Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
CAP 1
Quando parliamo di crescita ci riferiamo all’incremento della ricchezza di un paese,
generalmente indicato dal PIL. Questo approccio nasce dall’idea stessa di capitalismo,
ovvero un sistema produttivo adottato dalla quasi totalità dei paesi, basato sul principio
dell’accumulazione (in particolare del capitale fisico -> se aumenterà il numero dei
macchinari utilizzati dalle imprese del paese, aumenterà la produzione, quindi aumenterà il
consumo -> le teorie poi si concentrano su diversi tipi di capitale, che possono essere
soggetti al processo di accumulazione).
Quando parliamo di sviluppo, invece, ci riferiamo al processo di trasformazione del paese
che prevede un miglioramento del livello di benessere della popolazione. Il benessere
include il reddito e quindi di conseguenza il concetto di crescita, ma questa non è l’unico
indicatore che serve per determinare il livello di sviluppo; infatti questo comprende anche un
incremento generale del livello di dotazione sociale e culturale del paese -> il processo di
sviluppo porta quindi un paese a una condizione maggiore di welfare e di impiego più
efficiente delle capacità produttive.
Possiamo quindi dividere i paesi in paesi avanzati - dove è avvenuto il processo di crescita,
e quasi sempre anche quello di sviluppo - e i paesi emergenti - che ancora non hanno
raggiunto questo obiettivo.
E’ impossibile determinare un unico indicatore che riesca a cogliere tutti gli aspetti dello
sviluppo, perciò è necessario isolare i principali fattori di sviluppo:
1. capitale fisico
-> teorie mostrano il legame tra l’accumulazione di capitale fisico di un paese e la
sua crescita economica, si tratta di un processo virtuoso che si autoalimenta =
aumentano gli investimenti in capitale fisico, cresce l’occupazione, si produce nuovo
reddito e questo dà impulso ai consumi, che a loro volta fanno aumentare la
produzione, e quindi rendono necessario l’acquisto di nuovi macchinari e nuova forza
lavoro.
2. tecnologia
-> il fattore tecnologico è uno dei cardini della crescita e dello sviluppo, infatti i paesi
avanzati sono quelli dotati di tecnologie più all’avanguardia (che vengono messe al
servizio della produzione). Sono rilevanti due elementi:
- il tipo di tecnologia utilizzata → Schumpeter la chiama “innovazione incrementale”,
ovvero il processo tecnologico si è basato su innovazioni ulteriori che sono state
sviluppate a partire dalla prima innovazione radicale. Ciò ha condotto oggi a un certo
tipo di dotazione tecnologica di cui beneficiano principalmente i produttori e
consumatori dei paesi più avanzati, mentre i paesi in via di sviluppo utilizzano
tecnologie con inferiore capacità produttiva e minore sostenibilità ambientale.
- il trasferimento di tecnologia da un paese all’altro → alcuni dei più riusciti progetti di
cooperazione internazionale si basano sul trasferimento di tecnologia, oltre che di
capitale monetario. Tuttavia, in alcuni paesi emergenti, esiste un vincolo legato
all’assenza delle infrastrutture necessarie per supportare questa tecnologia, ecco
perché sarebbe più efficace importare la tecnologia affiancata da un trasferimento di
conoscenze. Il principale ostacolo è economico, perché i paesi emergenti non hanno
i mezzi per acquistare le tecnologie che renderebbe il loro sistema produttivo più
efficace; e questo pesa sul loro ruolo nella competizione sui mercati internazionali
(anche perché spesso la tecnologia che viene ceduta ai paesi emergenti da quelli
ricchi è desueta). La tecnologia è un fattore di sviluppo perché è un elemento in
grado di migliorare la vita dei cittadini contribuendo al benessere e quindi alla
trasformazione strutturale del paese.
4. istituzioni
-> sotto il profilo economico, le istituzioni rispondono al problema dell’esiguità delle
risorse, che non sono infinite. Ecco perché occorre comprendere come utilizzarle al
meglio: uno dei fattori cardine dell’economia politica, e uno dei principali obiettivi
consiste infatti nel trovare il modo di massimizzare l’efficacia di utilizzo delle risorse.
Le istituzioni hanno lo scopo di garantire che le risorse siano adeguatamente
collocate e utilizzate, e che vengano rispettati alcuni principi fondamentali per la
riuscita di un sistema capitalistico. Ciò consente di ridurre i “costi di transazione”: se
le istituzioni sono efficienti i costi di transazione si riducono o si minimizzano, perché
lo stato stabilisce un insieme di regole codificate che abbattono questi costi e
migliorano la vita dei cittadini, contribuendo ai processi di crescita e sviluppo. Queste
operazioni vengono condotte anche da investitori internazionali (= coloro che
decidono di scommettere sulle buone performance di un paese). In questa visione, il
ruolo delle istituzioni è fondamentale per il benessere della popolazione.
Negli ultimi decenni, per misurare lo sviluppo di un paese, l’attenzione si è spostata su indici
più complessi, meno quantitativi e in grado di fornire valutazioni generali sul livello di
benessere della popolazione.
→ PIL è il valore di mercato dei beni e dei servizi prodotti in un paese in un determinato
periodo di tempo = rappresenta la ricchezza prodotta in un anno, espressa in valuta. I beni e
i servizi inclusi nel PIL sono a un prezzo di mercato che viene stabilito dalla legge della
domanda e dell’offerta. Quindi gli scambi che non danno luogo a una transazione economica
sono esclusi dal calcolo del PIL, mentre quest’ultimo considera solo i beni/servizi finali
(ovvero che non vengono ulteriormente lavorati), sia di consumo che di investimento. Le
importazioni rappresentano una fuoriuscita di reddito dal paese, viceversa le esportazioni.
“Interno” perché il PIL indica il valore di consumi, investimenti ed esportazioni nette
all’interno dei confini di un paese; “lordo” perchè è al lordo dell’ammortamento (ovvero
include il deprezzamento delle macchine, impianti, attrezzature produttive). Il PIL può essere
stimato a prezzi correnti o a prezzi costanti: se si stima a prezzi correnti subisce l’inflazione
e per questo viene definito anche PIL nominale, se si stima in rapporto ai prezzi di un certo
“anno base” si elimina l’effetto dell’inflazione e per questo viene definito anche PIL reale.
Il PIL rappresenta una misura solo approssimativa del benessere, in quanto non fornisce
indicazioni generali sulla distribuzione effettiva del reddito né sull'effettiva capacità in termini
di potere d’acquisto della popolazione.
→PNL (Prodotto Nazionale Lordo) è un altro indicatore utilizzato per la stima dello sviluppo,
misura i beni e servizi finali prodotti, ma si ricava dal PIL aggiungendoci imposte, tasse sui
prodotti, e i sussidi. Inoltre, vengono aggiunti i redditi netti ottenuti all’estero dai cittadini del
paese, e sottratti quelli pagati ai cittadini stranieri dentro al paese. Il PNL quindi misura la
ricchezza che i cittadini di un paese riescono a produrre, sia dentro che fuori dei propri
confini nazionali. Anche il PNL può essere stimato a prezzi correnti o costanti.
→PIL pro capite: è l’indicatore di crescita che più si avvicina alla misurazione del livello di
benessere di una popolazione, seppur teorica. E’ infatti la stima della ricchezza potenziale
dei cittadini (PIL / popolaz). Però rimane teorico in quanto si basa su un ideale di equità
distributiva, infatti sappiamo che in ciascun paese vi sono forti disuguaglianze di reddito.
Viene utilizzato il dollaro statunitense come valuta di riferimento, tuttavia il potere di acquisto
di un dollaro varia da paese a paese, perciò viene applicato il metodo della parità del potere
di acquisto (Purchasing Power Parity, PPP) che risponde a questo problema (es. si crea un
paniere di 300 beni che rappresentano le abitudini di acquisto di un consumatore standard di
un dato paese, poi si vede quanti di questi sono acquistabili con un dollaro, e si stima il reale
potere di acquisto del consumatore medio del paese).
Il PIL pro capite su ranking: se il PIL pro capite è molto modesto vorrà dire che in quel paese
si produce poca ricchezza, a prescindere dalla presenza o meno di una perfetta equità
distributiva. In cima alla lista per elevato PIL pro capite abbiamo unicamente paesi avanzati,
perlopiù del Nord del mondo.
La misurazione del PIL pro capite può essere più accurata se si utilizza il metodo della parità
del potere d’acquisto. In questo modo otteniamo due benefici: si evita di sovrastimare o
sottostimare il reale potere d’acquisto, e si rapporta il potere d’acquisto del dollaro alle
abitudini di spesa locali. Alla luce dell’effettivo potere d’acquisto pro capite, il paese più ricco
del 2019 è il Macao (lo succedono il Lussemburgo e paesi come gli Emirati Arabi Uniti;
mentre ne escono altri come Finlandia o Canada); la situazione dei paesi più poveri rimane
stabile.
Già nel 1968 R. F. Kennedy affermava che “il PIL misura tutto eccetto ciò che rende la vita
veramente degna di essere vissuta”. Al PIL si rimprovera, infatti, il fatto di essere un
indicatore che nasconde le disuguaglianze, e alcuni criticano anche l’identificazione stessa
tra la ricchezza materiale e l’effettivo livello di benessere degli individui. Sappiamo che il
benessere di un individuo dipende in parte da fattori extra-materiali (= che non sono oggetto
di scambio con una contropartita monetaria). Infine, quando misuriamo la produzione
nazionale attraverso il PIL, teniamo conto esclusivamente delle transazioni ufficiali che
vengono registrate nella contabilità nazionale. Le attività che non vengono contabilizzate,
dette informali, si dividono in attività per la sopravvivenza (= diffuse soprattutto nei paesi più
poveri: autoproduzione e autoconsumo) e attività irregolari (= settore sommerso aka
pagamenti in nero + settore illegale aka reati). Se dovessimo stimare correttamente il PIL
dovremmo poter includere e calcolare anche le attività informali, non facendolo il PIL viene
sempre sottostimato. Non tiene conto neppure delle forme di mercato, dei fattori ambientali,
delle esternalità derivanti dalla produzione.
CAP 2
Abbiamo detto che per crescita intendiamo un incremento di valore della ricchezza prodotta
(in PIL), mentre lo sviluppo rappresenta una trasformazione strutturale di un sistema
economico che porta a un maggiore grado di benessere della popolazione, ecco perché
trovare un indicatore di sviluppo univoco è difficile.
Durante gli anni il percorso di crescita effettuato dal paese avanzato è stato preso come
modello da applicare nel paese in via di sviluppo, questo però porta tre forti limitazioni:
1. non vengono considerate le specificità del paese emergente
2. si parte dal presupposto errato che il paese avanzato rappresenti un caso di
successo dal quale il paese emergente deve imparare
3. non si tiene conto del fatto che i progressi ottenuti dai paesi avanzati sono legati a
doppio giro con le innovazioni tecnologiche che nel corso degli anni e dei secoli
questi paesi hanno sviluppato, e che ora sono disponibili potenzialmente per i paesi
emergenti (ma non economicamente accessibili).
Le teorie della crescita poggiano sul modello capitalistico, ovvero sul principio di
accumulazione. In questa prospettiva, i paesi emergenti sono nello stadio iniziale di un
processo caratterizzato da una linea evolutiva “naturale” dal quale sono passati per primi i
paesi avanzati. La posizione dei paesi avanzati non viene intaccata neppure dai programmi
di sviluppo portati avanti da FMI (Fondo Monetario Internazionale) e dalla Banca Mondiale,
visto che la loro attuazione prevede l’adozione di tecnologie di cui i paesi emergenti non
dispongono e per la cui fornitura devono rivolgersi ai paesi avanzati.
La Teoria Generale di Keynes pone le basi per una visione dinamica dell’economia (in
contrasto con le posizioni classiche), infatti sostiene che il sistema economico non è in grado
di autoregolarsi, quindi il mercato da solo non è capace di condurre i paesi da una
condizione di povertà a una di benessere e abbondanza. Testimone della grande crisi
statunitense del 1930, Keynes testimonia l’incapacità del mercato di rispondere
adeguatamente attraverso i meccanismi di stabilizzazione automatica. Grazie a questa
teoria il sistema capitalistico viene rimesso in discussione (ci sono punti di contatto con
Marx: entrambi considerano il capitalismo come un processo la cui finalità non è il
benessere collettivo ma solo il profitto in mano a pochi). Tuttavia, Keynes non si pone in
netto contrasto con il capitalismo, ma rinviene una falla nel sistema che, guardando la
compresenza di paesi ricchi e poveri, è incapace di garantire la piena occupazione e di
distribuire equamente redditi e ricchezze.
-> Tra i modelli che si ispirano a questo troviamo quello di Harrod-Doman: un modello di
crescita economica che spiega il tasso di crescita di un paese attraverso il suo livello di
accumulazione di risparmi e capitale. Gli assunti fondamentali su cui si basa sono:
1. ipotizza un equilibrio di piena occupazione e l’assenza di interferenze governative nel
sistema economico
2. prevede che l’economia sia chiusa agli scambi con l’estero e che la tecnologia
presenti dei rendimenti costanti
3. i risparmi sono da considerarsi come una frazione del reddito (ciò che rimane di
reddito al consumatore, dopo aver effettuato consumi, gli rimane come risparmio)
Ricordiamo che nell’ipotesi di Keynes, su cui si basa il modello, i risparmi eguagliano gli
investimenti. Una volta garantite queste condizioni la crescita economica di un paese può
seguire un circolo virtuoso che si avvia grazie all’incremento degli investimenti in capitale
fisico da parte delle imprese (consegue aumento dei macchinari a livello nazionale, che
aumentano la produzione nazionale, che a sua volta incrementerà la ricchezza). Visto che
tutto ciò accade nel settore industriale, la forza lavoro ne viene attratta, abbandonando
gradualmente il settore dell’agricoltura. L’aumento di importanza di questo settore conduce,
al termine di questo processo, a un ulteriore incremento della produzione e quindi della
ricchezza nazionale.
Una caratteristica comune alla maggior parte delle teorie basate sull’industrializzazione sta
nell’elaborazione di modelli che prevedono l’esistenza di stadi successivi di crescita, che
dovrebbero portare il paese da una condizione di povertà a una di benessere economico.
-> Tra le teorie per stadi più note abbiamo quella di Rostow, il cui modello presenta
un’impostazione che considera la transizione da uno stato di sottosviluppo a uno di sviluppo
rispetto ai passaggi che ha già superato e quelli che ancora deve affrontare. Ciò si
concretizza nella definizione di alcuni settori guida per ciascuno degli stadi di crescita.
L'obiettivo finale è il raggiungimento di una crescita economica bilanciata e duratura, che
può essere conseguita, nel paese emergente, attraverso un piano armonizzato di
investimenti realizzati in molte industrie differenti. Secondo questo modello, se si effettuano
investimenti in settori diversi, si creeranno condizioni per le quali ogni industria possa
contare sulla domanda creata dalle altre industrie, e questa spinta derivante dalla domanda
trainerebbe i consumi in tutti i settori. Questa intuizione poggia sull’analisi dei dati che
mostrano, per i paesi emergenti, una strutturale carenza di domanda interna; quindi gli
investimenti sosterrebbero l’offerta, ma anche farebbero nascere e supporterebbero la
domanda. Per conseguire questo risultato il modello propone cinque fasi, orientate
progressivamente da una condizione tradizionale allo stadio del consumo di massa.
Le fasi sono:
1. la società tradizionale -> è basata sulla sussistenza + settore trainante è quello
agricolo + famiglie producono beni agricoli per se stesse + non ancora presente un
principio di scambio di mercato + compresenza di fattori che impediscono crescita
del paese (= bassa produttività, basso risparmi, basso investimento, bassa mobilità
sociale).
2. le precondizioni per il decollo -> si verificano le circostanze perché avvenga il
passaggio dal settore agricolo a quello industriale + produzione agricola diventa più
efficiente + si introduce il meccanismo di mercato, ciò fa sì che si passi dalla
produzione per autoconsumo a quella per il mercato (quindi anche il modello di
produzione delle famiglie muta = ora producono anche un surplus destinato allo
scambio sul mercato) + migliorano istruzione e salute + nasce il settore industriale
grazie anche alle prime istituzioni finanziarie e al ruolo della moneta + compaiono
nuovi soggetti e arriva l’idea del progresso + risparmio e investimenti aumentano +
emerge figura di governo impegnato nella costruzione delle infrastrutture necessarie
per il collegamento del paese (sia per trasporti che per comunicazioni).
3. il decollo -> il paese emergente modifica il proprio status e si avvia verso un percorso
di crescita sostenuta + passaggio della forza lavoro dal settore agricolo all’industriale
+ il paese abbandona tutte le proprie caratteristiche tradizionali per aderire a una
crescita guidata dall’industria manifatturiera (reddito si concentra inizialmente nelle
mani di chi gestisce queste industrie).
4. il raggiungimento della maturità -> fase della maturità + sistema economico acquista
un proprio ruolo all’interno dell’economia globale + settori determinanti nella fase 3 si
ridimensionano per dare spazio alla crescita di nuovi settori (in risposta a necessità
di diversificazione) + miglioramento delle condizioni generali della popolazione (livelli
di povertà diminuiscono e aumenta standard di vita) + grazie allo sviluppo
tecnologico la struttura produttiva si rafforza tanto che il paese diviene in grado di
produrre tutti i beni e servizi necessari al consumo e anche alle esportazioni.
5. il consumismo e la produzione di massa -> si sviluppano il consumo e la produzione
di massa (= i consumatori sono in grado di reperire sul mercato più varietà di beni e
servizi) + aumenta quota di beni di consumo durevoli + a livello di policy si allenta la
tensione sull obiettivo del raggiungimento di un livello di crescita adeguata, quindi
focus si sposta su altre aree (es. l’ambiente, la sicurezza, il welfare).
Il modello di Rostow riceve critiche che riguardano
- il principio stesso dell’applicazione di un unico processo di crescita, con le medesime
fasi, a paesi anche molto differenti tra loro
- la dicotomia tra tradizionale e moderno, dove il tradizionale è caratterizzato da
un’aura di negatività -> questo modello porta un’idea dello stadio tradizionale come di
uno stadio originario da cui è necessario evolversi, abbandonando anche usanze e
tradizioni, perché non conformi ai canoni moderni.
Ci sono parallelamente altre teorie che vedono come fattore fondamentale di crescita la
trasformazione della struttura e del sistema di produzione del paese emergente. Quasi tutte
accomunate dal principio di passaggio da un’agricoltura di sussistenza a una nuova
configurazione dell’economia nazionale moderna e urbanizzata, dove il sistema produttivo è
diversificato, e il settore agricolo è progressivamente sostituito da quello industriale, e poi da
quello dei servizi.
-> In questo filone rientra il modello di Lewis: un modello di crescita dualistico che considera
l’economia come divisa in due settori (= tradizionale basato su agricoltura / moderno e
capitalistico basato su industria). L’eccesso di forza lavoro che caratterizza il settore agricolo
può essere trasferito al settore moderno industriale senza alcun costo (anzi, con benefici per
i lavoratori); ma non si fa menzione alle caratteristiche dei lavoratori né alla loro volontà.
Ovvero il processo funziona a prescindere dalle peculiarità della risorsa (= lavoratore) che
viene trasferita, e il passaggio della forza lavoro consente al paese di rinforzare la propria
struttura produttiva. Così facendo, inoltre, il livello di produttività pro capite di ciascun
lavoratore aumenta perché il settore industriale è più produttivo rispetto quello agricolo.
Lewis quindi propone anche di utilizzare il livello di industrializzazione come un indicatore
del grado di crescita di un paese. Questo modello termina con l’eguaglianza tra i salari del
settore agricolo e quelli del settore manifatturiero, infatti quando tutti i lavoratori in eccesso
sono stati assorbiti dal settore industriale, i salari di quello agricolo cominceranno a salire;
quindi, venendo meno l’incentivo monetario di salari più alti, i lavoratori non sono più
interessati al trasferimento da un settore all’altro. Infine, per dare vita a nuovi investimenti
nel settore industriale, viene utilizzato proprio il surplus della forza lavoro.
CAP 3
→ Povertà
Al centro dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, condivisa da tutti i membri dell’ONU,
troviamo 17 obiettivi prioritari (Sustainable Development Goals, SDG): il primo proclama la
necessità di porre fine alla povertà in tutte le sue forme e dimensioni; un traguardo non facile
visto che la povertà è un fenomeno multidimensionale. Secondo la Dichiarazione di Pechino,
la povertà si esprime con manifestazioni diverse, es: mancanza di reddito e di risorse
produttive sufficienti per una vita dignitosa / fame e malnutrizione / mancanza o limitazioni di
accesso all’istruzione e altri servizi base / mortalità elevata / abitazioni inadeguate /
discriminazione sociale / scarsa partecipazione al processo decisionale e alla vita sociale,
civile e culturale del paese. L’evoluzione della teoria dello sviluppo ha mostrato come una
condizione di povertà economica porti con sé un'esclusione molto più ampia e profonda.
-> Le disuguaglianze:
Accanto alla povertà si trova anche la disuguaglianza: ciò spiega perché, nonostante sia
avvenuto un incremento del reddito medio pro capite, è comunque presente un alto tasso di
povertà (= rispetto all’aumento di ricchezza prodotta, alcuni hanno avuto di più e altri di
meno). Ci sono quindi sacche di disuguaglianza, ma ci focalizziamo ora sulla disuguaglianza
di reddito e sui relativi indicatori di misurazione.
-> La Curva di Lorenz viene utilizzata per analizzare la distribuzione del reddito, si inserisce
in un sistema di assi cartesiani dove sulle ordinate poniamo la % di reddito nazionale e sulle
ascisse la % di popolazione. Partiamo da un ideale teorico di perfetta equità distributiva, che
viene rappresentata graficamente con una retta inclinata a 45 gradi (= in un paese dove il
reddito è perfettamente equidistribuito tra tutti, tale distribuzione coinciderebbe con la
funzione a 45 gradi). Se vogliamo rappresentare un caso reale, osserviamo uno
scostamento rispetto alla perfetta equità distributiva: ovvero quanto più la distribuzione del
reddito si trova lontana dall’equità, tanto più la relativa funzione si abbassa rispetto alla
bisettrice.
-> Il Coefficiente di Gini è un indicatore per stimare la disuguaglianza nella distribuzione di
una variabile (metodo più diffuso per misurare disuguaglianze nella distribuzione del
reddito). Il valore del coefficiente è compreso tra 0 e 1, dove 0 corrisponde alla perfetta
equità distributiva, mentre 1 alla massima concentrazione della variabile considerata (= tutta
la ricchezza è in mano a una persona). Questo coefficiente si basa sulla Curva di Lorenz:
l’indice è rappresentato dal rapporto tra area A e somma aree A e B (in un equa
distribuzione l’area A è nulla e l’indice è 0). Quanto più il coefficiente si avvicina allo 0, tanto
maggiore sarà la distribuzione del reddito e quindi minore la disuguaglianza; al contrario il
coefficiente vicino a 1 testimonia una concentrazione di reddito squilibrata.
-> La Curva a U di Kuznets si basa sulla teoria dell’autore per cui c’è una relazione tra
crescita economica di un paese e la distribuzione del reddito (per lui nella fase iniziale di
abbandono della produzione artigianale per quella industriale l’ineguaglianza aumenta, per
poi ridursi progressivamente). Viene quindi sviluppata la teoria dei mutamenti distributivi nel
corso dello sviluppo di un paese, per cui il reddito medio della popolazione rurale è più
modesto, ciononostante le aree urbane hanno maggiore ineguaglianza; pertanto
l’incremento della popolazione urbana si traduce in incremento della componente di
disuguaglianza. Questa teoria viene criticata per l’eccessivo ottimismo che rischia di essere
fuorviante: se si ritiene che la disuguaglianza tenda a zero nel medio periodo allora non
viene reclamata la necessità di affrontarla adeguatamente (anche con eventuale intervento
dello stato). Inoltre, queste ipotesi non vengono confermate da dati, ma sono basate su
ricerche troppo specifiche per venire generalizzate.
→ Povertà e genere:
Ci sono differenti approcci per definire la povertà:
- approccio monetario: definisce la povertà in base al reddito e consumo (metodo più
diffuso).
- approccio delle capabilities: identifica il benessere con la libertà degli individui di
vivere una vita che consenta loro di esprimere appieno le proprie capacità; quindi la
povertà è una mancanza di risorse che impedisce alle persone di impegnarsi in
alcune attività di base.
- approccio dell’esclusione sociale: sono approfondite le caratteristiche strutturali che
fanno sì che alcuni individui rimangano esclusi dalla piena partecipazione alla
società; quindi per alleviare la povertà è necessario promuovere l’inclusione degli
individui sia nel mercato del lavoro che nei processi sociali.
- approccio geografico: propone di mappare le caratteristiche della povertà in un
contesto spaziale (include nelle variabili anche la concentrazione fisica della
ricchezza o l’accesso alle risorse naturali).
La combinazione di questi diversi approcci rivela la complessità della dimensione della
povertà, anche in quanto fenomeno mutevole e che può modificarsi anche in un breve lasso
temporale (soprattutto in situazioni legate a occupazione/ disoccupazione).
Ci aiuta il concetto di vulnerabilità, questa implica un incremento della fragilità degli individui
sotto il profilo della povertà, ed è associata sia ad aspetti esterni, che sono fattori di rischio
per gli individui (es. perdita di lavoro), sia ad aspetti interni (es. insufficienza risorse a
disposizione); questa lettura comprende sia risorse materiali sia immateriali.
Da qui parte l’analisi della povertà in una prospettiva di genere, che si basa sulla
consapevolezza che il fenomeno colpisce in maniera diversa uomini e donne, e che può
aiutare a intervenire sui fattori di genere che aumentano/ riducono la probabilità degli
individui di incorrere in situazioni di povertà. Questo tipo di analisi parte negli anni ‘80, e ha
mostrato come le donne sono più colpite dalla povertà (+ rappresentano maggioranza di
persone in povertà estrema + povertà femminile era in aumento).
Nel dettaglio vediamo le diverse condizioni che rendono le donne più esposte alla possibilità
di diventare povere, a partire dalla divisione del lavoro retribuito e non; infatti, nella maggior
parte dei casi alle donne viene assegnata la sfera domestica, quindi lavori di cura non
retribuiti. In questo modo si determina una disuguaglianza di opportunità per le donne
nell’accesso alle risorse materiali e sociali associate al mercato del lavoro (quindi hanno
minori asset materiali, ma anche meno asset culturali e sociali). Ciò si traduce in una
deprivazione in diverse sfere della vita sociale. Le teorie di genere sulla povertà ci mostrano
poi come il concetto di capitale sociale sia stato costruito come se l’accesso a tale risorsa
fosse di default uguale per donne e uomini, mentre sappiamo non essere così. Inoltre,
queste teorie collegano la distribuzione del potere ai differenziali di accesso alle risorse, e ha
anche svelato che una dimensione fondamentale della povertà è legata all’autonomia
economica: infatti, la disuguaglianza di opportunità relative alla possibilità di avere accesso a
un impiego retribuito pregiudica le probabilità che una donna raggiunga l’indipendenza
economica. E’ anche vero che gli ultimi anni hanno testimoniato il raggiungimento di grandi
risultati in termini di riduzione della povertà, ma per giungere alla sua eliminazione occorre
aggredire le differenti condizioni che conducono all’impoverimento. Tra queste, c’è appunto
la discriminazione di genere (le donne non hanno ancora rappresentatività politica uguale a
quela maschile + le donne in povertà sono definite extra-marginalizzate): perchè uomini e
donne vengono ugualmente colpiti dalla povertà, ma le donne hanno accesso a minor
risorse per uscirne. Per affrontare questa situazione nel 1995 è stata adottata da 189 paesi
la Dichiarazione di Pechino, che ha rappresentato una svolta per i diritti delle donne nella
politica globale. La Dichiarazione riconosce i diritti delle donne come diritti umani e fissa una
serie di linee guida necessarie per raggiungere l’uguaglianza (tra le 12 dimensioni, troviamo
anche la povertà). I governi che hanno sottoscritto l’accordo si impegnano a modificare le
proprie politiche economiche per fornire maggiori opportunità alle donne, migliorare le leggi
per i diritti umani, agevolare l’accesso al credito, e raccogliere migliori informazioni sul
tracciamento della povertà disaggregate per genere (es. USA, 38 milioni in povertà, 56%
sono donne, e la situazione peggiora con il covid).
CAP 4
Lo sviluppo economico viene valutato solitamente attraverso il PIL, ed esistono anche
numerosi altri indici (finanziari/ industriali) che possono aiutare a quantificare l’economia di
una nazione/ del mondo. Tuttavia, c’è un complesso aggregato di elementi immateriali che,
anche se non direttamente collegati all’economia, la contaminano (vedi discorso di Kennedy:
la finanza, il progresso e la crescita economica dovrebbero essere elementi che migliorano
la razza umana e il pianeta, nel rispetto delle risorse naturali, ecc).
- Approccio Individualista:
focalizza l’attenzione sull’abilità del singolo di interagire con gli altri soggetti della
comunità per acquisire un beneficio nella propria vita sociale. Per l’attuale vita umana
la sfera sociale è ampliata, e le relazioni virtuali e fisiche sono egualmente valide
come strumenti per acquisire benefici (percorso che vede il singolo come attore della
propria vita). Il capitale sociale così si costruisce su scelte razionali dell’individuo.
Coleman parla di “scelta razionale”: egli considera l’individuo come un attore
razionale che opera con metodo e agire volontario in ambito economico ma anche
sociale. Nel perseguimento degli obiettivi personali, quindi, l’individuo tiene conto
degli altri soggetti, norme e relazioni che sono presenti nel costrutto sociale di cui è
parte. Si evince che l’agire del singolo è dato da una strategia di medio lungo termine
che mira ad acquisire benefici anche futuri (questo approccio getta un ponte tra
economia e sociologia + integra il modello utilitarista della scelta razionale con
l’analisi delle relazioni sociali). Coleman: “il capitale sociale è definito dalla sua
funzione … è una varietà di diverse entità che hanno due caratteristiche in comune:
hanno alcuni aspetti della struttura sociale + agevolano determinate azioni degli
individui dentro la struttura”. In questo scenario, l’individuo agisce secondo un calcolo
di utilità, ma non è un’azione egoistica semplice perché si inserisce all’interno di un
contesto popolato da altri individui con i quali deve relazionarsi e che lo
influenzeranno nelle scelte. Per Coleman, inoltre, lo sviluppo del capitale sociale non
è strettamente legato a un’azione calcolata dell’individuo come esito di una scelta
razionale, ma un sottoprodotto di azioni intraprese per ragioni differenti (ciò lo
differenzia da altri tipi di capitale, che sono frutto di scelte studiate).
- Approccio Collettivista:
considera la creazione di capitale sociale come il prodotto di uno scambio reciproco
di relazioni (non basate sull’utilità individuale): l’individuo mette in comune con chi
entra in contatto il proprio “capitale”, ricevendo in cambio il loro “bagaglio sociale”. Si
può parlare di “commercio” consensuale tra individui. Putnam definisce il capitale
sociale come “l’insieme di quegli elementi dell’organizzazione sociale che possono
migliorare l’efficienza della società nel suo insieme, nella misura in cui facilitano
l’azione coordinata degli individui”. Da ciò si può comprendere quanto l’azione
collettiva intrapresa dai singoli individui sia, per l’autore, un agire coordinato tra
persone che danno e ricevono.
→ Capitale umano:
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) definisce il capitale
umano come quel complesso di conoscenze, abilità, competenze e altri attributi degli
individui che facilitano la creazione di benessere personale, sociale ed economico.
L’individuo è visto come entità attiva che rappresenta una ricchezza di valore grazie alle sue
esperienze pregresse, e alle competenze che connotano le sue azioni. Quindi le spese che
vengono affrontate per accrescere l’individuo non si possono concepire come un costo ma
sono un valore che andrà a dispiegarsi negli anni successivi (es. istituzioni moderne come la
scuola dell’obbligo). Il percorso di istruzione è alla base del capitale umano come oggi lo
concepiamo, ma anche il lavoro è importante: in Occidente il mercato di lavoro odierno
necessita un livello di educazione standard. I lavori con forte connotazione di attività
manuale in futuro saranno sempre più sostituiti da sistemi automatizzati, e considerando
questi ritmi di evoluzione del lavoro manuale è sempre più plausibile che ad essere richiesti
saranno lavori di intelletto. Nonostante istituzioni come la scuola dell’obbligo siano
relativamente recenti, è vero anche che il capitale umano si è accresciuto nel tempo.
[Esempio EU e Cina: hanno perseguito in modo eguale la formazione dei cittadini, tuttavia si
distinguono per la differente costituzione delle due aree geografiche e nazionali. La Cina è
un’entità nazionale e politica unica + pianificazione centralizzata anche per il percorso di
formazione + pensiero monolitico e dominante ha fatto sì che si sviluppasse un pensiero
coerente ed eguale / l’EU è composta da numerose nazioni, ognuna con differente percorso
che ha contribuito a creare una pluralità di formazione, che spesso ha permesso di generare
pensatori con approcci diversi nel risolvere problemi ecc.]
→ Capitale territoriale:
Per la Commissione Europea il capitale territoriale è definito: “ogni regione possiede uno
specifico capitale territoriale che genera un più elevato ritorno per specifiche tipologie di
investimento; le politiche di sviluppo territoriale devono aiutare le singole regioni a costruire il
loro capitale territoriale”. E’ importante capire che la crescita di un territorio avviene anche in
una sfera che manifesta la sua presenza come un humus culturale e umano che permette la
crescita economica stessa; e le politiche di sviluppo dovrebbero intervenire per incrementare
il capitale territoriale delle regioni. In un’analisi (nella pubblicazione Territorial Outlook del
2001 dell’OECD) si discutono i fattori che compongono la ricchezza del territorio, per
mappare le specificità che possono essere valorizzate (ogni territorio fa caso a sé). Le
connotazioni che definiscono un territorio divengono parte delle strategie con cui esso si
affaccia sul mercato, promuove la propria immagine, manifesta la sua capacità di
governance e di conseguenza genera una sua gravità che attrae uomini e imprese. Il
documento dell’OECD ha definito una lista di fattori che comprendono asset materiali, e
anche a carattere immateriale; a questa lista si aggiungono i fattori “derivati”.
→ Industrial commons:
Gli industrial commons sono le risorse naturali che sono presenti in un dato territorio / i “beni
della comunità”, a cui aggiungiamo una serie di asset che permettono alla comunità di
crescere e prosperare. Da qui poi si vanno a “innestare” attività e competenze derivate che
permettono di collegare la comunità ad altre comunità, ovvero una serie di competenze
rilevanti che ulteriormente permettono alla comunità di prosperare (es. attività commerciali).
Gli industrial commons sono uno dei tanti fattori immateriali che permeano e compenetrano
il tessuto produttivo di un’economia sana, quindi è è un aspetto sicuramente importante dello
sviluppo economico, ma - viste le perplessità della sua applicazione in alcuni ambiti (es.
reshoring) - deve essere interpretato in modo differente negli anni futuri.
CAP 5
Nel 1987 la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo (istituita dall’ONU) dà la
definizione “lo sviluppo sostenibile è quello che soddisfa le necessità delle attuali
generazioni senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare le
proprie” (che però dà ampio margine di interpretazione e di applicazione pratica).
Ogni specie condivide una naturale percezione dell’equilibrio e le necessità di tutti gli animali
(tranne l’essere umano) vengono soddisfatte all’interno di un equilibrio naturale (senza
presenza umana). Tuttavia, noi ci concentriamo sugli esseri umani.
CAP 6
→ Crescita demografica nei secoli e correlazioni con industria economica:
Analizziamo il rapporto e l’influenza reciproca tra demografia ed evoluzione economica
attraverso una sintesi delle determinanti della crescita della popolazione: indichiamo 5
macro gruppi, ognuno dei quali racchiude decine di altre variabili, consapevoli che ci sono
infinite combinazioni di queste che possono influire su una singola popolazione. La presenza
di alcuni fattori di base (es. territorio fertile, clima mite, acqua abbondante) sono una
combinazione vincente. I macro gruppi sono:
1. Caratteristiche demografiche: numero di nascite / morti / tasso di fertilità / mortalità /
età / distribuzione della popolazione / rapporto tra donne e uomini.
2. Condizioni socio-economiche:
a) educazione = molti lavori manuali sono stati e saranno sostituiti da sistemi
automatizzati, quindi un alto livello di istruzione è un indice del potenziale
successo di una popolazione.
b) condizioni economiche = ad es. aspetti quali la disponibilità di lavoro /
possibilità di acquistare casa + fattore da considerare è che un individuo che
parte con un vantaggio iniziale (es. classe sociale benestante) avrà più
possibilità (questo è detto “network di valore”), anche se non sono variabili
che assicurano il successo.
3. Aspetti naturali: la maggior parte di questi elementi sono esogeni (es. clima,
precipitazioni) e sono determinanti per la crescita di una società agricola o dedita
all’allevamento, ovvero una società che si evolve alla stanzialità. Perché avendo una
produzione abbondante potrà convertirla in esportazioni, quindi ulteriore ricchezza.
4. Trasporti: i più grandi imperi hanno sempre avuto una rete logistica efficiente perché
logistica e trasporti sono vitali per qualunque aggregato di umani che ambisca a
espandersi. Sono molto importanti le infrastrutture portuali con accesso ad acque
profonde per l’approdo di grandi navi commerciali, visto che il commercio navale è
80% del totale. Anche i voli sono importanti per questioni di trasporti nazionali e
urbani di merci, servizi e esseri umani. Recentemente è emerso anche il trasporto di
dati, immateriali, associabili a servizi piuttosto che a prodotti fisici, agevolato dalla
velocità di connessione a internet.
5. Utilizzo del terreno e sviluppo: ci sono altri tipi di terreni (oltre quelli favorevoli ad
agricoltura e allevamento) come i giacimenti di metalli / materiali da costruzione /
riserve fossili / di altre fonti energetiche + altri fattori come l’irradiamento solare /
forza del vento / delle maree per la produzione di energia sostenibile.
Ognuna delle variabili di questi gruppi hanno plasmato ogni tribù/ nazione/ impero;
storicamente la nascita di grandi civiltà è stata favorita dalla vicinanza a fonti d’acqua
potabile + terreno fertile. Tuttavia alcune civiltà hanno trasformato in una forza la propria
carenza di queste risorse (es. UK che durante rivoluzione industriale ha puntato sul mare,
costruendo una grande flotta mercantile). Un’ulteriore variabile riguarda la relazione tra la
crescita della popolazione e gli avanzamenti tecnologici: con la nascita del motore a vapore
e l’adozione del carbone il genere umano ha iniziato ad aumentare in modo sensibile. Le
nuove tecniche hanno permesso di di velocizzare i lavori agricoli, e i contadini iniziano a
possedere le terre che lavoravano; allo stesso tempo molti abbandonano le campagne per
l’urbanizzazione e la possibilità di lavorare nelle fabbriche. L’aver sostituito animali o esseri
umani con una forza motrice più efficiente e potente ha liberato risorse da allocare
diversamente + l’introduzione del carbone ha migliorato le prestazioni in ogni campo del
sistema economico (es. viaggi navali più veloci e ferrovie); da qui gli esseri umani hanno
fatto leva sull’energia del carbone per migliorare le proprie condizioni di vita, così hanno dato
via alla grande rivoluzione demografica.
CAP 7
→ Definiamo la globalizzazione:
L’ampiezza dei mercati e la divisione del lavoro vengono identificate, sin da Smith, come
fattori in grado di determinare la crescita economica dei paesi; da allora abbiamo avuto due
fasi di espansione commerciale: la prima dal 1870 al 1914, e la seconda dal 1950 ad oggi; in
entrambi i casi i dati dimostrano un’effettiva correlazione dei fenomeni espansivi con una
tendenza di crescita economica sostenuta. E’ stato chiaro da subito che i benefici derivanti
da tale processo non si sarebbero distribuiti equamente perché non tutti i paesi sono stati
interessati dal fenomeno, e perché tra paesi ugualmente coinvolti comunque il ruolo e le
politiche erano variabili. Una delle maggiori sfide della globalizzazione rimane la
comprensione dei meccanismi determinanti il successo di alcuni paesi e il motivo per cui altri
non ottengono i medesimi benefici. La globalizzazione attuale va intesa come processo di
espansione della produzione accompagnato a una crescente divisione internazionale del
lavoro; processo guidato dal tentativo delle multinazionali di massimizzare il profitto. I dati
evidenziano che a seguito della globalizzazione sia i paesi poveri che quelli ricchi hanno
migliorato i propri standard di vita, tuttavia rimangono sostanziali differenze tra i benefici che
questi ne traggono (es. i vantaggi dei paesi ricchi tratti dalla delocalizzazione, legati
soprattutto a fattori di produzione). I paesi poveri traggono vantaggio per l’incremento
dell’occupazione/ aumento di produzione/ miglioramento diffuso dello standard di vita, ma la
globalizzazione non ha condotto solo a esiti positivi. Infatti il processo ha determinato anche
un incremento delle disuguaglianze anche all’interno degli stessi paesi emergenti (es.
derivante da gap a livello educativo di forza lavoro, come un paese che ha lavoratori esperti
in ciò che viene ricercato dalle multinazionali mentre un altro paese no e viene tagliato fuori:
è la trappola della povertà = individui poveri sono a prescindere esclusi da alcuni circuiti e
quindi incapaci di uscire dalla condizione di povertà). Recentemente le multinazionali
concentrano nei paesi emergenti non solo lavori di manifattura ma anche dei servizi, questo
fattore mostra l’unidirezionalità del rapporto che lega i paesi avanzati a quelli emergenti;
ovvero nel processo di globalizzazione i paesi emergenti sono coinvolti e crescono solo se
rispondono alle necessità delle multinazionali localizzate nei paesi avanzati (perché l’attuale
divisione del commercio internazionale è dominata dalle grandi multinazionali). Questo
squilibrio è evidente anche analizzando le politiche commerciali: i paesi avanzati proteggono
le produzioni nazionali ma reclamano l’apertura ai mercati da parte dei paesi emergenti.
L’utilizzo di tecnologie avanzate all’interno dei processi produttivi fa sì che gli effetti della
globalizzazione sull’occupazione nei paesi in via di sviluppo siano molto modesti; e un ruolo
fondamentale è giocato dalla capacità di innovazione dei paesi. Infatti, l’avanzamento delle
tecnologie ha ridotto i costi di trasporto e di comunicazione, rendendo possibile la
globalizzazione: abbiamo assistito a una compressione del tempo e dello spazio. E’ logico
quindi che la distribuzione internazionale della ricchezza rende più benefici ai paesi dotati di
tecnologie più avanzate. Negli ultimi anni, però, sta aumentando lo scontento verso la
globalizzazione da parte dei lavoratori dei paesi avanzati, che lamentano la concorrenza dei
paesi emergenti sul mercato del lavoro (ma sono felici nella veste di consumatori e dalla
riduzione dei prezzi derivata dalla globalizzazione). Questo malcontento è emerso dopo la
crisi del 2009, che però ha anche dimostrato come in una situazione di crisi come questa i
paesi più marginali siano più protetti dalle conseguenze.
CAP 8
→ Gli anni ‘90 e la nascita degli accordi commerciali regionali:
Negli ultimi decenni è aumentato sempre più il valore dell’interscambio commerciale
internazionale, questo anche grazie agli accordi di integrazione commerciale regionale;
questi si sono sviluppati a partire dal 1989 con la nascita dell’APEC (= Asia Pacific
Economic Cooperation). Questi processi di regionalizzazione si sono basati sulla
facilitazione dell’interscambio di merci/ capitali/ forza lavoro e sulla condivisione di condizioni
preferenziali a favore dei paesi membri. Il fattore della vicinanza geografica è fondamentale
almeno nelle fasi iniziali: quindi ad aggregarsi sono per primi paesi geograficamente
confinanti che hanno una matrice simile sotto il profilo della cultura economica (banalmente
sotto forma di complementarietà tra le strutture produttive). Tuttavia i processi di
regionalizzazione hanno assunto contenuti che travalicano il concetto originario di regione
naturale, e si suddividono in 5 tipologie:
1. accordi di libero scambio = versione basilare di queste integrazioni e prevedono la
costituzione di aree commerciali al cui interno: sono eliminate le tariffe doganali + le
barriere di interscambio commerciale + sono stabilite tariffe comuni (mentre ogni
paese membro può fissare le tariffe che vuole verso stati terzi).
2. unioni doganali = zone di libero scambio dove c’è: tariffa interna condivisa di cui
beneficiano tutti i membri + frontiera comune verso l’esterno (si decide assieme
anche le tariffe da mettere ai paesi terzi) e rende l’integrazione più completa perché
c’è una forma politica commerciale condivisa.
3. mercati comuni = stesse caratteristiche delle unioni doganali + c’è libera circolazione
delle risorse, quindi è facilitata la circolazione e scambio di capitali/ merci/ persone.
4. unioni economiche = mercati comuni il cui fine ultimo è l’armonizzazione generale
delle politiche economiche dei paesi membri.
5. integrazioni economiche = è la versione completa delle integrazioni e hanno le
caratteristiche delle unioni economiche + la presenza di strutture decisionali comuni.
Quindi possiamo notare un grado crescente di integrazione (nel 5 vediamo la nascita di un
soggetto economico articolato che ha competenze finora statali). Ciò che accomuna queste
forme di integrazione commerciale è l’abbattimento dell’incertezza e dei costi ad essa legati,
infatti, quando il paese fa parte di un accordo commerciale queste norme vengono stabilite
una volta per tutte. Altro fattore comune è la presenza di un paese che svolga la funzione di
traino (= leader), ruolo determinato da:
- centralità e vicinanza geografica = favorisce se è centrale e confinante con gli altri
membri;
- forza produttiva (PIL) = stabilità economica di un paese è un vantaggio sia per i paesi
che vogliono aderire (se è economicamente forte dà fiducia nell’iniziativa), sia per i
cittadini del paese stesso (per il loro livello di benessere elevato vedono come meno
traumatici determinati cambiamenti);
- apertura al commercio internazionale = fornisce informazioni sulla storia commerciale
del paese traino e gli altri paesi saranno più propensi ad aderire se il paese ha già
avuto relazioni di interscambio con l’esterno;
- cultura economica = i processi di integrazione economica sono influenzati dalla
presenza di fattori culturali condivisi dai diversi membri.
-> APEC:
L’Asia Pacific Economic Cooperation è un accordo commerciale del 1989 tra 12 paesi delle
sponde del Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Corea del Sud, Filippine, Giappone,
Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore, USA, Tailandia); il numero di paesi poi è
aumentato e attualmente ne fanno parte 21. Gli obiettivi primari sono la promozione e il
rafforzamento di un’area commerciale interna basata sulla libertà di scambio e di
investimento. Per ora i risultati raggiunti sono:
1. il PIL dei paesi membri è passato da $19.000 miliardi nel 1989 a quasi $47.000
miliardi nel 2018;
2. nello stesso periodo, il reddito pro capite dei cittadini dell’area è aumentato del 74%,
contribuendo alla creazione di una consistente classe media;
3. nel 2018 i paesi membri producono il 60% del PIL mondiale e determinano il 48%
dell’interscambio commerciale globale.
Gli strumenti adottati sono la riduzione delle barriere commerciali, l’armonizzazione delle
differenti normative nazionali in termini di interscambio con l’estero, una ricerca costante
della convergenza. Per agevolare ulteriormente la produzione di ricchezza nei paesi membri,
nel 2009 è stato lanciato l’Ease of Doing Business Action Plan con l’obiettivo di facilitare le
attività imprenditoriali sotto il profilo economico e temporale; dal 2009 al 2013 questi paesi
hanno migliorato del 11,3% la facilità di fare business.
-> MERCOSUR:
Il Mercado Comun del Sur è stato istituito nel 1991 (da Argentina, Brasile, Paraguay,
Uruguay) per liberalizzare la circolazione dei beni/ servizi/ fatti produttivi, attraverso la
progressiva eliminazione delle barriere e delle restrizioni reciproche. La storia dell’accordo e
dei suoi ampliamenti è complessa: ad esempio il Venezuela è stato ammesso nel 2012 ma
poi rimosso nel 2016 per mancato rispetto degli standard interni su commercio e diritti
umani; invece alcuni paesi (Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù, Cile) sono membri associati,
quindi hanno i benefici di membri ma non hanno diritto di voto e rimangono comunque fuori
dall’unione doganale; il Messico invece rimane paese osservatore (segue i progressi e
potenzialmente chiederà di entrarvi). Dopo un grande progresso nella liberalizzazione
commerciale negli anni ‘90, il PIL del blocco è cresciuto da $4 miliardi nel 1991 a $20
miliardi nel 1998. Tuttavia questo processo è stato successivamente interrotto dalle
dinamiche interne che si sono complicate soprattutto tra Argentina e Brasile, il tutto
aggravato da una svalutazione monetaria del Brasile nel 1999 e la crisi in Argentina nel
2001 + la crisi del 2009 che peggiora la situazione. Dal 2015 però c’è stata una nuova
ondata di entusiasmo a favore di un’estensione delle negoziazioni con altri paesi/ blocchi
commerciali. La principale criticità di questo blocco commerciale rimane nei differenziali
esistenti tra i paesi membri, che hanno velocità di sviluppo molto diverse. Dentro il
MERCOSUR il ruolo di traino è svolto dal Brasile, paese più ricco in termini di PIL, più
popoloso, paese che maggiormente contribuisce alla creazione di ricchezza del blocco
(anche se dopo la crisi del 2009 inizia a mostrare un lento declino). Uno degli ostacoli alla
crescita dei paesi membri consiste nel tasso di produttività basso e che non ha mostrato
segni di miglioramento. Nel 2020 il blocco ha siglato un accordo commerciale con l’UE, che
prevede la rimozione della maggior parte delle tariffe commerciali tra i paesi appartenenti ai
due blocchi.
-> NAFTA
Il North American Free Trade Agreement è stato siglato nel 1992 (da Canada, Messico,
USA) ed è entrato in vigore nel 1994, con l’obiettivo innovativo di integrare commercialmente
due paesi avanzati con un paese emergente. I vantaggi:
- per il Messico sostenendolo in un processo di crescita più stabile + contribuendo alla
creazione di nuove opportunità lavorative e produttive;
- per i due paesi avanzati in termini di ampliamento dei mercati di sbocco + accesso a
molteplici opportunità di investimento a basso costo.
Il modello NAFTA è stato davvero rivoluzionario, tanto che si sono sollevate critiche legate ai
differenziali tra i tre paesi del blocco (es. differenze salariali). L’accordo prevede la riduzione
graduale delle barriere al commercio tra i membri + accesso duty-free per numerosi
manufatti + per molti beni importati dai paesi membri viene riconosciuto lo status di “beni
nazionali” (eliminando quindi la possibilità per le autorità di imporre tasse ecc). Le
preoccupazioni derivano dagli equilibri sui tre differenti mercati di lavoro: alcuni oppositori
dei paesi avanzati avevano paura che le loro industrie si spostassero tutte in Messico, per i
costi molto inferiori, privando i loro cittadini di posti di lavoro. In realtà quasi nulla cambia sul
mercato del lavoro: anche a causa delle restrizioni sull’immigrazione, il gap salariale non
subisce profonde modifiche + la carenza di infrastrutture su territorio messicano scoraggia
gli investimenti degli altri due paesi; la conseguenza è che dopo l’entrata in vigore
dell’accordo non si sono verificati i temuti effetti sul mercato di lavoro. Altre preoccupazioni
derivano dagli ambientalisti, spaventati per gli effetti di un’improvvisa industrializzazione:
queste problematiche vengono affrontate all’interno del North American Agreement on
Environmental Cooperation (NAEEC), che ha creato la Commission for Environmental
Cooperation (CEC) nel 1994, con il compito di valutare l’impatto ambientale dei processi di
industrializzazione seguiti all’accordo. I risultati economici del trattato mostrano gli ampi
benefici: il commercio regionale di Canada e USA è aumentato significativamente + gli
investimenti reciproci sono aumentati + le esportazioni e le importazioni del Messico sono
cresciute, con risultato un aumento quantitativo e qualitativo dei beni per i cittadini + dal
1993 gli investimenti dei tre paesi sono triplicati. Di conseguenza, il progetto iniziale ha
subito ulteriori espansioni e nel 2004 si stipula il CAFTA (Central America Free Trade
Agreement, tra USA e 5 paesi dell’America Centrale); nel 2020 un nuovo accordo, il UMSCA
(United States, Mexico, Canada) dove gran parte dei termini riguardano il settore della
manifattura automobilistica.
→ Le istituzioni sovranazionali:
La teoria sugli scambi internazionali spiega che il libero scambio porta alla determinazione
del massimo benessere per tutti i paesi che vi aderiscono, e ciò spiega il successo degli
accordi commerciali. In generale, gli scambi commerciali traggono origine dalla differente
dotazione di fattori che si ritrovano all’interno dei diversi paesi + dal tentativo di superare la
carenza relativa di fattori produttivi. La Conferenza di Bretton Woods del 1994 da vita al
Fondo Monetario Internazionale + alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo
Sviluppo (dopo diventa Banca Mondiale) + istituisce il nuovo sistema monetario
internazionale basato sul principio di stabilità dei cambi fissi tra le monete e il ruolo centrale
del dollaro. L’integrazione commerciale viene promossa a seguito della 2WW, anche con
l’obiettivo di rafforzare l’integrazione tra i paesi; in questo processo è stato fondamentale il
ruolo delle istituzioni statali, che hanno adottato politiche commerciali di integrazione.
CAP 9
Concetto di debito = un soggetto (debitore) chiede a prestito a un altro soggetto (creditore)
una somma di denaro che dovrà restituire in un periodo di tempo convenuto tra le due parti;
alla cifra dovuta di solito si aggiunge una percentuale della somma originale (che
corrisponde al costo per il tempo trascorso + al rischio a cui si è esposto il creditore
prestando la somma). Il problema con il debito sorge quando il debitore (individuo/ Stato/
azienda) non può restituire il denaro ricevuto e gli interessi accumulati. Nel caso
dell’individuo la conseguenza sarà il pignoramento dei beni, nel caso di un azienda sarà il
fallimento/ liquidazione/ vendita, nel caso dello stato questo va incontro a fallimento.
L’approccio per lo stato in fallimento è complesso data la maggiore dimensione e
complessità di beni che questo soggetto possiede.
-> Il credito:
Nelle ultime due epoche menzionate si concentrano la quasi totalità degli indebitamenti
sovrani e relativi fallimenti, possiamo identificare 8 principali periodi storici di esplosione di
prestiti e relativi fallimenti:
1. inizio decennio 1820: eventi legati ai nuovi stati indipendenti latino-americani +
alcune nazioni europee
2. inizio decennio 1830: eventi legati a USA, Spagna e Portogallo
3. dal 1860 a poco dopo 1870: eventi legati a America Latina, USA, nazioni europee,
impero ottomano ed Egitto
4. fine decennio 1880: eventi legati a USA, Australia, America Latina
5. decennio che precede 1WW: eventi legati a Canada, Australia, Sud Africa, Russia,
impero ottomano, stati balcanici, alcune nazioni dell’America Latina
6. decennio 1920: eventi legati a Germania, Giappone, Australia, Canada, Argentina,
Brasile, Cuba
7. decennio 1970: eventi legati ad America Latina, Spagna, Iugoslavia, Romania,
Polonia, Turchia, Egitto, Indonesia e alcuni stati africani
8. decennio 1990: eventi legati ad America Latina, paesi emergenti asiatici, ex
repubbliche sovietiche.
I maggiori creditori furono: UK e Francia nel 1800/ UK, Francia, Germania, Olanda, USA a
inizio 1900/ USA e UK tra le due guerre/ USA e alcuni stati europei nel 1970/ USA, europa
occidentale e Giappone nel 1990. La disponibilità di denaro da dare a prestito fu
conseguenza di differenti eventi, molti provocati da cambiamenti politici negli stati riceventi/
da quelli eroganti/ dall’apertura di nuove opportunità di investimento che attraevano capitali
(es. nel 1820 la fine delle guerre napoleoniche e indipendenza di alcune nazioni in America
Latina/ nel 1920 fine 1WW e ricostruzione/ 1960-70 colonizzazione Africa e successiva
indipendenza di alcuni di questi stati…). In altre occasioni il boom di prestiti è stato attivato
da cambiamenti economici in nazioni già pesantemente indebitate. Sia nel 1800 che il boom
del 1990 erano legati in parte a investimenti in infrastrutture + riforme economiche (spesso
questi boom di prestiti erano preceduti da precedenti fallimenti sovrani); in altri anni gli eventi
furono stimolati da cicli di crescita economica e risparmi privati + cambiamenti dei sistemi
finanziari. Nel decennio 1960-70 ci sono stati molti prestiti alle nazioni emergenti, che ebbe
un’ulteriore spinta dallo shock petrolifero del 1973-74 (i guadagni ottenuti dovevano essere
investiti in qualche modo); in Eu e USA le politiche monetarie più flessibili hanno contribuito
ai prestiti verso i mercati emergenti.
CAP 10
→ Cos’è la cooperazione
Il concetto di cooperazione internazionale, con focus sullo sviluppo, si è evoluto molto negli
anni. Se consideriamo la cooperazione internazionale nelle economie avanzate ed
emergenti, la possiamo ramificare in 4 raggruppamenti, connessi e dinamici nelle relazioni
tra loro:
1. cooperazione multilaterale
2. cooperazione bilaterale
3. organizzazioni non governative (ONG)
4. fondazioni/ altri attori privati
Ciascuno di questi ha peculiarità, risorse, visione e modus operandi differenti, nonostante
operino tutti nella cooperazione per lo sviluppo delle nazioni/ delle aree più disagiate.
→ 1) Cooperazione multilaterale:
La cooperazione multilaterale è spesso partecipata con un interesse nazionale, ma esiste un
“master plan” a cui tutti gli stati che contribuiscono alla realizzazione di un progetto si
allineano. Per comprendere l’orientamento dei progetti intrapresi delle agenzie multilaterali è
bene ricordare i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile al centro della 2030 Agenda for
Sustainable Development (adottata al summit di NY dall'ONU nel 2015): sconfiggere la
povertà / sconfiggere la fame / salute e benessere / istruzione di qualità / parità di genere /
acqua pulita e servizi igienico-sanitari / energia pulita e accessibile / lavoro dignitoso e
crescita economica / imprese, innovazione e infrastrutture / ridurre le disuguaglianze / città e
comunità sostenibili / consumo e produzione responsabili / lotta contro il cambiamento
climatico / la vita sott’acqua / la vita sulla terra / pace, giustizia e istituzioni solide /
partnership per gli obiettivi.
Il rischio tipico di ogni organo multilaterale, compreso l’ONU, che dipende da finanziamenti
esterni: i 17 punti sembrano oggettivi eppure sul loro significato e la loro applicazione ha
luogo un dibattito. Ad es. il punto 7)energia pulita e accessibile: il concetto di pulito potrebbe
avere diverse percezioni, come le centrali nucleari che non emettono nulla salvo vapore
acqueo che però hanno il problema delle batterie esauste (devono essere immagazzinate
finché non si raffreddano, che richiede migliaia di anni, e se non viene fatto in modo
opportuno inquina). Altro es. sul punto 7) è l’energia eolica e solare: le celle di silicio nei
pannelli solari hanno una scadenza e lo smaltimento non è pulito; le pale eoliche sono
composte da materiali minerali che comportano emissioni per l’estrazione e la lavorazione.
Si dovrebbe dire che “Non esistono pasti gratis, ma solo pasti più economici”, e la
soggettività provata per il punto 7) vale per tutti gli altri punti; inoltre ognuno di questi obiettivi
può essere visto come un elemento in crescita sinergica con gli altri, oppure in opposizione.
Ciò ci fa comprendere come in questi 17 obiettivi il concetto di multilateralità nella loro
applicazione pratica crei differenti sfide; a cui si deve aggiungere il fatto che il concetto può
avere ulteriori difficoltà di applicazione nell’ambito di differenti culture.
In sintesi, la visione multilaterale vede la cessione da parte dell’autorità decisionale a un
organo terzo che gestisce le risorse dei singoli stati per coordinare processi di sviluppo.
→ 2) Cooperazione bilaterale:
L’approccio bilaterale è incentrato sui singoli soggetti istituzionali: ogni nazione/ gruppo di
nazioni ha specifiche unità delegate alla cooperazione internazionale (es. in Italia il Ministero
degli esteri). Quando parliamo di erogare denaro e supporto da un punto di vista più pratico/
tecnico, vi sono differenti ministeri/ altri organi che partecipano allo sviluppo bilaterale. Le
azioni di cooperazione possono anche essere ricondotte alle politiche estere adottate dai
singoli paesi (es. le politiche bilaterali di aiuti che Cina e USA hanno adottato nel continente
africano).
→ 3) Le ONG:
In questa situazione vediamo un approccio bottom-up, che favorisce una visione grass-root
(= dalle radici), e si indica di solito come la manifestazione della popolazione che può
comprendere meglio i problemi e i dettagli di ogni singola criticità rispetto ai grandi decisori
(questo riguarda sia ONG che le fondazioni e altri attori privati). Le Organizzazioni Non
Governative sono entità recenti, ma attualmente anche fondamentali nel sistema
internazionale degli aiuti. Data la complessità di tale sistema, le ONG hanno trovato modo di
crescere e prosperare in quello che definiamo “ultimo miglio”: organizzazioni di grandi
dimensioni (es. Emergency) si sono strutturate per fare da ponte tra i paesi donatori e quelli
beneficiari. La loro attività è collegata a quella di migliaia di ONG locali (dei paesi riceventi)
che hanno supporto operativo e orientativo. Negli ultimi 40 anni le ONG hanno svolto un
fondamentale ruolo di lobby e advocacy, sviluppo welfare, assistenza umanitaria; lavorando
sul campo dei beneficiari hanno una conoscenza più diretta delle problematiche quotidiane
delle popolazioni. Tuttavia, il problema che spesso hanno è la tendenza alla
burocratizzazione, che sta facendo ora emergere la grande differenza tra INGO (= ong
occidentali) e SNGO (= ong nate nei paesi emergenti). Il livello di burocratizzazione di
alcune INGO è andato crescendo in parallelo con il distanziamento di molti dei loro operatori
dalla realtà che avrebbero dovuto aiutare a svilupparsi. Le accuse verso le INGO sono
molteplici e crescenti: vengono identificate spesso come agenti esterni che rischiano di
interferire con la politica locale (es. per applicare alcuni dei 17 obiettivi per lo sviluppo in
alcune zone rischiano di scontrarsi con il sistema sociale e religioso locale). Resta da capire
quindi se le SNGO possano essere capaci di dialogare direttamente con gli organi
multilaterali/ bilaterali. Il vantaggio delle ONG locali è che hanno le abilità dei “locali” di poter
gestire e risolvere i propri problemi con risorse locali (e solo se necessario con l’accesso a
fondi privati/ pubblici/ internazionali). Oggi internet permette di diffondere un altissimo livello
di intelligence e best practice, e grazie a soluzioni tecnologicamente economiche si può
avere accesso alla rete e di qui a tutte le informazioni disponibili. E’ importante comprendere
però anche che ogni organizzazione è composta da esseri umani per definizione fallibili. Se
le INGO possono vantare personale altamente preparato, le SNGO possono ricorrere a
risorse locali con una significativa riduzione dei costi; il tutto va a vantaggio di un migliore
livello di performance sui progetti di sviluppo.
CAP 11
→ Economia di genere, analizziamo le disuguaglianze:
In quasi tutti i paesi avanzati le donne ancora guadagnano meno degli uomini a parità di
mansione e anzianità + sono sottorappresentate nelle posizioni di comando + hanno più
difficoltà nell’avanzamento di carriera. Ci sono molti fattori che determinano la persistenza di
questa condizione di disuguaglianza di genere. Se parliamo di gender gap intendiamo le
differenze di opportunità tra uomini e donne in diversi ambiti (sociale, politico, intellettuale,
economico, culturale); e secondo l’ultimo Report con questa velocità forse nemmeno la
prossima generazione assisterà al suo annullamento. Nel mondo le donne alfabetizzate
sono 195 milioni meno degli uomini; sussiste anche l’alfabetizzazione finanziaria: infatti a
livello mondiale quest’ultima è più bassa nelle donne (anche per fattori di mera cultura
economica). Questo si traduce in una posizione più debole in ingresso sul mercato del
lavoro e in una serie di scelte che ne compromettono la stabilità finanziaria. A livello globale
solo 58% delle donne è titolare di un conto corrente a proprio nome (in Italia 4 donne su 10
non hanno un reddito personale). A livello mondiale solo il 12,5% delle lavoratrici negozia il
proprio salario di ingresso, contro il 52% degli uomini, e le donne chiedono più raramente un
aumento; questo conduce a una perdita complessiva di reddito che può arrivare fino a $1,5
milioni nell’arco dell’intera carriera. Inoltre c’è il tema del gender pay gap (= della differenza
retributiva tra uomini e donne a parità di mansione svolta); in EU le donne guadagnano 16%
in meno degli uomini. Il gender gap ci costa, sotto molti punti di vista.
→ Indici:
Il fenomeno della disuguaglianza di genere è complesso e composto da numerose
dimensioni diverse che si sovrappongono, e per coglierne l’ampiezza si utilizzano gli indici.
CAP 12
I Trend Emergenti
→ Industria 4.0:
Il termine Industria 4.0 (I4.0) viene usato per la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover,
dove viene presentata un’ipotesi di progetto. La I4.0 è la convergenza di numerose
tecnologie divenute mature negli ultimi 10-15 anni: somma di tecnologie hard + tecnologie
soft + big data (=grandi quantità di dati generati da umani, natura, entità più o meno
dipendenti dall’azione umana). La vera novità della I4.0 è che tutte queste tecnologie
collaborano tra loro in modo sinergico e potenzialmente indipendente dall’azione umana: in
uno scenario tipo (es. di produzione di un prodotto commerciale), lo scambio per la maggior
parte dei dati non richiede l’intervento umano, salvo che per alcune scelte grafiche ed
estetiche del prodotto, ma in generale questa industria richiede un limitato apporto umano.
→ Potenziamento umano:
Uno dei temi dibattuti è anche quello del potenziamento dell’essere umano: due sono i
percorsi che la scienza intraprende in questo campo
1. il primo è genetico = es. modifiche genetiche per ridurre potenziali malattie
geneticamente trasmissibili (osteggiato da diverse comunità religiose); il rischio
manifesto di manipolare il DNA di un individuo è quello di non poter prevedere la loro
evoluzione e correlazione.
2. il secondo comporta modifiche tecnologiche = è più accettabile e si divide in due
filoni
a) il wetware/ bioware: serie di impianti tecnologici creati con materiale vivente;
es. impianti di memoria aggiuntiva / maggiore resistenza ossea
b) l’hardware: insieme delle tecnologie che possono essere integrate nel corpo
umano/ nel sistema nervoso + oltre ad ampliamento cognitivo si aggiunge
ampliamento delle facoltà umane.
Tutte queste tecnologie e aumenti della natura fisica umana hanno grandi potenzialità ma
anche criticità legate all’aspetto etico-legale.
→ Cambiamento climatico:
I cambiamenti climatici sono eventi con cadenza periodica sulla Terra, ora stiamo entrando
in una fase di cambiamento climatico terrestre ma che questo sia causato 100% dall’uomo è
dibattibile (nonostante sia opinione diffusa nella comunità scientifica). Sicuramente questo
cambiamento avrà un impatto sulla vita umana e animale; tra le conseguenze maggiori che
interesseranno gli umani:
- riduzione delle risorse idriche
- riduzione di terreni agricoli
- correnti oceaniche o atmosferiche che cambiano percorsi o intensità
- aumento anche di fenomeni estremi come tifoni, uragani, monsoni ecc
- desertificazione in crescita a causa del calore e del cambiamento dei percorsi
atmosferici
- riduzione della diversità del bioma.
Esistono, però, anche scenari localizzati di percorsi virtuosi:
- reintroduzione/ stabilizzazione quantitativa di specie predatorie per ristabilire la
piramide naturale
- aumento di parchi di protezione
- operazione di recupero di terreno
- miglioramento e diffusione di soluzioni energetiche rinnovabili
- studio e valutazione di progetti di geoingegneria
Tutti questi fenomeni sono dinamicamente correlati tra loro e interagiscono con gli altri trend
trattati, si tratta di un’interazione spesso non positiva.
→ De-globalizzazione:
E’ il trend più recente: dopo la 2WW, la globalizzazione è stata un “mantra” di ogni nazione
occidentale, ma la tendenza attuale è di rivalutare quanto la globalizzazione sia
effettivamente un vantaggio. Alcuni temi discussi sono:
- impatto della globalizzazione sull’inquinamento
- disboscamento per sostituire le foreste con coltivazioni estensive
- mis-transfer pricing + relativa evasione-elusione fiscale
- paradisi fiscali che hanno effetto negativo sulla raccolta delle tasse + facilitano il
finanziamento del terrorismo e altri crimini internazionali.
Questi e altri temi hanno iniziato a incrinare la percezione della globalizzazione a partire dal
2008, a questo fenomeno si aggiunge una crescente disoccupazione nella classe media
occidentale; la situazione ha contribuito alla formazione di numerosi partiti e movimenti
politici + a una maggiore indipendenza economica = ha portato all’affermazione di partiti e
leader politici nazionalisti. Emerge la necessità di una nuova evoluzione dell’attuale
globalizzazione: gli odierni standard di consumo dei paesi avanzati sono inapplicabili su
scala globale; è chiaro che la globalizzazione stia attraversando un periodo di crisi = è in atto
una rivisitazione del concetto stesso di questa e delle relative applicazioni.
→ Consolidazione di monopoli:
Anche questo è un fenomeno relativamente nuovo, in particolare se parliamo del mondo
digitale. Il capitalismo e la globalizzazione hanno insito il concetto di monopoli: negli ultimi
decenni abbiamo osservato differenti cartelli creati, ufficialmente o ufficiosamente, da
aziende operanti in vari settori. Tuttavia parliamo sempre di singole entità che creano un
oligopolio; la consolidazione dei monopoli, ora e prossimamente, sarà probabilmente favorita
dall’economia delle piattaforme (su cui stanno discutendo già UE e USA). Lo scenario
dell’aggregazione di monopoli appare quindi di estrema attualità, e rappresenta, se non
viene elaborato correttamente dal legislatore, un rischio effettivo per la libertà + per
l’economia reale stessa.
→ Decrescita demografica:
Negli ultimi decenni si discute il rischio di carenza di risorse naturali per supportare la
crescita della popolazione, oppure discutendo il rischio che la continua crescita demografica
mondiale sia insostenibile per le risorse terrestri disponibili (intendendo l’intera realtà delle
risorse). Si stima che si raggiungerà uno stallo demografico entro il 2100: i paesi dell’OCSE
sono già in calo demografico con un tasso di natalità inferiore al livello di sostituzione / la
Cina, con la politica del figlio unico, si allineerà alla stabilità demografica / l’India sarà l’ultima
a raggiungerla / l’Africa sarà l’ultima entità continente a ridurre la sua demografia a causa
delle diverse politiche dei singoli stati (uguale per l’Europa che è composta da più stati con
politiche diverse). L’EU è l’esempio di “denatalità dolce” = la riduzione demografica non è
frutto di un piano di contenimento, ma della naturale evoluzione sociale urbana (il costo della
vita in città è maggiore di quello in campagna, e l’EU è uno dei continenti con maggiore
densità di popolazione per km2 + anche la percezione dell’importanza della qualità della
vita). Si ritiene plausibile che la denatalità dolce influenzerà il mondo, man mano che ci sarà
un crescente urbanizzazione, e potrà offrire un naturale modo di equilibrare la crescita.
→ Economia di genere:
Donne e uomini sono differenti: questo assunto solo di recente ha iniziato a manifestare le
sue ricadute economiche e sociali, nella considerazione del valore aggiunto che la forza
femminile può portare alla creazione della ricchezza nazionale. Tuttavia il tema ancora oggi
fa fatica ad affermarsi. Il concetto di economia di genere porta all’attenzione del legislatore
una serie di sfide che le donne devono affrontare sul mercato del lavoro. Dalle analisi poi si
è scoperto che le donne hanno una capacità più elevata di analisi del rischio rispetto
all’uomo (soprattutto nell’economia e finanza) + hanno approccio più empatico e analitico
(dove l’uomo di solito è più aggressivo) = un approccio più conservativo (aka femminile) può
essere un ottimo contrappeso a quello aggressivo (aka maschile); e un maggior equilibrio
nei modelli decisionali tra uomini e donne è una tendenza in crescita nei paesi OCSE.
Tutti gli eventi/ trend trattati sono eventi che già singolarmente plasmeranno l’evoluzione
umana, ma se uniti tra loro diventano dei game changer, quindi tenerne conto per i prossimi
10-20 anni è vitale per comprendere come la Terra e i suoi abitanti muteranno.