polizia di
Asunción, degli archivi – poi battezzati “Archivi
del terrore” – contenenti documenti dettagliati che
descrivevano la sorte di migliaia di sudamericani
rapiti, torturati e assassinati segretamente, tra gli
anni Settanta e Ottanta, dalle Forze armate e dai
servizi segreti di Cile, Argentina, Uruguay,
Paraguay, Bolivia e Brasile. Dagli archivi
risultavano 50.000 assassinati, 30.000
desaparecidos e 400.000 incarcerati.
Nel 2001 cominciarono a essere formulate
delle accuse precise nei confronti di Kissinger: la
più pesante era quella che voleva l’ex segretario di
Stato americano coinvolto nell’omicidio del
generale Schneider.
Le inchieste aperte dal 2001 sul conto di Henry
Kissinger portarono la magistratura francese, il 28
maggio 2001, a convocare con un mandato di
comparizione l’ex segretario di Stato per
testimoniare sulla sparizione di cinque cittadini
francesi, avvenuta nel settembre del 1973, durante
i primi giorni della dittatura di Pinochet. Kissinger
lasciò la Francia la sera stessa16.
Quello stesso anno anche il magistrato
argentino Rodolfo Corral emise un mandato di
comparizione per Kissinger, accusato di
coinvolgimento nell’Operazione Condor, una
massiccia operazione di politica estera americana
su larga scala volta a tutelare l’establishment in
tutti gli Stati del Centro e del sud America in cui
l’influenza socialista e comunista era ritenuta
troppo potente, nonché a reprimere le varie
opposizioni ai governi partecipi dell’iniziativa. Le
procedure per mettere in atto questi piani furono di
volta in volta diverse; tutte, però – come nel caso
del Cile –, fecero ricorso sistematico alla tortura,
all’omicidio degli oppositori politici e a colpi di
Stato eterodiretti.
Dopo essere stato messo dal presidente Bush,
nel 2002, a capo di una commissione incaricata di
chiarire gli eventi dell’Undici settembre 2001 e
dopo ferocissime polemiche derivanti proprio
dalle accuse di crimini di guerra nei suoi confronti,
il 13 dicembre 2002 Kissinger stesso decise di
dimettersi e lasciare la commissione17.
GLI ANNI OTTANTA
L’influenza della CIA in America latina non si
smorzò. Cambiarono semmai le modalità, che
negli anni si affinarono. L’omicidio degli
esponenti politici scomodi, però, rimase.
Con l’insediamento di Reagan, la politica
estera americana imboccò una strada più vicina
alle lobby, inaugurando una politica estera di
facciata all’insegna dell’intrigo e della
corporatocrazia:
«Reagan, viceversa, era senz’altro un costruttore
dell’impero globale, un servitore della corporatocrazia. […]
Avrebbe servito i funzionari che facevano la spola tra i piani
alti delle corporation, i consigli di amministrazione delle
banche e i palazzi del governo. Avrebbe servito i funzionari
che apparentemente erano a lui sottoposti ma che in realtà
controllavano il governo, uomini come il vicepresidente
George H.W. Bush, il segretario di Stato George Schultz, il
segretario della Difesa Caspar Weinsenberg, Dick Cheney,
Richard Helms e Robert McNamara»18.

La costituzione dell’impero globale è passata


così attraverso la strada dei finanziamenti di
organizzazioni e fondazioni non governative,
legate però in modo occulto a delle lobby e alla
Casa Bianca:
«Ne risulta un complesso intreccio tra fondazioni private,
spesso finanziate dal Congresso, ai cui vertici siedono
personaggi di primo piano della vita pubblica, e istituzioni
direttamente create da Washington, con alla testa privati
cittadini ma sovvenzionate da gruppi industriali. Una sorta
di gioco delle scatole cinesi nel quale è facile smarrire la via
dei dollari»19.

Nei primi anni Ottanta, infatti, i finanziamenti


si concentrarono sulle strategie da adottare per
intervenire sui già delicati equilibri in America
latina, che nel 1989 sfociarono nell’invasione di
Panama e nell’arresto di Noriega. Prima
dell’arresto e della deportazione di Noriega vi
erano state le morti “accidentali” di Roldós, di
Torrjios e poi di Allende, di Arbenz e di Mossadeq
che avevano incrementato i sospetti sull’operato
della CIA.
L’ex banchiere John Perkins, amico di Roldós,
si è detto convinto che si sia trattato di un omicidio
organizzato dalla CIA:
«Capivo che era stato giustiziato in modo così plateale per
mandare un messaggio. La nuova amministrazione Reagan,
con il facile richiamo dell’immagine da cowboy di
Hollywood, era il veicolo ideale per trasmettere un simile
messaggio».

Il messaggio dedicato a Torrijos non venne


raccolto, anzi, quest’ultimo si oppose alle richieste
di Washington di rinegoziare il Trattato sul Canale
e due mesi dopo la morte di Roldós anche il leader
panamense perse la vita in un “incidente” aereo: le
voci insinuarono l’esistenza di una bomba a bordo
o addirittura che il velivolo fosse teleguidato da
terra.
Durante le udienze del 1973 sul caso
Watergate, John Dean rivelò, davanti al Senato
degli Stati Uniti, l’esistenza di un complotto per
uccidere Torrijos; mentre due anni dopo, nel 1975,
vennero presentate alla Commissione di inchiesta
del Senato sulla CIA ulteriori testimonianze e
documentazioni sui piani per uccidere sia Torrijos
che Noriega20.
L’INVASIONE DI PANAMA
Il “discepolo” e amico di Torrijos Manuel Antonio
Noriega divenne però presto un’icona
internazionale della corruzione, grazie anche a una
massiccia campagna di diffamazione, ancora una
volta orchestrata da Washington.
In ogni caso, Noriega non era Torrijos. Come
ricorda ancora Perkins,
«non aveva il carisma né l’integrità del suo ex capo. Col
tempo si fece la nomea di politico corrotto e trafficante di
droga e fu persino sospettato di aver organizzato l’assassinio
di un avversario politico, Hugo Spadafora. […] Il
colonnello aiutò anche la CIA a infiltrarsi nei cartelli della
droga in Colombia e altrove»21.

Nonostante fosse il pupillo corrotto di William


Casey, allora capo della CIA, Noriega si rivelò in
breve la nemesi di George H.W. Bush, il suo
“fattore di debolezza”.
Quando Noriega, forse convinto di essere
“invincibile” grazie alla protezione di Casey, «si
rifiutò recisamente di prendere in considerazione
un prolungamento di quindici anni della
permanenza della School of the America sul
territorio panamense», le relazioni con Washington
precipitarono. Come raccontò in seguito lo stesso
Noriega nelle sue memorie dal carcere,
«per quanto fossimo determinati e fieri nel portare avanti
l’eredità di Torrijos, gli Stati Uniti non volevano che ciò
accadesse. Volevano che rinegoziassimo o prolungassimo la
permanenza nella struttura [la School of the America]
affermando di averne ancora bisogno per via dei venti di
guerra che soffiavano in America Centrale. Ma quella
School of the America era per noi motivo di imbarazzo.
Non volevamo sul nostro suolo un campo di addestramento
per squadroni della morte e militari repressivi di destra»22.

Come reazione, il 20 dicembre 1989 gli Stati


Uniti attaccarono Panama. L’aggressione fu una
violazione del diritto internazionale, in quanto
Panama
«… aveva semplicemente osato opporsi ai desideri di un
manipolo di politici potenti e di dirigenti di grandi aziende.
Aveva insistito perché il Trattato sul Canale fosse rispettato,
aveva dialogato con i riformatori sociali e aveva sondato la
possibilità di costruire un nuovo canale utilizzando
finanziamenti e società di costruzioni giapponesi. Le
conseguenze furono devastanti»23.

Per giustificare l’atto di forza, Washington fece


ancora una volta affidamento sulla diffamazione
del nemico di turno, Noriega, che venne dipinto
come «un essere malvagio, il nemico del popolo,
un mostruoso narcotrafficante, e che come tale
forniva all’amministrazione un pretesto per la
massiccia invasione di un Paese di due milioni di
abitanti che, guarda caso, si estendeva su una delle
aree più preziose al mondo»24.
Noriega fu arrestato e condotto in aereo a
Miami, dove venne condannato a quarant’anni di
carcere.
L’invasione illegittima di Panama precedette di
soli due anni l’invasione, altrettanto illegittima ma
simile, del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam.
Mentre nessuno aveva espresso condanne ufficiali
– se non sdegno – nei confronti di Washington, la
reazione contro il ra‘īs fu invece violenta e sfociò
nel primo intervento in quella regione: Desert
Storm.
SADDAM NON SI FA ABBINDOLARE DA
WASHINGTON
Washington, infatti, aveva cercato per anni di
“comprare” il regime iracheno di Saddam, in
modo da farlo cadere nella trappola del
protettorato statunitense e farlo indebitare come gli
altri Paesi. Allora non importava che Saddam
fosse un despota sanguinario, interessavano i
vantaggi che sarebbero potuti provenire da un
accordo. Ricorda Perkins:
«Saremmo stati disposti a vendergli carri armati e caccia e a
costruire per lui impianti chimici e centrali nucleari, come
avevamo fatto in tanti altri Paesi, anche se quelle tecnologie
avrebbero presumibilmente potuto essere utilizzate per
produrre armi avanzate.
L’Iraq era estremamente importante per noi, molto più
importante di quanto potesse sembrare. Al contrario di ciò
che comunemente si pensa, il valore dell’Iraq non sta
soltanto nel petrolio. Sta anche nell’acqua e nella
geopolitica. […] Oggi è risaputo che chi controlla l’Iraq
possiede la chiave per il controllo del Medio Oriente»25.

Alla fine degli anni Ottanta, tuttavia, era ormai


evidente il fallimento dei sicari dell’economia:
Saddam non aveva intenzione né di farsi
“abbindolare” da Washington, né di sottoscrivere
alcuna forma di contratto. Ciò non poteva che
suscitare imbarazzo alla Casa Bianca, poiché
contribuiva a diffondere un’immagine di
debolezza dell’allora presidente G.H.W. Bush, alla
luce delle ripercussioni mediatiche successive
all’invasione di Panama. Il Pentagono, inoltre, non
poteva invadere un altro Paese senza un motivo
valido: non poteva permettersi un’altra Panama.
Mentre i falchi americani cercavano una via di
uscita, fu lo stesso ra‘īs a farsi un autogol
invadendo il Kuwait il 2 agosto 1990: il 17 luglio
precedente, in diretta televisiva, aveva accusato gli
Emirati Arabi e il Kuwait di superare
deliberatamente i tetti di estrazione del greggio al
fine di danneggiare economicamente l’Iraq.
Bush reagì accusando pubblicamente Saddam
di violazione del diritto internazionale. Pochi si
resero conto dell’ipocrisia di quell’atto di accusa:
meno di un anno prima il Pentagono aveva fatto lo
stesso, invadendo illegalmente e in modo
unilaterale Panama; eppure, quando Bush ordinò
di attaccare l’Iraq e inviò 500.000 soldati
statunitensi come parte della forza internazionale
per liberare il Kuwait, l’indice di gradimento di
Bush schizzò al 90%, segno che gli americani
avevano la memoria breve ed erano facilmente
manipolabili. Era iniziata la prima Guerra del
Golfo26, la più potente azione militare alleata dal
1945 in poi.
Le perdite tra le milizie irachene furono
incalcolabili, tra le 20.000 e le 100.000 unità. Per
timore che la situazione sul suolo iracheno
degenerasse, Bush si mantenne al mandato ONU
senza rovesciare il regime di Saddam. Per questo
Brzezinski, nel suo saggio L’ultima Chanche, in
cui stila le pagelle dei tre presidenti americani
Bush I, Clinton e Bush II, per quanto promuova a
pieni voti solo Bush padre, sottolinea l’errore
strategico di non aver fatto capitolare subito
Saddam nel 1991, quando ve n’era l’occasione: in
tal modo la Casa Bianca avrebbe potuto sfruttare
al meglio a suo favore l’intervento in Iraq27.
Desert Storm viene considerata dallo stratega
polacco il “peccato originale” e il fardello che
Bush padre tramandò al figlio passando per
l’amministrazione Clinton. Bush costrinse infatti
l’Iraq a rinunciare alle armi di distruzione di massa
e ai missili a medio-lungo raggio ed evitò di
abolire le sanzioni economiche imposte
nell’agosto del 1990 per rendere impopolare il
regime e per ostacolarne il riarmo. Infine, come da
volere del Pentagono, i Paesi della regione
acconsentirono a ospitare le basi statunitensi, che
servirono alle aviazioni di USA e UK per imporre
all’Iraq due no fly zones (una nel Nord e una nel
Sud del Paese).
Secondo Perkins, i sicari e gli sciacalli non
erano serviti né a piegare né a rovesciare il ra‘īs,
spianando in tal modo la strada all’intervento
dell’esercito, come da copione: l’Iraq aveva così
subito la prima intromissione americana sul
proprio suolo. Saddam era stato sconfitto e
umiliato, ma non era stato detronizzato e
tantomeno ucciso. Si doveva attendere il 2003.
LE ACCUSE DI CHAVEZ
La guerra in Iraq distolse in qualche modo
l’attenzione dal Venezuela, dove invece Chavez si
era macchiato dell’ennesimo sgarbo agli USA con
la sostituzione ai vertici della compagnia
petrolifera statale di persone di sua fiducia,
indipendenti dagli intrighi di Washington. Dopo il
fallito tentativo di golpe nel 2002, Chavez infatti
tornò al potere in meno di 72 ore, stringendo la
morsa del governo sui dipendenti della compagnia
petrolifera, cacciando dal Paese i suoi oppositori e
seguendo le orme della presidente argentina
Cristina Kirchner e del leader boliviano Evo
Morales, che avevano nazionalizzato le compagnie
petrolifere dei loro rispettivi Paesi28.
Anche Chavez ha dimostrato di essere, come
Castro, un osso duro, una vera e propria spina nel
fianco per la Casa Bianca.
La sua esposizione mediatica, il suo carattere
rivoluzionario che gli ha procurato il soprannome
di “il Toro” e i provvedimenti di stampo socialista
lo hanno reso un nemico per gli USA. Tabloid e
TV statunitensi hanno diffuso ogni genere di
menzogna sul suo conto, privilegiando come al
solito il lato farsesco dell’informazione (come
sarebbe poi avvenuto con Gheddafi, Miloševic,
Assad, Putin): è stato definito “malato di testa”,
“cocainomane”, “tiranno”, “sanguinario dittatore”,
“gay”, e addirittura è stato paragonato, dal
governo di Bush Jr., a Hitler.
Poco prima della sua morte, il leader
venezuelano aveva accusato indirettamente la CIA
di avere inoculato il cancro a lui e ai suoi colleghi
Lula, Dilma Roussef, Christina Kirchner29, Lugo e
Castro. L’accusa, per quanto difficile da accettare,
rientrerebbe nelle macchinazioni tipiche delle
corporatocrazie descritte da Perkins, che
prevedono lo schema in successione di sicari,
sciacalli ed esercito30.
Chavez era stato molto chiaro nel dichiarare:
«È molto difficile da spiegare, anche con le leggi della
probabilità, quello che sta accadendo a molti di noi qua in
America latina. Non voglio accusare nessuno, ma… non è
impensabile che qualcuno abbia già sviluppato una
tecnologia per indurre il cancro. Magari lo verremo a sapere
tra cinquant’anni, chissà. Non sto sospettando degli Stati
Uniti, intendiamoci, ma ricordate quando si disse che alcune
infezioni in Guatemala erano state scatenate dalla CIA?»31.

Nella sua accusa, infatti, Chavez ha fatto un


esplicito riferimento al Guatemala come esempio
di un possibile complotto segreto. Nel 1946 gli
USA pensarono infatti di utilizzare un Paese
dell’America centrale per studiare un vaccino
contro le malattie sessualmente trasmissibili,
gonorrea e sifilide in primis. Il prescelto fu il
Guatemala, che in due anni venne infettato in
massa con la gonorrea affinché i medici
statunitensi potessero testare il funzionamento
della penicillina. Le cavie umane non furono
informate e non diedero quindi alcun consenso alle
sperimentazioni. Tra i prescelti vi furono in
particolare soldati, prostitute, prigionieri e malati
mentali. Su circa 1300 cavie, solo 700 ricevettero
un qualche tipo di trattamento.
Riferendosi agli USA, nel 2009 Morales aveva
confessato, durante un’intervista rilasciata a Oliver
Stone32, di essere a conoscenza di un piano per
eliminare i personaggi scomodi, condividendo così
le accuse di Castro. Proprio il leader cubano aveva
avvisato Chavez del pericolo che la CIA potesse
prendere provvedimenti contro il suo
temperamento “ribelle”.
Alla morte di Chavez, è stato il suo delfino,
Nicolas Maduro, a evocare nuovamente l’ombra
del complotto nel momento in cui era emersa la
notizia dell’avvelenamento del leader palestinese
Yasser Arafat. Nelle ultime ore di agonia di
Chavez, Maduro aveva riportato alla ribalta la tesi
sulla possibilità che il cancro che lo stava
consumando fosse opera dei nemici “imperialisti”
del Venezuela, che volevano “destabilizzare” il
Paese. Tali nemici – secondo le dichiarazioni di
Maduro – avrebbero inoculato la malattia al leader
bolivariano.
INTERMEZZO
egel osserva da qualche parte che tutti i grandi
«H avvenimenti e i grandi personaggi della storia
universale si presentano, per così dire, due volte. Ha
dimenticato di aggiungere: la prima volta come
tragedia, la seconda come farsa»1.

Inizia così Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, il


piccolo capolavoro di Karl Marx scritto nel 1852
che rappresenta il tentativo dell’autore di
comprendere e spiegare gli avvenimenti storici che
portarono al colpo di Stato del 2 dicembre 1851 in
Francia, quando Luigi Bonaparte mise fine alla
breve esperienza della terza repubblica francese,
chiudendo così il ciclo rivoluzionario del 1848. Un
evento che molti contemporanei, come Victor
Hugo, definirono «un fulmine a ciel sereno»2 e
non riuscirono quindi a spiegare in modo
razionale.
Ne Il 18 brumaio Marx cerca invece di
cogliere il concatenarsi degli eventi degli ultimi
quattro anni sulla base del sostrato materiale,
cercando di dimostrare che anche gli episodi
apparentemente più irrazionali e imprevedibili
della storia, come quelli che resero possibile a
Luigi Bonaparte arrivare al colpo di Stato e
passare da “eroe”, hanno una propria «logica
interiore»3 e trovano «la loro radice nel modo in
cui si è precedentemente sviluppata la lotta
politica e di classe»4.
Secondo l’autore, infatti, la Rivoluzione del
1848 si presenta come una “farsa” di quella del
1789 e Luigi Bonaparte, con le «fattezze
caricaturali che gli si addicono alla metà del secolo
decimonono», come una pallida copia farsesca del
Napoleone originale. Luigi Bonaparte, nipote di
Napoleone, rappresenta, per Marx, un
«personaggio mediocre e grottesco» che, grazie
alla concatenazione di alcuni eventi, riuscì a
emergere e a portare a termine un colpo di Stato,
facendo persino «la parte dell’eroe». Ogni
rivoluzione utilizza dei riferimenti storici, ma
mentre le rivoluzioni precedenti li usavano per
adempiere il proprio compito storico, questa lo fa
per tradirlo, divenendone così una forma di
parodia.
Senza avventurarci nell’analisi del periodo, è
interessante vedere come l’incipit dell’opera
ponga la questione della storia che si ripete, ma
presentandosi la prima volta come tragedia e la
seconda come farsa, cioè come parodia del primo
evento, che finisce appunto per copiare con
risultati grotteschi.
Lo spunto per questo schema di tragedia-farsa
proviene da un altro filosofo tedesco, Friedrich
Engels, fondatore con Marx del materialismo
storico. Si tratta di una lettera, inviata allo stesso
Marx il 3 dicembre 1851, in cui Engels gli
comunicava il proprio giudizio sul colpo di Stato
di Luigi Bonaparte5:
«Sembra veramente che il vecchio Hegel conduca dalla sua
tomba la storia, come spirito del mondo, e con grande
coscienziosità faccia sì che tutto si presenti due volte, una
volta come tragedia, la seconda volta come farsa
pidocchiosa: Caussidière per Danton, Louis Blanc per
Robespierre, Barthélemy per Saint-Just, Flocon per Carnot e
il vitello della luna, con la prima mezza dozzina che gli
capiti di sottotenenti carichi di debiti, per il piccolo caporale
e la sua tavolata di marescialli. Così saremmo già arrivati al
18 brumaio».

Sebbene certi parallelismi storici siano spesso


pari a voli pindarici, capziosi o riduttivi, ci
interessa in questa sede far notare che in effetti
alcuni eventi ricorrono in modo costante come
caricatura di un modello precedente, in quanto
abilmente manipolati e pianificati. Ci riferiamo,
per esempio, alle “Rivoluzioni colorate” o alle
“Primavere arabe” che, seguendo il modello
Otpor!, scimmiottano rivoluzioni ancora
precedenti il cui modello è stato però codificato,
conducendo inesorabilmente sempre al caos e poi
al terrore. Creare e diffondere proteste eterodirette,
evocando spiriti di movimenti e ideologie del
passato, genera risultati catastrofici, o totalmente
scollati dalle aspettative delle masse che le hanno
supportate con fatica e sacrificio, in quanto, come
scriveva Marx, in «epoche di crisi rivoluzionaria»
gli uomini
«… evocano con angoscia gli spiriti del passato per
prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le
parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare
sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste
frasi prese a prestito la nuova scena della storia»6.

Così se gruppi come Anonymous, Indignados e


Occupy Wall Street si ispirano a un anacronistico
Guy Fawkes, i moti di piazza Maidan degenerati
in guerra civile in Ucraina hanno visto il tentativo
di resuscitare il movimento di Stepan Bandera,
finendo per portare al governo le milizie
neonaziste, il tutto sotto lo sguardo permissivo
dell’Occidente che ha sancito la colonizzazione
del Paese da parte degli Stati Uniti.
La «resurrezione dei morti» di cui parla Marx
serve, in teoria, a emulare ed esaltare dei vecchi
stilemi, ma finisce per parodiare le antiche gesta,
offrendo alla storia personaggi imbarazzanti, i
quali sono però la logica conseguenza degli eventi
che si sono consumati, una specie di “segno dei
tempi”.
CAPITOLO 5

LA GUERRA DI QUARTA
GENERAZIONE: DALLA
SERBIA ALL’UCRAINA
«Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una
dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si
fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine
della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la
tortura. Il fine del potere è il potere».
GEORGE ORWELL, 1984
«L’Ottantanove, per noi, non è che un “arido vero”, messia
scoronato nel fango, di cui sognare ancora».
GUIDO CERONETTI
«L’America si schiererà con gli alleati della libertà a sostegno
dei movimenti democratici in Medio Oriente e oltre, con
l’obiettivo ultimo di terminare la tirannia nel nostro mondo».
GEORGE W. BUSH, 2 FEBBRAIO 2005
«La primavera araba è buona per Israele».
BERNARD HENRY LÈVY

Q uasi dieci anni fa il banchiere di Wall Street di


doppia nazionalità statunitense e libanese,
fondatore e presidente delle «Blackhawk
Partners»1, Ziad Abdel Nour2, spiegava in
un’intervista rilasciata a Trish Schuh il modus
operandi della geopolitica americana nei confronti
del Medio Oriente. Correva il mese di novembre
del 2005 e le dichiarazioni di Nour – già
responsabile del Comitato statunitense per il
Libano libero3 – appaiono ora come uno
sconvolgente presagio delle atrocità che si
sarebbero consumate molti anni dopo in Siria.
Le parole di Nour servono più in generale a
inquadrare il funzionamento di quelli che egli
stesso definisce «i giochi di guerra, i giochi di
potere», che attraverso il finanziamento, la
manipolazione e l’addestramento dei ribelli,
fomentano massacri e insurrezioni nei Paesi esteri
per sovvertire con la forza i governi giudicati
“nemici”. Un “gioco” che si consuma sulla pelle di
milioni di civili. Una modalità strategica adottata
in passato anche nei Balcani e, come abbiamo
visto, in America latina.
Nour precisava inoltre di “consigliare”
personalmente la CIA e di conoscere i piani
geopolitici per la globalizzazione e l’esportazione
della democrazia nel mondo, specificando che
l’amministrazione Bush era già al lavoro per
“rimpiazzare” il regime siriano e quello libanese.
Non a caso il presidente George W. Bush, nel suo
discorso sullo Stato dell’Unione tenuto il 2
febbraio 2005, aveva dichiarato:
«La lotta ai nostri nemici è un impegno vitale della guerra al
terrore, e io ringrazio il Congresso di aver dato ai nostri
uomini e donne in servizio le risorse di cui avevano
bisogno. In questi tempi di guerra dobbiamo continuare a
sostenere i nostri militari, dando loro gli strumenti per la
vittoria […] l’America si schiererà con gli alleati della
libertà a sostegno dei movimenti democratici in Medio
Oriente e oltre, con l’obiettivo ultimo di porre termine alla
tirannia nel nostro mondo. […] Al fine di promuovere la
pace nel Grande Medio Oriente, siamo costretti ad
affrontare regimi che danno rifugio ai terroristi e cercano di
procurarsi armi di distruzione di massa»4.

Dietro il diktat liberale di esportazione dei


valori democratici, che spingeva Bush a schierarsi
ufficialmente a sostegno degli “alleati della
libertà”, si nasconderebbero però più venali
questioni finanziarie, ammetteva Nour:
«È tutta una questione di denaro. E di potere. E di ricchezza.
[…] Quelli che vorranno abbracciare la globalizzazione
faranno un sacco di soldi; saranno felici, le loro famiglie
saranno felici. E quelli che non staranno al gioco saranno
distrutti, che lo vogliano o no!».

Per comprendere la fondatezza di queste parole


bisogna concentrarsi sulla biografia di chi le ha
pronunciate. Nour proviene da una famiglia di
politici libanesi: suo padre, Khalil Abdelnour, fu
deputato dal 1992 al 2000; suo zio, Salem
Abdelnour, dal 1960 al 1964, e poi dal 1972 al
1992; suo cugino acquisito, Karim Pakradouni, è
stato ministro sotto il governo di Rafic Hariri e dal
2001 è presidente del Partito falangista libanese.
Nel 1997 Nour ha creato il Comitato
statunitense per il Libano libero (USCFL) allo
scopo, come spiega il giornalista Thierry Meyssan,
di «soddisfare il desiderio dei neoconservatori di
“rimodellare il Vicino-Oriente” […] D’altronde, il
suo obiettivo principale non era quello di prendere
il potere in Libano, ma di far cadere il regime in
Siria»5, come in effetti ha ammesso nell’intervista
rilasciata a Schuh.
L’USCFL ha inoltre legami con il PNAC
(Project for the New American Century, Progetto
per un nuovo secolo americano), l’istituto di
ricerca con sede a Washington che annovera tra i
suoi fondatori Dick Cheney e Donald Rumsfeld e
vanta lo scopo di promuovere «la leadership
globale americana». L’Istituto, vicino al
movimento neoconservatore, ha svolto una
funzione controversa per la sua legittimazione al
dominio economico e all’espansionismo militare
da parte degli Stati Uniti. La definizione “Nuovo
secolo americano” si basava infatti sull’idea che il
XX secolo fosse il “secolo americano” e alcuni
analisti hanno visto nella seconda Guerra del
Golfo – nome in codice Operazione Iraq Libero –
il primo passo verso l’attuazione di questa nuova
forma di imperialismo americano di cui l’Iraq
sarebbe stato soltanto un primo tassello. L’Istituto
diffonde cioè un’ideologia mondialista, volta alla
costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale
capeggiato da Washington (ne parla ampiamente
anche Kissinger nel suo ultimo saggio Ordine
Mondiale), una forma di oligarchia mascherata
dietro i valori di quella democrazia americana che
si intende esportare con la forza.
Uno dei principi cardine dell’Istituto invita a
sfidare i regimi dei Paesi ostili agli interessi
americani, ossia i cosiddetti “Stati canaglia” (Iraq,
Serbia, Libia, Siria, Libano, Iran). Per abbattere
questi regimi, gli USA non solo hanno fatto
ricorso alla forza, ma hanno anche mentito e
manipolato l’opinione pubblica, come nel caso
dell’invasione dell’Iraq nel 2003, legittimata dalla
falsa notizia dell’esistenza di armi di distruzione di
massa.
Più recentemente, la Casa Bianca ha
finanziato, fomentato e addestrato i ribelli di questi
Paesi “ostili” ai valori e agli interessi statunitensi,
grazie alla collaborazione di Israele e dell’Arabia
Saudita, dando vita a quel fenomeno
rivoluzionario tutt’altro che spontaneo che si è
diffuso sotto nomi diversi: Rivoluzioni colorate,
Primavera araba e, più in generale, il modello di
disobbedienza civile di Otpor!
UN PASSO INDIETRO: MASSONERIA E
RIVOLUZIONE FRANCESE
Come già ampiamente spiegato in Governo
Globale6, siamo legati all’idea “romantica” che le
rivoluzioni moderne nascano spontaneamente dal
basso come reazione al malumore delle masse e
sfocino prima in proteste infine in vere e proprie
sommosse; che siano il conseguimento della
secolare dialettica tra il popolo e il potere; che gli
ideali che le ispirano siano la libertà e la
fratellanza dei popoli e che i leader siano uomini e
donne temerari, i quali rischiano la vita per il bene
dei più. Questo schema sarebbe uguale a quello
che ritroviamo oggi riguardo ai ribelli,
dall’Ucraina alla Siria. La storia, però, ci insegna
altro.
La forza delle masse, per quanto incisiva sia,
non può però bastare a spiegare le modalità, le
sfumature ideologiche, gli sviluppi e le finalità che
tali eventi assumono. Prendendo ad esempio la
“madre di tutte le rivoluzioni”, ovvero quella
francese del 1789, è impossibile negare l’influsso
determinante di certi “poteri occulti” dell’epoca in
tutte le fasi dell’evento rivoluzionario che, come
tutti i sommovimenti sociali, è stato preceduto
dalla diffusione di una propaganda capillare, tesa
alla creazione di uno “stato d‘animo” idoneo alla
diffusione della protesta7.
Come spiega lo storico Bernard Faÿ, la
massoneria non “fa” le rivoluzioni ma le “prepara”
e le continua:
«…si prefigge il compito di preparare un alimento
intellettuale che convenga alle masse, che formi l’unità
sentimentale di tutti gli uomini e la loro felicità comune.
[…] Essa preferisce le idee semplici, quasi rudimentali:
libertà, eguaglianza, fratellanza, progresso, scienza, e non
sottilizza troppo su queste idee; ma eccelle nel farne un
alimento sociale, nel diffonderle, nel trasformarle in
certezze e in abitudini»8.

La massoneria lascia cioè che i suoi membri


facciano le rivoluzioni, e il più delle volte li spinge
a farle, ma durante lo scoppio delle proteste
sparisce, per riapparire poi, più brillante e più viva
di prima. Nell’alta società francese c’erano infatti
parecchi cenacoli che vantavano la libertà
spirituale e l’indipendenza di fronte al potere
costituito; Faÿ spiega come, a partire dalla
Rivoluzione francese, l’impronta cosmopolita
della nuova società moderna aiuti il potere
“occulto” che si cela dietro i rivoluzionari a
diffondere le idee; prima che le sommosse
esplodano si deve infatti creare e diffondere quello
“stato d’animo” adatto affinché il malumore
prenda forma e canalizzi la rabbia e la frustrazione
delle masse verso un obiettivo: l’abbattimento
violento del vecchio “ordine” per la costituzione di
qualcosa di “nuovo”. La speranza in un futuro
migliore viene anche oggi manipolata, convogliata
e strumentalizzata dal potere per perseguire la
costituzione di un governo globale di stampo
totalitario, che nulla ha a che vedere con le
aspirazioni sincere di coloro che protestano per
conquistare la libertà, i diritti o semplicemente
delle condizioni di vita migliori.
Nella Francia del XVIII secolo non mancarono
neppure i preti francesi tra le fila della fratellanza
massonica, ma né il governo di Luigi XV né
quello di Luigi XVI si avvidero del pericolo e
mantennero nei suoi confronti un atteggiamento di
«disdegnosa indifferenza»9; inoltre, la massoneria
viveva una situazione diversa, che negli altri Paesi
diventava «forte e influente»10, entrando «così
bene nei costumi di Francia che ormai è
impossibile sapere dove cessa il suo dominio»11.
La massoneria francese seppe cioè approfittare
dell’ora e dell’occasione, insinuandosi nei
parlamenti, nei reggimenti, nelle accademie e
perfino a corte, e decretando così il «“suicidio
massonico” dell’alta nobiltà». Senza l’appoggio
dell’alta nobiltà, infatti, la Rivoluzione non
avrebbe mai potuto mettersi in moto.
LA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA
Un caso ancora più clamoroso di ambigue
connivenze tra forze “rivoluzionarie” e poteri forti
è rappresentato dalla Rivoluzione bolscevica russa,
argomento su cui, per ovvie motivazioni
ideologiche, era sceso inesorabilmente un velo di
omertà, durato fino a pochi decenni fa12. Si tratta
dell’enorme sostegno economico-finanziario
fornito da alcuni grandi potentati economici
occidentali ai bolscevichi, senza i quali l’esito
della rivoluzione “proletaria” del 1917 sarebbe
stato molto diverso13. Lo stesso «Trotsky, nelle
sue memorie, fa riferimento a prestiti di finanzieri
inglesi fin dal 1907»14, mentre a partire
«dal 1917 [ovvero dall’anno in cui hanno inizio i moti
rivoluzionari; N.d.A.] i maggiori aiuti finanziari alla
rivoluzione furono organizzati da sir George Buchanan e da
lord Alfred Milner (dell’alleanza Morgan-Rothschild-
Rhodes)»15.

Non solo l’Impero britannico, ma anche tutto il


mondo della finanza e dei poteri forti occidentali
sembrano essere stati coinvolti da questa frenetica
attività di finanziamento e soccorso a quel
bolscevismo leninista che, almeno in apparenza,
sembrava presentarsi come il più feroce avversario
del grande capitalismo. I Rothschild, che tramite il
barone Édouard avevano già manifestato il proprio
dissenso per i frequenti progrom contro gli ebrei
russi, non solo avrebbero previsto la caduta dello
zar, ma sarebbero addirittura intervenuti, come ci
spiega Pietro Ratto, con una mossa di
«manipolazione finanziaria in questa direzione»16,
dopo aver persino spinto Nicola II a intraprendere
una «guerra disastrosa contro il Giappone»17.
Finanche su un quotidiano come il «New York
Journal-American» furono messe in luce queste
curiose operazioni18, e in particolare i
finanziamenti a “fondo perduto” che la banca
Khun&Loeb aveva elargito ai bolscevichi, nella
persona del presidente Jacob Schiff, per una cifra
complessiva di venti milioni di dollari. Le stesse
autorità americane non mancarono di registrare
quest’enorme movimentazione di denaro, la cui
documentazione è conservata in una raccolta di
atti diplomatici pubblicati dal dipartimento di
Stato USA (“Paper Relations of the United
States” – 1918 – Russia, Three Volumes, United
States, Government Printing Office, Washington
1931)19.
Alla luce di queste e altre testimonianze, le
motivazioni della politica internazionale non
sembrano essere quelle che appaiono sui libri di
storia istituzionali; emerge semmai uno schema
simile a quello che ritroviamo oggi con le
Rivoluzioni colorate e la Primavera araba, in cui i
potentati hanno finanziato i “ribelli” (e le forze
estremiste vicine ad Al Qaida) pur di sovvertire i
regimi che si intendevano colpire (da Ben Ali ad
Assad). È in questo modo che la storia si ripete
come farsa, riproducendo così la madre di tutte le
rivoluzioni, tentando di resuscitare, almeno nella
facciata, per citare Marx,
«…gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne
prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la
battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e
venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito
la nuova scena della storia»20.

Nel caso specifico della Russia, Marletta, nel


nostro Governo Globale, avanzava l’ipotesi che,
per annientare quell’enorme nucleo identitario
etnico-religioso che era la Russia, anche una carta
estrema come quella del bolscevismo poteva
apparire “un rischio accettabile” agli occhi di
alcuni poteri forti21.
Dopo aver superato settant’anni di comunismo
e la ancor più disastrosa fase postdittatoriale, la
nuova Russia identitaria e ortodossa di Vladimir
Putin è tornata a essere forse l’unico, concreto
ostacolo all’instaurazione del Nuovo Ordine
Mondiale così come concepito dalle lobby
occidentali e ammesso candidamente da strateghi
quali Brzezinski. Il braccio di ferro odierno sulla
Siria e il contrasto all’ISIS ne sono la
dimostrazione.
In ogni caso, è bene ricordare che gli stessi
Rothschild hanno spesso finanziato nei secoli
entrambi gli schieramenti che si fronteggiavano in
guerra o sul campo finanziario; ciò dovrebbe
aiutarci a comprendere come nell’ottica elitaria dei
poteri forti i dualismi politico-culturali, che
dividono destra e sinistra, progressismo e
conservatorismo, ricchi e poveri, e che tanto hanno
“accalorato” e diviso le masse, abbiano in fondo
ben poca importanza rispetto ad altri e ben più
ambiziosi fini, e rientrino in definitiva nel celebre
motto Divide et impera, che soggioga l’opinione
pubblica tenendola divisa su obiettivi solo
all’apparenza contrastanti, per renderla così debole
e facilmente governabile.
Fini che, come ammetteva Nour, esigono
l’impiego di qualunque mezzo per essere
conseguiti.
LA LONGA MANUS DI… GEORGE SOROS
Dopo un iniziale consenso mediatico (e appoggio
politico bipartisan) alle Rivoluzioni colorate e poi
alla Primavera araba, i focolai di protesta in Medio
Oriente hanno assunto un profilo ben diverso da
quello propugnato, facendo precipitare l’area
interessata nel caos.
Dietro la Primavera araba – e prima ancora
dietro le proteste in Serbia, Georgia, Ucraina,
Kirghizistan e anche in Russia – ci sarebbe in
realtà la regia di Washington22. La stessa cosa si è
ripetuta con le proteste in Ucraina, a cavallo tra il
2014 e il 2015, in merito alla mancata adesione
all’Unione europea.
Per mettere al riparo il proprio potere dalla
minaccia di “rivoluzioni orchestrate
dall’Occidente”, i presidenti del Kazakistan, del
Tagikistan, del Kirghizistan, del Turkmenistan e
dell‘Uzbekistan nel 2005 avevano già dichiarato
guerra a colui che veniva considerato l’ispiratore e
il finanziatore di questi movimenti destabilizzatori,
il multimiliardario “filantropo” ungherese
naturalizzato statunitense George Soros, e alla sua
fondazione internazionale Open Society
(letteralmente Società aperta). Le disinvolte
pratiche finanziarie di Soros si muovono e si
spiegano in base al suo feroce sentimento
antirusso23. Tramite i progetti nazionali avviati
dalla fondazione in decine di Paesi, Soros ha
infatti finanziato organizzazioni non governative,
associazioni giovanili, gruppi universitari, radio e
giornali, conferenze e seminari sulla democrazia e
i diritti umani, dando così vita a dei movimenti di
opposizione che sono stati capaci di organizzare
pacifiche e vittoriose rivoluzioni popolari.
Così è andata in Serbia, dove il movimento
Otpor!, sostenuto da Soros, promosse le massicce
manifestazioni di Belgrado che influirono sulla
destituzione di Slobodan Milošević. L’esperimento
fu esportato tre anni dopo in Georgia, dove la
fondazione di Soros e i veterani serbi di Otpor!
diedero vita al movimento giovanile Kmara,
protagonista delle proteste contro Eduard
Shevardnandze, che sfociarono nella “Rivoluzione
delle rose” del 23 novembre 2003. Stessa strategia
in Ucraina, dove Soros ha promosso il movimento
studentesco Porà, principale animatore delle
proteste degli “arancioni” sostenitori di Viktor
Yushenko, che nel 2014 sono tornati in piazza per
protestare contro il governo e chiedere l’adesione
all’UE.
Come insegnato dai “padri” di Otpor!, anche i
nuovi ribelli ucraini facevano attenzione a non
violare la legge e cercavano24 di distruggere
tramite la disobbedienza quel regime che, stando
alle loro stesse voci, «ci tratta come animali»25.
Gli attivisti invocavano quel sistema occidentale di
regole legali ed economiche che l’Occidente stesso
stava mettendo in discussione.
Mentre molti Paesi membri dell’UE – come
l’Italia – si domandavano se sarebbe stato
possibile “uscire” dall’Europa, la Germania
vigilava sull’ente sovranazionale e alla Conferenza
di Monaco del 2014 incoronava il leader
dell’opposizione ucraina Vitali Klitschko. Il pugile
è stato ricevuto anche da John Kerry e dal
presidente europeo Van Rompuy, e ha incassato
persino la benedizione del senatore repubblicano
John McCain, che lo ha definito
26
un’“ispirazione” .
Osserva Thierry Meyssan:
«Inizialmente il movimento sembra essere un tentativo di
riavviare la “Rivoluzione arancione”. Ma il potere sulle
piazze cambia di mano l’1 gennaio 2014. Il partito nazista
“Libertà” organizza una fiaccolata di 15.000 persone in
memoria di Stepan Bandera (1909-1959), il leader
nazionalista alleatosi ai nazisti contro i sovietici. Da allora
la capitale viene coperta di scritte antisemite e delle persone
sono aggredite per strada perché ebree.
Da quando il partito nazista ha occupato le piazze, molti
manifestanti indossano caschi e uniformi paramilitari,
erigono barricate e attaccano edifici governativi. Alcuni
elementi delle forze di polizia dimostrano gravi brutalità
torturando dei detenuti. Una decina di manifestanti è stata
uccisa e quasi 2000 sono stati feriti. I disordini si
diffondono nelle province occidentali. Secondo le nostre
informazioni, l’opposizione ucraina cerca di procurarsi
materiale bellico sui mercati paralleli. Non è ovviamente
possibile comprare armi in Europa occidentale e trasportarle
senza il consenso della NATO»27.

Perché tutta quest’attenzione degli USA per la


situazione ucraina? Perché arrivare a sostenere
apertamente dei movimenti che nascono tra le
proprie fila degli estremisti?
L’Ucraina è stata a lungo al centro
dell’ingerenza occidentale nell’ambito di un
grande gioco geostrategico volto a contrastare la
Russia, l’unica potenza che si oppone
ideologicamente e attivamente all’imperialismo
americano. Con le sue risorse e l’accesso al Mar
Nero, l’Ucraina gioca un ruolo di primaria
importanza per gli equilibri globali. È una pedina
fondamentale anche per le sue risorse minerarie,
per il passaggio nel suo territorio dei gasdotti e per
la posizione geopolitica da cui dipende la
sicurezza russa, in quanto, «insieme alla
Bielorussia, costituisce l’intercapedine strategica
che separa a occidente la Russia dal sempre più
minaccioso schieramento dei Paesi NATO»28.
Brzezinski – strenuo difensore della strategia
di accerchiamento della Russia e della guerra
fredda permanente – nel 1994 spiegava che «non
può essere sottolineato abbastanza fortemente che,
senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un
impero, ma con l’Ucraina resa subalterna, e quindi
subordinata, la Russia diventa automaticamente un
impero»; e ancora, nel 1997, ne La Grande
Scacchiera, che «la Russia senza l’Ucraina […]
diverrà un impero sostanzialmente asiatico,
probabilmente trascinato in conflitti usuranti con
le nazioni dell’Asia centrale»29.
Con l’Ucraina, cioè, i potentati angloamericani
sperano di indebolire il nemico russo. In
quest’ottica si comprende come la
destabilizzazione dei Paesi filorussi o delle nazioni
confinanti rientri in una strategia di contenimento
di Mosca affinché non torni a essere una
superpotenza in grado di schiacciare le velleità
imperiali degli Stati Uniti: quel diritto a espandersi
e a esportare la democrazia che è divenuto il
marchio di fabbrica della Casa Bianca.
Washington aveva già chiarito pubblicamente,
tramite l’allora segretario di Stato Hillary Clinton,
che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere
per respingere gli sforzi integrazionisti economici
della Russia, con l’obiettivo esplicito di
“rallentare” e “impedire” la cooperazione
economica tra l’Ucraina e la Russia.
IL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO
Quello che è avvenuto a Kiev è l’ennesimo cambio
di regime imposto con la forza e teleguidato da
Washington. La “primavera ucraina” del 2014 si è
presto trasformata, sul modello delle “primavere
arabe”, in una guerra civile, rischiando, con la
tutela americana, di scatenare un armageddon
nucleare. Lo scenario è simile e ricalca il nuovo
modello di una guerra sempre più psicologica e
mediatica, strategica, in cui si utilizzano, in una
prima fase, strumenti bellici raffinati per destituire
il vecchio ordine e sostituirlo con quello nuovo.
L’ideologia delle democrazie avanzate, come
osserva Eugenio Di Rienzo, conduce le nazioni in
lotta a utilizzare nuove strategie per «non
impegnarsi in conflitti convenzionali di lunga
durata, costosi in termini economici e di vite
umane»30, che sono però l’anticamera di
successive guerre di logoramento che prendono il
via da guerre civili causate dal disordine in cui
precipita il Paese nemico dopo aver sdoganato
rivoluzioni solo in apparenza pacifiche.
Anche qui si assiste alla riesumazione degli
«spiriti del passato»31: così l’ideologia del
movimento di Bandera è sfociata «nei gruppi di
estrema destra ultranazionalisti, xenofobi,
antisemiti sorti a Kiev e nelle regioni
occidentali»32. L’escalation militare sul territorio
neppure questa volta è “casuale”, come osserva Di
Rienzo:
«Si configura piuttosto come una mossa pianificata, fin dal
primo maggio [2014], da un documento ufficiale del Senato
americano, depositato da ventidue senatori repubblicani
neoconservatori capeggiati dal “super-falco” John Sidney
McCain, ex candidato alla Casa Bianca ora “ambasciatore
ombra” del dipartimento di Stato»33.

Con questo documento, il Russian Aggression


Prevention Act of 2014, i firmatari prevedevano
con lungimiranza «il rafforzamento del fianco est
della NATO (poi reso esecutivo nel vertice di
Newport), azioni di deterrenza contro “nuove
aggressioni russe in Europa”, la difesa
dell’Ucraina e di altri Stati europei ed
eurasiatici»34. Ancora una volta un documento o
piano bellico prevedeva, e anzi pianificava, la
strategia per accerchiare, abbattere o conquistare
una nazione straniera creando la situazione adatta
per rendere lecito un intervento che non sarebbe
stato necessario se non si fosse istigata quella
stessa nazione ad agire o addirittura a difendersi.
La storia si ripete. È in fondo questa la lezione
che ci viene dallo scoppio della terza guerra
punica, quando i Romani istigarono, tramite le
incursioni di Massinissa, Cartagine a reagire,
rompendo così la tregua per poterla a loro volta
attaccare.
IL MISTERO DEL VOLO MH17
In questo scenario si inserisce l’abbattimento del
Boeing malese, che ha scatenato una massiccia
campagna di diffamazione contro la Russia senza
però portare le decisive prove in merito a una
responsabilità delle truppe di Putin.
Il volo MH17 si è schiantato in Ucraina
orientale il 17 luglio; tutte le persone a bordo del
Boeing 777 (298 tra passeggeri e membri
dell’equipaggio) sono rimaste uccise. Le vittime
appartenevano a dieci diverse nazioni, mentre la
maggior parte dei passeggeri – 193 in totale – era
dei Paesi Bassi35. La tragedia ha assunto così i
connotati di una “Ustica ucraina” in cui
l’insabbiamento e la manipolazione prevalgono
sulla verità.
Come avviene di consueto con la propaganda
bellica, la stampa occidentale ha fatto ricorso
esclusivamente a foto e ad agenzie ucraine senza
prendere in considerazione le indagini e i dati
raccolti e divulgati, persino in una conferenza
stampa, da fonti russe.
In base a numerosi indizi oggettivi, il celebre
scrittore russo naturalizzato italiano Nicolai Lilin
si dice convinto, come molti altri ricercatori
filorussi, «che l’aereo malese non sia stato
abbattuto da un missile proveniente da terra, ma da
un altro aereo»36. Si pone, a questo punto,
l’ennesimo interrogativo: se così fosse, si sarebbe
trattato di un incidente poi strumentalizzato da
Kiev e dall’Occidente, oppure di una vera e
propria operazione sotto falsa bandiera?
La questione non è di poco conto.
Per giustificare la sua posizione, Lilin spiega
che nei numerosi documenti che è riuscito a
esaminare non ha trovato segni di missili Buk o di
sistemi terra-aria; «al contrario», spiega,
«…erano chiari i segni da mitragliamento e da pallottole.
Considerando che gli aerei russi non potevano volare sui
cieli ucraini, che i ribelli non avevano un’aviazione e che
tutto è avvenuto nello spazio ucraino, le conclusioni le
lascio a chi legge. Ciò che però più conta è che i nostri
media hanno da subito dato la colpa alla Federazione
russa»37.

Eppure il 21 luglio la Russia ha presentato, in


una conferenza stampa tenuta da due funzionari di
alto livello dell’esercito russo, il capo di Stato
maggiore Andrey Kartopolov e il comandante
dell’Aeronautica Igor Makushev, una corposa serie
di risultati di osservazioni radar e immagini
satellitari a supporto dell’estraneità del Cremlino
all’abbattimento del Boeing. Massimo Zucchetti
ha riportato in sintesi due nuovi fattori contenuti
nel faldone delle indagini:
«1) L’esercito ucraino aveva tre o quattro battaglioni di
difesa aerea dotati di sistemi Buk-M1 SAM schierati in
prossimità di Donetsk il giorno dell’incidente. Questi
missili erano in grado di colpire l’aereo civile. Altri
missili terra-aria non ne avevano la possibilità, data
l’altezza e la posizione dell’aereo. Le ricostruzioni
americane basate sul trasferimento di missili terra-aria
russi in territorio ucraino sono frutto di una video-
bufala.
2) C’era un caccia dell’esercito ucraino a 3 km dal Boeing
al momento dell’abbattimento, nel video della torre di
controllo. Questo caccia – modello Su-25 – lo si vede
muoversi verso l’alto verso il Boeing-777. La distanza
tra i velivoli era di 3-5 km. Il Su-25 è armato con missili
aria-aria R-60, in grado di agganciare un bersaglio a una
distanza di 12 km e di distruggerlo definitivamente a
una distanza di 5 km. I russi chiedono: qual era la
missione del velivolo da combattimento che si trovava
su rotte civili?»38.

I russi hanno così smontato le affermazioni di


Kiev dimostrando che la responsabilità di quanto
accaduto non sarebbe da attribuire alle milizie
filorusse dell’Ucraina orientale, bensì a una
precisa azione militare dell’esercito ucraino, e
hanno rivolto dieci domande agli ucraini e ai loro
alleati occidentali e statunitensi. Domande che
attendono risposta, pubblicate da «Russia Today»
e riproposte da Zucchetti su ilmanifesto.it39.
IL NUOVO MEDIO ORIENTE
Perché nessuno si è posto quest’altra domanda: chi
finanzia e coordina la rivoluzione nel centro di
Kiev, dove sono arrivati ultrà polacchi, giovani
bielorussi e i sempre eterni veterani serbi di
Otpor!?
I movimenti giovanili ucraini, e più in generale
quelli del Medio Oriente, hanno ricevuto ingenti
finanziamenti, secondo un metodo che si ripete in
modo costante e che vede l’adozione, da parte dei
leader, delle proteste con tecniche non violente
ispirate alle opere di Gene Sharp, autore del
manuale di liberazione non violenta Come
abbattere un regime,
«…che insegnano a screditare il potere, a spingere i cittadini
all’azione civica e alla resistenza pacifica»40.

Si tratta delle tecniche insegnate da Sharp


utilizzate nelle “Rivoluzioni colorate”, nella
“Primavera araba” e, in ultimo, in Ucraina.
Il giornalista Alfredo Macchi, che nel 2011 ha
seguito in prima linea le rivoluzioni in Tunisia, in
Egitto e in Libia, ha documentato nel suo
Rivoluzioni S.p.A. la regia occulta, il
finanziamento e l’addestramento di Washington:
«Negli ultimi trent’anni a Washington è cresciuta una rete
capillare di organizzazioni governative e non governative,
società ed enti, che costituiscono una vera e propria
diplomazia parallela, e in buona parte privata, che il
dipartimento di Stato e la CIA utilizzano per portare a buon
fine i propri piani strategici senza comparirvi
ufficialmente»41.

In particolare, Macchi dimostra, documenti


alla mano, che
«… diverse fondazioni e organizzazioni private a
Washington, a Belgrado e a Doha hanno offerto assistenza
agli attivisti. Alcuni di loro sono stati addestrati da
associazioni dietro le quali si possono intravedere la CIA o
altri servizi segreti»42.

Con questa strategia – simile a quella utilizzata


dalle organizzazioni legate a Stay Behind – il
governo americano avrebbe manipolato le
insurrezioni degli ultimi decenni, cambiando gli
equilibri geopolitici in base agli interessi di
Washington, tanto che nel 2008 Condoleeza Rice
coniò il termine “Nuovo Medio Oriente” per
indicare l’ultimo tassello per la costituzione
dell’NWO: una regione che avrebbe dovuto
assumere i connotati richiesti dai poteri occulti, in
modo da ridisegnare un’area di importanza
strategica, in vista dell’accerchiamento della
Russia, sacrificando i vecchi alleati; ma soprattutto
una regione aperta in maniera compatta al libero
mercato e alla globalizzazione.
Macchi, presente dal principio delle sommosse
egiziane, osserva che
«… i ragazzi del Cairo sono preparati e organizzati per la
battaglia; nulla sembra scelto a caso, dall’abbigliamento alle
scarpe. Molti hanno addirittura maschere antigas e
occhialetti da piscina per proteggersi dai lacrimogeni.
Alcuni in motorino si muovono avanti e indietro per
segnalare la posizione dei poliziotti. Quasi tutti hanno
macchine fotografiche e smartphone pronti a riprendere gli
abusi degli agenti»43.

Non a caso, a partire proprio dalla Tunisia, i


leader deposti credevano di essere protetti da
Washington e di godere, con esso, dell’appoggio
dei Paesi occidentali44.
Come fanno, invece, i manifestanti a essere
talmente “preparati” ed esperti di tecniche di
disobbedienza civile e di protesta non violenta da
riuscire a portare al crollo dei regimi in così poco
tempo?
I manifestanti sono entrati in possesso di
manuali di “tattica di guerriglia urbana”, con tanto
di figure e schemi in arabo e inglese. I capi dei
movimenti sono stati arruolati e addestrati in
America, e una volta tornati a casa hanno potuto
insegnare le tecniche di protesta civile atte a far
crollare i governi in maniera veloce ma “pacifica”,
ovvero senza l’uso della forza. Al centro di questa
rete di movimenti di protesta si pone il già citato
Otpor!45.
Queste tecniche sono state teorizzate da Srdja
Popovic e prima ancora dal politologo americano
Gene Sharp. Quest’ultimo è stato duramente
attaccato, nel 2007, dal defunto presidente
venezuelano Hugo Chavez e, nel 2008, dal regime
iraniano che in un video di propaganda l’ha
definito «un agente della CIA».
Sharp parte dal presupposto che «sia possibile
prevenire la tirannia e lottare con successo contro
le dittature senza ricorrere a colossali bagni di
sangue e sia possibile estirpare i regimi dittatoriali
in modo che dalle loro ceneri ne sorgano di
nuovi»46, ben sapendo che «la caduta di un regime
non sfocia nell’utopia. Piuttosto apre la strada a un
duro e faticoso lavoro per costruire relazioni
sociali, economiche e politiche, sradicare altre
forme di ingiustizia e oppressione»47. Da questa
speranza l’autore desume le azioni di ribellione
non violenta da intraprendere in vista di una
sommossa, che elenca come segue:
1) dileggio dei funzionari di regime;
2) marce, parate, cortei motorizzati;
3) boicottaggio da parte dei consumatori;
4) non collaborazione personale generalizzata;
5) ritiro totale dei depositi bancari;
6) disobbedienza civile contro leggi illegittime.
Sharp spiega che l’esperienza acquisita sul
campo dai ribelli permetterà alla protesta di
espandersi come un’epidemia e divampare su larga
scala48: com’è successo negli ultimi quindici anni
in cui abbiamo assistito alla nascita di Otpor! e
alla diffusione dello schema serbo fino alla
“Primavera araba”.
OTPOR!
Il libro nasce clandestino, ma si diffonde
velocemente su Internet in quasi trenta lingue. Nel
1993 esce in Thailandia e due anni dopo il regime
birmano cerca inutilmente di contrastarne la
diffusione: nel 2005 chiunque venga trovato in
possesso di una copia del libello viene arrestato e
condannato a sette anni di prigione.
Durante il governo di Milošević una copia
arriva anche a Belgrado. Viene tradotta in serbo e
adottata dal movimento locale di resistenza
Otpor!. Il movimento giovanile di Belgrado
diventerà poi, nel 2011, il punto di riferimento per
il gruppo di protesta egiziano. In entrambi i casi,
però, come spiega Macchi, troviamo dei
«finanziamenti milionari a questi gruppi
studenteschi che arrivano direttamente da
Washington e da società di consulenza che
insegnano agli aspiranti rivoluzionari di ogni
Paese attraverso veri e propri workshop».
Così Srdja Popovic, il fondatore di Otpor! e
poi dell’istituto CANVAS (Center for applied
nonviolent action and strategies) con sede a
Belgrado, spiega:
«Noi non insegniamo quando o perché fare la rivoluzione,
ma forniamo gli strumenti utili per organizzarla».

Costoro, infatti, insegnano agli aspiranti


attivisti
«…un modus operandi basato sulla non violenza, la guerra
psicologica e la manipolazione mediatica che possiamo
chiamare “metodo Canvas”».

Srdja Popovic e sua moglie, inoltre, sarebbero


stati dipendenti della Stratfor, la società di
intelligence privata del Texas. Secondo Carl
Gibson e Steve Horn, che hanno studiato le e-mail
della Stratfor svelate da Wikileaks e verificato i
fatti con le parti interessate, Popovic avrebbe
inviato alla Stratfor sia la propria rubrica che le
copie delle e-mail all’insaputa dei suoi
corrispondenti; così, l’azienda è stata in contatto,
ha spiato tutte le organizzazioni militanti ed
evitato, se necessario, che venissero preparate
operazioni contro le multinazionali loro clienti.
Popovic, inoltre, avrebbe lavorato come
consulente della società, sviluppando anche un
piano per rovesciare l’allora presidente del
Venezuela Hugo Chavez: come nel caso della
Rivoluzione bolscevica e prima ancora di quella
francese, dietro alle sommosse organizzate di
piazza troviamo una regia occulta che muove le
proteste come pedine per scopi ben diversi da
quelli civili di libertà e di uguaglianza.
Otpor! riceve anche cospicui finanziamenti
«…da benefattori negli Stati Uniti per centinaia di migliaia
di dollari, confermati da alcuni ex leader della formazione
serba. I soldi arrivano a Belgrado attraverso una rete
inestricabile di fondazioni e organizzazioni americane,
finanziate a loro volta dal governo di Washington […] Una
delle varie associazioni non governative coinvolte nel
sostegno all’opposizione serba in nome della “democrazia”
ha un nome evocativo, Freedom House, e dopo la caduta di
Miloševic’ assume due attivisti di “Otpor!”, Alexander
Maric e Stanko Lazendic, come consulenti per i movimenti
in Ucraina e Bielorussia»49.

Arriviamo così alle insurrezioni in Medio


Oriente del 2011 e, ancora, alle proteste degli
Indignados e di Occupy Wall Street, tra i quali si
infiltrano proprio gli attivisti di Otpor!; anche
questi ultimi due gruppi, infatti, hanno utilizzato in
maniera massiccia i social network per organizzare
le proteste e attirare il più vasto numero di
partecipanti.
Da notare, inoltre, che tra «le fondazioni e
organizzazioni americane finanziate a loro volta da
Washington» citate da Macchi, troviamo: la
Fondazione Adenauer, la United States Agency for
International Development e l’Open Society
Institute dell’onnipresente magnate mondialista
George Soros.
Lo scopo di questi ingenti finanziamenti, che
risalgono all’amministrazione Reagan,
«…è quello di diffondere una “democrazia aperta al libero
mercato” e creare una classe “amica” nei Paesi
strategicamente rilevanti. Se nei primi anni l’attenzione è
rivolta soprattutto al Sud America, nell’ultimo decennio
spazia ovunque. […] Nel 2010 hanno ricevuto milioni di
dollari molti dei Paesi che hanno visto nei mesi successivi
esplodere le proteste della Primavera araba»50.

Queste organizzazioni possono così operare


alla luce del sole anche nel finanziare i movimenti
di protesta contro i governi ostili a Washington, o
semplicemente ostili al libero mercato: in questo
modo gli USA non devono ricorrere ai
finanziamenti coperti della CIA, che possono
destare scandalo, come nel caso dei mujāhidīn in
Afghanistan o delle più recenti e imbarazzanti
ombre sulla “creazione” dell’ISIS.
La Freedom House riceve la maggior parte dei
suoi finanziamenti dal NED (National Endowment
for Democracy),
«… una società privata e senza scopo di lucro, una sorta di
cassa deposito con sede al 1025 F Street NW, Suite 800 di
Washington, con una dote annuale che attualmente sfiora i
cento milioni di dollari, da destinarsi al sostegno della
democrazia (americana) nel mondo».

L’operato occulto di queste organizzazioni


dimostra come la teoria che sta alla base della
dottrina della guerra preventiva non sia nata
esattamente con Bush e soprattutto non sia finita
con la sua amministrazione; anzi, con il governo
democratico di Obama, le tecniche per
promuovere la “democrazia” americana nel mondo
si sono semplicemente affinate: invece che sulla
forza, ora prediligono basarsi su finanziamenti,
pressioni e manipolazioni di massa.
FALSE FLAG SREBRENICA
Nel 2015, a distanza di vent’anni dalla guerra nei
Balcani, il Tribunale penale de L’Aia ha sollevato
la Serbia dalle accuse avanzate dal governo di
Zagabria sulle tragedie avvenute nel 1991 a
Vukovar e in altre città51. Secondo il verdetto del
Tribunale Penale Internazionale per l’ex
Jugoslavia, la Serbia non commise genocidio nei
confronti della Croazia durante le guerre dei
Balcani52.
Circa 20.000 persone morirono nel conflitto
croato, dal 1991 al 1995, dopo che Zagabria aveva
dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia. Nel
1991 la città di Vukovar fu devastata dagli
occupanti serbi. Zagabria aveva dunque chiesto
alla Serbia un risarcimento per i danni «a persone
e cose, oltre che all’economia croata e
all’ambiente»53.
La sentenza, letta dal giudice Peter Tomka in
udienza pubblica, ha messo dunque fine a questa
contesa, che si trascinava ormai da decenni. Il
presidente della Corte Internazionale di Giustizia
ha spiegato che durante il conflitto sono stati
commessi molti crimini dalle forze di entrambi i
Paesi, ma né per la Serbia, né per la Croazia è
stato provato l’intento di commettere genocidio54.
Grazie alla confessione shock del politico
bosniaco Ibran Mustafić, veterano di guerra e
politico bosniaco-musulmano, è emersa anche
un’altra verità: almeno 1000 civili musulmano-
bosniaci di Srebrenica vennero trucidati dai loro
stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria
avrebbero dovuto proteggerli durante la fuga a
Tuzla del luglio 1995 in seguito all’occupazione
serba della città. Si è trattato, quindi,
dell’ennesimo caso di false flag. La loro sorte
sarebbe stata pianificata a tavolino dalle autorità
musulmano-bosniache, che stesero delle vere e
proprie liste di proscrizione di coloro a cui
«doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di
raggiungere la libertà»55.
Nicola Bizzi, diretto testimone dei principali
eventi che hanno segnato la storia del conflitto
civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso
successivi, scrive che il conflitto
«…sarebbe potuto terminare “naturalmente” manu militari
nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le
pressioni e le intromissioni della sedicente “Comunità
Internazionale”, delle Nazioni Unite e di molteplici altre
organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo
Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione europea
e criminalità organizzata italiana e sudamericana). Sono
state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti
contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il
conflitto per anni, con la continua richiesta, dall’alto, di
tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di
ridisegnare la cartina geografica dell’area sulla base delle
convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale
del territorio»56.
CAOS PIANIFICATO
Le rivelazioni di Ibran Mustafić hanno alzato
l’ennesimo sipario sulla tecnica del false flag
anche nei Balcani, come spiega ancora Bizzi:
«Fino a oggi la più nota “false flag” della guerra civile
jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di
Sarajevo, quella che determinò l’intervento della NATO,
che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni
serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato
con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-
bosniaco di Alija Izetbegović a uccidere decine di suoi
cittadini in quel cannoneggiamento per far ricadere poi la
colpa sui serbi.
E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale “false
flag” del conflitto, ovvero il massacro di oltre 1000 civili
musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato
l’esercito serbo-bosniaco comandato dal generale Ratko
Mladić, che da allora venne accusato di “crimini di guerra”
e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja fino
al suo arresto, avvenuto il 26 maggio 2011, si sta finalmente
rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto,
di “false flag”»57.

Mustafić è un ex deputato del Partito


dell’azione democratica (SDA, guidato dal signore
della guerra musulmano-bosniaco Alija
Izetbegovic) al Parlamento della Bosnia-
Erzegovina – costituito dopo le elezioni del 1990 e
poco prima dell’inizio della guerra civile – ed ex
presidente del Comitato esecutivo dell’Assemblea
comunale di Srebrenica. All’inizio della guerra
civile bosniaca si scontrò con la “giunta di Naser
Oric”, suscitando una serie di tentativi per
assassinarlo58. Gli assalti musulmano-bosniaci
contro Mustafić divennero più frequenti dopo la
pubblicazione del libro Caos pianificato, nel quale
vennero descritti per la prima volta alcuni dei
crimini commessi dai soldati dell’esercito
musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i
Serbi, così come il continuo illegale rifornimento
occidentale di armi ai separatisti musulmano-
bosniaci, prima e durante la guerra, e anche
durante il periodo in cui Srebrenica era una zona
smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni
Unite. L’equipaggiamento militare, nonostante la
risoluzione ONU che vietava i sorvoli della
Bosnia-Erzegovina, veniva consegnato con gli
elicotteri59.
Mustafić descrive anche gli scontri interni tra
musulmani bosniaci a Srebrenica, dominata dalla
mafia del “macellaio” Naser Oric. A causa delle
torture inflitte a comuni cittadini, nel 1994,
quando Orić e le autorità locali vendevano gli aiuti
umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli
alla popolazione, molti bosniaci fuggirono
volontariamente dalla città. Svela Mustafić:
«Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia sono
riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro
che sono fuggiti in direzione di Tuzla (governata
dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi»60.

L’aspetto più inquietante delle rivelazioni di


Mustafić è
«…l’ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato
concordato tra la Comunità internazionale e Alija
Izetbegović, e in particolare tra Izetbegović e il presidente
USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui serbi, come
Ibran Mustafić afferma con totale convinzione»61.

LA GUERRA DI “QUARTA GENERAZIONE”


IN KOSOVO
Secondo Paolo Sensini, nella Repubblica Federale
Jugoslava (cioè Serbia e Montenegro) di
Miloševic’ sarebbe stato adottato inizialmente il
modello di guerra di “quarta generazione”, poi
abilmente “esportato” anche in Libia e in seguito
in Siria. Osserva Sensini:
«In una guerra di questo tipo il confronto militare non è
diretto, almeno nella fase iniziale, e il grosso delle
operazioni è svolto invece da una massiccia attività di
guerra psicologica che si realizza con un diretto attacco alle
menti dei membri del fronte nemico, soprattutto ai danni dei
suoi leader. […] Combinando in maniera sapiente l’uso dei
“mezzi di informazione” e l’invio di armamenti “ribelli”, si
cerca di ottenere l’effetto voluto»62.
In questo senso, il saggio Massoneria e sette
segrete63 di Epiphanius offre una documentata
interpretazione alternativa alla guerra nei Balcani:
«È ad esempio interessante rilevare come nella guerra del
Kosovo si sia fatto ampio ricorso all’impiego della tecnica
televisiva di eliminazione di ogni piano generale a favore
della polarizzazione ripetitiva su un piano particolare, in
modo da massimizzare l’importanza di quest’ultimo e
indurre nello spettatore la sostituzione dei due piani. La ben
collaudata teleguidabilità delle reazioni delle folle ha fatto
seguire, nella fattispecie, una mobilitazione massiccia di
sostegno ai kosovari, mentre tragedie di dimensioni ben
maggiori, come il Sudan o il Rwanda, rientravano, quasi
inosservate, nel rumore di fondo»64.

Su questo punto concorda addirittura


Brzezinski, il quale, a proposito della politica
estera dell’amministrazione Clinton, ha notato che
«… il contrasto tra il coinvolgimento statunitense in
Iugoslavia e la reticenza in Africa non passò inosservato.
L’impressione di indifferenza da parte dell’America per
l’Africa venne aggravata dalla prolungata passività di fronte
al genocidio che devastò il Rwanda dal 1994 al 1995. La
comunità internazionale di fatto rimase a guardare. […] Per
contro, Clinton reagì con grande risolutezza ed efficienza
alla crisi nei Balcani, questione che nella fase iniziale
ereditò da Bush»65.

La strategia di Washington nei Balcani


complicò i rapporti con la Russia, già aggravati
dall’espansione della NATO. Nel 2004, quando
Clinton fu costretto a lasciare la presidenza, il
comando delle forze NATO in Bosnia passò dagli
Stati Uniti all’Europa, a riprova che
«… la decisione di Clinton di inviare le truppe in Bosnia,
compiuta a dispetto della risoluzione del Congresso a
maggioranza repubblicana, e poi di usare la forza per
costringere la Serbia a ritirarsi, fu un elemento critico per la
stabilizzazione dell’ex Iugoslavia»66.

Ne convenne, a quindici anni di distanza,


anche Massimo D’Alema, che in un’intervista
rilasciata a «Il Riformista»67 ammise che il
bombardamento di Belgrado era stato un errore,
così come l’intera campagna di mancata
negoziazione con la Serbia:
«Fu un eccidio indiscriminato di civili, ma al tempo stesso
ci parve la soluzione migliore per far cessare la repressione
antialbanese in Kosovo»68.

L’intervento fu infatti giustificato con le


presunte operazioni di pulizia etnica compiute
dall’esercito jugoslavo contro i musulmani in
Croazia, in Bosnia ed Erzegovina e in Kosovo.
Fu proprio l’Esercito di liberazione del Kosovo
(ELK o UCK, sigla del nome albanese Ushtria
Çlirimtare e Kosovës) a ricoprire un ruolo di
primo piano nella guerra. L’UCK era una struttura
terroristica, notoriamente legata al terrorismo
internazionale e al crimine organizzato albanese, e
finanziava le proprie operazioni con i proventi
derivanti dal traffico internazionale di droga dalla
Turchia all’Europa attraverso i Balcani.
In un’intervista rilasciata nel 1999 al
quotidiano britannico «Sunday Times» il capo dei
servizi segreti albanesi Fatos Klosi69 rivelò che
l’UCK godeva di una rete di appoggio, organizzata
in Albania da Osama bin Laden.
I legami con al-Qaeda e altre organizzazioni
terroristiche islamiche sono riemersi
successivamente agli attentanti dell’11 settembre.
Eppure, nel 1998, in vista degli accordi di
Rambouillet (votati al fallimento) che si tennero
presso l’omonima località francese, per permettere
la partecipazione alle trattative di esponenti
politici del movimento, gli Stati Uniti, subito
seguiti dal Regno Unito, espunsero l’UCK dalla
propria lista delle organizzazioni terroristiche70.
Perché Londra e Washington arrivarono a
stringere pubblicamente degli accordi diplomatici
con una struttura paramilitare guerrigliera che si
sapeva essere terroristica?
Si deve tener conto del fatto che le cifre
astronomiche provenienti dal traffico di droga (in
Italia è stato chiaramente stabilito dalla giustizia
che l’UCK aveva legami con la mafia albanese ed
era implicato nella tratta di esseri umani e nel
traffico di armi e droga)71 sono parte essenziale
del sistema bancario e finanziario mondiale e che
il traffico illecito di narcotici ha rivestito un ruolo
centrale anche nella guerra in Afghanistan.
Un’inchiesta, coordinata da Dick Marty per il
Consiglio d’Europa e svoltasi tra il 2008 e il 2010,
ha identificato nel primo ministro kosovaro
Hashim Thaçi il vertice di una rete di traffico
internazionale di armi, droga e organi umani:
l’operato criminale avrebbe avuto inizio nel 1999
e sarebbe direttamente legato alle precedenti
attività dell’UCK.
Il procuratore svizzero nominato dalle Nazioni
Unite, Carla Del Ponte, ha riconosciuto come nel
1999 «almeno 300 persone fossero state rapite
dall’UCK per essere portate nella vicina Albania
dove sarebbero stati estratti loro gli organi»72 per
il mercato nero. La procedura dell’espianto
avveniva in una clinica in territorio albanese
vicino a Fushë-Krujë73. Quest’attività non si è
conclusa; al contrario, si è consolidata
continuando fino ai giorni nostri. Secondo Dick
Marty, la comunità internazionale avrebbe deciso
di chiudere un occhio sui crimini
dell’organizzazione paramilitare perché
evidentemente la priorità era la destituzione di
Milošević. Si è scelto di scendere a patti con
guerriglieri e terroristi invischiati nei peggiori
crimini (prostituzione, riduzione in schiavitù,
traffico di organi) legittimando il bombardamento
della NATO in Jugoslavia (Operazione Allied
Force) come “missione umanitaria”!
IL CLUB BILDERBERG DIETRO LA
GUERRA?
Per Daniel Estulin74, dietro l’intervento in Serbia e
la destituzione di Milošević vi sarebbe proprio
l’ombra del Club Bilderberg. Nel 1996 il Club
avrebbe deciso di liberarsi del suo ex “uomo”,
colui che secondo i piani originari «avrebbe
portato a termine le “riforme economiche”
richieste dal Fondo Monetario Internazionale
(FMI), dalla Banca mondiale e dall’Unione
europea»75, ma che poi aveva optato per
salvaguardare la sovranità del suo Paese. Racconta
Estulin:
«Il piano fu ideato durante la riunione a King City, una
piccola e ricca cittadina a una trentina di chilometri a nord
di Toronto, in Ontario, Canada. La guerra del Kosovo e la
successiva sconfitta del presidente jugoslavo furono le
conseguenze della strategia politica concordata nel corso
della conferenza segreta del Club Bilderberg. Il programma
era chiaro. Al momento opportuno avrebbero portato a
termine il loro piano risolvendo così i “problemi politici”
che sarebbero insorti con la sopravvivenza
dell’amministratore Milošević e dei suoi metodi socialisti,
in netto contrasto con quelli capitalistici dei bildeberghiani:
trasformare l’Europa in un “libero mercato”»76.

La progressiva demonizzazione della Serbia


sarebbe avvenuta tramite una guerra altrettanto
violenta, contraddistinta però da notizie false e
pilotate. Ad ammettere il ricorso a tecniche di
condizionamento psicologico, per orientare
l’opinione pubblica verso le direzioni “indicate”
dal governo americano, è stato lo stesso ex
direttore della Sezione affari pubblici della società
privata di informazione Ruder & Finn, il quale ha
spiegato che, una volta diffuse notizie negative sul
conto di qualcuno, anche se sfacciatamente false,
la smentita non sortisce quasi alcun effetto. Così,
per compattare l’opinione pubblica verso una
direzione, basta creare dei pregiudizi alimentando
l’emotività collettiva attraverso la diffusione di
notizie pilotate che facciano presa sul lato emotivo
delle persone perché, come ha ammesso James
Harff, «noi sappiamo perfettamente che la prima
affermazione è quella che conta. Le smentite non
hanno alcuna efficacia». Una volta innescato il
meccanismo di diffamazione verso qualcuno, la
smentita non serve a cancellare l’impressione
emotiva e il dubbio suscitati riguardo alla vittima
della denigrazione.
Tra le tecniche di plagio collettivo, una delle
più frequenti sarebbe quella di creare delle vere e
proprie cause umanitarie ad hoc, in modo da
screditare, da un lato, il “nemico” di turno e,
dall’altro, fare leva sui sentimenti della gente
ricorrendo a parole-chiave universali ad alto
contenuto emotivo, quali verità, libertà, giustizia,
democrazia, diritti dell’uomo, genocidio,
purificazione, fosse comuni ecc. Caricando questi
termini del significato voluto, si intende ottenere
come risultato il biasimo collettivo; ad esempio
nei riguardi di un leader, per legittimare così un
provvedimento altrimenti giudicabile cinico,
violento o esagerato, come un embargo piuttosto
che un vero e proprio conflitto bellico.
LA MISTERIOSA MORTE DI MILOŠEVIĆ
Per una beffa del destino, Milošević morì lo stesso
giorno in cui Agim Ceku, ex comandante
dell’ELK e suo acerrimo nemico, veniva eletto
primo ministro del Kosovo. Era l’11 marzo 2006 e
l’ex presidente serbo venne trovato morto nella
sua cella, apparentemente vittima di un attacco di
cuore. Appena tre giorni prima aveva scritto una
lettera al ministro degli Esteri russo per esprimere
il dubbio che lo stessero avvelenando in carcere e
chiedere che gli venisse concesso il permesso di
andare in Russia per ricevere cure mediche.
Nella lettera Milošević si lamentava anche
della somministrazione del Rifampicin; il 12
gennaio 2006, due mesi prima della morte, era
infatti scoppiato uno scandalo in quanto nelle sue
analisi del sangue era stata rilevata la presenza
dell’antibiotico Rifampicin, capace di
neutralizzare l’effetto dei farmaci che usava per la
pressione alta e la cardiopatia di cui soffriva.
Neppure il referto positivo al Rifampicin portò a
un maggior controllo: Miloševic era stato scaricato
molto tempo prima e l’autopsia si rivelò una
palese copertura.
Nel giro di pochi giorni, inoltre, il Tribunale
avrebbe dovuto decidere sulla richiesta, avanzata
da Milošević, di un confronto in aula con l’ex
presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e con
Wesley Clark, il generale statunitense che nel 1999
aveva guidato l’intervento NATO contro la
Jugoslavia.
La morte di Milošević precedette di qualche
mese la data presumibile della conclusione del
processo a suo carico e mise in grave imbarazzo il
Tribunale, che il 14 marzo 2006 estinse
ufficialmente l’azione penale e chiuse senza una
sentenza il più importante processo per il quale era
stato istituito77.
Conclude Estulin:
«Stando alle mie fonti all’interno del KGB bielorusso, al
servizio di Stepan Sukhorenko […] il “tempismo” della
morte dell’ex presidente non fu altro che uno sfacciato
omicidio. L’ex leader serbo stava diventando un imbarazzo
per gli Stati Uniti e per le altre potenze che invano
cercavano di far condannare vecchi criminali di guerra, per
cui alla fine era scattato l’ordine di sbarazzarsi di lui»78.

OPERAZIONE HORSESHOE
Fino a quel momento le notizie erano infatti
viaggiate a senso unico. Dopo l’impeachment di
Clinton e il timone della NATO passato
all’Europa, con la morte di Milošević si metteva la
parola fine a un conflitto le cui modalità avrebbero
fatto scuola: a partire dalle famigerate “fosse
comuni”, che abbiamo ritrovato anche sul suolo
libico e che sono rispuntate in Siria. Non si è
infatti tenuto conto delle testimonianze che
provenivano dagli stessi comandanti ONU o ex
NATO e mostravano un’altra realtà, poi
testimoniata da Mustafić, ben diversa da quella
sbandierata dai media. Così non sono state prese in
considerazione le testimonianze dirette di
comandanti ONU della zona di Sarajevo, come il
generale britannico sir Michael Rose o il generale
MacKenzie, che sostennero «le pesantissime
responsabilità assunte dai miliziani musulmani
bosniaci nell’assassinio, mediante cecchini e
mortai, di centinaia dei loro compatrioti con
l’unico fine di farne ricadere la responsabilità sui
serbi». Una forma di sacrificio “necessario” per
legittimare la guerra.
Allo stesso modo,
«… il giudice trentino Giovanni Kessler, presente a Pristina
all’inizio dei bombardamenti in veste di
79
vicecapocommissione italiana OCSE in Kosovo, aveva
pubblicamente dichiarato che nessuna strage [e men che
meno genocidio; N.d.A.] era stata fino a quel momento
segnalata».

Una delle testimonianze realistiche più dure da


digerire è quella del generale tedesco Heinz
Loquai, ex capo dei consiglieri militari tedeschi
dell’OCSE di Vienna, che in un’intervista
pubblicata nel maggio del 2000 da «LiMes»
dichiarava quanto segue:
«Conosco bene i rapporti sulla situazione provenienti dagli
Esteri e dalla Difesa tedeschi: prima del 24 marzo 1999,
prima dell’inizio della guerra, non si fa mica cenno a pulizie
etniche di massa o a un genocidio in atto. […] La catastrofe
umanitaria è iniziata dopo gli attacchi aerei della NATO. E
le catastrofi umanitarie sono state due: prima quella degli
albanesi durante la guerra e poi quella dei serbi, cacciati dal
Kosovo dopo la fine della guerra. In breve: la NATO ha
impedito una catastrofe umanitaria fittizia provocando due
catastrofi umanitarie reali»80.
Persino lord Peter Carrington – ex segretario
NATO (1984-1988), noto esponente del
mondialismo, membro del Club Bilderberg,
affiliato a Pilgrims, Trilaterale e RIIA, uomo di
fiducia dei Rothschild e dei Rockefeller – ha
dovuto ammettere che «[…] gli attacchi aerei
NATO sulla Serbia hanno incoraggiato la pulizia
etnica nei Balcani, piuttosto che frenarla». Eppure,
tutte queste testimonianze sono state
semplicemente scartate a favore di una bufala
architettata da un giornalista serbo che ha assunto
la consistenza di una fonte autorevole.
Secondo il ricercatore geopolitico Alexandre
Del Valle, che ha raccolto gran parte delle
autorevoli testimonianze citate, dietro i conflitti in
Serbia e in Iraq vi sarebbe la cosiddetta “strategia
della cintura verde”, ovvero il tentativo di frenare
la crescita strategica della Russia, secondo uno
schema di accerchiamento dell’Eurasia e dei suoi
alleati, che ritroviamo teorizzato ne La Grande
Scacchiera di Brzezisnki. In questo senso, il
bombardamento della Serbia sarebbe servito a
Washington come “contenimento” dell’ex blocco
comunista-slavo-ortodosso in una vera e propria
guerra fredda sotterranea che si giocherebbe
ancora oggi tra la Casa Bianca e il Cremlino (e
Pechino) per il controllo delle “vie del petrolio”.
Pure la guerra in Cecenia rientrerebbe in questo
braccio di ferro81.
Anche Estulin ha documentato le
manipolazioni mediatiche in merito alla “pulizia
etnica”, dimostrando come l’eccidio di innocenti
non abbia riguardato solo i serbi:
«Durante il secondo conflitto globale i simpatizzanti croati
del regime nazista bruciarono intere cittadine serbe,
seppellendo vivi gli abitanti. Anche i partigiani serbi si
erano macchiati le mani di stupri e omicidi nei confronti dei
popoli croati e bosniaci. La guerra provoca massicci
spostamenti di popolazioni minacciate. E durante la guerra
nei Balcani molta gente imparò il significato della parola
terrore.
Questi spostamenti, però, non giustificavano di per sé
l’accordo per un intervento militare. La scusa fu l’apparente
scoperta di piani segreti e dettagliati, elaborati dal regime
Milošević nel 1998, per permettere all’esercito regolare
jugoslavo e ai gruppi paramilitari di portare a compimento
la pulizia etnica degli albano-kosovari. Secondo la NATO,
la guerra avrebbe potuto impedire quell’evenienza.
L’esercito tedesco fu il maggior promotore di tale
raggiro»82.

Il testo di questo piano “segreto” (“Operazione


Horseshoe”83) non fu mai controllato; il contenuto
venne giudicato “confidenziale” e in quanto tale
rimase un mistero fumoso, negato dagli ufficiali
dell’esercito jugoslavo e dallo stesso Milošević
che accusò il ministro della Difesa tedesco, Rudolf
Scharping, di aver “costruito” il dossier84.
Il generale di brigata in pensione Heinz Loquai
dichiarò, in un libro sul conflitto edito nel 2000,
che il piano era stato progettato a partire da
relazioni ordinarie dell’intelligence bulgara85.
Anche Loquai accusò Scharping di aver occultato
le origini dell’Operazione, trasformando una
relazione approssimativa, proveniente da Sofia, in
un piano vero e proprio. L’obiettivo dei militari
serbi sarebbe stato, invece, quello di distruggere
l’Esercito di liberazione del Kosovo e non di
espellere la popolazione albanese, come invece
sostenuto da Sharping e dalla NATO per
giustificare l’intervento bellico. Si sarebbe trattato,
anche in questo caso, di una colossale menzogna,
orchestrata dalla Germania per promuovere e
legittimare l’ennesima guerra di cui i
bildeberghiani avevano bisogno. Si torna quindi
alle analoghe campagne diffamatorie “esplose” nel
1990 e nel 2003 nei confronti di Saddam Hussein
e nel 2011 contro Gheddafi, che hanno portato in
breve tempo gli USA e l’Europa a entrare in
guerra rispettivamente contro l’Iraq e la Libia.
CAPITOLO 6

LA LIBIA NEL CAOS.


GHEDDAFI E IL
“TRATTAMENTO
MILOŠEVIĆ”
«Tutti i documenti sono stati distrutti o falsificati, tutti i libri
riscritti, tutti i quadri dipinti da capo, tutte le statue, le strade e
tutti gli edifici cambiati di nome, tutte le date alterate, e
questo processo è ancora in corso, giorno dopo giorno,
minuto dopo minuto. La storia si è fermata. Non esiste altro
che un eterno presente, nel quale il Partito ha sempre
ragione».
GEORGE ORWELL, 1984
«Il tiranno è un’invenzione, una creazione politico-letteraria.
Quando il suo potere si dimostra durevole, si deve
realisticamente riconoscere che il tiranno (termine impreciso
e iperbolico) è qualcuno che ha dalla sua un pezzo più o
meno grande, talvolta molto grande, della società».
LUCIANO CANFORA
«La storia si ripete».
TUCIDIDE
«Senza di me, i terroristi invaderanno il Mediterraneo».
MUHAMMAR GHEDDAFI

P ochi mesi prima della sua morte, in


un’intervista concessa a Laurent Valdiguié e
pubblicata su «Journal du Dimanche», Gheddafi
profetizzava, in caso di crollo del suo regime,
l’implosione della Libia e l’invasione dell’Europa
da parte dei migranti. Il Colonnello prevedeva
anche che sarebbe crollata la difesa posta contro il
terrorismo jihadista:
«La scelta è tra me e al-Qaeda. L’Europa tornerà ai tempi
del Barbarossa. Il regime qui in Libia va bene. È stabile.
Cerco di farmi capire: se si minaccia, se si cerca di
destabilizzare, si arriverà alla confusione. […] Migliaia di
persone invaderanno l’Europa dalla Libia. […] Sarà una
crisi mondiale, una catastrofe che dal Pakistan si estenderà
fino al Nord Africa. […] Il rischio che il terrorismo si
estenda su scala planetaria è evidente»1.

La condizione odierna di caos in cui è


precipitato il Paese dopo la destituzione e
uccisione di Gheddafi è nota. Al Colonnello, come
vedremo, venne applicato il cosiddetto
“trattamento Miloševic’”: di punto in bianco egli
divenne il nemico pubblico numero uno, un
tremendo dittatore sanguinario da eliminare a tutti
i costi. La Francia guidò l’operazione Protettore
unificato, presentata all’opinione pubblica
internazionale come l’ennesimo intervento
umanitario «a tutela del popolo libico massacrato
da Gheddafi» o, meglio, a sostegno dei ribelli di
Bengasi.
Venne inscenata l’ennesima campagna
mediatica volta a dimostrare come il popolo libico
fosse in pericolo, facendo persino ricorso alle
famigerate foto e sequenze di fosse comuni che
erano già state utilizzate per screditare Milošević e
far inorridire l’opinione pubblica. La TV
satellitare Al Arabyia denunciò via Twitter un
massacro, parlando di ben «10.000 morti e 55.000
feriti»2 con bombardamenti aerei su Tripoli e
Bengasi e fosse comuni.
Ovviamente l’opinione pubblica abboccò.
La notizia delle fosse comuni e dei
bombardamenti fece il giro del mondo, offrendo
così la principale giustificazione all’intervento
prima del Consiglio di Sicurezza e poi della
NATO. Venne invece taciuta la smentita della
notizia da parte della stessa Corte Penale
Internazionale3. Non esistevano infatti testimoni e
le foto erano dei clamorosi falsi, come
riconosciuto in Italia persino da «Famiglia
cristiana»4:
«Ci sono foto o video di questo massacro di migliaia di
persone in febbraio a Tripoli e nell’Est? No. I
bombardamenti dell’aviazione libica su tre quartieri di
Tripoli? Nessun testimone. Nessun segno di distruzione: i
satelliti militari russi che hanno monitorato la situazione fin
dall’inizio non hanno rilevato nulla
(http://rt.com/news/airstrikes-libya-russian-military/). E la
“fossa comune” in riva al mare? È il cimitero (con fosse
individuali!) di Sidi Hamed, dove lo scorso agosto si è
svolta una normale opera di spostamento dei resti
(http://www.youtube.com/watch?v=hPej4Ur_tz0). E le
stragi ordinate da Gheddafi nell’Est della Libia subito in
febbraio? Niente: possibile che sul posto nessuno avesse un
telefonino per fotografare e filmare?»5.

Si trattava della classica opera di


demonizzazione del nemico per giustificare un
intervento che, come vedremo, nascondeva ben
altri interessi che la tutela del popolo libico. I toni
si accentuarono come nella peggiore propaganda,
fino ad arrivare a diffondere notizie assurde e mai
dimostrate come il fatto che il governo libico
imbottisse i miliziani di Viagra per dar loro il via a
stupri di massa6.
LE RELAZIONI CON L’ITALIA
Gheddafi, nell’ultimo ventennio, ha rappresentato,
sotto il governo sia di centrosinistra che di
centrodestra, un partner importante per l’Italia,
fino al ribaltamento totale dei rapporti, che ha
visto il nostro Paese genuflettersi di fronte alla
campagna guidata da Sarkozy per defenestrare il
Colonnello. Prima di Berlusconi fu infatti il
centrosinistra a promuovere la “normalizzazione”
dei rapporti con la Libia. Il Colonnello portava
petrolio, gas, affari con le opere infrastrutturali da
costruire nel suo Paese e ingenti capitali che,
attraverso la finanziaria di famiglia o il fondo
sovrano libico, confluivano in Italia per acquisire
quote di Unicredit, Finmeccanica o Juventus,
com’era accaduto in passato con la FIAT. Bisogna
quindi capire perché l’ex alleato Gheddafi, accolto
nel lusso più sfrenato soprattutto dall’Italia e dalla
Francia, era diventato all’improvviso un nemico
da eliminare.
Come ha fatto notare Enrico Mentana, il
modello adottato contro Gheddafi è stato proprio
quello del cosiddetto
«…trattamento Milošević usato dodici anni fa precisi:
improvvisamente si decise che il presidente serbo era da
rimuovere, ed esplose l’emergenza Kosovo. Sto ancora
aspettando un resoconto reale delle fosse comuni, che
dovrebbero documentare la pulizia etnica di Milošević ai
danni dei kosovari. Intanto, però, con il beneplacito della
comunità internazionale, al vertice del nuovo Kosovo ci
sono trafficanti di armi e droga»7.

Stessa dinamica in Libia, dove la Banca


centrale pubblica è stata privatizzata dai ribelli, il
progetto del dinaro oro è stato abbandonato, le
risorse del suolo libico (petrolio, gas, acqua) sono
state ripartite “equamente” tra i Paesi invasori e il
governo è scivolato in un’instabilità dalla quale
fatica a risollevarsi.
GHEDDAFI FINANZIA SARKOZY
In Italia abbiamo fatto un gran parlare della
“personalizzazione” del rapporto tra Berlusconi e
Gheddafi, dimenticandoci dell’accoglienza
parigina: la tenda beduina personale di Gheddafi
installata nel giardino dell’Hotel de Marigny, la
residenza degli ospiti d’onore dell’Eliseo, il
dispositivo di sicurezza eccezionale, la visita
privata a Versailles, la battuta di caccia. I
giornalisti hanno sorvolato sull’accordo da dieci
miliardi di euro stipulato per la «cooperazione nel
settore dell’energia nucleare ad uso civile»8 e
soprattutto per i «negoziati esclusivi con la Francia
per l’acquisto di equipaggiamento militare»9.
Traduzione: a parte la «fornitura di uno o più
reattori nucleari […] per il sostegno alle attività di
prosperazione e sfruttamento dei giacimenti di
uranio»10, la Libia ha acquistato dalla Francia 14
caccia Rafale e 35 elicotteri da combattimento
francesi per un valore di 5,4 miliardi di euro; per
non parlare dell’acquisto di 21 aerei di linea della
Airbus per altri 3,2 miliardi di euro.
La Francia, primo Paese occidentale ad
accogliere il leader libico, ha onorato l’evento con
alcuni ricevimenti ufficiali e ben due incontri a tu
per tu con Sarkozy, all’epoca deciso a diventare il
«principale sponsor del ritorno della Libia nel
novero dei Paesi frequentabili e a far approfittare
le imprese francesi dei rapporti privilegiati
instaurati con Tripoli»11.
Poco dopo, il totale ribaltamento dei rapporti.
Diversamente da quanto raccontato dai media,
le motivazioni che hanno condotto a dichiarare
guerra alla Libia sono state prettamente
“economiche” e sono intuibili dalle stesse
dichiarazioni dei promotori del conflitto: Sarkozy
in prima linea e Obama nascosto nell’ombra (per il
presidente americano il conflitto libico non era
tecnicamente un’azione ostile, in quanto
Washington non aveva le truppe sul territorio
libico)12.
Sarkozy è stato colui che più ha spinto per
l’intervento militare, fino ad abbandonarsi anche a
dichiarazioni esplicite, come quella di aver
finanziato e armato i ribelli di Bengasi:
«Siamo noi ad aver creato il Consiglio dei ribelli, e senza il
nostro sostegno, il nostro denaro e le nostre armi, il
Consiglio non esisterebbe»13.

A ciò si aggiunge lo scoop di Mediapart14, che


il 12 marzo 2012 rendeva pubblica la notizia di un
presunto finanziamento in nero di Gheddafi di
cinquanta milioni di euro alla prima campagna
presidenziale di Sarkozy15, fondi trasferiti su un
conto svizzero e un conto panamense grazie alla
mediazione di un trafficante di armi, Ziad
Takiedine.
Le indagini sui presunti finanziamenti sono
state “rispolverate” nel 2015, quando è stato
fermato Claude Guéant, uno dei più stretti
collaboratori dell’ex presidente Nicolas Sarkozy e
uomo di peso del precedente governo16. L’uomo è
stato interrogato, in particolare, su una somma di
oltre 500.000 euro versata nel marzo del 2008 sul
suo conto corrente bancario e proveniente
dall’estero17.
La Francia prima ha armato Gheddafi e poi
l’ha scaricato. Perché?
Franco Bechis ha fatto notare come l’accordo
preliminare con l’Eliseo, contenuto in quel
pacchetto del 2007, sia stato reso carta straccia
dallo stesso Gheddafi, che «di volta in volta ha
sostituito le imprese francesi con quelle russe o
quelle italiane, facendo schiumare di rabbia
Sarkozy»18.
Così Sarkò sarebbe passato alla
19
controffensiva , facendo in modo che Gheddafi
venisse dipinto come un tiranno orribile e
sanguinario; immagine, questa, presto condivisa
da Washington e dagli altri Paesi alleati. Come per
la Serbia, i media hanno iniziato a diffondere
notizie sulle stragi dei ribelli e su ipotetiche fosse
comuni, e la stessa cosa sarebbe poi accaduta due
anni dopo con la Siria. L’appello ai diritti umani fa
sempre presa sulla cittadinanza “globale”, anche
quando sembra focalizzarsi con un mirino di
precisione sui Paesi che si vogliono rivoluzionare.
LE RISORSE DEL SUOLO LIBICO E IL
DINARO ORO
La potenzialità non sfruttata della Libia,
classificata come la nona regione al mondo con
quarantadue miliardi di barili di petrolio, sembra
essersi rivelata ben maggiore grazie a grosse
quantità di gas e di acqua, che inevitabilmente
facevano gola alla Gran Bretagna, alla Francia e
agli Stati Uniti. Le falde libiche sono infatti ricche
di acqua, un tesoro prezioso quanto o più del
petrolio e denominato per questo “oro blu”.
Sembra che i lavori per l’acquedotto sotterraneo
abbiano raccolto un bacino di acqua di circa
35.000 km cubi20: una risorsa grande quanto la
Germania!
Gheddafi aveva inoltre rifiutato la proposta di
costituire una Banca Unita africana e avviato una
gold standard, facendo ricorso all’uso di dinari
oro per emanciparsi così dalla Federal Reserve o
dalla BCE. Questo, proprio dopo che la Cina
aveva annunciato il conio dello Yuan d’oro21.
La banca pubblica di Gheddafi stampava
moneta e prestava denaro allo Stato senza interessi
per finanziare delle opere pubbliche, tra cui il
famoso fiume sotterraneo artificiale che utilizza le
acque fossili del Sahara per irrigare l’area agricola
del Nord della Libia.
Una banca pubblica, prestando denaro a
interesse zero riduce grandemente, fino al 50%, il
costo dei progetti pubblici di investimento. Stando
infatti ai dati dell’FMI, la Banca Centrale libica di
Gheddafi aveva nei suoi forzieri 144 tonnellate di
oro.
La politica adottata da Gheddafi (oltre alla
reintroduzione della sharja) era l’opposto di quella
del sistema occidentale e americano messa in atto
successivamente. Il mondo occidentale fa pagare
la maggior parte dei servizi – vedasi gli USA – e
inoltre ha privatizzato le banche centrali, che
pertanto fanno pagare gli interessi allo Stato cui
forniscono i fondi.
Per questo, a differenza degli altri Paesi
africani, la Libia sotto Gheddafi non era indebitata
con la Banca mondiale o con il FMI: Gheddafi
poteva dettare le regole, invece di subirle.
Gheddafi aveva inoltre proposto di creare una
moneta unica africana, il Dinaro oro, come valuta
dei Paesi aderenti all’Unione europea. La moneta
d’oro in sostituzione di quella cartacea. Una
moneta dal valore reale indicato dalla quantità di
oro, al contrario delle banconote legate invece a un
valore ipotetico.
LA ROVINA DEL DOLLARO E DELL’EURO
Il dinaro d’oro avrebbe rischiato di mettere al
bando e svalutare il dollaro americano e l’euro,
divenendo la moneta più apprezzata nel mondo
africano e arabo per gli scambi commerciali.
Come metalli preziosi con un valore intrinseco,
l’oro e l’argento sono necessariamente più
resistenti alle fluttuazioni del mercato e alla
svalutazione, in confronto al dollaro e all’euro22.
Tra i progetti del Colonnello c’era anche
quello di utilizzare la nuova valuta per i pagamenti
delle risorse energetiche, prime tra tutte quelle
rappresentate dal petrolio e dal gas naturale. In
questo modo il dinaro d’oro avrebbe impoverito
l’economia di quelle nazioni che ancora utilizzano
dollari ed euro negli scambi e avrebbe costretto gli
USA, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e gli
altri partner commerciali ad avere riserve di questa
nuova moneta per potersi permettere le transazioni
commerciali con i Paesi dell’Unione Africana. In
sintesi, il dinaro d’oro avrebbe sovvertito il
signoraggio, basato su un criterio monetario
fasullo e in mano non più agli Stati ma a
superbanche sopranazionali e private; gli Stati
africani avrebbero infatti venduto il petrolio e le
altre risorse in dinari d’oro, spostando l’ago della
bilancia dell’economia mondiale, perché il valore
di una nazione sarebbe dipeso dall’oro conservato
nei propri forzieri e non dal numero delle
banconote scambiate. Ciò avrebbe costretto i Paesi
occidentali a dotarsi di una scorta di dinari d’oro,
mentre la Libia, con i suoi 3,3 milioni di abitanti,
ne possedeva 144 tonnellate. Il Regno Unito ne
aveva il doppio, ma con una popolazione dieci
volte superiore.
Anche il fondatore del «Daily Bell», Anthony
Wile, aveva posto l’accento sui rischi ai quali
andava incontro Gheddafi con questa rivoluzione
monetaria:
«Se Gheddafi avesse l’idea di riprezzare il petrolio o
qualsiasi altra cosa il Paese riesca a vendere sul mercato
globale e accettare qualsiasi altra divisa o addirittura
lanciare una moneta d’oro, una mossa del genere non
sarebbe certo ben accetta dall’élite al potere, che è
responsabile del controllo delle banche centrali mondiali».

Wile concludeva la sua disamina con una


profezia che sembra essersi avverata: «Sì, sarebbe
certamente un qualcosa che potrebbe provocare
una sua [di Gheddafi; N.d.A.] immediata
deposizione e la ricerca di altre ragioni che
possano giustificare la sua rimozione dal potere».
E le ragioni sono state trovate proprio grazie ai
venti che spiravano con la “Primavera araba”.
Venti, come abbiamo visto, sobillati da agenti CIA
già presenti sul territorio mesi prima delle
sommosse.
VERSO UNO STATO AFRICANO UNICO
Gheddafi si era spinto così oltre da proporre la
creazione di uno Stato Africano Unito23. Il
progetto, che avrebbe affiancato e inglobato il
dinaro oro, venne ovviamente osteggiato dalle
lobby politico-economiche. Spiega Sensini:
«Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici
nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati
dall’Unione Africana: la Banca africana di investimento con
sede a Sirte (Libia); il Fondo Monetario Africano (FMA),
con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca Centrale africana,
con sede ad Abuja (Nigeria). […] La creazione del nuovo
organismo è (o era) ritenuta una tappa cruciale verso
l’autonomia monetaria e finanziaria del continente. […] il
principale compito dell’FMA è promuovere gli scambi
commerciali creando il mercato comune africano. Un passo
necessario alla stabilità finanziaria e al progresso
dell’economia del continente che potrebbe decretare la fine
del franco CFA, la moneta che sono costretti a usare
quattordici Paesi ex colonie francesi»24.

In Europa si alzò il grido di allarme proprio


tramite Sarkozy, che aveva dichiarato: «I libici
hanno attaccato la sicurezza finanziaria del genere
umano»25, anche se forse l’ex presidente francese
non aveva ben chiara la distinzione tra lobbisti e
genere umano.
LE ORIGINI EBRAICHE DI GHEDDAFI
Thierry Meyssan ha proposto un’altra
interpretazione, sostenendo che il Colonnello
avesse intrapreso invece una sorta di “doppio
gioco”:
«Gheddafi è specialista da anni in un tortuoso doppio gioco.
[…] Ha sempre tenuto un discorso ultraestremista contro
l’imperialismo americano e il sionismo, ma spesso ha
servito i loro interessi, specialmente liquidando su loro
ordine alcuni dei loro principali oppositori. […] Non ha mai
intrapreso alcuna azione contro Israele e si è riconciliato con
Washington nel 2003».

Aisha, la figlia di Gheddafi esule ad Algeri


durante il conflitto del 2011, aveva confessato che
si sarebbe sentita sicura soltanto in Israele, in virtù
della “legge del ritorno” a cui si può appellare
chiunque possa dimostrare di essere figlio o nipote
di un ebreo. Questo perché, secondo il sito di
informazione francese, suo padre sarebbe stato in
realtà figlio di una ebrea.
A rilanciare questo sospetto era stata la rete
televisiva israeliana «Channel Two» che aveva
dichiarato: «Gheddafi non solo è di origine
ebraica, è ebreo per la legge giudaica!». A
riprova di ciò, «TV2» aveva intervistato due
israeliane nate in Libia, Gita Brown e sua nipote
Rachel Saada. Le due avevano raccontato quanto
segue sulle origini del Colonnello:
«La nonna di Gheddafi, una giudea sposata a un giudeo che
la maltrattava, scappò dal marito crudele e sposò uno shaik
musulmano. La bambina nata da quell’unione era la madre
di Gheddafi».

Secondo il Talmud, infatti, il figlio di madre


ebrea è ebreo a pieno titolo e in virtù della “Legge
del ritorno” Gheddafi avrebbe potuto chiedere
asilo a Israele, che sarebbe stato costretto ad
accoglierlo, e con lui i suoi figli.
Persino secondo «The Economist», la storia
riportata da Gita Brown troverebbe riscontro nei
ricordi di molti suoi concittadini. Seguendo
l’ipotesi di Meyssan, anche Maurizio Blondet ha
accettato come vera la notizia delle origini
ebraiche di Gheddafi.
Le sole guerre condotte da Gheddafi contro
l’imperialismo ebraico americano
«…sono guerre di parole, nel cui oltranzismo è certamente
imbattibile. Peccato che ogni sua altra iniziativa
apparentemente anti-israeliana sembri escogitata per
danneggiare i nemici di Sion. […] Fra gli atti compiuti dal
Colonnello per tornare agli onori del mondo, e ottenere la
fine dell’embargo, c’è stata l’assunzione di responsabilità –
prima sempre negata – per l’attentato dell’aereo della
PanAm precipitato a Lockerbie nel 1988. Gheddafi ammise
di essere il mandante della strage (270 morti) e accettò di
pagare dieci milioni di dollari per ogni vittima. Perché?»26.

A rispondere è il giornalista del «Corriere»


Antonio Ferrari, esperto di Medio Oriente: «È
come se [Gheddafi] si fosse assunto le colpe di
altri. E il giorno dopo è tornato a essere onorato,
abbracciato; anzi, qualcuno si è pure genuflesso
davanti a lui»; ancora: «Gheddafi ha sempre svolto
un ruolo di copertura»27.
Come nota Blondet, il giudizio di Ferrari
coincide singolarmente con quello di Meyssan: «Il
colonnello libico è un tortuoso doppiogiochista» e
avrebbe svolto un ruolo di «costante e sistematico
provocatore della politica internazionale per scopi
tutti da chiarire e che sollevano più di una
domanda»28.
Si spiegherebbe, in questo senso, anche il
cospicuo finanziamento in nero a un altro leader di
origini ebraiche: Nicolas Sarkozy.
GLI USA FINANZIANO L’IMMIGRAZIONE?
Tornando alle parole profetiche di Gheddafi, il
giornale austriaco «InfoDirekt» sostiene di aver
appreso da un rapporto interno dello
Österreichischen Abwehramts (i servizi di
intelligence militari di Vienna) che dietro la tratta
dei migranti africani che dalla Libia vengono
verso l’Europa vi sarebbe la regia degli Stati
Uniti29. I dati della tratta sarebbero noti alla
polizia austriaca, anche se i richiedenti asilo
politico risulterebbero restii a parlarne. Secondo
Maurizio Blondet, che ha riportato la notizia in
Italia,
«…da parte dei servizi “si è intuito che organizzazioni
provenienti dagli Stati Uniti hanno creato un modello di co-
finanziamento e contribuiscono a gran parte dei costi dei
trafficanti”. Sarebbero “le stesse organizzazioni che, con il
loro lavoro incendiario, hanno gettato nel caos l’Ucraina un
anno fa”. Chiara allusione alle “organizzazioni non
governative” americane, cosiddette “umanitarie” e per i
“diritti civili”, bracci del dipartimento di Stato o di Georges
Soros»30.

In un altro articolo31 il giornale austriaco rivela


che
«… anche in Austria c’è il “business dei profughi”. Una
“azienda per i richiedenti asilo” ha ottenuto dallo Stato
ventuno milioni per assisterli nelle pratiche e nutrirli. È una
vera e propria azienda a scopo di lucro con sede in Svizzera,
la ORS Service AG, ed è posseduta da una finanziaria, la
British Equistone Partners Europa (PEE), che fa capo alla
Barclays Bank, ossia alla potentissima multinazionale
finanziaria nota anche come “la corazzata Rothschild”, che
ha come principali azionisti la banca privata NM Rothschild
e la loro finanziaria satellite Lazard Brothers. Presidente di
Barclays è stato per anni il figlio Marcus Agius Rothschild.
Questi ha sposato la figlia di Edmund de Rothschild,
Katherine Juliette. Di conseguenza, ha il controllo anche
della British Broadcasting Corporation (BBC) ed è uno dei
tre amministratori del comitato direttivo del gruppo
Bilderberg»32.
Anche Thierry Meyssan ha ribadito la notizia,
perché avallerebbe una sua precedente tesi
secondo la quale l’ondata di rifugiati in Europa
non sarebbe «l’effetto collaterale accidentale dei
conflitti in Medio Oriente, ma un obiettivo
strategico degli Stati Uniti». Secondo Meyssan, gli
USA starebbero applicando la «“teoria del caos”
improntata alla filosofia di Leo Strauss»33.
Secondo questa teoria,
«… il modo più semplice per saccheggiare le risorse
naturali di un Paese sul lungo periodo non è occuparlo, ma
distruggere lo Stato. Senza Stato, nessun esercito. Senza
esercito nemico, nessun rischio di sconfitta. Da quel
momento l’obiettivo strategico delle forze armate USA e
dell’alleanza che esse guidano, la NATO, consiste
esclusivamente nel distruggere degli Stati. Ciò che accade
alle popolazioni coinvolte non è un problema di
Washington»34.

Il pericolo umanitario dell’immigrazione


servirebbe, in un prossimo futuro, come incentivo
per giustificare nuove operazioni militari in
Libia35. Secondo Meyssan, il caos non sarebbe una
conseguenza o un “accidente”, ma il vero
obiettivo, il risultato della campagna bellica volta
a destituire Gheddafi; il caos in cui è precipitato il
Paese servirebbe cioè come pretesto per ulteriori
interventi, che servirebbero a mantenerne il
controllo. Scrive:
«Il caos non si è creato perché i “rivoluzionari libici” non
hanno saputo accordarsi tra loro dopo la “caduta” di
Muammar Gheddafi: esso era l’obiettivo strategico degli
Stati Uniti. Ed è stato raggiunto. Non c’è mai stata una
“rivoluzione democratica” in Libia, ma una secessione della
Cirenaica»36.
CAPITOLO 7

INGANNARE IL MONDO.
DALL’UNDICI
SETTEMBRE A OGGI
«La guerra è pace».
GEORGE ORWELL, 1984
«Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è una grande crisi».
DAVID ROCKEFELLER, 1994
«Quanta verità può sopportare una società democratica?».
LEIF G.W. PERSSON
«Più una bugia è grossa, più facilmente essa verrà creduta…
se l’opzione di non crederci è sufficientemente dolorosa».
ROBERTO QUAGLIA

UNA NUOVA PEARL HARBOR

C i sono fatti di cronaca talmente sconcertanti da


rimanere scolpiti nella mente e nel cuore delle
persone: l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy, il
rapimento di Aldo Moro, Hiroshima e Nagasaki,
l’attacco alle Torri gemelle.
E, prima ancora, Pearl Harbor. Il 7 dicembre
1941 entrò nella storia come “tragedia”. L’attacco
giapponese che distrusse la flotta statunitense nel
Pacifico scandalizzò a tal punto l’opinione
pubblica da offrire il pretesto per entrare in guerra.
Una guerra che fino a quel giorno il popolo
americano non voleva.
Nel 1997 Brzezinski profetizzava la necessità
di un evento altrettanto drammatico per
compattare il popolo americano contro una
minaccia esterna e assicurare il «primato
americano» sulla grande scacchiera della
geopolitica. Il consenso del popolo, spiegava
Brzezinski, è fondamentale «sulle questioni di
politica estera», pur sapendo che non è facilmente
ottenibile, in quanto gli Stati Uniti sono una
democrazia e tale forma di governo limita la sua
capacità di «intimidazione militare»;
quest’inconveniente può essere superato da una
minaccia esterna che mini il senso di benessere
collettivo. In un altro passaggio Brzezinski citava
come esempio proprio il dicembre del 1941,
momento in cui il popolo americano, prima restio
a entrare in guerra, sostenne l’impegno nella
seconda guerra mondiale in gran parte «a causa
dell’effetto scioccante dell’attacco giapponese di
Pearl Harbor». Gli americani si erano infatti
dimostrati non solo favorevoli, ma addirittura
ansiosi di partecipare alla seconda guerra mondiale
dopo tale attacco, che aveva provocato un vero e
proprio shock collettivo.
A distanza di tre anni dal saggio di Brzezinski,
il documento del Project for the New American
Century contiene, forse non a caso, un passaggio
analogo1. Il documento invita ad attuare una
«rivoluzione degli affari militari» per poter
instaurare una pax americana. Gli autori del testo
fanno notare come la trasformazione si prospetti
però lenta, «in assenza di un evento catastrofico e
catalizzatore, quale ad esempio una nuova Pearl
Harbor»2.
L’Undici settembre 2001 la storia si ripete
come “farsa”, offrendo la «minaccia esterna diretta
[…] percepita in modo generalizzato» e «un
evento catastrofico e catalizzatore», che diviene il
casus belli per trascinare nuovamente e con
rapidità gli Stati Uniti in guerra.
Tutti ricordano dov’erano e che cosa stavano
facendo quando sugli schermi dei televisori di
tutto il mondo comparvero le immagini dei due
Boeing che impattavano le Torri gemelle. Il Paese
più potente al mondo era prostrato sotto i colpi di
una vile aggressione-attacco. Una minaccia
esterna, un nemico estremamente potente si era
introdotto nel cuore dell’Occidente per sferrare
l’attacco colpendo i simboli dell’America.
Il trauma collettivo fu talmente forte da
coalizzare emotivamente l’opinione pubblica
internazionale contro i terroristi che si erano
macchiati di tale atrocità.
LA DOTTRINA DELLA GUERRA
“PREVENTIVA”
Gli attacchi dell’Undici settembre sono stati
spesso – per vari motivi – paragonati a Pearl
Harbor. Il confronto venne proposto subito dalla
Casa Bianca. La «CBS News» riportò che il
presidente Bush, quella fatidica sera, prima di
coricarsi annotò sul suo diario: «Oggi abbiamo
assistito alla Pearl Harbor del ventunesimo
secolo»3. Subito dopo il discorso che Bush tenne
dinanzi la nazione, anche Kissinger intervenne con
un articolo in cui auspicava un intervento rapido,
una missione, per «dare una risposta sistematica
che condurrà, si spera, allo stesso risultato di
quella che seguì l’attacco di Pearl Harbor: la
distruzione del sistema responsabile di
quell’attacco»4. Seguirono editoriali, articoli e
servizi, in cui persino i giornalisti esortavano, a
vario titolo, il popolo americano a reagire.
La “nuova Pearl Harbor” fornì di fatto
all’amministrazione Bush il pretesto per dichiarare
guerra all’Afghanistan e per inviare in seguito, nel
2003, una seconda coalizione in Iraq e rovesciare
il regime di Saddam, ufficialmente a causa della
presenza di armi di distruzione di massa che, come
la storia ha confermato, non esistevano affatto.
I piani di invasione erano però già pronti dal
2000 e l’attacco al World Trade Center venne
semplicemente considerato “un’occasione”, come
ammisero senza giri di parole Bush, Cheney, Rice
e Rumsfeld. Quest’ultimo disse che l’Undici
settembre aveva creato «il genere di opportunità
offerta dalla seconda guerra mondiale per
rimodernare la guerra». Bush e Rice parlarono
apertamente dell’Undici settembre in termini di
opportunità5. L’occasione permetteva di
incrementare le spese belliche e di testare quella
che sarebbe poi divenuta celebre come “la dottrina
della guerra preventiva”. Bush avrebbe alluso alla
nuova teoria nel giugno del 2002, quando, a
margine della consegna dei diplomi a West Point,
affermò: «La sicurezza dell’America ha bisogno
che tutti gli americani […] siano pronti ad agire
preventivamente»6.
Eppure, quella che sarebbe poi diventata una
vera e propria “dottrina” della forza era già stata
anticipata nel Programma per la sicurezza
nazionale pubblicato nel settembre del 20027, che
si tramutò in breve nella politica estera ufficiale
adottata dagli USA. Tale programma, noto come
NSS 2002, sosteneva infatti la necessità di «agire
contro […] le minacce emergenti prima che
prendano piena forma»8 e spiegava la necessità del
ricorso all’azione9.
Alla luce degli intenti espressi dal documento,
non ci si deve meravigliare se nell’NSS 2002
troviamo sottolineato che
«gli eventi dell’undici settembre 2001 hanno cambiato
sostanzialmente il contesto delle relazioni tra gli Stati Uniti
e gli altri centri principali del potere globale, aprendo nuove
e vaste opportunità»10.

UN EVIDENTE CONFLITTO DI INTERESSI:


PHILIP ZELIKOW
Un altro celebre sostenitore della guerra
preventiva è Philip Zelikow, il quale si è occupato
nientemeno che della direzione esecutiva della
Commissione di indagini sull’Undici settembre.
Le posizioni dottrinarie di Zelikow aiutano a
comprendere meglio quella che da molti
ricercatori è stata giudicata come un’opera di
insabbiamento, da parte della Commissione, della
verità riguardo agli attentati.
Fu proprio Zelikow, su esplicito mandato di
Condoleeza Rice, a riscrivere il testo del
Programma per la sicurezza nazionale, in un
primo tempo redatto dal responsabile della
programmazione politica del dipartimento di Stato,
Richard Haas. Stando alla testimonianza di James
Maan, la Rice si aspettava infatti «qualcosa di più
audace»11 e quindi affidò al “suo vecchio collega”
Zelikow il compito di riscrivere completamente il
documento.
Come ha dimostrato David Ray Griffin, la
«vicinanza personale e ideologica di Zelikow con
la Casa Bianca di Bush-Cheney-Rice12» emerge,
ancora prima che nelle indagini della
Commissione sull’Undici settembre, in un saggio
sul “terrorismo catastrofico” di cui fu coautore nel
1998.
In questo saggio, pubblicato dunque tre anni
prima dell’attacco alle Torri gemelle, Zelikow e i
colleghi Ashton Carter e John Deutch scrivevano:
«Se il dispositivo che esplose nel 1993 sotto il World Trade
Center fosse stato un ordigno nucleare, o avesse realmente
diffuso un virus letale, l’orrore e il caos che ne sarebbero
derivati avrebbero trasceso la nostra capacità di descrizione.
Un tale atto di terrorismo catastrofico avrebbe rappresentato
uno spartiacque nella storia americana. Avrebbe comportato
perdite di vite umane e danni alle cose senza precedenti in
tempo di pace e avrebbe minato il fondamentale senso di
sicurezza degli Stati Uniti, come accadde con i test nucleari
sovietici nel 1949. Come per Pearl Harbor, quest’evento
avrebbe diviso il passato e il futuro in un prima e un dopo.
Gli Stati Uniti avrebbero potuto rispondere con misure
draconiane, ridurre le libertà civili, inasprire le misure di
sorveglianza nei confronti dei cittadini, ricorrere alla
detenzione preventiva dei sospetti e utilizzare la violenza
fino in fondo»13.
Esattamente quello che è stato fatto da
Washington con l’introduzione del Patriot Act,
confermato poi nel 2011 da Obama14. In ogni
caso, le affermazioni di Zelikow avrebbero dovuto
sollevare dei dubbi più che motivati sulla sua
obiettività in quanto direttore della Commissione
sull’Undici settembre. Egli cita indirettamente La
Grande Scacchiera di Brzezisnki, prevedendo che
uno scenario simile a Pearl Harbor avrebbe potuto
consentire alla Casa Bianca di introdurre delle
restrizioni sulla privacy e, più in generale, delle
misure “draconiane” per inasprire la sorveglianza
dei cittadini e di tutti coloro che si apprestino a
entrare in territorio americano.
ANCORA BRZEZINSKI
Già nel 1997, come abbiamo visto, Brzezinski
aveva infatti capito che era necessario
impossessarsi delle risorse dell’Afghanistan e
dell’Iraq. Questo avrebbe però richiesto una
militarizzazione della politica estera e una
massiccia opera di propaganda, come spiega
ancora Nafeez M. Hamed, per ottenere un
«appoggio nazionale a questa campagna di
militarizzazione»15.
Brzezinski aveva anche previsto che la
progressiva integrazione multiculturale sul suolo
americano avrebbe reso sempre più difficile
compattare l’opinione pubblica contro un nemico
esterno «tranne che in presenza di una minaccia
nemica enorme, diretta, percepita a livello di
massa».
Sarà ancora Brzezisnki, infatti, nel 2007, a
osservare che
«gli eventi dell’Undici settembre rappresentarono
un’epifania per Bush [figlio]. Il nuovo presidente riemerse
trasformato dopo un solo giorno di isolamento. Da quel
momento in poi sarebbe stato il leader risoluto di una
nazione in guerra, che affrontava una minaccia al contempo
immediata e mortale, il comandante in capo dell’unica
superpotenza mondiale. L’America avrebbe agito per
proprio conto, senza alcun rispetto per il punto di vista degli
alleati. Scossa dal crimine e preoccupata per la propria
insicurezza, l’opinione pubblica si strinse intorno al
leader»16.

Su fonte della «CNN», fu proprio G.W. Bush a


fare pressioni – dopo un identico intervento di
Dick Cheney – affinché le indagini sull’Undici
settembre venissero limitate il più possibile17. La
motivazione addotta da Bush e Cheney, secondo
quanto dichiarato da Daschle, fu che «si sarebbero
così sottratti fondi e personale» alla guerra al
terrorismo. Nell’intento della Commissione di
indagine vi era infatti la mera constatazione che la
passività dell’amministrazione fosse stata una
conseguenza delle «carenze delle agenzie
federali», per attribuire così indirettamente la
colpa delle evidenti falle nell’apparato di sicurezza
in atto l’Undici settembre all’operato dell’FBI e
dell’Aeronautica.
A commentare questo tentativo di
manipolazione delle indagini fu Gore Vidal che,
nel settembre del 2002, si scagliò contro la junta
Bush-Cheney:
«Così, per ragioni che non conosceremo mai, queste
“carenze” devono fare da capro espiatorio. Che
probabilmente non si sia trattato di carenze, ma di ordini di
non reagire, non sta a noi investigare. Chiaramente, un
ritardo di un’ora e venti nell’inviare in cielo i caccia da
combattimento non può esser stato causato da una carenza
di tutta l’Aeronautica militare della costa est. Qualcuno
aveva dato l’ordine di bloccare e disattivare la procedura
operativa standard obbligatoria»18.

Questo sforzo di limitare, e addirittura


ostacolare, le indagini è anche uno dei motivi che
hanno spinto, nel decimo anniversario della
tragedia, la portavoce dei parenti delle vittime
dell’Undici settembre a denunciare
l’insabbiamento della verità da parte della Casa
Bianca.
CUI PRODEST?
A quindici anni di distanza da quella tragedia, il
mondo non ha ancora potuto sollevare il sipario
sulle vere ragioni che causarono la morte di
tremila innocenti; per questo il giornalista
investigativo Patrick Martin ha cercato di spostare
l’attenzione non tanto sulle modalità degli
attentati, quanto sul movente, adducendo il dubbio
che ha già sfiorato la maggior parte degli
americani, ovvero che i responsabili della tragedia
possano essere FBI, CIA, Casa Bianca e
Pentagono:
«Quando si indaga su un delitto, è necessario porsi la
domanda: “A chi giova?”. I principali beneficiari della
distruzione del World Trade Center sono qui, negli Stati
Uniti: l’amministrazione Bush, il Pentagono, la CIA e l’FBI,
l’industria delle armi, l’industria del petrolio. È ragionevole
chiedersi se coloro che hanno ricavato dei benefici di tale
portata dalla tragedia abbiano contribuito a farla
accadere»19.

Sotto accusa le “carenze” strutturali dei sistemi


che quel giorno, inspiegabilmente, non
funzionarono in maniera sistematica. L’assenza di
risposta aerea quando era ormai evidente che i voli
erano stati dirottati, ha spinto i ricercatori a
dubitare del fatto che si sia trattato soltanto di falle
del sistema; non si sarebbe trattato, cioè, di
“carenze”, ma di ordini a non procedere partiti
dall’alto. L’indagine dettagliata della cronologia
degli eventi di quell’11 settembre getta ombre
oscure sui veri responsabili dietro il fallimento
delle agenzie federali, del Pentagono e dei servizi
militari.
Per questo l’analista politico inglese Naafez
M. Ahmed, in una delle opere più complete e
documentate sui retroscena dell’Undici settembre,
nelle conclusioni finali osserva con lucidità e
amarezza:
«In base ai fatti documentati, la migliore spiegazione, a
parere di chi scrive, è quella che mette in risalto la
responsabilità dello Stato americano per quanto accaduto
l’11 settembre 2001. Un esame dettagliato dei fatti non
chiama in causa soltanto Kabul, ma anche Ryadh, Islamabad
e soprattutto Washington. Inoltre, secondo chi scrive, la
documentazione presentata in questo lavoro suggerisce con
forza, anche se non necessariamente in modo definitivo, che
componenti di primo piano del governo degli Stati Uniti,
delle Forze armate e delle Agenzie di intelligence sapessero
che ci sarebbero stati gli attacchi dell’Undici settembre e ne
siano stati, in vari modi, complici. Questa deduzione certo
non mi rallegra, ma è quella che meglio può spiegare i dati
disponibili»20.

Il depistaggio prima e dopo la tragedia da parte


dell’amministrazione Bush suffraga l’ipotesi di
Ahmed, che ricorda:
«Anche dopo l’Undici settembre l’amministrazione Bush ha
continuato a depistare le indagini e a bloccare le inchieste,
mentre l’FBI si concentrava in inutili sforzi in Germania
invece che nell’Arabia Saudita, dove, secondo l’ex
vicedirettore dell’FBI John O’ Neill, si trovavano le vere
radici della rete di bin Laden. In particolare, è documentato
come l’amministrazione Bush abbia reso impossibile ogni
indagine sulla complicità dell’ISI (i servizi segreti pakistani)
e gli attacchi dell’Undici settembre»21.

Naomi Klein, nel suo Shock Economy, ha


invece denunciato gli interessi privati che la
famiglia Bush e alcuni membri del suo team, come
Cheney e Rumsfeld, ebbero nell’invasione
irachena, insistendo dunque sul carattere
economico-imprenditoriale del piano di
espansione globale statunitense: il fine di costoro
sarebbe quello di “privatizzare il governo”,
insinuando le multinazionali, a cui fanno capo gli
stessi politici-imprenditori, nelle massime
operazioni intraprese dal governo stesso. Nel caso
dell’Undici settembre,
«l’amministrazione Bush usò fin da subito la paura generata
dagli attacchi non solo per lanciare la cosiddetta “Guerra al
terrore”, ma per assicurarsi che essa fosse un’impresa quasi
completamente volta al profitto, una nuova e fiorente
industria che avrebbe soffiato nuova vita nella stagnante
economia americana. Lo si comprende meglio se lo si
chiama “complesso del capitalismo dei disastri”: possiede
tentacoli molto più lunghi rispetto al complesso militare-
industriale contro cui Dwight Eisenhower aveva messo in
guardia alla fine della sua presidenza. Questa è una guerra
globale combattuta ad ogni livello da aziende private il cui
coinvolgimento è pagato con denaro pubblico, con un
mandato vitalizio per proteggere la patria americana in
eterno, eliminando il “male” oltreconfine, in ogni sua forma.
[…] Il fine ultimo delle grandi imprese al centro del
complesso è […] privatizzare il governo»22.

STORIA DEL WTC 7, L’EDIFICIO CHE NON


POTEVA CROLLARE23
Nel lungo elenco di anomalie, che ha spinto
giornalisti, fisici e ingegneri accreditati a dubitare
della versione ufficiale sull’Undici settembre, si
staglia il caso del crollo dell’edificio 7.
Il terzo grattacielo del World Trade Center non
è mai stato colpito dagli aerei che, secondo la
versione ufficiale, avrebbero causato il crollo delle
Torri gemelle. Eppure, franò su se stesso alla
velocità della caduta libera. Molte persone non lo
sanno o non se lo ricordano.
Come chiarisce l’ex ministro della Ricerca e
tecnologia tedesco Andreas von Bülow,
«il grattacielo crollò nel tardo pomeriggio dell’11/9, in sei
secondi. Nessun aereo precipitò su quest’edificio e non fu
neppure danneggiato in modo rilevante dai detriti che si
staccavano dalle torri. L’edificio era già stato sgomberato di
primo mattino per ordine dell’autorità. Il grattacielo crollò
nel tardo pomeriggio, dopo che anche i pompieri e i
soccorritori se n’erano andati»24.

Se nel caso delle due Torri, per ipotizzare una


demolizione controllata, si deve ricorrere alle
dichiarazioni di numerosi testimoni, che
raccontarono di aver udito rumore di esplosioni
all’interno degli edifici (e non si può ignorare la
testimonianza di fisici e ingegneri, i quali
sostengono che il solo impatto degli aerei non
avrebbe assolutamente potuto polverizzare le travi
di acciaio costruite proprio per resistere a
eventuali attacchi aerei), per l’edificio 7 non è
necessario andare molto lontano.
Com’è possibile che un palazzo solidissimo,
costruito a prova di bomba, che disponeva di 24
colonne interne e 57 perimetrali ed era distante
trecento metri dalla Torre più vicina, sia crollato su
se stesso, in modo ordinato e simmetrico, senza
essere stato colpito?
La Commissione di inchiesta non ha mai
risposto all’enigma, ignorandolo semplicemente. Il
rapporto non menzionò neppure il fatto che i vigili
del fuoco furono evacuati dall’edificio 7 – in cui
era in corso un incendio al quarantasettesimo
piano – molte ore prima, rispetto al collasso
strutturale; insomma, si sapeva con largo anticipo
che l’edificio, mai colpito dagli aerei, sarebbe
crollato. Lo stesso capitano dei vigili del fuoco
ordinò l’evacuazione dei suoi uomini per evitare
ulteriori morti… Ma come sapeva che stava per
crollare? In base a quali informazioni diede
l’ordine?
A ciò dobbiamo aggiungere le numerose
testimonianze sulle esplosioni, come quella del
reporter Peter De Marco – citato nel saggio di
Chris Bull e Sam Erman At Ground Zero: Young
Reporters Who were There Thell Theri Stories –
che dichiarò:
«Alle 17:30 ci fu un boato. La fila di finestre dell’ultimo
piano dell’edificio esplose. Poi andarono in frantumi i vetri
del trentanovesimo piano. Poi del trentottesimo. Pop! Pop!
Pop! Non si sentiva altro, finché l’edificio non sprofondò in
una nube di grigio che saliva verso l’alto».

Ancora più incredibile è il nastro audio che


riporta la comunicazione radio di un uomo
intrappolato nell’edificio, il quale racconta come
ha fatto a uscire insieme a un suo collega25.
Nel reportage di Steven Jones, professore
universitario e fisico che operava presso la
Brigham Young University di Provo (Utah),
troviamo invece la prova di «un’enorme
esplosione sotto l’ottavo piano» nelle parole di
uno dei due uomini intrappolati nel WTC 7:
«[nella comunicazione radio; N.d.A.] spiega che [lui e il suo
collega; N.d.A.] erano intrappolati all’ottavo piano, che
c’era stata un’esplosione sotto di loro e che erano rimasti in
trappola. L’esplosione aveva tagliato fuori ogni via di fuga
[…] poi l’uomo dice che i vigili del fuoco sono riusciti a
passare e li hanno recuperati e fatti uscire dall’edificio 7
prima che crollasse».

L’IPOTESI DELLA TERMITE


A questo riguardo, diversi ricercatori sono giunti
alla conclusione che per fare crollare l’edificio 7
fosse necessaria l’esistenza di cariche esplosive e
incendiarie, mentre altri si sono soffermati sulla
possibilità che siano state utilizzate armi scalari.
Come ha infatti rilevato Steven Jones, le Torri
e l’edificio 7 non sono crollati,
«… sono andati completamente distrutti […] A questo
punto siamo in grado di calcolare la velocità di caduta degli
edifici. Scopriamo che il tempo totale di caduta delle Torri
si aggira intorno ai 10-14 secondi; mentre per quanto
riguarda il WTC 7, il tempo di caduta dell’angolo sud
occidentale è di 6,5 secondi. Quel giorno si scontrarono e
registrarono molte altre osservazioni interessanti, tra cui la
fuoriuscita di una sostanza arancione dalla Torre sud
qualche minuto prima del crollo»26.

Secondo Jones, per la demolizione controllata


di tutti e tre gli edifici, compreso il WTC 7,
sarebbe stata usata la termite, «nome commerciale
di un prodotto formato da una combinazione di
polvere di alluminio e ossido ferrico (in sostanza,
un’umile ruggine purificata). A temperature
elevate, i componenti della termite reagiscono fra
loro formando ossido di alluminio e ferro
metallico»27. La termite viene usata in ambito
bellico «in armi anticarro per via della sua capacità
di produrre temperature in grado di fondere in
pochi istanti anche robuste corazzature di
acciaio»28. Jones sostiene che siano state dislocate
delle cariche di termite (o di termate) lungo le
decine di colonne di acciaio che le sostenevano:
«Mentre quasi nessun incendio, nemmeno uno appiccato dal
carburante di un aereo, potrebbe causare il cedimento
dell’acciaio di una struttura, la combinazione di termite e
zolfo taglia invece l’acciaio come un coltello caldo
taglierebbe il burro»29.

Ad avvalorare questa tesi, il ritrovamento di


tracce di zolfo a Ground Zero30. Alla termite,
inoltre, come ricorda Cabras,
«… non occorre aria per bruciare. L’ossigeno è ricavato
dall’ossido ferrico. La reazione continua anche sott’acqua e
questo darebbe una credibile spiegazione agli stupefatti
pompieri newyorchesi che vedevano quanto fosse vano, per
giorni, gettare continuamente acqua sulle macerie sempre
roventi e sul metallo ancora in fusione»31.

Fermandoci ora ad analizzare il caso del WTC


7, ancora Jones sostiene che 6,5 secondi –
avvicinandosi al tempo di caduta libera – non è un
tempo di caduta ragionevole per l’edificio 7, ma è
comparabile a quello dei crolli nelle demolizioni
controllate, ove il tempo che il tetto impiega a
cadere a terra si avvicina appunto a quello della
caduta libera. Mentre, senza ipotizzare la presenza
di esplosivi, per «la legge di conservazione del
momento, il materiale sottostante al tetto – tra cui
delle colonne di acciaio intatte – dovrebbe
rallentarne in maniera significativa lo
spostamento». Jones continua sottolineando che
«sembra impossibile che quest’edificio di
quarantasette piani con intelaiatura in acciaio sia
potuto collassate su se stesso in maniera rapida e
simmetrica, e in presenza di incendi e danni
sporadici», e arrivando a domandarsi: «Possibile
che le colonne di supporto abbiano ceduto ex
abrupto e simultaneamente?».
L’ATTACCO AL PENTAGONO
Il Boeing 757, che sarebbe precipitato sul
Pentagono con una virata di 270°, scese rapido
sfiorando il prato e andò a schiantarsi contro la
facciata principale dell’edificio dopo aver divelto
una serie di semafori e di pali della luce. Senza
considerare il fatto che la manovra, se si fosse
trattato di un aereo civile, avrebbe portato alla
perdita di senso del pilota e dei passeggeri, l’ex
ministro tedesco von Bülow ricorda che
«Non si trovarono, né si trovano oggi [2007], i resti del
velivolo così come dei passeggeri e dei bagagli. Il profilo
dell’impatto non corrisponde con le misure esterne
dell’aereo, né tantomeno con il posizionamento e la forza di
impatto dei due propulsori. I video della sorveglianza
intorno alle mura del Pentagono furono tenuti segreti; in
seguito furono rese note solo alcune parti tagliate che non
provano nulla. I video del distributore accanto furono
sequestrati subito dopo lo schianto. Il vicepresidente
Cheney, allora nominato responsabile dei movimenti del
presidente Bush, comunicò a un sottoposto, che insisteva
per intervenire, di non richiamare l’aereo in volo sul
Pentagono. Con ogni probabilità lo schianto avvenne ad
opera di un parassita militare, strumento di una vera e
propria operazione da tenere segreta»32.

Con la conclusione di von Bülow concordano


numerosi ricercatori, in base al foro di impatto
dell’oggetto che si schiantò contro il Pentagono
che fa pensare a un missile teleguidato; a maggior
ragione visto che gli attentatori erano stati definiti
dai loro ex istruttori di volo dei veri incapaci. Data
la loro scarsa esperienza, come avrebbero potuto,
dei principianti che si erano allenati solo sui
simulatori di volo, compiere delle traiettorie così
“sofisticate”, “straordinarie” e “coordinate”, come
furono definite dagli esperti del settore?
Il 13 settembre 2001 il «Detroit News» riportò
che gli inquirenti erano rimasti
«… particolarmente impressionati dal pilota che ha lanciato
il suo aereo contro il Pentagono e che, proprio prima
dell’impatto, ha compiuto una virata ben controllata di 270°
a bassa altitudine quasi con precisione militare»33.

Prima di conoscere l’identità dei dirottatori,


anche un altro esperto aeronautico riferì alla CBS
che essi dovevano «essere stati degli aviatori
estremamente esperti e capaci».
Un ex generale e pilota della marina militare
americana, Ralph Kolstad, espresse il suo stupore
per la virata sul Pentagono:
«Il pilota del 757 ha compiuto una vera impresa. Ho seimila
ore di volo con 757 e 767 e non avrei saputo volare lungo
quella traiettoria. Sono anche stato un pilota da caccia della
marina e un istruttore di combattimento aereo e ho fatto
esperienza di voli a bassa quota e alta velocità. Non avrei
saputo fare quello che hanno fatto quei principianti»34.

A condividere lo stupore di Kolstad, numerosi


colleghi ed esperti di volo, tra cui il comandante
Ted Muga35, Niki Lauda (proprietario di una
compagnia aerea)36, Darryl Jenkins, direttore
dell’Istituto di aviazione alla George Washington
University37, e il comandante Alitalia Claudio
Galavotti38. Quest’ultimo ha dichiarato:
«Volando con un 757 alla massima velocità alla quale può
volare, con i motori alla massima spinta, gli interventi sulla
cloche sono minimi e comportano grossi spostamenti. […] il
Pentagono è molto grande e quindi il fatto di arrivare su un
punto preciso e non avere alcun segno sul terreno prima
dell’impatto è veramente una cosa fortunosa, nel senso che
l’unico modo per impattare sul Pentagono e non avere
tracce sul terreno è arrivare a questa distanza e poi per un
qualunque motivo cominciare a cabrare, quindi infilarsi
esattamente con l’aeroplano che non tocca terra e allo stesso
identico modo non distrugge le finestre… Siamo in un
campo di ipotesi veramente difficile da spiegare».

Galavotti ha addirittura ammesso che,


nonostante le sue ore di volo, difficilmente sarebbe
riuscito a compiere quella virata sul Pentagono:
«Eh, dovrei metterci veramente tanto, tanto impegno, perché
non è una cosa semplice, dal mio punto di vista. Credo che
chi ha fatto quest’attività possa capire cosa vuol dire stare a
10 m da terra, 5 m da terra, con un aeroplano che pesa 110-
120 t lanciato a 900 km/h. Basta toccare la cloche e schizza
via, ma schizza facendo variazioni di 100 m, non di 10 m».

Danielle O’Brian, responsabile della sala radar


all’aeroporto Dulles il giorno dell’attacco al
Pentagono, riferì successivamente all’«ABC»:
«Per la velocità, la manovrabilità, il modo in cui ha girato,
pensammo tutti, nella stanza dei radar, tutti noi che siamo
controllori di volo esperti, che quello era un aereo militare.
Non piloti un 757 in quel modo»39.

Due controllori di volo, colleghi della O’Brian,


riferirono al «Washington Post» che l’aereo
abbattutosi sul Pentagono «era stato pilotato con
perizia straordinaria, il che rendeva altamente
probabile che al comando ci fosse un pilota
professionista». Nessuno dei dirottatori lo era.
Anzi. Tutti gli allievi piloti e futuri terroristi, come
spiega Cabras, lasciarono un pessimo ricordo in
merito alle loro capacità:
«Sono ben lontani dal poter ottenere licenze atte a pilotare
aerei di grandi dimensioni, e il massimo che ottengono sono
le condizioni più risicate per avere licenze adatte a piccoli
Cessna. Non sono per nulla a loro agio, una volta messi di
fronte ai simulatori di veri aerei commerciali. Sembrano
neopatentati pieni di lacune che nessuno immaginerebbe
alla guida di una Formula uno»40.

Ivan Chirivella, l’istruttore di volo di Atta,


quando venne intervistato in merito alla
competenze acquisite dal suo ex allievo, affermò
che «Atta non era in grado di portare a termine una
simile manovra», ossia centrare la Torre con un
Boeing, manovra ancora più facile di quella del
Pentagono. La reazione del governo statunitense a
questa dichiarazione è stata quella di proibire a
Chirivella l’ingresso negli Stati Uniti. A quanto
pare, nota Cabras, «Chirivella era un testimone
chiave che disturbava la “versione ufficiale”. In
questo modo è stato fatto uscire da qualsiasi
possibilità di intervento processuale»41.
Persino Hosni Mubarak, l’ex presidente
egiziano con un passato da pilota militare,
intervistato al riguardo da un giornalista della
«CNN» avanzò l’ipotesi che per compiere quelle
manovre dovevano esservi stati numerosi
sopralluoghi aerei degli obiettivi:
«Il Pentagono non è molto alto e un pilota che vuole
prenderlo di mira per colpirlo deve avere sorvolato spesso la
zona per rendersi conto degli ostacoli a cui sarebbe andato
incontro, volando a una quota così bassa con un grosso
aereo di linea per colpire l’obiettivo da una posizione ben
precisa. Qualcuno ha studiato molto bene la cosa, qualcuno
ha sorvolato spesso quella zona».

Incalzato dal giornalista della «CNN»,


Mubarak tentò di non sbilanciarsi troppo –
altrimenti avrebbe dovuto ammettere ufficialmente
la possibilità che si fosse trattato di un false flag –
lasciando abilmente che fosse il pubblico a
dedurre, dalle sue premesse “tecniche” da ex
pilota, una conclusione:
«Parlando francamente non voglio arrivare a rapide
conclusioni… Una cosa simile, fatta negli USA, non è facile
per i piloti formati in Florida; in tanti vanno a esercitarsi,
giusto per volare e prendere il brevetto, ma ciò può
significare che sarebbero capaci di fare queste azioni
terroristiche? Le parlo da vecchio pilota, conosco molto
bene queste cose; ho pilotato aerei molto grandi, ho guidato
i caccia, conosco molto bene queste cose, non sono così
facili, ed è per questo che non dobbiamo arrivare a
conclusioni affrettate»42.

Infine, l’attacco contro il Pentagono era stato


previsto in diversi uffici governativi. Secondo il
rapporto del Consensus911, un comitato composta
da ventitré esperti e ricercatori internazionali,
«… diverse esercitazioni militari, effettuate prima dell’11/9,
implicavano aerei che avrebbero dovuto schiantarsi contro il
Pentagono. Il che dimostra come questo tipo di attacco non
fosse affatto inatteso. Inoltre, esistono rapporti pubblicati da
diversi giornali, che fanno riferimento a numerose fonti dei
servizi di sicurezza che avvertivano alti ufficiali del
Pentagono e altri funzionari affinché non volassero
esattamente in quel giorno undici settembre»43.

UNA FALSE FLAG?


Stando alle numerose ed evidenti anomalie, molti
ricercatori hanno espresso i loro dubbi sulla
ricostruzione degli attentati, lasciando intendere o
denunciando pubblicamente che si sarebbe potuto
trattare di un’operazione sotto falsa bandiera
messa in atto dai servizi; tuttavia, anche nel caso
di una false flag in cui la vera portata e i veri
autori vengono tenuti segreti e «occultati con
estrema cura», «emergono prove e negligenze che
potrebbero rivelare il colpevole. Per questo
esistono forze di intervento rapido che, di norma,
subito dopo il misfatto raggiungono il luogo del
crimine per cancellare ogni traccia»44.
Della stessa opinione è Webster Tarpley, che
ha dedicato all’argomento il saggio La fabbrica
del terrore (Arianna Editrice). Lo storico
americano si dice convinto che l’Undici settembre
sia stato organizzato da una «rete canaglia» di
golpisti, all’interno del governo statunitense,
dell’intelligence dell’establishment militare. Lo
scopo degli eventi era quello di innescare un casus
belli per poter legittimare e avviare una serie di
politiche belliche, ossia promuovere la
«mobilitazione imperiale» nel Medio Oriente e al
contempo accerchiare l’antico nemico, la Russia.
Un elemento imprescindibile per questo genere
di golpe – che avviene cioè all’interno dei palazzi
del potere, tenendo la popolazione all’oscuro delle
dinamiche – prevede però, come ricordava
l’esperto militare statunitense Edward Luttwak, il
controllo capillare dei mezzi di informazione per
poter indirizzare e plasmare l’opinione pubblica e
oscurare chi si ribella alla versione ufficiale.
In questo senso, Giulietto Chiesa45 osserva il
metodo con cui il mainstream ufficiale distrugge
coloro che indagano sulla verità alternativa alla
visione ufficiale dei fatti, citando numerosi casi,
anche di ex ministri o ricercatori affermati, a
partire da Thierry Meyssan il quale, in Francia, «è
stato fatto a pezzi» dalle colonne dei maggiori
quotidiani per screditare le sue ricerche46.
Destino simile per von Bülow, l’ex ministro
della Difesa tedesco negli anni Settanta e poi
ministro per la Tecnologia, ex relatore nel 1993
della Commissione parlamentare di inchiesta sulla
Stasi, la polizia politica della Repubblica
democratica tedesca:
«Difficile liquidare il suo pensiero. Ma lo si può ignorare. E
così avvenne subito dopo che von Bülow esplicitò
pubblicamente i suoi dubbi, fin dall’inizio del 2002, in
un’intervista rilasciata al giornale berlinese “Der
Tagesspiegel”. In quell’intervista egli mise in luce la
clamorosa inconsistenza della versione ufficiale. “Esistono
negli USA ventisei agenzie di controspionaggio – disse
all’intervistatore – che costano trenta miliardi di dollari
l’anno, più dell’intero bilancio tedesco della difesa. E non
sono state capaci di prevenire gli attacchi […] Non un
sospetto, prima. E, per sessanta decisivi minuti, le agenzie
militari e di intelligence hanno lasciato a terra i caccia. Però
quarantott’ore dopo l’FBI presenta una lista completa dei
dirottatori suicidi. Ma dieci giorni dopo risulta che sette di
loro sono ancora vivi”».

Von Bülow, tra l’altro, faceva notare


l’assurdità delle tracce lasciate ovunque proprio
dai dirottatori; un atteggiamento, questo,
difficilmente comprensibile se fossero stati dei
terroristi di “professione” che volevano restare
nell’ombra e non essere rintracciati né prima né
dopo l’attentato:
«Pagano con le loro carte di credito, danno i loro veri nomi
agli istruttori di volo. Si lasciano dietro auto noleggiate con
manuali di volo in arabo. Portano con sé, nel loro viaggio
verso il suicidio, ultime volontà e lettere di addio, che
cadono nelle mani dell’FBI perché le hanno messe nel posto
sbagliato, con indirizzi sbagliati. Suvvia, sono segnali
lasciati sul percorso come in una caccia al tesoro per
bambini»47.

Al contrario, per la Commissione l’attentato


sarebbe stato un capolavoro dal punto di vista
tecnico e organizzativo.
Chiesa continua citando altri ricercatori come
David Ray Griffin, che ha fatto notare più di
duecento plateali omissioni, incongruenze o falsità
contenute nel Rapporto della Commissione di
inchiesta sull’Undici settembre, e il repubblicano e
conservatore Paul Craig Roberts, ex segretario al
Tesoro con Ronald Reagan ed ex commentatore
del «Wall Street Journal». Rivelazioni che anche
nel caso di Griffin, per quanto documentate e
pubblicate, continuano a circolare da un decennio
solo sul web per la loro pericolosità nei confronti
della versione ufficiale, e dunque del mainstream,
che ha voluto due conflitti come conseguenza agli
attentati dell’Undici settembre48.
PER IL MINISTRO MEACHER LA GUERRA
AL TERRORISMO È UNA “FANDONIA”
Anche Michael Meacher, l’ex ministro
dell’Ambiente britannico dal maggio 1997 al
2003, in un articolo pubblicato su «The Guardian»
il 6 settembre 2003 con il titolo This war on
terrorism is bogus49,
«… spiegò ai suoi concittadini inglesi, essendo egli ancora
in carica, che la guerra al terrorismo era, testualmente, il
prodotto di un progetto di “pace americana globale” che
“era stato tracciato da Dick Cheney (vicepresidente),
Donald Rumsfeld (segretario della Difesa), Paul Wolfowitz
(vice di Rumsfeld), Jed Bush (fratello minore di Bush) e
Lewis Libby (capo di Gabinetto di Cheney) nel settembre
2000”50. Cioè ben prima dell’Undici settembre. Si intende
che Tony Blair lo cacciò immediatamente. Ma non è questo
il punto. Il punto è che la rivelazione di Meacher sparì dal
mainstream e non fu più ricordata da nessuno, sebbene il
mondo occidentale fosse entrato in guerra prima in
Afghanistan e poi in Iraq»51.

Meacher, nel suo articolo, esordiva scrivendo


che la versione ufficiale dell’Undici settembre e la
conseguente decisione di entrare in guerra erano
false e motivate da altre ragioni ben diverse da
quelle sbandierate dall’amministrazione Bush e
dal solidale governo Blair: «Questa versione non
si adatta a tutti i fatti. La verità potrebbe rivelarsi
molto più oscura»52 e «Il piano [di invasione
dell’Iraq; N.d.A.] dimostra che l’amministrazione
Bush intendeva impossessarsi del controllo
militare dell’area del Golfo indipendentemente dal
governo di Saddam»53. Ovvero, anche se non ci
fosse stato Saddam al potere, si sarebbe trovata
un’altra motivazione per invadere l’Iraq.
Chiesa evidenzia che una delle conseguenze
dell’Undici settembre e della guerra al terrorismo
è stata l’introduzione del Patriot Act, la cui bozza
esisteva già da un anno. Fino al quel momento era
mancata l’opportunità di introdurre una così
drastica riduzione della privacy dei cittadini senza
sollevare una protesta di massa:
«Esiste un nesso tra l’Undici settembre, il Patriot Act, che
era già pronto prima che avvenisse l’Undici settembre, e
questa pratica “contraria allo stato di diritto e al nostro
sistema costituzionale della separazione dei poteri”54?
Negarlo appare difficile. Ma non appena si cerchi di
approfondire il tema, ecco riapparire l’accusa di
“complottismo”»55.

GLI INTERESSI DELLA CASA BIANCA


L’ex corrispondente del «New York Times»
Stephen Kinzer56, nel suo saggio-inchiesta del
2006 Overthrow57, ha rintracciato un processo in
tre fasi che precede e contraddistingue i colpi di
Stato o i cambi di regime orchestrati da
Washington negli ultimi cent’anni, a partire da
quello delle Hawaii del 1893 fino a quello
dell’Iraq del 2003, in cui «una piccola élite con
interessi egoistici mescola le proprie esigenze e
desideri con quelli del mondo intero»58.
Kinzer osserva che quest’atteggiamento è più
marcato nelle amministrazioni con politici che
provengono dal mondo aziendale o, come nel caso
dei team di Bush padre e figlio, hanno e
continuano ad avere evidenti conflitti di interesse
con multinazionali. Con l’amministrazione Bush la
legge del profitto diventa lo scopo in sé della
politica estera.
I nomi più significativi di questa tendenza
sono proprio Rumsfeld e Cheney che, in virtù di
evidenti conflitti di interesse nel settore energetico
e farmaceutico, si sono arricchiti grazie alle guerre
intraprese da Washington. L’obiettivo principale
sarebbe il profitto delle multinazionali alle quali la
stessa Casa Bianca era, o è, legata a filo doppio.
Con l’esportazione della democrazia si esportava a
livello globale il modello del libero mercato.
Come dimostra infatti Klein in Shock
Economy, questi politici-affaristi non hanno
neppure nascosto il fatto di aver plaudito ad alcuni
eventi tragici, reali o pilotati – guerre, Undici
settembre, epidemie o cataclismi come l’uragano
Katrina ecc. – considerandoli delle “opportunità”
che si sarebbero presto volte a “vantaggio” delle
multinazionali ad essi legate:
«Per esempio, quando Rumsfeld si dimise, dopo la sconfitta
repubblicana delle elezioni di medio termine del 2006, la
stampa riferì che sarebbe tornato al settore privato. La verità
è che non lo aveva mai lasciato davvero. Quando accettò la
nomina a segretario della Difesa, Rumsfeld, come tutti i
pubblici funzionari, fu obbligato a spogliarsi di tutte le
partecipazioni azionarie che avrebbero potuto essere
influenzate – nel bene o nel male – dalle decisioni prese
durante il mandato. Molto semplicemente, ciò significava
vendere tutte le azioni legate alla Sicurezza nazionale o alla
Difesa. Ma Rumsfeld faticò molto. Le sue partecipazioni
azionarie in aziende legate in vario modo ai disastri erano
così numerose che il neosegretario affermò che non sarebbe
riuscito a disfarsene entro i tempi stabiliti e piegò le norme
etiche in suo favore, cercando di tenersi strette più azioni
possibili»59.

Come Rumsfeld rimase legato alla Gilead


Sciences, l’azienda che detiene il brevetto del
Tamiflu – farmaco utilizzato anche per l’influenza
aviaria – nonostante l’evidente conflitto di
interessi,
«Cheney fu altrettanto restio a tagliare completamente i
ponti con la Halliburton: una questione che, a differenza dei
legami di Rumsfeld con la Gilead, era stata oggetto di
grande attenzione da parte dei media. Prima di dimettersi da
amministratore delegato per entrare in campagna elettorale
come vice di Bush, Cheney negoziò un pacchetto pensione
che lo lasciò pieno di azioni e opzioni. In seguito ad alcune
domande spiacevoli dei giornalisti, accettò di vendere parte
dei suoi titoli Halliburton, ricavandone un profitto di ben
18,5 milioni di dollari. Ma non vendette tutto. Secondo il
“Wall Street Journal”, Cheneey tenne 189.000 azioni
Halliburton e 500.000 opzioni non investite quando salì alla
vicepresidenza. Il fatto che Cheney conservi una tale
quantità di azioni Halliburton significa che, per tutto il suo
mandato da vicepresidente, ha raccolto milioni ogni anno in
dividendi e ha ricevuto anche riscontri passivi dalla
Halliburton nell’ordine dei 211.000 dollari l’anno. Cifra più
meno equivalente al suo salario governativo»60.

Quando, nel 2009, passò le consegne a Joe


Biden, vice di Obama, Cheney potè trarre
grandiosi profitti dalla grande ascesa dell’azienda,
le cui azioni erano salite dai dieci dollari di prima
della guerra in Iraq a quarantuno dollari solo tre
anni dopo. Un balzo del 300%, spiega Klein,
«… grazie a una combinazione di aumento dei prezzi
dell’energia e appalti in Iraq; due fattori, questi, che sono
diretta conseguenza dell’impegno di Cheney nel trascinare il
Paese in guerra con l’Iraq […] La deposizione di Saddam ha
aperto nuove prospettive e opportunità per i giganti del
petrolio, tra cui Exxon Mobile, Chevron, Shell e BP, tutte
queste aziende hanno gettato le fondamenta per nuovi
contratti in Iraq; e per la Halliburton che, trasferitasi a
Dubai, si trova nella posizione ideale per vendere i suoi
servizi energetici a tutte quelle industrie. La guerra si è
rivelata l’evento più redditizio nella storia della
Halliburton»61.

Ad agevolare gli interessi delle multinazionali


statunitensi entrò in scena Paul Bremer, nominato
da Washington governatore in Iraq. In un Paese
ancora in fiamme e stremato dalla guerra, Bremer
introdusse una
«… privatizzazione selvaggia, completa libertà di scambio,
un’aliquota di imposta unica al 15%, un governo di
proporzioni ridottissime»62.

L’ERRORE DI SADDAM
Come anticipato, il piano di invasione dell’Iraq era
già stato organizzato a larghe linee dal Pentagono
ben prima dell’Undici settembre. Oltre al petrolio,
infatti, si annoverano altre cause che potrebbero
aver spinto Washington a decidere di rovesciare il
ra‘īs.
Per cominciare, Saddam aveva proposto
all’OPEC63 di abbandonare l’utilizzo del dollaro
per la compravendita del petrolio. Ciò avrebbe
sicuramente comportato, se non il tracollo di
questa moneta – com’è stato addirittura ipotizzato
da alcuni ricercatori – perlomeno la sua
svalutazione. Il dittatore iracheno stava inoltre
trascinando nel suo progetto – come avrebbe fatto
in seguito Gheddafi – i Paesi dell’OPEC
appartenenti all’area del Medio Oriente: Iran,
Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi.
Anche la Libia apparteneva dal 1962 all’OPEC
e la decisione di Gheddafi di abbandonare il
dollaro avrebbe condotto alle stesse conseguenze
del progetto di Saddam. Quest’ultimo aveva già
iniziato ad accettare altre valute per la
compravendita del petrolio e aveva dato il via alla
conversione in euro delle sue riserve: ciò per
tutelarsi dall’andamento del dollaro. In caso di
perdita di valore del dollaro, i Paesi membri
dell’OPEC avrebbero ricevuto minori entrate per il
loro petrolio. Così, non appena entrata in vigore la
nuova valuta europea, le riserve irachene
«ammontanti a dieci bilioni di dollari»64 furono
interamente convertite in euro. È facile
immaginare quanto seriamente la decisione del
ra‘īs di accettare pagamenti in euro avrebbe potuto
danneggiare l’economia americana.
Evidentemente la scelta della conversione in
euro era l’ennesimo segnale politico di sfida al
governo Bush, visto da alcuni come una
«punizione alla linea dura delle sanzioni di
Washington»65 e al contempo come un segnale di
incoraggiamento lanciato all’Unione europea per
contrastarle. Charles Recknagel previde che la
scelta politica di Saddam sarebbe però costata
«milioni di euro in mancati guadagni»66 all’Iraq.
Le due mosse irachene puntavano
probabilmente all’ennesimo atto di sfida contro gli
USA per contrastare l’embargo e favorire una
nuova politica europea volta al ridimensionamento
o all’abolizione delle sanzioni. Ovvio che il
dittatore andasse fermato velocemente, prima che
anche gli altri Paesi si unissero nell’impresa:
«L’economia statunitense è strettamente legata al
ruolo del dollaro come moneta di interscambio
internazionale e nel caso questo ruolo venisse
meno all’improvviso l’intero suo funzionamento
andrebbe in crisi»67.
Non era un caso se il piano energetico di
sviluppo petrolifero varato dall’allora
vicepresidente Dick Cheney tendeva a favorire i
Paesi che non appartenevano all’OPEC, ma per
attuare il disegno era necessario
«il controllo del territorio afghano, insostituibile via per il
trasporto del greggio. Dopo la rottura delle trattative con il
governo dei talebani, portate avanti ignorando le sanzioni
dell’ONU e la tragedia dell’Undici settembre, bin Laden
veniva designato come il nemico più pericoloso e iniziava
l’attacco contro l’Afghanistan»68.

LA TRAPPOLA AFGHANA
Se la tragedia dell’Undici settembre si tradusse in
una “opportunità” per gli affari privati della Casa
Bianca, gli interessi degli USA e dell’URSS in
Medio Oriente si erano concentrati, molto tempo
prima dell’Iraq, sull’Afghanistan. Verso la fine
degli anni Settanta entrambe le superpotenze,
infatti, ambivano a inglobare il Paese nella propria
sfera di influenza, anche se in modi diversi:
l’Unione Sovietica finanziava il regime
filosovietico del PDPA, mentre gli Stati Uniti
finanziavano invece i ribelli musulmani. Il
controllo della regione era infatti cruciale a livello
geostrategico, come spiegava Elie Krakowski, già
assistente speciale del vicesegretario alla Difesa
per l’International Security Policy:
«L’Afghanistan deve la sua importanza al fatto di essere
collocato alla confluenza delle principali vie di
comunicazione. Come terra di frontiera che dà la possibilità
di controllare le grandi aree dell’interno e lo sbocco al mare,
l’Afghanistan è il punto di incontro tra forze conflittuali più
grandi lui. […] Con il crollo dell’Unione Sovietica, è
diventato un importante sbocco potenziale verso l’oceano
per i nuovi Stati dell’Asia centrale, che sono privi di accesso
al mare. La presenza in quell’area di grandi depositi di
petrolio e di gas ha attirato l’attenzione degli altri Paesi e
delle società multinazionali. […] Dato che l’Afghanistan è
un centro di grande importanza strategica, quel che accade lì
finisce per riguardare il resto del mondo»69.

La rivalità tra USA e URSS portò così, solo


alcuni mesi dopo il colpo di Stato afghano del
1978, a uno degli ultimi scontri violenti della
guerra fredda.
Come avrebbe ammesso soltanto in seguito,
nel 1998, Brzezinski – che, in veste di consigliere
per la Sicurezza nazionale sotto Jimmy Carter si
occupò dell’armamento dei mujāhidīn nella lotta
contro le milizie sovietiche – l’intervento
americano in Afghanistan avvenne molto prima
dell’invasione dell’URSS datata 27 dicembre
1979; anzi, ne fu in qualche modo la “causa”. A
«Le Nouvel Observateur» lo stratega polacco
rivelò il ruolo “occulto” di Washington nel
finanziamento dei mujāhidīn:
«Secondo la versione ufficiale della storia, l’aiuto della CIA
nei confronti dei Mujāhidīn è iniziato nel corso del 1980,
vale a dire dopo che l’esercito sovietico invase
l’Afghanistan il 24 dicembre 1979. La realtà, segretamente
custodita fino a ora, è completamente diversa, infatti fu il 3
luglio del 1979 la data in cui il presidente Carter firmò la
prima direttiva per aiutare segretamente gli oppositori del
regime filo-sovietico di Kabul. E quel giorno ho scritto una
nota al presidente in cui spiegavo che a mio parere questi
aiuti avrebbero provocato un intervento militare
sovietico»70.

Gli USA, infatti, lavorarono


“consapevolmente” in modo da spingere la
potenza avversaria a invadere l’Afghanistan per
poter così reagire. L’America istigò l’intervento
militare sovietico facendo temere alla rivale che la
destabilizzazione messa in atto da Washington
potesse portare a un cambio di regime di stampo
filoamericano.
L’operazione di infiltrazione sul territorio
afghano da parte dei servizi americani avvenne,
però, in modo clandestino, almeno sei mesi prima
dell’invasione da parte delle milizie sovietiche,
esattamente com’è capitato nel 2011 con lo
scoppio della Primavera araba, nel cui ambito si è
parlato di infiltrati dei servizi americani che
avrebbero avuto il compito di suscitare le rivolte,
accerchiando inoltre la Russia.
L’agenzia «France Press» ha citato la conferma
di Brzezinski:
«È vero, abbiamo fornito aiuti ai mujāhidīn prima
dell’invasione […] Non abbiamo spinto i russi
all’invasione, ma abbiamo consapevolmente accresciuto la
possibilità che la compissero»71.

Per il geostratega polacco quella mossa fu


«un’idea eccellente. L’effetto fu di attirare i russi
nella trappola afghana».
Anche Robert Gates, ex direttore CIA, ha
ammesso a posteriori, nel suo memoriale From the
Shadows, che l’operazione dell’intelligence
americana aveva avuto inizio sei mesi prima
dell’invasione sovietica. L’URSS cadde nella
“trappola”: per contrastare l’opera di
destabilizzazione avviata dagli USA e prevenire
così l’insediamento di un nuovo regime
filoamericano, l’URSS procedette a una vera e
propria invasione militare.
Come spiega Ahmed in Guerra alla verità,
«la CIA, coadiuvata dai servizi di informazione dell’esercito
pakistano, fornì segretamente ai ribelli afghani aiuti militari,
addestramento e istruzione. Per l’operazione sponsorizzata
dagli Stati Uniti era fondamentale il tentativo di ideare
un’ideologia religiosa estremista derivata dalla commistione
di tradizioni feudali locali e di concetti propri della retorica
islamica. […] Gli USA intervennero in molti modi perché
l’estremismo raggiungesse il livello desiderato. Per
esempio, versarono fondi per milioni di dollari per
pubblicare e distribuire nelle scuole afghane libri che
promuovevano i bellicosi ideali del fanatismo e
dell’uccisione dell’avversario»72.

I fondamentalisti religiosi promossi dalla


manipolazione americana nei programmi di
addestramento patrocinati dalla CIA sono diventati
addirittura un motivo di imbarazzo per i vicini
fondamentalisti musulmani. Ciò lo si deve alla
brama di potere di entrambe le superpotenze che,
invece di aiutare un Paese in via di sviluppo qual
era l’Afghanistan, l’hanno destabilizzato, invaso,
distrutto e smembrato pur di attrarlo nella propria
sfera di influenza, finendo addirittura prigioniere
dell’inferno afghano dopo dieci anni di inutile
quanto disastrosa guerra.
GAS, PETROLIO E OPPIO
Le missioni della Casa Bianca e della NATO si
sono concentrate, in modo difficilmente fortuito,
nel sud-ovest e nel nord-ovest dell’Afghanistan,
«… proprio dov’era stato progettato il percorso di una
pipeline strategica che trasportasse petrolio e gas naturale
dall’Asia centrale fino all’Oceano Indiano. Prima
dell’undici settembre 2001 Washington era stata coinvolta
in negoziati infruttuosi col governo talebano al fine di
garantire la sicurezza per questo corridoio energetico in
progettazione»73.

Benché abbia negato gli evidenti interessi


statunitensi nella regione, l’allora vicesegretario di
Stato americano Robin Raphel – che durante la
guerra fredda aveva definito l’Afghanistan un
«crocevia di interessi strategici» – avrebbe invece
condotto personalmente «un intenso giro di
incontri diplomatici di collegamento tra le
autorità», almeno stando a quanto pubblicato
dall’agenzia «France Press», la quale ha dedotto
che dietro gli incontri ci fosse il progetto
dell’UNOCAL per la costruzione dell’imponente
oleodotto.
Secondo l’AFP, il progetto dell’UNOCAL
«serviva a un obiettivo strategico di primo piano
per gli USA: isolare un nemico giurato, l’Iran,
liquidando, dicono gli esperti, la tanto discussa
ipotesi di un oleodotto rivale appoggiata da
Teheran»74.
Ancora: il 7 ottobre 2001 l’agenzia francese
ricordava che «il motivo fondamentale
dell’interesse per i talebani era una conduttura da
quattro miliardi e mezzo di dollari che un
consorzio petrolifero guidato dagli Stati Uniti
[l’UNOCAL; N.d.A.] progettava di costruire
attraverso l’Afghanistan devastato dalla guerra»75.
«France Press» riferisce soprattutto delle pressioni
di Washington sul Pakistan e sull’Arabia Saudita
per “sostenere” e “patrocinare” la presa del potere
dei talebani nel 1996. Spiega, inoltre, che il
sostegno degli USA ai talebani era dovuto alla
speranza che il loro regime sarebbe riuscito a
riportare l’ordine – anche se con la violenza – in
un Paese ancora straziato dal conflitto della guerra
fredda che si era giocato l’ultimo colpo di coda
proprio sul territorio afghano. L’interesse dei
funzionari di Washington, in vista della
costruzione dell’oleodotto, promosse il fitto
confronto tra costoro e i talebani per tutti gli anni
Novanta.
Ancor più che nelle pressioni sui Paesi
limitrofi, l’appoggio al regime talebano è
consistito in cospicui aiuti materiali da parte
dell’UNOCAL, sostenuto dal governo americano.
Solo nell’estate del 1998 – dopo che il Mullah
Omar aveva stracciato l’accordo con il mediatore
Bill Richardson e si era rifiutato di consegnare
Osama bin Laden in seguito agli attentati del 7
agosto alle ambasciate americane in Kenya e
Tanzania – l’azienda californiana sospese i
finanziamenti, continuando però a fare pressioni
sul governo afghano per la costruzione
dell’oleodotto ed entrando così in aperto conflitto
con un’altra concorrente, la ENRON76. Le
pressioni internazionali ebbero però un effetto
contrario: il diffondersi di sentimenti
antioccidentali che prima non esistevano.
Di lì a poco la decisione del Mullah di vietare
la coltivazione dell’oppio avrebbe segnato la fine
dei rapporti con Washington e l’inizio della
campagna mediatica contro i talebani, che avrebbe
condotto nel dicembre 2001 all’invasione
dell’Afghanistan.
Le offensive statunitensi e della NATO
potrebbero essere interpretate come «operazioni
volte a mettere in sicurezza un territorio ritenuto
necessario per la nascita della pipeline
strategica»77.
Chiunque riesca a controllare l’Afghanistan
controlla anche la coltivazione dell’oppio, che
ricopre una fetta importantissima all’interno del
mercato globale della droga «per un ammontare
che varia dai 400 ai 500 miliardi di dollari
(statunitensi) all’anno»78. La coltivazione
dell’oppio venne lanciata su ampia scala nel corso
del conflitto con Mosca
«… grazie al supporto e alla protezione delle agenzie di
intelligence pakistane e statunitensi. Queste esportazioni
erano dirette soprattutto verso i mercati dell’eroina
dell’Africa settentrionale e dell’Europa occidentale»79.

E, guarda caso, invece di fermare o combattere


il traffico di oppio, la presenza militare straniera lo
ha favorito80. Il «New York Times» ha persino
denunciato il fratello di Hamid Karzai, Ahmed
Wali Karzai, in quanto sarebbe stato «uno dei
maggiori trafficanti di droga nel Paese, nonché a
libro paga della CIA»81. Per decenni, secondo la
documentazione di Mahdi Darius Nazemroaya, la
CIA, «in collaborazione con altre agenzie di
intelligence come l’ISI pakistano, ha organizzato
operazioni sotto copertura volte proprio a
sostenere il commercio di sostanze
stupefacenti»82.
CAPITOLO 8

DIVIDERE PER UNIRE. IL


MODELLO DEL NEMICO
NUMERO UNO, DA
EMMANUEL GOLDSTEIN
A PUTIN
«La menzogna diventa realtà e passa alla storia».
GEORGE ORWELL, 1984
«Osama, se pure è stato lui e non un’intera nazione, ci ha
semplicemente fornito lo shock necessario per poter mettere
mano alla guerra di conquista».
GORE VIDAL
«Come molti miei colleghi professionisti nel mondo, ritengo,
sulla base di informazioni serie e verificate, che al-Qaeda sia
morta sul piano operativo nelle tane di Tora Bora nel 2002».
ALLAIN CHOUET
«Il blitz dei Navy Seals ad Abbottabad è una farsa totale, una
finta. Siamo in un teatro americano dell’assurdo».
STEVE PIECZENIK
«Per l’Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è
una scelta politica: è solo l’alibi che denuncia
drammaticamente l’assenza di qualsiasi scelta».
HENRY KISSINGER

n attimo dopo, dal teleschermo in fondo alla sala


«U esplose uno stridio lacerante, terribile, come se a
produrlo fosse stata una qualche mostruosa
macchina mal lubrificata, un rumore che allegava i
denti e faceva rizzare i capelli in testa. L’Odio era
cominciato.
Come al solito, era apparso sullo schermo il volto di
Emmanuel Goldstein, il Nemico del Popolo. Dal pubblico
venne qualche fischio. La donna dai capelli color sabbia
emise una specie di gemito nel quale si mescolavano paura
e disgusto. Goldstein era l’apostata, il traditore che tanto,
tanto tempo fa (nessuno ricordava quanto) era stato una
personalità fra le più insigni del Partito, addirittura quasi
allo stesso livello del Grande Fratello, ma poi si era
impegnato in attività controrivoluzionarie ed era stato
condannato a morte. Dopodiché era evaso e misteriosamente
scomparso. Il programma dei Due Minuti d’Odio cambiava
ogni giorno, ma Goldstein ne era sempre l’interprete
principale. Era il traditore per antonomasia, il primo ad aver
contaminato la purezza del Partito. Tutti i crimini commessi
successivamente contro il Partito, tutti i tradimenti, gli atti
di sabotaggio, le eresie, le deviazioni, erano un’emanazione
diretta del suo credo. Egli era tuttora vivo in qualche parte
del mondo, a tramare le sue cospirazioni. Forse si trovava in
qualche Paese al di là del mare, al soldo e sotto la
protezione dei suoi padroni stranieri. Forse, così correva
talvolta voce, se ne stava nascosto nella stessa Oceania».

Ogni società ha bisogno di un nemico per


compattarsi e coalizzarsi contro di lui. Non
importa se la minaccia esterna è virtuale o
inventata. Il nemico rappresenta una valvola di
sfogo per la frustrazione e l’aggressività delle
masse, catalizza su di sé la violenza che altrimenti
potrebbe sfociare in gesti inconsulti.
Emmanuel Goldstein è il nemico supremo del
Partito, nel capolavoro distopico di George Orwell
1984. Per scaricare la violenza collettiva contro la
minaccia esterna, il Grande Fratello ha
istituzionalizzato i “due minuti d’odio”. Si tratta di
una pratica collettiva da esercitarsi sui luoghi di
lavoro o dove sia possibile: a un segnale emesso
dagli altoparlanti ci si riunisce davanti un
teleschermo che proietta immagini del nemico
supremo, Goldstein, e sequenze violente di guerra
accompagnate da suoni e rumori fastidiosi, studiati
appositamente per coinvolgere gli spettatori; dopo
pochi secondi il pubblico inizia a inveire contro il
nemico o lo schieramento con cui vi è guerra in
quel momento, imprecando e lanciando oggetti
contro il teleschermo.
I “due minuti d’odio” sono la rappresentazione
moderna più sofisticata di demonizzazione di un
capro espiatorio. Il meccanismo è funzionale al
mantenimento del controllo sul popolo e la scelta
del nemico è caduta su un ex membro del Partito.
Il capro espiatorio, cioè, è un traditore, un
apostata; è qualcuno che faceva parte della
comunità ma poi l’ha tradita e per questo va
espulso, temuto e odiato.
Goldstein è anche il leader de “La
confraternita”, un’organizzazione segreta che
combatte il Partito con attività
controrivoluzionarie e di sabotaggio, e che
prefigura straordinariamente al-Qaeda e il suo
famigerato capo Osama bin Laden.
La sua immagine è ovunque, ma egli, come
un’ombra nella notte, disturba il sonno dei
cittadini con l’eco dei suoi misfatti e le sue future
possibili cospirazioni. In una società in cui non
solo il presente ma anche il passato vengono
continuamente riscritti e in cui le alleanze mutano
senza lasciare un segno di tale ambiguità, la
popolazione ha un oggetto contro cui riversare le
proprie paure e la propria violenza. E la società ha
uno stratagemma per poter controllare e
manipolare la popolazione attraverso il terrore e
una minaccia esterna consolidata.
Per controllare le masse e giustificare uno stato
di guerra permanente («La guerra è pace» è uno
dei motti del Partito), il potere deve aver livellato,
spersonalizzato, svuotato, omologato e poi
riempito di propri contenuti i cittadini. Ne
abbiamo parlato in altre opere e non ci torneremo
su in quest’ambito. La minaccia esterna e il
nemico pubblico, però, si inseriscono al culmine di
questo processo di manipolazione e controllo delle
masse.
IL PARADIGMA DEL CONTROLLO
Il filosofo e sociologo Herbert Marcuse, nel suo
capolavoro L’uomo a una dimensione. L’ideologia
della società industriale avanzata, analizzava le
tecniche di “aggressione” contro il libero arbitrio
delle masse («Una confortevole, levigata,
ragionevole, democratica non-libertà prevale nella
civiltà industriale avanzata, segno di progresso
tecnico» è l’incipit dell’opera), e delineava un
ordine sociale che appare totalitario, che permea di
sé ogni aspetto della vita dell’individuo e che,
soprattutto, ha inglobato anche le forze
tradizionalmente “antisistema” come la classe
operaia. In questo modello, la vita dell’individuo è
ridotta al bisogno atavico di produrre e consumare,
senza alcuna possibilità di resistenza. Marcuse
denunciava il carattere repressivo della società
industriale avanzata, che appiattisce l’uomo fino
alla dimensione di mero consumatore («Il pensiero
a una dimensione è promosso sistematicamente dai
potenti della politica e da coloro che li
riforniscono di informazioni per la massa»1); un
consumatore reso euforico e ottuso dalla
suggestione alla quale è costantemente esposto, la
cui unica libertà è la possibilità di scegliere tra
prodotti diversi.
Il processo di costituzione della falsa coscienza
prevede, secondo Marcuse, il livellamento
“scientifico” a una dimensione del pensiero e delle
forme di comportamento: essi cioè vengono
definiti e imposti dal sistema, richiamando quel
meccanismo di condizionamento mentale che
Orwell immaginava in 1984, ossia il “bipensiero”
(in inglese, doublethink).
Per “bipensiero” Orwell intendeva la capacità,
imposta dal Grande Fratello, di condividere
simultaneamente due opinioni palesemente
contraddittorie e di accettarle entrambe, in modo
da non trovarsi mai al di fuori dell’Ortodossia
imposta dal governo («L’Ortodossia consiste nel
non pensare: nel non aver bisogno di pensare.
L’Ortodossia è inconsapevolezza»). Questo
processo psicologico porta ovviamente a una
forma di deliberata schizofrenia in cui l’individuo
si persuade a credere a delle menzogne fino a
convincersi che siano vere, perché così impone
l’Ortodossia dettata dal tiranno.
Seppure in maniera meno “violenta”, anche
nella società di cui parla Marcuse le idee, le
aspirazioni e gli obiettivi che trascendano invece
le direttive statali vengono respinti, schiacciati o
ricondotti all’interno del sistema. Non esiste
ancora il “bipensiero”, ma vi è una forma di
controllo mentale molto simile. Il livellamento
ideologico avviene perlopiù con facilità, in quanto
l’individuo è abituato fin dall’infanzia a plasmare i
propri interessi, i propri pensieri e le proprie azioni
su ciò che gli è richiesto dal sistema. L’individuo,
cioè, attraverso una forma di mimesi, si identifica
come parte del tutto. L’identificazione
dell’individuo con la sua società lo conduce a
immedesimarsi di riflesso con il tutto, senza il
quale non può vivere, portandolo però
all’alienazione e a essere inghiottito da essa.
Al paradigma della violenza, tipico del XX
secolo2, si sostituisce così il paradigma del
controllo, come se, dopo aver distrutto, umiliato e
terrorizzato la popolazione, fosse il tempo di
gettare le basi per la sua sorveglianza. Il controllo
sociale è radicato proprio nei falsi bisogni che esso
ha prodotto nelle nuove generazioni.
L’ALIENAZIONE DELLO SPETTACOLO
I falsi bisogni indotti nei cittadini creano degli
individui spersonalizzati che diventano meri
“consumatori” globali.
Arriviamo così al sistema filosofico di stampo
marxista dello scrittore e regista francese Guy
Debord, in cui i consumatori, ormai alienati,
invece di fare esperienze dirette si accontentano di
osservare nello “spettacolo” tutto ciò che a loro
manca3. Questo accade perché ciò che aliena
l’uomo non è più, come accadeva ai tempi di
Marx, l’oppressione diretta del padrone unita al
feticismo delle merci, bensì lo spettacolo, che
Debord definisce come «un rapporto sociale fra
individui mediato dalle immagini». Si tratta di una
forma di assoggettamento psicologico totale in cui
ogni singolo individuo è isolato dagli altri e
assiste, nella più totale passività, allo svilupparsi
di «un discorso ininterrotto che l’ordine presente
tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È
l’autoritratto del potere all’epoca della gestione
totalitaria delle condizioni di esistenza»4.
Lo spettacolo, di cui i mass media sono solo
una delle molte espressioni, è parte fondante della
società contemporanea ed è il responsabile della
perdita, da parte del singolo, di ogni forma di
individualità, personalità e creatività umana: anche
secondo Debord, la passività è ciò che caratterizza
l’uomo, il quale, per essere accettato dalla società,
non può far altro che soccombere ai suoi
meccanismi di controllo e manipolazione.
Rientra nello spettacolo anche la creazione di
un antagonismo “di facciata” tra sistemi sociali
che sono in realtà solidali tra loro. È questo il caso
della guerra fredda, definita da Debord come
«divisione dei compiti spettacolari». La
contrapposizione in due blocchi mondiali è in
realtà fittizia, giacché vuole convincere gli
individui che esistono solo quei due modelli di
società, i quali in realtà hanno più affinità che
differenze essendo entrambi basati sulla logica
capitalistica e sul dominio gerarchico di una
classe.
Siamo nella classica strategia del divide et
impera che contraddistingue il modus operandi
dell’ideologia mondialista: creare fazioni in
apparenza contrastanti e opposte (partiti,
movimenti religiosi, correnti di pensiero ecc.) sulle
quali far convergere due schieramenti della
popolazione che, inconsapevoli del meccanismo,
si danno battaglia mentre il potere centrale, quello
vero, governa super partes. Per fare ciò si
distrugge o si altera la memoria storica, inducendo
il senso di vivere in un eterno presente, proprio
come accade in 1984, in cui, tramite il
meccanismo del bipensiero, la storia viene
continuamente riscritta.
Se Orwell scriveva: «Chi controlla il passato
controlla il futuro. Chi controlla il presente
controlla il passato», Debord fa osservare come la
cancellazione della storia sia un elemento
strutturale per la sussistenza di un totalitarismo:
«La società burocratica totalitaria vive in un presente
perpetuo in cui tutto ciò che è avvenuto esiste per essa
soltanto come spazio accessibile alla sua polizia».

Quando – nel 1988, nei Commentari sulla


Società dello Spettacolo – Debord tornerà ad
analizzare lo spettacolo, spiegando che la società,
mischiandosi ad ogni aspetto della realtà, si è
ormai completamente spettacolarizzata. La società
è dominata dalle immagini falsificate, che si
sostituiscono alla realtà facendo scomparire
qualsiasi possibilità di attingere la verità, al di là
della falsificazione continua che la ricopre. Ciò
determina la scomparsa del concetto di storia, e
quindi anche della democrazia. La finzione della
democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la
costruzione di un nemico comune, che cela la
separazione gerarchica tra il potere e le masse. È
questo il ruolo del terrorismo.
IL POTERE DELL’IMMAGINAZIONE
Vent’anni prima Marcuse aveva già esplicitato la
strategia con cui il potere crea una falsa minaccia
per controllare la popolazione attraverso la paura:
«La società come un tutto diventa una società fondata sui
bisogni della difesa. Perché il Nemico è un dato
permanente. Non fa parte della situazione di emergenza, ma
del normale stato delle cose. Esso avanza minacce in tempo
di pace non meno che in tempo di guerra».

Le masse destabilizzate dal terrore di una


minaccia iniziano a diffidare di tutto ciò che le
circonda e che non si livella sul consenso comune,
trasformandosi così in solerti controllori e
accettando delle misure di restrizione della privacy
che normalmente non avrebbero tollerato.
In questo scenario all’apparenza implacabile,
l’unica alternativa, per Marcuse, è quella di
riappropriarsi dell’immaginazione, che, data la sua
importanza, risulta essere la vittima primaria del
condizionamento di massa.
Già Aldous Huxley notava come i potenti
avessero capito che per controllare le masse era
necessario agire sul «pressoché insaziabile
appetito di distrazioni» che prova l’uomo. In
questo senso, spiegava il romanziere inglese,
l’industria dei media si delinea come uno dei
bracci armati dei governanti, tesa com’è non tanto
a comunicare il vero o il falso, quanto semmai a
offrire l’irreale, ossia una fuga dalla realtà che
obblighi l’uomo a distrarsi dalla contingenza
sociale, economica e politica (per non parlare di
quella metafisica). E qui torniamo al pensiero di
Debord.
La critica di Marcuse sarebbe poi stata
approfondita da un altro grande pensatore, Hans-
Georg Gadamer, che nel 1995 sarebbe arrivato ad
accusare i media di rendere volontariamente
passivi gli individui. Il filosofo di Marburgo
accennava persino alla «funzione politica della
televisione, consistente nell’addomesticare le
masse, nell’addormentare la capacità di giudizio e
il gusto delle idee» in modo da rendere le persone
apatiche alle notizie trasmesse. In quest’orizzonte
di ovvietà, di passività e di carenza di dialogo in
cui l’immaginazione viene repressa e l’individuo
disabituato a “pensare”, certi messaggi possono
essere trasmessi lavorando sul subconscio: per
questo Gadamer, nel 1995, arrivò a definire la
televisione «la catena degli schiavi alla quale è
legata l’odierna umanità».
Eppure, già Marcuse spiegava che il potere di
livellamento messo in atto dai media è solo
l’ultimo anello nella catena della manipolazione di
massa. Vi è un processo di indottrinamento che
possiamo definire “antropologico” e che culmina –
non inizia! – con la fase della suggestione
mediatica: i mezzi di comunicazione e la sfera
dello spettacolo diventano «agenti di
manipolazione e indottrinamento»5.
In una società concentrata sull’immagine, che
– come spiegava Gadamer – «ha perso la
dimensione del dialogo» e che – come ammetteva
Julian Huxley, fratello di Aldous e cofondatore
dell’UNESCO – ricorre ormai nella quotidianità
alle tecniche di propaganda utilizzate in tempo in
guerra, l’ipnosi sembra essersi conquistata un
ruolo di primo piano, proprio come previsto
dall’autore di Mondo Nuovo. L’ipnosi mediatica
avviene tramite il continuo martellamento di
immagini e contenuti, che vengono introiettati
dagli spettatori e creduti in modo acritico (perché
ci si aspetta che i media dicano la verità),
comprese le immagini di una minaccia esterna e di
un nemico pubblico che cambiano a seconda del
periodo e che degenerano nel terrore generalizzato
e nella caccia alle streghe. Può essere la minaccia
di una pandemia (Sars, Ebola ecc.), oppure una
minaccia politica (il comunismo), terroristica (al-
Qaeda, ISIS) o personale (Castro, Noriega,
Miloševic, Chavez, Putin, bin Laden, Mullah
Omar, il Califfo autoproclamato dello Stato
islamico e leader di Isis Abū Bakr al-Baghdādī
ecc).
Se osserviamo però le caratteristiche con cui
vengono delineati e offerti al pubblico i “nemici”
di turno, possiamo notare uno schema di fondo
ripetitivo, e in qualche modo banale, che ricalca in
effetti l’Emmanuel Goldstein orwelliano. È ancora
Brzezisnki a spiegare in che modo la Casa Bianca,
sotto l’amministrazione Clinton, manipolava
l’opinione pubblica creando “il nemico dell’anno”.
In base ai propri interessi (geopolitici, economici,
finanziari; raramente “umanitari”), Washington
utilizza da sempre i mass media e le lobby:
«Campagne di stampa seguite da risoluzioni e discorsi
congressuali ostili si concentrarono, per esempio, sulla
Libia, sull’Iraq, sull’Iran, sulla Cina, ogni volta forzando il
pericolo che ciascuno di questi Paesi poteva rappresentare
per gli Stati Uniti. Il paradosso è che un’America
oggettivamente sicura e potente, vittoriosa nella guerra
fredda, con questa ricerca di demoni globali che potessero
giustificare l’insicurezza soggettiva creò un terreno fertile
per le paure, che divennero tanto pervicaci dopo l’Undici
settembre»6.

Il nemico di turno, ovviamente, si macchierà di


efferati delitti, attentati e stragi che serviranno,
però, paradossalmente, a consolidare l’ordine
costituito del potere contro cui vorrebbe abbattersi.
In quest’ottica il nemico supremo
dell’Occidente, colui che è stato battezzato lo
“Sceicco del terrore” e la cui morte è stata
festeggiata con un misto di delirio e tripudio
(«Abbiamo tagliato la testa al Serpente») è stato
sicuramente il proteiforme Osama bin Laden. Il
nemico dai mille volti e dalle innumerevoli…
morti.
LE VERITÀ SULLA FINE DI BIN LADEN
La versione ufficiale fornita dalla Casa Bianca del
blitz del 2 maggio 2011 in un compound ad
Abbottabad (Pakistan) compiuto da un commando
di Navy Seals degli Stati Uniti in cui venne ucciso
Osama bin Laden, è falsa e «potrebbe essere stata
scritta da Lewis Carroll»7, l’autore di Alice nel
paese delle meraviglie. Parole di Seymour Hersh,
uno dei più noti giornalisti investigativi
statunitensi, in un’inchiesta al vetriolo pubblicata
sulla «London Review of Books»8. Collaboratore
del «New Yorker» fin dagli anni Novanta, Hersh
ha vinto il suo primo premio Pulitzer nel 1970 e da
allora è considerato uno dei massimi reporter al
mondo, con fonti dirette nell’intelligence e
nell’esercito statunitense ad alti livelli.
Secondo Hersch, il governo pachistano – che
aveva già catturato bin Laden nel 2006 e lo teneva
nascosto ad Abbottabad con la complicità e il
sostegno del governo saudita – avrebbe
consegnato lo Sceicco del terrore a Washington in
cambio di aiuti militari e di un ruolo nel futuro
politico dell’Afghanistan. Un ex ufficiale dell’ISI
avrebbe inoltre incassato gran parte dei
venticinque milioni di dollari della taglia che
Washington aveva messo su bin Laden, dopo avere
passato, nel 2010, l’informazione alla CIA sulla
sua localizzazione ad Abbottabad.
Il blitz sarebbe stato dunque inscenato ad arte e
il corpo di bin Laden non sarebbe stato gettato in
mare, ma fatto a pezzi e abbandonato sulle
montagne dell’Hindu Kush.
La fine dello Sceicco del terrore, infatti, ha
suscitato da subito numerose perplessità tra gli
addetti ai lavori, i quali dubitavano già da anni che
bin Laden fosse ancora vivo. La notizia della sua
morte è stata diffusa in un momento
particolarmente drammatico della prima
amministrazione Obama, risollevando così la Casa
Bianca da ben altri problemi che aleggiavano su di
essa.
L’EFFETTO POLITICO
«Il blitz dei Navy Seals ad Abbottabad è una farsa
totale, una finta. Siamo in un teatro americano
dell’assurdo»9, aveva già dichiarato il dottor Steve
Pieczenik, membro del CFR ed esperto di relazioni
internazionali, nel 2011 in una diretta radiofonica
con Alex Jones. Pieczenik, che negli anni della
guerra fredda è stato anche vicesottosegretario con
ministri quali Henry Kissinger, Cyrus Vance e
James Baker, ha motivato le sue dichiarazioni
spiegando che si sarebbe trattato dell’ennesima
messinscena per motivi geopolitici. A corollario
della rivelazione, avrebbe spiegato che l’attacco
alle Torri gemelle sarebbe stato soltanto «a part of
a false flag operation» («una parte dell’operazione
sotto falsa bandiera») condotta dal Pentagono.
Quest’informazione gli sarebbe stata data da un
generale maggiore dello staff di Paul Wolfowitz e
lui sarebbe pronto a rivelarne il nome di fronte al
gran giurì.
La scena della cattura ad Abbottabad sarebbe
quindi stata, per Pieczenik, «una farsa totale, una
finta. Siamo in un teatro americano dell’assurdo».
Una farsa, una fandonia.
Già nel 2002, sempre ospite dello show di
Jones, Pieczenik aveva dichiarato che bin Laden
era morto da tempo e che il governo stava
aspettando il momento “politico” più adatto per
rendere pubblica la notizia. L’annuncio della morte
di bin Laden, diffusa il 2 maggio 2011, aveva
risollevato il primo mandato di Obama,
nascondendo il fallimento del suo team che,
secondo alcuni, aveva disatteso punto per punto le
promesse elettorali. La notizia dell’uccisione del
nemico numero uno aveva riportato quella
speranza che Obama era riuscito a creare in
campagna elettorale grazie al carisma trasmesso
nei suoi celebri comizi. Dopo meno di due
settimane dalla notizia della morte di bin Laden,
Obama era risalito di ben undici punti percentuali
nei sondaggi, arrivando a quota 60% di
gradimento. L’intervento in Pakistan dei Navy
Seals era stato davvero propizio per il futuro di
Obama, che sarebbe stato poi riconfermato alla
Casa Bianca per il suo secondo mandato.
La settimana prima della cattura, il presidente
americano era stato costretto a rendere pubblico il
suo certificato di nascita dopo quasi tre anni di
battaglie legali per impedirne la pubblicazione, a
causa dell’insistenza del repubblicano Donald
Trump. Si era infatti diffusa la voce che Obama
fosse nato non alle Hawaii ma – come raccontato
dalla stessa nonna paterna Sarah Onyango ai
giornalisti! – a Mombasa, in Kenya.
La tempistica “provvidenziale” del blitz ad
Abbottabad suscitò numerose perplessità. Il capo
dei servizi segreti iraniani dichiarò pubblicamente
che si trattava di una montatura elettorale per far
risalire il presidente USA nei sondaggi, perché bin
Laden era morto da tempo…
In realtà, lo Sceicco era stato dato per morto
già numerose volte. Era infatti la nona volta, dal
2001, che un capo di Stato o un alto funzionario
governativo annunciava ufficialmente la morte di
bin Laden.
L’UOMO CHE MORÌ NOVE VOLTE
Negli anni, l’ipotesi che bin Laden fosse un agente
della CIA – a partire dal coinvolgimento
dell’Agenzia nella guerra dei mujāhidīn contro i
sovietici – è stata sollevata più volte, criticata,
negata e ancora riportata in auge, senza prove
definitive in un senso o nell’altro.
La versione ufficiale del Pentagono sostiene
che lo Sceicco è stato la mente di numerosi
attentati, compresi quelli dell’Undici settembre, e
che solo dopo dieci anni di ricerche è stato
individuato in Pakistan e ucciso dai Navy Seals,
sebbene i talebani avessero chiarito che né loro né
bin Laden c’entravano nulla con gli attentati.
Secondo fonti «Reuters», lo sceicco aveva negato
il suo coinvolgimento con un messaggio riferito
alla Casa Bianca dall’ambasciatore talebano in
Pakistan10. Poi ci sono le versioni più o meno
attendibili di premier, servizi segreti, informatori e
giornalisti freelance, che riportano un’altra verità;
a partire dalla FOX, che il 26 dicembre 2001
aveva rivelato che, secondo i talebani afghani, bin
Laden era morto all’inizio del mese ed era stato
sepolto in una tomba senza alcun contrassegno,
come prescritto dalla pratica dei sunniti
wahabiti11.
Il 17 luglio 2002 Dale Watson, all’epoca capo
dell’antiterrorismo all’FBI, nel corso di una
conferenza dei funzionari incaricati
dell’applicazione della legge, aveva dichiarato:
«Personalmente penso che bin Laden non sia più
con noi»; poi aveva aggiunto con cautela: «Non ho
però alcuna prova per supportare questa mia
affermazione», lasciando però trapelare che forse
qualche prova ce l’aveva eccome.
Nell’ottobre del 2002 il presidente afghano
Hamid Karzai dichiarò alla «CNN»: «Giungerei a
ritenere probabile che bin Laden sia morto».
La «CBS», nei reportage di Jim Stewart che
abbiamo presentato poc’anzi, aveva divulgato
diverse testimonianze sul grave ferimento di bin
Laden a Tora Bora, cui sarebbe seguita la morte
nel periodo compreso tra la fine del 2001 e la
primavera del 200212.
Nel novembre del 2005 il senatore Harry Reid
rivelò che gli era stato detto che bin Laden poteva
essere deceduto nel corso del terremoto in
Pakistan nell’ottobre dello stesso anno13.
Nel settembre del 2006 i servizi segreti
francesi fecero trapelare un rapporto in cui si
ipotizzava che bin Laden fosse stato ucciso in
Pakistan.
Il 2 novembre 2007 l’ex primo ministro
pachistano Benazir Bhutto dichiarò all’inviato di
Al-Jazeera, David Frost, che Omar Sheikh aveva
giustiziato Osama bin Laden14.
Infine, nel maggio del 2009 il presidente del
Pakistan, Asif Ali Zardari, confermava che le sue
«controparti nelle agenzie dei servizi segreti
americani» negli ultimi sette anni non erano
venute a sapere più nulla su bin Laden,
aggiungendo: «Non penso che sia vivo»15. Mentre,
secondo la versione “ufficiale” americana, bin
Laden avrebbe trovato rifugio proprio in terra
pakistana16.
Un altro mistero è legato alla morte di parte
del commando che il 2 maggio 2011 avrebbe
ucciso lo Sceicco del terrore ad Abbotabad. Come
confermato da fonti militari USA alla «CNN», 22
militari appartenenti al Team 6 dei Navy Seals
sarebbero stati abbattuti a Wardak, a bordo di un
Chinook, da un razzo talebano. La strage, che è
stata definita la “peggior tragedia della guerra in
Afghanistan”, ha totalizzato 38 morti. I funzionari
governativi statunitensi si sono affrettati a negare
che si trattasse però degli stessi uomini che
avevano compiuto il blitz, «sebbene fossero della
stessa unità che ha eseguito la missione bin
Laden». La notizia non è verificabile, in quanto gli
autori del blitz pakistano sono stati coperti, per
sicurezza nazionale, dall’anonimato.
Come ricorda Pino Cabras, subito dopo i fatti
di Abbottabad gli esponenti del sito Infowars.com
avevano però predetto un incidente militare che
nel giro di poco tempo avrebbe eliminato dalla
scena i Navy Seals coinvolti nella misteriosa
operazione; citavano casi analoghi in cui le
operazioni “coperte” venivano a loro volta
“coperte” sacrificandone i protagonisti, che un
giorno avrebbero potuto offrire ai media la loro
versione dei fatti. Quella reale.
PER I SERVIZI SEGRETI FRANCESI AL-
QAEDA NON ESISTE
Dal 2010 i servizi segreti francesi sostengono che
al-Qaeda non esiste più dal 2002, come ha
dichiarato il capo dei servizi segreti francesi al
Senato della Repubblica francese il 29 gennaio
2010. In quella data, Allain Chouet, già capo della
DGSE (Direction Générale de la Sécurité
Extérieure, il controspionaggio francese) affermò:
«Come molti miei colleghi professionisti nel mondo,
ritengo, sulla base di informazioni serie e verificate, che al-
Qaeda sia morta sul piano operativo nelle tane di Tora Bora
nel 2002 […] Dei circa quattrocento membri attivi
dell’organizzazione che esisteva nel 2001, meno di una
cinquantina di seconde scelte (a parte Osama bin Laden e
Ayman al-Zawahiri, che non hanno alcuna attitudine sul
piano operativo) è riuscita a scampare e a scomparire in
zone remote, vivendo in condizioni precarie e disponendo di
mezzi di comunicazione rustici o incerti»17.

E concluse l’intervento come segue:


«Non è con tale dispositivo che si può animare una rete
coordinata di violenza politica su scala planetaria. Del resto,
appare chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli
attentati post Undici settembre (a Londra, Madrid, Sharm
el-Sheik, Bali, Casablanca, Bombay ecc.) ha avuto contatti
con l’organizzazione».

Il colpo di coda è stato l’accusa diretta ai


media di fomentare l’odio verso i musulmani:
«A forza di invocarla di continuo, certi media o presunti
“esperti”, di qua e di là dell’Atlantico, hanno finito non già
per resuscitarla, ma per trasformarla come quell’Amedeo
del commediografo Eugene Ionesco, un morto il cui
cadavere continua a crescere e a occultare la realtà, e di cui
non si sa come sbarazzarsi»18.

Dalla relazione di Chouet, al-Qaeda appare


sempre più come lo spauracchio evocato da
governi o giornalisti, quando occorre, per
giustificare una “guerra infinita” in Medio Oriente
che è costata agli USA duemila miliardi di dollari,
ma che è sempre più necessaria per accaparrarsi le
risorse energetico-petrolifere del Nord Africa,
cercando di battere sul tempo la Cina.
PUBBLICATO UN DOSSIER FRANCESE
DEI SEGRETI CLASSIFICATI
Tre anni prima delle dichiarazioni di Chouet,
nell’aprile del 2007, qualcuno, probabilmente un
hacker, pubblicò un dossier contenente centinaia
di segreti classificati: «Ogni pagina era
contrassegnata dai timbri rossi “confidenziale-
difesa” e “uso strettamente nazionale”. In alto a
sinistra, un logo blu: quello della DGSE». Ben 238
pagine dedicate ad al-Qaeda, ai suoi capi, ai luoghi
di addestramento e ai sostegni finanziari. L’allora
capo di Gabinetto, Emmanuel Renoult, fu costretto
a confermare a «Le Monde» l’autenticità di quei
documenti.
Uno di questi, datato 24 luglio 2000,
descriveva le condizioni critiche di Osama:
«Vive da svariati anni in condizioni precarie, spostandosi di
continuo, di campo in campo; soffre comunque di problemi
renali e dorsali […] Voci ricorrenti danno per certa la sua
morte a breve, ma non sembrerebbe, attualmente, avere
cambiato le sue abitudini di vita»19.

Secondo quanto dichiarato alla «BBC» da


Benazir Bhutto, invece, lo sceicco del terrore
sarebbe morto almeno quattro anni prima del blitz
ad Abbottabad20. La prima premier donna
pakistana, morta in un terribile attentato il 27
dicembre 2007, ebbe infatti il coraggio, o forse la
sfrontatezza, di dichiarare, in un’intervista
televisiva condotta da David Frost, che Osama bin
Laden era stato ucciso da Omar Sheik21.
L’intervista, visibile su Internet, andò in onda
il 2 novembre 2007. Al centro del confronto con
Frost, i motivi e i probabili responsabili del fallito
attentato alla Bhutto, avvenuto pochi giorni prima,
il 18 ottobre. Nel denunciare i responsabili del
terrorismo in Pakistan, la premier, dopo appena 5’
e 30’’ di intervista, nomina Omar Sheik, ex
collaboratore dell’ISI, il servizio segreto
pakistano, aggiungendo, per descriverlo: «The
man who murdered Osama bin Laden» (L’uomo
che ha assassinato Osama bin Laden)22.
Benazir Bhutto si lancia in una dichiarazione
del genere e David Frost, diventato celebre per la
sua intervista fiume a Richard Nixon in merito allo
scandalo Watergate e con quarant’anni di
esperienza alle spalle… non interviene. Lascia
continuare la premier senza interromperla o
correggerla – nel caso si fosse trattato di un lapsus
– e continua con altre domande, incurante della
rivelazione del secolo.
Se fosse stato un errore (la Bhutto avrebbe
nominato Osama bin Laden intendendo però
riferirsi a un’altra vittima di Sheik, il giornalista
David Pearl), come la redazione dell’emittente
televisiva, in seguito, ha cercato di far credere,
Frost avrebbe dovuto almeno interromperla con
garbo, abbozzando una battuta o qualcosa di
simile. Invece nulla.
Inoltre, l’Omar Sheik indicato dalla Bhutto è lo
stesso che, secondo la versione ufficiale USA,
avrebbe consegnato 100.000 dollari a Mohamed
Atta qualche giorno prima dell’Undici settembre e
che si trattenne a Washington l’undici settembre
per incontrare i colleghi americani e i membri del
Congresso. Da lì e con costoro seguì l’accaduto in
televisione. Il capo dell’ISI, dopo qualche mese,
sostenne che i diciannove fondamentalisti accusati
di aver organizzato l’attentato non avrebbero in
realtà avuto niente a che fare con gli attentati di
New York e di Washington; questo sulla base di
informazioni dei servizi segreti pachistani, di cui
era a capo. Sheik venne immediatamente sollevato
dall’incarico su pressione del Pentagono. Forse la
Bhutto aveva avuto accesso a informazioni
riservate, quand’anche fossero state sbagliate23.
Un mese e mezzo dopo l’intervista con Frost,
Benazir Bhutto moriva in un attentato a
Rawalpindi, a circa 30 km da Islamabad, vicino al
luogo dove, secondo le fonti USA, Osama avrebbe
vissuto dal 2003. Ma al-Qaeda, accusata di aver
organizzato l’attentato, negò con risolutezza il
proprio coinvolgimento, nonostante
un’intercettazione telefonica di un colloquio del
leader dei talebani Baitullah Mehsud con gli
uomini che avrebbero pianificato l’omicidio.
Possibile che Mehsud fosse così ingenuo da
congratularsi al telefono con Maulvi Sahib per
quello che definisce soltanto “l’assassinio della
donna”, senza fare il nome della Bhutto ma
dichiarando che «è stata una prova formidabile.
Sono stati veramente dei bravi ragazzi quelli che
l’hanno uccisa», riferendosi a tali Ikramullah e
Bilal? Dei militanti così inesperti da parlare al
telefono dei dettagli di un attentato, con tanto di
nomi, non potrebbero andare molto lontano, e con
essi l’intera organizzazione terroristica24.
Il presidente Musharraf, indicato invece come
il mandante dell’omicidio dal marito della Bhutto,
si è visto costretto a dimettersi in diretta nazionale
il successivo 28 agosto 2008. Qualcosa, però, deve
saperla anche lui, dato che a quel tempo Sheik
lavorava per i servizi segreti pakistani e soltanto
l’anno prima, il 2006, nelle sue Memorie,
Musharraf aveva ammesso di sospettare che Omar
Sheik avesse lavorato per i servizi segreti
britannici, l’MI625; il che ci condurrebbe verso
un’altra pista, molto più inquietante, secondo la
quale dietro la strage delle Torri gemelle potrebbe
esservi stata la regia occulta della Gran Bretagna e
degli USA per poter giustificare l’intervento in
Iraq e in Afghanistan. Ipotesi, questa, avvalorata
dalle presunte cariche di esplosivi piazzate in vari
piani dei grattacieli, le cui tracce, come abbiamo
visto, sarebbero state viste da numerosi testimoni.
LA MALATTIA DI OSAMA
Rimane aperta la questione sullo stato di salute
dello Sceicco, che nel 2001, proprio alla vigilia
degli attentati, era stato ricoverato in una clinica in
Pakistan per farsi curare ed era stato sottoposto a
dialisi26. A riferirlo, nel 2002, era stata la «CBS»,
citando fonti dell’intelligence pakistana secondo le
quali il leader di al-Qaeda si sarebbe trovato
nell’ospedale militare di Rawalpindi la notte tra il
10 e l’undici settembre 200127.
In questo senso, il presidente Pervez
Musharraf si sarebbe detto convinto della morte di
bin Laden per problemi renali. L’ex presidente
pakistano già nel 2002 aveva dichiarato alla
«CNN»: «Ritengo francamente che [bin Laden;
N.d.A.] sia morto, dato che è un paziente ammalato
di reni»; inoltre, aveva spiegato che le autorità
pakistane erano al corrente che lo Sceicco si era
procurato due macchinari per la dialisi e li aveva
portati in Afghanistan.
Anche la «CBS», all’inizio del 2002, nei
reportage di Jim Stewart aveva raccolto e
divulgato alcune testimonianze riguardo al
ferimento di bin Laden durante gli attacchi di Tora
Bora, cui sarebbe seguita la morte. Della stessa
opinione era il presidente dell’Afghanistan Hamid
Karzai, che alla fine del 2002 rafforzava questa
convinzione dicendosi certo della morte dello
Sceicco: bin Laden sarebbe morto perché,
costretto alla fuga dopo l’attacco al World Trade
Center, non sarebbe stato più in grado di sottoporsi
costantemente alla dialisi28.
Come anticipato, anche secondo Pieczenik bin
Laden sarebbe morto nel 2001 (dicembre 2001 o,
al massimo, primavera 2002), data su cui sembra
concordare la maggior parte degli analisti dei
servizi segreti29. Lo Sceicco sarebbe morto non in
seguito a una cattura delle forze speciali, ma
«perché era stato visitato da un’equipe della CIA e
dai loro registri risulta che fosse afflitto dalla
sindrome di Marfan», un disturbo degenerativo
che colpisce le ossa, i legamenti, gli occhi, il
cuore, i vasi sanguigni e i polmoni30.
Seguendo la testimonianza dello psichiatra, il
governo americano conosceva esattamente tutti i
movimenti di bin Laden e sapeva dunque della sua
morte prima dell’invasione in Afghanistan. Non
solo: nel luglio del 2001 la CIA lo avrebbe visitato
presso l’ospedale americano di Dubai e le sue
condizioni sarebbero apparse già allora disperate:
«Era molto malato e stava morendo, non c’era
bisogno che qualcuno lo uccidesse». Il Califfo
sarebbe infatti deceduto nell’autunno del 2001,
poco dopo l’attacco alle Torri gemelle. Secondo
Pieczenik, però, bin Laden era affetto dalla
“sindrome di Marfan”. La patologia – incurabile –
era già stata attribuita a bin Laden dieci anni or
sono (www.salon.com): dallo studio delle foto e
dei video in cui appariva e dai registri dall’FBI, lo
Sceicco venne identificato come un probabile
candidato per la diagnosi della Marfan31.
Se la versione della malattia di Osama, della
sua degenza prima a Dubai e poi in una clinica
pakistana e dell’invio di medici a Jalalabad trova
numerose conferme, nella testimonianza di
Pieczenik emerge il ruolo che la CIA avrebbe
continuato ad avere negli anni con il terrorista. Se
ciò fosse vero, dimostrerebbe il coinvolgimento
dell’Agenzia nella formazione di al-Qaeda e
nell’Undici settembre, che sarebbe stato
un’operazione false flag per mobilitare
l’attenzione pubblica americana contro un nemico
immaginario, ovvero al-Qaeda. La tragedia del
World Trade Center avrebbe così coalizzato
americani ed europei, sulla base di falsi
presupposti, contro un nemico creato a tavolino
per giustificare l’invasione dell’Afghanistan e poi
dell’Iraq.
Pieczenik ha infatti spiegato che quella
dell’Undici settembre sarebbe stata un’operazione
in cui si erano deliberatamente bloccate le reazioni
della difesa e ha continuato accusando Dick
Cheney, Paul Wolfowitz, Stephen Hadley, Elliot
Abrams e Condoleeza Rice di avere «guidato gli
attacchi»32.
TERRORISMO IN FRANCHISING
Sebbene il declino dell’organizzazione sia stato
confermato a partire dal 2005, si deve rivedere il
concetto generale che si aveva di al-Qaeda alla
vigilia dell’Undici settembre. Gli esperti di
intelligence hanno dovuto fare i conti con un
cambiamento nell’operato del gruppo dopo
l’invasione dell’Afghanistan:
«Essendo impossibile replicare le stesse modalità operative
dopo aver perso il santuario afghano, l’organizzazione
adottò un approccio diverso: piuttosto che eseguire
direttamente gli attentati, prese a sostenere attacchi compiuti
da altri gruppi. Detto altrimenti, al-Qaeda si è evoluta in un
franchising del terrore, una rete decentrata che fornisce
marchio, supporto logistico e finanziario alle attività
terroristiche altrui. Gli attentati di Bali del 2002, ad
esempio, furono finanziati da al-Qaeda ma compiuti da altri.
La stessa tattica fu replicata in Marocco, Arabia Saudita,
Kenya e ovviamente Iraq»33.

Seguendo questo cambiamento del modus


operandi, gli esperti hanno suddiviso la struttura
dell’organizzazione, di per sé già decentrata, in tre
livelli:
«Il primo è il “nucleo di al-Qaeda”, termine usato in
riferimento a bin Laden e ai suoi fedelissimi. Il secondo si
compone di gruppi legati al primo da canali personali e
finanziari diretti […] Il terzo livello consiste in gruppi che
dichiarano la loro fedeltà all’ideologia e agli obiettivi di al-
Qaeda, ma non interagiscono in alcun modo con il nucleo
dell’organizzazione»34.

Gli studiosi hanno inoltre constatato che il


“regicidio” – con l’eccezione del PKK e di
Sendero Luminoso – raramente mina alle
fondamenta le organizzazioni insurrezionali o
terroristiche. In primis perché, come già avvenuto
nel caso di al-Qaeda, l’uccisione o la cattura del
leader causa una recrudescenza che solo la
“miopia geostrategica” americana poteva non
prevedere. Il desiderio di vendetta nei confronti
dell’Occidente ha già ricompattato le cellule
jihadiste spingendo gli USA a investire nuovi
miliardi di dollari nella struttura di sicurezza. In
questo senso, il passaggio di consegne all’ex
medico egiziano Ayman al-Zawahiri si è
configurato come una successione naturale,
scontata, sebbene al-Qaeda rimanga «una struttura
fortemente decentrata»35.
Secondo Jason Burke, capo reporter del
settimanale londinese «The Observer», invece,
non esisterebbe alcuna organizzazione terroristica,
ramificata su scala planetaria, presente in modo
capillare e con il nome di al-Qaeda36. Nel suo
saggio al-Qaeda, la vera storia, Burke ha
selezionato un notevole numero di documenti a
supporto della sua tesi: al-Qaeda sarebbe soltanto
«… un’etichetta, una sorta di logo, una specie di franchising
del terrorismo internazionale. Fa comodo a chi la utilizza,
ma fa più spesso comodo a chi, in teoria, la combatte»37.

L’organizzazione terroristica sarebbe dunque


una minaccia funzionale ai governi occidentali per
poter introdurre misure sempre più restrittive e
giustificare delle guerre che fanno comodo alle
lobby delle armi e del petrolio.
A sostegno della tesi di Burke troviamo anche
il giornalista Ercan Gun, che il 12 agosto 2005
scrisse un articolo per il quotidiano turco «Zaman»
in cui attribuiva la paternità dell’organizzazione
all’intelligence:
«È emersa la possibilità che al-Qaeda possa non essere, in
senso stretto, un’organizzazione bensì un elemento di
un’operazione di un’agenzia di intelligence. Gli specialisti
di intelligence turchi concordano sul fatto che non c’è
un’organizzazione come al-Qaeda. Semmai al-Qaeda è il
nome di un’operazione dei servizi segreti.
Il concetto “combattere il terrore” è il background del
modello di guerra a bassa intensità, condotta nell’ordine
mondiale monopolare. L’oggetto di questa strategia della
tensione è denominato al-Qaeda»38.

Cabras conclude osservando che al-Qaeda


potrebbe essere «più una creatura mediatica che la
“rete internazionale del terrore” dello sceicco
Osama bin Laden, più un catalizzatore di odio
primitivo e semplificato che un vero
movimento»39.
Dobbiamo inoltre ricordare che l’unica al-
Qaeda di cui si hanno notizie sicure è quella base a
Peshawar, in Pakistan, che era stata il crocevia dei
mujāhidīn armati dalla CIA che andavano a
combattere contro i sovietici. Sono ormai note le
foto di un giovane Osama con un altrettanto
giovane Brzezinski che maneggia dei kalashnikov
offerti ai combattenti. Il “grande nemico” di oggi
era l’amico del passato. Ma se si riscrive il
passato, ci si dimentica dei dettagli.
Cancellando, com’è abitudine ormai
consolidata, il passato, ci si dimentica sempre,
infatti, che le amministrazioni statunitensi hanno
sostenuto, finanziato e armato il terrorismo
islamico, dalla presunta al-Qaeda all’ISIS. La
prima in funzione antisovietica, la seconda diretta
contro il regime di Assad.
ISIS, UNA CREAZIONE DELLA CIA?
Dopo la morte di bin Laden c’era evidentemente
bisogno di un nuovo spauracchio. Attraverso titoli
terrificanti e video scioccanti, teste mozzate e
proclami di sterminio, l’ISIS viene oggi utilizzata
come strumento per giustificare la guerra in Medio
Oriente e diffondere la paura in tutto il mondo.
L’impressione che si ha è che da un momento
all’altro le armate del Califfo possano conquistare
e mettere a ferro e fuoco l’Occidente.
Nel corso di un’intervista concessa a «USA
Today», l’ex direttore della CIA Leon Panetta ha
dichiarato che gli americani dovrebbero prepararsi
a una guerra di trent’anni che si estenderà ben
oltre la Siria («Penso che ci troviamo davanti a
una guerra di trent’anni») per includere minacce
emergenti in Nigeria, Somalia, Yemen, Libia e
altrove40.
L’ISIS è la nuova al-Qaeda, completamente
adattata ai tempi moderni. Spuntata dal nulla, nel
giro di pochi mesi l’ISIS si è assicurata un gran
numero di risorse, di armi, di attrezzature
multimediali high-tech e di specialisti in
propaganda. Da dove provengono i soldi per le
tecniche di guerriglia?
La storia del leader dell’ISIS, Abu Bakr al
Baghdadi, è altrettanto torbida; secondo alcuni
ricercatori, egli, dopo l’arresto per mano
americana a Camp Bucca in Iraq, avrebbe iniziato
a collaborare con la CIA. Qua il balletto di
informazioni è tanto virtuale quanto virale:
secondo il sito americano Veterans Today, il vero
nome del Califfo sarebbe Shimon Elliott. Questi
sarebbe in realtà ebreo e addirittura uno dei
migliori agenti del Mossad israeliano,
specializzato in spionaggio nel mondo arabo e
nella guerra psicologica contro i musulmani41. Il
Califfo avrebbe come nemici gli stessi nemici di
Israele: sciiti, Iran, Assad e Hezbollah42.
In ogni caso, il Califfo incarna le peggiori
atrocità possibili, seppellisce vivi i bambini
cristiani, massacra gli yezidi43, violenta le donne,
ordina l’infibulazione di tutte le ragazze sul suolo
iracheno. In tal modo, ironizza Blondet, riesce a
far sì che l’intero Occidente si coalizzi contro
l’ennesima minaccia, dimenticando che l’ISIS è
«finanziata e armata dai sauditi ed è stata
addestrata da istruttori americani per distruggere il
regime di Assad in Siria»44. Secondo Edward
Snowden, l’ex analista dell’NSA, la creazione
dell’ISIS la si deve a tre elementi: l’intelligence
americana, l’intelligence britannica e il Mossad45.
Lo scopo sarebbe quello di «creare
un’organizzazione capace di attrarre tutti gli
estremisti del mondo in un posto solo»46;
un’organizzazione che si tiene al passo con i tempi
e i mezzi tecnologici, arrivando a minacciare via
Twitter di mettere a ferro e fuoco Roma47.
Anche l’ex segretario di Stato americano
Hillary Clinton, in un’intervista rilasciata
nell’agosto del 2014 a Jeffrey Goldberg, del
giornale web «The Atlantic», ha ammesso che il
fallimento delle strategie in Siria48 ha condotto
alla nascita del Califfato49:
«È stato un fallimento. Abbiamo fallito nel voler creare una
guerriglia anti-Assad credibile. Era formata da islamisti, da
secolaristi, da gente nel mezzo. Il fallimento di questo
progetto ha portato all’orrore a cui stiamo assistendo oggi in
Iraq».

L’intervista della Clinton era una chiara


denuncia nei confronti dell’amministrazione
Obama, che solo nell’estate del 2015 ha deciso di
autorizzare dei raid aerei in Siria in difesa dei
gruppi di ribelli siriani addestrati dal Pentagono
nell’ambito della sua strategia anti-ISIS,
attaccando le forze di Assad50, anche se
paradossalmente questi ha sempre combattuto il
Califfato. Il bersaglio dei raid così sembra essere,
come abbiamo visto, il regime siriano.
A confermarlo è Kenneth O’Keefe, un ex
ufficiale delle Forze armate USA, il quale ha
dichiarato a Press TV51 che lo Stato islamico è «la
creazione di un mostro, di un Frankenstein ideato
da noi statunitensi»52.
Secondo l’ex ufficiale, gli estremisti dell’ISIS
sono stati finanziati dagli USA attraverso alcuni
suoi rappresentanti, come il Qatar, gli Emirati
Arabi Uniti e l’Arabia Saudita: «In realtà, tutti
questi miliziani sono una nuova veste ribattezzata
di al-Qaeda, che di sicuro non è niente più che una
creazione della CIA».
O’Keefe riferisce che gli Stati Uniti non solo
hanno fornito ai jihadisti «il miglior
equipaggiamento nordamericano» – come il
sistema di protezione personale, i blindati per il
trasporto truppe e l’addestramento – ma hanno
anche permesso loro di diffondersi, attraverso le
frontiere, in molti altri Paesi del Medio Oriente.
Ciò sarebbe avvenuto per rovesciare il regime di
Assad in Siria.
Concorda con O’Keefe anche l’ex agente della
CIA Steven Kelley, il quale ha affermato che
l’ISIS è un gruppo terroristico creato, realizzato e
finanziato dall’intelligence americana. Durante
un’intervista, effettuata sempre dall’emittente
Press TV53, Kelley ha confermato che l’ISIS
«… è un nemico del tutto inventato. Il suo finanziamento
proviene dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, e far credere alla
gente che questo nemico sia qualcosa che debba essere
attaccato in Siria o in Iraq è una farsa, perché questo nemico
l’abbiamo creato noi, controllato noi, e ora è scomodo per
noi pensare di attaccarlo come legittimo nemico»54.

Il generale francese Vincent Desportes,


professore associato presso la facoltà di Scienze
politiche di Parigi, davanti alla commissione per
gli Affari Esteri, per la Difesa e per le Forze
Armate, il 17 dicembre 2014 ha confermato che
l’ISIS è una creazione degli Stati Uniti55. Il
generale ha dichiarato quanto segue:
«Chi è il dottor Frankenstein che ha creato questo mostro?
Diciamolo chiaramente, perché ciò comporta delle
conseguenze: sono gli Stati Uniti. Per interessi politici a
breve termine, altri soggetti – alcuni dei quali appaiono
come amici dell’Occidente – hanno contribuito, per
compiacenza o per calcolata volontà, a questa creazione e al
suo rafforzamento, ma le responsabilità principali sono degli
Stati Uniti».

Queste testimonianze collimano con il


pensiero di Tarpley, secondo cui «lo Stato islamico
è un esercito segreto degli Stati Uniti e Abu Bakr
al-Baghdadi, leader del gruppo terroristico, è un
caro amico del senatore John McCain»56. Tarpley
incolpa gli Stati Uniti della creazione dello Stato
islamico e afferma che il denaro che sostiene lo
Stato islamico e tutte le sue operazioni proviene
dall’Arabia Saudita, un alleato chiave degli Stati
Uniti in Medio Oriente. I principali finanziatori
dello Stato islamico sono presumibilmente il
principe Abdul Rahman al-Faisal, il fratello di
Saud bin Faisal Al Saud, ministro degli Esteri
dell’Arabia Saudita, e il principe Turki bin Faisal
Al Saud, l’ex ambasciatore saudita negli Stati
Uniti.
Tarpley si chiede anche: “Per quale motivo la
Casa Bianca, invece di accordarsi con il governo
di Assad in Siria, governo legalmente
riconosciuto, per schiacciare l’ISIS una volta per
tutte ha autorizzato i raid aerei proprio contro il
regime siriano?”. E ancora: “Perché le truppe USA
hanno bombardato le unità siriane fedeli ad Assad
quando l’esercito siriano ha iniziato a sconfiggere
gli jihadisti e a cacciarli via?”.
Lo storico statunitense conclude affermando
che, nella migliore delle ipotesi, tutto ciò è stato
controproducente e insensato; nella peggiore,
significa che gli USA sono sostenitori segreti dei
militanti dello Stato islamico57.
VLADIMIR PUTIN
Putin, divenuto presidente della Federazione russa
solo un anno dopo la fine dell’era del “presidente
alcolizzato” Boris Eltsin – che aveva permesso il
saccheggio delle risorse nazionali russe, messo in
atto da ex oligarchi comunisti attivamente
finanziati dall’Occidente per consegnare al
“grande capitale” cosmopolita i “gioielli di
famiglia” del Paese euroasiatico – è una figura dal
passato complesso (ex agente del KGB) su cui
l’Occidente ha proiettato lo schema del nemico
supremo (in parte tornato abilmente al mittente)58.
Come ha scritto Paul Craig Roberts, la
propaganda antirussa è «la copia dello stesso
scenario» adottato con bin Laden, Saddam e
Gheddafi59. Gli obiettivi sono lo screditamento e
la «liquidazione mediatica» del presidente russo –
osserva Giulietto Chiesa – attraverso una ridda di
indiscrezioni, menzogne e pettegolezzi60. Su di lui
è stato detto e scritto di tutto, investendo anche la
sua sfera personale. È stato dato più volte per
morto, per malato terminale; si è diffusa persino la
voce che abbia un sosia e che non sia la stessa
persona salita al potere nel 2000.
Per l’esecuzione – con quattro colpi di pistola
alle spalle, a poche decine di metri dalla Piazza
Rossa – dell’ex vicepremier ai tempi di Eltsin, poi
diventato liberale, Boris Nemtsov61, i media
internazionali hanno addirittura puntato il dito
contro il Cremlino, accusando lo stesso Putin di
essere il mandante dell’omicidio. Il sospetto è che
– data anche la fuga all’estero dell’unico
testimone, Anna Duritskaya, la fidanzata ucraina
di Nemtsov – si volesse far scoppiare una
“Rivoluzione colorata” nel cuore della Russia,
catalizzando un’ondata di biasimo che però non
c’è stata62.
Nell’edizione inglese della «Pravda», un
articolo intitolato Chi ha ucciso Boris Nemtsov ha
proposto la pista della false flag per incolpare
Putin dell’omicidio63. Il pezzo comincia citando
«una pubblicazione sponsorizzata dalla CIA»,
ossia Wikipedia, che non avrebbe perso tempo ad
aggiornare sul web la biografia di Nemtsov,
dipingendolo come acerrimo nemico di Putin.
L’inchiesta smentisce l’ipotesi che vi sia il leader
russo dietro la morte del suo oppositore: «Tutti
concordano sul fatto che Putin è un brillante uomo
politico e stratega che ha portato la Russia fuori
dalla povertà e dalla disintegrazione: si tratta di un
eccellente statista», continua l’articolista Moti
Nissani64, che fa notare un dato scontato, ossia che
Putin non avrebbe guadagnato nulla dalla morte di
Nemtsov; anzi, la sua uccisione ha rischiato di
farne un martire e di essere strumentalizzata per
canalizzare il malcontento del Paese e farlo
sfociare in proteste.
Putin è tutt’altro che stupido e non avrebbe
neppure commissionato l’agguato a pochi metri
dalla Piazza Rossa, un luogo, tra l’altro, pieno di
telecamere.
Il presidente si è dimostrato infatti capace di
giocare le sue fortune politiche scommettendo sul
rimanente orgoglio del popolo russo, che lo ha
ripagato; un popolo umiliato e prostrato, ma
ancora memore del suo destino di superpotenza e –
particolare non di secondo piano – atavicamente
avverso all’Occidente e al suo espansionismo65.
Per questo la propaganda contro di lui si è ritorta
contro i suoi detrattori, creando un forte fronte a
suo favore anche in Occidente.
In politica estera, come ricorda Marletta, Putin
ha dimostrato una notevole astuzia: dopo l’Undici
settembre si è presentato come alleato dell’Ovest
nella “guerra al terrorismo”, assicurandosi così la
possibilità di scatenare una spietata rappresaglia
contro la guerriglia cecena: una guerra combattuta
all’asiatique e contrassegnata da episodi di barbara
ferocia da ambedue le parti, ma che, di fatto, ha
annichilito il fenomeno terrorista attirando sulla
figura di Putin la riconoscenza del popolo russo,
che infatti l’ha riconfermato, nelle elezioni del
2004, alla carica di presidente della Federazione66.
Pur strizzando l’occhio all’Occidente, Putin si
è dimostrato da subito ben cosciente di quali siano
i veri nemici della nuova Russia: egli,
contrariamente ai capi di Stato europei, costretti
dalla loro strategica debolezza ad assecondare ogni
volere delle lobby mondialiste, ha avuto dietro di
sé un Paese immenso e ricchissimo di risorse, con
un popolo che, lentamente ma inesorabilmente, ha
conosciuto una resurrezione economica, identitaria
e spirituale senza precedenti.
In pochi anni, infatti, Putin si è riappropriato
dei “gioielli di famiglia” strappandoli dalle mani
degli oligarchi (oligarchi che i media occidentali
eleveranno subito al rango di martiri della
democrazia vittime del “nuovo zar”).
Approfittando del rialzo del prezzo del petrolio,
inoltre, Putin è riuscito persino nell’impresa di
saldare gli enormi debiti contratti dalla precedente
amministrazione Eltsin, rifondendo nel 2005 quasi
quindici miliardi di dollari al Club di Parigi (un
gruppo di circa una dozzina di Paesi occidentali
creditori); e con l’estinzione del debito, di fatto la
Russia è tornata a essere uno dei pochi Paesi
realmente sovrani del mondo contemporaneo67.
Questo processo, naturalmente, non può essere
tollerato dai poteri occidentali e mondialisti, che
cominciano a vedere nella Russia un pericolo
senza precedenti per i loro piani. Di fatto, questa
crescente “divaricazione di intenti” porta
inevitabilmente all’implosione dell’innaturale
“alleanza” tra la Russia e l’Occidente, con il Paese
euroasiatico divenuto protagonista di una politica
del tutto indipendente da quella della NATO,
specie nel vicino “giardino di casa” di Mosca,
ovvero il Medio Oriente e l’Asia centrale68.
Già nel 2005, infatti, Putin comincia a fornire
tecnologie militari alla Siria (gli altamente
tecnologici e difensivi missili Iskander),
suscitando le ire di Israele, e sempre nello stesso
anno procura i micidiali missili difensivi TOR-M1
all’Iran (con l’evidente obiettivo di rendere la vita
difficile a Israele e agli USA in caso di un attacco
alla Persia)69.
È sempre la Russia, inoltre, a supportare il
piano nucleare iraniano, che viene sempre più
sbandierato da Israele e dall’Occidente come
possibile casus belli per giustificare un attacco al
Paese mediorientale, divenendo di fatto il “grande
protettore” di tutti quei Paesi che, per un motivo o
per l’altro, si oppongono al progetto mondialista
occidentale. D’altra parte, la Russia ha dimostrato
di essere l’unica vera oppositrice all’ISIS
arrivando ad accusare pubblicamente la Turchia di
sostenere il Califfato70 e di avere per questo
abbattuto un caccia russo, incolpato di aver violato
lo spazio aereo di Ankara71. A Parigi, a margine
della conferenza sul clima (Cop21), Putin ha
dichiarato di supporre che la decisione di abbattere
il jet russo sia stata dettata «dal desiderio [di
Ankara; N.d.A.] di garantire la sicurezza delle vie
di fornitura illegale del petrolio dell’Isis al
territorio turco»72.
CAPITOLO 9

SULL’ORLO DEL
PRECIPIZIO. QUANDO È
DIFFICILE DISTINGUERE
TRA REALTÀ E FINZIONE
«La vittoria sarà di coloro che avranno saputo provocare il
disordine senza amarlo».
GUY DEBORD
«La storia non progredisce in base a princìpi democratici:
avanza per mezzo della violenza».
GOTTFRIED BENN
«L’arte della guerra è l’arte di distruggere gli uomini, come la
politica è l’arte di ingannarli».
JEAN BAPTISTE LE ROND D’ALEMBERT
«Non è la guerra di Israele, è la vostra guerra, è la guerra
della Francia, perché è la stessa guerra. […]
Se non siete solidali con Israele adesso, allora queste
tirannie le conoscerete pure voi!».
BENJAMIN NETANYAHU
«Può darsi che l’ideologia economica regni per sempre:
Orwell e Huxley hanno raccontato la fine della storia e
l’eternità dell’orrore economico ben prima di Fukuyama. Ma
facciamo un sogno: quando l’economia e gli economisti
saranno scomparsi, o saranno stati quanto meno relegati in
“secondo piano”, saranno scomparsi anche il lavoro senza
senso, la servitù volontaria e lo sfruttamento degli esseri
umani. Allora sarà il regno dell’arte, del tempo oggetto di
libera scelta, della libertà».
BERNARD MARIS

G li ultimi eventi che a posteriori sembrano


nascondere delle anomalie, distanti dalla
ricostruzione ufficiale, riguardano Parigi. Si parte
con l’attentato terroristico del 7 gennaio 2015,
rivendicato dalla branca yemenita di al-Qaeda,
contro la sede parigina del giornale satirico
«Charlie Hebdo» e del supermercato della catena
kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, per
finire con gli attacchi del 13 novembre attribuiti
all’ISIS, concentrati nel I, X e XI arrondissement
di Parigi e allo Stade de France, a Saint-Denis,
nella regione dell’Île-de-France. Eppure la
Francia, nei suoi piani antiAssad, ha fornito
armamenti ai “ribelli” jihadisti libici antigheddafi,
affiliati ad al-Qaeda, che poi hanno aderito al
Califfato1.
Gli attentati sono stati paragonati a quello
dell’Undici settembre, in particolare per il clima di
terrore mediatico che si è creato e consolidato nei
giorni e nelle settimane successive a tal punto da
chiedere l’introduzione in Europa di normative per
la sicurezza sul modello del Patriot Act americano.
In entrambi i casi i media hanno manipolato
l’emozione popolare, insinuando l’idea che ci sia
bisogno di maggiore sicurezza e che sia necessario
un giro di vite sulla privacy. Meno libertà in
cambio di maggior protezione per la collettività.
Paradossalmente, però, le stragi parigine sono la
prova del fallimento delle misure di sicurezza: gli
attentati di novembre erano stati persino previsti
dall’intelligence irakena, che il giorno prima aveva
messo al corrente i servizi segreti francesi
dell’intenzione del Califfo di attaccare Parigi con
«bombe, omicidi e presa di ostaggi»2. Su «Paris
Match» del 2 ottobre, ricorda Blondet, il giudice
Trévédic prevedeva una serie di attentati in
Francia «di una scala paragonabile all’Undici
settembre», mentre «Le Nouvel Observateur»
scriveva che «i servizi temono un Undici
settembre francese»3. Il «Times of Israel»
riportava invece che gli abitanti ebrei della
capitale francese erano stati avvertiti in anticipo
delle stragi4.
Una clamorosa débâcle, quindi, anche nel caso
della strage di «Charlie Hebdo», dato il precedente
monitoraggio dei terroristi e l’irrisoria protezione
della redazione del giornale, da tempo nel mirino
dei fanatici islamici.
«CHARLIE HEBDO»
Dall’ambasciata ecuadoregna, in cui si è rifugiato,
Julian Assange non ha perso tempo per addossare
la colpa della strage di gennaio ai servizi segreti
francesi. Secondo il fondatore di Wikileaks, la
«…incompetenza degli 007 transalpini ha consentito a dei
“terroristi scalcinati” di compiere un massacro. Si tratta di
un tale fallimento dell’intelligence che bisogna porsi
qualche domanda»5.

Anche per l’Undici settembre l’intelligence era


stata accusata di falle nel sistema e di
incompetenza, ma i responsabili di quei presunti
errori, invece di essere rimossi, erano stati in
seguito “premiati” con delle promozioni.
In base alle informazioni in possesso dei
media, già a poche ore dall’attacco i fratelli
Kouachi sarebbero passati nei campi di
addestramenti di al-Qaeda nello Yemen e
avrebbero partecipato alla guerra in Siria. Federico
Dezzani, dal sito “comedonchisciotte”, si chiede:
«Il primo grande quesito da porsi è: com’è possibile che non
fossero pedinati a vista? Le informazioni in possesso dei
giornali dopo un giorno dall’attentato non erano negli
archivi dell’intelligence? Sembra assurdo, anche perché i
due fratelli erano nella lista nera compilata dal “Terrorist
Screening Center” statunitense»6.

Dezzani si dice infatti convinto che nel caso


della strage parigina si tratti di
«…un’operazione di infiltrazione e sovversione in stile anni
Settanta, dove i fratelli franco-algerini rappresentano i
brigatisti di basso rango che premono il grilletto e chi si
occupa della pianificazione, organizzazione e logistica, il
BR Mario Moretti del caso, probabilmente non sarà mai
preso perché legato ai servizi»7.

Aldo Giannuli, invece, considera la strage


parigina di gennaio come l’apice di un lungo
elenco di massacri di matrice jihadista, avvenuti in
soli tre anni, che nasconderebbe il possibile
coinvolgimento di altri autori o mandanti delle
stragi8.
Sono inoltre numerosi i punti dell’attentato che
non convincono e che hanno suscitato il dubbio
sulle reali modalità: i fratelli Saïd e Chérif
Kouachi che sbagliano indirizzo (vanno
all’archivio di «Charlie Hebdo», ma la redazione è
due portoni più avanti) e poi, quando trovano il
numero civico giusto, non sanno che serve un
codice per entrare (non avevano fatto nemmeno un
sopralluogo?); i tempi di fuga rilassati; i
documenti abbandonati sul luogo del crimine
come avvenuto con i precedenti passaporti dei
dirottatori dell’Undici settembre ecc.
L’attentato, in estrema sintesi, sembra
ascrivibile alla strategia della tensione.
LA PRESENZA DEL MOSSAD
Per quale motivo, ad esempio, è dovuto intervenire
il Mossad durante l’accerchiamento al
supermercato kosher, si chiede Giulietto Chiesa.
Perché non potevano bastare le forze francesi?
Il dubbio era stato sollevato dal sindaco di
Ankara, Melih Gökçek, che all’indomani
dell’attentato aveva dichiarato: «Non c’è dubbio
che c’è il Mossad dietro l’incidente di Parigi». Se
non dietro, sicuramente si fa vedere e immortalare
dall’ANSA. Oltre alla presenza del Mossad
nell’accerchiamento del supermercato kosher, la
mattina del 7 gennaio sul tetto della redazione di
«Charlie Hebdo» si trovava il vicecaporedattore
della televisione di Stato israeliana, autore della
maggior parte delle foto durante l’attentato.
Ciò ha spinto Chiesa a interrogarsi sul reale
motivo della presenza dei servizi segreti israeliani
sul suolo francese:
«Io credo che sia un fatto senza precedenti: un primo indizio
che ci mostra l’assoluta novità della situazione che si sta
delineando. Un servizio segreto straniero viene mobilitato
nello spazio di poche ore, attraversa il Mediterraneo – o
forse è già presente sul territorio francese, chi può saperlo?
– e si presenta sulla scena di un attentato terroristico non
con pochi agenti, bensì con forze ingenti e ben equipaggiate.
Un grande Paese come la Francia […] non dispone di
proprie forze per far fronte a situazioni di emergenza
interna? Chiunque capisce che tutto ciò non ha senso»9.

E come si inserisce la proposta ufficiale del


primo ministro israeliano di far intervenire il
Mossad quando, pochi mesi prima, aveva
biasimato, in un’intervista televisiva a «Canal+»,
la decisione della Francia di riconoscere lo Stato
palestinese («Non è la guerra di Israele, è la vostra
guerra, è la guerra della Francia, perché è la stessa
guerra. […] È una questione di tempo: [il
terrorismo] verrà in Francia! […] se non siete
solidali con Israele adesso, allora queste tirannie le
conoscerete pure voi!»)10? In data 2 dicembre
2014 il Parlamento francese aveva infatti
approvato la risoluzione presentata dai socialisti
per riconoscere simbolicamente la Palestina con
339 voti a favore e 151 contrari11.
Per un’altra strana coincidenza, anche gli
attentati del 22 luglio 2011 a Oslo e Utøja
avvennero subito dopo che il ministro degli Esteri
norvegese, Jonas Gahr Støre, in una conferenza
stampa tenutasi a Ramallah, aveva dichiarato che
il suo Paese era pronto a riconoscere il futuro Stato
palestinese. Il Partito Socialista di Sinistra di
Kristin Halvorsen si era spinto oltre, fino a
chiedere di fare votare una mozione con la
richiesta di un’azione militare contro Israele nel
caso di un’azione violenta contro Hamas a Gaza.
A ciò si aggiunse l’esclusione delle due imprese
israeliane dalla partecipazione dello sfruttamento
dei giacimenti di petrolio e l’accusa di adottare
politiche di antisemitismo che il ministro degli
Esteri israeliano Avigdor Liebermann mosse alla
Norvegia. Allora Liebermann, durante una
riunione ONU a New York, puntò il dito proprio
contro il ministro norvegese Jonas Gahr Støre
parlando di una sua connivenza con Hamas!
I sostenitori dell’interpretazione dell’attentato
del luglio 2011 come “monito” al governo
norvegese hanno inoltre fatto notare la
“coincidenza” per cui il paladino della causa
palestinese, il ministro Gahr Store, aveva chiesto
la fine dell’occupazione israeliana il giovedì
precedente all’attentato proprio dalla stessa isola
di Utøja, presso il campo estivo della gioventù
laburista. Il ministro degli Esteri non è il solo ad
aver rischiato la pelle nel duplice attentato. Si
pensi che il primo ministro Jens Stoltenberg aveva
mandato i propri figli a partecipare proprio al
campo di Utøya dove si è consumata la
carneficina: sia i ragazzi sia Gahr Støre si sono
salvati. Stoltenberg l’1 ottobre 2014 è stato
nominato segretario generale della NATO.
LO SCHEMA DEI WARGAMES
In Norvegia, scrive Andreas Bakke Foss su
«Aftenposten»,
«…fin da quattro giorni prima e nello stesso venerdì in cui
l’attentato fu perpetrato, unità speciali della polizia si sono
esercitate in un’operazione terroristica che era quasi uguale
alla situazione che poche ore dopo gli ufficiali della squadra
di emergenza della polizia avrebbero affrontato nell’isola di
Utøya»12.

La straordinaria concomitanza di attacchi


terroristici (veri) e simulazioni antiterroristiche
(wargames) era già avvenuta durante gli attentati
dell’Undici settembre13 e del 7 luglio 2005 a
Londra, e si sarebbe replicata il 13 novembre a
Parigi e addirittura a San Bernardino in
California14: come spiega Cabras, per l’ennesima
volta «la scena del crimine ha letteralmente
ricalcato simulazioni in corso degli apparati di
sicurezza»15. Anche gli attentati di Londra del 7
luglio 2005 hanno coinciso, per tempi e luoghi,
con lo svolgimento di un’esercitazione
antiterroristica organizzata dall’impresa Visor
Consultants. Stessa dinamica l’Undici settembre,
in cui i wargames hanno inquinato il luogo dei
successivi attacchi: le esercitazioni, osserva
Tarpley, sono il perfetto cavallo di Troia per un
piccolo gruppo di cospiratori che voglia
orchestrare un false flag sul proprio territorio.
Come nota Riccardo Pizzirani, infatti, nella
confusione dei due piani (realtà e simulazione) che
si intersecano,
«…un cospiratore può aprirsi strade che normalmente gli
sono precluse, facendo leva sia sulla confusione che si
genera durante un’esercitazione, sia sulla maggiore autorità
che temporaneamente gli viene assegnata»16.

Caso vuole che anche il 13 novembre vi fosse


stata «un’esercitazione antiterrorismo da parte del
personale del SAMU, il servizio di emergenza e
urgenza medica della città metropolitana di
Parigi»17, che simulava il seguente scenario:
“Attentat multisite par fusillade”, ossia “attentato
con sparatorie simultanee in siti diversi della
città”18. Insomma, ci troviamo dinanzi a uno
schema che si ripete in concomitanza con i grandi
casi di attentati in Occidente. Un’esercitazione
antiterrorismo, osserva infatti Cabras,
«…offre agli organizzatori la copertura idonea a mettere in
moto l’operazione, permette loro di utilizzare i funzionari e
le strutture governative per realizzarla e fornisce una
risposta soddisfacente ad ogni domanda che dovesse sorgere
su stranezze e movimenti insoliti. Perché possa funzionare,
è chiaramente necessario che lo scenario dell’esercitazione
sia a ridosso dell’attentato progettato.
In secondo luogo, se prevista nella data dell’attentato,
l’esercitazione permette di schierare legittimamente degli
uomini sul terreno, uomini che indossano l’uniforme dei
servizi di sicurezza o di soccorso. Piazzare fra questi coloro
che sistemano delle bombe o coordinano dei movimenti è
relativamente facile, senza che sorgano sospetti.
In terzo luogo, lo svolgimento delle esercitazioni in
simultanea con i veri attentati permette di scompigliare la
buona esecuzione delle risposte da parte dei servizi di
sicurezza o di soccorso reali per via della confusione fra la
realtà e la finzione. Le contraddizioni e le scoperte di singoli
spezzoni dei fatti non intaccano l’insieme. Anzi, aiutano a
truccare e rendere incomprensibile il mosaico»19.

DUE MORTI MISTERIOSE


Torniamo alle anomalie della strage di «Charlie
Hebdo». Alcuni ricercatori si sono domandati
perché mai i terroristi abbiano perso tanto tempo
durante la fuga e, dopo aver avuto ben due scontri
a fuoco con le auto della polizia, si siano attardati
a dare il colpo di grazia a un agente rimasto a
terra, abbiano perso e raccattato una scarpa, si
siano lasciati sfuggire un guanto e infine si siano
dati alla fuga, per poi mostrarsi con il
passamontagna a un benzinaio. Costoro, cioè,
hanno fatto di tutto per farsi notare, proprio come
Oswald o Atta nei giorni precedenti agli attentati.
Hanno stupito anche altre due “coincidenze”:
la morte dell’economista Bernard Maris (si
firmava “Oncle Bernard” sulle colonne di «Charlie
Hebdo») tra le vittime della redazione e il suicidio
di un poliziotto che indagava sull’attentato.
Maris era un economista dotato di ironia, che
univa economia e letteratura e aveva criticato
aspramente gli economisti neoliberisti («difendeva
l’idea di un’economia alternativa alla “furia del
capitalismo”, dove la gratuità e il dono hanno il
loro spazio importante»20) in un libro intitolato
Lettera aperta ai guru dell’economia che ci
prendono per imbecilli. Nemico giurato dei falchi
del Fondo Monetario Internazionale, estimatore
invece di John Maynard Keynes (per lui «il più
grande degli economisti»21), candidato al
Parlamento dai Verdi, Maris ha sempre avuto una
spiccata sensibilità di sinistra che lo ha portato a
divenire membro del consiglio scientifico di una
delle associazioni che hanno dato vita al
movimento antiglobalizzazione Attac France22.
Nel 2011 era stato nominato nel Consiglio
economico della Banca di Francia dall’allora
presidente del Senato, il socialista Jean-Pierre
Bel23. Critico nei confronti dell’austerità europea,
Maris, per risolvere la crisi economica, aveva
proposto la cancellazione di una parte del debito
pubblico e l’entrata in vigore del reddito minimo
di esistenza24.
L’altra morte misteriosa è quella di Helric
Fredou, uno dei commissari incaricati delle
indagini e vicedirettore dell’Ufficio federale di
Limoges, che si sarebbe sparato un colpo alla testa
con la pistola di ordinanza nel suo ufficio. Egli era
stato delegato a redigere un rapporto
sull’entourage dei familiari dei giornalisti uccisi.
Finora non si è potuto stabilire un legame tra
l’indagine sul massacro e la causa del suicidio;
tuttavia, la notizia ha scosso la polizia di Limoges,
nel Sud-Ovest della Francia, che poco più di un
anno fa, nel novembre del 2013, è stata colpita da
un altro episodio simile: un ufficiale, nello stesso
ufficio, si è suicidato in circostanze altrettanto
misteriose.
Alla madre di Fredou, inoltre, è stata negata la
possibilità di vedere il cadavere del figlio e di
leggere i risultati dell’autopsia25. Il caso è stato
semplicemente archiviato come “suicidio” e il
movente è stato addebitato a una presunta
depressione del commissario26.
LE ANOMALIE DELLA STRAGE
Le stranezze e le anomalie nei tre giorni di
violenza, come anticipato, sono numerose.
Innanzitutto emergono chiaramente le falle nel
piano degli scalcinati fratelli Kouachi che, appena
entrano in scena, sbagliano indirizzo e vanno a
quello dell’archivio di «Charlie Hebdo», mentre la
redazione è due portoni più avanti. La perdita di
tempo non garantisce però la mobilitazione della
polizia, che per tutta la durata della strage latita
misteriosamente.
Arrivati all’indirizzo giusto, con i
passamontagna calati in testa e le mitragliette
spianate, i Kouachi non sanno però come entrare,
perché occorre un codice per aprire il portoncino;
evidentemente i due non si erano nemmeno presi
la cura di fare un sopralluogo, nei giorni
precedenti. Aspettano così l’arrivo di una
giornalista, che costringono a digitare il codice, e
riescono finalmente a entrare. Una volta dentro
l’edificio, però, non sanno dove dirigersi per
trovare i redattori, e devono chiedere al portiere,
che poi ammazzano. Gli spari permettono a molti
di fuggire sul tetto. Compiuta la strage, i due
fratelli tentano la fuga, ma con tempi
incredibilmente dilatati e perdendo
deliberatamente del tempo prezioso, il che viene
immortalato in alcuni preziosi scatti e video. Per
essere sicuri di farsi notare, uno dei due urla il
Takbir, cioè l’espressione “Allah Akbar”, e fa altre
esclamazioni che lo fanno identificare subito come
presunto fanatico islamico. Non potrebbero essere
più goffi e teatrali di così. Un’auto della polizia (o
forse due) li intercetta, ma loro si salvano
sparando contro la volante che, spiazzata dagli
spari dei due fratelli, mette la retromarcia ed
“eroicamente” li fa passare.
Subito dopo tamponano un’auto guidata da una
donna e perdono altro tempo. È a questo punto che
vengono intercettati da un poliziotto in bicicletta,
che uccidono a sangue freddo anche quando ormai
è a terra disarmato. Su questo preciso episodio si
sono scatenati numerosi ricercatori, arrivando
persino a sospettare che si sia trattato di una
messinscena, data l’assenza di rinculo nell’arma e
di sangue sul luogo del delitto. Per completare, i
due terroristi perdono una carta di identità e un
passamontagna con tracce di DNA. Sebbene
occorra più tempo per le analisi e il
riconoscimento, nel giro di mezz’ora i loro nomi
fanno il giro del mondo.
Si comportano, cioè, come se volessero essere
identificati, il che è assurdo per qualunque
criminale.
I fratelli rubano poi una macchina di
passaggio, minacciando il guidatore; così, dopo
pochi minuti i poliziotti sanno con quale auto i due
terroristi stanno fuggendo. Essi riescono però a
scappare e potrebbero dileguarsi nel nulla, se non
fosse che si presentano a un distributore di benzina
con passamontagna e mitra, mettendo così gli
agenti nuovamente sulle loro tracce. Cercano di
volatilizzarsi rubando una terza auto e, giunti nella
cittadina di Dammartin-en-Goël, si barricano in
una tipografia dopo averne sequestrato il direttore.
Qui vengono uccisi, nel pomeriggio del 9 gennaio,
durante l’irruzione della polizia dopo un conflitto
a fuoco. Al riguardo, Dezzani pone un
interrogativo che non ha avuto risposta:
«Perché uscire in fretta da Parigi nelle ore successive
all’attentato per poi trascorrere trentasei ore da latitanti nella
campagna francese e finire asserragliati in una piccola
azienda? Era previsto un punto di raccolta dove avrebbero
dovuto essere prelevati e portati in salvo mentre sono stati
ingannati e all’appuntamento non c’era nessuno?
Eliminandoli, si è persa ogni traccia per risalire ai vertici
dell’organizzazione, dove si annida probabilmente il
collegamento con i servizi di informazione»27.

Non va meglio all’altro terrorista, Amedy


Coulibaly, già condannato per furto di armi nel
2001 e arrestato nel 2010 per aver aiutato il
terrorista Smaïn Aït Ali Belkacem in un’evasione.
Una volta entrato nel supermercato ebraico, egli
viene disarmato con facilità da un ragazzo, Yoav
Hattab, che riesce a rubargli una delle armi quando
lui la appoggia sul bancone; la pistola, però, si
inceppa e Coulibaly lo uccide.
L’errore più macroscopico del terrorista,
tuttavia, è un altro: egli telefona a una radio, lascia
aperta la comunicazione e così la polizia riesce a
sentire tutto quello che succede nel negozio e a
organizzare l’assalto. Assalto che, come nota
Chiesa, è quantomeno ambiguo. Invece della
classica operazione chirurgica, in cui si dovrebbe
cercare di salvare la vita agli ostaggi, le teste di
cuoio
«…si avvicinano alle vetrine del supermercato e si mettono
a sparare tutte insieme all’impazzata. All’interno c’erano
molti ostaggi e infatti quattro sono stati uccisi. Altri
riescono a uscire, nella più grande confusione. Con quali
proiettili sono stati uccisi? Quelli del terrorista? O quelli
della gragnuola di spari indiscriminati dall’esterno?»28.

Ovviamente Coulibaly finisce – come i fratelli


Kouachi – crivellato dai colpi e muore, portandosi
i segreti della strage nella tomba. Un doppio finale
cinematografico che rimarrà scolpito a lungo negli
occhi e nelle menti dei francesi.
I FRATELLI KOUACHI
Veniamo ora alla palese incompetenza dei servizi
segreti, che si replicherà il successivo 13
novembre. I fratelli Kouachi erano monitorati dal
2009; nel 2011 Said era ritornato da un viaggio
nello Yemen, dove aveva incontrato Anwar Al-
Awlaki, leader di al-Qaeda nella Penisola arabica.
Secondo i servizi, però, «nulla suggeriva un
collegamento con il radicalismo islamico», quindi
erano cessate le attività di sorveglianza.
L’intelligence francese li considerava perciò
soggetti a “basso rischio” e aveva smesso di
monitorarli nel luglio del 2014, sette mesi prima
della strage. I due, come detto, erano sottoposti a
vigilanza da parte dei servizi segreti dalla
primavera del 2009, ma il controllo era
provvidenzialmente cessato nell’estate precedente
l’attentato.
Vi è poi un altro elemento inquietante che
riguarda i presunti rapporti con l’intelligence. Said
aveva vissuto per due settimane insieme al famoso
Mutanda Bomber – al secolo, Umar Farouk
Adbulmutallab – che risultava vantare legami con
i servizi segreti. Parlando con la «CNN», infatti, il
giornalista freelance Mohammed al-Kibsi ha
affermato che Abdulmutallab aveva convissuto
nello stesso appartamento con Said Kouachi prima
del suo fallito attentato dinamitardo del dicembre
2009. I due sarebbero stati compagni di stanza per
un paio di settimane, periodo in cui frequentavano
la scuola di al-Tabari, dove Kouachi e
Abdulmutallab pregavano spesso insieme.
La sorprendente rivelazione ha sollevato
numerosi interrogativi in merito ai possibili
rapporti di Said con l’intelligence francese, dato
che Adbulmutallab aveva legami con i servizi
segreti occidentali.
Come ricorda infatti Mikael Thalen,
«… successivamente al fallito attentato di Natale del 2009,
era infatti emerso che a Mutanda Bomber era stato
consentito l’imbarco sul volo diretto a Detroit, nonostante
fosse privo di passaporto e il suo nome fosse incluso in un
elenco di pericolosi terroristi. Kurt Haskell, un passeggero
del volo, raccontò infatti dettagli inquietanti, affermando di
essere stato testimone del momento in cui Abdulmutallab
aveva attraversato senza problemi i controlli di sicurezza
dell’aeroporto, scortato da un uomo indiano “vestito molto
bene”29.
Sebbene Haskell avesse informato l’FBI del comportamento
inusuale della strana coppia, il governo federale negò in
maniera netta e definitiva l’esistenza di un uomo indiano
ben vestito in quel luogo.
I rapporti hanno rivelato che il piano di Mutanda Bomber
era stato orchestrato nientemeno che da Anwar al-Awlaki,
un infiltrato referente di FBI e CIA che ha anche incontrato
nel 2011 il sospettato della sparatoria di Parigi Said
Kouachi»30.
L’IPOTESI DI FALSE FLAG
Le anomalie dell’attentato e questo genere di
rivelazioni hanno suscitato in molti ricercatori dei
dubbi sulle reali modalità della strage. Alcuni
hanno iniziato da subito a parlare di una false
flag31. L’economista ed ex sottosegretario del
Tesoro americano Paul Craig Roberts, ad esempio,
ha scritto sul suo sito web32 che l’attacco
terroristico a Parigi è stato un’operazione sotto
falsa bandiera «progettata per puntellare lo Stato
vassallo di Francia a Washington»33. Secondo
Craig Roberts,
«i sospetti possono essere sia colpevoli che capri espiatori.
Basta ricordare tutti i complotti terroristici creati dall’FBI
mirati a rendere la minaccia terroristica reale per gli
americani»34.

Craig Roberts35 ha scritto sul suo sito che le


agenzie statunitensi avrebbero programmato di
pianificare delle operazioni sotto falsa bandiera in
Europa per indurre uno stato di tensione contro
l’Islam e rafforzare la sfera di influenza di
Washington sui Paesi europei36. L’economista ha
sottolineato l’anomalia del ritrovamento della
carta di identità di Said Kouachi sulla scena della
sparatoria, che ricalca il ritrovamento dei
passaporti dei dirottatori dell’Undici settembre o
degli attentatori del successivo 13 novembre.
Anche il politologo Aleksej Martynov si è
detto convinto che si sia trattato di un’operazione
sotto falsa bandiera che «soddisfa pienamente gli
interessi degli USA»37. In un’intervista concessa a
«LifeNews»38, Martynov si è dichiarato sicuro,
pur non essendo egli un sostenitore delle teorie del
complotto, che dietro all’attentato parigino vi
siano i servizi segreti USA.
Della stessa opinione è Aldo Giannuli, il quale,
in un post sul blog di Beppe Grillo, scrive che
nella vicenda possono «esserci altre “manine” di
ben altra qualità» perché i «conti non tornano» e
che quand’anche si dovesse trattare di matrice
islamica, si sente una «gran puzza di bruciato!».
Sulla base degli elementi già elencati, secondo
Giannuli, rimangono troppe questioni irrisolte39.
Anche il giornalista Gordon Duff dubita della
ricostruzione degli eventi e sostiene che si sia
trattato della peggiore (e più ridicola) false flag
che abbia mai visto, arrivando addirittura a
definirla – come hanno fatto diversi ricercatori –
una clamorosa messa in scena teatrale. Secondo
Duff, ci sarebbe anche la mano del Mossad:
«L’attacco è semplicemente “non credibile”. I sospettati, la
carta di identità in macchina, i bersagli “facilmente
sacrificati” puzzano di terrorismo false flag. Dopotutto,
l’Europa ha dimenticato il massacro di settantasette persone
per opera di Breivik, nel 2011, una pura operazione del
Mossad per punire un gruppo politico coinvolto nel
movimento di boicottaggio a Israele»40.

La pista sionista vede come sostenitori anche


Kevin Barrett, secondo il quale si sarebbe trattato
di un “goffo” tentativo di punire la Francia dopo il
riconoscimento simbolico dello Stato
41
palestinese .
In Italia, infine, anche Giulietto Chiesa ha
paragonato la strage parigina all’Undici settembre,
da lui analizzato e discusso ampiamente in saggi e
documentari. Chiesa biasima in particolare
«… le tecniche con cui si utilizza l’emozione di grandi
masse, la si incanala in una direzione voluta, la si sfrutta
politicamente “marchiando”, come si faceva con le mandrie
di bovini del Far West, i milioni che compongono le
“opinioni pubbliche” in modo che non possano mai più
“raccapezzarsi”»42.

LA PROVENIENZA DELLE ARMI


Ancora Chiesa43 ha ricordato come sulle indagini
sia stato posto il segreto militare: il ministro degli
Interni francese, Bernard Cazeneuve, ha bloccato
ogni ulteriore inchiesta sulla tragedia. Per il
giornalista, ciò sarebbe avvenuto per nascondere il
fatto
«… che erano tutti parte di uno stesso giro e che avevano
ricevuto le armi dal ministero dell’Interno, o meglio dalla
polizia. […] È evidente che ci sono dei servizi segreti che
giocano contro il Paese del quale dovrebbero essere al
servizio. Altrimenti perché il ministro dell’Interno francese
ha chiuso l’indagine invocando il segreto militare?»44.

Anche per Blondet sarebbe un chiaro segnale


per bloccare ulteriori approfondimenti ed evitare
che si scopra la verità. Ha destato molti dubbi,
infatti, la provenienza cecoslovacca45 delle armi
dei terroristi. Si tratterebbe cioè di armi da guerra
di difficile reperimento in Francia. Come e dove se
le erano procurate? Su questa domanda è calato il
segreto militare, per volere del ministro
dell’Interno46:
«Perché è segreto “militare”? Perché i giudici erano troppo
vicini alle verità nascoste dietro la tragedia di “Charlie
Hebdo”, e al suo fondo che resta inspiegato. In breve –
come già aveva rivelato a suo tempo il giornale di Calais
«La Voix du Nord» sulla base di indiscrezioni degli
inquirenti – quelle armi [degli attentatori; N.d.A.] erano state
fornite da “una rete costituita da forze dello Stato” che le
comprava, attraverso intermediari pregiudicati ma
collaborativi, per spedirle ai ribelli jihadisti in Siria. […]
Praticamente, è ammissione che lo Stato è coinvolto nella
selezione e nell’armamento di giovani francesi di origine
islamica da impiegare in Siria come terroristi»47.

Le armi usate per gli attentati di gennaio sono


state infatti acquistate presso l’azienda slovacca
AGF Security da una ditta di Lille, che a sua volta
fa capo a Claude Hermant, un informatore della
polizia:
«E non ha comprato solo le armi da fuoco usate da
Coulibaly: dall’AGF ha acquistato duecento pezzi “poi
rivenduti”, e anche (ritengono i giudici) altre novanta armi
fra pistole e mitragliatori di assalto attraverso un
intermediario belga di Charleroi. È evidente che queste armi
da guerra non hanno potuto essere importate in Francia
senza l’assenso delle cosiddette autorità di pubblica
sicurezza. In specie, con la complicità dello SDAT [Anti-
Terrorism Sub-Directorate, l’antiterrorismo francese]»48.

Per questo, conclude Blondet,


«… si può indovinare che i fratelli Kouachi, e quasi
certamente anche Coulibaly, erano stati arruolati per andare
in Siria. Come e perché siano stati invece dirottati, con
quelle armi, a compiere la doppia strage di Parigi, è un
mistero forse troppo profondo»49.

L’ATTENTATO SUL TRENO AMSTERDAM-


PARIGI
Nel periodo tra gennaio e novembre 2015 un altro
episodio ha suscitato perplessità: l’attentato sul
treno Amsterdam-Parigi. Il 22 agosto Ayoub al-
Qahzzani, un marocchino di 26 anni senza fissa
dimora – noto ai servizi segreti francesi per i suoi
rapporti con l’estremismo islamico e legato,
secondo gli inquirenti, alla rete jihadista belga di
Verviers –, ha aperto il fuoco con un kalashnikov
su un treno che percorreva la tratta Amsterdam-
Parigi. Il giovane è stato fermato da tre americani
disarmati e in borghese, due soldati e un civile, che
sono poi stati insigniti da Hollande della Legione
d’Onore.
Sul treno era presente l’arabo filosionista
Ahmed Meguini50, che ha ripreso la scena con il
cellulare e ha venduto poi il filmato ai media51.
Secondo il ricercatore Michel Dakar52, costui
sarebbe un agente “provocatore”53 al soldo dei
Servizi di sicurezza degli Stati Uniti e di Israele54.
Ahmed Meguini (o Menghini), giornalista vicino
al movimento neoconservatore di Bernard-Henry
Lévy55, viene infatti descritto come «un sionista
che promuove lo scontro di civiltà (Occidente
contro i musulmani)»56, avendo egli legittimato
dalle colonne di un sito estremista sionista, ora
oscurato57, il massacro in Palestina58 ed essendo
già salito alla ribalta per la presunta aggressione
subita dal militante Kemi Seba, fondatore del
Mouvement des Damnés de l’Impérialisme59, poi
condannato a due mesi di prigione.
GLI ATTACCHI DI PARIGI
A distanza di nemmeno tre mesi da quest’episodio
la Francia ha subito un altro tragico attacco
terroristico che ha prostrato il Paese e gettato
l’Europa intera nel terrore. Questa volta la mente
degli attentati è stata identificata in Abdelhamid
Abaaoud (ucciso nel blitz a Saint Denis60), il quale
avrebbe arruolato almeno otto persone, tra uomini
e donne, che hanno agito di concerto in sette punti
distinti della città, causando tre esplosioni nei
pressi dello stadio e sei sparatorie, la più
sanguinosa delle quali al teatro Bataclan (da tempo
nel mirino dei terroristi61) durante un concerto
degli Eagles of Death Metal. Secondo Pietro
Ratto, si sarebbe trattato di un avvertimento ai
Rothschild, dato che il proprietario del locale è il
magnate, editore e finanziere Arnaud Lagardère,
uomo di riferimento dei banchieri ebrei ed egli
stesso alla guida del gigantesco gruppo omonimo,
che comprende marchi editoriali come Hachette o
Larousse62. Ratto propone una teoria alternativa
sulla scelta del Bataclan quale obiettivo dei
terroristi:
«Lagardère risulta uno dei principali finanziatori dell’IDF,
la famigerata Forza di difesa israeliana che di fatto esercita
il controllo militare dei territori occupati in Israele. Proprio
uno dei vertici dell’IDF è stato, per oltre trent’anni, il
generale Daniel (Danny) Rothschild, importante rampollo
della potente famiglia di banchieri ebrei, ex braccio destro
di Moshe Levy e attuale direttore dell’IPS, l’Institute of
Policy and Strategy del ministero della Difesa israeliano.
L’attentato di venerdì, insomma, sarebbe in realtà un
“avvertimento” ai Rothschild e al loro appoggio finanziario
a quelle violenze perpetrate da Israele nei confronti dei
palestinesi da più di un secolo»63.

Aggiungendo altri tasselli al mosaico, Blondet


osserva invece lo scenario da un punto di vista più
completo, integrando un confronto con il
precedente attentato parigino di gennaio: i fratelli
Pascal e Joel Laloux, appartenenti alla famiglia
ebraica proprietaria da quarant’anni del teatro,
avevano venduto il Bataclan, intascando una cifra
da capogiro, a Lagardere l’11 settembre, appena
due mesi prima della sparatoria, per trasferirsi
definitivamente in Israele, similmente a quanto era
accaduto per il negozio kosher64 in cui avevano
fatto irruzione i fratelli Coulibaly: il proprietario e
azionista della catena alimentare Hyper Cacher,
Michel Emsalem, aveva venduto (mantenendo
comunque la carica di CEO) i negozi il 9 gennaio,
un giorno prima della presa degli ostaggi, dopo
aver trasferito per sicurezza la famiglia a New
York nell’aprile del 201465.
Dunque potrebbe trattarsi non di un
avvertimento ai Rothschild, ma, all’opposto, di
una modalità che abbiamo già incontrato in altri
episodi simili. Il locale sarebbe stato scelto ad hoc
per l’attentato in virtù dei nuovi acquirenti.
UN MESSAGGIO PER FRANCIA E
GERMANIA?
Gli attacchi hanno “recapitato” sicuramente un
messaggio al presidente francese, ma anche alla
cancelliera tedesca. Mentre avvenivano le
esplosioni all’esterno, Hollande è stato infatti
portato via di peso dallo stadio, dove assisteva alla
partita di calcio Francia-Germania, insieme al
ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter
Steinmeier. Secondo Cabras,
«… il messaggio, data la circostanza non certo casuale
(proprio quella partita…), lo ha sentito sicuramente anche la
Germania. E i lanciatori del messaggio non sono certo da
cercare fra i soldati-terroristi, che sono meri esecutori. Gli
autori si trovano fra i soggetti che vogliono che l’Europa
non si sottragga alla grande guerra che si sta preparando.
Sono pezzi di classi dirigenti occidentali, turche, petro-
monarchiche. Gli sponsor dell’Isis e del Caos»66.
Poche ore dopo, in diretta televisiva, Hollande
dichiarava lo stato di emergenza in tutta la Francia,
annunciando la temporanea chiusura delle
frontiere67. Successivamente al congresso dei
sindaci, Hollande ha richiesto «una restrizione
temporanea delle libertà»68. Per lo stato di
emergenza è entrata in vigore una vecchia legge
del 1955, pensata per la guerra d’Algeria,
funzionante come “Patriot Act” alla francese (si
vedano le successive perquisizioni senza
mandato), e i poliziotti sono stati autorizzati a
girare armati anche fuori servizio69. Hollande ha
voluto una revisione della Costituzione – gli
articoli 16 e 36 (pieni poteri e stato di assedio)70 –
e ha chiesto un giro di vite sul traffico di armi sul
territorio parigino.
Il commando disponeva infatti di AK-47 e di
esplosivi da guerra usati in teatri bellici. Anche in
questo caso ci si è interrogati sulla provenienza
delle armi e sul possibile coinvolgimento degli
apparati militari francesi71. Sami Amimour,
indicato come uno degli sparatori del Bataclan,
aveva persino una licenza rilasciata dalla
Federazione francese di tiro per la stagione 2011-
2012 e una tessera dell’Association Nationale de
Tir de la Police72. «In pratica», conclude Blondet,
«ha imparato a sparare in un’associazione gestita
dalla polizia parigina».
Anche in questo caso sono evidenti il flop
dell’intelligence e, al contrario, la facilità con la
quale i terroristi potevano fare avanti e indietro
dalla Siria all’Europa. La stessa facilità con cui
Salah Abdeslam, il terrorista belga di origine
marocchina naturalizzato francese, è sfuggito ai
controlli e alla caccia dell’intelligence e della
polizia.
Sospettato, assieme ad Abdelhamid Abaaoud,
di essere uno degli organizzatori degli attentati,
l’immagine che abbiamo di lui è ancora una volta
“doppia”. Le cronache dei giornali ce lo dipingono
come il nemico pubblico numero uno, un fanatico
jihadista che è riuscito a beffare l’Occidente. Nulla
di nuovo, ironizza Blondet, «è una costante, i veri
jihadisti trincano e vanno a donne, specialmente la
notte prima di uccidersi come kamikaze»73.
Gli amici che lo conoscono bene e che sono
cresciuti con lui nel sobborgo belga sono invece
rimasti esterrefatti all’idea che fosse un jihadista.
Lo sgomento collettivo è dovuto alla sua condotta
libertina e alle frequentazioni di locali gay, alle
sbronze e alla vita dissoluta. Nessuno immaginava
che fosse un estremista islamico. Un identikit,
quello ufficiale, che mal si attaglia a un fervente
sostenitore del Califfato. Nulla di nuovo, però,
perché, come ci ricorda Tarpley, nei casi più
eclatanti di terrorismo sintetico lo zimbello di
turno sembra “accompagnarsi”, a sua insaputa, a
un suo “doppio” che agisce nelle settimane
precedenti facendosi notare e caratterizzandosi per
qualità morali e fisiche completamente diverse da
quelle dell’originale. Ciò rientra nel processo dello
sheep-dipping (letteralmente “inzuppare la
pecora”):
«Ciò che gli zimbelli non possono compiere da soli è spesso
integrato dalle azioni di informatori, di doppi agenti e di
sosia che agiscono al posto loro quando non possono
presentarsi di persona»74.

I capri espiatori svolgono tre funzioni


fondamentali, spiega Tarpley: devono farsi notare,
attirando l’attenzione su di sé ad ogni costo, anche
tramite l’azione di sosia; devono rimanere fuori
dalla prigione, perché la colpa dell’azione
terroristica dovrà ricadere su di loro; infine,
devono prendersi la colpa di tutto ciò che è
avvenuto75. A questo punto, gli zimbelli vanno
scoperti e preferibilmente uccisi sul posto (com’è
successo a Parigi)76. Le loro vite verranno quindi
demonizzate, in quanto rappresentazione del male
assoluto. Gli zimbelli diventano dei novelli
Emmanuel Goldstein. E la pantomima viene
“accettata” come realtà. Perché, citando Debord,
«nel mondo realmente rovesciato, il vero è un
momento del falso».
CONCLUSIONI
«Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla».
GEORGE SANTAYANA
«Non sapere che cosa sia accaduto nei tempi passati, è
come restare per sempre un bambino.
Se non si fa uso delle opere delle età passate, il mondo
rimarrà sempre nell’infanzia della conoscenza».
CICERONE
«Il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la
lezione più importante che la storia ci insegna».
ALDOUS HUXLEY
«La storia è una galleria di quadri in cui ci sono pochi originali
e molte copie».
ALEXIS DE TOCQUEVILLE

N el 1938, in Omaggio alla Catalogna, George


Orwell faceva, nel suo resoconto personale
della guerra civile spagnola, una delle
considerazioni più vere e feroci sulla guerra:
«Una delle più orribili caratteristiche della guerra è che la
propaganda bellica, tutte le vociferazioni, le menzogne e
l’odio provengono inevitabilmente da coloro che non
combattono».

Considerazione vera perché racchiude in poche


righe l’assurdità della guerra che accompagna
inesorabilmente la storia dell’uomo; feroce perché
svela come i soldati siano semplicemente carne da
macello, indirizzati da politici e lobbisti senza
scrupoli verso il sacrificio, per potersi garantire
maggiori profitti, soldi, gas e petrolio, concessioni
edilizie, controllo del mercato della droga e potere.
La retorica e il buonismo dei discorsi
contemporanei servono solo a giustificare
un’imminente carneficina agli occhi di un popolo
che ha già sofferto e che non avrà nulla da
guadagnare da inutili ulteriori massacri. I mass
media, a questo punto, entrano in scena per
veicolare la propaganda bellica e creare il giusto
stato d’animo che faccia accogliere come lecite e
giuste le rivendicazioni del potere.
In un mondo sempre più globale, anche le
emozioni vengono plasmate e imposte dall’alto per
manipolare e soggiogare le masse. Seguendo lo
schema della dittatura dolce, si cerca di indurre
falsi bisogni e di manipolare l’emotività e
l’immaginazione del popolo affinché siano i
cittadini stessi a chiedere proprio quei
provvedimenti che i governanti vogliono
introdurre. In fondo, come scriveva Aldous
Huxley, lo scopo primario dei governanti è fare in
modo che i cittadini diano fastidio il meno
possibile.
Lo Stato totalitario, scriveva ancora Orwell in
Letteratura e totalitarismo, «fa di tutto per
controllare i pensieri e le emozioni dei propri
sudditi, in modo persino più completo di come ne
controlla le azioni». La tematica è già stata
ampiamente trattata ne La Fabbrica della
manipolazione, e non è questa la sede per tornarci;
però la questione del controllo attraverso la
manipolazione dell’immaginario e dell’emotività
delle masse è fondamentale per comprendere come
funziona la fase successiva a un attacco sotto falsa
bandiera. La tecnica della false flag può infatti
servire per ottenere quel casus belli utile a
giustificare l’ennesimo conflitto che in uno stato
normale il popolo non accetterebbe mai, oppure
per introdurre limitazioni alla privacy e alla libertà
individuale.
Dall’attuale disordine mondiale, che si agita
sulle ceneri del vecchio ordine in agonia, la storia
viene orwellianamente riscritta di continuo, mentre
i media tentano di distrarre l’opinione pubblica
cancellando tracce e distogliendo lo sguardo da
tutto ciò che potrebbe causare dei problemi al
potere. Quello stesso potere caotico che, ben lungi
dall’essere una piovra tentacolare cui nulla sfugge,
come tentano inutilmente di descriverlo alcuni
autori, si riunisce in salotti elitari per cercare di
dirigere i destini di sette miliardi di persone tra
velleità belliche, interessi finanziari e deliri
apocalittici. Restando ben lungi dall’adottare una
mentalità paranoica o dall’abbracciare in modo
acritico delle formule riduttive o vedere complotti
ovunque, conviene che ci si fidi di meno di ciò che
ci viene “raccontato” quando in ballo c’è
l’ennesima insensata, folle guerra.
Nel 2007 Brzezinski, nel suo saggio L’ultima
chance, a proposito dei progetti degli USA per
instaurare un nuovo ordine mondiale osservava
che «la storia può essere ridotta a farsa, soprattutto
se asservita a un disegno politico». Questa frase –
che riprende l’incipit de Il 18 brumaio di Luigi
Bonaparte – racchiude interamente
l’atteggiamento imperialista statunitense e il
tentativo di esportare una “pace perpetua”. Ciò
comprende anche i vari stratagemmi che abbiamo
analizzato in questo contesto, volti a modellare la
storia per giustificare delle guerre i cui interessi
riguardano unicamente le lobby e non certo il
popolo. Questi stratagemmi comprendono anche le
menzogne, l’inganno, la manipolazione e il
sacrificio di vite innocenti.
Dietro ogni promessa di pace perpetua fatta da
una potenza che aspira al dominio globale si
nascondono sempre degli intrighi e il rischio che la
pace promessa si trasformi in un cimitero per
coloro che si sono illusi e hanno creduto
ciecamente a un’utopia. La storia insegna che le
utopie cedono troppo spesso il passo a terrificanti
distopie. Come scriveva il filosofo Karl Popper:
«Chiunque ha tentato di creare uno Stato perfetto,
un paradiso in terra, ha in realtà realizzato un
inferno».
La globalizzazione e la promozione di una
“coscienza globale” tra le masse, da un lato, e le
tecniche di guerra psicologica, la strategia della
tensione e le false flag, dall’altro, hanno costituito
le armi fondamentali per assecondare i piani (e
quelli che lo stratega polacco definiva “diritti”)
dell’imperialismo americano. Brzezinski parlava
apertamente del ruolo americano, inteso a
“modellare” culturalmente e politicamente la
sensibilità delle masse in modo che fossero
giustificati anche, agli occhi dell’opinione
pubblica, gli sforzi per continuare a esportare con
la violenza il modello americano1.
L’ultima chance termina con un appello del
“falco” polacco affinché l’America modelli con
urgenza la propria politica in direzione sempre più
mondialista. Aspirazione, questa, che ha
sicuramente abbracciato il suo ex pupillo e
laureando Barack Obama, la cui giunta ha offerto
un’accelerazione in senso globale esportando le
velleità americane con un tipo di strategia bellica
sempre più sottile e calcolatrice.
Guardare avanti e costruirsi un futuro significa
anche voltarsi indietro e conoscere la storia;
imparare dal passato per evitare di replicare gli
errori delle precedenti generazioni. Perché, in
fondo, le dinamiche dei guerrafondai sono le
medesime e si replicano in modo banale, farsesco,
ripetitivo e schematico. La storia ha infatti delle
costanti che si presentano in modo ricorrente:
quando un modello di menzogna ha funzionato ed
è riuscito a ingannare il mondo una volta, esso
viene replicato fino all’evidente parodia di sé.
Per evitare di rimanere vittime di un eterno
ritorno, ci si dovrebbe vaccinare dalle
macchinazioni egoistiche del potere e dalle
illusioni offerte alle masse per giustificare delle
aberrazioni. Per evitare di ripetere catastrofi e
genocidi, dobbiamo essere disposti a riappropriarci
della nostra mente, per poter pensare al di fuori di
quegli schemi impostici dall’alto e abbandonare la
comodità della retorica della politica, che dietro il
buonismo e il politicamente corretto nasconde
sogni di morte e di conquista; perché, come
scriveva Hegel,
«… quando consideriamo la storia come simile a un
mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna
dei popoli, la sapienza degli Stati e la virtù degli individui, il
pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio
di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti
sacrifici così enormi».

La storia e il nostro passato possono però


essere anche fonte di avvertimento e di speranza
per un futuro che rimane aperto a infinite, umane,
variabili.
NOTE
ANTEFATTO
1. Tarpley, Webster, La Fabbrica del terrore made in USA,
Arianna Editrice, Bologna 2007, p. 85.
2. Ivi, p. 88.

INTRODUZIONE
1. L’Internazionale comunista, ossia l’organizzazione
internazionale dei partiti comunisti attiva dal 1919 al 1943,
nota anche come Terza internazionale.
2. Carter, A., Deutch, J., Zelikow, P., Catastrophic Terrorism:
Tackling the New Danger, «Affari Esteri», 1998, pp. 80-
94. È disponibile la traduzione italiana in Zero, Piemme,
Roma 2007, p. 51.
3. Tarpley, Webster, op. cit., p. 85.
4. Ibidem.
5. Ibidem.
6. Cabras, Pino, Strategie per una guerra mondiale.
Dall’Undici settembre al delitto Bhutto, Aìsara, Cagliari
2008, pp. 40-41.

CAPITOLO 1: FALSARE LA STORIA


DALL’USS MAINE A PEARL HARBOR
1. http://www.ilpost.it/2015/04/01/bill-clinton-house-of-cards/.
2. Tarpley, Webster, op. cit., p. 84.
3. Ibidem.
4. https://forum.termometropolitico.it/251370-qual-e-l-
obiettivo-del-progettoper-il-nuovo-secolo-14.html/.
5. Ibidem.
6. Tarpley, Webster, op. cit., p. 85.
7. http://www.superstoria.it/explorer/visualizza.asp?id=492/.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Pizzuti, Marco, Rivelazioni non autorizzate. Il sentiero
occulto del potere, Edizioni Il Punto d’Incontro, 2009, p.
323.
14. http://www.libreidee.org/2014/05/da-hitler-a-bush-dietro-
la-guerra-ce-sempre-una-banca/.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Simpson, Colin, Il Lusitania, Rizzoli, Milano 1974. Titolo
originale: The Lusitania, Little Brown & Co., New York
1973.
18. Fest, Joachim C., Hitler. Il Führer e il nazismo, BUR,
Milano 1991, p. 481.
19. Ivi, p. 486.
20. Ibidem.
21. Ivi, p. 488.
22. Ivi, p. 489.
23. http://sauvage27.blogspot.it/2009/03/lincendio-del-
reichstag-edouard-calic.html/.
24. Ivi, p. 490.
25. Tarpley, Webster, op. cit., p. 76.
26. Ivi, p. 89.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
29. http://www.icsm.it/articoli/ri/reichstag.html/.
30. http://sauvage27.blogspot.it/2009/03/lincendio-del-
reichstag-edouard-calic.html/.
31. Shirer, William L., La storia del Terzo Reich, Einaudi,
1970, pp. 214 e ss. Titolo originale: The Rise and Fall of
Third Reich, New York 1959, pp. 300-301.
32. Ibidem.
33. Ibidem.
34. Tobias, Fritz, The Reichstag Fire, tradotto dal tedesco da
Arnold J. Pomerans, Putnam, New York 1963.
35. Si veda: Hett, Benjamin Carter, Burning the Reichstag: An
Investigation Into the Third Reich’s Enduring Mystery,
Ebook, pp. 309 e ss.
36. Ibidem.
37. Bauer, Eddy, Storia controversa della seconda guerra
mondiale, vol. III, De Agostini, Milano 1968.
38. Stinnett, Robert B., Il giorno dell’inganno, Il Saggiatore,
Milano 2001.
39. Carter, A., Deutch, J., Zelikow, P., Catastrophic Terrorism:
Tackling the New Danger, cit., pp. 80-94. È disponibile la
traduzione italiana in Zero, 2007, cit., p. 51.
40. David Ray Griffin in Zero. Perché la versione ufficiale
sull’11/9 è un falso, a cura di Giulietto Chiesa, Piemme,
Roma 2007, pp. 48-49.

CAPITOLO 2: FALSI ATTENTATI IN PIENA


GUERRA FREDDA: DALL’EGITTO A
CUBA, DA JFK A MORO
1. https://lpiersantelli.wordpress.com/2014/07/08/quei-
misteriosi-aspetti-del-rapimento-dei-tre-giovani-israeliani/.
2. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?
name=News&file=article&sid=13602/.
3. Ibidem.
4. https://lpiersantelli.wordpress.com/2014/07/08/quei-
misteriosi-aspetti-del-rapimento-dei-tre-giovani-israeliani/.
5. http://www.globalresearch.ca/were-the-three-settler-
kidnappings-an-israeli-false-flag-operation/5389791/.
6. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?
name=News&file=article&sid=13602/.
7. Ibidem.
8. Ibidem.
9. Morris, B., Black, I., Mossad. Le guerre segrete di Israele,
BUR, Milano 2003, p. 115.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ivi, p. 120.
13. Ivi, p. 116.
14. Ivi, p. 120.
15. Ivi, p. 121.
16. Ivi, p. 140.
17. Ivi, p. 142.
18. Tarpley, Webster, op. cit., p. 81.
19. Cit. in Cabras, Pino, Strategia per una guerra mondiale.
Dall’Undici settembre al delitto Bhutto, cit., p. 38.
20. Ibidem.
21. Ivi, pp. 38-39.
22. Ganser, Daniele, Gli eserciti segreti della NATO.
Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale,
Fazi, Roma 2005.
23. Weiner, Tim, CIA. Ascesa e caduta dei servizi segreti più
potenti del mondo, Rizzoli, Milano 2008, p. 176. Titolo
originale: Legay of Ashes, 2007.
24. Ivi, p. 178.
25. Ivi, p. 181.
26. Ibidem.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
29. Ibidem.
30. Ibidem.
31. Ivi, p. 185.
32. Ivi, p. 189.
33. Ivi, p. 196.
34. Ivi, p. 197.
35. Ivi, p. 192.
36. Ivi, p. 204.
37. Ivi, p. 205.
38. Ibidem.
39. sandiego.indymedia.org/media/2007/02/125027.pdf/.
40. http://www.informarexresistere.fr/2011/12/23/operazione-
northwoods-11-settembre-2001-falso-attentato-iraniano-
del-2012/.
41. Ibidem.
42. http://avalon.law.yale.edu/20th_century/tonkin-g.asp/.
43. Ibidem.
44. https://www.nsa.gov/public_info/_files/gulf_of_tonkin/articl
es/rel1_skunks_bogies.pdf/.
45. Weiner, Tim, op. cit., p. 235.
46. Ibidem.
47. Ibidem.
48. http://www.altrainformazione.it/wp/lincidente-del-golfo-di-
tonchino-e-laguerra-del-vietnam/.
49. Weiner, Tim, op. cit., p. 237.
50. Ibidem.
51. Ibidem.
52. Ivi, p. 238.
53. Ibidem.
54. Ibidem.
55. Ibidem.
56. Ibidem.
57. Ivi, p. 279.
58. Garrison, Jim, JFK sulle tracce degli assassini, Sperling &
Kupfer, Piacenza 1992. Titolo originale: On the Trail of the
Assassins, 1988. Dal saggio di Garrison Oliver Stone
trasse il film con Kevin Kostner intitolato JFK - un caso
ancora aperto, 1991.
59. Shaw venne giudicato “non colpevole”.
60. Garrison, Jim, JFK. op. cit.
61. Prima della “deriva ufologica”, il suo libro Crossfire aveva
ispirato Oliver Stone per il film JFK.
62. Nel 1968, dopo sette anni passati al Pentagono.
63. Nel 1963 JFK firmò gli accordi contro i test nucleari.
Alcuni ricercatori sostengono che JFK venne
traumatizzato dall’aborto della moglie Jackie conseguente
alla visita a una centrale.
64. Stefania Limiti in Hepburn, James, Il complotto. La
controinchiesta segreta dei Kennedy sull’omicidio di JFK,
a cura di Stefania Limiti, Nutrimenti, 2012, p. 23. Titolo
originale: Farewell America, ed. 1968.
65. Ivi, pp. 13-14.
66. Ivi, pp. 15 e ss.
http://www.comedonchisciotte.net/modules.php?
name=News&file=article&-sid=908/.
67. Erik Hedegaard, The Last Confession of E. Howard Hunt,
«Rolling Stone», numero di aprile 2007.
68. Con l’operazione Mockingbird promossa dall’allora
direttore della CIA Allen Dulles, l’Agenzia dal 1953 al
1970 circa pagò giornalisti americani e stranieri per
manipolare e disinformare l’opinione pubblica. Il
programma aveva infatti come scopo quello di influenzare
psicologicamente la popolazione americana per mezzo di
propaganda mirata su pubblicazioni come «Selezione»
(Reader’s Digest), «Life», «Time» e altri media
statunitensi.
69. Ben Bradlee, il futuro direttore del «Washington Post»,
che avrebbe denunciato lo scandalo Watergate nel 1972,
era il cognato di Mary, avendone sposato la sorella Tony.
Nel suo libro di memorie ha raccontato che la notte della
morte di Mary ricevette due telefonate «che conferirono al
delitto una nuova dimensione». La prima, del tutto
inaspettata, da Parigi, fu di Pierre Salinger, l’ex portavoce
del presidente Kennedy. La seconda, invece attesa, da
Tokio, fu di Anne Truitt, una scultrice, la migliore amica di
Mary. La Truitt gli chiese di recarsi d’urgenza a casa di
Mary per recuperare «un importante diario». Scossi, Ben
e Tony Bradlee lo fecero la mattina successiva, e vi
incontrarono con loro sorpresa James Angleton, il
direttore del controspionaggio della CIA: i tre rinvennero il
diario, lo lessero, si resero conto del rapporto segreto tra
Mary e John Kennedy, ne giudicarono il contenuto
delicato e lo distrussero. Come per la Monroe, la tragica
quanto misteriosa scomparsa di Mary generò teorie
opposte: tra le varie ipotesi la più accreditata sostiene che
l’omicidio della Meyer sia stato commissionato per
eliminare prove a sostegno del coinvolgimento della CIA
nell’omicidio di JFK. Come amante del presidente e
moglie del direttore del dipartimento di Disinformazione, la
donna sarebbe stata al corrente di segreti scottanti.
70. Garrison, Jim, op. cit., p. 73.
71. Ivi, pp. 80 e ss.
72. Ivi, p. 84.
73. Cabras, Pino, op. cit., p. 129.
74. Ivi, p. 130.
75. Ivi, pp 182, 183.
76. Ivi, p. 183.
77. Garrison, Jim, op. cit., p. 73.
78. Ibidem.
79. Imposimato, Ferdinando, I 55 giorni che hanno cambiato
l’Italia. Perché Aldo Moro doveva morire?, Newton
Compton Editori, Roma 2013, p. 30.
80. Ivi, p. 25.
81. Ibidem.
82. Ivi, p. 32.
83. Ivi, p. 51.
84. Ivi, pp. 57 e ss.
85. Ivi, p. 59.
86. Margiocco, Mario, Stati Uniti e PCI. 1943-1980, Laterza,
Roma-Bari 1981, p. 283.
87. Fasanella, G., Sestieri, C., Pellegrino, G., Segreto di
Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino
2000, p. 10.

CAPITOLO 3: GLI ANNI DI PIOMBO TRA


SERVIZI DEVIATI, GLADIO
1. L’espressione si riferisce a un’organizzazione paramilitare
che un Paese mette in piedi nei propri territori perché si
possa attivare in seguito a un’eventuale invasione
nemica, per formare la base di un movimento di
resistenza politica o per operazioni di spionaggio sul
suolo occupato, dietro le linee nemiche. Alcuni gruppi
paramilitari di Stay Behind vennero creati
clandestinamente in funzione anticomunista. Una delle
più famose operazioni di questo tipo è stata
l’organizzazione Gladio in Italia. Gladio fu creata in ambito
NATO, venne parzialmente finanziata dalla CIA durante la
guerra fredda e fu istituita in Italia, così come negli altri
Paesi dell’Europa occidentale, allo scopo di contrastare
l’influenza politica e militare dei Paesi comunisti.
L’esistenza di Gladio è stata svelata ufficialmente da
Giulio Andreotti nel 1990, allorché, al termine della guerra
fredda, il suo scopo e la sua segretezza vennero meno.
2. Galli, Giorgio, Affari di Stato. L’Italia sotterranea 1943-
1990: storia politica, partiti. corruzione, misteri, scandali,
Kaos Edizioni, Roma 1991, p. 28.
3. http://archiviostorico.corriere.it/1997/giugno/04/Enrico_Ma
ttei_incorruttibile_corruttore_co_0_97060410717.shtml/.
4. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2
006/04/25/lemie-idee-sul-petrolio.html?refresh_ce/.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Ibidem.
8. Vinciguerra, Vincenzo, La strategia del depistaggio, Il
Fenicottero, Bologna 1993, p. 42.
9. http://www.repubblica.it/online/fatti/fontana/fontana/fontan
a.html/.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. http://archiviostorico.corriere.it/2004/aprile/14/Piazza_Fon
tana_Colpevoli_erano_Freda_co_9_040414067.shtml/.
13. http://www.cinquantamila.it/storyTellerThread.php?
threadId=DigilioCarlo/.
14. Cit. in: Flamini, Gianni, Il libro che lo Stato italiano non ti
farebbe mai leggere. Stragi impunite all’ombra dei servizi
segreti, Newton Compton Editori, Roma 2010, p. 61.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Imposimato, Ferdinando, La repubblica delle stragi
impunite, Newton Compton Editori, Roma 2013, p. 71.
18. Ibidem.
19. Farina, Renato, Cossiga mi ha detto. Il testamento politico
di un protagonista della storia italiana del Novecento,
Marsilio, Venezia 2011.
20. Imposimato, Ferdinando, op. cit., p. 71.
21. Ibidem.
22. Ivi, p. 188.
23. Ibidem.
24. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/22/strage-di-piazza-
della-loggia-ergastolo-per-maggi-e-tramonte-in-
appello/1898399/.
25. Ferdinando Imposimato, op. cit., p. 98.
26. Ibidem.
27. Ivi, p. 99.
28. http://www.repubblica.it/online/fatti/fontana/fontana/fontan
a.html/.
29. http://paolofranceschetti.blogspot.it/2008/05/gladio-il-
principale-segreto-della.html/.
30. Ibidem.
31. http://paolofranceschetti.blogspot.it/2008/05/gladio-il-
principale-segreto-della.html/.
32. http://paolofranceschetti.blogspot.it/2008/05/gladio-il-
principale-segreto-della.html/.
33. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2
001/03/21/piazza-fontana-matrice-estera.html/.
34. Imposimato, Ferdinando, op. cit., p. 139.
35. Ibidem.
36. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2
001/03/21/piazza-fontana-matrice-estera.html/.
37. www.reseuvoltaire.net/.
38. Si veda la ricostruzione in: Perucchietti, Enrica, Marletta,
Gianluca, Governo Globale. La storia segreta del nuovo
ordine mondiale, Arianna Editrice, Bologna 2013.
39. Imposimato, Ferdinando, op. cit., p. 138.
40. Galli, Giorgio, Affari di Stato, cit., p. 193.
41. Imposimato, Ferdinando, op. cit., p. 194.
42. Ibidem.
43. http://www.repubblica.it/2003/i/sezioni/politica/gelli/gelli/ge
lli.html/.
44. Ibidem.
45. Galli, Giorgio, op. cit., p. 193.
46. http://www.repubblica.it/2003/i/sezioni/politica/gelli/gelli/ge
lli.html/.
47. http://it.wikipedia.org/wiki/Licio_Gelli#La_lista_P2/.
48. http://it.wikipedia.org/wiki/Piano_di_rinascita_democratica
#cite_note-4/.
49. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2
000/03/07/berlusconi-essere-piduisti-non-un-titolo-
di.html/.
50. Si veda: Pinotti, Ferruccio, Fratelli d’Italia, BUR, 2007.
51. http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2014/2/21/GOV
ERNO-RENZI-Rino-Formica-e-il-disegno-di-Licio-Gelli-
con-Draghi-al-Colle/470754/.
52. Si veda: Perucchietti, Enrica, Il lato B di Matteo Renzi.
Biografia non autorizzata, Arianna Editrice, Bologna 2014.
CAPITOLO 4: COLPI DI STATO
ETERODIRETTI. LA CIA IN AMERICA
LATINA
1. Cossiga, Francesco, Cangini, Andrea, Fotti il potere,
Aliberti, Roma 2010, p. 120.
2. Ibidem.
3. Weiner, Tim, op. cit., p. 189.
4. Ivi, p. 298.
5. Ibidem.
6. Ivi, p. 299.
7. Ibidem.
8. http://archivio.internazionale.it/contro-kissinger/.
9. Ibidem.
10. Weiner, Tim, op. cit., p. 300.
11. Ivi, p. 301.
12. Ivi, p. 302.
13. http://archivio.internazionale.it/contro-kissinger/.
14. Weiner, Tim, op. cit., p. 306.
15. Ibidem.
16. http://www.polisblog.it/post/151751/henry-kissinger-la-
realpolitik-da-premio-nobel-nell11-settembre-cileno/.
17. Ibidem.
18. Perkins, John, op. cit., p. 222.
19. Macchi, Alfredo, Rivoluzioni S.p.A. Chi c’è dietro la
Primavera Araba, Alpine Studio, 2012, pp. 61-62.
20. Perkins, John, op. cit., pp. 225-226.
21. Ivi, p. 247.
22. Manuel Noriega in: Perkins, John, op. cit., p. 248.
23. Ivi, p. 248.
24. Ivi, p. 249.
25. Ivi, pp. 258-259.
26. Operation Desert Storm, 2 agosto 1990-28 febbraio 1991.
27. Brzezinski, Zbigniew, L’ultima Chanche. La crisi della
super potenza americana, traduzione di Amedeo Romeo,
Salerno Editrice, 2008, p. 59. [Titolo originale: Second
Chance, Three Presidents and the Crisis of American
Superpower, 2007].
28. L’1 maggio 2012 Morales diede notizia della
nazionalizzazione del 100% della compagnia
Transportadora de Electricidad S.A. (TDE), di proprietà di
Red Electrica Internacional, filiale del gruppo spagnolo
Red Electrica. Morales ordinò alle Forze armate di
occupare la sede dell’azienda a Cochabamba. La notizia
arrivò a due settimane di distanza dalla decisione del
presidente argentino Cristina Kirchner di nazionalizzare la
YPF, la controllata argentina della spagnola Repsol.
Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-
02/bolivia-segue-esempio-argentino-102655.shtml?
uuid=Ab4pyVWF/.
29. In realtà, dieci giorni dopo l’accusa di Chavez il portavoce
della Kirchner avrebbe rivelato l’assenza di cellule
cancerogene. Ciò non ha fatto che intorbidire le acque,
com’era già avvenuto a giugno con il presidente
venezuelano.
30. Perkins, John, op. cit., p. 17.
31. http://www.enricaperucchietti.it/articoli-
cartacei/controinformazione/.
32. Stone, Oliver, A sud del confine, 2009.

INTERMEZZO
1. Marx, Karl, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori
Riuniti, Roma 2015, p. 45.
2. Ivi, p. 39.
3. Ivi, introduzione di Giorgio Giorgetti, p. 10.
4. Ibidem.
5. Ivi, p. 13.
6. Ivi, p. 46.

CAPITOLO 5: LA GUERRA DI QUARTA


GENERAZIONE: DALLA SERBIA
ALL’UCRAINA
1. http://www.blackhawkpartners.com/TheTeam.aspx.Archivi
atoil15gennaio2014/.
2. http://www.finanzaediritto.it/articoli/exploring-the-
%E2%80%9Cwealth-creation%E2%80%9D-business-
through-the-ziad-abdelnour%E2%80%99s-experience-
and-his-company-blackhawk-partners-5317.html/.
Archiviato il 15 gennaio 2014/.
3. http://www.fisicamente.net/ISR_PAL/index-1211.htm/.
Archiviato il 15 gennaio 2014.
4. http://www.usembassy.it/file2005_02/alia/a5020202ir.htm/.
Archiviato il 15 gennaio 2014.
5. http://www.voltairenet.org/article17508.html/. Archiviato il
15 gennaio 2014.
6. Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo Globale.
La storia segreta del nuovo ordine mondiale, Arianna
Editrice, Bologna 2013, pp. 103 e ss.
7. Ivi, p. 66.
8. Faÿ, Bernard, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale
del secolo XVIII, p. 116.
9. Ivi, p. 79.
10. Ivi, p. 84.
11. Ivi, p. 90.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Skousen, C., Il capitalista nudo, Armando, Roma 1978, p.
74.
15. Ibidem.
16. Ratto, Pietro, I Rothschild e gli altri, Arianna Editrice,
Bologna 2015, p. 34.
17. Ibidem
18. «New York Journal-American», 3 febbraio 1949.
19. Paper Relations of the United States, doc. n. 9, vol. 1, pp.
375-376.
20. Marx, Karl, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 46.
21. Ibidem.
22. Ivi, pp. 103 e ss.
23. Di Rienzo, Eugenio, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica
del nuovo dis(ordine) mondiale, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2015, p. 39.
24. Quirico, Domenico, Reportage: la lunga notte di Kiev, «La
Stampa», 2 febbraio 2014.
25. Ibidem.
26. Mastrobuoni, Tonia, E la Germania incorona il pugile eroe
della rivolta, «La Stampa», 2 febbraio 2014.
27. http://aurorasito.wordpress.com/2014/02/06/dopo-la-
jugoslavia-lucraina/.
28. Di Rienzo, Eugenio, op. cit., p. 21.
29. Brzezinski, Zbigniew, The Great Chessboard, Basic
Books, 1997, pp. 46 e ss.
30. Di Rienzo, Eugenio, op. cit., p. 39.
31. Marx, Karl, op. cit., p. 46.
32. Di Rienzo, Eugenio, op. cit., p. 39.
33. Ivi, p. 49.
34. Ibidem.
35. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=113909/.
36. Si veda Lilin, Nicolai, Ucraina: il fronte della propaganda
in: Teti, Sandro, Carta Maurizio (a cura di), Attacco
all’Ucraina, Sandro Teti Editore, Roma 2015, p. 81.
37. Ivi, p. 82.
38. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=107255/. Fonte: http://ilmanifesto.info/storia/laereo-
lha-abbattuto-kiev-fino-a-prova-contraria/.
39. Ibidem.
40. Macchi, Alfredo, op. cit., pp. 80-81.
41. Ivi, p. 59.
42. Ivi, p. 261.
43. Ivi, p. 94.
44. Ivi, p. 32.
45. Ivi, p. 41.
46. Sharp, Gene, Come abbattere un regime, traduzione di
Massimo Gardella, Chiarelettere, Milano 2011, p. 7. [Titolo
originale: From Dictatorship to Democracy].
47. Ivi, p. 8.
48. Ivi, pp. 92 e ss.
49. Ivi, pp. 47-48.
50. Ivi, pp. 56-57.
51. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02/03/corte-onu-
serbia-non-commise-genocidio-contro-croazia/1393159/.
52. Ibidem.
53. Ibidem.
54. Ibidem.
55. http://press.russianews.it/press/finalmente-emerge-la-
verita-su-srebrenica-i-civili-non-furono-uccisi-dai-serbi-
ma-dagli-stessi-musulmani-bosniaci-per-ordine-di-bill-
clinton/.
56. Ibidem.
57. Ibidem.
58. https://aurorasito.wordpress.com/2013/06/12/ibran-
mustafic-srebrenica-e-stato-un-caos-pianificato/.
59. Ibidem.
60. http://press.russianews.it/press/finalmente-emerge-la-
verita-su-srebrenica-i-civili-non-furono-uccisi-dai-serbi-
ma-dagli-stessi-musulmani-bosniaci-per-ordine-di-bill-
clinton/.
61. Ibidem.
62. Sensini, Paolo, Divide et Impera, Mimesis, 2013, p. 228.
63. Epiphanius, Massoneria e sette segrete. La faccia occulta
della storia, Controcorrente, 2008, pp. 795 e ss. Un
ringraziamento particolare a Marcello Pamio per la
segnalazione.
64. Ivi, p. 795.
65. Brzezinski, Zbigniew, op. cit., p. 87.
66. Ivi, p. 89.
67. Articolo di Sergio Bagnoli sul quotidiano on line
www.voceditalia.it, 16 ottobre 2010:
http://www.voceditalia.it/commenti.asp?id=30131/.
68. Ibidem.
69. http://www.rpc.senate.gov/404/?
go=releases/1999/fr033199.htm/.
70. http://it.wikipedia.org/wiki/Ushtria_%C3%87lirimtare_e_Ko
sov%C3%ABs/.
71. Ibidem.
72. Nazemroya, Mahdi Darius, La Globalizzazione della
NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate,
Arianna Editrice, Bologna 2014, p. 89. [Titolo originale:
The Globalization of NATO, 2012].
73. Ivi, p. 90.
74. Estulin, Daniel, L’impero invisibile. La vera cospirazione di
chi governa il mondo, Castelvecchi, Roma 2012, p. 80.
[Titolo originale: El imperio invisible, 2008, 2009].
75. Pilger, John, New Statesman, cit. in: Estulin, Daniel,
L’impero invisibile. La vera cospirazione di chi governa il
mondo, cit.
76. Estulin, Daniel, op. cit., p. 63.
77. http://it.wikipedia.org/wiki/Slobodan_Milo%C5%A1evi%C4
%87#Le_guerre_in_Croazia_e_Bosnia_Erzegovina/.
78. Estulin, Daniel, op. cit., pp. 90-91.
79. OCSE, Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione
in Europa.
80. I Balcani senza Milošević, «LiMes», n. 5, 2000, p. 206.
81. http://blog.alexandredelvalle.com/archives/45-Guerre-
contro-l8217;Europa-Bosnia,-Kosovo,-Cecenia,-
Macedonia-Italien.html/.
82. Estulin, Daniel, op. cit., p. 71.
83. http://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Horseshoe/.
84. http://americanradioworks.publicradio.org/features/kosovo
/more2.htm/.
85. Loquai, Heinz, Der Kosovo-Konflikt. Wege in einen
vermeidbaren Krieg. Die Zeit von Ende November 1997
bis März 1999 (in tedesco), Nomos Verlagsgesellschaft,
Baden-Baden 2000.
CAPITOLO 6: LA LIBIA NEL CAOS.
GHEDDAFI E IL “TRATTAMENTO
MILOŠEVIĆ”
1. http://www.strettoweb.com/2015/02/libia-lultima-intervista-
gheddafi-i-terror-isti-invaderanno-mediterraneo/246677/.
2. http://globalresearch.ca/index.php?
context=va&aid=23983/.
3. http://www.icc-cpi.int/NR/exeres/8974AA77-8CFD-4148-
8FFC-FF3742BB6ECB.htm/.
4. http://www.famigliacristiana.it/articolo/libia_140611115251.
aspx/.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Enrico Mentana, Kosovo, Saddam, Libia: se la guerra ci
fa comodo, «Vanity Fair», 30 marzo 2011.
8. http://www.linkiesta.it/it/.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Si veda: Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo
Globale, cit.
13. Trattative con la Libia, Parigi smentisce, «La Stampa», 12
luglio 2011.
14. http://www.mediapart.fr/journal/international/120312/presi
dentielle-2007-kadhafi-aurait-finance-sarkozy/.
15. La notizia di un presunto finanziamento libico durante la
campagna presidenziale francese è stata diffusa a
quaranta giorni di distanza dal primo turno delle
presidenziali del 22 aprile 2012. A diffonderla il sito
Mediapart, che ha pubblicato i documenti a riprova che un
trafficante di armi fece da tramite tra Brice Hortefeux, poi
ministro di Sarkozy, e Saif el Ismal, secondogenito del
Colonnello. Nel testo si parla di un presunto passaggio
«di cinquanta milioni di dollari» tra i libici e lo staff di
Sarkozy «su un conto svizzero e uno in una banca
panamense». Il mediatore tra Parigi e Tripoli sarebbe
stato il trafficante di armi Ziad Takiedine. Sarkozy ha
subito seccamente smentito l’accusa. Intervistato da Tf1,
ha bollato come “grottesche” le accuse.
16. http://www.secoloditalia.it/2015/03/francia-cosi-sarkozy-fu-
finanziato-gheddafi-per-presidenziali/.
17. Ibidem.
18. Bechis, Franco, Ma quale Gheddafi! Sarkò ha dichiarato
guerra all’Italia, «Bechis’ Blog», 22 marzo 2011,
http://fbechis.blogspot.it/2011/03/ma-quale-gheddafi-
sarko-ha-dichiarato.html/.
19. Ibidem.
20. Della Sala, Paolo, Libia, acqua dolce sotterranea grande
come la Germania, «Il Secolo XIX», 25 marzo 2011,
http://lapulcedivoltaire,blogosfere.it/.
21. Pamio, Marcello, Gheddafi, Finmeccanica, petrolio, acqua
e Dinaro…, www.disinformazione.it, 30 marzo 2011.
22. Thawne, Elizabeth, Morning Gold Fix,
www.zerohedge.com.
23. Pamio, Marcello, Gheddafi, Finmeccanica, petrolio, acqua
e Dinaro…, cit.
24. Sensini, Paolo, Libia 2011, Jaca Book, Milano 2011, p.
155.
25. Ibidem.
26. Ibidem.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
29. http://www.info-direkt.at/rothschild-und-die-asyl-industrie/.
30. http://www.maurizioblondet.it/negri-e-scafisti-finanziati-
dagli-usa/.
31. http://www.info-direkt.at/rothschild-und-die-asyl-industrie/.
32. Ibidem.
33. http://www.voltairenet.org/article187426.html/.
34. Ibidem.
35. Ibidem.
36. Ibidem.

CAPITOLO 7: INGANNARE IL MONDO.


DALL’UNDICI SETTEMBRE A OGGI
1. Griffin, David Ray, 11 settembre, Fazi editore, Roma
2004, p. 102. [Titolo originale: The New Pearl Harbor.
Disturbing Questions about the Bush Administration and
9/11].
2. Ivi, pp. 102-103.
3. Ivi, p. 3.
4. Ibidem.
5. David Ray Griffin in Zero. Perché la versione ufficiale
sull’11/9 è un falso, cit., pp. 48-49.
6. «Our Nation’s cause has always been larger than our
Nation’s defense. We fight, as we always fight, for a just
peace–a peace that favors liberty. We will defend the
peace against the threats from terrorists and tyrants. We
will preserve the peace by building good relations among
the great powers. And we will extend the peace by
encouraging free and open societies on every continent»,
1 giugno 2002, West Point.
7. Si veda http://georgewbush-
whitehouse.archives.gov/nsc/nss/2002/ e il sito con la
traduzione italiana
http://www.cooperweb.it/societaeconflitto/dottrina_bush.ht
ml/.
8. Lettera di presentazione del presidente Bush al
Programma per la sicurezza nazionale del 17 settembre
2002. http://georgewbush-
whitehouse.archives.gov/nsc/nss/2002/nssintro.html/.
9. http://www.cooperweb.it/societaeconflitto/dottrina_bush.ht
ml/.
10. Ibidem.
11. Maan, James, Rise of the Vulcans: the History of Bush’s
War Cabinet, Viking, New York 2004, pp. 316 e ss.
12. David Ray Griffin in Zero, 2007, Piemme.
13. Carter, A., Deutch, J., Zelikow, P., Catastrophic Terrorism:
Tackling the New Danger, «Affari Esteri», 1998, pp. 80-
94. Traduzione italiana disponibile in Zero, 2007, Piemme,
p. 51.
14. Il 27 maggio 2011, mentre gli occhi del mondo erano
puntati su Deauville, sulla generosità dell’Occidente per
finanziare le “democrazie” nascenti dalla Primavera
araba, il presidente americano dava il via libera in sordina
alla conferma del contestato Patriot Act (legge tuttora
molto discussa, concepita al preciso scopo di ridurre gli
attacchi terroristici negli Stati Uniti dopo gli attentati
dell’Undici settembre 2001), estendendo il pacchetto di
limitazioni alla privacy fino al 2015. Obama, che durante
la prima campagna elettorale aveva espresso aspre
critiche contro il Patriot Act, si è difeso dalle accuse di
ipocrisia definendo la legge «uno strumento importante
per tutti noi».
15. Direttore esecutivo dell’Institute for Policy research and
Development. Hamed, Nafeez Mossadeq, Guerra e
libertà. Il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco
dell’Undici settembre, Fazi editore, 2002.
16. Brzezinski, Zbigniew, L’ultima chanche. La crisi della
superpotenza americana, Salerno editrice, 2008, p. 100.
[Titolo originale: Second Chance, Three Presidents and
the Crisis of American Superpower, 2007].
17. http://articles.cnn.com/2002-01-
29/politics/inv.terror.probe_1_daschle-house-and-senate-
intelligence-intelligence-committee?
_s=PM:ALLPOLITICS/.
18. Vidal, Gore, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità.
Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra
con l’Iraq e altri saggi, Fazi editore, 2002, pp. 25-26.
19. Citazione di Patrick Martin in Ahmed, Naafez M., Guerra
alla libertà. Il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco
dell’Undici settembre, Fazi editore, 2002, p. 251.
20. Ahmed, Naafez M., Guerra alla libertà. Il ruolo
dell’amministrazione Bush nell’attacco dell’Undici
settembre, cit., 2002, p. 251.
21. Ibidem.
22. Klein, Naomi, op. cit., p. 19.
23. Si veda articolo di Enrica Perucchietti, Fermo immagine:
l’edificio che non poteva crollare ma collassò su se stesso
senza essere stato colpito. Storia del WTC7.
http://ildemocratico.com/2011/09/11/fermo-immagine-
l%E2%80%99edificio-che-non-poteva-crollare-ma-
collasso-su-se-stesso-senza-essere-stato-colpito-storia-
del-wtc-7/.
24. Saggio di Andreas von Bülow in Zero, l’antologia curata
da Giulietto Chiesa che comprende numerosi saggi sulla
ricostruzione dell’Undici settembre: Zero. Perché la
versione ufficiale sull’11/9 è un falso, cit., pp. 80 e ss.
25. Il racconto è riportato in Zero, l’antologia più volte citata e
curata da Giulietto Chiesa.
26. Cabras, Pino, op. cit., p. 227.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
29. Cit. in Cabras, Pino, op. cit., p. 228.
30. Ibidem.
31. Ibidem.
32. Ivi, p. 79.
33. Il link del 13 settembre 2001 non è più accessibile. Si
veda:
http://xoomer.virgilio.it/911_subito/piloti_incompetenti.htm/
.
34. http://www.opednews.com/articles/genera_alan_mil_0709
05_u_s__navy__top_gun__.htm/.
35. http://www.patriotsquestion911.com/#Muga/.
36. http://www.indymedia.org.uk/media/2005/07/317436.pdf/.
37. Al «New York Times» confermò che dovevano essere
piloti molto esperti:
http://www.nytimes.com/2001/09/13/us/after-attacks-
method-terrorists-were-well-trained-but-not-necessarily-
flying.html/.
38. http://xoomer.virgilio.it/911_subito/piloti_incompetenti.htm;
http://www.attivissimo.net/11settembre/recensioni/special
e-tg1-20060219/index.htm/.
39. http://web.archive.org/web/20040814205203/http://abcne
ws.go.com/sections/2020/2020/2020_011024_atc_feature
.html/.
40. Cabras, Pino, op. cit., p. 178.
41. Ivi, p. 179.
42. http://www.historycommons.org/timeline.jsp?
timeline=911timeline&911timeline_the_post_9_11_world=
911timeline_9_11_criticism/.
43. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=123647&typeb=0&attentati-dell-11-9-nuovi-elementi-
rivelano-sapevano-prima/.
44. Ibidem.
45. http://lists.peacelink.it/pace/2006/09/msg00101.html.
Prefazione di Giulietto Chiesa a: Berg, Philip J. e
Rodriguez, William, Undici settembre Bush ha mentito - Il
documentato atto d’accusa del guardiano delle Twin
Towers, Editori Riuniti, 2006.
46. Si vedano i suoi due libri L’incredibile menzogna
(Fandango, 2002) e Il Pentagate (Fandango, 2003).
47. Intervista rilasciata a «Der Tagesspiegel», 13 gennaio
2002.
48. http://lists.peacelink.it/pace/2006/09/msg00101.html/.
Prefazione di Giulietto Chiesa a: Berg, Philip J.,
Rodriguez, William, op. cit.
49. Questa guerra al terrorismo è una fandonia.
http://www.guardian.co.uk/politics/2003/sep/06/september
11.iraq/.
50. http://www.guardian.co.uk/politics/2003/sep/06/september
11.iraq/.
51. Chiesa, Giulietto, Cabras, Pino, Barack Obush, Ponte alle
Grazie, 2011, p. 24.
http://www.guardian.co.uk/politics/2003/sep/06/september
11.iraq/.
52. However this theory does not fit all the facts. The truth
may be a great deal murkier.
53. The plan shows Bush’s cabinet intended to take military
control of the Gulf region whether or not Saddam Hussein
was in power.
54. Dichiarazione della “American Bar Association”, IHT.
55. Tarpley, Webster Griffin, 9/11 Syntetic Terror, Progressive
Press, 2006, p. 339.
56. Si veda anche:
http://www.democracynow.org/2004/3/5/how_to_overthro
w_a_government_pt/.
57. Letteralmente “rovesciamento”.
58. Klein, Naomi, Shock Economy, RCS Libri, Milano 2007, p.
354. [Titolo originale: The Shock Doctrine, 2007].
59. Ivi, p. 355.
60. Ibidem.
61. Ivi, p. 356.
62. Klein, Naomi, op. cit., p. 14.
63. The Organization of the Petroleum Exporting Countries
(OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di
Petrolio). Fondata nel 1960, comprende dodici Paesi
esportatori che formano un cartello economico il cui
scopo è concordare la quantità e il prezzo del petrolio
esportato.
64. www.nwo.it/conflitto.html/.
65. Articolo di Charles Recknagel intitolato Iraq: Baghdad
Moves to Euro, pubblicato l’1 novembre 2000 sul sito web
dell’emittente americana Radio Free Europe.
http://www.rferl.org/content/article/1095057.html/.
66. Ibidem.
67. www.nwo.it/conflitto.html/.
68. Ibidem.
69. Krakowski, Elie, The Afghan Vortex, in IASPS Research
Papers in Strategy, Institute for Advanced Strategic and
Political Studies, aprile 2000.
70. http://www.disinformazione.it/ISIS_creatura_cia.htm/.
71. AFP, 12 dicembre 2000.
72. Ahmed, Naafez Mosaddeq, Guerra alla verità. Tutte le
menzogne dei governi occidentali e della Commissione
“indipendente” USA sull’Undici settembre e su al-Qaeda,
Fazi Editore, Roma 2005, p. 15. [Titolo originale: The War
on Truth. Disinformation on 9/11 and the Anatomy of
Terrorism, 2004].
73. Nazemroaya, Mahdi Darius, La globalizzazione della
NATO, op. cit., p. 105.
74. AFP, 7 ottobre 2001.
75. Ibidem.
76. Si veda Fini, Massimo, Il Mullah Omar, Marsilio, 2011.
77. Nazemroaya, Mahdi Darius, La globalizzazione della
NATO, cit., p. 105.
78. Ivi, p. 108.
79. Ibidem.
80. Ibidem.
81. Ivi, p. 109.
82. Ivi, p. 110.

CAPITOLO 8: DIVIDERE PER UNIRE. IL


MODELLO DEL NEMICO NUMERO UNO,
DA EMMANUEL GOLDSTEIN A PUTIN
1. Marcuse, Herbert, L’uomo a una dimensione, 1964,
Einaudi, Torino 19688, p. 34.
2. Intendiamo riferirci a quello che Gadamer definiva il
«paradigma della violenza del XX secolo se non, in senso
più ampio, della modernità» (Traverso, E., Auschwitz e gli
intellettuali, il Mulino, Bologna 2004, p. 228).
3. Debord, Guy, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi
Dalai editore, Milano 2008. [Titolo originale: La Société du
Spectacle, 1967]. L’opera, di chiara ispirazione marxista,
descrive la moderna società delle immagini come una
mistificazione volta a giustificare i rapporti sociali di
produzione vigenti. Si veda: Galante, Raimondo, La
società della rappresentazione secondo Debord, Tracce
edizioni, Pescara 2001.
4. Debord, Guy, op. cit., tesi 24.
5. Marcuse, Herbert, op. cit., p. 28.
6. http://www.ildemocratico.com/2012/03/14/scandalo-
alleliseo-gheddafi-ha-finanziato-sarkozy-speciale-dinaro-
oro/.
7. http://www.lrb.co.uk/v37/n10/seymour-m-hersh/the-killing-
of-osama-bin-laden/.
8. Ibidem.
9. Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo Globale,
cit.
10. Nazemroaya, Mahdi Darius, La Globalizzazione della
NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate, cit., p.
102.
11. Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo Globale,
cit., pp. 241 e ss.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo Globale,
cit., p. 242.
18. Ivi, p. 243.
19. Ivi, p. 244.
http://www.lettera43.it/video/14673/bin-laden-e-morto-ma-
20.
era-il-2007.htm/.
21. Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo Globale,
cit., p. 244.
22. Ivi, pp. 244 e ss.
23. Ibidem.
24. Ibidem.
25. Ibidem.
26. Ivi, pp. 246 e ss.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
29. Ibidem.
30. Ibidem.
31. Ivi, p. 248.
32. Ibidem.
33. Ibidem.
34. Ivi, p. 257.
35. Ibidem.
36. Cabras, Pino, op. cit., p. 136.
37. Ivi, p. 137.
38. Cit. in Cabras, Pino, op. cit., pp. 137-138.
39. Ivi, p. 144.
40. http://www.disinformazione.it/ISIS_creatura_cia.htm/.
41. http://www.veteranstoday.com/2014/08/04/french-report-
isil-leader-mossad/.
42. http://www.effedieffe.com/index.php?
option=com_content&view=article&id=306342%3Ale-
atrocita-del-califfo-al-mossad-occhio-alla-
disinformazione&catid=83%3Afree&Itemid=100021/.
43. Ibidem.
44. Ibidem.
45. Ibidem.
46. Ibidem.
47. http://www.ilsecoloxix.it/p/mondo/2015/08/24/ARKF98dF-
arrivare_minaccia_porta.shtml/.
48. http://www.ilsecoloxix.it/p/mondo/2014/08/10/AR7LCKeB-
clinton_contro_errori.shtml/.
49. http://www.theatlantic.com/international/archive/2014/08/h
illary-clinton-failure-to-help-syrian-rebels-led-to-the-rise-
of-isis/375832/.
50. http://www.ilsecoloxix.it/p/mondo/2015/08/03/ARHYWWM
F-sostenere_autorizza_siria.shtml/.
51. https://www.youtube.com/results?
search_query=press+tv+ken+o%27keefe+/.
52. http://www.retenews24.it/rtn24/esteri/dichiarazione-choc-
ufficiale-usa-svela-segreto-dellisis-verita-non-vi-dicono/.
53. https://www.youtube.com/watch?v=FlJsFNLt5Ac/.
54. Ibidem.
55. http://www.secoloditalia.it/2015/02/generale-francese-
accusa-gli-usa-dietrolisis-ma-non-se-ne-parla/.
56. http://www.imolaoggi.it/2015/02/22/isis-e-lesercito-
segreto-degli-stati-uniti/.
57. Ibidem.
58. Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo Globale,
cit., pp. 156 e ss.
59. Cit. in: Teti, Sandro, Carta, Maurizio (a cura di), Attacco
all’Ucraina, cit., p. 130 [contributo di Giulietto Chiesa].
60. Ivi, p. 131.
61. http://www.ilgiornale.it/news/mondo/mosca-assassinato-
nemtsov-storico-oppositore-putin-1100010.html/.
62. Cit. in: Teti, Sandro, Carta, Maurizio (a cura di), op. cit. p.
131.
63. http://www.nextquotidiano.it/boris-nemtsov-morte-false-
flag/.
64. Ibidem.
65. Perucchietti, Enrica, Marletta, Gianluca, Governo Globale,
cit., p. 156.
66. Ibidem.
67. Ibidem.
68. Ivi, p. 157.
69. Ibidem.
70. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/30/putin-turchia-ha-
abbattuto-il-nostro-jet-per-coprire-i-suoi-traffici-con-
lisis/2266390/.
71. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/24/siria-aviazione-
turca-abbatte-jet-da-guerra-vicino-alla-base-russa-di-
latakia/2246575/.
72. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/30/putin-turchia-ha-
abbattuto-il-nostro-jet-per-coprire-i-suoi-traffici-con-
lisis/2266390/.

CAPITOLO 9: SULL’ORLO DEL


PRECIPIZIO. QUANDO È DIFFICILE
DISTINGUERE TRA REALTÀ E FINZIONE
1. https://www.washingtonpost.com/world/france-sent-arms-
to-libyan-rebels/2011/06/29/AGcBxkqH_story.html/.
2. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/15/attentati-parigi-
interrogati-padre-e-fratello-del-terrorista-francese-
identificato-almeno-4-arresti-belgio/2219680/.
3. http://www.maurizioblondet.it/come-sapremo-se-e-un-
false-flag/.
4. http://www.timesofisrael.com/in-france-defense-experts-
see-parallels-to-israel/.
5. http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/speciale-attacco-
charlie-hebdo/assange-la-strage-a-charlie-hebdo-colpa-
dell-incompetenza-degli-007-_2088877-201502a.shtml/.
6. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?
name=News&file=article&sid=14478/.
7. Ibidem.
8. http://www.aldogiannuli.it/charlie-hebdo-lintelligence-serie-
attentati/.
9. Chiesa, Giulietto, “I misteri di Parigi”, in: È arrivata la
bufera, Piemme, Roma 2015, p. 15.
10. http://www.byoblu.com/post/2015/11/13/inferno-parigi-ma-
netanyahu-li-aveva-avvertiti-quel-video-maledetto-che-
tutti-fingono-di-ignorare.aspx/.
11. http://nena-news.it/francia-al-voto-il-riconoscimento-
simbolico-della-palestina/.
12. http://www.aftenposten.no/nyheter/iriks/Trente-pa-Utoya-
scenario-22-juli-6285004.html/.
13. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=123641/.
14. http://www.maurizioblondet.it/anche-a-san-bernardino-
era-in-corso-una-simulazione/.
15. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=63448/.
16. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=123641/.
17. http://www.panorama.it/news/esteri/parigi-13-novembre-
la-gestione-dellemergenza/.
18. http://www.maurizioblondet.it/parigi-sempre-nuovi-indizi-
di-false-flag/.
19. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=123641/.
20. http://ilmanifesto.info/in-ricordo-di-bernard-maris/.
21. Ibidem.
22. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/09/charlie-hebdo-
vittime-bernard-maris-leconomista-anti-
austerity/1325241/.
23. Ibidem.
24. Ibidem.
25. Chiesa, Giulietto, “I misteri di Parigi”, cit., p. 19.
26. Ibidem.
27. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?
name=News&file=article&sid=14478/.
28. Chiesa, Giulietto, “I misteri di Parigi”, cit., p. 17.
29. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=114597/.
30. Ibidem.
31. http://actualidad.rt.com/actualidad/162898-roberts-ataque-
paris-falsa-bandera-francia-vasallo-eeuu/.
32. http://www.paulcraigroberts.org/2015/01/13/charlie-hebdo-
paul-craig-roberts/.
33. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?
name=News&file=article&sid=14489/.
34. Ibidem.
35. http://www.paulcraigroberts.org/2015/01/13/charlie-hebdo-
paul-craig-roberts/.
36. Ibidem.
37. http://comunicati.russia.it/politologo-l-attentato-di-parigi-
organizzato-dai-servizi-americani.html/.
38. http://lifenews.ru/news/148122/.
39. http://www.aldogiannuli.it/interpretazione-strage-di-parigi/.
40. http://www.theeventchronicle.com/paris-attack/gordon-
duff-paris-attack-ridiculous-false-flag-wasnt-even-filmed-
paris/.
41. http://www.veteranstoday.com/2015/01/08/charlie-hebdo-
viral/.
42. Chiesa, Giulietto, “I misteri di Parigi”, cit., p. 9.
43. http://la-zanzara.radio24.ilsole24ore.com/giulietto-chiesa-
la-francia-e-uno-stato-terrorista-i-servizi-segreti-hanno-
armato-gli-attentatori/?refresh_ce=1/.
44. Ibidem.
45. http://www.maurizioblondet.it/su-charlie-hebdo-piomba-il-
segreto-militare/.
46. Ibidem.
47. Ibidem.
48. Ibidem.
49. Ibidem.
50. http://www.aredam.net/dossier-ahmed-meguini-
menghini.html/.
51. http://www.maurizioblondet.it/i-tre-eroici-marines-e-ayoub-
il-solito-incastrato/.
52. http://aanirfan.blogspot.it/2015/08/french-train-false-
flag.html; http://lejournaldessurvivants.centerblog.net/471-
michel-dakar-un-chercheur-de-verite/.
53. http://www.nationspresse.info/non-classe/ahmed-meguini-
agresse-ou-provocateur/.
54. http://www.aredam.net/dossier-ahmed-meguini-
menghini.html/.
55. http://quenelplus.com/buzz/proces-kemi-seba-contre-
ahmed-meguini.html/.
56. https://aurorasito.wordpress.com/2015/08/23/la-false-flag-
del-treno-francese/.
57. http://ripostenesher.blogspot.com/.
58. http://www.aredam.net/dossier-ahmed-meguini-
menghini.html/.
59. http://www.nationspresse.info/non-classe/ahmed-meguini-
agresse-ou-provocateur/.
60. http://www.panorama.it/news/esteri/parigi-abdelhamid-
abaaoud-mente-attentati/.
61. «Avevamo un progetto di attentato contro il Bataclan
perché i proprietari sono ebrei», spiegavano alla polizia,
nel febbraio del 2011, alcuni membri di Jaish al-Islam,
l’Esercito dell’Islam. Nel 2007 e nel 2008 il Bataclan subì
le minacce di alcuni gruppi radicali islamici per aver
ospitato conferenze e manifestazioni di organizzazioni
ebraiche e israeliane. Da:
http://www.secoloditalia.it/2015/11/bataclan-nel-mirino-
dei-terroristi-dal-2011-perche-i-proprietari-ebrei/.
62. http://www.labottegadelbarbieri.org/la-strage-di-parigi-un-
avvertimento-ai-rothschild/.
63. Ibidem.
64. http://www.panamza.com/300115-hypercacher/.
65. http://www.maurizioblondet.it/parigi-sempre-nuovi-indizi-
di-false-flag/.
66. http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?
ID=124645/.
67. http://ilmanifesto.info/hollande-stato-di-emergenza-per-
tre-mesi/.
68. http://www.lastampa.it/2015/11/20/esteri/il-premier-valls-
spaventa-la-fran-cia-c-il-rischio-di-attacchi-chimici-
GgedP7pJDBHEU2dmGsKNMO/pagina.html/.
69. Ibidem.
70. http://www.maurizioblondet.it/parigi-sempre-nuovi-indizi-
di-false-flag/.
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?
71. idx=82&pg=13444/.
72. http://fr.sputniknews.com/france/20151202/1019969639/p
aris-kamikaze-club-tir.html?
utm_source=https%3A%2F%2Ft.co%2FqL9ZFc4hMd&ut
m_medium=short_url&utm_content=akyk&utm_campaign
=URL_shortening/.
73. http://www.maurizioblondet.it/parigi-sempre-nuovi-indizi-
di-false-flag/.
74. Tarpley, Webster, La fabbrica del terrore, cit., p. 90.
75. Ivi, p. 91.
76. Ivi, p. 92.

CONCLUSIONI
1. Brzezinski, Zbigniew, L’ultima chance. La crisi della
superpotenza americana, Salerno Editore, 2008, p. 24.
[Titolo originale: Second Chance. Three Presidents and
the Crisis of American Superpower, 2007].
«Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti.
Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e
faranno, oggi, domani e dopodomani.
E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal
nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e
dai nostri timori.
Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le
possibilità del futuro che sono aperte».
KARL POPPER

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