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RIASSUNTI COOPERAZIONE: “Globalizzazione, sviluppo, cooperazione internazionale”

CAP 1
Quando parliamo di crescita ci riferiamo all’incremento della ricchezza di un paese,
generalmente indicato dal PIL. Questo approccio nasce dall’idea stessa di capitalismo,
ovvero un sistema produttivo adottato dalla quasi totalità dei paesi, basato sul principio
dell’accumulazione (in particolare del capitale fisico -> se aumenterà il numero dei
macchinari utilizzati dalle imprese del paese, aumenterà la produzione, quindi aumenterà il
consumo -> le teorie poi si concentrano su diversi tipi di capitale, che possono essere
soggetti al processo di accumulazione).
Quando parliamo di sviluppo, invece, ci riferiamo al processo di trasformazione del paese
che prevede un miglioramento del livello di benessere della popolazione. Il benessere
include il reddito e quindi di conseguenza il concetto di crescita, ma questa non è l’unico
indicatore che serve per determinare il livello di sviluppo; infatti questo comprende anche un
incremento generale del livello di dotazione sociale e culturale del paese -> il processo di
sviluppo porta quindi un paese a una condizione maggiore di welfare e di impiego più
efficiente delle capacità produttive.
Possiamo quindi dividere i paesi in paesi avanzati - dove è avvenuto il processo di crescita,
e quasi sempre anche quello di sviluppo - e i paesi emergenti - che ancora non hanno
raggiunto questo obiettivo.
E’ impossibile determinare un unico indicatore che riesca a cogliere tutti gli aspetti dello
sviluppo, perciò è necessario isolare i principali fattori di sviluppo:
1. capitale fisico
-> teorie mostrano il legame tra l’accumulazione di capitale fisico di un paese e la
sua crescita economica, si tratta di un processo virtuoso che si autoalimenta =
aumentano gli investimenti in capitale fisico, cresce l’occupazione, si produce nuovo
reddito e questo dà impulso ai consumi, che a loro volta fanno aumentare la
produzione, e quindi rendono necessario l’acquisto di nuovi macchinari e nuova forza
lavoro.

2. tecnologia
-> il fattore tecnologico è uno dei cardini della crescita e dello sviluppo, infatti i paesi
avanzati sono quelli dotati di tecnologie più all’avanguardia (che vengono messe al
servizio della produzione). Sono rilevanti due elementi:
- il tipo di tecnologia utilizzata → Schumpeter la chiama “innovazione incrementale”,
ovvero il processo tecnologico si è basato su innovazioni ulteriori che sono state
sviluppate a partire dalla prima innovazione radicale. Ciò ha condotto oggi a un certo
tipo di dotazione tecnologica di cui beneficiano principalmente i produttori e
consumatori dei paesi più avanzati, mentre i paesi in via di sviluppo utilizzano
tecnologie con inferiore capacità produttiva e minore sostenibilità ambientale.
- il trasferimento di tecnologia da un paese all’altro → alcuni dei più riusciti progetti di
cooperazione internazionale si basano sul trasferimento di tecnologia, oltre che di
capitale monetario. Tuttavia, in alcuni paesi emergenti, esiste un vincolo legato
all’assenza delle infrastrutture necessarie per supportare questa tecnologia, ecco
perché sarebbe più efficace importare la tecnologia affiancata da un trasferimento di
conoscenze. Il principale ostacolo è economico, perché i paesi emergenti non hanno
i mezzi per acquistare le tecnologie che renderebbe il loro sistema produttivo più
efficace; e questo pesa sul loro ruolo nella competizione sui mercati internazionali
(anche perché spesso la tecnologia che viene ceduta ai paesi emergenti da quelli
ricchi è desueta). La tecnologia è un fattore di sviluppo perché è un elemento in
grado di migliorare la vita dei cittadini contribuendo al benessere e quindi alla
trasformazione strutturale del paese.

3. fattore demografico e capitale umano


-> in passato il fattore demografico era considerato un elemento di crescita (perché
popolazione numerosa si traduceva in aumento della manodopera) ma negli ultimi
anni qualcosa è cambiato: nei paesi avanzati il tasso di natalità si sta abbassando, e
perchè si sta modificando il modello di produzione. Nelle società agricole/ paesi che
dove non c’è stata ancora la transazione verso la produzione industriale, la
produzione è “labour intensive” (= massiccio utilizzo della forza lavoro), mentre nei
paesi avanzati è “capital intensive” (= la ricchezza deriva principalmente dalla
produzione di servizi = alta intensità di capitale fisico e anche umano). Possiamo
definire il capitale umano come uno stock di conoscenze, competenze e abilità di cui
un individuo è in possesso; ovviamente c’è una relazione diretta tra il livello medio di
istruzione di una popolazione e il capitale umano del paese. Quindi, al fine di
accumulare capitale umano, i paesi devono rafforzare il settore dell’istruzione (in
questo processo le istituzioni hanno un ruolo centrale, es. dell’India)

4. istituzioni
-> sotto il profilo economico, le istituzioni rispondono al problema dell’esiguità delle
risorse, che non sono infinite. Ecco perché occorre comprendere come utilizzarle al
meglio: uno dei fattori cardine dell’economia politica, e uno dei principali obiettivi
consiste infatti nel trovare il modo di massimizzare l’efficacia di utilizzo delle risorse.
Le istituzioni hanno lo scopo di garantire che le risorse siano adeguatamente
collocate e utilizzate, e che vengano rispettati alcuni principi fondamentali per la
riuscita di un sistema capitalistico. Ciò consente di ridurre i “costi di transazione”: se
le istituzioni sono efficienti i costi di transazione si riducono o si minimizzano, perché
lo stato stabilisce un insieme di regole codificate che abbattono questi costi e
migliorano la vita dei cittadini, contribuendo ai processi di crescita e sviluppo. Queste
operazioni vengono condotte anche da investitori internazionali (= coloro che
decidono di scommettere sulle buone performance di un paese). In questa visione, il
ruolo delle istituzioni è fondamentale per il benessere della popolazione.

Negli ultimi decenni, per misurare lo sviluppo di un paese, l’attenzione si è spostata su indici
più complessi, meno quantitativi e in grado di fornire valutazioni generali sul livello di
benessere della popolazione.

→ PIL è il valore di mercato dei beni e dei servizi prodotti in un paese in un determinato
periodo di tempo = rappresenta la ricchezza prodotta in un anno, espressa in valuta. I beni e
i servizi inclusi nel PIL sono a un prezzo di mercato che viene stabilito dalla legge della
domanda e dell’offerta. Quindi gli scambi che non danno luogo a una transazione economica
sono esclusi dal calcolo del PIL, mentre quest’ultimo considera solo i beni/servizi finali
(ovvero che non vengono ulteriormente lavorati), sia di consumo che di investimento. Le
importazioni rappresentano una fuoriuscita di reddito dal paese, viceversa le esportazioni.
“Interno” perché il PIL indica il valore di consumi, investimenti ed esportazioni nette
all’interno dei confini di un paese; “lordo” perchè è al lordo dell’ammortamento (ovvero
include il deprezzamento delle macchine, impianti, attrezzature produttive). Il PIL può essere
stimato a prezzi correnti o a prezzi costanti: se si stima a prezzi correnti subisce l’inflazione
e per questo viene definito anche PIL nominale, se si stima in rapporto ai prezzi di un certo
“anno base” si elimina l’effetto dell’inflazione e per questo viene definito anche PIL reale.
Il PIL rappresenta una misura solo approssimativa del benessere, in quanto non fornisce
indicazioni generali sulla distribuzione effettiva del reddito né sull'effettiva capacità in termini
di potere d’acquisto della popolazione.

→PNL (Prodotto Nazionale Lordo) è un altro indicatore utilizzato per la stima dello sviluppo,
misura i beni e servizi finali prodotti, ma si ricava dal PIL aggiungendoci imposte, tasse sui
prodotti, e i sussidi. Inoltre, vengono aggiunti i redditi netti ottenuti all’estero dai cittadini del
paese, e sottratti quelli pagati ai cittadini stranieri dentro al paese. Il PNL quindi misura la
ricchezza che i cittadini di un paese riescono a produrre, sia dentro che fuori dei propri
confini nazionali. Anche il PNL può essere stimato a prezzi correnti o costanti.

Consideriamo che il sistema capitalistico si basa sull’accumulazione, ovvero nella crescita, e


per questo motivo ogni anno si misura la produzione anche in termini di paragone con l’anno
precedente (PIL ‘21 = PIL ‘21 / PIL ‘20). Il presupposto di partenza (che è fondande per il
capitalismo) è che il PIL debba sempre crescere: se il tasso di crescita è pari a zero o
negativo, il paese si troverà a fronteggiare una situazione di stagnazione o di recessione.

→PIL pro capite: è l’indicatore di crescita che più si avvicina alla misurazione del livello di
benessere di una popolazione, seppur teorica. E’ infatti la stima della ricchezza potenziale
dei cittadini (PIL / popolaz). Però rimane teorico in quanto si basa su un ideale di equità
distributiva, infatti sappiamo che in ciascun paese vi sono forti disuguaglianze di reddito.

Viene utilizzato il dollaro statunitense come valuta di riferimento, tuttavia il potere di acquisto
di un dollaro varia da paese a paese, perciò viene applicato il metodo della parità del potere
di acquisto (Purchasing Power Parity, PPP) che risponde a questo problema (es. si crea un
paniere di 300 beni che rappresentano le abitudini di acquisto di un consumatore standard di
un dato paese, poi si vede quanti di questi sono acquistabili con un dollaro, e si stima il reale
potere di acquisto del consumatore medio del paese).

→ L’utilizzo dei ranking (=classifiche):


In alcuni paesi il volume dell’economia sommersa è così rilevante da rendere inefficace la
misurazione del PIL, e anche l’utilizzo del dollaro statunitense comporta alcune criticità. Se
vogliamo comparare i dati di due o più paesi dobbiamo necessariamente usare un unico
indicatore. Questo anche nelle costruzioni dei ranking internazionali (=strumento utile perchè
mette a confronto e agevola così la comprensione del posizionamento di ciascun paese in
relazione alla variabile considerata).
Nel ranking del 2019 al primo posto troviamo USA, poi Cina (inferiore però di ben 7000
miliardi di dollari, anche se la distanza si sta accorciando), terzo posto Giappone (che
tuttavia è molto distanziato). Nei primi 20 posti ci sono paesi che qualche anno fa avremmo
considerato in via di sviluppo, come Corea, Indonesia, Turchia, dimostrano come alcuni
paesi emergenti siano dinamici e determinati (e quindi che le posizioni annuali sono da
considerarsi instabili). I paesi in fondo alla classifica sono quelli con minor estensione
territoriale, perché il PIL deriva per lo più da beni agricoli o ittici e relative lavorazioni
prevalentemente destinate all’esigua domanda interna.
Il tasso di crescita del PIL è la variazione del PIL nell’anno in oggetto rispetto al precedente.
Visto che i paesi emergenti producono meno ricchezza è prevedibile che i loro tassi di
crescita siano più elevati, in quanto la variazione viene stimata su una base più modesta.
Un caso particolare è la Cina: unico paese che è presente sia nella graduatoria dei paesi
con PIL più elevato (2’), sia in quella dei paesi con maggiore tasso di crescita (15’), questo
conferma la crescente importanza della Cina nel contesto produttivo mondiale.

Il PIL pro capite su ranking: se il PIL pro capite è molto modesto vorrà dire che in quel paese
si produce poca ricchezza, a prescindere dalla presenza o meno di una perfetta equità
distributiva. In cima alla lista per elevato PIL pro capite abbiamo unicamente paesi avanzati,
perlopiù del Nord del mondo.
La misurazione del PIL pro capite può essere più accurata se si utilizza il metodo della parità
del potere d’acquisto. In questo modo otteniamo due benefici: si evita di sovrastimare o
sottostimare il reale potere d’acquisto, e si rapporta il potere d’acquisto del dollaro alle
abitudini di spesa locali. Alla luce dell’effettivo potere d’acquisto pro capite, il paese più ricco
del 2019 è il Macao (lo succedono il Lussemburgo e paesi come gli Emirati Arabi Uniti;
mentre ne escono altri come Finlandia o Canada); la situazione dei paesi più poveri rimane
stabile.

Già nel 1968 R. F. Kennedy affermava che “il PIL misura tutto eccetto ciò che rende la vita
veramente degna di essere vissuta”. Al PIL si rimprovera, infatti, il fatto di essere un
indicatore che nasconde le disuguaglianze, e alcuni criticano anche l’identificazione stessa
tra la ricchezza materiale e l’effettivo livello di benessere degli individui. Sappiamo che il
benessere di un individuo dipende in parte da fattori extra-materiali (= che non sono oggetto
di scambio con una contropartita monetaria). Infine, quando misuriamo la produzione
nazionale attraverso il PIL, teniamo conto esclusivamente delle transazioni ufficiali che
vengono registrate nella contabilità nazionale. Le attività che non vengono contabilizzate,
dette informali, si dividono in attività per la sopravvivenza (= diffuse soprattutto nei paesi più
poveri: autoproduzione e autoconsumo) e attività irregolari (= settore sommerso aka
pagamenti in nero + settore illegale aka reati). Se dovessimo stimare correttamente il PIL
dovremmo poter includere e calcolare anche le attività informali, non facendolo il PIL viene
sempre sottostimato. Non tiene conto neppure delle forme di mercato, dei fattori ambientali,
delle esternalità derivanti dalla produzione.

→Human Development Index:


Misurare lo sviluppo è un calcolo con il quale le Nazioni Unite hanno provato a misurarsi,
infatti lo United Nations Development Programme (UNPD) ha adottato dal 1993 lo Human
Development Index (HDI). Questo è un indicatore sviluppato dall’economista Mahbub ul
Haq, che partendo dal PIL amplia le dimensioni analizzate, infatti l’HDI è una media
aritmetica ponderata di tre indicatori: l’aspettativa di vita alla nascita, il livello di istruzione
della popolazione (= somma ponderata dell’indice di alfabetizzazione degli adulti + l’indice di
scolarità lorda), il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto. I tre indicatori hanno lo stesso
peso (0,333) e l’indice ha valori tra 0 e 1, dove 1 è il valore di massimo benessere possibile.
Quindi si introducono tre elementi fondamentali per lo sviluppo umano: un’esistenza
dignitosa; la conoscenza; una vita lunga e sana. Secondo il ranking del 2019 del HDI, al
primo posto per sviluppo umano abbiamo la Norvegia (seguita da Svizzera, Irlanda e
Germania) e in generale nelle prime posizioni ci sono solo paesi avanzati; mentre i paesi
con minor livello di sviluppo sono quasi esclusivamente del continente africano. I paesi più
ricchi sono anche quelli i cui governi gestiscono un ammontare di bilancio pubblico più
elevato e quindi sono in grado di fornire servizi migliori e più numerosi ai cittadini.

CAP 2
Abbiamo detto che per crescita intendiamo un incremento di valore della ricchezza prodotta
(in PIL), mentre lo sviluppo rappresenta una trasformazione strutturale di un sistema
economico che porta a un maggiore grado di benessere della popolazione, ecco perché
trovare un indicatore di sviluppo univoco è difficile.

Durante gli anni il percorso di crescita effettuato dal paese avanzato è stato preso come
modello da applicare nel paese in via di sviluppo, questo però porta tre forti limitazioni:
1. non vengono considerate le specificità del paese emergente
2. si parte dal presupposto errato che il paese avanzato rappresenti un caso di
successo dal quale il paese emergente deve imparare
3. non si tiene conto del fatto che i progressi ottenuti dai paesi avanzati sono legati a
doppio giro con le innovazioni tecnologiche che nel corso degli anni e dei secoli
questi paesi hanno sviluppato, e che ora sono disponibili potenzialmente per i paesi
emergenti (ma non economicamente accessibili).
Le teorie della crescita poggiano sul modello capitalistico, ovvero sul principio di
accumulazione. In questa prospettiva, i paesi emergenti sono nello stadio iniziale di un
processo caratterizzato da una linea evolutiva “naturale” dal quale sono passati per primi i
paesi avanzati. La posizione dei paesi avanzati non viene intaccata neppure dai programmi
di sviluppo portati avanti da FMI (Fondo Monetario Internazionale) e dalla Banca Mondiale,
visto che la loro attuazione prevede l’adozione di tecnologie di cui i paesi emergenti non
dispongono e per la cui fornitura devono rivolgersi ai paesi avanzati.

→ Le Teorie Classiche della Crescita:


Nell’ambito dell’economia dello sviluppo viene discusso di crescita dal 1800, ma possiamo
parlare di prime vere teorie dello sviluppo solo dopo il secondo dopoguerra, quando alcuni
paesi avanzati si trovano a dover affrontare una pesante ricostruzione. Ecco che nascono le
grandi organizzazioni sovranazionali (es. la Banca Mondiale e il FMI) che inizialmente hanno
intenzione di ricostruire i paesi avanzati, ma che poi spostano il focus sui paesi più poveri
per favorirne il processo di crescita e sviluppo. L’elemento che accomuna le teorie classiche
è la piena fiducia nei confronti del mercato: vengono accolte tutte le ipotesi dei mercati
perfettamente concorrenziali, e si ritiene che l’equilibrio del mercato venga garantito dalla
perfetta flessibilità dei prezzi.

-> Adam Smith:


Smith sostiene che la divisione del lavoro rappresenta l’unico fattore di progresso
economico, perché incrementa la produttività e si sviluppa con la progressiva espansione
dei mercati, alla quale è legato il progresso di crescita. L’espansione del mercato diventa
essa stessa un fattore di progresso e crescita, visto che comporta un incremento nello
scambio commerciale a cui fa seguito un aumento del reddito reale e della competizione
che, a sua volta, determina una riduzione dei costi di produzione. La divisione del lavoro
viene spersonalizzata, ovvero Smith sostiene che non sia possibile individuare un agente
economico che sia univocamente responsabile della divisione del lavoro; allo stesso modo
diviene spersonalizzato anche il motore del progresso. Smith propone un’analisi partendo
dalla colonizzazione del Nord America: secondo lui è possibile per una colonia raggiungere
un livello di crescita superiore a qualunque altra società, grazie anche all’abbondanza di
terre fertili a disposizione e alla scarsità di forza lavoro. In queste condizioni gli imprenditori
agricoli non hanno alcuna spesa di affitto, e i lavoratori possono avere accesso a stipendi
“più liberali”; quindi, grazie a un mix dato dai modesti prezzi della terra e dagli elevati profitti
agricoli, i lavoratori sono incoraggiati a risparmiare, con l’obiettivo di divenire un giorno loro
stessi proprietari agricoli.
Questa è una teoria della crescita che predilige la prospettiva dell’offerta, puntando su due
fattori di produzione: la terra e la forza lavoro; quindi a un incremento nell’offerta di terra o di
forza lavoro determina la crescita.

-> David Ricardo:


Questa teoria di crescita si incentra sui fattori dell’offerta, ovvero dei produttori, con un focus
sul settore agricolo. Secondo Ricardo, le condizioni produttive in agricoltura rappresentano
un fattore cruciale per determinare il livello della crescita economica e le relative dinamiche
anche a livello distributivo. In questa cornice, gli effetti dell’accumulazione si presentano
differentemente nei diversi paesi a seconda della fertilità della terra, elemento che determina
il differenziale di crescita tra paesi ricchi e poveri.
Questo modello si basa quindi su un approccio duale:
- da un lato i paesi dotati di terre fertili
- dall’altro i paesi con grado di fertilità più basso
Ricardo definisce il tasso di profitto ottenibile dall’intero sistema economico attraverso
l’analisi del tasso di profitto delle terre meno fertili; questo perché il paniere dei beni
acquistati dalla classe lavoratrice è composto da beni agricoli che vengono prodotti in un
regime di costi crescenti. Ciò significa che all’aumentare della domanda i costi
lieviterebbero, perché la quantità di terra non è illimitata, dunque l’accumulazione di capitale
causa un incremento nella popolazione che lavora e quindi aumenta la domanda di beni
agricoli; aumentano quindi i salari monetari, ma anche i prezzi. La crescita del capitale e
della popolazione si arresta quando salari e profitti raggiungono il loro livello naturale di
lungo periodo. Se poi il progresso o l’importazione di beni agricoli più convenienti dall’estero
non riescono a contrastare e riequilibrare gli effetti dei ritorni decrescenti nell’agricoltura
nazionale, il processo di crescita economica si interrompe. Per Ricardo, il progresso tecnico
è il solo fattore che può innescare un nuovo processo di accumulazione e crescita.

-> Karl Marx:


Per Marx la crescita è un fenomeno transitorio che culmina con la crisi naturale del sistema
capitalistico. Egli (come Ricardo) considera il progresso tecnico come un fattore
determinante, perché avrebbe il compito, nel breve periodo, di favorire la creazione di ampi
blocchi monopolistici (poiché solo alcune imprese riusciranno a migliorare le tecniche di
produzione, sbaragliando quelle concorrenti, creando un ridimensionamento dei meccanismi
competitivi e si attiverà una spirale che alimenterà la crisi in un processo vizioso). Altro
punto in comune con Ricardo è la visione dualistica: per Marx la contrapposizione tra le aree
centrali e le aree periferiche. Un fattore interessante è la considerazione dei fattori di crisi
come fattori funzionali: gli stessi squilibri territoriali sono un fattore funzionali rispetto al
processo di accumulazione di capitale, ma pone le basi per l’implosione del sistema
capitalistico (= i lavoratori che stanno nelle aree periferiche sono indotti a spostarsi verso le
aree centrali, così facendo le aree periferiche registrano un crollo del mercato immobiliare, si
spopolano e sono destinate a un impoverimento). Ciò avviene attraverso tre processi:
1. la sistematica sottrazione del surplus -> da parte del capitalista ai danni del
lavoratore, poiché nel reddito da lavoro non rientrano anche i profitti di cui il
capitalista si appropria;
2. il deterioramento dei termini di scambio -> si rifà all’approccio critico di Marx rispetto
ai sostenitori del libero commercio;
3. la rimozione progressiva della forza lavoro -> chi rimane nelle periferie? la
popolazione più povera e coloro che non sono in grado di lavorare, questo
ovviamente impoverisce ulteriormente le aree suburbane e rende necessaria
un’azione mirata a ristabilire un equilibrio rendendole più centrali.
Per Marx la soluzione non sta nel modello di produzione capitalistico, anzi esso rappresenta
parte del problema.

→ Teorie della crescita basate sull’industrializzazione


Nella prima metà del ‘900, le teorie della crescita iniziano ad attribuire grande importanza al
processo di industrializzazione. Ciò parte dall’ipotesi che il percorso di crescita dei paesi
avanzati sia esemplare, e quindi che sia da studiare e sviscerare per poterlo riproporre ai
paesi emergenti. Visto che la crescita dei paesi avanzati è iniziata con la rivoluzione
industriale, allora queste teorie sostengono che sia proprio l’industrializzazione a fornire uno
stimolo alla crescita dei paesi più poveri. Gli autori cercano di determinare la quantità
necessaria e la combinazione efficiente di tre fattori di crescita: i risparmi, gli investimenti e
l’aiuto diretto estero (tutti e tre considerati nell’ambito del processo di accumulazione).
Ovviamente queste teorie basate sull’industrializzazione sono da considerarsi in relazione al
periodo storico: con il Piano Marshall veniva dato l’impulso al processo di ricostruzione ad
alcuni paesi, e la sua riuscita ha diffuso la convinzione che l’afflusso di capitale monetario
avrebbe avviato un processo di crescita economica anche nei paesi più poveri.

La Teoria Generale di Keynes pone le basi per una visione dinamica dell’economia (in
contrasto con le posizioni classiche), infatti sostiene che il sistema economico non è in grado
di autoregolarsi, quindi il mercato da solo non è capace di condurre i paesi da una
condizione di povertà a una di benessere e abbondanza. Testimone della grande crisi
statunitense del 1930, Keynes testimonia l’incapacità del mercato di rispondere
adeguatamente attraverso i meccanismi di stabilizzazione automatica. Grazie a questa
teoria il sistema capitalistico viene rimesso in discussione (ci sono punti di contatto con
Marx: entrambi considerano il capitalismo come un processo la cui finalità non è il
benessere collettivo ma solo il profitto in mano a pochi). Tuttavia, Keynes non si pone in
netto contrasto con il capitalismo, ma rinviene una falla nel sistema che, guardando la
compresenza di paesi ricchi e poveri, è incapace di garantire la piena occupazione e di
distribuire equamente redditi e ricchezze.
-> Tra i modelli che si ispirano a questo troviamo quello di Harrod-Doman: un modello di
crescita economica che spiega il tasso di crescita di un paese attraverso il suo livello di
accumulazione di risparmi e capitale. Gli assunti fondamentali su cui si basa sono:
1. ipotizza un equilibrio di piena occupazione e l’assenza di interferenze governative nel
sistema economico
2. prevede che l’economia sia chiusa agli scambi con l’estero e che la tecnologia
presenti dei rendimenti costanti
3. i risparmi sono da considerarsi come una frazione del reddito (ciò che rimane di
reddito al consumatore, dopo aver effettuato consumi, gli rimane come risparmio)
Ricordiamo che nell’ipotesi di Keynes, su cui si basa il modello, i risparmi eguagliano gli
investimenti. Una volta garantite queste condizioni la crescita economica di un paese può
seguire un circolo virtuoso che si avvia grazie all’incremento degli investimenti in capitale
fisico da parte delle imprese (consegue aumento dei macchinari a livello nazionale, che
aumentano la produzione nazionale, che a sua volta incrementerà la ricchezza). Visto che
tutto ciò accade nel settore industriale, la forza lavoro ne viene attratta, abbandonando
gradualmente il settore dell’agricoltura. L’aumento di importanza di questo settore conduce,
al termine di questo processo, a un ulteriore incremento della produzione e quindi della
ricchezza nazionale.

Una caratteristica comune alla maggior parte delle teorie basate sull’industrializzazione sta
nell’elaborazione di modelli che prevedono l’esistenza di stadi successivi di crescita, che
dovrebbero portare il paese da una condizione di povertà a una di benessere economico.
-> Tra le teorie per stadi più note abbiamo quella di Rostow, il cui modello presenta
un’impostazione che considera la transizione da uno stato di sottosviluppo a uno di sviluppo
rispetto ai passaggi che ha già superato e quelli che ancora deve affrontare. Ciò si
concretizza nella definizione di alcuni settori guida per ciascuno degli stadi di crescita.
L'obiettivo finale è il raggiungimento di una crescita economica bilanciata e duratura, che
può essere conseguita, nel paese emergente, attraverso un piano armonizzato di
investimenti realizzati in molte industrie differenti. Secondo questo modello, se si effettuano
investimenti in settori diversi, si creeranno condizioni per le quali ogni industria possa
contare sulla domanda creata dalle altre industrie, e questa spinta derivante dalla domanda
trainerebbe i consumi in tutti i settori. Questa intuizione poggia sull’analisi dei dati che
mostrano, per i paesi emergenti, una strutturale carenza di domanda interna; quindi gli
investimenti sosterrebbero l’offerta, ma anche farebbero nascere e supporterebbero la
domanda. Per conseguire questo risultato il modello propone cinque fasi, orientate
progressivamente da una condizione tradizionale allo stadio del consumo di massa.
Le fasi sono:
1. la società tradizionale -> è basata sulla sussistenza + settore trainante è quello
agricolo + famiglie producono beni agricoli per se stesse + non ancora presente un
principio di scambio di mercato + compresenza di fattori che impediscono crescita
del paese (= bassa produttività, basso risparmi, basso investimento, bassa mobilità
sociale).
2. le precondizioni per il decollo -> si verificano le circostanze perché avvenga il
passaggio dal settore agricolo a quello industriale + produzione agricola diventa più
efficiente + si introduce il meccanismo di mercato, ciò fa sì che si passi dalla
produzione per autoconsumo a quella per il mercato (quindi anche il modello di
produzione delle famiglie muta = ora producono anche un surplus destinato allo
scambio sul mercato) + migliorano istruzione e salute + nasce il settore industriale
grazie anche alle prime istituzioni finanziarie e al ruolo della moneta + compaiono
nuovi soggetti e arriva l’idea del progresso + risparmio e investimenti aumentano +
emerge figura di governo impegnato nella costruzione delle infrastrutture necessarie
per il collegamento del paese (sia per trasporti che per comunicazioni).
3. il decollo -> il paese emergente modifica il proprio status e si avvia verso un percorso
di crescita sostenuta + passaggio della forza lavoro dal settore agricolo all’industriale
+ il paese abbandona tutte le proprie caratteristiche tradizionali per aderire a una
crescita guidata dall’industria manifatturiera (reddito si concentra inizialmente nelle
mani di chi gestisce queste industrie).
4. il raggiungimento della maturità -> fase della maturità + sistema economico acquista
un proprio ruolo all’interno dell’economia globale + settori determinanti nella fase 3 si
ridimensionano per dare spazio alla crescita di nuovi settori (in risposta a necessità
di diversificazione) + miglioramento delle condizioni generali della popolazione (livelli
di povertà diminuiscono e aumenta standard di vita) + grazie allo sviluppo
tecnologico la struttura produttiva si rafforza tanto che il paese diviene in grado di
produrre tutti i beni e servizi necessari al consumo e anche alle esportazioni.
5. il consumismo e la produzione di massa -> si sviluppano il consumo e la produzione
di massa (= i consumatori sono in grado di reperire sul mercato più varietà di beni e
servizi) + aumenta quota di beni di consumo durevoli + a livello di policy si allenta la
tensione sull obiettivo del raggiungimento di un livello di crescita adeguata, quindi
focus si sposta su altre aree (es. l’ambiente, la sicurezza, il welfare).
Il modello di Rostow riceve critiche che riguardano
- il principio stesso dell’applicazione di un unico processo di crescita, con le medesime
fasi, a paesi anche molto differenti tra loro
- la dicotomia tra tradizionale e moderno, dove il tradizionale è caratterizzato da
un’aura di negatività -> questo modello porta un’idea dello stadio tradizionale come di
uno stadio originario da cui è necessario evolversi, abbandonando anche usanze e
tradizioni, perché non conformi ai canoni moderni.

Ci sono parallelamente altre teorie che vedono come fattore fondamentale di crescita la
trasformazione della struttura e del sistema di produzione del paese emergente. Quasi tutte
accomunate dal principio di passaggio da un’agricoltura di sussistenza a una nuova
configurazione dell’economia nazionale moderna e urbanizzata, dove il sistema produttivo è
diversificato, e il settore agricolo è progressivamente sostituito da quello industriale, e poi da
quello dei servizi.
-> In questo filone rientra il modello di Lewis: un modello di crescita dualistico che considera
l’economia come divisa in due settori (= tradizionale basato su agricoltura / moderno e
capitalistico basato su industria). L’eccesso di forza lavoro che caratterizza il settore agricolo
può essere trasferito al settore moderno industriale senza alcun costo (anzi, con benefici per
i lavoratori); ma non si fa menzione alle caratteristiche dei lavoratori né alla loro volontà.
Ovvero il processo funziona a prescindere dalle peculiarità della risorsa (= lavoratore) che
viene trasferita, e il passaggio della forza lavoro consente al paese di rinforzare la propria
struttura produttiva. Così facendo, inoltre, il livello di produttività pro capite di ciascun
lavoratore aumenta perché il settore industriale è più produttivo rispetto quello agricolo.
Lewis quindi propone anche di utilizzare il livello di industrializzazione come un indicatore
del grado di crescita di un paese. Questo modello termina con l’eguaglianza tra i salari del
settore agricolo e quelli del settore manifatturiero, infatti quando tutti i lavoratori in eccesso
sono stati assorbiti dal settore industriale, i salari di quello agricolo cominceranno a salire;
quindi, venendo meno l’incentivo monetario di salari più alti, i lavoratori non sono più
interessati al trasferimento da un settore all’altro. Infine, per dare vita a nuovi investimenti
nel settore industriale, viene utilizzato proprio il surplus della forza lavoro.

→ Teorie dello sviluppo: capitale umano, bisogni fondamentali e dipendenza


Tra gli anni ‘60 e ‘70 vengono a nascere le teorie dello sviluppo che hanno una visione
innovativa del processo di accumulazione e della tipologia di capitale da accumulare (a
partire da quello umano). Il capitale umano è il set di conoscenze, competenze e abilità che
un individuo possiede; anch’esso, come il capitale fisico, è un fattore della produzione e può
essere accumulato grazie agli investimenti nel settore; inoltre, può andare incontro a
obsolescenza e deprezzamento. Ci sono, però, delle differenze con il capitale fisico:
- il capitale fisico è facilmente identificabile / quello umano no perché legato alla
personalità, esperienze, caratteristiche ecc
- il capitale umano richiede che l’individuo giochi un ruolo attivo nel suo esercizio /
quello fisico garantisce la produzione di reddito anche a prescindere dalla
partecipazione diretta del proprietario
- l’investimento in capitale fisico ha meno rischi / quello umano ne ha di più perché più
sensibile a fattori psicologici ecc
- ad effettuare un investimento sul capitale fisico, di solito, è l’individuo stesso (es.
andando a scuola, facendo esperienze)
-> concetto di capitale fisico già emerge nel 1671 da Petty, il quale afferma che il calcolo
della ricchezza nazionale per ciascun paese dovrebbe includere anche le abilità lavorative
della popolazione nei termini della capacità di creare ricchezza.
Come la produzione di macchinari richiede risorse economiche, lo stesso vale per istruire un
individuo.

-> Mincer, Becker e il rendimento dell’istruzione:


La teoria del capitale umano è legata al reddito. Mincer e Becker sono i primi a sviluppare
questa teoria = la scelta dell’individuo di investire in capitale umano è spiegata, ipotizzando
una perfetta razionalità dell’agente economico, attraverso la valutazione del ritorno
sull’investimento. Investire nella propria formazione significa sia rinviare il momento in cui si
produrrà reddito, sia sostenere costi di natura economica; per questo motivo solo chi
prevede una forma di compensazione sarà indotto a effettuare questo investimento, e la
compensazione si traduce in possibilità di ottenere una maggiore retribuzione per l’intera
vita. I risvolti di questa affermazione sono:
- se un individuo vive in un paese che non premia la formazione della forza lavoro sarà
meno incentivato a investire sull’istruzione perché non avrà un adeguato ritorno
- se si fa parte di categorie che hanno più difficoltà nel mercato del lavoro,
consapevole di avere minori opportunità di carriera, difficilmente si investe sul proprio
capitale umano
di conseguenza questo tipo di lavoratori guadagneranno meno e avranno più possibilità di
trovarsi in condizioni di povertà.
A livello sistemico, questo modello afferma che la differenza tra diversi livelli salariali di
lavoratori con la stessa capacità produttiva è data dal numero di anni dedicati all’istruzione.

-> Schultz e la Scuola di Chicago:


Schultz individua una struttura di costi e benefici associati agli investimenti in istruzione, e
quindi in grado di accrescere il capitale umano di un paese (es costi: rette scolastiche,
acquisto dei libri, trasporti, mancato guadagno / es benefici: sistema economico guadagna
nel presente per maggiori consumi, nel futuro per la produzione di maggiore reddito da parte
dei più istruiti). Investire in capitale umano significa aumentare la capacità produttiva futura:
ecco un tradizionale modello di crescita, ovvero aumentano gli investimenti in capitale e
quindi aumenta anche il reddito del paese.
Con la Scuola di Chicago, di cui fa parte S., si diffonde un approccio critico verso le
precedenti teorie dello sviluppo:
- Prebisch evidenzia la profonda disparità tra i paesi ricchi e quelli poveri sui mercati
internazionali, soffermandosi sul sistema commerciale enfatizza il trasferimento di
risorse dai paesi poveri a favore di quelli ricchi
- Critiche riguardo il concetto di fallimenti di mercato (= situazioni in cui le ipotesi del
mercato perfettamente concorrenziale non vengono tutte soddisfatte): se il mercato
non è in grado di funzionare in totale autonomia allora è necessario l’intervento dello
stato. Ipotesi per cui nei mercati emergenti ci sono fallimenti di mercato, e quindi per
proteggerli è necessaria una strategia di sostituzione delle importazioni; questa
strategia prevede una chiusura allo scambio internazionale, in questo modo i
consumatori nazionali sono vincolati ad acquistare beni e servizi da imprese
nazionali.
- Si riconosce l’inadeguatezza di misure come il PIL per cogliere un complesso
fenomeno di trasformazione strutturale come lo sviluppo, e si fa avanti l’idea che il
principio della crescita costante non conduca automaticamente all’eliminazione della
povertà/ disuguaglianze. Si mette in dubbio il paradigma stesso della crescita, il cui
obiettivo esplicito non è la diffusione del benessere tra la popolazione.

-> Streeten, Stewart e i bisogni fondamentali:


Da questa ondata di consapevolezza nasce un nuovo concetto di sviluppo, che si basa sulla
necessità di aumentare le azioni mirate al supporto delle aree rurali nei paesi emergenti, e
sugli investimenti in capitale umano. Si impone quindi un nuovo paradigma che abbandona
la centralità degli investimenti in capitale fisico e del conseguente processo di
industrializzazione; inoltre si pone al centro del processo di sviluppo la soddisfazione dei
bisogni fondamentali di tutti gli esseri umani (non più la crescita economica).
Le teorie elaborate attorno a questi concetti sono dette Teorie dei bisogni fondamentali
poiché sostengono la necessità che ogni paese sia in grado di garantire uno standard di vita
minimo per i cittadini. Lo standard minimo si misura in termini di un reddito dignitoso e alla
presenza di infrastrutture sociali che forniscano servizi di base (educativo, sanitario,...).
Streeten e Stewart si soffermano sulla necessità che le strategie di crescita di ogni paese
pongano al centro il soddisfacimento dei bisogni fondamentali degli esseri umani, e che
questo dovrebbe essere il compito prioritario delle politiche. I settori dell’istruzione e della
salute sono settori chiave per i processi di sviluppo (questa è la prima volta in cui una teoria
economica è indirizzata alla creazione di soluzioni per creare benessere, anziché crescita).

-> Frank e le teorie della dipendenza:


Le Teorie della dipendenza nascono in America Latina grazie all’attenzione di alcuni autori
sulle dinamiche sorte nelle ex colonie in termini di disuguaglianze commerciali. Sono teorie
sviluppate nei paesi emergenti e contribuiscono a perfezionare la nostra comprensione dei
fenomeni dello sviluppo. Frank si impegna a diffondere queste teorie, affermando che i paesi
avanzati e quelli in via di sviluppo sono legati da un rapporto asimmetrico: i paesi emergenti
hanno debolezze strutturali, ma anche risorse il cui utilizzo da parte dei paesi avanzati ne ha
rallentato la crescita e sviluppo; questa dipendenza è data dal sistema capitalistico
mondiale. La persistenza di questo squilibrio è data anche da coincidenze di interessi tra
alcuni centri di potere dei paesi emergenti e di quelli avanzati. La dipendenza origina dal
fatto che il paese emergente specializza la sua produzione in funzione della domanda
proveniente dai paesi avanzati (prima era dipendenza legata a ciò che i paesi emergenti
producevano, ora questi ultimi dipendono dalla tecnologia prodotta nei paesi avanzati). A
causa di questa dipendenza, i paesi emergenti concentrano la propria produzione soltanto in
alcuni settori, impedendo lo sviluppo di una naturale diversificazione dell’industria nazionale
e della domanda interna (è comunque difficile immaginare una dipendenza totale, perché
nessun paese è completamente dipendente). Inoltre, in queste teorie, manca una parte
propositiva che suggerisca quali siano le azioni da compiere per superare questo rapporto
squilibrato.

→ Teorie neoclassiche della crescita:


Tra gli anni ‘80 e ‘90 tornano in voga le teorie neoclassiche (le prime appaiono a fine ‘800) e
mutano alcune cose rispetto a quelle precedenti (es. la struttura nazionale delle preferenze
degli agenti economici, la massimizzazione, la perfetta trasparenza e circolazione delle
informazioni). Con l’economia neoclassica ri recuperano pilastri della classica, come la
fiducia cieca nelle dinamiche di mercato e il ruolo sempre efficiente dei meccanismi di
stabilizzazione automatica (= ipotesi dei prezzi flessibili), e una visione dello stato quale
meccanismo d’ostacolo al corretto funzionamento del mercato. Sia nei paesi avanzati che
negli emergenti, si sviluppa un’ondata di privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazioni
che ridimensionano il ruolo dello stato. Nei paesi emergenti si diffonde la consuetudine di
elaborare piani strategici per attuare queste misure: questi spesso comprendono anche
procedure necessarie per avviare e consolidare la liberalizzazione del commercio con
l’estero.
Questo tipo di teorie identificano alcuni pilastri per la crescita economica:
- incremento dell’utilizzo del fattore lavoro
- miglioramento della qualità del fattore lavoro
- innovazioni tecnologiche
quasi tutti i punti sono molto influenzati dal pensiero classico.
-> Solow introduce il primo modello neoclassico della crescita le cui ipotesi sono:
1. la popolazione cresce a un tasso costante
2. i consumatori utilizzano una quota costante di reddito per destinarlo al risparmio
3. i rendimenti marginali del capitale sono decrescenti
Quindi anche il processo di accumulazione del capitale è variabile, e quello di Solow si
presenta come un modello esogeno della crescita economica, dove la crescita dipende dal
tasso demografico, da quello di risparmio, dal progresso tecnologico. Tra le implicazioni di
politica economica in questo modello troviamo un grande ridimensionamento del ruolo dello
stato e delle politiche fiscali. Il tasso di crescita di lungo periodo viene determinato
esogenamente, cioè non può essere determinato da alcuna decisione presa da qualsivoglia
agente economico (compreso lo stato).

→ Teorie istituzionaliste e neoistituzionaliste


Sulla centralità dello stato per la crescita e lo sviluppo, le Teorie Istituzionaliste e
Neoistituzionaliste sono incentrate sul ruolo dello stato quale motore fondamentale del
processo di crescita e sviluppo e quale attore cruciale nel sistema economico.
I primi autori sono Veblen e Commons, che hanno dato vita alla Old Institutional Economics.
Viene proposto un ribaltamento della teoria dell’agente razionale (= per cui si sosteneva
l’agente avesse un ordine chiaro di preferenze ed era in grado di scegliere la migliore
soluzione possibile tra le diverse alternative; per poter essere valido ciò, essendo l’essere
umano variabile, sono necessarie forzature = dovrebbe essere onnisciente e onniveggente).
La Old Institutional Economics afferma che non siano le scelte razionali dell’agente
economico a spiegare il comportamento degli individui, bensì un sistema complesso di
abitudini che deriva da un set di regole condivise, fissato e predisposto dalle istituzioni.
-> Williamson, North e la New Institutional Economics
50 anni dopo si sviluppa la New Institutional Economics (coniato da Williamson) che offre
una visione delle istituzioni ancora più attiva e dinamica: le istituzioni quindi sono un
complesso di norme, comportamenti e consuetudini che creano una serie di modelli in grado
di dar conto dei fattori in base ai quali gli agenti economici prendono le proprie decisioni.
La N.I.E. è una nuova scuola che vede i costi di transazione come il principale ambito di
analisi, ipotizzando che l’agente economico sia dotato di una razionalità limitata e che la sua
azione sia orientata anche in base alle sue attitudini opportunistiche.
North poi considera le istituzioni come strumentali alla riduzione dell’incertezza nelle
relazioni economiche: egli vede la possibilità che le istituzioni incidano sui costi di
transazione ribassandoli/ contribuendo al loro incremento. Questo è cruciale per la teoria
dello sviluppo che è da sempre alla ricerca di meccanismi in grado di migliorare il livello di
benessere collettivo. Infatti, se ammettiamo che le istituzioni sono in grado di impattare sui
costi di transazione, allora sono anche in grado di influenzare la performance economica del
paese (al contrario allora sono agenti economici inefficienti). Grazie a North si afferma il
principio in base al quale i differenti livelli di crescita e sviluppo tra i paesi avanzati e quelli
emergenti possono essere spiegati dall’evoluzione delle istituzioni nazionali. Viene anche
evidenziato come lo sviluppo istituzionale dipenda da una pluralità di fattori che non
riguardano unicamente l’apparato normativo creato dalle istituzioni stesse, ma anche da un
set di valori/ tradizioni/ storia di un paese. Quindi la qualità e l’evoluzione delle istituzioni
possono aiutare a comprendere i differenziali di crescita tra paesi sviluppati e non.

→ Teorie del capitale sociale e delle capabilities:


All’interno delle teorie dello sviluppo troviamo anche l’ambito sul capitale sociale e sulle
capabilities.
- Per capitale sociale intendiamo le norme e le reti che facilitano l’azione collettiva con
mutuo beneficio, ovvero il set di relazioni sociali che consentono di sviluppare un
ambiente di fiducia reciproca all’interno di una società. Il capitale sociale ha anche
risvolti economici: la fiducia reciproca consente di limitare i costi di transazione;
tuttavia esso deriva dalla capacità umana di agire in modo cooperativo, con empatia/
generosità (fa riferimento alle relazioni e strutture sociali che scoraggiano
atteggiamenti di sfruttamento).
- Parallelamente si evolve la teoria sul capitale umano, rappresentata dalla Teoria
delle capabilities: che evidenzia la discrasia che si crea nel momento in cui si offre
agli individui la possibilità di investire nella propria formazione, ma al contempo si
nega loro la possibilità di mettere in pratica queste conoscenze.
-> negli anni ‘60 Bourdieu definisce il capitale sociale come il complesso delle relazioni
sociali di un gruppo/ comunità che determinano la rete di connessioni e i limiti sociali; quindi
si ha capitale sociale solo quando si ha una rete di relazioni stabili. Secondo l’autore, il livello
di capitale sociale posseduto da un individuo dipende dalla quantità e qualità delle relazioni
sociali che intrattiene.
-> negli anni ‘90 Coleman sostiene che il capitale sociale possieda due caratteristiche: la
natura collettiva, e i benefici che derivano ai membri della struttura per il solo fatto di
appartenervi. Specifica anche che il capitale sociale non fa riferimento a beni materiali e non
riguarda i singoli individui; esso infatti nasce dalla relazione che gli esseri umani riescono a
creare tra loro e che rende possibile il raggiungimento di obiettivi che ciascun individuo
(singolarmente) non sarebbe in grado di ottenere.
-> negli stessi anni Putnam afferma che il capitale sociale includa dimensioni quali la fiducia
nell’organizzazione e l’impegno civile diffuso tra i membri del gruppo.
Le teorie del capitale sociale presentano alcune debolezze, in particolare per la difficoltà di
misurazione del capitale sociale stesso.

-> Amartya Sen e le capabilities:


Amartya Sen è il padre della Teoria delle capabilities. Egli definisce lo sviluppo come la
diffusione di capacità cui si deve accompagnare il diritto di utilizzare queste competenze,
ovvero il funzionamento. Capabilities e funzionamenti sono legati al benessere, ovvero allo
sviluppo; per questo Sen afferma la necessità che il paese crei per ogni individuo le
condizioni per coltivare le proprie competenze. Lo sviluppo quindi coincide con l’espansione
del range di possibilità a disposizione di un individuo all’interno del sistema economico; e
questo viene visto come l’unico fattore che davvero garantisca una vita dignitosa e
soddisfacente. La povertà viene di conseguenza descritta come mancanza di opportunità.
Per garantire le capabilities ci dev'essere la diffusione universale dei servizi di base, come
salute e istruzione: queste sono le precondizioni che, se soddisfatte, possono condurre a un
innalzamento del benessere e degli standard di vita dell’intera popolazione. Con Sen viene
ridimensionata l’importanza delle variabili quantitative: valori come il PIL rappresentano solo
una minima porzione di una cornice più ampia. Grazie a questa teoria avviene una
progressiva evoluzione del pensiero economico, che da autoriferito diviene inclusivo e
aperto.

CAP 3
→ Povertà
Al centro dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, condivisa da tutti i membri dell’ONU,
troviamo 17 obiettivi prioritari (Sustainable Development Goals, SDG): il primo proclama la
necessità di porre fine alla povertà in tutte le sue forme e dimensioni; un traguardo non facile
visto che la povertà è un fenomeno multidimensionale. Secondo la Dichiarazione di Pechino,
la povertà si esprime con manifestazioni diverse, es: mancanza di reddito e di risorse
produttive sufficienti per una vita dignitosa / fame e malnutrizione / mancanza o limitazioni di
accesso all’istruzione e altri servizi base / mortalità elevata / abitazioni inadeguate /
discriminazione sociale / scarsa partecipazione al processo decisionale e alla vita sociale,
civile e culturale del paese. L’evoluzione della teoria dello sviluppo ha mostrato come una
condizione di povertà economica porti con sé un'esclusione molto più ampia e profonda.

Per comprendere al meglio il fenomeno è necessario attribuirgli una dimensione, anche


perché c’è stato un rapidissimo incremento della ricchezza a livello mondiale (anche grazie
nuovi modelli di produzione + globalizzazione), ma parte della popolazione mondiale è
rimasta esclusa dalla creazione e dall’appropriazione di questa ricchezza.
-> La povertà viene definita inizialmente come una carenza di reddito, quindi viene misurata
in relazione alla spesa per consumi (= rilevando il prezzo dei beni considerati indispensabili,
stabilendo un valore monetario, ovvero la soglia di povertà, al di sotto della quale l’individuo
non è in grado di acquistare tali beni). Questo reddito rappresenta quindi la soglia minima
necessaria per la sopravvivenza, e chi si trova sotto questa soglia è classificato come
povero (non potendo provvedere alla propria sussistenza). La Banca Mondiale stima il tasso
di povertà come la percentuale di popolazione che vive al di sotto della soglia nazionale di
povertà, ma globalmente la Banca ha fissato due linee: 1,90 $ al giorno che segna il confine
della povertà assoluta, sotto il quale non c’è neppure sussistenza / 3,20 $ al giorno, è la
soglia sotto la quale si parla di povertà. A livello mondiale vediamo una diminuzione di
popolazione sotto la soglia di 1,90$ al giorno (circa da 42% a 9% in 40 anni) anche grazie ai
benefici della globalizzazione. Tuttavia, le persone al di sotto della soglia di 3,20$ al giorno
sono decrescenti ma comunque troppe: nel 2017 una persona su quattro nel mondo era
sotto la soglia di povertà. La povertà, infatti, è andata declinando a livello mondiale per quasi
25 anni consecutivi, ma ora stiamo assistendo a un rialzo nella quota della povertà estrema
(l’inversione di tendenza è dovuta alle grandi sfide che i paesi stanno affrontando in questi
anni: conflitti, cambiamento climatico, covid; sfide globali ma che colpiscono più duramente
la popolazione povera). Secondo le stime della Banca Mondiale, nel 2020 si avrà un
incremento della povertà estrema mai osservato.

-> Multidimensional Poverty Index:


Finora abbiamo parlato di povertà materiale, ma in una prospettiva sistemica questo
comporta una serie di esclusioni ulteriori.
Il Multidimensional Poverty Index (MPI) viene elaborato ogni anno dallo United Nations
Development Programme, ed è uno strumento per misurare il progresso verso il
superamento della povertà. Dal 2010 è utilizzato per comparare il livello della povertà
multidimensionale in oltre 100 paesi; misura le privazioni di cui un individuo può soffrire
tramite 10 indicatori, e identifica anche da quali ambiti tale povertà tragga origine. L’indice
analizza in dettaglio 3 dimensioni della povertà (ciascuna dimensione poi viene scomposta
in altre aree sottoposte a misurazione):
1. salute = nutrizione + mortalità infantile
2. istruzione = anni di formazione scolastica + frequenza scolastica
3. standard di vita = metodo cottura cibi + servizi igienici + acqua potabile + casa +
elettricità
L’indice identifica come multidimensionalmente povera la persona che soffre di deprivazione
in ⅓ o più dei 10 indicatori. Visto che l’MPI è il prodotto dell’incidenza della povertà e della
sua intensità, è sensibile alla variazione di ciascuna di queste due componenti. L’indice
assume valori compresi tra 0 e 1, dove più alto è il valore e maggiore è la deprivazione.
Il report 2020 mostra che, su una copertura di 6 miliardi di persone, 1,3 miliardi soffre di
povertà multidimensionale (deprivate per l’82% in almeno 5 indicatori simultaneamente). I
valori e i dati sono anche disaggregati per gruppo d’età, religione, area: così sappiamo che
oltre 84% delle persone multidimensionalmente povere vive in aree rurali, dove aumenta
anche la vulnerabilità per shock ambientali. Ma ci sono anche buone notizie: ben 65 paesi
hanno ridotto significativamente il proprio livello medio di povertà multidimensionale (tassi di
miglioramento più bassi sono dei paesi più poveri e quelli più ricchi / tassi di miglioramento
più alti sono dei paesi con MPI moderato); ci sono 4 paesi che hanno dimezzato il valore del
proprio MPI: Armenia, Nicaragua, India, Macedonia del Nord (è importante perché in questi
paesi risiede circa 1⁄5 della popolazione globale.

-> Le disuguaglianze:
Accanto alla povertà si trova anche la disuguaglianza: ciò spiega perché, nonostante sia
avvenuto un incremento del reddito medio pro capite, è comunque presente un alto tasso di
povertà (= rispetto all’aumento di ricchezza prodotta, alcuni hanno avuto di più e altri di
meno). Ci sono quindi sacche di disuguaglianza, ma ci focalizziamo ora sulla disuguaglianza
di reddito e sui relativi indicatori di misurazione.
-> La Curva di Lorenz viene utilizzata per analizzare la distribuzione del reddito, si inserisce
in un sistema di assi cartesiani dove sulle ordinate poniamo la % di reddito nazionale e sulle
ascisse la % di popolazione. Partiamo da un ideale teorico di perfetta equità distributiva, che
viene rappresentata graficamente con una retta inclinata a 45 gradi (= in un paese dove il
reddito è perfettamente equidistribuito tra tutti, tale distribuzione coinciderebbe con la
funzione a 45 gradi). Se vogliamo rappresentare un caso reale, osserviamo uno
scostamento rispetto alla perfetta equità distributiva: ovvero quanto più la distribuzione del
reddito si trova lontana dall’equità, tanto più la relativa funzione si abbassa rispetto alla
bisettrice.
-> Il Coefficiente di Gini è un indicatore per stimare la disuguaglianza nella distribuzione di
una variabile (metodo più diffuso per misurare disuguaglianze nella distribuzione del
reddito). Il valore del coefficiente è compreso tra 0 e 1, dove 0 corrisponde alla perfetta
equità distributiva, mentre 1 alla massima concentrazione della variabile considerata (= tutta
la ricchezza è in mano a una persona). Questo coefficiente si basa sulla Curva di Lorenz:
l’indice è rappresentato dal rapporto tra area A e somma aree A e B (in un equa
distribuzione l’area A è nulla e l’indice è 0). Quanto più il coefficiente si avvicina allo 0, tanto
maggiore sarà la distribuzione del reddito e quindi minore la disuguaglianza; al contrario il
coefficiente vicino a 1 testimonia una concentrazione di reddito squilibrata.
-> La Curva a U di Kuznets si basa sulla teoria dell’autore per cui c’è una relazione tra
crescita economica di un paese e la distribuzione del reddito (per lui nella fase iniziale di
abbandono della produzione artigianale per quella industriale l’ineguaglianza aumenta, per
poi ridursi progressivamente). Viene quindi sviluppata la teoria dei mutamenti distributivi nel
corso dello sviluppo di un paese, per cui il reddito medio della popolazione rurale è più
modesto, ciononostante le aree urbane hanno maggiore ineguaglianza; pertanto
l’incremento della popolazione urbana si traduce in incremento della componente di
disuguaglianza. Questa teoria viene criticata per l’eccessivo ottimismo che rischia di essere
fuorviante: se si ritiene che la disuguaglianza tenda a zero nel medio periodo allora non
viene reclamata la necessità di affrontarla adeguatamente (anche con eventuale intervento
dello stato). Inoltre, queste ipotesi non vengono confermate da dati, ma sono basate su
ricerche troppo specifiche per venire generalizzate.

→ Come superare la povertà: i bisogni:


Abbiamo constatato la mancata capacità di un sistema economico di rispondere ai bisogni
fondamentali dei cittadini, e quindi la necessità di un intervento delle istituzioni. Lo stato
affronta il tema delle disuguaglianze attraverso manovre di politica fiscale: si fa carico di
prelevare reddito attraverso le tasse e di redistribuirlo attraverso la spesa pubblica e i
trasferimenti. Il ruolo redistributivo dello stato è alla base della sua stessa esistenza, perché
la redistribuzione contribuisce a migliorare le condizioni delle fasce più disagiate della
popolazione, ma aiuta anche nel contenimento del conflitto sociale. Lo stato può intervenire
nel fornire le condizioni perché tale distribuzione iniziale di reddito possa essere superata,
ovvero agevolando quella mobilità sociale da cui nasce un processo di emancipazione
personale e sociale (ecco perché le politiche redistributive dello stato possono anche essere
sull’istruzione pubblica, sanità ecc). I dati mostrano, ad esempio, che in particolare l’accesso
all’istruzione è uno dei fattori capace di innescare un circolo virtuoso di cui ne trarrà
beneficio l’individuo e anche il sistema economico nel suo complesso.

-> Povertà assoluta e povertà relativa:


- Quella che si misura con la soglia di povertà/ indice MPI è definita povertà assoluta,
e consente di separare gli individui in poveri e non poveri. Il confine tra i due gruppi è
segnato dalla linea della soglia di povertà che individua il paniere minimo di beni
necessari a sostenere i bisogni primari (= paniere di riferimento).
Ma, analizzando la povertà, non ci affidiamo a un concetto assoluto di povertà, perché è
indispensabile considerare la realtà particolare nella quale l’individuo povero vive.
- Il concetto di povertà relativa va oltre la determinazione della soglia minima di
povertà, invece introduce un limite relativo di povertà legato alla posizione che
l’individuo assume rispetto a parametri significativi nella società in cui vive. E’ quindi
un concetto di povertà molto utile nei paesi avanzati, nei quali la sussistenza è
spesso garantita, ma il reddito può rappresentare fonte di discriminazione sociale.
In questa prospettiva, è considerata povera la persona che dispone di un reddito più basso
rispetto al reddito medio della collettività in cui vive; quindi è povero chi non riesce a
soddisfare adeguatamente una serie di bisogni ritenuti essenziali dal suo gruppo di
riferimento in termini di beni, servizi, stili di vita (= povertà quindi è l’impossibilità ad aderire
al tenore di vita medio delle persone con le quali ci si relaziona).
Generalmente si misura rapportando il reddito di un individuo con il reddito medio della sua
realtà di appartenenza; quindi la povertà relativa dipende dal livello generale di ricchezza di
un contesto.

-> La Piramide dei bisogni fondamentali:


Ritornando all’analisi dei bisogni, una delle teorie più diffuse in materia è la Piramide dei
bisogni di Maslow. Secondo questa teoria gli individui agiscono in modo da soddisfare i
propri bisogni, questi sono ordinati gerarchicamente e possono essere rappresentati
attraverso una piramide in cinque livelli: nel livello più basso troviamo i bisogni più diffusi (=
primi da soddisfare), in quello più alto i bisogni più sofisticati. E’ importante sottolineare che
in questo modello, prima di soddisfare una categoria di bisogni devono essere state
soddisfatte tutte quelle precedenti. Ordinati dalla base alla cima:
1. Bisogni fisiologici: essenziali per la sopravvivenza (fame, sete, sonno) / definiti
“primari” perché di prima necessità per l’individuo / verranno soddisfatti per primi.
2. Bisogni di sicurezza: desiderio di proteggersi rispetto ai pericoli esterni (bisogni
fisiologici ma a livello ampliato) / individuo rivolge i propri bisogni fuori di sé, ovvero al
territorio.
3. Bisogni di appartenenza: riguardano la sfera sociale / bisogno di riconoscimento
dalla propria comunità.
4. Bisogni di stima: bisogni di autostima (= necessità che individuo ha di indipendenza e
fiducia in se stesso) e di eterostima (= riconoscimento dello status e rispetto da parte
degli altri).
5. Bisogni di autorealizzazione: l’individuo esprime un desiderio di sviluppo continuo
delle proprie potenzialità / espansione della propria realizzazione

-> L’approccio delle capabilities:


Amartya Sen elabora la Teoria delle capabilities, dove è importante il ruolo assunto dalla
libertà. L’individuo, per raggiungere un elevato livello di benessere, deve prima soddisfare i
suoi bisogni fondamentali e poi realizzare le sue soggettive potenzialità, libero di scegliere
cosa essere e cosa fare. Il benessere quindi è più della ricchezza monetaria, e questo
approccio fa una critica rispetto la valutazione dello sviluppo basata solo sul PIL, perché
consapevole che il fattore fondamentale dello sviluppo sia fare in modo che le persone
abbiano più possibilità per effettuare delle scelte. Quindi il benessere dipende da quanto le
persone siano dotate di adeguate capacità, ma anche della concreta possibilità di utilizzarle.
Secondo Sen, soltanto l’uguaglianza delle capacità individuali può portare a un’uguaglianza
redistributiva, e questa viene definita “libertà positiva” (= libertà che ogni individuo ha di
perseguire i propri progetti di vita, irraggiungibili se le persone sono private delle capacità di
accesso ai funzionamenti fondamentali). I funzionamenti e le capacità sono dipendenti dalle
diverse civiltà e culture, anche i pesi relativi da attribuire ai funzionamenti sono ordinabili, da
quelli più basilari ai più complessi. Le difficoltà di questo approccio stanno nel fatto che non
sia possibile definire a priori le capacità e i funzionamenti, per poter rispettare le libertà
individuali di definire i propri progetti di vita. Questo metodo si fonda sul concetto
neoclassico che il benessere sia soggettivo e basato sulle preferenze individuali. Frey e
Stutzer criticano questo approccio in quanto non si presta a misurazioni metriche e
empiriche. L’approccio del benessere soggettivo postula che esista una relazione non
lineare tra reddito e felicità, e afferma che il benessere degli individui sia un modo di essere
e di sentirsi rispetto alla soddisfazione delle proprie individuali preferenze soggettive. Un
rischio condiviso dai teorici delle capabilities nell’adottare l’approccio del benessere
soggettivo è che un individuo possa essere felice perché ha diminuito le aspettative / non è
consapevole delle possibilità. Il soggettivismo radicale può quindi essere fuorviante nella
valutazione del tenore di vita di una popolazione.

-> Serve un coordinamento mondiale per il contrasto alla povertà:


La Banca Mondiale ha fornito delle indicazioni per rispondere in maniera efficace alla crisi
della povertà, nel breve periodo, richiamando alla necessità che si ridisegni una governance
condivisa per il suo superamento.
Come prima cosa c’è l’urgenza di colmare l’attuale distanza tra le aspirazioni/ ambizioni
della politica e i risultati concreti che essa riesce a ottenere: le intenzioni di questa possono
anche essere encomiabili, ma è necessario valutare in alcuni casi con maggiore attenzione
quali possono essere i risultati concretamente conseguibili. Inoltre occorre stimare con più
attenzione quali gruppi beneficeranno delle politiche messe in atto.
Secondariamente, c’è la necessità di migliorare i processi di apprendimento e la raccolta di
dati; quest’ultima è fondamentale per poter gestire qualsiasi fenomeno.
Come terza misura suggerita abbiamo la creazione di un sistema di prevenzione e di pronta
risposta di fronte ai fenomeni che possono amplificare la povertà. E’ noto che le misure di
prevenzione hanno un ritorno esiguo in termini di consenso politico, ma è anche vero che le
sfide attuali ci dimostrano come alcuni rischi devono essere gestiti sin d’ora, e come sia
indispensabile investire in misure preventive (es. il cambiamento climatico).
L’ultimo strumento previsto riguarda l’estensione delle strategie di cooperazione e
coordinamento, al fine di un mantenimento del benessere collettivo, di promuovere la
diffusione della formazione, di supportare il processo di policymaking, e di formare un senso
di solidarietà condiviso. Infatti, ci deve essere la consapevolezza che le crisi peggioreranno
le condizioni di povertà delle fasce di popolazione più fragili, e che se non si agisce
tempestivamente le sfide future saranno ancora più complesse. Pertanto occorre conservare
la prospettiva di lungo periodo sulla promozione di un modello di crescita inclusiva e
sull’investimento in capitale umano. Per portare avanti queste quattro linee di intervento è
indispensabile un coordinamento mondiale e uno sguardo strategico.

→ Povertà e genere:
Ci sono differenti approcci per definire la povertà:
- approccio monetario: definisce la povertà in base al reddito e consumo (metodo più
diffuso).
- approccio delle capabilities: identifica il benessere con la libertà degli individui di
vivere una vita che consenta loro di esprimere appieno le proprie capacità; quindi la
povertà è una mancanza di risorse che impedisce alle persone di impegnarsi in
alcune attività di base.
- approccio dell’esclusione sociale: sono approfondite le caratteristiche strutturali che
fanno sì che alcuni individui rimangano esclusi dalla piena partecipazione alla
società; quindi per alleviare la povertà è necessario promuovere l’inclusione degli
individui sia nel mercato del lavoro che nei processi sociali.
- approccio geografico: propone di mappare le caratteristiche della povertà in un
contesto spaziale (include nelle variabili anche la concentrazione fisica della
ricchezza o l’accesso alle risorse naturali).
La combinazione di questi diversi approcci rivela la complessità della dimensione della
povertà, anche in quanto fenomeno mutevole e che può modificarsi anche in un breve lasso
temporale (soprattutto in situazioni legate a occupazione/ disoccupazione).
Ci aiuta il concetto di vulnerabilità, questa implica un incremento della fragilità degli individui
sotto il profilo della povertà, ed è associata sia ad aspetti esterni, che sono fattori di rischio
per gli individui (es. perdita di lavoro), sia ad aspetti interni (es. insufficienza risorse a
disposizione); questa lettura comprende sia risorse materiali sia immateriali.
Da qui parte l’analisi della povertà in una prospettiva di genere, che si basa sulla
consapevolezza che il fenomeno colpisce in maniera diversa uomini e donne, e che può
aiutare a intervenire sui fattori di genere che aumentano/ riducono la probabilità degli
individui di incorrere in situazioni di povertà. Questo tipo di analisi parte negli anni ‘80, e ha
mostrato come le donne sono più colpite dalla povertà (+ rappresentano maggioranza di
persone in povertà estrema + povertà femminile era in aumento).
Nel dettaglio vediamo le diverse condizioni che rendono le donne più esposte alla possibilità
di diventare povere, a partire dalla divisione del lavoro retribuito e non; infatti, nella maggior
parte dei casi alle donne viene assegnata la sfera domestica, quindi lavori di cura non
retribuiti. In questo modo si determina una disuguaglianza di opportunità per le donne
nell’accesso alle risorse materiali e sociali associate al mercato del lavoro (quindi hanno
minori asset materiali, ma anche meno asset culturali e sociali). Ciò si traduce in una
deprivazione in diverse sfere della vita sociale. Le teorie di genere sulla povertà ci mostrano
poi come il concetto di capitale sociale sia stato costruito come se l’accesso a tale risorsa
fosse di default uguale per donne e uomini, mentre sappiamo non essere così. Inoltre,
queste teorie collegano la distribuzione del potere ai differenziali di accesso alle risorse, e ha
anche svelato che una dimensione fondamentale della povertà è legata all’autonomia
economica: infatti, la disuguaglianza di opportunità relative alla possibilità di avere accesso a
un impiego retribuito pregiudica le probabilità che una donna raggiunga l’indipendenza
economica. E’ anche vero che gli ultimi anni hanno testimoniato il raggiungimento di grandi
risultati in termini di riduzione della povertà, ma per giungere alla sua eliminazione occorre
aggredire le differenti condizioni che conducono all’impoverimento. Tra queste, c’è appunto
la discriminazione di genere (le donne non hanno ancora rappresentatività politica uguale a
quela maschile + le donne in povertà sono definite extra-marginalizzate): perchè uomini e
donne vengono ugualmente colpiti dalla povertà, ma le donne hanno accesso a minor
risorse per uscirne. Per affrontare questa situazione nel 1995 è stata adottata da 189 paesi
la Dichiarazione di Pechino, che ha rappresentato una svolta per i diritti delle donne nella
politica globale. La Dichiarazione riconosce i diritti delle donne come diritti umani e fissa una
serie di linee guida necessarie per raggiungere l’uguaglianza (tra le 12 dimensioni, troviamo
anche la povertà). I governi che hanno sottoscritto l’accordo si impegnano a modificare le
proprie politiche economiche per fornire maggiori opportunità alle donne, migliorare le leggi
per i diritti umani, agevolare l’accesso al credito, e raccogliere migliori informazioni sul
tracciamento della povertà disaggregate per genere (es. USA, 38 milioni in povertà, 56%
sono donne, e la situazione peggiora con il covid).

CAP 4
Lo sviluppo economico viene valutato solitamente attraverso il PIL, ed esistono anche
numerosi altri indici (finanziari/ industriali) che possono aiutare a quantificare l’economia di
una nazione/ del mondo. Tuttavia, c’è un complesso aggregato di elementi immateriali che,
anche se non direttamente collegati all’economia, la contaminano (vedi discorso di Kennedy:
la finanza, il progresso e la crescita economica dovrebbero essere elementi che migliorano
la razza umana e il pianeta, nel rispetto delle risorse naturali, ecc).

→ Il capitale sociale e relazionale:


“Capitale sociale” è un termine che fa emergere l’economista Hanifan, anche se il concetto è
molto più antico. Dagli anni ‘80-’90 comincia ad emergere questo principio e la sua
applicazione operativa. Ci sono due percorsi che evidenziano l’evoluzione della nozione di
capitale sociale: individualista e collettivista. Entrambe le prospettive confermano che
l’accrescimento del capitale sociale è vitale per lo sviluppo di una società, tuttavia si
discostano per l’idea di come il processo di accrescimento ha luogo.

- Approccio Individualista:
focalizza l’attenzione sull’abilità del singolo di interagire con gli altri soggetti della
comunità per acquisire un beneficio nella propria vita sociale. Per l’attuale vita umana
la sfera sociale è ampliata, e le relazioni virtuali e fisiche sono egualmente valide
come strumenti per acquisire benefici (percorso che vede il singolo come attore della
propria vita). Il capitale sociale così si costruisce su scelte razionali dell’individuo.
Coleman parla di “scelta razionale”: egli considera l’individuo come un attore
razionale che opera con metodo e agire volontario in ambito economico ma anche
sociale. Nel perseguimento degli obiettivi personali, quindi, l’individuo tiene conto
degli altri soggetti, norme e relazioni che sono presenti nel costrutto sociale di cui è
parte. Si evince che l’agire del singolo è dato da una strategia di medio lungo termine
che mira ad acquisire benefici anche futuri (questo approccio getta un ponte tra
economia e sociologia + integra il modello utilitarista della scelta razionale con
l’analisi delle relazioni sociali). Coleman: “il capitale sociale è definito dalla sua
funzione … è una varietà di diverse entità che hanno due caratteristiche in comune:
hanno alcuni aspetti della struttura sociale + agevolano determinate azioni degli
individui dentro la struttura”. In questo scenario, l’individuo agisce secondo un calcolo
di utilità, ma non è un’azione egoistica semplice perché si inserisce all’interno di un
contesto popolato da altri individui con i quali deve relazionarsi e che lo
influenzeranno nelle scelte. Per Coleman, inoltre, lo sviluppo del capitale sociale non
è strettamente legato a un’azione calcolata dell’individuo come esito di una scelta
razionale, ma un sottoprodotto di azioni intraprese per ragioni differenti (ciò lo
differenzia da altri tipi di capitale, che sono frutto di scelte studiate).
- Approccio Collettivista:
considera la creazione di capitale sociale come il prodotto di uno scambio reciproco
di relazioni (non basate sull’utilità individuale): l’individuo mette in comune con chi
entra in contatto il proprio “capitale”, ricevendo in cambio il loro “bagaglio sociale”. Si
può parlare di “commercio” consensuale tra individui. Putnam definisce il capitale
sociale come “l’insieme di quegli elementi dell’organizzazione sociale che possono
migliorare l’efficienza della società nel suo insieme, nella misura in cui facilitano
l’azione coordinata degli individui”. Da ciò si può comprendere quanto l’azione
collettiva intrapresa dai singoli individui sia, per l’autore, un agire coordinato tra
persone che danno e ricevono.

→ Capitale umano:
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) definisce il capitale
umano come quel complesso di conoscenze, abilità, competenze e altri attributi degli
individui che facilitano la creazione di benessere personale, sociale ed economico.
L’individuo è visto come entità attiva che rappresenta una ricchezza di valore grazie alle sue
esperienze pregresse, e alle competenze che connotano le sue azioni. Quindi le spese che
vengono affrontate per accrescere l’individuo non si possono concepire come un costo ma
sono un valore che andrà a dispiegarsi negli anni successivi (es. istituzioni moderne come la
scuola dell’obbligo). Il percorso di istruzione è alla base del capitale umano come oggi lo
concepiamo, ma anche il lavoro è importante: in Occidente il mercato di lavoro odierno
necessita un livello di educazione standard. I lavori con forte connotazione di attività
manuale in futuro saranno sempre più sostituiti da sistemi automatizzati, e considerando
questi ritmi di evoluzione del lavoro manuale è sempre più plausibile che ad essere richiesti
saranno lavori di intelletto. Nonostante istituzioni come la scuola dell’obbligo siano
relativamente recenti, è vero anche che il capitale umano si è accresciuto nel tempo.
[Esempio EU e Cina: hanno perseguito in modo eguale la formazione dei cittadini, tuttavia si
distinguono per la differente costituzione delle due aree geografiche e nazionali. La Cina è
un’entità nazionale e politica unica + pianificazione centralizzata anche per il percorso di
formazione + pensiero monolitico e dominante ha fatto sì che si sviluppasse un pensiero
coerente ed eguale / l’EU è composta da numerose nazioni, ognuna con differente percorso
che ha contribuito a creare una pluralità di formazione, che spesso ha permesso di generare
pensatori con approcci diversi nel risolvere problemi ecc.]

→ Capitale territoriale:
Per la Commissione Europea il capitale territoriale è definito: “ogni regione possiede uno
specifico capitale territoriale che genera un più elevato ritorno per specifiche tipologie di
investimento; le politiche di sviluppo territoriale devono aiutare le singole regioni a costruire il
loro capitale territoriale”. E’ importante capire che la crescita di un territorio avviene anche in
una sfera che manifesta la sua presenza come un humus culturale e umano che permette la
crescita economica stessa; e le politiche di sviluppo dovrebbero intervenire per incrementare
il capitale territoriale delle regioni. In un’analisi (nella pubblicazione Territorial Outlook del
2001 dell’OECD) si discutono i fattori che compongono la ricchezza del territorio, per
mappare le specificità che possono essere valorizzate (ogni territorio fa caso a sé). Le
connotazioni che definiscono un territorio divengono parte delle strategie con cui esso si
affaccia sul mercato, promuove la propria immagine, manifesta la sua capacità di
governance e di conseguenza genera una sua gravità che attrae uomini e imprese. Il
documento dell’OECD ha definito una lista di fattori che comprendono asset materiali, e
anche a carattere immateriale; a questa lista si aggiungono i fattori “derivati”.

→ Industrial commons:
Gli industrial commons sono le risorse naturali che sono presenti in un dato territorio / i “beni
della comunità”, a cui aggiungiamo una serie di asset che permettono alla comunità di
crescere e prosperare. Da qui poi si vanno a “innestare” attività e competenze derivate che
permettono di collegare la comunità ad altre comunità, ovvero una serie di competenze
rilevanti che ulteriormente permettono alla comunità di prosperare (es. attività commerciali).
Gli industrial commons sono uno dei tanti fattori immateriali che permeano e compenetrano
il tessuto produttivo di un’economia sana, quindi è è un aspetto sicuramente importante dello
sviluppo economico, ma - viste le perplessità della sua applicazione in alcuni ambiti (es.
reshoring) - deve essere interpretato in modo differente negli anni futuri.

→ Ruolo dell’innovazione dello sviluppo:


Trattando gli asset intangibili e come essi influenzano la crescita economica, è importante
discutere dell’innovazione. Essa viene finanziata da uno stato / da privati sapendo che i
risultati positivi sulla crescita possono avere luogo in anni / decenni. Essendo un asset
intangibile, deve essere intesa come l’intera contaminazione di un tessuto sociale e
demografico, tale per cui le nuove idee possono fiorire non solamente in un ambiente chiuso
(come un reparto R&S) ma nella popolazione come insieme.
-> Per dimostrare come l’innovazione sia un asset intangibile ma che la sua ricaduta sulla
società sia pratica vediamo il caso storico della Svezia:
- anni ‘90 governo svedese inizia un programma di informatizzazione della popolazione
(internet non era ancora diffuso);
- industria dei videogiochi svedesi cresce esponenzialmente negli ultimi 10 anni, il governo
ha supportato la crescita ma molto è dovuto alla popolazione;
- l’innovazione cresce grazie a investimenti nazionali e corsi di formazione specifici;
- importante la cultura aziendale (altro asset intangibile) che deriva da quella nazionale: La
legge di Jante = una serie di assunti sociali fortemente incarnati nella mentalità degli abitanti
(es. arricchirsi non è un male, ma è maleducato ostentarlo + non è accettato il troppo
pessimismo + non è contemplato lamentarsi + cultura è incentrata sul lavoro di squadra +
cultura business molto informale, aperta, inclusiva, permette alle idee di fluire in tutta
l’azienda).

-> Asset intangibili ma molto tangibili:


Il caso svedese ci mostra come l’innovazione, se opportunamente supportata a livello
privato e pubblico, sia un game changer; infatti, fattori tangibili e intangibili sono egualmente
fondamentali per lo sviluppo economico di una comunità. Oggi, inoltre, ⅔ della popolazione
ha accesso a internet, e con tutte le informazioni che si trovano in rete combinate agli altri
asset intangibili è possibile permettere all’economia dei singoli stati di prosperare.

→ Asset immateriali nello sviluppo sostenibile:


Gli asset immateriali possono svolgere un ruolo anche nello sviluppo sostenibile, perché
possiamo includerli nell’evoluzione sostenibile come in tutti gli altri tipi di sviluppo. Anche
Maslow, nella piramide dei bisogni, parla di asset immateriali se consideriamo che gran
parte di questi bisogni sono elementi immateriali. Una rivisitazione di quella piramide viene
fatta da Max-Neef e ci mostra come nell’evoluzione umana una società che si lascia alle
spalle la soddisfazione dei bisogni fisici può ambire a focalizzarsi su quelli immateriali.
All’interno di questo contesto, in una realtà postmoderna dove vengono percepiti come
bisogni fondamentali anche asset immateriali (es. diritti umani), avviene l’evoluzione finale di
asset immateriali specificamente attinenti allo sviluppo sostenibile. Max-Neef elabora una
matrice di bisogni e fattori di soddisfazione dei bisogni stessi, i 9 bisogni sono: sussistenza,
protezione, affetto, comprensione, partecipazione, riposo, creazione, identità, libertà; di
questi, solo il primo rientra nel mondo dello sviluppo sostenibile. La necessità di avere una
sensibilità evoluta nei confronti del proprio ambiente diventa condivisa ed è un asset
immateriale ed evoluto (un’idea di crescita economica e sociale sostenibile era già presente
nelle società precolombiane, ma era considerata più come una necessità = distruggere
l’ambiente avrebbe danneggiato la propria stessa esistenza). Nelle società moderne la
comprensione dell’importanza dell’ambiente è oggettiva e riconosciuta in modo cosciente, e
l’evoluzione di un sistema di creazione di servizi e prodotti sostenibili passa quindi da questa
percezione. In questo senso gli asset immateriali per lo sviluppo sostenibile divengono parte
integrante dell’esperienza di produzione e crescita economica: elementi che, incarnati negli
individui, influenzano le azioni al pari di altri asset.

CAP 5
Nel 1987 la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo (istituita dall’ONU) dà la
definizione “lo sviluppo sostenibile è quello che soddisfa le necessità delle attuali
generazioni senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare le
proprie” (che però dà ampio margine di interpretazione e di applicazione pratica).
Ogni specie condivide una naturale percezione dell’equilibrio e le necessità di tutti gli animali
(tranne l’essere umano) vengono soddisfatte all’interno di un equilibrio naturale (senza
presenza umana). Tuttavia, noi ci concentriamo sugli esseri umani.

→ Storia: essere umano e sviluppo sostenibile:


Se parliamo di un gruppo di umani che “soddisfa le proprie necessità senza compromettere
le future generazioni” possiamo fare riferimento alle culture semi-nomadiche di
cacciatori-raccoglitori, in un’epoca in cui i numerosi gruppi umani competevano tra loro e con
animali per approvvigionarsi di cibo (l’acquisizione di cibo risponde alla necessità di ottenere
calorie che, una volta processate insieme all’acqua, diventano risorse per ogni forma di vita).
Le comunità sopra nominate erano nomadi: dopo aver esaurito le risorse in un’area, si
spostavano. Con l’evoluzione della cultura umana, le rimanenze degli animali cacciati e delle
piante venivano trasformati in capi di abbigliamento o strumenti utili; una successiva
evoluzione ha permesso un percorso di stanziamento che è seguito dall’addomesticamento
di animali e dalla nascita dell’agricoltura di sussistenza (qui l’uomo inizia a distanziarsi dal
percorso sostenibile). Quindi, quello che per noi è considerato un processo evolutivo, è un
allontanamento dalla vita naturale contraddistinta da un equilibrio allineato alla definizione di
sviluppo sostenibile. Ci sono stati, nelle civiltà dei periodi precedenti alla rivoluzione
industriale, casi di sviluppo sostenibile dove venivano valorizzate le risorse naturali senza
abusarne. Un approccio sostenibile quindi esiste anche nel passato dell’umanità anche in
scenari di stanzialità: ad esempio le popolazioni dell’America precolombiana, in particolare il
metodo di coltivazione azteco delle zattere idroponiche. Con l’evoluzione del modello
occidentale/ illuminista-industriale si afferma una visione di sfida-conquista della natura, a
cui si sono aggiunti interessi economici per cui l’approccio moderno è più una sfida estrema
e continua per la massima efficienza. Parliamo di agricoltura perché questa, insieme alla
pastorizia, sono la prima fase di un percorso evolutivo che ha portato l’umanità a essere
maggiormente dipendente da forme stabili di produzione di calorie. Negli ultimi decenni però
si è affacciato un approccio che tenta di riportare un maggior equilibrio nella produzione
alimentare e, in generale, nella relazione tra l’essere umano e l’ecosistema dove è inserito.

→ La genesi dello sviluppo sostenibile “moderno”:


Nell’ultimo secolo, una sensibilità ecologica ha iniziato a manifestarsi tra gli umani, ecco le
tappe più significative che hanno segnato questa evoluzione:
- 1968, Hardin “The tragedy of commons” = il singolo individuo agisce in modo
indipendente, razionale, seguendo il proprio interesse e andando contro quello della
comunità, esaurendo le risorse del pianeta. Nella natura, il criterio del controllo, che
fa sì che una specie non ne soverchi un’altra, è il parametro della sopravvivenza; ma
nell’essere umano questa variabile di autocontrollo è svanita. Questo articolo è
fondamentale per la critica sul sistema capitalista tradizionale che aveva dominato
fino a quel momento il pensiero politico, economico e sociale.
- 1776 , Smith “La ricchezza delle nazioni” = concetto della “mano invisibile” per cui
ogni individuo che mira a perseguire i propri interessi è guidato da una mano
invisibile che promuove l’interesse comune, anche se non sempre i suoi effetti sono
precisi (1990 circa, Nash integra la visione un pò egoistica di Smith con la Teoria dei
giochi). La ricerca di Smith viene subito adottata per promuovere il capitalismo
democratico. Se consideriamo corretto l’assunto di Smith, il ruolo dello stato è solo
quello di laissez-faire. In pratica l’opera di Smith definisce il primato dell’economia sul
resto delle realtà umane; se vogliamo ritenere ciò valido allora ci aspettiamo una
crescita infinita senza restrizioni; se lo consideriamo errato allora molti dei parametri
su cui sono stati costruiti i sistemi economici devono essere rivisti. Lo sviluppo
sostenibile rientra in questa sfera di “correzioni” della teoria della crescita infinita
senza restrizioni (in questo caso l’opera di Hardin delinea un pensiero coerente dello
sviluppo sostenibile moderno).
- 1972, Meadows fa una simulazione sui limiti della crescita = mira a calcolare cosa
può avvenire su un pianeta con risorse limitate / 5 parametri che interagiscono tra
loro in modo dinamico = scenario più negativo è un collasso del mondo intero a
livello sociale ed economico, legato all’ipotesi che non venissero poste limitazioni alla
crescita umana. Che la crescita dell’inquinamento generato dall’essere umano sia
continua e cumulabile è un dato di fatto, tuttavia la scarsità di risorse è un limite su
cui non tutti gli esperti concordano.
- 1972, prima conferenza sullo sviluppo sostenibile, a Stoccolma, affronta la questione
dell’impatto umano sull’ambiente e come è collegato alla crescita economica, per
poter definire alcuni principi che possono ispirare la popolazione mondiale a
preservare l’ambiente + emerge che la terra ha limiti oggettivi che devono essere
rispettati e per questo serve una mappa che consideri la crescita economica ma
anche una serie di indici che definiscono come questa crescita va a influire su altri
aspetti della sfera umana.
- 1987, commissione speciale incaricata dall’ONU pubblica “Our common future” =
definisce il concetto di standard di sviluppo sostenibile che “è l’abilità umana di
assicurare che l’attuale sviluppo si accordi con i bisogni del presente senza
compromettere l’abilità delle future generazioni a soddisfare i propri bisogni” +
“l’attuale stato della tecnologia e delle organizzazioni sociali in relazione alle risorse
ambientali, insieme con le limitate abilità della biosfera di assorbire gli effetti delle
attività umane, impongono limitazioni allo sviluppo sostenibile”.
- 1988, creato l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dall’Assemblea
Generale dell’ONU = compiti erano 1)fare un’analisi con raccomandazioni della situa
grazie alle conoscenze del tempo sulla questione cambiamenti climatici, tra i temi ci
sono l’impatto economico e sociale sul cambiamento climatico/ le strategie per
mitigare tale impatto/ elementi da inserire in future conferenze sul clima; 2)produrre
rapporti metodologici/ specifici per settori industriali/ paper tecnici in risposta a
richieste ufficiali di altre organizzazioni o a interrogazioni statali.
- 1990, definito il primo strumento per sviluppo sostenibile = Human Development
Index (HDI) creato da Mahbub ul Haq = strumento statistico usato per misurare i
traguardi e i livelli di una nazione dal punto di vista sociale ed economico (basati su
salute degli abitanti, livello di educazione e standard di vita). L’indice viene adottato
dall’agenzia dell’ONU (United Nations Development Program, UNDP) che ogni anno
fa una classifica basata sull HDI dei paesi.
- 1994, nascita modello delle 3P / Triple Bottom Line (TBL) = primo momento
strutturato in cui la società civile e il mondo economico industriale si confrontano con
il cambiamento climatico, il che implica un limite alla crescita incondizionata.
Comprendere bene questo tema è vitale per capire come il mondo ideale possa
dialogare e trovare un terreno comune di azione con lo sviluppo, in termini sociali e
demografici, senza dimenticare il profitto (= l’elemento essenziale della crescita
economica). La sostenibilità è stata spesso inclusa negli ultimi decenni negli scopi di
crescita di organizzazioni pubbliche e private, tuttavia è difficile misurare quanto e
come un’organizzazione sia sostenibile. Elkington pensa a un disegno dinamico che
possa definire le performance ottenute nel mondo aziendale americano; grazie a lui il
nuovo conteggio dati include la percezione del valore delle azioni compiute
dall’azienda nei confronti dell’ambiente, della dimensione sociale e del benessere
degli azionisti. Focalizzando il valore generato dall’azienda e inserendolo in un più
ampio contesto di interazioni (che sono Profitto, Persone, Pianeta = 3P), il modello
TBL è un valido strumento per supportare gli obiettivi di sostenibilità. Sia il settore
pubblico che molte aziende hanno adottato il TBL per valutare le proprie
performance; oggi questa rendicontazione viene chiamata “bilancio sostenibile” e la
maggioranza di aziende ne ha uno.
- 2001, prende forma il Millennium Ecosystem Assessment su impulso dell’ONU =
oltre 1200 ricercatori investigano le conseguenze che il cambiamento dell’ecosistema
terrestre ha sugli esseri umani, i punti principali sono 1)gli esseri umani hanno
modificato l’ecosistema più rapidamente rispetto al passato e il risultato ha portato a
un cambiamento sostanziale e irreversibile sulla biodiversità, generando importanti
perdite; 2)i cambiamenti portati all’ecosistema hanno migliorato la vita degli esseri
umani e la loro economia, danneggiando il pianeta e la società + oltre al declino della
biodiversità c’è anche il problema troppo presente della povertà, che potrebbe
peggiorare con ulteriori cambiamenti del clima; 3)la degradazione dell’ecosistema
peggiorerà nel 21esimo secolo; 4)i cambiamenti richiesti per controbilanciare la
degradazione e comunque soddisfare la necessità di servizi per gli esseri umani
possono ancora essere attuati, tuttavia per raggiungere ciò sarà necessario
introdurre ampie politiche di evoluzione in tutti i settori privati e pubblici.
- nel tempo si sono sviluppate ulteriori organizzazioni che hanno dato luogo a ulteriori
progetti, studi, potenziali soluzioni.
→ Sviluppo sostenibile, due approcci:
Ora parliamo di come concretizzare nella pratica il concetto di sviluppo sostenibile e per farlo
è bene comprendere come approcciarsi a ogni realtà nel modo più efficiente (la parola
“efficienza” è la chiave di volta anche nel mondo dell’ambiente). In un mondo dove ogni
singola azione implica interazioni tra differenti forme di vita, una visione d’insieme che
governi ogni passaggio diventa obbligatoria, è il caso dell’approccio top-down. Ma c’è anche
una corrente di pensiero che prescrive un approccio allo sviluppo sostenibile fatto di piccoli
passi, dove singoli individui o piccoli gruppi dialogano ma spesso hanno una visione
d’insieme non sempre allineata, ed è il caso dell’approccio bottom-up.
Il concetto di top-down implica una serie di cambiamenti a livello sistemico, guidati da
politiche e direttive operative; ha le potenzialità di creare cambiamenti immediati quando
applicati correttamente, ma i tempi per definire strategie operative per una scelta politica del
genere possono essere molto lunghi. Di solito promana dalle autorità, che hanno un’ampia
visione su come la loro azione possa impattare diversi ecosistemi. Mentre l’approccio
bottom-up si basa sull’influenzare le politiche tramite il cambiamento, perché si vede nelle
azioni individuali la possibilità di un massiccio impatto quando esse vengono adottate da un
ampio numero di persone; si aggiunge il fatto che per questo approccio le “barriere di
ingresso” sono basse, e quindi può essere perseguito da chiunque ne abbia volontà o la
capacità (es. se tutti gli abitanti di uno stato andassero al lavoro in bici diminuirebbe
l’inquinamento). Ciò che può rendere efficace questo approccio è una diffusa comunicazione
e la spiegazione chiara di quali siano gli obiettivi e i vantaggi per l’ambiente. Un punto di
incontro tra i due approcci è il concetto di “think globally, act locally”. Per entrambe le
filosofie, la diffusione e la condivisione di dati e pratiche di successo possono essere scalari
grazie alla rete.

Casi storici di Bottom-Up:


- caso agricolo - La Permacultura in India: è un approccio di stile di vita e di
coltivazione che rimanda al modo nel quale il cibo viene creato in natura, così da
creare modelli di coltivazione e produzione che non danneggino le persone. Mollison
crea nel 1986 le fondamenta per questo movimento in India, dà seminari e
conferenze per i contadini e chi fosse interessato a metodi di agricoltura differenti; la
permacultura si sviluppa molto rapidamente e viene anche creata un’Associazione
che crea una piattaforma di dialogo per tutte le ONG e le organizzazioni di agricoltori
interessati. Ci sono 4 tipologie di attori: 1)chi lavora nelle ONG, le quali operano nel
mondo della permacultura in diversi modi; 2)individui che in origine non erano
agricoltori ma hanno deciso di avviarsi verso questa professione, e hanno tutti
esperienze precedenti differenti; 3)residenti urbani partecipanti a progetti di
permacultura e il loro avvicinamento a questo stile agricolo è frutto di ricerche e
strategie di sviluppo legate alla volontà di una vita futura diversa; 4)agricoltori
tradizionali che hanno tratto benefici concreti e diretti dalla permacultura. Ricordiamo
che una fattoria di permacultura ha le capacità di fornire tutto il necessario a un
contadino, e dato che ciò lo rende indipendente dalla maggioranza dei fattori esterni,
questo metodo migliora la performance di intere aree geografiche rendendo i
contadini più forti come agenti del cambiamento in ambito locale.
- caso urbano - The Plant a Chicago: spesso lo sviluppo sostenibile in ambito urbano è
visto come impraticabile, ma a Chicago è stata possibile una ridefinizione edilizia e di
sviluppo; essa è il più grande progetto di successo di permacultura sperimentato in
un paese avanzato. Nel 2010, Edel riadatta un vecchio edificio: oggi ospita un
sistema di vasche per pesci e micro-serre costruite con legname di recupero + quasi
tutto nella struttura è composto da materiali riciclati. Il metodo di agricoltura è detto di
acquaponica (= allevamento di pesci per consumo umano in un ambiente controllato
+ coltivazione di piante direttamente con radici in acqua, che assumono liquidi
“rinforzati” da sostanze nutritive disciolte); il metodo è quasi a scarto zero perché
ogni singolo processo è fonte di nutrimento per quello successivo. Essendo un
sistema chiuso e modulare, le potenzialità di espansione sono legate solo alla
disponibilità di capitale e risorse a esso legate. Il dipartimento dell’agricoltura ha
riconosciuto la certificazione di fattoria organica. Tuttavia lo sviluppo sostenibile
spesso si scontra con un mondo strutturato per altre visioni: in questo caso, infatti, ci
sono voluti numerosi permessi, poiché nelle aree urbane l’allevamento e la
coltivazione non sono ammessi su scala commerciale (è stato necessario spiegare al
legislatore come il progetto non rappresentasse un rischio per la popolazione).
Questo è un esempio di come il percorso bottom-up possa arrivare fino al legislatore,
orientandone le scelte, e questo è un percorso necessario per colmare il gap tra le i
due tipi di strategie.

Casi storici di Top-Down:


- caso agricolo - Land reclamation in Cina: (per land reclamation intendiamo quelle
aree dove il terreno viene recuperato dal mare o dall’oceano tramite dighe o creando
basi di sabbia su cui costruire; per portare la vita nel deserto) la Cina è composta per
27% da deserto e dal 2009 ha iniziato progetti (governativi o ibridi) di
de-desertificazione. Una compagnia chimica di sale, Elion, ha modificato l’ambiente
dove operava con soluzioni di ingegneria meccanica e biologica, per poi includere
anche la coltivazione di piante medicinali cinesi e soluzioni di produzione dell’energia
elettrica solare. Dal 2006 ad oggi Elion opera nell’industria della restaurazione
ecologica su aree desertiche o semidesertiche e il suo modello di business si basa
sull’integrazione di terre verdi e arabili, energia sostenibile e finanza verde, collegate
tra loro con soluzioni digitali (+ l’azienda ha scelto le piante che potessero meglio
adattarsi all’ambiente ostile). Spesso si pensa che il ritorno economico dai progetti di
restaurazione ecologica sia basso o negativo e per questo vengono spesso finanziati
dallo stato (=top-down), anche se in questo caso il governo cinese è intervenuto al
pari dell’azienda e non di più. Inoltre è bene ricordare che il ritorno economico non
può essere l’unico parametro di successo, nel caso di questo progetto vi sono diversi
ritorni d’investimento: 1)ritorno ispirazionale = il suo successo può ispirare futuri
progetti e fà accumulare conoscenze; 2)ritorno economico = genera opportunità di
lavoro e coesione sociale + permette ai locali di accedere a educazione e altri servizi
+ aumenta la crescita economica di una regione; 3)ritorno ecologico = miglioramento
dello scenario ecologico regionale + aspetti di macro-sistema come il sequestro
dell’anidride carbonica, conservazione di acqua e suolo fertile; 4)ritorno finanziario =
il successo è fonte di guadagno delle piccole imprese che hanno partecipato + le
entrate permettono di solidificare il progetto e offrire prospettive per progetti futuri. A
differenza del classico top-down, la presenza dello stato cinese è stata costante ma
mai preponderante (ad es. fornendo supporto finanziario ai business che si sono
insediati nell’area); è nata una piattaforma collaborativa di natura finanziaria a cui si è
aggiunta la partecipazione delle comunità locali. La popolazione locale si è resa
partecipe lavorando a stretto contatto con la Elion, alla quale i governi locali e i
cittadini hanno accordato i diritti di utilizzo delle loro terre e fornito manodopera
specializzata; l’azienda ha fornito capacità di sviluppo mentre i governi locali sono
divenuti parte del progetto e gli abitanti sono stati assunti da Elion; oltre 100.000
abitanti hanno beneficiato dal punto di vista dell’occupazione e della crescita
economica.
- caso urbano - La città del deserto, Masdar: progetto dalle grandi potenzialità ma che
oggi ha ancora molti ritardi sulla tabella di marcia; si tratta di un progetto di
“adattamento” all’ambiente ostile del deserto (contrario alla de-desertificazione) che
mira a costruire “città deserto-compatibili”. Nasce dalla volontà dell’emirato di Abu
Dhabi di diversificare la sua economia (il PIL è generato per 70% dall’estrazione
petrolifera e derivati) e la città mira a diventare la prima metropoli senza auto private
+ con rapporto positivo di compensazione di anidride carbonica. Il progetto si
estende per 6 km2 e ha numerosi approcci di sostenibilità; si calcola verranno
ospitate 50.000 persone e si spera di attrarre 1500 attività e aziende ad alto
contenuto tecnologico con una valenza ambientale. Il progetto è stato fortemente
voluto dallo sceicco (ecco perchè top-down), che ha richiesto ai progettisti grande
attenzione nel rilevare soluzioni per valorizzare l’ambiente locale: massimizzare le
ombre a livello stradale e ridurre al minimo la luce diretta (strategia delle strade
strette veniva usata nel Medio Oriente già nell’antichità) + piazze protette da tende
solari che possono far ombra sui cittadini + anche gli edifici con molti impianti
fotovoltaici per valorizzare l’irradiamento solare. Uno dei principali problemi nei
deserti è l’acqua ecco perchè a Masdar viene progettato un impianto di
desalinizzazione che trarrà energia dagli impianti solari della città + percorso distinto
delle acque grigie (riutilizzate in ambito agricolo) e acque nere (riciclate). Per
valorizzare il vento vengono usate le antiche tecnologie delle torri a vento che
permettono uno scambio di calore per via convettiva. Tuttavia oggi questo progetto
rivela molte criticità e non sembra adatto ad essere replicato: 1)non è etico, infatti i
proventi derivano da fonti non sostenibili; 2)i costi di questo progetto può essere
soddisfatto solo da ricchi paesi arabi dove la popolazione è poco più di un milione
(es. in Africa o Iran è impensabile); 3)la fabbrica di pannelli solari che ci lavorava ha
chiuso nel 2014 + lo stesso modello economico della città si è adattato ed è
riposizionato come centro per le aziende; 4)per la produzione di anidride carbonica la
città è diventata dal contribuire in negativo a essere neutrale (legato al non avere
aziende a emissioni zero). Quindi una strada come questa è percorribile solo se c’è:
vasta disponibilità economica, ridotta popolazione nazionale, vicinanza a fonti idriche
(anche salate), forte componente energetica; elementi presenti insieme solo nella
penisola arabica. Oggi Masdar, rispetto l’originale mission e vision, è cambiata e
sembra un grande progetto-vetrina: costosa operazione immobiliare con del
greenwashing; nonostante sia stata completata solo per il 10%, costituisce un
precedente interessante per altre città della regione del Golfo che ricercano la
sostenibilità.

-> Trend futuri:


Ad oggi sono stati fatti molti passi avanti sul tema della sensibilità, e sono anche nati molti
trend, non tutti positivi, ecco alcuni:
1. finanza verde = finanza che abbandona il supporto alle industrie inquinanti; ma ha
molte criticità come il fatto che lo scopo rimane il profitto, e quello della sostenibilità è
l’equilibrio (tra i progetti di finanza verde fallimentari vediamo il commercio dei diritti a
inquinare emessi dall UE).
2. energie pulite, costi in decrescita = il costo di energia solare, eolica e altre soluzioni
sta decrescendo, ed esse sono cresciute grazie ai supporti ricevuti dalle istituzioni
nazionali. Oggi tuttavia il solare e l’eolico stanno raggiungendo un punto per cui il
costo per produrre elettricità è pari se non inferiore a quello legato alle risorse fossili.
3. cambiamenti climatici e media = i media stanno riscoprendo l’ecologia e una serie di
eventi climatici estremi ha aiutato a mantenere un’attenzione costante.
4. tecnologie e geoingegneria = si affermano nuovi approcci di geoingegneria come le
esplorazioni extra-planetarie; con le esplorazioni su Marte si è iniziato a parlare di
“terraformazione”, ovvero una serie di processi chimici, fisici e biologici per adattare
un pianeta/ una sua porzione ricreando ambienti che possano sostenere il bioma di
tipo terrestre. La preoccupazione è che la comprensione del sistema terrestre è
ancora frammentaria, ma i macro progetti di geoingegneria possono seriamente
alterare l’equilibrio mondiale.
Per quanto lo sviluppo sostenibile sia una scienza strutturata e moderna, alcune sue
evoluzioni sono molto rapide; e le implicazioni che le scoperte in materia di sviluppo
sostenibile possono portare alla crescita dell’umanità sono vitali.

CAP 6
→ Crescita demografica nei secoli e correlazioni con industria economica:
Analizziamo il rapporto e l’influenza reciproca tra demografia ed evoluzione economica
attraverso una sintesi delle determinanti della crescita della popolazione: indichiamo 5
macro gruppi, ognuno dei quali racchiude decine di altre variabili, consapevoli che ci sono
infinite combinazioni di queste che possono influire su una singola popolazione. La presenza
di alcuni fattori di base (es. territorio fertile, clima mite, acqua abbondante) sono una
combinazione vincente. I macro gruppi sono:
1. Caratteristiche demografiche: numero di nascite / morti / tasso di fertilità / mortalità /
età / distribuzione della popolazione / rapporto tra donne e uomini.
2. Condizioni socio-economiche:
a) educazione = molti lavori manuali sono stati e saranno sostituiti da sistemi
automatizzati, quindi un alto livello di istruzione è un indice del potenziale
successo di una popolazione.
b) condizioni economiche = ad es. aspetti quali la disponibilità di lavoro /
possibilità di acquistare casa + fattore da considerare è che un individuo che
parte con un vantaggio iniziale (es. classe sociale benestante) avrà più
possibilità (questo è detto “network di valore”), anche se non sono variabili
che assicurano il successo.
3. Aspetti naturali: la maggior parte di questi elementi sono esogeni (es. clima,
precipitazioni) e sono determinanti per la crescita di una società agricola o dedita
all’allevamento, ovvero una società che si evolve alla stanzialità. Perché avendo una
produzione abbondante potrà convertirla in esportazioni, quindi ulteriore ricchezza.
4. Trasporti: i più grandi imperi hanno sempre avuto una rete logistica efficiente perché
logistica e trasporti sono vitali per qualunque aggregato di umani che ambisca a
espandersi. Sono molto importanti le infrastrutture portuali con accesso ad acque
profonde per l’approdo di grandi navi commerciali, visto che il commercio navale è
80% del totale. Anche i voli sono importanti per questioni di trasporti nazionali e
urbani di merci, servizi e esseri umani. Recentemente è emerso anche il trasporto di
dati, immateriali, associabili a servizi piuttosto che a prodotti fisici, agevolato dalla
velocità di connessione a internet.
5. Utilizzo del terreno e sviluppo: ci sono altri tipi di terreni (oltre quelli favorevoli ad
agricoltura e allevamento) come i giacimenti di metalli / materiali da costruzione /
riserve fossili / di altre fonti energetiche + altri fattori come l’irradiamento solare /
forza del vento / delle maree per la produzione di energia sostenibile.
Ognuna delle variabili di questi gruppi hanno plasmato ogni tribù/ nazione/ impero;
storicamente la nascita di grandi civiltà è stata favorita dalla vicinanza a fonti d’acqua
potabile + terreno fertile. Tuttavia alcune civiltà hanno trasformato in una forza la propria
carenza di queste risorse (es. UK che durante rivoluzione industriale ha puntato sul mare,
costruendo una grande flotta mercantile). Un’ulteriore variabile riguarda la relazione tra la
crescita della popolazione e gli avanzamenti tecnologici: con la nascita del motore a vapore
e l’adozione del carbone il genere umano ha iniziato ad aumentare in modo sensibile. Le
nuove tecniche hanno permesso di di velocizzare i lavori agricoli, e i contadini iniziano a
possedere le terre che lavoravano; allo stesso tempo molti abbandonano le campagne per
l’urbanizzazione e la possibilità di lavorare nelle fabbriche. L’aver sostituito animali o esseri
umani con una forza motrice più efficiente e potente ha liberato risorse da allocare
diversamente + l’introduzione del carbone ha migliorato le prestazioni in ogni campo del
sistema economico (es. viaggi navali più veloci e ferrovie); da qui gli esseri umani hanno
fatto leva sull’energia del carbone per migliorare le proprie condizioni di vita, così hanno dato
via alla grande rivoluzione demografica.

→ Sviluppo economico (casi storici):


E’ interessante vedere come con risorse equiparabili, differenti etnie e popolazioni hanno
sviluppato società/ imperi in modi differenti: un esempio è l’evoluzione del mondo
Occidentale rispetto quello Orientale; consideriamo soprattutto gli aspetti psicologici e di
cultura di massa.

-> Individualismo come variabile di evoluzione demografica ed economica (Europa vs Cina):


Hofstede dibatte se e come, a parità di fattori, la cultura di un popolo o un singolo elemento
di questa possa radicalmente alterarne l’evoluzione; egli discute se un comportamento
altamente individualista nel tessuto culturale ed educativo di una società possa portare a
una crescita economica tramite approcci di leadership e conseguimento di benefici
individuali, che siano anche di ausilio alla collettività. Discute la relazione tra individualismo e
ricchezza economica del singolo individuo, quindi si focalizza sulle nazioni più ricche con
“gene individualista” marcato.
Snowdon e Vane discutono come la mentalità fortemente individualista britannica si sia
“trasferita” negli USA considerando le affinità culturali tra i due paesi.
La differenza, invece, in ambito di evoluzione economica tra EU e Asia si può basare su due
valori: per UE l’individualismo (= il singolo che si prende cura dei propri interessi), per Asia il
concetto di distanza dal potere (= accettazione da parte di una società del fatto che esiste
una distribuzione di potere ineguale nelle organizzazioni). L’ipotesi che l’individualismo
promuova l’innovazione è proposta da Williams e McGuire, i quali partono dal presupposto
che la crescita degli standard di vita richieda un discreto livello di libertà individuale, quindi le
idee innovative sono rese applicative e accettate nella società perché c’è un individualismo
che ne stimola la produzione (questo, per una cultura individualista, può generare soluzioni
di managerialità sofisticate). Mentre un approccio con un governo centralizzato è sintomatico
di elevata corruzione, nella cultura individualistica ce n’è meno (sono tesi nate in ambito
anglo-americano). Mihet suggerisce che una società orientata a un concetto di distanza dal
potere abbia un forte orientamento autoritario, quindi un approccio innovativo potrebbe
implicare delle performance economiche scarse; ella suggerisce che questo tipo di cultura
indichi un livello di fiducia basso tra gli individui. Quindi anche se Asia e EU utilizzano gli
stessi approcci, la loro applicazione pratica può condurre ad esiti differenti (causa le
differenze culturali). La teoria dell'individualismo ha avuto successo per due secoli, ma ora è
opportuno un ripensamento, dopo i risultati economici ottenuti dalla Cina, che oggi ha
recuperato il gap tecnologico pur mantenendo la connotazione di distanza dal potere (inoltre
la visione individualista potrebbe cozzare con una visione sostenibile).

-> Nord e Sud del mondo: migrazione e rimesse economiche:


Ci sono differenze di crescita economica e demografica anche quando si paragonano Nord
e Sud del mondo. Il tema delle rimesse economiche riguarda gli abitanti di nazioni
economicamente più svantaggiate che lavorano in nazioni più ricche e mandano una parte
del denaro in patria ad amici o famigliari (es. caso USA vs Costa Rica). Non si può affermare
che le rimesse economiche sono uno stimolo all’investimento in attività produttive, tuttavia
queste entrate portano beneficio alle comunità nel farle emergere dalla povertà. La crescita
di aspettativa di vita e di guadagno implica un miglioramento della società stessa, che quindi
consuma beni e servizi a maggiore valore aggiunto (le rimesse economiche degli USA sono
di grande impatto per i riceventi, soprattutto chi è povero).

-> Controllo demografico: i casi di Cina e India:


Abbiamo visto che la crescita demografica globale è un trend positivo nei secoli, e
servirebbe un controllo demografico in aree del mondo dove la qualità della vita è ancora
bassa perché sia possibile migliorarla. L’ONU ha definito uno standard di “sostituzione” che
è intorno ai 2,1 figli; cifra che nei paesi avanzati è andata calando a causa
dell’urbanizzazione che implica un costo maggiore della vita. Sia la Cina che l’India sono
grandi nazioni popolose e che godono di un governo centrale che può coordinare gli sforzi
per un contenimento della crescita demografica, seppur hanno culture e fattori economici
differenti. Inoltre in Cina l’età media è di 50 anni circa, mentre quello dell’India è di 36, e la
popolazione anziana in India è proporzionalmente ridotta rispetto al totale.
-> Dal 2015 la Cina ha allentato le restrizioni sulla politica del figlio unico (ora ogni famiglia
può averne 2) in quanto si è visto un grande invecchiamento della popolazione; la politica
del figlio singolo è stata un esperimento sociale che sì ha ridotto forzatamente la
popolazione, spesso con aborti nel caso di figlie femmine, ma ne ha anche alterato in modo
severo la conformazione, ovvero la generazione di uno squilibrio demografico di genere (= ci
sono troppi uomini ora). L’attuale fertilità cinese media è di 1,7 nascite per donna quindi
sotto lo standard di sostituzione, e questo crollo demografico ha visto un aumento dei futuri
pensionati + carenza nell’avvicendamento di forza lavoro, il che vuol dire per il governo
cinese dover risolvere un problema di pensioni (per il problema dell’invecchiamento, il
sistema pensionistico è molto limitato, e attualmente il governo è in grado di mantenere solo
il 2% degli anziani) e un problema di stipendi (che stanno crescendo per il mutamento della
conformazione economica cinese). Inoltre il cambio di politica, per il costo medio del
mantenimento di un figlio, probabilmente non sarà un grande incentivo per l’aumento dei figli
per famiglia.
-> L’India oggi è in uno stato di sovrappopolazione e il governo fatica a gestire questo
scenario, che richiede maggiori risorse e esterna maggiore inquinamento e sfruttamento del
territorio. Tuttavia sembra che stia raggiungendo un suo equilibrio demografico (tasso di
fertilità è passato da 5,8 a 2,8 + si stima che in futuro dovrebbe ulteriormente diminuire) e il
crollo si è registrato specialmente nelle fasce più povere della popolazione.
Osservare come Cina e India abbiano affrontato la stessa sfida in modo diverso dimostra
come anche poche variabili possono influire e cambiare i processi demografici; la prima ha
ridotto la fertilità con un controllo sulla popolazione ricavando però anche disuguaglianze
importanti, la seconda invece ha ottenuto un risultato simile ma grazie all’autoregolazione
supportata dalle politiche di educazione volute dal governo.

-> Sviluppo economico e demografia:


Uno degli aspetti che la produzione fatta a mano (come quella cinese) può concedersi è
l’alta personalizzazione, cosa che ha permesso all’Asia di diventare la fabbrica del mondo;
ma questo primato oggi viene messo in pericolo dall’Industria 4.0, una nuova evoluzione
dell’industria (= un complesso di singole tecnologie che integrate tra loro daranno una spinta
all’intero sistema produttivo di una nazione). Questa potrebbe essere un game changer,
visto che nel mondo industriale sta crescendo la domanda per produzioni personalizzate: sia
il cliente consumatore che il cliente industriale hanno necessità particolari. Il risparmio di
tempo umano e l’efficienza nel distribuire dati e informazioni sono possibili grazie anche alle
reti di trasmissione dati che si stanno espandendo in tutto il mondo. Tuttavia questo tipo di
industria ha anche delle criticità: richiede meno personale e con più specializzazione (è un
problema se consideriamo che quasi tutte le industrie asiatiche sono catene di montaggio
con operai low skilled). Ma può essere una soluzione per le aziende dei paesi avanzati che
vogliono fare reshoring (= tornare in patria); anche se rimane il fatto che in questi paesi gli
stipendi sono più bassi, mentre in Asia la manodopera costa pochissimo. Nel 2018, Shwab
ha mappato le nazioni più adatte a cogliere le opportunità offerte dall’Industria 4.0 e si tratta
di solo paesi avanzati; il report però non evidenzia le ricadute di questa evoluzione
tecno-economica sulla società:
1. ogni rivoluzione tecnologica ha vincitori e sconfitti, e la classe economica più
svantaggiata paga sempre il prezzo maggiore.
2. le ricadute sociali non sono ancora comprese a pieno: si tratta sia di licenziamento di
personale, ma anche di cambiamento di interi cicli produttivi ed economici.
3. accentramento della ricchezza tramite soluzioni digitali, come nei paesi avanzati si
sono creati monopoli/ oligopoli, che hanno fatto leva sulle leggi attuali (spesso
impreparate) per consolidare la propria posizione di leader nel mercato e rischiano di
dare sempre più ricchezze in mano a pochi (= rischi alla democrazia).
4. profezia autoindotta: siamo veramente sicuri che l’Industria 4.0 sia a beneficio
dell’umanità?
Sappiamo che i grandi continenti sono anche i più popolosi (demograficamente parlando i
paesi avanzati contano poco) come Asia, America Latina e Africa, i quali sono anche i
maggiori produttori del mondo, in particolare per prodotti che richiedono alta
personalizzazione ma costi contenuti (gli stipendi in questi paesi sono molto minori). E’
indubbio che un modello di sviluppo economico che predilige l’automazione e la specificità
potrebbe rendere obsolete fabbriche/ comunità/ regioni; ma è anche vero che buona parte
dell’industria dei paesi avanzati potrebbe diventare meno rilevante se non procede a un
rinnovamento. Emerge una visione critica da un’analisi sul Guardian 2019: i paesi emergenti
dovrebbero pensare con attenzione se adottare l’Industria 4.0 perché le tecnologie
avanzate, se non integrate in un tessuto sociale/ economico/ normativo, portano aberrazioni.
In questi paesi la speranza è di poter mantenere lo status di industria del mondo, a cui è
legata la loro crescita economica, grazie all’industria 4.0; tuttavia, specie in Cina e India,
questa industria pone una grande sfida sociale perché ci si preoccupa del fatto che molti
lavoratori potrebbero essere fuori dal mercato perché impreparati. La crescita economica
che l’industria 4.0 implica è un evento mondiale che non può essere ignorato, ma se a
questa non vengono affiancate politiche sociali avverrà un forte disequilibrio della crescita
stessa.

→ Demografia e sviluppo economico: trend futuri:


Come si evolverà il rapporto tra crescita demografica e sviluppo economico? L’ONU ha
stimato che la demografia terrestre dovrebbe assestarsi verso il 2100 con una popolazione
totale di 10/11 miliardi. Si giungerà a questa crescita per molti fattori, il principale è
l’urbanizzazione. Nell’ultimo secolo c’è stato un violento trend ascendente di questo
fenomeno e oggi circa il 60% della popolazione vive in aree urbane/ suburbane. Nei paesi
avanzati questo è stato un processo naturale per la crescente evoluzione delle tecniche
agricole e quindi la ridotta necessità di lavoro nei campi, mentre aumentavano le richieste di
lavoro nelle fabbriche. Nei paesi emergenti invece l’evoluzione è stata rapida dopo la
seconda guerra mondiale, quando la tecnologia dei paesi avanzati si è diffusa in quelli
emergenti il che, combinato all’esplosione demografica, ha portato molti abitanti a migrare in
città per trovare lavoro. Nel raggio di due generazioni, milioni di persone si sono trasferite in
città che erano però costruite per una popolazione molto più ridotta, inoltre una crescita così
esplosiva non è stata accompagnata da una crescita dei servizi cittadini. Unica differenza
positiva è la Cina che, con un governo stabile e fortemente strutturato, ha pianificato la
crescita delle grandi megalopoli, visto che tra l’altro la scelta di urbanizzazione era partita dal
governo stesso. Il piano della “grande migrazione” è seguito infatti da un boom edilizio così
efficiente che ora in Cina sono pronti interi quartieri nuovi in attesa di abitanti. Per quanto i
paesi diversi si siano urbanizzati in modo differente, è ovvio che i cittadini concentrati in
un’area urbana valorizzano meglio le risorse disponibili, infatti un approccio intensivo di
utilizzo del suolo permette di poter ottimizzare differenti assetti nazionali. Inoltre il costo della
vita in città è generalmente più alto rispetto alla campagna e gli individui che vivono in città
tendono a valorizzare di più la qualità della vita. L’urbanizzazione dell’umanità sta alterando
la fertilità, riducendola: nei paesi ricchi la media è scesa già sotto la quota di sostituzione;
l’Asia e l’America Latina saranno le prime a stabilizzarsi; l’Africa resta un’incognita, poiché la
sua frammentazione interna e le tensioni sociali rendono l’urbanizzazione e la gestione
demografica sfide enormi.

CAP 7
→ Definiamo la globalizzazione:
L’ampiezza dei mercati e la divisione del lavoro vengono identificate, sin da Smith, come
fattori in grado di determinare la crescita economica dei paesi; da allora abbiamo avuto due
fasi di espansione commerciale: la prima dal 1870 al 1914, e la seconda dal 1950 ad oggi; in
entrambi i casi i dati dimostrano un’effettiva correlazione dei fenomeni espansivi con una
tendenza di crescita economica sostenuta. E’ stato chiaro da subito che i benefici derivanti
da tale processo non si sarebbero distribuiti equamente perché non tutti i paesi sono stati
interessati dal fenomeno, e perché tra paesi ugualmente coinvolti comunque il ruolo e le
politiche erano variabili. Una delle maggiori sfide della globalizzazione rimane la
comprensione dei meccanismi determinanti il successo di alcuni paesi e il motivo per cui altri
non ottengono i medesimi benefici. La globalizzazione attuale va intesa come processo di
espansione della produzione accompagnato a una crescente divisione internazionale del
lavoro; processo guidato dal tentativo delle multinazionali di massimizzare il profitto. I dati
evidenziano che a seguito della globalizzazione sia i paesi poveri che quelli ricchi hanno
migliorato i propri standard di vita, tuttavia rimangono sostanziali differenze tra i benefici che
questi ne traggono (es. i vantaggi dei paesi ricchi tratti dalla delocalizzazione, legati
soprattutto a fattori di produzione). I paesi poveri traggono vantaggio per l’incremento
dell’occupazione/ aumento di produzione/ miglioramento diffuso dello standard di vita, ma la
globalizzazione non ha condotto solo a esiti positivi. Infatti il processo ha determinato anche
un incremento delle disuguaglianze anche all’interno degli stessi paesi emergenti (es.
derivante da gap a livello educativo di forza lavoro, come un paese che ha lavoratori esperti
in ciò che viene ricercato dalle multinazionali mentre un altro paese no e viene tagliato fuori:
è la trappola della povertà = individui poveri sono a prescindere esclusi da alcuni circuiti e
quindi incapaci di uscire dalla condizione di povertà). Recentemente le multinazionali
concentrano nei paesi emergenti non solo lavori di manifattura ma anche dei servizi, questo
fattore mostra l’unidirezionalità del rapporto che lega i paesi avanzati a quelli emergenti;
ovvero nel processo di globalizzazione i paesi emergenti sono coinvolti e crescono solo se
rispondono alle necessità delle multinazionali localizzate nei paesi avanzati (perché l’attuale
divisione del commercio internazionale è dominata dalle grandi multinazionali). Questo
squilibrio è evidente anche analizzando le politiche commerciali: i paesi avanzati proteggono
le produzioni nazionali ma reclamano l’apertura ai mercati da parte dei paesi emergenti.
L’utilizzo di tecnologie avanzate all’interno dei processi produttivi fa sì che gli effetti della
globalizzazione sull’occupazione nei paesi in via di sviluppo siano molto modesti; e un ruolo
fondamentale è giocato dalla capacità di innovazione dei paesi. Infatti, l’avanzamento delle
tecnologie ha ridotto i costi di trasporto e di comunicazione, rendendo possibile la
globalizzazione: abbiamo assistito a una compressione del tempo e dello spazio. E’ logico
quindi che la distribuzione internazionale della ricchezza rende più benefici ai paesi dotati di
tecnologie più avanzate. Negli ultimi anni, però, sta aumentando lo scontento verso la
globalizzazione da parte dei lavoratori dei paesi avanzati, che lamentano la concorrenza dei
paesi emergenti sul mercato del lavoro (ma sono felici nella veste di consumatori e dalla
riduzione dei prezzi derivata dalla globalizzazione). Questo malcontento è emerso dopo la
crisi del 2009, che però ha anche dimostrato come in una situazione di crisi come questa i
paesi più marginali siano più protetti dalle conseguenze.

→ Le politiche commerciali e la globalizzazione:


I benefici derivanti dallo scambio internazionale sono trattati sin da Smith (“se un paese
straniero può fornirci un bene a prezzo inferiore a quello che potremmo realizzare noi,
sarebbe meglio acquistarlo da lui in cambio di una parte della nostra produzione, orientando
questa verso i settori dove abbiamo vantaggi”). Secondo Smith il vantaggio assoluto è uno
dei possibili benefici della decisione di abbandonare l’autarchia e optare per lo scambio (es.
2 paesi e 2 beni: ciascun paese si specializza in uno dei due, ciò garantisce un aumento
netto di benessere di entrambi i paesi coinvolti). Ricardo approfondisce il tema è parla di
teoria del vantaggio comparato (es. sempre tra 2 paesi e 2 beni: lo scambio tra i due paesi
conduce a vantaggi reciproci anche quando uno dei due sia meno efficiente nella
produzione di entrambi i beni, quindi ha uno svantaggio assoluto). Haberler rivede la teoria
in termini di costo-opportunità e parla di teoria del costo comparato (= un bene può essere
misurato in termini dell’ammontare di un secondo bene che si è disposti a sacrificare per
liberare le risorse necessarie a produrre un’unità aggiuntiva del primo bene).
In un primo momento i paesi emergenti hanno temuto le conseguenze degli scambi
internazionali e questo li ha portati ad adottare strategie di protezione dell’industria
nazionale, teorizzate da Hamilton, e che si contrappongono ai principi del vantaggio
comparato/ del vantaggio assoluto. La strategia di sostituzione delle importazioni prevede
una chiusura al commercio internazionale, soprattutto per quei settori che si stanno ancora
sviluppando nella nazione, così la domanda interna deve necessariamente rivolgersi ai
produttori nazionali (= ripercussioni positive per PIL e occupazione). Tra paesi avanzati ed
emergenti si è vista poi la disuguaglianza nella distribuzione dei profitti derivanti dagli scambi
tra i due. I sostenitori della strategia di sostituzione delle importazioni affermano la necessità
di evitare un laissez-faire che condannerebbe i paesi più poveri a rimanere fornitori globali di
beni di prima necessità, senza la possibilità di conseguire un livello di reddito più elevato,
avvicinandosi a quello dei paesi avanzati. Tuttavia gli esiti di questa strategia non sono stati
incoraggianti: i rendimenti ottenuti sono spesso stati inferiori alle aspettative, mentre alcune
ripercussioni negative hanno avuto effetti a lungo termine (es. aziende si chiudono, escono
dal mercato internazionale, quando rientrano sono rimaste indietro per competenze e
informazioni sulla domanda). Dagli anni ‘60 le politiche commerciali si sono orientate verso
una crescente apertura ai mercati internazionali, e in effetti il processo di globalizzazione ha
consolidato una relazione tra la crescita economica e l’abbattimento di barriere al commercio
internazionale (relazione evidente maggiormente nei paesi avanzati). Queste barriere
possono essere varie ma si collocano dentro due ampie categorie:
1. barriere tariffarie: vengono applicate alle importazioni e alle esportazioni (es. i dazi
antidumping che vengono applicati ai beni importati quando il loro costo è molto
inferiore a quello dello stesso bene prodotto nella nazione; la fissazione di prezzi
diversi poi viene vista come manovra sleale).
2. barriere non tariffarie: le più utilizzate sono
- i vincoli normativi = applicazione di leggi che riguardano i prodotti esteri ai
quali è consentito l’ingresso sul mercato nazionale (es. standard sanitari,
sulla sicurezza, sull’etichettatura);
- vincoli agli investimenti = riguardo gli investimenti di capitale effettuati da non
residenti (es. può avvenire tramite controlli sugli scambi/ finanziari);
- restrizioni alle dogane (es. richiesta anticipata di depositi/ procedure di
valutazione doganale);
- interventi diretti dei governi (es. concessione di sussidi/ altre forme di
supporto finanziario/ misure per lo sviluppo regionale nelle politiche
industriali).
In generale, le limitazioni si pongono sui prodotti in entrata piuttosto che su quelli in uscita,
perché le esportazioni crescono la ricchezza nazionale, mentre le importazioni la abbassano
(ecco perché è usuale vedere paesi che aumentano le proprie barriere in tempo di crisi).

→ Ruolo delle istituzioni:


Le teorie sullo sviluppo economico sono accomunate da un obiettivo condiviso: rintracciare i
fattori che possono determinare/ agevolare un processo di crescita e di sviluppo economico;
tutte convergono nell’individuare un attore fondamentale: le istituzioni. Esse, attraverso le
politiche economiche adottate, incidono su variabili di rilievo (es. livello di povertà/
differenziali nell’accumulazione di capitale); inoltre tramite le politiche fiscali, monetarie,
commerciali, le decisioni prese dai governi nazionali impattano anche sulle scelte degli altri
agenti economici. E’ anche documentato il legame tra sistemi istituzionali corrotti e un
processo di sviluppo economico rallentato e incostante. La Banca Mondiale fornisce ogni
anno un indice composto su dati che riguardano le forme di organizzazione istituzionale e
politica, suddiviso poi in 6 macro categorie:
1. possibilità di espressione e responsabilità (misura la percezione del cittadino di
partecipare al processo di selezione del governo, libertà di espressione/
comunicazione ecc)
2. stabilità politica e assenza di violenza (misura la percezione sulla possibilità di
instabilità politica e/o violenza associata alla politica)
3. efficacia governativa (misura la percezione sulla qualità dei servizi pubblici e il loro
grado di indipendenza dalle pressioni politiche/ credibilità dei governi di rispettare le
politiche)
4. qualità normativa (misura la percezione sulla capacità del governo di formulare e
implementare politiche e normative solide che consentano uno sviluppo del settore
privato)
5. ruolo della legge (misura percezione sul grado di fiducia e di adesione alle regole
della società, es. applicazione dei contratti/ ruolo forze dell’ordine)
6. controllo della corruzione (misura la percezione sul grado in cui il potere pubblico
viene esercitato a fini privati.
Dai dati emerge che i valori degli indicatori per i paesi OCSE ad alto reddito sono tutti molto
elevati e la performance peggiore è quella relativa alla stabilità politica. Mentre i paesi a
basso reddito hanno indicatori che mostrano come la presenza di governi scarsamente
affidabili eserciti un impatto negativo sulla crescita, e l’area più problematica riguarda
l’efficacia governativa. Per l’Italia i valori sono inferiori alla media europea per tutti gli
indicatori e le problematiche maggiori sono riguardo la corruzione e la stabilità politica.

→ Dati sull’interscambio commerciale:


Il processo di globalizzazione ha portato a un incremento degli interscambi a livello
mondiale, e un andamento di crescita molto rapida del valore percentuale delle esportazioni
sulla produzione mondiale (quasi raddoppiato), con una contrazione consistente nel 2009.
Riguardo la distribuzione nazionale delle esportazioni, l’interscambio commerciale ha
un’elevata concentrazione: i dieci paesi leading trader nel 2018 coprono oltre il 50% del
commercio mondiale, e i primi cinque sono il 37% delle transazioni internazionali. In questo
contesto le economie emergenti hanno un ruolo via via più importante (salendo nella
classifica per esportazioni e importazioni); inoltre c’è un incremento di interscambio tra gli
stessi paesi emergenti (nel 2018 è stato il 50% del totale relativo). Tuttavia, in valori assoluti
i volumi sono modesti: lo scambio di merci dei paesi meno sviluppati è meno dell’1% delle
esportazioni mondiali. Il rialzo dei prezzi dell’energia ha poi contribuito all’incremento di
esportazioni merci nel 2018 del 10%, e le esportazioni di servizi sono cresciute con un tasso
di crescita annua del 8%. Questa tendenza è determinata anche dal rafforzamento dei
network internazionali per la produzione dei beni, che per la maggior parte poggia sulle
economie dei paesi emergenti (asiatici). I principali esportatori mondiali in valore assoluto
sono Cina e USA, seguiti da Germania, Giappone, Francia e UK, vicini ad alcuni paesi
emergenti come Messico o Vietnam, favoriti per accordi commerciali che spesso riguardano
la delocalizzazione delle industrie in questi paesi. Anche nel caso della ricaduta delle
importazioni sul PIL mondiale l’andamento è in crescita costante, con l’eccezione del picco
nel 2008-2009, che ha portato un clima di instabilità e preoccupazione, che si riversa
sull’incapacità a livello mondiale di riprendere un ritmo sostenuto di crescita. Sicuramente su
questa instabilità pesano le nuove misure protezionistiche: i membri del WTO hanno
adottato ben 38 misure commerciali restrittive, 80% applicate alle importazioni, e di valore
peso maggiore rispetto a quelle applicate in precedenza (la maggior parte di queste è stata
implementata dai paesi che appartengono al G20). Oltre alle tariffe, che sono state il 50%
delle restrizioni, sono stati adottati anche bandi, salvaguardie speciali e tasse. Per le
esportazioni, invece, le misure adottate sono state le barriere tariffarie e una stretta sulle
procedure alla dogana. I settori più colpiti sono relativi a macchinari e dispositivi meccanici /
macchinari elettrici e relative componenti / metalli preziosi / edifici prefabbricati. Nonostante
le misure protezionistiche, a livello globale il peso delle importazioni sul PIL è in aumento
dagli anni ‘70 (sempre con l’eccezione del picco negativo nel 2008/9; inoltre, dopo la crisi, la
crescita è molto incerta, infatti c’è stata un’ulteriore flessione nel 2016). Secondo il ranking
internazionale, in base al valore delle importazioni in dollari nel 2018: le prime 10 posizioni
sono coperte, in ordine diverso, dagli stessi paesi che sono primi nel ranking relativo alle
esportazioni. Questo suggerisce che sul piano globale i principali attori (e beneficiari) dello
scambio commerciale sono sempre gli stessi: Cina, USA, Giappone, Germania, UK, Francia,
Italia ecc. Le teorie dello sviluppo hanno dimostrato una correlazione tra l’incremento del
peso relativo del settore terziario e il livello di benessere economico dei paesi; infatti, i paesi
più avanzati sono quelli che si sono concentrati prioritariamente sul settore dei servizi (=
processo detto di terziarizzazione, ed oggi avviene a livello mondiale). In circa 20 anni si è
osservata una tendenza: la quota dell’agricoltura è in decrescita e si sta avvicinando allo
zero, il peso percentuale del settore industriale è costante, mentre la quota dei servizi cresce
visibilmente; questa è una conseguenza della globalizzazione, ovvero il mercato asseconda
la domanda.

→ Indici di successo nella globalizzazione:


La globalizzazione è un fenomeno davvero complesso che si collega alla divisione
internazionale del lavoro e anche a una prospettiva di crescita sostenuta, che porta con sè la
ricerca di costi di produzione sempre più contenuti. Vicino all’incremento di ricchezza
mondiale, però, in molti casi si è creata una concentrazione della ricchezza anziché una sua
diffusione; per vedere ciò ci avvaliamo di indici, ovvero misure sintetiche composte da una
molteplicità di indicatori (quindi gli indici danno conto di più variabili contemporaneamente).

-> Index of Economic Freedom:


Elaborato nel 1995, l’Index of economic freedom, viene pubblicato ogni anno e analizza
numerosi indicatori aggregati in quattro dimensioni fondamentali al cui interno sono
comprese ulteriori aree:
1. ruolo della legge (diritti di proprietà, libertà dalla corruzione)
2. dimensione dello stato (libertà fiscale, spesa pubblica)
3. efficienza normativa (libertà imprenditoriale, libertà lavorativa, libertà monetaria)
4. apertura dei mercati (libertà di commercio, libertà di investimento, libertà finanziaria)
L’indice risente dell’impostazione teorica del soggetto da cui proviene (aka USA), quindi
viene identificato come maggiormente libero, sotto il profilo economico, il paese nel quale è
assicurato il diritto di proprietà e il ruolo dello stato è minimizzato e c’è massima libertà. Nei
dati del 2019, rispetto l’anno precedente, si vede un peggioramento sotto il profilo del livello
medio di libertà economica e anche per l’efficacia giudiziaria. La libertà giudiziaria mostra un
elevato grado di vulnerabilità in numerosi paesi (specie in Africa) evidenziando un insieme di
problematiche legate all’indipendenza giudiziaria e alla corruzione dei pubblici ufficiali. La
perdita di libertà commerciale rivela il trionfo della prospettiva di breve termine delle
economie avanzate, che continuano a rimandare le manovre che sarebbero necessarie per
migliorare l’efficienza e la produttività. Il numero dei paesi caratterizzati da un livello elevato
di libertà economica è esiguo; a essere completamente liberi sono in ordine Singapore,
Hong Kong, Nuova Zelanda, Australia, Svizzera, Irlanda. I paesi prevalentemente liberi sono
31 tra cui Canada, Estonia, Cile, Ruanda; quelli moderatamente liberi sono 62 tra cui
Botswana, Spagna, Turchia, Italia (in 74esima posizione); i paesi prevalentemente non liberi
sono 61 tra cui Cina, Tunisia, Brasile, Etiopia. I rimanenti 19 sono paesi dove la libertà
economica è repressa ad esempio Algeria, Sudan, Bolivia e Venezuela.

-> Doing Business Index:


Viene elaborato annualmente dalla Banca Mondiale in base alle informazioni relative alle
normative e ai processi che possono garantire maggiore efficienza alle attività
imprenditoriali. I 41 indicatori sono raggruppati in 10 aree:
1. avviare un business
2. ottenere i permessi di costruzione
3. ottenere l’elettricità
4. registrare le proprietà
5. ottenere il credito
6. proteggere gli investitori di minoranza
7. pagare le tasse
8. commerciare oltre confine
9. far rispettare i contratti
10. risolvere le insolvenze
Tra il 2018 e il 2019 a livello globale ben 115 paesi hanno adottato misure che hanno
semplificato l’attività imprenditoriale, e i best miglioramenti sono avvenuti in Arabia Saudita,
Giordania, Togo, Bahrein, Tagikistan, Pakistan, Kuwait, Cina, India, Nigeria; questi hanno
realizzato un quinto di tutte le riforme rilevate nel mondo. All’opposto, le economie dell’Africa
subsahariana e dell’America Latina continuano a rimandare le riforme necessarie. Un
ulteriore fattore emerso è la progressiva convergenza tra paesi avanzati e paesi emergenti
nel campo della costruzione di nuove aziende; ciononostante, 26 paesi sono divenuti meno
business-friendly rispetto l’anno precedente con l’introduzione di 31 modifiche che reprimono
l’efficienza e la qualità normativa. Ai vertici del ranking del 2020 per questo indice troviamo
Nuova Zelanda, Singapore, Hong Kong e Danimarca; mentre in fondo ci sono Yemen,
Venezuela, Eritrea e Somalia. L’Italia si colloca in 58esima posizione perchè, sebbene negli
ultimi anni siano state introdotte delle misure di politica economica che migliorano l’ambiente
imprenditoriale, è un paese dove fare impresa è complicato (infatti ha una performance
inferiore rispetto alla media europea).

-> Social Progress Index:


Tra gli indici più recenti c’è il Social Progress Index, che viene pubblicato ogni anno (da una
società statunitense) ed è mirato a misurare la reale qualità della vita, a prescindere dagli
indicatori economici; ecco perché deve essere utilizzato a complemento delle misurazioni
economiche. Le dimensioni analizzate, poi ulteriormente disaggregata in 4 componenti
sottostanti, riguardano le capacità di ogni paese di:
1. rispondere ai bisogni umani fondamentali:
a) nutrizione e cure mediche di base
b) acqua e servizi igienici
c) abitazioni
d) sicurezza personale
2. porre le fondamenta perché i cittadini possano migliorare e sostenere la qualità delle
proprie vite:
a) accesso alla conoscenza di base
b) accesso a informazioni e comunicazioni
c) salute e benessere
d) qualità dell’ambiente
3. creare le condizioni per consentire a tutti gli individui di aggiungere il loro pieno
potenziale
a) diritti personali
b) libertà personale e possibilità di scelta
c) inclusività
d) accesso all’istruzione avanzata
L’indice ha fornito nel 2020 informazioni sul 99% della popolazione mondiale e ci riporta che:
il progresso mondiale sta avanzando sin dal 2014 e sono aumentati i punteggi relativi a 8 su
12 componenti analizzate. I maggiori incrementi riguardano le aree di accesso
all’informazione e alle comunicazioni / accesso all’istruzione avanzata / accesso ad acqua e
servizi igienici. Tuttavia c’è stato un peggioramento nelle dimensioni dei diritti personali e
una stagnazione nell’inclusività / nella sicurezza personale / nell’accesso alla formazione di
base. 134 paesi su un tot di 149 hanno mostrato miglioramenti nel progresso sociale dal
2014 al 2019, ma questi progressi non sono distribuiti equamente: i paesi più ricchi,
partendo già da una condizione avanzata di progresso, hanno incrementi più modesti;
mentre paesi come Gambia, Nepal, Etiopia hanno mostrato grandi miglioramenti nel
progresso sociale. Un paese avanzato che ha mostrato un declino significativo è gli USA,
che mostra dati negativi per accesso all’istruzione di base / per la salute / per la sicurezza
personale. L’Italia si colloca in 22esima posizione; mentre per il PIL pro capite in 27esima
posizione, quindi a parità di reddito pro capite il nostro paese mostra un progresso sociale
elevato in merito all’istruzione (specie universitaria); gli indicatori di progresso sociale in
genere hanno valori elevati, con qualche eccezione ovvero la criminalità percepita (anche se
in Italia il tasso di omicidi è più basso che in altri paesi). La maggiore criticità riguarda le aree
relative alla libertà e alla possibilità di scelta (soprattutto riguardo la corruzione, la
vulnerabilità occupazionale, la copertura della contraccezione); infine nella dimensione
dell’inclusività abbiamo un dato molto negativo sull’aspetto dell’equità del potere politico tra
donne e uomini.

→ La globalizzazione ha aumentato la felicità?


Oltre a chiederci se la globalizzazione conduca o meno al progresso, dovremmo anche
chiederci se la globalizzazione abbia contribuito alla felicità delle popolazioni coinvolte. In
questa prospettiva i governi nazionali hanno un ruolo cruciale poiché spetta loro il compito di
fissare la cornice istituzionale all’interno della quale operano gli individui/ aziende/ governo
stesso. Comunque è da evidenziare che questo è un rapporto bidirezionale: l’operato del
governo incide sulla felicità dei cittadini, ma il livello di felicità di questi determina il tipo di
governo che eleggono. Per misurare la felicità a livello globale, ogni anno viene pubblicato il
World Happiness Report, una ricerca sul grado di felicità percepita da cittadini di 156 paesi;
nella graduatoria del 2019 i paesi in cima sono prevalentemente ad alto reddito e con un
efficiente stato sociale (Finlandia, Danimarca, Norvegia, Islanda, Paesi Bassi). Tra i primi 30
paesi ci sono alcuni dell’America Latina il cui reddito pro capite è assai modesto, ma per cui
nella valutazione della felicità entrano in gioco fattori culturali e un atteggiamento positivo nei
confronti della vita (Costa Rica, Messico, Cile, Guatemala). Sul totale dei paesi studiati dal
2005, ben 64 hanno visto un netto miglioramento, mentre per 42 la situazione è molto
peggiorata: fluttuazioni che possiamo spiegare grazie alla presenza di fattori collaterali
rispetto al reddito (che influenzano molto la percezione che gli individui hanno sulla propria
vita, es. le politiche adottate dai governi).

CAP 8
→ Gli anni ‘90 e la nascita degli accordi commerciali regionali:
Negli ultimi decenni è aumentato sempre più il valore dell’interscambio commerciale
internazionale, questo anche grazie agli accordi di integrazione commerciale regionale;
questi si sono sviluppati a partire dal 1989 con la nascita dell’APEC (= Asia Pacific
Economic Cooperation). Questi processi di regionalizzazione si sono basati sulla
facilitazione dell’interscambio di merci/ capitali/ forza lavoro e sulla condivisione di condizioni
preferenziali a favore dei paesi membri. Il fattore della vicinanza geografica è fondamentale
almeno nelle fasi iniziali: quindi ad aggregarsi sono per primi paesi geograficamente
confinanti che hanno una matrice simile sotto il profilo della cultura economica (banalmente
sotto forma di complementarietà tra le strutture produttive). Tuttavia i processi di
regionalizzazione hanno assunto contenuti che travalicano il concetto originario di regione
naturale, e si suddividono in 5 tipologie:
1. accordi di libero scambio = versione basilare di queste integrazioni e prevedono la
costituzione di aree commerciali al cui interno: sono eliminate le tariffe doganali + le
barriere di interscambio commerciale + sono stabilite tariffe comuni (mentre ogni
paese membro può fissare le tariffe che vuole verso stati terzi).
2. unioni doganali = zone di libero scambio dove c’è: tariffa interna condivisa di cui
beneficiano tutti i membri + frontiera comune verso l’esterno (si decide assieme
anche le tariffe da mettere ai paesi terzi) e rende l’integrazione più completa perché
c’è una forma politica commerciale condivisa.
3. mercati comuni = stesse caratteristiche delle unioni doganali + c’è libera circolazione
delle risorse, quindi è facilitata la circolazione e scambio di capitali/ merci/ persone.
4. unioni economiche = mercati comuni il cui fine ultimo è l’armonizzazione generale
delle politiche economiche dei paesi membri.
5. integrazioni economiche = è la versione completa delle integrazioni e hanno le
caratteristiche delle unioni economiche + la presenza di strutture decisionali comuni.
Quindi possiamo notare un grado crescente di integrazione (nel 5 vediamo la nascita di un
soggetto economico articolato che ha competenze finora statali). Ciò che accomuna queste
forme di integrazione commerciale è l’abbattimento dell’incertezza e dei costi ad essa legati,
infatti, quando il paese fa parte di un accordo commerciale queste norme vengono stabilite
una volta per tutte. Altro fattore comune è la presenza di un paese che svolga la funzione di
traino (= leader), ruolo determinato da:
- centralità e vicinanza geografica = favorisce se è centrale e confinante con gli altri
membri;
- forza produttiva (PIL) = stabilità economica di un paese è un vantaggio sia per i paesi
che vogliono aderire (se è economicamente forte dà fiducia nell’iniziativa), sia per i
cittadini del paese stesso (per il loro livello di benessere elevato vedono come meno
traumatici determinati cambiamenti);
- apertura al commercio internazionale = fornisce informazioni sulla storia commerciale
del paese traino e gli altri paesi saranno più propensi ad aderire se il paese ha già
avuto relazioni di interscambio con l’esterno;
- cultura economica = i processi di integrazione economica sono influenzati dalla
presenza di fattori culturali condivisi dai diversi membri.
-> APEC:
L’Asia Pacific Economic Cooperation è un accordo commerciale del 1989 tra 12 paesi delle
sponde del Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Corea del Sud, Filippine, Giappone,
Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore, USA, Tailandia); il numero di paesi poi è
aumentato e attualmente ne fanno parte 21. Gli obiettivi primari sono la promozione e il
rafforzamento di un’area commerciale interna basata sulla libertà di scambio e di
investimento. Per ora i risultati raggiunti sono:
1. il PIL dei paesi membri è passato da $19.000 miliardi nel 1989 a quasi $47.000
miliardi nel 2018;
2. nello stesso periodo, il reddito pro capite dei cittadini dell’area è aumentato del 74%,
contribuendo alla creazione di una consistente classe media;
3. nel 2018 i paesi membri producono il 60% del PIL mondiale e determinano il 48%
dell’interscambio commerciale globale.
Gli strumenti adottati sono la riduzione delle barriere commerciali, l’armonizzazione delle
differenti normative nazionali in termini di interscambio con l’estero, una ricerca costante
della convergenza. Per agevolare ulteriormente la produzione di ricchezza nei paesi membri,
nel 2009 è stato lanciato l’Ease of Doing Business Action Plan con l’obiettivo di facilitare le
attività imprenditoriali sotto il profilo economico e temporale; dal 2009 al 2013 questi paesi
hanno migliorato del 11,3% la facilità di fare business.

-> MERCOSUR:
Il Mercado Comun del Sur è stato istituito nel 1991 (da Argentina, Brasile, Paraguay,
Uruguay) per liberalizzare la circolazione dei beni/ servizi/ fatti produttivi, attraverso la
progressiva eliminazione delle barriere e delle restrizioni reciproche. La storia dell’accordo e
dei suoi ampliamenti è complessa: ad esempio il Venezuela è stato ammesso nel 2012 ma
poi rimosso nel 2016 per mancato rispetto degli standard interni su commercio e diritti
umani; invece alcuni paesi (Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù, Cile) sono membri associati,
quindi hanno i benefici di membri ma non hanno diritto di voto e rimangono comunque fuori
dall’unione doganale; il Messico invece rimane paese osservatore (segue i progressi e
potenzialmente chiederà di entrarvi). Dopo un grande progresso nella liberalizzazione
commerciale negli anni ‘90, il PIL del blocco è cresciuto da $4 miliardi nel 1991 a $20
miliardi nel 1998. Tuttavia questo processo è stato successivamente interrotto dalle
dinamiche interne che si sono complicate soprattutto tra Argentina e Brasile, il tutto
aggravato da una svalutazione monetaria del Brasile nel 1999 e la crisi in Argentina nel
2001 + la crisi del 2009 che peggiora la situazione. Dal 2015 però c’è stata una nuova
ondata di entusiasmo a favore di un’estensione delle negoziazioni con altri paesi/ blocchi
commerciali. La principale criticità di questo blocco commerciale rimane nei differenziali
esistenti tra i paesi membri, che hanno velocità di sviluppo molto diverse. Dentro il
MERCOSUR il ruolo di traino è svolto dal Brasile, paese più ricco in termini di PIL, più
popoloso, paese che maggiormente contribuisce alla creazione di ricchezza del blocco
(anche se dopo la crisi del 2009 inizia a mostrare un lento declino). Uno degli ostacoli alla
crescita dei paesi membri consiste nel tasso di produttività basso e che non ha mostrato
segni di miglioramento. Nel 2020 il blocco ha siglato un accordo commerciale con l’UE, che
prevede la rimozione della maggior parte delle tariffe commerciali tra i paesi appartenenti ai
due blocchi.
-> NAFTA
Il North American Free Trade Agreement è stato siglato nel 1992 (da Canada, Messico,
USA) ed è entrato in vigore nel 1994, con l’obiettivo innovativo di integrare commercialmente
due paesi avanzati con un paese emergente. I vantaggi:
- per il Messico sostenendolo in un processo di crescita più stabile + contribuendo alla
creazione di nuove opportunità lavorative e produttive;
- per i due paesi avanzati in termini di ampliamento dei mercati di sbocco + accesso a
molteplici opportunità di investimento a basso costo.
Il modello NAFTA è stato davvero rivoluzionario, tanto che si sono sollevate critiche legate ai
differenziali tra i tre paesi del blocco (es. differenze salariali). L’accordo prevede la riduzione
graduale delle barriere al commercio tra i membri + accesso duty-free per numerosi
manufatti + per molti beni importati dai paesi membri viene riconosciuto lo status di “beni
nazionali” (eliminando quindi la possibilità per le autorità di imporre tasse ecc). Le
preoccupazioni derivano dagli equilibri sui tre differenti mercati di lavoro: alcuni oppositori
dei paesi avanzati avevano paura che le loro industrie si spostassero tutte in Messico, per i
costi molto inferiori, privando i loro cittadini di posti di lavoro. In realtà quasi nulla cambia sul
mercato del lavoro: anche a causa delle restrizioni sull’immigrazione, il gap salariale non
subisce profonde modifiche + la carenza di infrastrutture su territorio messicano scoraggia
gli investimenti degli altri due paesi; la conseguenza è che dopo l’entrata in vigore
dell’accordo non si sono verificati i temuti effetti sul mercato di lavoro. Altre preoccupazioni
derivano dagli ambientalisti, spaventati per gli effetti di un’improvvisa industrializzazione:
queste problematiche vengono affrontate all’interno del North American Agreement on
Environmental Cooperation (NAEEC), che ha creato la Commission for Environmental
Cooperation (CEC) nel 1994, con il compito di valutare l’impatto ambientale dei processi di
industrializzazione seguiti all’accordo. I risultati economici del trattato mostrano gli ampi
benefici: il commercio regionale di Canada e USA è aumentato significativamente + gli
investimenti reciproci sono aumentati + le esportazioni e le importazioni del Messico sono
cresciute, con risultato un aumento quantitativo e qualitativo dei beni per i cittadini + dal
1993 gli investimenti dei tre paesi sono triplicati. Di conseguenza, il progetto iniziale ha
subito ulteriori espansioni e nel 2004 si stipula il CAFTA (Central America Free Trade
Agreement, tra USA e 5 paesi dell’America Centrale); nel 2020 un nuovo accordo, il UMSCA
(United States, Mexico, Canada) dove gran parte dei termini riguardano il settore della
manifattura automobilistica.

-> Unione Europea:


L’Ue è un accordo commerciale e politico tra 27 paesi unico nel suo genere, le cui origini
risalgono al 1958 con la Comunità Economica Europea (CEE) nata con lo scopo di
rafforzare la cooperazione economica dei 6 paesi fondatori (Belgio, Germania, Francia,
Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) a cui poi negli anni si sono aggiunti tutti gli altri. Ad oggi
ci sono 5 paesi che hanno ottenuto l’approvazione della richiesta di adesione e quindi sono
candidati ufficiali: Turchia, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Albania; tuttavia un
paese, l’UK, ha lasciato l’accordo nel 2020. Nel corso dei decenni è diventata
un’organizzazione sovranazionale che copre numerose aree di politica economica (politica,
salute, sicurezza, giustizia, relazioni esterne) e dal 1993 prende il nome di Unione Europea.
Questa ha l’ulteriore obiettivo di un’unione monetaria i cui vantaggi sono la semplificazione
del commercio tra i membri + stabilità economica + scelta per i consumatori, e nel 2002
viene lanciata l’Euro, adottata da 12 dei membri (attualmente invece sono 19). Nel ranking
mondiale sul PIL nel 2019 l’UE si colloca in seconda posizione, tra USA e Cina; tuttavia, in
linea di tendenza la sua posizione sta peggiorando (nel 2017 era in prima posizione).
Ciononostante il PIL di quest’area è stato in costante aumento dal 1993 alla crisi del 2009, e
da allora ha mostrato difficoltà nel recuperare la tendenza di crescita stabile. Anche il PIL
pro capite a parità di potere d’acquisto è aumentato, e questo andamento si spiega in
ragione della natura dell’indicatore (= media del reddito prodotto nei paesi membri diviso per
il volume della popolazione e adattato agli stili di consumo di ciascun paese = quindi la
media risente meno dell’effetto della crisi dato che alcuni paesi sono stati colpiti in misura
minore); inoltre il valore del commercio sul PIL è in costante aumento, il 64% del commercio
complessivo dei paesi membri avviene all’interno del blocco commerciale dell’UE, e il blocco
copre il 16% dello scambio commerciale globale ed è uno dei principali player commerciali al
mondo.

→ Le istituzioni sovranazionali:
La teoria sugli scambi internazionali spiega che il libero scambio porta alla determinazione
del massimo benessere per tutti i paesi che vi aderiscono, e ciò spiega il successo degli
accordi commerciali. In generale, gli scambi commerciali traggono origine dalla differente
dotazione di fattori che si ritrovano all’interno dei diversi paesi + dal tentativo di superare la
carenza relativa di fattori produttivi. La Conferenza di Bretton Woods del 1994 da vita al
Fondo Monetario Internazionale + alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo
Sviluppo (dopo diventa Banca Mondiale) + istituisce il nuovo sistema monetario
internazionale basato sul principio di stabilità dei cambi fissi tra le monete e il ruolo centrale
del dollaro. L’integrazione commerciale viene promossa a seguito della 2WW, anche con
l’obiettivo di rafforzare l’integrazione tra i paesi; in questo processo è stato fondamentale il
ruolo delle istituzioni statali, che hanno adottato politiche commerciali di integrazione.

-> GATT e WTO:


Il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) è stato istituito nel 1947 tra 23 paesi, e
rimane per anni l’accordo internazionale di riferimento in tema di commercio internazionale,
fino a quando è stato istituito nel 1995 l’accordo della World Trade Organisation (WTO) a cui
hanno aderito 125 paesi (=90% del commercio mondiale). Il GATT nasce con l’obiettivo di
porre fine alle condizioni commerciali esistenti prima del conflitto (cioè protezionismo,
barriere quantitative, quote…) e ha fornito una cornice per arbitrare le dispute commerciali +
definire numerose negoziazioni multilaterali per la riduzione delle barriere tariffarie. Il suo
principio fondamentale è quello di non discriminazione che include:
- principio del trattamento nazionale (riguarda le misure interne, specificando che il
trattamento applicato ai beni nazionali, per imposte ecc, non possa essere più
favorevole rispetto a quello applicato ai beni dall’estero);
- principio della nazione più favorita (prevede che ogni paese membro non possa
applicare agli altri membri condizioni peggiori rispetto a quelle previste per il partner
commerciale più favorito tra i membri; questo principio punta all’equità di trattamento
ed è vantaggioso soprattutto per i paesi in via di sviluppo). Nell’adozione delle tariffe
la maggior parte dei paesi segue questo principio, e negli anni le tariffe sono state
ulteriormente ridotte.
Un’ulteriore innovazione del GATT è il divieto di imporre sia quote che limiti quantitativi agli
interscambi commerciali. Quando subentra la WTO nel 1995, lo scopo diventa sostenere
l’ampliamento del libero commercio a livello mondiale, grazie all’abbattimento progressivo
delle barriere commerciali di tipo sia quantitativo che qualitativo. La necessità di creare
questo nuovo organismo derivava dall’incapacità del GATT di dar vita a un’organizzazione
internazionale del commercio (poi il GATT viene abolito, nella trattativa Uruguay Round con
la nascita della WTO). Si ricorda che la WTO non è un’organizzazione delle Nazioni Unite.
La governance dell’organizzazione è affidata alla Conferenza dei Ministri, composta dai
rappresentanti di tutti i paesi partecipanti. Le novità che porta, rispetto al GATT sono:
- è aperta a tutti gli stati del mondo, anche in via di sviluppo / quelli che appartenevano
del blocco sovietico;
- regolamenta alcuni settori che prima non erano presi in considerazione (es.
agricoltura, proprietà intellettuale, commercio dei servizi);
- ridefinisce le regole e le procedure per la risoluzione delle controversie (rendendole
anche coercitive).
La prima Conferenza dei Ministri si tiene a Singapore nel 1996 con l’obiettivo di
incrementare gli scambi e di ridimensionare alcune distorsioni del mercato che non ne
consentono la piena espressione. Nel 1999 si tiene la Conferenza di Seattle, poi una a
Cancun, infine quella ad Hong Kong del 2005 dove 149 paesi partecipanti giungono a un
compromesso; tuttavia, nel 2006 alla Conferenza di Ginevra viene sancito il fallimento del
Doha Round, ovvero del tentativo negoziale del WTO iniziato nel 2001.

-> Banca Mondiale:


La Banca Mondiale (inizialmente chiamata International Bank of Reconstruction and
Development, IBRID) è un’organizzazione internazionale istituita nel 1945 che opera con gli
obiettivi del sostegno allo sviluppo e della riduzione della povertà. Contestualmente alla sua
costituzione avviene anche quella del Fondo Monetario Internazionale (FMI), nel quadro
degli accordi stabiliti dalla Conferenza di Bretton Woods; la IBRID si occupa, nella prima
fase, della ricostruzione dei paesi colpiti dalla 2WW. Durante la seconda fase invece
l’obiettivo si è spostato sui paesi in via di sviluppo con un focus sul capitale sociale +
capitale umano + espansione e consolidamento del settore privato + gestione delle variabili
macroeconomiche da parte dei governi nazionali. Gli interventi di finanziamento del bilancio
pubblico promossi dalla Banca Mondiale sono spesso legati alla richiesta rivolta ai paesi in
via di sviluppo di adottare le riforme strutturali necessarie per la crescita sociale ed
economica + di definire e realizzare liberalizzazioni/ privatizzazioni/ deregolamentazioni
opportune per uscire dal sottosviluppo. Gli strumenti finanziari dell’organizzazione spesso
anticipati da garanzie, da parte dei governi che beneficiano dell’assistenza, di realizzazione
degli obiettivi previsti dai progetti finanziari (= la Banca non fa regali). Attualmente
aderiscono 188 paesi e la sua struttura interna è composta da 5 istituzioni:
- Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRID, si occupa di
sostenere lo sviluppo dei paesi a medio reddito e in gravi condizioni debitorie
attraverso la concessione di crediti ordinari, con la condizione di favore sui tempi di
rimborso dei crediti che è circa 15-20 anni con periodo di garanzia di 5 anni; i settori
di intervento sono vari e spesso i progetti vengono corredati da alcuni servizi di
assistenza per aumentarne l’efficienza);
- Associazione Internazionale per lo Sviluppo (IDA, è un’agenzia specializzata
dell’ONU, fanno parte 172 paesi: fornisce strumenti di cooperazione finanziaria
accessibili anche a paesi che non posseggono requisiti per avere prestiti dall’IBRID, i
prestiti sono senza interessi + la restituzione va dai 25 a 40 anni e il periodo di
garanzia è di 10 anni; vengono concessi solo a paesi con reddito pro capite inferiore
a $1.175 + le somme erogate sono vincolate alla realizzazione di opere di
infrastrutture/ miglioramento delle performance in pubblica amministrazione e servizi
sociali/ interventi nel settore agricolo/ rafforzamento struttura finanziaria del paese);
- Società Finanziaria Internazionale (IFC, aderiscono 184 paesi, compito di
promuovere la crescita del settore privato nei paesi in via di sviluppo, soprattutto
assistenza alle piccole e medie imprese + ha un ruolo in parte come istituzione
finanziaria privata cioè si fa carico di rischi dagli investimenti prediligendo progetti
che garantiscano profitto + focus in Europa centrale e orientale e Africa subsahariana
+ interventi volti alla privatizzazione e alla ristrutturazione di imprese dello stato +
rafforzamento settore privato dell’economia);
- Agenzia Multilaterale di Garanzia degli Investimenti (MIGA, 177 paesi membri, si
occupa della promozione e del supporto al settore privato, incoraggiando
l’investimento privato delle imprese estere verso i paesi più poveri);
- Centro Internazionale per la Risoluzione delle Controversie in materia di Investimenti
(ICSID, 147 paesi, è il foro di riferimento internazionale per l’arbitrato per la
risoluzione di controversie tra investitori stranieri e paesi ospiti: il consenso
all’arbitrato è volontario ma una volta dato non ci può essere un ritiro unilaterale + i
giudizi emanati non sono sottoposti a ulteriore riesame da parte delle autorità dei
paesi).
Il presidente è eletto dal Consiglio dei Governatori e ha carica quinquennale. Per
raggiungere lo scopo della riduzione della povertà, la Banca opera per la creazione di un
clima favorevole agli investimenti, con un’attenzione a quelli provenienti dal settore privato, e
rafforzando il livello di partecipazione delle popolazioni in via di sviluppo nei processi
decisionali. Inoltre finanzia molti progetti di sanità + fornisce sovvenzioni per forniture di
acqua ed elettricità + aiuta popolazioni coinvolte in gravi conflitti. Dal 2000 ha anche dato via
a un programma per favorire la cancellazione del debito dei 40 paesi più poveri del pianeta.
Gli interventi da lei promossi si incentrano sul principio della selettività (= garanzia
dell’efficacia dell’operato della stessa Banca Mondiale perché prevede che l’aiuto finanziario
sia impiegato in paesi che si impegnano ad attuare le politiche macroeconomiche più
adeguate) e sul principio del partenariato (= prevede la creazioni di reti tra soggetti diversi,
es. organizzazioni internazionali, settore privato, organizzazioni non governative).

-> Fondo Monetario Internazionale:


L’FMI è stato istituito nel 1945 nella Conferenza di Bretton Woods ed è composto da 188
paesi; il principale organo decisionale è il Consiglio dei Governatori composto da un
governatore per ogni stato. Il Comitato Monetario e Finanziario Internazionale (IMFC) ha il
compito di definire gli indirizzi strategici del FMI ed è composto da governatori dei 24 paesi
che maggiormente contribuiscono all’assetto finanziario del Fondo. Della struttura
organizzativa del FMI fa parte anche il Consiglio Esecutivo, composto da 24 membri, che
amministra l’ente, affiancato dall’Ufficio di Valutazione Indipendente (IEO) che è una
struttura permanente che esercita funzioni di vigilanza e controllo. L'obiettivo del Fondo è
quello di promuovere e supportare le relazioni monetarie e finanziarie internazionali e la loro
stabilizzazione, in una prospettiva inclusiva dove la stabilità monetaria e finanziaria di ogni
economia esercita ripercussioni positive sul paese interessato e sulla crescita economica
mondiale. Il Fondo è diventato il soggetto a cui è stata demandata la gestione delle crisi
finanziarie mondiali + il compito di assistenza per i paesi che si trovano in congiunture
finanziariamente complicate. Gli obiettivi del FMI vengono perseguiti grazie a strumenti
finanziari quali:
- l’Accordo di Stand-by (SBA): prevede la possibilità, solo per paesi membri con
squilibri contingenti, di prelevare dal Conto Generale delle Risorse un ammontare
pari al 100% della propria quota su base annuale e al 300% della propria quota su
base cumulativa; di solito gli SBA coprono un periodo di 12-18 mesi + possibile
estensione fino a 3 anni, e hanno tassi inferiori a quelli di mercato.
- la Stand-by Credit Facility (SFC): è uno strumento rivolto ai paesi a basso reddito
che necessitano di liquidità di breve periodo, il prestito ha una durata di 12-24 mesi.
- la Extended Fund Facility (EFF): un sostegno ai paesi che hanno squilibri nella
bilancia a causa dei pagamenti deerivanti da contingenze macroeconomiche + da
problemi di natura strutturale; è uguale agli SBA, ma i tempi di restituzione sono
entro 10 anni.
- l’Extended Credit Facility (ECF): fornisce un supporto finanziario mirato ai paesi a
basso reddito, con tassi di interesse pari a zero, un periodo di garanzia pari a 5 anni
e un termine massimo di restituzione pari a 10 anni.
- l’Exogenous Shocks Facility (ESF): ha l’obiettivo di assistere ai paesi a basso reddito
nella gestione di eventi avversi di natura esterna (es. catastrofi naturali, forti
oscillazioni dei prezzi di materie prime).
- l’Emergency Assistance (EA): si applica a quei paesi che sono stati colpiti da disastri
naturali/ che sperimentano conflitti; dal 2010 è stata sostituita da due nuovi strumenti:
1. Rapid Credit Facility (RCF): rapida erogazione di finanziamenti a interessi
zero a favore di paesi a basso reddito che necessitano urgentemente di
liquidità.
2. Post-Catastrophe Debt Relief (PCDR): strumento che affianca il proprio aiuto
con quello della comunità internazionale nella cancellazione del debito per
paesi a basso reddito colpiti da eventi catastrofici.
- lo Staff Monitored Program (SMP): favorisce il dialogo fra operatori del FMI e le
autorità nazionali di un paese membro relativamente alle misure di politica
economica di quest’ultimo.
- il Policy Support Instrument (PSI): a beneficio di paesi a basso reddito per i quali
emerge la necessità di consolidare la propria performance economica grazie al
supporto del FMI; fornisce una rassicurazione ai potenziali investitori internazionali
che il paese stia conducendo le politiche economiche necessarie per conseguire
stabilità economica e finanziaria.
Questi strumenti sono la struttura tradizionale dell’aiuto finanziario, ma negli ultimi anni ne
sono stati aggiunti 2 nuovi:
- la Flexible Credit Line (FCL): per i paesi che rischiano di sperimentare difficoltà
nell’accesso al finanziamento sui mercati dei capitali a causa della loro esposizione
agli effetti della crisi, ma solo se in grado di dimostrare di possedere un contesto
stabile di politiche economiche + che faranno effettivo uso del credito ottenuto
unicamente in caso di difficoltà finanziarie + si impegneranno a restituirlo in 3-5 anni.
- la Precautionary and Liquidity Line (PLL): consente di accedere in tempi brevi alle
risorse necessarie a fronteggiare shock reali o potenziali della bilancia dei
pagamenti, è riservata ai paesi che presentino un consolidato esercizio delle politiche
economiche; può essere usato su base semestrale (per esigenze di breve periodo,
ha a disposizione un finanziamento fino al 500% della sua quota)/ annuale o
biennale (accesso a finanziamento fino al 1000% della sua quota).

CAP 9
Concetto di debito = un soggetto (debitore) chiede a prestito a un altro soggetto (creditore)
una somma di denaro che dovrà restituire in un periodo di tempo convenuto tra le due parti;
alla cifra dovuta di solito si aggiunge una percentuale della somma originale (che
corrisponde al costo per il tempo trascorso + al rischio a cui si è esposto il creditore
prestando la somma). Il problema con il debito sorge quando il debitore (individuo/ Stato/
azienda) non può restituire il denaro ricevuto e gli interessi accumulati. Nel caso
dell’individuo la conseguenza sarà il pignoramento dei beni, nel caso di un azienda sarà il
fallimento/ liquidazione/ vendita, nel caso dello stato questo va incontro a fallimento.
L’approccio per lo stato in fallimento è complesso data la maggiore dimensione e
complessità di beni che questo soggetto possiede.

→ Storia del debito:


In passato un debitore (individuo) poteva anche pagare in natura le sue pendenze (es.
servitù), invece al concetto di debito aziendale/ statale si deve associare quello della
moneta. Il conio di moneta è il primo passo per la definizione di concetti complessi come
debito e interessi, e avviene intorno al 600-500 a.C. in tre aree geografiche: nord della Cina,
valle del Gange e mar Egeo.

-> Epoca degli imperi agrari (3500-800 a.C.):


Nascono i primi imperi, ci sono degli elementi comuni a tutti (es. l’agricoltura strutturata,
produzione di vasellame, di strumenti agricoli, armi da caccia e per la sicurezza, edificazione
di templi ecc) e queste attività richiesero la nascita di forme di contabilità e pagamento più
avanzate, rispetto al baratto. In Mesopotamia nascono i “pagherò” (= tavolette d’argilla) ma
hanno funzionato solo perché si trattava di comunità piccole, dove tutti si conoscevano,
quindi anche i rapporti commerciali si basavano sulla fiducia. In Cina c’è stata la prima
introduzione delle monete in questo periodo, consistevano in pezzi di metallo che avevano
un valore intrinseco e quindi potevano essere impiegati in templi / con i signori locali /
membri al di fuori della comunità che erano più disposti ad accettare una moneta che
avesse un valore anche oggettivo.

-> Epoca Assiale (800 a.C.-600 d.C):


Il filosofo Jaspers nota come figure quali Pitagora, Buddha e Confucio sono convissute nella
stessa epoca storica e come da loro sono nate diverse scuole di pensiero; e nello stesso
periodo ci sono stati grandi imperi belligeranti (es. Alessandro Magno, la Persia, i Romani, i
Greci). Proprio per le numerose guerre serviva appunto del soldo per pagare i soldati che si
spostavano anche per distanze molto vaste e volevano un pagamento oggettivamente
valorizzabile ovunque. Da qui la soluzione indipendente di gestione economico-finanziaria
per coordinare le risorse umane/ acquisto di beni mobili/ armamenti = conio di monete.
Questo nuovo processo alimentava un sistema di gestione e valorizzazione del denaro
tramite creazione di ricchezza da ogni attività umana. Ogni volta che un impero attraversava
una crisi finanziaria come soluzioni poteva: o di schiavizzare i poveri indebitati (se prevaleva
l’imperatore), o creare missioni militari/ di colonizzazione (se prevaleva il popolo).

-> Medioevo (600-1450 d.C.)


I grandi eserciti e i grandi imperi hanno perso l’impeto del passato/ si sono frammentati
quindi non c’è stata più la grande necessità di estrarre metalli per coniare il soldo per i
soldati di professione (stessa attività mineraria si è ridotta); quindi si torna a una fase in cui
debito e credito tornano una questione di fiducia. In Occidente nascono le corporazioni
mercantili (città come Genova, Venezia,..) e diventano simili alle attuali multinazionali: entità
molto flessibili commercialmente e militarmente.
-> Epoca degli imperi capitalisti (1450-1971):
In questi secoli l’evoluzione tecnologica ha fatto passi da gigante, tuttavia l’approccio degli
attori sono i medesimi. Questa è l’epoca delle grandi esplorazioni, del capitalismo,
dell’umanesimo, della scienza svincolata dalla religione ecc, ma torna il rapporto (creato in
epoca assiale) tra debito-guerra-schiavismo-moneta in modalità potenziata. Esempi:
- il debito pubblico gestito da UK nel 1500-1650, dove una massiccia inflazione (con
aumento dei prezzi) non corrispose a un aumento dei salari, allora il re inglese lo
scaricò sui cittadini tramite la svalorizzazione della moneta.
- l’aumento delle risorse di argento e flusso di oro dalle grandi esportazioni tra 1500 e
1640 che in Europa permisero di rendere di nuovo florida l’economia di molti stati.
In questo periodo assistiamo anche ai primi fallimenti finanziari di grandi aziende private (es.
South Sea Bubble); e alla nascita dell’economia moderna come la concepiamo oggi + eventi
come la forte crescita delle fabbriche + crescente urbanizzazione + lavoro con stipendio
fisso ecc. Dal 1700 vediamo che una spinta a produrre sempre di più fa leva sul valore del
prodotto/ servizio e conferisce maggiore valore possibile alle azioni delle aziende per
generare dividendi per azionisti e proprietà; nel caso vi fossero crisi di produzione/ proteste
si interveniva con la forza. Dal 1800 al 1971 vediamo una produzione massiva di moneta
che genera numerose bolle e contribuisce alla crescita economica.
-> Caso storico: South Sea Bubble
E’ uno dei primi fallimenti moderni, ovvero al suo interno si riscontrano la maggioranza degli
elementi che sono presenti nei fallimenti aziendali o nazionali; è il primo caso dove esiste
una situazione di bolla e relativo fallimento statale. Lo stato inglese era indebitato sin dal
1700 (causa principale le attività belliche degli anni precedenti) e quindi venne creato uno
schema di riparazione e pagamento dei debiti utilizzando un soggetto terzo. Tutti i creditori
dello stato videro il loro credito convertito in azioni di un’azienda semistatale chiamata South
Sea Company, che avrebbe emesso delle azioni con lo stesso valore nominale del debito
che lo stato aveva con i creditori + lo stato assicurava alla compagnia un pagamento
annuale pari all’interesse del 6%, che sarebbe poi stato restituito ai creditori come un
dividendo. La compagnia ebbe un iniziale successo tant’è che diventò appetibile anche per
investitori esterni, e il re assicurò alla compagnia il monopolio del commercio col Sud
America (soprattutto per commercio di schiavi). Nel 1720 le azioni dell’azienda erano in
bolla, trascinando con sé le azioni di altre aziende che offrivano servizi associati ad essa +
contribuendo all’arrivo di investimenti dalla Francia + attraendo anche investitori non
professionisti. Quindi arrivò l’inevitabile crollo con tutti gli elementi delle moderne crisi:
mercato azionario, presenza più o meno manifesta di interventi statali, frenesia di investitori
professionisti e non, cecità dei mercati.

-> Dal 1971 a oggi:


Il 15 agosto 1971 il presidente americano Nixon decide di sganciare il dollaro dall’oro, quindi
rendendolo indipendente: comincia l’epoca delle valute non più legate a un elemento fisso, il
valore del dollaro ora è legato al potere economico della nazione che lo emette, si entra
nell’epoca moderna. Il valore dell’oro aumenta (mentre il dollaro denominato in oro crolla)
quindi le nazioni che possedevano oro ebbero modo di pagare il resto del mondo con dollari
inflazionati (= gli USA ora potevano stampare dollari senza un limite e con questo pagare
ogni debito); così i paesi del terzo mondo si ritrovano improvvisamente poveri (= pagati in
dollari ma con un dollaro che valeva meno di prima), inizia l’era del grande indebitamento tra
stati. Durante la Guerra Fredda molte nazioni in via di sviluppo si trovarono nella condizione
di chiedere fondi.
→ Debito e interessi eterni o default sovrano:
Storicamente, il numero di stati/ regni/ imperi che hanno ripagato il proprio debito è limitato
ed esistono solo due modi in cui una nazione può gestire il proprio debito: mantenerlo
pagando gli interessi, riducendolo quando possibile, oppure dichiarare fallimento/ non
restituire il denaro. Ciò che spinge una nazione a dichiarare fallimento e non pagare è la
prospettiva che il debito e gli interessi cumulati siano così elevati che non esista uno
scenario plausibile in cui si possano nemmeno diminuire.

-> Il credito:
Nelle ultime due epoche menzionate si concentrano la quasi totalità degli indebitamenti
sovrani e relativi fallimenti, possiamo identificare 8 principali periodi storici di esplosione di
prestiti e relativi fallimenti:
1. inizio decennio 1820: eventi legati ai nuovi stati indipendenti latino-americani +
alcune nazioni europee
2. inizio decennio 1830: eventi legati a USA, Spagna e Portogallo
3. dal 1860 a poco dopo 1870: eventi legati a America Latina, USA, nazioni europee,
impero ottomano ed Egitto
4. fine decennio 1880: eventi legati a USA, Australia, America Latina
5. decennio che precede 1WW: eventi legati a Canada, Australia, Sud Africa, Russia,
impero ottomano, stati balcanici, alcune nazioni dell’America Latina
6. decennio 1920: eventi legati a Germania, Giappone, Australia, Canada, Argentina,
Brasile, Cuba
7. decennio 1970: eventi legati ad America Latina, Spagna, Iugoslavia, Romania,
Polonia, Turchia, Egitto, Indonesia e alcuni stati africani
8. decennio 1990: eventi legati ad America Latina, paesi emergenti asiatici, ex
repubbliche sovietiche.
I maggiori creditori furono: UK e Francia nel 1800/ UK, Francia, Germania, Olanda, USA a
inizio 1900/ USA e UK tra le due guerre/ USA e alcuni stati europei nel 1970/ USA, europa
occidentale e Giappone nel 1990. La disponibilità di denaro da dare a prestito fu
conseguenza di differenti eventi, molti provocati da cambiamenti politici negli stati riceventi/
da quelli eroganti/ dall’apertura di nuove opportunità di investimento che attraevano capitali
(es. nel 1820 la fine delle guerre napoleoniche e indipendenza di alcune nazioni in America
Latina/ nel 1920 fine 1WW e ricostruzione/ 1960-70 colonizzazione Africa e successiva
indipendenza di alcuni di questi stati…). In altre occasioni il boom di prestiti è stato attivato
da cambiamenti economici in nazioni già pesantemente indebitate. Sia nel 1800 che il boom
del 1990 erano legati in parte a investimenti in infrastrutture + riforme economiche (spesso
questi boom di prestiti erano preceduti da precedenti fallimenti sovrani); in altri anni gli eventi
furono stimolati da cicli di crescita economica e risparmi privati + cambiamenti dei sistemi
finanziari. Nel decennio 1960-70 ci sono stati molti prestiti alle nazioni emergenti, che ebbe
un’ulteriore spinta dallo shock petrolifero del 1973-74 (i guadagni ottenuti dovevano essere
investiti in qualche modo); in Eu e USA le politiche monetarie più flessibili hanno contribuito
ai prestiti verso i mercati emergenti.

-> Il debitore e il fallimento:


Dopo le fasi di prestiti sono seguite in alcuni casi esplosioni o fallimenti, dove i beneficiari dei
crediti sono falliti/ hanno ridefinito i precedenti debiti; i fallimenti generalmente sono innescati
da almeno uno di questi eventi:
a. un peggioramento dei termini di commercio delle nazioni indebitate
b. una recessione nelle nazioni che erogavano il prestito
c. un aumento dei costi dei prestiti a livello internazionale, spinto da eventi nei paesi
creditori
d. una crisi delle maggiori nazioni debitrici che può contagiare il mercato internazionale
dei prestiti
Es. i boom del decennio 1830 finirono dopo il collasso dei prezzi del cotone, che decimò i
guadagni da esportazione degli stati sudisti + una conseguente stretta sul credito dal
prestatore principale (=UK) + peggioramento degli standard commerciali internazionali.

-> Caso storico: l’impero ottomano


Uno dei classici fallimenti sovrani è il collasso finanziario dell’impero ottomano. Come
risultato di un’accumulazione di ricchezza di alcune nazioni (soprattutto FR e UK) vi era un
ammontare di capitale che poteva essere investito: si puntò sull’impero ottomano, viste le
sue potenziali ricchezze, che quindi siglò 15 prestiti a metà del 1800. La Guerra di Crimea (e
poi altri eventi bellici) richiese molta liquidità e una crescita di indebitamento, dovuto anche
al fatto che l’impero utilizzò il denaro anche per acquisti postbellici. Nel 1876 l’impero
dichiarò fallimento come conseguenza dell’ingente prestito e l’impossibilità di ripagarlo. Le
tre ragioni della crisi finanziaria furono:
1. inefficacia nell’utilizzo del denaro in prestito
2. perdita di valore della moneta locale
3. politica di tassazione (solo una parte del denaro raccolto finiva alla capitale)
Una volta dichiarato fallimento di rado i prestiti scompaiono, anzi i creditori spesso ottengono
molto più del ripagamento del debito. Per verificare che dopo un fallimento i debiti venissero
pagati venne creato un apposito organismo con base nell’impero ottomano: il Consiglio di
Amministrazione del Debito Pubblico Ottomano (OPDA), controllato dagli europei con lo
scopo di diventare una sorta di agenzia di investimenti stranieri nell’impero. Facendo leva
sulla situazione debitoria, parte delle ricchezze vennero sfruttate/ acquisite da aziende
pubbliche europee. A seguito della 1WW la neonata repubblica turca accettò di ripagare il
60% del debito preesistente; in seguito l’ammontare fu ulteriormente decresciuto, tuttavia
l’ultimo pagamento del debito avvenne nel 1954.

→ Debito come strumento geopolitico:


Abbiamo visto prima quanto il debito dell’impero ottomano fu un’opportunità per gli stati
europei di ottenere accesso alle sue ricchezze (che andavano dal mercato interno, al
chiudere l’impero russo e limitarne l’accesso militare e commerciale nel Mediterraneo) e
valorizzarle al meglio. L’OPDA diventò rapidamente un’entità vitale all’interno dell’impero: di
fatto era un secondo ministero delle finanze e dell’economia; e presto assunse la totale
gestione della produzione ed esportazione di sale + il controllo dell’attività di pesca +
dell’industria serica + commercio del tabacco (divenuto di grande interesse per l’Eu). Questo
esempio è uno dei tanti in cui i creditori possono ottenere dei vantaggi messi a garanzia di
un prestito. Tecnicamente, per definire il rapporto di debito statale e le sue implicazioni
geopolitiche si dice debt trap. Il debito può essere recuperato in molti modi: la prassi di
gestione del debito negli anni ‘80-’90 = si portava il debito all’attenzione del Fondo Monetario
Internazionale che, insieme ad altri partner internazionali (es. la Banca), può definire una
serie di aiuti per i paesi indebitati (di solito si occupa di aiuti finanziari, contrattazione del
debito in modo da ridurlo, numerosi ammodernamenti alla nazione. L’approccio del FMI ha
sempre avuto la visione molto rigorosa della gestione del debito e, come aveva circa fatto
l’OPDA, impone liberalizzazioni di numerosi settori industriali della nazione indebitata (ne
espone le ferite aperte all’entrata di entità private straniere; infatti viene spesso considerato
un attore super partes, che può scardinare il vecchio sistema e permettere una penetrazione
da parte di aziende occidentali (soprattutto multinazionali americane).

-> Caso storico: la crisi petrolifera


Prima del 1973, le nazioni che si indebitavano erano supportate da agenzie mondiali
bilaterali/ multilaterali, le quali concedevano denaro in cambio di una seria pianificazione del
loro utilizzo da parte dei debitori. Dopo la crisi del ‘73-’74, molte banche commerciali si
trovarono in abbondanza di petroldollari provenienti da paesi ricchi di risorse petrolifere e,
per mettere a frutto la nuova liquidità, li prestarono agli stati in cerca di credito. Ci furono due
tipi di nazioni che contrassero debiti: quelle che erano a corto di cassa a causa della crisi del
petrolio + quelle rese ricche dai proventi del petrolio e che volevano fare leva sugli asset a
loro disposizione per ampliare la propria disponibilità di cassa. (L’assunto era che il prezzo
del petrolio sarebbe rimasto alto + in crescita) i prestiti non vennero usati per investimenti
strutturali, ma per mantenere standard di vita della popolazione come quelli pre-crisi. Nel
1981 gli interessi sui prestiti iniziarono a salire + la domanda di materie prime dalle nazioni
indebitate declinò; la recessione del ‘81-’82 impedì a molti paesi in via di sviluppo indebitati
di poter ripagare interessi e debiti. Le banche private che avevano elargito prestiti nel
decennio precedente si trovarono coinvolte nel debito e rinunciarono a finanziare
ulteriormente le nazioni indebitate + molte agenzie governative multilaterali, per evitare il
contagio mondiale, decisero di assicurarsi che il paese debitore ripagasse i debiti. Così entra
in gioco FMI assicurando la credibilità dei paesi indebitati, tramite una due diligence:
prestava ulteriore denaro ma solo agli stati che accettavano le sue riforme strutturali.

-> Valorizzazione del debito:


L’approccio del FMI dà per assunto che l’instabilità finanziaria di una nazione sia causata da
elementi endogeni, quindi i programmi di aggiustamento che propone sono mirati a risolvere
problemi interni. Lo standard operativo del FMI consiste:
1. prima fase = i programmi di aggiustamento strutturale evidenziano la capacità
produttiva come performance economica critica
2. seconda fase = la proposta di misure per elevare il potenziale output economico e
aumentare la flessibilità di fattori e beni verso il mercato.
Un assunto dell’approccio del FMI è che l’esposizione del sistema economico produttivo,
della nazione indebitata ai mercati internazionali, sia un passaggio vitale per rendere la
produzione nazionale più efficiente. Queste modifiche vanno di solito a colpire le classi più
povere della nazione indebitata, generando talora proteste e rivolte (negli ultimi anni ci sono
state oltre 20 proteste violente da parte delle fasce più povere, colpite dalle riforme). Es. il
grande progetto cinese: “trappola del debito”, per cui i paesi che sono in debito con la Cina
subiscono una pressione psicologica e geopolitica, che implica il debitore debba comportarsi
e agire come desidera il paese creditore.

-> Caso storico: i vulture funds


All’interno del metodo di recupero dei crediti di uno stato sovrano si devono menzionare
anche i vulture funds (= fondi avvoltoio): essi operano nel mercato dei distressed securities
(= forme di debito come i buoni del tesoro di uno stato che, se irrecuperabili, sono venduti
sul mercato secondario con un forte sconto sul valore nominale. I fondi avvoltoio acquistano
il debito da precedenti creditori che non riescono a recuperare quanto loro dovuto; la loro
strategia implica il far valere le proprie ragioni davanti a un tribunale e richiedere il
pagamento di tutto il dovuto + interessi e penali.

CAP 10
→ Cos’è la cooperazione
Il concetto di cooperazione internazionale, con focus sullo sviluppo, si è evoluto molto negli
anni. Se consideriamo la cooperazione internazionale nelle economie avanzate ed
emergenti, la possiamo ramificare in 4 raggruppamenti, connessi e dinamici nelle relazioni
tra loro:
1. cooperazione multilaterale
2. cooperazione bilaterale
3. organizzazioni non governative (ONG)
4. fondazioni/ altri attori privati
Ciascuno di questi ha peculiarità, risorse, visione e modus operandi differenti, nonostante
operino tutti nella cooperazione per lo sviluppo delle nazioni/ delle aree più disagiate.

→ 1) Cooperazione multilaterale:
La cooperazione multilaterale è spesso partecipata con un interesse nazionale, ma esiste un
“master plan” a cui tutti gli stati che contribuiscono alla realizzazione di un progetto si
allineano. Per comprendere l’orientamento dei progetti intrapresi delle agenzie multilaterali è
bene ricordare i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile al centro della 2030 Agenda for
Sustainable Development (adottata al summit di NY dall'ONU nel 2015): sconfiggere la
povertà / sconfiggere la fame / salute e benessere / istruzione di qualità / parità di genere /
acqua pulita e servizi igienico-sanitari / energia pulita e accessibile / lavoro dignitoso e
crescita economica / imprese, innovazione e infrastrutture / ridurre le disuguaglianze / città e
comunità sostenibili / consumo e produzione responsabili / lotta contro il cambiamento
climatico / la vita sott’acqua / la vita sulla terra / pace, giustizia e istituzioni solide /
partnership per gli obiettivi.
Il rischio tipico di ogni organo multilaterale, compreso l’ONU, che dipende da finanziamenti
esterni: i 17 punti sembrano oggettivi eppure sul loro significato e la loro applicazione ha
luogo un dibattito. Ad es. il punto 7)energia pulita e accessibile: il concetto di pulito potrebbe
avere diverse percezioni, come le centrali nucleari che non emettono nulla salvo vapore
acqueo che però hanno il problema delle batterie esauste (devono essere immagazzinate
finché non si raffreddano, che richiede migliaia di anni, e se non viene fatto in modo
opportuno inquina). Altro es. sul punto 7) è l’energia eolica e solare: le celle di silicio nei
pannelli solari hanno una scadenza e lo smaltimento non è pulito; le pale eoliche sono
composte da materiali minerali che comportano emissioni per l’estrazione e la lavorazione.
Si dovrebbe dire che “Non esistono pasti gratis, ma solo pasti più economici”, e la
soggettività provata per il punto 7) vale per tutti gli altri punti; inoltre ognuno di questi obiettivi
può essere visto come un elemento in crescita sinergica con gli altri, oppure in opposizione.
Ciò ci fa comprendere come in questi 17 obiettivi il concetto di multilateralità nella loro
applicazione pratica crei differenti sfide; a cui si deve aggiungere il fatto che il concetto può
avere ulteriori difficoltà di applicazione nell’ambito di differenti culture.
In sintesi, la visione multilaterale vede la cessione da parte dell’autorità decisionale a un
organo terzo che gestisce le risorse dei singoli stati per coordinare processi di sviluppo.
→ 2) Cooperazione bilaterale:
L’approccio bilaterale è incentrato sui singoli soggetti istituzionali: ogni nazione/ gruppo di
nazioni ha specifiche unità delegate alla cooperazione internazionale (es. in Italia il Ministero
degli esteri). Quando parliamo di erogare denaro e supporto da un punto di vista più pratico/
tecnico, vi sono differenti ministeri/ altri organi che partecipano allo sviluppo bilaterale. Le
azioni di cooperazione possono anche essere ricondotte alle politiche estere adottate dai
singoli paesi (es. le politiche bilaterali di aiuti che Cina e USA hanno adottato nel continente
africano).

-> Caso storico: Cina, USA e Africa


L’Africa è il continente che più di tutti ha ricevuto aiuti di ogni tipo e da ogni parte del mondo,
il caso di competizione, successivo agli anni ‘60, Cina-USA è indicativo. Nel 2000 viene
creato il Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) che include 44 nazioni africane con lo
scopo di fornire servizi di debt relief (=ridiscussione del debito e supporto ad esso) +
programmi di formazione + investimenti; nello stesso periodo viene istituito il China-Africa
Business Council che vede l’annullamento di $1,2 miliardi di debito africano. Nel 2006 viene
pubblicato un rapporto dal governo cinese che definisce la relazione tra le due aree come
win-win (= entrambi guadagnano, nessuno ci perde) + un’ulteriore cancellazione di $1,4
miliardi di debito. Inoltre viene creato un fondo di $5 miliardi basato su prestiti soft e prestiti
commerciali + costruzione di 30 ospedali (con formazione dei lavoratori). Solo tra 2000 e
2012 la Cina ha donato/ supportato progetti per un totale di $75 miliardi. Nello stesso
periodo gli USA hanno investito più di $90 miliardi. Il 70% degli aiuti cinesi sono confluiti in
progetti legati a infrastrutture; invece gli USA hanno incentrato gli aiuti principalmente verso i
settori quali salute ed educazione (= aiuti cinesi sono per supportare la crescita economica
materiale / aiuti americani mirati a un’evoluzione che parte dall’individuo e da un concetto
più legato allo sviluppo). Entrambe le nazioni comunque hanno obiettivi economici: in una
dichiarazione dell’US National Security Advisor Robert O’Brien c’è un “avvertimento” ai
rappresentanti degli stati africani presenti = “l’approccio imprenditoriale e democratico degli
USA è in netto contrasto con l’approccio comunista cinese”, e ha spiegato che la strategia
cinese di finanziamenti mira a intrappolare le capacità di crescita africane.

→ 3) Le ONG:
In questa situazione vediamo un approccio bottom-up, che favorisce una visione grass-root
(= dalle radici), e si indica di solito come la manifestazione della popolazione che può
comprendere meglio i problemi e i dettagli di ogni singola criticità rispetto ai grandi decisori
(questo riguarda sia ONG che le fondazioni e altri attori privati). Le Organizzazioni Non
Governative sono entità recenti, ma attualmente anche fondamentali nel sistema
internazionale degli aiuti. Data la complessità di tale sistema, le ONG hanno trovato modo di
crescere e prosperare in quello che definiamo “ultimo miglio”: organizzazioni di grandi
dimensioni (es. Emergency) si sono strutturate per fare da ponte tra i paesi donatori e quelli
beneficiari. La loro attività è collegata a quella di migliaia di ONG locali (dei paesi riceventi)
che hanno supporto operativo e orientativo. Negli ultimi 40 anni le ONG hanno svolto un
fondamentale ruolo di lobby e advocacy, sviluppo welfare, assistenza umanitaria; lavorando
sul campo dei beneficiari hanno una conoscenza più diretta delle problematiche quotidiane
delle popolazioni. Tuttavia, il problema che spesso hanno è la tendenza alla
burocratizzazione, che sta facendo ora emergere la grande differenza tra INGO (= ong
occidentali) e SNGO (= ong nate nei paesi emergenti). Il livello di burocratizzazione di
alcune INGO è andato crescendo in parallelo con il distanziamento di molti dei loro operatori
dalla realtà che avrebbero dovuto aiutare a svilupparsi. Le accuse verso le INGO sono
molteplici e crescenti: vengono identificate spesso come agenti esterni che rischiano di
interferire con la politica locale (es. per applicare alcuni dei 17 obiettivi per lo sviluppo in
alcune zone rischiano di scontrarsi con il sistema sociale e religioso locale). Resta da capire
quindi se le SNGO possano essere capaci di dialogare direttamente con gli organi
multilaterali/ bilaterali. Il vantaggio delle ONG locali è che hanno le abilità dei “locali” di poter
gestire e risolvere i propri problemi con risorse locali (e solo se necessario con l’accesso a
fondi privati/ pubblici/ internazionali). Oggi internet permette di diffondere un altissimo livello
di intelligence e best practice, e grazie a soluzioni tecnologicamente economiche si può
avere accesso alla rete e di qui a tutte le informazioni disponibili. E’ importante comprendere
però anche che ogni organizzazione è composta da esseri umani per definizione fallibili. Se
le INGO possono vantare personale altamente preparato, le SNGO possono ricorrere a
risorse locali con una significativa riduzione dei costi; il tutto va a vantaggio di un migliore
livello di performance sui progetti di sviluppo.

→ 4) Fondazioni e altri attori privati:


Negli ultimi anni un nuovo tipo di soggetti si è manifestato sulla scena della cooperazione
internazionale, e rappresentano una potenziale fonte di risorse (umane, economiche,
strutturali) per gestire la cooperazione internazionale. Si inserisce nel segmento del
bottom-up: imprenditori sociali, ex politici, celebrità, ecc… che utilizzano la leva della propria
popolarità e della visibilità per raccogliere risorse atte a supportare la cooperazione e lo
sviluppo verso i paesi più poveri. Tramite le loro fondazioni si è sviluppato un nuovo
segmento di collaborazione definito public-private partnership (PPP); il catalizzatore di molti
di questi progetti sono le fondazioni filantropiche con sede in USA. Es. la Rockefeller
Foundation, che è stata la prima a creare una nuova modalità di cooperazione conosciuta
come product development partnership (PDP) incentrata su attività quali lo sviluppo di
vaccini, medicinali, in generale beni pubblici. Ora la più grande fondazione è la Bill &
Melinda Gates Foundation, insieme a William J. Clinton Foundation, che hanno supportato
grandi progetti PPP. Questi progetti non sono a prova di difetto: aggiungono un ulteriore
carico al settore degli aiuti allo sviluppo, anche in termini di validazione dell’efficacia, la
quale passa attraverso un percorso complesso che prevede due diligence da parte
dell’organo donatore, studi di fattibilità, dialoghi con le entità riceventi. L’erogazione degli
aiuti, inoltre, è piena di burocrazia, e negli anni è sempre crescente la richiesta di
trasparenza, che ha imposto un’ulteriore strutturazione di processi di controllo a valle a
monte: ciò ha reso la macchina degli aiuti più lenta. La domanda di legittimazione delle
fondazioni private presso gli organi multilaterali e le ONG crea un ulteriore affaticamento
dell’organizzazione degli aiuti. Il personale addetto a validazione, controllo e analisi delle
operazioni è ulteriormente sotto stress per venire incontro alle richieste provenienti dai
gruppi privati. Ne consegue un’evoluzione inaspettata: le fondazioni e i privati agiscano in
modo indipendente rispetto alle ONG e agli altri organi; dopotutto non esiste un “monopolio”
degli aiuti. Molte fondazioni hanno i capitali e l’expertise interna per poter gestire aiuti in
prima persona. L’evoluzione di un approccio privato agli aiuti porta con sé, tuttavia, alcune
incognite preoccupanti dal punto di vista etico: si può ipotizzare che una fondazione
filantropica possa essere un “cavallo di Troia” per sfruttare un mercato in via di sviluppo
grazie a positive relazioni costruite a seguito di azioni di solidarietà? Questa visione è stata
analizzata già nel 1999 da Prahalad e Hart (e il loro concetto è a base di una parte delle
iniziative filantropiche originate da grandi multinazionali) e la tesi è che nel momento in cui,
grazie ad aiuti, la popolazione dei paesi emergenti esce da una condizione di povertà, può
diventare appetibile in termini di mercato globale. Da questo pensiero sono nate differenti
iniziative che vedono gli aiuti come uno strumento legato fortemente al concetto di ROI
(ritorno di investimento). Questo approccio di aiuti imprenditoriali è sicuramente
un’evoluzione rispetto al modello di aiuti classici, tuttavia apre la strada a una visione molto
più di “mercato” anche nel settore degli aiuti; e appare uno scenario dove l’aiuto potrebbe
arrivare “solo a chi se lo merita e può dare ritorni di investimento”. L’ultima evoluzione di
questo scenario la descrive Braemer nel 2015: la filantropia e il private equity fino a pochi
anni fa erano realtà separate. La continua ricerca di una politica di corporate social
responsability da parte delle aziende (specie di marchio internazionale), ha spinto la finanza
verso lo sviluppo di “prodotti” che abbiano un impatto sulla società. Questo tipo di filantropia
è stato recentemente nominato dal Guardian “filantro-capitalismo”: la teoria che sottende a
questo approccio è che il capitalismo neo-liberista è un meccanismo di ridistribuzione della
ricchezza superiore a ogni altra forma di ridistribuzione. In una visione marcatamente
neoclassica e liberista, la povertà diviene quindi solo un problema da risolvere e i
filantro-capitalisti ottengono un elevato vantaggio d’immagine. Questo fenomeno + altre
condizioni fiscali particolari, rischia di portare a un approccio standard con cui la filantropia
strumentalizza la cooperazione allo sviluppo cooptandola all’interno di una più ampia
strategia aziendale-filantropica. Se questo viene elevato a sistema ci sarebbero importanti
alterazioni sui flussi di aiuti.

CAP 11
→ Economia di genere, analizziamo le disuguaglianze:
In quasi tutti i paesi avanzati le donne ancora guadagnano meno degli uomini a parità di
mansione e anzianità + sono sottorappresentate nelle posizioni di comando + hanno più
difficoltà nell’avanzamento di carriera. Ci sono molti fattori che determinano la persistenza di
questa condizione di disuguaglianza di genere. Se parliamo di gender gap intendiamo le
differenze di opportunità tra uomini e donne in diversi ambiti (sociale, politico, intellettuale,
economico, culturale); e secondo l’ultimo Report con questa velocità forse nemmeno la
prossima generazione assisterà al suo annullamento. Nel mondo le donne alfabetizzate
sono 195 milioni meno degli uomini; sussiste anche l’alfabetizzazione finanziaria: infatti a
livello mondiale quest’ultima è più bassa nelle donne (anche per fattori di mera cultura
economica). Questo si traduce in una posizione più debole in ingresso sul mercato del
lavoro e in una serie di scelte che ne compromettono la stabilità finanziaria. A livello globale
solo 58% delle donne è titolare di un conto corrente a proprio nome (in Italia 4 donne su 10
non hanno un reddito personale). A livello mondiale solo il 12,5% delle lavoratrici negozia il
proprio salario di ingresso, contro il 52% degli uomini, e le donne chiedono più raramente un
aumento; questo conduce a una perdita complessiva di reddito che può arrivare fino a $1,5
milioni nell’arco dell’intera carriera. Inoltre c’è il tema del gender pay gap (= della differenza
retributiva tra uomini e donne a parità di mansione svolta); in EU le donne guadagnano 16%
in meno degli uomini. Il gender gap ci costa, sotto molti punti di vista.

→ Le disuguaglianze nel mercato del lavoro:


Le fondamentali disuguaglianze economiche tra uomini e donne nel mercato del lavoro
sono:
- l’accesso = è segnato dal peso della maternità reale o potenziale (per la normativa
sul congedo di maternità obbligatorio, molto più ampio rispetto quello di paternità,
l’azienda tende a scegliere la risorsa che rimarrà sul posto di lavoro anche in caso di
genitorialità);
- la permanenza = è legata alla maternità, infatti se nel paese non ci sono adeguati
servizi di assistenza all’infanzia la donna dovrà scegliere tra il lavoro e la genitorialità
(nel migliore dei casi potrà optare per una riduzione dell’orario di lavoro);
- la progressione di carriera = è difficile per le lavoratrici raggiungere posizioni apicali,
infatti nel mercato del lavoro è presente 1.”segregazione orizzontale” (=
rappresentanza squilibrata di uno dei due generi all’interno di particolari settori/
professioni senza che ci sia un criterio specifico a determinarlo) che si riflette anche
nell’immaginario collettivo; e 2.”segregazione verticale” (= tetto di cristallo = una
rappresentazione squilibrata di un genere nelle posizioni apicali) dove in genere
all’apice c’è l’uomo.
Attualmente le donne che compongono la forza lavoro sono 655 milioni in meno degli
uomini, ma dalle analisi risulta che le donne studiano di più, si laureano prima e con voti più
alti; quindi le donne studiano con grande successo e poi però non producono reddito sul
mercato del lavoro; questa condizione rappresenta un investimento della società a cui non
corrisponde un ritorno (le spese in istruzione assorbono una quota consistente dei bilanci
pubblici). Non è solo una questione di equità, ma anche di benessere collettivo: un numero
maggiore di persone che lavorano si traduce in maggiore ricchezza per tutti, in un PIL più
elevato e quindi maggiore gettito fiscale per lo stato. L’Italia nel 2019 si colloca in ultima
posizione in EU per occupazione femminile, ed è un problema anche di cultura economica:
secondo una ricerca del Censis per oltre il 63% degli italiani può essere necessario/
opportuno che una donna sacrifichi tempo libero o carriera per dedicarsi alla famiglia; e
infatti il 20% delle lavoratrici esce dal mercato dopo il primo figlio, e 80% dei congedi
parentali è preso dalle donne; non stupisce perchè le pensioni maschili siano più alte del
36% rispetto quelle femminili.

-> Cos’è la motherhood penality?


La maternità viene riconosciuta come uno dei principali fattori di svantaggio per la carriera
delle donne anche in un aprospettiva di lungo periodo (motherhood penality). Le lavoratrici
madri hanno ulteriori condizioni sfavorevoli nel mondo del lavoro rispetto alle discriminazioni
già legate al genere. Attualmente l’ISTAT definisce la condizione italiana con “inverno
demografico”, ovvero il tasso di fertilità si è ridotto in maniera lenta ma inesorabile nel corso
degli ultimi decenni, quindi la popolazione nazionale ha un’elevata percentuale di anziani e
una contenuta di giovani. Ma non è un problema solo italiano: il concedo di maternità
obbligatorio, anche se breve, può precludere opportunità di avanzamento di carriera, e dopo
aver avuto figli le donne lavorano di solito part-time e ad accettare posizioni lavorative che
chiedono minori responsabilità. Per gli uomini invece c’è il “fatherhood bonus”, ovvero i
lavoratori padri guadagnano ⅕ in più rispetto a uomini senza figli. Inoltre una ricerca mostra
come il gender employment gap (= misura la differenza tra tasso di occupazione delle donne
da 20-64 anni rispetto quello degli uomini) nella media EU è all’11,6%, ed aumenta con
l’aumento dei figli = più figli si hanno meno è probabile che una donna conservi la propria
occupazione. Anche per questo motivo in paesi come l’Italia la fertilità viene incoraggiata
attraverso varie forme di sostegno fiscale/ trasferimento monetario (es. “bonus bebè”).
L’effetto di lungo termine di politiche simili tuttavia non è confermato: la decisione di
riprodursi infatti presuppone un impegno che copre un arco temporale ampio, mentre la
proiezione delle misure una tantum è limitata nel tempo = la fertilità non dipende in maniera
stabile dalle iniziative a favore. Essa è correlata:
a) con la disoccupazione (e difficoltà a trovare occupazione): peggiori performance
economiche di un paese si associa un livello di fertilità più basso, perchè i costi legati
al mantenimento di un figlio diventano più difficili da sostenere.
b) con il costo opportunità di diventare genitori: il costo della scelta di avere figli rispetto
alle alternative è molto più basso nel caso in cui il mercato del lavoro abbia poco da
offrire ai potenziali genitori.
La presenza di bambini in famiglia è un fattore fondamentale per spiegare la variazione nella
partecipazione delle donne al mercato del lavoro = la richiesta di lavoro da parte delle donne
sposate e neo-madri è generalmente più modesta rispetto a quella di donne sposate ma
senza figli. Non è un fattore solo culturale: in molti paesi emergenti l’assenza di politiche di
cura dei bambini e mancanza di relative strutture rende questo tema ancora più impattante
sul mercato del lavoro femminile. Infatti, in assenza di strutture apposite, le donne sono
chiamate socialmente a effettuare una scelta per combinare lavoro e cura, con il risultato
che molto spesso scelgono impieghi part-time o meno impegnativi. Anche nei paesi del Nord
Europa, sebbene un’alta partecipazione femminile nella forza lavoro + sistema di
assicurazione sociale estensivo, le donne non accedono alle posizioni di carriera più elevate
(che sono anche quelle meglio retribuite); il tema è ancora quello della maternità.

→ Indici:
Il fenomeno della disuguaglianza di genere è complesso e composto da numerose
dimensioni diverse che si sovrappongono, e per coglierne l’ampiezza si utilizzano gli indici.

-> Global Gender Gap Index:


Viene pubblicato ogni anno dal 2006, dal World Economic Forum, ed è un indicatore che
misura i gap: si pone in una prospettiva dinamica, cercando di cogliere quanto ancora
manchi alla parità in ognuna delle dimensioni analizzate + la graduatoria mondiale è
composta in base all’uguaglianza di genere (= mantenendo sempre la prospettiva del
raggiungimento dell’equità). Le dimensioni chiave sono:
1. opportunità e partecipazione economica = contiene tre variabili a)gap di
partecipazione, differenza donne e uomini in partecipazione alla forza lavoro; b)gap
di remunerazione; c)gap di avanzamento delle donne.
2. istruzione = analizza il gap nell’attuale accesso all’istruzione; e in una prospettiva di
lungo periodo, l’impegno del paese a far sì che tasso di alfabetizzazione e istruzione
siano uguali per maschi e femmine.
3. salute e sopravvivenza = analizza la differenza tra salute maschile e femminile,
utilizza due indicatori a)quota di bambine nate rispetto ai bambini; b)gap tra
l’aspettativa di vita delle donne e quella degli uomini, (tenendo conto di
malnutrizione, violenze, malattie ecc).
4. empowerment politico = misura il gap ai più alti livelli del processo decisionale
politico (es. di variabile usata è n. di donne a guida dei Ministeri).
L’analisi è fatta su 153 paesi per verificare i progressi che ciascuno ha conseguito nella
riduzione del gender gap. Per l’11esimo anno di fila, l’Islanda è il paese con maggiore equità
di genere al mondo, mostrando anche dei miglioramenti. L’Italia si colloca in 76esima
posizione; mentre nell’ultimo anno sono maggiormente migliorati Etiopia, Spagna, Mali,
Albania, Messico. La macro-area geografica che mostra un grado di equità più elevata è
l’Europa occidentale, seguita dal Nord America + dall’America Latina + Caraibi. Le aree più
lontane dalla parità sono l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale. La maggiore disparità
rimane in ambito dell’empowerment politico, seguito dall’opportunità e partecipazione e
partecipazione economica, mentre l’area con minore sofferenza è quella legata alla salute e
sopravvivenza. Sul fronte della partecipazione economica, che comunque è migliorata, le
donne rappresentano il 36% dei manager in posizione senior sia nel settore pubblico che in
quello privato + la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro rimane stabile e
peggiorano le disparità in ambito finanziario. Si sono fatti importanti progressi nell’istruzione:
la totale parità è stata raggiunta da 35 paesi, ciononostante il 10% delle ragazze tra i 15-24
anni non è alfabetizzato, e spesso le conoscenze acquisite dalle donne non sono in linea
con quelle richieste per avere successo nel mercato del lavoro. Secondo questo indice, se le
condizioni rimangono queste, il gap si chiuderà in 100 anni.

-> Social Institution and Gender Index:


Questo indice viene sviluppato nell’ambito del Centro Sviluppo dell’OCSE, e misura la
discriminazione nei confronti delle donne nelle istituzioni sociali (= leggi formali e informali),
nelle norme sociali e nella pratica; e analizza 180 paesi. Combina variabili di natura
quantitativa e qualitativa che coprono l’intero arco di vita di una donna, mostrando i nodi
fondamentali che rischiano di introdurla/ farla rimanere in una condizione di povertà e
disempowerment. Le dimensioni fondamentali sono:
1. discriminazione all’interno della famiglia = analizza le istituzioni sociali che limitano il
potere decisionale delle donne e ne sminuiscono lo status nel nucleo famigliare;
sono norme scritte/ consuetudini/ superstizioni/ credenze religiose; è importante
analizzarle perchè il potere decisionale della donna e il suo ruolo in famiglia incidono
sulla possibilità di scegliere il percorso di crescita + sul benessere dell’intera famiglia.
2. integrità fisica limitata = analizza le istituzioni sociali che limitano il controllo del
proprio corpo da parte di donne + ne accrescono la vulnerabilità + normalizzano
comportamenti di violenza di genere; includono anche tutte le leggi formali e informali
che incidono sull’autonomia riproduttiva delle donne e ne consentono la violenza; ha
forti ripercussioni anche sui figli + sugli indicatori di sviluppo del paese (perché
espone maggiormente le donne alla povertà).
3. accesso limitato a risorse produttive e finanziarie = si valutano le restrizioni
all’accesso e al controllo su risorse economiche e produttive critiche da parte delle
donne; scarse garanzie su questi aspetti riducono l’opportunità delle donne di
produrre reddito + indeboliscono il loro potere decisionale nelle famiglie; il risultato è
l’aumento di insicurezza alimentare (per donne e loro famiglie), rendendo tutti più
vulnerabili alla povertà.
4. libertà civili limitate = analizza leggi/ consuetudini/ pratiche che limitano l’accesso
delle donne allo spazio pubblico + restringono la loro voce politica + impediscono la
partecipazione in tutti gli aspetti della vita pubblica + qualsivoglia atteggiamento
negativo nei confronti delle donne in qualità di leader; l’importanza di questo
sub-indice è legata alla partecipazione delle donne nelle attività pubbliche = nel
processo decisionale pubblico.
L’indice include una distinzione dei paesi in 5 gruppi ordinati in base al livello di
discriminazione:
1) molto basso, punteggio inferiore al 20%, ne fanno parte 32 paesi;
2) basso, “” tra il 20% e il 30%, “” 43 paesi;
3) medio, “” tra il 30% e il 40%, “” 16 paesi;
4) alto, “” tra il 40% e il 50%, “” 17 paesi;
5) molto alto, punteggio superiore al 50%, ne fanno parte 12 paesi.
Le prime 20 posizioni del ranking sono occupate quasi solo da paesi avanzati, in particolare
da numerosi paesi del Nord Europa; mentre nelle ultime posizioni per equità abbiamo paesi
che hanno affrontato conflitti importanti e paesi del continente africano / dell’America Latina.

-> Gender Equality Index:


L’indice viene pubblicato dall’European Institute for Gender Equality (EIGE) e analizza
l’uguaglianza di genere nei paesi membri dell’Unione Europea, coprendo 31 indicatori
raggruppati in 6 aree principali: 1)lavoro; 2)denaro; 3)conoscenza; 4)tempo; 5)potere;
6)salute + ulteriori domini di indagine: la violenza e le disuguaglianze internazionali (sono
tutti collegati agli impegni assunti dall’UE in tema di uguaglianza di genere + obiettivi
dichiarati nella Dichiarazione di Pechino). Nel report 2020 i paesi membri UE hanno un
punteggio medio di 67,9 punti = evidenzia l’urgenza di un miglioramento dell’uguaglianza di
genere. Con questo ritmo i paesi UE raggiungeranno la piena uguaglianza tra i generi tra più
di 60 anni. Le maggiori disuguaglianze di genere si vedono nell’ambito del potere (anche se
ci sono dei miglioramenti di alcuni indicatori, es. la partecipazione delle donne al
decision-making economico); ed è critico anche l’ambito relativo al tempo dedicato ad attività
di cura non retribuite. Invece c’è un miglioramento nell’ambito della conoscenza. Nell’ambito
del lavoro le donne occupate sono in aumento, ma permane una radicata segregazione
orizzontale che determina disuguaglianze salariali di genere, quindi maggior rischio di
povertà per le donne. Comunque la distanza rispetto all’obiettivo del raggiungimento
dell’uguaglianza di genere è molto varia tra i diversi paesi membri (ma vi sono 10 paesi che
sono sopra la media europea, es. Svezia, Danimarca, Francia, Finlandia, Paesi Bassi, UK,..;
mentre le posizioni peggiori sono l’Ungheria e la Grecia).

→ Come colmare il gender gap?


La Commissione Europea ha fatto una ricerca: la disuguaglianza di genere ci costa, in EU
costa ogni anno 370 miliardi di euro; secondo i risultati, se migliorasse l’uguaglianza di
genere entro il 2050, il PIL dell’area potrebbe segnare +9,6%. Sul piano globale, se il gender
gap si riducesse entro il 2050 il PIL mondiale andrebbe a $12.000 miliardi. Inoltre è stato
dimostrato una correlazione positiva tra la presenza di donne nelle posizioni di top
management all’interno delle imprese e il conseguimento di migliori risultati finanziari.
Ciononostante, negli ultimi decenni stiamo assistendo a quello che viene definito come
“paradox of declining female happiness”, ovvero la felicità delle donne è in declino ed è
arrivata ad essere inferiore rispetto a quella degli uomini. Ciò deriva dal fatto che ora il
benchmark sono gli uomini, e le donne sperimentano la frustrazione di poter vedere cosa c’è
oltre il tetto di cristallo senza poterlo oltrepassare.

-> 3 azioni per colmare il gender gap:


a) prendere spunto dalla Womenomics e porre il focus sul rientro delle donne nel
mercato del lavoro (riconsiderare il congedo di paternità obbligatorio + stanziamento
di risorse per la cura dei bambini e intervenire sulle aziende).
b) passare per le istituzioni, ascoltando i bisogni delle donne direttamente dalla loro
voce.
c) modificare la narrazione e supportare e potenziare le reti di donne (a differenza di
quel che si pensa, le donne in posizioni apicali non tendono ad escludere altre
donne).
-> Sciogliere il nodo fondamentale delle attività di cura non retribuite:
Il lavoro di cura non retribuito delle donne contribuisce con circa $10.000 miliardi al PIL
annuo mondiale; al mondo non c’è un solo paese dove gli uomini spendano lo stesso
ammontare di tempo delle donne in queste attività. Nel 2019, a livello mondiale, il 76,2%
delle ore spese in attività di cura non retribuite è a carico delle donne (3 volte maggiore
rispetto agli uomini) e che per far fronte a questo tipo di attività solitamente accettano lavori
part-time. Questi dati richiedono un ripensamento collettivo delle attività di cura, queste,
infatti, sono uno degli strumenti fondamentali per liberare la forza lavoro femminile e
contribuire alla produzione di ricchezza per l’intero sistema economico.

-> Quote di genere:


Per i dati raccolti nel 2019, i parlamenti nazionali dei paesi membri UE sono composti al
67,8% da uomini e 32,2% da donne + l’unico paese membro ad avere oltre il 40% donne nei
board dei consigli d’amministrazione è la Francia (45,2%); non è solo un problema
aziendale: a sedere nel parlamento europeo sono per 60% uomini. Uno degli strumenti più
discussi per ribilanciare lo squilibrio sono le quote, sia in ambito di rappresentanza politica
sia della composizione dei consigli di amministrazione. All’interno dell’UE, meno della metà
dei paesi si è dotata di quote legislative (usate per garantire una proporzione minima di
ciascun genere tra le figure candidate); sono in vigore in 11. Tuttavia, i dati mostrano che
con il passare del tempo l’introduzione delle quote accelera un percorso culturale di
inclusione. Anche a livello aziendale le quote si sono dimostrate efficaci: dal 2010, i paesi
che le hanno adottate, il numero di donne nominate a consigli di amministrazione è
aumentato di 27 punti percent, mentre nei paesi dove non sono state inserite non si sono
visti progressi. In Italia nel 2020, le quote sono state prolungate per altri sei mandati ulteriori
(18 anni) + è stata aumentata la quota riservata alle donne da ⅓ a ⅖ degli organi di
amministrazione e controllo. E’ quindi uno strumento che vorremmo non fosse necessario,
ma i dati dimostrano che realmente riesce ad agevolare processi culturali che altrimenti
richiederebbero un arco temporale lunghissimo.

CAP 12
I Trend Emergenti
→ Industria 4.0:
Il termine Industria 4.0 (I4.0) viene usato per la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover,
dove viene presentata un’ipotesi di progetto. La I4.0 è la convergenza di numerose
tecnologie divenute mature negli ultimi 10-15 anni: somma di tecnologie hard + tecnologie
soft + big data (=grandi quantità di dati generati da umani, natura, entità più o meno
dipendenti dall’azione umana). La vera novità della I4.0 è che tutte queste tecnologie
collaborano tra loro in modo sinergico e potenzialmente indipendente dall’azione umana: in
uno scenario tipo (es. di produzione di un prodotto commerciale), lo scambio per la maggior
parte dei dati non richiede l’intervento umano, salvo che per alcune scelte grafiche ed
estetiche del prodotto, ma in generale questa industria richiede un limitato apporto umano.

→ Sostituzione essere umano-macchina:


L’automazione e la produzione con sistemi meccanici sono cresciute nei secoli, attualmente
la sostituzione dell’essere umano a favore di sistemi automatizzati / digitali / più efficaci è
uno scenario che si sta realizzando velocemente. La crescente pervasività di software
apparentemente intelligenti è un fenomeno che rischia di spodestare i cosiddetti “colletti
bianchi”, ovvero tutti quegli umani che svolgono un’attività in prevalenza non manuale (vista
l’abilità dell’ I4.0 di acquisire una mole di dati quantitativamente e qualitativamente rilevante
+ di valorizzare questi dati (inoltre recentemente è stato provato, tramite la prova di scrittura
di un articolo giornalistico, che i computer sono anche in grado di svolgere processi creativi).

→ Potenziamento umano:
Uno dei temi dibattuti è anche quello del potenziamento dell’essere umano: due sono i
percorsi che la scienza intraprende in questo campo
1. il primo è genetico = es. modifiche genetiche per ridurre potenziali malattie
geneticamente trasmissibili (osteggiato da diverse comunità religiose); il rischio
manifesto di manipolare il DNA di un individuo è quello di non poter prevedere la loro
evoluzione e correlazione.
2. il secondo comporta modifiche tecnologiche = è più accettabile e si divide in due
filoni
a) il wetware/ bioware: serie di impianti tecnologici creati con materiale vivente;
es. impianti di memoria aggiuntiva / maggiore resistenza ossea
b) l’hardware: insieme delle tecnologie che possono essere integrate nel corpo
umano/ nel sistema nervoso + oltre ad ampliamento cognitivo si aggiunge
ampliamento delle facoltà umane.
Tutte queste tecnologie e aumenti della natura fisica umana hanno grandi potenzialità ma
anche criticità legate all’aspetto etico-legale.

→ Smart working, la nuova “normalità”:


C’è un dibattito se lavorare da casa possa effettivamente considerarsi smart-working, ma
sicuro questa modalità di lavoro ha delle potenzialità per divenire un trend per il prossimo
modo di lavorare. I vantaggi sono sia per i datori di lavoro, che risparmiano su affitti di
locazioni + sugli straordinari + sulle assenze/ permessi, sia per i dipendenti, che risparmiano
tempo + costi di trasporto + hanno maggiore equilibrio tra vita privata-lavoro. Si aggiungono
a questo fattori esterni: minor richiesta energetica + meno code in strada + ritorno alla
comunità (e maggiori attenzioni a questa dimensione, non più città dormitori). Tuttavia,
questo fenomeno che è entrato in modo massivo nelle nostre vite, ha ricadute negative su
differenti classi sociali e altre entità facenti parte del tessuto economico. Verrebbero prodotti
cambiamenti radicali di alcuni asset finanziari ed economici, e questi sono fattibili in un arco
temporale di alcune generazioni, ma comunque si parla di una trasformazione parziale del
lavoro da ufficio a remoto in pochi anni e quindi lo shock sistemico sarà profondo e violento.
Il risultato atteso sembra sarà che il 30% della forza lavoro e/o uffici adotterà la modalità da
remoto.

→ Cambiamento climatico:
I cambiamenti climatici sono eventi con cadenza periodica sulla Terra, ora stiamo entrando
in una fase di cambiamento climatico terrestre ma che questo sia causato 100% dall’uomo è
dibattibile (nonostante sia opinione diffusa nella comunità scientifica). Sicuramente questo
cambiamento avrà un impatto sulla vita umana e animale; tra le conseguenze maggiori che
interesseranno gli umani:
- riduzione delle risorse idriche
- riduzione di terreni agricoli
- correnti oceaniche o atmosferiche che cambiano percorsi o intensità
- aumento anche di fenomeni estremi come tifoni, uragani, monsoni ecc
- desertificazione in crescita a causa del calore e del cambiamento dei percorsi
atmosferici
- riduzione della diversità del bioma.
Esistono, però, anche scenari localizzati di percorsi virtuosi:
- reintroduzione/ stabilizzazione quantitativa di specie predatorie per ristabilire la
piramide naturale
- aumento di parchi di protezione
- operazione di recupero di terreno
- miglioramento e diffusione di soluzioni energetiche rinnovabili
- studio e valutazione di progetti di geoingegneria
Tutti questi fenomeni sono dinamicamente correlati tra loro e interagiscono con gli altri trend
trattati, si tratta di un’interazione spesso non positiva.

→ De-globalizzazione:
E’ il trend più recente: dopo la 2WW, la globalizzazione è stata un “mantra” di ogni nazione
occidentale, ma la tendenza attuale è di rivalutare quanto la globalizzazione sia
effettivamente un vantaggio. Alcuni temi discussi sono:
- impatto della globalizzazione sull’inquinamento
- disboscamento per sostituire le foreste con coltivazioni estensive
- mis-transfer pricing + relativa evasione-elusione fiscale
- paradisi fiscali che hanno effetto negativo sulla raccolta delle tasse + facilitano il
finanziamento del terrorismo e altri crimini internazionali.
Questi e altri temi hanno iniziato a incrinare la percezione della globalizzazione a partire dal
2008, a questo fenomeno si aggiunge una crescente disoccupazione nella classe media
occidentale; la situazione ha contribuito alla formazione di numerosi partiti e movimenti
politici + a una maggiore indipendenza economica = ha portato all’affermazione di partiti e
leader politici nazionalisti. Emerge la necessità di una nuova evoluzione dell’attuale
globalizzazione: gli odierni standard di consumo dei paesi avanzati sono inapplicabili su
scala globale; è chiaro che la globalizzazione stia attraversando un periodo di crisi = è in atto
una rivisitazione del concetto stesso di questa e delle relative applicazioni.

→ Virtualizzazione della moneta:


Molti stati o blocchi di nazioni hanno cominciato a dispiegare risorse e tecnologie per
rendere digitale la moneta; negli ultimi 50 anni si sono evolute differenti forme di credito non
contante. Oggi il percorso di evoluzione ci porta sempre più vicini ad avere una moneta
digitale. Se da un punto di vista tecnologico questo percorso è già fattibile, ci sono però due
grandi rischi, soprattutto per i cittadini:
1. distanziamento dei cittadini dalla moneta, spersonalizzazione della stessa, con
ricaduta di una maggiore flessibilità e strumentalizzazione del denaro che potrebbe
portare a fenomeni di manipolazione per forzare i cittadini a spenderlo anzichè
conservarlo
2. rischio di facile pirateria informatica a livello aziendale o statale
La domanda è: quanto veramente la digitalizzazione e la smaterializzazione del denaro sono
un effettivo vantaggio per il cittadino e quanto per la finanza internazionale?

→ Space economy di ricaduta:


Si parla di una maggior espansione del genere umano, e del resto del bioma terrestre, oltre
la Terra per evitare un rischio di estinzione. E’ plausibile che nei prossimi decenni
assisteremo a uno sviluppo dell’umanità in stazioni orbitanti come punto sosta della rotta
Terra-Luna + lo sfruttamento minerario di asteroidi + possibile sbarco su Marte: sicuramente
nei prossimi 20 anni si assisterà a una conseguenza molto pratica dell’esplorazione
spaziale, ovvero le ricadute tecnologiche. Tra le tecnologie che probabilmente saranno di
ricaduta e vantaggio per la società:
- miglioramento della tecnologia delle batterie a uso civile e militare
- sviluppo di fusione nucleare utilizzando Elio-3
- miglioramento dell’archiviazione di dati tramite computer più performanti
- riduzione dell’utilizzo di energia per voli + altre soluzioni aerodinamiche
- accresciuta mappatura di risorse naturali e asset ecologici tramite studio satellitare
- miglioramento delle telecomunicazioni + crollo dei costi relativi grazie a flotte di micro
satelliti
- accresciuta ricerca industriale + materiali performanti che richiedono minor consumo
di materie prime
La space economy di seconda generazione (post Guerra Fredda) può essere un volano
positivo sia per l’economia che per il miglioramento dello scenario ambientale.

→ Consolidazione di monopoli:
Anche questo è un fenomeno relativamente nuovo, in particolare se parliamo del mondo
digitale. Il capitalismo e la globalizzazione hanno insito il concetto di monopoli: negli ultimi
decenni abbiamo osservato differenti cartelli creati, ufficialmente o ufficiosamente, da
aziende operanti in vari settori. Tuttavia parliamo sempre di singole entità che creano un
oligopolio; la consolidazione dei monopoli, ora e prossimamente, sarà probabilmente favorita
dall’economia delle piattaforme (su cui stanno discutendo già UE e USA). Lo scenario
dell’aggregazione di monopoli appare quindi di estrema attualità, e rappresenta, se non
viene elaborato correttamente dal legislatore, un rischio effettivo per la libertà + per
l’economia reale stessa.

→ Decrescita demografica:
Negli ultimi decenni si discute il rischio di carenza di risorse naturali per supportare la
crescita della popolazione, oppure discutendo il rischio che la continua crescita demografica
mondiale sia insostenibile per le risorse terrestri disponibili (intendendo l’intera realtà delle
risorse). Si stima che si raggiungerà uno stallo demografico entro il 2100: i paesi dell’OCSE
sono già in calo demografico con un tasso di natalità inferiore al livello di sostituzione / la
Cina, con la politica del figlio unico, si allineerà alla stabilità demografica / l’India sarà l’ultima
a raggiungerla / l’Africa sarà l’ultima entità continente a ridurre la sua demografia a causa
delle diverse politiche dei singoli stati (uguale per l’Europa che è composta da più stati con
politiche diverse). L’EU è l’esempio di “denatalità dolce” = la riduzione demografica non è
frutto di un piano di contenimento, ma della naturale evoluzione sociale urbana (il costo della
vita in città è maggiore di quello in campagna, e l’EU è uno dei continenti con maggiore
densità di popolazione per km2 + anche la percezione dell’importanza della qualità della
vita). Si ritiene plausibile che la denatalità dolce influenzerà il mondo, man mano che ci sarà
un crescente urbanizzazione, e potrà offrire un naturale modo di equilibrare la crescita.

→ Economia di genere:
Donne e uomini sono differenti: questo assunto solo di recente ha iniziato a manifestare le
sue ricadute economiche e sociali, nella considerazione del valore aggiunto che la forza
femminile può portare alla creazione della ricchezza nazionale. Tuttavia il tema ancora oggi
fa fatica ad affermarsi. Il concetto di economia di genere porta all’attenzione del legislatore
una serie di sfide che le donne devono affrontare sul mercato del lavoro. Dalle analisi poi si
è scoperto che le donne hanno una capacità più elevata di analisi del rischio rispetto
all’uomo (soprattutto nell’economia e finanza) + hanno approccio più empatico e analitico
(dove l’uomo di solito è più aggressivo) = un approccio più conservativo (aka femminile) può
essere un ottimo contrappeso a quello aggressivo (aka maschile); e un maggior equilibrio
nei modelli decisionali tra uomini e donne è una tendenza in crescita nei paesi OCSE.

Tutti gli eventi/ trend trattati sono eventi che già singolarmente plasmeranno l’evoluzione
umana, ma se uniti tra loro diventano dei game changer, quindi tenerne conto per i prossimi
10-20 anni è vitale per comprendere come la Terra e i suoi abitanti muteranno.

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