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Capitolo 2

Metodi e tecniche di ricerca in psicologia del lavoro


La psicologia del lavoro e delle organizzazioni si basa sullo studio dei comportamenti delle persone nei contesti
lavorativi e nello svolgimento delle differenti attività professionali, tenendo conto delle condotte lavorative, delle
forme di interazione che si instaurano tra le persone e il loro ambiente lavorativo ecc. La psicologia del lavoro si
caratterizza come una disciplina centrata sul proprio oggetto di studio, ma utilizza spesso approcci metodologici,
modelli e teorie della psicologia e li applica all’ambiente di lavoro con la duplice finalità di: promuovere il benessere
dei lavoratori e di favorire il massimo vantaggio per l’organizzazione. Lo scopo dell’attività di ricerca è quello di
comprendere il comportamento umano in ambito organizzativo per impostare pratiche gestionali su basi sicure.
Il processo di ricerca empirica
Tutte le ricerche condividono l'obiettivo di far progredire la comprensione dei fenomeni organizzativi e per tanto
hanno in comune alcune fasi fondamentali. Il processo di ricerca si articola in cinque fasi principali:
 La formulazione della domanda di ricerca> le domande di ricerca si basano sulla conoscenza esistenze del
problema; Una teoria è un assunto che ha la funzione di spiegare le relazioni tra i fenomeni di interesse. Dopo
aver condotto diverse ricerche su un determinato argomento, i ricercatori possono formulare una teoria che
spieghi i motivi per cui si verificano specifici comportamenti. Il processo della raccolta dei dati e
dell’elaborazione della teoria prende il nome di metodo induttivo, opposto al metodo deduttivo, in base al
quale il ricercatore elabora una teoria e poi la mette alla prova raccogliendo e analizzando i dati. Esistono tre
tipi di ricerca: la ricerca pura (o di base) che comporta l’elaborazione e la verifica di teorie e ipotesi
intellettualmente stimolanti per il ricercatore e che potranno trovare applicazione in futuro. Non hanno
un'immediata utilità. La ricerca applicata, invece, nasce dall’esigenza di trovare una soluzione ad una
specifica problematica. La ricerca-intervento o la ricerca-azione, si propone di contribuire al cambiamento
del sistema organizzativo tramite il coinvolgimento degli attori che partecipano con il ricercatore allo studio.
È un processo di indagine in cui, produzione, raccolta, elaborazione di info e intervento avvengono
simultaneamente. Il principale obiettivo è quello di produrre cambiamenti all’interno del contesto lavorativo e
i lavoratori partecipano alla ricerca in maniera consapevole, così da acquisire maggiore consapevolezza delle
problematiche relative al proprio contesto organizzativo. Esistono anche gli studi esplicativi, ovvero studi che
sono disegnati per mettere alla prova specifiche ipotesi derivate da ricerche e teorie precedenti e riguardanti
gli esiti attesi degli studi in termini di relazioni causali fra le variabili, e gli studi descrittivi, nei quali il
ricercatore non ha un'ipotesi precisa e sono finalizzati a raccogliere osservazioni sul contesto studiato. Sia la
ricerca di base sia quella applicata necessitano di entrambi gli studi: gli studi descrittivi forniscono
informazioni soltanto su quello che è successo, mentre gli studi esplicativi spiegano come e perché è successo.
Infine, con il termine metodo, viene intesa la tecnica o lo strumento di ricerca utilizzato per raccogliere dati,
mentre con il termine metodologia, si intende la “filosofia” del processo di ricerca.
 Il disegno di ricerca> è un piano per condurre uno studio, un ricercatore può scegliere di utilizzare diverse
strategie, quest’ultima dipende dalla natura del problema studiato. Le strategie di ricerca possono essere
paragonate secondo diverse dimensioni, in particolare due: il livello di naturalità del setting di ricerca e il
grado di controllo sullo studio. Nessuna strategia può essere definita la migliore. Il livello di naturalità e il
grado di controllo influenzano sia la validità interna sia la validità esterna della ricerca. La validità interna si
riferisce al grado in cui i risultati ottenuti possono essere attribuiti alle variabili investigate piuttosto che ad
altri fattori. Mentre, la validità esterna si riferisce al grado in cui i risultati di una particolare ricerca condotta
su un certo gruppo di soggetti possono essere estesi e generalizzati ad altri contesti. Se uno studio presenta dei
limiti nella validità interna, anche i suoi risultati non potranno essere generalizzati.
 Dispegni sperimentali e quasi sperimentali> ciò che differisce gli esperimenti da altri tipi di disegno è che
i partecipanti alle differenti condizioni della variabile sono casuali. Gli esperimenti di laboratorio sono
condotti in ambienti predisposti o artificiali, il ricercatore ha un alto grado di controllo sulla conduzione
dello studio specialmente sulle condizioni associate all’osservazione del comportamento. Inoltre,
l’assegnazione casuale dei partecipanti alle varie condizioni di trattamento offre il vantaggio di accrescere
il controllo e di facilitare il compito di trarre inferenze causali. L’assegnazione dei soggetti alle diverse
condizioni sperimentali viene operata dal ricercatore mentre a volte può verificarsi spontaneamente.
 Un quasi esperimento è uno studio che si avvicina ad un esperimento, ma non ha la vera assegnazione
casuale dei partecipanti ai livelli della variabile indipendente. Questo è il tipico caso delle situazioni
lavorative in cui i soggetti non possono essere collocati nelle varie condizioni di trattamento per ragioni
pratiche e organizzative. Alcune tipologie di quasi esperimenti sono:
 Disegni con gruppo non equivalente> non c’è un processo di assegnazione casuale ma i partecipanti
si trovano in differenti condizioni di trattamento. In questa situazione è difficile trarre conclusioni
circa gli effetti della variabile indipendente sulla variabile dipendente, in quanto i gruppi possono
essere inizialmente differenti.
 Disegno di gruppo singolo pre test-post test> i partecipanti vengono valutati sia prima sia dopo il
manifestarsi di un certo evento. Tale tipo di disegno può essere un esperimento vero e proprio solo se
i soggetti sono assegnati casualmente alle condizioni. Questo test si rivela spesso debole perché lascia
aperte molte alternative possibili per spiegare i risultati; per risolvere il problema si può utilizzare il
disegno multigruppo perché prevede un gruppo di controllo sul quale si verificano le stesse condizioni
di partenza.
 Disegni non sperimentali> è quel disegno di ricerca in cui i dati sono raccolti in base a una o più variabili,
ma non esiste nessuna condizione di trattamento. Un esempio:
 Disegni osservazionali> sono disegni di ricerca che prevedono osservazioni di un qualche
campione di soggetti. Uno o più osservatori vengono addestrati per valutare alcune
caratteristiche delle persone o della loro situazione di lavoro, utilizzando griglie e schemi
valutativi. Si può utilizzare anche un approccio non intrusivo: gli osservatori guardano e
registrano senza che il soggetto ne sia consapevole. Un problema che il metodo solleva
riguarda la replicabilità delle osservazioni, ovvero il fatto che queste non siano pregiudicate
dalla soggettività dall’osservatore. Una procedura utile per controllare questo bias è quella di
servirsi di due o più persone impegnate a svolgere le stesse osservazioni indipendentemente
per poi confrontarne la congruenza.
 Inchieste> rappresentano una delle procedure più diffuse per condurre la ricerca sul campo
nell’ambito della psicologia del lavoro e prevedono diverse modalità di attuazione, inclusi i
questionari autosomministrati, i questionari somministrati in gruppo, le interviste telefoniche,
le interviste faccia a faccia ecc. Questi metodi implicano che i partecipanti rispondano a
domande riguardanti loro stessi e il proprio lavoro. I questionari sono quindi il metodo più
diffuso per condurre ricerche, poiché rappresentano un metodo efficiente per raccogliere dati.
Benché la maggior parte dei questionari raccolga informazioni autoriferite, può essere
utilizzato per avere informazioni riguardo terzi.
 Interviste> prevedono domande aperte alle quali rispondere liberamente. Possono essere
quantificate successivamente mediante l’analisi di contenuto, procedura nella quale le risposte
sono ricondotte a categorie sulla base della loro similarità. Il vantaggio principale è la
possibilità di raccogliere dati a un livello di profondità maggiore e informazioni più complete.
 Disegni a più fonti o ibridi> combinano i dati provenienti dal questionario con quelli
provenienti da altre fonti, aiutano a superare uno dei limiti maggiori del questionario: il bias
monometodo (o varianza del metodo), si è notato che a volte le variabili valutate all’interno
dello stesso questionario producono correlazioni “gonfiate”. Tuttavia, non è stato provato che
questa problematica si presenti in modo generalizzato.
I disegni non sperimentali possono implicare la valutazione di tutte le variabili per ogni soggetto nello stesso
tempo (trasversali) oppure in momenti differenti (longitudinali).
 Disegno trasversale> è il più diffuso poiché è più semplice da condurre a termine, perché i dati
sono raccolti in un’unica sessione. Il problema di questo disegno di ricerca è che non permette
conclusioni causali, cioè non permette di affermare che certe variabili ne causano altre.
 Disegni longitudinali> implicano misurazioni ripetute nel corso del tempo sugli stessi soggetti,
spesso sulle stesse variabili. E’ considerato uno degli strumenti più potenti disponibili per lo
studio di molti fenomeni organizzativi tra cui il cambiamento. Spesso non sono la prima scelta del
ricercatore perché sono soggetti a limitazioni pratiche: grande dispendio di tempo e di risorse
economiche, i partecipanti devono essere identificati e ciò limita gli argomenti indagabili, la
mortalità dei partecipanti.
 L’approccio qualitativo> è basato sull’impiego di metodi e tecniche di rilevazione di tipo non
standardizzato. Prende il nome, a volte, di etnografia organizzativa e si riferisce a forme di ricerca che
presentano queste caratteristiche principali:
 Forte enfasi sull’esplorazione della natura del fenomeno organizzativo;
 Tendenza a operare con dati non strutturati, non codificati;
 Investigazione di un esiguo numero di casi ma nel dettaglio;
 Analisi dei dati più interpretativa dei significati delle azioni delle persone, quindi descrizioni e
spiegazioni verbali, qualitativa e statistica.
I metodi qualitativi più frequentemente utilizzati sono:
 L’intervista in profondità> a differenza dell’intervista strutturata e semi-strutturata, l’intervista in
profondità, consente al ricercatore di effettuare liberamente con l’intervistato tutti gli approfondimenti
di interesse per gli obiettivi della ricerca. Questi possono a volte fornire elementi importanti per
confermare o meno le ipotesi del ricercatore.
 La storia di vita> può essere considerata come una variante dell’intervista di profondità, ma il filo
conduttore dell’interazione tra intervistatore e intervistato non è costituito da argomenti proposti
dall’intervistatore, bensì dal racconto destrutturato da parte dell’intervistato. Ciò è utile per ricostruire
la storia di un’organizzazione attraverso la narrazione di fatti vissuti in prima persona.
 L’osservazione partecipante> consiste nell’osservazione, da parte del ricercatore, dell’ambiente
organizzativo, del comportamento e delle interazioni sociali dei soggetti nel corso di una normale
attività lavorativa, è diretta a rilevare gli aspetti concreti della cultura organizzativa, cioè dei valori
che vengono esplicitati attraverso gli antefatti dell’organizzazione.
 Il focus group> rappresenta un metodo per la raccolta dei dati collettivi prodotti durante una
discussione di gruppo focalizzata intorno ad alcuni temi predeterminati dal ricercatore, sui quali egli
vuole verificare delle ipotesi relativamente alle motivazioni, alle credenze e alle percezioni che
orientano i comportamenti delle persone nei confronti degli stessi temi.
L’approccio qualitativo e quello quantitativo costituiscono metodi di ricerca complementari. Produrre
formulazioni quantitative e precise dei risultati non significa necessariamente che esse siano sempre più
affidabili. Dopo aver effettuato la scelta del problema da studiare, occorre stabilire quale prospettiva
metodologica possa ritenersi più utile per una determinata finalità di ricerca.
 La misurazione delle variabili> prima di effettuare l’analisi dei dati, il ricercatore deve rilevare e misurare le
variabili di interesse. Una variabile può essere definita come un attributo di un fenomeno oggetto di studio la
cui misurazione può assumere due o più valori. Le variabili quantitative (età, livello retributivo) sono
numeriche; le variabili qualitative (genere, professione) non sono numeriche ma possono essere codificate con
numeri (1 = maschio). Il termine variabile è, inoltre, associato ad altre sue proprietà: indipendente, dipendente,
predittore, criterio. Le variabili indipendenti sono quelle manipolate o comunque controllate da ricercatore,
che le fa variare per misurarne gli effetti. Le variabili dipendenti rappresentano alcuni aspetti del
comportamento (rendimento, motivazione) che si intendono indagare. Le variabili predittore e criterio sono
utilizzate nell'ambito della psicologia del lavoro: quando i punteggi della prima vengono utilizzati per predire
i punteggi della seconda le variabili vengono definite rispettivamente predittore e criterio.
L'operazionalizzazione delle variabili consiste nel quantificare ciascuna variabile di uno studio, il che può
implicare la creazione dei livelli di una variabile come negli esperimenti.
 L’analisi dei dati> una volta che le informazioni sono state rilevate, il ricercatore deve estrapolarne il
significato. La psicologia del lavoro si avvale frequentemente di metodi statistici per l'analisi dei dati raccolti.
Il modo più elementare per condurre le analisi è quello descrittivo, attraverso cui si studia la forma della
distribuzione dei dati e si ottengono misure della tendenza centrale e della variabilità. Spesso però, il
ricercatore è interessato a conoscere le relazioni tra più variabili oggetto di interesse e a trarre inferenze
causali circa il tipo di relazione presente. Alcuni metodi per lo studio delle relazioni tra variabili sono:
correlazione, regressione multipla, analisi della varianza e analisi fattoriale.
 Correlazione multipla> è una procedura usata per verificare se è possibile attribuire la
relazione di due variabili ad altre variabili;
 Regressione multipla> mette alla prova gli effetti congiunti, cioè più o meno stabilmente a
contatto, di due o più predittori;
 La regressione logistica> tratta i valori della variabile criterio come due categorie e poi stima
le probabilità che i casi ricadano all’interno delle due categorie;
 Analisi della varianza> più brevemente anova, è una procedura che valuta le differenze fra le
medie dei punteggi ottenuti assegnati alle diverse condizioni, permettendo di inferire se
queste differenze nei punteggi osservati nella v. dipendente possano essere attribuite ai diversi
valori della v. indipendente.
 Analisi fattoriale> si pone l’obiettivo di ridurre un gran numero di variabili in un minor
numero di dimensioni più facilmente interpretabili. Può essere fatto in modo esplorativo, per
indagare la struttura di alcune variabili, o in modo confermativo, per vedere se le variabili si
conformano ad una struttura ipotizzata.
 I modelli di equazioni strutturali> detti anche SEM, sono una tecnica statistica di analisi
multivariata particolarmente potente che permette la specificazione a priori di un insieme di
relazioni fra le variabili che sarebbe atteso se un certo flusso causale fosse vero. I dati raccolti
consentono di determinare quanto il modello ipotizzato si adatti alla realtà osservata.
 Modello lineare gerarchico> quando si raccolgono dati sul campo, spesso si trovano oggetti
già inseriti in una gerarchia di categorie o gruppi. Ogni livello gerarchico può avere effetti
sulle variabili. Il modello lineare gerarchico permette di effettuare l’analisi simultanea di
livelli multipli, scomponendo gli effetti statistici nei livelli individuali contrapposti a quelli
più alti. (bias di aggregazione – nome dei risultati errati quando si combinano più livelli).
Per quanto riguarda l’elaborazione dei dati qualitativi abbiamo due tipologie di analisi:
 Analisi del contenuto> è una tecnica di ricerca per la descrizione oggettiva, sistematica e quantitativa
del contenuto manifesto della comunicazione. Lo scopo fondamentale è quello di considerare un
documento verbale (quindi non quantitativo) e trasformarlo in dati quantitativi.
 Analisi delle corrispondenze> lo scopo è studiare i legami tra le modalità di due o più caratteri di
classificazione (qualitativi), rilevanti per evidenziare le possibili associazioni tra le caratteristiche
analizzate.
 Conclusioni della ricerca> Una delle più importanti questioni nella conduzione della ricerca riguarda il
livello di generalizzazione delle conclusioni tratte, ovvero la misura in cui tali conclusioni possono essere
estese alla popolazione oggetto di studio. La scelta del metodo incide sulla validità esterna della ricerca: le
ricerche di laboratorio sono considerate, a volte, più scientifiche e rigorose, mentre le ricerche sul campo sono
maggiormente rappresentative delle reali condizioni di lavoro. Pertanto, la ricerca non consiste in un processo
isolato: ogni studio si innesta sulle conclusioni tratte da una ricerca precedente, e può quindi indirizzare le
ricerche future.
Problemi legati all’interpretazione dei risultati
Una delle principali caratteristiche della ricerca in psicologia del lavoro è il fatto che le sue conclusioni sono fondate
sui dati. Il processo di selezione delle variabili da studiare, la scelta della loro operazionalizzazione rappresentano un
compito complesso. Alcune delle difficoltà che si possono incontrare nell’interpretazione dei risultati riconducibili
all’impostazione del processo di ricerca:
 Casualità> Sebbene sia possibile studiare la relazione tra variabili, rimane spesso difficoltoso pronunciarsi
sulla causalità delle relazioni. La definizione di “causalità” include concetti di asimmetria e legame diretto. La
relazione è asimmetrica in quando una variazione di X produce una variazione di Y ma non viceversa, questo
concetto implica che la causa precede l’effetto nel tempo. Il concetto di legame diretto si riferisce invece al
fatto che il variare di X è dovuto al variare dell'altra variabile (Y). La difficoltà nello stabilire la causalità può
essere dovuta a diversi motivi, il più importante dei quali riguarda il fatto che esistono un gran numero di
cause possibili che non possono essere controllate.
Molto spesso, capita che una terza variabile (Z) influenzi la relazione fra due variabili (X e Y).
 Variabile interveniente: La relazione tra X e Y è
“mediata” dalla variabile Z (relazione indiretta).
Questa influenza “interveniente” può essere
identificata calcolando la correlazione parziale tra X
e Y tenendo Z costante;
 Elemento di una catena causale: la terza variabile Z
è inserita in un processo di “causazione reciproca”;
 Variabile antecedente: questo modello è fonte di possibili errori, in quanto in questo caso la covariazione
osservata tra X e Y è solo apparante, essendo provocata da Z che agisce causalmente su entrambe. Z è
legata causalmente a X e Y, mentre quest’ultime covariano a causa della loro relazione con Z. Se Z viene
mantenuta costante, sparisce anche la covariazione fra X e Y;
 Variabile moderatrice: la relazione tra X e Y cambia a seconda del valore assunto da Z.
 Tipi di errori> È possibile commettere errori nella spiegazione dei risultati ottenuti e nelle conclusioni a cui
una ricerca può condurre, i principali errori sono riconducibili a quattro categorie fondamentali:
 Errori dovuti a una scorretta operazionalizzazione dei concetti> cioè le misure non sono
sufficientemente oggettive e affidabili, oppure i concetti esaminati non sono adeguatamente misurati
dagli strumenti scelti. Si tratta di un problema di validità di costrutto, cioè gli strumenti non co-
variano con il fenomeno che si vuole misurare).
 Errori nell’analisi statistica dei dati> possono essere classificati in due tipologie: 1. Errori del primo
tipo (ipotesi nulla rifiutata erroneamente, cioè l’esistenza del fenomeno è erroneamente provata,
dovuto a una grande quantità di variabili). 2. Errori del secondo tipo (si conclude che il fenomeno non
esiste quando è reale, dovuto all'utilizzo di campioni troppo ristretti).
 Errori dovuti a insufficiente validità interna> Quando i risultati non possono essere realmente
attribuiti ai fattori ritenuti responsabili. Effetti che incidono sulla validità interna sono: effetto storia (e
risultati sono dovuti a qualche altra variabile che interviene durante la ricerca), maturazione (i risultati
sono la conseguenza del normale processo di adattamento e crescita) selezione (il gruppo che prende
parte allo studio non è rappresentativo), mortalità (una parte del gruppo lo abbandona precocemente).
 Errori dovuti all’inappropriata generalizzazione dei risultati> cioè problemi legati alla validità
esterna (ibidem), si generalizza erroneamente il risultato ottenuto nella situazione di ricerca a una
popolazione più ampia.
Ricerca e problemi etici
Da tempo sono stati istituiti alcuni vincoli importanti riferiti agli aspetti etici e di privacy. Un primo principio da
osservare è la salvaguardia del benessere delle persone che partecipano allo studio. Bisogna prevedere gli effetti
dannosi (psicologici e fisici) che potrebbe provocare la ricerca, nessuno può essere costretto a parteciparvi. I codici
etici sono creati per tutelare i diritti dei soggetti. I ricercatori dovrebbero occuparsi degli aspetti sociali ed etici non
solo durante la ricerca ma anche una volta che essa sia conclusa, dovrebbero proteggere l'identità dei partecipanti In
modo che non ci siano ritorsioni nei confronti delle persone che affermano qualcosa di non gradito ai loro superiori.
Lo psicologo, lavorando all’interno o per una data organizzazione, ha quindi il dovere di prendere in considerazione
sia il benessere dell’individuo sia le necessità organizzative. Questa responsabilità può creare un dilemma etico, in
quanto pone domande e richieste in conflitto fra loro. Un ulteriore principio etico riguarda il “consenso informato”,
ovvero il fatto che i soggetti devono essere informati sulla natura e sugli scopi dello studio prima di parteciparvi.
Infine, è opportuno che ai partecipanti venga fornito un feedback sui risultati ottenuti e sulle iniziative aziendali che da
essi possono scaturire.
Capitolo 3
Ambiente e sicurezza sul lavoro
Il lavoro è parte integrante della vita di ciascun individuo. L’innovazione tecnologica ha migliorato le condizioni di
lavoro e favorito il cambiamento, ma ha anche influito sul contenuto delle mansioni e sui rapporti sociali nell’ambito
lavorativo, che sono fattori cruciali per la salute fisica e mentale dei lavoratori. Il fattore umano rimane ancora
l’elemento fondamentale di ciascuna attività lavorativa e spesso l’elemento chiave per la determinazione del successo
di un’organizzazione. Ancora però sono poche e insufficienti le azioni messe in atto per garantire la sicurezza dei
lavoratori. Sempre più spesso si legge dell’ambiente di lavoro come di un luogo che può essere dannoso per la salute
delle persone se non addirittura teatro di incidenti mortali. L’edilizia risulta essere il settore a maggiore rischio visto
che quasi il 70% dei lavoratori perde la vita per cadute dalle impalcature.
La normativa italiana in materia di sicurezza
La tematica della salute e della sicurezza sul lavoro assume un’importanza rilevante e la tutela dei diritti del lavoratore
deve diventare una delle priorità di governi e aziende. L’attuazione di diverse leggi a livello comunitario ha
contribuito a migliorare le condizioni di lavoro e a ridurre gli infortuni e le malattie professionali.
In Italia una forte spinta a livello legislativo per migliorare la sicurezza sul lavoro è stata prodotta nel 1994
dall’introduzione della Legge 626. Questa legge definisce un sistema preventivo d’impresa centrato su nuove figure
professionali di prevenzione, nuove responsabilità e una specifica valutazione dei rischi. I principali aspetti introdotti
da questa legge riguardano:
 La valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro;
 L’obbligo per l’azienda di avere un Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) eletto dai lavoratori
e che deve essere coinvolto in tutti i processi di valutazione dei rischi;
 L’obbligo per l’azienda di avere un Servizio di Prevenzione e Protezione che deve occuparsi della valutazione
dei rischi, dell’individuazione dei pericoli e dell’attuazione di tutte le misure di prevenzione e protezione volte
a ridurre al minimo le probabilità e i danni conseguenti a potenziali infortuni;
 L’obbligo per l’azienda di avere un Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) che può
essere il datore di lavoro stesso, dopo aver frequentato un corso di formazione specifico.
Con questa legge il datore di lavoro diventa partecipe attivamente del processo di miglioramento delle condizioni di
sicurezza nei luoghi di lavoro.
Con l’emanazione di alcuni decreti relativi alla salute da proteggere sul lavoro, i rischi di natura psicosociale hanno
avuto pieno riconoscimento e puntale identificazione. In particolare, in essi viene reso esplicito l’obbligo di valutare il
rischio “stress da lavoro” (Art. 28 comma 1 del Decreto 81/2008). Lo stress viene definito come una condizione,
accompagnata da malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali, che consegue a un’esposizione prolungata a
forti pressioni che riducono l’efficacia sul lavoro e arrivano a causare problemi di salute. Tuttavia, la gravità e la
diffusione dello stress correlato al lavoro sono ancora sottovalutate e risultano essere un problema sanitario legato
all’attività lavorativa segnalato con elevatissima frequenza in Europa.
L’ergonomia e la sicurezza sul lavoro
Un contributo importante in tema di lavoro e sicurezza è offerto dall’ergonomia, sia per quanto riguarda gli aspetti
meramente antropometrici (legati all’adattamento fisico della postazione di lavoro) sia per quanto riguarda gli aspetti
di natura psicologica (come stress e fatica mentale).
L’ergonomia si basa sull’esperienza e la conoscenza attraverso la ricerca scientifica condotta in laboratorio, sul campo
e attraverso il lavoro pratico svolto in organizzazioni in collaborazione con dirigenti, esperti e addetti. Questo lavoro è
la chiave per aumentare la sicurezza, la salute e il benessere degli addetti, così come l’efficienza, la produttività e la
competitività delle organizzazioni.
All’ergonomia si attribuiscono sia scopi sociali (salute, benessere, sicurezza) sia economici (prestazioni del sistema,
produttività). Ciò che differenzia l’ergonomia è che gli ergonomi contribuiscono alla progettazione e alla valutazione
di mansioni, attività, prodotti, ambienti e sistemi al fine di renderli compatibili con bisogni, abilità e limitazioni
dell’essere umano. È un approccio definito da tre principi fondamentali che caratterizzano gli interventi: globalità
degli intenti, interdisciplinarità degli interventi e partecipazione dei lavoratori/addetti.
Infortuni sul lavoro e malattie professionali
Da molto tempo è stato affrontato il tema dell’infortunio e delle malattie professionali. Anche in Italia numerosi sono i
contributi dedicati a questo problema. I fattori nocivi dell’ambiente di lavoro sono:
 Quelli generici come luce, rumore, temperatura, ventilazione, umidità;
 Quelli tipici della produzione come polveri, gas, vapori, fumi, radiazioni;
 Quelli relativi alla fatica fisica e psicofisica come ritmi eccessivi, monotonia, ripetitività, posizioni disagevoli,
saturazione dei tempi, orario di lavoro giornaliero, a turni, estraneità e non valorizzazione del patrimonio
intellettuale e professionale, ansia, responsabilità, frustrazioni, stress.
Attualmente la legge italiana definisce infortunio: “l’evento avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro, da cui
sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea
assoluta che comporti astensione dal lavoro per più di tre giorni”.
Non vengono considerati infortuni quelli che provocano un’assenza dal lavoro inferiore a tre giorni. Vengono definiti
incidenti sul lavoro anche quelli che, pur non provocando lesioni alle persone, causano danni materiali. Nella
letteratura specialistica internazionale si distingue tra il termine injury, cioè l’incidente che provoca lesione, il nostro
infortunio; e accident, cioè l’incidente senza lesioni.
La malattia professionale viene definita come evento dannoso che incide sulla capacità lavorativa della persona e trae
origine da cause connesse allo svolgimento della prestazione lavorativa.
I datori di lavoro devono assicurare contro gli infortuni sul lavoro tutti i lavoratori dipendenti. Tale assicurazione è
gestita dall’INAL (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) e ha l’obiettivo di garantire prestazioni
sanitarie relative alle prime cure, prestazioni economiche e forniture di apparecchi di protesi.
L’errore umano come causa di incidenti sul lavoro
Le circostanze in cui accadono gli incidenti presentano alcuni elementi comuni, spesso in combinazione tra loro. Da
una parte si riscontrano condizioni lavorative di completa illegalità, con impiego di manodopera al di fuori di regole
condivise e situazioni in cui le misure tecniche preventive di sicurezza, relative alle attrezzature, ai dispositivi di
protezione individuali e alle procedure di prevenzione nello svolgimento delle operazioni, non vengono quasi mai
rispettate. Dall’altra parte si ritrova frequentemente un’organizzazione del lavoro distante da una visione di sicurezza
come fattore intrinseco al lavoro stesso.
L’analisi di grandi incidenti tecnologici ha permesso di individuare, nel corso degli anni, alcune ipotesi sulle loro
cause e di suggerire prospettive di ricerca. Ogni incidente possiede una sua logicità e non può essere paragonato ad
altri se non per pochi elementi, ma è comunque possibile rilevare alcune caratteristiche comuni a livello di fattori
causali.
Ad esempio, nelle cause dell’incidente nucleare di Three Mile Island in Pennsylvania nel 1979 i principali fattori
ritenuti causali furono riassunti in quattro categorie:
 Errori umani di supervisione e manutenzione del processo;
 Errori di progettazione delle interfacce uomo-macchina nella sala di controllo;
 Complessità e ridondanza dei regolamenti della Nuclear Regulatory Commission (l’ente che controlla
l’attività delle centrali nucleari negli Stati Uniti);
 Insufficienza dell’addestramento degli operatori;
 Inefficienza e distorsioni delle comunicazioni organizzative a tutti i livelli.
Gravi carenze nell’addestramento degli operatori, insufficiente gestione e manutenzione degli impianti e generale
inosservanza delle norme di sicurezza sono stati segnalati come causa anche per gli incidenti di Bhopal e Černobyl’.
Le prime teorie sull’analisi degli incidenti sono state avanzate negli anni Sessanta e facevano riferimento a un modello
“tecnico-ingegneristico-normativo”, secondo cui gli incidenti sono il risultato di un fallimento della tecnologia e della
devianza da quanto prescritto dalle norme. Successivamente, negli anni Settanta, si è passato a un modello di analisi
centrato “sulla persona”. La componente umana diventa quindi uno degli elementi rilevanti come causa nel
determinare l’incidente (stress, abbassamento dell’attenzione ecc). Un terzo modello, quello “organizzativo-
sociotecnico” invece, considera gli incidenti non più come un fallimento esclusivamente tecnico o umano, ma come
causati dall’insieme di più componenti: tecnologica, umana, organizzativa riferendosi al contesto.
Tipologie di errore
Nell’ambito delle teorie sviluppate per lo studio dell’errore è stata proposta da Rasmussen una classificazione del
comportamento dell’uomo suddivisa in tre diverse tipologie:
1. Skill-based behaviour (comportamento basato sulle abilità): rappresenta i comportamenti automatici messi in
atto in una determinata situazione. Reazione automatica. Tale abilità si rafforza dopo che lo stimolo è ripetuto
sempre nello stesso modo.
2. Ruled-based behaviour (comportamento basato sulle regole): vengono messi in atto comportamenti che sono
definiti da regole precise ritenute le più adatte in determinate circostanze.
3. Knowledge-based behaviour (comportamento basato sulla conoscenza): si tratta di comportamenti messi in
atto quando ci si trova di fronte a una situazione sconosciuta e si deve attuare un piano per farvi fronte.
Richiede l’attivazione di processi mentali che dai segnali recepiti porteranno all’elaborazione di un piano per
raggiungere gli obiettivi.
Reason sulla base del modello proposto da Rasmussen differenzia tra errori di esecuzione e azioni compiute
intenzionalmente e definisce tre tipologie diverse di errore:
 Errori di esecuzione che si riscontrano a livello di abilità (slips): cioè le azioni svolte in modo diverso da come
pianificato;
 Errori di esecuzione causati da un venir meno della memoria (lapses): l’azione ha un risultato diverso da
quello previsto, a causa di un venir meno della memoria. Non sono direttamente osservabili.
 Errori che non vengono commessi durante la realizzazione pratica dell’azione (mistakes): cioè errori che
nascono durante la pianificazione di strategie. Queste tipologie di errore sono definite:
o Ruled-based: quando si utilizza una procedura che non permette il conseguimento di quello specifico
obiettivo;
o Knowlegde-based: cioè quelli errori commessi in riferimento alla conoscenza posseduta, insufficiente
o carente che porta a intraprendere piani di azioni che non permettono di raggiungere l’obiettivo
perché, appunto, sbagliate.
Un caso a parte è quello delle violazioni, per violazioni si intendono le azioni che vengono eseguite, anche se
espressamente vietate da norme.
Percezione del rischio
Non è possibile tralasciare una parte del comportamento che tiene conto degli atteggiamenti e della personalità del
lavoratore di fronte al rischio o al pericolo per la sua salute nel contesto lavorativo. Anche la percezione del rischio
può assumere un peso rilevante perché determina il grado di consapevolezza per cui un lavoratore avverte che
svolgere la propria attività o utilizzare un dato strumento mette la sua sicurezza in pericolo. Rundmo ha definito la
percezione del rischio come la stima di un pericolo, derivante dalla valutazione della possibilità che possa verificarsi
un particolare tipo di incidente e da quanto siano giudicati rilevanti gli esiti di tale evento. Si comprende quindi che
alcuni fattori nella percezione del rischio riguardano la valutazione della probabilità e delle conseguenze di un
pericolo, così come aspetti situazionali come l’esposizione volontaria o involontaria a una situazione rischiosa.
Una possibile spiegazione del perché i lavoratori non si attengano alle procedure di sicurezza può essere dovuta al
fatto che essi non percepiscono alcun rischio associato alla situazione di lavoro in cui sono impegnati. Il
comportamento autoprotettivo dipende in parte dalla stima del rischio soggettivo di una persona, ma risulta difficile
separare rischio soggettivo e rischio oggettivo.
La percezione del rischio coinvolge l’attenzione e l’elaborazione di una vasta gamma di informazioni relative ai
pericoli. Le informazioni possono essere raccolte da esperienze dirette di situazioni pericolose o attraverso fonti
esterne.
I fattori chiave in relazioni con la percezione del pericolo sono la formazione e l’esperienza specifica nella mansione
svolta. In ogni caso il ragionamento umano rispetto a eventi incerti, come il rischio che si verifiche un evento avverso,
non segue una logica razionale ma piuttosto utilizza euristiche o regole più o meno generiche per decidere se qualcosa
è possibile che accada o meno. Anche lavoratori esperti agiscono sotto l’influenza di euristiche.
Agans e Shaffer hanno notato che c’è una tendenza delle persone a sovrastimare “col senno di poi” le possibilità con
cui avrebbero potuto predire l’incidente accaduto. Un aspetto della personalità che è stato studiato in relazione alla
sicurezza è quello del locus of control, si è notato che c’è una tendenza generale delle persone ad attribuire il proprio
comportamento a cause esterne ma a vedere il comportamento degli altri come causato internamente. Jones e Wuebker
hanno mostrato che lavoratori appartenenti a gruppi a “basso rischio” erano più orientati internamente, studi successivi
hanno riportato che i lavoratori orientati esternamente erano soggetti a più incidenti.
Le condizioni di lavoro
Ambiente di lavoro
L’ambiente ha un effetto importante sulle condizioni di vita e di lavoro, e rappresenta un elemento primario per il
benessere, la salute e la sicurezza delle persone. Progettare un ambiente di lavoro ergonomico significa, in primo
luogo, conoscere il contesto nel quale si svolge l’attività lavorativa e quindi gli aspetti fisico-dimensionali, ambientali
e organizzativi. Creare un posto di lavoro centrato sulle esigenze dell’uomo significa tenere conto degli aspetti
personali inerenti allo svolgimento di qualsiasi funzione. Risulta fondamentale prendere in considerazione le
caratteristiche biomeccaniche, fisiologiche, antropometriche e psicologiche dell’uomo.
 Per quanto riguarda le caratteristiche antropometriche> il posto di lavoro deve essere ben dimensionato e
allestito in modo che vi sia spazio sufficiente per permettere cambiamenti di posizione e movimenti operativi.
 Per quanto riguarda le caratteristiche fisiologiche e biomeccaniche> si tiene conto dei costi energetici del
lavoro, misurati attraverso parametri precisi quali il consumo di ossigeno o la frequenza cardiaca. Inoltre, la
valutazione dello sforzo muscolare e della fatica associati a carichi/posture statiche e dinamiche assumono
particolare rilevanza, poiché rappresentano uno dei maggiori problemi legati alle patologie
muscoloscheletriche.
 Per quanto riguarda gli aspetti psicologici> si differenziano in cognitivi, rilevanti nella progettazione di posti
di controllo e comando, in motivazionali, relazionali, di dinamiche di gruppo o di atteggiamenti.
La qualità del lavoro dipende proprio dall’interazione e dal livello di integrazione di tutti questi elementi. Per
progettare un posto di lavoro modellato in base alle reali esigenze dell’uomo è necessario tenere in considerazione
alcuni elementi:
 L’attività da svolgere;
 L’ambiente fisico;
 La posizione dell’operatore;
 La postura;
 Gli spazi liberi;
 Il controllo sulla macchina;
 L’applicazione della forza;
 Il layout della postazione di lavoro (display e posizioni di controllo ecc.).
Sono inoltre fondamentali i fattori “esterni” che condizionano un tipico ambiente di lavoro, principalmente quelli di
microclima, illuminazione e rumore.
Il microclima
Per microclima si intende l’insieme di parametri ambientali che regolano le condizioni climatiche di un luogo di vita o
di lavoro determinanti per il benessere termico di un individuo. Ha un’importanza rilevante soprattutto per coloro che
trascorrono la maggior parte del tempo in ambienti chiusi. I principali fattori che determinano il benessere termico
sono: la temperatura dell’aria, l’umidità relativa, la ventilazione, il calore radiante, il dispendio energetico, la
resistenza termica del vestiario.
Valutare questi parametri non è però sempre agevole e immediato, in quanto devono essere considerati e misurati in
relazione alla tipologia di lavoro svolto e ai fattori soggettivi strettamente legati all’individuo.
L’illuminazione
Le problematiche inerenti all’illuminazione rappresentano uno degli aspetti più difficili da considerare nella fase
progettuale per la molteplicità di fattori che interagiscono. Il comfort visivo è caratterizzato dalle seguenti condizioni:
 Illuminazione adeguata;
 Disposizione bilanciata dalle luci;
 Intensità della luce uniforme nel tempo;
 Assenza di abbagliamento;
 Uso dei colori e degli accostamenti cromatici.
La percezione di comfort è determinata dalle caratteristiche fisiche della persona e anche da fattori socioculturali e di
abitudine.
Il rumore
Il rumore negli ambienti di lavoro è sicuramente uno dei problemi maggiori, soprattutto in determinati settori e può
essere definito come qualsiasi suono che arrechi disturbo. Non è tuttavia facile definire se una vibrazione venga
percepita come suono o come rumore, in quanto il giudizio è soggettivo. Tuttavia, esistono numerose norme di legge e
misure che forniscono delle linee guida relative al problema acustico e al rumore negli ambienti di lavoro. Il rumore
può causare danni rilevanti all’apparato uditivo e secondo l’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza sul
Lavoro (ISPESL) rappresenta una delle principali cause di patologie professionali.
Il carico di lavoro fisico
Un aspetto fondamentale per la sicurezza è il carico di lavoro imposto alle persone rispetto ai compiti richiesti.
Quando l’attività svolta è principalmente fisica, è necessario valutare che ciò che viene richiesto non sia superiore alle
capacità del lavoratore in uno specifico contesto.
Ci si è focalizzati su un gruppo di fattori di rischio che possono portare a microtraumi ripetuti dell’arto superiore o a
livello della schiena, dai quali possono originare disturbi e malattie. Quattro fattori di rischio:
1. La forza richiesta per eseguire il compito;
2. La postura tenuta nell’esecuzione del compito;
3. La ripetitività dei gesti lavorativi;
4. L’inadeguato rilassamento dei segmenti muscoloscheletrici coinvolti nell’esecuzione del compito.
Il sollevamento manuale dei carichi
Sono ancora molte le attività lavorative in cui si fa uso della forza manuale per spostare materiali. La legge 626/94
definisce la movimentazione manuale dei carichi e non determina un limite del peso sollevabile dal lavoratore, ma
indica unicamente in 30 chili per gli uomini e 20 per le donne le soglie che, se superate, creano i presupposti per un
potenziale rischio fisico. Il rischio deve essere comunque valutato anche in riferimento ad altri elementi:
 Le caratteristiche del carico;
 Le posizioni di sollevamento;
 Lo sforzo eccessivo;
 Le caratteristiche dell’ambiente (presenza di scale, pavimenti scivolosi ecc).
Le posture fisse prolungate
Una postura mantenuta costante nel tempo viene definita fissa, mentre se è frequentemente modificata viene chiamata
dinamica.
I lavori statici (che richiedono il mantenimento prolungato dell’attività muscolare) sono più logoranti rispetto a quelli
dinamici (che comportano l’alternanza di contrazione e rilassamento del muscolo) in quanto determinano una
condizione di insufficiente circolazione endomuscolare.
Le attività di lavoro che implicano condizioni di fissità posturale sono quelle che maggiormente determinano
l’insorgere dei disturbi muscoloscheletrici.
La ripetitività
Un altro fattore di rischio è la ripetitività dei gesti necessari all’espletamento della mansione, che può comportare
patologie definite come Repetitive Motion Disorders o Repetitive Strain Injuries. La ripetitività è strettamente legata
alla necessità di disporre di adeguati tempi di recupero. Tanto maggiore è la forza impiegata in un gesto lavorativo,
tanto più lungo dovrà essere il tempo di recupero conseguente. I metodi per valutare i rischi relativi alle operazioni
ripetitive e alla movimentazione dei carichi si rifanno alle conoscenze biomeccaniche e portano da una parte alla
formulazione di diagnosi, per verificare la sostenibilità del rischio, e dall’altra alla definizione di valori limite.
I metodi utilizzati maggiormente in questo settore sono: il metodo RULA (Rapid Upper Limb Assessment), il metodo
NIOSH, l’OWAS (Working Postures Analysing System), l’indice e la check-list OCRA, l’indice MAPO
(Movimentazione e Assistenza dei Pazienti Ospedalizzati).
La fatica mentale
È possibile, in linea generale, definire la fatica mentale una diminuzione reversibile delle prestazioni e delle funzioni
dell’organismo legata a una diminuzione della soddisfazione per il lavoro e a un aumento dello sforzo effettuato per
compiere il lavoro stesso.
La fatica mentale è stata associata anche a un problema relativo all’attenzione rispetto agli obiettivi del compito, o a
un deficit nei meccanismi di controllo cognitivi nel gestire le richieste mentali di un compito lavorativo. Questo
concetto non ha avuto finora una chiara definizione. Ancora oggi non esistono infatti prove sperimentali che indichino
come il lavoro cognitivo provochi uno stato di fatica. Si è constatato una diminuzione delle prestazioni mentali a
seguito di uno sforzo intenso.
A questo punto è necessario possedere un lessico comune in tale ambito. Va distinta la fatica mentale (indicatore di
effetto) da carico mentale (indicatore di esposizione) con il quale si intende la quantità di lavoro con impegno mentale
che il lavoratore deve svolgere. Entrambe queste condizioni possono determinare uno stato di fatica mentale.
Definizioni:
 Stressor: agente che causa lo stress;
 Stress: somma di tutte le influenze che provengono da fonti esterne e interferiscono con la persona sino a
condizionarla mentalmente e/o fisicamente;
 Distress: fallimento adattivo della risposta;
 Eustress: energia ben utilizzata;
 Strain: sforzo psicologico o psicofisiologico di un individuo a fronte di un’alta domanda ambientale; effetto
immediato dello stress mentale vissuto dall’individuo.
Nello Stimulus-Organism-Reaction Model della norma ISO 10075-1 la fatica mentale è definita come: un’alterazione
temporanea dell’efficienza funzionale mentale e fisica che dipende dall’intensità, durata e andamento temporale dello
strain mentale precedente. Il recupero della fatica mentale si ottiene attraverso il recupero della normalità piuttosto
che attraverso cambiamenti dell’attività.
Sempre in ambito normativo UNI EN ISO 10075-2 fornisce una guida per la progettazione di sistemi di lavoro
focalizzandosi sul carico di lavoro mentale e sui suoi effetti, identificando 29 caratteristiche che influenzano l’intensità
del carico di lavoro mentale e identificando 6 fattori che determinano la fatica mentale. Mentre l’ISO/DIS 10075-3
stabilisce principi e requisiti per la misura e la valutazione della fatica mentale.
Misurazione della fatica mentale
Una delle prime proposte volte a misurare la fatica mentale considera quattro criteri di valutazione:
 Soggettivi, fanno riferimento all’uso di questionari di autovalutazione dei sintomi della fatica;
 Comportamentali, si basano su test di memoria, sul metodo del doppio compito, su test di reattività e di
capacità di mantenere la concentrazione, sulla frequenza dei cambiamenti posturali, sui segnali di noia, sulla
percentuale di errori commessi e sul livello di performance;
 Fisiologici, attraverso questi criteri possono essere valutati altri indicatori di fatica come: ritmi cerebrali,
frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, pressione arteriosa;
 Biochimici, attraverso cambiamenti del livello di uropepsina nelle urine e di catecolamine nel sangue.
Una volta indicate le caratteristiche del sistema da indagare e analizzati i bisogni dei lavoratori, è possibile adottare le
modalità valutative più opportune.
La valutazione dello stress
Viene sottolineato che lo stress nei luoghi di lavoro è riconducibile alle nuove forme precarie del contratto di lavoro,
all’irregolarità e flessibilità degli orari di lavoro, all’insicurezza del posto di lavoro e all’intensificazione dell'impiego
della forza lavoro. I principali fattori attraverso i quali è possibile l’individuazione di un problema di stress correlato al
lavoro:
 Le caratteristiche dell’organizzazione e dei processi di lavoro;
 Le condizioni e l’ambiente di lavoro;
 La comunicazione;
 I fattori soggettivi (pressioni emotive e sociali, percezione di una mancanza di aiuto);
Di conseguenza le misure per la riduzione del rischio comprendono vari interventi possibili, tra i quali vanno ricordati:
 Migliorare la gestione e la comunicazione, al fine di chiarire gli obiettivi aziendali e il ruolo di ciascun
lavoratore;
 Migliorare l’organizzazione, i processi, le condizioni e l’ambiente di lavoro;
 Potenziare la formazione dei dirigenti e dei lavoratori per migliorare la loro consapevolezza e la loro
comprensione nei confronti dello stress, delle sue possibili cause e del modo in cui affrontarlo;
 Migliorare l’informazione e la consultazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti, in conformità ai
contratti di lavoro.
Gli effetti legati a una sovraesposizione a stress possono potenzialmente colpire qualsiasi ambito occupazionale e tipo
di azienda. Tutte le manifestazioni di stress sul lavoro non vanno però sempre considerate come causate dal lavoro
stesso. Anche lo stress indotto da fattori esterni all’ambiente di lavoro può condurre a cambiamenti nel
comportamento e ridurre l’efficienza sul lavoro.
Un ambiente di lavoro considerato “sano” è quello in cui gli stessi lavoratori sentono soddisfazione professionale e
trovano le condizioni, oltre le motivazioni personali, a realizzare il loro potenziale e a desiderare una crescita
professionale. Il rischio di stress sul luogo di lavoro può essere valutato identificando le possibili fonti di stress. Molti
approcci metodologici riguardo l’identificazione delle possibili fonti di stress fanno riferimento a due tipologie di
fattori:
- Fattori oggettivi legati all’ambiente e alle condizioni di lavoro: esposizione al rumore, a vibrazioni, al
calore ecc;
- Fattori di natura psicosociale suddivisi in:
o Organizzazione e processi di lavoro: cioè l’orario di lavoro, il grado di autonomia nello svolgere
le mansioni, il carico di lavoro;
o Comunicazione: intesa come incertezza riguardo le aspettative lavorative o un futuro
cambiamento organizzativo, l’atteggiamento persecutorio e umiliante da parte di superiori o
colleghi;
o Fattori soggettivi: la percezione delle pressioni emotive e sociali sul luogo di lavoro, la
sensazione di non poter far fronte alla situazione lavorativa, la percezione di una mancanza di
aiuto.
La valutazione dei fattori oggettivi può essere rilevata attraverso dati documentali dell’azienda e specifiche check-list,
mentre la valutazione dei fattori di natura psicosociali ha necessità di basarsi su un’analisi delle percezioni del
lavoratore riferite alla propria esperienza lavorativa. Si utilizzano quindi due metodi, volti a raccogliere le opinioni e i
processi di attribuzione di significato dei lavoratori.
 Metodi quantitativi: come questionari;
 Metodi qualitativi: interviste, osservazione partecipante;
Lo stress legato all’attività lavorativa può essere pervenuto o neutralizzato riorganizzando l’attività stessa. Occorre,
inoltre, adeguare le condizioni di lavoro alle capacità, alle esigenze e alle ragionevoli aspettative dei lavoratori. A tali
interventi devono affiancarsi iniziative formative e informative che introducano una maggiore conoscenza dello stress,
delle sue possibili cause e dei rimedi.
Alcuni esempi di azioni che possono essere messi in atto nei confronti dell’organizzazione del lavoro al fine di
prevenire o ridurre lo stress:
 Orario di lavoro: va organizzato in modo da evitare conflitti con le esigenze e responsabilità extralavorative.
 Partecipazione e controllo: occorre consentire ai lavoratori di partecipare alle decisioni o scelte che hanno
ripercussioni sul loro lavoro.
 Quantità di lavoro assegnato: gli incarichi affidati devono essere compatibili con le capacità e le risorse del
lavoratore, e devono prevedere la possibilità di recupero.
 Contenuto delle mansioni: le mansioni vanno stabilite in modo che il lavoro risulti dotato di significato.
 Ruoli: vanno definiti con chiarezza.
 Ambiente sociale: occorre offrire la possibilità di interazione sociale inclusi sostegno emotivo e sociale fra
collaboratori.
 Prospettive future: è necessario ridurre le incertezze per quanto riguarda la sicurezza del posto di lavoro e le
prospettive di sviluppo professionale, inoltre bisogna promuovere la formazione permanente e la capacità di
inserimento professionale.
Emerge in conclusione la necessità di progettare i luoghi di lavoro tenendo conto di tutte le dimensioni che
caratterizzano una specifica organizzazione.
Capitolo 4
Le differenze individuali
Le caratteristiche che gli individui esprimono in relazione alla propria attività lavorativa costituiscono un elemento
fondamentale al fine di comprendere e prevedere il livello delle prestazioni fornite sul lavoro e la qualità delle
relazioni interpersonali. Le differenze individuali consentono di prevedere importanti esiti lavorativi come il successo
nella professione e la soddisfazione lavorativa.
Un primo attributo individuale studiato e misurato è quello dell’abilità cognitiva, tramite la quale le persone
acquisiscono conoscenze e risolvono problemi. Inizialmente tale fattore fu definito “g” (abilità mentale generale). A
partire dall’analisi del fattore g, si è passati alla valutazione di una più ampia varietà di differenze individuali quali
abilità fisiche, mentali e psicofisiche, la personalità e le motivazioni alla base del comportamento.
George e Jones suggeriscono che le differenze rispetto alle quali le persone possono essere classificate appartengono a
due principali categorie: riferite alla personalità e riferite alle abilità mentali. Un’ulteriore classificazione è quella
proposta da altri autori, Murphy e Guion, secondo cui le differenze individuali utili per la comprensione del
comportamento lavorativo possono essere classificate così:
 Abilità cognitive e psicomotorie;
 Personalità;
 Interessi;
 Valori.

Le abilità cognitive e psicomotorie


Si definisce abilità come ciò che una persona è in grado di fare. Fleishman elaborò una complessa classificazione
comprensiva di 52 abilità rispetto alle quali gli individui si differenziano fra loro e che risultano determinanti nella
performance lavorativa. Suddivise in tre macrocategorie:
 Intelligenza e abilità cognitive;
 Abilità fisiche;
 Abilità percettivo-motorie.
Intelligenza e abilità cognitive
Nel contesto lavorativo, l’intelligenza è definibile come “una capacità mentale molto generale che comprende la
capacità di ragionamento, di progettazione e di problem solving, di pensare in modo astratto, capire idee complesse,
imparare velocemente e apprendere dall’esperienza”. Misurare l’intelligenza generale significa quindi valutare la
capacità di ragionamento, di acquisire informazioni e di problem solving.
La maggior parte degli psicologi del lavoro e delle organizzazioni concorda nel sostenere che i risultati lavorativi
possono essere predetti con maggiore affidabilità considerando abilità cognitive specifiche, piuttosto che solo
l’intelligenza generale. Ciò significa adottare un modello gerarchico d’intelligenza.
Un noto modello gerarchico di intelligenza è quello proposto da Carroll nel 1993, secondo il quale l’intelligenza
sarebbe articolata in tre livelli di abilità cognitive. Il livello più alto è “g”, il livello successivo include sette abilità
specifiche e infine, il terzo livello comprende abilità strettamente legate a quello dello strato superiore.
In campo lavorativo, la capacità intellettiva generale risulta di cruciale importanza da un punto di vista applicativo,
vari studi dimostrano che, con l’aumentare della complessità del lavoro, le persone con alti punteggi ai test di
intelligenza generale sono quelle che ottengono prestazioni lavorative di successo.
Si tratta di un requisito necessario ma non sufficiente, infatti, di fondamentale importanza sono anche le capacità
cognitive specifiche.
Abilità fisiche
Vi sono delle mansioni il cui svolgimento richiede determinate caratteristiche fisiche come la forza, la flessibilità
muscolare e la resistenza fisica. Secondo Fleishman, esisterebbero 11 abilità motorie di base (tempo di reazione e
destrezza manuale) e 9 abilità fisiche (forza statica). Un ulteriore tentativo di classificazione teorica è quello di Hogan
che identifica 7 abilità fisiche alla base di molte attività lavorative, raggruppate in tre macrocategorie:
 La forza muscolare: comprende tensione muscolare, potenza muscolare, resistenza muscolare;
 La resistenza cardiovascolare;
 La qualità del movimento: comprende flessibilità, equilibrio e coordinazione neuromuscolare.
Guion ha poi confrontato i due modelli evidenziando delle corrispondenze tra i due.
Abilità sensoriali
Le abilità sensoriali sono le funzioni fisiche della vista, dell’udito, del tatto, del gusto e dell’olfatto. In campo
lavorativo vengono più frequentemente prese in considerazione le abilità visive e uditive. Sono considerate
indipendenti da quelle cognitive.
Abilità psicomotorie
Si riferiscono alla coordinazione, alla destrezza e ai tempi di reazione dell’individuo. Secondo Fleishman sono
classificabili nel modo seguente:
 stabilità braccio/mano;  orientamento;
 destrezza manuale;  tempo di reazione;
 destrezza delle dita;  velocità polso-dito;
 precisione;  velocità di movimento degli arti;
 coordinazione;
Molte di queste abilità appaiono strettamente connesse alla percezione visiva e/o motoria.
La personalità
La personalità rappresenta un’importante area da esaminare dal punto di vista delle differenze individuali in ambito
lavorativo poiché esistono molte evidenze empiriche del collegamento fra tratti di personalità, condizioni e
comportamenti lavorativi in termini di performance. È ormai ampiamente riconosciuto come la personalità possa
prevedere le future esperienze lavorative, e viceversa, l’ambiente lavorativo sia in grado di modificare alcuni tratti
individuali. Tale assunto è in linea con la life course perspective in base alla quale, se da un lato le caratteristiche
personologiche influenzano le scelte ed esperienze individuali, dall’altro queste ultime influenzano lo sviluppo dei
tratti personali lungo l’intero ciclo di vita.
Un modello per la descrizione della personalità che ha ricevuto ampio consenso da parte degli psicologi del lavoro,
nonostante sia stato anche oggetto di alcune critiche, è quello denominato Big five o Modello dei 5 fattori.
Il Modello Big Five
Secondo il modello Big Five è possibile descrivere la personalità in base a 5 fattori principali, ciascuno dei quali
comprende due tratti più specifici. I cinque fattori sono indipendenti tra loro e consentono di prevedere i risultati
lavorativi. Se considerati complessivamente forniscono una rappresentazione del modo in cui una persona tipicamente
risponde agli stimoli.
 Coscienziosità: scrupolosità e perseveranza> la coscienziosità è tipica di individui capaci di esercitare un
elevato controllo sul proprio comportamento, al fine di progettare, organizzare e raggiungere i propri obiettivi.
Le persone coscienziose ottengono migliori prestazioni se lavorano in autonomia e possono dimostrare la
propria autoefficacia tramite lo svolgimento di compiti moderatamente difficili. La coscienziosità risulta
essere un rilevante predittore del successo lavorativo e della performance.
 L’instabilità emotiva: controllo dell’emozione e degli impulsi> rappresenta il secondo predittore principale
della performance lavorativa. Viene descritta come la tendenza a provare stati negativi come ansia, tristezza,
sensi di colpa, paura. Soggetti con elevati livelli sono più sensibili allo stress, tendono a utilizzare strategie di
coping centrate sulle emozioni e sull’evitamento. Si tratta di persone poco adattabili a condizioni di incertezza
e ai cambiamenti.
 L’energia: dinamismo e dominanza> l’energia è intesa come predisposizione alle interazioni sociali,
all’assertività, la preferenza per situazioni altamente stimolanti e si caratterizza per la presenza di umore
generalmente positivo. Correla negativamente con lo stress e positivamente con l’uso di strategie di coping
centrate sul compito.
 L’amicalità: empatia e cordialità> l’amicalità si caratterizza per empatia, altruismo, predisposizione ad aiutare
e ad avere fiducia negli altri. Le persone con alti punteggi sono a proprio agio in ambienti lavorativi che
richiedono frequenti relazioni interpersonali e cooperazione; sono poco esposte al rischio stress e presentano
umore tendenzialmente positivo.
 L’apertura mentale: apertura alla cultura e all’esperienza> l’apertura mentale si caratterizza per una
propensione all’immaginazione, attenzione alle sensazioni e interesse per il nuovo. Queste persone si adattano
bene a situazioni lavorative nuove che stimolano l’uso delle loro capacità intellettive- Infatti, sono individui
fortemente attratti da compiti intellettualmente sfidanti.
Sebbene il Modello Big Five consenta di rilevare le diversità tra persone in ambito lavorativo, utilizzabili per
favorirne l’integrazione organizzativa, secondo alcuni autori il ricorso ai 5 fattori non è sufficiente per spiegare la
complessità della personalità umana in ambito lavorativo.
Recentemente la psicologia del lavoro e delle organizzazioni ha rivolto il proprio interesse anche ai tratti di
personalità disfunzionali come narcisismo, impulsività, ostilità ecc. Una possibile classificazione dei tratti tipi di
una personalità disfunzionale è proposta da Skodol e collaboratori, ripresa poi da Guenole, in base alla quale essa
può essere descritta attraverso sei fattori:
 Emotività negativa  Disinibizione
 Distacco dalle altre persone  Compulsività
 Antagonismo  Psicoticismo
Altri tratti di personalità d’interesse lavorativo
Sono stati messi in luce anche alcuni tratti utili per comprendere il comportamento lavorativo tra cui:
 Self-concept: definibile come il modo in cui una persona considera sé stessa in quanto essere fisico, sociale,
spirituale e morale: ciascuno di noi ha un’immagine di sé che influenza fortemente le modalità di interazione
con il mondo esterno. Secondo Gecas, è costituito da quattro componenti che agiscono fra loro:
1. I valori> riflettono ciò che per il soggetto è realmente importante;
2. Le credenze> le idee che le persone hanno relativamente al mondo;
3. Le competenze> cioè le conoscenze, le abilità e le capacità che accrescono la possibilità
individuale di affrontare il mondo efficacemente;
4. Gli obiettivi personali> le mete che ci si propone di raggiungere al fine di soddisfare i propri
bisogni.
Generalmente il self-concept si mantiene fisso e stabile, ragione per cui, nel momento in cui un soggetto
percepisce la presenza di una minaccia tende generalmente a mettere in atto comportamenti di carattere
difensivo.
 Locus of control (LOC): fa riferimento al fatto che persone diverse percepiscono di possedere un diverso
grado di controllo sulle situazioni. Coloro che hanno un LOC esterno ritengono di avere uno scarso controllo
sugli eventi. Coloro che hanno un LOC interno attribuiscono a sé, alle proprie capacità e all’impegno profuso
sia i successi sia i fallimenti. All’interno di un contesto lavorativo, le persone più motivate e che necessitano
di una supervisione meno rigida sono quelle con LOC interno perché più autonome a perseguire gli obiettivi
prefissati.
 Self-monitoring: si riferisce al grado in cui le persone riescono a controllare il modo in cui si presentano agli
altri, cioè quanto una persona è in grado di osservare il proprio comportamento autoespressivo e a quanto
riesce ad adattarlo alle diverse situazioni.
 Autostima: cioè l’opinione sviluppata dall’individuo sul proprio valore in base a una complessiva valutazione
di sé. E’ il grado di fiducia che le persone hanno in se stesse e nelle proprie capacità. Chi ha un’elevata
autostima ritiene di poter affrontare e risolvere le varie situazioni, chi ha una scarsa autostima dubita delle
proprie capacità.
 Autoefficacia: cioè la convinzione che il soggetto ha in merito alle proprie possibilità di riuscire in determinati
compiti. In ambito lavorativo tale costrutto riveste un’importanza notevole a causa del suo stretto legame con
la performance. Quando un soggetto presenta alti livelli tende a ottenere il successo in svariati compiti. Al
contrario, bassi livelli permettono di sviluppare la convinzione di non poter esercitare alcun controllo
sull’ambiente circostante e conduce a inevitabili e costanti fallimenti nel raggiungimento degli obiettivi
prefissati.
 Personalità di Tipo A e di Tipo B: gli individui con personalità di Tipo A sono competitivi, fortemente
motivati al successo e dominati da un senso di urgenza e impazienza. I soggetti con personalità di Tipo B al
contrario sono più rilassati e hanno un approccio più semplice ai problemi della vita. Quando
un’organizzazione si trova in una situazione per cui è necessario raggiungere obiettivi specifici in tempi brevi,
il Tipo A può essere quello ideale. Tipicamente quest’ultimo raggiunge più elevanti standard di performance
se opera autonomamente e se i compiti assegnati non sono molto a lungo termine.
 Bisogno di riuscita, affiliazione e potere: individuati da McClelland come importanti fattori motivanti. Coloro
che hanno un alto bisogno di riuscita desiderano affrontare compiti sfidanti e raggiungere importanti obiettivi
personali, preferiscono avere la diretta responsabilità delle situa che affrontano. Le persone con alto bisogno
di affiliazione hanno come priorità quella di instaurare e mantenere buone relazioni interpersonali e
prediligono lavori in gruppo. Infine, le persone con alto bisogno di potere sono mosse da una forte volontà di
esercitare il controllo sugli altri: un attributo importante per chi svolge ruoli manageriali.
 Proattività: cioè la tendenza relativamente stabile nel tempo ad accettare e ricercare attivamente cambiamenti,
a pianificare il futuro e a perseverare di fronte agli ostacoli. Attualmente valorizzata nell’attuale mercato dal
lavoro. Gli individui proattivi sono in grado di stimolare elevati livelli di supporto sociale soprattutto da parte
dei superiori, in quanto per natura capaci di instaurare relazioni positive con colleghi di livello gerarchico
superiore.
Gli interessi
Lo studio degli interessi professionali non ha ricevuto la medesima attenzione da parte degli psicologi del lavoro come
l’ha avuta la personalità. È ormai ampiamente riconosciuto come sia la personalità, sia gli interessi rappresentino
significativi predittori del comportamento lavorativo. La differenza tra i due costrutti risiede essenzialmente nel fatto
che, la personalità riflette ciò che più probabilmente potrà accadere a lavoro, mentre gli interessi riflettono ciò che
vogliono fare le persone a lavoro.
Gli interessi professionali sono differenze individuali relativamente stabili che riguardano le preferenze per
determinate attività lavorative o per specifici contesti professionali e che influenzano le scelte e i comportamenti
lavorativi attraverso processi di tipo motivazionale. È possibile individuare tre caratteristiche fondamentali degli
interessi professionali:
 Gli interessi professionali hanno un’importante componente disposizionale> essi sono relativamente stabili
nel tempo, tuttavia, possono essere almeno in parte modificati dalle esperienze di vita lavorativa;
 Gli interessi professionali sono espressi in forma di preferenze> vengono manifestati come la preferenza per
lo svolgimento di determinate attività o per specifici contesti professionali;
 Gli interessi professionali riflettono l’identità personale> le misure di interessi professionali correlano
significativamente con quelle di personalità, poiché sono influenzate da comuni processi di sviluppo e
socializzazione che contribuiscono a formare l’identità lavorativa.
Il potere che l’interesse è in grado di esercitare sul comportamento può essere notevole. Nel caso in cui, una persona
nutra un interesse particolarmente forte per un dato tipo di attività ma lavori in un ambiente non coerente con esso, le
conseguenze potrebbero essere rilevanti per quanto riguarda sia il livello di soddisfazione lavorativa, sia la durata del
periodo di occupazione, sia la performance.
Nell’area degli interessi professionali, un modello che ha ottenuto un’ampia diffusione è quello di Holland, a tal punto
da essere considerato al pari del Modello Big Five per lo studio della personalità. Tale modello, denominato RIASEC,
individua 6 tipologie principali di interessi: realistici, intellettuali, artistici, sociali, intraprendenti e convenzionali.
L’etichetta RIASEC deriva dalle iniziali delle parole inglesi che indicano le 6 tipologie di interesse.
Le sei dimensioni si possono immaginare come collocate ai vertici di un esagono, dove le distanze tra i vertici
rispecchiano le distanze tra le aree di interessi professionali.
realistici intellettuali
o La persona con alti interessi realistici: risulta conformista, onesta,
materialista, pragmatica e persistente; convenzionali artistici
o La persona con alti interessi intellettuali: risulta analitica, cauta,
intraprendenti sociali
critica, curiosa, precisa e razionale;
o La persona con alti interessi artistici: risulta disordinata, emotiva, espressiva, idealista, impulsiva, intuitiva e
anticonformista;
o La persona con alti interessi sociali: risulta cooperativa, amichevole, generosa, empatica, sensibile e comprensiva;
o La persona con alti interessi intraprendenti: risulta avventurosa, ambiziosa, energetica, esibizionista, ottimista;
o La persona con alti interessi convenzionali: risulta conformista, coscienziosa, metodica, efficiente, rigida,
obbediente, prudente.
Le tipologie adiacenti all’interno dell’esagono (realistico e intellettuale) sono quelle più simili tra loro; Le tipologie
collocate in maniera alternata (realistico e artistico) sono moderatamente simili; Le tipologie collocate in maniera
opposte (realistico sociale) sono quelle meno simili tra loro.
Un ulteriore approccio allo studio degli interessi professionali è quello proposto da Strong, che sviluppò uno dei primi
strumenti per la valutazione degli interessi professionali, lo Strong Vocational Interests Blank (SVIB). Un questionario
più volte revisionato per giungere all’ultima revisione dello strumento: lo Strong-Campbell Interests Inventory (SCII).
Il principio di base di questo modello consiste nel fatto che ogni occupazione corrisponde a uno specifico pattern di
interessi. In questo modo si ha un’elevata probabilità di ottenere il successo in quella professione. È possibile inoltre
differenziale le persone impegnate in una specifica occupazione da quelle che ne svolgono altre proprio sulla base
degli interessi tipicamente associati a quella professione.
Un ulteriore modello è quello presentato da Kuder, è noto per aver ideato negli anni uno fra i più diffusi strumenti per
la valutazione degli interessi in campo professionale, il Kuder Preference Record- Vocational. Secondo Kuder, ogni
persona manifesta un interesse prevalente per attività che possono essere categorizzate: lavori all’aperto, tecnici, di
contabilità, scientifici, basati sulla persuasione, artistici, letterari, musicali, di servizio sociale e d’ufficio. Questo
strumento risulta utile nell’ambito dell’orientamento professionale perché nel momento in cui il soggetto ottiene un
punteggio elevato in una delle dieci categorie elencate, è possibile restringere il campo d’indagine esclusivamente alle
attività incluse in quell’area.
La valutazione degli interessi consente di ottimizzare l’adattamento persona-ambiente lavorativo che favorisce il
raggiungimento degli obiettivi personali congruenti con la propria identità, la percezione di svolgere un lavoro dotato
di significato, l’incremento dell’autostima e del senso di appartenenza all’organizzazione. Esistono inoltre altri
strumenti fra cui:
 Il Questionario di Intessi Professionali (QIP): si rivolge agli adolescenti;
 Il Test di Orientamento Motivazionale (TOM): costituisce una misura delle motivazioni che orientano il
comportamento in ambito organizzativo secondo quattro principali direttrici, cioè l’orientamento all’obiettivo,
all’innovazione, alla leadership e alla relazione;
 La Scala dei Valori Professionali (SVP): la quale misura valori intrinseci ed estrinseci del lavoro e consente di
individuare l’orientamento principale della persona.
I valori
I valori lavorativi possono essere definiti come ciò che le persone ritengono debba essere soddisfatto in risposta al
ruolo lavorativo ricoperto, pertanto, contribuiscono a spiegare cosa motiva le persone verso il raggiungimento di
obiettivi ritenuti importanti. Si tratta di elementi in grado di influenzare fortemente gli atteggiamenti e i
comportamenti messi in atto. I valori si formano come prodotto di apprendimenti e di esperienze di vita condotte
dall’individuo all’interno del contesto culturale di appartenenza. Inoltre, i valori individuali sono influenzati dai valori
lavorativi di “altri” significativi, come parenti e amici. Hanno un’origine saldamente ancorata alla storia passata della
persona, ciò ne rende difficile il cambiamento.
I valori più importanti tendono a restare stabili per l’intero ciclo di vita, mentre a poter subire cambiamenti sarebbero
solo i valori dotati di minore importanza per il soggetto.
Rokeach sostiene la possibilità di suddividere i valori stessi in due principali categorie, ciascuna delle quali ne include
18 specifici:
 Valori terminali> riflettono la preferenza del soggetto per determinati obiettivi finali da raggiungere nel corso
della vita, ad esempio la vita confortevole, la felicità, il riconoscimento sociale;
 Valori strumentali> costituiscono i mezzi attraverso cui le persone perseguono gli obiettivi terminali. Ad
esempio, la mente aperta, coraggio nell’affermare le proprie idee, essere razionali.
Un’ulteriore classificazione dei valori è quella descritta da Allport e collaboratori, che individuano sei categorie:
 Valori teoretici, interesse per il ragionamento e il pensiero sistematico;
 Valori economici, interesse per l’utilità e la praticità;
 Valori estetici, interesse per la bellezza e per l’armonia artistica;
 Valori sociali, interesse per le persone e per le relazioni interpersonali;
 Valori politici, desiderio di ottenere potere ed esercitarlo sugli altri;
 Valori religiosi, interesse per l’unità e la comprensione dell’universo come entità globale.
Un concetto particolarmente importante in ambito organizzativo è la suddivisione tra valori intrinseci ed estrinseci. I
primi si riferiscono al lavoro in sé, mentre i secondi riguardano fattori esterni al lavoro stesso o ciò che da questo può
derivare. Mentre i valori intrinseci vengono soddisfatti durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, i valori
estrinseci possono essere soddisfatti come effetto del lavoro stesso.
È stato dimostrato come soggetti con un forte orientamento verso valori di tipo intrinseco tendano a raggiungere
risultati lavorativi più positivi, e più funzionali nello sviluppo di carriera, se confrontati con i soggetti aventi maggiore
orientamento ai valori estrinseci.
Ulteriore aspetto di particolare interesse in ambito lavorativo è quello della congruenza: quando le persone sono
chiamate a collaborare con colleghi aventi valori simili ai loro, esprimono emozioni positive. Al contrario, quando i
valori differiscono si genera una situazione di incongruenza, che si manifesta con conflitti relativi agli obiettivi da
raggiungere e ai mezzi per realizzarli.
L’aspetto valoriale in ambito organizzativo ha importanti risvolti connessi alle prestazioni e in generale ai risultati
aziendali. Ciò dimostra come i valori, pur essendo indicativi di tendenze e preferenze tipicamente individuali, tramite
meccanismi di coerenza diventano elementi funzionali al conseguimento dei risultati organizzativi.
Gli strumenti più noti e diffusi per la valutazione di questo costrutto sono essenzialmente due: il Minnesota
Importance Questionnaire (MIQ; Rounds, Henly, Dawis) e il Super’s Work Values Inventory (SWVI; Super) di
quest’ultimo vi furono varie revisioni fino all’ultima: SWVI-R.
Lo SWVI-R è costituito da 72 item raggruppati in 12 scale, che valutano i seguenti valori: Riuscita, Colleghi,
Creatività, Retribuzione, Indipendenza, Stile di Vita, Sfida, Prestigio, Sicurezza. Gli item sono valutati su una scala
Likert a 5 punti. Rispetto alla versione originale di Super, sono stati aggiunti 3 item per ogni scala e sono state
eliminate 3 scale originariamente presenti (Altruismo, Estetica, Gestione).
Inoltre, sono stati messi a fuoco ulteriori aspetti soggettivi in grado di incidere significativamente sui comportamenti e
sui risultati lavorativi, fra i quali:
 La conoscenza> definita come “un insieme di fatti e informazioni discrete, ma correlate e riferite a uno
specifico ambito. Si acquisisce attraverso la tradizionale educazione scolastica, tramite la formazione o
attraverso esperienze specifiche.”;
 L’esperienza> intesa come l’apprendimento realizzato attraverso uno specifico percorso professionale;
 Le competenze> cioè un “set di comportamenti strumentali alla realizzazione dei risultati o degli obiettivi
desiderati”
 L’intelligenza emotiva> costrutto sviluppato da Gardner e riformulato come la capacità di comprendere e
gestire i sentimenti e le emozioni proprie e altrui;
 La tendenza a essere soggetti adattatori o innovatori> ci si riferisce allo stile cognitivo adottato dalle persone
nel momento in cui si trovano a dover risolvere un problema.
Per incrementare il funzionamento organizzativo e la produttività è necessario che il management comprenda e
valorizzi le differenze individuali, a partire da quelle di carattere socioanagrafico sino a quelle relative all’abilità
cognitiva, alla personalità, agli interessi e ai valori. La misurazione delle differenze individuali in azienda rende anche
possibile di impostare un piano di intervento che consenta alle persone di crescere personalmente e professionalmente.
Capitolo 5
La competenza
La competenza delle persone è un asset fondamentale del successo delle organizzazioni.
La competenza a vivere
La “competenza” è innanzitutto “competenza a vivere” intendendo con ciò la nostra complessiva abilità cognitiva e
affettiva, quella che ci consente di essere e stare nel mondo, di trovare il nostro posto e fare il nostro cammino nella
vita o più semplicemente da casa al lavoro. La competenza a vivere è un fenomeno complesso, ha differenti forme,
infatti è contemporaneamente intrapsichica, cioè inscritta nella configurazione di vita e nel mondo interno della
persona, e interpersonale, cioè scambiata e co-costruita con l’ambiente relazionale e sociale. E’ strettamente dinamica
e continuamente cangiante, quindi fluida, plastica, spesso contraddittoria e sempre articolata nel tempo sia storico sia
della persona, nello spazio fisico e in quello immaginale.
Tutti siamo portatori di competenza a vivere, tutti siamo diversamente competenti. Tutti possiedono, sviluppano,
usano competenze, ma ciascuno è competente a modo suo. La competenza a vivere non è un sistema normante, non
definisce una norma o uno standard, non è omologazione. A partire da questi presupposti è possibile e necessario
riconoscere alcuni elementi “costanti” della competenza: è una struttura ed è un processo.
La struttura della competenza ne definisce i processi, guida i processi di utilizzo e sviluppo, il processo costruisce e
cambia la struttura della competenza. Metafora della luce per spiegarlo: la luce ha contemporaneamente una natura
corpuscolare e ondulatoria. Cioè è due cose nello stesso tempo.
La competenza è una “struttura”
La struttura della competenza è lo schema guida ed è riconducibile a due differenti aree:
 Una è rintracciabile nelle capacità di produzione (componente semiotica) interpretazione (ermeneutica) e
narrazione: produciamo e diamo significato a segni, interpretiamo segni e simboli e li leghiamo insieme in un
racconto. Attraverso l’uso del linguaggio e la costruzione dei significati vi è la possibilità di produrre
conoscenza su di sé e sul mondo. Da ciò emerge una caratteristica della competenza umana: la relazionalità.
Sembra che non dotiamo di senso una cosa in sé, ma in rapporto con qualcos’altro: il significato è legato ad
altri significati, emerge da una rete di relazioni e si evolve in un reticolo di significati.
 Una seconda area è quella paradigmatica (volta a definire sistemi di regole per pensare e per fare),
ordinatoria (che impone un ordine al fluire caotico degli eventi che la circondano) e conativa (indica la nostra
capacità di progettare e attuare piani d’azione). L’ipotesi fondamentale è che tale competenza progettuale sia
espressione di una struttura cognitiva incorporata in un repertorio di mappe cognitive, schemi e programmi
usato dall’attore per governare le proprie azioni e i propri comportamenti.
La competenza è un “processo”
Il processo costruisce e fa funzionare la struttura, la struttura modifica il processo. La competenza è il “processo” che
costruisce e viene modificato dalle due aree della competenza. Individuiamo nella competenza due processi, che la
producono, la sviluppano e definiscono la sua struttura.
 Un processo individuale-conversazionale, volto a dare senso al mondo. È più arcaico, è competenza che opera
e viene riconosciuta dalle strutture e nelle funzioni affettive prima che cognitive, comprende gran parte della
nostra conoscenza tacita. A questo processo corrispondono mappe antiche e naturali. È un processo orientato
alla conoscenza di sé e alla costruzione dei sé e dell’identità.
 Un processo sociale-culturale, guida e orienta l’analisi dell’interazione tra persona-persone-ambiente, valuta la
natura e la qualità di questa relazione ed è più recente. Generalmente assume le forme della logica e del
ragionamento ipotetico-deduttivo, giunge all’astrazione e alla razionalità limitata e intenzionale. Origina ed è
originato dalle conoscenze esplicite spesso condivise socialmente, ed è più orientato alla conoscenza del
mondo e di sé nel mondo. È possibile sintetizzarlo nello scambio e nella co-costruzione tra persona e ambiente
(reciprocamente e contemporaneamente inscritti l'uno nell’altro) evidenziando quindi le qualità riassumibili
nella reciprocità e nell’interdipendenza.
Dalla competenza a vivere alla competenza professionale e manageriale
Alcuni studiosi forniscono una prospettiva delle questioni da prendere in esame quando passiamo dal considerare la
competenza umana a quella stessa competenza che viene espressa in un ambito determinato dalla professione e dal
contesto organizzativo.
In principio furono Chomsky e la competenza linguistica
La nozione di competenza per Chomsky si basa sullo studio del linguaggio, può essere definita come un potenziale a
disposizione delle persone, attivabile prontamente quando se ne presenti la necessità. Per lui la competenza di un
parlante è definita dalla conoscenza della grammatica generativa e trasformazionale del linguaggio stesso, dalle regole
generali e sovraordinate per produrre e modificare le proposizioni di una lingua. La competenza professionale viene
vista come un insieme di capacità o proprietà interne all’attore, indipendente dalla natura del compito, delle
caratteristiche della situazione e dai vincoli imposti dai “materiali” a cui l’azione è rivolta. Tale ragionamento conduce
alla formulazione di un modello di agente ideale, cioè un soggetto astratto che non sembra sottoposto a
condizionamenti socioculturali e di conseguenza porta all’elaborazione di una teoria formale della competenza che
non tiene conto dei contesti in cui viene esercitata. Essa pone al centro dell’interesse di ricerca l’individuazione delle
strutture mentali e delle funzioni cognitive poste alla base della competenza di un attore.
Polanyi, la competenza tacita, la consapevolezza
Nella prospettiva di Polanyi esiste una conoscenza personale che mette in discussione il vero ideale delle scienze
esatte, l'oggettività e la razionalità assoluta. La competenza professionale è sostenuta dalla capacità di stabilire
relazioni di significato e relazioni tra le parti e il tutto. L’impegno intellettivo è una decisione responsabile con la
quale ci confrontiamo con le richieste di ciò che consapevolmente riconosciamo come vero nel contesto. La
conoscenza personale e la competenza professionale sono articolabili su due livelli di consapevolezza:
 La consapevolezza focale> consente di osservare e verificare il raggiungimento dell’obiettivo nell’attività che
il soggetto sta svolgendo;
 La consapevolezza sussidiaria> cioè l’osservazione e la categorizzazione delle sensazioni e delle attività che
vengono sviluppate circa l’utilizzo degli strumenti per raggiungere il risultato dell’attività principale.
Essa ha quindi un valore di apprendimento di regole e metodo. Ciò ha portato a evidenziare che nella nostra
competenza è contenuto molto di più di quanto possiamo esprimere. Essa è in parte tacita, in parte espressa. Il
concetto di conoscenza tacita consente di comprendere perché le persone nelle organizzazioni spesso non siano in
grado di spiegare perché e come fanno le cose, e quali siano i presupposti che guidano le loro azioni. La
consapevolezza sussidiaria consente di svelare il significato e le relazioni sottostanti l’azione, è quel livello della
conoscenza personale che permette l’elaborazione e l’osservazione riflessiva circa gli strumenti concettuali in uso.
Schön e la competenza diventa riflessiva
Nell’ambito della razionalità tecnica, la pratica professionale era interpretata come un ordinato e “razionale” processo
di soluzione di problemi. Problemi di scelta o decisionali erano risolti mediante la selezione, fra i mezzi disponibili, di
quello che meglio si adatta a determinati fini. Venivano completamente ignorati gli aspetti relativi alla definizione del
problema, al processo attraverso cui progressivamente si individua la decisione da prendere, i fini da conseguire, i
mezzi tra i quali scegliere. Veniva ignorata, in sostanza, la razionalità limitata dell’umano, l’incertezza e
l’indeterminatezza del sistema complesso. Schon sostiene che per trasformare una situazione problematica in un
problema il professionista deve svolgere un certo tipo di lavoro, deve comprendere una situazione incerta che appare
inizialmente incomprensibile. La proposta di Schon si muove nella direzione di un’epistemologia della riflessione nel
corso delle azioni, considerata fondamentale nell’arte mediante la quale i professionisti possono affrontare
efficacemente le situazioni “reali” che sono connotate da incertezza, instabilità, unicità e conflitti di valore e di
intenzioni.
L’attività è esplorazione, verifica di un piano e di ipotesi, funzioni soddisfatte proprio nel corso delle azioni. Il
professionista che riflette conduce una sorta di esperimento volto ad arrivare a una nuova comprensione dei fenomeni
e a un mutamento nella situazione; riflettendo nel corso dell’azione diventa un ricercatore operante nel contesto della
pratica e costruisce una nuova teoria del caso unico che sta affrontando.
La sua indagine non è limitata a una decisione sui mezzi, ma è dipendente da un preliminare consenso sui fini. Non
tiene separati i fini dai mezzi, ma li definisce in modo interattivo mentre struttura una situazione problematica.
Un altro elemento introdotto dalla competenza riflessiva di Schon è rappresentato dalla valorizzazione della sorpresa,
dall’incontro e dal riconoscimento del non noto. La sorpresa consente di ritornare a osservare e a riflettere sull’azione
compiuta, svela l’implicito nell’azione. Quando la prestazione routinaria produce i risultati attesi, non ci riflettiamo
sopra. Mentre quando ci si trova di fronte a domande che appaiono incompatibili si può rispondere riflettendo sui
presupposti e sugli antecedenti che sono stati definiti per la situazione.
Quest’ultima osservazione ci introduce alla questione del rapporto tra competenza riflessiva e apprendimento a partire
da una constatazione. I professionisti dispongono di un repertorio di aspettative, immagini e tecniche, imparano come
costruire il problema, che cosa cercare e come rispondere in ragione della soluzione. Finché la pratica si mantiene
stabile il professionista è sempre meno soggetto a sorpresa. La riflessione per un professionista può rappresentare una
possibilità di crescita, può avviare un nuovo ciclo di apprendimento e sviluppo delle competenze, può portare a
un’ulteriore elaborazione del sapere e della pratica manageriale. Può far emergere e sottoporre le conoscenze e le
competenze implicite, che erano cristallizzate nelle attività e nelle esperienze ripetitive, per trovare un significato alle
situazioni caratterizzate da incertezza o unicità.
Lanzara e la “capacità negativa”
Lanzara offre una prospettiva sulla capacità di tollerare l’incertezza. Per lui la competenza è l’esistenza di una capacità
che attribuiamo all’attore e un fenomeno di integrazione del comportamento con i dati e i requisiti dell'ambiente del
compito. Lo schema concettuale che Lanzara prospetta tiene conto sia delle capacità interne dell’attore, sia del
fenomeno dell’integrazione funzionale, che mette in relazione i processi cognitivi e gli atti di comportamento con
l’ambiente. Postula l’esistenza delle rappresentazioni mentali, di schemi e mappe, ma articola diversi modi e tipi di
rappresentazione ed è orientato a individuare e comprendere se e come le rappresentazioni vengono effettivamente
attivate, utilizzate in concrete situazioni d’azione, qual è la loro funzione nella produzione di attività pratiche e di
comportamenti competenti. Lanzara adotta il termine “mente in azione” piuttosto che prendere le strutture e le abilità
cognitive e tenerle separate dalla sfera dell’azione, vengono studiati gli aspetti processuali e dinamici della
competenza pratica. Per sviluppare il suo costrutto di competenza, Lanzara si avvale dei concetti di programmazione
per l’azione, capacità negativa e sensibilità al contesto, sostenendo sempre il versante sociale che la caratterizza.
Le interazioni tra soggetto e ambiente vengono progettate e realizzate mediante programmi per l’azione e meta
progetti, che forniscono le regole per la progettazione di azioni in diverse situazioni. I programmi, a loro volta, si
basano sulla cultura e sui sistemi sociali.
La competenza può essere ridefinita come “una particolare modalità di accoppiamento con il contesto, come una
forma di integrazione ecologica fra l’agire e il mondo in cui esso si manifesta. Diventa cruciale la flessibilità dei
programmi e la capacità di modificare rapidamente il nostro corso di azioni e decisioni sulla base della situazione
contingente. Questo richiede da un lato la capacità di osservazione riflessiva, dall’altro doti di immaginazione e senso
dell’avventura, nonché disponibilità ad affrontare il rischio. La competenza si esprime nella capacità di andare oltre il
noto, sostare nell’incertezza per promuovere una possibilità per il nuovo ed esplorare l’ignoto. Lanzara la definisce
“capacità negativa”, esprimendo così la possibilità di conservare un’esistenza là dove ogni possibilità di esistenza
sembra essere negata, accettando di rendersi vulnerabili agli eventi e facendo della propria vulnerabilità una leva per
l’azione. La capacità negativa è la capacità di sperimentare, è un’azione che nasce dal vuoto, dalla perdita di senso e di
ordine, ma che è orientata alla generazione di mondi possibili. È la capacità di essere nell’incertezza, di farsi
avvolgere dal mistero, di rendersi vulnerabili al dubbio.
Le competenze non sono attività puramente cognitive, ma sono riconoscibili e riproducibili solo all’interno di un
sistema di relazioni e di pratiche socialmente e culturalmente riconosciute. La costruzione della competenza è insieme
apprendimento individuale e apprendimento culturale i cui materiali sono le aspettative, i valori e i giudizi normativi
su ciò che si pensa sia moralmente utile o giusto, socialmente buono o accettabile, meritevole di riconoscimento e
ricompensa nelle situazioni in cui si opera.
Le competenze e i processi organizzativi
La competenza professionale: i modelli
La competenza professionale e manageriale è la competenza a vivere che si confronta con sistemi sociali organizzati
particolari, le organizzazioni. È in parte tacita e in parte esplicita (Polanyi), ha differenti gradi di consapevolezza e
riflessività (Schon), ci consente di affrontare il contesto con differenti gradi di sensibilità, capacità di produrre e
realizzare piani d’azione (Lanzara).
Modelli di competenza…in teoria
Il contributo di Boyatzis, così come quello di Spencer e Spencer, rientrano in una scuola di pensiero che focalizza il
ragionamento sul soggetto e sulle sue caratteristiche, in relazione alla possibilità di ottenere prestazioni eccellenti.
Sono modelli che enfatizzano gli aspetti della competenza come struttura. Boyatzis considera la competenza come una
caratteristica della persona che determina una prestazione lavorativa efficace o superiore. Con il termine
“caratteristica” l’autore intende un tratto, abilità o corpus di conoscenze utilizzato dalla persona. Il soggetto può essere
più o meno consapevole dell’esistenza o del possesso di queste caratteristiche, infatti, non sono direttamente
osservabili. La competenza può manifestarsi in molte forme di comportamento o in una grande varietà di differenti
azioni.
Un’azione che ottiene un risultato, o numerosi risultati, è espressione di una caratteristica o di numerose
caratteristiche. Inoltre, l’azione è manifestazione di competenza nel contesto di una richiesta e di requisiti di una
specifica attività di lavoro e di un particolare ambiente dell’organizzazione.
Per definire una competenza, in sostanza, dobbiamo determinare a quale corso di azioni e a quali relazioni si riferisce,
collocarla in un sistema e in una sequenza di azioni e correlarla ai risultati, agli intenti e ai significati dell’azione e dei
risultati stessi.
Il modello di Boyatzis ha due dimensioni che distinguono differenti tipi e livelli di competenza che vengono misurati e
valutati.
 La prima dimensione descrive i tipi di competenze associati a diversi aspetti del comportamento umano e
delle capacità delle persone in grado di spiegare le azioni e i comportamenti. La lista delle capacità include 21
tipi di caratteristiche:
1. Accurata autovalutazione 12. Positività
2. Concettualizzazione 13. Proattività
3. Interesse per le relazioni 14. Autoconoscenza
4. Interesse per gli effetti 15. Autocontrollo
5. Sviluppo degli altri 16. Conoscenze specialistiche
6. Capacità di diagnosi 17. Spontaneità
7. Orientamento all’efficienza 18. Adattabilità ed energia
8. Pensiero logico 19. Capacità di comunicare
9. Gestione dei processi di gruppo 20. Capacità di socializzare il potere
10. Memoria 21. Capacità di utilizzare il potere
11. Percezione degli obiettivi
 Una seconda dimensione descrive il livello di ciascuna competenza con un grado di eterogeneità dei costrutti
ancora maggiore. Le motivazioni e i tratti, l’immagine di sé, i ruoli sociali e le abilità sono ritenuti essenziali
per eseguire un lavoro o svolgere un’attività.
Questa lista di caratteristiche e i livelli comprendono elementi e costrutti molto eterogenei: la spontaneità e il pensiero
logico, la gestione dei processi di gruppo e la memoria, la motivazione e i ruoli sociali.
L’altrettanto diffuso modello di Spencer e Spencer non si discosta significativamente da quello di Boyatzis. È utile
però individuare e conoscere alcune differenze rilevanti e interessanti: la distinzione delle competenze in due livelli, di
base e distintive.
 Le competenze di base> sono le caratteristiche essenziali che ciascuno deve possedere necessariamente per
essere minimamente efficace a lavoro.
 Le competenze distintive> sono quelle che segnano la differenza tra i lavoratori “medi” e quelli eccellenti.
Per Spencer e Spencer una caratteristica della persona, qualsiasi essa sia, non è una competenza se non assume
qualche significato nel mondo reale.
Altrettanto successo ha avuto la proposta del modello tripartito di Le Boterf. Egli ritiene la competenza “un insieme,
riconosciuto e provato, delle rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in
maniera pertinente in un contesto dato”. Le Boterf riconosce che la competenza risiede nell’attivazione delle risorse,
cioè nell’azione. Questo modello sottolinea la caratteristica della competenza come processo più che come struttura.
Le Boterf definisce un soggetto attivo in un ambiente attivo, il suo soggetto non performa e non risponde, ma sceglie,
agisce, interagisce in maniera specifica, pertinente, in relazione a un determinato contesto.
La competenza ha una qualità generativa, infatti si sviluppa e produce riflessività e apprendimento, ma è solo in
funzione di questo processo di apprendimento che può trasferirsi in differenti contesti. Le persone sviluppano
competenza solo quando apprendono ad apprendere, solo se impegnano risorse nei processi che regolano
l’apprendimento stesso.
Le Boterf categorizza la competenza partendo dall’assunto che essa debba necessariamente comprendere due
componenti principali: la disponibilità di combinare un insieme di risorse e la capacità di mobilitare le risorse
attivamente e creativamente in modo funzionale al contesto. Le competenze non corrispondono quindi a una semplice
somma di conoscenze, capacità e atteggiamenti, ma all’integrazione complessa di queste componenti che permette alla
persona di svolgere attività, affrontare situazioni problematiche, prendere decisioni e valutare il proprio agire.
 La prima componente è legata alla volontà da un lato, dall’altro alla motivazione di una persona di combinare
un insieme di risorse. In questa prima componente l’autore espone: Conoscenze, Capacità o Abilità,
Atteggiamenti.
o Le Conoscenze (ovvero il sapere) sono costituite dall’insieme dei saperi specialistici e disciplinari, da
dati e informazioni.
o Le Capacità o Abilità (ovvero il saper fare) si riferiscono a uno spettro molto ampio di risorse che va
dalle capacità di metodo, alle conoscenze procedurali, fino a comprendere gli schemi d’azione in
forme complesse.
o Gli Atteggiamenti (ovvero il saper essere) sono strutture, mappe, individuali e insieme sociali,
strettamente correlate con l’identità personale, sociale e culturale, saldamente ancorate ai valori guida
della persona, alla visione della vita e del mondo.
 La seconda componente è l’attivazione, la mobilizzazione, cioè la capacità di fare ricorso e utilizzare le risorse
disponibili in maniera adeguata ai contesti e alle situazioni presentate dalla realtà quotidiana, è la capacità di
leggere, interpretare e dotare di senso eventi e situazioni.
Modello di competenze… in pratica
La definizione e costruzione di un modello di competenze ha un valore, per la persona e per l’organizzazione. Dal
modello di competenze scelto e definito in un’organizzazione sulla base dei suoi valori derivano i metodi, gli
strumenti e gli interventi connessi a ciascuno dei sottoprocessi che concorrono alla valorizzazione delle persone:
sviluppo (valutazione della performance) change management (selezione) gestione (amministrazione).
Un modello di competenze scelto e definito in un'organizzazione sulla base dei suoi valori descrive la qualità
professionale e manageriale richieste a tutte le persone, cioè quelle competenze che si devono possedere per operare in
uno specifico ambiente organizzativo. Per definire e nominare le abilità cognitive e affettive occorre rinunciare al
linguaggio che esprime processi o funzioni mentali e sociali, per ricondurli alla sfera delle azioni, studiandoli nei loro
aspetti processuali e dinamici. L'azione professionale diventa l'unità di analisi e l'attenzione si sposta dalle capacità
cognitive e affettive ai processi relazionali e organizzativi attraverso i quali le competenze vengono espresse ed
utilizzate. Il modello di competenze descrive la competenza professionale espressa nel linguaggio proprio dei processi,
dei valori e della cultura di un'organizzazione (gergo tipico di un’organizzazione) e dunque non usa un linguaggio
generale. Questa competenza professionale orienta e rende più consapevole l'apprendimento e lo sviluppo individuale.
Questo modello ha scopi molto pratici, orientati all'azione e non si ferma ad un esercizio accademico. I profili
professionali sono l'insieme di competenze richieste per svolgere una certa attività e ricoprire un particolare ruolo.
Attraverso queste competenze si creano degli strumenti per la valutazione delle performance. In un modello di
competenza sono presenti:
 Aree di competenza (es logico-strategica, gestionale, relazionale)
 Voci di competenza (organizzazione, comunicazione)
 Indicatori osservabili (“espone in modo logico e ordinato”)
Il processo di valorizzazione della competenza professionale e manageriale
Il processo di valorizzazione delle persone e dell’organizzazione comprende differenti sottoprocessi: gestione, change
management e sviluppo.
La valorizzazione delle competenze come processo
La valorizzazione viene vista come processo perché quest’ultimo è finalizzato a ricercare, valutare e sviluppare
competenza.

Competenza e valutazione
Valutazione significa letteralmente → dar la valuta, stimare. La valutazione viene vista come una minaccia
all'autostima e al riconoscimento, come un ostacolo per accedere al sistema premiante, ciò accade per via di cattive
esperienze nella vita (per esempio nella vita scolastica). Essa ha cambiato cultura e metodi perché è orientata verso la
ricerca e la promozione del valore rappresentato dalle persone, dal loro potenziale ed alle loro performance, ha
cambiato metodi, strumenti, cultura, prospettiva poiché il suo obiettivo è la formazione. La valutazione è il processo
che promuove e garantisce la valorizzazione, fornisce un quadro delle competenze delle persone grazie alle quali si
possono avviare degli interventi mirati e specifici per la loro crescita. I dati della valutazione della performance del
potenziale compongono una mappa che si declina in: formazione, change management, compensation, selezione.
Riprendendo l'assunto secondo il quale le competenze professionali sono caratteristiche sottostanti l'azione che
emergono in una performance rendendola più o meno efficace è importante dire che una caratteristica può essere
espressa in molte forme e in una grande varietà di azioni. L'azione ha origine a partire da una richiesta e allo stesso
modo i risultati di un'azione sono correlati alle richieste e al setting nel quale questa viene condotta.
Per valutare la competenza dobbiamo determinare quale processo cognitivo o relazionale osserviamo (es la
comunicazione), operazionalizzarlo in una sequenza di indicatori (es ascolta senza interrompere), che identifichino e
corrispondano alle caratteristiche sottese. Quindi la competenza è descritta con indicatori e azioni che osserviamo,
mentre il legame tra azione e competenza lo creiamo attraverso l'interpretazione.
Competenza e formazione
La formazione è un processo fondamentale nel processo di valorizzazione delle persone e punta a sviluppare
competenza, che è l’oggetto specifico della formazione e della valutazione. La formazione è un’esperienza che
consente di elaborare la propria esperienza per costruire e modificare le mappe e i processi della competenza.
L’apprendimento del professionista/manager non è semplice memorizzazione di informazioni ma è un processo attivo
di costruzione di significato e trasformazione cognitiva di tutto ciò che la persona ha compreso. La competenza non
può essere insegnata ma può essere costruita dal soggetto stesso in relazione con il mondo sociale.
Tuttavia, apprendere dall’esperienza significa fare del sensemaking, cioè costruire significati, parlare della realtà come
di una costruzione continua e non come qualcosa di dato.
Capitolo 6
La motivazione
La motivazione rappresenta una delle aree di intervento più sfidanti per coloro che si occupano di gestione delle
risorse umane e di sviluppo organizzativo.
Che cos’è la motivazione
L’etimologia del termine motivazione rimanda all’insieme di processi psicologici alla base delle azioni volontarie
dirette verso un obiettivo. Molti autori sono concordi nell’individuare un campo semantico in cui la motivazione è
concepita come un’energia che alimenta i comportamenti e li orienta verso una meta, e può essere analizzata in
termini di attivazione (condizioni di avvio del comportamento), direzione (obiettivo a cui si rivolge), intensità (forza
dell’investimento energetico) e persistenza (disponibilità a insistere nel tentativo di conseguire l’obiettivo). Facendo
specifico riferimento all’ambito del lavoro in organizzazione, Quaglino ha proposto di distinguere tra comportamenti
diretti a fare delle attività e diretti a stare in organizzazione, definendo la motivazione un’energia che si investe, sia
nella realizzazione di prestazioni connesse a specifici compiti orientata verso finalità associate ai risultati di tali
prestazioni, sia nella relazione tra individuo e organizzazione orientata verso finalità di definizione e consolidamento
del legame di appartenenza.
Un ulteriore distinzione può essere operata tra attività intrinsecamente motivanti (la motivazione è legata all’attività di
lavoro in sé) e attività compiute in funzione di una motivazione estrinseca (legata alla ricompensa che si riceve).
Le teorie motivazionali
I differenti modelli teorici sul tema della motivazione proposti tra gli anni ’50 e la prima metà degli anni ’70 del
secolo scorso si sono orientati verso l’analisi dei contenuti della motivazione e sull’individuazione delle variabili che
ne influenzano l’espressione (dell’analisi del processo).
Le teorie di contenuto
Tra le teorie di contenuto è possibili distinguere vari orientamenti:
 Il modello gerarchico di Maslow, che individua 5 bisogni di base e li colloca lungo una scala evolutiva;
 Le teorie a tre vertici, come quella di McClelland, che riconoscono la compresenza di differenti istanze
motivazionali;
 Il contributo di Herzberg, che si interroga sull’effetto motivazionale di alcune specifiche caratteristiche
dell’organizzazione;
La teoria di Maslow
Secondo Maslow la motivazione umana è caratterizzata da cinque bisogni di base collocati in una gerarchia
rappresentabile come una piramide in cui i bisogni sono posti in sequenza. Alla base della piramide troviamo i bisogni
primari: quelli fisiologici (alimentarsi, avere un riparo, soddisfare i bisogni sessuali), quelli di sicurezza (protezione
dai pericoli, evitamento del dolore). Secondo Maslow questi bisogni sono presenti in tutti gli esseri umani e in tutte le
culture. Gli altri tre bisogni di base sono bisogni secondari perché sono di tipo psicologico: bisogno di affetto (amore,
amicizia, approvazione), bisogni di stima (forza, successo, adeguatezza). Al vertice della piramide vi sono i bisogni di
autorealizzazione che corrispondono al massimo sviluppo e all’utilizzo completo delle proprie possibilità.
I bisogni di ordine superiore non sono considerati importanti da un individuo fino a quando i bisogni di livello
inferiore non sono stati almeno parzialmente soddisfatti: è questo l’assunto del principio di dinamismo gerarchico di
Maslow.
La teoria di McClelland
Gli studi di McClelland prendono le mosse dall’analisi del bisogno di riuscire, considerato un carattere fondamentale
e distintivo della società occidentali e si arriva a una teoria generale della motivazione che individua tre principali
elementi:
 La motivazione al potere (e all’evitamento della dipendenza): ovvero l’orientamento a influenzare le persone e
a modificare le situazioni secondo le proprie intenzioni (in ambito lavorativo le persone desiderano esercitare
un forte impatto sugli altri individui, sulle decisioni e sulle procedure).
 La motivazione all’affiliazione (e all’evitamento dell’isolamento): ovvero l’orientamento a creare un’ampia e
fitta rete di legami sociali.
 La motivazione al successo (e all’evitamento del fallimento): ovvero l’orientamento a raggiungere le mete
desiderate, realizzare le proprie capacità e migliorare continuamento le proprie prestazioni (in ambito
lavorativo porta a ricercare obiettivi sfidanti e a desiderare di raggiungere l’eccellenza professionale).
A questi tre elementi McClelland aggiunge la motivazione alla competenza, ovvero l’orientamento a sviluppare
continuamente le proprie abilità e a svolgere i compiti assegnati mantenendo standard di elevata qualità (in ambito
lavorativo si cerca la padronanza delle proprie attività, si traggono insegnamenti dall’esperienza e si affrontano le
situazioni nuove in modo creativo).
Tra questi elementi non esiste alcun rapporto di gerarchia, in funzione della storia e della personalità dell’individuo
troviamo situazioni di equilibrio in cui tutti gli elementi possono esprimersi nei comportamenti o al contrario
situazioni in cui vi è un netto prevalere dell’uno o dell’altro.
La teoria di Herzberg
Herzberg indica l’esistenza di due tipi di fattori capaci di incidere sulla motivazione delle persone: i fattori di igiene e
i fattori motivazionali. Tra i primi sono compresi la retribuzione, la sicurezza fisica del luogo di lavoro, le relazioni
interpersonali con i pari e con i superiori, mentre tra i secondi sono compresi i riconoscimenti, l’attribuzione di
responsabilità, le opportunità di carriera e le possibilità di apprendimento e di crescita nel ruolo. La prima classe di
fattori rinvia a una dimensione di necessità (bisogni primari), mentre la seconda classe di fattori riguarda quei fattori
che danno la possibilità di soddisfare i bisogni di ordine secondario (bisogni secondari). Un altro elemento importante
proposto da Herzberg riguarda la possibilità di rendere i contesti di lavoro sensibili e “plastici” rispetto ai differenti
desideri e alle attese dei lavoratori.
Le teorie di processo
Le teorie di processo si propongono di chiarire quali siano le variabili che regolano e influenzano l’investimento di
energia nella prestazione lavorativa.
La teoria di Vroom
Secondo Vroom il processo motivazionale comprende tre elementi distinti:
 la sequenza comportamentale, cioè il corso d’azione che tende a un certo obiettivo;
 la motivazione, cioè l’insieme di energie mobilitate per il concepimento del corso d’azione;
 la ricompensa, cioè l’ammontare dei benefici che si ottengono raggiungendo l’obiettivo.
La forza della motivazione associata a ciascuna sequenza comportamentale è l’esito lineare di tre differenti variabili:
1. La valenza (V): ovvero l’attrattività della ricompensa, quanto una ricompensa piace all’individuo. Può avere
un valore positivo, negativo o pari a zero (neutrale).
2. L’aspettativa (A): ovvero la probabilità che il corso d’azione consenta realmente di raggiungere l’obiettivo.
Quanto più il soggetto ritiene probabile il raggiungimento, tanto più elevata sarà l’aspettativa. E’ legata
all’autostima e all’autoefficacia.
3. La strumentalità (S): ovvero la possibilità che il raggiungimento dell’obiettivo consenta realmente di ottenere
la ricompensa prevista.
Queste tre variabili si collocano in una relazione di tipo moltiplicativo: il loro prodotto va a definire la forza della
motivazione. Vroom sottolinea che i giudizi relativi a queste tre variabili sono di tipo soggettivo.

La teoria di Adams
La principale variabile che, secondo Adams, interviene nella regolazione del processo motivazionale è l’ equità
percepita, vale a dire la valutazione soggettiva del livello di equità presente nel contesto lavorativo. Questa
valutazione implica due verifiche:
 Dell’equità interna> mediante il confronto tra il risultato ottenuto e il contributo fornito;
 Dell’equità esterna> mediante il confronto tra sé e gli altri.
Secondo Adams, quando gli individui percepiscono una sufficiente equità interna ed esterna saranno disposti a
mantenere il livello di motivazione espresso fino a quel momento. Viceversa, quando percepiscono iniquità si
attiveranno per ridurla.
Es. se è presente un’iniquità negativa (tipo se lavorano di più rispetto a quanto li pagano) potranno diminuire il loro
contributo (quindi lavorare meno) o tentare di incrementare i risultati (chiedere una retribuzione maggiore); se è
presente un’iniquità positiva invece potranno lavorare di più o con maggiore scrupolo.
Gli individui in ogni caso differiscono nella propria sensibilità all’equità, alcuni sono benevoli cioè sono tolleranti
verso l’iniquità negativa a proprio svantaggi, altri sono sensibili cioè attenti al rispetto delle norme di reciprocità e
all’eliminazione delle ingiustizie, altri ancora sono aventi diritto cioè per nulla preoccupati di risolvere situazioni di
iniquità positiva.
La teoria di Locke
A partire da una prospettiva cognitivista Locke ha proposto la teoria del goal setting, la cui variabile chiave è
costituita dagli obiettivi, che influenzano i comportamenti motivati in differenti modi e favoriscono la motivazione. Le
caratteristiche di questi obiettivi sono:
 La consapevolezza, cioè il riconoscimento dell’obiettivo in quanto tale;
 La forza, cioè il valore attribuito all’obiettivo;
 L’aspettativa di successo, cioè il senso di potercela fare a conseguire l’obiettivo;
 La specificità, cioè la chiarezza e la vicinanza dell’obiettivo, che sollecita una migliore prestazione;
 La difficoltà, cioè il grado di sfida che l’obiettivo sollecita.
La più significativa ricaduta operativa della teoria del goal setting di Locke si può ritrovare nel sostegno offerto alla
formula della “gestione degli obiettivi” (Management by Objectives).
La self-efficacy di Bandura
Secondo la teoria sociale cognitiva di Bandura le persone sono in grado di produrre idee e ipotesi, di progettare
percorsi innovativi, di prevedere i risultati che possono ottenere e di codificare ed elaborare la propria esperienza.
Secondo questa teoria i comportamenti che gli individui mettono in atto sono motivati e diretti al perseguimento di
obiettivi.
L’autoefficacia per Bandura è una credenza nei confronti delle proprie capacità di aumentare i livelli di motivazione,
di attivare risorse cognitive e di eseguire le azioni necessarie per esercitare un controllo sulle richieste di un compito.
Individua le principali fonti dell’autoefficacia:
 L’esperienza pregressa, cioè la quantità di fallimenti o successi sperimentati dalla persona;
 L’esperienza vicariante, cioè la quantità e la qualità di apprendimento che l’osservazione e l’imitazione di
altre persone;
 La persuasione verbale, se messa in atto da persone ritenute significative dall’individuo in relazione
all’obiettivo;
 La presenza di stati fisiologici ed emozionali positivi e facilitanti l’impegno di un determinato compito.
Motivazione e personalità
Alcuni autori hanno analizzato l’interazione tra i livelli di motivazione al lavoro espressi dagli individui e le loro
caratteristiche di personalità. Già nel 1944 Sears sosteneva l’utilità di considerare alcune caratteristiche di personalità
come predittori del livello di motivazione che l’individuo avrebbe manifestato nel corso del proprio lavoro. Un punto
di vista simile si può ritrovare nei successivi studi sull’influenza del locus of control e nel più recente lavoro di
Latham che invita a riconoscere l’influenza che i fattori interni all’individuo esercitano sulla motivazione al lavoro.
Il legame tra motivazione e personalità non va assunto in modo deterministico. Latham segnala che:
 Non sempre i tratti di personalità predicono il comportamento in situazioni significative;
 Più spesso accade che i tratti di personalità si manifestino in situazioni poco strutturate.
In altri termini, se è vero che una buona indagine di personalità può rivelarsi utile a prevedere il potenziale
motivazionale, l’effettiva realizzazione di questo potenziale è fortemente legata alle caratteristiche del lavoro e del
contesto in cui l’individuo è inserito.
Sviluppi recenti
Tra i tanti sviluppi che il panorama della ricerca sta offrendo rispetto al tema della motivazione lavorativa, ve ne sono
due particolarmente rilevanti:
1. Costrutto di work engagement;
2. Le esperienze flow in ambito lavorativo.
Work engagement
Il Job Demands-Resources Model analizza i diversi esiti che derivano dall’intreccio tra caratteristiche positive
(risorse) e caratteristiche negative (richieste) che qualificano il lavoro svolto dagli individui. Tra questi esiti vi è il
work engagement, che viene definito come uno stato mentale collegato al lavoro, caratterizzato da vigore (alti livelli di
energia e resilienza), dedizione (percezione di significatività, entusiasmo, stimolazione), e assorbimento
(focalizzazione e coinvolgimento positivi). Al polo opposto del work engagement, gli autori collocano il burnout,
caratterizzato da un senso di esaurimento psicologico e di distacco dall’esperienza lavorativa.
Il work engagement esercita, secondo gli autori, un’influenza positiva sulla salute e sulle prestazioni dei lavoratori
(salute fisica, buona attività cardiaca, comportamento proattivo dei lavoratori, migliori risultati aziendali). Il JD-R
model ha il merito di inquadrare i processi motivazionali nel più ampio quadro di variabili personali e di contesto che
qualificano l’esperienza lavorativa di un individuo, inoltre, consente di comprendere come uno stesso individuo possa
esprimere un livello di investimento motivazionale estremamente mutevole nel corso della propria vita lavorativa.
Flow at work
Le esperienze flow riguardano lo studio degli stati ad alta intensità motivazionale. Il flow viene definito come uno
stato di consapevolezza in cui gli individui sono totalmente immersi e concentrati nell’attività che svolgono, durante il
quale provano piacere in quello che fanno, hanno il pieno controllo della situazione, si rappresentano con chiarezza i
propri obiettivi e sperimentano una forte motivazione intrinseca.
Alla base dell’esperienza flow, vi è un equilibrio tra sfida e abilità. I primi studi sul flow si sono focalizzati in ambito
ricreativo, sportivo e artistico ma molte ricerche hanno dimostrato che il flow è un’esperienza che si presenta
frequentemente anche a lavoro. Il flow at work (FaW) è caratterizzato da:
 L’assorbimento, cioè uno stato di profonda concentrazione in cui le persone non si accorgono di ciò che le
circonda e del tempo che passa;
 Il piacere lavorativo, cioè riflette un giudizio positivo sull’attività di lavoro;
 La motivazione intrinseca al lavoro, che riguarda lo svolgimento di un’attività lavorativa con l’intento di
sperimentare piacere e soddisfazione.
Gli Individui che possono sperimentare il flow at work sono quelle che hanno elevate abilità professionali, hanno a
disposizione risorse lavorative (supporto dei capi e colleghi, autonomia lavorativa ecc). La possibilità di sperimentare
il flow at work può condurre a una riduzione della percezione di malessere psicofisico, prevenire l’esaurimento e
potenziare le successive prestazioni lavorative.
Counterproductive workplace behaviors
I comportamenti controproduttivi includono tutte le azioni che i lavoratori mettono in atto al fine di danneggiare la
loro organizzazione, i responsabili, i colleghi e/o i clienti e possono essere sia espliciti (es. furto di risorse o
sabotaggio di un impianto), sia “coperti” (es. non seguire le istruzioni o fare il lavoro con scarsa cura). In questi
comportamenti vi è una demotivazione rispetto all’esecuzione delle attività e una motivazione a danneggiare che porta
a definire un piano d’azione della stessa natura dei piani d’azione che sono all’origine delle prestazioni lavorative
efficaci. Lo studio dei processi mentali che conducono gli individui a decidere di agire con queste finalità rappresenta
una delle frontiere della ricerca in ambito motivazionale che attualmente riscuote maggiore interesse. La complessità
delle variabili in gioco rende appunto complesso questo tema.
Come motivare
Ciascuna teoria motivazionale lascia intravedere alcuni fattori che risultano importanti al fine di affrontare “la sfida di
tutte le organizzazioni”, definita così da Simon, ovvero “condurre-indurre i dipendenti a lavorare in funzione degli
obiettivi dell’organizzazione”. Vi sono alcuni autori che hanno messo a punto delle classificazioni di "buone pratiche”
organizzative e gestionali indirizzate a sostenere e promuovere la motivazione. Di seguito i quattro approcci che fanno
riferimento a tale ambito di studi.
Progettazione del lavoro
L’approccio legato alla progettazione del lavoro si basa sulla convinzione che sia il lavoro in sé l’elemento chiave che
influenza la motivazione degli individui. Già Herzberg aveva evidenziato il potenziale di motivazione intrinseca
presente in qualunque attività lavorativa e aveva sottolineato come questo potenziale venisse limitato a causa di errore
nella progettazione dei compiti lavorativi, inoltre risultava dannoso il taylorismo, poiché parcellizzando
(suddividendo) le attività, le aveva private di significato e di interesse. Herzberg e altri autori (come Argyris) hanno
proposto di riprogettare le attività lavorative assegnate all’individuo seguendo tre principali strategie:
1. Il job enlargement> un’integrazione orizzontale che comporta l’attribuzione di più compiti con contenuti
professionali differenti, ma con uguali caratteristiche di discrezionalità. (es. magazziniere che ha sempre avuto
il compito di scaricare merce e sistemarla in magazzino, gli viene attribuito il compito di sistemare la merce in
negozio)
2. Il job enrichment> un’integrazione verticale mediante l’acquisizione di discrezionalità e responsabilità
rispetto al compito in precedenza attribuito a un livello gerarchico superiore. (es. addetto al punto di ascolto
dei clienti a cui viene attribuita la responsabilità di gestire i reclami)
3. La job rotation> un’integrazione per fasi successive che si realizza nel corso del tempo mediante
l’assegnazione a posizioni organizzative differenti che prevedono compiti con caratteristiche di discrezionalità
analoghe e competenze di livello simile, ma di contenuto differente, per essere svolti. (es. una cassiera del
supermercato inizia a lavorare 3 mesi in cassa, 3 mesi al punto panetteria, 3 mesi al riempimento scaffali ecc)
Successivamente Hackman e Oldham hanno proposto una versione più attuale degli studi di Herzberg e di Argyris, il
Job Characteristics Model. Secondo cui i fattori intrinseci motivanti di una mansione sono costituiti dal significato del
lavoro (l’individuo deve percepire il proprio lavoro come importante), dalla responsabilità (la persona deve essere
certa di rispondere personalmente dei risultati ottenuti) e dalla conoscenza dei risultati (il lavoratore deve sapere se gli
esiti del suo lavoro sono soddisfacenti oppure no). Le attività assegnate a una posizione organizzativa devono essere
progettate seguendo alcune indicazioni:
 Combinare i compiti: i compiti elementari devono essere raggruppati originandone uno più complesso;
 Organizzare unità di lavoro naturali: non è opportuno frammentare le attività;
 Stabilire una relazione con i clienti: consente ai lavoratori di percepire l’utilità di ciò che fanno e ottenere un
feedback sulla prestazione;
 Attribuire responsabilità personali: gli individui devono sentirsi direttamente responsabili dei risultati del
proprio lavoro;
 Incrementare la discrezionalità: è importante attribuire agli individui potere decisionale e possibilità di
controllo delle risorse;
 Aprire diversi canali di feedback: il feedback può essere intrinseco all’esecuzione del compito oppure
provenire da altri, in modo diretto o indiretto.
Un più recente filone di ricerche sul tema del job design mette a fuoco gli aspetti legati all’organizzazione del tempo
lavorativo e all’orario di lavoro. Alcuni dispositivi in grado di sollecitare il potenziale di motivazione intrinseca
presente nelle attività di lavoro: la settimana di lavoro compresa; l’orario di lavoro flessibile; il job sharing; il
telelavoro. Queste modalità di organizzazione del lavoro risultano motivanti anche grazie al contributo che offrono
alla riduzione del conflitto lavoro-famiglia e lavoro-vita personale.
Il Management by Objectives
Il Management by Objectives (MBO) è una metodologia che implica la definizione degli obiettivi affidati a ciascun
attore organizzativo, unita a un atteso monitoraggio e a una sistematica valutazione, prevedendo anche la
partecipazione del dipendente a ciascuna fase di questo processo. Tale formula, proposta da Drucker, ha trovato ampia
applicazione grazie anche alla possibilità di legarsi a politiche di compensation che a fianco della retribuzione fissa,
prevedono una quota di ricompensa variabile legata alla misura in cui gli obiettivi vengono raggiunti. Tra i passaggi
da compiere per attuare una politica MBO ricordiamo: l’individuazione condivisa degli obiettivi, la specificazione in
termini misurabili del risultato atteso, l’assegnazione di un traguardo temporale, il monitoraggio a intervalli regolari
dei risultati raggiunti.
Esistono due principali classi di obiettivi:
 gli obiettivi di contributo: hanno a che fare con le prestazioni che il collaboratore deve fornire e possono
riguardare sia il risultato ottenuto con la prestazione, sia le sue modalità di svolgimento;
 gli obiettivi di competenza: riguardano l’acquisizione di conoscenze e capacità importanti per raggiungere gli
obiettivi di contributo.
Giustizia organizzativa
La teoria di Adams ha favorito lo sviluppo di un ambito di ricerca e intervento sul tema della giustizia organizzativa,
che si propone di promuovere la percezione di equità all’interno dei contesti lavorativi. Il senso di giustizia si articola
in tre componenti:
 giustizia distributiva: riguarda l’equità con cui le ricompense vengono assegnate;
 giustizia procedurale: relativa al processo mediante il quale tali ricompense vengono assegnate;
 giustizia interazionale: inerente alla qualità della relazione tra coloro che hanno funzioni amministrative, di
controllo e valutazione e coloro che vengono controllati e valutati. Riguarda il rispetto, la cortesia, l’empatia
ecc.
Colquitt suggerisce che la giustizia interazionale è composta da due componenti: la giustizia interpersonale e la
giustizia informazionale. La prima, si riferisce agli aspetti menzionati (rispetto, empatia ecc), la seconda si riferisce
all’adeguatezza delle spiegazioni offerte in termini di tempestività, specificità e veridicità.
Secondo studi meta-analitici le tre forme di giustizia sono correlate positivamente con la motivazione e negativamente
con l’intenzione di lasciare l’azienda e il turnover.
Partecipazione
Un’ulteriore leva motivazionale da considerare è la partecipazione. Già negli anni ’60 MacGregor aveva rivolto a
un’intera generazione di manager l’invito di abbandonare la “filosofia X”, secondo cui gli esseri umani sono
fondamentalmente indolenti e dunque bisognosi di direzione e controllo, a favore di una “filosofia Y”, che assume che
le persone siano orientate alla crescita, all’assunzione di responsabilità e al lavoro. In altre parole, passare da uno stile
gestionale “autoritario” a uno stile “partecipativo”. A partire dalla proposta di McGregor, il concetto di
partecipazione ha conosciuto un ampio sviluppo e viene attualmente considerato un imprescindibile strumento a
sostegno della motivazione. Vi sono differenti aree in cui è possibile realizzare una più alta partecipazione:
 la trasformazione degli obiettivi generali in obiettivi specifici;
 la presa di decisione;
 l’individuazione, l’analisi e soluzione dei problemi;
 la definizione di valori e politiche aziendali;
 l’attuazione e il monitoraggio degli interventi di cambiamento;
 il controllo sulle risorse (strumenti, budget, consulenti).
Tra i vantaggi dello stile gestionale partecipativo vi sono: il miglioramento delle prestazioni e della produttività,
aumento della qualità e dell'attenzione al cliente e la diminuzione della competitività negativa.
Alcune forme di partecipazione sono:
 i circoli di qualità, cioè gruppi di lavoro formati da 5-10 colleghi impegnati in un medesimo processo di
produzione, al fine di discutere dei problemi di qualità relativi al processo in questione: diagnosticarne le
cause, individuare soluzioni e valutarne gli esiti.
 i gruppi di lavoro autogestiti, cioè unità produttive con una composizione stabile, responsabili di un intero
processo di lavoro e in grado di prendere decisioni autonomamente.
Negli ultimi anni il tema della partecipazione si è legato a quello dell’empowerment. Questo termine, che in
precedenza veniva utilizzato per indicare la delega di autorità e responsabilità dai capi ai collaboratori, è ora sinonimo
di un orientamento gestionale volto a valorizzare le risorse umane dell’organizzazione, consentendo loro di avere una
reale influenza sui processi e sui contesti di lavoro.
La ricerca per la diagnosi e l’intervento organizzativo
Frequentemente le organizzazioni realizzano interventi finalizzati a sostenere e promuovere la motivazione ma non
effettuano una diagnosi preliminare del proprio “profilo motivazionale”. Giustificano questo modus operandi
ammettendo la difficoltà nel mettere a punto indicatori del livello di motivazione. Tuttavia, vi sono differenti costrutti
che offrono una definizione operativa della motivazione e che possono essere utilizzati nell’ambito della ricerca
organizzativa: il job involvement, l’organizational commitment, l’organizational citizenship, l’engagement e il flow at
work.
Job involvement
Il job involvement indica “l’attaccamento al proprio lavoro” o “il grado con cui un individuo si identifica con il
proprio lavoro”. Lodahl e Kejner hanno messo a punto un questionario per la sua misurazione composto da 25 item e
comprende aspetti quali la centralità, l’importanza del lavoro nella propria vita, il senso del dovere e la disponibilità a
fare sacrifici.
Organizational commitment
L’organizational commitment indica “l’attaccamento alla propria organizzazione” esprimendo la qualità del legame di
appartenenza che l’individuo sperimenta. Tre possibili forme in cui tale legame può manifestarsi:
 l’affective commitment: attaccamento affettivo all’organizzazione, quando prevale gli individui restano
nell’organizzazione perché lo vogliono.
 il continuance commitment: percezione di convenienza in termini costi-benefici a non interrompere il rapporto
con l’organizzazione, quando prevale gli individui restano perché ne hanno bisogno.
 il normative commitment: obbligo morale a rimanere nell’organizzazione, quando prevale gli individui restano
perché si sentono obbligati.
Allen e Meyer hanno messo a punto un questionario in grado di misurare il livello delle tre differenti dimensioni
dell’organizational commitment, è costituito da 25 item, 10 per l’affective, 7 per il continuance, 8 per il normative.
Organizational citizenship
Un altro costrutto che sta trovando ampio spazio nella ricerca organizzativa mette a fuoco il concetto di cittadinanza
organizzativa, che qualifica i comportamenti che favoriscono l’efficacia dell’organizzazione pur non essendo né
specificati o imposti dal contratto di lavoro. Benché siano stati classificati oltre 20 categorie di OCB la tipologia di
riferimento è quella proposta da Organ che individua cinque componenti:
 coscienziosità: si riferisce a quei comportamenti che indicano una particolare cura nello svolgimento del
proprio lavoro;
 virtù civica: include i comportamenti che evidenziano un forte senso di responsabilità nei confronti
dell’organizzazione;
 sportività: è relativa alla manifestazione di un atteggiamento positivo di lealtà nei confronti dell’azienda;
altruismo: confluiscono qui i comportamenti che esprimono disponibilità ad aiutare i colleghi nello
svolgimento dei loro compiti;
 cortesia: comprende le azioni che dimostrano una particolare premura nell’instaurare relazioni improntate alla
gentilezza e alla cooperazione.
Podsakoff, MacKenzie, Moorman e Fetter hanno formulato un questionario per la misurazione di questi cinque OCB,
utilizzabile ai fini della valutazione della frequenza con cui vengono messi in atto.
Engagement e flow at work
Per misurare il livello di engagement Schaufeli, Bakker e Salanova hanno elaborato l’Utrecht Work Engagement
Scale (UWES) composto da 16 item articolati nelle tre componenti del vigore, dedizione e assorbimento. Per misurare
il flow at work è stato creato il Work-reLated Flow Inventory (WOLF) messo a punto da Bakker, composto da13 item
che indicano le tre dimensioni dell'assorbimento, piacere lavorativo e motivazione intrinseca al lavoro.
Capitolo 7
La soddisfazione lavorativa
Il costrutto di soddisfazione lavorativa (job satisfaction) ha suscitato un crescente interesse che l’ha portato a essere
“la misura di atteggiamento più ampiamente utilizzata nella ricerca organizzativa”.
Definizione ed evoluzione del costrutto di soddisfazione lavorativa
In letteratura si riscontra un sostanziale accordo nel considerare la soddisfazione lavorativa ( job satisfaction) un
atteggiamento, Locke la definisce “Un piacevole o positivo stato emotivo dovuto all’apprezzamento del proprio
lavoro”. La soddisfazione lavorativa come atteggiamento esamina tre componenti: emozione, cognizione e
comportamento. L’origine degli studi sulla soddisfazione lavorativa è stata certamente facilitata da due fenomeni
convergenti:
1. da un lato il movimento delle Human Relations che ha ipotizzato che i lavoratori soddisfatti saranno anche più
motivati, ovvero più propensi quantitativamente e qualitativamente migliori;
2. dall’altro lato gli studi sulla misurazione degli atteggiamenti che si sono dedicati a operazionalizzare e rendere
quantificabili le variabili psicologiche, tra le quali la soddisfazione stessa.
Più recentemente, ulteriori fattori hanno contribuito alla popolarità della soddisfazione lavorativa:
 il legame tra soddisfazione lavorativa e life satisfaction (soddisfazione per la vita in generale);
 il proposito di limitare il turnover, in particolare l’uscita dall’organizzazione delle persone più competenti e
motivate;
 gli effetti della soddisfazione lavorativa sulla soddisfazione dei clienti, in particolare nell’ambito dei servizi.
Anche il Total Quality Management (TMQ) che ha riconosciuto al lavoratore lo status di cliente, ha reso centrale il
costrutto di soddisfazione lavorativa. Seguendo i principi del TMQ l’organizzazione deve adottare strategie per
monitorare e migliorare la soddisfazione del cliente, sia esterno sia interno: un lavoratore soddisfatto non lascia
l’organizzazione, pone maggiore attenzione al proprio cliente, realizza buone prestazioni ed è stimolato a proporre
suggerimenti per il miglioramento dell’organizzazione.
In pratica, + soddisfazione= migliori prestazioni.
Anche per quanto riguarda il marketing, le ricerche focalizzate sulla soddisfazione del cliente hanno trovato nella
logica del cliente interno un valido settore di applicazione.
Negli ultimi anni un crescente numero di ricercatori sta proponendo di sostituire il costrutto di soddisfazione
lavorativa con quello, più ampio e inclusivo, di “benessere psicologico”. La soddisfazione lavorativa esercita un ruolo
di mediazione tra la percezione di opportunità di sviluppo professionale e la disponibilità a fare sforzi aggiuntivi per
raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione: cioè tra i soggetti che percepiscono la presenza di buone opportunità di
sviluppo professionale, solo quelli soddisfatti saranno anche disponibili a fare sforzi aggiuntivi.
Dagli studi sulla soddisfazione è possibile trarre indicazioni operative di facile interpretazione, utilizzabili per
progettare interventi mirati a ottenere una migliore qualità della vita lavorativa.
I contenuti della soddisfazione lavorativa
Vi sono due possibili modi di intendere la soddisfazione lavorativa: come un atteggiamento oppure come una somma
di atteggiamenti parziali, si distingue perciò:
- la soddisfazione generale;
- la soddisfazione relativa a differenti aspetti dell’esperienza di lavoro in organizzazione.
Le ricerche basate sulla soddisfazione relativa presentano una problematica particolarmente rilevante, cioè che non
esiste nessuna classificazione dei contenuti della soddisfazione che abbia ottenuto pieno riconoscimento da parte della
comunità scientifica.
Un’approfondita meta-analisi dei fattori presenti in 27 questionari di soddisfazione lavorativa, compiuta da van Saane,
Sluiter, Verbeek e Frings-Dresen, ha consentito di far confluire questi fattori in 11 aree tematiche che possono essere
considerate rappresentative dei contenuti della soddisfazione, anche se non è ancora stato proposto alcune
ragionamento sulla completezza di tale elenco: Contenuti del lavoro, Autonomia, Crescita/Sviluppo, Riconoscimento
economico, Carriera, Supervisione, Comunicazione, Collaborazione, Significato, Carico di lavoro, Richieste.
Nel contesto italiano, Cortese ha utilizzato un approccio qualitativo-quantitativo che ha consentito di individuare otto
principali contenuti della soddisfazione lavorativa, in parte sovrapponibili con quelli delle 11 macroaree: compito e
sviluppo, organizzazione e comunicazione, clima, contratto, immagine, contesto, valutazione e carico di lavoro.
Teorie e modelli
I principali modelli che hanno contribuito allo studio della soddisfazione lavorativa:
 Modelli cognitivi> ci si è focalizzati sull’aspetto cognitivo della soddisfazione lavorativa, cioè individuare le
modalità che portano le persone a soppesare tutti gli elementi in gioco per poi stabilire il proprio livello di
soddisfazione. Rappresentativo di tale approccio è il Facet Model di Lawler, che indica l’origine della
soddisfazione nel confronto tra ricompense ricevute e ricompense attese: se quanto ricevuto è inferiore a
quanto atteso, vi sarà insoddisfazione; se i due aspetti saranno allineati vi sarà soddisfazione; se quanto
ricevuto è superiore a quanto atteso, l’individuo proverà disagio.
La stima delle ricompense attese viene effettuata dall’individuo in base a tre elementi: ciò che ritiene di
offrire, il confronto tra input offerto e ricompense ricevute dagli altri soggetti scelti come riferimento, le
caratteristiche del lavoro in sé.
L’individuo per valutare le ricompense ricevute opera un confronto tra sé e gli altri verificando se ciò che ha
ricevuto risulta in linea con quanto hanno avuto i soggetti scelti come riferimento o si colloca a un livello
superiore/inferiore.
 Modello delle caratteristiche del lavoro> Hackman e Oldham hanno proposto il Job Characteristics Model,
con l’obiettivo di precisare le relazioni tra caratteristiche del lavoro, reazioni individuali dei lavoratori (stati
psicologici) e soddisfazione lavorativa.
Nel modello vengono proposte cinque dimensioni (varietà delle abilità, identità del compito, importanza del
compito, autonomia e feedback) che portano a tre stati psicologici (significato del lavoro, responsabilità e
conoscenza dei risultati), i quali producono risultati in termini di soddisfazione lavorativa, soddisfazione per
lo sviluppo personale, motivazione ed efficacia lavorativa.
I collegamenti tra dimensioni del lavoro e stati psicologici e tra stati psicologici e risultati sono moderati dal
“bisogno di crescita” (GNS: Growth Need Strength) percepito da ciascun lavoratore. Quando gli stati
psicologici (significato del lavoro, responsabilità e conoscenza dei risultati) sono tutti presenti si sviluppa
maggiore soddisfazione lavorativa.
Il potenziale motivazionale (MPS: Motivating Potential Score) di un’attività lavorativa può essere calcolato
combinando i punteggi attribuiti a ciascuna delle cinque dimensioni individuate con la seguente formula:
( identità+ varietà+importanza )
x autonomia x feedback
3
 Modelli disposizionali> Molti autori hanno individuato correlazioni significative tra alcuni tratti di personalità
(come l’estroversione e la coscienziosità) e la soddisfazione lavorativa. Secondo Judge, Locke, Ducham e
Kluger un’influenza sulla soddisfazione lavorativa e sulla vita in generale è esercitata dalla Core Self-
Evaluation (CSE), costrutto di personalità determinato da autoefficacia, autostima, assenza di pessimismo e
locus of control interno. Successivamente il CSE è stato messo in relazione con le caratteristiche dell’obiettivo
lavorativo. Più recentemente si è riscontrata un'associazione tra il livello di soddisfazione lavorativa e la
struttura di personalità utilizzando il modello Big Five e quello
della personalità di tipo A e di tipo B.
 Modelli basati sulle emozioni> Vi sono anche studi che si propongono di considerare l’aspetto emotivo insito
nel costrutto. L’Affective Events Theory di Weiss e Cropanzano pone l’accento sull’influenza esercitata dagli
eventi quotidiani sulle emozioni che accompagnano gli stati di soddisfazione o insoddisfazione. I risultati
delle ricerche ispirati a questa teoria (generalmente utilizzano metodi di indagine qualitativi come narrazione,
diari) evidenziano come gli eventi negativi abbiano un effetto sulle emozioni notevolmente superiore rispetto
agli eventi positivi, producendo uno stato di insoddisfazione che è all’origine dei counterproductive
workplace behaviors (comportamenti controproduttivi). Come sostenuto da Judge, Scott e Ilies un
comportamento controproduttivo rispetto alla propria organizzazione deriva con maggiore probabilità da uno
stato emotivo ostile piuttosto che da caratteristiche disposizionali. Per contro, le esperienze positive sul posto
di lavoro contribuiscono a produrre soddisfazione, riducendo la sensazione di fatica e aumentando la
percezione di benessere psicologico generale.
Antecedenti e conseguenze della soddisfazione lavorativa
Gli antecedenti della soddisfazione lavorativa possono essere classificati in due principali categorie: la prima fa
riferimento alle caratteristiche del lavoro, la seconda fa riferimento alle caratteristiche individuali. La teoria più
diffusa circa l’influenza delle caratteristiche del lavoro sulla soddisfazione è quella di Hackman e Oldham, ma anche
Peters e O’Connor hanno proposto un modello generale che individua otto condizioni presenti nell’ambiente di lavoro,
chiamate costrittività organizzative, capaci di interferire con le prestazioni che risultano collegate alla soddisfazione
lavorativa. Es di costrittività: la mancanza di informazioni, l’inadeguatezza degli strumenti, l’insufficienza delle
risorse economiche, i tempi troppo stretti. I lavoratori che percepiscono un alto livello di costrittività tendono a essere
meno soddisfatti del loro lavoro.
Altre ricerche hanno indagato aspetti più specifici che correlano con la soddisfazione, tra i quali:
 Il ruolo: sia l’ambiguità di ruolo, cioè l’incertezza circa le proprie responsabilità, sia il conflitto di ruolo, cioè
l’incompatibilità tra le differenti richieste che si ricevono;
 Il carico di lavoro, se troppo pesante;
 Il controllo sul proprio lavoro;
 Gli orari;
 Il conflitto lavoro-famiglia;
 Le politiche di gestione delle risorse umane (HR management) messe in atto dall’azienda;
 La relazione con i superiori e colleghi;
Non sono invece risultati correlati in maniera significativa con la soddisfazione aspetti come l’ammontare della
retribuzione, il lavoro notturno, il genere e l’età. Per quanto riguarda l’orientamento sessuale, invece, ricerche hanno
evidenziato un incremento della soddisfazione lavorativa tra i lavoratori omossessuali che hanno deciso di rendere
noto il proprio orientamento all’interno del contesto lavorativo.
A proposito delle caratteristiche individuali risulta interessante lo studio di Arvey, Bouchard, Segal e Abraham
condotto sulle coppie di gemelli, che ha evidenziato come il 30% della varianza della soddisfazione lavorativa può
essere spiegato da fattori genetici. I tratti di personalità ritenuti maggiormente legati alla soddisfazione lavorativa sono
il locus of control e l’affettività negativa. Più precisamente: chi possiede un locus of control interno esprime una
soddisfazione lavorativa più elevata; chi sperimenta un’alta affettività negativa (emozioni negative) esprime una
soddisfazione più bassa.
Le conseguenze
La prima conseguenza della soddisfazione lavorativa indagata è stata la prestazione. Altre ricerche hanno preso in
esame anche il legame tra soddisfazione e comportamenti di cittadinanza organizzativa (OCB) ma la correlazione
riscontrata è risultata modesta. Discorso differente per quanto riguarda le ricerche relativi ai comportamenti di ritiro,
come l’assenteismo, il turnover e i counterproductive workplace behaviors.
Per l’assenteismo le ricerche hanno indicato correlazioni modeste o assenti. Per il turnover invece si è visto come esso
sia risultante dell’insoddisfazione. Allo stesso modo anche la correlazione tra soddisfazione per il lavoro e intenzione
di lasciare il lavoro risulta elevata.
Tra gli esiti della soddisfazione lavorativa vengono considerati anche il burnout, la salute e il benessere psicologico.
 Il burnout> è uno stato di sofferenza psicologica che si manifesta come senso di esaurimento,
depersonalizzazione e ridotta efficacia personale.
 Salute> Palmore ha suggerito che l’insoddisfazione lavorativa determina una minor prospettiva di vita,
riportando molte correlazioni positive tra manifestazioni di malessere e i vissuti di insoddisfazione.
 Benessere psicologico> correla positivamente con la soddisfazione lavorativa, mentre quest’ultima correla
negativamente con l’ansia e la depressione.
Alcuni studi si sono occupati di analizzare la relazione tra soddisfazione lavorativa e soddisfazione per la vita in
generale, considerata anch’essa come una misura di benessere psicologico. Le ipotesi formulate hanno considerato tre
alternative:
- Ciò che viene vissuto nell’ambiente lavorativo compensa ciò che è esterno a esso (compensation)
- Ciò che accade in un ambiente si riversa nell’altro (spillover)
- Tra i due aspetti non c’è legame (segmentation)
Strumenti per misurare la soddisfazione lavorativa
Il livello di soddisfazione percepita da uno stesso individuo può variare nel corso della vita professionale in funzione
dei differenti contesti di lavoro. Fondamentale risulta disporre di adeguati strumenti di rilevazione della soddisfazione,
in grado di offrire misure sia di tipo generale sia di tipo specifico poiché gli individui possono essere soddisfatti di un
aspetto e insoddisfatti di un altro. Le ricerche sul campo si avvalgono principalmente di strumenti quantitativi, ovvero
di questionari, ma vi sono anche studi di tipo esplorativo che vengono realizzati partendo da un approccio qualitativo
tramite interviste e focus group, cioè osservazioni dirette nei contesti di lavoro.
Esempi di questionari
Vi sono strumenti di tipo monodimensionale, capaci di misurare la soddisfazione complessiva e strumenti di tipo
multidimensionale, capaci di individuare il livello di soddisfazione in ciascuna delle sue componenti. Gli strumenti di
tipo multidimensionale si suddividono poi in: generalisti, capaci di misurare il livello di soddisfazione relativo a
qualsiasi attività di lavoro e dedicati, indirizzati a misurare una specifica area di attività.
Tra gli strumenti monodimensionali il più noto è la Job in General Scale (JIG) composta da 18 item con tre alternative
di risposta (si/no/non so). Tra i più noti strumenti multidimensionali generalisti vi è il Job Satisfaction Survey (JSS) di
Spector e il Job Descriptive Index (JDI) di Smith, Kendall e Hulin. Il JSS si compone di 36 item e comprende nove
sottoscale:
o Retribuzione o Procedure operative/carico di lavoro
o Promozione o Collaborazione
o Supervisione o Attività
o Benefit o Comunicazione
o Riconoscimento
Il JDI si compone di 72 item riconducibili a cinque fattori: carriera, colleghi, retribuzione, supervisione, tipo di
attività.
Tra gli strumenti dedicati invece vi sono la McCloskey/Muller Satisfaction Scale (MMSS) che viene utilizzata per la
misurazione della soddisfazione per il lavoro nel settore infermieristico. Si compone di 31 item articolati in otto
sottoscale:
o Ricompensa estrinseca
o Organizzazione
o Conciliazione lavoro-famiglia
o Collaborazione
o Interazione
o Sviluppo professionale
o Riconoscimento
o Controllo/responsabilità
Tra gli adattamenti italiani vi è quello dell’Occupational Stress Indicator (OSI) di Cooper, Sloan e Williams
contenente una scala di soddisfazione lavorativa che valuta la carriera, il lavoro in sé, l’impostazione e la struttura
organizzativa, i processi organizzativi e le relazioni interpersonali, e quello dell’Index of Work Satisfaction (IWS) di
Stamps per l’analisi della soddisfazione lavorativa del personale infermieristico.
Misure analitiche e misure generali
I ricercatori che promuovono l’utilizzo dei questionari analitici frequentemente non rinunciano a disporre di una
misura della soddisfazione lavorativa globale, che viene ottenuta sommando i punteggi delle diverse sottoscale e si
arriva a una misura “composta” della soddisfazione.
Molti autori però considerano questo modo di procedere errato in quanto i questionari specifici possono omettere delle
componenti di soddisfazione che invece sono importanti per l’individuo quando formula il proprio giudizio in termini
generali e possono includere, invece, componenti che l’individuo non considera significative.
Pertanto, quando si intende valutare la soddisfazione generale, è più utile utilizzare uno strumento specificamente
dedicato ad essa piuttosto che una misura composta.
Nuove frontiere della ricerca
Lavoratori interinali e soddisfazione lavorativa
Lavoratori interinali= lavoratori temporanei
Il lavoro somministrato si configura come una situazione in cui per il lavoratore vi sono due organizzazioni di
riferimento: l’agenzia che lo assume e l’azienda in cui egli presta il proprio lavoro. Una delle più importanti ricerche
sull’incidenza della condizione di lavoro somministrato rispetto alla soddisfazione lavorativa è stata condotta da Torka
e Schyns in Olanda, mediante 54 interviste semi-strutturate a lavoratori di sesso maschile ed età compresa tra i 18 e i
60 anni, che prestavano la loro opera in due grandi industrie metalmeccaniche. I risultati ottenuti hanno indicato una
sostanziale scelta volontaria del lavoro somministrato, vissuto non come un ripiego bensì come un’opportunità per
aumentare la propria professionalità. I ricercatori non hanno riscontrato differenze significative di soddisfazione tra i
lavoratori a tempo indeterminato e i lavoratori temporanei, spiegando tale assenza di differenze con gli orientamenti
gestionali delle aziende, che prevedono modalità di gestione analoghe per tutti i lavoratori in termini di caratteristiche
del lavoro svolto, occasioni di mobilità, partecipazione a iniziative di formazione/sviluppo professionale. Le
differenze presenti non sono riconducibili al tipo di contratto. Per questa ragione, gli autori insistono sull’importanza
di attuare politiche di gestione delle risorse umane attente a non creare discriminazioni e iniquità tra chi svolge un
lavoro somministrato e chi è dipendente diretto dell’azienda. Essi precisano, inoltre, come sia essenziale distinguere
tra lavoratori temporanei volontari e involontari. Chi lavora in modo somministrato per scelta percepisce maggiore
soddisfazione rispetto a chi considera il lavoro somministrato un ripiego.
Nel contesto italiano, Argentero, Dal Corso e Vidotto hanno realizzato una ricerca in cui vengono studiati gli effetti
sulla soddisfazione lavorativa della motivazione al lavoro somministrato, delle opinioni verso il lavoro somministrato
e della fiducia e soddisfazione per l’operato dell’agenzia, interpellando 389 lavoratori.
Gli esiti di tale ricerca evidenziano come il fattore più rilevante per predire il livello di soddisfazione lavorativa sia il
grado di fiducia e soddisfazione per l’operato dell’agenzia. Diversamente dallo studio in Olanda, la soddisfazione
lavorativa è determinata dal legame tra lavoratore e agenzia, e non dalle caratteristiche dell’azienda in cui viene
prestata la propria attività lavorativa.
Personale infermieristico e soddisfazione lavorativa
Uno dei principali problemi che le organizzazioni sanitarie si trovano attualmente ad affrontare è rappresentato dalla
carenza di personale infermieristico, che affligge molti paesi.
A causa di questa criticità le organizzazioni sanitare sono tese a incrementare la loro attrattività sia nei confronti del
personale infermieristico già in servizio, al fine di trattenerlo, sia nei confronti del personale infermieristico
disponibile sul mercato del lavoro al fine di disporre di una più ampia base di candidati tra i quale operare la selezione.
Sono stati condotti numerosi studi finalizzati a comprendere le ragioni dell’uscita volontaria del personale
infermieristico dalle organizzazioni sanitarie e a identificare esempi di buone pratiche in grado di contrastare tale
fenomeno. Tali studi hanno consentito di individuare un insieme di variabili in grado di influenzare il turnover del
personale infermieristico, tra le quali la soddisfazione lavorativa occupa un ruolo fondamentale, infatti, la
soddisfazione lavorativa viene considerata il primo fattore causa del turnover nell’ambito della professione
infermieristica.
Molte ricerche soprattutto di tipo qualitativo si sono dedicate all’individuazione e all’analisi dei fattori che
contribuiscono alla soddisfazione lavorativa del personale infermieristico. Per quanto riguarda il contesto italiano, lo
studio di Cortese ha consentito di individuare cinque principali contenuti della soddisfazione lavorativa:
 Caratteristiche delle attività di lavoro;
 Relazioni con i colleghi;
 Responsabilità, autonomia e crescita personale;
 Relazioni con i pazienti e le famiglie;
 Relazioni con il coordinatore.
Una successiva ricerca di carattere quantitativo ha evidenziato come il conflitto lavoro-famiglia, il carico di lavoro e le
richieste lavorative diminuiscano la percezione di soddisfazione lavorativa, mentre il supporto del management e dei
colleghi la incrementano.
I risultati ottenuti con ricerche di questo tipo possono consentire di mettere a punto azioni di intervento volte a
sostenere e promuovere la soddisfazione lavorativa, indirizzate sia agli infermieri stessi, sia ai loro capi o
all’organizzazione nel suo complesso.
Capitolo 8
Il benessere lavorativo
L’interesse scientifico riferito al rapporto tra lavoro e benessere per molti anni si è basato sullo studio dei fattori di
rischio di tipo fisico, chimico e biologico in grado di provocare danni alla salute dei lavoratori, recentemente si è posta
però maggiore attenzione all’insieme di variabili che possono incidere sullo stato di benessere o sofferenza
psicologica derivante dall’esperienza lavorativa
Il modello job demands-resources
Il modello JD-R costituisce il più importante riferimento teorico per l’analisi dei vissuti di benessere e di sofferenza
psicologica che hanno origine nei contesti lavorativi. Il modello è nato sulla scorta di precedenti approcci allo studio
delle dinamiche psicologiche in ambito lavorativo con l’obiettivo di superarne i limiti. Tali approcci da un lato hanno
eccessivamente semplificato il quadro di variabili che influiscono sulla genesi del benessere, dall’altro non
considerano alcune specifiche caratteristiche che oggi qualificano le differenti occupazioni in modo ben diverso dal
passato. La principale caratteristica a cui il modello JD-R deve la sua popolarità è la flessibilità: possono essere
incluse al suo interno differenti variabili, da definire in funzione degli specifici contesti in cui lo si vuole utilizzare,
così come dei soggetti che si intende coinvolgere. Questa flessibilità si deve al fatto che il modello prevede la
classificazione dei fattori che influiscono sul benessere in due categorie generali: quelli riferibili alle richieste
lavorative (job demands) e quelli riferibili alle risorse lavorative (job resources).
 Le richieste> sono aspetti fisici, sociali o organizzativi che richiedono uno sforzo fisico o mentale, e quindi
associati ad alcuni costi fisiologici o psicologici.
 Le risorse> sono aspetti fisici, sociali o organizzativi caratterizzati da uno o più aspetti: sono funzionali al
raggiungimento degli obiettivi lavorativi, riducono le richieste lavorative e i costi fisiologici e psicologici
associati, stimolano la crescita e lo sviluppo personale.
L’equilibrio o il mancato equilibrio tra le richieste e le risorse ha implicazioni sull’engagement e sull’esaurimento,
aspetti che risultano in relazione sia con la prestazione lavorativa, ma anche tra loro.
Dalle ricerche è emerso che le risorse svolgono il loro ruolo protettivo in maniera più forte in presenza di altrettante
forti richieste lavorative; quindi, ciò favorisce l’engagement ed è condizione per il manifestarsi del flow at work.
Per quanto riguarda le richieste lavorative, si possono distinguere in due tipi:
- Le challenge demands> ovvero quelle che pur richiedendo uno sforzo da parte del lavoratore portano alla
crescita e aumentano energia, impegno e vigore;
- Le hindrance demands> ovvero quelle che richiedono uno sforzo ma ostacolano la crescita e
l’apprendimento, causando danni alla salute e alla motivazione del lavoratore.
Entrambi i tipi di richieste correlano positivamente con la presenza di burnout tra i lavoratori.
Anche le risorse lavorative si possono distinguere in due tipi:
- Le risorse lavorative> fanno riferimento ad aspetti quali disponibilità di informazioni, il supporto dei capi
e dei colleghi, la presenza di feedback sulle prestazioni;
- Le risorse personali> fanno riferimento alle autovalutazioni positive che influenzano la percezione delle
proprie abilità e capacità di controllare e agire con successo sul proprio ambiente. Queste autovalutazioni
impattano positivamente sulla motivazione e sulla soddisfazione degli individui, incrementando le
prestazioni.
Un’ulteriore variabile, denominata job crafting si riferisce al tentativo dell’individuo di modellare il proprio lavoro. Si
parla di job crafting per indicare l’insieme dei cambiamenti che i dipendenti attuano per ridefinire il proprio lavoro in
modo da esprimere le proprie competenze e soddisfare i propri interessi e bisogni.
Modello JD-R e intervento nelle organizzazioni
Per applicare il modello JD-R nella pratica degli interventi in organizzazione viene proposto un processo articolato in
8 tappe, definito JD-R Monitor:
1. Definizione della situazione e del problema> ha inizio quando un'organizzazione riconosce di avere un
problema;
2. Progettazione dell'intervento> si cerca di individuare le specifiche richieste e risorse, e di formulare ipotesi
circa le relazioni tra le diverse variabili e gli esiti comportamentali che ne possono derivare;
3. Comunicazione interna all'organizzazione> per informare i lavoratori del processo che si sta mettendo in atto
è necessaria una campagna di comunicazione (avvisi tramite email, riunioni)
4. Raccolta dei dati> viene inviata a tutti i lavoratori una email con un link grazie al quale essi possono
compilare il questionario, che deve essere anonimo e volontario. I dati sono accessibili solo ai ricercatori;
5. Analisi e report> vengono analizzati i dati ottenuti da tutti i lavoratori dell’organizzazione e viene redatto un
report generale in base ai risultati ottenuti;
6. Restituzione dei risultati> vengono presentati ai lavoratori i risultati dello studio e con loro discussi in maniera
critica;
7. Interventi> in questa fase vengono messi in atto a diversi livelli gli interventi più opportuni in base ai risultati
ottenuti nelle tappe precedenti. Tali interventi possono essere di diversi tipi. A livello individuale, i lavoratori
potranno essere incoraggiati a cercare di ridurre le richieste e a incrementare le risorse. A livello
organizzativo, potranno essere sviluppati dei programmi di apprendimenti e informazione.
8. Valutazione> non è una vera e propria tappa, perché consiste nel riapplicare dall’inizio le diverse fasi del JD-
R Monitor, è una fase essenziale per verificare se il processo è stato utile, se sono state apportate le modifiche
giuste e se sono stati ottenuti i risultati desiderati.
Il Job crafting
Parker e Ohly hanno sostenuto che gli individui possono impegnarsi attivamente per modificare le caratteristiche del
proprio lavoro, scegliendo compiti o priorità, negoziando i contenuti o riconoscendo in ciò che fanno dei significati
nuovi e non previsti.
Questo processo si chiama job crafting ed è definibile come l’insieme dei cambiamenti materiali o cognitivi che le
persone apportano ai loro compiti o alle loro relazioni di lavoro.
I cambiamenti materiali si riferiscono agli obiettivi perseguiti con le proprie attività o relazioni lavorative, alla loro
forma, al loro numero e al loro contenuto. Mentre i cambiamenti cognitivi si riferiscono al modo in cui si percepisce il
proprio lavoro.
Il costrutto di job crafting è stato riletto alla luce del JD-R Model e in questa prospettiva è stato ridefinito come
l’insieme dei cambiamenti che i lavoratori possono fare per modificare il sistema di richieste e di risorse lavorative.
Questa rilettura da un lato incrementa le possibili modalità con cui il job crafting può esprimersi, in quanto l’elenco di
richieste e risorse è potenzialmente molto ampio, dall’altro esclude le modalità di ordine cognitivo, cioè il significato
che le persone attribuiscono al proprio lavoro (non compreso nel JD-R Model). Il job crafting si può esprimere
mediante tre tipi diversi di comportamenti:
- L’aumento delle risorse lavorative, sia di tipo strutturale, sia di tipo sociale;
- L’aumento delle challenge demands;
- La diminuzione delle hindrance demands.
I comportamenti di job crafting hanno esiti positivi sia per l’individuo sia per l’organizzazione nel suo complesso.
È stata sottolineata l’importanza del job crafting nel processo di adattamento dell’organizzazione alle trasformazioni
che avvengono nel proprio ambiente di riferimento. Inoltre, come esito di alcune modalità di job crafting (in
particolare quelle volte a ridurre le hindrance demands) sono stati riscontrati diminuzioni delle prestazioni e un
aumento dei counterproductive workplace behaviors.
La propensione al job crafting si può misurare con la Dutch Job Crafting Scale (JCS) di Tims, Bakker e Derks, un
questionario composto da 21 item che convergono in quattro fattori: incremento delle risorse strutturali, incremento
delle risorse sociali, incremento delle challenge demands e diminuzione delle hindrance demands. Il quarto fattore
rispetto ai tre pare di natura diversa in quanto non è correlato all’engagement e ai comportamenti di cittadinanza
organizzativa e non produce un aumento di motivazione.
La versione italiana di questa scala si compone di 13 item e prende in considerazione solo i primi tre fattori.
Il recovery
Il tempo dedicato al recupero gioca un ruolo determinante nella possibilità di raggiungere uno stato di benessere
psicofisico. Con l’espressione recovery from work (recupero dal lavoro) si fa riferimento al processo psicologico nel
corso del quale il sistema di funzionamento dell’individuo, che è stato attivato durante un’esperienza stressante, quella
lavorativa, ritorna ai livelli pre-stressor in cui vengono ridotti o eliminati i sintomi di stress fisico e psicologico. Se il
recovery non è sufficiente, l’individuo non riesce a recuperare le energie e risorse spese durante il lavoro e il giorno
successivo dovrà fare uno sforzo maggiore per mantenere soddisfacenti livelli di prestazione. Il recovery è un
processo che ha luogo al termine della giornata lavorativa, ma anche durante i weekend, nei periodi di ferie o nei brevi
momenti di pausa.
Vi sono due teorie psicologiche per comprendere il funzionamento delle esperienze di recovery:
- Il modello effort-recovery (sforzo-recupero) di Meijman e Mulder, 1998, che sostiene che gli sforzi
mentali e/o fisici fatti durante l’attività lavorativa causano un senso di fatica che si riduce nel momento in
cui cessano le richieste e si attiva il processo di recovery. Una condizione necessaria affinché ciò avvenga
è che i sistemi di funzionamento attivati durante il lavoro non vengano stimolati e utilizzati dall’individuo
durante il tempo libero.
- La teoria della conservation of resources (conservazione delle risorse) di Hobfoll, 1998, che assume che
le persone tendano a mantenere e proteggere le loro risorse, sia esterne sia interne, quali caratteristiche
personali, energie e umore positivo.
È inoltre importante fare qualcosa che permetta di generare nuove risorse interne quali energia, senso di autoefficacia
e umore positivo.
Quattro esperienze di recovery che favoriscono il recupero delle risorse e permettano di generarne di nuove:
1. Psychological detachment: rappresenta il distaccarsi, a livello mentale oltre che fisico dal proprio lavoro
durante il tempo libero, quindi non pensare e non occuparsi di questioni lavorative.
2. Relaxation: indica il trovarsi in uno stato di calma e tranquillità caratterizzato da un basso livello di
attivazione fisica e mentale e da un aumento di sensazioni positive (meditazione, lettura di un libro, ascoltare
musica, passeggiata)
3. Mastery: fa riferimento all’impegnarsi durante il tempo libero in attività che distraggono dal lavoro fornendo
opportunità di apprendimento e di sviluppo di nuove competenze in campi completamente differenti da quello
lavorativo (apprendimento di una nuova lingua o di un nuovo hobby)
4. Control: fa riferimento al grado di potere decisionale che l’individuo ha sulla scelta di quali attività svolgere
nel proprio tempo libero, in che modo e con che tempi.
Le ricerche in tema di recovery hanno evidenziato la sua capacità di migliorare le prestazioni sul lavoro, e aumentare
il benessere e la soddisfazione di vita. Sono state approfondite le potenzialità di applicazione nei contesti
organizzativi: una prima linea di intervento consiste nel promuovere una maggiore consapevolezza del concetto di
recovery e delle sue implicazioni in termini di salute, poi capi e responsabili possono essere formati affinché
comprendano l’importanza di non eccedere con richieste nell’orario extralavorativo, ma anzi sollecitino i proprio
collaboratori a separare il più possibile il lavoro dalla vita privata, e infine un’altra linea di intervento importante è
riguardare l’utilizzo degli strumenti tecnologici di comunicazione in quanto è stato dimostrato che il loro impiego può
interferire negativamente con il processo di recovery e quindi con il benessere e la salute dei lavoratori. Una modalità
per ridurre questi effetti negativi potrebbe essere lasciare al lavoratore la piena autonomia nel decidere quanto e come
utilizzarli favorendo così la percezione di controllo sul proprio tempo e le occasioni di recovery.
Il workaholism
Le organizzazioni si confrontano oggi con un mercato del lavoro sempre più competitivo e tendono di conseguenza a
promuovere il raggiungimento degli obiettivi e il successo come valori fondamentali, anche a costo del benessere e
della qualità della vita dei lavoratori. Tale fenomeno sta determinando un crescente dissolversi dei tradizionali confini
tra lavoro e vita privata con il rischio di sviluppare una dipendenza da lavoro, cioè il workaholism o work addiction.
Il primo autore a introdurre questo concetto fu Oates nel 1971 e lo definì come un eccessivo e incontrollabile bisogno
di lavorare che influenza la salute, la qualità della vita e delle relazioni personali. La dipendenza da lavoro è
caratterizzata dalla tendenza a lavorare in modo ossessivo-compulsivo senza che vi siano reali necessità di farlo. I due
elementi che definiscono la presenza di workaholism sono:
- Lavorare eccessivamente e dedicare un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative, trascurando vita
privata, familiare e relazionale;
- Non riuscire a distaccarsi dal lavoro che viene vissuto come un’ossessione, generata non da fattori esterni
ma da un’incontrollabile compulsione interna.
Il workaholic o workaholista non riesce a concedersi pause, si sente in colpa quando non lavora ed è convinto di non
avere alternative se non quella di vivere per il proprio lavoro. Il workaholism rientra tra le dipendenze odierne più
comuni, paragonata a quella da nicotina o da alcol. Viene considerata però una dipendenza “buona” e socialmente
accettata.
Anche il contesto lavorativo può giocare un ruolo determinante nel promuovere il workaholism, attraverso fattori
quali: culture del lavoro fortemente orientate al risultato, sistemi di incentivazione che premiano elevati livelli di
produzione, una forte identificazione organizzativa. Infine, è stato dimostrato che alcune caratteristiche personali
(motivazione alla realizzazione, perfezionismo, autoefficacia) rendano gli individui maggiormente inclini a sviluppare
tale dipendenza in ambienti caratterizzati da eccessiva dedizione al lavoro.
Un rischio legato al workaholism può essere quello di considerarlo una caratteristica positiva.
La dipendenza da lavoro determina minori opportunità di recovery per le persone e quindi problemi di salute
psicologica, fisica, stress e burnout, elevati livelli di conflitto lavoro-famiglia, problemi familiare con importanti
ripercussioni nella relazione con il partner ed elevate percentuali di divorzi e separazioni. Sebbene sia stato definito da
molti autori come una patologia a oggi non è ancora riconosciuto e trattato dal DSM-5. Nonostante ciò, diventa
sempre più una priorità avviare interventi mirati alla prevenzione, al riconoscimento e alla cura della dipendenza da
lavoro. È necessario sviluppare all’interno degli ambienti di lavoro, culture che promuovano stili di vita equilibrati e il
rispetto dei confini tra lavoro e vita privata.
L’insicurezza lavorativa
Nell’attuale contesto caratterizzato da un mercato del lavoro debole e instabile, nonché da elevati livelli di precarietà,
l’insicurezza lavorativa è considerata una variabile capace di influenzare i vissuti di benessere e malessere. Il concetto
di insicurezza lavorativa fa riferimento alla preoccupazione relativa alla continuità del proprio lavoro, al timore di
perderlo e di restare disoccupati. Può essere considerata come uno stressor lavorativo all’interno della teoria
transazionale dello stress ed è inclusa tra le richieste lavorative all’interno del JD-R Model. Diversi studi hanno messo
in luce le conseguenze negative dell’insicurezza lavorativa che si associa a una riduzione della soddisfazione
lavorativa, del commitment, della salute psicologica e fisica, della prestazione, della fiducia e del coinvolgimento
lavorativo. Si associa inoltre all’intenzione di turnover e all’esaurimento emotivo, quale dimensione centrale della
sindrome di burnout. La percezione di insicurezza lavorativa può talvolta spingere le persone a incrementare i loro
sforzi nel tentativo di “convincere” i datori di lavoro dell’importanza del loro contributo per l’organizzazione.
Recentemente, alcune ricerche hanno approfondito il ruolo di possibili moderatori della relazione tra insicurezza
lavorativa ed esiti: tra questi una variabile rilevante sembra essere il genere. L’insicurezza lavorativa percepita appare
in genere maggiormente nelle donne.
Il benessere dei lavoratori “anziani”
La popolazione mondiale sta invecchiando molto rapidamente e stime indicano che questa tendenza continuerà a
incrementarsi nel corso dei prossimi decenni. Molte delle ripercussioni di questo fenomeno riguardano il mondo del
lavoro e le caratteristiche della workforce. La popolazione attiva sta diventando sempre più anziana, ed è previsto che
il rapido aumento della percentuale di lavoratori old, rispetto a quelli young, proseguirà nel corso delle prossime
decadi. L’invecchiamento della forza lavoro è considerata una delle caratteristiche distintive del ventunesimo secolo, e
un’importante sfida a livello sociale e organizzativo. Il concetto di lavoratore anziano può variare rispetto ai contesti
organizzativi e alle culture di appartenenza. Inoltre, vi è un considerevole insieme di fattori che possono modificare la
definizione di lavoratore anziano come gli stereotipi nei loro confronti e le norme sociali legati all’età pensionabile.
È possibile classificare i numerosi cambiamenti personali che si verificano con l’avanzare dell’età in tre principali
categorie:
1. Cambiamenti fisici
2. Cambiamenti cognitivi
3. Cambiamenti di personalità
L’invecchiamento porta con sé un naturale declino di abilità fisiologiche e fisiche, come cambiamenti a livello
sensoriale, il decadimento muscolare, la diminuzione della capacità aerobica e delle difese immunitarie. Gli effetti di
tali cambiamenti possono riguardare la performance lavorativa.
Con l’avanzare dell’età anche le funzioni cognitive relative all’intelligenza fluida tendono progressivamente a
diminuire, mentre le funzioni attribuite all’intelligenza cristallizzata raggiungono il loro massimo all’età di 60 anni
circa. Vi è quindi una buona compensazione. Per questo motivo, all’interno dei luoghi di lavoro la performance degli
older workers è molto spesso ancora adeguata.
Anche se i tratti di personalità sono piuttosto stabili all’interno del ciclo di vita, solo di recente alcune ricerche hanno
evidenziato come alcuni tratti di personalità, contenuti nel modello Big Five, possono variare con l’età adulta.
Aumentano infatti i tratti di coscienziosità e amicalità, mentre si riducono i tratti di nevroticismo. Non è ancora chiaro
se questi risultati dipendano da fattori ambientali o da caratteristiche biologiche degli individui.
Numerosi fattori sono in grado di influenzare il benessere del lavoratore anziano e vanno segnalate, per la loro
importanza, quelle connesse alla presenza di stereotipi e pregiudizi (ageism) e quelle relative al job design.
Un clima organizzativo che favorisce un positivo age climate può ridurre il desiderio di andare in pensione dei
lavoratori anziani e incrementare la loro salute. Mentre il job design permette di valorizzare e di ottimizzare gli effetti
che le differenze individuali possono avere nella relazione tra caratteristiche del lavoro e attitudine al lavoro. Gli studi
condotti sul job design hanno il fine ultimo di promuovere compiti di lavoro che favoriscano la soddisfazione
lavorativa, il mantenimento della motivazione e il benessere generale. Inoltre, hanno esaminato l’importante ruolo
dell’utilità sociale che può caratterizzare una mansione lavorativa: il lavoratore anziano può percepire infatti un alto
senso di valorizzazione.
Age management e interventi a supporto dei lavoratori anziani
Gli interventi a supporto del benessere occupazionale dei lavoratori anziani rappresentano per l’azienda un’occasione
per non perdere il bagaglio di competenze e conoscenze che il lavoratore anziano ha maturato nel corso della carriera.
È utile per le organizzazioni continuare a sostenere la loro impiegabilità in quanto essi rappresentano un’importante
fonte di tacit knowledge e perché è stato dimostrato che essi possono continuare a svolgere efficacemente la maggior
parte delle attività lavorative.
Il termine age management fa riferimento alle possibili azioni e intervento attraverso cui le risorse umane vengono
gestite all’interno dell’organizzazione, con un’attenzione specifica sull’età. Le good practices in age management
sono misure volte all’abbattimento delle barriere d’età e alla valorizzazione delle differenze intergenerazionali. Si
sono studiati gli effetti sia individuali, sia organizzativi di alcuni interventi:
- La formazione specifica per l’impiego di strategie di selezione, ottimizzazione e compensazione al fine di
meglio adattare le risorse dei lavoratori anziani alle richieste lavorative;
- Il job design orientato all’aumento dell’autonomia e della varietà delle competenze;
- La creazione di team di lavoro intergenerazionali che facilitano le relazioni positive, sviluppano
competenze e riducono drasticamente stereotipi e discriminazione;
- Il lavoro part-time, il telelavoro o soluzioni di lavoro flessibile che sostengano il wok-life balance;
- I programmi di mentoring che valorizzano il ruolo dei lavoratori anziani e rappresentano occasione di
crescita per gli stessi.
In un recente studio, Pinto e collaboratori hanno esaminato gli effetti di diverse pratiche HR in gruppi di lavoratori di
età diverse. Nel corso della carriera i bisogni dei lavoratori e l’utilità delle pratiche HR cambiano; quest’ultime devono
essere programmate e gestite strategicamente in modo da incontrare i bisogni degli individui in ogni fase della carriera
e da incrementare la performance dell’organizzazione. Secondo questi autori gli interventi e le azioni HR
maggiormente apprezzate dai lavoratori sono quelle relative alla formazione. Gli effetti dei programmi di training
professionale non diminuiscono con il passare degli anni.
Il benessere lavorativo degli older workers può fortemente risentire non solo di caratteristiche personali individuali ma
soprattutto di pratiche HR che possano influenzare il loro sviluppo personale e professionale, favorendone
l’occupabilità e l’invecchiamento attivo, coinvolto e ancora motivato.
Il rientro al lavoro
L’attuale contesto economico, unitamente all’accresciuta modalità lavorativa e ai cambiamenti sociodemografici in
atto hanno causato l’allontanamento temporaneo di un numero sempre maggiore di persone dal mondo del lavoro.
Pertanto, il tema del rientro al lavoro (return to work) e della promozione dell’occupabilità ha riscontrato una
crescente attenzione in molteplici contesti.
In particolare, il reinserimento lavorativo dopo prolungata assenza ha acquisito importanza anche nell’ambito della
psicologia del lavoro. In quest’ambito l’obiettivo delle ricerche e degli interventi è quello di indagare quali sono i
fattori determinanti di una prolunga assenza lavorativa, al fine di promuovere e facilitare un sicuro e rapido
reinserimento lavorativo.
Il 23,5% della popolazione europea soffre almeno di una malattia cronica, tra queste le principali sono diabete,
malattie cardiovascolari, malattie respiratorie, malattie oncologiche ecc. La comparsa di queste patologie comporta il
più delle volte un allontanamento dal lavoro necessario per le cure e la riabilitazione. Il reinserimento professionale
può essere vissuto come un periodo emotivamente stressante, in quanto richiede alla persona l’adozione di strategie di
adattamento al cambiamento in relazione alla propria condizione psicofisica o lavorativa.
Tuttavia, altri studi hanno evidenziato alti livelli di soddisfazione lavorativa nelle persone che rientrano a lavoro a
seguito di riabilitazione con modifiche e limitazioni rispetto a chi riprendeva la propria mansione senza limitazioni.
Più recentemente gli studi si sono rivolti anche al reinserimento lavorativo in conseguenza di maternità,
ristrutturazione aziendali e cassa integrazione. Si evidenzia nello specifico che nella popolazione esistono delle fasce
deboli maggiormente a rischio di disoccupazione: giovani, lavoratori con più di 50 anni e neo-madri.
Per quanto riguarda la popolazione femminile, le neo-madri sono la categoria che accusa maggiori criticità.
Le ricerche che hanno indagato l’associazione tra la perdita del lavoro e la salute psicofisica hanno evidenziato come
il licenziamento possa avere un forte impatto negativo sulla salute e sul benessere delle persone a livello fisico,
psicologico e sociale.
Precedenti studi hanno inoltre dimostrato che maggiore è il periodo di assenza dal lavoro e minore è la probabilità che
la persona ritorni effettivamente al lavoro. Si rivela dunque fondamentale identificare e comprendere quali fattori
possono ostacolare o facilitare il reinserimento lavorativo. Il rientro a lavoro è influenzato da molti fattori di tipo
sociodemografico, clinico, psicologico e organizzativo.
I programmi per il ritorno al lavoro consistono in una serie di attività per facilitare il reinserimento professionale ed
evitare la perdita dello stesso, come: monitoraggio sistematico delle assenze al fine di individuare le persone a rischio,
il contatto regolare tra datore di lavoro e la persona assente al fine di mantenere vivo il legame e l’interesse,
l’adattamento delle condizioni di lavoro in base alle capacità lavorative e alle limitazioni prescritte dal medico.
Il welfare e il wellness organizzativo
Le iniziative di welfare e wellness sono spesso relative a soluzioni contrattuali/formali o iniziative che favoriscono la
conciliazione tra lavoro e famiglia (come modifiche di orari o del luogo di lavoro, asili nido in azienda). Rientrano
nelle soluzioni di welfare e wellness anche alcuni servizi economici come contributi aggiuntivi che l'azienda dà
attraverso buoni e convenzioni per attività di svago o servizi sociosanitari rivolti anche ai loro familiari. Inoltre, vi
sono servizi legata all'informazione e alla formazione rivolti soprattutto a chi ha ruoli di responsabilità.

Capitolo 9
I rischi psicosociali
Originariamente l’interesse scientifico riferito al rapporto tra lavoro e benessere si è basato sullo studio dei fattori di
rischio di tipo fisico, chimico e biologico in grado di provocare danni alla salute dei lavoratori. Successivamente è
stata posta maggiore attenzione alle variabili in grado di incidere sullo stato di benessere psicologico quali lo stress
occupazionale, la sindrome del burnout, il fenomeno del mobbing, la traumatizzazione vicaria e i comportamenti
violenti sui luoghi di lavoro.
A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, la ricerca si è più specificatamente focalizzata sullo studio dei fattori
di rischio psicosociale, considerati il “quarto fattore di rischio” occupazionale.
Cox e Griffiths hanno definito i rischi psicosociali come il risultato degli aspetti di progettazione e gestione del lavoro,
in grado di dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o fisica e di particolari dinamiche relazionali fra colleghi.
La progressiva sensibilità nei confronti dei rischi psicosociali si fonda sull’evoluzione del concetto di salute umana
riferibile non solo alla tutela dell’integrità biologica dell’individuo ma anche a quella psicologica e sociale. Il
benessere individuale è in grado di influenzare numerosi aspetti a livello collettivo e organizzativo, risultando un
importante predittore dell’efficacia aziendale. In questo senso, Raymond, Wood e Patrick hanno proposto una nuova
materia interdisciplinare denominata “psicologia della salute organizzativa” (occupational health psychology)
finalizzata allo studio degli aspetti organizzativi orientati al miglioramento del benessere fisico, psicologico e sociale
delle persone. Tale filone di studi si propone di intervenire sulle aree organizzative disfunzionali, promuovendo il
benessere psicologico nei luoghi di lavoro. L’attenzione di queste ricerche è stata indirizzata sullo studio dei possibili
effetti dell’esposizione a fattori di rischio psicosociale come: stress, comportamenti violenti, burnout e la
traumatizzazione vicaria.
Stress occupazionale
I principali modelli teorici
Il termine stress ha un’origine etimologica legata all’ambito ingegneristico. Prima ancora che il termine fosse
utilizzato nell’accezione di disagio personale, faceva infatti riferimento agli effetti subiti dai materiali metallurgici
sottoposti a forte pressione. Il primo studioso ad aver introdotto il concetto di stress è stato Hans Selye, ipotizzò un
primo modello teorico, definito approccio response-based in cui lo stress viene identificati nella risposta fisiologica
aspecifica manifestata dall’organismo nei confronti di diverse tipologie di stimoli ambientali. La visione da lui
proposta è focalizzata esclusivamente sulle risposte manifestate dall’organismo, mentre non risulta approfondito il
fenomeno nel suo complesso. I limiti connessi a questa prospettiva hanno spinto i ricercatori a formulare un secondo
modello, definito stimulus-based basato sull’analisi degli stimoli presenti nel luogo di lavoro, al pari del modello
precedente questo modello si è limitato alla descrizione di una singola componente del fenomeno, quella riferita alle
caratteristiche dei luoghi di lavoro. Un ulteriore sviluppo riguarda l’approccio stimulus/response relationship, detto
anche interattivo, il cui focus è costituito dall’interazione tra stimoli ambientali e risposte individuali. Anch’esso si è
rivelato parzialmente inadeguato.
Il modello più attuale e completo è il transactional approach, ovvero approccio transazionale che suggerisce come lo
stress non sia identificabile con elementi parziali, bensì il risultato di un processo di scambio e di interazione continuo
tra individuo e ambiente. In questo modello vengono prese in considerazione anche le caratteristiche individuali che
regolano il processo dello stress, in particolare gli stili di coping che gli individui attuano in risposta agli stimoli
ambientali. [La nozione di coping fa riferimento all’insieme di sforzi cognitivi e comportamentali che l’individuo
attua al fine di gestire le richieste provenienti dall’ambiente.]
In tal senso, gli individui sottoposti a determinati stimoli ambientali ricercherebbero le azioni più opportune per
affrontarli, in un processo continuo di adattamento al contesto in cui operano. Occore, infine, chiarire la distinzione fra
stress e concetti a esso correlati: stress, stressor e strain.
Stressor organizzativi
La ricerca sullo stress occupazionale si è prevalentemente focalizzata sugli stressor di natura fisica (eccessivi livelli di
rumore, temperature insostenibili, scarsa illuminazione e turni di lavoro prolungati), capaci di incidere sul benessere e
la produttività delle persone. Successivamente, tra gli stressor occupazionali sono state considerate anche le
caratteristiche delle attività lavorative, i ruoli organizzativi, le relazioni interpersonali, lo sviluppo di carriera e la
relazione fra lavoro e vita extralavorativa. Alcuni aspetti connessi al ruolo organizzativo possono infatti rappresentare
fattori di stress per i lavoratori, ad esempio, l’ambiguità di ruolo si associa a elevati livelli di disagio psicologico.
Il sovraccarico lavorativo rappresenta un ulteriore fattore di stress occupazionale, anche la scarsa qualità delle
relazioni interpersonali sul luogo di lavoro può determinare reazioni psicologiche negative.
Anche alcune caratteristiche dello stile gestionale di un’organizzazione possono rappresentare una fonte di strain
psicologico, in particolare nei casi di limitato coinvolgimento dei lavoratori all’interno dell’organizzazione. Infine,
aspetti legati alle strategie di gestione delle risorse umane (come la presenza di eccessiva burocrazia) possono
generare insoddisfazione lavorativa e malessere generalizzato.
Una variabile in grado di moderare la relazione stressor-strain è il supporto sociale, poiché la presenza di una forte
rete di supporto sociale all’interno dell’organizzazione può alleviare la percezione di disagio.
Effetti dello stress
Lo stress occupazionale è in grado di produrre effetti negativi a breve e a lungo termine sia sugli individui sia sulle
organizzazioni. A livello individuale si hanno principalmente conseguenze sul piano fisiologico, psicologico e
comportamentale. Inoltre, l’esposizione cronica a una serie di agenti stressogeni può favorire l’insorgenza di patologie
quali diabete, sindromi metaboliche, obesità ecc. Gli esiti individuali dello stress possono a loro volta causare effetti
disfunzionali a livello organizzativo. L’azione continua e ripetuta degli stressor sui lavoratori può infatti portare a una
diminuzione dei profitti dovuta al calo della produttività, la perdita di clienti/utenti dovuta alla diminuzione della
qualità dei servizi erogati.
Variabili in grado di moderare la relazione stressor-strain
Maggiore interesse si è mostrato nella valutazione delle variabili disposizionali, situazionali e sociali che possono
esercitare un’influenza nella relazione stressor-strain.
 Le variabili disposizionali o individuali> emergono di particolare interesse i modelli di comportamento di
Tipo A, l’affettività negativa, l’autostima, l’autoefficacia e la percezione di controllo.
o Modello comportamentale di Tipo A: si riferisce a caratteristiche di personalità quali competitività,
ambizione, pressione temporale, aggressività, iperattività, necessità di riconoscimento sociale, rabbia
e ostilità;
o Affettività negativa: riflette una predisposizione a sperimentare bassa autostima e stati emotivi
negativi;
o Autoefficacia e autostima: riguardano il giudizio sulle capacità personali o collettive di portare a
termine un compito e il giudizio di valore che un individuo possiede di sé stesso;
o Percezione di controllo: esercitare un adeguato controllo sugli eventi può favorire uno stato di
benessere e stimolare il senso d’autoefficacia.
 Le variabili organizzative> una di queste è il commitment, definito come il legame tra i lavoratori e
l’organizzazione. Studi recenti hanno dimostrato come questo sia in grado di esercitare effetti positivi su
diversi aspetti come la soddisfazione lavorativa, il desiderio di mantenere il proprio posto di lavoro,
l’adozione di comportamenti creativi e innovativi, il coinvolgimento nel lavoro.
Anche il supporto sociale può essere considerato tra le variabili organizzative e può essere esercitato sia dai
colleghi, sia dai capi e si manifesta in entrambi i casi un effetto protettivo in grado di produrre effetti positivi
sul benessere dei lavoratori.
Valutazione dello stress
La maggior parte delle attuali ricerche finalizzate alla comprensione dello stress occupazionale considerano tale
fenomeno in un’ottica transazionale. Questo modello risulta molto diffuso e accettato a livello teorico, mentre in
ambito empirico la ricerca sembra essere ancora influenzata dal modello interattivo. Gli strumenti basati su
quest’ultimo approccio considerano le diverse componenti del processo come costrutti statici, caratterizzati da effetti
unidirezionali, meno spesso esaminano il fenomeno nel suo insieme.
Al contrario, gli strumenti di misurazione transazionale danno maggiore attenzione agli aspetti relativi all’individuo.
Nonostante tali vantaggi, quest’ultimo approccio comporta l’indagine di un numero elevato di variabili che lo rendono
di più difficile applicazione. Vi è, quindi, la possibilità di ricorrere a misure di tipo:
- “oggettivo”: si basa sulla misurazione di alcuni parametri fisiologici e sul loro confronto con indici di
riferimento rilevati in situazioni di normalità;
- “soggettivo”: utilizzano invece questionari self-report che permettono di approfondire il significato
psicologico attribuito dall’individuo a determinati eventi, quindi le percezioni individuali.
In generale, la ricerca ha privilegiato l’utilizzo di strumenti soggettivi, self-report, anziché oggettivi. È auspicabile che
in futuro ci si possa avvalere di metodologie integrate.

Interventi
Gli interventi finalizzati alla prevenzione e alla riduzione dei livelli di stress occupazionale (stress management
interventions) possono essere classificati all’interno di tre principali categorie:
 Interventi primari: realizzati con lo scopo di contenere il più possibile gli agenti in grado di sollecitare
eventuali risposte di stress, quindi ad esempio riprogettazione delle attività lavorative e la ristrutturazione dei
ruoli. Questi interventi sono efficaci in quanto aumentano il benessere dei lavoratori, ma hanno un costo
elevato che ne rende poco frequente l’applicazione;
 Interventi secondari: sono rivolti agli individui con lo scopo di modificarne le reazioni agli stressor, come ad
esempio tecniche di rilassamento e biofeedback che sono di costo limitato e piuttosto efficaci a breve termine.
 Interventi terziari: sono finalizzati alla cura e riabilitazione del lavoratore che manifesta effetti derivanti dallo
stress. Alcune organizzazioni mettono a disposizione dei loro dipendenti programmi di assistenza (employee
assistance programs) che prevedono l’impiego di professionisti specializzati nel trattamento dei sintomi da
stress.
Nonostante le difficoltà metodologiche connesse alla valutazione dell’efficacia di questi interventi, le organizzazioni
tendono generalmente a privilegiare interventi di tipo secondario e terziario, nonostante i migliori risultati a lungo
termine siano ottenibili attraverso l’attuazione di azioni primarie.
I comportamenti violenti sui luoghi di lavoro
La violenza sul luogo di lavoro (o molestia, workplace harassment) è definita utilizzando numerosi vocaboli e
situazioni che si differenziano tra loro. La Commissione europea definisce la violenza sui luoghi di lavoro come
“incidenti in cui le persone sono abusate, minacciate o aggredite in circostanze legate al lavoro, incluso ciò che
accade durante gli spostamenti per arrivare al lavoro e/o tornare da esso, e che comprendano un rischio esplicito o
implicito per la sicurezza, il benessere e la salute.”
Vengono considerate diverse forme di violenza e nessun tipo di relazione vittima- perpetratore viene esclusa, inoltre
gli atti violenti per essere considerati tali non devono verificarsi esclusivamente e fisicamente sul luogo di lavoro, ma
sono compresi anche episodi accaduti durante gli spostamenti. Sono compresi anche tutti gli episodi che accadono
nella propria abitazione o in altri luoghi privati e pubblici, se la causa è il lavoro. Infine, il comportamento per essere
definito violento non deve necessariamente essere di tipo esplicito: la modifica della percezione della propria
sicurezza è già di per sé un esito della violenza. La letteratura scientifica mostra come l'interesse dimostrato per la
violenza sul luogo di lavoro sia accresciuto negli anni, tale interesse è legato all'aumento del fenomeno.
La violenza sui luoghi di lavoro può avvenire tra diversi soggetti lavoratori e con diverse finalità. Estrada e
collaboratori hanno individuato quattro tipologie di episodi di violenza in cui vi è una diversa relazione tra vittima e
perpetratore e una diversa motivazione:
1. Intruder violence: la vittima in genere non conosce il perpetratore, il comportamento violento viene messo in
atto nei confronti di persone che maneggiano denaro;
2. Client-related violance: la vittima e il perpetratore sono sconosciuti o conoscenti; il comportamento violento
viene messo in atto all'interno di una relazione professionale tra erogatore e fruitore di un servizio;
3. Relational violence: la vittima e il perpetratore sono conoscenti, i comportamenti violenti avvengono
all'interno della relazione professionale;
4. Structural violence: i comportamenti violenti sono legati all'organizzazione, alle relazioni tra lavoratori e al
sistema di valori enorme sui quali il lavoro è basato.
Fattori di rischio
La maggior parte delle ricerche prende in considerazione tre tipologie di fattori: individuali, legati all'azienda e
all'ambiente fisico e sociale. Tali fattori sono interconnessi, i comportamenti violenti non dipendono solo da fattori
intra/interpersonali o socioambientali ma dal complesso intrecciarsi di tante variabili.
 Fattori individuali> le ricerche indicano che le persone più giovani, con meno esperienza lavorativa, sono
quelle a maggior rischio di vittimizzazione. Anche coloro che hanno un'alta scolarità lo sono. Emerge anche
una differenza di genere per quanto riguarda gli episodi di violenza: i maschi sono maggiormente a rischio di
violenza fisica, le donne di molestia sessuale. Per quanto riguarda i fattori psicologici, alcuni tratti di
personalità sono stati messi in relazione alla vittimizzazione come l'affettività negativa che rappresenta un
fattore di rischio. Mentre il pattern di comportamento di Tipo A è stato individuato nei perpetratori.
 Fattori aziendali> con tale termine ci si riferisce sia al tipo di lavoro sia ai modi operandi dell'azienda. Alcune
professioni sono maggiormente a rischio di vittimizzazione, si pensi alle forze dell'ordine, al personale addetto
alla difesa e a coloro che sono in contatto con i pazienti. Contesti aziendali caratterizzati da conflitto elevato,
insoddisfazione dei lavoratori, gestione non adeguata, assenza di controllo sulle procedure e sui risultati,
favoriscono la violenza. Accanto a questi ci sono fattori ascrivibili al management (adesione a norme e valori
che prevedono tolleranze di comportamenti che causano disagio, la mancata punizione di tali comportamenti
può essere Letta come un'autorizzazione a sminuire la vittima degli attacchi verbali). Un ulteriore fattore di
rischio è legato alla relazione tra lavoratore e superiore/supervisore infatti l'eccessivo controllo, la mancanza
di rispetto e una comunicazione non adeguata sono elementi che possono determinare nel lavoratore la
percezione di essere vittima di violenza.
 Fattori ambientali fisici e sociali> Tra i fattori di rischio dell'ambiente fisico vi sono quelli la cui assenza
determina un aumento di vittimizzazione nei lavoratori. Sono elementi specifici di ciascun ambiente di lavoro
(in un ospedale la scarsa illuminazione interna o esterna aumenta il rischio di comportamenti violenti, in
particolare aggressioni fisiche. Tra i fattori sociali vengono annoverati la multiculturalità, la comunità, il
sistema Paese. La multiculturalità ha a che fare con l'esposizione a ciò che è sconosciuto, alla novità e alla
diversità. Diventa un fattore di rischio di comportamenti violenti se l'incontro con un lavoratore portatore di
tale diversità è accompagnato da pregiudizio stili di tipo razziale. La comunità nella quale i soggetti sono
inseriti influisce sulla qualità e sulla propensione al comportamento violento. Il sistema Paese, infine, con il
sistema legislativo e la regolazione dei rapporti lavoratori-imprese, influisce sulla percezione di in/sicurezza
lavorativa. Diversi autori hanno evidenziato come la precarietà aumenti il grado di incertezza delle persone
che si percepiscono come instabili e vulnerabili, quindi maggiormente a rischio di comportamenti violenti.
Conseguenze
Le conseguenze sia fisico sia psicologico, riguardano sia il singolo individuo sia l'azienda. Sull'individuo le
conseguenze fisiche della violenza possono spaziare da piccole ferite fino ad arrivare a incidenti mortali. Le
conseguenze psicologiche possono derivare sia dall'aver subito un comportamento violento di tipo fisico, sia dall'aver
subito un comportamento violento di tipo verbale. Gli studi dimostrano che la violenza psicologica comporta
conseguenze peggiori rispetto a quella fisica, con ripercussioni sul benessere sul lungo periodo. In alcune ricerche è
emersa anche la presenza di Disturbo Post- Traumatico da Stress (DPTS) in vittime di un comportamento violento di
tipo fisico. A livello psicosociale, rientrano conseguenze quali: eccesivo disimpegno sul lavoro, isolamento sociale,
percezione dell’ambiente di lavoro come ingiusto, insoddisfazione professionale e infelicità nella vita.
Fenomeni come il deterioramento delle relazioni con i colleghi di lavoro, la maggiore percezione di distress lavoro-
correlato, burnout, depressione, sono risultate correlate agli episodi di violenza.
Interventi
L’intervento sulle vittime di violenza può essere di tipo educativo-comportamentale, clinico, legale.
o Educativo-comportamentale> è possibile trattare con questo intervento gruppi di persone che hanno sofferto
di comportamenti violenti in situazioni diverse.
o Clinico> le ricerche hanno dimostrato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento
delle vittime, a maggior ragione se supportata da tecniche di desensibilizzazione e rielaborazione
dell’esperienza traumatica.
o Legale> mira a sanzionare l’autore del comportamento violento stabilendo un risarcimento dei danni.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) propone una prevenzione mirata al contrasto del fenomeno di tipo
primaria, secondaria e terziaria.
 Prevenzione primaria: il datore di lavoro deve informare e formare dirigenti e dipendenti sul tema dei
comportamenti violenti sui luoghi di lavoro. È opportuno adottare linee guida e codici per favorire un
comportamento etico. A livello di ambiente di lavoro, è possibile adottare misure strutturali e tecnologiche e
misure organizzative che possono essere utili a tutela del lavoratore. Per i lavoratori particolarmente a rischio
di vittimizzazione, un elemento essenziale, è la formazione per fa conoscere i rischi potenziali per la
sicurezza, le procedure da seguire per proteggere sé stessi e i colleghi da comportamenti violenti.
 Prevenzione secondaria: si tratta di individuare un confidente con il compito di ascoltare chiunque ritenga di
essere vittima di molestie. Riconosce il problema può rompere il silenzio che spesso copre l’aggressore e
adottare iniziative per fermare l’aggressione. Un elemento da inserire nel contesto aziendale è la figura del
mediatore. La mediazione è un processo in cui un terzo imparziale, il mediatore, offre alle persone in conflitto
l’opportunità di incontrarsi al fine di risolvere problematiche e negoziare una soluzione.
 Prevenzione terziaria: dal momento che le molestie sono eventi comprovati e noti, le conseguenze possono
essere gravi per i lavoratori. Per aiutarli a recuperare la loro salute e la dignità, è possibile adottare delle
misure adeguate (come il cambio di postazione di lavoro).
Il mobbing
Il mobbing rientra tra quelli che vengono definiti “comportamenti lavorativi controproduttivi” (counterproductive
workplace behaviors CWBs) ovvero tutti quei comportamenti agiti nei luoghi di lavoro con caratteristiche di
aggressione, devianza, ritorsione e vendetta. Il mobbing è stato tradizionalmente classificato come una forma di
aggressione che si differenzia da altre forme di comportamenti aggressivi per intensità e frequenza. Rispetto alla
frequenza, il mobbing si caratterizza tipicamente per tratti di continuità e ripetitività che non sono propri di tutti i tipi
di comportamenti aggressivi. In generale, il mobbing scaturisce da una situazione di conflittualità in cui una persona
diviene oggetto di azioni persecutorie da parte di uno o più aggressori, con la conseguenza che la vittima, non in grado
di reagire adeguatamente, può sviluppare disturbi psicosomatici e dell'umore, e in alcuni casi anche danno alla salute
psicofisica. Per poter definire mobbing una particolare attività, interazione o processo, è necessario che esso si
verifichi regolarmente e ripetutamente in un periodo di tempo di almeno sei mesi. Da ciò emergono le principali
caratteristiche del fenomeno: frequenza, durata, ostilità e squilibrio di potere.
 La frequenza> Si riferisce al numero di volte in cui i comportamenti negativi vengono agiti settimanalmente,
la soglia minima è di una o due volte alla settimana;
 La durata> La durata complessiva dei comportamenti negativi deve essere pari almeno a sei o 12 mesi;
 L'ostilità> Si intende la negatività tipica dei comportamenti agiti;
 Lo squilibrio di potere> Si riferisce alla disparità di potere percepito tra vittima e mobber. Disparità non solo
gerarchia, ma anche fisica e sociale.
I principali modelli relativi al fenomeno ed elaborati sono quello di Leymann e quello di Ege. Leymann ha identificato
quattro fasi del fenomeno:
a) Conflitto quotidiano;
b) Inizio del mobbing;
c) Errori e abusi da parte dell’ente delle risorse umane;
d) Esclusione dal mondo del lavoro.
Partendo da questo modello elaborato in riferimento ai Paesi nordeuropei, Ege ha rilevato la difficoltà a estenderlo ad
altri contesti culturali, in particolare quello italiano. Questo contesto spesso si caratterizza per un'elevata e frequente
conflittualità fisiologica fra i lavoratori, percepita addirittura come una normale condizione lavorativa. Ege ha
aggiunto al modello di Leymann una pre-fase, non ancora identificabile come mobbing, definita “condizione zero”
che si riferisce alla presenza di quello stato di conflittualità fisiologica tipica del nostro Paese, è una condizione
caratterizzata dall’intenzione di predominare sugli altri.
L’influenza del contesto socioculturale è studiata come uno dei fattori in grado di predire l’insorgenza del fenomeno.
Metodologie di valutazione
Ad oggi le metodologie di valutazione non sono ancora pienamente condivise dalla comunità scientifica. Gli approcci
psicologici alla misurazione del mobbing si riferiscono a tre principali categorie di metodi di ricerca:
1. Metodi “interni”: focalizzati sull’autopercezione del fenomeno. Gli strumenti utilizzabili sono i questionari, le
interviste, il focus group, resoconti personali realizzati attraverso diari e tecniche proiettive;
2. Metodi “esterni”: riferiti al contesto nel quale si sviluppa la condizione di mobbing. Prevede l’utilizzo di
strumenti come l’osservazione del lavoratore nel suo ambiente di lavoro e la raccolta di informazioni, ottenute
attraverso interviste o questionari.
3. Metodi “integrati”: che si avvalgono di approcci sia interni che esterni.
A causa di varie difficoltà legali e organizzative vengono privilegiati i metodi interni da approfondire però attraverso
ulteriori strumenti. Nei questionari, infatti, numerose ricerche hanno evidenziato delle limitazioni come: la mancanza
di controllo dell’alterazione intenzionale delle risposte o lo scarso approfondimento di importanti azioni mobbizzanti.
Alcuni questionari i cui item sono formulati in termini di comportamenti negativi che il lavoratore può aver vissuto a
lavoro: NAQ, WB-C.
Nel contesto italiano vi è il Questionario di Autopercezione del Mobbing (QUAM di Argentero) finalizzato alla
misurazione delle percezioni soggettive riferite sia al contesto lavorativo sia alle percezioni personali connesse alla
situazione di lavoro.

Antecedenti individuali, sociali e organizzativi


Ipotesi delle cause del mobbing:
- Ipotesi disposizionale> secondo la quale sarebbero le caratteristiche di personalità della vittima e
dell’aggressore la principale causa del fenomeno.
- Ipotesi sociale> in base alla quale le dinamiche del gruppo di lavoro possono influire sulla natura, la
forma e la frequenza del mobbing.
- Ipotesi situazionale> fondata sulla convinzione che le determinanti della violenza psicologica siano da
rintracciare in una scorretta organizzazione delle attività lavorative.
La prima ipotesi (disposizionale) ha consentito di identificare profili tipici della personalità sia del mobber, sia della
vittima. In generale il mobber tende a essere di genere maschile, conduce un’attività particolarmente stressante,
caratterizzata da elevato carico di lavoro e bassa autonomia e spesso vive una situazione di insicurezza lavorativa.
Tratti personologici tipici del mobber potrebbero essere: instabilità dell’autostima, l’eccessiva invidia e la debole
competenza sociale. Per quanto riguarda la vittima vi sono alti livelli di nevroticismo e di impulsività, basse
estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e autostima. Chi possiede questi tratti viene percepito come
un soggetto più vulnerabile.
Considerando le caratteristiche socioanagrafiche delle vittime in generale sembrerebbero più esposte le donne con una
maggiore anzianità lavorativa. Rispetto all’etnia, le minoranze sembrerebbero essere quelle maggiormente esposte a
questo rischio.
Secondo la seconda ipotesi (sociale), diversi fattori riferiti alle recenti trasformazioni del mercato del lavoro
(competizione interorganizzativa, politiche centrate sul taglio dei costi) possono incrementare comportamenti
aggressivi in grado di agevolare l’instaurarsi di conflitti, potenziali cause di mobbing. Ciò vale anche per la
globalizzazione.
Probabilità più basse di sviluppare il fenomeno si registrano all’interno di gruppi caratterizzati da scarsa autonomia.
Tale risultato va attribuito al fatto che i gruppi con elevata gestione autonoma sarebbero caratterizzati da elevate
pressioni e stress. In generale, un monitoraggio accurato degli antecedenti sociali dell’aggressività potrebbe
rappresentare un’efficace strategia preventiva.
Negli ultimi anni il modello esplicativo del mobbing che ha suscitato maggiore interesse riconduce le principali
determinanti del fenomeno a fattori di tipo organizzativo. Sono state identificate, in particolare, quattro principali
categorie di fattori che possono influire sul mobbing:
1. Gli stili di leadership e di gestione delle risorse umane> è stato rilevato come il mobbing si presenti più spesso
in situazioni con una leadership tendente all’abuso di potere o, al contrario, molto passiva. In una leadership
debole il mobber non percepisce il rischio di poter essere punito per il proprio comportamento, che dunque
tenderà a perpetrare.
2. Il clima e la cultura organizzativa> possono favorire il mobbing quando i comportamenti prevaricatori non
vengono puniti ma addirittura vengono sollecitati.
3. Le politiche organizzative> stabiliscono quali comportamenti sono considerati accettabili e quali no, di
conseguenza l’assenza di chiare politiche relative al mobbing fa pensare che questo fenomeno sia accettabile.
4. Fattori di tipo situazionale> possono essere ad esempio: cambiamento o ristrutturazione (sono fonti di
insicurezza lavorativa), un’organizzazione delle attività caratterizzata da compiti frammentati o ripetitivi che
possono creare frustrazione, strutture di potere che incoraggiano la competitività tra i lavoratori.
Conseguenze
L’esposizione prolungata a comportamenti aggressivi, oltre a danneggiare il benessere dei lavoratori comporta anche
una serie di effetti negativi a livello professionale e organizzativo. In riferimento alle conseguenze individuali,
numerosi studi hanno suggerito come si possano riscontrare manifestazioni di disagio a partire dalle fasi iniziali del
fenomeno (ansia, depressione, disturbi del sonno e dell’umore, suicidio).
L'effetto combinato di una prodotta esposizione alle vessazioni e di un mancato intervento possono accentuare nelle
vittime tendenze depressive e persecutorie, sentimenti cronici di insicurezza e pericolo, e un’ipertrofica percezione di
ingiustizia che emerge in concomitanza della rievocazione dell'esperienza traumatica. Appare fondamentale, quindi,
supportare la vittima. Oltre che sul singolo, il mobbing ha importanti ricadute anche sul gruppo di lavoro virgola che
spesso subisce effetti negativi in termini di norme e coesione. L'appartenenza a un gruppo di lavoro caratterizzato
dalla presenza di mobbing mobbing incrementa significativamente i livelli di aggressività generale anche nei soggetti
non direttamente coinvolti nel fenomeno. In tali contesti possono instaurarsi nuove forme favorevoli al mobbing.
Inoltre, i lavoratori che assistono a fenomeni di mobbing tendono a schierarsi dalla parte del mobber, per timore di
diventare a loro volta vittime.
Il mobbing può avere ripercussioni anche sull'intera organizzazione. I principali effetti organizzativi sono:
assenteismo, turnover, diminuzione della produttività e della soddisfazione, intenzione di lasciare ed effettivo
abbandono del posto di lavoro, aumento dei costi legati all'assistenza medica.
Interventi
Priorità per chi si occupa di risorse umane all’interno dei contesti organizzativi è cogliere quanto prima possibile la
presenza di segnali riconducibili al mobbing e identificarne gli effetti a livello sia individuale sia organizzativo. Gli
effetti negativi causati dal mobbing hanno spinto i ricercatori a impostare interventi a livello individuale, di gruppo e
organizzativo. I primi hanno maggiore probabilità di successo se realizzati nelle fasi iniziali del fenomeno.
Gli interventi a livello di gruppo si propongono di evitare che il conflitto fisiologico presente nel contesto lavorativo
possa evolvere in fenomeni di vera e propria vessazione psicologica. Le tecniche utilizzate (nel caso di conflict
management) hanno lo scopo di gestire il conflitto attraverso l’identificazione e la mediazione delle situazioni critiche.
Un’ulteriore metodologia d’intervento è rappresentata dal Mobbing-group o M-group, che consiste in un training
specifico finalizzato a favorire l’acquisizione di competenze di gestione dei conflitti.
Infine, a livello organizzativo, gli interventi dovrebbero perseguire alcuni importanti obiettivi quali l’istituzione di
chiare politiche anti-mobbing, la valutazione periodica dei fattori di rischio mobbing, la promozione delle attività
d’informazione/formazione sul fenomeno e il miglioramento dell’organizzazione del lavoro. Più in generale può
risultare utile impostare un sistema di monitoraggio costante, che consenta di rilevare tempestivamente situazioni di
potenziale mobbing.
Lo stalking
Lo stalking rappresenta una forma di aggressione messa in atto da un persecutore che irrompe in maniera ripetitiva,
indesiderata e distruttiva nella vita privata di un altro individuo, con gravi conseguenze fisiche e psicologiche.
Il fenomeno per definirsi tale presuppone tre componenti/fattori:
- un molestatore/stalker
- una vittima/stalking victim
- una serie di comportamenti intrusivi ripetuti nel tempo
La maggioranza dei comportamenti assillanti vengono messi in atto da partner o ex partner di sesso maschile (70% dei
casi), con età tra i 18 e i 25 anni quando la causa è di abbandono o di amore respinto, mentre superiore ai 55 anni
quando ci si trova di fronte a una separazione o a un divorzio.
Le ricerche indicano che l’80% delle vittime sono donne con un’età compresa tra i 16 e i 30 anni, anche se alcuni tipi
di persecuzione coinvolgono donne di età tra i 35-44 anni. La vittima percepisce i comportamenti assillanti come
spiacevoli, disturbanti, lesivi e inquietanti a cui seguono risposte difensive di tipo comportamentale, e a cui possono
essere correlati disturbi di tipo fisico e psicologico. La durata e la ripetizione dei comportamenti intrusivi e molesti, il
timore fondato per la propria e altrui incolumità, sono le caratteristiche che delineano il fenomeno differenziandolo da
altri tipi di comportamenti violenti.
Lo stalking occupazionale
Lo stalking occupazionale è una forma di molestia che ha origine sul luogo di lavoro (o a causa del lavoro) e invade la
sfera privata della vittima. Le ricerche sullo stalking hanno evidenziato come tra le categorie vittimologiche
maggiormente a rischio vi siano le professioni d’aiuto.
Gli studiosi hanno individuato almeno due possibili spiegazioni all’incidenza dello stalking per la categoria
professionale delle professioni d’aiuto:
1. questi professionisti entrano in contatto con i bisogni profondi di aiuto delle persone e possono più facilmente
diventare oggetto di proiezioni, affetti ecc;
2. lo stalking può essere una domanda di attenzione o una ricerca di rivalsa;
Intervento
Gli interventi a favore della vittima sono di tipo legale, comportamentale, clinico-educativo.
 L’intervento legale: fa riferimento all’applicazione delle leggi in vigore. In Italia nel codice penale l’articolo
612-bis (Atti Persecutori) recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con
qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da
determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da
pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito a querela della persona offesa, con la
reclusione da sei mesi a quattro anni.”
 L’intervento comportamentale: indica tutti i cambiamenti che possono essere adottati a difesa della incolumità
propria e altrui: fuga/evitamento, risposta verbale non confrontativa, risposta fisica non confrontativa, risposta
oppositiva verbale, resistenza oppositiva fisica, sottomissione.
 L’intervento clinico-educativo: la pratica clinica è indicata come vantaggiosa per ritrovare un equilibrio
psicofisico incrinato dalla reiterazione dei comportamenti molesti. Gli interventi educativi hanno il vantaggio,
invece, di poter coinvolgere le vittime in un percorso mirato a individuare gli aspetti patologici della relazione
con l’altro, attivando le risorse per uscire dal senso di isolamento vissuto tipicamente dalla vittima.
Il burnout
Un ulteriore rischio di natura psicosociale che ha attirato l’attenzione dei ricercatori è il burnout. Agli inizi del ‘900
Kraepelin mise in evidenza come le condizioni di vita professionale degli operatori del settore psichiatrico potessero
comportare conseguenze negative sull'attività e il benessere delle persone (esaurimento). Negli anni Trenta nei
contesti sportivi il termine burnout viene usato per indicare un atleta che dopo vari successi manifestava un calo del
proprio rendimento. Si iniziò a considerare il burnout anche nel contesto sociosanitario a partire Freudenberger che
rilevò una forma di esaurimento tra i volontari delle strutture sanitarie. Venne descritto originariamente come una
sindrome tipica degli operatori impegnati in professioni d’aiuto e causata dall’esposizione frequente e intensa alle
interazioni emotivamente impegnative con gli utenti. Successivamente, il burnout venne ridefinito come una più
generale crisi tra l’individuo e il proprio lavoro, risultando estensibile a tutte le categorie professionali.
È possibile rintracciare due differenti orientamenti di studio che identificano il fenomeno come una situazione di stato
oppure una situazione di processo.
1. Le definizioni di stato si focalizzano sui sintomi del burnout che possono essere descritti come:
- Esaurimento emotivo> esprime la sensazione di essere emotivamente sovraccaricato e prosciugato dal
contatto con altre persone.
- Depersonalizzazione> si tratta di una risposta attuata dai professionisti dell’aiuto, nel tentativo di
proteggere sé stessi dalle emozioni negative e pressanti derivanti dal contatto con un’utenza in sofferenza.
La depersonalizzazione venne poi sostituita dal cinismo, inteso come un atteggiamento distaccato e
indifferente nei confronti del lavoro.
- Ridotta realizzazione professionale> cioè la percezione di possedere ridotte competenze (rispetto al
passato per affrontare con efficacia la propria attività lavorativa.
Secondo le più recenti concettualizzazioni del burnout, esso sarebbe caratterizzato dai sintomi dell’esaurimento
emotivo e dal cinismo, mentre la dimensione della ridotta realizzazione professionale risulterebbe di marginale
importanza. Accanto all’esaurimento e al cinismo, è possibile considerare come dimensione tipica di questa sindrome
lo strain relazionale definito da Borgogni e collaboratori come una specifica reazione manifestata in seguito a
relazioni interpersonali impegnative e pressanti, in risposta alle quali la persona sviluppa un atteggiamento di distacco
emotivo e cognitivo.
2. Le definizioni di processo descrivono le fasi attraverso cui il burnout si sviluppa. Uno dei modelli
maggiormente riconosciuto è quello di Edelwich e Brodsky che descrive il burnout come un processo
articolato nelle seguenti quattro fasi:
 Entusiasmo idealistico, caratterizzato da aspettative di successo e di miglioramento del
proprio status;
 Stagnazione, durante la quale l’operatore percepisce come incerti i risultati del proprio
impegno;
 Frustrazione, in cui predominano sentimenti di impotenza;
 Apatia, caratterizzata da una totale chiusura in sé stessi con perdita del desiderio di aiutare gli
altri.
Attualmente il burnout viene concepito come un disagio estensibile a qualsiasi categoria professionale. Quando
l’individuo si rende conto di non possedere le risorse necessarie per affrontare le richieste lavorative, può incorrere nel
rischio di sviluppare il burnout.
Dal burnout all’engagement
Le prime ricerche sul burnout focalizzarono l’attenzione prevalentemente sull’aspetto patologico e sugli effetti
negativi che tale sindrome può produrre a livello sia fisico sia psicologico. Successivamente, si è compreso che la
relazione psicologica di un individuo con il proprio lavoro può essere concettualizzata in maniera più completa e non
necessariamente solo negativa.
Il polo opposto positivo è l’engagement, definito come uno stato energetico di coinvolgimento e identificazione della
persona nei confronti del proprio lavoro, che contribuisce a incrementare la sensazione di efficacia professionale.
Considerando il continuum burnout-engagement, è possibile identificare tre dimensioni bipolari, ai cui estremi sono
presenti i due costrutti in esame: esaurimento emotivo-energia, cinismo-coinvolgimento, inefficacia-efficacia.
L’energia è intesa come vigore e capacità di resilienza; Il coinvolgimento è inteso come l’assorbimento
nell’organizzazione e l’identificazione con i suoi valori; L’efficacia è data dalla percezione di successo nello
svolgimento del proprio lavoro. L’engagement rappresenta, o dovrebbe costituire, il risultato atteso di qualsiasi
intervento finalizzato a eliminare o ridurre il malessere causato dal burnout.
Cause di insorgenza del burnout
Nell’insorgenza della sindrome del burnout sono implicati fattori sia individuali sia organizzativi. L’attuale tendenza è
quella di porre maggiore enfasi su questi ultimi, considerando il burnout come una problematica collettiva che non
riguarda solo il singolo individuo.
 I fattori individuali: l’insorgenza e gli effetti del burnout dipendono dal modo in cui le persone rispondono
alle situazioni stressanti, dalle loro caratteristiche di personalità, dai valori, motivazioni e stili di vita acquisiti.
 Fattori organizzativi: Leiter e Maslach hanno individuato sei principali aree di vita lavorativa che possono
incidere sui livelli di burnout:
o Carico di lavoro, dato dalla quantità di tempo e risorse che il soggetto ha a disposizione per portare a
termine il proprio lavoro;
o Controllo, relativo al grado di autonomia professionale che la persona è in grado di esercitare nel
prendere decisioni sul lavoro;
o Riconoscimento, di natura anche sociale, che il lavoratore riceve per l’attività svolta;
o Integrazione sociale, data dalla qualità delle relazioni interpersonali con altri al lavoro (capi, colleghi)
o Equità, ossia il grado in cui il soggetto percepisce che le decisioni aziendali siano prese in maniera
trasparente ed equa;
o Valori, intesi come il livello di congruenza tra valori individuali e organizzativi.
Le aree di vita lavorativa possono rappresentare un fattore predisponente (se presenti in maniera negativa) o
protettivo nei confronti del burnout. Un buon allineamento tra il singolo individuo e l’organizzazione di
appartenenza rispetto ai sei aspetti può favorire lo sviluppo di buone risorse.
La principale causa del burnout viene oggi identificata nella qualità delle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro.
Infatti, è ormai ampiamente riconosciuto come queste relazioni siano in grado di determinare disagio e stress.
Effetti del burnout
Gli effetti negativi che il burnout può avere a livello sia individuale sia organizzativo sono riconosciuti in letteratura:
tale sindrome può infatti avere ripercussioni sull’andamento dell’intera organizzazione.
 Effetti individuali: il burnout si manifesta attraverso somatizzazioni di varia natura e manifestazioni
psicologiche (ansia, irritazione e depressione). Alcune ricerche hanno rivelato come il burnout possa essere
considerato un importante predittore della depressione. Ulteriore effetto negativo che il burnout può produrre
a livello individuale è relativo all’equilibrio lavoro-vita privata (l’effetto spillover).
 Effetti organizzativi: le conseguenze del burnout possono compromettere le qualità delle prestazioni con
conseguente diminuzione della soddisfazione di clienti/utenti per i servizi ricevuti. Insoddisfazione lavorativa,
scarso commitment e intenzione di lasciare il posto di lavoro sono tra gli effetti più frequentemente rilevati a
livello organizzativo.
Valutazione del burnout
Alcuni strumenti di misura… il principale questionario è il Maslasch Burnout Inventory (MBI di Maslach) che si
fonda sulla concettualizzazione del burnout come una sindrome causata da stress cronico e caratterizzata dalle tre
dimensioni (esaurimento emotivo, cinismo e ridotto senso di riuscita professionale).
Un ulteriore strumento è l’Organizational Checkup System (OCS di Maslach) che oltre a essere applicabile a tutte le
categorie professionali, non si limita alla valutazione di aspetti individuali ma considera anche gli aspetti
organizzativi, potenziali fonti di burnout.
E’ un questionario composto da 68 item con modalità di risposta su scala Likert, suddivisi in quattro sezioni
finalizzate alla misurazione dei seguenti aspetti:
- Le tre dimensioni del burnout (16 item), cioè esaurimento, cinismo e inefficacia professionale;
- Le sei aree della vita lavorativa (29 item)
- La percezione che i soggetti hanno di eventuali cambiamenti avvenuti di recente all’interno
dell’organizzazione (10 item)
- I processi di gestione presenti nell’organizzazione, in particolare quelli riferiti alla leadership, allo
sviluppo delle competenze e alla coesione di gruppo (13 item)
Interventi
Gli interventi realizzabili possono essere riferiti a tre differenti livelli: individuale, sociale e organizzativo.
A livello individuale> occorre riferirsi alle pratiche di prevenzione, in termini di revisione dei sistemi di reclutamento,
inserimento lavorativo e formazione, che dovrebbero basarsi su un’attenta analisi delle motivazioni e delle
caratteristiche personali.
A livello sociale> emerge di grande rilevanza il ruolo svolto dal sistema delle relazioni interpersonali e dal sostegno
sociale nel fornire adeguata prevenzione del disagio e dell’insorgenza del burnout.
A livello organizzativo> non si può prescindere da un’analisi dell’organizzazione e dal prendere in considerazione, in
particolare, gli stili di management, il funzionamento dei gruppi di lavoro, le caratteristiche del clima e organizzative.
La Traumatizzazione Vicaria
La Traumatizzazione Vicaria (TV) rappresenta una potenziale fonte di disagio psicologico specifica per coloro che
operano in particolari settori occupazionali: ad esempio i soccorritori (vigili del fuoco, medici, infermieri, forze
dell’ordine, operatori delle ambulanze ecc.) Questi professionisti risultano frequentemente esposti a eventi di carattere
traumatico. Le difficili condizioni lavorative rappresentano potenziali fattori di rischio per la salute sia fisica sia
psicologica: lo stress derivante dalla gestione di eventi critici può generare effetti negativi sul benessere psicologico,
oltre al burnout ad esempio, vanno considerati anche i sintomi post-traumatici che derivano dall’esposizione a
circostanze acute, più o meno traumatiche.
Ciò non deve indurre a pensare che tali professioni siano costantemente esposti a grave sofferenza psicologica, poiché
alcuni soggetti dispongono di importanti risorse psicologiche che li proteggono da esiti negativi di salute.
Cause e manifestazioni della Traumatizzazione Vicaria
Il disturbo post traumatico da stress (DPTS) deriva dall'esposizione a eventi traumatici che implicano l'esperienza
diretta o l'osservazione di situazioni di minaccia, morte o gravi ferite. I professionisti dell’aiuto ne rappresentano una
categoria a rischio. A differenza del DPTS, la TV può essere sviluppata anche senza avere direttamente esperito
l'evento traumatico ma può derivare anche dalla semplice conoscenza di eventi di tale genere, vissuti da altre persone
(raccontati dalla vittima). Chi si prende cura di persone fisicamente e psicologicamente traumatizzate può sviluppare
le stesse manifestazioni emotive diventando vittime indirette o vicarie. I sintomi con la TV sono del tutto
sovrapponibili a quelli dimostrati dalle vittime, che soggette a DPTS, trasmettono in maniera indiretta il proprio
malessere a coloro che in maniera empatica offrono loro il proprio supporto. I sintomi sono: pensieri intrusivi
(pensieri, immagini, incubi, e flashback e allucinazioni), evitamento degli stimoli associati all'evento (luoghi,
persone), iperattivazione (ansia, irritabilità, rabbia, difficoltà di concentrazione, ipervigilanza e difficoltà di sonno).
Valutazione della Traumatizzazione Vicaria
Uno degli strumenti più utilizzati è la Secondary Traumatic Stress Scale (STSS) che include 17 item in cui lo stressor è
rappresentato non dall’esposizione all’evento critico, ma alla vittima che lo ha subito. Valuta quindi la frequenza dei
sintomi intrusivi, di evitamento e iperattivazione. La versione italiana è composta da 15 item.

Interventi
È stato dimostrato che i professionisti dell'aiuto hanno a disposizione risorse psicologiche in grado di contrastare gli
effetti negativi derivanti dall'esposizione a eventi critici. Ehi, tuttavia, Le risorse individuali possono talora non
garantire il benessere per il quale si rende necessario impostare anche un percorso di supporto psicologico.
L'approccio attualmente più diffuso è quello noto come Critical Incident Stress Management (CISM) (cism) costituito
da più interventi tra loro combinati con l'obiettivo di limitare il più possibile lo stress psicologico derivante dagli
eventi critici, prevenendo o riducendo l'insorgenza di reazioni post traumatiche. Il CISM include 7 elementi basilari:
1. La preparazione pre-crisi tramite formazione e counseling individuale;
2. Procedure di smobilitazione di massa da implementare dopo disastri;
3. Counseling individuale per il supporto in situazioni di crisi acuta;
4. Brevi discussioni in piccoli gruppi finalizzati a ridurre i sintomi acuti;
5. Critical Incident Stress Debriefings (CISD) cioè lunghe discussioni in piccoli gruppi che facilitano il
raggiungimento di un senso di vicinanza psicologica tra le persone dopo la crisi;
6. Interventi di supporto alle famiglie;
7. Procedure di follow up e di eventuale rimando professionale per valutazioni e interventi psicologici
specialistici quando ritenuti necessari;
È un approccio che copre l'intero processo, dalla fase pre a quella post crisi. Sono state sviluppate anche altre forme di
intervento che risultano ancora degne di nota. Ad esempio, gli interventi individuali di supporto alle crisi, che
consistono in interventi realizzati subito dopo l'evento critico, durante i quali vengono ascoltati i fatti, si opera sulle
sensazioni delle vittime, si facilita il supporto sociale, viene fornito conforto motivo alle vittime, nelle quali si tenta di
mobilitare le risorse necessarie per reagire a quanto accaduto. Un'ulteriore forma di intervento è il debriefing
psicologico di gruppo sviluppato al fine di supportare gli operatori dell'emergenze esposti a circostanze critiche, i suoi
obiettivi sono molteplici: prevenire risposte disfunzionali a eventi critici, ristabilire un'adeguata padronanza delle
capacità e risorse, incrementare il supporto sociale, ridare un senso alla vita e ridurre le reazioni sintomatiche. Tra le
varie tecniche di debriefing, quella proposta da Mitchell (CISD) è la più diffusa, poiché si basa su una struttura che
parte da un'elaborazione cognitiva dell'evento, per poi passare a una rielaborazione emotiva dell'accaduto e chiudere,
tornando a focalizzare l'attenzione sugli aspetti cognitivi. Tale metodologia prevede che l'intervento venga svolto in 2-
7 giorni dopo l'evento traumatico e risulta essere di particolare efficacia.
Conclusioni
La psicologia occupazionale (Occupational Health Psychology) ha l'obiettivo di prevenire il malessere psicologico e i
rischi correlati tramite la realizzazione di ambienti lavorativi sani. Per fare ciò occorre individuare e analizzare quali
siano i fattori organizzativi che maggiormente portano rischi attraverso lo studio di varie discipline. Luczak osserva
che tradizionalmente la progettazione dei luoghi di lavoro avveniva secondo una prospettiva tecnocentrica in base alla
quale ci si aspetta che siano le persone a adattarsi alle caratteristiche dell'ambiente di lavoro, al contrario l'autore
suggerisce che un buon ambiente di lavoro è quello costruito secondo una visione andropocentrica che pone
l'individuo al centro del processo di progettazione. Un'altra strategia per promuovere il benessere organizzativo è
quella di costruire centri di salute organizzativa all'interno dei luoghi di lavoro che si occupano di valutare e
monitorare costantemente le condizioni di salute psicologica per impostare piani di prevenzione ed intervento.
Capitolo 10
I comportamenti controproduttivi
È importante lo studio di comportamenti come frode, corruzione, conflitto di interessi, falso in bilancio, furto in
ambito organizzativo e i comportamenti aggressivi a danno dei lavoratori per la psicologia del lavoro e delle
organizzazioni perché spesso rappresentato le cause delle perdite nel mercato economico.
Che cosa sono i comportamenti controproduttivi
Moltissimi studi si sono occupati dei comportamenti messi in atto dai lavoratori a danno delle organizzazioni e/o dei
suoi membri e diverse sono le etichette utilizzate per definirli: comportamento lavorativo deviante comportamento
immorale organizzativo, cattivo comportamento, aggressione organizzativa ecc.
Il termine “comportamenti controproduttivi” è inteso nell’accezione più ampia, includendo tutte le diverse
manifestazioni descritte. Questi comportamenti sono azioni intenzionali che danneggiano l’organizzazione e violano
sostanziali norme organizzative, colpiscono, infatti, l’organizzazione e la ostacolano nel raggiungimento degli
obiettivi, minacciano il suo funzionamento e ne danneggiano le proprietà. Questa intenzionalità non p da riferirsi alla
produzione del danno ma alla consapevole elusione (trasgressione) di norme e procedure organizzative e sociali.
Laddove c’è l’intenzionalità di danneggiare l’organizzazione si parla più specificamente di comportamenti
organizzativi aggressivi messi in atto per colpire l’organizzazione o le persone che ne fanno parte. I comportamenti
controproduttivi possono essere invece messi in atto senza questa intenzionalità anche se viene prodotto un danno.
Tutti i comportamenti aggressivi possono essere considerati come controproduttivi ma non tutti i comportamenti
controproduttivi sono aggressivi.
Kelloway e colleghi considerano i comportamenti controproduttivi come una forma di protesta in cui individui e
gruppi cercano di modificare una situazione di ingiustizia. Skarlicki e Folger hanno introdotto la nozione di
comportamenti negativi riferendosi ad azioni messe in atto in risposta a un'ingiustizia organizzativa con lo scopo di
punire il responsabile e sono intenzionali a produrre un danno. Altri autori hanno introdotto il costrutto di devianza
organizzativa intesa come comportamenti volitivi (intenzionali) che violano le norme e danneggiano l’organizzazione
o i suoi membri.
I comportamenti controproduttivi si riferiscono a una varietà estremamente ampia di atti negativi e ne sono state
identificate diverse tipologie. Possono includere comportamenti:
- “attivi”> come aggressione, furto:
- “passivi”> come non attenersi di proposito a istruzioni o svolgere consapevolmente il proprio lavoro in
maniera non corretta.
Robinson e Bennett classificano i comportamenti controproduttivi lungo due assi:
- Target> organizzativo vs interdividuale
- Gravità del comportamento> grave vs marginale
Conseguentemente identificano quattro quadranti all’interno dei quali sono collocabili differenti tipi di comportamenti
controproduttivi:
 Production deviance: comportamenti controproduttivi organizzativi marginali (es. prendersi pause più lunghe
del dovuto)
 Property deviance: comportamenti controproduttivi organizzativi gravi (es. sabotaggio o furti di beni
dell’organizzazione)
 Political deviance: comportamenti controproduttivi interpersonali marginali (es. diffondere pettegolezzi o
incolpare altri)
 Personal aggression: comportamenti controproduttivi interpersonali gravi (es. molestie sessuali o abusi
verbali)
Spector e colleghi differenziano invece cinque categorie:
1. L’abuso verso gli altri> si riferisce a forme dirette o indirette di aggressione nei confronti di un collega e/o
altre persone nell’organizzazione, sono infrequenti ma non assenti.
2. Devianza produttiva> fa riferimento a comportamenti agiti contro l’organizzazione intesa come entità più
generale, comportamenti più passivi.
3. Il sabotaggio> è riconducibile a quei comportamenti che prevedono un’attiva manomissione o un
consapevole danneggiamento di una proprietà dell’organizzazione, comportamenti più attivi.
4. Il furto> riconosciuto come uno dei maggiori problemi nelle organizzazioni ed è considerato una forma di
aggressione contro l’organizzazione.
5. I comportamenti di ritiro (withdrawl)> riferibili a tutte le situazioni in cui la quantità di tempo dedicato al
lavoro viene ridotta rispetto a quanto richiesto dall’organizzazione, come assenza, arrivare in ritardo,
andarsene prima, prendersi più pause di quanto consentito ecc.
Un altro modo di classificare i comportamenti controproduttivi riprende la classificazione proposta da Robinson e
Bennett in cui vengono differenziati in base al target dell’azione: nel primo caso si parlerà di comportamenti
controproduttivi organizzativi e si farà riferimento agli atti di sabotaggio, frode, furto, comportamenti di withdrawal,
spreco di risorse ecc; nel secondo caso si parlerà di comportamenti controproduttivi interpersonali e si farà
riferimento ad atti rivolti contro le persone che lavorano nell’organizzazione, ad esempio molestie sessuali, abusi
verbali, furto ai danni dei colleghi, ma anche favoritismi.

Che cosa spinge un lavoratore a mettere in atto un comportamento controproduttivo?


I comportamenti aggressivi sono spesso considerati il frutto di emozioni negative come rabbia, frustrazione oppure
come risposta a condizioni ambientarli e lavorative. Vengono identificati due motivi di base: ostile e strumentale.
 L’aggressione ostile> è spesso chiamata affettiva, impulsiva, calda e fa riferimento all’insieme di
comportamenti aggressivi di natura impulsiva e non pianificati. Derivano dalla rabbia provata in una
determinata situazione e ha come scopo quello di danneggiare e fare male alla vittima.
 L’aggressione strumentale> è definita invece fredda, l’azione è premeditata e ha l’obiettivo di ottenere
qualche beneficio attraverso il danneggiamento della vittima. Si può definire, inoltre, proattiva.
La messa in atto di comportamenti controproduttivi potrebbe anche non derivare dall’essere stati vittima direttamente
di torti o di eccessivi stressor, bensì dall’aver anche solo osservato nel proprio contesto lavorativo la vittimizzazione di
un proprio collega. In queste situazioni vengono messi in atto tali comportamenti come tentativo di fornire aiuto e
supporto.
Molte delle teorie che hanno cercato di descrivere il processo che può portare un lavoratore a mettere in atto
comportamenti controproduttivi mettono al centro delle proprie modellizzazioni la reazione emotiva negativa
derivante dall’aver esperito una situazione lavorativa avversa.
Il modello teorico maggiormente rilevante è lo Stressor-emotion model dei comportamenti controproduttivi proposto
da Spector e Fox e ha l’obiettivo di spiegare il processo che conduce i lavoratori a mettere in atto tali comportamenti,
considerando sia gli elementi del contesto organizzativo ma anche meccanismi emotivi e cognitivi individuali. Spector
e Fox ipotizzano che le frustrazioni, interferendo con gli obiettivi, determinano una reazione emotiva negativa che
faciliterebbe la messa in atto di comportamenti aggressivi.
Gli elementi costitutivi di questo modello sono:
- Un ambiente di lavoro caratterizzato da forti stressor che interferiscono con la performance, tra i
principali: conflitti interpersonali, ingiustizia, ambiguità e conflitto di ruolo, elevato carico lavorativo ecc.
- La percezione di tali situazioni come stressanti.
- L’esperienza di emozioni negative come reazione a tale percezione.
- La messa in atto di comportamenti controproduttivi per gestire queste emozioni.
Secondo questo modello i fattori di personalità hanno anche un ruolo, poiché influenzano gli elementi del modello e
agiscono da moderatori in grado di modificare e controllare le risposte emotive e comportamentali.
I comportamenti controproduttivi vengono considerati quindi una risposta comportamentale di strain a una situazione
stressante e rappresenterebbero il tentativo del lavoratore di gestire la situazione stressante in modo da ridurre
l’emozione negativa provata. Inoltre, è stato rilevato come i conflitti interpersonali, i vincoli organizzativi (intesi come
indisponibilità di risorse o apparecchiature) e il carico di lavoro siano considerati i principali stressor che
contribuiscono a spiegare i comportamenti controproduttivi. Ulteriori sviluppi della ricerca sul modello stressor-
emotion hanno portato a ipotizzare che i comportamenti controproduttivi possano anche derivare dall’aver subito
comportamenti aggressivi al lavoro e quindi si possono considerare come una forma di comportamento
controaggressivo, ma non sono necessariamente diretti alla persona responsabile.
Alcuni studi sottolineano come un’ulteriore fonte dei comportamenti aggressivi di cui sono vittime i lavoratori
possano essere gli utenti/clienti. È stato evidenziato come essere esposti a utenti maleducati e ostili porti a un aumento
dell’assenteismo e delle emozioni negative, che portano alla messa in atto di comportamenti controproduttivi.
Un altro fattore che può incidere sui comportamenti controproduttivi è la giustizia interpersonale, quando il lavoratore
viene trattato ingiustamente, le emozioni negative provate lo inducono ad agire aggressivamente contro altri
nell’organizzazione stessa ma non contro il supervisore/capo, per timore di ulteriori ritorsioni.
Uno stile di leadership che può portare a comportamenti controproduttivi è lo stile di leadership ostile/abusante,
ovvero un capo percepito dai propri collaboratori come oppositivo e non supportivo.
Il ruolo del disimpegno morale
Nei comportamenti strumentali è necessario analizzare il ruolo dei meccanismi cognitivi di giustificazione per cogliere
la componente di intenzionalità. I meccanismi di disimpegno morale descritti nella teoria social-cognitiva di Bandura
spiegano come le persone possono mettere in atto comportamenti in contrasto con i propri standard morali ed etici
senza riconoscerne l'incoerenza e riducendo i sentimenti di colpa, rimorso ed imbarazzo. L’adozione di specifici
standard morali non va per forza ad autoregolare la condotta. Fida e colleghi hanno recentemente investigato il ruolo
del disimpegno morale all’interno del modello stressor-emotion, mostrando come, affinché si attui una risposta
controproduttiva all’attivazione emozione negativa, sia necessario che vengano attivati meccanismi di disimpegno
morale → cioè la messa in atto di comportamenti controproduttivi non è possibile finché non vi è una temporanea
disattivazione del proprio controllo morale.
Il ruolo delle caratteristiche di personalità
La personalità e vari fattori individuali possono sostenere o contrastare comportamenti controproduttivi.
I cinque grandi fattori di personalità
(coscienziosità, energia, amicalità, stabilità emotiva e apertura mentale). Gli individui coscienziosi sono descritti come
persone affidabili, lavoratori seri, che rispettano le regole e che cercano di utilizzare al meglio le proprie risorse per
raggiungere gli obiettivi. Le persone amicali sono descritte come sensibili ai bisogni degli altri, mentre le persone con
alta stabilità emotiva sono descritte come rilassate, sicure, pazienti e tendono ad avere bisogno di meno tempo ed
energie per regolare le loro emozioni e hanno maggiore capacità nel saper usare al meglio le risorse. Tutte queste
caratteristiche portano a una bassa probabilità di
comportamenti controproduttivi.
Integrità
L'integrità è un altro fattore che influenza le condotte devianti e antisociali. I test di integrità sono stati utilizzati nei
processi di selezione del personale per identificare ed escludere candidati che sono al rischio di condotte
controproduttive. Le persone con punteggi elevati nei test di integrità sono più produttive, fanno meno essenze e
mettono in atto meno comportamenti controproduttivi.
Ottimismo, locus of control e percezioni di autoefficacia
Ottimismo, locus of control percezione di autoefficacia sono altre caratteristiche di personalità che influenzano i
comportamenti contro produttivi. Le persone che hanno un orientamento positivo verso il futuro e si sentono più
capaci di gestire l'attività lavorativa tendono meno a comportamenti controproduttivi. I lavoratori con un locus of
control esterno, cioè che tendono ad attribuire le cause degli eventi a fattori esterni, sono quelli che mettono in atto più
frequentemente comportamenti controproduttivi. Le percezioni di autoefficacia influenzano il modo in cui lavoratori
gestiscono le situazioni lavorative riconosciute come difficili e minacciose: le persone che sanno gestire i compiti e le
emozioni provano meno emozioni negative e mettono in atto o meno comportamenti controproduttivi.
Machiavellismo, narcisismo e psicopatia
A un maggiore machiavellismo corrisponde una maggiore probabilità di vendicarsi di un torto subito, oppure una
maggiore tendenza a mentire. Gli individui machiavellici sono meno vincolati dal desiderio di seguire le richieste
normative relative agli scambi sociali e sono cinici e manipolativi generalmente. Ciò significa che hanno più
probabilità di mettere in atto comportamenti controproduttivi. Le persone narcisiste sono più frequentemente ostili e
aggressive, soprattutto quando avvertono minacce per il loro ego, per loro gli standard comuni non si applicano a loro
stessi e questo porta un aumento di comportamenti controproduttivi come frode, bullismo e aggressione. Il tratto della
psicopatia è stato associato a varie forme di criminalità come molestia sessuale, stupro e omicidio. Poiché non sono
empatici, provano disinteresse nei confronti degli obblighi sociali e bassa affettività hanno più probabilità di mettere
in atto comportamenti controproduttivi.
Affettività negativa, rabbia e ansia di tratto
A più elevati punteggi di affettività negativa corrisponderà una maggiore tendenza delle persone a provare stress e
disagio in differenti situazioni, a ruminare sugli errori commessi, a prestare attenzione particolarmente agli aspetti
negativi della propria vita e ciò condurrà gli individui a mettere in atto comportamenti controproduttivi.
Persone con alti punteggi nella rabbia di tratto tendono a percepire più negativamente le diverse situazioni al lavoro e
a mettere in atto più comportamenti aggressivi e antisociali (fare qualcosa di proposito per ferire qualcun altro,
sbattere le porte, usare il sarcasmo).
Le persone con alti punteggi nell’ansia di tratto tendono a rispondere agli eventi lavorativi con maggiore frustrazione e
insoddisfazione, stati affettivi che predispongono più facilmente alla messa in atto di comportamenti controproduttivi.
Interazione persona-ambiente
Oltre ai fattori di personalità le caratteristiche dell'ambiente possono influenzare il comportamento. Non tutti gli
individui però rispondono allo stesso modo alle stesse condizioni contestuali, per esempio gli stressor hanno un effetto
maggiore tra le persone con alta affettività negatività piuttosto che quelle con bassa affettività negativa.

Il ruolo del controllo


Il modello stressor-emotion prevede flusso che va dall'ambiente ai comportamenti attraverso la risposta emotiva
negativa. Ma ci sono diversi fattori che possono mitigare la risposta emotiva e controproduttiva come il ruolo del
controllo. Un lavoratore che è orientato ad arrabbiarsi non necessariamente esplode in ogni situazione, perché subentra
l'autocontrollo cioè la capacità di gestire i propri stati emotivi e inibire una reazione impulsiva o aggressiva nei
confronti di una provocazione o una situazione frustrante. Inoltre, si è dimostrato come la convinzione di autoefficacia
lavorativa e autoefficacia emotiva cioè la capacità di gestire le proprie attività professionali ed emozioni negative
tende a ridurre la percezione degli stressor lavorativi e risposte emotive negative e quindi sarà bassa la probabilità di
comportamenti controproduttivi.
Il comportamento controproduttivo è un sintomo di disfunzionalità del sistema organizzativo.
Capitolo 11
La carriera
Nel senso comune o più tradizionale del termine, la carriera è la carriera lavorativa o professionale, intesa come un
percorso a gradini, marcato da indicatori evidenti come i livelli di inquadramento, la collocazione nella linea
gerarchica, gli ambiti di responsabilità attribuiti ecc.
Form e Miller definiscono le carriere professionali come occupational career pattern, volendo indicare la sequenza e
la durata delle posizioni lavorative occupate dagli individui, vengono considerate come scale di promozioni.
Con il tempo l’interesse si è spostato sul rapporto individuo-organizzazione, volgendo l’attenzione al momento della
scelta professionale e al processo di continuo adattamento tra la persona e l’organizzazione. Importanti studi sono
quelli di Holland, che studia la congruenza tra il tipo di personalità e il tipo di ambiente lavorativo, e di Schein, che
interpreta la carriera come un processo di negoziazione reciproca tra individuo e organizzazione.
Un altro filone di studi sulla carriera è inaugurato da Super che sostituisce il termine career pattern con quello di life
stage, cioè fasi della vita o stadi di sviluppo. Nella teoria di Super l’oggetto di studio è la carriera, definita come
carriera di vita e non solo carriera professionale.
L’attenzione viene rivolta non solo ai comportamenti e alle interazioni individuo-ambiente di lavoro ma anche alla
riflessione su quei comportamenti e quelle interazioni e alla loro interpretazione da parte dei lavoratori. La tendenza a
cogliere nella carriera il punto di vista soggettivo, i processi di costruzione di sé e del mondo esterno distingue in
particolare i contributi teorici che si collocano all’interno del paradigma costruttivista e sociocostruzionista e che
hanno focalizzato l’attenzione sulla narrazione delle storie di carriera e di vita.
La carriera non viene più intesa come una sequenza di promozioni governata dall’organizzazione, ma come un
processo di autoformazione e self-management gestito individualmente e sorretto dall’apprendimento di competenze
eterogenee.
Sono emerse nuove tipologie di carriere, dette “senza confini”, che comprendono diversi tipi di impieghi in diverse
organizzazioni.
Teorie a confronto
La teoria di Super e gli sviluppi successivi
La psicologia del ciclo di vita ha elaborato modelli volti a comprendere come le persone integrano il lavoro nelle loro
vite e non come le persone si integrano nel lavoro, e come lo sviluppo individuale si nutra dell’esperienza di crescita
professionale. Per Super la carriera è un processo decisionale che porta a scelte professionali che rappresentano
l’attualizzazione di un concetto di sé relativo alla professione.
La teoria di Super si è evoluta ampliando lo sguardo al corso della vita nel suo insieme, quindi prima e dopo la vita
lavorativa, e all’articolazione dei diversi ruoli sociali che un individuo ricopre. La rappresentazione di Super del corso
della vita diventa quella di un arcobaleno (Life-career Rainbow – LCR) in cui si incrociano due dimensioni:
- La dimensione life-span(arco di vita): denota le diverse tappe di sviluppo nel corso della vita. Si articola
in 5 tappe, chiamate maxi cicli di sviluppo: la crescita (infanzia), l’esplorazione (adolescenza), la
stabilizzazione (dai 24 ai 44 anni), il mantenimento (dai 45 ai 65 anni), il declino (dopo i 65 anni).
- La dimensione life-space(spazio di vita): denota i diversi ruoli assunti dall’individuo nel corso della vita e
si può articolare in diversi ruoli: bambino, studente, uomo o donna nel tempo libero, lavoratore, cittadino,
coniuge, padre o madre di famiglia.
La maturità di carriera di un individuo dipenderà dalla sua capacità di realizzare un compromesso tra i diversi ruoli
che ricopre, tra i diversi concetti di sé e le diverse realtà con cui si confronta, tra i compiti di sviluppo che ci si aspetta
da sé e le risorse cognitive e affettive a sua disposizione per affrontarli. Il limite della teoria di Super è che le tappe
evolutive si susseguano in una progressione gerarchica.
Savickas integra il lavoro di Super proponendo la Career Construction Theory che si concentra su come gli individui
costruiscono i ruoli di vita, compresa la carriera lavorativa. Secondo Savickas la carriera è costruita attraverso il
significato attribuito ai comportamenti nell’ambiente di lavoro e all’insieme di relazioni interpersonali. Savickas a
differenza di Super scoraggia la descrizione dei percorsi di carriera a stadi sequenziali, evidenziando di contro percorsi
di carriera meno prevedibili. Gli individui possono passare durante ogni transizione di carriera, attraverso un “mini
ciclo” in cui si alternano crescita, esplorazioni, creazione, realizzazioni e disimpegno. Questi passaggi non lineari
possono derivare da cambiamenti imprevisti (licenziamenti, malattie invalidanti) che permettono di sviluppare la
capacità di adattamento individuale.
Un approccio ancora più orientato alle caratteristiche del contesto socioculturale è quello del Culturally Appropriate
Career Counseling Model (CACCM) di Fouad e Bingham, che rientra nelle teorie delle carriere multiculturali che
presentano una maggiore attenzione, a differenza dell’approccio di Super e Savickas, su come il contesto culturale e le
barriere sociali possono influenzare le decisioni professionali.
Le transizioni biografiche e professionali
Intorno agli anni Ottanta, vi è una nuova visione che supera il modello stadiale di Super per un modello transizionale
dovuto alle nuove prospettive di carriera non più a “scalata” ma trasversali all’organizzazione le cosiddette
boundaryless career. La rappresentazione transizionale della crescita umana rende maggiormente conto di quanto
accade nell’età adulta dove predominano eventi non normativi (licenziamenti, malattie, promozioni) e poiché le
transizioni costituiscono momenti cruciali e di svolta nello sviluppo adulto, diventa importante cogliere il significato
che i soggetti attribuiscono a tali transizioni.
Nicholson ha proposto “un ciclo di transizione” come cornice per l’analisi di ogni transizione lavorativa. Il ciclo
prevede le seguenti fasi:
- La fase “preparatoria” che precede l’assunzione di ruolo ed è contraddistinta da aspettative irrealistiche e
da preoccupazione;
- La fase di “incontro” che vede il soggetto impegnato nell’attribuzione di significato a fronte di un vissuto
di disorientamento, talvolta rifiuto;
- La fase di “aggiustamento” in cui il soggetto trova il proprio modo di svolgere il lavoro e si interroga sulle
possibili strategie di sviluppo da adottare;
- La fase di “stabilizzazione” durante la quale il soggetto si concentra sulla prestazione e progetta un
ulteriore passaggio di ruolo, poiché questa fase è frequentemente attraversata da noia e stagnazione.
Allargando ulteriormente lo sguardo, Schlossberg individua quattro tipi di transizioni lavorative: l’ingresso nel mondo
del lavoro; la mobilità interna; la perdita del lavoro; il ritorno a un lavoro o a un contesto precedente. Le traiettorie di
vita non sono costellate di sole transizioni lavorative ma anche da transizioni intrapsichiche. Inoltre, le transizioni
lavorative possono avere un impatto sugli altri ambiti dell’esistenza e sulla vita delle persone con le quali si entra in
contatto. Braubion-Broye e Hajjar a tal proposito hanno messo in evidenza come l’adattamento alle esigenze
organizzative non sia necessariamente la prima o l’unica preoccupazione di un individuo che transita in una nuova
situazione professionale.
L’approccio Sviluppo-Contesto
Vondraceck e collaboratori hanno focalizzato il loro interesse sul percorso che conduce l’adolescente o il giovane
adulto a compiere determinate scelte professionali, rivolgendo l’attenzione alle cause antecedenti all’ingresso nel
mondo del lavoro: influenza della famiglia, della scuola, del gruppo dei pari ecc. Vondraceck riprende gli assunti del
modello di sviluppo di Bronfenbrenner che distingue quattro livelli di contesti:
- Il microsistema> costituito dai contesti più prossimi all’individuo (famiglia, ambiente di lavoro) e in
questi contesti le interazioni più importanti sono le diadi (madre-figlia, padre-figlio, capo-collaboratore).
Un microsistema fondamentale è la famiglia.
- Il mesosistema> è l’insieme delle interazioni fra i microsistemi.
- L’esosistema> indica contesti ambientali a cui l’individuo non partecipa direttamente o continuativamente
(mercato di lavoro, sottoculture lavorative) ma che influenzano lo sviluppo professionale e personale.
- Il macrosistema> rappresenta il sistema socioeconomico e influenza le scelte professionali attraverso le
rappresentazioni sociali delle professioni, strutturate secondo variabili di genere, razza e status.
Lo sviluppo resta comunque un processo dotato di plasticità, perché i contesti sono oggetto di costruzione continua da
parte degli individui e perché queste costruzioni provocano in essi dei feedback verso l’individuo.
Il costruttivismo e il sociocostruzionismo
Il costruttivismo si interessa alla costruzione del mondo psichico e sociale attraverso i processi cognitivi individuali e
intrapsichici, prestando poca attenzione alle interazioni sociali. Mentre concentra l'interesse su come l'individuo
costruisce il proprio sé e dà significato alla propria esistenza. L’approccio costruttivista assume importanza da quando
si è considerato il “significato” come aspetto centrale della carriera e la narrazione e la forma in cui quel significato si
esprime e può essere colto. É, infatti, attraverso il racconto di una storia (come processo di ricostruzione e
interpretazione dell’esperienza) che gli individui danno un senso alle loro carriere. A differenza del costruttivismo, il
sociocostruzionismo sostiene che il mondo psichico e sociale sono costruiti nelle interazioni sociali e nelle pratiche
discorsive. La carriera, quindi, è il prodotto di pratiche discorsive e sociali che replicano le istituzioni, le norme
culturali, i quadri ideologici “dominanti”.
Il sociocognitivismo
La teoria sociocognitiva ripresa dagli studi di Bandura è stata utilizzata con l’obiettivo di comprendere come gli
individui sviluppino gli interessi di carriera, formulino le scelte relative al percorso di carriera e determinino e valutino
i propri livelli di performance. Per Bandura, il comportamento, l'ambiente sociale e la persona sono i tre fattori che
contribuiscono allo sviluppo psicologico dell’individuo.
Si pone particolare attenzione sul ruolo che l’autoefficacia gioca nelle decisioni e nelle scelte di carriera.
L’autoefficacia è definita come la capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre
determinati risultati. Costrutto molto importante nella Social-Cognitive Career Theory (SCCT) di Lent, Brown e
Hackett. La SCCT cerca di comprendere il processo dinamico e i meccanismi attraverso cui:
- Il percorso di carriera e gli interessi professionali si sviluppano;
- Le scelte di carriera sono portate avanti;
- Le prestazioni lavorative sono realizzate;
Questa teoria è stata utilizzata con successo per comprendere e predire le scelte di carriera lavorativa, le aspirazioni
manageriali e le scelte scolastiche degli studenti delle scuole superiori e degli studenti universitari. La SCCT
evidenzia come tre variabili personali di carattere cognitivo, la self-efficacy, le aspettative e le credenze circa i propri
risultati e l'intenzione di portare avanti degli obiettivi, interagiscano con il contesto socio culturale e le variabili
personali per predire gli interessi e il percorso di carriera scolastica e lavorativa. Gli interessi guidano il
raggiungimento degli obiettivi prefissati e i risultati ottenuti in base a un meccanismo di retroazione modificano la self
efficacy e le aspettative. L'autoefficacia e le aspettative sono influenzate sia da caratteristiche individuali sia dalle
variabili contestuali. La SCCT ha recentemente esteso i suoi obiettivi alla comprensione delle dinamiche legate alla
soddisfazione lavorativa e scolastica. Di recente, Lent e Brown hanno applicato il SCCT self-management model in
uno studio sul retirement process (pensionamento) dimostrando che le stesse variabili predittive della soddisfazione
lavorativa possono essere utilizzate come predittori degli esiti di retirement. Oltre ai tratti di personalità, gli autori
fanno riferimento nel loro studio al ruolo che possono giocare nel processo decisionale anche il livello di abilità
adattive per far fronte alla transizione di ruolo e l'autoefficacia per adeguare ai propri progetti di carriera sulla base di
potenziali ostacoli come la discriminazione, le preoccupazioni economiche e quelle di salute.
Il buon adattamento tra persona e ambiente
La teoria di Holland dei tipi di personalità e degli ambienti lavorativi ha esercitato un’influenza nella pratica
dell’orientamento professionale. L’assunto implicito in questa teoria è che le scelte di carriera sono espressione della
personalità individuale e che le persone che operano in un medesimo contesto professionale hanno strutture di
personalità simili. I tipi di personalità descritti nella teoria di Holland sono sei: realistica, investigativa o intellettuale,
artistica, sociale, imprenditoriale, convenzionale o organizzatrice. I tipi di personalità rispecchiano diversi interessi
professionali maturati nella storia individuale e formati da un insieme di capacità e atteggiamenti utilizzati per
rispondere alle situazioni ambientali. Ogni individuo non corrisponde a un tipo “puro” ma può avere un tipo
dominante e tipi secondari. Anche gli ambienti di lavoro possono essere categorizzati nei medesimi sei tipi, il tipo di
ambiente è determinato dal tipo di personalità dominante in esso. Sia i tipi di personalità sia i tipi di ambiente possono
essere caratterizzati da diversi livelli di differenziazione interna, coerenza e identità. Infine, i tipi di personalità e i tipi
di ambiente possono essere congruenti o meno fra di loro: la congruenza tra la personalità individuale e l’ambiente
predirà le scelte professionali, la persistenza o il turnover in un ambiente di lavoro, la soddisfazione e il successo
professionale di un individuo in un dato contesto.
La teoria dell’adattamento al lavoro di Dawis e Lofquist si colloca nel filone delle teorie person-environment fit, ma,
mentre la teoria di Holland si concentra sul momento della scelta professionale, la TWA è maggiormente interessata ai
processi di adattamento dell’individuo sul posto di lavoro. Primo assunto di questa teoria è che il soggetto cerca di
realizzare e mantenere una corrispondenza con il proprio ambiente lavorativo, ossia una relazione armoniosa. Questa
corrispondenza si realizza su due differenti registri:
- Il registro delle abilità, cioè l’insieme di capacità che l’individuo possiede e che possono corrispondere a
quelle richieste dell’organizzazione;
- Il registro dei valori, cioè l’insieme dei bisogni di cui l’individuo è portatore e che possono trovare o
meno risposta nelle ricompense offerte dall’organizzazione.
La corrispondenza tra abilità possedute e quelle richieste genera satisfactoriness, la soddisfazione organizzativa, sulla
base della quale gli individui possono essere promossi, trasferiti o licenziati. La corrispondenza tra i valori
dell’individuo e le risposte dell’organizzazione genera la soddisfazione individuale sulla base della quale gli individui
decideranno se restare o licenziarsi. Ciascun individuo ha un margine di flessibilità e tolleranza alla non
corrispondenza tra le abilità possedute e quelle richieste, tra i propri valori e le risposte dell’organizzazione. Quando
questa incongruenza supera una certa soglia, l’individuo potrà attuare due strategie: modificare le condizioni
ambientali o modificare sé stesso.
Le ancore di carriera
Nell’ambito degli studi sulle carriere nelle organizzazioni, fondamentale è il contributo di Schein, che descrive la
carriera come un processo di socializzazione caratterizzato dall’influenza reciproca e dalla continua negoziazione tra
individuo e organizzazione. Il concetto di ancore di carriera rimanda agli aspetti centrali del Sé a cui la persona non
rinuncerà nei casi di difficili scelte o di transizioni di ruolo.
Schein definisce le ancore di carriera come un insieme di autopercezioni basate sui successi lavorativi,
sull’autovalutazione e sul feedback di terzi che l’individuo ha rispetto a talenti, motivazioni, bisogni, valori, interessi
basati sull’incontro tra sé e l’organizzazione e che determinano e stabilizzano le decisioni relative al percorso di
carriera.
Schein individua cinque ancore di carriera: compentenza manageriale, competenza tecnica, sicurezza e stabilità,
creatività e intraprendenza, autonomia e indipendenza. Successivamente, DeLong individua altre tre ancore di
carriera: identità, servizio e varietà e suggerisce che l’ancora “sicurezza e stabilità” è costituita da due ancore
indipendenti: la stabilità organizzativa e la sicurezza geografica.
Il contributo di Schein vuole porre l’attenzione sugli aspetti dinamici e di interazione tra individuo e organizzazione,
cogliendo l’incontro tra le aspettative individuali e le opportunità e i vincoli organizzativi. Le ancore di carriera sono
state utilizzate in molti contributi di ricerca con l’obiettivo di individuare una gamma completa di profili in grado di
descrivere le diverse concezioni di carriera.
Nuovi scenari e nuove sfide
Tradizionalmente, la carriera era vista e descritta come una progressione lineare di responsabilità lavorative che si
svolgeva all’interno di pochi contesti organizzativi. A partire dagli anni Novanta si diffondono molti contributi teorici
in cui si evidenzia la necessità di oltrepassare questa concezione di carriera e di proporre una nuova definizione in
grado di considerare la carriera come un concetto dinamico e multidimensionale. Lo sviluppo di carriera si è spostato
dall’acquisizione di abilità ed esperienze che derivano dall’appartenenza a una singola organizzazione, a uno sviluppo
“senza confini” basato sull’acquisizione di competenze che evolve in direzioni inattese e che deriva dal passaggio a
più contesti organizzativi.
La carriera è da leggere considerando la sua complessità dinamica e quindi la sua evoluzione non lineare in cui gioca
un ruolo fondamentale l’influenza reciproca tra individuo e organizzazione.
In questo scenario si colloca la carriera boundaryless (senza confini) come struttura emergente che caratterizza le
nuove organizzazioni e che rappresenta un tessuto di sviluppo delle conoscenze e delle competenze individuali. La
capacità di adattamento, intesa come abilità e disponibilità a rispondere in modo efficace ai cambiamenti è un
importante elemento distintivo delle carriere senza confine. Si può parlare di boundaryless career in termini di
“successo psicologico” con riferimento agli obiettivi personali raggiunti dall’individuo piuttosto che a quelli
convenzionalmente imposti da terzi (genitori, pari, organizzazioni, società in generale).
Le crescenti richieste legate ai nuovi criteri per fare carriera possono entrare in conflitto con gli obblighi familiari,
domestici e civili. Evidenti sono anche le conseguenze sul piano della gestione lavoro-famiglia, ciò provoca un senso
di sovraccarico e conflitto di ruolo perché l’organizzazione non è più in grado di pianificare la carriera individuale.
Pertanto, l’individuo si deve arrangiare a crescere autonomamente con la conseguenza di una possibile scarsa
identificazione con l’organizzazione di appartenenza. Questo focus sull’individuo è particolarmente evidenziato
quando si parla di protean career, termine associato a quello di boundaryless career. La protean career è una carriera
“proteiforme” che può assumere diversi aspetti. Hall definisce la protean career come un processo gestito dalla
persona e non dall’organizzazione e comprende le diverse esperienze che la persona fa nei vari settori occupazionali.
Secondo la protean career per raggiungere il successo psicologico è necessario disancorarsi dalla classica definizione
di carriera che prevede una suddivisione rigida tra lavoro pagato e compiti di cura, dove il vero successo implica
l’integrazione dei due domini di vita. Le scelte di carriera dell’individuo e la sua autorealizzazione sono gli elementi
di integrazione e unificazione della propria vita.
Non è semplice prevedere come cambieranno le carriere nei prossimi anni perché lo scenario socioeconomico è
caratterizzato da dinamismo, incertezza e complessità.
Capitolo 12
I valori personali nei contesti organizzativi
Costrutto di valore: significati e storia
Nel corso del Novecento si è tentato di delineare confini, di dare ordine e contenere il dinamismo del termine
“valore”, adottando categorie che fossero in grado di definirne il costrutto.
Valori come credenze
La concezione di valore come credenza viene sviluppata da Allport e presuppone l’assunto secondo cui le persone
agiscono in base alla preferenza verso qualcosa.
Già nello Study of Values di Allport vengono individuate le dimensioni che aiutano a descrivere e misurare la diversa
presenza di una specifica struttura di valori. Ogni genere di comportamento privato e sociale può essere categorizzato
come:
- teorico (orientato alla ricerca della verità)
- economico (orientato all’utilità)
- estetico (orientato alla bellezza)
- sociale (orientato agli altri)
- politico (orientato al potere)
- religioso (orientato alla trascendenza)
Secondo tale approccio le persone posseggono in diversa misura i singoli valori e il profilo che ne emerge può essere
utilizzato per comprendere le scelte che quotidianamente il soggetto compie. I valori vengono intesi come elementi
stabili e tra loro distinti.
Rokeach nel suo The Nature of Human Values intende il valore come una credenza durevole che uno specifico modo
di condurre o di portare a compimento l’esistenza sia preferibile, personalmente o socialmente, a un modo opposto o
diverso di portare a compimento l’esistenza.
I cambiamenti che intervengono attraverso le esperienze personali, sociali e culturali non solo generano differenze
individuali nel sistema di valori, ma creano modificazioni all’interno della stabilità. A questo proposito conviene
chiarire alcune distinzioni tra valori e altri costrutti:
 Valori e atteggiamenti: il valore oltrepassa le situazioni casuali e fa riferimento a una singola credenza nei
confronti di un qualche ambito, mentre l’atteggiamento si riferisce all’organizzazione di molte credenze
nei confronti di uno specifico oggetto. I valor sono determinanti degli atteggiamenti.
 Valori e norme sociali: i valori sono personali e più interni, mentre le norme sociali si riferiscono ai modi
di comportarsi in specifiche situazioni e si aderisce ad esse con il consenso.
 Valori e bisogni: i valori riguardano la rappresentazione cognitiva dei bisogni individuali, delle richieste
sociali e istituzionali, mentre i bisogni possono anche non essere espressi, i valori no.
 Valori e tratti: i tratti sono considerati una caratteristica umana stabile e non soggetta a modificazione,
mentre i valori hanno la caratteristica di essere sia mutevoli che stabili.
 Valori e interessi: gli interessi possono essere una manifestazione dei valori e ne mantengono le
caratteristiche.
 Sistemi di valori e orientamenti valoriali: i due termini si distinguono per il fatto che l’orientamento
valoriale viene descritto attraverso la presenza/assenza di alcuni specifici fattori, mentre il sistema di
valori implica il loro posizionamento lungo un continuum tra due poli costituiti dai valori finali e
strumentali.
Attraverso lo strumento Value Survey vengono misurati e descritti i due sistemi di valori (finali e strumentali) e i 36
valori in essi contenuti.
Il sistema dei valori finali> è composto da: vita confortevole, vita eccitante, senso di realizzazione, mondo di pace,
mondo di bellezza, eguaglianza, sicurezza familiare, libertà, felicità, armonia interiore, amore maturo, sicurezza
nazionale, piacere, sicurezza, rispetto di sé, riconoscimento sociale, amicizia vera e saggezza.
Il sistema dei valori strumentali> fa riferimento all’essere ambizioso, tollerante, capace, allegro, pulito, coraggioso,
clemente, utile, onesto, creativo, indipendente, intellettuale, logico, affettuoso, obbediente, gentile, responsabile,
autocontrollato.
Secondo questa teoria gli antecedenti dei valori personali sono rintracciabili nella cultura, nella società, nelle
istituzioni e nella personalità mentre le conseguenze dei valori si manifestano in fenomeni osservabili nel
comportamento.
Valori come obiettivi
Super delinea una concezione secondo la quale i valori vengono intesi non più come sistemi di credenze o preferenze,
bensì come scopi che il soggetto intende raggiungere. Distingue i valori dai bisogni e dagli interessi: i bisogni sono le
necessità; i valori sono il risultato di un’ulteriore intenzione con l’ambiente e si sviluppano con la socializzazione e
stabiliscono i tipi di obiettivi che le persone desiderano raggiungere per soddisfare i propri bisogni; gli interessi sono
le attività che le persone intendono realizzare per raggiungere i propri valori e soddisfare i bisogni.
Per comprendere perché le persone fanno certe cose ci si riferisce ai bisogni; per comprendere cosa le persone
cerchino al fine di soddisfare i bisogni ci si riferisce ai valori; e per comprendere come le persone intendono
comportarsi per raggiungere i propri obiettivi ci si riferisce agli interessi.
Valori come stati desiderabili
Per Schwartz i valori sono “stati desiderabili, obiettivi, scopi o comportamenti, che trascendono specifiche situazioni e
che sono applicabili come standard normativi per giudicare e per scegliere tra modi alternativi di comportamento” che
si strutturano in relazioni conflittuali. Le conflittualità riguardano i bisogni dell’esistenza umana: la natura della
relazione tra individuo e gruppo, i comportamenti accettati per il mantenimento del tessuto sociale e la relazione tra il
genere umano, la natura e il mondo sociale.
Attraverso due tensioni bipolari (apertura al cambiamento vs conservativismo, e autoaffermazione vs
autotrascendenza) vengono evidenziate le principali dimensioni della conflittualità psicologica e/o sociale.
- Accentramento sul Sé e stimolazione contro conformismo;
- Universalismo e benevolenza contro successo e potere;
- Edonismo contro conformismo e tradizione.
Schwartz delinea dieci tipi motivazionali di valori illustrati nel Modello teorico delle relazioni tra i dieci tipi di
valore.
L’apertura al cambiamento è composta da: autodirezione e stimolazione.
L’autoaffermazione è composta da: successo, potere e edonismo. Il
conservativismo è composto da: conformismo e tradizione. L’autotrascendenza è composta da: universalismo e
benevolenza. Vengono individuate delle relazioni tra i tipi che nella rappresentazione grafica sono contigui
(adiacenti), e si tende a postulare che esista anche una compatibilità tra i valori adiacenti mentre si suppone emergano
conflitti tra le direzioni opposte.
Valori e valori lavorativi
Si possono distinguere i valori generali da alcuni valori specifici come i valori lavorativi. Possiamo ipotizzare che i
valori lavorativi siano la sorgente dei valori generali o che i valori generali generino
i valori lavorativi.
Valori lavorativi come indipendenti
I valori generali e i valori lavorativi sono spesso studiati in modo
indipendente. Le tre sfaccettature secondo cui i valori sono distinti sono:
 la modalità: i valori materiali hanno conseguenze pratiche e sui risultati, i valori affettivi riguardano
l’espressione dei sentimenti, e i valori cognitivi sono relativi alle opinioni e credenze che riguardano il mondo
esterno;
 il focus: l'attenzione ai valori concentrati è centrata su un tema molto specifico e a un risultato, mentre per i
valori diffusi può riferirsi a un tema generale;
 le aree della vita: permette di distinguere tra le due aree dei valori della persona, vi è l'area specifica del
lavoro e la più ampia area della vita in generale.
Tale approccio porta a descrivere i valori lavorativi come una specifica area all'interno dei valori generali rilevabile e
misurabile mantenendo la struttura relativa alla modalità e al focus.
Valori lavorativi come origine
L’acculturazione psicologica si riferisce al cambiamento che gli individui attuano nel loro comportamento manifesto e
nei tratti interiori quando si trovano a vivere un’esperienza collettiva. L’esperienza professionale che le persone
svolgono nelle diverse organizzazioni favorisce il formarsi dei valori lavorativi che sono parte della socializzazione
organizzativa. L’individuo apprende le norme di comportamento, gli atteggiamenti e i valori attesi attraverso il suo
essere membro di un’organizzazione. Gli elementi, corrispondenti alla socializzazione organizzativa, che gli individui
apprendono come prezzo dell’appartenenza riguardano quei valori, norme e modelli di comportamento che è
necessario siano assimilati da tutti i nuovi membri. Questi presupposti teorici e applicativi inducono Selmer e De Leon
ad affermare che l’adozione dei valori lavorativi, appresi nell’organizzazione in cui si è inseriti, può modificare la
struttura generale dei valori posseduti dagli individui.
Valori lavorativi come interrelati
Roe ed Ester propongono un modello operativo in cui sono evidenziate le connessioni tra i modelli concettuali relativi
ai valori lavorativi, questo modello comprende tre livelli corrispondenti alla società, al gruppo e all’individuo. Per
ogni livello si assume la presenza di legami tra i valori generali (riferiti agli obiettivi della vita), i valori lavorativi
(riferiti ai risultati del lavoro) e l’attività lavorativa (occupazione, ruolo). Il modello prevede anche una serie di
connessioni tra gli elementi corrispondenti ai tre livelli.
Valori lavorativi come correlati
Secondo Schwartz il peso che il lavoro ha nella vita delle persone è correlato positivamente in quelle società in cui i
valori di supremazia e di gerarchia sono importanti, mentre l’importanza è minore in quelle società dove prevalgono
valori di autonomia affettiva, eguaglianza, armonia e conformità. I valori lavorativi si riferiscono a fini o ricompense
che le persone cercano di raggiungere attraverso il lavoro e sono l’espressione dei valori generali nel contesto
dell’ambiente lavorativo.
I valori lavorativi sono:
 utilizzati dalla persona come principi guida relativi alla valutazione dei risultati, al contesto professionale e
alla scelta tra diverse alternative di lavoro;
 riferiti alle situazioni lavorative e quindi sono più specifici dei valori generali;
 le richieste che le persone fanno verso il lavoro in generale;
 la rappresentazione verbale delle esigenze di un individuo, di un gruppo o delle loro interazioni.
Orientamenti valoriali e tipi
Grazie a Super nasce un progetto internazionale, denominato WIS, i cui obiettivi sono: comprendere l’importanza che
il ruolo lavorativo ha nella vita delle persone, in relazione agli altri principali ruoli della vita(famiglia, studio, tempo
libero), e rilevare a cosa giovani e adulti danno importanza in questi ruoli, soprattutto in ambito lavorativo.
Per quanto riguarda l’importanza attribuita al ruolo lavorativo viene definito un modello gerarchico della rilevanza
del lavoro che permette una chiarificazione concettuale e una condivisione terminologica.
Gli elementi che permettono di definire l’importanza del ruolo lavorativo sono l’involvement, l’interest e
l’engagement, ciascuno dei quali viene inteso come costituito da differenti combinazioni tra commintment (nel senso
di coinvolgimento emotivo), partecipazione (nel senso di tempo effettivo e impegno) e conoscenza. La combinazione
di queste tre ultime componenti di base (commitment, partecipazione e conoscenza) definisce il secondo livello:
l’involvement è costituito da commitment e partecipazione; l’interesse è costituito da commitment, partecipazione e
conoscenza; mentre l’engagement è costituito da partecipazione e conoscenza.
Per quanto riguarda lo studio dei valori lavorativi si è costruito uno strumento comune da utilizzare a livello
crossculturale.
La ricerca WIS ha identificato 5 orientamenti valoriali e ha individuato sei tipi valoriali, che sintetizzano i valori
esplorati e spiegano le differenze tra singoli soggetti e/o tra diversi gruppi.
 Orientamento materialistico: esprime una concezione pragmatica e utilitaristica del lavoro (valori correlati:
prestigio, guadagni economici e raggiungimento dei risultati)
 Orientamento al Sé: descrive una concezione del lavoro come mezzo di autoespressione (valori correlati:
utilizzo delle proprie abilità, sviluppo personale, altruismo)
 Orientamento agli altri: mette in evidenza l’importanza del lavoro come strumento di relazione (valori
correlati: interazione sociale, relazioni sociali)
 Orientamento all’indipendenza: sottolinea l’importanza che viene data all’indipendenza e all’autonomia
(valori correlati: stile di vita, autonomia, varietà)
 Orientamento alla sfida: fa riferimento alla competizione e all’agonismo (valori correlati: rischio, autorità)

I sei tipi valoriali corrispondo ai sei gruppi di soggetti definiti dalla cluster analysis e sono:
1. Creativo 4. Duro
2. Tranquillo 5. Battitore libero
3. Rampante 6. Sociale
Valori, ruoli, organizzazioni e ambienti lavorativi
Ad influenzare i valori sono la cultura e i diversi stili di vita, mentre per quanto riguarda i valori lavorativi influenzano
fattori come l’età, il genere, la scolarizzazione ed anche l’ordine di genitura (es. battitore libero e creativo tra i figli
unici, il tranquillo tra i primogeniti ed il rampante tra i secondogeniti, sociale tra i terzogeniti).
Valori, culture e variabili organizzative
È importante che ogni organizzazione coniughi i valori della propria cultura con i valori personali dei membri in modo
da migliorare le performance e inoltre, i valori condivisi rendono il contesto organizzativo più vivibile sia
professionalmente che emozionalmente sostenendo i processi di cooperazione tra ruoli. Schein individua nei valori
una dimensione emblematica (rappresentativa) delle culture organizzative, fondate sugli assunti ed espresse a livello
più immediato degli artefatti. I fattori che spiegano le differenze dei comportamenti sono molti e interdipendenti e,
secondo Weick, vi è un effetto che viene chiamato “mancanza di confini”, cioè se l'organizzazione è scarsamente
strutturata e gli obiettivi poco chiari, si viene a creare un ambiente più favorevole all'effetto dei valori individuali sui
comportamenti lavorativi.
Valori, comportamenti organizzativi e ruoli lavorativi
Limitandoci al rapporto che sussiste tra valori e ruoli svolti nei diversi ambiti lavorativi, un primo aspetto riguarda
l’influenza dei propri valori sul comportamento messo in atto dai soggetti nelle organizzazioni, cioè le decisioni prese
nell’esercizio dei ruoli lavorativi risultano influenzate dai valori personali di chi esercita il ruolo. Un secondo aspetto
riguarda la corrispondenza tra valori e peculiari ruoli lavorativi cioè sia che, determinati valori rendono più probabile
l’assunzione di determinati ruoli lavorativi e sia che determinati ruoli inducono ad assumere determinate opzioni
valoriali.
Per il primo aspetto le ricerche individuano che coloro che privilegiano valori filantropici (altruisti) tendono a dare
maggiore importanza ai risultati di tipo sociale e di tipo politico, chi privilegia valori di giustizia tende a dare
maggiore importanza ai fattori normativi, infine, chi privilegia valori etici pone enfasi su fattori sociali e normativi.
Per il secondo aspetto le ricerche hanno rilevato differenze significative sia in funzione del livello di lavoro svolto
nelle organizzazioni, sia in funzione dei diversi ambiti professionali: ad es. nelle organizzazioni gli orientamenti al Sé
e all’indipendenza risultano espressi soprattutto dai dirigenti, e in misura minore dagli impiegati e dagli operai.
In molte ricerche si è dimostrato come i valori siano legati al commitment organizzativo (ad es. i valori di tipo
umanitario sono legati al commitment affettivo), alla soddisfazione lavorativa, alla motivazione, allo stress lavorativo
e all’etica.
Da alcune rilevazioni risulta che l’orientamento al Sé e l’orientamento all’indipendenza è presente maggiormente nei
liberi professionisti; l’orientamento agli altri è presente maggiormente nei lavoratori dipendenti; l’orientamento alla
sfida risulta maggiore negli artigiani e nei commercianti rispetto ai liberi professionisti e ai dipendenti; l’orientamento
materialistico compare in misura omogenea in riferimento a questi quattro ambiti lavorativi considerati (liberi
professionisti, artigiani, commercianti, dipendenti).
Altre ricerche hanno evidenziato come i valori lavorativi siano strettamente legati alle caratteristiche del lavoro, chi ha
ruoli di servizio e contatto con i clienti presenta valori più vicini all’altruismo e alla cura, rispetto a chi ha posizioni
manageriali che pongono maggiore enfasi su potere e autorità.
Strumenti di misurazione dei valori
La misura e l’analisi delle motivazioni, degli scopi, dei desideri delle persone costituisce uno dei modi e/o dei
momenti del lavoro psicologico rivolto ai singoli, ai gruppi e alle organizzazioni. Ci si riferisce in particolare alle
attività di orientamento, di selezione, di valutazione del potenziale, di coaching ecc.
Una serie di inventari/questionari utilizzabili per esplorare i valori in generale e i valori lavorativi in particolare:
 Itapi-VALORI – Inventario Italiano dei Valori;
 QVP-Questionario Valori Professionali;
 SVL-Scala dei Valori Lavorativi
Aspetti critici e prospettive
L’approccio cognitivista tende a rilevare credenze manifeste, atteggiamenti dichiarati, valutazioni esplicite e
consapevoli che i soggetti esprimono per lo più rispondendo a predefiniti item di questionario. Mentre l’approccio
psicodinamico esplora le dinamiche soggettive e intersoggettive profonde, con particolare riferimento al livello
emozionale e al sistema motivazionale.

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