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Competenza e valutazione
Valutazione significa letteralmente → dar la valuta, stimare. La valutazione viene vista come una minaccia
all'autostima e al riconoscimento, come un ostacolo per accedere al sistema premiante, ciò accade per via di cattive
esperienze nella vita (per esempio nella vita scolastica). Essa ha cambiato cultura e metodi perché è orientata verso la
ricerca e la promozione del valore rappresentato dalle persone, dal loro potenziale ed alle loro performance, ha
cambiato metodi, strumenti, cultura, prospettiva poiché il suo obiettivo è la formazione. La valutazione è il processo
che promuove e garantisce la valorizzazione, fornisce un quadro delle competenze delle persone grazie alle quali si
possono avviare degli interventi mirati e specifici per la loro crescita. I dati della valutazione della performance del
potenziale compongono una mappa che si declina in: formazione, change management, compensation, selezione.
Riprendendo l'assunto secondo il quale le competenze professionali sono caratteristiche sottostanti l'azione che
emergono in una performance rendendola più o meno efficace è importante dire che una caratteristica può essere
espressa in molte forme e in una grande varietà di azioni. L'azione ha origine a partire da una richiesta e allo stesso
modo i risultati di un'azione sono correlati alle richieste e al setting nel quale questa viene condotta.
Per valutare la competenza dobbiamo determinare quale processo cognitivo o relazionale osserviamo (es la
comunicazione), operazionalizzarlo in una sequenza di indicatori (es ascolta senza interrompere), che identifichino e
corrispondano alle caratteristiche sottese. Quindi la competenza è descritta con indicatori e azioni che osserviamo,
mentre il legame tra azione e competenza lo creiamo attraverso l'interpretazione.
Competenza e formazione
La formazione è un processo fondamentale nel processo di valorizzazione delle persone e punta a sviluppare
competenza, che è l’oggetto specifico della formazione e della valutazione. La formazione è un’esperienza che
consente di elaborare la propria esperienza per costruire e modificare le mappe e i processi della competenza.
L’apprendimento del professionista/manager non è semplice memorizzazione di informazioni ma è un processo attivo
di costruzione di significato e trasformazione cognitiva di tutto ciò che la persona ha compreso. La competenza non
può essere insegnata ma può essere costruita dal soggetto stesso in relazione con il mondo sociale.
Tuttavia, apprendere dall’esperienza significa fare del sensemaking, cioè costruire significati, parlare della realtà come
di una costruzione continua e non come qualcosa di dato.
Capitolo 6
La motivazione
La motivazione rappresenta una delle aree di intervento più sfidanti per coloro che si occupano di gestione delle
risorse umane e di sviluppo organizzativo.
Che cos’è la motivazione
L’etimologia del termine motivazione rimanda all’insieme di processi psicologici alla base delle azioni volontarie
dirette verso un obiettivo. Molti autori sono concordi nell’individuare un campo semantico in cui la motivazione è
concepita come un’energia che alimenta i comportamenti e li orienta verso una meta, e può essere analizzata in
termini di attivazione (condizioni di avvio del comportamento), direzione (obiettivo a cui si rivolge), intensità (forza
dell’investimento energetico) e persistenza (disponibilità a insistere nel tentativo di conseguire l’obiettivo). Facendo
specifico riferimento all’ambito del lavoro in organizzazione, Quaglino ha proposto di distinguere tra comportamenti
diretti a fare delle attività e diretti a stare in organizzazione, definendo la motivazione un’energia che si investe, sia
nella realizzazione di prestazioni connesse a specifici compiti orientata verso finalità associate ai risultati di tali
prestazioni, sia nella relazione tra individuo e organizzazione orientata verso finalità di definizione e consolidamento
del legame di appartenenza.
Un ulteriore distinzione può essere operata tra attività intrinsecamente motivanti (la motivazione è legata all’attività di
lavoro in sé) e attività compiute in funzione di una motivazione estrinseca (legata alla ricompensa che si riceve).
Le teorie motivazionali
I differenti modelli teorici sul tema della motivazione proposti tra gli anni ’50 e la prima metà degli anni ’70 del
secolo scorso si sono orientati verso l’analisi dei contenuti della motivazione e sull’individuazione delle variabili che
ne influenzano l’espressione (dell’analisi del processo).
Le teorie di contenuto
Tra le teorie di contenuto è possibili distinguere vari orientamenti:
Il modello gerarchico di Maslow, che individua 5 bisogni di base e li colloca lungo una scala evolutiva;
Le teorie a tre vertici, come quella di McClelland, che riconoscono la compresenza di differenti istanze
motivazionali;
Il contributo di Herzberg, che si interroga sull’effetto motivazionale di alcune specifiche caratteristiche
dell’organizzazione;
La teoria di Maslow
Secondo Maslow la motivazione umana è caratterizzata da cinque bisogni di base collocati in una gerarchia
rappresentabile come una piramide in cui i bisogni sono posti in sequenza. Alla base della piramide troviamo i bisogni
primari: quelli fisiologici (alimentarsi, avere un riparo, soddisfare i bisogni sessuali), quelli di sicurezza (protezione
dai pericoli, evitamento del dolore). Secondo Maslow questi bisogni sono presenti in tutti gli esseri umani e in tutte le
culture. Gli altri tre bisogni di base sono bisogni secondari perché sono di tipo psicologico: bisogno di affetto (amore,
amicizia, approvazione), bisogni di stima (forza, successo, adeguatezza). Al vertice della piramide vi sono i bisogni di
autorealizzazione che corrispondono al massimo sviluppo e all’utilizzo completo delle proprie possibilità.
I bisogni di ordine superiore non sono considerati importanti da un individuo fino a quando i bisogni di livello
inferiore non sono stati almeno parzialmente soddisfatti: è questo l’assunto del principio di dinamismo gerarchico di
Maslow.
La teoria di McClelland
Gli studi di McClelland prendono le mosse dall’analisi del bisogno di riuscire, considerato un carattere fondamentale
e distintivo della società occidentali e si arriva a una teoria generale della motivazione che individua tre principali
elementi:
La motivazione al potere (e all’evitamento della dipendenza): ovvero l’orientamento a influenzare le persone e
a modificare le situazioni secondo le proprie intenzioni (in ambito lavorativo le persone desiderano esercitare
un forte impatto sugli altri individui, sulle decisioni e sulle procedure).
La motivazione all’affiliazione (e all’evitamento dell’isolamento): ovvero l’orientamento a creare un’ampia e
fitta rete di legami sociali.
La motivazione al successo (e all’evitamento del fallimento): ovvero l’orientamento a raggiungere le mete
desiderate, realizzare le proprie capacità e migliorare continuamento le proprie prestazioni (in ambito
lavorativo porta a ricercare obiettivi sfidanti e a desiderare di raggiungere l’eccellenza professionale).
A questi tre elementi McClelland aggiunge la motivazione alla competenza, ovvero l’orientamento a sviluppare
continuamente le proprie abilità e a svolgere i compiti assegnati mantenendo standard di elevata qualità (in ambito
lavorativo si cerca la padronanza delle proprie attività, si traggono insegnamenti dall’esperienza e si affrontano le
situazioni nuove in modo creativo).
Tra questi elementi non esiste alcun rapporto di gerarchia, in funzione della storia e della personalità dell’individuo
troviamo situazioni di equilibrio in cui tutti gli elementi possono esprimersi nei comportamenti o al contrario
situazioni in cui vi è un netto prevalere dell’uno o dell’altro.
La teoria di Herzberg
Herzberg indica l’esistenza di due tipi di fattori capaci di incidere sulla motivazione delle persone: i fattori di igiene e
i fattori motivazionali. Tra i primi sono compresi la retribuzione, la sicurezza fisica del luogo di lavoro, le relazioni
interpersonali con i pari e con i superiori, mentre tra i secondi sono compresi i riconoscimenti, l’attribuzione di
responsabilità, le opportunità di carriera e le possibilità di apprendimento e di crescita nel ruolo. La prima classe di
fattori rinvia a una dimensione di necessità (bisogni primari), mentre la seconda classe di fattori riguarda quei fattori
che danno la possibilità di soddisfare i bisogni di ordine secondario (bisogni secondari). Un altro elemento importante
proposto da Herzberg riguarda la possibilità di rendere i contesti di lavoro sensibili e “plastici” rispetto ai differenti
desideri e alle attese dei lavoratori.
Le teorie di processo
Le teorie di processo si propongono di chiarire quali siano le variabili che regolano e influenzano l’investimento di
energia nella prestazione lavorativa.
La teoria di Vroom
Secondo Vroom il processo motivazionale comprende tre elementi distinti:
la sequenza comportamentale, cioè il corso d’azione che tende a un certo obiettivo;
la motivazione, cioè l’insieme di energie mobilitate per il concepimento del corso d’azione;
la ricompensa, cioè l’ammontare dei benefici che si ottengono raggiungendo l’obiettivo.
La forza della motivazione associata a ciascuna sequenza comportamentale è l’esito lineare di tre differenti variabili:
1. La valenza (V): ovvero l’attrattività della ricompensa, quanto una ricompensa piace all’individuo. Può avere
un valore positivo, negativo o pari a zero (neutrale).
2. L’aspettativa (A): ovvero la probabilità che il corso d’azione consenta realmente di raggiungere l’obiettivo.
Quanto più il soggetto ritiene probabile il raggiungimento, tanto più elevata sarà l’aspettativa. E’ legata
all’autostima e all’autoefficacia.
3. La strumentalità (S): ovvero la possibilità che il raggiungimento dell’obiettivo consenta realmente di ottenere
la ricompensa prevista.
Queste tre variabili si collocano in una relazione di tipo moltiplicativo: il loro prodotto va a definire la forza della
motivazione. Vroom sottolinea che i giudizi relativi a queste tre variabili sono di tipo soggettivo.
La teoria di Adams
La principale variabile che, secondo Adams, interviene nella regolazione del processo motivazionale è l’ equità
percepita, vale a dire la valutazione soggettiva del livello di equità presente nel contesto lavorativo. Questa
valutazione implica due verifiche:
Dell’equità interna> mediante il confronto tra il risultato ottenuto e il contributo fornito;
Dell’equità esterna> mediante il confronto tra sé e gli altri.
Secondo Adams, quando gli individui percepiscono una sufficiente equità interna ed esterna saranno disposti a
mantenere il livello di motivazione espresso fino a quel momento. Viceversa, quando percepiscono iniquità si
attiveranno per ridurla.
Es. se è presente un’iniquità negativa (tipo se lavorano di più rispetto a quanto li pagano) potranno diminuire il loro
contributo (quindi lavorare meno) o tentare di incrementare i risultati (chiedere una retribuzione maggiore); se è
presente un’iniquità positiva invece potranno lavorare di più o con maggiore scrupolo.
Gli individui in ogni caso differiscono nella propria sensibilità all’equità, alcuni sono benevoli cioè sono tolleranti
verso l’iniquità negativa a proprio svantaggi, altri sono sensibili cioè attenti al rispetto delle norme di reciprocità e
all’eliminazione delle ingiustizie, altri ancora sono aventi diritto cioè per nulla preoccupati di risolvere situazioni di
iniquità positiva.
La teoria di Locke
A partire da una prospettiva cognitivista Locke ha proposto la teoria del goal setting, la cui variabile chiave è
costituita dagli obiettivi, che influenzano i comportamenti motivati in differenti modi e favoriscono la motivazione. Le
caratteristiche di questi obiettivi sono:
La consapevolezza, cioè il riconoscimento dell’obiettivo in quanto tale;
La forza, cioè il valore attribuito all’obiettivo;
L’aspettativa di successo, cioè il senso di potercela fare a conseguire l’obiettivo;
La specificità, cioè la chiarezza e la vicinanza dell’obiettivo, che sollecita una migliore prestazione;
La difficoltà, cioè il grado di sfida che l’obiettivo sollecita.
La più significativa ricaduta operativa della teoria del goal setting di Locke si può ritrovare nel sostegno offerto alla
formula della “gestione degli obiettivi” (Management by Objectives).
La self-efficacy di Bandura
Secondo la teoria sociale cognitiva di Bandura le persone sono in grado di produrre idee e ipotesi, di progettare
percorsi innovativi, di prevedere i risultati che possono ottenere e di codificare ed elaborare la propria esperienza.
Secondo questa teoria i comportamenti che gli individui mettono in atto sono motivati e diretti al perseguimento di
obiettivi.
L’autoefficacia per Bandura è una credenza nei confronti delle proprie capacità di aumentare i livelli di motivazione,
di attivare risorse cognitive e di eseguire le azioni necessarie per esercitare un controllo sulle richieste di un compito.
Individua le principali fonti dell’autoefficacia:
L’esperienza pregressa, cioè la quantità di fallimenti o successi sperimentati dalla persona;
L’esperienza vicariante, cioè la quantità e la qualità di apprendimento che l’osservazione e l’imitazione di
altre persone;
La persuasione verbale, se messa in atto da persone ritenute significative dall’individuo in relazione
all’obiettivo;
La presenza di stati fisiologici ed emozionali positivi e facilitanti l’impegno di un determinato compito.
Motivazione e personalità
Alcuni autori hanno analizzato l’interazione tra i livelli di motivazione al lavoro espressi dagli individui e le loro
caratteristiche di personalità. Già nel 1944 Sears sosteneva l’utilità di considerare alcune caratteristiche di personalità
come predittori del livello di motivazione che l’individuo avrebbe manifestato nel corso del proprio lavoro. Un punto
di vista simile si può ritrovare nei successivi studi sull’influenza del locus of control e nel più recente lavoro di
Latham che invita a riconoscere l’influenza che i fattori interni all’individuo esercitano sulla motivazione al lavoro.
Il legame tra motivazione e personalità non va assunto in modo deterministico. Latham segnala che:
Non sempre i tratti di personalità predicono il comportamento in situazioni significative;
Più spesso accade che i tratti di personalità si manifestino in situazioni poco strutturate.
In altri termini, se è vero che una buona indagine di personalità può rivelarsi utile a prevedere il potenziale
motivazionale, l’effettiva realizzazione di questo potenziale è fortemente legata alle caratteristiche del lavoro e del
contesto in cui l’individuo è inserito.
Sviluppi recenti
Tra i tanti sviluppi che il panorama della ricerca sta offrendo rispetto al tema della motivazione lavorativa, ve ne sono
due particolarmente rilevanti:
1. Costrutto di work engagement;
2. Le esperienze flow in ambito lavorativo.
Work engagement
Il Job Demands-Resources Model analizza i diversi esiti che derivano dall’intreccio tra caratteristiche positive
(risorse) e caratteristiche negative (richieste) che qualificano il lavoro svolto dagli individui. Tra questi esiti vi è il
work engagement, che viene definito come uno stato mentale collegato al lavoro, caratterizzato da vigore (alti livelli di
energia e resilienza), dedizione (percezione di significatività, entusiasmo, stimolazione), e assorbimento
(focalizzazione e coinvolgimento positivi). Al polo opposto del work engagement, gli autori collocano il burnout,
caratterizzato da un senso di esaurimento psicologico e di distacco dall’esperienza lavorativa.
Il work engagement esercita, secondo gli autori, un’influenza positiva sulla salute e sulle prestazioni dei lavoratori
(salute fisica, buona attività cardiaca, comportamento proattivo dei lavoratori, migliori risultati aziendali). Il JD-R
model ha il merito di inquadrare i processi motivazionali nel più ampio quadro di variabili personali e di contesto che
qualificano l’esperienza lavorativa di un individuo, inoltre, consente di comprendere come uno stesso individuo possa
esprimere un livello di investimento motivazionale estremamente mutevole nel corso della propria vita lavorativa.
Flow at work
Le esperienze flow riguardano lo studio degli stati ad alta intensità motivazionale. Il flow viene definito come uno
stato di consapevolezza in cui gli individui sono totalmente immersi e concentrati nell’attività che svolgono, durante il
quale provano piacere in quello che fanno, hanno il pieno controllo della situazione, si rappresentano con chiarezza i
propri obiettivi e sperimentano una forte motivazione intrinseca.
Alla base dell’esperienza flow, vi è un equilibrio tra sfida e abilità. I primi studi sul flow si sono focalizzati in ambito
ricreativo, sportivo e artistico ma molte ricerche hanno dimostrato che il flow è un’esperienza che si presenta
frequentemente anche a lavoro. Il flow at work (FaW) è caratterizzato da:
L’assorbimento, cioè uno stato di profonda concentrazione in cui le persone non si accorgono di ciò che le
circonda e del tempo che passa;
Il piacere lavorativo, cioè riflette un giudizio positivo sull’attività di lavoro;
La motivazione intrinseca al lavoro, che riguarda lo svolgimento di un’attività lavorativa con l’intento di
sperimentare piacere e soddisfazione.
Gli Individui che possono sperimentare il flow at work sono quelle che hanno elevate abilità professionali, hanno a
disposizione risorse lavorative (supporto dei capi e colleghi, autonomia lavorativa ecc). La possibilità di sperimentare
il flow at work può condurre a una riduzione della percezione di malessere psicofisico, prevenire l’esaurimento e
potenziare le successive prestazioni lavorative.
Counterproductive workplace behaviors
I comportamenti controproduttivi includono tutte le azioni che i lavoratori mettono in atto al fine di danneggiare la
loro organizzazione, i responsabili, i colleghi e/o i clienti e possono essere sia espliciti (es. furto di risorse o
sabotaggio di un impianto), sia “coperti” (es. non seguire le istruzioni o fare il lavoro con scarsa cura). In questi
comportamenti vi è una demotivazione rispetto all’esecuzione delle attività e una motivazione a danneggiare che porta
a definire un piano d’azione della stessa natura dei piani d’azione che sono all’origine delle prestazioni lavorative
efficaci. Lo studio dei processi mentali che conducono gli individui a decidere di agire con queste finalità rappresenta
una delle frontiere della ricerca in ambito motivazionale che attualmente riscuote maggiore interesse. La complessità
delle variabili in gioco rende appunto complesso questo tema.
Come motivare
Ciascuna teoria motivazionale lascia intravedere alcuni fattori che risultano importanti al fine di affrontare “la sfida di
tutte le organizzazioni”, definita così da Simon, ovvero “condurre-indurre i dipendenti a lavorare in funzione degli
obiettivi dell’organizzazione”. Vi sono alcuni autori che hanno messo a punto delle classificazioni di "buone pratiche”
organizzative e gestionali indirizzate a sostenere e promuovere la motivazione. Di seguito i quattro approcci che fanno
riferimento a tale ambito di studi.
Progettazione del lavoro
L’approccio legato alla progettazione del lavoro si basa sulla convinzione che sia il lavoro in sé l’elemento chiave che
influenza la motivazione degli individui. Già Herzberg aveva evidenziato il potenziale di motivazione intrinseca
presente in qualunque attività lavorativa e aveva sottolineato come questo potenziale venisse limitato a causa di errore
nella progettazione dei compiti lavorativi, inoltre risultava dannoso il taylorismo, poiché parcellizzando
(suddividendo) le attività, le aveva private di significato e di interesse. Herzberg e altri autori (come Argyris) hanno
proposto di riprogettare le attività lavorative assegnate all’individuo seguendo tre principali strategie:
1. Il job enlargement> un’integrazione orizzontale che comporta l’attribuzione di più compiti con contenuti
professionali differenti, ma con uguali caratteristiche di discrezionalità. (es. magazziniere che ha sempre avuto
il compito di scaricare merce e sistemarla in magazzino, gli viene attribuito il compito di sistemare la merce in
negozio)
2. Il job enrichment> un’integrazione verticale mediante l’acquisizione di discrezionalità e responsabilità
rispetto al compito in precedenza attribuito a un livello gerarchico superiore. (es. addetto al punto di ascolto
dei clienti a cui viene attribuita la responsabilità di gestire i reclami)
3. La job rotation> un’integrazione per fasi successive che si realizza nel corso del tempo mediante
l’assegnazione a posizioni organizzative differenti che prevedono compiti con caratteristiche di discrezionalità
analoghe e competenze di livello simile, ma di contenuto differente, per essere svolti. (es. una cassiera del
supermercato inizia a lavorare 3 mesi in cassa, 3 mesi al punto panetteria, 3 mesi al riempimento scaffali ecc)
Successivamente Hackman e Oldham hanno proposto una versione più attuale degli studi di Herzberg e di Argyris, il
Job Characteristics Model. Secondo cui i fattori intrinseci motivanti di una mansione sono costituiti dal significato del
lavoro (l’individuo deve percepire il proprio lavoro come importante), dalla responsabilità (la persona deve essere
certa di rispondere personalmente dei risultati ottenuti) e dalla conoscenza dei risultati (il lavoratore deve sapere se gli
esiti del suo lavoro sono soddisfacenti oppure no). Le attività assegnate a una posizione organizzativa devono essere
progettate seguendo alcune indicazioni:
Combinare i compiti: i compiti elementari devono essere raggruppati originandone uno più complesso;
Organizzare unità di lavoro naturali: non è opportuno frammentare le attività;
Stabilire una relazione con i clienti: consente ai lavoratori di percepire l’utilità di ciò che fanno e ottenere un
feedback sulla prestazione;
Attribuire responsabilità personali: gli individui devono sentirsi direttamente responsabili dei risultati del
proprio lavoro;
Incrementare la discrezionalità: è importante attribuire agli individui potere decisionale e possibilità di
controllo delle risorse;
Aprire diversi canali di feedback: il feedback può essere intrinseco all’esecuzione del compito oppure
provenire da altri, in modo diretto o indiretto.
Un più recente filone di ricerche sul tema del job design mette a fuoco gli aspetti legati all’organizzazione del tempo
lavorativo e all’orario di lavoro. Alcuni dispositivi in grado di sollecitare il potenziale di motivazione intrinseca
presente nelle attività di lavoro: la settimana di lavoro compresa; l’orario di lavoro flessibile; il job sharing; il
telelavoro. Queste modalità di organizzazione del lavoro risultano motivanti anche grazie al contributo che offrono
alla riduzione del conflitto lavoro-famiglia e lavoro-vita personale.
Il Management by Objectives
Il Management by Objectives (MBO) è una metodologia che implica la definizione degli obiettivi affidati a ciascun
attore organizzativo, unita a un atteso monitoraggio e a una sistematica valutazione, prevedendo anche la
partecipazione del dipendente a ciascuna fase di questo processo. Tale formula, proposta da Drucker, ha trovato ampia
applicazione grazie anche alla possibilità di legarsi a politiche di compensation che a fianco della retribuzione fissa,
prevedono una quota di ricompensa variabile legata alla misura in cui gli obiettivi vengono raggiunti. Tra i passaggi
da compiere per attuare una politica MBO ricordiamo: l’individuazione condivisa degli obiettivi, la specificazione in
termini misurabili del risultato atteso, l’assegnazione di un traguardo temporale, il monitoraggio a intervalli regolari
dei risultati raggiunti.
Esistono due principali classi di obiettivi:
gli obiettivi di contributo: hanno a che fare con le prestazioni che il collaboratore deve fornire e possono
riguardare sia il risultato ottenuto con la prestazione, sia le sue modalità di svolgimento;
gli obiettivi di competenza: riguardano l’acquisizione di conoscenze e capacità importanti per raggiungere gli
obiettivi di contributo.
Giustizia organizzativa
La teoria di Adams ha favorito lo sviluppo di un ambito di ricerca e intervento sul tema della giustizia organizzativa,
che si propone di promuovere la percezione di equità all’interno dei contesti lavorativi. Il senso di giustizia si articola
in tre componenti:
giustizia distributiva: riguarda l’equità con cui le ricompense vengono assegnate;
giustizia procedurale: relativa al processo mediante il quale tali ricompense vengono assegnate;
giustizia interazionale: inerente alla qualità della relazione tra coloro che hanno funzioni amministrative, di
controllo e valutazione e coloro che vengono controllati e valutati. Riguarda il rispetto, la cortesia, l’empatia
ecc.
Colquitt suggerisce che la giustizia interazionale è composta da due componenti: la giustizia interpersonale e la
giustizia informazionale. La prima, si riferisce agli aspetti menzionati (rispetto, empatia ecc), la seconda si riferisce
all’adeguatezza delle spiegazioni offerte in termini di tempestività, specificità e veridicità.
Secondo studi meta-analitici le tre forme di giustizia sono correlate positivamente con la motivazione e negativamente
con l’intenzione di lasciare l’azienda e il turnover.
Partecipazione
Un’ulteriore leva motivazionale da considerare è la partecipazione. Già negli anni ’60 MacGregor aveva rivolto a
un’intera generazione di manager l’invito di abbandonare la “filosofia X”, secondo cui gli esseri umani sono
fondamentalmente indolenti e dunque bisognosi di direzione e controllo, a favore di una “filosofia Y”, che assume che
le persone siano orientate alla crescita, all’assunzione di responsabilità e al lavoro. In altre parole, passare da uno stile
gestionale “autoritario” a uno stile “partecipativo”. A partire dalla proposta di McGregor, il concetto di
partecipazione ha conosciuto un ampio sviluppo e viene attualmente considerato un imprescindibile strumento a
sostegno della motivazione. Vi sono differenti aree in cui è possibile realizzare una più alta partecipazione:
la trasformazione degli obiettivi generali in obiettivi specifici;
la presa di decisione;
l’individuazione, l’analisi e soluzione dei problemi;
la definizione di valori e politiche aziendali;
l’attuazione e il monitoraggio degli interventi di cambiamento;
il controllo sulle risorse (strumenti, budget, consulenti).
Tra i vantaggi dello stile gestionale partecipativo vi sono: il miglioramento delle prestazioni e della produttività,
aumento della qualità e dell'attenzione al cliente e la diminuzione della competitività negativa.
Alcune forme di partecipazione sono:
i circoli di qualità, cioè gruppi di lavoro formati da 5-10 colleghi impegnati in un medesimo processo di
produzione, al fine di discutere dei problemi di qualità relativi al processo in questione: diagnosticarne le
cause, individuare soluzioni e valutarne gli esiti.
i gruppi di lavoro autogestiti, cioè unità produttive con una composizione stabile, responsabili di un intero
processo di lavoro e in grado di prendere decisioni autonomamente.
Negli ultimi anni il tema della partecipazione si è legato a quello dell’empowerment. Questo termine, che in
precedenza veniva utilizzato per indicare la delega di autorità e responsabilità dai capi ai collaboratori, è ora sinonimo
di un orientamento gestionale volto a valorizzare le risorse umane dell’organizzazione, consentendo loro di avere una
reale influenza sui processi e sui contesti di lavoro.
La ricerca per la diagnosi e l’intervento organizzativo
Frequentemente le organizzazioni realizzano interventi finalizzati a sostenere e promuovere la motivazione ma non
effettuano una diagnosi preliminare del proprio “profilo motivazionale”. Giustificano questo modus operandi
ammettendo la difficoltà nel mettere a punto indicatori del livello di motivazione. Tuttavia, vi sono differenti costrutti
che offrono una definizione operativa della motivazione e che possono essere utilizzati nell’ambito della ricerca
organizzativa: il job involvement, l’organizational commitment, l’organizational citizenship, l’engagement e il flow at
work.
Job involvement
Il job involvement indica “l’attaccamento al proprio lavoro” o “il grado con cui un individuo si identifica con il
proprio lavoro”. Lodahl e Kejner hanno messo a punto un questionario per la sua misurazione composto da 25 item e
comprende aspetti quali la centralità, l’importanza del lavoro nella propria vita, il senso del dovere e la disponibilità a
fare sacrifici.
Organizational commitment
L’organizational commitment indica “l’attaccamento alla propria organizzazione” esprimendo la qualità del legame di
appartenenza che l’individuo sperimenta. Tre possibili forme in cui tale legame può manifestarsi:
l’affective commitment: attaccamento affettivo all’organizzazione, quando prevale gli individui restano
nell’organizzazione perché lo vogliono.
il continuance commitment: percezione di convenienza in termini costi-benefici a non interrompere il rapporto
con l’organizzazione, quando prevale gli individui restano perché ne hanno bisogno.
il normative commitment: obbligo morale a rimanere nell’organizzazione, quando prevale gli individui restano
perché si sentono obbligati.
Allen e Meyer hanno messo a punto un questionario in grado di misurare il livello delle tre differenti dimensioni
dell’organizational commitment, è costituito da 25 item, 10 per l’affective, 7 per il continuance, 8 per il normative.
Organizational citizenship
Un altro costrutto che sta trovando ampio spazio nella ricerca organizzativa mette a fuoco il concetto di cittadinanza
organizzativa, che qualifica i comportamenti che favoriscono l’efficacia dell’organizzazione pur non essendo né
specificati o imposti dal contratto di lavoro. Benché siano stati classificati oltre 20 categorie di OCB la tipologia di
riferimento è quella proposta da Organ che individua cinque componenti:
coscienziosità: si riferisce a quei comportamenti che indicano una particolare cura nello svolgimento del
proprio lavoro;
virtù civica: include i comportamenti che evidenziano un forte senso di responsabilità nei confronti
dell’organizzazione;
sportività: è relativa alla manifestazione di un atteggiamento positivo di lealtà nei confronti dell’azienda;
altruismo: confluiscono qui i comportamenti che esprimono disponibilità ad aiutare i colleghi nello
svolgimento dei loro compiti;
cortesia: comprende le azioni che dimostrano una particolare premura nell’instaurare relazioni improntate alla
gentilezza e alla cooperazione.
Podsakoff, MacKenzie, Moorman e Fetter hanno formulato un questionario per la misurazione di questi cinque OCB,
utilizzabile ai fini della valutazione della frequenza con cui vengono messi in atto.
Engagement e flow at work
Per misurare il livello di engagement Schaufeli, Bakker e Salanova hanno elaborato l’Utrecht Work Engagement
Scale (UWES) composto da 16 item articolati nelle tre componenti del vigore, dedizione e assorbimento. Per misurare
il flow at work è stato creato il Work-reLated Flow Inventory (WOLF) messo a punto da Bakker, composto da13 item
che indicano le tre dimensioni dell'assorbimento, piacere lavorativo e motivazione intrinseca al lavoro.
Capitolo 7
La soddisfazione lavorativa
Il costrutto di soddisfazione lavorativa (job satisfaction) ha suscitato un crescente interesse che l’ha portato a essere
“la misura di atteggiamento più ampiamente utilizzata nella ricerca organizzativa”.
Definizione ed evoluzione del costrutto di soddisfazione lavorativa
In letteratura si riscontra un sostanziale accordo nel considerare la soddisfazione lavorativa ( job satisfaction) un
atteggiamento, Locke la definisce “Un piacevole o positivo stato emotivo dovuto all’apprezzamento del proprio
lavoro”. La soddisfazione lavorativa come atteggiamento esamina tre componenti: emozione, cognizione e
comportamento. L’origine degli studi sulla soddisfazione lavorativa è stata certamente facilitata da due fenomeni
convergenti:
1. da un lato il movimento delle Human Relations che ha ipotizzato che i lavoratori soddisfatti saranno anche più
motivati, ovvero più propensi quantitativamente e qualitativamente migliori;
2. dall’altro lato gli studi sulla misurazione degli atteggiamenti che si sono dedicati a operazionalizzare e rendere
quantificabili le variabili psicologiche, tra le quali la soddisfazione stessa.
Più recentemente, ulteriori fattori hanno contribuito alla popolarità della soddisfazione lavorativa:
il legame tra soddisfazione lavorativa e life satisfaction (soddisfazione per la vita in generale);
il proposito di limitare il turnover, in particolare l’uscita dall’organizzazione delle persone più competenti e
motivate;
gli effetti della soddisfazione lavorativa sulla soddisfazione dei clienti, in particolare nell’ambito dei servizi.
Anche il Total Quality Management (TMQ) che ha riconosciuto al lavoratore lo status di cliente, ha reso centrale il
costrutto di soddisfazione lavorativa. Seguendo i principi del TMQ l’organizzazione deve adottare strategie per
monitorare e migliorare la soddisfazione del cliente, sia esterno sia interno: un lavoratore soddisfatto non lascia
l’organizzazione, pone maggiore attenzione al proprio cliente, realizza buone prestazioni ed è stimolato a proporre
suggerimenti per il miglioramento dell’organizzazione.
In pratica, + soddisfazione= migliori prestazioni.
Anche per quanto riguarda il marketing, le ricerche focalizzate sulla soddisfazione del cliente hanno trovato nella
logica del cliente interno un valido settore di applicazione.
Negli ultimi anni un crescente numero di ricercatori sta proponendo di sostituire il costrutto di soddisfazione
lavorativa con quello, più ampio e inclusivo, di “benessere psicologico”. La soddisfazione lavorativa esercita un ruolo
di mediazione tra la percezione di opportunità di sviluppo professionale e la disponibilità a fare sforzi aggiuntivi per
raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione: cioè tra i soggetti che percepiscono la presenza di buone opportunità di
sviluppo professionale, solo quelli soddisfatti saranno anche disponibili a fare sforzi aggiuntivi.
Dagli studi sulla soddisfazione è possibile trarre indicazioni operative di facile interpretazione, utilizzabili per
progettare interventi mirati a ottenere una migliore qualità della vita lavorativa.
I contenuti della soddisfazione lavorativa
Vi sono due possibili modi di intendere la soddisfazione lavorativa: come un atteggiamento oppure come una somma
di atteggiamenti parziali, si distingue perciò:
- la soddisfazione generale;
- la soddisfazione relativa a differenti aspetti dell’esperienza di lavoro in organizzazione.
Le ricerche basate sulla soddisfazione relativa presentano una problematica particolarmente rilevante, cioè che non
esiste nessuna classificazione dei contenuti della soddisfazione che abbia ottenuto pieno riconoscimento da parte della
comunità scientifica.
Un’approfondita meta-analisi dei fattori presenti in 27 questionari di soddisfazione lavorativa, compiuta da van Saane,
Sluiter, Verbeek e Frings-Dresen, ha consentito di far confluire questi fattori in 11 aree tematiche che possono essere
considerate rappresentative dei contenuti della soddisfazione, anche se non è ancora stato proposto alcune
ragionamento sulla completezza di tale elenco: Contenuti del lavoro, Autonomia, Crescita/Sviluppo, Riconoscimento
economico, Carriera, Supervisione, Comunicazione, Collaborazione, Significato, Carico di lavoro, Richieste.
Nel contesto italiano, Cortese ha utilizzato un approccio qualitativo-quantitativo che ha consentito di individuare otto
principali contenuti della soddisfazione lavorativa, in parte sovrapponibili con quelli delle 11 macroaree: compito e
sviluppo, organizzazione e comunicazione, clima, contratto, immagine, contesto, valutazione e carico di lavoro.
Teorie e modelli
I principali modelli che hanno contribuito allo studio della soddisfazione lavorativa:
Modelli cognitivi> ci si è focalizzati sull’aspetto cognitivo della soddisfazione lavorativa, cioè individuare le
modalità che portano le persone a soppesare tutti gli elementi in gioco per poi stabilire il proprio livello di
soddisfazione. Rappresentativo di tale approccio è il Facet Model di Lawler, che indica l’origine della
soddisfazione nel confronto tra ricompense ricevute e ricompense attese: se quanto ricevuto è inferiore a
quanto atteso, vi sarà insoddisfazione; se i due aspetti saranno allineati vi sarà soddisfazione; se quanto
ricevuto è superiore a quanto atteso, l’individuo proverà disagio.
La stima delle ricompense attese viene effettuata dall’individuo in base a tre elementi: ciò che ritiene di
offrire, il confronto tra input offerto e ricompense ricevute dagli altri soggetti scelti come riferimento, le
caratteristiche del lavoro in sé.
L’individuo per valutare le ricompense ricevute opera un confronto tra sé e gli altri verificando se ciò che ha
ricevuto risulta in linea con quanto hanno avuto i soggetti scelti come riferimento o si colloca a un livello
superiore/inferiore.
Modello delle caratteristiche del lavoro> Hackman e Oldham hanno proposto il Job Characteristics Model,
con l’obiettivo di precisare le relazioni tra caratteristiche del lavoro, reazioni individuali dei lavoratori (stati
psicologici) e soddisfazione lavorativa.
Nel modello vengono proposte cinque dimensioni (varietà delle abilità, identità del compito, importanza del
compito, autonomia e feedback) che portano a tre stati psicologici (significato del lavoro, responsabilità e
conoscenza dei risultati), i quali producono risultati in termini di soddisfazione lavorativa, soddisfazione per
lo sviluppo personale, motivazione ed efficacia lavorativa.
I collegamenti tra dimensioni del lavoro e stati psicologici e tra stati psicologici e risultati sono moderati dal
“bisogno di crescita” (GNS: Growth Need Strength) percepito da ciascun lavoratore. Quando gli stati
psicologici (significato del lavoro, responsabilità e conoscenza dei risultati) sono tutti presenti si sviluppa
maggiore soddisfazione lavorativa.
Il potenziale motivazionale (MPS: Motivating Potential Score) di un’attività lavorativa può essere calcolato
combinando i punteggi attribuiti a ciascuna delle cinque dimensioni individuate con la seguente formula:
( identità+ varietà+importanza )
x autonomia x feedback
3
Modelli disposizionali> Molti autori hanno individuato correlazioni significative tra alcuni tratti di personalità
(come l’estroversione e la coscienziosità) e la soddisfazione lavorativa. Secondo Judge, Locke, Ducham e
Kluger un’influenza sulla soddisfazione lavorativa e sulla vita in generale è esercitata dalla Core Self-
Evaluation (CSE), costrutto di personalità determinato da autoefficacia, autostima, assenza di pessimismo e
locus of control interno. Successivamente il CSE è stato messo in relazione con le caratteristiche dell’obiettivo
lavorativo. Più recentemente si è riscontrata un'associazione tra il livello di soddisfazione lavorativa e la
struttura di personalità utilizzando il modello Big Five e quello
della personalità di tipo A e di tipo B.
Modelli basati sulle emozioni> Vi sono anche studi che si propongono di considerare l’aspetto emotivo insito
nel costrutto. L’Affective Events Theory di Weiss e Cropanzano pone l’accento sull’influenza esercitata dagli
eventi quotidiani sulle emozioni che accompagnano gli stati di soddisfazione o insoddisfazione. I risultati
delle ricerche ispirati a questa teoria (generalmente utilizzano metodi di indagine qualitativi come narrazione,
diari) evidenziano come gli eventi negativi abbiano un effetto sulle emozioni notevolmente superiore rispetto
agli eventi positivi, producendo uno stato di insoddisfazione che è all’origine dei counterproductive
workplace behaviors (comportamenti controproduttivi). Come sostenuto da Judge, Scott e Ilies un
comportamento controproduttivo rispetto alla propria organizzazione deriva con maggiore probabilità da uno
stato emotivo ostile piuttosto che da caratteristiche disposizionali. Per contro, le esperienze positive sul posto
di lavoro contribuiscono a produrre soddisfazione, riducendo la sensazione di fatica e aumentando la
percezione di benessere psicologico generale.
Antecedenti e conseguenze della soddisfazione lavorativa
Gli antecedenti della soddisfazione lavorativa possono essere classificati in due principali categorie: la prima fa
riferimento alle caratteristiche del lavoro, la seconda fa riferimento alle caratteristiche individuali. La teoria più
diffusa circa l’influenza delle caratteristiche del lavoro sulla soddisfazione è quella di Hackman e Oldham, ma anche
Peters e O’Connor hanno proposto un modello generale che individua otto condizioni presenti nell’ambiente di lavoro,
chiamate costrittività organizzative, capaci di interferire con le prestazioni che risultano collegate alla soddisfazione
lavorativa. Es di costrittività: la mancanza di informazioni, l’inadeguatezza degli strumenti, l’insufficienza delle
risorse economiche, i tempi troppo stretti. I lavoratori che percepiscono un alto livello di costrittività tendono a essere
meno soddisfatti del loro lavoro.
Altre ricerche hanno indagato aspetti più specifici che correlano con la soddisfazione, tra i quali:
Il ruolo: sia l’ambiguità di ruolo, cioè l’incertezza circa le proprie responsabilità, sia il conflitto di ruolo, cioè
l’incompatibilità tra le differenti richieste che si ricevono;
Il carico di lavoro, se troppo pesante;
Il controllo sul proprio lavoro;
Gli orari;
Il conflitto lavoro-famiglia;
Le politiche di gestione delle risorse umane (HR management) messe in atto dall’azienda;
La relazione con i superiori e colleghi;
Non sono invece risultati correlati in maniera significativa con la soddisfazione aspetti come l’ammontare della
retribuzione, il lavoro notturno, il genere e l’età. Per quanto riguarda l’orientamento sessuale, invece, ricerche hanno
evidenziato un incremento della soddisfazione lavorativa tra i lavoratori omossessuali che hanno deciso di rendere
noto il proprio orientamento all’interno del contesto lavorativo.
A proposito delle caratteristiche individuali risulta interessante lo studio di Arvey, Bouchard, Segal e Abraham
condotto sulle coppie di gemelli, che ha evidenziato come il 30% della varianza della soddisfazione lavorativa può
essere spiegato da fattori genetici. I tratti di personalità ritenuti maggiormente legati alla soddisfazione lavorativa sono
il locus of control e l’affettività negativa. Più precisamente: chi possiede un locus of control interno esprime una
soddisfazione lavorativa più elevata; chi sperimenta un’alta affettività negativa (emozioni negative) esprime una
soddisfazione più bassa.
Le conseguenze
La prima conseguenza della soddisfazione lavorativa indagata è stata la prestazione. Altre ricerche hanno preso in
esame anche il legame tra soddisfazione e comportamenti di cittadinanza organizzativa (OCB) ma la correlazione
riscontrata è risultata modesta. Discorso differente per quanto riguarda le ricerche relativi ai comportamenti di ritiro,
come l’assenteismo, il turnover e i counterproductive workplace behaviors.
Per l’assenteismo le ricerche hanno indicato correlazioni modeste o assenti. Per il turnover invece si è visto come esso
sia risultante dell’insoddisfazione. Allo stesso modo anche la correlazione tra soddisfazione per il lavoro e intenzione
di lasciare il lavoro risulta elevata.
Tra gli esiti della soddisfazione lavorativa vengono considerati anche il burnout, la salute e il benessere psicologico.
Il burnout> è uno stato di sofferenza psicologica che si manifesta come senso di esaurimento,
depersonalizzazione e ridotta efficacia personale.
Salute> Palmore ha suggerito che l’insoddisfazione lavorativa determina una minor prospettiva di vita,
riportando molte correlazioni positive tra manifestazioni di malessere e i vissuti di insoddisfazione.
Benessere psicologico> correla positivamente con la soddisfazione lavorativa, mentre quest’ultima correla
negativamente con l’ansia e la depressione.
Alcuni studi si sono occupati di analizzare la relazione tra soddisfazione lavorativa e soddisfazione per la vita in
generale, considerata anch’essa come una misura di benessere psicologico. Le ipotesi formulate hanno considerato tre
alternative:
- Ciò che viene vissuto nell’ambiente lavorativo compensa ciò che è esterno a esso (compensation)
- Ciò che accade in un ambiente si riversa nell’altro (spillover)
- Tra i due aspetti non c’è legame (segmentation)
Strumenti per misurare la soddisfazione lavorativa
Il livello di soddisfazione percepita da uno stesso individuo può variare nel corso della vita professionale in funzione
dei differenti contesti di lavoro. Fondamentale risulta disporre di adeguati strumenti di rilevazione della soddisfazione,
in grado di offrire misure sia di tipo generale sia di tipo specifico poiché gli individui possono essere soddisfatti di un
aspetto e insoddisfatti di un altro. Le ricerche sul campo si avvalgono principalmente di strumenti quantitativi, ovvero
di questionari, ma vi sono anche studi di tipo esplorativo che vengono realizzati partendo da un approccio qualitativo
tramite interviste e focus group, cioè osservazioni dirette nei contesti di lavoro.
Esempi di questionari
Vi sono strumenti di tipo monodimensionale, capaci di misurare la soddisfazione complessiva e strumenti di tipo
multidimensionale, capaci di individuare il livello di soddisfazione in ciascuna delle sue componenti. Gli strumenti di
tipo multidimensionale si suddividono poi in: generalisti, capaci di misurare il livello di soddisfazione relativo a
qualsiasi attività di lavoro e dedicati, indirizzati a misurare una specifica area di attività.
Tra gli strumenti monodimensionali il più noto è la Job in General Scale (JIG) composta da 18 item con tre alternative
di risposta (si/no/non so). Tra i più noti strumenti multidimensionali generalisti vi è il Job Satisfaction Survey (JSS) di
Spector e il Job Descriptive Index (JDI) di Smith, Kendall e Hulin. Il JSS si compone di 36 item e comprende nove
sottoscale:
o Retribuzione o Procedure operative/carico di lavoro
o Promozione o Collaborazione
o Supervisione o Attività
o Benefit o Comunicazione
o Riconoscimento
Il JDI si compone di 72 item riconducibili a cinque fattori: carriera, colleghi, retribuzione, supervisione, tipo di
attività.
Tra gli strumenti dedicati invece vi sono la McCloskey/Muller Satisfaction Scale (MMSS) che viene utilizzata per la
misurazione della soddisfazione per il lavoro nel settore infermieristico. Si compone di 31 item articolati in otto
sottoscale:
o Ricompensa estrinseca
o Organizzazione
o Conciliazione lavoro-famiglia
o Collaborazione
o Interazione
o Sviluppo professionale
o Riconoscimento
o Controllo/responsabilità
Tra gli adattamenti italiani vi è quello dell’Occupational Stress Indicator (OSI) di Cooper, Sloan e Williams
contenente una scala di soddisfazione lavorativa che valuta la carriera, il lavoro in sé, l’impostazione e la struttura
organizzativa, i processi organizzativi e le relazioni interpersonali, e quello dell’Index of Work Satisfaction (IWS) di
Stamps per l’analisi della soddisfazione lavorativa del personale infermieristico.
Misure analitiche e misure generali
I ricercatori che promuovono l’utilizzo dei questionari analitici frequentemente non rinunciano a disporre di una
misura della soddisfazione lavorativa globale, che viene ottenuta sommando i punteggi delle diverse sottoscale e si
arriva a una misura “composta” della soddisfazione.
Molti autori però considerano questo modo di procedere errato in quanto i questionari specifici possono omettere delle
componenti di soddisfazione che invece sono importanti per l’individuo quando formula il proprio giudizio in termini
generali e possono includere, invece, componenti che l’individuo non considera significative.
Pertanto, quando si intende valutare la soddisfazione generale, è più utile utilizzare uno strumento specificamente
dedicato ad essa piuttosto che una misura composta.
Nuove frontiere della ricerca
Lavoratori interinali e soddisfazione lavorativa
Lavoratori interinali= lavoratori temporanei
Il lavoro somministrato si configura come una situazione in cui per il lavoratore vi sono due organizzazioni di
riferimento: l’agenzia che lo assume e l’azienda in cui egli presta il proprio lavoro. Una delle più importanti ricerche
sull’incidenza della condizione di lavoro somministrato rispetto alla soddisfazione lavorativa è stata condotta da Torka
e Schyns in Olanda, mediante 54 interviste semi-strutturate a lavoratori di sesso maschile ed età compresa tra i 18 e i
60 anni, che prestavano la loro opera in due grandi industrie metalmeccaniche. I risultati ottenuti hanno indicato una
sostanziale scelta volontaria del lavoro somministrato, vissuto non come un ripiego bensì come un’opportunità per
aumentare la propria professionalità. I ricercatori non hanno riscontrato differenze significative di soddisfazione tra i
lavoratori a tempo indeterminato e i lavoratori temporanei, spiegando tale assenza di differenze con gli orientamenti
gestionali delle aziende, che prevedono modalità di gestione analoghe per tutti i lavoratori in termini di caratteristiche
del lavoro svolto, occasioni di mobilità, partecipazione a iniziative di formazione/sviluppo professionale. Le
differenze presenti non sono riconducibili al tipo di contratto. Per questa ragione, gli autori insistono sull’importanza
di attuare politiche di gestione delle risorse umane attente a non creare discriminazioni e iniquità tra chi svolge un
lavoro somministrato e chi è dipendente diretto dell’azienda. Essi precisano, inoltre, come sia essenziale distinguere
tra lavoratori temporanei volontari e involontari. Chi lavora in modo somministrato per scelta percepisce maggiore
soddisfazione rispetto a chi considera il lavoro somministrato un ripiego.
Nel contesto italiano, Argentero, Dal Corso e Vidotto hanno realizzato una ricerca in cui vengono studiati gli effetti
sulla soddisfazione lavorativa della motivazione al lavoro somministrato, delle opinioni verso il lavoro somministrato
e della fiducia e soddisfazione per l’operato dell’agenzia, interpellando 389 lavoratori.
Gli esiti di tale ricerca evidenziano come il fattore più rilevante per predire il livello di soddisfazione lavorativa sia il
grado di fiducia e soddisfazione per l’operato dell’agenzia. Diversamente dallo studio in Olanda, la soddisfazione
lavorativa è determinata dal legame tra lavoratore e agenzia, e non dalle caratteristiche dell’azienda in cui viene
prestata la propria attività lavorativa.
Personale infermieristico e soddisfazione lavorativa
Uno dei principali problemi che le organizzazioni sanitarie si trovano attualmente ad affrontare è rappresentato dalla
carenza di personale infermieristico, che affligge molti paesi.
A causa di questa criticità le organizzazioni sanitare sono tese a incrementare la loro attrattività sia nei confronti del
personale infermieristico già in servizio, al fine di trattenerlo, sia nei confronti del personale infermieristico
disponibile sul mercato del lavoro al fine di disporre di una più ampia base di candidati tra i quale operare la selezione.
Sono stati condotti numerosi studi finalizzati a comprendere le ragioni dell’uscita volontaria del personale
infermieristico dalle organizzazioni sanitarie e a identificare esempi di buone pratiche in grado di contrastare tale
fenomeno. Tali studi hanno consentito di individuare un insieme di variabili in grado di influenzare il turnover del
personale infermieristico, tra le quali la soddisfazione lavorativa occupa un ruolo fondamentale, infatti, la
soddisfazione lavorativa viene considerata il primo fattore causa del turnover nell’ambito della professione
infermieristica.
Molte ricerche soprattutto di tipo qualitativo si sono dedicate all’individuazione e all’analisi dei fattori che
contribuiscono alla soddisfazione lavorativa del personale infermieristico. Per quanto riguarda il contesto italiano, lo
studio di Cortese ha consentito di individuare cinque principali contenuti della soddisfazione lavorativa:
Caratteristiche delle attività di lavoro;
Relazioni con i colleghi;
Responsabilità, autonomia e crescita personale;
Relazioni con i pazienti e le famiglie;
Relazioni con il coordinatore.
Una successiva ricerca di carattere quantitativo ha evidenziato come il conflitto lavoro-famiglia, il carico di lavoro e le
richieste lavorative diminuiscano la percezione di soddisfazione lavorativa, mentre il supporto del management e dei
colleghi la incrementano.
I risultati ottenuti con ricerche di questo tipo possono consentire di mettere a punto azioni di intervento volte a
sostenere e promuovere la soddisfazione lavorativa, indirizzate sia agli infermieri stessi, sia ai loro capi o
all’organizzazione nel suo complesso.
Capitolo 8
Il benessere lavorativo
L’interesse scientifico riferito al rapporto tra lavoro e benessere per molti anni si è basato sullo studio dei fattori di
rischio di tipo fisico, chimico e biologico in grado di provocare danni alla salute dei lavoratori, recentemente si è posta
però maggiore attenzione all’insieme di variabili che possono incidere sullo stato di benessere o sofferenza
psicologica derivante dall’esperienza lavorativa
Il modello job demands-resources
Il modello JD-R costituisce il più importante riferimento teorico per l’analisi dei vissuti di benessere e di sofferenza
psicologica che hanno origine nei contesti lavorativi. Il modello è nato sulla scorta di precedenti approcci allo studio
delle dinamiche psicologiche in ambito lavorativo con l’obiettivo di superarne i limiti. Tali approcci da un lato hanno
eccessivamente semplificato il quadro di variabili che influiscono sulla genesi del benessere, dall’altro non
considerano alcune specifiche caratteristiche che oggi qualificano le differenti occupazioni in modo ben diverso dal
passato. La principale caratteristica a cui il modello JD-R deve la sua popolarità è la flessibilità: possono essere
incluse al suo interno differenti variabili, da definire in funzione degli specifici contesti in cui lo si vuole utilizzare,
così come dei soggetti che si intende coinvolgere. Questa flessibilità si deve al fatto che il modello prevede la
classificazione dei fattori che influiscono sul benessere in due categorie generali: quelli riferibili alle richieste
lavorative (job demands) e quelli riferibili alle risorse lavorative (job resources).
Le richieste> sono aspetti fisici, sociali o organizzativi che richiedono uno sforzo fisico o mentale, e quindi
associati ad alcuni costi fisiologici o psicologici.
Le risorse> sono aspetti fisici, sociali o organizzativi caratterizzati da uno o più aspetti: sono funzionali al
raggiungimento degli obiettivi lavorativi, riducono le richieste lavorative e i costi fisiologici e psicologici
associati, stimolano la crescita e lo sviluppo personale.
L’equilibrio o il mancato equilibrio tra le richieste e le risorse ha implicazioni sull’engagement e sull’esaurimento,
aspetti che risultano in relazione sia con la prestazione lavorativa, ma anche tra loro.
Dalle ricerche è emerso che le risorse svolgono il loro ruolo protettivo in maniera più forte in presenza di altrettante
forti richieste lavorative; quindi, ciò favorisce l’engagement ed è condizione per il manifestarsi del flow at work.
Per quanto riguarda le richieste lavorative, si possono distinguere in due tipi:
- Le challenge demands> ovvero quelle che pur richiedendo uno sforzo da parte del lavoratore portano alla
crescita e aumentano energia, impegno e vigore;
- Le hindrance demands> ovvero quelle che richiedono uno sforzo ma ostacolano la crescita e
l’apprendimento, causando danni alla salute e alla motivazione del lavoratore.
Entrambi i tipi di richieste correlano positivamente con la presenza di burnout tra i lavoratori.
Anche le risorse lavorative si possono distinguere in due tipi:
- Le risorse lavorative> fanno riferimento ad aspetti quali disponibilità di informazioni, il supporto dei capi
e dei colleghi, la presenza di feedback sulle prestazioni;
- Le risorse personali> fanno riferimento alle autovalutazioni positive che influenzano la percezione delle
proprie abilità e capacità di controllare e agire con successo sul proprio ambiente. Queste autovalutazioni
impattano positivamente sulla motivazione e sulla soddisfazione degli individui, incrementando le
prestazioni.
Un’ulteriore variabile, denominata job crafting si riferisce al tentativo dell’individuo di modellare il proprio lavoro. Si
parla di job crafting per indicare l’insieme dei cambiamenti che i dipendenti attuano per ridefinire il proprio lavoro in
modo da esprimere le proprie competenze e soddisfare i propri interessi e bisogni.
Modello JD-R e intervento nelle organizzazioni
Per applicare il modello JD-R nella pratica degli interventi in organizzazione viene proposto un processo articolato in
8 tappe, definito JD-R Monitor:
1. Definizione della situazione e del problema> ha inizio quando un'organizzazione riconosce di avere un
problema;
2. Progettazione dell'intervento> si cerca di individuare le specifiche richieste e risorse, e di formulare ipotesi
circa le relazioni tra le diverse variabili e gli esiti comportamentali che ne possono derivare;
3. Comunicazione interna all'organizzazione> per informare i lavoratori del processo che si sta mettendo in atto
è necessaria una campagna di comunicazione (avvisi tramite email, riunioni)
4. Raccolta dei dati> viene inviata a tutti i lavoratori una email con un link grazie al quale essi possono
compilare il questionario, che deve essere anonimo e volontario. I dati sono accessibili solo ai ricercatori;
5. Analisi e report> vengono analizzati i dati ottenuti da tutti i lavoratori dell’organizzazione e viene redatto un
report generale in base ai risultati ottenuti;
6. Restituzione dei risultati> vengono presentati ai lavoratori i risultati dello studio e con loro discussi in maniera
critica;
7. Interventi> in questa fase vengono messi in atto a diversi livelli gli interventi più opportuni in base ai risultati
ottenuti nelle tappe precedenti. Tali interventi possono essere di diversi tipi. A livello individuale, i lavoratori
potranno essere incoraggiati a cercare di ridurre le richieste e a incrementare le risorse. A livello
organizzativo, potranno essere sviluppati dei programmi di apprendimenti e informazione.
8. Valutazione> non è una vera e propria tappa, perché consiste nel riapplicare dall’inizio le diverse fasi del JD-
R Monitor, è una fase essenziale per verificare se il processo è stato utile, se sono state apportate le modifiche
giuste e se sono stati ottenuti i risultati desiderati.
Il Job crafting
Parker e Ohly hanno sostenuto che gli individui possono impegnarsi attivamente per modificare le caratteristiche del
proprio lavoro, scegliendo compiti o priorità, negoziando i contenuti o riconoscendo in ciò che fanno dei significati
nuovi e non previsti.
Questo processo si chiama job crafting ed è definibile come l’insieme dei cambiamenti materiali o cognitivi che le
persone apportano ai loro compiti o alle loro relazioni di lavoro.
I cambiamenti materiali si riferiscono agli obiettivi perseguiti con le proprie attività o relazioni lavorative, alla loro
forma, al loro numero e al loro contenuto. Mentre i cambiamenti cognitivi si riferiscono al modo in cui si percepisce il
proprio lavoro.
Il costrutto di job crafting è stato riletto alla luce del JD-R Model e in questa prospettiva è stato ridefinito come
l’insieme dei cambiamenti che i lavoratori possono fare per modificare il sistema di richieste e di risorse lavorative.
Questa rilettura da un lato incrementa le possibili modalità con cui il job crafting può esprimersi, in quanto l’elenco di
richieste e risorse è potenzialmente molto ampio, dall’altro esclude le modalità di ordine cognitivo, cioè il significato
che le persone attribuiscono al proprio lavoro (non compreso nel JD-R Model). Il job crafting si può esprimere
mediante tre tipi diversi di comportamenti:
- L’aumento delle risorse lavorative, sia di tipo strutturale, sia di tipo sociale;
- L’aumento delle challenge demands;
- La diminuzione delle hindrance demands.
I comportamenti di job crafting hanno esiti positivi sia per l’individuo sia per l’organizzazione nel suo complesso.
È stata sottolineata l’importanza del job crafting nel processo di adattamento dell’organizzazione alle trasformazioni
che avvengono nel proprio ambiente di riferimento. Inoltre, come esito di alcune modalità di job crafting (in
particolare quelle volte a ridurre le hindrance demands) sono stati riscontrati diminuzioni delle prestazioni e un
aumento dei counterproductive workplace behaviors.
La propensione al job crafting si può misurare con la Dutch Job Crafting Scale (JCS) di Tims, Bakker e Derks, un
questionario composto da 21 item che convergono in quattro fattori: incremento delle risorse strutturali, incremento
delle risorse sociali, incremento delle challenge demands e diminuzione delle hindrance demands. Il quarto fattore
rispetto ai tre pare di natura diversa in quanto non è correlato all’engagement e ai comportamenti di cittadinanza
organizzativa e non produce un aumento di motivazione.
La versione italiana di questa scala si compone di 13 item e prende in considerazione solo i primi tre fattori.
Il recovery
Il tempo dedicato al recupero gioca un ruolo determinante nella possibilità di raggiungere uno stato di benessere
psicofisico. Con l’espressione recovery from work (recupero dal lavoro) si fa riferimento al processo psicologico nel
corso del quale il sistema di funzionamento dell’individuo, che è stato attivato durante un’esperienza stressante, quella
lavorativa, ritorna ai livelli pre-stressor in cui vengono ridotti o eliminati i sintomi di stress fisico e psicologico. Se il
recovery non è sufficiente, l’individuo non riesce a recuperare le energie e risorse spese durante il lavoro e il giorno
successivo dovrà fare uno sforzo maggiore per mantenere soddisfacenti livelli di prestazione. Il recovery è un
processo che ha luogo al termine della giornata lavorativa, ma anche durante i weekend, nei periodi di ferie o nei brevi
momenti di pausa.
Vi sono due teorie psicologiche per comprendere il funzionamento delle esperienze di recovery:
- Il modello effort-recovery (sforzo-recupero) di Meijman e Mulder, 1998, che sostiene che gli sforzi
mentali e/o fisici fatti durante l’attività lavorativa causano un senso di fatica che si riduce nel momento in
cui cessano le richieste e si attiva il processo di recovery. Una condizione necessaria affinché ciò avvenga
è che i sistemi di funzionamento attivati durante il lavoro non vengano stimolati e utilizzati dall’individuo
durante il tempo libero.
- La teoria della conservation of resources (conservazione delle risorse) di Hobfoll, 1998, che assume che
le persone tendano a mantenere e proteggere le loro risorse, sia esterne sia interne, quali caratteristiche
personali, energie e umore positivo.
È inoltre importante fare qualcosa che permetta di generare nuove risorse interne quali energia, senso di autoefficacia
e umore positivo.
Quattro esperienze di recovery che favoriscono il recupero delle risorse e permettano di generarne di nuove:
1. Psychological detachment: rappresenta il distaccarsi, a livello mentale oltre che fisico dal proprio lavoro
durante il tempo libero, quindi non pensare e non occuparsi di questioni lavorative.
2. Relaxation: indica il trovarsi in uno stato di calma e tranquillità caratterizzato da un basso livello di
attivazione fisica e mentale e da un aumento di sensazioni positive (meditazione, lettura di un libro, ascoltare
musica, passeggiata)
3. Mastery: fa riferimento all’impegnarsi durante il tempo libero in attività che distraggono dal lavoro fornendo
opportunità di apprendimento e di sviluppo di nuove competenze in campi completamente differenti da quello
lavorativo (apprendimento di una nuova lingua o di un nuovo hobby)
4. Control: fa riferimento al grado di potere decisionale che l’individuo ha sulla scelta di quali attività svolgere
nel proprio tempo libero, in che modo e con che tempi.
Le ricerche in tema di recovery hanno evidenziato la sua capacità di migliorare le prestazioni sul lavoro, e aumentare
il benessere e la soddisfazione di vita. Sono state approfondite le potenzialità di applicazione nei contesti
organizzativi: una prima linea di intervento consiste nel promuovere una maggiore consapevolezza del concetto di
recovery e delle sue implicazioni in termini di salute, poi capi e responsabili possono essere formati affinché
comprendano l’importanza di non eccedere con richieste nell’orario extralavorativo, ma anzi sollecitino i proprio
collaboratori a separare il più possibile il lavoro dalla vita privata, e infine un’altra linea di intervento importante è
riguardare l’utilizzo degli strumenti tecnologici di comunicazione in quanto è stato dimostrato che il loro impiego può
interferire negativamente con il processo di recovery e quindi con il benessere e la salute dei lavoratori. Una modalità
per ridurre questi effetti negativi potrebbe essere lasciare al lavoratore la piena autonomia nel decidere quanto e come
utilizzarli favorendo così la percezione di controllo sul proprio tempo e le occasioni di recovery.
Il workaholism
Le organizzazioni si confrontano oggi con un mercato del lavoro sempre più competitivo e tendono di conseguenza a
promuovere il raggiungimento degli obiettivi e il successo come valori fondamentali, anche a costo del benessere e
della qualità della vita dei lavoratori. Tale fenomeno sta determinando un crescente dissolversi dei tradizionali confini
tra lavoro e vita privata con il rischio di sviluppare una dipendenza da lavoro, cioè il workaholism o work addiction.
Il primo autore a introdurre questo concetto fu Oates nel 1971 e lo definì come un eccessivo e incontrollabile bisogno
di lavorare che influenza la salute, la qualità della vita e delle relazioni personali. La dipendenza da lavoro è
caratterizzata dalla tendenza a lavorare in modo ossessivo-compulsivo senza che vi siano reali necessità di farlo. I due
elementi che definiscono la presenza di workaholism sono:
- Lavorare eccessivamente e dedicare un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative, trascurando vita
privata, familiare e relazionale;
- Non riuscire a distaccarsi dal lavoro che viene vissuto come un’ossessione, generata non da fattori esterni
ma da un’incontrollabile compulsione interna.
Il workaholic o workaholista non riesce a concedersi pause, si sente in colpa quando non lavora ed è convinto di non
avere alternative se non quella di vivere per il proprio lavoro. Il workaholism rientra tra le dipendenze odierne più
comuni, paragonata a quella da nicotina o da alcol. Viene considerata però una dipendenza “buona” e socialmente
accettata.
Anche il contesto lavorativo può giocare un ruolo determinante nel promuovere il workaholism, attraverso fattori
quali: culture del lavoro fortemente orientate al risultato, sistemi di incentivazione che premiano elevati livelli di
produzione, una forte identificazione organizzativa. Infine, è stato dimostrato che alcune caratteristiche personali
(motivazione alla realizzazione, perfezionismo, autoefficacia) rendano gli individui maggiormente inclini a sviluppare
tale dipendenza in ambienti caratterizzati da eccessiva dedizione al lavoro.
Un rischio legato al workaholism può essere quello di considerarlo una caratteristica positiva.
La dipendenza da lavoro determina minori opportunità di recovery per le persone e quindi problemi di salute
psicologica, fisica, stress e burnout, elevati livelli di conflitto lavoro-famiglia, problemi familiare con importanti
ripercussioni nella relazione con il partner ed elevate percentuali di divorzi e separazioni. Sebbene sia stato definito da
molti autori come una patologia a oggi non è ancora riconosciuto e trattato dal DSM-5. Nonostante ciò, diventa
sempre più una priorità avviare interventi mirati alla prevenzione, al riconoscimento e alla cura della dipendenza da
lavoro. È necessario sviluppare all’interno degli ambienti di lavoro, culture che promuovano stili di vita equilibrati e il
rispetto dei confini tra lavoro e vita privata.
L’insicurezza lavorativa
Nell’attuale contesto caratterizzato da un mercato del lavoro debole e instabile, nonché da elevati livelli di precarietà,
l’insicurezza lavorativa è considerata una variabile capace di influenzare i vissuti di benessere e malessere. Il concetto
di insicurezza lavorativa fa riferimento alla preoccupazione relativa alla continuità del proprio lavoro, al timore di
perderlo e di restare disoccupati. Può essere considerata come uno stressor lavorativo all’interno della teoria
transazionale dello stress ed è inclusa tra le richieste lavorative all’interno del JD-R Model. Diversi studi hanno messo
in luce le conseguenze negative dell’insicurezza lavorativa che si associa a una riduzione della soddisfazione
lavorativa, del commitment, della salute psicologica e fisica, della prestazione, della fiducia e del coinvolgimento
lavorativo. Si associa inoltre all’intenzione di turnover e all’esaurimento emotivo, quale dimensione centrale della
sindrome di burnout. La percezione di insicurezza lavorativa può talvolta spingere le persone a incrementare i loro
sforzi nel tentativo di “convincere” i datori di lavoro dell’importanza del loro contributo per l’organizzazione.
Recentemente, alcune ricerche hanno approfondito il ruolo di possibili moderatori della relazione tra insicurezza
lavorativa ed esiti: tra questi una variabile rilevante sembra essere il genere. L’insicurezza lavorativa percepita appare
in genere maggiormente nelle donne.
Il benessere dei lavoratori “anziani”
La popolazione mondiale sta invecchiando molto rapidamente e stime indicano che questa tendenza continuerà a
incrementarsi nel corso dei prossimi decenni. Molte delle ripercussioni di questo fenomeno riguardano il mondo del
lavoro e le caratteristiche della workforce. La popolazione attiva sta diventando sempre più anziana, ed è previsto che
il rapido aumento della percentuale di lavoratori old, rispetto a quelli young, proseguirà nel corso delle prossime
decadi. L’invecchiamento della forza lavoro è considerata una delle caratteristiche distintive del ventunesimo secolo, e
un’importante sfida a livello sociale e organizzativo. Il concetto di lavoratore anziano può variare rispetto ai contesti
organizzativi e alle culture di appartenenza. Inoltre, vi è un considerevole insieme di fattori che possono modificare la
definizione di lavoratore anziano come gli stereotipi nei loro confronti e le norme sociali legati all’età pensionabile.
È possibile classificare i numerosi cambiamenti personali che si verificano con l’avanzare dell’età in tre principali
categorie:
1. Cambiamenti fisici
2. Cambiamenti cognitivi
3. Cambiamenti di personalità
L’invecchiamento porta con sé un naturale declino di abilità fisiologiche e fisiche, come cambiamenti a livello
sensoriale, il decadimento muscolare, la diminuzione della capacità aerobica e delle difese immunitarie. Gli effetti di
tali cambiamenti possono riguardare la performance lavorativa.
Con l’avanzare dell’età anche le funzioni cognitive relative all’intelligenza fluida tendono progressivamente a
diminuire, mentre le funzioni attribuite all’intelligenza cristallizzata raggiungono il loro massimo all’età di 60 anni
circa. Vi è quindi una buona compensazione. Per questo motivo, all’interno dei luoghi di lavoro la performance degli
older workers è molto spesso ancora adeguata.
Anche se i tratti di personalità sono piuttosto stabili all’interno del ciclo di vita, solo di recente alcune ricerche hanno
evidenziato come alcuni tratti di personalità, contenuti nel modello Big Five, possono variare con l’età adulta.
Aumentano infatti i tratti di coscienziosità e amicalità, mentre si riducono i tratti di nevroticismo. Non è ancora chiaro
se questi risultati dipendano da fattori ambientali o da caratteristiche biologiche degli individui.
Numerosi fattori sono in grado di influenzare il benessere del lavoratore anziano e vanno segnalate, per la loro
importanza, quelle connesse alla presenza di stereotipi e pregiudizi (ageism) e quelle relative al job design.
Un clima organizzativo che favorisce un positivo age climate può ridurre il desiderio di andare in pensione dei
lavoratori anziani e incrementare la loro salute. Mentre il job design permette di valorizzare e di ottimizzare gli effetti
che le differenze individuali possono avere nella relazione tra caratteristiche del lavoro e attitudine al lavoro. Gli studi
condotti sul job design hanno il fine ultimo di promuovere compiti di lavoro che favoriscano la soddisfazione
lavorativa, il mantenimento della motivazione e il benessere generale. Inoltre, hanno esaminato l’importante ruolo
dell’utilità sociale che può caratterizzare una mansione lavorativa: il lavoratore anziano può percepire infatti un alto
senso di valorizzazione.
Age management e interventi a supporto dei lavoratori anziani
Gli interventi a supporto del benessere occupazionale dei lavoratori anziani rappresentano per l’azienda un’occasione
per non perdere il bagaglio di competenze e conoscenze che il lavoratore anziano ha maturato nel corso della carriera.
È utile per le organizzazioni continuare a sostenere la loro impiegabilità in quanto essi rappresentano un’importante
fonte di tacit knowledge e perché è stato dimostrato che essi possono continuare a svolgere efficacemente la maggior
parte delle attività lavorative.
Il termine age management fa riferimento alle possibili azioni e intervento attraverso cui le risorse umane vengono
gestite all’interno dell’organizzazione, con un’attenzione specifica sull’età. Le good practices in age management
sono misure volte all’abbattimento delle barriere d’età e alla valorizzazione delle differenze intergenerazionali. Si
sono studiati gli effetti sia individuali, sia organizzativi di alcuni interventi:
- La formazione specifica per l’impiego di strategie di selezione, ottimizzazione e compensazione al fine di
meglio adattare le risorse dei lavoratori anziani alle richieste lavorative;
- Il job design orientato all’aumento dell’autonomia e della varietà delle competenze;
- La creazione di team di lavoro intergenerazionali che facilitano le relazioni positive, sviluppano
competenze e riducono drasticamente stereotipi e discriminazione;
- Il lavoro part-time, il telelavoro o soluzioni di lavoro flessibile che sostengano il wok-life balance;
- I programmi di mentoring che valorizzano il ruolo dei lavoratori anziani e rappresentano occasione di
crescita per gli stessi.
In un recente studio, Pinto e collaboratori hanno esaminato gli effetti di diverse pratiche HR in gruppi di lavoratori di
età diverse. Nel corso della carriera i bisogni dei lavoratori e l’utilità delle pratiche HR cambiano; quest’ultime devono
essere programmate e gestite strategicamente in modo da incontrare i bisogni degli individui in ogni fase della carriera
e da incrementare la performance dell’organizzazione. Secondo questi autori gli interventi e le azioni HR
maggiormente apprezzate dai lavoratori sono quelle relative alla formazione. Gli effetti dei programmi di training
professionale non diminuiscono con il passare degli anni.
Il benessere lavorativo degli older workers può fortemente risentire non solo di caratteristiche personali individuali ma
soprattutto di pratiche HR che possano influenzare il loro sviluppo personale e professionale, favorendone
l’occupabilità e l’invecchiamento attivo, coinvolto e ancora motivato.
Il rientro al lavoro
L’attuale contesto economico, unitamente all’accresciuta modalità lavorativa e ai cambiamenti sociodemografici in
atto hanno causato l’allontanamento temporaneo di un numero sempre maggiore di persone dal mondo del lavoro.
Pertanto, il tema del rientro al lavoro (return to work) e della promozione dell’occupabilità ha riscontrato una
crescente attenzione in molteplici contesti.
In particolare, il reinserimento lavorativo dopo prolungata assenza ha acquisito importanza anche nell’ambito della
psicologia del lavoro. In quest’ambito l’obiettivo delle ricerche e degli interventi è quello di indagare quali sono i
fattori determinanti di una prolunga assenza lavorativa, al fine di promuovere e facilitare un sicuro e rapido
reinserimento lavorativo.
Il 23,5% della popolazione europea soffre almeno di una malattia cronica, tra queste le principali sono diabete,
malattie cardiovascolari, malattie respiratorie, malattie oncologiche ecc. La comparsa di queste patologie comporta il
più delle volte un allontanamento dal lavoro necessario per le cure e la riabilitazione. Il reinserimento professionale
può essere vissuto come un periodo emotivamente stressante, in quanto richiede alla persona l’adozione di strategie di
adattamento al cambiamento in relazione alla propria condizione psicofisica o lavorativa.
Tuttavia, altri studi hanno evidenziato alti livelli di soddisfazione lavorativa nelle persone che rientrano a lavoro a
seguito di riabilitazione con modifiche e limitazioni rispetto a chi riprendeva la propria mansione senza limitazioni.
Più recentemente gli studi si sono rivolti anche al reinserimento lavorativo in conseguenza di maternità,
ristrutturazione aziendali e cassa integrazione. Si evidenzia nello specifico che nella popolazione esistono delle fasce
deboli maggiormente a rischio di disoccupazione: giovani, lavoratori con più di 50 anni e neo-madri.
Per quanto riguarda la popolazione femminile, le neo-madri sono la categoria che accusa maggiori criticità.
Le ricerche che hanno indagato l’associazione tra la perdita del lavoro e la salute psicofisica hanno evidenziato come
il licenziamento possa avere un forte impatto negativo sulla salute e sul benessere delle persone a livello fisico,
psicologico e sociale.
Precedenti studi hanno inoltre dimostrato che maggiore è il periodo di assenza dal lavoro e minore è la probabilità che
la persona ritorni effettivamente al lavoro. Si rivela dunque fondamentale identificare e comprendere quali fattori
possono ostacolare o facilitare il reinserimento lavorativo. Il rientro a lavoro è influenzato da molti fattori di tipo
sociodemografico, clinico, psicologico e organizzativo.
I programmi per il ritorno al lavoro consistono in una serie di attività per facilitare il reinserimento professionale ed
evitare la perdita dello stesso, come: monitoraggio sistematico delle assenze al fine di individuare le persone a rischio,
il contatto regolare tra datore di lavoro e la persona assente al fine di mantenere vivo il legame e l’interesse,
l’adattamento delle condizioni di lavoro in base alle capacità lavorative e alle limitazioni prescritte dal medico.
Il welfare e il wellness organizzativo
Le iniziative di welfare e wellness sono spesso relative a soluzioni contrattuali/formali o iniziative che favoriscono la
conciliazione tra lavoro e famiglia (come modifiche di orari o del luogo di lavoro, asili nido in azienda). Rientrano
nelle soluzioni di welfare e wellness anche alcuni servizi economici come contributi aggiuntivi che l'azienda dà
attraverso buoni e convenzioni per attività di svago o servizi sociosanitari rivolti anche ai loro familiari. Inoltre, vi
sono servizi legata all'informazione e alla formazione rivolti soprattutto a chi ha ruoli di responsabilità.
Capitolo 9
I rischi psicosociali
Originariamente l’interesse scientifico riferito al rapporto tra lavoro e benessere si è basato sullo studio dei fattori di
rischio di tipo fisico, chimico e biologico in grado di provocare danni alla salute dei lavoratori. Successivamente è
stata posta maggiore attenzione alle variabili in grado di incidere sullo stato di benessere psicologico quali lo stress
occupazionale, la sindrome del burnout, il fenomeno del mobbing, la traumatizzazione vicaria e i comportamenti
violenti sui luoghi di lavoro.
A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, la ricerca si è più specificatamente focalizzata sullo studio dei fattori
di rischio psicosociale, considerati il “quarto fattore di rischio” occupazionale.
Cox e Griffiths hanno definito i rischi psicosociali come il risultato degli aspetti di progettazione e gestione del lavoro,
in grado di dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o fisica e di particolari dinamiche relazionali fra colleghi.
La progressiva sensibilità nei confronti dei rischi psicosociali si fonda sull’evoluzione del concetto di salute umana
riferibile non solo alla tutela dell’integrità biologica dell’individuo ma anche a quella psicologica e sociale. Il
benessere individuale è in grado di influenzare numerosi aspetti a livello collettivo e organizzativo, risultando un
importante predittore dell’efficacia aziendale. In questo senso, Raymond, Wood e Patrick hanno proposto una nuova
materia interdisciplinare denominata “psicologia della salute organizzativa” (occupational health psychology)
finalizzata allo studio degli aspetti organizzativi orientati al miglioramento del benessere fisico, psicologico e sociale
delle persone. Tale filone di studi si propone di intervenire sulle aree organizzative disfunzionali, promuovendo il
benessere psicologico nei luoghi di lavoro. L’attenzione di queste ricerche è stata indirizzata sullo studio dei possibili
effetti dell’esposizione a fattori di rischio psicosociale come: stress, comportamenti violenti, burnout e la
traumatizzazione vicaria.
Stress occupazionale
I principali modelli teorici
Il termine stress ha un’origine etimologica legata all’ambito ingegneristico. Prima ancora che il termine fosse
utilizzato nell’accezione di disagio personale, faceva infatti riferimento agli effetti subiti dai materiali metallurgici
sottoposti a forte pressione. Il primo studioso ad aver introdotto il concetto di stress è stato Hans Selye, ipotizzò un
primo modello teorico, definito approccio response-based in cui lo stress viene identificati nella risposta fisiologica
aspecifica manifestata dall’organismo nei confronti di diverse tipologie di stimoli ambientali. La visione da lui
proposta è focalizzata esclusivamente sulle risposte manifestate dall’organismo, mentre non risulta approfondito il
fenomeno nel suo complesso. I limiti connessi a questa prospettiva hanno spinto i ricercatori a formulare un secondo
modello, definito stimulus-based basato sull’analisi degli stimoli presenti nel luogo di lavoro, al pari del modello
precedente questo modello si è limitato alla descrizione di una singola componente del fenomeno, quella riferita alle
caratteristiche dei luoghi di lavoro. Un ulteriore sviluppo riguarda l’approccio stimulus/response relationship, detto
anche interattivo, il cui focus è costituito dall’interazione tra stimoli ambientali e risposte individuali. Anch’esso si è
rivelato parzialmente inadeguato.
Il modello più attuale e completo è il transactional approach, ovvero approccio transazionale che suggerisce come lo
stress non sia identificabile con elementi parziali, bensì il risultato di un processo di scambio e di interazione continuo
tra individuo e ambiente. In questo modello vengono prese in considerazione anche le caratteristiche individuali che
regolano il processo dello stress, in particolare gli stili di coping che gli individui attuano in risposta agli stimoli
ambientali. [La nozione di coping fa riferimento all’insieme di sforzi cognitivi e comportamentali che l’individuo
attua al fine di gestire le richieste provenienti dall’ambiente.]
In tal senso, gli individui sottoposti a determinati stimoli ambientali ricercherebbero le azioni più opportune per
affrontarli, in un processo continuo di adattamento al contesto in cui operano. Occore, infine, chiarire la distinzione fra
stress e concetti a esso correlati: stress, stressor e strain.
Stressor organizzativi
La ricerca sullo stress occupazionale si è prevalentemente focalizzata sugli stressor di natura fisica (eccessivi livelli di
rumore, temperature insostenibili, scarsa illuminazione e turni di lavoro prolungati), capaci di incidere sul benessere e
la produttività delle persone. Successivamente, tra gli stressor occupazionali sono state considerate anche le
caratteristiche delle attività lavorative, i ruoli organizzativi, le relazioni interpersonali, lo sviluppo di carriera e la
relazione fra lavoro e vita extralavorativa. Alcuni aspetti connessi al ruolo organizzativo possono infatti rappresentare
fattori di stress per i lavoratori, ad esempio, l’ambiguità di ruolo si associa a elevati livelli di disagio psicologico.
Il sovraccarico lavorativo rappresenta un ulteriore fattore di stress occupazionale, anche la scarsa qualità delle
relazioni interpersonali sul luogo di lavoro può determinare reazioni psicologiche negative.
Anche alcune caratteristiche dello stile gestionale di un’organizzazione possono rappresentare una fonte di strain
psicologico, in particolare nei casi di limitato coinvolgimento dei lavoratori all’interno dell’organizzazione. Infine,
aspetti legati alle strategie di gestione delle risorse umane (come la presenza di eccessiva burocrazia) possono
generare insoddisfazione lavorativa e malessere generalizzato.
Una variabile in grado di moderare la relazione stressor-strain è il supporto sociale, poiché la presenza di una forte
rete di supporto sociale all’interno dell’organizzazione può alleviare la percezione di disagio.
Effetti dello stress
Lo stress occupazionale è in grado di produrre effetti negativi a breve e a lungo termine sia sugli individui sia sulle
organizzazioni. A livello individuale si hanno principalmente conseguenze sul piano fisiologico, psicologico e
comportamentale. Inoltre, l’esposizione cronica a una serie di agenti stressogeni può favorire l’insorgenza di patologie
quali diabete, sindromi metaboliche, obesità ecc. Gli esiti individuali dello stress possono a loro volta causare effetti
disfunzionali a livello organizzativo. L’azione continua e ripetuta degli stressor sui lavoratori può infatti portare a una
diminuzione dei profitti dovuta al calo della produttività, la perdita di clienti/utenti dovuta alla diminuzione della
qualità dei servizi erogati.
Variabili in grado di moderare la relazione stressor-strain
Maggiore interesse si è mostrato nella valutazione delle variabili disposizionali, situazionali e sociali che possono
esercitare un’influenza nella relazione stressor-strain.
Le variabili disposizionali o individuali> emergono di particolare interesse i modelli di comportamento di
Tipo A, l’affettività negativa, l’autostima, l’autoefficacia e la percezione di controllo.
o Modello comportamentale di Tipo A: si riferisce a caratteristiche di personalità quali competitività,
ambizione, pressione temporale, aggressività, iperattività, necessità di riconoscimento sociale, rabbia
e ostilità;
o Affettività negativa: riflette una predisposizione a sperimentare bassa autostima e stati emotivi
negativi;
o Autoefficacia e autostima: riguardano il giudizio sulle capacità personali o collettive di portare a
termine un compito e il giudizio di valore che un individuo possiede di sé stesso;
o Percezione di controllo: esercitare un adeguato controllo sugli eventi può favorire uno stato di
benessere e stimolare il senso d’autoefficacia.
Le variabili organizzative> una di queste è il commitment, definito come il legame tra i lavoratori e
l’organizzazione. Studi recenti hanno dimostrato come questo sia in grado di esercitare effetti positivi su
diversi aspetti come la soddisfazione lavorativa, il desiderio di mantenere il proprio posto di lavoro,
l’adozione di comportamenti creativi e innovativi, il coinvolgimento nel lavoro.
Anche il supporto sociale può essere considerato tra le variabili organizzative e può essere esercitato sia dai
colleghi, sia dai capi e si manifesta in entrambi i casi un effetto protettivo in grado di produrre effetti positivi
sul benessere dei lavoratori.
Valutazione dello stress
La maggior parte delle attuali ricerche finalizzate alla comprensione dello stress occupazionale considerano tale
fenomeno in un’ottica transazionale. Questo modello risulta molto diffuso e accettato a livello teorico, mentre in
ambito empirico la ricerca sembra essere ancora influenzata dal modello interattivo. Gli strumenti basati su
quest’ultimo approccio considerano le diverse componenti del processo come costrutti statici, caratterizzati da effetti
unidirezionali, meno spesso esaminano il fenomeno nel suo insieme.
Al contrario, gli strumenti di misurazione transazionale danno maggiore attenzione agli aspetti relativi all’individuo.
Nonostante tali vantaggi, quest’ultimo approccio comporta l’indagine di un numero elevato di variabili che lo rendono
di più difficile applicazione. Vi è, quindi, la possibilità di ricorrere a misure di tipo:
- “oggettivo”: si basa sulla misurazione di alcuni parametri fisiologici e sul loro confronto con indici di
riferimento rilevati in situazioni di normalità;
- “soggettivo”: utilizzano invece questionari self-report che permettono di approfondire il significato
psicologico attribuito dall’individuo a determinati eventi, quindi le percezioni individuali.
In generale, la ricerca ha privilegiato l’utilizzo di strumenti soggettivi, self-report, anziché oggettivi. È auspicabile che
in futuro ci si possa avvalere di metodologie integrate.
Interventi
Gli interventi finalizzati alla prevenzione e alla riduzione dei livelli di stress occupazionale (stress management
interventions) possono essere classificati all’interno di tre principali categorie:
Interventi primari: realizzati con lo scopo di contenere il più possibile gli agenti in grado di sollecitare
eventuali risposte di stress, quindi ad esempio riprogettazione delle attività lavorative e la ristrutturazione dei
ruoli. Questi interventi sono efficaci in quanto aumentano il benessere dei lavoratori, ma hanno un costo
elevato che ne rende poco frequente l’applicazione;
Interventi secondari: sono rivolti agli individui con lo scopo di modificarne le reazioni agli stressor, come ad
esempio tecniche di rilassamento e biofeedback che sono di costo limitato e piuttosto efficaci a breve termine.
Interventi terziari: sono finalizzati alla cura e riabilitazione del lavoratore che manifesta effetti derivanti dallo
stress. Alcune organizzazioni mettono a disposizione dei loro dipendenti programmi di assistenza (employee
assistance programs) che prevedono l’impiego di professionisti specializzati nel trattamento dei sintomi da
stress.
Nonostante le difficoltà metodologiche connesse alla valutazione dell’efficacia di questi interventi, le organizzazioni
tendono generalmente a privilegiare interventi di tipo secondario e terziario, nonostante i migliori risultati a lungo
termine siano ottenibili attraverso l’attuazione di azioni primarie.
I comportamenti violenti sui luoghi di lavoro
La violenza sul luogo di lavoro (o molestia, workplace harassment) è definita utilizzando numerosi vocaboli e
situazioni che si differenziano tra loro. La Commissione europea definisce la violenza sui luoghi di lavoro come
“incidenti in cui le persone sono abusate, minacciate o aggredite in circostanze legate al lavoro, incluso ciò che
accade durante gli spostamenti per arrivare al lavoro e/o tornare da esso, e che comprendano un rischio esplicito o
implicito per la sicurezza, il benessere e la salute.”
Vengono considerate diverse forme di violenza e nessun tipo di relazione vittima- perpetratore viene esclusa, inoltre
gli atti violenti per essere considerati tali non devono verificarsi esclusivamente e fisicamente sul luogo di lavoro, ma
sono compresi anche episodi accaduti durante gli spostamenti. Sono compresi anche tutti gli episodi che accadono
nella propria abitazione o in altri luoghi privati e pubblici, se la causa è il lavoro. Infine, il comportamento per essere
definito violento non deve necessariamente essere di tipo esplicito: la modifica della percezione della propria
sicurezza è già di per sé un esito della violenza. La letteratura scientifica mostra come l'interesse dimostrato per la
violenza sul luogo di lavoro sia accresciuto negli anni, tale interesse è legato all'aumento del fenomeno.
La violenza sui luoghi di lavoro può avvenire tra diversi soggetti lavoratori e con diverse finalità. Estrada e
collaboratori hanno individuato quattro tipologie di episodi di violenza in cui vi è una diversa relazione tra vittima e
perpetratore e una diversa motivazione:
1. Intruder violence: la vittima in genere non conosce il perpetratore, il comportamento violento viene messo in
atto nei confronti di persone che maneggiano denaro;
2. Client-related violance: la vittima e il perpetratore sono sconosciuti o conoscenti; il comportamento violento
viene messo in atto all'interno di una relazione professionale tra erogatore e fruitore di un servizio;
3. Relational violence: la vittima e il perpetratore sono conoscenti, i comportamenti violenti avvengono
all'interno della relazione professionale;
4. Structural violence: i comportamenti violenti sono legati all'organizzazione, alle relazioni tra lavoratori e al
sistema di valori enorme sui quali il lavoro è basato.
Fattori di rischio
La maggior parte delle ricerche prende in considerazione tre tipologie di fattori: individuali, legati all'azienda e
all'ambiente fisico e sociale. Tali fattori sono interconnessi, i comportamenti violenti non dipendono solo da fattori
intra/interpersonali o socioambientali ma dal complesso intrecciarsi di tante variabili.
Fattori individuali> le ricerche indicano che le persone più giovani, con meno esperienza lavorativa, sono
quelle a maggior rischio di vittimizzazione. Anche coloro che hanno un'alta scolarità lo sono. Emerge anche
una differenza di genere per quanto riguarda gli episodi di violenza: i maschi sono maggiormente a rischio di
violenza fisica, le donne di molestia sessuale. Per quanto riguarda i fattori psicologici, alcuni tratti di
personalità sono stati messi in relazione alla vittimizzazione come l'affettività negativa che rappresenta un
fattore di rischio. Mentre il pattern di comportamento di Tipo A è stato individuato nei perpetratori.
Fattori aziendali> con tale termine ci si riferisce sia al tipo di lavoro sia ai modi operandi dell'azienda. Alcune
professioni sono maggiormente a rischio di vittimizzazione, si pensi alle forze dell'ordine, al personale addetto
alla difesa e a coloro che sono in contatto con i pazienti. Contesti aziendali caratterizzati da conflitto elevato,
insoddisfazione dei lavoratori, gestione non adeguata, assenza di controllo sulle procedure e sui risultati,
favoriscono la violenza. Accanto a questi ci sono fattori ascrivibili al management (adesione a norme e valori
che prevedono tolleranze di comportamenti che causano disagio, la mancata punizione di tali comportamenti
può essere Letta come un'autorizzazione a sminuire la vittima degli attacchi verbali). Un ulteriore fattore di
rischio è legato alla relazione tra lavoratore e superiore/supervisore infatti l'eccessivo controllo, la mancanza
di rispetto e una comunicazione non adeguata sono elementi che possono determinare nel lavoratore la
percezione di essere vittima di violenza.
Fattori ambientali fisici e sociali> Tra i fattori di rischio dell'ambiente fisico vi sono quelli la cui assenza
determina un aumento di vittimizzazione nei lavoratori. Sono elementi specifici di ciascun ambiente di lavoro
(in un ospedale la scarsa illuminazione interna o esterna aumenta il rischio di comportamenti violenti, in
particolare aggressioni fisiche. Tra i fattori sociali vengono annoverati la multiculturalità, la comunità, il
sistema Paese. La multiculturalità ha a che fare con l'esposizione a ciò che è sconosciuto, alla novità e alla
diversità. Diventa un fattore di rischio di comportamenti violenti se l'incontro con un lavoratore portatore di
tale diversità è accompagnato da pregiudizio stili di tipo razziale. La comunità nella quale i soggetti sono
inseriti influisce sulla qualità e sulla propensione al comportamento violento. Il sistema Paese, infine, con il
sistema legislativo e la regolazione dei rapporti lavoratori-imprese, influisce sulla percezione di in/sicurezza
lavorativa. Diversi autori hanno evidenziato come la precarietà aumenti il grado di incertezza delle persone
che si percepiscono come instabili e vulnerabili, quindi maggiormente a rischio di comportamenti violenti.
Conseguenze
Le conseguenze sia fisico sia psicologico, riguardano sia il singolo individuo sia l'azienda. Sull'individuo le
conseguenze fisiche della violenza possono spaziare da piccole ferite fino ad arrivare a incidenti mortali. Le
conseguenze psicologiche possono derivare sia dall'aver subito un comportamento violento di tipo fisico, sia dall'aver
subito un comportamento violento di tipo verbale. Gli studi dimostrano che la violenza psicologica comporta
conseguenze peggiori rispetto a quella fisica, con ripercussioni sul benessere sul lungo periodo. In alcune ricerche è
emersa anche la presenza di Disturbo Post- Traumatico da Stress (DPTS) in vittime di un comportamento violento di
tipo fisico. A livello psicosociale, rientrano conseguenze quali: eccesivo disimpegno sul lavoro, isolamento sociale,
percezione dell’ambiente di lavoro come ingiusto, insoddisfazione professionale e infelicità nella vita.
Fenomeni come il deterioramento delle relazioni con i colleghi di lavoro, la maggiore percezione di distress lavoro-
correlato, burnout, depressione, sono risultate correlate agli episodi di violenza.
Interventi
L’intervento sulle vittime di violenza può essere di tipo educativo-comportamentale, clinico, legale.
o Educativo-comportamentale> è possibile trattare con questo intervento gruppi di persone che hanno sofferto
di comportamenti violenti in situazioni diverse.
o Clinico> le ricerche hanno dimostrato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento
delle vittime, a maggior ragione se supportata da tecniche di desensibilizzazione e rielaborazione
dell’esperienza traumatica.
o Legale> mira a sanzionare l’autore del comportamento violento stabilendo un risarcimento dei danni.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) propone una prevenzione mirata al contrasto del fenomeno di tipo
primaria, secondaria e terziaria.
Prevenzione primaria: il datore di lavoro deve informare e formare dirigenti e dipendenti sul tema dei
comportamenti violenti sui luoghi di lavoro. È opportuno adottare linee guida e codici per favorire un
comportamento etico. A livello di ambiente di lavoro, è possibile adottare misure strutturali e tecnologiche e
misure organizzative che possono essere utili a tutela del lavoratore. Per i lavoratori particolarmente a rischio
di vittimizzazione, un elemento essenziale, è la formazione per fa conoscere i rischi potenziali per la
sicurezza, le procedure da seguire per proteggere sé stessi e i colleghi da comportamenti violenti.
Prevenzione secondaria: si tratta di individuare un confidente con il compito di ascoltare chiunque ritenga di
essere vittima di molestie. Riconosce il problema può rompere il silenzio che spesso copre l’aggressore e
adottare iniziative per fermare l’aggressione. Un elemento da inserire nel contesto aziendale è la figura del
mediatore. La mediazione è un processo in cui un terzo imparziale, il mediatore, offre alle persone in conflitto
l’opportunità di incontrarsi al fine di risolvere problematiche e negoziare una soluzione.
Prevenzione terziaria: dal momento che le molestie sono eventi comprovati e noti, le conseguenze possono
essere gravi per i lavoratori. Per aiutarli a recuperare la loro salute e la dignità, è possibile adottare delle
misure adeguate (come il cambio di postazione di lavoro).
Il mobbing
Il mobbing rientra tra quelli che vengono definiti “comportamenti lavorativi controproduttivi” (counterproductive
workplace behaviors CWBs) ovvero tutti quei comportamenti agiti nei luoghi di lavoro con caratteristiche di
aggressione, devianza, ritorsione e vendetta. Il mobbing è stato tradizionalmente classificato come una forma di
aggressione che si differenzia da altre forme di comportamenti aggressivi per intensità e frequenza. Rispetto alla
frequenza, il mobbing si caratterizza tipicamente per tratti di continuità e ripetitività che non sono propri di tutti i tipi
di comportamenti aggressivi. In generale, il mobbing scaturisce da una situazione di conflittualità in cui una persona
diviene oggetto di azioni persecutorie da parte di uno o più aggressori, con la conseguenza che la vittima, non in grado
di reagire adeguatamente, può sviluppare disturbi psicosomatici e dell'umore, e in alcuni casi anche danno alla salute
psicofisica. Per poter definire mobbing una particolare attività, interazione o processo, è necessario che esso si
verifichi regolarmente e ripetutamente in un periodo di tempo di almeno sei mesi. Da ciò emergono le principali
caratteristiche del fenomeno: frequenza, durata, ostilità e squilibrio di potere.
La frequenza> Si riferisce al numero di volte in cui i comportamenti negativi vengono agiti settimanalmente,
la soglia minima è di una o due volte alla settimana;
La durata> La durata complessiva dei comportamenti negativi deve essere pari almeno a sei o 12 mesi;
L'ostilità> Si intende la negatività tipica dei comportamenti agiti;
Lo squilibrio di potere> Si riferisce alla disparità di potere percepito tra vittima e mobber. Disparità non solo
gerarchia, ma anche fisica e sociale.
I principali modelli relativi al fenomeno ed elaborati sono quello di Leymann e quello di Ege. Leymann ha identificato
quattro fasi del fenomeno:
a) Conflitto quotidiano;
b) Inizio del mobbing;
c) Errori e abusi da parte dell’ente delle risorse umane;
d) Esclusione dal mondo del lavoro.
Partendo da questo modello elaborato in riferimento ai Paesi nordeuropei, Ege ha rilevato la difficoltà a estenderlo ad
altri contesti culturali, in particolare quello italiano. Questo contesto spesso si caratterizza per un'elevata e frequente
conflittualità fisiologica fra i lavoratori, percepita addirittura come una normale condizione lavorativa. Ege ha
aggiunto al modello di Leymann una pre-fase, non ancora identificabile come mobbing, definita “condizione zero”
che si riferisce alla presenza di quello stato di conflittualità fisiologica tipica del nostro Paese, è una condizione
caratterizzata dall’intenzione di predominare sugli altri.
L’influenza del contesto socioculturale è studiata come uno dei fattori in grado di predire l’insorgenza del fenomeno.
Metodologie di valutazione
Ad oggi le metodologie di valutazione non sono ancora pienamente condivise dalla comunità scientifica. Gli approcci
psicologici alla misurazione del mobbing si riferiscono a tre principali categorie di metodi di ricerca:
1. Metodi “interni”: focalizzati sull’autopercezione del fenomeno. Gli strumenti utilizzabili sono i questionari, le
interviste, il focus group, resoconti personali realizzati attraverso diari e tecniche proiettive;
2. Metodi “esterni”: riferiti al contesto nel quale si sviluppa la condizione di mobbing. Prevede l’utilizzo di
strumenti come l’osservazione del lavoratore nel suo ambiente di lavoro e la raccolta di informazioni, ottenute
attraverso interviste o questionari.
3. Metodi “integrati”: che si avvalgono di approcci sia interni che esterni.
A causa di varie difficoltà legali e organizzative vengono privilegiati i metodi interni da approfondire però attraverso
ulteriori strumenti. Nei questionari, infatti, numerose ricerche hanno evidenziato delle limitazioni come: la mancanza
di controllo dell’alterazione intenzionale delle risposte o lo scarso approfondimento di importanti azioni mobbizzanti.
Alcuni questionari i cui item sono formulati in termini di comportamenti negativi che il lavoratore può aver vissuto a
lavoro: NAQ, WB-C.
Nel contesto italiano vi è il Questionario di Autopercezione del Mobbing (QUAM di Argentero) finalizzato alla
misurazione delle percezioni soggettive riferite sia al contesto lavorativo sia alle percezioni personali connesse alla
situazione di lavoro.
Interventi
È stato dimostrato che i professionisti dell'aiuto hanno a disposizione risorse psicologiche in grado di contrastare gli
effetti negativi derivanti dall'esposizione a eventi critici. Ehi, tuttavia, Le risorse individuali possono talora non
garantire il benessere per il quale si rende necessario impostare anche un percorso di supporto psicologico.
L'approccio attualmente più diffuso è quello noto come Critical Incident Stress Management (CISM) (cism) costituito
da più interventi tra loro combinati con l'obiettivo di limitare il più possibile lo stress psicologico derivante dagli
eventi critici, prevenendo o riducendo l'insorgenza di reazioni post traumatiche. Il CISM include 7 elementi basilari:
1. La preparazione pre-crisi tramite formazione e counseling individuale;
2. Procedure di smobilitazione di massa da implementare dopo disastri;
3. Counseling individuale per il supporto in situazioni di crisi acuta;
4. Brevi discussioni in piccoli gruppi finalizzati a ridurre i sintomi acuti;
5. Critical Incident Stress Debriefings (CISD) cioè lunghe discussioni in piccoli gruppi che facilitano il
raggiungimento di un senso di vicinanza psicologica tra le persone dopo la crisi;
6. Interventi di supporto alle famiglie;
7. Procedure di follow up e di eventuale rimando professionale per valutazioni e interventi psicologici
specialistici quando ritenuti necessari;
È un approccio che copre l'intero processo, dalla fase pre a quella post crisi. Sono state sviluppate anche altre forme di
intervento che risultano ancora degne di nota. Ad esempio, gli interventi individuali di supporto alle crisi, che
consistono in interventi realizzati subito dopo l'evento critico, durante i quali vengono ascoltati i fatti, si opera sulle
sensazioni delle vittime, si facilita il supporto sociale, viene fornito conforto motivo alle vittime, nelle quali si tenta di
mobilitare le risorse necessarie per reagire a quanto accaduto. Un'ulteriore forma di intervento è il debriefing
psicologico di gruppo sviluppato al fine di supportare gli operatori dell'emergenze esposti a circostanze critiche, i suoi
obiettivi sono molteplici: prevenire risposte disfunzionali a eventi critici, ristabilire un'adeguata padronanza delle
capacità e risorse, incrementare il supporto sociale, ridare un senso alla vita e ridurre le reazioni sintomatiche. Tra le
varie tecniche di debriefing, quella proposta da Mitchell (CISD) è la più diffusa, poiché si basa su una struttura che
parte da un'elaborazione cognitiva dell'evento, per poi passare a una rielaborazione emotiva dell'accaduto e chiudere,
tornando a focalizzare l'attenzione sugli aspetti cognitivi. Tale metodologia prevede che l'intervento venga svolto in 2-
7 giorni dopo l'evento traumatico e risulta essere di particolare efficacia.
Conclusioni
La psicologia occupazionale (Occupational Health Psychology) ha l'obiettivo di prevenire il malessere psicologico e i
rischi correlati tramite la realizzazione di ambienti lavorativi sani. Per fare ciò occorre individuare e analizzare quali
siano i fattori organizzativi che maggiormente portano rischi attraverso lo studio di varie discipline. Luczak osserva
che tradizionalmente la progettazione dei luoghi di lavoro avveniva secondo una prospettiva tecnocentrica in base alla
quale ci si aspetta che siano le persone a adattarsi alle caratteristiche dell'ambiente di lavoro, al contrario l'autore
suggerisce che un buon ambiente di lavoro è quello costruito secondo una visione andropocentrica che pone
l'individuo al centro del processo di progettazione. Un'altra strategia per promuovere il benessere organizzativo è
quella di costruire centri di salute organizzativa all'interno dei luoghi di lavoro che si occupano di valutare e
monitorare costantemente le condizioni di salute psicologica per impostare piani di prevenzione ed intervento.
Capitolo 10
I comportamenti controproduttivi
È importante lo studio di comportamenti come frode, corruzione, conflitto di interessi, falso in bilancio, furto in
ambito organizzativo e i comportamenti aggressivi a danno dei lavoratori per la psicologia del lavoro e delle
organizzazioni perché spesso rappresentato le cause delle perdite nel mercato economico.
Che cosa sono i comportamenti controproduttivi
Moltissimi studi si sono occupati dei comportamenti messi in atto dai lavoratori a danno delle organizzazioni e/o dei
suoi membri e diverse sono le etichette utilizzate per definirli: comportamento lavorativo deviante comportamento
immorale organizzativo, cattivo comportamento, aggressione organizzativa ecc.
Il termine “comportamenti controproduttivi” è inteso nell’accezione più ampia, includendo tutte le diverse
manifestazioni descritte. Questi comportamenti sono azioni intenzionali che danneggiano l’organizzazione e violano
sostanziali norme organizzative, colpiscono, infatti, l’organizzazione e la ostacolano nel raggiungimento degli
obiettivi, minacciano il suo funzionamento e ne danneggiano le proprietà. Questa intenzionalità non p da riferirsi alla
produzione del danno ma alla consapevole elusione (trasgressione) di norme e procedure organizzative e sociali.
Laddove c’è l’intenzionalità di danneggiare l’organizzazione si parla più specificamente di comportamenti
organizzativi aggressivi messi in atto per colpire l’organizzazione o le persone che ne fanno parte. I comportamenti
controproduttivi possono essere invece messi in atto senza questa intenzionalità anche se viene prodotto un danno.
Tutti i comportamenti aggressivi possono essere considerati come controproduttivi ma non tutti i comportamenti
controproduttivi sono aggressivi.
Kelloway e colleghi considerano i comportamenti controproduttivi come una forma di protesta in cui individui e
gruppi cercano di modificare una situazione di ingiustizia. Skarlicki e Folger hanno introdotto la nozione di
comportamenti negativi riferendosi ad azioni messe in atto in risposta a un'ingiustizia organizzativa con lo scopo di
punire il responsabile e sono intenzionali a produrre un danno. Altri autori hanno introdotto il costrutto di devianza
organizzativa intesa come comportamenti volitivi (intenzionali) che violano le norme e danneggiano l’organizzazione
o i suoi membri.
I comportamenti controproduttivi si riferiscono a una varietà estremamente ampia di atti negativi e ne sono state
identificate diverse tipologie. Possono includere comportamenti:
- “attivi”> come aggressione, furto:
- “passivi”> come non attenersi di proposito a istruzioni o svolgere consapevolmente il proprio lavoro in
maniera non corretta.
Robinson e Bennett classificano i comportamenti controproduttivi lungo due assi:
- Target> organizzativo vs interdividuale
- Gravità del comportamento> grave vs marginale
Conseguentemente identificano quattro quadranti all’interno dei quali sono collocabili differenti tipi di comportamenti
controproduttivi:
Production deviance: comportamenti controproduttivi organizzativi marginali (es. prendersi pause più lunghe
del dovuto)
Property deviance: comportamenti controproduttivi organizzativi gravi (es. sabotaggio o furti di beni
dell’organizzazione)
Political deviance: comportamenti controproduttivi interpersonali marginali (es. diffondere pettegolezzi o
incolpare altri)
Personal aggression: comportamenti controproduttivi interpersonali gravi (es. molestie sessuali o abusi
verbali)
Spector e colleghi differenziano invece cinque categorie:
1. L’abuso verso gli altri> si riferisce a forme dirette o indirette di aggressione nei confronti di un collega e/o
altre persone nell’organizzazione, sono infrequenti ma non assenti.
2. Devianza produttiva> fa riferimento a comportamenti agiti contro l’organizzazione intesa come entità più
generale, comportamenti più passivi.
3. Il sabotaggio> è riconducibile a quei comportamenti che prevedono un’attiva manomissione o un
consapevole danneggiamento di una proprietà dell’organizzazione, comportamenti più attivi.
4. Il furto> riconosciuto come uno dei maggiori problemi nelle organizzazioni ed è considerato una forma di
aggressione contro l’organizzazione.
5. I comportamenti di ritiro (withdrawl)> riferibili a tutte le situazioni in cui la quantità di tempo dedicato al
lavoro viene ridotta rispetto a quanto richiesto dall’organizzazione, come assenza, arrivare in ritardo,
andarsene prima, prendersi più pause di quanto consentito ecc.
Un altro modo di classificare i comportamenti controproduttivi riprende la classificazione proposta da Robinson e
Bennett in cui vengono differenziati in base al target dell’azione: nel primo caso si parlerà di comportamenti
controproduttivi organizzativi e si farà riferimento agli atti di sabotaggio, frode, furto, comportamenti di withdrawal,
spreco di risorse ecc; nel secondo caso si parlerà di comportamenti controproduttivi interpersonali e si farà
riferimento ad atti rivolti contro le persone che lavorano nell’organizzazione, ad esempio molestie sessuali, abusi
verbali, furto ai danni dei colleghi, ma anche favoritismi.
I sei tipi valoriali corrispondo ai sei gruppi di soggetti definiti dalla cluster analysis e sono:
1. Creativo 4. Duro
2. Tranquillo 5. Battitore libero
3. Rampante 6. Sociale
Valori, ruoli, organizzazioni e ambienti lavorativi
Ad influenzare i valori sono la cultura e i diversi stili di vita, mentre per quanto riguarda i valori lavorativi influenzano
fattori come l’età, il genere, la scolarizzazione ed anche l’ordine di genitura (es. battitore libero e creativo tra i figli
unici, il tranquillo tra i primogeniti ed il rampante tra i secondogeniti, sociale tra i terzogeniti).
Valori, culture e variabili organizzative
È importante che ogni organizzazione coniughi i valori della propria cultura con i valori personali dei membri in modo
da migliorare le performance e inoltre, i valori condivisi rendono il contesto organizzativo più vivibile sia
professionalmente che emozionalmente sostenendo i processi di cooperazione tra ruoli. Schein individua nei valori
una dimensione emblematica (rappresentativa) delle culture organizzative, fondate sugli assunti ed espresse a livello
più immediato degli artefatti. I fattori che spiegano le differenze dei comportamenti sono molti e interdipendenti e,
secondo Weick, vi è un effetto che viene chiamato “mancanza di confini”, cioè se l'organizzazione è scarsamente
strutturata e gli obiettivi poco chiari, si viene a creare un ambiente più favorevole all'effetto dei valori individuali sui
comportamenti lavorativi.
Valori, comportamenti organizzativi e ruoli lavorativi
Limitandoci al rapporto che sussiste tra valori e ruoli svolti nei diversi ambiti lavorativi, un primo aspetto riguarda
l’influenza dei propri valori sul comportamento messo in atto dai soggetti nelle organizzazioni, cioè le decisioni prese
nell’esercizio dei ruoli lavorativi risultano influenzate dai valori personali di chi esercita il ruolo. Un secondo aspetto
riguarda la corrispondenza tra valori e peculiari ruoli lavorativi cioè sia che, determinati valori rendono più probabile
l’assunzione di determinati ruoli lavorativi e sia che determinati ruoli inducono ad assumere determinate opzioni
valoriali.
Per il primo aspetto le ricerche individuano che coloro che privilegiano valori filantropici (altruisti) tendono a dare
maggiore importanza ai risultati di tipo sociale e di tipo politico, chi privilegia valori di giustizia tende a dare
maggiore importanza ai fattori normativi, infine, chi privilegia valori etici pone enfasi su fattori sociali e normativi.
Per il secondo aspetto le ricerche hanno rilevato differenze significative sia in funzione del livello di lavoro svolto
nelle organizzazioni, sia in funzione dei diversi ambiti professionali: ad es. nelle organizzazioni gli orientamenti al Sé
e all’indipendenza risultano espressi soprattutto dai dirigenti, e in misura minore dagli impiegati e dagli operai.
In molte ricerche si è dimostrato come i valori siano legati al commitment organizzativo (ad es. i valori di tipo
umanitario sono legati al commitment affettivo), alla soddisfazione lavorativa, alla motivazione, allo stress lavorativo
e all’etica.
Da alcune rilevazioni risulta che l’orientamento al Sé e l’orientamento all’indipendenza è presente maggiormente nei
liberi professionisti; l’orientamento agli altri è presente maggiormente nei lavoratori dipendenti; l’orientamento alla
sfida risulta maggiore negli artigiani e nei commercianti rispetto ai liberi professionisti e ai dipendenti; l’orientamento
materialistico compare in misura omogenea in riferimento a questi quattro ambiti lavorativi considerati (liberi
professionisti, artigiani, commercianti, dipendenti).
Altre ricerche hanno evidenziato come i valori lavorativi siano strettamente legati alle caratteristiche del lavoro, chi ha
ruoli di servizio e contatto con i clienti presenta valori più vicini all’altruismo e alla cura, rispetto a chi ha posizioni
manageriali che pongono maggiore enfasi su potere e autorità.
Strumenti di misurazione dei valori
La misura e l’analisi delle motivazioni, degli scopi, dei desideri delle persone costituisce uno dei modi e/o dei
momenti del lavoro psicologico rivolto ai singoli, ai gruppi e alle organizzazioni. Ci si riferisce in particolare alle
attività di orientamento, di selezione, di valutazione del potenziale, di coaching ecc.
Una serie di inventari/questionari utilizzabili per esplorare i valori in generale e i valori lavorativi in particolare:
Itapi-VALORI – Inventario Italiano dei Valori;
QVP-Questionario Valori Professionali;
SVL-Scala dei Valori Lavorativi
Aspetti critici e prospettive
L’approccio cognitivista tende a rilevare credenze manifeste, atteggiamenti dichiarati, valutazioni esplicite e
consapevoli che i soggetti esprimono per lo più rispondendo a predefiniti item di questionario. Mentre l’approccio
psicodinamico esplora le dinamiche soggettive e intersoggettive profonde, con particolare riferimento al livello
emozionale e al sistema motivazionale.