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Premessa= avendo fatto il progetto, non ho dovuto studiare il capitolo 3 e il paragrafo 3 del capitolo 1, per cui, se stai studiando

da questo riassunto, ma devi studiare tutto il libro, devi integrare quello che manca altrove. Per il resto, i paragrafi che
mancano non sono altro che ripetizioni di cose già spiegate in precedenza o approfondite meglio in seguito.
Premessa2= all’interno del libro micro e macro-management sono mischiati, quindi a volte si parla di impresa, altre di territori,
altre di entrambe contemporaneamente. Buono studio ☺
1. ANALISI DI CONTESTO
1.2 LO SVILUPPO
1.2.1 lo sviluppo economico.
Occorre innanzitutto fare una distinzione tra crescita e sviluppo che spesso sono confusi:
a) la crescita è l’aumento del PIL, cioè la ricchezza di un paese, ovvero della sua capacità di produrre beni
e servizi. Tale capacità è diversa da paese a paese e dipende da numerosi fattori: dotazione di risorse
naturali ed energetiche, stabilità politico-istituzionale, capacità produttiva… .
Soprattutto nel caso di paesi emergenti, il reale obiettivo dovrebbe essere una crescita non solo elevata,
ma anche duratura: unico strumento capace di garantire il raggiungimento delle performance dei paesi
avanzati. La crescita sostenuta nel medio-lungo periodo ha 3 caratteristiche:
-i tassi di crescita medi del PIL pro-capite: va considerato se esso è rapido abbastanza da consentire di
innalzare i livelli di benessere della popolazione raggiungendo le economie avanzate. È stimato che sia
necessaria una crescita pari o superiore al 5% annuo per almeno due decenni;
-la durata delle fasi di crescita: spesso la crescita non è stabile. Serve capire quali siano le circostanze, le
iniziative o i fattori che hanno dato impulso agli eventi di crescita o quali sono le caratteristiche di tali fasi.
-la volatilità della crescita: la volatilità è la tendenza a variazioni repentine e improvvise. Una minore
volatilità è associata a un modello di crescita più sostenuto. Essa è maggiore nei paesi emergenti,
soprattutto quelli che stentano a uscire dalla trappola della povertà.
b) sviluppo: è un processo di trasformazione strutturale di un paese che si basa sulla crescita economica
(la crescita è parte dello sviluppo), ma che consente anche di conseguire un incremento nel benessere
della popolazione. I paesi in fase di sviluppo affrontano una transizione che, a partire da una condizione di
arretratezza sociale ed economica, li conduce a un livello di benessere più elevato e a un migliore utilizzo
delle capacità produttive. Lo sviluppo è quindi un mutamento complessivo dei fattori di tipo economico,
sociale e culturale che si accompagnano alla crescita del reddito pro capite.
Il concetto di sviluppo è quindi multidimensionale, per la sua definizione vanno considerati 5 aspetti:

1) il capitale fisico: un aumento del capitale fisico, quindi dei macchinari usati nella produzione, comporta
la necessità per le imprese di assumere nuovi lavoratori: alcune persone che prima non lavoravano, ora
saranno occupate (percependo reddito). La creazione di nuovo reddito induce nei nuovi lavoratori un
aumento dei consumi. Ciò spingerà le imprese ad aumentare l’offerta per rispondere all’incremento della
domanda, per cui dovranno assumere nuovi lavoratori. Si tratta di un processo virtuoso noto come
moltiplicatore del reddito, legato al moltiplicatore dell’occupazione: aumento degli investimenti causa
aumento del reddito e dell’occupazione nazionale.

2) il progresso tecnico: avvia una trasformazione strutturale potenziando il settore industriale e quello dei
servizi di supporto all’industria. Ciò impatta sia sull’occupazione, coinvolgendo più persone nel processo di
crescita, aumentando anche la produttività media, i salari e quindi il reddito delle famiglie (riduzione della
povertà). La trasformazione strutturale può facilitare l’accesso delle donne al lavoro: se il reddito della
famiglia aumenta e con esso la domanda di lavoratori da parte delle aziende, le famiglie possono
destinare parte del reddito a baby-sitter o asili nido. Ciò può avviare una trasformazione anche nel settore
dell’istruzione: i genitori che guadagnano di più richiedono un’istruzione migliore per i propri figli.
Quando c’è un innalzamento dell’istruzione e del reddito femminili, c’è anche una riduzione della fertilità:
aumentando il numero dei figli, le famiglie hanno più possibilità di garantire loro la migliore istruzione.
Il modello che misura l’impatto del processo tecnico sullo sviluppo è fornito dalla UNIDO, organo dell’ONU
che si occupa dello sviluppo industriale. Tale modello è ottimistico, ma non lontano dalla realtà.
Nel valutare il fattore tecnico occorre anche prestare attenzione a tre elementi importanti:
I. tipo di tecnologia utilizzata: le più avanzate sono appannaggio dei paesi più ricchi, mentre ai paesi
sottosviluppati sono destinate tecnologie datate, con minore produttività e un impatto ambientale più
elevato. I paesi emergenti, inoltre, sembrano dover percorrere le fasi dello sviluppo allo stesso modo in
cui anche i paesi avanzati le hanno affrontate: passano da una dotazione a bassa efficienza a una ad alta
efficienza. Tuttavia, oggi costruiscono il proprio percorso in un momento storico in cui tecnologie avanzate
esistono già, per cui non vi sarebbero ostacoli oggettivi all’adozione di tecnologie direttamente complesse,
se non fosse che i paesi più poveri hanno impedimenti di natura economica che rendono alcune
tecnologie innovative inaccessibili alle imprese locali;
II. modalità di diffusione di una nuova tecnologia: il trasferimento è stato spesso realizzato grazie
all’implementazione di specifici progetti di cooperazione internazionale. È un’operazione che richiede che
il paese avanzato sia in grado di gestire questo processo valorizzando il capitale anche umano a
disposizione del paese emergente. Un aspetto fondamentale è, per questa ragione, la scelta della
tecnologia da trasferire a un paese in cui le infrastrutture sono carenti: si rischia di portare tecnologie in
contesti che sono ancora immaturi per riceverle, sotto il profilo infrastrutturale, sociale e culturale. Se il
paese emergente non crea, attraverso la formazione scolastica, dei profili in grado di gestire macchinari a
più elevata dotazione tecnologica, il trasferimento di un impianto rischia di tradursi in un fallimento;
III. costi di trasferimento di una tecnologia da un paese all’altro: poiché tutti i paesi sono in competizione
gli uni con gli altri sui mercati internazionali, quelli avanzati compiono alcune valutazioni di convenienza
nel trasferimento di tecnologie a quelli emergenti, in modo da conservare la propria posizione di forza:
per questa ragione, spesso, i paesi avanzati trasferiscono a quelli emergenti impianti dotati di tecnologie
desuete e più inquinanti.

3) le istituzioni: è importante favorire lo sviluppo del paese attraverso infrastrutture, formazione, garanzie
dei diritti. Gli investitori internazionali, nella fase di selezione dei paesi nei quali effettuare un
investimento valutano la presenza di un interlocutore istituzionale a cui rivolgersi per la gestione delle
pratiche burocratiche, perché la presenza dello Stato comporta una riduzione dell’incertezza in tutto il
sistema economico, cosa che gioca a favore di paesi con istituzioni forti e stabili: l’incertezza incide
negativamente sulla performance economica dei paesi.

4) il capitale umano: rappresenta l’insieme delle conoscenze, competenze, abilità che sono possedute da
un individuo. Tale insieme può essere acquisito in due modi:
- attraverso la formazione di tipo scolastico: le istituzioni rivestono un ruolo fondamentale: è loro il
compito di rendere l’istruzione formale uno snodo fondamentale per lo sviluppo del paese. Un esempio di
grande successo è quello indiano: negli ultimi 15 anni, il governo indiano ha posto al centro del processo
di sviluppo del paese proprio l’istruzione formale, focalizzandosi nel dettaglio sull’istruzione universitaria
in ambito tecnologico. Ciò ha scaturito una crescita sorprendente. Molte imprese tecnologiche,
soprattutto dagli USA, hanno delocalizzato parte del proprio processo di produzione in India, sapendo di
poter trovare un loco una forza lavoro adeguatamente formata a un costo esiguo rispetto a quello del
proprio paese. Una medesima strategia è stata presa dal governo relativamente alla formazione
economico-bancaria, con il risultato che molti lavoratori hanno trovato occupazione presso filiali di
banche straniere.
- attraverso l’esperienza pratica sul lavoro: è un meccanismo virtuoso anche denominato On-the-job
Training (OJT), apprendimento di nuovi compiti, tecniche e procedura direttamente sul posto di lavoro.

5) il fattore demografico: sebbene in un primo approccio si possa pensare che il volume della popolazione
rappresenti un fattore di crescita per un sistema economico, in quanto può tradursi in un’ampia forza
lavoro nazionale, i dati mostrano il contrario: oggi i tassi di natalità più elevati si registrano nei paesi più
poveri. Le dinamiche demografiche sono legate ai paesi in base alla fase del ciclo economico in cui si
trovano: se il sistema di produzione del paese è basato sulla produzione agricola ad alta intensità di
lavoro, un tasso di natalità elevato contribuisce alla creazione della popolazione atta a quel lavoro; se è
legato a un’alta intensità di capitale (paesi avanzati), il tasso di natalità è più basso.

1.2.2. Lo sviluppo umano e sociale


Allo sviluppo economico si affianca oggi una nuova interpretazione di sviluppo: quello umano.
L’obiettivo di questo approccio è abbandonare la convinzione che la crescita economica possa condurre
automaticamente a un miglioramento nel livello di benessere di tutta la popolazione; la crescita del
reddito è uno strumento del processo di sviluppo, non il suo fine. Il focus viene posto sulle persone e sulle
loro opportunità di scelta. Deve essere creato un contesto nel quale gli individui siano liberi di vivere una
vita di valore, dando loro la possibilità di sviluppare e utilizzare le loro abilità.
L’approccio è centrale nel lavoro del Programma delle Nazioni unite per lo Sviluppo (UNDP). Dagli anni ‘90
l’UNDP pubblica il Rapporto sullo Sviluppo Umano (HDR), che ha contribuito a diffondere la
consapevolezza dell’inadeguatezza delle misure monetarie, il PIL pro capite, nel descrivere lo sviluppo.
I tre pilastri, con rispettivi indicatori, su cui questo approccio si basa secondo l’UNDP sono:
- l’accesso alle risorse per uno standard di vita dignitoso (indicato dal reddito nazionale lordo pro capite);
-la possibilità di essere informati (indicato dagli anni medi e attesi di scolarizzazione);
-vivere una vita lunga, in salute e creativa (l’aspettativa di vita alla nascita).

Anche secondo l’approccio dello sviluppo sociale le persone devono essere messe al centro di qualsiasi
sviluppo. I dati mostrano che non tutti riescono a beneficiare del processo di crescita economica nel
proprio paese e anche in quelli più avanzati, in cui il livello del reddito è più alto, esistono sacche di
povertà. La povertà non si lega solo a un reddito più basso, ma porta con sé un complesso di esclusioni
che affliggono l’individuo povero: dalla marginalità sociale alla vulnerabilità, alla totale assenza di potere.
Questa teoria, quindi, è alla ricerca di strumenti volti alla promozione dell’inclusione sociale delle fasce
della popolazione più povere e vulnerabili.
Non è una sorpresa che la crescita accompagni a un incremento delle disuguaglianze nel reddito.
Il processo di sviluppo del paese dovrebbe incorporare quale obbiettivo primario la creazione di
opportunità più eque per tutti, condizione necessaria per la creazione di una giustizia sociale. Le teorie
riportano al centro lo sviluppo sociale come fattore indispensabile in ogni processo di sviluppo
economico, inclusa una crescita economica sostenibile.
L’International Institute for Social Studies ha combinato oltre 200 indici di sviluppo sociale, con dati
raccolti in 193 paesi. Tali indici considerano 6 punti dello sviluppo sociale:
1: attivismo civile (uso dei Media e comportamenti di protesta);
2: Club e associazioni (appartenenza ad associazioni volontarie locali);
3: Coesione tra gruppi diversi (tensioni e discriminazioni etniche e religiose);
4: Fiducia e sicurezza interpersonale (percezione e incidenza del crimine e trasgressioni personali);
5: Uguaglianza di genere (presenza di discriminazioni di genere in casa, sul lavoro e nella vita pubblica);
6: inclusione delle minoranze (discriminazione nei confronti di gruppi vulnerabili: migranti e rifugiati).
I dati dimostrano, a livello mondiale, che mentre vi è una correlazione stabile tra sviluppo
economico e sociale, in molti paesi ad alto reddito continuano a persistere problematiche in termini di
discriminazione ed esclusione, mentre altri paesi emergenti sembrano aver già superato alcune di queste.

1.2.3. La globalizzazione economica e lo sviluppo


Globalizzazione: insieme delle relazioni che mettono in una comunicazione continua i vari stati del
mondo. La globalizzazione ha creato un contesto caratterizzato dall’integrazione tra paesi, persone,
governi e imprese mai osservato in precedenza. Il fenomeno ha cambiato l’aspetto del mondo,
aumentando il commercio transnazionale, gli scambi di moneta e di informazione, ecc. Le tecnologie
hanno giocato un ruolo fondamentale, per cui non è un caso che i paesi dotati di tecnologie più avanzate
abbiano ottenuto i migliori benefici dalla globalizzazione.
Una delle manifestazioni più evidenti di quest’ultima è la delocalizzazione degli impianti produttivi, in
particolare delle multinazionali, sul territorio dei paesi emergenti. Questa ha creato opportunità sia per i
paesi industrializzati che quelli emergenti. I vantaggi dei primi sono:
- inferiore costo della manodopera rispetto al paese di appartenenza;
- vantaggi di natura fiscale messi in atto dai governi dei paesi emergenti per attrarre investimenti stranieri
(tasse più basse sui prodotti, sgravi fiscali);
- normative in materia ambientale meno stringenti;
- peso minore, molto spesso, delle condizioni sindacali.
La competizione tra i paesi emergenti, evidenziata nel secondo punto, rischia di portare a una gara a
ribasso, dove i paesi riducono in maniera pericolosa gli standard ambientali e qualitativi.
I vantaggi dei paesi emergenti sono:
- crescita dell’occupazione: l’ingresso di uno stabilimento produttivo sul territorio comporta l’aumento
della domanda di lavoro e, di conseguenza, dell’occupazione. Può determinare il coinvolgimento di piccole
imprese locali all’interno del processo produttivo come fornitrici della grande impresa multinazionale. In
Cina ciò ha permesso la nascita di una classe media che non si era mai sviluppata prima, comportando un
miglioramento significativo negli standard di vita (anche se le criticità sono ancora numerose).
- crescita economica e riduzione della povertà: l’incredibile crescita in Asia ha determinato un
considerevole incremento del PIL pro capite, riuscendo a far uscire milioni di persone dalla povertà.
- spostamento della produzione ai servizi: le imprese stanno spostando la produzione dal settore
manifatturiero a quello dei servizi. Proprio grazie alle tecnologie, in questo caso Internet e altre forme di
telecomunicazione (call-center), alcune tipologie di lavoro sono state trasferite dai paesi avanzati a quelli
emergenti. Ciò ha significato una riduzione della fuga di cervelli: i lavoratori più istruiti non sono più
costretti a lasciare il proprio paese, ma possono trovarvi un’occupazione all’altezza della loro istruzione.
Nei paesi emergenti sono nati anche diversi effetti negativi:
- aumento della disuguaglianza, sia tra paesi avanzati e emergenti, sia tra diverse fasce della popolazione
all’interno degli stessi paesi emergenti. L’ingresso di aziende estere su territorio nazionale ha aumentano
il gap tra coloro che possono avere accesso a una formazione utile per le aziende internazionali e coloro
che non hanno questa opportunità. Ciò ha peggiorato la già famosa trappola della povertà, a causa della
quale gli individui più poveri rimangono esclusi dai circuiti di formazione, sociali e lavorativi, al punto da
peggiorare le proprie condizioni di povertà.
- il commercio internazionale è dominato dalle grandi corporation multinazionali: il loro obiettivo è la
massimizzazione del profitto e non, certamente, lo sviluppo o le necessità dei paesi nei quali avviene la
delocalizzazione, né della popolazione locale.
- il rapporto tra paesi avanzati e emergenti non è bidirezionale: quelli avanzati utilizzano politiche
protezionistiche rendendo impossibile per quelli emergenti l’accesso ai loro mercati.
- l’utilizzo di tecnologie avanzate comporta un aumento modesto dell’occupazione: le grandi
multinazionali utilizzano tecnologie particolarmente avanzate nei paesi emergenti, per cui i lavoratori
assunti sono pochi. Allo stesso tempo, i lavoratori che abitano nei paesi avanzati guardano la
globalizzazione con sospetto: viene creato lavoro all’estero invece che su territorio nazionale.

Sebbene scontenti nella loro veste di lavoratori, i cittadini dei paesi avanzati sono ben lieti, nella loro veste
di consumatori, di poter beneficiare dei prezzi più bassi determinati dal fatto che la manodopera abbia un
costo decisamente inferiore nei paesi in cui la produzione viene dislocata.

1.2.4. Una definizione di sviluppo sostenibile e bilanciato


I. Sviluppo sostenibile: è un approccio allo sviluppo incentrato su una prospettiva di lungo periodo. Lo
sviluppo di un paese è sostenibile se l’uso delle risorse che viene fatto dalla generazione presente non
incide negativamente sull’uso delle stesse risorse da parte delle generazioni future (rapporto Brundtland,
1987).
La sostenibilità ambientale può essere di quattro tipi:
- molto debole: considera unicamente il capitale economico come capitale da salvaguardare per le
generazioni future. L’obiettivo è mantenere costanti nel tempo i consumi medi pro capite: se le
generazioni future potranno consumare quanto noi, allora la sostenibilità è garantita.
- debole: la sostenibilità viene assicurata grazie alla conservazione del benessere potenziale garantito da
un certo ammontare di capitale complessivo. Tale approccio, come il primo (e diversamente dai prossimi),
non è incentrato sulle risorse naturali, per cui è distante dall’attuale prospettiva sulla sostenibilità.
- forte: affinché la sostenibilità sia rispettata, l’ecosistema deve essere in grado di riprodursi.
- molto forte: l’obiettivo è una gestione lungimirante e attenta delle risorse ambientali.

Quando parliamo di sostenibilità, parliamo dell’utilizzo delle risorse naturali all’interno dei processi di
produzione. Questo utilizzo ha a che vedere con il concetto di esternalità. Essa si ha quando un processo
produttivo determina un effetto che non coinvolge direttamente il produttore o il consumatore, ma un
soggetto terzo: secondo la teoria economica, indipendentemente dal fatto che l’esternalità sia positiva o
negativa, rappresenta sempre un fallimento del mercato. Comunque sia, è da tener presente che nella
maggior parte dei casi le esternalità sono negative: un esempio ne sono le emissioni ambientali.
Una gestione sostenibile dello sviluppo non può prescindere da un utilizzo delle risorse ambientali che sia
parsimonioso e che adotti una prospettiva di lungo periodo: il comportamento delle imprese deve essere
normato non solo per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse (rinnovabili o non) del processo produttivo,
ma anche nella gestione delle emissioni che ne conseguono.
Per poter gestire le risorse in modo sostenibile, serve internalizzare le esternalità, ciò è possibile con o
senza l’intervento dello Stato:
- con: lo Stato interviene con strumenti di natura normativa o fiscale.
1. normativa: può essere una legge che fissi il tetto massimo delle emissioni consentite;
2. fiscale: possono essere positivi, come incentivi fiscali per imprese le cui emissioni restano sotto una
certa soglia, o negativi, come un incremento dell’aliquota fiscale per le imprese che superano tale soglia.
- senza: si ipotizza che il mercato possa autonomamente convergere verso un equilibrio. Se il lago
inquinato è di proprietà dell’impresa che inquina, essa può essere pagata affinché riduca le sue emissioni.
Se il lago è di proprietà dell’inquinato, l’inquinatore (cioè l’impresa) può compensare il danno sotto forma
monetaria. Coase afferma che esiste una tendenza automatica del mercato a raggiungere un equilibrio
socialmente ottimale attraverso la negoziazione tra soggetto inquinante e soggetto inquinato.
Naturalmente si tratta di una teoria molto ottimistica e spesso è necessario stimare l’impatto delle
emissioni ambientali sull’ambiente circostante. A tal fine esistono numerosi indicatori di sostenibilità: il
capitale naturale critico, il PIL verde, l’impronta ecologica, l’Index of Sustainable Economic Welfare.
L’impronta ecologica (ecological footprint) misura l’area biologicamente produttiva necessaria per
assorbire le emissioni di carbonio prodotte da una popolazione e per generare tutte le risorse che essa
consuma. Il consumo delle nazioni viene calcolato aggiungendo le importazioni e sottraendo le
esportazioni dalla produzione nazionale. I paesi che inquinano di più sono Cina e l’India, cioè i due paesi
emergenti che abbiamo trovato sia nel grafico delle economie più ricche che in quello delle economie che
crescono più rapidamente: questa mappa mostra che la crescita rapida e sostenuta, in questo caso, non è
esente da costi, già solo dal punto di vista ambientale.
La Biocapacity misura la capacità dell’ecosistema di riprodurre i materiali biologici utilizzati e di assorbire i
rifiuti prodotti. Il rapporto tra impronta ecologica e biocapacity consente di verificare se il paese si trova in
una condizione di deficit ecologico, dove l’impronta è superiore, o, viceversa, di riserva ecologica. In
deficit troviamo nuovamente la Cina, ma anche Italia, Regno unito. In riserva troviamo Brasile, Bolivia,
Paraguay, ma anche Repubblica Centrafricana e Namibia.

Dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, a Stoccolma ne 1972, molti paesi si impegnano
a ridurre le loro emissioni, ma tali conferenze sono riservate ai paesi più ricchi tra quelli avanzati: quelli
emergenti sembrano essere esonerati dalle proprie responsabilità in termini di sostenibilità, forse in
ragione del fatto che, in una fase iniziale del processo di sviluppo, si ritiene tollerabile il fatto che le
emissioni inquinanti siano più elevate (soprattutto visto il fatto che, come detto in precedenza, ai paesi in
via di sviluppo vengono fornite tecnologie datate e conseguentemente anche più inquinanti).

II. Sviluppo bilanciato


Abbiamo appurato che gli effetti dei processi di sviluppo producono si distribuiscono in maniera diseguale.
Le teorie sullo sviluppo bilanciato spostano il focus sulla distribuzione delle attività economiche
all’interno di un’area regionale o nazionale. Riprendendo il caso dell’India, se è vero dopo il 2000 ha
intrapreso un percorso di crescita sostenuto permettendo a milioni di persone di uscire da condizioni di
povertà, è anche vero che i benefici derivati da questa crescita sono distribuiti in maniera disomogenea
all’interno del Paese. Alcuni stati a basso reddito (Low Income States, LIS), hanno registrato tassi di
crescita del PIL inferiori rispetto alle altre regioni, inoltre la scarsa crescita economica in questi stati non
ha inciso particolarmente sul livello di povertà. Spesso le ricchezze, le attività economiche e le possibilità
di creazione del reddito si concentrano in particolari aree di un paese, mentre altre aree continuano a
stentare nell’avviare processi di crescita ( quando non sono in situazioni di declino). Alla base di questa
divergenza troviamo la dotazione di infrastrutture fornita dalle istituzioni alle diverse aree: spesso le
istituzioni contribuiscono a determinare due o più velocità di crescita all’interno del Paese.
Per questa ragione i governi dovrebbero analizzare anche gli esiti che certe iniziative provocano da un
punto di vista territoriale: se a seguito di una misura le imprese che registrano un andamento positivo nel
corso degli anni sono concentrate in un’area specifica del paese, ciò indica che tale misura peggiora le
differenze territoriali, invece di migliorarle. Lo stato favorisce le aree del paese in cui si sono collocate le
attività di maggior successo (già ricche), perpetuando la situazione di disparità di cui soffrono le altre.
Anche le dinamiche demografiche possono influenzare il bilanciamento dello sviluppo: se la popolazione
si concentra nelle aree urbane, quelle rurali sono destinate al declino, ciò rafforza la disuguaglianza,
rappresentazione di uno sviluppo non bilanciato.

1.2.5. Lo sviluppo e l’etica


La disuguaglianza mette in luce la necessità di parlare di etica. Come sappiamo, in una prima fase di
sviluppo, la disuguaglianza tende ad aumentare. Rispetto a quanto accade dopo esistono diverse teorie:
secondo alcuni queste disuguaglianze col tempo tendono ad appiattirsi spontaneamente, ma si tratta di
una visione decisamente troppo ottimistica. Secondo altri è necessaria un’impostazione strategica che
permetta di rendere la crescita una reale trasformazione socio-economica del Paese.
L’etica dello sviluppo mette in luce alcune evidenze:
- lo sviluppo di alcuni gruppi marginali viene consapevolmente sacrificato a beneficio di un’altra fetta della
popolazione. Basti pensare al settore agricolo statunitense che ha poggiato sulla schiavitù, o sullo sviluppo
di reti stradali che ha forzato il trasferimento di persone in altre strutture in nome di uno sviluppo che li
avrebbe riguardati marginalmente;
- lo sviluppo presenta come danno collaterale imprevisto la sofferenza di alcuni gruppi di individui.
Amartya Sen, premio nobel per l’economia, sostiene che le carestie, ad esempio, possono derivare non
solo dall’oggettiva assenza di cibo, ma anche dal mancato accesso al cibo delle fasce povere della
popolazione, che non hanno potere sulla sua gestione;
- sempre di gestione del potere si tratta quando, nella valutazione di costi e benefici di un processo di
sviluppo, si decide di considerare o meno i diritti delle generazioni future. Sono sacrificabili al fine di
incrementare il benessere e lo sviluppo delle generazioni esistenti? (ricollegato allo sviluppo sostenibile)
- il processo di sviluppo dovrebbe basarsi sulla consapevolezza che le decisioni fondamentali rispetto ai
modi e ai tempi di crescita e sviluppo dovrebbero spettare al paese coinvolto, rispettandone i valori e le
tradizioni culturali (self-reliance): esportare il modello occidentale non è etico.
Dunque occorre prestare attenzione ai reali obbiettivi dello sviluppo stesso, ai benefici attesi, ai diritti non
sacrificabili al processo di sviluppo, all’analisi costi-benefici tra diverse fasce della popolazione e diverse
generazioni.
Emerge da queste considerazioni la necessità di valutare le azioni intraprese dai governi nazionali nelle
aree in trasformazione e quelle dei governi di paesi avanzati, alla luce anche delle conseguenze più ampie
che queste decisioni comportano: è importante valuta le variabili generalmente ignorate, quali
formazione, malnutrizione e l’insorgere di conflitti. Ciò determinerebbe una nuova direzione nelle
politiche di sviluppo nei paesi emergenti. La valutazione etica della società, della vita degli individui e della
qualità delle relazioni può rappresentare un criterio operativo per chi pianifica lo sviluppo: il modo in cui
esso avviene è tanto importante quanto i benefici che ne derivano.
1.2.6. Lo sviluppo conduce alla felicità?
Risposta breve: sì. Risposta lunga:
Nel corso degli ultimi decenni, nell’ambito dello sviluppo, il PIL e gli altri indicatori quantitativi sono stati
progressivamente affiancati, nella teoria economica, da aspetti come lo sviluppo umano o il benessere
della popolazione, cioè indicatori qualitativi. Si è sviluppato un nuovo ambito della teoria economica, il cui
obbiettivo è verificare se esista una connessione tra la percezione dell’individuo circa la propria
felicità/soddisfazione e alcune variabili più oggettive, come il reddito, la posizione lavorativa, la vita
familiare ecc. L’economia del benessere ipotizza che il singolo consumatore tragga un beneficio in termini
di soddisfazione dall’acquisto di beni e servizi e tale beneficio è detto “utilità”. Essa si divide in utilità
cardinale e ordinale: quella cardinale attribuisce un numero al valore dell’utilità, quella ordinale sostiene
che sia impossibile misurare in termini oggettivi una grandezza tanto soggettiva come la soddisfazione e
anche che l’individuo sia in grado di stabilire un ordine di preferenze tra le proprie scelte possibili.
Partendo da questa ipotesi, l’economia del benessere vuole sviluppare un modello di benessere sociale
che risulta dall’aggregazione delle preferenze individuali, ma si arresta di fronte alle difficoltà poste dal
processo di aggregazione.
Tale approccio è aspramente criticato da Amartya Sen, secondo cui il benessere abbia a che fare con la
libertà e la possibilità di scelta: soddisfare i bisogni fondamentali è la priorità per misurare il benessere.
Dall’economia del benessere nasce la teoria della felicità, il cui autore di riferimento è Dalniel Kahneman,
che introduce il concetto di utilità sperimentale, definita anche utilità istantanea. Essa è misurabile in
quanto, in ogni momento della vita, l’individuo è in grado di definire il proprio livello di utilità lungo un
continuum tra piacere e dolore. È il fattore che fa di ogni esperienza un’esperienza positiva o negativa. Se
misuriamo questa utilità nell’arco di un determinato periodo di tempo,, possiamo stimarne l’utilità totale.
Perché questo impianto teorico funzioni, l’utilità deve essere misurabile. È smentita la possibilità che
esista un’idea di felicità oggettiva (figlia di un approccio di tipo normativo), per cui non si possono stabilire
a priori alcuni fattori significativi, ma occorre chiedere all’individuo quale sia il suo livello di felicità.
Questo tentativo ha fatto emergere alcuni problemi:
- in alcuni paesi la felicità non è vista di buon occhio, per cui difficilmente gli individui si dichiarano felici;
- in altri c’è un problema di traduzione: è difficile rendere nella lingua locale cosa intendiamo per “felicità”.
Questo ha reso necessario abbandonare la categoria concettuale di felicità in favore della soddisfazione.
Ora si chiede agli individui quanto siano soddisfatti della propria vita. In questo modo si compie un
tentativo di slegare l’autovalutazione da elementi che distorcono la percezione a breve termine (è stato
dimostrato che le persone tendono a dichiararsi più felici in una giornata di sole, piuttosto che la pioggia).
Il Ranking mondiale della felicità che analizza i dati raccolti relativamente al 2017 dal World Happiness
Report sulla felicità autovalutata, ha suscitato alcune riflessioni sui differenziali di felicità che si osservano
tra paesi avanzati e non: grazie a queste intuizioni sono nate le nuove teorie che legano felicità e sviluppo.
Prima la relazione tra economia e felicità era basata sull’idea che il benessere degli individui potesse
essere misurato attraverso il reddito, assumendo implicitamente che ricchezza e felicità andassero di pari
passo, non a caso la teoria economica neoclassica utilizzava il PIL come indice dello sviluppo nazionale
(sostiene che un incremento del reddito determini un incremento del benessere per la popolazione).
Come abbiamo già visto, l’incremento della ricchezza nazionale si concentra prevalentemente nelle fasce
della popolazione già benestanti e non si canalizza in quelle più bisognose, per cui se fosse vero che
l’aumento del reddito aumenti anche il benessere, aumenterebbe solo quello delle persone con un livello
di benessere già mediamente alto. Per questa ragione il World Happiness Report ha preso in
considerazione diversi indicatori per la determinazione del benessere della popolazione:
-PIL pro capite;
-Supporto sociale;
-Aspettativa di una vita sana;
-Libertà di fare scelte;
-Generosità
-Assenza di corruzione.
In ogni caso, alla domanda “l’avvio di un processo di sviluppo in un paese conduce alla felicità degli
individui che vi risiedono?” il suddetto rapporto pare rispondere positivamente. I paesi che si trovano
nelle posizioni più alte nella classifica sono quelli con un elevato livello del PIL.
1.4 GLI INDICATORI INTERNAZIONALI DI SVILUPPO
Come già detto, per misurare lo sviluppo di un paese si considerano indici più complessi rispetto a quelli
della crescita, che tengono conto esclusivamente della ricchezza prodotta all’interno dei paesi. Vediamone
alcuni:
4.1 indicatori di reddito
I. PIL: misura il valore di mercato di beni e servizi finali prodotti in un paese in un determinato periodo di
tempo (solitamente un anno). I servizi finali sono quelli che non vengono utilizzati per produrre altri beni
e servizi, quindi vengono esclusi sia le materie prime che i beni intermedi, mentre sono inclusi beni di
consumo, investimenti, la spesa e le esportazioni nette (misurabili sottraendo le esportazioni alle
importazioni). Il PIL si misura in valuta (euro, dollaro, ecc), addizionando gli elementi appena illustrati.
II. Tasso di crescita del PIL: La crescita viene innanzitutto analizzata sotto il profilo dell’accumulazione, di
capitale fisico, umano e sociale, e dell’innovazione. Il tasso di crescita del PIL misura la performance dei
paesi. Nello specifico, misura la produzione realizzata dal paesi in un determinato anno (tipicamente
quello passato) in relazione con quella di uno degli anni precedenti. Questo parametro restituisce una
valutazione sul dinamismo del sistema economico che viene analizzato. Quando il tasso di crescita del PIL
rallenta o diventa negativo, il paese entra in fase di rallentamento o recessione, performance che viene
valutata negativamente dagli altri paesi e dagli investitori internazionali: per questa ragione si tratta di un
indicatore di reddito da non sottovalutare.
III. Prodotto Nazionale Lordo (PNL) pro capite: per misurare il PNL si parte dal PIL, aggiungendo imposte
e tasse dei prodotti e sottraendo i sussidi governativi. Il vantaggio rispetto al PIL è che rende in misura più
realistica la produzione del reddito in un contesto globalizzato: è possibile aggiungere i redditi prodotti
all’estero di cittadini di quel paese e di sottrarre i redditi prodotti in quel paese da cittadini stranieri.
Il PNL pro capite si misura dividendo il PNL di un paese per il volume della sua popolazione.
La misurazione del PNL fornisce indicazioni del tutto teoriche: sarebbe una misura reale solo se
effettivamente l’intero reddito nazionale venisse redistribuito equamente tra tutti i cittadini, cosa che
come sappiamo non accade. Però fornisce informazioni utili soprattutto in paesi con valori bassi: in questi
casi, l’informazione che ne ricaviamo è che, anche se dovesse accadere che il reddito nazionale venisse
distribuito equamente per tutti i cittadini, ciò non basterebbe per garantire loro standard di vita dignitosi.
IV. PNL pro capite PPP (=a parità di potere d’acquisto): Il PIL non fornisce indicazioni sulla distribuzione
effettiva del reddito, né sul reale potere d’acquisto della popolazione. La parità del potere d’acquisto è un
indice che consente di confrontare i livelli dei prezzi in aree del mondo diverse; è un tentativo di
avvicinarsi progressivamente alla misurazione del benessere delle nazioni.
Come valuta di riferimento si utilizza il dollaro statunitense, perché solo un’unità di misura comune
garantisce un’efficace comparabilità tra nazioni diverse. È noto, però che il potere d’acquisto di un dollaro
è diverso da paese a paese: con un dollaro puoi comprare meno cose a New York rispetto all’Uganda. Il
metodo della parità del potere d’acquisto (PPP= Purchasing Power Parity) tenta di ovviare a questa
disparità: per ciascun paese si crea un paniere di circa 300 beni che esprimono le abitudini standard di
acquisto di un consumatore medio in quel paese (tali abitudini ovviamente cambiano da paese a paese e
da epoca a epoca: oggi in nel paniere vengono inseriti gli smartphone, ad esempio, cosa che chiaramente
non accadeva 30 anni fa). Rispetto ai metodi di rilevazione precedenti, questo fattore inserisce dimensioni
peculiari di ciascun Paese in analisi. In questo modo si limita la standardizzazione, che rende le analisi
comparative tra i paesi poco affidabili e realistiche. Successivamente si stima il potere d’acquisto di un
dollaro statunitense rispetto al paniere: si valuta quanta parte di tale paniere possa essere acquistata con
un dollaro. Dall’anno in cui questo metodo ha iniziato a essere utilizzato, 1990, si è sempre registrato un
andamento crescente del potere d’acquisto.
4.2 Gli indicatori di sviluppo
I. Coefficiente di Gini: è un indicatore di distribuzione del reddito, utile per stimare la disuguaglianza nella
distribuzione di una variabile, nel nostro caso, della disuguaglianza di reddito. Il coefficiente può assumere
un valore compreso tra 0, che indica una situazione di perfetta equità distributiva del reddito, e 1, che
indica la situazione con la massima concentrazione della disuguaglianza di reddito: un paese in cui una
sola persona detiene tutta la ricchezza, mentre gli altri non ne hanno affatto, il coefficiente è pari a 1. Se
tutti i cittadini hanno lo stesso reddito, il coefficiente è pari a 0.
I dati sul coefficiente non sono disponibili a livello mondiale, sono quasi esclusiva dei paesi avanzati.
II. Indice di sviluppo umano (HDI): questo indice complesso è stato elaborato dal Programma delle
Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), di cui abbiamo parlato all’inizio. L’indice, che è diventato uno
strumento standard per calcolare il benessere di un paese, poggia su tre pilastri:
- il PNL pro capite a parità di potere d’acquisto;
- l’aspettativa di vita alla nascita, cioè il numero di anni che un bambino nato oggi, in un determinato
paese, può aspettarsi di vivere, ferme restando le condizioni presenti oggi in quel paese.
- il livello medio di alfabetizzazione, che è la media ponderata degli anni attesi di scolarizzazione degli anni
medi di scolarizzazione: quelli attesi misurano il numero di anni che un bambino può aspettarsi di
permanere nel sistema scolastico (considerando solo le condizioni presenti nel paese nel momento della
rilevazione), mentre quelli medi indicano il numero medio di anni di istruzione conclusi dalla popolazione
media, escludendo quelli per ripetere le classi.
Tutti e tre i fattori hanno all’interno dell’indice lo stesso peso: 33%. L’HDI assume un valore compreso tra
0, che individua il livello minimo di benessere, e l’1 il livello più elevato.

Si sottolinea che lo sviluppo umano viene garantito dalla coesistenza di:


- fattori che potenziano del capabilities di un individuo, quindi l’HDI (conoscenza (fattore dell’istruzione),
standard di vita dignitosi (fattore economico), possibilità di vivere una vita lunga e in salute);
-condizioni che possono essere create a livello di sistema: partecipazione alla vita politica, sostenibilità
ambientale, sicurezza, diritti umani, promozione di uguaglianza e giustizia sociale.
III. Indici di povertà: altro indice utile per la comprensione delle dinamiche di sviluppo è l’Indice di
Povertà Multidimensionale, che, a differenza dell’Indice di Povertà Umana (sostituito dal MPI dal 2010),
fornisce il numero di persone che affette da povertà di varia natura, utilizzando le stesse variabili: la salute
(possibilità alla nascita di non arrivare a 40 anni); la conoscenza (diffusione dell’analfabetismo negli
adulti); condizioni di vita (persone che non hanno accesso all’acqua pulita e percentuale di bambini
sottopeso).
4.3 Gli indici
A causa della natura composita del fenomeno dello sviluppo, non esiste un singolo indicatore che sia in
grado di misurare lo sviluppo; perciò, si fa sempre più ricorso all’uso di indici composti che contribuiscono
a comprendere il livello di avanzamento economico e sociale di un paese:
I. Index of Economic Freedom: l’indice di libertà economica viene elaborato annualmente dal think thank
repubblicano The Heritage Foundation. L’indice misura la competitività di ciascun paese in 12 aree, divise
in 4 categorie identificate come i pilastri della libertà economica. Alcuni aspetti di questa libertà sono
valutati relativamente alle interazioni del paese con il resto del mondo, ma la maggior parte di essi si
focalizza sulle politiche interne al paese, per valutare la libertà degli individui di utilizzare il proprio denaro
senza restrizioni o interferenze governative. I quattro pilastri sono:
- Il ruolo della legge, i cui indicatori sono i diritti di proprietà, l’integrità del governo, l’efficacia giudiziaria;
- La dimensione dello Stato: la spesa governativa, il carico fiscale e la politica fiscale;
- L’efficienza normativa: libertà di fare business, di lavoro e monetaria.
- L’apertura dei mercati: la libertà commerciale, di investire e finanziaria.
Nel 2018, la Heritage Foundation individua solo 6 paesi liberi: Nuova Zelanda, Australia, Irlanda, Svizzera,
Hong Kong, Singapore e Svizzera. Il nostro paese è tra i 62 moderatamente liberi. I paesi repressi sono 21.
II. Doing Business Index: viene elaborato annualmente dalla Banca Mondiale con l’intento di fornire
informazioni sulle normative e i processi che incidono sulle attività imprenditoriali in un’ottica di
efficienza. Per costruire l’indice vengono analizzate 11 aree con relativi tempi, procedure, leggi e costi:
-iniziare un business,
-ottenere i permessi di costruzione;
-ottenere l’elettricità;
-registrare la proprietà;
-ottenere il credito;
-proteggere gli investitori di minoranza;
-pagare le tasse;
-commerciare oltre confine;
-far rispettare i contratti;
-risolvere insolvenze;
-normativa del mercato del lavoro.
Nonostante colga molti aspetti interessanti, non valuta alcune aree importanti: stabilità macroeconomica
o l’incidenza della corruzione. Il paese in cui è più facile avviare un business nel 2018 era la Nuova
Zelanda, molti paesi avanzati si trovano nelle posizioni più elevate del ranking, l’Italia è al 46° posto.
Le procedure tecnologiche adottate in misura crescente, soprattutto nei paesi avanzati, consentono di
ridurre gli ostacoli burocratici e di aumentare la trasparenza, ciò ha contribuito significativamente al
miglioramento dei livelli nel ranking. In 65 delle 190 economie si può completare online almeno una delle
procedure richieste (nel 2004 erano solo 9), e in 31 paesi si può avviare online una disputa commerciale.
III. Social Progress Index: è rilasciato ogni anno dal Social Progress Imperative Network. È composto di 50
indicatori in ambito sociale e ambientale che restituiscono un’immagine più realistica della vita quotidiana
nei paesi analizzati, l’obbiettivo è di mettere a fuoco le caratteristiche che contraddistinguano una società
sana. Gli indicatori sono divisi in 3 categorie, a loro volta disgregate in 4 componenti sottostanti.
-rispondere ai bisogni umani fondamentali dei cittadini (Basic Human Needs). Si divide in nutrizione e
cure mediche di base, acqua e servizi igienici, abitazioni, sicurezza personale;
-porre le fondamenta perché i cittadini e le comunità possano migliorare e sostenere la qualità delle
proprie vite (Foundations of Wellbeing). Si divide in accesso alla conoscenza di base, accesso a
informazioni e comunicazioni, salute e benessere, qualità dell’ambiente.
-creare le condizioni per consentire a tutti gli individui di raggiungere il pieno potenziale (opportunity).
Divisa in diritti personali, libertà personale e possibilità di scelta, tolleranza e inclusione, accesso a
istruzione avanzata.
Mentre la performance mondiale è positiva in termini di nutrizione e cure di base, vi sono alcune
dimensioni, come le opportunità, che presentano diverse criticità in parecchie aree del mondo.
I paesi con un grado di social progress molto elevato sono ad esempio Australia, Nuova Zelanda, Canada,
e i paesi scandinavi, nessuno di questi comunque si trova in America centro-meridionale, Africa o Asia
(neanche i colossi dello sviluppo economico quali Cina e India, a dimostrazione del fatto che il progresso
economico non cammini necessariamente di pari passo con quello sociale). L’Italia è tra i paesi col
progresso sociale elevato, insieme agli USA.
IV. World Happiness Report: come già descritto in precedenza, i dati relativi alla felicità sono pubblicati
nel World Happiness Report. Non sono realmente indici, poiché le rivelazioni sul grado di soddisfazione
complessiva relativa alla propria vita vengono effettuate chiedendo direttamente al singolo individuo e
non attraverso dati oggettivi. Tra i primi paesi nel ranking compaiono sia quelli che erano in cima anche
negli altri, sia paesi che non abbiamo mai visto nelle prime posizioni in graduatoria: Israele, Venezuela e
Panama. Ciò è un’ulteriore conferma del fatto che analizzare la felicità percepita dagli individui possa
contribuire alla comprensione dello sviluppo e del progresso sociale. Tra i paesi che registrano
miglioramenti più significativi ci sono Nicaragua, Zimbabwe e Ecuador; mentre peggioramenti significativi
si verificano in Grecia, seguita dall’Italia.
V. Indici di genere: Le ragazze e le donne hanno compiuto passi da gigante negli ultimi 20 anni in termini
di questioni di genere, ma la parità di genere è ancora lontana per quanto riguarda le tematiche analizzate
dall’Indice di Sviluppo di Genere (che in questo caso mostrano uno svantaggio per le donne). Tale indice è
elaborato dall’UNDP con gli stessi indicatori considerati per l’HDI, con i valori corretti per tenere conto
delle disuguaglianze tra uomini e donne:
-salute riproduttiva (misurata dal tasso di mortalità materna, e dal tasso di natalità adolescenziale);
-empowerment (proporzione dei seggi parlamentari occupati dalle donne e proporzione di donne e
uomini di età superiore ai 25 anni che abbiano concluso l’istruzione secondaria);
-status economico (partecipazione al mercato del lavoro, misurato attraverso il tasso di partecipazione di
donne e uomini di età superiore ai 15 anni).
L’obbiettivo del GII è misurare il costo delle disuguaglianze di genere sullo sviluppo umano: un GII
più elevato rappresenta inevitabilmente una perdita di sviluppo umano. I paesi nei quali la disuguaglianza
è meno forte sono la Svizzera, la Danimarca, i Paesi Bassi e la Svezia. Nelle prime 30 posizioni non
compare nessun paese emergente (l’Italia è al XVI posto).

1.5 LE AREE DEBOLI DEL MONDO


I. Definizione di area debole: Si tende a far coincidere le aree deboli con quelle rurali. Un’area può essere
meno favorita anche a causa di altri fattori, come un largo aumento della popolazione, l’assenza di
infrastrutture o una domanda interna troppo bassa.
Come si può identificare un’area meno favorita? Come abbiamo già ampiamente discusso, uno dei
principali indicatori di marginalità risiede in un basso reddito, le scarse istruzione e aspettativa di vita.
Per poter comprendere le dinamiche che determinano la marginalità utilizziamo la ripartizione fatta dalla
World Bank tra paesi ad alto, medio e basso reddito, basata sul reddito nazionale lordo (PNL) pro capite.
II. Debolezza e marginalità: Utilizzando la suddivisione suggerita dalla WB, possiamo analizzare
l’andamento comparato di diversi fattori all’interno delle tre aree, a partire dal PIL. Il primo dato che salta
all’occhio è che i paesi ad alto reddito hanno un divario altissimo sia da quelli a medio reddito che da
quelli a basso reddito. Il PIL dei paesi a basso reddito è prossimo allo 0, questo perché chiaramente si
tratta di una condizione necessaria per essere definiti “a basso reddito”: se il reddito aumentasse in uno
di questi paesi, esso andrebbe nella categoria successiva. Possiamo anche notare che l’impatto della crisi
del 2008 è stato molto più violento nei paesi avanzati, moderatamente in quelli a medio reddito, e nullo in
quelli a basso reddito, in questo caso l’assenza di integrazione internazionale ha rappresentato un fattore
positivo. Naturalmente, la marginalità di per sé non è un fattore positivo, essa va superata.
Per capire le debolezze strutturali che affliggono le aree marginalizzate non basta il PIL, bisogna
aggiungere altri fattori, partendo da un’analisi della struttura produttiva di questi paesi: analizziamo
l’andamento del PIL nei tre gruppi di paesi nell’andamento del settore agricolo, industriale e dei servizi.
Questa analisi risente dell’ipotesi di “terziarizzazione”, ovvero che i paesi emergenti, così come hanno
fatto prima di loro quelli avanzati, per crescere devono trasferire le risorse dall’agricoltura all’industria e
poi dall’industria ai servizi. Secondo questa ipotesi, la struttura produttiva di un paese ne rileva la
marginalità se tale struttura si incentra soprattutto sul settore agricolo. Vediamo se l’ipotesi è confermata:
-agricolo: la quota percentuale di questo settore è in declino ovunque nel mondo, ad oggi essa è quasi
nulla nei paesi avanzati, moderata in quelli in via di sviluppo, e prevalente in quelli poveri. Questi beni
hanno un problema che risiede nella loro stessa natura che li rende vulnerabili: la produzione agricola può
essere colpita dalla mancanza di pioggia, sole o eccesso di questi; i beni agricoli sono a bassissimo valore
aggiunto per il produttore, quindi il margine di profitto è sempre modesto; dagli anni Sessanta la
specializzazione produttiva di molti paesi marginali nel settore agricolo li espone a una dipendenza verso
quelli avanzati, che sono anche gli acquirenti: ciò indebolisce ulteriormente il processo di sviluppo.
-industriale: è centrale nei paesi a medio reddito, modesto in quelli a basso reddito e via via sempre più
basso in quelli ad alto reddito.
-servizi: centrale nei paesi ad alto reddito, e sempre più basso con l’abbassarsi del reddito dei paesi.
Questi tre fattori confermano l’ipotesi di terziarizzazione di cui prima.

Quanto considerato finora suggerisce una specializzazione produttiva internazionale: la globalizzazione ha


determinato una suddivisione del lavoro che vede i paesi ad alto reddito alla base e a monte del processo
produttivo: dalla progettazione del bene al marketing; i paesi a medio reddito producono materiali e beni
(successo della delocalizzazione); i paesi a basso reddito ancora una volta sono marginalizzati, poiché si
occupano solo della fornitura di materie prime, laddove disponibili.

Vi sono alcune altre variabili che possono aiutare a spiegare la posizione dei paesi a basso reddito: ad
esempio gli investimenti diretti esterni. L’analisi di questi investimenti, mostra che essi vengono
prevalentemente operati da paesi avanzati verso altri paesi avanzati, anche se in quelli a medio reddito
sono in leggero aumento negli ultimi anni, mentre in quelli a basso reddito sono quasi sempre pari a 0.
Dal momento che questi investimenti diretti esterni vengono operati dalle imprese, sono loro a richiedere
alcuni fattori di garanzia nei paesi in cui intendono investire: stabilità politico-istituzionale, economica,
finanziaria e sociale; tutti fattori che mancano nei paesi poveri, caratterizzati da corruzione, instabilità
politica, conflitti che spesso sfociano in guerre, assenza di una struttura produttiva forte e radicata.
In queste aree il livello di rischio delle attività imprenditoriali, per le ragioni appena evidenziate, è
decisamente elevato, tanto da scoraggiare qualunque investimento estero, provocando altra marginalità.

Non essendo destinatari di investimenti esterni, questi paesi sono almeno destinatari di aiuti pubblici allo
sviluppo (Official Development Assistance -ODA) che, stando alla definizione della WB, consistono in
prestiti concessi a condizioni agevolate e sovvenzioni da parte di agenzie ufficiali dei membri del Comitato
di aiuto allo sviluppo (Development Assistance Committee - DAC) da istituzioni multilaterali e da paesi non
DAC per promuovere lo sviluppo economico e il benessere in paesi nell’elenco DAC dei beneficiari.
Ovviamente, beneficiano di questi prestiti e sovvenzioni soprattutto i paesi meno avanzati, mentre in
quelli molto avanzati la quantità, a partire dagli anni 2000, è quasi pari a 0.

L’analisi dell’aspettativa di vita alla nascita non fa altro che confermare le ipotesi sinora affermate:
sebbene sia in crescita in tutti e tre i gruppi di paesi, essa è tutt’ora sensibilmente più elevata in quelli ad
alto reddito, abbassandosi progressivamente all’abbassarsi del reddito.
Si conferma, in questo modo, un quadro che vede le aree meno favorite come prigioniere delle proprie
condizioni di partenza, che ne inficiano, in assenza di interventi profondi e radicali, le possibilità di
emancipazione, di crescita e di sviluppo.

2. GLI ATTORI E GLI STAKEHOLDERS DELLO SVILUPPO.


2.1 INTRODUZIONE
Gli attori dello sviluppo sono tutte quelle organizzazioni, istituzioni, persone, che sono coinvolti nel
processo di sviluppo globale di un territorio. Si può essere attori dello sviluppo a vario titolo: come
promotore di un processo di crescita, fonte economico-finanziaria, partner di un altro attore.
Esistono differenti tipologie di attori: attori principali, secondari e di supporto; attori globali, regionali e
locali; attori inter-governativi, governativi e non governativi; attori economici e sociali; attori tradizionali
ed emergenti. Non è facile fornire una classificazione esaustiva della tipologia di attori in un processo di
sviluppo, e il modo migliore per distinguerli è secondo due caratteristiche:
1. natura giuridica pubblica, privata o mista
2. area di azione globale, regionale o locale
attori pubblici - attori intergovernativi  strutture che sono fondate da più governi
contemporaneamente: possono essere globali, quindi compresi in più continenti (Global Intergovernative
Actor) o in un singolo continente (Continental Intergovernative Actor); o regionali quindi in una specifica
area geografica, religiosa o culturale (Regional Intergovernative Actor)
- attori governativi organizzazioni fondate da un unico governo, come le commissioni governative,
le università pubbliche, le imprese pubbliche etc. Esistono solo attori nazionali o subnazionali.

attori privati (non governativi) sono tutti coloro che agiscono per lo sviluppo in modo distaccato da
qualsiasi governo, ossia le ONG, le imprese, i movimenti sociali, le università private, le fondazioni private
etc. Save the Children. Questi possono corrispondere a organizzazioni globali, regionali o locali.

attori misti (pubblico privati) tutte quelle fondazioni, associazioni, commissioni, imprese, azioni
fondate su partnership che vedono coesistere attori pubblici e privati, come il Fondo Globale per la Lotta
all’AIDS.

2.2 ATTORI PUBBLICI DI SVILUPPO (internazionali, regionali, locali)


I. ATTORI INTERNAZIONALI
Tra gli attori pubblici sono comprese tutte quelle organizzazioni che hanno una natura legale
esclusivamente pubblica. Sono strutture fondate da più governi contemporaneamente e possono
includere paesi da diversi continenti o dallo stesso continente.
a. attori intergovernativi globali
Sono comprese tutte le organizzazioni per lo sviluppo create da accordi tra stati differenti.
-ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite. Le nazioni unite sono state fondate con una conferenza
internazionale nel 25 aprile 1945, prima della fine della WW2, conclusasi con la firma di 51 paesi (molti
dei quali europei) dello Statuto delle Nazioni Unite, che si impegnavano a preservare la pace e la sicurezza
collettiva grazie a programmi di cooperazione internazionale. Oggi fanno parte dell’ONU 193 paesi: quasi
tutti gli stati indipendenti del pianeta, ad esclusione dello stato Vaticano. Gli stati membri accettano gli
obblighi dello statuto dell’ONU, trattato internazionale che fissa i principi fondamentali delle relazioni tra
paesi. Oggi l’ONU ha 4 nuove funzioni rispetto a quella appena citata: proteggere i diritti umani in tutti i
paesi, fornire aiuti umanitari, promuovere uno sviluppo sostenibile, stabilire le condizioni con cui
mantenere la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti da trattati e altre fonti di diritto internazionale .
Per quanto riguarda lo sviluppo, promuovere un livello di vita più elevato, condizioni di di sviluppo e
progresso economico e sociali sono fondamentali per creare le condizioni per una pace mondiale.
Tra principali organi di cui l’organizzazione si compone ci sono l’Assemblea Generale e l’ECOSOC
(Economic and Social Council), che coordina e offre consulenze per le attività dell’Onu in materia di
cooperazione economica e sociale, oltre che di tutela e promozione dei diritti umani.
Il sistema dell’ECOSOC si compone di diverse strutture sussidiarie come:
1: commissioni regionali, specializzate nelle diverse aree geografiche, il cui consiglio promuove lo
sviluppo economico e l’assistenza ai paesi meno sviluppati e propone studi o relazioni su questioni
economiche, sociali e sanitarie.
2: Functional Commission: qui concentra la propria azione su aree specifiche di intervento, come la
criminalità, la parità di genere e lo sviluppo sociale e sostenibile.
3: agenzie specializzate: esse sono organizzazioni indipendenti (approfondite dopo) come il Fondo
Monetario Internazionale e il Gruppo della Banca Mondiale che sono collegate all’ONU attraverso accordi
di collaborazione coordinati dall’ECOSOC.
4: Programmi e fondi: si occupano di migliorare le condizioni economiche e sociali delle persone in tutto il
mondo sempre tramite l’ECOSOC. L’UNICEF (fondo delle nazioni unite per l’infanzia), in particolare, è la
principale organizzazione dell’ONU che lavora per la sopravvivenza, lo sviluppo e la protezione dei
bambini (istruzione elementare, vaccinazioni, ecc.). L’UNFPA (fondo delle NU per le popolazioni) fornitore
internazionale di assistenza alla popolazione. UNEP (programma per l’ambiente) lavora tutto il pianeta per
il rispetto dell’ambiente.

-UNDP: per migliorare la cooperazione complessiva, l’ONU ha creato il Programma delle Nazioni Unite per
lo Sviluppo (UNDP), il più importante fornitore mondiale di aiuti per lo sviluppo umano e sostenibile, in
particolare in tre aree principali: sviluppo sostenibile; costruzione della pace; resistenza ai disastri e ai
cambiamenti climatici. Oggi lavora in oltre 170 paesi.
È stato ed è attivamente coinvolto nel raggiungimento degli 8 Millenium Goals e della 2030 Agenda for
Sustainable Development. Gli 8 obbiettivi avrebbero dovuto realizzarsi entro il 2015, essi costituiscono un
progetto concordato con tutti i paesi e le principali istituzioni di sviluppo mondiale. Questi, seppur non
raggiunti secondo la previsione superata, hanno stimolato gli sforzi di tutti i paesi. Si tratta di: azzerare
povertà e fame, garantire istruzione primaria universale, pari opportunità uomo-donna, riduzione della
mortalità infantile, miglioramento della salute materna, combattere HIV/AIDS, malaria e altre malattie,
Assicurare la sostenibilità ambientale, collaborare per lo sviluppo.
I 17 obiettivi mondiali di sviluppo per il 2030 (SGDs) si sostituiscono ai precedenti e sono: azzerare la
povertà, azzerare la fame, miglioramento di salute e benessere, miglioramento della qualità
dell’istruzione, uguaglianza di genere, acqua pulita e servizi igienico-sanitari, energia rinnovabile e a basso
costo, buona occupazione e crescita economica, innovazione e infrastrutture, città e comunità sostenibili,
riduzione delle disuguaglianze, consumo responsabile, lotta al cambiamento climatico, flora e fauna
acquatica, flora e fauna terrestre, pace e giustizia, partnership per gli obbiettivi.
L’UNDP gestisce anche il Fondo di sviluppo del capitale delle NU, che aiuta i paesi in via di sviluppo
a far crescere le proprie economie mediante sovvenzioni e prestiti. L’UNDP sostiene i paesi in tre modi
diversi, attraverso l’approccio MAPS: mainstreaming, acceleration and policy support. Difatti fornisce, su
richiesta dei singoli paesi, sostegno ai governi: per esempio per migliorare le politiche di sviluppo
nazionale, per accelerare il progresso nei SGDs ecc.

-agenzie specializzate
Come già detto, l’ECOSOC ha il compito di coordinare gli accordi tra le Nazioni Unite e le organizzazioni
autonome chiamate Agenzie Specializzate.
Esse coprono tutte le aree di impegno economico e sociale, fornendo assistenza tecnica e altre forme di
aiuto pratico alle nazioni di tutto il mondo. Esse ricoprono vari ruoli:
- alcune hanno il compito di regolatori del sistema mondiale, come la IAEA (ag. Intern. per l’energia
atomica), che opera per un impiego sicuro e pulito dell’energia atomica, e la ILO (org. int. del lavoro) che
formula politiche e programmi per migliorare le condizioni e le opportunità lavorative e stabilisce gli
standard di lavoro adottati dai paesi di tutto il mondo.
- altre hanno l’obiettivo di migliorare le procedure, le competenze e la gestione di ambiti specifici anche
attraverso la cooperazione a livello globale come l’IMO (org. Intern. Marittima) che migliora le procedura
di spedizione internazionale, aumenta gli standard della sicurezza marittima e diminuisce l’inquinamente
marino dovuto dalle imbarcazioni; la ITU (unione intern. delle telecomunicazioni); la OMT (org. mond. del
turismo) che funge da forum globale per le questioni di politica del turismo;
- ci sono quelle che si occupano più direttamente della pianificazione, della gestione e del controllo di
definiti programmi di sviluppo come la FAO (org per ambiente e agricoltura), che lavora per incrementare
la produttività agricola e la sicurezza alimentare, oltre che per migliorare le condizioni di vita delle
popolazioni rurali; la OMS (org. mond. della sanità), che coordina programmi volti a risolvere problemi
sanitari e il raggiungimento, da parte di tutte le persone, del livello di salute più elevato possibile; l’UNIDO
(org. mond. per lo sviluppo industriale), che promuove il progresso industriale dei paesi in via di sviluppo
tramite assistenza tecnica, servizi di consulenza e addestramento; l’UNESCO (org. per l’istruzione, la
scienza e la cultura) che promuove l’istruzione per tutti, lo sviluppo culturale, la protezione del patrimonio
naturale e culturale del pianeta, la cooperazione internazionale nella scienza, la libertà di stampa e la
comunicazione.
- ci sono infine tre agenzie specializzate che rappresentano le principali fonti intergovernative mondiali:
1. l’IFAD (fondo internazionale per lo sviluppo agricolo) lavora per aumentare la produzione alimentare e i
livello nutrizionali tra le persone povere nei paesi in via o in attesa di sviluppo;
2. il FMI (fondo monetario internazionale) organizzazione di 189 paesi che opera per promuovere la
cooperazione monetaria globale, assicurare la stabilità finanziaria, facilitare il commercio internazionale,
stimolare l’occupazione e la crescita economica sostenibile, ridurre la povertà nel mondo.
Missione fondamentale: garantire la stabilità del sistema monetario internazionale: tracciando l’economia
globale, aiutando paesi in difficoltà, aiuto pratico ai paesi membri.
Una delle sue principali responsabilità e fornire prestiti ai paesi che hanno problemi nei pagamenti: ciò
consente ai paesi di ricostruire le proprie riserve interstatali, stabilizzare le proprie valute, continuare a
pagare per le importazioni e ripristinare le condizioni per una forte crescita economica.
Controlla anche le politiche economiche e finanziarie dei suoi 189 paesi membri, aiutando questi ultimi a
progettare politiche economiche e gestire i loro affari in modo efficace rafforzandone le competenze
attraverso un aiuto pratico di assistenza tecnica e formazione.
La maggior parte delle sue risorse per i prestiti vengono fornite da paesi membri attraverso delle quote. A
ogni paese membro viene assegnata una quota, basata sulla sua posizione nell’economia mondiale.
3. il WBG (world bank group) si impegna nell’attività primaria di supporto economico-finanziario. È la
prima fonte economica di sviluppo globale e rappresenta una fondamentale risorsa finanziaria per lo
sviluppo di paesi di tutto il mondo.
Tra gli obiettivi da raggiungere nel 2030, sono 2 quelli che lo riguardano in particolare:
- porre fine all’estrema povertà, riducendo a meno del 3% il numero di persone che vivono con meno di
1,9 dollari al giorno;
- promuovere la prosperità condivisa favorendo la crescita dei redditi minori del 40% per ogni paese.
È formato da diverse agenzie, come:
- l’international finance corporation IFC, la più grande istituzione di sviluppo globale focalizzata
esclusivamente sul settore privato: aiuta i paesi in via di sviluppo a raggiungere una crescita sostenibile
finanziando gli investimenti e offrendo consulenze a imprese e governi;
- il multilateral investment guarantee agency MIGA, promuove gli investimenti esteri diretti nei paesi in
via di sviluppo, in particolare quelli più poveri del mondo, per aiutarli a sostenere la crescita economica,
ridurre la povertà e migliorare la vita: finanzia progetti di trasformazione con investimenti su larga scala;
- l’international centre for settlement of investment disputes ICSID è dedicata alla risoluzione delle
controversie in materia di investimenti internazionali.
- la banca mondiale WB è l’istituto di credito internazionale che finanzia gli investimenti nei paesi in via di
sviluppo, fornendo anche assistenza tecnica, supportando settori come sanità, amministrazione pubblica,
infrastrutture, agricoltura, gestione ambientale delle risorse umane, sviluppo del settore finanziario.
I suoi organi principali sono il consiglio dei governatori (189, rappresentanti ciascuno di un Paese
membro) e il consiglio dei direttori esecutivi, di cui 8 membri rappresentanti ciascuno il proprio paese e
gli altri 17 che rappresentano il proprio e altri gruppi di Paesi (l’Italia rappresenta Albania, Grecia, Malta,
San Marino, Portogallo e Timor Est), quindi le strategie sono definite dagli stati ricchi.
La WB è a sua volta divisa in:
a) International bank for reconstruction and development IBRD, che supporta finanziariamente e
professionalmente i governi a medio o meritori a basso reddito. Crea un clima favorevole agli investimenti
per catalizzare l’afflusso di capitale privato e alleviare la povertà in tutto il mondo. Il guadagno dal piccolo
margine che fa sui prestiti e dal ritorno sul patrimonio netto coprono le sue spese di funzionamento e in
parte vengono trasferiti all’IDA;
b) international development association IDA, che fornisce prestiti a interesse zero e sovvenzioni ai paesi
più poveri. Le risorse derivano dalle quote sottoscritte dai paesi membri, ma soprattutto dai contributi
supplementari versati dai paesi più ricchi.

II. ATTORI REGIONALI


Gli organismi regionali intendono per regione un’area geograficamente definibile, caratterizzata da fattori
ambientali e culturali, interna a un paese o compresa in più paesi, in cui gli elementi che la compongono
sono accomunati da un definito sistema di obbiettivi.
Uno dei principali obiettivi degli attori regionali è raggiungere una solida integrazione interna all’area di
competenza dell’organismo e allargarla ad aree esterne attraverso il processo di cooperazione: l’idea alla
base della cooperazione e dell’integrazione regionale è la creazione di una vasta area geografica in cui
esiste un ambiente aperto per il commercio, gli investimenti e il movimento di uomini e merci. La
creazione di un organismo regionale è essenziale per la risoluzione di problematiche che non conoscono
confini: il potenziamento degli sforzi per affrontare, ad esempio, le malattie umane, animali e vegetali che
interessano tutti; condividere competenze in attività come la ricerca e la formazione. Con questo sistema
si garantisce la possibilità di agire in modo coordinato e più efficace su obbiettivi sociali ed economici.
Gli attori regionali sono un’entità socio-economico-politica. Alcuni esempi importanti:
- ESCAP, Commissione economica e sociale per l’Asia e il Pacifico, è il braccio di sviluppo delle nazioni
unite riguardante la regione Asia-Pacifico.
- UE, unione europea, è un organismo sovranazionale al quale gli stati membri hanno affidato poteri
sovrani circa alcune aree di primaria importanza, come la politica monetaria, lo sviluppo e la
regolamentazione di primari settori economici.
- OCSE, organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, promuove un livello base di
integrazione. È un’organizzazione sovranazionale dedicata alla sicurezza interna ed esterna, oltre che alla
difesa comune: in particolare, svolge attività riguardanti la battaglia al terrorismo, l’economia, l’ambiente
e i diritti umani.
- NATO, organizzazione del trattato del Nord-Atlantico, è anch’essa un’organizzazione sovranazionale
dedicata alla sicurezza e alla difesa comune, con un particolare focus sulla difesa internazionale degli stati
membri (la sua utilità oggi è messa molto in discussione, visto e considerato che data la disponibilità di
bombe nucleari e armi simili, è improbabile che una ipotetica guerra oggi si svolgerà via mare, non a caso
molte delle sue basi sono state smantellate negli anni, quelle che rimangono hanno una funzione più
politica che militare).
- MERCOSUR, mercato comune del Sud America, così come il NAFTA, accordo di libero commercio del
Nord America, hanno lo scopo la liberalizzazione del commercio e dei mercati, quindi compiono attività
riguardanti la riduzione delle barriere all’entrata, delle tariffe, la regolamentazione dei settori industriali.
- African Union è l’insieme di governi, banche, corpi operativi appartenenti al continente africano. Tra i
suoi obiettivi c’è la risoluzione dei conflitti tra gli stati membri. Inoltre, interviene nei casi di mancanza di
rispetto dei diritti costituzionali, nei casi di crimini di guerra, genocidi e crimini contro l’umanità.

II.1 banche regionali di sviluppo


Esistono delle banche che hanno il fondamentale compito di spingere lo sviluppo in un’area specifica di
riferimento.
Le Banche Regionali di Sviluppo (RDBs) sono istituzioni finanziarie multilaterali che provvedono
all’assistenza finanziaria e tecnica per lo sviluppo economico dei paesi a basso e medio reddito.
Concedono prestiti a tassi agevolati per diversi settori di sviluppo come sanità, istruzione, ambiente.
Le Banche Multilaterali di Sviluppo (MDBs) sono delle istituzioni create da un gruppo di paesi che
fornisce finanziamenti, prestiti, sovvenzioni e consulenza professionale volta allo sviluppo. Di tali banche
fanno parte sia i membri sviluppati, donatori, che quelli in via di sviluppo, debitori.
Le Banche bilaterali di sviluppo sono delle istituzioni finanziarie create da un singolo paese sviluppato per
finanziare i progetti in un paese in via di sviluppo e nel corrispondente mercato emergente.

III. ATTORI LOCALI


Per Stato intendiamo il gruppo sociale che comprende tutti gli individui di un paese che, attraverso il
potere legislativo, emana le leggi che assegnano diritti e doveri dei cittadini. Col potere esecutivo ne
assicura l’attuazione e attraverso quello giudiziario ne sanziona l’inosservanza. Nel sistema economico
partecipa alla produzione, circolazione e distribuzione del reddito. Per tutti questi motivi nel processo di
sviluppo è sia colui che definisce le regole del gioco, che colui che controlla che vangano rispettate, oltre a
essere uno dei giocatori.
La responsabilità di uno stato non è solo nei confronti della popolazione, ma gli stati deboli, ricevendo
aiuti internazionali, hanno una fortissima responsabilità nei confronti dell’ONU e di tutti i paesi che li
supportano. I Governi di stati deboli, emergenti e in trasformazione programmano le proprie attività di
sviluppo generalmente attraverso dei piani annuali o pluriennali, mantenendo tra gli obiettivi quelli
primari affidatigli dall’ONU che li monitora nel tempo.
Se l’obbiettivo dello stato è relazionarsi coi governi stranieri e mostrare la propria attività per lo sviluppo, il
dato quantitativo diviene fondamentale e la formazione di un dato in miglioramento di questo nel tempo
aiuta la cooperazione internazionale e l’ottenimento di nuove fonti.
I governi tendono quindi a definire programmi di sviluppo e a darne immediata valutazione, spesso
parziale: per comunicare alla comunità internazionale le proprie attività e i successi; per mostrare lo stato
di difficoltà, necessario per chiedere aiuto alla comunità globale; per avviare uno sviluppo umano
bilanciato e locale; per avviare unicamente uno sviluppo economico teso ad aumentare la sopravvivenza.

2.3 ATTORI PRIVATI E NON GOVERNATIVI (NGA)


Gli attori non governativi (NGA) comprendono tutti quegli attori impegnati a vario titolo nello sviluppo
delle aree in trasformazione che non hanno relazioni vincolanti con i governi. Coprono quello spazio
compreso tra stato e mercato, che esclude lo stato ma comprende il mercato.
Per noi gli attori non governativi sono semplicemente delle organizzazioni che investono le risorse private
per i beni pubblici. Molte sono associazioni, fondazioni e società non for profit. Altre possono essere for
profit, come università private o indipendenti, movimenti sociali e semplici gruppi di società civile.
Approfondiamoli uno alla volta:
-terzo settore: esistono varie definizioni discordanti, ad esempio: per il governo britannico il termine
serve a differenziare queste organizzazioni dagli altri due settori dell’economia, cioè quello pubblico
(governo) e privato (impresa). La debolezza sta nella definizione residuale di tale concetto: è un calderone
in cui inserire tutto ciò che non è né pubblico né privato. La definizione normativa italiana è “per Terzo
settore si intende il complesso degli enti privati costituiti con finalità civiche per il perseguimento senza
scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in
coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d’interesse generale
anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di
mutualità”. Considerando le caratteristiche delle organizzazioni del terzo settore, possiamo affermare che
esse generalmente: sono indipendenti dai governi; perseguono un obbiettivo specifico a vantaggio della
comunità, svolgono attività di utilità sociale; sono guidate dal valore del prodotto e non dal denaro;
reinvestono gli utili per il raggiungimento del fine sociale; spesso sono composti da volontari.
-società civile: spesso la sua definizione si sovrappone con quella di terzo settore, perché questi gruppi
non sono vincolati allo stato né al mercato, quindi sono abbastanza indipendenti da agire riguardo a
questioni di interesse pubblico seguendo una propria direzione.
Secondo la definizione che noi abbiamo deciso di adottare, comprende vari attori e forme istituzionali,
con potere e autonomia diversi. Si articola spesso in: enti di beneficenza, organizzazioni non governative,
gruppi comunitari, organizzazioni femminili o religiose, associazioni professionali, sindacati , gruppi di
auto-aiuto, movimenti sociali, gruppi di advocay. La società civile rappresenta quello spazio di discussione
e di azione socio-culturale legato ai movimenti più che alle imprese, alle organizzazioni non strutturate e
non alle fondazioni. Quindi, per noi, è un sottogruppo del terzo settore volatile e difficile da gestire.
-organizzazioni non governative NGO/ONG: una ONG secondo l’ONU può essere qualsiasi tipo di
organizzazione o associazione locale, nazionale o internazionale di cittadini che sia indipendente da
influenze governative, che sia impegnata nel settore della solidarietà sociale e della cooperazione allo
sviluppo e che sia non profit.
Le organizzazioni non governative attualmente si pongono principalmente l’obbiettivo del superamento
delle iniquità tra i popoli: mortalità materna e infantile, tutela dei diritti umani, la tutela delle zone
ecologicamente deboli (con la produzione di un uso non distruttivo delle risorse). I loro progetti spaziano
dalla realizzazione di opere di pubblica utilità alla formazione di personale in loco, allo sviluppo di
politiche agricole ed economiche, all’assistenza medica.
Le attività di cooperazione si inseriscono in ciascuna realtà locale che è fatta, in base alle caratteristiche
dei diversi Paesi, di relazioni politiche, sociali, economiche e istituzionali, a cui si può partecipare solo
attraverso il pieno coinvolgimento, la mediazione e il supporto delle comunità locali e delle loro
organizzazioni.
In base alla definizione data all’inizio di ONG, intuiamo che ne esistono diversi tipi:
a)INGOs, nello specifico, sono organizzazioni non governative internazionali, quindi che hanno sede in più
paesi. Ne è un esempio Save The Children;
b)NG-DO, non governamental development organization, sono volte principalmente allo sviluppo e alla
riduzione della povertà nel mondo. Possono essere coinvolte nei piani di sviluppo di uno o più paesi.
L’ONU conferisce lo status consultivo alle ONG che abbiano determinate caratteristiche: esercitano
la propria attività nei settori di competenza dell’ECOSOC; hanno fini e obbiettivi comparabili con quelli
della Carta delle NU; sostengono l’azione delle NU; sono riconosciute a livello internazionale; hanno uno
statuto democratico, un segretario permanente e un bilancio trasparente; le loro finanze provengono
principalmente dagli associati e dalle associazioni nazionali affiliate.
Con l’attribuzione di tale statuto, le ONG vengono iscritte nell’anagrafe dell’ONU acquisendo il diritto di
accesso alla documentazione e alle consultazioni dell’ECOSOC e la possibilità di accedere ai finanziamenti
delle NU e di diverse agenzie specializzate.
Secondo Charities Aid Foundation, il numero di persone che in tutto il mondo donano alle ONG
passeranno dai 1,2 miliardi del 2011 ai 2,5 miliardi. Non sono disponibili dati precisi riguardo all’importo
complessivo degli aiuti che le organizzazioni ricevono, ma è abbastanza chiaro che l’aumento è
considerevole. Esistono diversi stati che affidano gran parte della loro funzionalità alle ONG, un esempio
ne è l’India, che cono oltre 3,3 milioni di ONG, ne ha circa 1 per ogni 400 persone; in Kenya il settore delle
ONG ha più di 290.000 dipendenti a tempo pieno.

- le fondazioni private sono tra i cosiddetti “nuovi” attori dello sviluppo internazionale. Esse sono
generalmente considerate una forma di filantropia (anche se spesso il fine ultimo del filantropo che
possiede una fondazione è quello di farsi pubblicità). Le fondazioni private sono comunemente definite
come organizzazioni non governative, non-profit che sono autosufficienti grazie a una dotazione
economica di base, che le distingue dagli altri attori non governativi. Altre dipendono da assegnazioni
regolari provenienti dalle loro società fondatrici, questo rende difficile considerarle un gruppo omogeneo
di attori della cooperazione allo sviluppo.
Alcune fondazioni hanno investito nello sviluppo globale per decenni: il sostegno della Fondazione
Rockfeller alla ricerca agricola, per esempio, ha contribuito alla rivoluzione verde in Asia e America Latina.
Altre organizzazioni sono entrate nel business development più di recente. Bill e Melinda Hates
Foundation, ad esempio, fornisce finanziamenti per lo sviluppo da poco più di un decennio, contribuendo
a portare le fondazioni sotto i riflettori internazionali. Le fondazioni possono essere sia quelle create da
singoli individui che dalle imprese.

-imprese e università. L’Università sia internazionale che nazionale riveste un ruolo fondamentale nella
crescita culturale di una popolazione. Essa può creare progetti di ricerca, di analisi, business plan volti a
spingere lo sviluppo di un territorio; può creare competenze locali, formando il capitale umano presente
nel paese in modo innovativo e bilanciato a livello globale, creando una forza lavoro competente, attiva e
in grado di interloquire con il sistema mondiale. Le università, inoltre, possono divenire fornitrici di servizi
(medici, architettonici, gestionali ecc.) sia per attori pubblici che privati, i quali interagiscono direttamente
con il territorio e il suo sviluppo.
L’impresa privata è vista solo come fonte economica e tecnica: fornisce medicine, alimenti o abiti alle
ONG. In realtà, le imprese private possono diventare attori dello sviluppo a tutto tondo, non rimanendo
relegate al ruolo di fonti. Esse, per esempio, possono creare posti di lavoro nelle aree in trasformazione.
La scelta dell’impresa di creare una struttura produttiva o commerciale all’interno di un’area depressa può
essere determinante per lo sviluppo economico di quell’area.

2.4 ATTORI MISTI


Si tratta di tutte quelle fondazioni, associazioni o imprese fondate su partnership che comprendono sia
attori pubblici che privati. Si mostrano fondamentali soprattutto quando l’urgenza di agire per risolvere
una particolare questione umanitaria supera la velocità e la capacità delle istituzioni tradizionali di
rispondere in maniera efficace. La maggior parte di queste organizzazioni, infatti, affronta un problema
specifico: vaccinazioni, malattie infettive, istruzione primaria. Sono generalmente indicate come fondi
verticali. Il loro successo e la loro crescita derivano dal fatto che la complessità delle grandi sfide globali
non possono essere affrontate e risolte da singoli attori: è per questo motivo che l’ONU, sempre più
frequentemente, sta unendo le sue forze con forze differenti e private per far fronte ai grandi problemi
che rendono inefficaci gli sforzi del singolo.
Il Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla Tubercolosi, alla Malaria, per esempio, rappresenta un
partenariato tra governi, società civile, settore privato e comunità coinvolte. Le iniziative per diffondere
l’immunizzazione hanno visto la partecipazione di organizzazioni non governative, governi, fondazioni
filantropiche, dell’UNICEF, dell’OMS e della banca mondiale.
Gli enti intergovernativi hanno ormai individuato le partnership come un’importante scelta vincente e
strategica per la risoluzione di problemi specifici. Questa tendenza ha portato anche altri attori pubblici e
privati a considerare la collaborazione mista come una possibile soluzione per intervenire in un’area di
sviluppo umano al pari, o quasi, di un ente intergovernativo. Queste nuove organizzazioni sono dette
partnership globali. Tendenzialmente gli attori misti sono attori che si riuniscono rispetto a degli obiettivi
precisi, che si legano a programmi o progetti determinati che spesso hanno una durata limitata nel tempo
o presuppongono un termine. Generalmente si compongono come accordo tra un gruppo di stakeholder
rispetto ad un problema e poi si strutturano secondo una forma legale ed acquisendo personalità
giuridica.
Si può quindi dedurre che gli attori misti nascono da una strategia di sviluppo fondata sugli accordi e poi,
costituendosi giuridicamente, divengono un vero e proprio attore di sviluppo
Le PPP (paterniato pubblico-privato) descrivono una varia gamma di accordi, molti dei quali forse
erroneamente inseriti in questa categoria. Alcuni cosiddetti partenariati pubblico-privato potrebbero
essere considerati in realtà come programmi del settore pubblico con la partecipazione del settore
privato, oppure ci sono anche strutture giuridicamente indipendenti di “interesse pubblico” ma in realtà
del settore privato. I partner componenti un attore misto, generalmente, sono estremamente eterogenei..
La necessità di bilanciare gli interessi e le prospettive di realtà completamente differenti (governi, società
civile, filantropi, fondazioni) richiede uno stile di direzione molto più complesso e leggero rispetto a quello
delle organizzazioni tradizionali. Le PPP sono un approccio alla soluzione dei problemi di sviluppo
attraverso uno sforzo coordinato e concertato tra il governo e attori non governativi. È risaputo che i
partenariati tra soggetti pubblici e governativi, privati e commerciali e la società civile hanno una forza in
più combinando le diverse competenze e le risorse di varie organizzazioni in modo innovativo. Le agenzie
pubbliche beneficiano chiaramente del lavoro in collaborazione con il settore privato in aree in cui il
settore pubblico manca di esperienza e competenza: nello sviluppo dei prodotti, dei processi di
produzione, marketing e distribuzione; al tempo stesso, il privato beneficia della conoscenza delle
organizzazioni intergovernative in materia di sviluppo o della capacità di relazione con la comunità degli
enti non governativi.
Alla luce di tutto ciò gli elementi principali caratterizzanti una partnership mista sono:
1= la forma legale: affinché si parli di attore misto, deve esserci una personalità giuridica autonoma;
2= la modalità di costituzione: serve per capire se sia nata come programma pubblico che poi ha
coinvolto privati prima come finanziatori e poi come partner, o se sia nata direttamente come partnership
alla pari;
3= la mission: solitamente è la risoluzione di un problema internazionale e intersettoriale* specifico;
4= il modello di partnership: per capire se è un attore misto, è importante capire la percentuale di attori
pubblici e privati, se tutti i partner hanno pari importanza nel processo decisionale e lo stile di
governance;
5= l’impatto ottenuto sullo sviluppo: i risultati delle azioni devono essere misurabili e misurate.
Quindi è possibile dire che si tratta di un attore misto per lo sviluppo se una PPP: ha personalità giuridica;
tende alla risoluzione di un problema specifico di interesse internazionale i cui risultati siano misurabili e
misurati; presenta un partenariato pubblico privato bilanciato e una soft power leadership o uno stile di
leadership trasformazionale.

Capitolo 3.
“I programmi di sviluppo nel mondo”: analisi strategica.
La povertà è un meccanismo ampio e complesso che difficilmente può essere definito. Le
prime teorie sulla povertà erano essenzialmente collegate a due elementi principali: la
mancanza di reddito, e il tasso di mortalità utilizzato per misurare il benessere degli individui.
Da allora, molte teorie hanno suggerito che la povertà degli individui ha bisogno di una serie
di fattori per essere compresa. Una delle teorie più rilevanti è la teoria della capacità
sviluppata da Sen: il benessere di un paese aumenta davvero quando aumenta anche le
possibilità per gli individui di raggiungere i loro obiettivi personali e professionali. Oggigiorno,
l’approccio adottato dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite(UNDP) cattura la natura
stessa della povertà: essa è cioè una realtà multidimensionale determinata non solo dalla
mancanza di reddito, ma anche dalla salute a dall’istruzione. (HDI: Human Development
Index).
La differenza tra i paesi sviluppati, paesi in via di sviluppo e paesi in attesa di sviluppo ha
anche evidenziato la necessità di una doppia definizione di povertà:povertà assoluta e
povertà relativa. Le persone in assoluta povertà non hanno il reddito minimo necessario per
soddisfare i requisiti di base, né l’accesso a molti servizi essenziali come la sanità e
l’istruzione. La Banca Mondiale ha fissato questa soglia a 1,90 dollari al giorno. Per cui le
persone che vivono nella povertà relativa, hanno un reddito superiore a 2 dollari al
giorno(quindi non sono poveri in termini assoluti, ma il loro tenore di vita è al di sotto dei
livelli medi della popolazione presente nel luogo in cui vivono). Una delle conseguenze
importanti della povertà, assoluta o relativa che sia, è l’esclusione dalla vita sociale,
economica e culturale della propria società. A causa di questa mancanza di integrazione, i
poveri non sono in grado di ottenere un’istruzione, di trovare un buon lavoro, di ricevere
servizi sanitari adeguati per se stessi e per i loro figli. Questo meccanismo è noto anche come
“trappola della povertà”. La trappola della povertà può colpire non solo le persone, ma interi
paesi.

Lo sviluppo di un paese non può essere confuso con il solo sviluppo economico dello stesso.
Un paese sviluppato economicamente ma composto da analfabeti, ad esempio, sarebbe
talmente sbilanciato da non riuscire a rendere sostenibile e generalizzato neanche lo sviluppo
economico raggiunto. I differenziali di reddito sono, quindi, solo una delle variabili. La salute di
una popolazione e l’istruzione, infatti, sono variabili necessarie per il bilanciato e sostenibile
sviluppo di un paese.
Comprendere i problemi di un territorio è spesso un requisito per la piena comprensione
delle soluzioni attuabili. Lo scopo di questa sezione è studiare, analizzare le strategie e
identificare le molteplici ragioni i una mancanza di sviluppo in due aree del mondo molto
diverse: Africa e Asia

I programmi di sviluppo in Africa


1. Sud Africa
La Repubblica Sud Africana è situata nella punta meridionale del continente africano. Il
Sudafrica era suddiviso nelle tradizionali quattro repubbliche boere e in 10 bantusian. Questa
suddivisione venne poi sostituita con nove province autonome.
La Costituzione in vigore è stata emanata il 10 dicembre 1996. Il Presidente è anche Capo del
Governo, dunque ha poteri molto ampi. Egli è eletto dal popolo ed esercita il potere
esecutivo direttamente.
Il Pil è circa 4 volte quello dell’Etiopia.
La sua moneta ufficiale è il Rand sudafricano.
L’economia del Sud Africa è la seconda più ricca del continente nero, dopo la Nigeria. È un’economia a
reddito medio-alto.
Una grande particolarità del Sud Africa è la composizione multietnica della popolazione,
che difatti si divide tra neri (75%), bianchi (13%), colored(9%), asiatici(3%). I neri
appartengono a numerosi gruppi etnici bantu, tra cui gli zulu, che rappresentano il gruppo
più numeroso, gli xhosa, i sotho, i tswana, i venda, gli ndebele, i tsonga, gli swazi e i pedi.
Gli ultimi venti anni, che hanno rappresentato la prima fase di transizione democratica,
hanno portato notevoli cambiamenti nella società sud africana, iniziando a ragionare su
uno sviluppo inclusivo.

Il National Development Plan(NDP) è un piano di sviluppo del Sud Africa nel 2013 che offre
una prospettiva coraggiosa a lungo termine e identifica il ruolo che i diversi settori devono
giocare nel raggiungimento degli obiettivi. Creato dalla National Planning Commision in
collaborazione e consultazione con i sudafricani di tutti i ceti sociali, la mission dell’NDP è
eliminare la povertà e ridurre le disuguaglianze entro il 2030. La vision dell’NDP immagina un
Sud Africa in cui “everyone feels free yet bounded to others”, dove l’opportunità non è
determinata per nascita, ma dalle capacità, dall’istruzione e dal duro lavoro. Per realizzare
una società del genere, secondo il piano, è necessario trasformare l’economia nazionale e
concentrare gli sforzi per costruire le capacità sia del paese che della gente. Per eliminare la
povertà e ridurre le disuguaglianze, il piano intende accelerare la crescita dell’economia, ma
in modo inclusivo ossia a beneficio di tutti i sudafricani.

L’NDP, piano strategico, è fondato su 7 pilastri che rappresentano gli obiettivi


generali da raggiungere entro il 2030 per realizzare la mission.
1. Unire i sudafricani di tutte le razze e le classi attorno a un programma comune per
eliminare la povertà e ridurre la disuguaglianza;
2. Incoraggiare i cittadini a essere attivi nel loro sviluppo, nel rafforzare la democrazia, e nella
collaborazione con il governo;
3. Aumentare la crescita economica, promuovere le esportazioni;
4. Concentrarsi sulle competenze chiave della popolazione e del paese;
5. Includere le competenze, le infrastrutture, la sicurezza sociale, le istituzione forti e le
partnership sia all’interno del paese che con i principali partner internazionali;
6. Costruire uno stato capace e sviluppato;
7. Formare una forte leadership in tutta la società che lavora insieme per risolvere i
problemi;

Questi obiettivi possono essere raggiunti solo affrontando le cause profonde della povertà
e della disuguaglianza, reindirizzando la pianificazione verso politiche a lungo termine, e
non seguendo più una programmazione a breve termine basata sulle esigenze contingenti.
Al centro dell’NDP c’è garantire il raggiungimento di un “tenore di vita decente” per tutti i
sudafricani entro il 2030. Uno standard di vita dignitoso, quindi, che comprenda i seguenti
elementi fondamentali: abitazioni, acqua, elettricità, e servizi igienici; trasporto pubblico
sicuro e affidabile; sviluppo dell’istruzione e delle competenze di qualità; sicurezza e
protezione; assistenza sanitaria di qualità; occupazione; ricreazione e tempo libero;
ambiente pulito; nutrizione adeguata. Il Governo da solo non è in grado di fornire tutti
questi elementi; il piano, infatti, richiede azioni da parte di tutti gli attori sociali, partner, e
stakeholder.
La sequenza di implementazione del Piano prevista comprende tre macro fasi:

1. Nel 2013 sono stati individuati i passaggi critici per superare alcuni ostacoli per la realizzazione
degli obiettivi e sono stati individuati i settori in cui è necessario un cambio di politica
2. Ciclo di pianificazione 2014-2019, primo di una serie di cicli di pianificazione quinquennali che
porteranno avanti gli obiettivi del NDP
3. Altri cicli di pianificazione (2019-2024 e 2024-2029), servirà per rivedere le modalità di
raggiungimento dei risultati nel caso di attività rimanenti nei precedenti cicli.
Il Department for Performance Monitoring and Evaluation (DPME) ha, la responsabilità di
monitorare i progressi.

L’NDP è un piano per l’intero paese e tutti i livelli politici nazionali e locali sono chiamati a
contribuire. Il Presidente e il Vicepresidente sono chiamati a essere i promotori nel governo
e in tutto il paese, Premiers e Sindaci, invece, sono gli attori visibili e attivi del piano e
devono guidarne l’attuazione a livello provinciale e comunale. Le proposte dell’NDP devono
essere incorporate nelle attività esistenti, per cui L’NDP rappresenta il fil ruote che rende
coerenti tutti questi piani differenti.
L’effettiva implementazione dell’NDP dipende da alcuni fattori determinanti, che tutti gli attori si
impegnano a rispettare:
I. Broad ownership—il piano del godere di ampio sostegno da tutti i settori della società.
II. Continuous capacity building—il rafforzamento delle capacità è fondamentale.
III. Policy consistency—i cambiamenti nelle policy devono essere affrontati con cautela e
basati sull’esperienza e sulle evidenze.
IV. Priorisation and sequencing—non tutte le proposte devono essere attuate
contemporaneamente.
V. Clarity of responsabilità and accountability—inasprimento della catena delle
responsabilità
VI. Continuous learning and improvement—l’attuazione deve essere un processo di
apprendimento, in modo che i piani posssano evolvere sulla base dell’esperienza e dei
risultat del monitoraggio
VII. Coordinate action—le azioni devono essere coordinate e ci devono essere delle
interazioni regolari giorno per giorno.

Il problema principale di un piano come l’NDP, che è un piano strategico elaborato


tecnicamente molto bene, è come per molti piani strategici diventare operativo. Il
passaggio dalla progettazione all’implementazione resta un passaggio cruciale per questi
territori e solitamente rappresenta la massima criticità dei piani di sviluppo a medio e
lungo termine. L’effettiva implementazione richiede la volontà di crescere, buona gestione
delle risorse umane; per questo l’NDP prevede degli incentivi sia dedicati sia al settore
pubblico che a quello privato e la soddisfazione delle esigenze.

2. Etiopia
L’Etiopia ufficialmente conosciuta la Repubblica federale democratica dell’Etiopia è un paese situato nel
Corno d’Africa, è situata nella parte centro-orientale dell’Africa. L’Etiopia è il paese più popoloso al mondo
senza sbocco sul mare, così come la seconda nazione più popolosa del continente africano dopo la Nigeria.
La sua moneta ufficiale è il Birr.
Dal 2004 alla crisi finanziaria del 2009, l’Etiopia è stata una delle economie più in rapida
crescita al mondo. Nonostante questa crescita, il PIL pro capite è molto basso: le guerre
civili e la siccità ricorrente hanno reso l’Etiopia uno dei paesi più poveri al mondo.
La politica d’Etiopia si svolge nel contesto di una repubblica parlamentare federale, per cui il
primo ministro è il capo del governo.

L’Etiopia oggi ha 9 regioni amministrative semi-autonome che hanno il potere di raccogliere


tasse e spenderle in maniera indipendente. A maggio del 2015 ci sono state le ultime elezioni
nazionali etiopi, che hanno confermato il Partito Rivoluzionario Etiope, da più di 20 anni al
governo. Sotto questo governo, gli etiopi godono di maggiore partecipazione politica e di
dibattito politico più libero rispetto ad ogni altro momento anteriore della loro storia, anche
se alcuni fondamentali diritti, fra cui la libertà di stampa, sono, in pratica, alquanto limitati.

Il governo etiope risulta essere uno dei maggiormente attivi riguardo alla pianificazione
strategica. Esistono numerosi piani di sviluppo. Il più importante è il PASDEP (Plan for
Accelerted and Sustained Development to End Poverty). Otto sono i pilastri che hanno
composto la strategia del PASDEP. Questi pilastri strategici sono stati: costruire una capacità di
implementazione all-inclusive; dare una spinta massiccia per accelerare la crescita; creare un
equilibrio tra sviluppo economico e crescita della popolazione; far emergere i potenziali delle
donne etiopi; rafforzare la spina dorsale infrastrutturale del paese; rafforzare lo sviluppo delle
risorse umane; gestire il rischio e la volatilità; e creare opportunità di lavoro.

La mission del PASDEP è l’azzeramento della povertà.


Il governo aveva immaginato due scenari: ipotesi base che era in linea con le esigenze del
MGD (crescita del PIL medio annuo 7%) e ipotesi ottimista (crescita del PIL medio annuo
10%) che era basato sulle esigenze del paese. La crescita del Pil ha superato gli obiettivi
fissati in entrambi gli scenari del PASDEP 2000-2005 (crescite del PIL medio annuo del 11%).
Dal 2003/2004 l’economia si è spostata verso una traiettoria di crescita più elevata e la
dinamica di crescita è stata sostenuta durante il secondo periodo di PASDEP(2006-2010). Lo
sviluppo delle infrastrutture e dei servizi sociali si è ampliato, la partecipazione degli
investitori privati, e della comunità in generale ha raggiunto un livello incoraggiante. Lo sforzo
di mobilitazione delle risorse domestiche ha aumentato la capacità del paese di finanziare
progetti di sviluppo. Il processo che crea le basi per la democrazia e il buon governo è stato
messo in risalto attraverso i diversi programmi di riforma.

La vision a lungo termine dell’Etiopia è “diventare un paese a reddito medio-basso entro il


2025”, i risultati del PASDEP e gli insegnamenti tratti dalla sua attuazione sono state le basi
per concepire il piano di crescita: Growth and Transformation Plan(2010/2015). Questo piano
è stato articolato attraverso quattro obiettivi generali: mantenere un tasso di crescita del PIL
almeno dell’11% annuo; ampliare l’accesso e la qualità dell’istruzione e dei sistemi sanitari;
nazione sostenibile attraverso la creazione di uno stato democratico e di sviluppo stabile;
assicura la sostenibilità della crescita garantendo stabilità macroeconomica. La formulazione
del piano di crescita e trasformazione (GTP) è stata condotta attraverso una leadership
politica di alto livello. Sono stati registrati, infatti, dei risultati notevoli nel tasso di crescita del
PIL reale, nelle infrastrutture e nello sviluppo sociale. D’altra parte, durante l’attuazione del
piano si sono registrati effetti negativi sull’economia. Il rallentamento economico globale e
l’ambiente esterno volatile hanno avuto un impianto negativo sull’economia dell’Etiopia,
specialmente durante i primi due anni di attuazione. L’ambiente volatile, unito alla
svalutazione della moneta, ha provocato una pressione inflazionistica interna in gran parte
determinata dai prezzi di carburanti e generi alimentari. Ciò è stato superato attraverso
interventi concentrati di politica fiscale e monetaria. Tali lodevoli misure hanno contribuito a
invertire l’impatto negativo dell’ambiente esterno sull’economia e hanno ridotto l’inflazione
intona. Tutto ciò è stato utilizzato come input nella formulazione del secondo piano di
crescita e trasformazione (GTP II) in atto ancora oggi.

Il Growth and Transformation Plan II (2015/2016-2019/2020) è considerato un importante


veicolo per la rinascita dell’Etiopia. I pilastri strategici del GTPII sono basati sul GTPI integrati
da ulteriori elementi. Il governo è pienamente impegnato a mobilitare le risorse necessarie,
inclusa la capacità di attuare il piano. La modernizzazione nello sviluppo del settore agricolo,
l’espansione dello sviluppo industriale con focus primario sulla produzione leggera, un
significativo spostamento nello sviluppo delle esportazioni, sono al centro di GTP II. Questo
piano strategico risulta essere una pietra miliare nella realizzazione della vision etiope di
diventare un paese a reddito medio- basso entro il 2025.

3. Il Benin
Il Bénin è una piccola repubblica presidenziale nella parte centro-occidentale del continente
africano, stretta tra il Togo e la Nigeria, con un piccolo sbocco sul mare.
Dalla fine del regime Marxista-Leninista nel 1989 il Bénin ha avuto un governo stabile e
democratico.
In Bénin vivono circa 40 gruppi etnici differenti. Ognuno di essi ha una propria lingua, seppur
la lingua ufficiale resta il francese, derivante da antiche colonizzazioni.
La povertà rimane un problema diffuso in Bénin, con tassi di povertà nazionale del 40,1% nel
2015. I settori dell’istruzione e della sanità continuano a rappresentare una quota significativa
della spesa pubblica annua, ma è necessario un impegno significativo per garantire una
maggiore equità nella distribuzione delle risorse e una maggiore efficienza nella gestione di
questi due settori.

Dopo il 1999, il Benin ha iniziato l’elaborazione e la messa in opera di strategie della riduzione
della povertà. Dopo la Strategie de Reduction de la Pauvrete Internaire (SRPI), terminata nel
2000, la Stategie de Réduction de la Pauvrete (SRP1) 2003-2005 servì come elemento
strategico di accreditamento e di dialogo verso partner tecnici ed economici internazionali. La
Stategie de Croissance pour la Réduction de la Pauvrete (SCPR 2) 2007-2009 ha permesso di
mantenere un tasso di crescita economica costante. L’ultima strategia emessa dal Governo,
Stategie de Croissance pour la Réduction de la Pauvrete (SCPR 3) 2011-2015 è stato il
risultato di un grande processo partecipativo che ha coinvolto in ogni fase l’amministrazione
pubblica, gli operatori e economici e la società civile. L’obiettivo globale è: il miglioramento
delle condizioni di vita della popolazione Béninese. In maniera specifica si intende
raggiungere importanti risultati nell’area educativa, negli ambiti che riguardano la fornitura e
utilizzo dell’acqua, così come negli MDG. Prevede quattro assi: 1) economico, crescita
economica; 2) sviluppo delle infrastrutture, in particolare trasporti, energia, comunicazione,
tecnologia idraulica e urbanistica; 3) sviluppo del capitale umano attraverso il miglioramento
dell’istruzione, del livello sanitario della popolazione, aumento dei posti di lavoro, riduzione
della disparità di genere; 4) promozione della qualità della governance (promozione pace e
sicurezza, rispetto dei diritti umani) e allo sviluppo equilibrato e durevole del paese.

Attualmente il Bénin è un paese che continua ad aver bisogno di aiuti, la crescita economica
non supera la crescita demografica, i livelli di povertà sono ancora molto elevati( più del 35%
della popolazione),esistono alti livelli di mortalità materna, alti livelli di giovani(15-19 età) che
hanno già un figlio e alti tassi di disoccupazione. Questi problemi persistono in parte anche a
causa di problemi di governance che lo stato centrale non è ancora in grado di affrontare in
modo adeguato e per questo ancora dipendente, non solo dal punto di vista economico ma
anche rispetto alle capacità di programmazione, dalla cooperazione internazionale.

Infatti come previsto dalla stessa Stratégie de Croissance pour la Reduction de la Pauvrete
(SCRP), la cooperazione internazionale è un elemento imprescindibile della crescita del paese.
A questo proposito, è molto importante è anche il Multi-Annual Strategic Plan 2014-2017
(MASP), piano di cooperazione con i Paesi Bassi. È una continuazione del MASP 2012-2015
con tre priorità già indicate da quest’ultimo: sicurezza alimentare, la salute e i diritti
riproduttivi e sessuali, l’acqua e i servizi igienici. Nonostante l’enorme potenziale che il
mercato Nigeriano rappresenta per il sistema economico del Bénin, il tasso di povertà è
ancora molto alto. Questo dipende secondo il MASP dalla mancanza di conoscenza dei sistemi
imprenditoriali e della cultura dell’azienda.
L’approccio alla sicurezza alimentare è orientato al mercato, alle strade d’accesso,
problematiche del territorio, servizi agro-business e mercati regionali e locali.
I fattori chiave del contributo olandese alla sicurezza alimentare e alla nutrizione sono:
I. Guidare la redditività (capacità di produrre reddito) del settore agro-alimentare;
II. Incoraggiare un ruolo più forte per i mercati e partner privati, tra cui i legami tra i partner dei Paesi
Bassi e Bénin;
III. Concentrare gli interventi nella parte sud-orientale del Bénin ai fini di una divisione del
lavoro e di una maggiore efficienza.

L’Ambasciata ha selezionato quattro principali aree di intervento: Market development at


communal level, Improved rural transport infrastructure, Access to land, Agro-business
development, e tre aree chiave controllate Linking research and innovation, Agro-
statistics, The Hunger Project.
Il programma rivolto all’area acqua e servizi igienici, sostenuto dal programma bilaterale
olandese, mira ad aumentare l’accesso ai servizi di approvvigionamento idrico urbano e
rafforzare le modalità di fornitura nelle aree rurali, migliorare l’igiene rurale e urbana,
procedere verso una gestione integrata delle risorse idriche, e rafforzare il rapporto tra
l’acqua e la sicurezza alimentare (water program).

Abbiamo anche un programma come The Sexual and Reproductive Health and Rights(SRHR)
finalizzato a ridurre la mortalità materna e neonatale, ridurre l’HIV, aumentando l’accesso
ai moderni strumenti anticoncezionali, con l’obiettivo generale di contribuire alla riduzione
della rapida crescita della popolazione. I Paesi Bassi con il suo MASP 2012-2015 hanno
iniziato a sostenere azioni pratiche per questo programma finanziando anche una specie di
numero verde per gli adolescenti che hanno bisogno di informazioni. Hanno contribuito
inoltre alla promulgazione della legge contro la violenza domestica e hanno sostenuto una
NGO che si occupa dei diritti degli omosessuali. La strategia SRHR nel MASP 2014-2017 si
basa su quattro dimensioni:
I. Più conoscenza sessuale e libertà di scelta per i giovani;
II. Migliore accesso ai farmaci e contraccettivi;
III. Migliore assistenza sanitaria durante la gravidanza e il parto (incluso l’aborto sicuro);
IV. Più rispetto per i diritti sessuali e riproduttivi dei gruppi che sono attualmente negati;

In ogni caso, portare a termine i risultati immaginati dal MASP richiede tempo e sostegno
internazionale a lungo termine. Da un punto di vista economico, l’ambasciata dei Paesi Bassi
svolge un ruolo da garante, attraverso misure di finanziamento centrale, garantendo la
fattibilità del piano.
Visto che tutte queste azioni comportano la necessità di coordinare un gruppo di attori
molto diversi tra di loro-attori pubblici, privati, nazionali, internazionali- i Paesi Bassi si
propongono come coordinatore delle azioni strategiche operative, con la convinzione che le
azioni concordate per produrre risultati reali debbano condurre a strutture piccole ed
informali, piuttosto che grandi piattaforme rigide e burocratizzate.
Tuttavia le prospettive del Bénin per il futuro sono offuscate dalla mala gestione dei fondi di
cooperazione spesso emergente dai monitoraggi internazionali e dall’impatto del calo dei
prezzi mondiali del petrolio sull’economia della Nigeria, primo mercato di esportazione per
la repubblica del Bénin.

Dati emergenti a confronto

In modo differente e con piani con termini diversi il Sud Africa, l’Etiopia e il Bénin mostrano il
desiderio di crescere attraverso uno sviluppo inclusivo ed anche abbastanza bilanciato.
Chiaramente lo sviluppo economico e quello sociale sono i due obiettivi ai quali
dovrebbero dedicarsi maggiori risorse. Anche in questo caso, forse con una leggera
eccezione per il Sud Africa, si considera lo sviluppo economico il primo passo verso uno
sviluppo globale, ma la realizzazione delle tre aree risulta abbastanza bilanciata,
certamente molto di piú dei paesi che vedremo di seguito. L’impegno di competenze e di
risorse proprie o derivanti dalla cooperazione determina nei tre paesi analizzati una
generale tendenza positiva, seppur abbastanza lenta.
1. Sud Africa
2. Etiopia
3. Bénin

Human development Index(2015). Il primo presenta un livello medio di sviluppo umano, gli
altri due sono di livello basso.
Quali fattori determinano l’indice per ogni paese?
Il Sud Africa presenta un PIL molto superiore a quello degli altri due paesi e infatti questo
rappresenta la ragione principale del valore dell’HDI del Sud Africa, che lo rende un paese a
livello medio di sviluppo umano. Difatti guardando gli altri due indicatori principali, vediamo
che ha un bassissimo indice di vita atteso pari a 57,7 anni. Gli anni di scolarizzazione sono a un
livello accettabile cioè 13 anni. Per il Sud Africa quindi emerge in modo forte la necessità di
investire nelle strategie e nei programmi legati alla salute e alla sconfitta di malattie
epidemiche a semplice trasmissione come l’HIV.

Anche il Bénin presenta ancora dei risultati deludenti sull’attesa di vita(59,8 anni),
nonostante l’ottimo piano di sviluppo sanitario presentato dal Ministro della Salute della
Sanitá Béninese. Gli altri indici sono leggermente più alti di quelli etiopi.
L’Etiopia presenta invece una discreta attesa di vita (64,6 anni), un reddito annuo pro capite
crescente seppur basso di 1.523 dollari, e una scolarizzazione che lascia intendere che
esistono ampie aree di analfabetismo. Le strategie hanno comunque portato dei risultati
seppur piccoli, ad eccezione delle strategie legate alla salute che invece hanno portato un
risultato più che soddisfacente.

I programmi di sviluppo in Asia

1) L’India
L’India, ufficialmente Repubblica dell’India, è uno Stato dell’Asia meridionale, con capitale
Nuova Delhi.
È il settimo paese per estensione geografica al mondo e il secondo più popolato, con 1,324
milioni di abitanti, metà dei quali hanno meno d 25 anni.
Colonizzata dal Regno Unito dalla metà del XIX secolo, l’India è diventata un moderno stato
nazionale nel 1947, dopo una lotta per l’indipendenza che è stata caratterizzata da una diffusa
resistenza non violenta guidata da Gandhi.

La Costituzione Indiana è lunghissima. Il preambolo della Costituzione definisce l’India come


una repubblica sovrana, socialista, laica e democratica.
L’India ha una forma di governo quasi-federale ed è dotata di un parlamento bicamerale
plasmato sul modello parlamentare Westminister, con la classica tripartizione dei poteri:
legislativo, esecutivo e giudiziario.
L’ India è una federazione di stati con parlamenti e governi autonomi. Ci sono 7 territori e 29
stati federati, fra cui quello della capitale, Nuova Delhi, e ognuno di essi è suddiviso in
distretti; in alcuni stati federati i distretti sono riuniti in divisioni, che rappresentano così il
secondo livello amministrativo. Nel 1956 gli Stati vennero formati su base linguistica. Da
ricordare che alcuni stati e distretti sono dotati di Maragià, tradizionale titolo dei sovrani
indiani, con poteri rappresentativi e simbolici.
La sua moneta ufficiale è la Rupia.

L’India è la dodicesima piú grande economia del mondo in termini nominali, e la quarta in
termini di potere di acquisto. Ma, nonostante ciò, il paese soffre ancora di alti livelli di
povertà, analfabetismo, e malnutrizione, oltre ad avere un sistema sociale tribale basato su
caste e una forte discriminazione femminile.

I piani quinquennali(FYP) sono quelli più importanti, erano programmi crescita economica e
sociale. Il primo piano quinquennale fu attuato alla fine degli anni ’20 da Stalin, presidente
dell’ex Unione Sovietica. I Five Years Plans sono piani quinquennali, progettati, realizzati e
monitorati dalla Planning Commission. Il primo piano quinquennale è stato uno dei più
importanti, avendo rivestito un ruolo fondamentale nel lancio di sviluppo indiano dopo
l’Indipendenza. Esso ha sostenuto con forza la produzione agricola e lanciato anche
l’industrializzazione del paese, che però è stata fortemente implementata nel Secondo Piano,
il quale si è concentrato sulle industrie pesanti.

Il dodicesimo piano quinquennale( Twelfth Five Year Plan 2012-2017) è uno dei più recenti. La
sfida è stata duplice: attuare delle infrastrutture alla base dei grandi progetti e far fronte alle
questioni fiscali che hanno creato un clima di incertezza per gli investimenti. Lo sviluppo
economico avuto negli ultimi anni ha portato una crescita considerevole all’India, ormai la
dodicesima potenza del mondo, ma in modo assolutamente sbilanciato. Lo sbilanciamento
presenta diverse aree di interesse: sbilanciamento geografico(difatti c’è una grandissima
differenza di sviluppo umano da stato a stato ed anche tra le aree urbane e quelle rurali),
sbilanciamento economico, sbilanciamento culturale e sociale. Per tutte queste ragioni il
Twelfth Five-Year Plan ha posto una principale attenzione all’inclusione ed alla sostenibilità. Il
piano, infatti, seppur in modo ancora residuale, si è concentrato anche sui settori sociali,
tenendo conto dell’impatto che hanno sullo sviluppo umano e sulla qualitá di vita. Esso
compre un gran numero di settori diversi: salute, istruzione, acqua, sanità. Oltre, come
abbiamo visto, all’inclusione, la visione del dodicesimo piano indiano vede un altro elemento
fondamentale: la sostenibilità. Infatti nessun processo di sviluppo può permettersi di
trascurare le conseguenze ambientali, l’esaurimento e degrado delle risorse naturali.

Purtroppo, l’esperienza di sviluppo di molti paesi, compresa l’India, ha compreso che


questo accade facilmente.
Tuttavia questo piano presenta elementi molto innovativi. Esso, infatti, invece di individuare
una serie di obiettivi nazionali, delinea tre scenari:
I scenario: si raggiunge un’implementazione molto alta dei programmi e delle politiche
delineate dal piano. Questo scenario prevede una forte crescita inclusiva, produrrebbe un
tasso di crescita medio di circa l’8%. Tuttavia, questo piano non è affatto sicuro;
II scenario: se i requisiti dello scenario I sono solo parzialmente applicabili, interviene lo
scenario II con una crescita intorno al 6% e livelli più bassi di inclusione;
III scenario, detto Policy Impasse: scarsissimi progressi nel programma di inclusione. Altro
elemento innovativo del piano: individua per la prima volta quattro elementi chiave per la
definizione della stessa strategia:
1) Fare una corretta analisi strategica interna evidenziando i punti di forza e di debolezza del
paese;
2) Individuare gli attori che devono essere investiti di un ruolo nel processo di sviluppo;
3) Aumentare la spesa governativa sui singoli programmi, accimpagnandola da una migliore
attuazione del programma stesso. Risulta quindi fondamentale lo sviluppo delle
competenze della governance;
4) Coinvolgere il territorio.

Il grande difetto che il piano presenta è dato dalla conservazione dell’idea abbracciata dai
piani precedenti che, a nostro parere è stata una delle cause principali della crescita
sbilanciata dello sviluppo umano, ossia la crescita economica come obiettivo prioritario,
presupponendo che dall’incremento del PIL si generi un automatico aumento della qualità
di vita per tutti. Quest’idea non è del tutto corretta.

Per molto tempo si era pensato che per un paese tanto vasto e grande quanto l’India, la
pianificazione centralizzata non potesse funzionare a causa del suo approccio unico per
tutti. Inoltre, dal momento che la Commissione di pianificazione era controllata dal governo
centrale, spesso finiva come uno strumento per punire gli stati governati dai partiti di
opposizione quando si trattava di stanziare fondi. A causa dell’approccio top-to-botton nella
pianificazione centralizzata, si è ritenuto che gli stati dovessero avere maggiore voce in
capitolo nella pianificazione delle proprie spese.

Il governo guidato da Narendra Modi, eletto nel 2014, ha sciolto la Planning Commision,
sostituendola con un think tank chiamati NITI Aayong( acronimo di National Institution for
Transforming India). Il Niti Aayong è il nuovo organismo che dà direttive politiche. Il suo
principio fondatore è il “federalismo cooperativo”. La differenza più importante è che Niti
Aayong non ha il potere di concedere fondi o prendere decisioni per conto degli stati. È solo
un organo consultivo.
I piani quinquennali sono stati sostituiti da un piano d’azione triennale. Infatti il Niti Aayong,
che ha sostituito la Planning commission, ha lanciato un piano d’azione triennale dal 2017-
2020. L’agenda di azione propone un percorso composto da sette parti per raggiungere uno
sviluppo a 360 gradi della popolazione: 1) politiche economiche e fiscali; 2) da una parte,
agricoltura, dall’altra industria e servizi con la questione chiave di creare posti di lavoro ben
retribuiti; 3) facilitare l’urbanizzazione del paese; 4) migliorare infrastrutture, le PPP, energia,
scienza, tecnologia che sono i fattori principali di crescita; 5) questione relative al governo;

6) sviluppo delle competenze, miglioramento della salute, problematiche di gruppi specifici


(donne, bambini, diversamente abili e anziani): affrontare le esigenze di tutti i membri della
società è fondamentale per la crescita inclusiva del paese. Un partenariato efficace tra il
governo e le ONG può aiutare nella governance del settore sociale, in quanto il settore del
volontariato può contribuire significativamente a colmare il divario nella capacità del governo
di fornire i suoi programmi di assistenza sociale ai beneficiari interessati. Per migliorare la
trasparenza e la responsabilità nel settore, Niti Aayong ha costituito l’agenzia nodale per la
registrazione e l’accreditamento delle organizzazioni di volontariato.

La registrazione genererà un ID univoco per queste organizzazioni e fornirà un’istantanea delle


loro funzioni. Ciò aiuterà le varie agenzie governative a identificare partner idonei per la loro
attività. Inoltre, il portale può essere utilizzato per monitorare e aumentare le responsabilità
delle organizzazioni di volontariato. Mentre l’India ha compiuto progressi significativi, gli
indicatori chiave (tasso di mortalità infantile, speranza di vita, malnutrizione e tasso di
mortalità materna) sono rimasti al di sotto di quelli di altri paesi in fasi analoghe di sviluppo e
livelli di spesa per la salute. Inoltre, ci sono grandi disparità in termini di copertura del servizio
tra le diverse parti del paese. Si individuano nel piano come necessari per il raggiungimento di
migliori risultati in ambito sanitario. Nel corso dei prossimi tre anni, il sistema sanitario nel
paese deve dare priorità alla salute pubblica e passare dall’essere curativo al preventivo.

7) Un altro tema importante è quello della sostenibilità ambientale. In India è necessario


affrontare gli alti livelli di inquinamento atmosferico delle città, l’inquinamento da carbone
nero al chiuso per l’uso di combustibili da biomassa in cucina, rifiuti solidi nelle aree urbane, e
la deforestazione.
L’India ha annunciato giovedì 1 febbraio 2018 un piano radicale per dare a mezzo miliardo di
poveri indiani libero accesso all’assistenza sanitaria. La mossa è sicuramente popolare in un
paese in cui la maggior parte delle persone non ha un’assicurazione sanitaria e il reddito pro
capite è di pochi dollari al giorno.

2) Le Filippine
Le Filippine sono uno Stato insulare del Sud-est asiatico situato nell’Oceano Pacifico. Unico
stato a non avere confini terrestri con altri stati, è frequentemente colpito da terremoti e
tifoni, ma è anche ricco di risorse naturali e ha una delle zone più ricche di biodiversità nel
mondo. L’arcipelago delle Filippine, che comprende 1.707 isole, è diviso in tre regioni
geografiche principali. La popolazione filippina è molto popolosa, essa comprende 103,3
milioni di persone residenti nel paese, e circa 11 milioni di persone residenti all’estero.

La storia politica delle Filippine è molto ricca, combinando influenze asiatiche, europee, e
americane. Prima di diventare una colonia spagnola nel 1521 il paese presentava una ricca
cultura e fiorenti commerci con il Giappone e la Cina. Nel 1989, dopo 350 anni e 300
ribellioni, finalmente le Filippine conquistarono la loro indipendenza dalla Spagna, ma nello
stesso anno divennero l’unica colonia statunitense. Dopo le due guerre mondiali, le Filippine,
finalmente, nel 1946 riconquistarono la loro indipendenza e divennero una repubblica.
Lo stato oggi è una democrazia basata su un sistema politico presidenziale. Le tre regioni non
hanno un vero e proprio organismo governativo, ma sono al servizio delle province che
hanno un proprio Governo.
La moneta ufficiale delle Filippine è il peso.

L’economia delle Filippine presenta un buon PIL pro capite. Anche l’attesa di vita è
abbastanza alta(68 anni), mostrando una differenza di genere a favore delle donne.
Le Filippine, insieme a Malesia, Indonesia, Singapore e Thailandia, sono una delle 5 nazioni
fondatrici dell’ ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico).
Le Filippine devono ancora affrontare molte sfide nel settore delle infrastrutture, inoltre manca un
adeguato sviluppo nel settore del turismo, dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, e della crescita
umana.

Tra i programmi ricordiamo il Philippine Development Plan 2011-2016 (PDP). La vision del
piano è ‘a country with an organized and widely shared rapid expansion of our economy
through a government dedicate to honing and mobilizing our people’s killer and energies as
well as the respinsible harnessing of our natural resources’
La mission è ‘doing the right things, giving value to eccellence and integrity and rejecting mediocrity
and dishonesty, and giving priority to others over ourselves’.

Mira ad aumentare lo sviluppo sostenibile e ridurre la povertà. Il governo ha previsto cinque linee strategiche: 1)
creazione di una governance trasparente e responsabile; riduzione della povertà e responsabilizzazione dei poveri;
crescita economica rapida e sostenuta; pace giusta e duratura e stato di diritto; integrità dell’ambiente e
adattamento ai cambiamenti climatici. All’interno del piano strategico, viene prevista la realizzazione di piani
operativi annuali: National Priority Plan (NPP), lista di programmi prioritari per il governo in materia di sviluppo
istruzione, sanità, sport, scienza e cultura che devono essere portati a termine ogni anno.
Per coprire finanziariamente i programmi e per poter concedere servizi gratuiti, il governo incoraggia le donazioni
del settore privato. Per l’implementazione del piano, il governo ha previsto la partecipazione attiva delle imprese
private, dei civili, dei media, in modo tale da dar voce anche alle persone e, viceversa, per permettere al governo di
rispondere a quelle che sono le esigenze dei cittadini. Il monitoraggio da parte dei media, civili è fondamentale,
inoltre, contro la corruzione: ai cittadini sono concessi dei canali per riferire, direttamente e anonimamente,

anomalie di funzione di governo alle autorità competenti, oltre alla concessione di una loro rappresentanza nei
processi di budget e approvvigionamento.

Nel 2017, viene approvato il piano di sviluppo filippino(PDP) 2017-2022. “Vogliamo che le
Filippine diventino un paese a reddito medio-alto entro il 2022. Con le giuste politiche e
con la fiducia reciproca tra governo e cittadinanza, questo è molto possibile”, ha dichiarato
il segretario Pernia.
Il piano di sviluppo filippino 2017-2022 è basato su tre pilastri principali. Il primo è Malasakit,
che mira a riconquistare la fiducia delle persone nelle istituzioni pubbliche e a coltivare la
fiducia tra i colleghi filippini, attraverso la promozione di una maggiore consapevolezza delle
misure anticorruzione, il miglioramento della produttività, riforme, accesso all’assistenza
legale.
Il secondo è Pagbabago, ovvero la riduzione delle disuguaglianze attraverso l’aumento delle
opportunità di crescita della produzione e del reddito, istruzione di base e di qualità
accessibile per tutti, riduzione e gestione del rischio di catastrofi. In terzo luogo, Patuloy na
Pag-unlad ci si concentra sull’aumento della crescita potenziale attraverso il sostegno e
l’accelerazione della crescita economica e facendo avanzare con vigore scienza, tecnologia,
innovazione. Inoltre, il piano si occupa anche dei filippini d’oltremare, identificando strategie e
politiche atte a proteggere i loro diritti, migliorando la loro qualità di vita e integrandoli nello
sviluppo del paese.

3) Il Myanmar
La Birmania, o Myanmar, è uno Stato dell’Asia sudorientale, che copre la parte ovest della
penisola Indocinese, attraversata dal fiume Ayeyawardy da nord a sud for and una vasta
pianura alluvionale. È il più grande paese del continente sud-est asiatico, ha una delle più
basse densità di popolazione nella regione, con terre fertili, potenziale agricolo non sfruttato,
una ricca dotazione di risorse naturali. È un paese multietnico composto da più di 130 gruppi,
situati per il 70% lungo il fiume. La maggioranza della popolazione è di etnia Bamar e di
religione buddhista, ma vi sono anche numerose minoranze etniche, che sin
dall’indipendenza sono state coinvolte in diversi conflitti armati con il governo centrale,
alcuni dei quali durano tuttora.
La sua moneta ufficiale è il Kyat.

La sua posizione geografica all’incrocio tra Cina e India, due delle economie più dinamiche del
mondo, lo rende ben posizionato per riprendere il suo tradizionale ruolo di centro del
commercio e fornitore chiave di minerali, gas naturale e prodotti agricoli.
Dopo aver ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito e dopo l’instaurazione del primo
governo militare, il Primo Ministro U Nu tentò di fare della Birmania uno Stato abbastanza
ricco. Il colpo di Stato nel 1962 fu seguito da una dittatura militare e da uno schema
economico socialista, con un programma per far controllare allo stato tutte le aziende con
l’eccezione di quelle agricole. A partire dal 2010, il governo militare birmano ha attuato una
serie di graduali riforme politiche, instaurando un governo civile, scarcerando gli oppositori
politici e convocando libere elezioni parlamentari. Dal 2011 il paese si è aperto al libero
mercato, ed ha fatto registrare tassi di crescita economica alti. La crescita del PIL ha subito
poi una battuta d’arresto del 2016; nonostante ciò, il trend di medio termine risulta positivo.
La crescita economica si è aperta a ventaglio in tutti i settori(turismo, esportazioni di gas
naturale, telecomunicazioni, idrocarburi, settore immobiliare e alberghiero e manifatturiero)
secondo stime l’economia birmana potrebbe quadruplicare entro il 2030 soprattutto grazie al
settore dell’industria ad alta tecnologia.
È una delle economie più dinamiche dell’Asia.

La povertà in Myanmar è sproporzionatamente concentrata nelle aree rurali, luoghi in cui c’è
un aumento consistente di famiglie che vivono vicino alla soglia minima di povertà.
La Birmania, tra i paesi ASEAN, ha un’aspettativa di vita bassa(66 anni) e il secondo più alto
tasso di mortalità neonatale e infantile. Meno di un terzo della popolazione ha accesso alla
rete elettrica, la densità stradale rimane bassa, e le connessioni ITC sono ancora poco
sviluppate. Grazie ai due operatori di telecomunicazioni privati che hanno iniziato ad operare
in Myanmar alla fine del 2015, si dovrebbe registrare in questi anni un significativo aumento.

A partire dal 2011, il Myanmar è diventato il paese delle riforme. Anche se alcune riforme non
funzionano come previsto, le riforme già intraprese non hanno solo un valore simbolico per il
paese o cosmetico per la comunità straniera. Si tratta, invece, di riforme che pare stiano
contribuendo a cambiare una volta per tutte la mentalità ristretta presente negli ultimi 50
anni in Myanmar. Gli ultimi anni, infatti, hanno visto un consistente aumento di libertà
politiche e civile e una significativa riduzione nei conflitti armati. Allo stesso tempo, però,
nuove tensioni e sfide sono emerse, tra cui numerosi episodi di violenza nelle aree di
minoranza etnica.

Il quadro triennale di riforme economiche e sociali è chiamato FESR, individua le priorità


politiche per il periodo che va dal 2012 al 2015. Si può considerare un programma “ponte”
fra Long-Term National Planning and Economic Development, programma ventennale del
2011 (precedentemente, nel 2001, trentennale con il National Long-Term Plan) e il primo
Short Five Years Plan (2011-12 al 2015-16).
Il FESR presenta come temi di lavoro di breve/medio termine: tasse, politica monetaria e
finanza, commercio e investimenti, sanità e istruzione, sicurezza alimentare e agricola,
governance e trasparenza, telefoni cellulari e internet, infrastrutture, e efficacia e efficienza
del governo. La vision del FESR è che la Birmania diventi una nazione moderna e sviluppata
che incontri le aspirazioni della popolazione di una vita migliore, e raggiunga una grande
integrazione con la comunità internazionale dal 2020.
Alcuni imperativi sono stati stabiliti per dare allo stato una direzione nazionale, come appunto
mantenere la pace e la stabilità. Inoltre il FESR sottolinea l’importanza di muoversi verso
un’economia orientata al mercato. A questo proposito, il FESR ha identificato le seguenti
quattro aree di priorità politiche:
 Sviluppo industriale per raggiungere le economie mondiali e il raggiungimento della
riduzione della povertà e dello sviluppo rurale;
 Condivisione equa delle risorse, promuovendo nel contempo gli investimenti stranieri e locali
per lo sviluppo regionale;
 Attuazione efficace dello sviluppo incentrato sulle persone attraverso approcci partecipativi
guidati dalla comunità e miglioramenti dell’istruzione, della salute e degli standard di vita;
 Raccolta affidabile e accurata di dati statistici e altri dati per informare meglio le
decisioni di politica pubblica.

L’attività di monitoraggio e controllo viene considerata fondamentale per la riuscita del piano
e le sue evoluzioni future. Per questo motivo gli obiettivi ed i risultati del FESR sono
supervisionati dalla Planning Commision presieduta dal Presidente. Un problema di rilievo
che presenta lo stato del Myanmar è il reperimento di dati affidabili. Inoltre, come già visto
precedentemente e come in parte verificato anche per i piani a medio e lungo termine del
Myanmar, la sfida maggiore che un governo deve affrontare è il passaggio dalla ideazione alla
realizzazione.

Dati emergenti a confronto


I paesi scelti per l’analisi dei piani strategici nel continente asiatico, sono innanzitutto tre
paesi del Sud dell’Asia. L’India è nel sud-ovest, le Filippine nel sud-est, e il Myanmar nel
centro-sud dell’Asia.
Sono tre paesi con storie differenti, seppur tutte provenienti da una storia coloniale di
matrice anglosassone,e con caratteristiche geografiche diverse, difatti l’India è un’enorme
penisola, le Filippine sono tante piccole isole e il Myanmar è un medio stato che presenta
comunque una parte marittima.

L’India ha una popolazione enorme, seconda solo alla Cina, ma con una superficie molto più
piccola, e, quindi, una densità di popolazione certamente maggiore. Le Filippine hanno un una
popolazione di 100 milioni di residenti e piú di 11 milioni di residenti all’estero. La Birmania ha
solo 53 milioni di abitanti distribuiti su una superficie che è più di due volte quella delle
Filippine.
I tre paesi asiatici mostrano un orientamento specifico delle strategie verso lo sviluppo
economico. L’India, ad esempio, ha perseguito lo sviluppo economico negli ultimi venti anni
e in gran parte lo ha anche raggiunto, lasciando un po’ indietro gli altri elementi dello
sviluppo umano che determinano poi la sua posizione del HDI rank, addirittura più bassa
delle Filippine. Anche la Birmania ha come primo obiettivo lo sviluppo economico
presupponendo che da esso derivi lo sviluppo umano, ma a differenza dell’India che segue
il suo percorso strategico da più di venti anni, la Birmania è appena all’inizio.

Le Filippine e l’India presentano dei piani a medio termine e ambedue utilizzano il


quinquennio come tempo di sviluppo programmato. Il Myanmar invece ha formato il suo
programma trentennale, diventato poi ventennale, all’interno del quali ci sono i due piani
quinquennali, e poi un programma ponte cioè il FESR triennale. In realtà il governo Birmano,
ha iniziato la propria pianificazione di sviluppo per poter accedere alla cooperazione
internazionale ed ai piani di sviluppo delle agenzie speciali intergovernative e ancora sembra
si debba distaccare completamente da quella logica. Cosa molto differente avviene in India e
nelle Filippine, paesi che nei loro ultimi piani a medio e lungo termine mettono ben in
evidenza la reale voglia e necessità di autonomia e di impegno della popolazione residente.

Tra i tre le Filippine si presentano maggiormente bilanciate. Presentano uno sviluppo umano
rispettabile, ed è il migliore tra i tre.
Un’altra similitudine tra i piani strategici dell’India e delle Filippine è l’attenzione alla buona
governance, chiedendo addirittura un controllo cittadino sulla mala gestione e corruzione.
Per motivazioni differenti sia India che la Birmania hanno difficoltà nella formazione di dati
certi. La prima per motivi di grandezza del paese e di popolazione, la seconda per la mancanza
di un censimento e di strutture per il reperimento di dati.
Tutti e tre i paesi presentano una grande differenza di sviluppo umano tra gruppi di
popolazione.
L’India, comunque, resta il paese con il più accurato, innovativo e professionale
piano strategico.

In tutto, abbiamo analizzato tre tipologie di Nazioni: un’area in via di sviluppo ormai
avanzato(Sud Africa e India), un’area in via di sviluppo lento ma costante(Etiopia e Filippine),
un’area che si è appena affacciata all’idea di sviluppo strategicamente perseguito(Bénin è
Myanmar)
4. LA STRUTTURA DELLA PROGRAMMAZIONE STRATEGICA PER LO SVILUPPO
4.1 I PROGRAMMI DI SVILUPPO: IL MODELLO DELLE SCATOLE CINESI
Il territorio ha bisogno di tempo per raggiungere lo sviluppo umano desiderato, non può realizzare il suo
piano strategico in 5 anni come un’azienda. D’altro canto, è vero che le strategie territoriali sono legate al
potere politico, quindi a un tempo limitato. Queste sono due caratteristiche che non si conciliano bene
con un serio percorso di sviluppo umano: disfacendo e rifacendo i piani più volte nell’arco del tempo, col
cambiare di chi ha il potere politico, difficilmente si arriva a un vero e persistente sviluppo. L’instabilità
politica, quindi, risulta uno dei principali ostacoli.
L’altra anomalia è che quando si studiano i piani annuali o triennali, c’è sempre il riferimento a un
altro piano che si occupa dell’implementazione. Ciò crea un sistema di scatole cinesi che non permettono
mai di arrivare all’implementazione dell’azione, e soprattutto nella confusione fanno smarrire le tracce
della responsabilità: con questo sistema può esserci, ad esempio, un piano per migliorare l’istruzione
delle aree tribali, ma poi la sua implementazione si perde tra le scatole cinesi della programmazione
strategica, non consentendo di comprendere la responsabilità e di monitorare gli effetti delle strategie
stesse. Uno dei problemi principali è il passaggio dalla pianificazione all’implementazione: tutti i governi
hanno piani strategici e piani operativi, ma in diversi casi non ci sono tracce di programmi di
implementazione. Spesso questa viene affidata alla società civile, agli enti non governativi, a volontari e a
progetti internazionali. Il piano strategico rappresenta, in questo senso, più una dichiarazione di intenti
che un vero programma di lavoro a medio o lungo termine.
Il piano strategico di un governo è o diventa, quindi, un vero e proprio manifesto politico, programma che
rispecchia uno scenario tendenzialmente molto positivo, non sempre rispondente alla realtà. Per questo
motivo, è importante che i piani non siano facilmente controllabili e valutabili dall’elettorato.
Un altro elemento emergente è che il piano strategico sia una necessità più che un’esigenza: è
importante compilarlo per mostrare alle Nazioni Unite l’intenzione e la capacità di portarlo a termine per
ottenere finanziamenti e competenze internazionali. Quindi omologarsi agli altri paesi non è una priorità.
In altri casi, l’intenzione del paese è principalmente quella di perseguire uno sviluppo economico,
ma nei loro piani sono indicati tra gli obbiettivi, ovviamente, anche gli altri due pilastri dello sviluppo
umano. Questo per due ragioni: convincere l’elettorato che si ha a cuore la risoluzione dei problemi
sociali, mostrare alle Nazioni Unite l’intenzione di rispettare gli obiettivi indicati per lo sviluppo umano.

4.5 LA COMUNICAZIONE
Esistono due tipi di comunicazione: interna ed esterna. La prima è necessaria per il coinvolgimento della
popolazione e per l’informazione stessa, la seconda aiuta la costruzione dell’immagine o la comunica
all’esterno. La comunicazione esterna non è mai menzionata nei piani strategici, eppure la comunicazione
di questi (non sempre accessibili dal web), dei progetti, la pubblicazione dei budget, le relazioni che si
instaurano con altri paesi o con gli enti intergovernativi, sono tutte azioni di comunicazione che si
svolgono, ma senza lasciare traccia evidente nei piani strategici.

5. IL MACRO-MANAGEMENT DELLO SVILUPPO


5.1. INTRODUZIONE
Il modello di sviluppo di un paese non può essere universale a applicabile a tutti i paesi, ma deve essere
legato alle sue peculiarità, alla sua storia, al suo sistema sociale, culturale e economico, e creato dal paese
stesso. A questo punto si intende fornire un metodo che permetta a ogni paese di pianificare e gestire il
proprio processo di sviluppo.

5.2 Il circolo virtuoso dello sviluppo


5.1 Il ciclo della povertà e dello sviluppo
In economia il ciclo di povertà è “l’insieme di fattori o eventi in base a cui la povertà, una volta avviata, è
probabile che continui a meno che non ci sia un intervento esterno”. È un fenomeno in cui le famiglie
sono intrappolate nella povertà da almeno tre generazioni con risorse limitate o nulle. È impossibile per
gli individui rompere questo cerchio e uscire dalla povertà in mancanza di risorse necessarie come il
capitale, l’istruzione e la salute. Il rischio è che i poveri restino poveri per sempre; ciò, associato ai paesi è
definito “trappola dello sviluppo”. Il circolo virtuoso di sviluppo umano sostenibile, al contrario, è
composto dalla coesistenza di cinque fattori: standard di vita, istruzione, salute, qualità e persistenza (gli
ultimi due sono fondamentali).
La mancanza di uno solo di questi, come dimostra la storia, fa sì che il circolo diventi vizioso, ignorando i
problemi, più che risolvendoli.
Abbiamo tre attori fondamentali per lo sviluppo umano sostenibile:
-il Sustainable Development State: Uno stato di sviluppo sostenibile deve tendere ad essere un attore
forte nelle dimensioni dell’economia, della salute e dell’istruzione di una nazione, cercando di mettere
insieme sviluppo economico, sociale e umano. Si appoggia a una strategia che vede il governo lavorare
sulle politiche nazionali con un sistema top-down;
-gli attori non governativi: non devono diventare para-stati, prendendo il posto dei governi, ma devono
supportarli in modo che le politiche nazionali raggiungano le aree territoriali più remote (secondo un
approccio bottom-up). Possono essere utili anche per formare nuove competenze in molti servizi
essenziali, come operatori sanitari, insegnanti, architetti ecc., attraverso professionisti stranieri supportati
da capitali internazionali. In questo modo, la manodopera locale potrebbe essere addestrata a utilizzare
strumenti innovativi per lo sviluppo.
-comunità internazionale: i finanziamenti internazionali sono una grande risorsa. Molti paesi sono
coinvolti nel circolo vizioso della povertà perché manca la crescita dei tre fattori del ciclo. Superare le
barriere della povertà in questi paesi richiede uno sforzo concentrato su molti fronti e si richiede una
spinta massiccia per trasformare il ciclo vizioso della povertà in un circolo virtuoso dello sviluppo.

5.2 Il ciclo di vita dello sviluppo


Il ciclo di vita di un’impresa descrive il cambiamento come il susseguirsi di fasi di sviluppo. La curva teorica
del ciclo di vita di un’impresa vede sull’asse delle ascisse il tempo e su quello delle ordinate il valore
dell’impresa. La curva è divisa in quattro fasi:
-start-up (fondazione dell’impresa): questa fase comprende tutte le attività necessarie per creare
un’impresa dal punto di vista formale. Nella fase iniziale, la maggior parte delle imprese evidenzia una
fase avvio del proprio sviluppo, che inizia con la partenza dell’attività aziendale e termina con lo sviluppo
costante, solitamente tra il secondo e il quinto anno di esercizio.
-crescita: si contraddistingue per l’aumento della domanda e delle vendite, ciò comporta un incremento
del valore dell’impresa;
-maturazione: l’azienda si è stabilizzata, la cultura organizzativa interna è efficace e la produzione
efficiente e le strategie sono volte al mantenimento e non allo sviluppo.
-cambiamento: qui c’è la necessità di affrontare uno shock che può portare a una rinascita, che da nuovi
impulsi all’impresa, o a un declino.
Una regola generale stabilisce che tre quarti delle cause scatenanti lo sviluppo riguardano la
gestione aziendale, sono cause interne. Però possono esserci anche cause esterne come la variazione
dell’ambiente politico, economico o sociale. Se si verificano contemporaneamente o se non si riesce ad
arginarle in tempo, può nascere una situazione di difficoltà che costringe l’azienda a fallire o a
riposizionarsi, in questo caso si parla di <<turnaround>>.

Il ciclo di vita rappresenta un fondamentale strumento di analisi da porre alla base della pianificazione
strategica: comprendere a che punto è l’organizzazione nel suo ciclo di vita orienta le scelte strategiche da
intraprendere.
Anche nel caso dello sviluppo di un paese in trasformazione, è molto importante capire a che punto del
ciclo di vita ci si trova, oltre che prevedere verosimilmente le fasi di sviluppo future. In questo caso le
caratteristiche sono differenti: sull’asse delle ascisse troviamo sempre il tempo, e su quello delle ordinate
troviamo l’HDI, che si divide in low, medium e high. l’incrocio tra i due divide il ciclo in fasi:
-start up: è la fase di avvio dello sviluppo proprio come per l’azienda, ma in questo caso non esiste la
nascita del paese, si parla piuttosto di un passaggio da un low HDI a un medium HDI, si tratta della fase
più complessa perché l’apporto di competenze e capitali da paesi stranieri è fondamentale per il
raggiungimento dei risultati prefissati;
-hang on: è una fase molto delicata, qui il paese inizia ad avere sempre meno bisogno dei capitali
stranieri, mantenendo regolare o addirittura aumentando l’HDI sempre più con le proprie risorse;
- self development o welfare: a questo punto si possono aprire due scenari. Il primo rappresenta
l’evoluzione dello sviluppo che prevede la totale indipendenza del paese, il secondo invece rappresenta
una recessione sia come sviluppo che come autonomia, rendendo di nuovo il paese dipendente
dall’assistenza dei paesi stranieri.

Questo ciclo di vita dello sviluppo si basa sull’HDI, ciò rende difficile che si verifichino i cosiddetti “fuochi
di paglia”, che vedono una velocissima crescita seguita da un altrettanto rapido declino: questi si
verificano quando viene preso in considerazione solo il fattore economico.
Tuttavia si possono verificare cicli di vita sbilanciati come quello Indiano, che seppur abbia raggiunto un
medium HDI presenta un disequilibrio in favore del fattore economico a danno di salute e istruzione.
Il ciclo, per essere uno strumento efficace per la pianificazione strategica, deve essere scisso in tre parti
distinte: una per ciascuno dei fattori dell’HDI: questo permette di orientarsi meglio per la decisione del
piano strategico da attuare.

5.3 Un modello di sviluppo globale (Overall Development Management Model)


I capitali e le competenze internazionali sono una chiave per l’avvio dello sviluppo, ma devono avere un
inizio e una fine: l’intenzione deve essere la creazione di uno sviluppo autonomo, non per rendere
dipendenti i paesi deboli.
La considerazione degli attori coinvolti e la conoscenza delle competenze indispensabili sia nel breve che
nel lungo periodo sono necessari per la progettazione di una crescita complessa, equilibrata e sostenibile.
L’insieme delle esigenze di un percorso di sviluppo di un paese caratterizzato da un medio o basso
sviluppo umano, insieme all’inevitabile carenza di competenze, rende complesso per il governo definire le
priorità rispetto alla necessità di risultati nel breve termine. Un modello di sviluppo sostenibile che dia
effetti anche nel breve termine ha la necessità di coinvolgere la popolazione attraverso le comunità, le
associazioni, le fondazioni, le NGO nazionali e internazionali che lavorano già sul territorio.
La carenza delle competenze professionali è un problema perché l’utilizzo di competenze estere per i
processi di sviluppo presenta il limite della scarsa conoscenza del territorio, d’altro canto i riferimenti
locali mancano delle professionalità necessarie per la progettazione dello sviluppo. È per questa ragione
che è fondamentale la creazione di un gruppo di lavoro sinergico, compisti da attori non governativi locali
e professionalità internazionali: ciò porterebbe al superamento delle due problematiche appena citate.

Quello che proponiamo qui non è un modello di sviluppo, ma l’indicazione di un percorso di crescita e gli
strumenti di supporto alla programmazione strategica, i quali concilino le esigenze della popolazione con
quelle politiche. Parliamo quindi di Overall Development Management Model. “Overall development”
intende uno sviluppo umano, bilanciato, a lungo termine e indipendente; “Management Model”
rappresenta il metodo e gli strumenti necessari per raggiungere e gestire tale sviluppo.
Il percorso indicato è fondato sull’idea di ciclo di
vita, quindi sull’intenzione del paese di iniziare il
suo percorso di crescita.
1= Come mostrato in figura, nella fase di start-up
intervengono il “Sustainable Development State”
(SDS= lo stato che intende avviare lo sviluppo
sostenibile: quindi economico, sociale e umano), la
comunità internazionale (IC), attraverso piani
bilaterali o multilaterali, e gli attori non governativi
(NGA). (quindi è una partnership pubblico-privata:
attori pubblici: SDS, IC; attori privati: NGA)
In questa fase SDS e IC hanno lo stesso peso nel
processo di sviluppo: è vero che il primo
rappresenta il fulcro del processo di sviluppo, ma la
IC fornisce risorse materiali e immateriali allo stato
per l’avvio del processo e per la realizzazione di una
crescita bilanciata e repentina. Le NGA, invece, in
questa fase hanno solo il compito di implementare
il programma di sviluppo sul territorio coinvolgendo
la popolazione (per implementare il sistema bottom up a quello top down).
In questa fase, i 5 step di programmazione sono: analisi strategica(A), identificazione delle strategie(S),
pianificazione(P), implementazione(I) e controllo(C).
Questi step, ricordiamo, vanno composti con le caratteristiche distintive di ciascun paese creando un
percorso di sviluppo che ne rispetti la cultura.
2= nella fase di hang on il paese deve mantenere la crescita abbandonando gradualmente le risorse
estere. La società civile e la popolazione che essa rappresenta in questa fase iniziano ad avere un peso
specifico anche per la programmazione dello sviluppo. Il perno del programma di sviluppo è l’SDS, seppur
ancora con un leggero supporto delle istituzioni internazionali. Gli attori menzionati compongono in modo
progressivo le prime 4 delle 5 aree di sviluppo sopra citate, mentre l’ultima, quella di controllo, viene
utilizzata come interfase per monitorare il piano e l’andamento delle fasi precedenti.
Al termine di questa fase si hanno come attori principali l’SDS e gli NGA (acquisisce un crescente ruolo per
l’implementazione e consolidamento delle attività di sviluppo sui territori), che formano insieme la
programmazione strategica e operativa del paese, implementandola sempre in modo sinergico e
realizzando appieno il processo di sviluppo basato sull’approccio strategico top down e bottom up.
3, ipotesi 1= Nel self development gli step previsti sono infiniti, dato che infinita dovrebbe essere la
durata della fase. La progressione degli step è la stessa della fase precedente, con la fase di controllo che
si ripropone più volte durante tutto il percorso di programmazione.
3, ipotesi 2= se durante la fase di hang on il paese non riesce a progredire verso uno sviluppo autonomo,
manifestando il bisogno sempre maggiore di aiuti internazionali, si regredisce in una fase di welfare. In
questo caso il metodo immaginato può essere comunque utilizzato per la pianificazione, anche se in
genere vengono attuati piani di cooperazione internazionale tradizionalmente intesa.

5.4 Il processo di sviluppo di un’area territoriale


I. Gestione del processo di sviluppo per fase
Una volta compreso in che fase del ciclo di vita dello sviluppo del paese ci si trova al momento
dell’attivazione strategica, è fondamentale stabilire una vision di lungo termine che serve come
orientamento generale all’interno del quale devono muoversi i piani strategici. Poi si devono definire i
parametri obbiettivo di ogni singola fase: si può dire, ad esempio, che la fase di hang on è volta al
raggiungimento del medio HDI, che superato porta al self development. I paesi in via di sviluppo si
trovano in fasi diverse a seconda dei fattori presi in considerazione: ad esempio, l’India si trova in una fase
iniziale dell’Hang On, ma per l’istruzione si trova in una fase di Start Up. Il motivo per cui si trova in una
fase di hang on è prevalentemente legato all’economia, il cui valore è così alto da compensare alla
mancanza di salute e istruzione nell’HDI, dando come risultato un valore medio.
In questo senso, il ciclo di vita deve tenere conto anche della fase di start-up di quei paesi che presentano
un HDI medio che viene dato da una variabile predominante, indicativa di uno stato di disequilibrio.

II. Analisi e pianificazione strategica


La strategia presenta un contenuto essenzialmente descrittivo di situazioni e azioni, mentre la
programmazione strategica indica le procedure definite per dare al processo decisionale un ordine
razionale e regole condivise all’interno dell’organizzazione, alle quali ci si deve attenere.

La programmazione strategica dello sviluppo di un’area in trasformazione si compone di 5 macro fasi:


- analisi strategica;
- formulazione degli obiettivi;
- definizione della strategia;
- pianificazione operativa (delle risorse umane, economico-finanziarie e della comunicazione);
- implementazione e controllo.

La SWOT analysis è la fase preliminare della programmazione strategica. È composta da analisi esterna
(OT= opportunity, threats) e interna (SW=strenght, weakness).
L’analisi esterna si serve dell’analisi PEST per valutare sotto forma di opportunità e minacce i fattori
esterni alle aziende e i cambiamenti:
- politico-istituzionali(P): gli aspetti politico istituzionali mondiali e dei paesi vicini rappresentano, per la
programmazione strategica di sviluppo di un paese, un elemento importante: se la comunità stabilisce
l’aumento dei fondi, chiaramente ciò costituisce un’opportunità per il paese in via di sviluppo che ne
beneficia, in caso contrario diventa una minaccia.
- economici(E): l’andamento economico dei paesi occidentali ha un riscontro sui paesi che hanno la
necessità del loro supporto. Il periodo di crisi economica che ha colpito i paesi ricchi nel 2008, ad
esempio, ha scaturito una riduzione degli aiuti ai paesi in difficoltà.
- socio-culturali(S): conoscere le peculiarità culturali sia del mondo che delle aree di riferimento è
importante: la cultura di un paese si confronta sempre, in un processo di sviluppo, con la cultura
proveniente dal mondo. Un esempio è la riduzione dell’importanza delle caste in India, chiaramente
divenuto elemento di un programma di sviluppo perché influenzato dal sistema culturale mondiale.
- tecnologici(T): le nuove tecnologie influenzano e facilitano i processi di sviluppo, creando molte
opportunità per le aree in trasformazione. I cambiamenti tecnologici possono anche rappresentare delle
minacce: pensiamo alle nuove armi di distruzione di massa. Gli effetti della globalizzazione a riguardo
delle nuove tecnologie, hanno portato i paesi industrializzati a spostare il focus da una sanità nazionale a
una globale, di cui sicuramente beneficiano, almeno in parte, anche le economie in trasformazione.

Le variabili analizzate sotto forma di minacce e opportunità sono sempre incontrollabili, ciò vuol dire che
è impossibile influenzarne l’andamento, ma se ne è costantemente influenzati.
Il benchmarking è uno strumento di analisi esterna. Il termine, letteralmente, esprime il concetto di
“parametro di riferimento”. Indica nella sua accezione più generale l’osservazione attenta e metodologica
delle organizzazioni eccellenti a livello mondiale.
L’obiettivo dell’analisi interna è portare in evidenza un quadro preciso del paese. Per farlo, è necessario
confrontare i fattori esterni su menzionati con le competenze, le capacità e le risorse interne al paese.
Questi elementi sono controllabili, ossia modificabili dal paese stesso. Essi sono valutati come punti di
forza o di debolezza, in modo da permettere al paese di comprendere su cosa puntare in una fase di
pianificazione strategica e quali sono i punti deboli da rafforzare.
Per l’analisi interna è possibile utilizzare il modello VRIO, che individua le caratteristiche importanti delle
risorse possedute dall’organizzazione.
-Valore: la risorsa deve essere in grado di sfruttare un’opportunità;
-Rarità: vedere se c’è qualcun altro che la possiede.
-Inimitabilità: non vuol dire sempre difficoltà di imitazione, ma impiego di denaro maggiore, non
posseduto dalla concorrenza. Se l’imitazione è possibile, si trasforma in debolezza.
-organizzazione: bisogna capire se si è organizzati per gestire quella risorsa.
Questi quattro fattori, combinandosi, generano situazioni di svantaggio, parità, vantaggio
temporaneo o vantaggio durevole.

Il risultato della SWOT dovrebbe essere la comprensione della situazione del paese, delle competenze
distintive, di ciò che risulta necessario sviluppare, acquisire o eliminare per il raggiungimento degli
obiettivi e per la realizzazione della vision (che è lo scenario che si vuole vedere nel futuro: non è un
concetto astratto, ma molto concreto. È il “sogno” che definisce lo scopo per cui un’azienda esiste.)

III. La definizione degli obiettivi


- obbiettivi strategici: sono composti da obbiettivi generici (impact) indicano, in modo ampio, la direzione
del progetto per pilastri fondamentali. Questi possono essere scissi in altri sotto-obiettivi, gli obiettivi
specifici (outcomes), che definiscono meglio gli scopi che si intende raggiungere. Questi indicano i
risultati attesi e sono misurabili e controllabili. Essi possono essere assoluti, se vogliono di eliminare
completamente una condizione negativa (azzerare la fame nel mondo, come il primo SDG per il 2030), o
relativi (come ridurre l’impatto dell’HIV negli adulti da un valore tot a un valore tot).
- obbiettivi operativi: (outputs) insieme aiutano a raggiungere gli obbiettivi specifici globali.

-mission: insieme degli scopi che l’organizzazione persegue per raggiungere la vision.
A differenza della vision deve essere distinta per le tre fasi di sviluppo.
Nella fase di start up del paese essa può essere, per esempio: raggiungere una forte crescita bilanciata e
sostenibile dell’HDI in 5 anni. Ne ricaviamo che all’interno della mission vengono definiti gli impacts, cioè
gli obbiettivi generali. Nella fase di hang on la mission dovrebbe essere una crescita sostenuta ma più
stabile, aumentando l’indipendenza da aiuti stranieri. In quella di self development la mission non può
che essere il mantenimento della posizione raggiunta e la tendenza positiva di crescita in autonomia.
Nella fase di welfare, il paese tende a restare in attesa dello sviluppo, senza renderlo una vera mission, ma
agendo per aree di emergenza sotto la sollecitazione della comunità internazionale. Quindi il paese in
questo caso tende a restare un satellite dei paesi forti, una “colonia” consapevole o inconsapevole dei
paesi forti, in cambio degli aiuti internazionali.

IV. La definizione delle strategie


Rappresenta la terza fase del processo di programmazione. Le strategie a cui nel macro-management un
paese può riferirsi sono esclusivamente: alcune tra le strategie di corporate e quelle funzionali (=verso
uno solo dei settori dello sviluppo umano), escludendo quelle competitive (approfondite nel prossimo
capitolo). La scelta della strategia varia anche in base alla fase del ciclo di vita nella quale si trova.
Nell’impresa, l’accezione di sviluppo è ricondotta allo sviluppo monosettoriale e polisettoriale. Nella
dimensione macro, l’accezione di sviluppo si riconduce, esclusivamente, a uno sviluppo complessivo e
settoriale. Ad esempio, l’integrazione verticale è una strategia di sviluppo utilizzata sia per la crescita
complessiva del paese che per quella settoriale. Essa, nel macro, può essere attuata attraverso
l’acquisizione da parte del paese del controllo di uno stadio di produzione o distribuzione legato a quello
in cui già opera. Può verificarsi a monte (integr. Ascendente) o a valle (integr. Discendente): a monte, il
paese internalizza elementi precedentemente acquisiti all’esterno; a valle, il paese decide di occuparsi di
alcune questioni (come i presidi medici) senza affidarsi alla IC.
La strategia di corporate più usata oggi è quella basata sugli accordi: gli accordi con altre organizzazioni
possono aiutare a: costruire lo sviluppo (inizialmente le competenze straniere possono offrire i servizi e
contemporaneamente formare le persone in loco); condividere i costi, gli impegni e i rischi; migliorare la
qualità dei servizi; massimizzare i risultati. Un paese, prima di avviare una collaborazione, deve definire gli
obbiettivi prioritari di breve, medio e lungo termine che vuole raggiungere con essa. Dopo può
identificare il tipo di collaborazione e di partner di cui ha bisogno e cosa può offrire. Il passo successivo
per ottenere i massimi risultati è la creazione di fiducia reciproca, per agire di comune intesa. Poi è
fondamentale definire la leadership. Una volta che l’accordo è stato stipulato, le organizzazioni devono
cercare di operare in sintonia fino a che il progetto resta in vita.
La matrice di Parente per la gestione dei rapporti in collaborazione interimpresa, in ambito micro, è utile
per supportare la valutazione degli effetti, compresi i rischi, di una strategia di collaborazione con altre
organizzazioni nel medio-lungo periodo. Questa matrice usa due dimensioni: il potenziale di sviluppo del
rapporto di collaborazione e il grado di criticità della gestione del rapporto (foto pag240).
Sviluppando la matrice secondo le due dimensioni si ottengono le indicazioni su cosa fare considerando in
quale quadrante si trova la collaborazione da valutare. La criticità aumenta all’aumento delle risorse
impiegate e il potenziale di sviluppo aumenta all’aumentare dei benefici di cui gode l’impresa.
1= Se sia la criticità che il potenziale di sviluppo sono bassi, si hanno accordi stabilizzati: non impiegano
molte risorse, ma visto che non rendono molto, non è importante preservarli, come gli accordi con le
agenzie intergoverntive (quadrante A);
2= se la criticità è alta, ma il potenziale di sviluppo è basso o nullo, il rapporto è da abbandonare (B);
3= se sia la criticità che il potenziale sono alti senza una prevalenza dell’uno o dell’altro, gli accordi sono
da sviluppare (D);
4= se la criticità è bassa e il potenziale è alto vuol dire che l’impiego di risorse è limitato e la prospettiva di
ritorni è elevata: ciò comprende i rapporti più convenienti, quelli da mantenere (C).

Nel caso di accordi tra paesi le cose cambiano: la supremazia economica e culturale dei paesi con un HDI
alto e molto alto fanno sì che siano i paesi forti a scegliere gli accordi, accettati incondizionatamente da
quelli deboli, con un potere decisionale prossimo allo zero: il rischio è quello della formazione di una sorta
di colonialismo a distanza. Lo stato di emergenza, che richiede la risoluzione di problemi a breve termine,
fa sì che si tralasci la mission di lungo termine, lasciando i paesi deboli nel welfare.
Avere una visione costante di medio-lungo periodo riguardo agli accordi e alle soluzioni che essi
prospettano per i paesi deboli è importante per valutare il reale potenziale della partnership per lo
sviluppo. Il rischio di accordi sbilanciati resta molto alto, ma la possibilità di considerare le proprie risorse
come un sufficiente bilanciamento deve entrare nella forma mentis del paese debole: i paesi deboli
potrebbero compensare alla supremazia economica con quella culturale, ma quest’ultima viene esercitata
dai paesi avanzati in misura ancora più forte rispetto a quella economica. Questa potrebbe essere
compensata con le risorse naturali che generalmente i paesi deboli hanno, ma queste “stranamente” non
vengono mai a far parte degli accordi.
L’accordo a cui si deve tendere è quello legato ai partner in cui la cooperazione viene interpretata come
uno scambio sinergico di risorse, vantaggioso per entrambe le parti, permettendo il raggiungimento di
risultati altrimenti per il singolo non raggiungibili.
Per quanto riguarda il tempo, è una dimensione importante da aggiungere alla matrice nel
momento in cui si parla di macro, visto che come abbiamo detto molti accordi possono essere utili per
affrontare l’emergenza, ma devastanti nel medio-lungo periodo(devastanti perché c’è il rischio di cadere
nello stato di welfare, di dipendenza, dall’altro paese con cui si fa l’accordo, se quest’ultimo dura molto).
La temporalità dipende da due fattori: il grado di fiducia e la potenzialità di sviluppo. Un basso livello di
fiducia e quindi un’alta criticità del rapporto, devono essere contrattuali e tendenzialmente brevi, in caso
contrario, relazioni con un basso grado di criticità del rapporto possono essere sinergiche e durature.
L’anomalia oggi sta nel fatto che la fiducia è data da una scarsa percezione del rischio nelle aree deboli e
non dalla sua assenza.

Inserendo il tempo nella matrice di Parente ci troviamo una struttura tridimensionale con maggiori
possibilità di valutazione dell’accordo stesso: il Poliedro degli Accordi.
Possono nascere 8 tipi di relazioni dall’integrazione del livello di temporalità (occasionale/stabile); con il
grado di criticità del rapporto (basso se c’è molta fiducia, oppure medio o alto) e con la potenzialità di
sviluppo (strategico/tattico):
1= accordi possibili/opportunistici: se il risultato è bilanciato tra le due parti è fattibile, ma la criticità è
alta, il tempo breve e il potenziale basso;
2= accordi da evitare: alta criticità, tempo lungo, basso potenziale: vantaggiosi solo per i partner forti;
3= accordi specifici/transnazionali: alta criticità, tempo breve, basso potenziale: questi rapporti definiti su
precisi accordi contrattuali possono portare benefici nel breve termine senza subire troppo il rapporto
sbilanciato in favore del paese dominante;
4= accordi rischiosi: criticità alta, tempo lungo, alto potenziale: il tempo aumenta la possibilità di
soccombere nel rapporto, ma l’alta possibilità di sviluppo potrebbe essere sufficiente per assumersi il
rischio.
5= accordi sinergici: bassa criticità, tempo lungo, alto potenziale: sono gli accordi bilanciati e fruttuosi per
tutte le parti, quelli a cui deve tendere il paese debole;
6= accordi stabili: bassa criticità, tempo lungo, basso potenziale: nel lungo termine potrebbero comunque
portare dei vantaggi di sviluppo limitati, ma il rischio che il paese debole incombi nello stato di welfare è
limitato.
7= accordi fruttuosi: bassa criticità, tempo breve, alto potenziale: sono consigliati per obbiettivi di
sviluppo settoriali o politici.
8= accordi inutili: bassa criticità, tempo breve, basso potenziale: sono accordi che non cambiano la
situazione con un basso potenziale in poco tempo, hanno senso solo se fatti per costruire altri rapporti
maggiormente interessanti.

La somma sinergica di queste tre dimensioni individuate determina le reali potenzialità dell’accordo
rendendo il poliedro un importante strumento tecnico manageriale in grado di aiutare i governi deboli a
compiere una ragionata scelta strategica.
Come già anticipato, oltre che di sviluppo, le strategie possono essere anche di altro tipo:
- strategie di rafforzamento/stabilità: si propongono di mantenere le posizioni raggiunte. Si verifica
quando un paese in self development avanzato è in un equilibrio secondo cui gli altri paesi non
aumentano in maniera preoccupante per lo sviluppo del paese e il mercato non richiede cambiamenti.
Sono strategie pericolose nel macro perché catastrofi naturali, crisi economiche o attacchi terroristici sono
possibili e mettono a repentaglio la stabilità del paese, facendolo potenzialmente regredire.
- strategie di risanamento: sono tipiche di organismi (paesi o imprese) che hanno subito uno shock, come
le sopracitate catastrofi naturali, che necessitano di interventi repentini ed efficaci.
- la combinazione delle tre strategie: è un’alternativa per un’area territoriale. L’influenza delle variabili
ambientali può rendere necessario che il paese adotti differenti strategie contemporaneamente per
raggiungere uno sviluppo equilibrato.

V. Pianificazione operativa.
Questa fase prevede la definizione di piani specifici molto dettagliati che individuano il tragitto che il
programma deve percorrere durante l’implementazione.

Il principale strumento che si utilizza è il Work breakdown Structure (WBS) reimpostato secondo il Logic
framework. Il WBS sfrutta un modello di esemplificazione su base gerarchica, secondo una struttura ad
albero, per la suddivisione degli obbiettivi generali, specifici, operativi e attività. Ogni obiettivo generale
scomponibile costituisce l’inizio di un ramo da cui partono rami più piccoli (specifici), più piccoli ancora
(operativi), le attività ancora più piccole e poi le foglie, cioè le singole azioni.
Per quanto riguarda il piano complessivo di sviluppo di una macroarea, abbiamo già esplicitato la
definizione di obbiettivi generali come impact e di obbiettivi specifico come outcome, in essi compresi. Ad
ognuno di questi corrispondono obbiettivi operativi (output) fino ad arrivare alle azioni, che una alla volta
porteranno al risultato finale.

La struttura articolata va collocata nella dimensione temporale, per la quale utilizziamo il diagramma di
Gantt, che permette di visualizzare la durata temporale di ogni attività, la loro sequenza e la
contemporaneità di due o più azioni. Il tempo può essere stabilito in base alle esigenze: possono essere
giorni, settimane, mesi ecc.
Il piano di lavoro redatto in questo modo chiarisce cosa fare e quando, ma non specifica l’impiego delle
risorse umane previsto per l’attività (non stabilisce chi fa cosa) : bisogna indicare la risorsa necessaria per
ogni attività operativa individuata, distinguendo gli attori interni ed esterni che faranno parte del processo
di sviluppo. Per semplificare questo processo, si usa il WBS come base per il RBS, resource breakdown
structure –struttura di scomposizione delle risorse. Nel project management si utilizza anche lo
strumento della matrice di responsabilità, per indicare i compiti e le responsabilità dei componenti del
team del progetto. Si individua chi ha il compito di supervisionare S, chi deve essere informato I, e chi ne è
responsabile R.
IL cost breakdown structure CBS, è utile nella progettazione generale. È il costo di ogni attività da
aggiungere allo schema ad albero e rappresenta parte del budget complessivo.
Il fund breakdown structure FBS indica i ricavi, le fonti dei finanziamenti, si forma sulla base del CBS,
analizzando per ogni costo i finanziamenti che vanno a coprirlo. Prima della realizzazione del piano è
necessario, nel macro ad esempio, conoscere le risorse che il governo ha a disposizione, quelle derivanti
dalle amministrazioni locali, quelle certe derivanti dalla cooperazione internazionale e quelle potenziali
del settore privato.
Il piano finanziario serve per un progetto che attinge a finanziamenti esterni, spesso pubblici: la differenza
temporale tra la definizione del finanziamento e il reperimento dei fondi causa un’anticipazione
finanziaria da parte del governo che va considerata.

In precedenza abbiamo detto che il problema dei paesi in via di sviluppo è l’implementazione delle
strategie, ma se la pianificazione strategica e operativa vengono fatte in modo accurato e preciso,
l’implementazione diviene immediata e naturale e la possibilità di mancata realizzazione diviene più rara.
Ciò aiuta alla risoluzione di un altro problema accennato nel modello delle scatole cinesi: è più facile
individuare la responsabilità della mancata realizzazione dei piani previsti.

VI. La pianificazione e gestione delle risorse umane


Le risorse umane costituiscono la base dello sviluppo delle nazioni, sono gli agenti attivi dello sviluppo (a
differenza del capitale e delle risorse naturali che sono agenti passivi), sono loro ad accumulare capitale, a
sfruttare le risorse e a portare avanti lo sviluppo nazionale. Ma il solo volume della popolazione, come
sappiamo, non basta: queste devono essere formate e gestite per diventare un’opportunità.
Abbiamo già visto che una componente dello sviluppo umano è l’equità: ogni persona ha il diritto di vivere
una vita appagante, conforme alle sue aspirazioni e ai suoi valori. La disuguaglianza non solo rallenta il
processo di sviluppo, ma talvolta lo impedisce. Un importante passo, quindi, da compiere per la
sostenibilità dello sviluppo è livellare le competenze delle risorse umane, tramite l’organizzazione, cioè il
lavoro condiviso.
L’organizzazione è composta da persone che lavorano insieme in modo collaborativo.
Le variabili dell’Human Resource Management HRM sono:
1) struttura organizzativa: è una struttura complessa, in quanto vede la partecipazione, soprattutto nella
fase di start up, di attori differenti.
-struttura gerarchico-funzionale: c’è un direttore generale + un direttore per ogni funzione;
-divisionale: si divide in accentrata, quando il direttore generale, il direttore per le varie funzioni, i
responsabili vendite e produzione sono diversi solo in relazione a prodotti diversi: se produco iphone e
ipad posso avere un unico ufficio di ricerca e sviluppo, mentre la divisione riguarda in questo caso solo
produzione e vendite, mentre marketing, acquisti e gestione del personale sono accentrate. Decentrata è
quando ogni funzione è decentrata in relazione a ciascun prodotto: divisioni distinte di marketing,
gestione personale, acquisti ecc per iphone e ipad.
-per progetto: c’è un primo livello funzionale riguardante produzione, vendite e marketing, poi c’è la
divisione in vari progetti: ogni singolo progetto ha il suo responsabile, che selezionerà dalle varie sezioni il
personale per il proprio progetto. È una struttura tipica dei progetti temporanei, come del teatro e del
cinema: quando finisce il progetto 1, le persone possono tornare alla propria posizione di partenza nel
primo livello funzionale, per poi passare al progetto successivo.
-matriciale: quando il progetto non è temporaneo, ma fisso, c’è anche in questo caso sia un direttore della
progettazione che un direttore del progetto, poi ogni progetto ha le sue funzioni dedicate. È quella usata
nei programmi di sviluppo.
2) cultura organizzativa: L’organizzazione in evoluzione, proveniente da un sistema gerarchico, deve
essere permeata inizialmente dalla cultura del clan, data la necessità di motivazione e affidamento,
tendendo verso una cultura organizzativa adhocratica, cioè una divisione in piccoli gruppi supportati da
organi di staff professionali, necessaria soprattutto allo sviluppo dimensionale.
3) stile di leadership: deve essere uno stile peculiare, in grado di tenere in ampia considerazione le tipicità
del programma strategico, le criticità esistenti, i punti di forza e le reali possibilità di sviluppo.
Come si può notare, il modello HRM non è affatto quello adottato oggi nei paesi in via di sviluppo:
le risorse umane impiegate nei processi di sviluppo sono risorse pubbliche, despecializzate e demotivate.
Il discorso è diverso sia per quanto riguarda la comunità internazionale, che vede risorse altamente
specializzate, competenti e abituate a lavorare per i progetti, che per quanto riguarda la società civile, in
cui le risorse manifestano un’altissima motivazione: lo sviluppo del territorio gestito dal basso, da chi
sceglie di impegnarsi in un’area rinunciando a un lavoro magari più proficuo, deve necessariamente tener
conto delle motivazioni che hanno spinto quest’ultimo a operare questa decisione, che poi fa la
differenza. La capacità di collaborazione nelle organizzazioni del terzo settore, legata a una fiducia
reciproca e verso il leader, deve divenire un fondamento organizzativo per tutto il gruppo di lavoro
impiegato nel processo di sviluppo.
In conclusione, il programma di sviluppo che si ritiene corretto ha una struttura matriciale, una
cultura organizzativa adhocratica e uno stile di leadership ibrido trasformazionale e transnazionale.
Legare al modello un sistema di premi etici, economici, culturali e sociali può motivare le risorse esistenti
e ridurre l’emigrazione delle professionalità valide verso altri settori e altre città/paesi.
- Nella fase di start up, c’è un forte impegno nella pianificazione organizzativa in modo tale da permettere
alla struttura di produrre maggiori risultati in minor tempo e con un impiego inferiore delle risorse
economiche.
- Nella fase di hang on le peculiarità che rappresentano la forza del funzionamento del sistema, quali
coesistenza stabile dei sistemi bottom up e top down e l’aumento dell’autorità del SDS rispetto alla IC,
non trovano un riscontro complessivo in un sistema già teorizzato. Per questa ragione ci rifacciamo al
modello di funzionamento del sistema solare. Il Sole, nel nostro caso, rappresenta il SDS e la varietà di
corpi celesti che orbitano seguendo una traiettoria precisa intorno ad esso sono i piani operativi. Essi sono
legati grazie alla forza di gravità, che nel nostro esempio sono uno stile di leadership sempre più
transnazionale. Il vento solare si propaga nell’atmosfera, analogamente la governance genera la cultura
organizzativa adhocratica che si propaga nell’organizzazione e permea l’ambiente in cui si muove il
processo di sviluppo. La governance così regola il funzionamento dei piani operativi (corpi celesti).
Attorno ai piani, come i satelliti dei pianeti, ci sono le NGA coinvolte. Attorno alla governance, invece
come le comete, avremo le agenzie intergovernative e la IC.
Così come abbiamo visto prima, il funzionamento dei piani è regolare e regolato dalla governance, proprio
come le orbite dei pianeti, mentre quelle di NGA e IC, rappresentati da satelliti e comete, sono meno
stabili e la considerazione del loro apporto presenta rischi consistenti.
Ogni piano, quindi, anche se permeato delle leggi del sistema solare, è un pianeta indipendente
comprende un gruppo di lavoro differente e dei professionisti esterni che lo circondano e lo supportano.
Naturalmente, se morisse il sole morirebbe anche il suo sistema, ma questo con l’SDS non è possibile
perché se c’è la sostituzione del SDS, ciò non comporta la morte del sistema di sviluppo, ma sicuramente
ne provoca il cambiamento, cosa che rappresenta comunque una criticità su cui intervenire prima
possibile. (l’instabilità politica è una delle cause della marginalità).
- Nella fase di self development si mantiene il modello del sistema solare. La leadership diventa
transnazionale e la cultura adhocratica e la struttura matriciale si consolidano. Qui le risorse umane sono
principalmente nazionali regionali o locali, è l’unica differenza.
- Nella fase di welfare la cultura organizzativa è legata alla gerarchia con un controllo accentrato,
accompagnato da uno stile di leadership transnazionale, o addirittura dittatoriale.

VII. La comunicazione per lo sviluppo


La metodologia di coinvolgimento EXperiment è stata ideata per favorire lo sviluppo di un territorio
attraverso la cura degli aspetti emotivi e cognitivi che ne stimolano l’adesione e la partecipazione delle
organizzazioni e dei cittadini (in tutte e 3 le fasi dello sviluppo). Questa metodologia nasce dall’idea che le
dinamiche dello sviluppo possono essere meglio comprese se si fa riferimento alla teoria della
complessità, affondando le sue radici in numerose discipline: la fisica quantistica, le neuroscienze, la
biologia, la sociologia ecc.. Il focus dell’azione è il coinvolgimento, condizione necessaria per avere uno
sviluppo che si auto-rigeneri. L’obiettivo non è il cambiamento del sistema, ma la valorizzazione delle
risorse materiali e immateriali dello stesso: un approccio che aiuta le sue parti a individuare e scegliere il
proprio cammino ne garantisce la sostenibilità nel lungo periodo.
Accompagnare un percorso di sviluppo richiede, secondo questa visione, un cambiamento di prospettiva
culturale, l’acquisizione da parte dei governi, del mondo dell’educazione, delle ONG e delle istituzioni
internazionali di un approccio sistemico che possa aiutare una nuova lettura emotiva e cognitiva delle
connessioni che caratterizzano la vita sociale ed economica di un paese.
Coinvolgere significa creare le condizioni migliori per far sentire la persona parte del processo, farla
sentire ascoltata e accolta nelle sue idee opinioni, Questo implica un uso di linguaggio coerente, la scelta
di uno spazio e di un tempo i cui costruire il setting adeguato per favorire il coinvolgimento.
Solo al coinvolgimento consegue la partecipazione: solo chi si sente parte di un progetto sente la
responsabilità di partecipare con le sue risorse al conseguimento del suo scopo.

Tutti gli attori coinvolti nella fase di start up sono coinvolti anche da Experiment: con essi progetta un
metodo ad hoc ispirandosi alle seguenti parole chiave:
- informazione: per raggiungere un numero elevato di destinatari. L’informazione, per rendere chiaro il
percorso, il suo scopo e i suoi obiettivi, deve essere trasparente, quindi il risultato di processi dichiarati,
accessibile, cioè facilmente raggiungibile e comprensibile nel linguaggio, immediata, scritta e diffusa in
modalità semplici per chi la deve ricevere;
- comunicazione: il linguaggio per informare e comunicare deve essere inclusivo, aperto e stimolante;
- condivisione: è indispensabile per il progetto di engagement (impegno sul piano civile e sociale), perché
solo così i pensieri, i progetti e le risorse dei soggetti che prendono parte al processo acquisiscono un
valore per tutti;
- coinvolgimento: solo una persona coinvolta, che si sente emotivamente parte del percorso, offre con
passione idee stimolanti al gruppo e cerca le occasioni migliori per favorire il raggiungimento dello scopo.
Solo dal coinvolgimento discende la partecipazione attiva;
- cooperazione: la cooperazione fra gli attori del territori è ciò da cui emerge lo sviluppo. Il risultato della
cooperazione è la messa in comune delle risorse immateriali e materiali per uno scopo comune. Essa
diventa possibile solo come risultato di un processo che crea le condizioni per rendere utile a tutti
cooperare (cioè coinvolgimento e condivisione).
Nella fase di hang on Experiment supporta il SDS nell’attivazione di processi di stabilizzazione della
crescita, che diventa un facilitatore del cambiamento. Se la fase di start up ha posto le fondamenta per
una nuova visione sistemica dello sviluppo del SDS, la fase di hang on spinge le organizzazioni a
contaminare altri soggetti con cui sono connessi con questa nuova visione. Il coinvolgimento si spinge fino
alla cittadinanza e diventa uno strumento per estendere la partecipazione al processo di sviluppo.

Nella fase di self development il coinvolgimento diventa auto-rigenerativo, perché capace di alimentare da
solo un progresso virtuoso. La qualità delle interazioni fra le parti del sistema è significativamente
cresciuta e giorno dopo giorno il processo dialettico derivato dal coinvolgimento vede interessi
contrapposti condividere un cammino comune. La partecipazione si è definitivamente tradotta in
cooperazione nazionale.

IX. La pianificazione economico-finanziaria


Il sistema di budgeting riguarda, nella fase di start up, l’utilizzo del CBS per i costi e del FBS per i ricavi, dei
quali abbiamo già parlato. Nella fase di hang on cambia solo per quanto riguarda le fonti del FBS, che se
all’inizio sono divise tra interne e esterne, devono progressivamente abbandonare quelle esterne, e nella
fase di self development devono essere solo marginali, da usare solo in caso di crisi o di emergenza. In
caso di welfare il budget non si conosce in anticipo. Al momento della pianificazione governativa vengono
individuate le necessità senza indicare i costi né le fonti.
Nei piani di cooperazione internazionale costi e ricavi sono sempre messi in evidenza e altamente
considerati, in certi casi il processo è a ritroso: il governo sceglie le necessità esauribili in base alla
disponibilità economica del programma. Le priorità in genere sono indicate dalla comunità internazionale
attraverso l’assegnazione di fondi a specifici settori, attività o obbiettivi internazionali.

X. Implementazione e controllo
L’implementazione deve seguire le attività e le azioni indicate nelle fasi precedenti, trasformando gli
obbiettivi in risultati, mentre il monitoraggio deve appurare che la realizzazione del pianificato porti ai
risultati previsti e, nel caso in cui ciò non si verifichi, attuare le misure per la revisione del piano per i nuovi
risultati. Il monitoraggio sul raggiungimento dei risultati serve a capire come viene implementato il piano,
se ci sono stati degli errori nella programmazione o nella realizzazione, come riportare il piano all’interno
dei binari indicati e come orientarsi per il progetto successivo.
Le tecniche di controllo utilizzabili durante l’implementazione sono:
1= identificazione dei punti di controllo, si utilizza sul Gantt, individuando momenti temporali in cui
vengono concluse determinate attività operative, effettuando un controllo su di esse;
2= misurazione degli scostamenti dei tempi, gli obbiettivi specifici sono quantitativi, quindi gli
scostamenti in positivo o negativo sono controllabili;
3= pietre miliari, si individuano elementi chiave nel piano che si monitorano per individuare scostamenti
e modificare le strategie per evitare gli effetti a catena;
4= verifiche a catena, check up del lavoro in essere, vengono fatte soprattutto nelle emergenze;
5= misurazione degli scostamenti dei costi/ricavi e il controllo del budget, cioè si controlla il bilancio
consuntivo step per step se il bilancio preventivo è stato veritiero.
Si ritiene che il monitoraggio con metodologie varie sia necessario per avere un controllo durante
e al termine dei piani e la valutazione dell’impiego dei fondi stranieri. Al termine di questa fase, i feedback
risultati andranno a comporre la nuova analisi strategica e ad alimentare la successiva programmazione.
Il problema fondamentale del monitoraggio e del controllo del processo di sviluppo in un’area in
trasformazione è la costruzione e il reperimento dei dati. Creare un processo su obiettivi quantitativi da
realizzare nell’arco di cinque anni, si assume il forte rischio di non riuscire a produrre i dati
precedentemente non esistenti o di non aggiornare in modo preciso e annuale quelli di partenza. Questo
problema si può risolvere, come già avviene in alcuni paesi, creando in affiancamento ai sistemi di
monitoraggio commissioni o gruppi responsabili della costruzione e del reperimento dei dati. Queste
sono miste, cioè composte da risorse pubbliche locali, esponenti della IC e della società civile.
Al termine della fase di hang on è importante il monitoraggio, effettuato con il sistema delle pietre
miliari e dei punti di controllo definiti partendo dal diagramma di Gantt. Bisogna assicurarsi day by day, in
una fase di stabilizzazione, che non ci si ritrovi nelle condizioni di dover ricorrere di nuovo agli aiuti
internazionali: non affrontare ogni scostamento può determinare il declino dell’indipendenza. Ciò che
accade in questa fase delicata determina se la condizione successiva sarà di self development o di welfare.
Anche in questo caso è necessaria la costituzione di commissioni addette a monitoraggio e controllo.

6. Dal macro al micro, start-up per lo sviluppo


In questa parte si affronta la creazione di una start-up per lo sviluppo di un’area territoriale, lo scopo è
mostrare come il micro-management può essere funzionale anche al macro-management. Le start-up
possono essere un valido aiuto per spezzare il circolo della povertà di cui abbiamo parlato.
Con nuove imprese nei paesi sviluppati si intendono quelle altamente innovative e tecnologiche,
mentre nei paesi di sviluppo qualsiasi tipo di attività è innovativa: un’azienda che produce beni di prima
necessità può essere una grande novità per un mercato abituato a importare.

6.1. L’IMPRENDITORE
Negli ultimi anni la figura dell’imprenditore ha assunto sempre maggiore rilevanza. Le performance di
un’azienda sono strettamente dipendenti dalle azioni di chi la dirige e ne definisce orientamenti strategici
e scelte operative. La capacità di leadership di un imprenditore presuppone doti di intuizione, creatività,
capacità manageriali e di coinvolgimento, ma anche di valutazione del contesto in cui si opera, soprattutto
quando è caratterizzato da forte incertezza. Il manager non si deve confrontare sol con le opportunità per
la sua azienda, ma anche con i rischi che le sue scelte comportano.
Ad oggi è difficile dare una definizione univoca di imprenditore, ma ci sono quattro funzioni connesse
tradizionalmente a questa figura, che possiamo usare per definire quattro tipologie di imprenditore:
-imprenditore organizzatore: è un concetto tipico della scuola classica e neoclassica dell’economia-
Partendo dal presupposto che il mercato non venga influenzato dai singoli attori economici (secondo
questa teoria) l’imprenditore ha il ruolo di organizzare dei capitali e della produzione, ma senza una
visione strategica, la quale comporterebbe l’assunzione di un rischio. È una visione un po’ statica che non
prevede alcun dinamismo nel ruolo. Gli economisti neoclassici iniziano a introdurre il concetto di
leadership, ossia il possesso di peculiari doti personali e di propensione all’azione. Questa visione
ribadisce la centralità del mercato e non considera quello dell’imprenditore un ruolo attivo e dinamico.
-imprenditore decision maker: secondo la visione neoistituzionalista (che ribalta la precedente), grazie a
particolari doti di vigilanza e prontezza, l’imprenditore riesce ad affrontare le incertezze economiche e
sociali, a intravedere le opportunità. Secondo questa definizione se ne valorizzano le doti di intuizione e
progettualità, connesse alla capacità di valutare e gestire ogni elemento utile e di formulare,
conseguentemente, coerenti previsioni. Qui il ruolo dell’imprenditore lo pone al centro del processo
manageriale.
-imprenditore risk-breaker: imprenditore come assuntore di rischi. Fondamentale è la differenza fra il
rischio, che è collegato a eventi ricorrenti e quindi, in base all’esperienza, può essere previsto e gestito;
l’incertezza, che non è prevedibile ed è collegata a eventi unici. L’imprenditore deve saper assumere la
responsabilità dei rischi, facendo ricorso alle sue doti personali. La responsabilità decisionale, quindi, è un
elemento essenziale per attribuire la qualifica di imprenditore.
-imprenditore innovatore: Schumpeter, esponente della Scuola di Vienna, nella sua Teoria dello sviluppo
economico propone una visione dell’imprenditore che valuti capacità di organizzare in modo nuovo e più
efficiente l’impresa. È fondamentale la capacità di coniugare creatività e conoscenza per attivare un
processo di cosiddetta “distruzione creatrice”, in base a cui le imprese meno innovative vengono spinte
fuori dal mercato. Questa visione fa dell’imprenditore un soggetto nuovo, che assume su di sé totalmente
il rischio legato alle nuove combinazioni produttive e all’innovazione che le genera, vede la sua
remunerazione legata all’attività innovativa e ai rischi ad essa connessi. L’imprenditore non è solo abile a
sfruttare situazioni preesistenti, come nel caso precedente, ma ne crea di nuove, assumendo il rischio in
prima persona.
In sintesi, si è passati dall’idea ottocentesca di imprenditore come figura statica che agisce come
intermediario in un contesto prevedibile, determinato dalla centralità del mercato, alla visione
dell’imprenditore come figura centrale e dinamica che oltre a sapersi assumere i rischi derivanti da
opportunità in contesti già conosciuti, ne crea di nuove.
Le caratteristiche finora analizzate non sono sufficienti a qualificare un soggetto come
imprenditore: è necessario che egli sia in grado di trasformare le proprie idee imprenditoriali in un
modello d’impresa e di declinare scelte strategiche e operative, così come pure possibilità di fattibilità,
all’interno di un business model che abbia le caratteristiche di un’impresa.
Nelle pagine seguenti diamo indicazioni sul una categoria di impresa, le start-up, che al giorno
d’oggi sono la categoria privilegiata per chi vuole intraprendere una nuova impresa.
6.2 Le start-up
Come già abbiamo detto, il termine start-up indica la fase di avviamento di un’impresa o dello sviluppo di
un territorio. Nell’ultimo trentennio però questo termine ha subito una variazione di significato, infatti
oggi sta ad indicare tutte quelle imprese che abbiano qualcosa di innovativo e, solitamente, ma non
necessariamente, di altamente tecnologico: infatti secondo Peter Thiel, fondatore di paypal, la nuova
tecnologia tende a venire proprio dalle start-up.
La definizione a cui oggi ci si riferisce quando si parla di start-up, identifica alcune caratteristiche:
- temporaneità: nel momento in cui l’impresa, dopo l’avvio, inizia a guadagnare stabilmente, diventa
un’impresa consolidata, non è più considerabile una start-up.
- ripetibilità: è la capacità di un’azienda di ottenere ricavi più di una volta attraverso l’erogazione dello
stesso prodotto o servizio. Start-up quindi vuol dire creare imprese che siano in grado di sopravvivere agli
scenari competitivi che caratterizzano il nostro tempo, e non business progettato per estinguersi.
- scalabilità: la capacità di essere flessibile: in caso di incremento dei ricavi rispetto a quello dei costi, la
start-up deve essere in grado di adeguarsi senza incrementare proporzionalmente l’utilizzo delle risorse.
- profittabilità: la capacità di creare un ritorno per coloro che investono: non necessariamente monetario.
Il ritorno per Facebook, per esempio, sta nel fatto che i dati raccolti dai comportamenti degli utenti della
piattaforma possono essere venduti.

6.3 FASI DI SVILUPPO DI UNA START-UP


I. Le 5 fasi
- pre-seed: indica il periodo in cui l’imprenditore studia attentamente la fattibilità del progetto. Non
esistono ancora prodotti e servizi e tantomeno un’impresa strutturata. Un’idea di cui in un primo
momento si ha solo una definizione generale. In questo caso il volume delle vendite è pari a zero e si fa
ricorso a forma di finanziamento personali dell’imprenditore o provenienti da “family, fools and friends”,
cioè famiglia e amici. Gli investimenti sono contenuti perché i rischi sono elevati, data la non concretezza.
Ad aiutare l’impresa ci sono incubatori e acceleratori.
- seed: è la prima delle due fase dell’early stage, seguita dalla fase di start-up. La seed è caratterizzata
dalla ricerca di investitori che riescano a supportare il progetto finanziariamente e formalmente all’avvio
sul mercato. Da questa fase ci si aspetta di investire soprattutto nel marketing e nell’ampliamento del
team: la fase si contraddistingue per l’elevato grado di incertezza dei risultati; avendo un rischio elevato,
simile a quello del pre-seed è necessario un finanziatore che metta anche a disposizione le competenze
tecniche di cui è dotato: il business angel, presente anche nella fase successiva.
- start-up: il progetto è pronto e concretamente immettibile sul mercato, in questa fase si possono
ottenere i primi ricavi. È sempre una fase molto rischiosa che richiede una quantità di risorse elevate e
che viene superata da pochissimi nuovi business: la maggior parte di questi vengono respinti dal mercato.
- early growth: l’impresa è già penetrata nel mercato e inizia ad acquisire una posizione stabile al suo
interno. Il rischio diminuisce rispetto alle altre fasi, ma resta un bisogno di risorse economiche elevato.
L’elevato tasso di crescita aumenta l’autofinanziamento, ma non è ancora sufficienti: i venture capitalists
- sustained growth: fase in cui il business è consolidato: se la condizione di crescita persiste, si può
sopravvivere sul mercato. L’impresa è in grado di generare risorse interne e il rischio è contenuto.

II. Il finanziamento e lo sviluppo delle start-up


Vediamo nel dettaglio i già accennati investitori nelle varie fasi della start-up:
- incubatori: si rivolgono principalmente a coloro che vogliono dare vita a un’azienda partendo da un’idea
che necessita di essere sostenuta dagli incubatori. Gli incubatori forniscono risorse fisiche, servizi logistici,
assistenza manageriale, accesso ai possibili canali di finanziamento (li accompagnano nella ricerca di
potenziali finanziatori una volta raggiunto un certo livello di sviluppo), supporto nell’utilizzo dei servizi
tecnici e di business, in grado di ridurre le probabilità di fallimento e velocizzare il processo di crescita
Tutto ciò avviene durante le fasi iniziali, solitamente tra i 4 e gli 8 mesi, quindi nella fase in cui i nuovi
imprenditori hanno bisogno di affiancamento e supporto nella stesura di un business plan e subito dopo,
ovvero nei rimi mesi di vita del progetto imprenditoriale. Gli incubatori mettono a disposizione un luogo
fisico in cui poter lavorare e sviluppare la creatività necessaria, con ambienti stimolanti e innovativi e,
soprattutto che avvicinino le start-up agli investitori, principalmente i venture capitalists.
- acceleratori: si distinguono dagli incubatori perché supportano i business per un tempo minore.
L’accelerazione è volta a velocizzare il passaggio della start-up dalla fase di sperimentazione a quella
pienamente operativa, quindi chi entra a far parte di un progetto di accelerazione si trova in una fase più
avanzata del progetto rispetto a chi si rivolge a un incubatore. Solitamente gli acceleratori concretizzano il
lavoro sviluppato dall’incubatore. Nessuno dei due è essenziale, ma sono importantissimi per chi si avvia
all’attività imprenditoriale con nessuna o poca esperienza o competenza in tale ambito.
- business angels: il discorso è completamente diverso: si tratta di un ruolo fondamentale per la nascita e
lo sviluppo di questi nuovi business, come anche quello del venture capitalist. I business angels sono
investitori privati che finanziano nuovi business tramite l’utilizzo di risorse proprie e li supportano nelle
fasi iniziali (in cui è necessario reperire la maggiore quantità di risorse da investire) grazie alle competenze
che possiedono con riferimento a settori caratterizzati da elevata crescita, con elevato rischio e anche
elevato rendimento atteso. Hanno una fitta rete relazionale e eccellenti capacità strategiche e di gestione.
- venture capitalists: la somma investita da questi è notevolmente superiore rispetto a quella dei BA.
Rientrano nella categoria degli investitori istituzionali. Non finanziano con fondi propri, ma fondi ottenuti
da altri gruppi di investitori come banche che utilizzano per finanziare business ad alto potenziale di
crescita. Supportando il business quando è già avviato, il margine di rischio è inferiore rispetto a quello
corso dal business angel. Il capitale investito ha una media che supera il milione di euro e, considerando
che lo scopo principale di questi investitori è raggiungere la massima plusvalenza, i ritorni vanno dal 25%
al 50% annui. Anche il venture capitalist mette a disposizione le sue doti a supporto dell’imprenditore. Se
il business si sviluppa molto, il venture capitalist può rivendere la sua quota sul mercato ricevendo ampi
margini di ritorno sull’investimento effettuato.

III. La fase di exit


Il percorso di vita di una start-up può essere caratterizzato da tre opzioni principali: fallimento, che è la
strada intrapresa dal 90% delle start-up; autonomia, cioè diventare un’azienda consolidata; esecuzione di
exit. È l’ultima fase del ciclo della start-up, nella quale si realizzano le collaborazioni più stabili. L’obiettivo
dell’imprenditore, in questo senso, è vendere il proprio business e uscirne ricavando il massimo profitto.
Non è detto quale sia la fase migliore per vendere: un’opinione molto condivisa è quella di vendere
l’impresa quando essa appartiene ancora in larga maggioranza all’imprenditore, prima dell’ingerenza di
investitori terzi. La exit si configura con diverse tipologie:
- IPO, Initial Public Offering: è il procedimento attraverso cui una società entra all’interno del mercato
borsistico. Con questo tipo di exit, la start-up porta capitale al proprio personale. Vantaggi per gli
investitori che hanno ritorni e passano ad occuparsi altre start-up; vantaggi per i fondatori che riescono ad
avere i primi grandi guadagni. È importante capire quale sia il momento migliore per entrare in borsa e se
il mercato borsistico è propenso all’ingresso di novità e al confronto di nuove iniziative.
- Acqui-Hiring: è un mix tra il concetto di acquisizione e assunzione del personale. Consiste
nell’acquisizione della start-up da parte di una grande azienda interessata a incorporare non il business in
sé, ma i team che lo compone. Il fine è quello di aggiudicarsi un ottimo capitale umano con
l’incorporazione del team all’interno dei propri progetti. Questo fenomeno è ampiamente utilizzato dai
colossi aziendali come Google per lo sviluppo dei propri progetti. È comune soprattutto nell’area delle
high-tech, dove sono richieste competenze specifiche di settore difficili da trovare.
- Acquisizione: l’azienda interessata al business acquista la start-up e il team che la compone. In genere
avviene la fusione dei due business esistenti, con incorporazione della start-up da parte dell’acquirente. Il
vantaggio per la start-up sta nel continuare a crescere all’interno di un’azienda più grande e consolidata;
per l’acquirente vuol dire acquisire dall’esterno ciò che non può o non è in grado di sviluppare
internamente, solitamente dal punto di vista tecnologico.

IV. Cause di fallimento delle start-up.


a) mancato soddisfacimento di un bisogno di mercato. Molte start-up nascono con l’intenzione di offrire
soluzioni efficienti a un problema, ma falliscono se non incontrano un bisogno specifico di mercato.
b) mancanza di liquidità. Gli investimenti sono limitati, vanno gestiti con giudizio.
c) il team non è adatto. Deve essere dotato di tutte le skills operative, tecniche e soft per funzionare.
d) il mercato è saturo. Se un’idea sembra buona dall’inizio e ottiene grandi risultati, saranno in tanti a
provare a entrare nel settore: bisogna fare attenzione alla concorrenza.
e) il prezzo. Stabilire il giusto prezzo per un prodotto non è semplice all’inizio di un’attività, ma è
importante incontrare la disponibilità a pagare da parte dei clienti.
f) prodotto non user-friendly. Se non incontri i reali bisogni del mercato sei destinato a fallire.
g) la mancanza del modello di business. In sua assenza è improbabile trovare un investitore.
h) mancanza di ascolto dei feedback. Ascoltare i pareri dei clienti è fondamentale per poter agire sul
business ai fini del soddisfacimento delle esigenze del mercato.
i) tempistiche sbagliate. Bisogna evitare di far approdare sul mercato un prodotto che risulta incompleto,
d’altra parte se il rilascio è troppo tardivo si rischia di perdere l’opportunità.
Nonostante il tasso di mortalità elevatissimo, si tratta di un fenomeno in crescita, dato che quello
di natalità è addirittura più alto.

6.4 La nascita delle imprese nei paesi in attesa di sviluppo.


In molti paesi a basso e medio reddito, gli enti pubblici rappresentano un’alta percentuale della forza
lavoro totale. Gli imprenditori esistenti sono lavoratori autonomi o gestiscono le proprie attività su piccola
scala, trovandosi a dover lottare duramente per guadagnarsi da vivere.
Le start-up, come nuovo metodo di creazione di impresa non necessariamente tecnologiche, sono
utilizzabili nei paesi in via e attesa di sviluppo, anche se corrette secondo le necessitò specifiche.
Le start-up aziendali, infatti, possono avere un andamento positivo sullo sviluppo del paese, traducendosi
in nuovi posti di lavoro e vendite sostenibili. Le start-up possono anche contribuire alla competitività di un
paese, introducendo nuovi prodotti o servizi.

Abbiamo sentito pochi casi di successo di start-up in paesi a basso e medio reddito, ma questi singoli casi
spesso sono bastati per smuovere un intero ecosistema: in Argentina, per esempio, due studenti di MBA a
Stanford, hanno creato Mercado Libre un mercato simile a Ebay. Dopo il grande successo ottenuto da
questa impresa, molti altri giovani si sono lanciati nell’avvio di attività. I due fondatori hanno avviato un
fondo venture capital, così esiste un’intera generazione di nuovi imprenditori che ha avuto origine
esclusivamente da questo grande successo.
Ci sono segnali molto buoni in tutto il mondo rispetto all’attenzione alla creazione di start-up: Cina e
Israele sono i due migliori casi di successo, anche se la Cina crea più start-up imitative e Israele innovative.
L’accesso all’impresa e alla speranza di un futuro, nei paesi sviluppati, è difficile per donne,
minoranze, immigrati, mentre negli altri paesi lo è per tutti senza distinzioni. I paesi occidentali
dovrebbero assumersi la responsabilità della crescita delle idee nei paesi deboli, piuttosto che portare le
loro idee e le loro imprese lì per utilizzare le risorse a basso costo. La comunità internazionale e i governi
dovrebbero sviluppare programmi volti allo sviluppo di start-up assicurando alle idee e ai talenti l’accesso
alle risorse per costruire un’impresa e per avviare l’ecosistema di riferimento.

I. Le barriere per la creazione di nuova impresa nei paesi deboli


Sono stati condotti pochi studi sulle differenze tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati in merito alle
barriere dell’imprenditoria. Alcune delle principali scoperte identificano tra le potenziali barriere i diversi
ruoli delle istituzioni, l’efficacia delle amministrazioni pubbliche, la corruzione, la sicurezza sociale e
pubblica, l’efficienza dei mercati finanziari, la mancanza di potere d’acquisto locale e il sistema
infrastrutturale e culturale del paese. Anche gli strumenti con cui vengono finanziate le start-up
differiscono in modo significativo: nei paesi deboli i finanziamenti vengono soprattutto dalle famiglie degli
imprenditori e quasi mai dalle banche.
I dati della Banca Mondiale sulla facilità di fare impresa mostrano che le condizioni legali e amministrative
per avviare una start-up tendono a essere meno vantaggiose nei paesi in via di sviluppo.
L’attività economica richiede buone regole e regolamenti che siano efficienti, accessibili a chi ne ha
bisogno e semplici da implementare.
La salute economica di un paese non si misura solo in termini macroeconomici, ma anche da altri
fattori che influenzano l’attività economica quotidiana come leggi, regolamenti e accordi istituzionali.
Molte imprese nei paesi in via di sviluppo, comprese le start-up, sono ostacolate anche da carenze
infrastrutturali come trasporti, comunicazioni ed elettricità.
Un’altra barriera è costituita dalle svantaggiose prospettive commerciali: queste start-up devono
interfacciarsi con una grande concorrenza e una domanda debole. Piuttosto che seguire approcci
innovativi, poi, spesso si basano su modelli di business imitativi (start-up copycat), ossia orientati su ciò
che altre aziende già fanno. Questo perché molte start-up nei paesi in via di sviluppo sono guidate dalle
necessità e non da modelli di business sostenibili o dalle competenze imprenditoriali dei fondatori. Come
sostenuto dall’UNDP, la capacità di produrre i propri beni di prima necessità è un elemento fondamentale
di spinta alla nuova impresa. Questa produzione è l’inizio dell’indipendenza dai paesi sviluppati e la
riduzione degli impari scambi di materie prime.
Un’altra sfida che la popolazione deve affrontare per l’avvio di una start-up è l’accettazione del
fallimento, questa è fondamentale per l’avvio di un ecosistema dinamico indirizzato alla crescita. Abbiamo
già visto che il 90% delle start-up fallisce, per cui l’accettazione del fallimento è quasi il presupposto dei
successi futuri. Nei paesi in via e attesa di sviluppo, la paura di fallire può diventare paralizzante sia per i
potenziali investitori, che per i potenziali finanziatori. L’insuccesso in questi paesi non è ben visto, non è
considerato un presupposto per un futuro successo, ma per una serie di futuri fallimenti. Questo
determina per gli imprenditori la rinuncia ad avviare nuove aziende.

In sintesi, il successo di una start-up in un paese debole è la chiave di avvio del processo imprenditoriale,
perché oltre all’aumento della speranza, provoca un consistente miglioramento economico dell’ambiente
e quindi una maggiore disponibilità di risorse finanziarie da reinvestire. I casi di successo, quindi, possono
fare molto, ma per crearli è necessaria una grande quantità di persone che tentano la fortuna. Perché
questo processo virtuoso abbia inizio è necessario un impegno da parte dei governi locali e della
comunità internazionale volt ad attuare politiche di sostegno alle start-up, sempre trovando soluzioni
adatte alle circostanze economiche di ogni paese.

6.5 La promozione di start-up per le aree deboli del mondo


Per rendere superabili le barriere all’ingresso per la progettazione di una start-up, come abbiamo visto, è
necessario che il territorio promuova la creazione di impresa, munendosi di determinati requisiti.
I paesi dell’OCSE hanno una vasta esperienza nella conduzione di programmi di promozione
dell’imprenditorialità e di avviamento e utilizzano una vasta gamma di strumenti che attingono alle loro
politiche economiche, di innovazione e tecnologiche. Un obiettivo che la relazione del Centro di Ricerca
Economica Europea si pone è valutare come gli strumenti di promozione dell’OCSE possano essere
applicati nei paesi in via di sviluppo. Per ogni tipo di strumento che la relazione esamina, vengono discussi
i requisiti, le caratteristiche, i possibili adattamenti e la sua adeguatezza per l’uso sia nei paesi a basso che
a medio reddito. Il rapporto sostiene che la promozione di start-up nei paesi in via di sviluppo non
dovrebbe concentrarsi sul tentativo di aumentare l’attività imprenditoriale, dal momento che questa pare
essere già alta e gli incentivi avrebbero scarsi effetti. Dovrebbe piuttosto essere concentrata su nuove
imprese che contribuiscono al cambiamento strutturale e aprono prospettive di crescita: la maggior parte
delle misure utilizzate nei paesi sviluppati, secondo questa prospettiva, potrebbe essere utilizzata
abbastanza direttamente anche in quelli in via di sviluppo.
Quando si cerca di promuovere le start-up, è importante capire quali tipi vengono presi in considerazione:
nei paesi sviluppati l’impatto maggiore sulla crescita e sullo sviluppo economico si verifica grazie alle start-
up basate nuove tecnologie o innovazioni, piuttosto che su aree tipiche.
Nei paesi a basso reddito il rapporto prevede che si dia priorità ai programmi che forniscono formazione e
finanziamento a poche start-up innovative guidate dalle opportunità piuttosto che dalla necessità. Questa
impostazione è funzionale per i paesi a medio sviluppo come l’India, ma confligge un po’ con quello che
richiedono i paesi in attesa di sviluppo, ossia divenire innanzitutto produttori dei beni di prima necessità
per il paese e di avviare il comparto economico dello stesso, rendendosi indipendenti dagli stranieri.
Quindi quanto evidenziato dall’OCSE e dal CEER, cioè la necessità di produrre start-up innovative,
rispecchia più le necessità globali che quelle dei paesi con un basso sviluppo umano. Ciononostante è
incontestabile l’esigenza di promozione di aziende nel campo della cooperazione allo sviluppo.

Nei paesi in via di sviluppo, le strategie di promozione devono mirare a migliorare le attività
imprenditoriali esistenti, aumentando il livello di innovatività delle nuove imprese. In questi contesti, non
innovatività non si intende necessariamente alta tecnologia, ma la creazione di beni e servizi
qualitativamente migliori che rispondono ai bisogni che non sono ancora adeguatamente serviti (sia a
livello locale che nazionale). Questo può risultare difficile perché porterebbe le start-up di questi paesi a
competere con quelle dei paesi già sviluppati, che hanno più esperienza di mercato, tecnologie più
avanzate e reti sviluppate.

L’obbiettivo degli interventi di promozione è aumentare il numero di start-up al fine di stimolare la


competitività, la crescita e il cambiamento settoriale. La promozione, come detto, deve essere tesa alla
costruzione di tutte le tipologie di impresa, innovative e non, e alla necessarie riduzione delle barriere. Per
farlo, vengono considerati tre strumenti principali:

1) strumenti politici: gli ecosistemi di start-up hanno bisogno di un ambiente normativo stabile, di una
solida politica di concorrenza e di un sistema legale che non penalizzi l’assunzione di rischi. Hanno anche
bisogno di un forte sistema di istruzione e supporto per l’eccellenza della ricerca nelle università e del
sostegno finanziario del governo nelle primissime fasi dello sviluppo aziendale, benefici fiscali per aiutare
l’emergere dei business angels e di venture capitalists.
Nelle aree deboli del mondo vengono effettuati pochi finanziamenti a sostegno dell’industria poiché si
trovano continuamente in una situazione emergenziale e la soluzione dei problemi a breve termine fa
passare in secondo piano la visione di medio-lungo termine, creando un circolo vizioso che non permette
al paese di muoversi di un passo. Per sviluppare l’economia di un’area debole è necessario che si usino
strumenti politici a medio-lungo termine per promuovere la creazione d’impresa. Gli strumenti sono
-riduzione delle tasse per l’avvio di impresa, essendo un mancato guadagno e non un costo,
acquisirebbe, per lo Stato, l’aspetto di un investimento;
-la definizione di contributi per le start-up sotto forma di incentivi, premi e borse. È importante investire
risorse considerevoli nel processo di valutazione delle proposte per scansare il rischio della distribuzione a
pioggia che non porterebbe risultati positivi; è anche importante concedere gli incentivi anche non nate
sul territorio, ma che vogliono crearvi aziende.
-creazione di infrastrutture per il supporto alle start-up. Un esempio possono essere incubatori e
acceleratori. L’incubatore ha il vantaggio di creare reti di start-up e partnership in grado di ampliare i
mercai di riferimento.
-campagne di informazione: queste campagne possono essere utili non solo agli imprenditori, ma anche
a incentivare l’attivazione di strumenti di supporto. Tuttavia è difficile da valutarne l’efficacia, dato che non
riguarda i singoli imprenditori.

2) strumenti di supporto: gli strumenti di supporto all’attività manageriale utili nel nostro caso sono:
-consulenza legale e gestionale: i paesi deboli spesso fioriscono le idee ma mancano gli strumenti per
renderle operative. Mancano competenze di progettazione, di gestione e definizione di partnership e di
marketing.
-supporto di marketing per le start-up: ci sono idee di business fattibili che soffrono di una mancanza di
capacità di marketing.
-formazione per gli imprenditori: sia per quelli potenziali che per quelli in essenza, è importante perché
in questi paesi spesso manca la conoscenza di gestione, contabilità e questioni legali.
-programmi di insegnamento per le competenze imprenditoriali. Dovrebbero essere integrati nei
curricula standard dei programmi di istruzione superiore per raggiungere tutti gli studenti. Dovrebbero
impiegare docenti che possiedono attitudini e capacità imprenditoriali e imprenditori che possono fornire
la loro visione del mondo reale dell’avvio di un’impresa. Ci può essere anche la creazione di progetti di
start-up virtuali, con l’intento di insegnare agli studenti come impostare e gestire un’impresa di successo,
sperando che ciò riesca a ridurre la paura del fallimento di cui prima.

3) strumenti finanziari: nei paesi in via di sviluppo gli investitori tendono a investire solo in start-up in fase
avanzata, senza rischiare sulle nuove idee, ma solo con gli strumenti finanziari può nascere la possibilità di
avviare una nuova impresa:
-prestiti all’avviamento erogati direttamente dalle banche pubbliche. Serve a compensare la mancanza
di finanziamenti privati per progetti rischiosi o per copycat, che non vengono finanziati solitamente dalle
banche private.
-reti di business angels: è spesso efficace. Un gran numero di business angels aumenta anche le
opportunità di investimento. Le attività di queste reti potrebbero essere collegate anche ai programmi di
formazione. Ciò però presuppone la presenza di business angels su un territorio debole, cosa non ovvia.
-venture capital: è uno strumento particolarmente importante per le aziende che cercano di introdurre
una nuova imprese senza avere chiaro in anticipo se esista effettivamente un mercato. Gli investimenti VC
affrontano un alto tasso di fallimento, ma alcuni generano straordinariamente alti profitti che
compensano le perdite subite altrove.

Gli studi rigorosi per analizzare gli impatti dei programmi di promozione sulla popolazione di imprenditori
e sulle attività sono molto pochi e danno risultati contrastanti: quando si attuano misure nei paesi in via di
sviluppo, le tecniche di monitoraggio divengono un fondamentale strumento di informazione e gestione.
Noi riteniamo per i motivi spiegati all’inizio del paragrafo che incentivare le start-up aiuti allo sviluppo
dell’intero territorio.

6.6 Il business plan di nuove imprese per lo sviluppo.


È un elemento indispensabile per la progettazione e la conseguente implementazione di una start-up,
nonché per la ricerca delle risorse economico-finanziarie. Il business plan di un’impresa in un paese
debole deve certamente fare i conti con le barriere di cui abbiamo o parlato precedentemente, ciò viene
semplificato da un approccio per obbiettivi rispecchiato dalla programmazione strategica presentata.
Il business plan è un piano di impresa ragionato ed esplicitato in forma scritta. Si compone di varie fasi
che vediamo ora nel dettaglio.

1= EXECUTIVE SUMMARY: è un documento introduttivo che riassume l’idea imprenditoriale, come si


intende raggiungerla, quali prospettive ha di successo e quale può esserne l’impatto; è il biglietto di
presentazione del progetto stesso, tanto che spesso i potenziali investitori si fermano alla sua sola lettura
per rifiutare un finanziamento. Il summary deve esprimere in modo chiaro e conciso le informazioni di
maggior rilievo, e deve invogliare il potenziale investitore a continuare a leggere il piano.
Un tipico executive summary per una start-up include informazioni su:
- opportunità di business e in che modo l’attività sarà in grado di sfruttarle;
- mercato di destinazione (target);
- modello di business, prodotti o servizi dell’impresa e i punti forti;
- vantaggio competitivo;
- governance e team di lavoro;
- strategia di marketing e di vendita
- piano finanziario;
- piano di implementazione.

2= OVERVIEW DELLA SOCIETÀ: si descrivono le caratteristiche fondamentali: vision, mission, obiettivi di


breve, medio e lungo termine (devono essere realistici e convincenti per il finanziatore), punti di forza e
debolezza, tipo di società e data di costituzione, investitori e amministratori e organigramma. In questa
sezione deve emergere, ad esempio, qual è il suo mercato di riferimento, il suo posizionamento sul
mercato, l’offerta che mette in atto, se è multinazionale o locale, in quale fase di start-up il progetto si
trova. Gli obiettivi devono essere elencati nel modo più esplicito possibile, includendo tutti i dettagli
disponibili come: ricavi, utili lordi e netti, ritorno sugli investimenti.
Con il termine vision si intende la proiezione di uno scenario che un imprenditore vuole “vedere” nel
futuro e che rispecchia i suoi valori, i suoi ideali e le sue aspirazioni generali. La Vision non è un concetto
astratto, ma molto concreto poiché è proprio grazie alla “visione” di tanti imprenditori se oggi il mondo è
pieno di innovazione, tecnologia, e nuovi prodotti sempre più avanzati.
Se, quindi, la vision è il “sogno” che definisce lo scopo per cui l’azienda esiste, la mission definisce il ruolo
dell’azienda per attuare la vision. La mission deve essere il più sintetica possibile e deve essere allineata
alla vision e deve mostrare, in modo dettagliato, la strada che si vuole percorrere per realizzare la vision e
serve per definire le risorse che devono essere utilizzate.

3= DEFINIZIONE DEL MERCATO DI RIFERIMENTO E CONTESTO COMPETITIVO: va innanzitutto definito


tutto il mercato di riferimento per poi segmentarlo e poi si individua il contesto competitivo.
- segmentazione del mercato: è la suddivisione del mercato in gruppi di consumatori omogenei e
significativi. Prima di avviare il processo di segmentazione è necessario stabilire quale tipologia di mercato
andare a segmentare. Dover procedere con un’analisi di tutto il mercato potenziale può essere complicato
in termini economici e temporali. Per questo può essere importante definire con maggiore accuratezza il
mercato al quale l’impresa si rivolge distinguendo tra
a) mercato potenziale: l’insieme di tutti i soggetti che contemporaneamente sono interessati all’acquisto
di quel bene e dispongono del reddito necessario;
b) mercato disponibile: composto da tutti coloro che, presenti in quello potenziale, possiedono anche la
capacità di accesso allo stesso.
c) mercato disponibile qualificato: non tutti i consumatori potenziali disponibili possono avere i requisiti
necessari per la fruizione di un determinato servizio: se vendo macchine, è qualificato chi ha la patente.
d) mercato servito: è la parte del mercato disponibile (o disponibile e qualificato a seconda del prodotto)
alla quale l’azienda decide di rivolgersi.
e) mercato penetrato: si intende il mercato che ha già acquistato quel prodotto da altre aziende.
Per portare a termine il processo di segmentazione, bisogna selezionare i parametri da utilizzare
per distinguere prima e raggruppare poi i consumatori in segmenti, scegliendo poi i segmenti obbiettivi.
I parametri maggiormente utilizzati nei mercati dei paesi deboli sono: geografici (area urbana o rurale, il
clima, densità della popolazione); demografici (età, sesso, stato civile e composizione della famiglia del
consumatore in prima persona); socio-culturali (alfabetizzazione e anni di scuola frequentati, religione,
tradizioni (come l’utilizzo di “““medicina alternativa”””); economici (il reddito, la professione svolta o
l’eventuale disoccupazione); psicologici (la ricerca di indipendenza, l’assoggettamento alla religione, o il
conservatorismo (colui che è ostile verso il progresso e le novità), poco stimolante per le start-up);
comportamentali (frequenza di acquisto, conoscenza e uso del servizio, fedeltà all’impresa, alla marca al
prodotto).
L’efficacia della segmentazione è data dal risultato di gruppi che siano: misurabili, accessibili
(raggiungibili in modo chiaro rispetto alla massa indistinta del mercato), significativi (numero rilevante),
redditizi (economicamente consistenti se l’impresa è a scopo di lucro), duraturi, omogenei(all’interno),
eterogenei (all’esterno, per focalizzare meglio le attività rivolte a ogni singolo gruppo).
Definito il mercato di riferimento, si può scegliere con maggiore contezza il target e indirizzare
meglio le proprie strategie.
- contesto competitivo: vanno analizzati i competitor principali e potenziali; il loro modello di business; il
portafoglio prodotti/servizi; quali i punti forti e quali quelli deboli; le strategie che seguono; le
performance economico-finanziarie e l’andamento delle quote di mercato. Alla luce dei risultati di queste
analisi va scelto, poi il posizionamento nel mercato della start-up rispetto ai suoi concorrenti.
Nel modello delle cinque forze competitive, Porter attribuisce al settore un ruolo centrale nell’analisi
competitiva ed evidenzia come l’influenza del settore incida sulla concorrenza e sulla reddittività. vengono
individuati due tipi di concorrenti: diretti e indiretti; divisi in cinque fattori competitivi. I fattori sono:
a) concorrenti diretti, ossia le imprese già presenti sul mercato e soddisfano lo stesso bisogno offrendo lo
stesso prodotto/servizio della start-up;
b) produttori di beni sostitutivi; ossia coloro che offrono prodotti/servizi diversi, ma che soddisfano lo
stesso bisogno;
c) clienti, tra cui famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni che domandano prodotti e servizi uguali;
d) potenziali entranti, cioè soggetti che potrebbero entrare nel mercato in cui opera la start-up;
e) fornitori, poiché l’impresa oltre a competere nel mercato degli output (clienti), compete anche in
quello degli input (fornitori) nell’attività di approvvigionamento delle risorse: nei paesi in via di sviluppo è
importante poiché uno dei problemi è proprio la scarsa reperibilità degli input.
L’identificazione di queste tipologie di concorrenti permette all’impresa di avere un quadro completo sulla
sua posizione competitiva all’interno del mercato.

4= ANALISI STRATEGICA (SWOT): come visto nel quinto capitolo, la SWOT è uno strumento di analisi
strategica usato per valutare punti di forza, debolezza, opportunità e minacce di un progetto, di
un’impresa e le conseguenti relazione con l’ambiente in cui si colloca. Serve per definire gli orientamenti
strategici finalizzati al raggiungimento dell’obbiettivo.S/W=interna: VRIO. O/T=esterna: PEST.
I punti fondamentali per la definizione di un’analisi swot sulla mission dell’impresa in avvio sono:
-variabili interne: modificabili, che sono i punti di forza e di debolezza, cioè utili (management,
organizzazione dell’azienda, prodotti che si prevede contribuiranno al success dell’impresa) o
dannosi/migliorabili per il raggiungimento dell’obiettivo (criticità che devono essere monitorate per
essere contenute o eliminate).
-variabili esterne: non modificabili, che sono opportunità e minacce rappresentate dalle condizioni
esterne.
Il principale rischio dell’analisi SWOT è dato dalla natura delle informazioni raccolte che, se non
certe, possono portare a conclusioni errate. Una buona analisi SWOT nel business plan porta a due
risultati: permettere al finanziatore di comprendere facilmente le competenze tecniche dell’impresa; si
riduce la possibilità di sbagliare, dato che è la base scientifica s cui si fondano le scelte strategiche
successive.

5= STRATEGIA FUTURA E ACTION PLAN: la strategia di impresa si struttura su tre livelli:


-strategie di corporate: definiscono il campo di azione attraverso la scelta dei settori o mercati in cui
competere (hanno a che fare con tutta l’azienda); sono di:
-sviluppo: monosettoriale. Prevede l’integrazione verticale (cioè un’azienda internalizza parte del
processo produttivo precedente al suo (a monte) o successivo (a valle), in modo da ridurre i costi ed
evitare competitors) e orizzontale (che prevede l’acquisto di un’intera altra azienda per evitare la
competizione e anche per ottenerne il personale o la tecnologia di cui essa prima non disponeva).
Polisettoriale. Prevede la diversificazione, cioè l’aumento delle tipologie di prodotto; sviluppo
conglomerale, quando si cambia mercato, tecnologie, diventando presenti su un altro settore;
internazionale, quando si vende una parte della produzione all’estero; gli accordi si stabiliscono attraverso
la matrice di parente e, in modo più specifico partendo da essa, con il poliedro degli accordi.
-risanamento: nei momenti di shock per cause naturali o crisi economiche;
-mantenimento: quando bisogna mantenere un certo livello raggiunto, come nel caso del self
development quando parliamo di territori.

-strategie di business/competitive: definiscono il modo di competere all’interno di un determinato


settore o mercato. Definiscono, quindi le politiche da attuare all’interno di ogni area d’affari e saranno
tese a raggiungere gli obiettivi, in particolare quelli competitivi. Si dividono in:
-leadership di costi: decido di entrare sul mercato con un costo inferiore rispetto ai competitors;
-differenziazione: entro nel mercato con un prodotto differente, senza concorrenza;
-focalizzazione: mi concentro su una nicchia di mercato e non sul mercato intero.

-strategie funzionali: quelle relative alle scelte di lungo periodo delle singole funzioni dell’impresa: di
marketing, di organizzazione ecc. la funzione in un’azienda è un’area organizzativa composta da persone
e risorse umane, economiche, tangibili, accomunate da compiti e ruoli: nella funzione marketing ci sono
tutti quelli che si occupano del marketing per l’azienda ecc..

5.1=PIANO MARKETING: il ruolo del marketing è creare l’incontro tra impresa e mercato. Le fasi
fondamentali di un piano marketing sono la formulazione di strategie e la definizione dei piani d’azione
(relativi alle 4P del marketing mix e timing delle attività). Un’azione di marketing efficace raggiunge
l’obbiettivo determinato con costi adeguati a esso.
La scelta delle strategie di marketing si riconduce, in relazione alla tipologia e al numero dei
mercati obbiettivo, a tre tipologie:
-marketing indifferenziato: si presenta una sola offerta volta a raggiungere il maggior numero di
acquirenti possibile, attraverso un’azione di marketing standardizzata. È utilizzata spesso nei paesi deboli
in cui è difficile accedere a dati di segmentazione precisi e certi.
-marketing differenziato: si rivolge a target diversi con prodotti, servizi e programmi specifici per ognuno.
-marketing concentrato: si rivolge a un unico segmento di mercato, meno ampio rispetto agli altri,
presupponendo un unico piano marketing. Questo garantisce anche una riduzione dei costi.

Scelta la strategia, nel piano di marketing è opportuno definire le politiche operative che si intendono
adottare, ossia il marketing mix. Esso è composto da quattro strumenti, detti le 4P, necessari perché
l’impresa raggiunga il target.
-prodotto/servizio: l’impresa deve ideare un prodotto/servizio in grado di soddisfare i bisogni individuali.
-prezzo: le politiche di prezzo adottabili sono tipicamente due: scrematura e penetrazione. La prima vuole
rendere il prodotto non immediatamente accessibile a tutti, puntando sull’utile unitario più che sulla
quantità di vendita, come accade per l’alta tecnologia (prezzo alto che poi si abbassa). La seconda, invece,
vuole spingere i volumi di vendita da subito, determinando un prezzo popolare. Per la decisione del
prezzo unitario poi si possono usare tre metodologie: la prima è basata sul costo unitario del bene: si
vede quanto costa ogni prodotto e si aggiunge il ricavo scelto dall’impresa per ogni prodotto. In questo
caso si può usare il Break Even Price, cioè la quantità di unità da vendere a prezzo stabilito per arrivare a
costi e guadagni 0, oppure il prezzo di ciascuna unità data la quantità. La seconda è basata su quanto il
consumatore è disposto a pagare. La terza è basata sul prezzo medio dei concorrenti e sul
posizionamento che si intende avere rispetto a loro.
-placement: riguardo alla distribuzione, gli elementi principali da inserire sono la strategia e il canale di
distribuzione che si intende utilizzare. Le strategie che possono essere adottate sono:
1) distribuzione intensiva: si affianca al marketing indifferenziato, prevede una distribuzione a tappeto del
servizio/prodotto;
2) distribuzione selettiva: si affianca al marketing differenziato, prevede la distribuzione solo in alcuni
luoghi selezionati;
3) distribuzione esclusiva: di vario tipo: diretto (senza intermediari, dall’impresa al consumatore);
indiretto (con almeno un intermediario, come l’agente, il grossista o il dettagliante).
-promotion: la comunicazione (promotion) comprende vari strumenti da utilizzare. La pubblicità, le
pubbliche relazioni, la promozione delle vendite, la vendita personale e i social media. Questi strumenti
sono volti a informare, invogliare e convincere i target di mercato. La definizione di che tipo di
comunicazione utilizzare è molto condizionata dai costi, dal prodotto e dalla strategia di marketing scelta.

I vantaggi principali della pianificazione strategica di marketing si possono identificare con redditività
maggiore nel tempo e miglioramento della produttività. L’esistenza di un piano di marketing a livello
aziendale costituisce un fattore fondamentale ai fini dell’orientamento delle scelte a livello di prodotto.

5.2= PIANO ORGANIZZATIVO: l’organizzazione d’impresa consiste in persone che lavorano insieme per
raggiungere lo stesso risultato. Sono normalmente considerate variabili organizzative componenti la
gestione delle risorse umane, HRM, di cui abbiamo già parlato nel macro:
- struttura organizzativa: dipende dal tipo di attività esercitato, dal contesto esterno, dal periodo di vita e
dalla grandezza dell’impresa. Per un’impresa in avvio, generalmente la struttura delle risorse umane è
abbastanza semplificata, o in forma funzionale o divisionale. Difficilmente si adottano strutture matriciali.
-cultura organizzativa: è quello che di materiale vediamo all’interno dell’impresa. È l’insieme di valori,
comportamenti e modi di pensare che appartengono a quell’impresa. Ci sono tre elementi che ci indicano
quale potrebbe essere la cultura organizzativa:
1.artefatti: è l’elemento più facile, sono i materiali quindi è l’elemento fisico. L’organizzazione, infatti, si
esprime anche attraverso le cose. L’arredo, la tecnologia, lo sfruttamento degli spazi.
2.valori espliciti: sono quelli che espressi nelle comunicazioni ufficiali, vengono comunicati esplicitamente
tipo l’etica dell’impresa;
3.assunti: quelli che non vengono detti, ma vengono comunicati in un altro modo tipo attraverso gli
esempi.
Quattro tipi:
1)clan: vista in modo etico è simile all’area del volontariato e della politica. Si crea una sorta di famiglia
estesa con a capo un padre/madre, colui che da l’esempio e l’indirizzo. Il capo del clan diventa un
mentore. Nel clan c’è grande partecipazione, organizzazione e unità.
2)adhocrazia: l’azienda è divisa in gruppi con una funzione specifica. Sono seguiti da un professionista che
dà loro indicazioni, ma la dinamica è scelta da ogni gruppo. Dando autonomia ai vari gruppi si crea molto
dinamismo e più innovazione a differenza del clan che è statico.
3)gerarchia: nella struttura gerarchica c’è chi comanda e chi esegue.
4)mercato: i gruppi sono l’uno contro l’altro in competizione, dopo che le competenze sono state fornite.
-stile di leadership: facciamo una distinzione tra leader transnazionale (risultato di una negoziazione in
un rapporto di scambio alla pari tra leader e collaboratori. Il rapporto prevede dei premi, non
necessariamente di natura economica, che incentivino comportamenti produttivi a scapito di quelli non
premiati, che non sono produttivi) e trasformazionale (che basa il proprio rapporto coi collaboratori su
leve più emozionali. I suoi strumenti sono la capacità di motivare e di far identificare lo staff con la mission
del progetto. È un leader attento ai bisogno, alle motivazioni e potenzialità dei sottoposti).
Nel primo caso vengono conservate dinamiche già presenti nell’organizzazione, nel secondo c’è un
intervento evolutivo che può cambiare le regole. Esiste anche lo stile del laissez-faire, che consta di una
leadership assente o comunque non attiva.

Gli elementi del HRM non sono indipendenti l’uno dall’altro, ma si influenzano a vicenda.
Come abbiamo già visto, sono importanti il WBS e il RBS per la pianificazione della start-up e per
l’individuazione delle risorse umane. A questi si aggiunge il diagramma di Gantt, che inserisce il tempo nel
piano di lavoro e la matrice delle responsabilità che indica i ruoli che le risorse vanno a svolgere.
Per i programmi di sviluppo questi strumenti si applicano per obiettivo, per le start-up per progetto.

6= PREVISIONI ECONOMICHE, PATRIMONIALI E FINANZIARIE: i piani di azione di un business plan per una
start-up sono strettamente collegati e interdipendenti e si traducono sempre in misure economico-
finanziarie quantitative (costi, ricavi, fonti, impieghi) per l’analisi della fattibilità del progetto d’impresa.
È importante durante il piano non perdere di vista le implicazioni economico-finanziarie e fare continue
previsioni. Il piano economico-finanziario è utile per fare le dovute simulazioni che aiutano a compiere le
scelte progettuali, per iniziare a conoscere i numeri del business, per prendere le decisioni senza perdere
il contatto con la realtà, individuare eventuali piani di emergenza e comprendere il BEP a cui tendere.
Per predisporre un piano economico-finanziario completo per il business plan è necessario
redigere numerosi piani previsionali. Un punto di partenza importante per verificare ed, eventualmente,
modificare la strategia è il Break Even Point (BEP), il punto di pareggio, in cui i costi e ricavi si eguagliano.
È uno strumento che permette di comprendere in modo analitico, ma semplice, dopo quale quantità di
vendita l’impresa inizia a guadagnare. Ci informa su quando l’impresa copre tutti i costi e entra nell’area
del profitto. Per utilizzare questo strumento, è necessario già conoscere i costi fissi e variabili, i
finanziamenti previsti e il prezzo di vendita.
Il BEP presenta un’elaborazione grafica su piano cartesiano e una algebrica. Nella rappresentazione
grafica, sull’asse delle ordinate ci sono gli euro, ossia costi e ricavi, e su quella delle ascisse le quantità
prodotte e vendute. Così è possibile tracciare:
-la retta dei costi fissi CF, costante all’aumentare della quantità prodotta/venduta.
-la retta dei costi variabili CV, che, partendo dall’origine, aumenta all’aumentare della produzione;
-la retta dei costi totali CT, che è la risultante dei costi fissi più i costi variabili.
-la retta dei ricavi totali RT, definita, in base alle stime fatte, dalla somma dei ricavi fissi RF (finanziamenti
pubblici e privati) più la stima di quelli variabili P*Q.
Il punto di incontro della retta CT e della retta RT rappresenta una quantità e un prezzo di equilibrio.

Budget: piano preventivo in cui vengono inseriti i costi che l’azienda pensa di poter sostenere e i ricavi che
si aspetta di ricevere. Cash flow o piano di cassa: costi e ricavi che effettivamente l’azienda ha e sostiene.
Bilancio: piano consultivo, si fa dopo.

I piani da predisporre per dare ai finanziatori un quadro chiaro e preciso, seppur previsionale, è di almeno
3 anni. Il piano strategico, organizzativo, degli investimenti e quello di marketing vanno a comporre il
piano economico-finanziario e la conseguente valutazione di fattibilità.

7= MONITORAGGIO: il doppio sistema di monitoraggio prevede quelli relativi all’andamento dell’impresa,


che sono quelli di cui abbiamo già parlato (milestone, check up, ecc), e quelli relativi agli effetti sul
territorio di una o più imprese. In questo caso, un approccio realistico può essere quello di effettuare una
valutazione qualitativa delle start-up finanziate attraverso un breve questionario. Consultando le stesse
tre anni dopo la loro fondazione è possibile fornire informazioni sulle sfide e le barriere che hanno
affrontato e suggerire modi in cui i programmi pubblici potrebbero migliorare il supporto disponibile. Dati
sull’orientamento internazionale di queste start-up, l’innovatività dei loro prodotti e servizi, le
competenze richieste ai dipendenti e i collegamenti che hanno con le università sono tutti rilevanti per
valutare il loro contributo allo sviluppo economico del territorio.

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