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METODOLOGIA E TECNICHE DELLA RICERCA SOCIALE

RICERCHE – Cardano, Manocchi e Venturini

Capitolo I – La ricerca sociale


“Ricerca sociale” = particolare tipo di agire con il quale il ricercatore si apre ad un’esperienza con l’intento
di elaborare una risposta ad una domanda relativa ad un determinato fenomeno sociale.
La finalità dell’attività scientifica non è spiegare il reale, che è inconoscibile, ma rispondere ad interrogativi
sul reale. Le operazioni di cui si compone la ricerca empirica possono essere divise in quattro fasi o
momenti:
1. Progettazione dello studio, ossia l’elaborazione del disegno della ricerca
2. Costruzione della documentazione empirica, ossia il lavoro sul campo
3. Analisi dei materiali empirici
4. Comunicazione dei risultati, ossia la scrittura

1.1 Il disegno della ricerca


L’elaborazione del disegno della ricerca si compone di due mosse, una all’inizio e l’altra alla fine dell’attività
scientifica: la prefigurazione e la ricostruzione.
La prefigurazione tratteggia l’itinerario lungo il quale ci si propone di elaborare una risposta.
Il primo passo consiste nell’illustrazione delle ragioni che rendono opportuna la ricerca e nella qualificazione
della rilevanza della domanda. Una domanda è rilevante se la risposta può contribuire alla crescita della
conoscenza scientifica (rilevanza scientifica) e/o se può offrire contributo conoscitivo alla soluzione di un
problema sociale (rilevanza pragmatica). La situazione più promettente è quella in cui entrambi i tipi di
rilevanza sono presenti.
Il passo successivo consiste nell’illustrazione dell’itinerario di ricerca che consentirà di giungere ad una
risposta “accettabile”. Ciò ha a che fare con l’individuazione delle tecniche di ricerca. Si tratta di individuare
la procedura di acquisizione della documentazione empirica pertinente, le tecniche di raccolta dati adatte e di
motivare sempre tale decisione. Dopo aver individuato l’itinerario metodologico, vanno messi a punto gli
strumenti osservativi (questionario, intervista, etc.) e la specificazione delle condizioni dello studio.
Quest’ultima si riferisce al setting, ossia la definizione del modo nel quale il gruppo sperimentale e quello di
controllo verranno sollecitati ed osservati.
Un ulteriore elemento del processo di disegno della ricerca è quello dell’identificazione del “contesto
empirico” entro il quale reperire i dati necessari all’elaborazione della risposta. Ciò ci consente di individuare
chi potrà fornirci informazioni pertinenti. Es. se ricorriamo all’intervista, l’identificazione del contesto
consiste nell’identificazione degli interlocutori; nella ricerca etnografica i casi di studio.
Il progetto di ricerca è quello che presenta il piano di volo, descrive meta, percorso e strumenti.
Nella veste di ricostruzione, il disegno della ricerca si profila a cose fatte, quando lo studioso racconta il
proprio studio.

1.2 La costruzione della documentazione empirica


Questa fase tratta della realizzazione dell’esperienza progettata nel disegno, esperienza che consegnerà le
informazioni necessarie. Questa fase è spesso etichettata come campo (field) e consiste nella conduzione
delle interviste o focus group, nella realizzazione di esperimenti, nell’osservazione. L’esperienza del
ricercatore viene oggettivata in un documento che può essere di due tipi: testi e collezioni di dati. Nei testi, le
informazioni sono espresse in enunciati scritti; le collezioni di dati assumono la forma di matrici dati, spesso
espressi in forma stenografica, organizzati funzionalmente alle procedure di analisi statistica. Le
caratteristiche del documento determinano il tipo di analisi a cui potrà essere sottoposto.
1.3 L’analisi della documentazione empirica
Tale analisi è condotta sui documenti, interrogati per trovare una risposta. L’analisi di una collezione dati si
basa sulla statistica; l’analisi del documento di testo si basa sull’impiego di strumenti compositi. Le analisi
applicate sul primo documento sono denominate qualitative, quelle del secondo tipo qualitative.
L’analisi si conclude con la raffigurazione sintetica dei risultati. Questa raffigurazione può essere modello
statistico o un quadro di sintesi delle relazioni tra proprietà attribuite al corpo testuale.

1.4 La comunicazione dei risultati


Il punto di approdo è la redazione di un testo, articolo breve destinato alla pubblicazione, o una monografia
più voluminosa. Il processo di “dialogo” fra documentazione empirica e teoria può procedere con un diverso
“passo”: muovendo dalla documentazione empirica (bottom-up) o muovendo da una cornice teorica di
riferimento (top-down).

1.5 L’articolazione delle quattro fasi: ricerca quantitativa e ricerca qualitativa


Le quattro “stazioni” si articolano in modo diverso nella ricerca qualitativa e quantitativa. Nella ricerca
quantitativa la relazione tra queste fasi è di norma lineare, mentre in quella qualitativa tutte e quattro le fasi
sono legate tra loro da una relazione circolare.

1.6 I principali modi della ricerca sociale: osservazione ed esperimento


La ricerca sociale ricorre a due procedure empiriche: l’osservazione e l’esperimento, classificazione che
muove dalla distinzione di Bacone tra esperienza osservativa e provocata. L’osservazione è tra le attività
fondamentali delle scienze empiriche, poiché attraverso di essa il ricercatore fa esperienza. Gli studi basati
sul ricorso all’osservazione naturalistica fanno parte della prima categoria, mentre il ricorso
all’interlocuzione, intervista discorsiva, indagine campionaria sono parte della seconda fattispecie, dal
momento che il ricercatore riproduce i fenomeni di cui desidera fare esperienza.
L’esperimento è lo strumento principe per il controllo delle ipotesi causali, che richiede tre condizioni
empiriche:
1. Covariazione tra variabile indipendente (causa) e dipendente (effetto)
2. Controllo della direzione causale
3. Controllo di variabili terze
Le suddette condizioni possono essere soddisfatte in modo più efficace e rigoroso nel disegno sperimentale,
attraverso la manipolazione della variabile indipendente.
Capitolo II – Guardie, prigionieri e finestre rotte
2.1 L’esperimento carcerario di Stanford
Zimbardo aveva condotto una ricerca sul tema del rapporto tra individuo e contesto, al fine di dimostrare
l’esistenza di potere situazionale o sistemico e quello individuale. La ricerca, nota come esperimento
carcerario di Stanford, presentava varie analogie con gli eventi di Abu Ghraib. Lo scopo dell’esperimento era
quello di valutare in che misura le caratteristiche di un contesto istituzionale potessero prevalere su fattori
disposizionali di chi agisce il quel contesto. In che misura le azioni di un individuo possono essere fatte
risalire a fattori esterni? Il modello analitico muoveva dalla distinzione tra sistema, situazione e persona.
Sistema = agenti ed organismi la cui ideologia, valori e potere creano le situazioni, cioè definiscono i ruoli
degli attori e le loro aspettative di comportamento. Situazione = contesto comportamentale che ha il potere di
attribuire significato ed identità ai ruoli e allo status dell’attore. Persona = attore sul palcoscenico della vita la
cui libertà comportamentale dipende dalla sua costituzione biologica, genetica, fisica e psicologica.
I sistemi forniscono rapporto istituzionale, l’autorità e le risorse che permettono alla situazione di operare,
mentre le situazioni esercitano sulle persone potere situazionale, in grado di orientare il loro operato. Tale
potere è tanto più forte quanto più la situazione è nuova.

2.2 Altri esperimenti affini


Anni sessanta, università di Yale, Milgram conduce un esperimento per indagare il tema dell’obbedienza
all’autorità. Il risultato fu la constatazione della volontà di persone adulte di giungere fino all’estremo grado
di obbedienza all’autorità.

2.3 La teoria delle finestre rotte


All’inizio degli anni Ottanta, i ricercatori Wilson e Kelling muovono dalla distinzione tra norme ingiuntive e
norme descrittive. Norme ingiuntive = forniscono informazioni su quale comportamento sia più appropriato
in una determinata situazione. Norme descrittive = quale comportamento è più comune in una determinata
situazione. La Teoria delle Finestre Rotte sostiene che dove esistono segni di distorsione e violazione delle
norme, gli individui possono desumere una norma descrittiva, secondo cui è comune assumere
comportamenti devianti in conflitto con le norme ingiuntive. La Teoria delle finestre rotte venne sottoposta a
controllo empirico più rigoroso da tre ricercatori dell’università di Groningen, Keizer, Lindenberg e Steg.
Essi adottarono sei tipi di esperimenti sul campo. Essi manipolarono le informazioni sulla violazione della
norma contestuale. La manipolazione avveniva costruendo due scenari alternativi: la condizione di ordine e
la condizione di disordine. Primo esperimento: volantino sulle bici parcheggiate di fronte ad un muro lindo
vs. muro sporcato da graffiti. Secondo esperimento: parcheggio di un supermercato, carrelli sparsi per il
parcheggio e volantino sulle auto vs. carrelli ordinati. Terzo esperimento: pacco postale visibile contenente 5
euro in condizioni di disordine vs. ordine.

2.4 Questioni metodologiche


Nozioni metodologiche:
a.) Distinzione tra esperimento ed osservazione
b.) Concetto di causa
c.) Distinzione tra tre tipi di esperimento
d.) Distinzione tra variabile dipendente ed indipendente
e.) Funzionamento dell’esperimento classico (funzione del gruppo di controllo, gruppo sperimentale e
della randomizzazione)
2.4.1 Esperimento e osservazione
La differenza tra esperimento ed osservazione è delineata dall’assenza o presenza di una manipolazione
selettiva e controllata delle variabili. Se vi è manipolazione, si parla di esperimento, altrimenti ci troviamo di
fronte all’osservazione.

2.4.2 Il concetto di causa ed il controllo empirico di ipotesi causali


Vi sono definizioni differenti del termine ipotesi:
‹‹ Un’ipotesi presuppone un set di unità ed un set di variabili e dice qualcosa sul modo in cui le unità si
distribuiscono sulle variabili ›› (Galtung, 1967).
‹‹ Le ipotesi sono congetture provvisorie, tentativi di indovinare risposte plausibili, di azzeccare una
scommessa cognitiva, in base ad un quadro di riferimento ›› (Popper, 1972).
‹‹ Le ipotesi sono proposizioni formulate in termini congetturali circa taluni aspetti di un oggetto in studio e
le loro condizioni ›› (Agnoli, 1997).
Tali definizioni sottolineano come le ipotesi siano scommesse, esiti attesi, congetture. Tra esse, alcune
assumono una forma linguistica speciale, del tipo “se (…) allora” ed identificano una o più condizioni cui
segue l’esito atteso. Tali ipotesi sono dette causali. Talvolta, esse sono formate da concetti di cui si può fare
esperienza empirica diretta, in modo tale che il controllo empirico di tali ipotesi passi attraverso “fatti
facilmente osservabili”. Però, il controllo non è sempre semplice e diretto. Ci sono concetti che non sono
direttamente osservabili. In questo caso, il controllo si fonda sul seguente argomento:
-se l’ipotesi contemplata (H) è vera, allora, nell’ambito di circostanze specifiche, si dovrebbero verificare
certi eventi osservabili. I è implicata da H e la definiamo implicazione sperimentale dell’ipotesi H. Segue il
ragionamento che porta a respingere l’ipotesi: Se H è vera, anche I lo è. Ma, come mostrano i dati probatori,
I non è vera → H non è vera.
Un argomento del genere si dice in logica modus tollens ed è deduttivamente valido: se le premesse sono
vere, la conclusione è vera. Nel caso dell’esperimento di Keizer, in tutti e sei i casi le attese teoriche dei
ricercatori vennero confermate. Ciò può essere espresso in modo compatto come segue, nella struttura
argomentativa denominata modus ponens: Se H è vera, allora I lo è. Come mostrano i dati probatori, I è vera
→ H è vera.
La differenza sta nel fatto che il modus ponens non è un argomento deduttivamente valido: rischiamo di
cadere nella fallacia dell’affermare il conseguente. L’ipotesi può ancora essere falsa, perché I non può essere
sperimentato in un numero infinito di casi. Però, assicura comunque un certo sostegno all’ipotesi.
Introduciamo una definizione più analitica di ipotesi:
‹‹ La parola ipotesi si riferisce a qualunque asserzione che sia in corso di controllo, indipendentemente dal
fatto che tenda a descrivere un certo fatto o evento particolare o a esprimere una legge generale o qualche
altro giudizio più complesso ››. In un’ipotesi causale, intendiamo controllare un’asserzione nella quale vi è
un legame tra variabile X e Y. Quando X e Y covariano, il legame non è spurio, è plausibile, e dunque
ipotizziamo che X sia causa di Y. Le cinque condizioni di covariazione, contiguità, assenza di legame spurio,
plausibilità teorica e antecedenza della causa all’effetto devono essere soddisfatte.
Le ultime tre questioni da verificare sono poi: plausibilità teorica del legame, direzione del legame e
complessità. Plausibilità teorica = congruenza del nesso causale con le teorie consolidate esistenti ed
autonomia semantica tra variabili di cui si istituisce il nesso causale (domini semantici diversi tra loro, es.
religione e spiritualità NO, perché fanno parte dello stesso dominio semantico).
Direzione del legame = X causa Y e non viceversa. Non confondere causa ed effetto.
Complessità = distanza temporale tra causa ed effetto, ossia il tempo che serve al meccanismo che lega X
e Y per mettersi in moto. Possono esistere cause distali e cause prossimali. Se la catena causale è lunga,
occorre segmentarla in sezioni più piccole, con cause ed effetti contigui (es. effetto del livello di educazione
dei genitori sui figli). La causalità può essere deterministica, quando la causa è condizione necessaria e
sufficiente dell’effetto; e non deterministica, quando agisce sulla probabilità di occorrenza dell’effetto.

2.4.3 La logica dell’esperimento


Operazioni effettuate durante un esperimento nelle scienze sociali – sei fasi.
FASE 1: Elaborazione dell’ipotesi causale. Ipotetica causa ed effetto, come misurarli e quale popolazione ed
ambito di studio sono rilevanti.
Es. caso Keizer = causa è il conflitto tra norme ingiuntive e descrittive, effetto adozione di comportamenti
devianti, misura degli effetti tramite semplice conteggio, popolazione gli abituali frequentatori dei luoghi
scelti.
FASE 2: costruzione del campione, con divisione dei soggetti del campione in due gruppi: sperimentale e di
controllo, a cui si è assegnati secondo “randomizzazione”, ossia sorteggio.
FASE 3: misurazione dello stato dei casi sulla variabile indipendente (misurazione prima). Si determina la
linea a partire dalla quale si misurerà la variazione imputabile all’azione della variabile indipendente e
all’impatto della causa. Nel gruppo di controllo, si misureranno le variazioni sulla variabile dipendente
imputabili a fattori accidentali.
Es. caso Keizer = esperimento in condizioni naturali non necessita misurazione prima. La linea base è
l’assenza di comportamenti devianti.
FASE 4: somministrazione al solo gruppo sperimentale di uno stimolo che rappresenta l’ipotetica causa
dello stato dei casi e misurazione dell’effetto, sulla variabile dipendente, in entrambi i gruppi (misurazione
dopo). Il risultato della misurazione sarà una combinazione dell’effetto del trattamento più un errore dovuto a
fattori di interferenza, diversi dall’azione della causa.
Es. caso Keizer = lo stimolo è la condizione di disordine che viene somministrata selettivamente ai soggetti.
FASE 5: per ognuno dei due gruppi, calcoliamo la variazione osservata sulla variabile dipendente fra
misurazione prima e misurazione dopo. Il calcolo di questa differenza assume diverse forme (es. variabili
cardinali, si basa su valori medi).
FASE 6: calcolo della differenza tra valori del gruppo sperimentale e quello di controllo, ottenendo la stima
dell’effetto.

2.4.4 I tipi di esperimento: esperimento di laboratorio, quasi – esperimento sul campo e quasi – esperimento
naturale
Esperimento di laboratorio = inapplicabile in molti ambiti della ricerca sociale per ragioni etiche e
metodologiche. Per questo, nella ricerca sociale, si abbandona il laboratorio e si conduce l’esperimento su
campo, denominato quasi – esperimento.
Quasi – esperimento sul campo = il ricercatore manipola la variabile indipendente (il trattamento), ma non
esercita pieno controllo sulle variabili terze.
Quasi – esperimento naturale = viene meno controllo delle variabili terze e la manipolazione della variabile
indipendente. A questa fattispecie possiamo ricondurre l’osservazione. La misurazione dell’effetto richiede
informazioni disponibili sul prima e poi. Si tratta dunque di una procedura osservativa in registro causale.

Capitolo III – L’operaio opulento e la tesi dell’imborghesimento


Nel 1951 in Inghilterra i laburisti furono sconfitti pesantemente, proprio dove i loro programmi di riforma
sociale avevano avuto maggiore successo. Per giustificarlo, si parlò di un processo di imborghesimento degli
operai, al quale però quattro giovani sociologi guidati da Goldthorpe mossero quattro critiche: 1. Problema di
misurazione di collocazione di classe (questione materiale – di reddito – o culturale – stili di vita – ?). Le
altre tre critiche rilevano tre problemi teorici, legati a distinzione tra classi sociali, agli ambiti della vita in cui
l’appartenenza di classe si manifesta, e all’interpretazione dei risultati. I ricercatori intendono
l’imborghesimento come un processo di avvicinamento ai valori propri dei vertici della gerarchia sociale.
Scelsero di studiare un unico caso in maniera approfondita, un contesto sociale in cui i fattori responsabili
dell’imborghesimento fossero tutti presenti con intensità.
Posto che l’intento sia quello di dimostrare l’implausibilità di una teoria T che istituisce una relazione tra due
classi di proprietà A e B, tale che A implica B, la teoria viene sottoposta a controllo su un caso C in cui le
proprietà della classe A sono presenti in grande intensità.
Per Goldthorpe e colleghi, le proprietà della classe A sono l’insieme di condizioni tecniche, sociali e culturali
responsabili delle proprietà B che prendono il nome di “imborghesimento della classe operaia”. Il caso C
viene individuato nella città di Luton. In quanto alle condizioni per l’imborghesimento, essi considerarono
tre insiemi di proprietà: caratteristiche sociali, caratteristiche dell’ambiente industriale e caratteristiche del
contesto comunitario. Individuarono poi tre aziende, una di piccola serie, l’altra di massa e una a processo
continuo. Ricorsero a due tipi di interviste, la prima a traccia standardizzata e la seconda a traccia
semi-strutturata.

3.1 Questioni metodologiche


3.1.1 Dai costrutti teorici ai termini osservati
Parte della ricerca empirica consiste nell’istituire una corrispondenza tra costrutti teorici e termini osservati.
La corrispondenza tra essi è modellata da ‹‹ regole di interpretazione ›› o ‹‹ principi ponte ››. Regole di
interpretazione = per quali ragioni si sceglie di studiare determinati soggetti, cosa è rilevante osservare ed in
che modo deve essere registrato il risultato dell’osservazione. Questo insieme di informazioni viene raccolto
in due categorie: -rapporti di indicazione (principi ponte di natura semantica) e –definizioni operative
(principi ponte di natura operativa). Analizziamoli.
● Rapporti di indicazione → la scienza vede alla propria base la concettualizzazione, ossia
l’elaborazione dei concetti. Il compito dello scienziato sociale è ridurre la complessità,
rappresentando in categorie. Il mondo deve essere organizzato nelle menti, riducendone la variabilità
a dimensioni tollerabili e manipolabili. La maniera in cui questa sorta di “ritaglio” viene operato
dipende unicamente dalle necessità pratiche di un individuo, gruppo o società. Le difficoltà di
comunicazione derivano spesso dai diversi tipi di “ritagli” adottati da ognuno.
I concetti possiedono un termine che li designa in modo sintetico, ma anche dei referenti empirici di
cui gli uomini possono fare esperienza. Un concetto può esistere senza termine, ma anche senza
riferimento empirico (es. certe sensazioni sono difficili da nominare; un drago non esiste
empiricamente).
Ciascun concetto può essere caratterizzato anche dalla sua estensione ed intensione. Intensione =
insieme dei requisiti che un oggetto deve soddisfare per far parte dei referenti empirici di un
concetto. Estensione = i referenti empirici di un concetto. Intensione ed estensione sono
inversamente correlati e la relazione che li lega è la scala di generalità.
I concetti di cui si compongono le teorie sono solitamente collocati sui pioli alti della scala di
generalità. Per dare avvio ad una ricerca empirica, occorre passare da costrutti teorici generali a
termini osservativi più specifici, dunque dobbiamo scendere a livelli più bassi della scala, trovare
altri concetti (es. di Goldthorpe = passiamo dal concetto generico di “operaio” a “operaio di Luton
maschio d’età tra 21 e 46 anni, sposato etc.”). Quando ciò avviene, il concetto sottostante si lega a
quello sovrastante in un rapporto di indicazione. Il concetto sottostante è indicatore di quello
sovrastante. Un esempio è quello del concetto di imborghesimento, che può avere come indicatori i
concetti di opulenza, reddito alto, reddito familiare e personale alto, etc. Parliamo dunque di una
relazione semantica che permette di dare contenuto empirico diretto a termini che non lo hanno
direttamente. L’indicatore fa sì che parte del concetto indicato sia osservabile. L’indicatore indica il
concetto indicato, NON il contrario. Infatti, il concetto potrebbe essere misurato in vari altri modi.
Dato un concetto, si può trovare un numero infinito di indicatori e un indicatore può trovarsi su più
scale di generalità (indicare altri concetti). Si dirà che tale indicatore ha una parte indicante ed una
parte estranea. Un indicatore è adeguato tanto più ampia è la parte indicante. Un concetto può avere
più indicatori (come in es. dell’imborghesimento), che a propria volta possono essere divisi in
sottocategorie. Si dice dunque che il concetto è multidimensionale. Le sue parti indicanti coprono
l’area semantica del concetto indicato.
● Definizioni operative → essa aiuta a compiere l’ultimo tratto del percorso che separa costrutti teorici
dai termini osservativi. Per esempio, per conoscere il reddito non è sufficiente osservare gli operai; è
necessario porre delle domande. Individuati gli stati empirici con cui la proprietà “reddito” si
manifesta, i ricercatori fanno corrispondere ad essi dei simboli, valori che li contrassegnano. I
simboli formali indicano gli stati in cui la proprietà “reddito” (che, ricordiamo, è indicatore) si
manifesta. In linguaggio tecnico, far corrispondere stati empirici a stati formali si dice misurare (=
rappresentare una struttura empirica su una formale). Es. reddito tra 10 e 20 mila £ lo indichiamo con
il numero 1, reddito tra 20 e 30m £ con il numero 2, etc. La definizione operativa è il complesso di
regole che guidano le operazioni con cui la proprietà viene misurata. La misurazione di una proprietà
su più oggetti (es. su un certo numero di operai) consente di costruire una variabile, cioè una colonna
nella matrice dati. Operativizzando i concetti costruiamo variabili, che assumono valori diversi di
caso in caso (es. ogni operaio ha un reddito diverso).
Si possono distinguere operazioni intellettuali di classificazione e i tipi di variabili che producono.
Le operazioni intellettuali identificano il processo di operativizzazione, i tipi di variabili ne sono
invece il prodotto. Le operazioni intellettuali sono tre: la classificazione, il conteggio e la
misurazione stricto sensu.
-Classificazione: segmentazione dei casi che compongono l’estensione di una proprietà, ossia i suoi
referenti empirici, in n casi. La segmentazione si ottiene mediante un criterio arbitrario.
-Conteggio: operazione con la quale gli stati empirici di un oggetto vengono fatti corrispondere a
stati formali ricorrendo alla serie dei numeri naturali.
-Misurazione stricto sensu: operazione con la quale l’ammontare di una proprietà viene confrontato
con l’ammontare della stessa proprietà posseduta dallo strumento unità scelto convenzionalmente.
I tipi di variabili si distinguono in base alle proprietà dei numeri che possono essere ascritte alle
etichette numeriche che designano lo stato sulle proprietà. I tipi di variabili sono:
-variabile nominale: la proprietà da registrare assume valori discreti non ordinabili. L’operazione
logico-matematica possibile è ≠ e =. L’operazione intellettuale che crea la variabile nominale è la
classificazione. A questa categoria appartengono le variabili dicotomiche, chiamate dummy, perché
indicano l’assenza o presenza della proprietà (es. Lavori? Sì o No).
-variabile ordinale: la proprietà da registrare assume valori discreti ordinabili. È preferibile ricorrere
ai numeri naturali. Le operazioni possibili sono =, ≠, › e ‹. L’operazione intellettuale possibile è
l’ordinamento, poiché gli stati discreti delle variabili sono ordinabili.
-variabile cardinale: la proprietà da registrare assume valori discreti enumerabili oppure valori
continui. I valori hanno pieno significato numerico, pertanto è possibile applicare anche le
operazioni matematiche +, -, : e x. Le operazioni intellettuali che consentono la variabile cardinale
sono due: misurazione stricto sensu e conteggio.

3.2 L’inchiesta campionaria: definizione


L’inchiesta campionaria è un modo di acquisire informazioni, di acquisire documentazione empirica: a.)
interrogando b.) gli individui oggetto della ricerca c.) appartenenti ad un campione rappresentativo d.)
mediante una procedura standardizzata di interrogazione e.) allo scopo di studiare le relazioni esistenti tra
variabili.

3.2.1 Interrogare mediante una procedura standardizzata…


La pratica del fare domande è il cuore del processo di misurazione per le ricerche. Chi interrogare è stabilito
dalla strategia di campionamento, dal modo in cui si sceglie tra potenziali interlocutori. Cosa chiedere lo dice
lo scenario teorico nel quale ci muoviamo e gli indicatori che adottiamo. Nel caso dell’inchiesta campionaria,
il modo in cui chiediamo è altamente standardizzato. L’intervista è dominata da una traccia, un copione che
guida l’intervistato a rispondere alle domande nell’ordine. La traccia prende il nome di questionario, che
uniforma l’interazione verbale tra due attori.
Le domande possono essere distinte in base a sostanza = argomento che affrontano, distingue domande che
vertono su proprietà storiografiche (tracciano il profilo socio demografico), atteggiamenti (indicano valori,
giudizi, orientamenti e sentimenti) o comportamenti (ciò che egli fa); e forma = forma delle risposte, che
possono essere a risposta chiusa, a risposta aperta e a codifica sul campo. Le risposte chiuse possono essere
dicotomiche (scelta tra due alternative), graduata (stati alternativi ordinati), a intervalli eguali (si adattano a
proprietà continue, es. reddito) e classificatoria (alternative di risposta che riproducono una classificazione
dell’estensione della proprietà, es. classificazione materie scolastiche).
Nelle domande a risposta aperta l’intervistato è libero di rispondere a parole proprie. Nelle domande a
codifica sul campo l’intervistato è libero di rispondere, ma l’intervistatore fa risalire la risposta a modalità
predefinite. Le domande a risposta aperta sono poche utilizzate perché troppo aperte perché vi si applichino
procedure statistiche, ma poco aperte per trattarle con analisi narrativa o argomentativa.
La formulazione linguistica delle domande è un elemento fondamentale. La formulazione di un quesito in un
certo modo ha effetto sulla risposta che verrà data. Verbi come proibire o vietare cambiano in maniera
significativa i risultati ottenuti, poiché “vietare” assume accezione negativa. È necessario porre cura nella
formulazione delle domande e promuovere l’ispezionabilità della documentazione empirica. Per il primo
compito, è bene raccogliere informazioni sugli intervistati, conducendo interviste preliminari per testare la
traccia. Il secondo richiede di riportare le domande in nota o appendice al testo. Vi sono principi che devono
guidare alla conduzione delle domande:
-leggerezza = sottrazione di peso alla forma del linguaggio, con formulazione semplice, breve e numero
ragionevole di alternative. Due violazioni alla semplicità sono: ricorso a proposizioni involute e doppia
negazione. Il requisito della brevità può essere violato solo quando è necessaria una premesse alla domanda.
La questione del numero di alternative di risposta è spinosa, ma dipende dal bisogno che una domanda deve
soddisfare: più la domanda è cruciale, più l’informazione deve essere dettagliata, più le alternative. Inoltre,
dipende dalla capacità cognitiva dell’intervistato di avere a che fare con molteplici alternative.
-chiarezza = una domanda è più precisa quanto più riduce l’ambiguità. Ambiguità può essere di matrice
semantica, quando l’intervistato non riesce ad accedere al significato dato dal ricercatore; di matrice
pragmatica, quando le domande non c’entrano l’obiettivo cognitivo. È il caso delle domande sotto specificate
(non specifica condizioni spaziali, temporali, etc. – è importante quindi circoscrivere le condizioni di
contorno) e le domande a doppio target (es. “i suoi genitori sono credenti?” – sto rivolgendo la stessa
domanda per due soggetti diversi).
-sensibilità = attenzione alla connotazione emotiva dei termini. È necessario evitare il ricorso a domande
tendenziose, che facciano trasparire l’orientamento del ricercatore. In caso di argomenti difficili, meglio
optare per un’intervista discorsiva.
-intento classificatorio = i criteri vanno scelti in modo da rispettare i requisiti di esaustività e mutua
esclusività. Le alternative di risposta devono permettere a tutti gli intervistati di trovare il loro posto nella
classificazione, senza incertezze.
N.B. Non è sempre necessario inventare le domande, poiché si possono trovare su siti istituzionali o da altri
scienziati sociali. Ci si può, in alternativa, far aiutare dai propri intervistati, in una sorta di pre-test.
Anche la successione delle domande è un aspetto fondamentale. Ciascuna domanda si qualifica per la sua
posizione assoluta e relativa nel questionario. Per quanto riguarda la posizione assoluta, l’ordine delle
domande deve essere ragionevole per l’intervistato; nella prima fase dell’intervista il compito cognitivo
proposto non deve essere troppo impegnativo, ma nemmeno banale. La seconda fase è il “cuore” del
questionario, in cui la produttività è alta e vanno affrontati i temi principali. È bene mantenere le domande
che urtano potenzialmente la sensibilità verso la fine, in modo tale che se l’intervistato decide di ritirarsi, la
revoca avrà meno danno. Per quanto riguarda la posizione relativa, è bene che la sequenzialità sia logica.
Possono esservi inoltre domande-filtro, che aprono l’accesso a una parte del questionario solo se viene data
una certa risposta (es. solo a chi risponde “sì” ad una determinata domanda viene anche chiesto “perché?”).
L’ordine relativo può anche basarsi sulla sequenzialità temporale, oppure sulla sequenzialità tematica. Infine,
si può usare una “batteria di domande”, ossia domande che vengono formulate e chiuse in modo analogo.
Ciò è funzionale alla costruzione di indici sintetici. Il rischio in questo caso è quello del response set, quando
gli intervistati non pensano a ciò che rispondono e danno risposte superficiali per risparmiare tempo.
Introducendo domande a polarità invertita si può riguadagnare l’attenzione del soggetto.
La modalità di interrogazione può essere diversa. Nella versione canonica, intervistato ed intervistatore
dialogano faccia a faccia, mantenendo la componente linguistica, paralinguistica (tono, timbro, intensità,
etc.) ed extralinguistica (gesti, espressioni facciali, sguardo, etc.). Quest’ultima componente decade durante
l’intervista telefonica. Se anche le prime due componenti decadono, si parla di questionario postale o
elettronico. Una via di mezzo è costituita dall’auto-somministrazione in compresenza, in cui l’intervistatore è
presente mentre l’intervistato compila autonomamente il questionario.
3.2.2 Gli individui oggetto della ricerca, appartenenti ad un campione rappresentativo…
Il percorso di scelta dei casi da intervistare può essere inteso come un passaggio dal generale allo specifico.
A livello più alto, viene definito un ambito ed un’unità di analisi. Gli esemplari dell’unità di rilevazione
presenti costituiscono la popolazione. A causa di costi e tempi di ricerca lunghi, per questo si identifica un
sottoinsieme della popolazione: il campione. Il ricercatore si prefigge di scoprire qualcosa che può essere
applicato a tutti i casi. L’operazione prende il nome di generalizzazione. L’impiego di campioni probabilistici
è la soluzione al problema. Un campione si dice probabilistico quando ogni unità della parte viene estratta
dal tutto con una probabilità nota e diversa da zero. Fattispecie del campionamento probabilistico è il
campionamento causale semplice, quando il ricercatore dispone una lista completa delle unità della
popolazione, assegna un numero ad ogni unità ed estrae numeri casuali quante sono le unità del campione. Il
margine di imprecisione è un elemento imprescindibile e deriva da a.) il fatto che il campione non è la
popolazione; b.) il fatto che non è l’unica parte che potremmo prendere; c.) il fatto che le caratteristiche della
popolazione sono in larga misura ignote, quindi non si può sapere in che misura il campione è effettivamente
rappresentativo.
La presenza dell’errore campionario indica che ci si trova di fronte ad una stima del valore di quella proprietà
nella popolazione. Più piccolo il campione e più varia la proprietà, meno precisa risulterà la stima. Infine, più
è ampio il campione, più ampio l’intervallo di tempo necessario a condurre le interviste. Non è un problema,
se l’intervallo di tempo è ininfluente. Diverso è se si vuole condurre interviste prima e dopo un determinato
evento. Quando ciò non accade, si finge che le interviste siano trasversali o cross-sectional. Questa scelta,
però, pone due problemi: innanzitutto, ciò che gli intervistati dicono è influenzato dal momento storico.
Inoltre, oltre alla generalizzazione sincronica (i casi per il tutto) stiamo attuando una generalizzazione
diacronica (i risultati ottenuti vengono estesi a tutti gli altri punti nel tempo).

3.2.3 … Allo scopo di studiare le relazioni esistenti tra variabili


La realizzazione di un’inchiesta campionaria mette a disposizione informazioni il cui impiego canonico
prevede il ricorso a statistiche multivariate, che consentono di esaminare le relazioni tra diverse variabili e
diversi indici. Qui la differenza tra l’inchiesta campionaria ed il sondaggio. Nel sondaggio l’analisi si limita
alla produzione di statistiche uni variate (o, al più, bivariate); nell’inchiesta campionaria vengono messi a
punto modelli statistici più complessi. Le analisi statistiche a cui fare ricorso dipendono dal tipo di variabili a
disposizione.

Capitolo IV – La sfida dei valori


Consideriamo l’analisi campionaria, legata però all’uso degli indici e all’analisi secondaria. Loredana Sciolla
affronta la questione della partecipazione politica attingendo a banche dati internazionali, adottando una
prospettiva comparativa e longitudinale e accostandovi un’inchiesta campionaria telefonica. L’oggetto di
interesse è capire dove stanno andando le democrazie e per quali ragioni vi siano segnali di
disfunzionamento. Sciolla punta la lente sull’Italia degli ultimi vent’anni. È necessario individuare fattori che
influenzano maggiormente la disaffezione politica e possono incentivare la partecipazione attiva.

4.1 L’utilizzo di banche dati


I dati provengono da quattro diverse fonti: tre banche dati (World Values Survey, European Values Survey,
Eurobarometro) che costituiscono indagini longitudinali e un’indagine condotta mediante intervista
telefonica, realizzata in Italia nel 1999 su quattro province e due aree metropolitane. Le rilevazioni utilizzate
da Sciolla furono: inizi anni ottanta, inizi anni novanta,1995-97, 1999-2000. La ricercatrice scelse Italia,
Francia, Spagna e Stati Uniti per ragioni pratiche, oltre che teoriche. Le banche dati non rilevano le stesse
variabili in tutti i Paesi, dunque i ricercatori hanno scelto di “massimizzare il numero di rilevazioni per le
variabili di interesse”. Le date di rilevazione variano da un paese all’altro. Occorre ricordare che le basi dati
esistenti non vanno considerate come statiche e inamovibili; un resoconto esaustivo di ricerca dovrebbe
sempre comprendere appendici esplicative per un esame accurato delle basi empiriche; alcune domande
empiriche possono trovare risposta solo mediante tecniche di osservazione quantitative.
L’utilizzo di dati survey è contemporaneamente scelta forte e debole: dà conoscenza semplificata di fenomeni
ampi, ma non consente di andare nel dettaglio.
L’Eurobarometro sonda i cittadini europei su temi generali come valori, partecipazione politica, fiducia negli
altri, etc. La sua versione ordinaria prevede due rilevazioni all’anno e si compone di quattro rilevazioni
differenti. L’EB speciale indaga un numero ristretto di temi con maggiore profondità per soddisfare bisogni
di istituzioni europee. L’EB flash consta di campagne di interviste telefoniche tematiche, l’EB qualitativo
indaga temi circoscritti in sotto-popolazioni specifiche.

4.2 Il lavoro sui dati: alcuni risultati


4.2.1 Le dimensioni della morale civile
Tra le variabili indagate, gli autori ne hanno individuate nove che presentano un’associazione tra loro e
riguardano comportamenti nelle sfere del bene pubblico e dei diritti della persona. Da queste variabili, si è
cercato di comprenderne le associazioni con una o più dimensioni latenti, non osservabili direttamente
(concetto che si colloca più in alto sulla scala di generalità). Seguendo questo percorso, i ricercatori
individuano alcuni indici per rappresentare il concetto complesso di morale civile = insieme di valori e
giudizi su obbligazioni e diritti che afferiscono all’ambito della cittadinanza democratica.
Le nove variabili manifeste sono state ottenute chiedendo ai cittadini di esprimersi su una serie di
comportamenti su scala di “accettabilità” da 1 a 10: aborto, divorzio, eutanasia, omosessualità, suicidio,
evasione delle tasse, non pagare il biglietto autobus, ottenere dallo stato benefici senza averne diritto,
accettare bustarelle. Emerge poi un grado di associazione tra i primi cinque comportamenti e un fattore
latente (libertarismo) e gli ultimi quattro comportamenti e un altro fattore latente (civismo). Tali concetti
latenti permettono al ricercatore di elaborare punti di vista, argomentazioni, ipotesi attinenti con le domande
cognitive che fondano il lavoro di ricerca. Essi mostrano che il concetto ancor più astratto di morale civile
non sia univoco, ma composto da due dimensioni distinte in contrapposizione. Civismo = giudizi su
comportamenti lesivi dell’interesse pubblico; approvati e giustificati a vantaggio personale, anteposto a
quello collettivo. Libertarismo = dimensione di difesa dei diritti della persona e della sua libertà di scelta. Dal
confronto tra Paesi emergono dati che mettono in discussione certi stereotipi sull’Italia. Lo spirito civico ed il
livello di libertarismo sono molto simili a quelli negli Stati Uniti. In tutti i paesi, il civismo cresce
proporzionalmente all’età, mentre il libertarismo presenta un andamento opposto. Tra gli obiettivi di Sciolla,
quello di indagare la componente culturale: il civismo è più presente tra religiosi e praticanti, ma trasversale
rispetto alla collocazione ideologica. Il libertarismo è presente tra i non credenti, ma anche tra credenti non
praticanti; la sinistra è nettamente più libertaria della destra. Gli autori hanno quindi dicotomizzato i punteggi
fattoriali precedentemente ottenuti, scegliendo come punto di taglio la media della distribuzione, ottenendo
due insieme per ognuno dei due concetti. È stato così possibile costruire un indice tipologico di quatto tipi
(libertari individualisti, es. Francia; libertari civici, es. Spagna; integristi civici).

4.2.2 Un altro esempio di lavoro sui dati: la partecipazione associativa


Un altro esempio di analisi dati nella ricerca di Sciolla è quello che concerne il grado di partecipazione
associativa. In letteratura, si è fatto strada sempre più il concetto di capitale sociale, composto da una serie
di dimensioni soggiacenti che hanno a che fare con reti associative, fiducia, valori morali, norme di
reciprocità sociali e molto altro. L’autrice decide di considerare due dimensioni di questo aspetto, la prima di
natura più oggettiva, la seconda più soggettiva. Menzioniamo solo la prima. I ricercatori hanno contato i
gruppi e le associazioni volontarie a cui il soggetto partecipa, per individuare la presenza di multi
appartenenze. I ricercatori hanno poi creato l’indice di partecipazione associativa, da 0 a 9. I dati sono stati
poi accorpati in tre livelli: non associati, monoassociati e multi associati. Si è reso poi necessario un secondo
passaggio teorico-metodologico: non conta solo la partecipazione in sé, ma anche il tipo di associazione.
Infatti, è possibile che chi si iscrive lo faccia per soddisfare esigenze personali. I ricercatori hanno quindi
identificato sei tipi di associazioni, partendo dalla distinzione di Putnam (2000) tra bridging (inclusive) e
bonding (esclusive). Hanno quindi distinto tra: associazioni religiose, di impegno sociale, politico-sindacali,
per i diritti civili, di fruizione, di categorie professionali.

4.3 La costruzione degli indici


I primi contributi teorici sulla costruzione di indici rimarcano la necessità di muovere da livelli alti della
scala di generalità (dal piano della concettualizzazione) a livelli più bassi, quelli osservabili (piano
dell’operativizzazione e delle variabili). Ci sono cinque fasi: 1. Individuazione di un concetto, oggetto o
fenomeno complesso e della sua definizione; 2. Scelta delle dimensioni rilevanti per la descrizione delle
definizioni individuate; 3. Definizione degli indicatori adatti a descrivere ciascuna dimensione; 4.
Individuazione delle definizioni operative per la traduzione empirica degli indicatori; 5. Costruzione delle
variabili e delle basi dati.
Questa sequenza presuppone però l’intervento diretto del ricercatore, mentre non si applica all’analisi
secondaria, in cui ci si basa su banche dati costruite. Questa condizione ha portato a parlare di due momenti
diversi, concettualizzazione ed operativizzazione, operazioni non necessariamente conseguenti.
Nell’analisi secondaria ci sono due logiche differenti: la prima parte da concetti astratti per definire
indicatori, poi operativizzati; la seconda arriva alla scelta degli indicatori muovendo da dati disponibili per
stabilire le definizioni operative. Si tratta di un “processo di adattamento progressivo” tra percorsi teorici e
disponibilità delle informazioni. Ulteriore percorso di ricerca è, infine, muovere dai dati presenti grazie a
precedenti lavori di ricerca, ma senza domande definite cui rispondere. Pur in assenza di domande precise, la
scelta dei concetti e fenomeni complessi (e le loro dimensioni) è orientata sia dal quadro teorico che dalla
conoscenza delle politiche in atto e delle problematiche da affrontare. In questo caso, muovendosi dal basso
all’alto, il rapporto tra parte indicante e parte indicata subisce trasformazioni. La molteplicità di significati
che un indicatore può avere rappresenta un punto di forza, poiché consente di descrivere un ampio numero di
oggetti partendo da un numero limitato di indicatori.

Ci sono almeno 4 motivi per ricorrere all’analisi secondaria: -ridurre i costi della ricerca; -ridurre costi
soprattutto in caso di ricerca di ampia portata, -accresce la qualità della ricerca, poiché le procedure di
operativizzazione sono considerate più affidabili; -più ricercatori conducono la ricerca impiegando le stesse
definizioni operative, dunque i risultati sono considerati comparabili.
4.3.1 Indici additivi e indici tipologici
Gli indicatori possono essere combinati per costruire un indice mediante due procedure: procedure
matematiche e procedure logiche. L’esempio che rappresentiamo deriva dal lavoro di Goldthorpe presentati
precedentemente. I ricercatori dividono il concetto di stress lavorativo in due dimensioni: la prima legata alla
componente fisica (S1) e la seconda alla componente psichica (S2). Le due sono state operativizzate
mediante domande (Il lavoro che svolge è fisicamente stressante? Il lavoro che svolge è snervante?), a cui
sono state individuate 5 modalità di risposta a cui sono stati assegnati valori numerici da 1 a 5 (da “molto” a
“per nulla”). Così facendo, ogni indicatore è stato trasformato in una variabile a 5 valori. Le due misure di
stress possono essere combinate in modo da ottenere un indice che misuri il concetto complesso di stress
lavorativo (SL) semplicemente sommandole. SL = a1·S1 + a2·S2. L’indice ottenuto prende il nome di indice
additivo. I valori a1 e a2 indicano il rispettivo “peso” delle due componenti. Se il valore è 1 per entrambe le
componenti, si parla di un indice additivo non pesato. Se, invece, le due componenti assumono valori diversi
(es. stabiliamo che lo stress emotivo valga il doppio di quello fisico), parliamo di un indice additivo pesato.
Il limite è che l’indice additivo identifica in modo accurato solo le posizioni estreme. Quando la somma che
si ottiene è, per esempio, uguale a 6, non è possibile stabilire in che modo si sia giunti a tale valore (alto
livello di stress fisico ma basso di stress emotivo? Viceversa? Livelli medi di entrambi?). Limiti del genere si
risolvono passando da un indice additivo ad uno tipologico. Ad esso, si giunge riclassificando i livelli di
stress in 2 soli livelli invece che 5. In questo modo, diventa più agevole costruire una tipologia, che distingue
tra quattro tipi di stress di lavoro (+S1, - S2; +S1 +S2; -S1 –S2; -S1; +S2)1.

4.4 Quadro d’insieme sull’inchiesta campionaria


Vediamo il quadro di sintesi degli aspetti metodologici dell’inchiesta campionaria. Lo facciamo
ripercorrendo i quattro passi fondamentali della ricerca (disegno della ricerca, costruzione della
documentazione empirica, analisi dei dati ed esposizione dei risultati). Il processo ha due facce: quella
prettamente scientifica (operazioni logiche e concettuali) e quella organizzativa (formazione e
coordinamento). La fase del disegno della ricerca include un momento teorico di elaborazione delle domande
cui la ricerca vuole rispondere (compito che può essere svolto consultando letteratura scientifica o con una
fase di lavoro “su campo”). A questo punto si stabilisce il fabbisogno informativo (proprietà socio grafiche,
atteggiamenti e comportamenti su cui raccogliere informazioni), poi si passa dai costrutti teorici ai termini
osservativi. Il ricercatore deve stabilire le definizioni operative, definire l’unità di rilevazione e l’ambito, la
popolazione da cui estrarre il campione, la dimensione temporale, scegliere la modalità di interazione, la
forma di interazione, che domande metterà nel questionario, in che ordine, etc. L’ultimo passo della prima
fase consiste nel reclutamento ed addestramento degli intervistati. Alla progettazione segue la fase di
conduzione, ossia costruire la documentazione empirica. Ciò significa svolgere quattro compiti: 1. Prendere
contatto con gli intervistati, presentare la ricerca, ottenerne il consenso; 2. Conduzione dell’intervista, in cui
si conducono le misurazioni previste, in cui si rilevano e registrano le informazioni. Con la terza fase, il
risultato delle misurazioni condotte viene riportato in forma compatta e funzionale all’analisi: si costruisce la
matrice dati.

4.4.1 Questioni critiche: l’invarianza dello stimolo e l’affidabilità del comportamento verbale

1
Con il segno “+” sto indicando ALTI livelli di stress, con il segno “-“ indico invece BASSI livelli di stress. Ciò è possibile
dal momento che abbiamo ridotto i livelli di stress da 5 a 2, riducendo le modalità di “molto”, “abbastanza”, etc. a 2
modalità: “alto” e “basso”.
I problemi fondamentali che emergono nell’inchiesta campionaria sono essenzialmente due: la questione
dell’invarianza dello stimolo e quella dell’affidabilità del comportamento verbale.
La prima riguarda il fatto che nell’inchiesta campionaria le risposte vengono ritenute comparabili per il
motivo che gli intervistati sono stati sottoposti tutti alle stesse domande ed in situazioni di intervista
uniformi. In realtà, però, la stessa domanda può avere significati diversi a seconda dell’intervistato, a causa
del diverso bagaglio culturale ed esperienza personale. Per uscire dall’impasse, si può utilizzare l’intervista
discorsiva, che si focalizza sull’individualità del soggetto, invece di osservare l’uniformità tra individui.
L’inchiesta campionaria è però pur sempre l’unica tecnica che consente di rispondere a determinate domande
conoscitive. Il secondo problema riguarda l’affidabilità del comportamento verbale, inteso come mezzo per
indagare la realtà sociale. Gli intervistati sono influenzati, per esempio, dalla “desiderabilità sociale” = la
valutazione, socialmente condivisa, che in una certa cultura viene data ad un certo atteggiamento o
comportamento individuale. Si ha a che fare con ciò che le persone reputano giusto o sbagliato e
sull’immagine che si vuole dare di sé. Un elemento che si rimanda all’affidabilità è quello della non-attitude,
ossia l’assenza di opinioni riguardo alla domanda amministrata. Gli intervistati, percependo il questionario
come una sorta di test, non accettano/ammettono di non saper rispondere e, piuttosto, forniscono una risposta
casuale.

4.2.2 Errori di rilevazione


Le varie fasi della ricerca possono essere affette da errori. Innanzitutto, occorre distinguere tra errore
sistematico ed errore accidentale. Il primo appartiene a tutte le rilevazioni effettuate ed è una costante
difficilmente sondabile. L’errore accidentale riguarda invece ciascuna specifica rilevazione, e varia dall’una
all’altra. Durante la fase teorica, i ricercatori costruiscono gli indicatori che renderanno osservabile il
concetto. Dal mix di indicatori impiegati possono derivare errori di copertura semantica del concetto, ossia
errori di indicazione (errore di natura sistematica). Durante la fase empirica, gli errori possono essere sia
sistematici che accidentali. Essi si dividono in: errori di selezione, errori di osservazione ed errori nel
trattamento dei dati. Errori di selezione = i dati sono costruiti a partire da un campione della popolazione in
studio, non da tutta la popolazione. Intervistando altre persone, si potrebbero ottenere dati diversi (errore di
campionamento). Un sottotipo di errore è l’errore di copertura, quando la lista di nominativi dai quali
estraiamo il campione non è completa. Terzo sottotipo di errore è quello di non risposta, che si riferisce ai
potenziali intervistati e contattati che però si rifiutano di rispondere. Gli errori di osservazione riguardano la
fase di costruzione della documentazione empirica, con somministrazione del questionario. Le fonti di errore
sono quattro. La prima è l’intervistatore, che può commettere errori nel registrare le risposte, condizionare
l’intervistato, formulare domande in modo non standardizzato, etc. La seconda è l’intervistato, che potrebbe
rispondere per compiacere l’intervistatore o pressioni conformistiche. La terza fonte d’errore è lo strumento,
poiché il questionario potrebbe essere mal formulato. Infine, le modalità di somministrazione possono
portare ad errori (es. questionario postale, non si è sicuri di chi effettivamente lo compili). L’ultimo insieme
di errori è quello nel trattamento dei dati. In questo caso, il passaggio dai questionari alla matrice dati è ricco
di insidie e possibili errori.
Sono stati però elaborati dei modi per valutare attendibilità e validità del questionario. Attendibilità =
capacità di un certo strumento di rilevazione di replicare in modo costante i risultati ottenuti. Validità =
capacità di uno strumento di rilevazione di portare il ricercatore ad osservare proprio ciò a cui è interessato.
Uno strumento di rilevazione può essere attendibile e non valido. La prima tecnica per constatare
l’attendibilità è il test-retest = riguarda il suo rimanere stabile nel tempo, a ripetute somministrazioni. Questo
diventa però di difficile applicazione nell’ambito delle scienze sociali, quindi si definisce l’attendibilità in
termini di equivalenza. La tecnica split-half (suddivisione in due parti) divide lo stesso test in due parti
uguali ed equivalenti, poi calcola la correlazione tra risultati ottenuti. La tecnica parallel forms, forme
equivalenti, compara due test distinti che misurano lo stesso concetto e quindi dovrebbero dare risultati
simili. Vi sono poi tecniche che misurano la internal consistency, guardando alla correlazione delle singole
risposte con tutte le altre.
Misurare la validità è più difficile, poiché si tratta di un errore sistematico. Esso si situa nel momento della
costituzione dei rapporti di indicazione tra concetti e variabili empiricamente osservabili. L’analisi teorica del
grado di validità degli indicatori si basa sulla letteratura e prende il nome di validità di contenuto, in cui si
delinea il numero di indicatori adeguato. Una seconda strada è quella di riferirsi a qualche criterio esterno a
concetto-indicatore, criterio che sia in rapporto di validità con il concetto in studio. In sostanza, si osserva la
correlazione dell’indicatore prescelto con un altro indicatore. Questo test prende il nome di validità per
criterio.

4.4.3 La matrice dati


Prima che la matrice dati possa essere inserita in un software di analisi statistica, è necessario procedere con
il controllo di eventuali informazioni errate. Si procede di norma a tre tipi di controllo: plausibilità,
congruenza e valori mancanti. Controllo di plausibilità = si controlla che i valori riferiti a ciascuna variabile
siano coerenti con quelli previsti dai codici assegnati a ciascuna domanda (es. se i codici assegnati sono da 1
a 4 per una certa domanda, se compare un 5 si non è plausibile, c’è un errore). Controllo di congruenza = si
controllano due variabili, incrociando le rispettive distribuzioni di frequenza, osservando se emergono
incongruenze (es. di fronte a domande-filtro, se una parte del questionario è fatta solo per gli occupati, se uno
risponde che è disoccupato, le variabili relative all’occupazione dovranno poi essere nulle. Se non lo sono, è
incongruente). Valori mancanti = quando il soggetto non risponde ad una domanda o si scopre un valore non
plausibile con il codice. Tali valori possono provocare una perdita di informazioni, rendendo il questionario
inutilizzabile ed abbassando la numerosità del campione.

Capitolo V – Matti o uditori di voci?


In questo capitolo vengono illustrate due ricerche dedicate all’esperienza del male mentale. La prima si
svolge a Torino tra il 2003 e 2004, per individuare i fattori capaci di promuovere l’inserimento lavorativo dei
pazienti psichiatrici. Il campione comprendeva pazienti tra 18 e 50 anni (età lavorativa) e venne costituita
seguendo la logica del caso-controllo2. Le finalità erano esplorative, con lo scopo di formulare, non di
controllare, ipotesi sul rapporto tra disturbo psichico e lavoro. Vennero considerati casi i pazienti psichiatrici
disoccupati e controlli quelli occupati. Il confronto tra casi e controlli era diretto ad individuare i fattori
responsabili della partecipazione o esclusione lavorativa. Il campione prevedeva omogeneità nella
composizione per sesso, età e profilo clinico. I soggetti selezionati vennero coinvolti in due interviste
discorsive in successione: una libera, nella quale gli intervistati sono invitati a raccontare della loro vita, e
una guidata da traccia, per sviluppare i temi chiave di lavoro e disturbo psichico. 20 uomini e 20 donne
acconsentirono alla seconda parte dell’intervista, condotta da intervistatori affiancati da altri pazienti, per
facilitare la condivisione dell’esperienza. La prima intervista intendeva sollecitare narrazioni autobiografiche
degli interlocutori, mentre la seconda seguiva una traccia che verteva su temi di disagio psichico, storia
professionale e socialità. Il campione risultava composto da persone che mostravano adesione al “ruolo” di
paziente psichiatrico. La maggior parte di loro aveva accettato di affidare i propri disturbi allo psichiatra. Ciò
si legava ad una rappresentazione della propria diversità in chiave di disabilità. Gli studi rilevati mettono a
tema due dimensioni rilevanti: la narrazione, concatenazione di senso tra una serie di eventi; e
l’argomentazione, con cui si persuade l’interlocutore della verità o rilevanza di quanto asserisce. Le
narrazioni sono di malattia, mentre le argomentazioni sono le spiegazioni che i soggetti danno al sorgere del
male mentale. L’irruzione di una condizione patologica severa nella quotidianità determina nella vita di un

2
Il disegno caso-controllo trova solitamente applicazione negli studi epidemiologici, in cui l’ipotesi riguarda la
relazione tra l’esposizione ad uno specifico fattore di rischio (es. fumo di sigaretta) e l’incidenza di una patologia (es.
carcinoma polmonare). I casi sono reclutati tra soggetti affetti dalla patologia.
individuo una “rottura biografica”, un “naufragio”. La narrazione diventa lo strumento principe per risalire
alla ricostruzione del sé. Ciò è in linea con la definizione di identità come pratica discorsiva. La rilevanza
delle narrazioni del male mentale è difesa dai risultati di due studi: inchiesta campionaria dell’European
Study of the Epidemiology of Mental Disorders e uno studio di comunità condotto a Sesto Fiorentino.
Entrambi riportano che tra il 20 e 25% della popolazione abbia sofferto almeno una volta nella vita di un
disturbo psichico più o meno severo.

5.1 L’analisi delle narrazioni del male mentale


Le narrazioni raccolte sono poi ricondotte al modello narratologico di Greimas, che al centro di ogni
narrazione colloca un compito, solitamente la difesa o acquisizione di un oggetto di valore. Egli individua nel
racconto quattro tappe fondamentali:
-contratto = fase in cui il compito viene assegnato al protagonista da un altro personaggio. Applicato al male
mentale, si riferisce alla riconquista del benessere mentale perduto (compito di norma assegnato dallo
psichiatra o dall’istituzione sanitaria);
-competenza = acquisizione dei mezzi intellettuali e materiali per riconquistare l’oggetto perduto. Nel caso
del male mentale, il protagonista si impegna ad identificare la causa del proprio male mentale, dando nome e
spiegazione alla propria sofferenza;
-performanza = fase in cui il protagonista, grazie ai mezzi acquisiti, affronta il proprio compito,
conseguendolo o fallendo. In questo caso, il paziente lotta contro il male mentale, per ripristinare la salute;
-sanzione = in ragione ai risultati conseguiti, il protagonista riceve una sanzione positiva o negativa.
Applicato al male mentale, il paziente-narratore giudica il proprio grado di ricongiungimento alla salute.
[In generale, è importante ricordare che per le narrazioni sul male mentale si aggiunge alle quattro tappe
l’antefatto, nel quale il protagonista vive –ignaro– la propria congiunzione con il benessere psichico].
L’ultimo aspetto dello studio, la sanzione, viene definita seguendo il modello di Gergen, che propone uno
schema analitico per raffigurare l’incedere della narrazione autobiografica. La relazione del protagonista con
l’oggetto di valore si pone in uno spazio bidimensionale. Sull’ascissa c’è il tempo, sull’ordinata l’intensità
del conseguimento di valore. Gergen distingue tre forme rudimentali di narrazione: di stabilità (= rapporto
costante nel tempo con l’oggetto di valore. Es. “da sempre sono depresso”), progressive (= rapporto di
ascesa. Es. “la depressione mi ha cambiata in meglio), regressive (= rapporto di caduta. Es. “ero una ragazza
allegra, poi è arrivata la depressione e sono diventata triste). La combinazione di queste tre narrazioni
consente di raffigurare generi narrativi più comuni: tragedia, commedia, satira, romanzo cavalleresco.
L’attenzione cade però sulle sole narrazioni in cui esiste l’antefatto, per consentire l’applicazione al male
mentale. In base a che fattori si ha la scelta di un determinato genere narrativo? Diagnosi e durata della
“carriera” psichiatrica mostrano relazioni tenui con tale scelta. L’età anagrafica e il sesso hanno invece
impatto. I più giovani propendono al romanzo cavalleresco, i più anziani alla tragedia. Le donne propendono
alla tragedia, gli uomini al romanzo cavalleresco.

5.2 L’analisi delle spiegazioni dell’irrompere del male mentale


L’analisi delle argomentazioni per il male mentale è condotta concentrando le attenzioni su quattro casi: Vito,
Giacomo, Marta e Serena. I primi tre sono ancora nel mezzo della storia che raccontano, Serena invece
racconta la propria vittoria sulle voci.
Vito = qualifica la condizione come una “malattia”, di cui descrive i sintomi in chiave biomedica. È persuaso
che tale malattia derivi da un indulgere eccessivo alla masturbazione in adolescenza.
Marta = temi del contagio psichico e della possessione diabolica. Marta è convinta di essere stata colpita dal
demonio e che la sua unica soluzione sia l’avvento del Regno di Dio.
Giacomo = riporta la sofferenza psichica in un territorio familiare, elaborando una spiegazione che comporta
fattori sociali e psicologici. Alla radice del suo disagio vi è il conflitto adolescenziale con il padre, il cui
pesante giudizio segna Giacomo, che in futuro si sentirà completamente dipendente –nella vita come sul
lavoro– al giudizio degli altri.
L’aspetto cruciale di queste storie si trova nel fatto che i pazienti vivano la propria diversità come uno
stigma. Ciò contrasta con la storia di Serena. Serena incontra le voci molto giovane, in seguito ad un coma di
poche ore provocato da un intervento chirurgico. Serena inizia un percorso, una “ricerca” personale per
individuare le voci, con cui riesce a giungere ad un accordo: l’avrebbero lasciata in pace durante il giorno,
mentre di sera le avrebbe ascoltate e trascritte. Le voci suggeriscono a Serena parole nuove, che lei non
conosce ma che esistono sulle enciclopedie e vocabolari. Appoggiata dal marito e dalla madre, Serena decide
di sviluppare la propria capacità e frequenta un corso in Galles, tenuto da una veggente. Ha inizio una
transizione biografica, in cui Serena diviene prima ascoltatrice delle voci di giovani in coma per i loro
parenti, e poi conduce e sostiene un gruppo di Uditori di voci, per aiutarli a trovare il loro equilibrio, come ha
fatto lei.
Per tutti i pazienti descritti, il male mentale comporta una pesante aggressione alla capacità di agency, con
conseguenze in tutti gli ambiti della loro vita. Essi sono chiamati all’attività di sensemaking, che li conduce
ad elaborare l’accaduto e ridisegnarsi. La contrapposizione che emerge è quella tra stigma (i primi tre
pazienti) e carisma (Serena), in grado di ricomporsi ed accettare la propria diversità come dono che impone
la responsabilità del servizio al prossimo.

5.3 Questioni metodologiche


L’intervista è lo strumento di costruzione empirica più diffuso. Atkinson e Silverman la definiscono una
“macchina” che consente di accedere al sé autentico. Noi considereremo l’intervista di ricerca, non quella di
intrattenimento (in voga in TV e nei media). L’intervista di ricerca è una forma speciale di conversazione,
nella quale due (o più) persone si impegnano in un’interazione verbale per raggiungere una meta cognitiva
definita. La conversazione è speciale per l’asimmetria di potere tra interlocutori. L’intervistatore stabilisce gli
obiettivi della conversazione ed il ritmo; l’intervistato può decidere in ogni momento di sottrarsi. Gli
interlocutori hanno obiettivi diversi: l’intervistatore vuole acquisire una rappresentazione accurata
dell’esperienza, l’intervistatore desidera “salvare la faccia”. I tipi di intervista si distinguono in base alla
forma della comunicazione. Nell’intervista discorsiva l’intervistato risponde con parole sue e con la propria
argomentazione. Al contrario, nell’intervista strutturata egli risponde alle domande scegliendo le parole da un
copione predefinito. L’intervista discorsiva assume a propria volta due forme: intervista guidata ed intervista
libera. Nell’intervista guidata, l’intervistatore segue una traccia che raccoglie i temi, stabilisce una
successione ottimale ed individua possibili stimoli verbali. Nell’intervista libera l’intervistatore si limita a
porgere all’interlocutore il tema della conversazione con una domanda e si pone in atteggiamento di ascolto.
L’intervista discorsiva consegna al ricercatore un discorso, non solo informazioni. Nel discorso si colgono
varie forme espressive, tempi verbali e la posizione dell’interlocutore. Le forme principali di impiego
dell’intervista sono tre: a.) intervista discorsiva sola tecnica impiegata. Accade in molti studi riconducibili
all’”approccio biografico”; b.) l’intervista discorsiva è impiegata insieme ad altre tecniche, ma con ruolo
ancillare. Accade tipicamente come ausilio dell’inchiesta campionaria; c.) combinazione alla pari con altre
tecniche, nota come approccio multi-tecnica o triangolazione.
Quanto ai temi, l’intervista discorsiva può essere applicata nello studio di tutto ciò che riguarda il mondo
interno degli individui. Il filone che ha assunto un profilo specifico è quello dell’approccio biografico.
L’intervista discorsiva non si presta invece per lo studio delle interazioni sociali.

5.3.1 Il disegno della ricerca


Il punto di partenza è la definizione della domanda cognitiva. Non è necessario che si abbia la forma di
un’ipotesi, né che l’ambito da indagare sia circoscritto a definizioni operative. Gli studi possono infatti anche
muovere da intenti esplorativi. Non occorre un’ipotesi, ma una domanda ben definita.
La domanda cognitiva definisce l’orizzonte della definizione del profilo dei soggetti da intervistare
(intervistati). L’individuazione dei soggetti si compone di due passi: individuazione del tipo di interlocutore
appropriato e la definizione della procedura empirica che consentirà di reclutare individui con caratteristiche
adeguate. La scelta dei casi da intervistare coincide a volte con un piano di campionamento, in altre con la
totalità dei casi della popolazione (se abbastanza ridotta). Si ricorre al campione quando la popolazione
sarebbe troppo estesa da intervistare. “Il campionamento è una sineddoche, in cui poniamo che la parte di
una popolazione sia rappresentativa del tutto” (Becker). Nell’inchiesta campionaria, la difesa
dell’appropriatezza della sineddoche si basa sull’estrazione casuale, sulla probabilità. Nel caso
dell’intervista, in cui il numero degli intervistati è molto piccolo (‹100), bisogna ricorrere alla teoria
dell’argomentazione, elaborata attraverso l’anticipazione dialettica delle possibili obiezioni alla solidità delle
conclusioni della ricerca. Es. nel caso del disturbo mentale, sono state anticipate le possibili obiezioni circa la
composizione di occupati ed inoccupati per sesso ed età. Questo modo di procedere è il campionamento a
scelta ragionata, in cui l’argomentazione che guida la composizione del campione si compone di: a.)
sostenere la plausibilità degli asserti; b.) difendere le ragioni della loro estensione. Precisazione: nel caso
della ricerca basata su interviste discorsive, il profilo dei casi in studio si definisce nel corso della ricerca, in
progress. Ciò può accadere per banale rifiuto di alcuni soggetti a partecipare, o perché conducendo le
interviste emergono nuovi quesiti che impongono di modificare il campione. In generale, il ricercatore è
sempre tenuto a dare una spiegazione per le proprie decisioni.
Occorre poi stabilire il modo in cui condurre le interviste discorsive, la forma dell’intervista. La scelta è
rilevante anche per il tipo di analisi. Se si è interessati ai modelli argomentativi dei soggetti in studio, si
prediligerà il modello dell’intervista libera. Se vogliamo invece confrontare le rappresentazioni, i valori e
modelli argomentativi, è opportuno che l’intervista sia guidata. Valgono in tutti i casi brevità, chiarezza e
precisione nella formulazione delle domande.
L’ultima decisione riguarda l’intervistatore. È opportuno che le interviste vengano condotte dal gruppo di
ricerca. Dove ciò non sia possibile, gli intervistatori devono avere esperienza e familiarità con i temi
affrontati, se non si vuole rischiare di creare disagi e frustrazioni. Infine, si deve considerare l’attributo
relazionale. La reciproca estraneità garantisce l’anonimato e una maggiore sicurezza. Ciò non è sempre
valido. Un certo grado di familiarità può rendere la conversazione più fluida ed autentica e l’intervistato può
sentirsi compreso (caso della ricerca etnografica, in cui l’intervistato sta partecipando alla vita di comunità).
La modalità delle interviste ripetute è una sorta di modalità intermedia, in cui vi è estraneità e poi familiarità.

5.3.2 La costruzione della documentazione empirica


Tale fase si compone di tre operazioni in sequenza: contatto con intervistati e presentazione ricerca;
conduzione dell’intervista; trascrizione.
Per condurre l’intervista occorre il consenso degli interlocutori. Il contatto può essere preso direttamente dal
gruppo di ricerca, oppure con la collaborazione di un mediatore a contatto con la popolazione in studio. Nel
primo caso, la richiesta può essere inoltrata tramite lettera, al telefono, di persona. Può anche scaturire da un
rapporto maturato in altri contesti di ricerca. I primi contatti dovranno fornire informazione adeguata sullo
studio e rassicurazioni sulla natura del colloquio e l’uso che ne verrà fatto. Occorre fornire una presentazione
fedele della ricerca, cercando di stabilire se è meglio che i candidati riflettano sul tema oppure che
rispondano in modo spontaneo. È importante precisare quale sarà il tono del colloquio (conversazione) ed
indicare la durata del colloquio, oltre a fornire garanzie di anonimato. Ciò è l’antefatto dell’intervista, che
configura il frame cognitivo. Ciò comporta che l’intervistato si aspetti già cosa ci si attende da lui.
La forma del colloquio dipende dalla scelta tra intervista libera o guidata. In generale, i principi metodologici
da seguire sono gli stessi. Innanzitutto, l’intervistatore deve porsi in atteggiamento di ascolto ed aiutare
l’intervistato a costruire il suo discorso, spingendolo all’osservazione critica di sé. L’intervistato deve
svolgere funzione maieutica. Sul piano tecnico, si traduce nella combinazione di domande brevi ed incisive,
che spingono l’intervistato a costruire il proprio discorso. Il tipo di ascolto è una partecipazione attiva
contrassegnata da segnali non verbali (uhm, ah-ah, sì, ‘la seguo’, etc.), oltre alla tecnica dell’eco (o rilancio a
specchio) che consiste nella riproposizione delle ultime parole che l’intervistato ha pronunciato. Per
l’intervistato, il colloquio dovrà apparire come una conversazione ordinaria. Ciò si lega alla questione
controversa di quanto l’intervistatore può dire di sé e delle sue opinioni. Da una parte, egli rischia di
influenzare l’intervistato. Dall’altra, rischia che, non esprimendosi, può far venir meno il clima di fiducia. È
necessario valutare la situazioni e trovare una via di mezzo. Il colloquio deve essere registrato, garantendo
l’anonimato, e svolto in un luogo idoneo, tranquillo e che metta a proprio agio l’intervistato. Se l’intervistato
non è a proprio agio, si può evitare di registrare, ma gli appunti devono essere precisi.
Prima dell’analisi, le interviste devono essere trascritte, comprendendo sia risposte, che domande, che
commenti. Ci si riconduce a cinque livelli, i primi tre hanno a che fare con le modalità comunicative adottate,
gli altri due con le modalità di interazione tra intervistato ed intervistatore e al contesto dell’interazione.
Livello linguistico = ciò che viene detto; livello paralinguistico = tono, timbro, intensità, altezza della voce;
livello extralinguistico = forme di comunicazioni intenzionali e non intenzionali. Dell’interazione fra
intervistato e intervistatore occorre annotare i momenti in cui le voci si sovrappongono. Per quanto riguarda
il contesto, è necessario annotare i fattori di disturbo che suscitano una reazione dell’intervistato. È utile
leggere o ascoltare le interviste raccolte durante la fase di costruzione della documentazione empirica.

5.3.3 L’analisi
L’analisi della documentazione empirica è fatta da un insieme di operazioni intellettuali, per articolare le
risposte alle domande cognitive. L’analisi si basa su una lettura metodica delle interviste. I testi vengono
inscritti dall’analisi all’interno di una cornice teorica, che si produce in contemporanea con la lettura. Spesso
l’analisi coincide con la creazione di tipologie o tassonomie, con esigenze descrittive o esplicative. Si può
procedere in vari modi, ma noi vedremo gli elementi comuni alle procedure. Consideriamo principi generali:
-le interviste richiedono di essere interpretate, non parlano da sé
-l’analisi deve prestare attenzione ad almeno tre aspetti: che cosa viene detto (analisi tematica); come viene
detto (analisi strutturale) ed interazione tra intervistatore ed intervistato
-i risultati dell’analisi devono avere resa narrativa, assumere la forma di un discorso
La prima questione riguarda la strategia di lettura dei testi delle interviste. Ciascuna intervista definisce
alcuni attributi formali (determinato modello argomentativo) ed altri sostantivi (determinato contenuto). Le
proprietà attribuite al testo non sono autonome da esso: ciascuna intervista equivale ad un insieme di
proprietà che può variare da un testo all’altro. L’analisi prevede quindi inizialmente la qualificazione di
ciascuna intervista presa da sé.
I testi si prestano a due tipi di lettura complementari: contenuti e forma. Forma = struttura argomentativa,
modalità impiegate per persuadere l’intervistatore. La connotazione dei colloqui in base alla forma si può
avvalere di categorie sviluppate nell’ambito della teoria dell’argomentazione, di modelli analitici sociologici
modelli narratologici. Su tale piano si può inoltre osservare le modalità d’impiego delle parole.
La connotazione dei contenuti costituisce il cuore del lavoro. Le procedure con questo scopo vengono
raggruppate in informali e formalizzate. Le prime sono quelle che valorizzano la competenza teorica del
ricercatore. Si tratta di procedure basate su una forma sofisticata di bricolage e possono consegnare
interpretazioni rilevanti. Il limite è la difficoltà di dar conto in modo puntuale ed analitico dei principi e
procedure che sorreggono l’analisi, poiché si avvalgono della conoscenza tacita del ricercatore. Comunque,
tutte le operazioni rilevanti vengono accompagnate da un resoconto riflessivo. Tra le procedure formalizzate,
invece, distinzione rilevante va attuata tra procedure basate su uno specifico modello semiotico del discorso e
quelle basate su un insieme di principi metodologici alla guida delle analisi. La prima categoria è
rappresentata dall’analisi strutturale delle narrazioni, sul modello semiotico di Greimas. La seconda categoria
è illustrata nella proposta metodologica di Glaser e Straus, la grounded theory = procedura che disciplina con
principi il processo di costruzione della cornice teorica in cui si inscrive la documentazione empirica. La
procedura si basa su “comparazione costante”. A ciò si lega un percorso di lettura e qualificazione dei
materiali empirici: la codifica. Essa si compone di tre passi: codifica “aperta”, “assiale” e “selettiva”, nella
quale i materiali empirici vengono inscritti in un quadro teorico di livello crescente di generalità. La codifica
aperta assegna ai diversi brani dell’intervista dei codici = proprietà che li connotano in un registro simile a
quello usato dagli intervistati. La codifica assiale classifica i codici attribuiti attraverso un processo di
aggregazione e dissezione delle categorie assegnate. La codifica selettiva estrae dai materiali codificati
assialmente una o alcune categorie teoriche cui i tratti salienti dei discorsi possono essere ricondotti.
A prescindere dal fatto che la procedura sia informale o formalizzata, le operazioni sono tre:
caratterizzazione di ogni intervista; comparazione tra interviste; classificazione in tipologia o tassonomia. La
comparazione vuole individuare affinità e differenze tra i testi, delineando la cornice teorica. Con la
comparazione, vengono individuate le proprietà, i tratti costitutivi dei “generi” cui i “testi” possono essere
ricondotti. Attraverso la comparazione tra testi è possibile delineare i contorni dello spazio semantico che
racchiude i testi. La segmentazione di questo spazio è l’ultima operazione da svolgere.
La forma di classificazione più appropriata ai materiali di intervista mette a capo tipi ideali, definiti secondo
la lezione weberiana. Tipo ideale per Weber = il concetto tipico-ideale non è un’ipotesi, ma indica la
direzione all’elaborazione dell’ipotesi. È ottenuto attraverso l’accentuazione di uno o più punti di vista e
mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari esistenti qui in maggiore e qui in minore
misura. Nella purezza concettuale questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà.
Queste considerazioni portano ad un importante nodo teorico: si tratta di definire la natura della funzione di
appartenenza che lega ciascuna intervista al tipo ideale cui fa capo. La soluzione più diffusa è l’impiego di
una funzione di appartenenza dicotomica a due valori: appartenenza versus non-appartenenza. Non sempre
questa soluzione è adeguata, poiché alcuni testi presentano tratti di più di un genere, più di un tipo ideale. Di
tutte queste particolarità empiriche si può dar conto con l’appartenenza fuzzy, con la quale l’appartenenza dei
testi a uno o più tipi è espressa da una funzione continua i cui valori sono compresi tra 0 e 1. Questa funzione
non esprime solo appartenenza, ma anche intensità di appartenenza del testo rispetto al tipo ideale.
Rimane sempre e comunque la necessità di dar conto delle scelte di metodo adottate nel resoconto redatto per
comunicare i risultati, legando all’analisi la giustificazione.
Sul piano operativo, la conduzione dell’analisi può giovarsi di una preliminare “miniaturizzazione” del
corpus testuale, processo che consente di governare l’insieme dei materiali empirici. Lo si fa mediante un
riassunto tematico o un record biografico. Il riassunto tematico passa attraverso tre fasi: lettura critica del
corpus testuale, individuazione di categorie analitiche pertinenti e stesura di un riassunto tematico. Altro
modo utile è la riorganizzazione dei discorsi raccolti in una tabella.

5.3.4 La comunicazione dei risultati


Sui modi per comporre e comunicare i risultati esistono diverse indicazioni. In generale, vi è necessità di
introdurre nel testo almeno due sezioni: dettagliato resoconto metodologico e illustrazione dello schema
interpretativo del rapporto che lo lega alla documentazione empirica. Il testo comporrà in maniera trasparente
le parole degli intervistati e l’interpretazione del ricercatore. Ciò serve a delineare i margini di incertezza.
Quanto allo stile, è inopportuno individuare una ricetta. Infine, al testo sarebbe opportuno allegare la
trascrizione completa dei colloqui dell’intervista.

Capitolo V I – Arrivare a fine mese. Donne in famiglie monoreddito

6.1 La ricerca
La prima ricerca che presentiamo è quella che riguarda un capitolo redatto da Antonella Meo, condotta a
Torino nelle zone segnate da processi di erosione sociale e dismissione industriale. Il campo di indagine è
quello della vulnerabilità e strategie per farvi fronte. L’Unità di analisi è la famiglia. La tecnica del focus
group viene adottata per ricostruire la vulnerabilità sociale. Lo studio di Meo si focalizza sulle donne poiché
la loro posizione nel nucleo famigliare è cruciale: amministrano le risorse, tengono i conti, si prendono cura
dei componenti della famiglia, si confrontano con le istituzioni sociali nel caso serva aiuto.

6.1.1 La scelta della tecnica di osservazione, il piano di campionamento e il reclutamento delle partecipanti
Uno degli obiettivi della ricerca è comprendere come le donne in situazioni di vulnerabilità rappresentano sé
stesse, le condizioni e scelte della propria famiglia. Altro obiettivo è quello di indagare l’esistenza di una
rappresentazione sociale di sé in quanto donne. Il focus group è la tecnica più indicata, poiché consente di 1.)
rilevare atteggiamenti, credenze e valori; 2.)le ragioni a sostegno di questi.
Il focus group sollecita I partecipanti a produrre argomentazioni a sostegno delle proprie posizioni,
esplicitando perché e come si giunge a tali opinioni. Dall’interazione tra partecipanti emergono poi anche
influenze reciproche, giudizi di valore , posizioni maggioritarie o minoritarie, processi di identificazione e
differenziazione.
Per individuare i soggetti da coinvolgere, non si individuano i weberiani tipi ideali, ma le caratteristiche
minime che tali soggetti dovranno avere. Occorre individuare qualità che siano coerenti con le domande di
ricerca. Tali attributi non devono essere troppo stringenti, per estendere il numero di soggetti reclutabili. Meo
decide di cercare donne sposate, con figli, disoccupate, dipendenti dal reddito del marito e residenti in una
determinata area di Torino. I ricercatori individuano poi tre enti (una scuola di quartiere, una parrocchia e un
centro diurno) per farsi aiutare nel reclutamento. E Gino individuate dieci donne la cui scolarizzazione
complessiva è bassa, con mariti che svolgono lavori manuali a bassa qualificazione e a basso reddito, con età
che varia da 20 a 40 anni.

6.1.2 I principali risultati


L’autrice presenta 4 paragrafi tematici per presentare il risultato: rappresentazione di sé, definizione della
situazione di vulnerabilità, immagini di famiglie e strategie di fronteggiamento. Le protagoniste si
rappresentavano e volevano essere riconosciute in qualità di madri, che sanno cosa si deve fare e gestiscono
la famiglia. Esse presentano tale posizione non come autonomamente presa, ma frutto degli eventi ed
inevitabile. Tale identità monolitica fa trasparire inquietudine e tendenza verso la possibilità di un lavoro o di
ripresa dello studio, che però è destinata a fallire. Circa la condizione di vulnerabilità, si concentrano sulla
propria specifica condizione, tralasciando eventi sociali e macroeconomici. La famiglia è il centro della loro
vita e i figli sono usati come giustificazione della segregazione sociale e dei sacrifici quotidiani.
Le strategie adottate per far fronte a difficoltà sono demandate del tutto dalle donne, con una marcata assenza
di marito e figli nel processo decisionale. Le uniche strategie adottate sono quelle del contenimento dei
costumi e di immagine esterna di integrità. Gli apparati di welfare locale vengono percepiti come distanti ed
ostili. Anche il mercato del lavoro è spesso visto come responsabile della mancata occupazione femminile.
Le posizioni delle donne sembrano basarsi su stereotipi, piuttosto che su riflessione critica. Tali luoghi
comuni hanno impatto pratico consistente sulla loro vita.

6.2 Un ulteriore contributo: Identity in Focus


La seconda ricerca che utilizziamo ai fini del capitolo è quella di Jennie Munday, che intende rivalutare il
focus group come tecnica capace di soddisfare le esigenze della ricerca sociale, non soltanto quelle di
mercato. Per raggiungere tali scopi l’autrice conduce uno studio sulle rappresentazioni identitarie condivise
dai membri dell’associazione Women’s Institute, nato sulla scia di movimenti femministi. Secondo la
ricercatrice, la tecnica di focus group permette produzione di dati non soltanto su aspetti sostanziali
dell’identità collettiva, ma anche su processi di interpretazione, negoziazione e rafforzamento attraverso cui
un’identità è prodotta e sostenuta nel gruppo. È una tecnica in grado di aiutare il ricercatore a indagare le
narrazioni ed argomentazioni dei partecipanti, collocandosi nel contesto in cui esse prendono forma. Munday
sviluppa il concetto d’identità in chiave costruttivi sta, dove l’identità non è oggetto autonomo, ma risultato
di un processo attraverso il quale gli autori sociali riconoscono sé stessi e sono riconosciuti dagli altri. La
produzione di identità collettiva è un processo che consente al gruppo di riconoscere e definire sé stesso.
Munday mostra come sia rilevante non fermarsi ai contenuti, ma che essi vadano letti ed espressi alla luce di
contesto e processi, di associazione dell’identità e conformismo che nascono dall’interazione. Ciò consente
di stabilire il ruolo dell’identità collettiva tra membri.

6.3 Gli aspetti metodologici del focus group


Il focus group è una tecnica con la quale si osservano piccoli gruppi, costituiti ad hoc, composti da persone
estranee e animati da un moderatore che sollecita la discussione. L’attenzione non è solo su cosa viene detto,
ma anche sul come, concentrando le osservazioni su interazione discorsiva e su interazione sociale, su come i
partecipanti si influenzano. La discussione è condotta da un moderatore che assumerà gradi diversi di
direttività:
-condurre (massima direttività)
-moderare (media direttività)
-facilitare (minima direttività)
-gruppo autogestito
Vi è poi un secondo osservatore, che non partecipa ma si concentra sulle interazioni della discussione e
prende nota su momenti significativi, linguaggi del corpo, oltre ad aiutare il moderatore a monitorare i temi, i
tempi, il coinvolgimento di tutti. Verrà presentato dal moderatore, che ne spiegherà i compiti. I partecipanti
sono chiamati a esporre e confrontare le loro opinioni sul tema proposto. Attraverso il confronto, emergono
atteggiamenti, credenze ed orientamenti di valore, ma anche le ragioni di ciò. È possibile osservare i processi
di costruzione del consenso in un gruppo, i metodi impiegati dagli individui per identificare somiglianze e
differenze, per esprimere e difendere la propria posizione. In alcuni casi, il focus group consente di osservare
il processo che conduce alla formazione di opinioni sul tema in studio. Ciò accade quando il tema è nuovo
per i partecipanti; quando invece fa già parte del loro orizzonte cognitivo, è interessante stabilire come le
opinioni possano mutare. Il focus group non è un’intervista di gruppo, ma una discussione di gruppo in cui le
persone parlano tra loro dei temi proposti. Si distingue dall’osservazione della discussione in gruppo naturale
perché in quest’ultimo il gruppo decide ciò di cui discutere e come. Infine, il focus group serve alla
produzione di documentazione empirica e non alla creazione del consenso. Per quest’ultimo scopo, vi sono
tecniche quali il Delphi e la Nominal Group Technique. Il focus group si trova in posizione intermedia tra
intervista discorsiva e osservazione partecipante. Altri ambiti di applicazione del focus group sono la ricerca
di mercato e la ricerca valutativa, per valutare il successo o fallimento dell’intervento sottoposto ad analisi. I
temi su cui si può sollecitare la discussione hanno un limite, perché l’anonimato non può essere garantito a
causa delle altre persone reclutate. Ciò impone di escludere argomenti troppo intrusivi. La possibilità di
portare certi temi si riduce ulteriormente se si hanno partecipanti che si conoscono.

6.3.1 Forme e modi del focus group


La locuzione “focus group” = insieme composito di procedure osservative, diverse in ragione della
composizione dei gruppi e delle modalità di conduzione della discussione. La prima dimensione, la
composizione dei gruppi, attiene al grado di omogeneità tra persone e alla natura dell’interazione sociale che
le lega: estraneità o conoscenza. La seconda dimensione è la forma di conduzione, il ruolo coperto dal
moderatore nella conduzione della discussione, che varia da gruppo autogestito a gruppo condotto.
Forma canonica del focus group = costituzione di gruppi omogenei, con persone che riconoscono le
esperienze avute come affini al tema di discussione e possono discuterne, estranee tra loro, guidate da un
moderatore. La forma canonica non è la sola possibile. Omogeneità nella conduzione del focus group
consente il confronto più agevole tra documentazione empirica di ricerche diverse. L’omogeneità tra persone
nel gruppo facilita la discussione, mentre estraneità garantisce maggiore anonimato, facilitando l’apertura. Il
focus group si presenta in tre modi d’impiego: come tecnica autosufficiente; in combinazione con altre
tecniche ma con funzione ancillare; in un disegno multimethod. Come tecnica ‘di servizio’, viene impiegata
con l’intervista discorsiva, per messa a punto della traccia. Nel caso di una ricerca etnografica, può essere
usata nelle fasi preliminari dello studio o in quelle conclusive. Con l’inchiesta campionaria, può essere
impiegato nella fase di progettazione dello studio, con conduzione di lavoro di imagery e specificazione dei
concetti in studio. Un focus group può inoltre fornire importanti indicazioni sul linguaggio da impiegare
nella formulazione delle domande del questionario e per il pre-test. Ancora, può essere impiegato a indagine
conclusa per chiarire alcune relazioni statistiche indagate o esplorare i casi devianti.

6.3.2 Il disegno della ricerca


L’impiego del focus group richiede attenzione alla progettazione dello studio sia in aspetti
logico-metodologici sia pratico-organizzativi. È indispensabile delineare la domanda cognitiva e pianificare
la scelta delle persone da invitare, oltre alle sollecitazioni da utilizzare. Dopo aver definito l’oggetto, si
delinea il profilo della popolazione di riferimento. Si può condurre un singolo focus group, oppure ricorrere
alla ripetizione periodica di tale focus group, che consente di affrontare meglio temi sensibili.
Studio trasversale o longitudinale → riguarda l’attenzione che si dà all’evoluzione nel tempo degli
atteggiamenti, credenze, valori. Trasversale = gruppi diversi di persone interpellati nel medesimo tempo e
una sola volta. Longitudinale = osservazione di un medesimo insieme di oggetti per un certo periodo di
tempo. In questo caso si presenta l’alternativa tra panel e inchiesta trasversale ripetuta. Il primo si riferisce
alla conduzione di una serie di incontri distanziati nel tempo con gruppi composti dalle stesse persone; il
secondo alla progettazione di vari focus group distribuiti nel tempo con gruppi di diversa composizione.
Focus group con gli stessi partecipanti consentono più accuratezza nello studio del fenomeno. Sono però più
onerosi a livello di organizzazione.
Il gruppo di discussione → definizione della domanda cognitiva è associata all’individuazione del profilo del
gruppo, del tipo di persone. Occorre talvolta individuare poi delle sottocategorie che emergono dalla
categoria di interlocutori (es. in un gruppo di adolescenti, fare ulteriore divisione per sesso M e F). La
presenza di sotto-popolazioni suggerisce di condurre tanti focus groups quante le sotto-popolazioni. In alcuni
casi, si possono organizzare poi focus group in cui le sotto-categorie interagiscono (es. un focus group di M
+ F). Si può riconoscere le sotto-categorie grazie a testimoni qualificati o conducendo interviste discorsive
pre-focus group. È infine necessario non incorrere nell’errore di tipizzazioni delle identità: vanno considerate
le “attività” delle persone, non “tipi di persone”. Potrebbe essere utile un preliminare lavoro su campo.
Composizione dei gruppi: omogeneità e reciproca estraneità → la forma canonica di focus group prevede
persone reciprocamente estranee. L’omogeneità del gruppo facilita inoltre la discussione. La presenza di
persone con diversa esperienza sul tema consente vasta gamma di opinioni. La composizione del gruppo è
sottoposta a due vincoli: no a marcate differenze nella capacità di verbalizzazione (titolo di studio) né
profonde differenze nell’esperienza sul tema discusso. Ci sono due condizioni che possono impedire la
composizione di un gruppo di estranei:
a.) Caratteristiche dell’oggetto in studio e condizioni del lavoro sul campo = soggetti osservati parte di
una stessa realtà, o hanno già avuto modo di confrontarsi sul tema (es. mission aziendale). È
comunque consigliato non avere rapporti di subordinazione o dominio tra partecipanti, così come
quelli di stima o antipatia, per evitare linee di comunicazione privilegiate o prese di posizione
predefinite. È necessario cogliere questi aspetti prima che abbia inizio il focus group.
b.) Scelte teoriche = vi sono alcuni vantaggi pratici nel lavorare con persone che si conoscono, quali
facilità di reclutamento, rilassatezza all’interno del gruppo, propensione alla condivisione.
Queste ultime sono deroghe alla forma classica di focus group.
La numerosità del gruppo → grande quanto basta per consentire ampia gamma di opinioni da confrontare,
ma sufficientemente piccolo da consentire a ciascuno di esprimersi. Tale scelta deve essere, ancora, legata
alle domande cognitive a cui si cerca di rispondere. Su piano emotivo, piccoli gruppi consentono maggior
coinvolgimento, ma maggiore vulnerabilità (rischio di persona che si atteggia da esperto, o di un soggetto
non cooperativo compromettono la discussione). I gruppi numerosi rendono la conduzione ardua e può
accadere che questa si frammenti in ‘sottogruppi’ che ne compromettono la fluidità. Il numero ideale
nell’ambito della ricerca sociale va da 6 a 10.
Le persone nel gruppo e il numero di gruppi → È necessario individuare la procedura empirica per
individuare l’insieme di persone che discuterà. Cinzia Albanesi individua tre caratteristiche che dovrebbero
essere presenti nei partecipanti di un focus group: 1.) qualità/quantità di informazioni circa oggetto di ricerca;
2.) livello di motivazione ad essere coinvolti; 3.) disponibilità ad esprimere le proprie opinioni. Occorre
definire un piano di campionamento in due stadi: selezione delle persone da includere e definizione del
numero di gruppi necessari. Entrambe queste operazioni dovranno essere stabilite attraverso l’anticipazione
delle possibili obiezioni alla solidità delle conclusioni attese.
Per alcune ricerche vengono offerti incentivi alla partecipazione, che devono però essere scelti con cautela e
possibilmente su consiglio di un testimone qualificato o che conosce la popolazione in studio. Alla
dichiarazione di volontà a partecipare non sempre segue l’effettiva partecipazione, dunque è consigliato
sovradimensionare il gruppo. Lo scopo del campionamento a scelta ragionata è quello di riflettere la
diversità, non ottenere rappresentanza. Occorre individuare tanti gruppi quante le comparazioni che si
vogliono compiere per rispondere alle domande cognitive. I quattro piani di campionamento prevedono
numeri e composizione differenti di focus group:
-Piano di campionamento A = 3 focus group di sole donne, o 3 di soli uomini
-Piano di campionamento B = 6 focus group, tra cui 3 di sole donne + 3 di soli uomini
-Piano di campionamento C = 9 focus group, di cui 6 con i pazienti (3 sole donne + 3 soli uomini) + 3 focus
group di familiari che convivono con i pazienti
-Piano di campionamento D = 12 focus group, di cui 6 con i pazienti (3 sole donne + 3 soli uomini) + 6 focus
group di familiari (3 familiari che vivono con i pazienti + 3 che non convivono con i pazienti).
A documentazione empirica più vasta, costruita su un numero più vasto di focus group, possiamo chiedere di
rispondere a più domande conoscitive. Reclutare le persone non è semplice, occorre far coincidere un’unica
data (o più). La presentazione della ricerca, i contatti e l’invito devono essere curati per convincere le
persone a partecipare.
Il grado di strutturazione → la scelta è dettata dalla domanda cognitiva e dal profilo del gruppo. La forma
autogestita è più appropriata quando l’intento è esplorativo. È inoltre utile per studiare i processi di
costruzione del consenso, l’osservazione dei metodi per identificare somiglianze o differenze tra posizioni e
strategie retoriche impiegate. La forma moderata di focus group è utile quando la domanda cognitiva è ben
specificata e il confronto tra discussioni nei gruppi è decisivo. Talvolta è opportuno aprire il ciclo di
discussioni con un gruppo autogestito per definire i criteri di rilevanza e le priorità e, sulla base di questo,
progettare gli altri focus group moderati. È anche possibile fare il contrario.
La traccia → si presenta l’alternativa tra la stesura di una lista di domande e stimoli verbali, o scaletta che
raccolga i temi senza prefigurarne l’ordine né le modalità.
La conduzione guidata di una scaletta flessibile consente una discussione fluida, ma può creare difficoltà
nella comparazione tra materiali prodotti nei vari gruppi. Questo stile è preferibile quando il moderatore è
esperto. Il ricorso alla lista di domande risulta preferibile quando la guida del gruppo è affidata ad uno o più
moderatori inesperti. Questa modalità rende più semplice il confronto tra materiali empirici.
Il gruppo può anche essere sollecitato con immagini, grafici, filmati, ma comunque mantenendo: brevità,
chiarezza, precisione. La discussione deve essere indirizzata alle esperienze dei partecipanti, non a questioni
astratte. Occorre inoltre prevedere all’inizio una breve presentazione del tema e del gruppo. Le prime
domande devono incoraggiare la partecipazione, mentre il cuore della traccia è dedicato ai temi chiave.
Obiettivo della domanda chiave non è raccogliere informazioni, ma far emergere opinioni e valutazioni. La
sequenza dei temi deve essere organizzata in modo sensato e la chiusura deve restituire una sintesi e non
essere frettolosa. Stimoli più strutturati delle domande possono essere frasi da completare o l’invito a
redimere mappe cognitive singolarmente, e poi confrontandole. Un altro esempio di stimolo è il brano di
interviste a testimoni privilegiati, effettuate nella fase esplorativa. I materiali-stimolo hanno l’obiettivo di
sollecitare i partecipanti. È importante testare i materiali stimolo con uno studio pilota, fondamentale. Infine,
la traccia non deve essere interpretata come un vincolo, poiché sarà possibile modificarla progressivamente.
È inoltre opportuno somministrare un breve questionario (max. 10 domande) ai partecipanti per delinearne il
profilo sociale, alla fine del focus group. Infine, il momento che segue la conclusione della discussione, il de
briefing, è l’occasione per indagare “come sono andate le cose”.
Il moderatore → è opportuno che il moderatore sia percepito come colui al quale si può consegnare la
propria esperienza e che possegga conoscenza del tema congruente con lo stile prescelto (approfondita se
traccia con scaletta fluida, bassa se traccia con domande).
Il luogo → il luogo deve essere appropriato e neutro, facilmente raggiungibile e che metta a proprio agio,
tranquillo per consentire la registrazione. La disposizione a semicerchio o a ferro di cavallo è consigliata.
Studio pilota → la progettazione della ricerca si conclude con uno studio pilota, nel quale l’impianto dello
studio è collaudato. Tale studio può essere condotto simulando con un gruppo di esperti del metodo e del
tema, o con un gruppo di testimoni qualificati, o ancora con un gruppo di persone analoghe a quelle che si
intende interpellare. In questo caso, a discussione conclusa, si chiederà loro un giudizio.

6.3.3 La costruzione della documentazione empirica


La conduzione del focus group si basa sul lavoro coordinato di moderatore ed osservatore. Il moderatore:
conduce o facilita la discussione, deve avere capacità d’ascolto e di ‘governo’ del gruppo, seguire la traccia
della discussione ma saper improvvisare. Gli è richiesta competenza relazionale, autocontrollo del
comportamento verbale e non. Egli deve comunicare il proprio interesse, contenere gli interlocutori
debordanti, spronare quelli restii ad intervenire, attraverso segnali para, extra e linguistici. L’assistente
osservatore deve: prendere nota delle forme d’interazione, intervenire in aiuto del moderatore senza scalfirne
l’autorevolezza. Il focus group si apre con la presentazione di temi e del gruppo da parte del moderatore,
seguito dall’illustrazione delle regole da parte di quest’ultimo (riconoscere a tutti il diritto di esprimersi,
consentire la registrazione, parlare uno alla volta indicando il proprio nome).
Registrazione e trascrizione → la discussione deve essere registrata, con registrazione audio o
videoregistrazione. Quest’ultima è al centro di dibattito in letteratura. Alcuni dicono che può inibire la
discussione e aggiungere il problema etico della violazione dell’anonimato. Allo stesso tempo, potrebbe
portare ad un nuovo modo di restituire i risultati di ricerca. Frisina indica due principali ragioni per cui
utilizzarla: nelle ricerche di mercato, tale tecnica dà ottimi risultati; e la produzione di video consentirebbe di
raggiungere un pubblico molto vasto, favorendo una “scienza per i cittadini”. La scelta deve prevedere però:
1. Montaggio dei materiali video che segua rigore scientifico; 2. I partecipanti devono entrare in una
dimensione collaborativa, non ferma alla sola partecipazione, ma che sfoci nella condivisione del progetto.
La videoregistrazione può essere utile anche come materiale-stimolo, producendo un video che sintetizza ciò
che è emerso nelle discussioni precedenti, così da rivisitare insieme il percorso affrontato. I ricercatori
potrebbero inoltre raccogliere punti di vista sulle proprie interpretazioni di quanto emerso, arricchendo la
documentazione empirica.
Tornando agli elementi del focus group, la discussione non deve durare più di un’ora e mezza e la durata
deve essere comunicata per rispetto dei partecipanti. Al termine di ogni focus group è opportuno che il
gruppo di ricerca proceda ad una prima, sommaria analisi della documentazione empirica. Necessaria la
disposizione di trascrizioni o ricostruzione dei temi trattati. L’analisi in progress consente di modificare o
rivedere la traccia del focus group per il futuro. Concluso il ciclo di discussioni, è necessario trascrivere
integralmente la traccia, compendiando i testi con le note dell’assistente. È opportuno che siano osservatore e
moderatore a condurre la revisione della trascrizione.

6.3.4 L’analisi
L’analisi della documentazione empirica prevede due livelli: analisi di ciò che discute ciascun gruppo e
l’analisi di quanto ciascun individuo nel gruppo sostiene. Le relazioni tra i due piani andranno poi delineati
in base alla domanda di ricerca. La ricostruzione delle discussioni riguarda anche tono emotivo, modelli
argomentativi adottati, aree di consenso o dissenso create, ed opinioni, per poi procedere al confronto tra
gruppi. Occorre associare opinioni con caratteristiche sociali e culturali delle persone che le hanno espresse e
che dipenderanno dal tipo di domanda di ricerca (da qui l’importanza del breve questionario). L’analisi di
questi materiali ricalca quella delle interviste discorsive, poiché si tratta di inscrivere materiali all’interno di
una cornice teorica. L’articolazione di tale cornice procede in parallelo alla lettura metodica delle trascrizioni.
L’applicazione al materiale empirico delle categorie teoriche consente di saggiarne l’adeguatezza ed il valore
euristico. Nell’analisi di questo materiale sembrano valere soprattutto le procedure informali. Importante
contributo è dato dal tipo ideale, che può essere utilmente impiegato per la caratterizzazione delle discussioni
e per tratteggiare il profilo dei partecipanti. L’impiego del tipo ideale in questa occasione non si discosta da
quello nelle interviste discorsive. Le procedure impiegate per le interviste discorsive possono essere
utilizzate in questo caso anche per il materiale narrativo. Sono utili per l’analisi anche quelli che fanno
contorno alle discussioni, come commenti e spunti. È utile tenere un diario.

6.3.5 La comunicazione dei risultati


La comunicazione dei risultati dovrà attraversare due luoghi: dettagliato resoconto delle procedure di ricerca
adottate ed esposizione dello schema teorico che dà forma ai principali risultati. Va precisata quale
declinazione di focus group sia stata impiegata ed illustrare il piano di campionamento e le ragioni che
rendono la documentazione empirica appropriata. Ricostruire il percorso metodologico serve a delineare i
margini d’incertezza e i margini d’errore attraverso il resoconto riflessivo. L’esposizione dello schema
teorico dovrà essere corredata. Il testo può essere condotto combinando riflessioni del ricercatore a
frammenti delle discussioni. Al resoconto della ricerca può essere opportuno allegare la trascrizione
completa delle discussioni, come per l’intervista: ciò consente l’ispezionabilità ed impone autodisciplina.

Capitolo VII – Natura Sacra: un’etnografia comparata sulla sacralizzazione della natura
Lo studio di ricerca di questo capitolo confronta due piccole comunità con l’intento di delineare il come di
una particolare esperienza del sacro, avente per oggetto il mondo della natura. Le comunità sono quelle degli
elfi del Gran Burrone e del Damanhur. La prima è una comunità anarchica ai piedi degli Appennini, in cui lo
stile di vita è assimilato a quello dei contadini del secolo scorso. Damanhur è invece una delle maggiori
comunità esoteriche d’Europa, in Valchiusella. La natura sacralizzata di quest’ultima è una natura astratta. Lo
studio condotto nei primi anni Novanta si basa sull’osservazione partecipante.

7.1 Storia naturale della ricerca


Inizialmente, l’idea dell’autore era quella di studiare il catastrofismo laico (comunitarismo ecologista),
contrapponendolo al catastrofismo religioso (testimoni di Geova). L’autore si avvicina a Gran Burrone nel
1990 e nota uno stile di vita improntato al rispetto della natura. All’idea di catastrofismo ecologista si
sostituisce quella di una sensuale sacralizzazione della natura concreta, oggetto di devozione. L’autore
incontra il primo gatekeeper, Adriano, che lo scoraggia. La decisione di studiare la comunità degli elfi si
accompagna al mutamento del disegno della ricerca, ora rivolto non al catastrofismo, ma alla sacralizzazione
della natura. Per il confronto, vennero dunque scartati i Testimoni di Geova e scelta una comunità che
esprimesse il sacro della natura su registro religioso. L’autore identifica in quest’ultima la comunità del
Damanhur, sul versante mistico-esoterico. In questo caso, il ruolo di gatekeeper è svolto da Azalea, che lo
scoraggia e gli comunica che la decisione spetta a Cipresso. L’autore inizia a frequentare il Centro Horus di
Torino, sede della Libera Università di Damanhur, dove conobbe Pero, che lo aiuta ad informarsi di più sulla
comunità. Successivamente, gli viene dato il permesso di partecipare al rito del solstizio d’estate.

7.2 Il lavoro sul campo


Il lavoro su campo si svolge in modalità diverse tra comunità. Nel caso della valle degli elfi, si tratta di
cinque mesi di totale immersione nella comunità, con poco spazio alla stesura e alle note etnografiche, quindi
costringendo il ricercatore a prendere pause dal soggiorno per scrivere. A Damanhur, i tempi di ricerca sono
quasi quattro anni, con una lunga serie di visite di una giornata, interrotto da un solo breve soggiorno di due
settimane. Nel primo caso, il contro è il lasso di tempo tra esperienza e stesura di un testo. A Damanhur, non
fu consentito a Cardano di partecipare ad alcune attività protette dal segreto, mentre lo stile di vita nella
comunità degli elfi è del tutto assimilabile a quella dei membri. Unici contro, in questo caso, il fatto che
interviste e taccuini sono mal visti dagli abitanti. A Damanhur, la scarsa partecipazione alla vita comunitaria
è colmata da estensione del periodo di ricerca, analisi della letteratura interna guidata da informatori,
sistematico ricorso al back talk e conduzione di un sondaggio disegnato e condotto con gli abitanti.
Gli informatori → nella Valle degli elfi gli informatori, Adriano e Matteo, aiutano l’autore perché ritengono
che egli con la sua ricerca possa presentare alla società ‘esterna’ uno stile di vita alternativo capace di dar
gioia. A Damanhur gli informatori sono Dalia e Quercia, che aiutano nella traduzione dei simboli nei rituali e
nella costruzione della lista di intervistati. Damanhur organizza persino due incontri di discussione dei
risultati della ricerca, dai quali emerse l’inadeguatezza della prima interpretazione dell’autore.
Le interviste discorsive → le interviste servono all’autore per tratteggiare l’esperienza del sacro della natura.
I colloqui furono guidati da una traccia simile nella struttura, ma vennero modellate dalle caratteristiche
culturali della comunità e dal tipo di relazione instauratasi.
Il back talk → tale ricorso permette di raccogliere giudizi sulle interpretazioni dell’autore circa la cultura
delle comunità. L’autore raccoglie tutti i commenti ed osservazioni, oltre a due speciali occasioni di
confronto: le presentazioni a Damanhur dei risultati della ricerca e la sollecitazione del giudizio degli elfi su
un dattiloscritto che conteneva la prima interpretazione della loro cultura. Nel primo caso l’incontro assunse
la forma di una conferenza. L’autore venne criticato per quanto riguarda la sua caratterizzazione del rapporto
dell’uomo con la natura, un triangolo in cui i vertici sono occupati dal divino, l’uomo e la Natura. Per quanto
riguarda le osservazioni degli elfi, vi erano annotazioni relative all’organizzazione sociale e politica della
comunità. Nella stesura della monografia con i risultati dello studio, Cardano tiene conto delle indicazioni
delle comunità quando lo persuasero. In caso contrario, si limita a segnalare il conflitto nelle interpretazioni.
L’analisi della documentazione empirica → note di campo, trascrizioni di interviste, documenti naturali
furono analizzati ricorrendo al tipo ideale weberiano e la costruzione di metafore.

7.3 Alcuni risultati dello studio: lo specchio, la rosa e il loto


In entrambe le comunità, la sacralizzazione della natura ha origine dalla dissoluzione della polarità
uomo-natura. Elfi e damanhuriani approdano a questo esito percorrendo due diversi itinerari. Nel primo caso,
il “sacro ecologico”, il processo si compie attraverso la desacralizzazione dell’uomo, la negazione della sua
particolarità. Nell’altro caso, il “sacro esoterico”, la natura diviene sacra perché parte dell’uomo, o meglio di
una divinità caduta le cui membra disperse sono riconoscibili nell’uomo. In entrambi i casi, vediamo le due
distinte espressioni del sacro, che sono distinte dalla rosa (sacro dualista) e dal loto (sacro olista). Sia sacro
ecologico che quello esoterico non sono gli stessi ‘sacri’ del giudaismo-cristianesimo, caratterizzati da
alterità. Per gli elfi, la rosa (sacro dualista) ha origine nel tentativo di esprimere la sacralità della natura con
le categorie e lessico delle religioni giudaico-cristiane. La devozione si sposta da creatore al creato, la natura.
Questa, viene rappresentata in chiave energetica, pervasa da un’energia impersonale. La potenza di dio è
stata trasferita nella natura, che diventa creante. Nel loto (sacro olista) si infrangono le barriere tra uomo e
natura e questa diviene sacra, sprofondando in un tutto. Il sacro olista è simile all’esperienza dei mistici
orientali. Nonostante uomo e natura siano un tutt’uno, la responsabilità verso la natura è sempre vigile. Non
vi è dualismo con la natura, ma una fusione sensuale.
Per quanto riguarda Damanhur, nello specchio (emblema del sacro esoterico) si riflettono sovrapposti e
sfigurati rosa e loto, alterità ed identificazione. A fondare questa esperienza del sacro è la magia,
un’iniziazione con cui i damanhuriani trasformano la realtà stessa del mondo. Per la comunità, la natura è un
insieme di forze ed intelligenze sottili, come gli Spiriti di natura. Il rapporto con la natura non si esaurisce
nell’attenzione ecologica per l’ambiente, ma si estende anche al piano magico. L’uomo è sospeso come corda
tra il mondo della materia e quello divino. Lo specchio raccolta la storia e la chiave per la comprensione del
sacro esoterico: aurea unità delle origini, frantumazione dello specchio, ricomposizione dei frammenti
dispersi, unità riconquistata. Damanhur vive il momento della ricomposizione, con identificazione
(attenzione ai frammenti ricomposti) e comunione (azione rivolta ai frammenti dispersi ed azione del 7.4.1

7.4 Questioni metodologiche: l’osservazione partecipante


L’osservazione partecipante non è solo guardare, ma anche ascoltare, toccare, odorare, gustare, aprirsi ad
un’esperienza con tutto il corpo. La distanza tra osservatore ed oggetto viene meno, l’osservatore è dentro
l’oggetto. Ciò di cui un osservatore partecipa dipende dalle sue caratteristiche personali e dalla forma del
rapporto instaurato. L’osservazione è la tecnica principe per lo studio dell’interazione sociale, dalle quali la
società prende forma. Con l’osservazione l’interazione sociale viene colta in un contesto naturale, che si
impara a conoscere vivendo con e come le persone nel contesto. Partecipazione diretta è dialogo e assunzione
di un ruolo, che impone all’osservatore una parziale ‘risocializzazione’. L’esperienza si sviluppa in un lasso
di tempo esteso, da mesi ad anni, per ritrarre processi sociali ed accedere ad una rappresentazione dinamica
dei fenomeni sociali. L’osservazione partecipante costituisce il cuore della ricerca etnografica, nella quale
l’osservazione è impiegata con altre tecniche, come osservazione documentaria, osservazione naturalistica,
intervista discorsiva, lo shadowing ed il focus group. L’osservazione partecipante consente di ricostruire
dall’interno il profilo culturale della società ospite, attraverso rappresentazioni condivise dalle persone del
contesto sociale e comprendendo il loro punto di vista. Vi è poi l’impegno di dar conto di ciò di cui i membri
non hanno consapevolezza. Due disposizioni cognitive concorrono a questi scopi: impegno ad una
descrizione dettagliata ed inscrizione dei dettagli in una cornice teorica che dia loro senso. L’osservazione si
applica a contesti dai confini spaziali delimitati. La forma dell’osservazione dipende da fattori quali le
caratteristiche dell’oggetto e dello strumento osservativo. Metodi e risultati dell’osservazione sono
‘necessariamente plurali’. Il metodo etnografico non può essere standardizzato, ma è importante mostrare
passaggi obbligati ed implicazioni di alcune scelte di metodo. È impensabile proporre regole del metodo, va
sviluppata una personale consapevolezza metodologica, per dar conto in modo analitico all’itinerario seguito
e l’obiettività del proprio resoconto.

7.4.1 Il disegno della ricerca


L’elaborazione del disegno della ricerca procede in questo caso con la conduzione dello studio. Due decisioni
sono però cruciali: identificazione dell’oggetto/oggetti e scelta del ruolo di osservatore.
L’oggetto → l’oggetto dell’osservazione deve essere circoscritto. All’identificazione dell’oggetto
corrispondono due percorsi tipici: il primo muove da specifica domanda cognitiva (es. ricerca di Cardano), il
secondo dall’oggetto che consegna al ricercatore la domanda cognitiva (es. studio di Kunda sulla Tech,
industria d’alta tecnologia). In quest’ultimo caso, la domanda e le risposte si profilano solo in seguito,
attraverso analisi dei materiali empirici e la scrittura. Il primo percorso può caratterizzare un vincolo che non
permette di incontrare l’inatteso, mentre il secondo percorso è più aperto alla scoperta ma è difficile
prevedere quando la ricerca avrà fine.
Nell’individuazione dell’oggetto va tenuto conto di un elemento pratico ed uno epistemico. Il primo riguarda
la sostenibilità emotiva della relazione osservativa. Le caratteristiche personali dell’osservatore non devono
pregiudicare la convivenza gradevole. Il rapporto tra gli attributi dell’osservatore e la cultura degli
interlocutori deve essere sostenibile. La seconda questione, epistemica, attiene al tema dell’estensione o
generalizzabilità dei risultati ottenuti. Il disegno dello studio deve essere consistente con le pretese di
estensione del ricercatore.
La forma della partecipazione → l’osservazione partecipante prevede diversi ruoli osservativi: si può vivere
in incognito, osservazione coperta, o comunicando alla comunità la propria identità e scopi, osservazione
scoperta. Un esempio emblematico nel primo caso è quello della ricerca di Humphreys sul Tearoom Trade,
scambi omosessuali in bagni pubblici. La scelta tra le due alternative ha conseguenze metodologiche
importanti, cui si aggiunge un problema etico. Valutiamo pro e contro delle due forme di osservazione.
● Osservazione coperta, punti di forza:
o Guardiani. Nell’accesso al setting, l’osservatore non deve ricevere l’approvazione dei
guardiani (gatekeepers), che si assumono la responsabilità dell’intrusione.
o Reattività. L’osservazione coperta riduce l’’effetto Hawthorne’, ossia l’alterazione del
comportamento osservato a causa della presenza dell’osservatore.
o Competenza. L’osservatore può acquisire la competenza del ruolo che ricopre.
● Osservazione coperta, punti deboli:
o Rigidità. L’osservatore ha minori possibilità di movimento su campo; può osservare e
domandare solo nella misura consentita dal ruolo che ricopre.
o Coinvolgimento. L’osservazione coperta riduce la possibilità di distanziarsi cognitivamente
ed emotivamente dall’oggetto in studio.
o Commiato. Potrebbe essere difficile congedarsi dai propri ospiti nei tempi previsti.
o Pubblicazione. Problema che si verifica al momento di pubblicare i risultati della ricerca, un
‘tradimento’ della fiducia della comunità ospitante.
● Osservazione scoperta, punti deboli:
o Guardiani. La difficoltà del rapporto con i guardiani, che ha peso diverso in ragione della
consistenza numerica della popolazione in studio e delle specificità culturali. I guardiani
possono essere ammorbiditi da una terza persona che garantisce per il ricercatore.
o Manipolazione strumentale. La malintesa percezione della figura dello scienziato, visto
come scrittore o giornalista e usato per fare ‘buona stampa’ e buona impressione della
comunità, offrendo un’immagine di sé fittizia. Si può risolvere tale insidia controllando i
tempi del soggiorno.
o Reattività. L’alterazione del comportamento osservato causato dalla presenza
dell’osservatore può essere risolto dal passare del tempo. Inoltre, non sussiste quanto più la
comunità osservata è estesa.
o Arbitrato. L’osservatore può essere percepito come individuo colto, al di sopra delle parti e
può essergli chiesto di risolvere dispute interne, agendo da giudice.
● Osservazione scoperta, punti di forza:
o Flessibilità. Non dovendo occupare un ruolo specifico, l’osservatore può accedere ad una
messe più ricca di informazioni, con ampia possibilità di movimento su campo, legittimata
dal ruolo di studioso. Potrà inoltre ricorrere al backtalk, ossia interpellare le persone
sull’appropriatezza delle proprie interpretazioni. Infine, sarà possibile alternare il soggiorno
nella comunità con periodi di lavoro a casa.
o Distacco. L’osservatore può contare sulle risorse cognitive che derivano dalla vicinanza e su
quelle che derivano invece dalla lontananza.
La scelta tra l’una e l’altra forma è irreversibile solo in un caso: se si inizia con un’osservazione coperta, e
poi si rende nota ad una parte o alla totalità della popolazione studiata la propria identità.
Infine, va ricordato che il ricorso all’osservazione coperta coinvolge problemi etici e comporta conseguenze
per i soggetti in esame. Prima di adottarla, bisogna considerare: la praticabilità di una strategia alternativa e
l’entità dell’eventuale danno inferto agli interlocutori.

7.4.2 La costruzione della documentazione empirica


L’accesso, guadagnare la fiducia dei propri ospiti → L’osservatore coperto diverrà parte della società dopo
essere stato sottoposto alla trafila destinata ad ogni nuovo venuto, mentre l’osservatore scoperto dovrà
conquistare la fiducia dei guardiani. L’osservatore deve arrivare preparato a questo appuntamento, studiando
la letteratura scientifica pertinente ed i documenti naturali. Lo spoglio di questo materiale ha due scopi:
strumento di persuasione ed identificazione di possibili “mediatori culturali”.
Mediatori culturali. Persone che godono della fiducia della popolazione in studio e facilmente avvicinabili
dal ricercatore. Il mediatore ideale è colui che ha solidi legami con entrambe le culture e può essere colui che
presenterà l’osservatore ai guardiani. Se fosse così, dovremo accertarci che egli: a.) goda veramente della
fiducia della popolazione; b.) che ai suoi occhi, il ricercatore goda di una certa fiducia.
La negoziazione. Il lavoro su campo inizia con inversione di status, in cui il ricercatore è osservato per capire
se ci si può fidare di lui. Durante il primo incontro con la popolazione, egli deve essere discreto, mostrare
genuino interesse umano per il contesto sociale e che si prenda tempo, senza imporre ai guardiani una
decisione affrettata. Occorre prender nota con cura dei primi contatti con mediatore e società.

Il lavoro sul campo → la ricerca etnografica si compone di operazioni dall’andamento circolare. La domanda
cognitiva orienta, ma viene anche modellata dall’esperienza. Il lavoro rende disponibili materiali, la cui
analisi orienta nuovamente il lavoro su campo. La scrittura è strumento di scoperta. Analisi e scrittura
devono avvenire durante l’osservazione, cuore del lavoro, a cui si possono affiancare altre tecniche. La
metodica redazione degli appunti di campo è parte integrante dell’osservazione. Le forme di osservazione e
partecipazione evolvono nel corso del lavoro. Spradley distingue tre passi legati da relazione circolare:
osservazione descrittiva, osservazione focalizzata ed osservazione selettiva. Il lavoro su campo inizia con
l’osservazione descrittiva, cui segue quella focalizzata, che guarda ad una forma particolare di interazione
sociale, aspetto specifico della cultura. Si succedono osservazione descrittiva e focalizzata. Dall’osservazione
focalizzata si passa a quella selettiva, quando cresce il grado di dettaglio richiesto e si rende necessario
strutturare l’attività osservativa. Osservazione focalizzata e selettiva si succedono in modo ciclico, legandosi
anche a quella descrittiva. Dell’osservazione è parte il backtalk, insieme delle osservazioni e commenti
‘nativi’, sia spontanei che sollecitati, che permettono al ricercatore di sottoporre a scrutinio critico le
interpretazioni. Ciò offre inoltre nuovo materiale empirico. Va detto che però i backtalk possono decretare
l’appropriatezza solo quando si tratta di asserti descrittivi. Nel caso venga criticata l’interpretazione, magari
non abbastanza celebrativa della cultura, bisogna fare attenzione.
Osservazione descrittiva. Descrizione comprensiva e di superficie del contesto in studio. La descrizione non
è soltanto osservazione e riporto, ma esercizio di una scelta, selezione tra insieme infinito di asserti
descrittivi possibili, di un sottoinsieme di asserti rilevanti. Deve quindi essere preceduta da riflessione
teorica, per esplicitare i criteri che orientano la scelta degli asserti. Tali criteri sono definiti in funzione della
domanda cognitiva. Tuttavia, alcuni elementi non possono mancare in ogni descrizione: i.) lo spazio: le
caratteristiche geografiche ed ambientali del luogo, ma anche geografia dello spazio sociale; ii.) il tempo: la
storia o avvenimenti della cronaca più recente della comunità; iii.) gli attori: il loro numero, profilo socio
demografico, numero, profilo e ruolo; iv.) le attività principali: identificate sulla base delle dimensioni
precedenti.
Osservazione focalizzata. Analisi più dettagliata. L’osservazione descrittiva ridisegna la domanda cognitiva e
quest’ultima indirizza l’individuazione del luogo del contesto sociale in studio su cui concentrare
l’attenzione.
Osservazione selettiva. Strumento al quale si ricorre solo quando le domande dell’osservatore possono
trovare risposta solo attraverso formalizzazione o quantificazione delle procedure osservative (es. si
considera un’ipotesi relativa ad aspetti circoscritti dell’interazione sociale). Il ricercatore diventa un
‘osservatore completo’, escluso dalla partecipazione alle relazioni sociali osservate. Questa forma
d’osservazione mostra ampi margini di sovrapposizione con l’osservazione naturalistica strutturata, richiede
all’osservatore di prender nota in semplici conteggi o sofisticate matrici. Questi dati possono essere
analizzati ricorrendo a procedure statistiche quali la network analysis.

Gli informatori → esistono due tipi di informatori (= nativi con cui si instaura un rapporto privilegiato):
informatori istituzionali e non-istituzionali. I primi sono informatori che la società ospite incarica del
rapporto con i non-membri. L’investitura può precedere o coincidere con l’inizio della ricerca. Spesso essi
coincidono con i guardiani. Questi presentano elevata identificazione con il gruppo, ma non sempre sanno
dar prova di senso critico. Il pericolo è quello di manipolazione strumentale. Gli informatori non istituzionali
sono privi di investitura formale ed offrono la propria collaborazione volontariamente. Non sempre le
persone più disponibili sono però le più informate, magari hanno una posizione marginale. Due
considerazioni valgono in generale: a.) il rapporto privilegiato apre alcune porte all’osservatore, ma può
chiuderne altre (es. il mio informatore sta antipatico ad una parte della società, che di conseguenza non si
aprirà al ricercatore), per questo è meglio consolidare il rapporto con l’informatore dopo qualche tempo; b.)
l’informatore ed il rapporto che si instaura con esso sono parte dell’osservazione e devono essere sottoposti a
severo scrutinio. È necessario capire cosa spinge l’informatore a collaborare.

Le note etnografiche → la documentazione empirica è costruita giorno per giorno con le note etnografiche, la
registrazione, in un linguaggio naturale. Le note dovrebbero contenere due informazioni: una relativa
all’oggetto, l’altra alla relazione osservativa. Alle note è necessario dedicare almeno lo stesso tempo dedicato
all’osservazione. È suggerito che tale attività abbia cadenza giornaliera, con sera e mattino come momenti
più propizi, ma l’osservatore deve sempre avere con sé un taccuino, con appunti che non infastidiscano gli
ospiti. Nelle note si devono trascrivere gli aspetti rilevanti della vita quotidiana, in ordine cronologico,
specificando identità e ruolo delle persone. Si deve poi aggiungere il resoconto dettagliato delle proprie
attività, conversazioni, colloqui con informatori ed interviste informali. Tre principi operativi sono una guida
per la stesura delle note: distinzione, concretezza e ridondanza. Principio di distinzione = separare oggetti,
fonti, tipi di discorso, tipi di asserti (descrizioni, interpretazioni, etc.), sfumature linguistiche, contesti
osservativi. La prima distinzione riguarda l’oggetto: le note devono essere divise in almeno due capitoli
distinti, ossia la descrizione della società in studio e della relazione osservativa.
La descrizione della società in studio. I principali strumenti per sintetizzare le complesse situazioni sociali
sono: la descrizione interpretativa (per ciò che si vede), il discorso diretto e indiretto, citazioni e riassunti
(per ciò che si ascolta). Il principio di distinzione chiede al ricercatore di fare ordine tra i materiali, il
principio di concretezza di usare un linguaggio vicino all’esperienza quotidiana, quello della ridondanza di
non fare troppo affidamento sulla propria memoria.
-Principio della distinzione: indispensabile prender nota del contesto che ha reso possibile l’acquisizione di
materiali, distinguere discorso diretto da indiretto. Le note etnografiche devono riflettere le stesse differenze
di usi linguistici della società in studio. È bene che i personaggi siano sempre identificati, soprattutto quelli
nuovi, con nome e breve descrizione. Tutte le dimensioni implicite devono essere esplicitate, separando con
segno grafico (es. una parentesi). Il resoconto di eventi visti in prima persona deve essere distinto da quello
riportato da altri; anche per le conversazioni. Tale precisazione permette di fornire informazioni sull’impatto
della propria presenza sul setting. I backtalk devono essere riconoscibili e corredati dalla descrizione del
contesto di produzione (colloquio, intervista, etc.). Anche le interpretazioni teoriche della cultura in studio
devono essere separate.
-Principio della concretezza: opportuno utilizzare un linguaggio estremamente concreto, meno tendente
possibile all’astrazione.
-Principio della ridondanza: necessità di descrizioni in cui nulla sia dato per scontato, poiché a distanza di
tempo particolari possono essere dimenticati. Anche a costo di ripetersi.
La descrizione della relazione osservativa. È necessario un meticoloso resoconto della relazione osservativa,
perché la comunità scientifica possa valutare la plausibilità degli asserti e risultati dell’osservatore. Per
questo è fondamentale un resoconto riflessivo. È necessario prender nota delle condizioni in cui si conduce la
ricerca e le pratiche che strutturano l’esperienza. La descrizione della relazione osservativa deve basarsi su
sei punti, relativi ad accesso e al lavoro su campo:
-modalità di negoziazione di accesso;
-atteggiamento dei partecipanti nei confronti del lavoro del ricercatore;
-le condizioni di arruolamento (con evoluzione nel tempo);
-intensità della reattività (percepita o rilevata con backtalk);
-natura delle relazioni personali di fiducia/sfiducia instaurate (percepite o rilevate);
-tipo di fonte da cui derivano le caratterizzazioni del contesto in studio raccolte;
Le condizioni di arruolamento del ricercatore definiscono il punto di vista dal quale all’etnografo è stato
possibile fare esperienza del contesto. La percezione del grado di reattività offre elementi utili a qualificare la
solidità dei risultati. La presenza di barriere all’accesso è riconoscibile tutte le volte che incontriamo ostacoli
fisici e sociali; più difficili sono da identificare le barriere invisibili, edificate attraverso menzogne. La
reattività indotta, invece, si può notare quando, all’avvicinarsi del ricercatore ad un gruppo che discute,
questi smettono immediatamente. È inoltre precisare le condizioni alle quali abbiamo acquisito informazioni.
Le note riportate derivano da esperienza diretta? Se no, l’abbiamo sentito? Ce l’hanno riportato? Etc. da una
descrizione in questi termini deriva una stratificazione dei domini della cultura in studio, distinti rispetto alla
loro accessibilità allo sguardo dell’osservatore. Ciò consente di verificare la solidità empirica degli asserti
etnografici e di fare una stima della loro incertezza. È bene che vada data più attenzione al contenuto delle
note che alla forma. È importante avviare da subito l’analisi della documentazione empirica e leggere tutte le
note almeno una volta a settimana, per rettificare e completare le informazioni raccolte, senza mai sostituire
quelle originarie, ma aggiungendo. È bene disporre di almeno due copie di questi testi grazie al world
processor. Concludiamo con informazioni sul profilo epistemico dei materiali. Le note etnografiche sono la
base empirica su cui poggiano i risultati, ma hanno significato solo per colui che li ha redatti. Per conferire
maggior solidità a materiali tanto soggettivi, è bene porre accanto alle note un resoconto riflessivo che
spieghi le procedure osservative adottate, le caratteristiche dello strumento osservativo, l’“equazione
personale” dell’osservatore. Quest’ultimo aspetto è il più problematico del resoconto riflessivo e conta anche
sulla capacità del lettore di cogliere il punto di vista dell’autore. L’autore deve aiutarlo, mostrandosi,
rendendo chiara nel testo la propria appartenenza ad una determinata tradizione di ricerca ed il proprio
orientamento di valore. Per comunicare la propria ‘equazione personale’, l’autore deve fornire: i.)
l’orientamento teorico e metodologico che lo ispira; ii.) l’orientamento di valore e la relazione tra valori che
lo abitano e che ispirano la cultura in studio; iii.) le principali coordinate emotive della propria esperienza su
campo, la propria “reazione” all’oggetto. Alla costruzione dell’equazione personale dell’osservatore può
contribuire il ricorso a ‘reperti’ ispezionabili dal pubblico, ossia tutti i documenti naturali, segnici e non,
prodotti dalla cultura ospite. Ciò dà al lettore l’opportunità di osservare un frammento del lavoro
interpretativo dell’etnografo.

7.4.3 L’analisi della documentazione empirica


Questa fase prende il via dopo la stesura delle note etnografiche e si chiude quando il resoconto etnografico
giunge al termine. Si realizza in questa fase il passaggio da costrutti del linguaggio degli ospiti a quelli
concettuali della teoria sociologica. La comunità scientifica deve ricevere tutti gli strumenti per valutare la
plausibilità della rappresentazione. Non serve un complesso modello teorico o la corroborazione di ipotesi. È
sufficiente una buona classificazione dei fenomeni osservati, una metafora eloquente, la definizione di
concetti rilevanti empiricamente e teoricamente. Non è necessario analizzare nel dettaglio tutta la
documentazione empirica, ma solo quei particolari che consentono di dialogare con la teoria in cui saranno
inscritti. La documentazione empirica comprende note etnografiche, trascrizione di interviste e documenti
naturali, sottoposti ad analisi narrativa, leggendo, rileggendo e classificando temi, attori, situazioni. La
chiave dell’operazione è la “grammatica dell’immaginazione sociologica” (Mills, 1995), la classificazione
crociata, ovvero la combinazione in una tipologia o tassonomia delle classificazioni semplici tratte dai
materiali empirici.

7.4.4 La comunicazione dei risultati


La scrittura del resoconto porta a compimento la ricerca. La forma e struttura del testo assumono valore
fondamentale, così come lo stile narrativo e la scelta delle voci da includere. La scrittura contribuisce alla
definizione dei contenuti. L’osservatore deve scegliere lo stile retorico con ragione, per rendere giustizia alla
società in studio. Per la stesura di tale ‘progetto interpretativo’, vi sono consigli operativi da seguire.
Altheide e Johnson dicono che le buone etnografie mostrano chi le ha scritte. L’autore deve mostrarsi nel
testo, descrivere la tradizione teorica cui è legato, i propri interessi e valori. Inoltre, è necessario un resoconto
riflessivo del processo di ricerca, i cui temi saranno gli aspetti della relazione osservativa. Queste
informazioni saranno collocate nel capitolo metodologico o in appendice e dovrebbero interagire sempre con
l’esposizione dei risultati, mostrandone limiti e punti di forza. Anche nel resoconto etnografico dovrebbero
comparire le voci che abitano la cultura, riproducendo la cacofonia del contesto sociale. Nel paragrafo
dedicato alle note etnografiche, il materiale deve riflettere le differenze linguistiche della cultura ospite. Lo
stesso principio deve governare la scelta delle citazioni, riflettendo le differenze di valori, credenze,
atteggiamento della cultura.

Capitolo VIII – E adesso cosa me ne faccio di tutti questi dati? La logica dell’analisi
Le analisi differiscono a seconda che il materiale empirico sia costruito con tecniche qualitative o
quantitative. Ricorrendo ad un’inchiesta campionaria, il ricercatore avrà a che fare con numeri, valori, che
identificano gli stati che ciascun caso assume sulle proprietà indagate, ossia che restituiscono un dato
sintetico e puntuale sulle risposte. Questi numeri costituiscono una collezione di dati, un insieme di valori
che individuano le modalità di risposta per ciascuna delle domande previste. Con le interviste discorsive,
l’osservazione partecipante ed i focus group, invece, non si avranno numeri ma testi, costituiti da annotazioni
del ricercatore o narrazioni consegnate dalle persone.

8.1 Analizzare una collezione di dati


Esiste una serie di operazioni logiche che conduce dai concetti da indagare alle variabili che vengono
rilevate, grazie al questionario. Tra concetti e variabili ci sono diverse forme di rapporto. La prima
operazione da compiere prende il nome di codifica. Ci riferiamo in questo caso al questionario, in cui le
modalità di risposta potrebbero essere spazi vuoti in cui apporre un numero, ma anche delle classi tra cui
scegliere, indicando la frequenza del comportamento (es. mai, 1-2 volte, 3-4, etc.). Con modalità di risposta
come queste, è probabile che già nel questionario ci siano, accanto alle modalità di risposta, numeri che
contengono riferimenti puntuali che verranno inseriti nel foglio di calcolo durante la codifica. Per ciascun
questionario, utilizzando i codici predisposti, si ottiene la matrice dati, ossia una tabella dove ogni riga
identifica uno specifico questionario e delinea il profilo di uno specifico intervistato; mentre ciascuna
colonna riporta i valori che una variabile assume in base alle risposte fornite.

È fondamentale ricordare che i dati non parlano da soli; serve un buon disegno della ricerca ed ipotesi ben
formulate.

8.1.1 Tecniche di analisi monovariata


Prima di elaborazioni statistiche complesse, alla matrice dati si possono applicare tecniche più semplici,
come quella monovariata, ossia tecniche di sintesi delle informazioni raccolte che prendono a riferimento
una variabile per volta (colonna) osservata su tutti i casi considerati. Si punta l’attenzione su una variabile e
si vedono i valori che assume sui casi osservati. Da qui si può creare la distribuzione di frequenza, punto di
partenza dell’analisi monovariata. Nella distribuzione di frequenza, si indica il numero di volte che nella
matrice dati compare ciascuna delle modalità assunte da una variabile. Es. Variabile titolo di studio prevede
cinque possibilità di risposta (senza titolo, licenza elementare, licenza media, etc.). La distribuzione di
frequenza può essere espressa in forma tabellare. Se i soggetti alla domanda titolo di studio hanno
selezionato senza titolo per 36 volte, troveremo tale numero accanto al codice che identifica la modalità
senza titolo. Spesso, ai valori assoluti sono affiancati quelli relativi, le percentuali (frequenze relative). Il
ricercatore cerca forme per sintetizzare i dati raccolti. A tal fine, esistono i “valori caratteristici”, in grado di
sintetizzare la distribuzione di frequenza. I valori caratteristici principali sono tendenza centrale e variabilità.
La tendenza centrale è la modalità della variabile verso la quale i casi gravitano, ossia il “baricentro” della
distribuzione. Le modalità di computo dipendono dal tipo di variabile e può assumere tre forme: moda,
mediana e media aritmetica. Il limite della tendenza centrale è che non permette di comprendere se i casi
sono radunati attorno ai valori centrali o se presentano grande variabilità interna, polarizzandosi. Si adottano
quindi strumenti per misurare la variabilità.
Lavorare sulla matrice → la matrice dati, punto di riferimento, non è immutabile. Fermarsi ad analisi
monovariate è limitante, dunque la matrice dati viene elaborata. Esistono varie trasformazioni.
La ricodifica di una variabile serve a renderla più utile per l’analisi. Per esempio, potrebbe essere più utile
per il ricercatore avere un valore che si riferisca all’età, invece che all’anno di nascita (invece che 1973, dire
47 anni). Un’altra trasformazione, nel caso la ricodifica non fosse sufficiente, è quella dell’aggregazione di
valori. I valori dell’età possono essere aggregati definendo una nuova variabile a quattro modalità, che
prende il nome di classi di età. Questa consentirà di presentare meglio i dati e procedere a confronti interni.
L’aggregazione non elimina la variabile età, ma ne crea una nuova; in qualsiasi momento si può tornare
all’altra variabile. Il ricercatore, facendo ciò, ha modificato la natura della variabile da cardinale a ordinale.
Altro tipo di trasformazione è il raggruppamento. Un esempio è quello di partiti minori che vengono
raggruppati sotto la categoria “altri partiti”. Infine, vi è il processo di normalizzazione, che consente al
ricercatore di collocare i valori assunti da una variabile in un sistema di riferimento, rendendo omogenea
l’interpretazione del dato. Esempio è l’aggiunta delle frequenze relative percentuali ai valori assoluti.

8.1.2 Tecniche di analisi bivariata


Le analisi monovariate sono inadeguate per il confronto di più variabili. La ricerca in ambito sociale si basa
sulla costruzione di asserti che mettono in relazione concetti, nel tentativo di individuare la forma, forza e
direzione delle relazioni. Gli asserti prodotti prendono il nome di ipotesi, es. “alto tasso di associazionismo
comporta alti livelli di partecipazione alla vita pubblica”. Per controllare tale ipotesi, occorrono informazioni
circa: a.) numero di associazioni sul territorio; b.) numero di persone che coinvolgono; c.) numero di
associazioni a cui appartiene ogni persona; d.) indicatori per osservare grado di partecipazione alla vita
pubblica. Il primo passo è l’analisi congiunta delle distribuzioni di frequenza delle due variabili, incrociando
le rispettive distribuzioni di frequenza. Attraverso tale analisi si identificano forma (= se esiste una
relazione), forza (= quanto una variabile influenza l’altra) e direzione (= la direzione della relazione, talvolta
causale) delle variabili. Quest’ultimo aspetto è importante, poiché permette di identificare variabile
indipendente, quella che determina i mutamenti dell’altra (causa) e la variabile dipendente, che subisce
cambiamenti al variare della prima (effetto). La prima, X, si colloca graficamente sull’asse delle ascisse; la
seconda, Y, sull’asse delle ordinate. Le tecniche di analisi applicabili dipendono dalla natura stessa delle
variabili: cardinali, ordinali e nominali. Le ultime due devono essere trasformate in valori numerici. Queste
ultime sono dette variabili categoriali. Due variabili categoriali possono essere messe in relazione attraverso
una tabella a doppia entrata, con righe e colonne per presentare le modalità. Immaginiamo si voglia valutare
l’esistenza di relazione tra età e pratica religiosa, per capire se questo è influenzato dall’età. Si calcolano le
frequenze percentuali, che possono essere calcolate sia per riga che per colonna. Si sceglie la percentuale di
colonna quando si vuole analizzare l’influenza che la variabile in colonna ha su quella in riga; e viceversa. Ci
si può anche interrogare sulla forza della relazione, con altri strumenti statistici che non descriviamo.
Se le variabili sono invece cardinali, si possono usare altre tecniche di analisi per stabilire forma, forza e
direzione. Si confrontano i valori con un grafico cartesiano, variabile indipendente sull’ascisse e dipendente
sull’ordinata. Es. relazione tra quantità di libri acquistati e volte in cui si è andati a teatro, per mostrare se
sono direttamente proporzionali. Disegniamo un punto nel piano cartesiano per ogni valore. Per stabilire poi
la forza della relazione (= quanto incide un libro acquistato in più sul recarsi a teatro) si ricorre alla
regressione lineare semplice, equazione che sintetizza i punti del grafico in una linea retta. L’inclinazione
della linea fornisce il dato sulla quantità di variazione.
Tuttavia, ci sono relazioni tra variabili che non sono lineari, ma sono per esempio grafici a U (es. relazione
tra tempo libero ed età, in cui si avrà molto tempo libero in gioventù e in età avanzata). Per questo, esistono
altre forme di analisi statistica.

8.1.3 Tecniche di analisi multivariata


L’analisi bivariata rappresenta limiti, poiché ciascuna variabile nella realtà intrattiene rapporti con altre
variabili che si inseriscono nella relazione. Il problema è dover gestire più relazioni tra variabili, cercando di
isolare gli effetti delle une sulle altre. Per questo, si ricorre all’analisi multivariata. Le variabili diverse da X
e Y vengono definite variabili di controllo (identificate con Z), poiché vanno controllate e possibilmente
escluse. A seconda dell’ordine causale, possono essere distinte in:
-variabili antecedenti, precedono sia X che Y;
-variabili intervenienti, precedono Y ma seguono X;
-variabili susseguenti, seguono sia X che Y;
-variabili concomitanti, sono certamente correlate ad X, ma non sono né causa né effetto di X. Vengono
trattate come variabili antecedenti.
L’analisi di variabili terze può essere effettuata anche per comprendere meglio se la relazione tra X e Y è
diretta (nessuna variabile interveniente), parzialmente indiretta (ci sono variabili che mediano la relazione) o
del tutto indiretta (variabile che interviene è effetto di X e causa di Y). Anche per l’analisi multivariata
esistono specifiche tecniche per variabili cardinali e per quelle categoriali.

8.2 Analizzare i testi


Nelle tecniche qualitative, la documentazione empirica si costruisce attraverso dialogo diretto con le persone
oggetto di osservazione. La rappresentazione stenografica dell’esperienza avviene parallelamente alla fase di
costruzione della documentazione. Dobbiamo distinguere tra quattro tipi di documentazione empirica:
-le note di campo, ottenute da osservazione partecipante, naturalistica, shadowing ed esperimento sul campo;
-le trascrizioni, dal ricorso ad intervista discorsiva, focus group e registrazione di conversazioni naturali;
-le videoriprese, dall’osservazione naturalistica a distanza, giochi e, in parte, focus group;
-i documenti naturali, da testi e manufatti.
La fase di trascrizione è delicata, vanno considerati aspetti comunicativi, dunque la relazione discorsiva (con
canali linguistico, paralinguistico ed extralinguistico), sia contesto della relazione.
Considerazioni puntuali sulle tecniche di trascrizione. Lavoro di riduzione, in cui per procedere con l’analisi
della documentazione empirica, questa deve piegarsi alla forma scritta e cambiare registro da orale a scritto.
È una fase intrisa di teoria, in cui il ricercatore stabilisce un metodo per la trascrizione dei materiali e lo
applica a tutto il materiale, inserendo nel resoconto come ha proceduto in questa fase. È necessario adottare
un sistema di trascrizione che dia conto di aspetti verbali e non verbali, relativi all’interazione. I quattro tipi
di documentazione sono costituiti principalmente da parole, che danno corpo a narrazioni e argomentazioni
suscettibili di analisi. Con eccezione dei documenti naturali, tutta la documentazione empirica riporta i segni
della relazione osservativa. Le procedure di analisi della documentazione empirica procedono parallelamente
al lavoro su campo, consentendo di ‘aggiustarlo’ su piano metodologico e sostantivo. Infine, è comune
distinguere tra tre modalità di analisi: analisi primaria (= si applica su documentazione empirica raccolta per
la sua conduzione), secondaria (= applicata a documentazione empirica per finalità diverse o con tecniche
analitiche diverse) e meta-analisi (diffusa nelle discipline bio-mediche, si basa sull’analisi dei lavori empirici
pubblicati relativi a un ambito tematico omogeneo).

8.2.1 Le fasi del lavoro di analisi


Individuiamo le fasi in cui si articola il lavoro di analisi di documentazione empirica con due definizioni.
Nella prima, Matera (2004) definisce il lavoro di analisi delle note etnografiche: “Il metodo serve a
segmentare gli eventi di cui si fa esperienza, che si presentano come un flusso continuo alla nostra
percezione. Fare analisi significa dividere questo flusso in unità di analisi. Il problema sarà scomporre
l’esperienza coerentemente a quella degli attori sociali”. Il modello del flusso lineare si adatta a tutti i tipi di
documentazione empirica qualitativa, tranne per alcuni documenti naturali. L’analisi della documentazione
empirica è l’operazione che segmenta il flusso. Miles e Huberman individuano 4 tappe principali del
percorso di segmentazione, tutte circolari tra loro (data collection, data display, data reduction, conclusions:
drawing, verifying). Tali fasi si traducono in cinque passi cruciali: 1. segmentazione/qualificazione dei testi
(data reduction), 2. raffigurazione compatta delle qualificazioni apposte ai testi (data display), 3.
individuazione delle relazioni rilevanti (conclusions drawing), 4. validazione delle relazioni individuate
(conclusions verifying), 5. raffigurazione sintetica dei risultati. Analizziamoli uno ad uno.
Segmentazione e qualificazione dei testi → il lavoro di segmentazione/qualificazione considera
separatamente le parti di un testo, focalizzando l’attenzione su ciascuna. Ci sono due modi di procedere con
tale lavoro: 1. Segmentazione precede la qualificazione; 2. Segmentazione e qualificazione simultanei.
Nel primo caso, si procede individuando dei “marcatori” che indicano la cesura, e possono essere naturali e
analitici. Quelli naturali sono:
-nei documenti naturali = parti, capitoli, sezioni, incipit, coda;
-nelle trascrizioni = domande nelle interviste, temi nei focus group, turni nelle conversazioni;
-nelle note di campo = attori, luoghi, “famiglie” indicate dai partecipanti;
I marcatori analitici hanno origine da specifiche cornici teoriche e possono essere riassunti in:
-narrazione/argomentazione = consente di separare parti di testo di natura narrativa da quelle argomentative.
Poi, sarà possibile applicare a ciascuna parte tecniche di analisi distinte;
-tema, struttura, interazione = consente di separare in un testo: i.) i temi che tratta; ii.) la struttura dei
discorsi, es. forma della narrazione e argomentazione dette sopra; iii.) la relazione osservativa entro la quale
il discorso ha trovato espressione (Riessman, 2008);
-modello narratologico di Greimas = in quattro tappe narrative: contratto, competenza, performanza e
sanzione, per individuare specifici luoghi delle trascrizioni delle interviste.
La seconda forma di segmentazione/strutturazione, in cui le due procedure avvengono parallelamente, è il
cuore delle procedure di analisi dei materiali testuali basati sull’apposizione di glosse (o codici), poste come
note al margine dei testi, “inventate” nel corso della lettura. L’apposizione di glosse comporta simultanea
divisione del testo.
Data display → esso può assumere tre forme: narrativa, matriciale e grafica. Gli strumenti narrativi di data
display sono il riassunto tematico ed il record biografico. La forma matriciale di data display (proposto da
Miles e Huberman, 1985) si compone dei seguenti elementi: i.) soggetto; ii.) luogo analitico; iii.)
qualificazione; iv.) concisa quotation e rinvio al luogo pertinente del corpus testuale. Infine, gli strumenti
grafici di data display possono rappresentare: strutture e processi, relazioni tra ruoli, luoghi, sequenze di
eventi, etc.
Individuazione delle relazioni rilevanti (Conclusions drawing) → in questa fase, il ricercatore cerca di
scoprire relazioni inattese tra le proprietà, o mettere alla prova relazioni ipotizzate nella fase di progettazione.
Ciò non richiede particolari accorgimenti. Se le informazioni sono su una matrice, si tratta di prendere nota
delle relazioni tra proprietà. Per l’accertamento di relazioni non configurate, è utile individuare una gerarchia
di proprietà. È possibile individuare costellazioni di proprietà che “si tengono assieme” e muovere da questo
esito per interpretarle. Che la finalità sia individuare relazioni non prefigurate o accertare la presenza di
relazioni attese, per esprimere giudizio definitivo occorre tornare alla documentazione empirica originaria.
La validazione delle relazioni individuate (Conclusions verifying) → l’operazione di validazione delle
relazioni individuate viene avviata solo se l’esame dei dati grezzi (documentazione empirica originale) ne
conserva la solidità. La validazione chiede di tenere conto di vari elementi: 1. Prestare attenzione alle
trappole dell’euristica della disponibilità; 2. Controllare la solidità delle procedure di “generalizzazione
dentro il caso”; 3. Considerare le distorsioni imputabili all’”effetto ricercatore”; 4. Controllare la congruenza
con il ricorso a diverse tecniche di data collection e data analysis (triangolazione); 5. Considerare le
differenze di eloquenza/solidità della documentazione empirica a disposizione; 6. Analizzare i casi devianti e
prendere in esame i casi estremi; 7. Contare; 8. Considerare i materiali empirici che confliggono con la
relazione di cui si vuole appurare la solidità. Spieghiamo ogni punto.
1. L’euristica della disponibilità. Procedura inferenziale che interferisce nella formulazione di giudizi
relativi alla frequenza o probabilità di eventi. Questi giudizi sono influenzati dalla disponibilità
cognitiva delle informazioni pertinenti, modellate da memoria o vividezza del ricordo. Quindi, a
volte, le informazioni immediatamente disponibili acquistano rilievo empirico ingiustificato. Ciò può
essere contenuto dal data display analitico e da software per l’analisi.
2. Generalizzazione dentro il caso. Riguarda il problema della solidità della sineddoche. Occorre
chiedersi se ciò che si è osservato costituisca davvero una buona sineddoche (es. se a Damanhur
osservo tre riti in cui le donne hanno ruolo di rilievo, posso davvero concludere che tale aspetto
valga in generale per la comunità?). Si deve escludere quello che van Maanen etichetta “dati
presentati”, ossia rappresentazioni intese a trasmettere al ricercatore un’immagine positiva del caso.
3. Effetto ricercatore. Escludere la presenza di una distorsione in quanto osservato, imputabile a
perturbazione osservativa (= soggetti coinvolti sono consapevoli dell’attenzione del ricercatore e
possono modificare il comportamento) o perturbazione interattiva (= la semplice presenza del
ricercatore nel contesto osservato induce alterazioni nel comportamento degli altri astanti). Altra
forma di distorsione è sul ricercatore, quando diventa uno di loro (= going native).
4. Controlli di congruenza. Strategie con le quali la solidità di quanto emerso dalle analisi viene messa
alla prova in più luoghi del corpus testuale e attingendo alle informazioni consegnate da diverse
tecniche di ricerca.
5. Eloquenza differenziale. Attiene alla questione relativa alla difesa della solidità dei risultati. Occorre
dar conto del come della ricerca considerando due aspetti. Primo, la qualificazione della
documentazione empirica acquisita, in ragione delle condizioni che hanno consentito la sua
produzione, ovvero della relazione osservativa istituita. Equivale ad una “stratificazione” dei
materiali empirici, in ragione della “validità interna”. Secondo, necessità di precisare i limiti delle
conclusioni, il “grado di incertezza”.
6. Analisi dei casi devianti. Precisa a quali condizioni le relazioni osservate nel resto della popolazione
trovano espressione. Si cerca di identificare il caso che può mettere in discussione le idee e lo si va a
cercare. Significa interpellare i paria, coloro che nella “gerarchia di credibilità” occupano le
posizioni di minor rilievo.
7. Contare. Strategia semplice con cui mettere alla prova le affermazioni che qualificano un caso o il
campione con espressioni quali “la maggior parte”, “la minoranza”, etc. Contare aiuta a separare le
maggioranze effettive (98 su 100) da quelle stentate (52 su 100).
8. Il precetto che Gadamer illustra con “logica della domanda”. Nel costruire l’interpretazione di un
testo occorre mostrare anche le ragioni che portano a ritenere inadeguate le interpretazioni
alternative. Lo si fa rendendo forti le interpretazioni alternative, e poi spiegando perché le proprie
interpretazioni sono comunque le più plausibili.
La raffigurazione sintetica dei risultati → poggia su diversi dispositivi concettuali e retorici. Il più efficace è
il tipo ideale, la cui definizione weberiana abbiamo già definito: “il concetto tipico-ideale è ottenuto
attraverso l’accentuazione unilaterale di uno o più punti di vista e mediante la connessione di fenomeni
diffusi e discreti, in un quadro concettuale unitario. Nella sua purezza concettuale, questo quadro non può
mai essere rintracciato empiricamente. Il concetto serve a scopo di indagine e di illustrazione”. Facciamo un
esempio del suo uso con gli Elfi di Gran Burrone.
Le traiettorie biografiche degli Elfi di Gran Burrone
Come si diventa Elfi? Per rispondere, Cardano analizza gli stili di vita degli abitanti ed individua quattro tipi
ideali: esploratore, fuggiasco (sottotipi del nomade), rivoluzionario e comunardo (sottotipi del ribelle).
L’autore costruisce tale tipologia considerando il passaggio dalla società alla comunità, con una transizione
di status (rito di passaggio) a tre fasi: 1. Fase di separazione, distacco dal mondo e dallo status originario;
2. Fase liminare, in cui l’individuo non è né nel vecchio mondo né in quello nuovo; 3. Fase di aggregazione,
adesione al nuovo mondo e nuovo status. Il rilievo che assumono le fasi definiscono tipi distinti di
transizione di status. La differenza tra nomade e ribelle è data dalla fase liminare. Per il nomade vi è una
lunga fase liminare, centrata sull’esperienza del viaggio. Il viaggio è opposto alle costrizioni del tempo
sociale, o meglio all’emancipazione del tempo individuale da quello sociale. Tempo sociale = serie di regole
che prescrivono in quale ordine devono essere svolte le attività sociali. Nella vita in società, l’individuo
trasforma il tempo sociale in individuale. Per il nomade, il viaggio può condurre il tempo individuale alla
destrutturazione. Il tempo individuale ha due dimensioni: tempo biografico, tempo della propria vita, fatto di
passato, presente e futuro di aspettative e progetti; e tempo quotidiano che comprende i segmenti in cui
distribuiamo il nostro agire o non agire nella giornata. La destrutturazione del tempo biografico porta in
primo piano il presente, che assume rilievo ed autonomia. I due sotto-tipi di nomade sono l’esploratore e il
fuggiasco, distinte dalla collocazione del viaggio nel ciclo della vita. Per l’esploratore il viaggio è nel
passaggio da adolescenza ad età adulta, quando si è in procinto di abbandonare la propria famiglia d’origine
per assumersi responsabilità. Il viaggio è un prendersi tempo, sospendendo la necessità di strutturazione del
tempo biografico. Per il fuggiasco, invece, il viaggio si colloca in età adulta, quando l’elaborazione del
progetto di vita è già ultimata e si percepisce il carattere costrittivo della vita. Il viaggio assume significato di
emancipazione. Il futuro appare come drammatica sequenza di repliche del presente. L’auto-destrutturazione
portata dal viaggio precede la sensazione di libertà. Per l’esploratore il viaggio è una pausa, per il fuggiasco
un’inversione di rotta.
Per il ribelle, il tema del viaggio è un’esperienza pari ad altre, non accompagnata da ridefinizione dei vissuti
temporali. L’approdo alla communitas non è mediato da periodo liminare; l’accesso è immediato. Il ribelle, a
differenza del nomade, ha chiaro ciò da cui vuole fuggire e la sua meta. In base allo scopo del ribelle nella
communitas si distinguono due sottotipi. Il rivoluzionario approda alla communitas dopo un periodo di
militanza politica in movimenti di sinistra radicale, in cui esprime l’opposizione alla struttura gerarchica ed
oppressiva della comunità. Egli vive la politica in dimensione totalizzante e vuole gli ideali di libertà ed
uguaglianza nella sua vita e nei suoi rapporti. Cerca quindi nella communitas un’alternativa alla politica, o
via alternativa per la pratica dell’impegno politico.
Il comunardo approda alla communitas non attraverso la militanza politica, ma spinto da aspirazioni
pre-politiche di fratellanza e solidarietà. La comunità è una famiglia costruita, estesa, idealizzata.
La fecondità euristica del tipo ideale risiede nella sua rinuncia a rappresentare il reale. È concetto privo di
referenti empirici. I referenti empirici di un concetto idealtipico possono condividere solo in parte i suoi
tratti, con una sorta di appartenenza fuzzy. Pozzi (1985) paragona i tipi ideali alla nozione di genere letterario,
nella teoria della letteratura. I tipi ideali, che mettono ordine, possono essere pensati come i generi letterari
cui testi possono essere ricondotti senza coincidenza piena tra testo e genere.

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