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Competenze, sapere, saper fare e capacità di imparare sono

doti necessarie per


l'individuo, ma sono anche le risorse sulle
quali si costruisce il futuro di un paese.
Come si possono
sviluppare e favorire? Cosa può fare la scuola e qual è la
situazione
italiana rispetto agli altri paesi? Il volume ci fa
capire a cosa serve il capitale
umano nella società moderna,
ma anche come lo si produce e valorizza. Il ruolo del
sistema
scolastico è decisivo. In quello italiano si evidenziano ritardi e
disuguaglianze interne, ma anche punte di eccellenza e
soprattutto una progressiva
attenzione all'uso della
valutazione nazionale degli apprendimenti come possibile
leva
per il cambiamento.

Piero Cipollone è economista alla Banca d'Italia e attualmente


presidente dell'Invalsi
(Istituto nazionale di valutazione del
sistema educativo di istruzione e
formazione). Ha contribuito
al volume "La nuova economia" (a cura di S. Rossi, Il
Mulino,
2003).

Paolo Sestito è economista alla Banca d'Italia. Tra le sue


pubblicazioni per il Mulino
"Disoccupati in Italia" (con S.
Pirrone, 2006) e "I servizi pubblici locali" (con M.
Bianco, 2010).
Piero Cipollone, Paolo Sestito

Il capitale umano
Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i
diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda
http://www.mulino.it/ebook

Edizione a stampa 2010

ISBN 978-88-15-12443-2

Edizione e-book 2010, realizzata dal Mulino - Bologna

ISBN 978-88-15-23021-8
Indice

Premessa
1.

Cos’è e a cosa serve il capitale umano


2.

Il capitale umano dell’Italia


3.

L’Italia e i paradossi di un sistema accentrato


4.

Come si produce il capitale umano


5.

La valorizzazione del capitale umano


6.

La valutazione del sistema scolastico


 
Conclusioni
 

Per saperne di più


ai nostri insegnanti e a quelli dei nostri
figli
Premessa

L’espressione «capitale umano» ricorre spesso nel dibattito


corrente a proposito delle difficoltà incontrate dall’economia
del nostro paese; essa è frequentemente abbinata a una
riflessione critica sulla scuola e sulla sua capacità di
trasmettere ai giovani gli strumenti per poter competere con
successo e partecipare a pieno titolo alla vita sociale del
paese. Fino a venti o trent’anni fa ciò avrebbe destato
meraviglia, essendo il capitale umano un concetto
prettamente tecnico, coniato dalla teoria economica con
l’obiettivo preciso di identificare un fattore causale cui
ricondurre i differenziali salariali tra le persone.

La diffusione del concetto economico di capitale umano è


certamente, almeno in parte, frutto di quella tendenza
egemonica delle discipline economiche, che è stata
dispregiativamente definita «ideologia mercatista»; può darsi
che alle volte vi sia un abuso del termine e che, come tutte le
mode culturali, anche quella di analizzare in termini
economici qualsivoglia questione e utilizzare concetti ed
espressioni gergali del mondo economico e finanziario sia
destinata a passare. Tuttavia, se è senz’altro opportuno
limitare l’abuso delle categorie analitiche della scienza
economica e riconoscerne i limiti, sarebbe sbagliato ignorare
le ricadute economiche dell’istruzione e il contributo
dell’analisi economica al comprenderne e migliorarne
l’efficacia.

Il capitale umano infatti – inteso come sapere e saper fare,


incluso il saper innovare – è un aspetto sempre più
importante del benessere individuale e collettivo di un paese
e la scienza economica può contribuire a spiegare, certo non
da sola – e in questo libro vedremo come tanti altri saperi e
approcci metodologici debbano essere chiamati in causa – il
funzionamento (e le eventuali patologie) del sistema
scolastico nell’accrescere il capitale umano dei (futuri)
cittadini.

Due sono perciò le ambizioni di questo volume. La prima è


quella d’illustrare le ragioni dell’importanza del capitale
umano per gli individui e per la società contemporanea, in
particolare nella sua accezione di società dell’informazione e
della conoscenza. La seconda è quella di descrivere come il
capitale umano venga prodotto e «accumulato»,
soffermandosi in particolare sul ruolo del sistema scolastico.

Da economisti utilizzeremo gli strumenti dell’analisi


economica, tenendo però conto anche del contributo di altri
approcci metodologici sui processi di sviluppo cognitivo ed
emotivo degli individui.

Infine, sebbene il volume non sia esclusivamente sul caso


italiano, cercheremo di spiegare in maniera sistematica qual è
la concreta situazione del nostro paese: i suoi ritardi,
quantitativi e qualitativi, nell’accumulazione di capitale
umano; le implicazioni negative che ne derivano per la sua
performance economica; il modus operandi poco efficace
(nonostante i costi sostenuti) del nostro sistema scolastico; le
sue profonde disuguaglianze interne.
1.

Cos’è e a cosa serve il capitale umano

Cosa significa capitale umano


Il concetto di capitale umano è stato
introdotto dagli
economisti soprattutto per spiegare le differenze nei salari dei
diversi individui. Ritorneremo su questo aspetto parlando dei
rendimenti del capitale umano, per l’appunto cristallizzati in
quei differenziali retributivi che sono anche il risultato di
maggiori conoscenze e
competenze acquisite dai singoli
individui – dove la congiunzione «anche» sta a
significare che
non si esclude il possibile contributo di altri fattori. La teoria
economica sottolinea tre aspetti distinti del capitale umano,
tutti singolarmente
rilevanti ed essenziali:

1. La possibilità di definire, e in qualche modo misurare


empiricamente, il capitale umano come stock di conoscenze
e
competenze.

2. Questa grandezza è un input importante,


anche se non unico,
della produzione di reddito (e di altre
componenti del
benessere degli individui e della società).

3. Questa grandezza è un output


(almeno in parte) esso stesso
producibile e accumulabile a
seguito di esplicite decisioni di
investimento.

Il capitale umano così definito non è quindi


l’insieme delle
abilità (innate) individuali: pur essendo fortemente
influenzato da
capacità e abilità di origine genetica, o
comunque da tratti acquisiti incidentalmente
nell’ambiente
familiare e sociale d’appartenenza, specie nei
primi anni di
vita, esso è producibile e accumulabile. Contano quindi le
scelte fatte
dagli individui e contano, più in generale, tutta
una serie di istituzioni, in
primis la scuola, che possono, in
maniera più o meno efficace a seconda
dei casi e degli assetti
esistenti, far crescere il capitale umano. Così definito, il
capitale umano non si identifica neppure col differenziale di
reddito e produttività
esistente fra individui: misurare il
capitale umano in quanto tale consente anzi di
verificare
quanto esso conti nello spiegare quei differenziali di reddito,
evitando, con
un ragionamento che risulterebbe circolare, di
attribuire al capitale umano tutti i
differenziali di reddito
osservabili. Misurare il capitale umano in maniera oggettiva –
sulla base delle conoscenze e competenze dei diversi
individui, il loro sapere e saper
fare, che sempre più include la
dimensione del saper innovare – consente inoltre di
verificare
l’efficacia degli investimenti fatti e quindi anche l’efficacia di
certi
assetti istituzionali, in primis quelli relativi al sistema
scolastico, nell’innalzamento del capitale umano.

Parlare di capitale umano significa in effetti


parlare di
sistema scolastico.
Da almeno cent’anni le conoscenze rilevanti
nella vita
economica e sociale, e in particolare nel mondo del lavoro,
non sono più solo
quelle trasmesse dai genitori e/o dai
colleghi ed è quindi centrale il ruolo della
scuola come
meccanismo d’acquisizione di conoscenze e di sviluppo di
competenze. Tale
considerazione rimane valida anche
tenendo conto del fatto che la scuola, come spesso si
dice,
non può e non deve direttamente insegnare un mestiere.
Oggigiorno in effetti la
sua importanza non è più tanto nel
trasmettere un insieme dato di conoscenze
formalizzate –
quelle conoscenze che per molti versi differenziavano il
mondo moderno
dal mondo premoderno, basato su
conoscenze prevalentemente tacite – quanto
nell’insegnare
ad apprendere (e più in generale a porsi le domande rilevanti
e cercare
di dar loro risposta).

Al tempo stesso va messo in evidenza che il


capitale umano
di un individuo non coincide con il suo titolo di studio o con
gli anni
necessari per il suo conseguimento. Equiparare le due
cose significherebbe trascurare l’importanza di altri fattori e
processi assai rilevanti
nel produrre il capitale umano, come
l’accumulo di esperienza lavorativa. Così facendo
non si
terrebbe inoltre conto della qualità del sistema scolastico,
ponendo in maniera
erronea alla stessa stregua indirizzi
scolastici intrinsecamente differenti e scuole più
o meno
efficaci. Una tale equiparazione non consentirebbe infine di
identificare le
diverse singole conoscenze e competenze
rilevanti nella vita economica e sociale
attuale: ciò che era
importante ieri potrebbe non esserlo più in egual misura oggi.
Una
misurazione del capitale umano obiettiva e indipendente
dal titolo di studio posseduto è
perciò estremamente
rilevante. Alle principali esperienze esistenti in proposito è
dedicato il box 1.

Negli ultimi tempi almeno tre fenomeni hanno


contribuito
ad accrescere l’importanza del capitale umano per un paese
come l’Italia: 1)
i processi di globalizzazione di produzione e
di scambio dei beni e servizi; 2) le
trasformazioni delle
modalità con cui questi beni e servizi vengono prodotti grazie
all’uso intensivo delle nuove tecnologie dell’informazione; 3)
le tendenze demografiche
a un progressivo invecchiamento
della popolazione.

L’aspetto più macroscopico della


globalizzazione degli
scambi è stata la migrazione di importanti segmenti di
attività
economica, segnatamente quelli caratterizzati da alta
intensità di lavoro poco
specializzato e governabili anche a
distanza (attività di natura più routinaria, spesso
definite
come offshorable), dai paesi avanzati a quelli in via di
sviluppo.
Per l’Italia il fenomeno è stato particolarmente intenso per via
di una
specializzazione produttiva prevalentemente fondata
sull’uso di tecnologie non
all’avanguardia, dell’abbondanza di
lavoro poco qualificato e della ridotta dimensione
d’impresa.
La maggiore interconnessione tra attività economiche svolte
in diverse aree
del mondo, resa possibile dai progressi nelle
tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, ha
inoltre accresciuto l’importanza della capacità di dominare
tali
tecnologie e del possesso di capacità relazionali. Per
rispondere con successo a questa
pressione competitiva si è
spesso invocata la necessità di
puntare su produzioni nuove,
fondate sulla conoscenza e sul capitale umano, e di far
parte
di una rete e di un network mondiali, evitando di rimanere
relegati al proprio ambito locale. Manifesto di questo indirizzo
è stata la
dichiarazione rilasciata dai leader dei paesi membri
dell’Unione Europea al termine del
vertice di Lisbona del 23 e
24 marzo del 2000 che poneva l’obiettivo di fare dell’Europa
«l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e
dinamica del mondo, in grado di
realizzare una crescita
economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e
una
maggiore coesione sociale».

I cambiamenti nelle tecniche di produzione


seguiti alla
diffusione delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione hanno
comportato, nei paesi avanzati,
cambiamenti per molti aspetti simili a quelli indotti
dalla
globalizzazione. Si è ridotta l’importanza di caratteristiche
quali la forza
fisica dei lavoratori e la dimestichezza nel
maneggiare un determinato strumento. Ed è
cresciuto, invece,
il ruolo di quelle caratteristiche che permettono al lavoratore
di
fronteggiare situazioni complesse e articolate, in continua
evoluzione. Più in generale,
si è assistito a una progressiva
riduzione della domanda di lavoratori poco qualificati
a favore
di quelli più istruiti, con conseguente modifica del potere
contrattuale e dei
salari. Poiché le persone più istruite
godevano di redditi da lavoro più elevati già
prima dell’attuale
rivoluzione tecnologica, l’aumento dei loro salari ha
provocato in
molti paesi l’ampliamento della forbice tra ricchi
e poveri. L’Italia non fa eccezione.
Il reddito medio dei ricchi,
diciamo il 10% più ricco della popolazione, è oggi pari al
198%
di quello della classe media (qui intesa come la mediana,
ovvero del gruppo che
occupa la posizione centrale della
distribuzione dei salari). All’inizio del 1990 lo
stesso rapporto
era sostanzialmente inferiore e pari a 188. In passato
fenomeni simili
si erano già registrati in conseguenza della
diseguale distribuzione del possesso di
beni fisici, della
proprietà terriera o dei mezzi di produzione; la specificità
degli
ultimi vent’anni è che l’accrescimento dei divari
reddituali è dipeso dal diverso
possesso di competenze.

Box 1. Come misurare il


capitale umano al di là del titolo di studio

Oggi esistono almeno tre importanti indagini


internazionali che permettono di valutare in modo
comparato, a diverse età e snodi
della carriera scolastica,
la qualità del capitale umano dei ragazzi: le indagini
Pirls
(Progress in international reading literacy study) e Timss
(Trend in
international mathematics and science study),
condotte periodicamente dalla Iea
(International
association for the evaluation of educational
achievement) sui
ragazzi frequentanti la quarta o l’ottava
classe (rispettivamente quarta elementare
e terza media
per l’Italia), e l’indagine Pisa (Programme for
international student
assessment) condotta dall’Ocse
sugli studenti di 15 anni (indipendentemente dalla
classe
frequentata). Sono indagini campionarie con una lunga
storia (un primo
tentativo si ebbe tra il 1959 e il 1962).
A oggi sono state condotte 4 indagini Timss
(1995, 1999,
2003, 2007), relative alle conoscenze di matematica e
scienze, due
indagini Pirls (2001 e 2006), relative a lettura
e comprensione dei testi, e tre
edizioni (2000, 2003, 2006)
di un unico ciclo di Pisa (il focus
in ciascuna edizione è
stato rispettivamente in lettura e comprensione dei testi,
competenze matematiche e competenze scientifiche, con
però elementi di ognuno dei
tre domini presenti in
ciascuna edizione; nel 2009 si è avviato un nuovo ciclo
novennale). Con un impianto concettuale ormai
stabilizzato, ognuna delle tre
iniziative permette di
confrontare i diversi paesi tanto nello spazio (tra di loro)
che nel tempo (in termini evolutivi). Più complesso è il
confronto tra le tre
iniziative, perché ciascuna ha proprie
peculiarità.
Soprattutto per Timss il riferimento è a
quanto lo
studente dovrebbe aver imparato a scuola. Ad esempio,
nel caso della
matematica, il focus si articola su tre
dimensioni cognitive:
conoscere, saper applicare e
saper
ragionare su i contenuti disciplinari, a loro volta
specificati
in quattro tematiche (teoria dei numeri, algebra,
geometria, uso dei
dati e probabilità). Sebbene si
considerino tanto domini più astratti quanto aspetti
più
applicativi, l’accento è posto maggiormente sui contenuti
più astratti come
l’algebra, la geometria e la teoria dei
numeri; tra le tre dimensioni cognitive che
sottostanno al
concetto di imparare – cioè la conoscenza di,
l’applicazione di e il
ragionare su – si privilegia la prima e,
in minor misura, la terza.
Per il Pirls il focus è
invece sulle competenze: la capacità
di leggere come strumento attraverso cui
alimentare una
crescita del proprio capitale umano (e l’età indagata è del
resto
quella in cui si cessa di «imparare a leggere» e si
inizia a «leggere per
imparare»). I testi proposti
riproducono le tipiche situazioni di lettura di un
bambino
di 9-10 anni, a fini di apprendimento o a scopo ludico.
Più lontana dalle conoscenze curricolari di
tipo
scolastico è Pisa. Sebbene i soggetti vengano indagati
nelle scuole – il che
consente di raggiungerli più
facilmente e di raccogliere una messe di altre
informazioni sul loro contesto scolastico – l’obiettivo è
qui valutare competenze
ritenute essenziali per una
piena partecipazione alla società e alla vita adulta
(gli
studenti a 15 anni sono, in quasi tutti i paesi indagati,
poco prima o poco
dopo il termine dell’obbligo
scolastico). La competenza viene definita come la
capacità di dare risposta a domande complesse, espresse
non in astratto ma in un
contesto concreto, mobilitando
tutte le proprie risorse intellettuali. L’essere
competenti
implica perciò non solo il possesso di certe conoscenze
ma anche la
capacità di mobilitarle e di organizzarle nei
tempi, nei modi e nelle circostanze
più adatte a
soddisfare una richiesta. Lo stesso format dei quesiti
posti cerca di
avvicinarsi alla vita quotidiana più che a
quella scolastica.
Ciascuna indagine sintetizza i risultati di
un set di
prove, ampio ma comunque delimitato dalla necessità di
contenere
l’attenzione e l’impegno dei rispondenti entro
limiti di tempo ragionevoli (la
determinazione del
soggetto nel rispondere ai quesiti, che pure
irrimediabilmente
impatta sulle risposte fornite da
ciascuno, non è infatti il
focus della prova). A differenza
dei normali esami
scolastici, in cui la stessa prova è
sottoposta a tutti gli aspiranti
all’ottenimento di un dato
titolo, queste indagini contengono un ampio set di
quesiti
da cui poi si seleziona il sottoinsieme sottoposto al
singolo individuo.
Ogni quesito è infatti rappresentativo
di un certo livello di difficoltà; sotto
l’ipotesi che, al di là
di effetti casuali di varia natura, la correttezza della
risposta fornita dipenda, positivamente, dalle
conoscenze/competenze del soggetto e,
negativamente,
dalla difficoltà del quesito, dall’incidenza di risposte
corrette in
tutta la popolazione di soggetti indagati si
stima il grado di difficoltà dei
singoli quesiti e quindi il
livello di conoscenze/competenze di soggetti che abbiano
risposto a set di quesiti diversi.
Il set complessivo di quesiti adoperato in
ciascuna
indagine è identico tra paesi. Questo assicura
comparabilità tra paesi (la
comparabilità nel tempo si
ottiene avendo sottoinsiemi di quesiti che si ripetono
nel
tempo, tra due indagini diverse). Ciò può limitare la
pregnanza dei risultati
per un singolo paese e non a caso
molti paesi hanno anche proprie indagini
nazionali, più
precisamente tarate su aspetti specifici del proprio
curriculum
scolastico. Alcune esperienze di indagini di
tale tipo, tanto di tipo campionario e
con finalità
essenzialmente conoscitive quanto di tipo censuario ed
integrate nei
processi di certificazione dei titoli di studio,
sono state negli ultimissimi anni
avviate anche in Italia
da parte dell’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione
del sistema educativo di istruzione e di formazione).
Per le indagini internazionali, immane è lo
sforzo posto
nel garantire la comparabilità delle prove e dei loro
formati tra
paesi. Si parte da una definizione concettuale
delle conoscenze/competenze indagate
e si cerca di
prendere quesiti da contesti culturali e nazionali diversi.
In Pisa ad
esempio, le singole prove, definite in due lingue
veicolari (francese e inglese),
vengono tradotte nelle
diverse lingue dei vari paesi e quindi tradotte
nuovamente in
inglese (da altre persone) per controllare
che nel processo non si sia persa
l’omogeneità. Si
scartano così tutte le prove che possano essere
caratterizzate da
difficoltà diverse in lingue diverse – a
causa del loro format o della loro
formulazione lessicale.
Lo scarto avviene non solo in base a un esame ex
ante, ma
anche a seguito di sessioni di prova effettuate per
validare
i quesiti. Si scartano tanto quesiti con un bias
culturale-linguistico quanto prove con «troppe» o «troppo
poche» risposte corrette.
Ciononostante le prove non
sono banali batterie di test a scelta multipla. In Pisa
2006,
ad esempio, il 40% delle domande prevedeva risposte
aperte di lunghezza
variabile, l’8% erano prove a risposta
aperta, ma con un set ristretto di risposte
ammissibili, il
restante 52% erano classiche domande a risposta
multipla. Ma proprio
per garantire obiettività, nelle prove
a risposta aperta si adopera una pluralità di
valutatori
che operano indipendentemente.
Ciononostante vi è chi contesta tali
indagini.
L’argomentazione assomiglia a quelle avverse ai «test di
intelligenza»,
che si concentrano normalmente su alcuni
aspetti (l’intelligenza di tipo cognitivo)
di un fenomeno
senz’altro multiforme. In effetti tali test evidenziano, su
orizzonti
temporali su cui non dovrebbero avere influito
fattori di tipo biologico legati
all’evoluzione della specie,
un trend positivo, presumibilmente legato alla crescita
della scolarità (visto che i soggetti scolarizzati hanno una
maggiore abitudine
all’uso di strumenti cognitivi) più che
all’intelligenza vera e propria che quei
test vorrebbero
misurare. Nel caso delle indagini qui considerate, che test
di
intelligenza non sono (perché semmai cercano di
misurare conoscenze e competenze
acquisite e
sviluppate, non potenzialità intellettive), vi è una criticità
per molti
versi speculare. Nonostante gli sforzi prima
ricordati, qualsiasi prova comunque
misurerà conoscenze
e competenze ma anche la motivazione al loro uso, da
parte del
rispondente, nel contesto concreto fornito dalla
prova medesima. Per l’Italia, ad
esempio, un aspetto
critico delle rilevazioni Pisa è nel fatto che molti studenti
neppure provano a formulare una risposta (essendo la
risposta mancante comunque
classificata come errata).
Ciò deprime la performance media degli studenti italiani.
Meno ovvio è come interpretare tale risultato: si tratta di
un
bias culturale del format delle prove (legato alla
minore
abitudine in Italia a essere sottoposti a prove
scritte)? O si tratta, almeno in
parte, di un segnale (a
nostro avviso preoccupante) di scarso orientamento del
nostro sistema scolastico al problem solving – all’uso in
situazioni concrete, e non solo in sede d’esame scolastico
nozionistico, delle
conoscenze acquisite? Più in generale,
per quanto la ripetizione nel tempo di un
certo set di
quesiti consenta di tracciare l’evoluzione nel tempo dei
risultati di
queste indagini, è da sottolineare che
comunque l’identificazione delle conoscenze e
competenze da misurare in un’indagine è sempre
storicamente determinata: ciò che
oggi riteniamo
rilevante, e che indagini come Pisa cercano di misurare, è
ben
diverso da quello che si sarebbe voluto indagare
cent’anni fa.
Le tre indagini internazionali finora
discusse, così come
le indagini nazionali più o meno variamente collegate
con la
certificazione dei titoli di studio, sono comunque
riferite a studenti. Essenziali
nel valutare l’efficacia e
l’efficienza del sistema educativo, esse consentono però
di valutare solo l’apporto al margine, delle nuove
generazioni,
allo stock complessivo di capitale umano
esistente in un paese. Per ragionare su
questo occorre
evidentemente far riferimento alla popolazione nel suo
complesso, o
quantomeno a quella in età da lavoro, le cui
competenze sono state sviluppate dalla
scuola del
passato (e non solo da questa). Fenomeni come i flussi
migratori, la
formazione sul lavoro o la sua assenza, la
decadenza
fisiologica e l’obsolescenza tecnico-economica
delle competenze acquisite possono
dare luogo a
importanti differenze tra il capitale umano degli odierni
quindicenni e
quello della popolazione oggi attiva nel
mercato del lavoro.
Le rilevazioni sulle competenze degli adulti
sono ad
oggi a uno stadio più arretrato. Storicamente, la prima
iniziativa risale a
circa quindici anni fa col progetto Ials
(International adult literacy survey),
condotto dall’Ocse e
da alcuni istituti nazionali di statistica (in particolare
Statistics Canada). L’approccio seguito ricalcava in buona
misura quello delle
indagini sugli studenti: un campione
di persone di età compresa tra i 16 e i 64 anni
è stato
interessato da tre blocchi di testi, riferiti, rispettivamente,
alla
prose literacy (cioè alle conoscenze e alle abilità
necessarie per capire ed usare l’informazione contenuta
in testi scritti di varia
natura, come editoriali di giornali,
cronache giornalistiche, brochure e manuali di
istruzioni),
alla document literacy (cioè alle conoscenze e
alle abilità
richieste per localizzare e utilizzare l’informazione
contenuta in
moduli di vario genere, come mappe,
tabelle, grafici, orari di mezzi di trasporto,
buste paga e
formulari in genere) ed alla quantitative literacy
(cioè alle
conoscenze e alle abilità richieste per portare a termine
operazioni
aritmetiche su numeri inclusi in testi scritti,
come ad esempio calcolare il saldo
del conto corrente, la
mancia da lasciare, a partire da una percentuale, o
l’ammontare degli interessi da pagare in base a quanto
esposto in un annuncio
pubblicitario). Ials è stata
condotta tra il 1994 e il 1998 in 21 paesi, tra cui
l’Italia, e
contiene informazioni sulle tre dimensioni ora citate
assieme a poche
altre informazioni sulle caratteristiche
sociodemografiche (compreso il background
familiare),
sulla condizione nel mercato del lavoro e sulle abitudini
di lettura.
Una seconda rilevazione è stata condotta nel
2005 (con un ampliamento degli aspetti
quantitativi,
ridefiniti come numeracy), ma per un numero
alquanto
più ridotto di paesi (7, tra cui l’Italia), sotto l’acronimo All
(Adult
literacy and life skill survey). Oggi in ambito Ocse
si è appena avviato un progetto
ancor più ambizioso
denominato Piaac (Programme for the international
assessment of
adult competencies), la cui prima edizione,
se tutto procederà come auspicato dai
partecipanti (più di
25, tra cui l’Italia), dovrebbe aver luogo nel 2012. Il nuovo
progetto dovrebbe accentuare la differenziazione delle
rilevazioni degli adulti
rispetto a quelle sugli studenti. Si
dovrebbero accrescere le informazioni su uso e
implicazioni, nella vita adulta, delle competenze
possedute e queste dovrebbero
essere definite con
maggiore attenzione a quelle rilevanti nella vita attiva e
nel
mercato del lavoro. Il focus resterà comunque sulle
competenze
genericamente rilevanti nel mercato del
lavoro e non sulle competenze specifiche
richieste nelle
diverse singole professioni (sulla distinzione tra capitale
umano
generico e specifico si rimanda al cap. 4).
Ovviamente, si tratterà sempre di
competenze generiche
ritenute rilevanti oggi, nella media dei paesi Ocse, ovvero
un
set di competenze presumibilmente diverse da quelle
rilevanti nelle società solo
industriali o solo agricole di
cent’anni fa. Accanto ai domini di competenze
relativi a
numeracy e literacy e a un più
ampio set di quesiti sulle
competenze agite nel mercato del lavoro e sulla
condizione in quest’ultimo, l’indagine dovrebbe perciò
consentire anche di misurare
la capacità di risoluzione
dei problemi in un contesto non più esclusivamente
testuale e passivo, bensì di tipo interattivo e basato sulle
moderne tecnologie
dell’informazione. Laddove tali
abilità dovrebbero consentire una più fine
misurazione
delle competenze dei soggetti più capaci, un altro modulo
dell’indagine
dovrebbe invece precisare le componenti
elementari delle difficoltà linguistiche di
quei soggetti
che, proprio a causa di queste difficoltà, vengono
normalmente
classificati ai livelli più bassi delle scale
relative a
literacy e numeracy.

Il terzo fenomeno di lungo periodo riguarda il


progressivo
invecchiamento della popolazione che ha investito molte
delle grandi
economie avanzate e durerà ancora a lungo. Per
l’Italia il fenomeno è particolarmente
acuto: secondo le
proiezioni demografiche dell’Istat, nel 2050 ci saranno circa 6
persone anziane, con più di 64 anni, per ogni 10 persone in
età da lavoro (tra i 15 e i
64 anni).

Naturalmente l’allungamento della vita è una


grande
conquista dell’umanità, a condizione che si abbiano i mezzi
economici per
goderne con pienezza. Per garantire che questa
più numerosa
popolazione anziana benefici di elevati
standard di benessere occorrerà lavorare più a
lungo e con
una maggiore produttività. Come mostreremo più avanti, la
partecipazione al
mercato del lavoro e la produttività sono
entrambe positivamente influenzate dal livello
di capitale
umano della popolazione. Rimanere attivi lungo un più esteso
arco di vita
richiederà inoltre la capacità d’imparare sempre
nuovi mestieri, acquisendo e mettendo
in pratica nuove
abilità.

Ma vediamo più nel dettaglio perché e come le


conoscenze
e le competenze degli individui siano rilevanti nel rendere gli
stessi, e la
società nel suo complesso, più produttivi e più
ricchi.

Il legame ambiguo tra capitale umano e


produttività
La teoria economica del capitale umano, per la
prima volta
formulata in maniera compiuta da Gary Becker cinquant’anni
fa, è nata
dall’analisi del legame tra benessere economico e
istruzione. Laddove tale legame, già
più volte osservato, era
attribuito esclusivamente a meccanismi di natura sociologica,
la teoria del capitale umano postula che conoscenze e abilità,
acquisite tramite
l’istruzione, accrescano la capacità degli
individui di produrre beni e servizi;
sinteticamente si dice,
quindi, che il capitale umano aumenta la produttività degli
individui e della collettività cui essi appartengono. La stessa
teoria spiega come la
decisione degli individui di investire
tempo e risorse, economiche e mentali, per
acquisire livelli
più elevati d’istruzione – accumulando quindi capitale umano
– derivi
dal desiderio di appropriarsi dei benefici di questa
maggiore produttività.

Naturalmente ciò non esclude che possano


esservi anche
altri nessi che spiegano il legame tra benessere e istruzione.
L’associazione tra titoli di studio e redditi individuali può, per
esempio, discendere
dal fatto che persone accomunate
dall’avere un certo diploma (o dall’essere passate per
una
certa scuola, come luogo di socializzazione e
imprinting
culturale) costituiscono un club e si organizzino e
agiscano a
difesa dei loro interessi, finendo col condividere comuni
prospettive
economiche. Più in generale, il possesso di un
determinato titolo di studio può essere,
in forza di legge o per
via consuetudinaria, il prerequisito per accedere a una
posizione di potere da cui deriva un particolare livello di
reddito. In altri termini,
l’istruzione potrebbe avere una
funzione di credenziale per l’accesso a determinate
posizioni
senza implicare di per sé nessun aumento di produttività. A
questa visione
dell’istruzione come credenziale per l’accesso a
posizioni a
elevato reddito si affianca quella secondo cui
l’istruzione è un puro segnale
di abilità individuali. In questo
caso il reddito individuale dipende dalla
produttività che però
è frutto non delle capacità acquisite nella scuola ma solo di
abilità innate e immutabili; poiché queste ultime
caratteristiche non sono
immediatamente evidenti e
osservabili, gli individui tendono a renderle manifeste
attraverso l’acquisizione di elevati titoli di studio che, tutti
sanno, possono essere
conseguiti solo dagli individui più abili.

L’associazione tra il livello medio


d’istruzione di una
nazione e il suo livello di ricchezza e benessere economico
potrebbe
inoltre nascondere un rapporto di causa-effetto di
tipo opposto: le collettività più
ricche e a maggior sviluppo
economico sono anche quelle più istruite perché allocano
molte risorse ai consumi culturali, scelta invece preclusa ai
paesi più poveri.

Nella realtà questi diversi aspetti possono


convivere. L’uso
di credenziali e di segnali nel mercato del lavoro non è, ad
esempio,
incompatibile con un reale impatto del capitale
umano sulla produttività degli individui
e delle società. Il
fatto che la decisione di istruirsi risponda anche a un bisogno
di
consumo culturale non significa che i suoi effetti si
esauriscano con la soddisfazione
di quel bisogno, perché
contestualmente si modificano le conoscenze e le
competenze
dell’individuo e quindi la sua produttività futura.
Più in generale, l’idea che il
capitale umano possa essere
accumulato intenzionalmente non vuole accreditare una
visione meccanicistica dell’apprendimento. Questa è infatti
un’esperienza complessa e articolata, a forte valenza emotiva,
che risponde più alle
leggi della biologia e della psicologia che
non a quelle del calcolo economico.
Ritorneremo nei prossimi capitoli sulle
questioni attinenti
la produzione del capitale umano, inteso come stock di
conoscenze e
competenze. Nel seguito di questo capitolo ci
concentreremo invece sul suo ruolo di
determinante del
benessere degli individui e delle società a cui essi
appartengono.
Cercheremo in particolare di spiegare come e
perché il suo ruolo non sia solo quello di
credenziale e di
segnale.

Varietà e domanda di competenze


Il legame tra capitale umano e produttività è
complesso e
mutevole nel tempo. Di questa mutevolezza abbiamo del
resto già parlato
all’inizio di questo capitolo, quando abbiamo
argomentato come oggi siano in atto dei
trend che stanno
accrescendo l’importanza del capitale umano. La serie
articolata di
abilità e di competenze che costituisce il capitale
umano fornisce un contributo alla
produttività che dipende
certamente dalla loro entità ma anche dalla loro
corrispondenza
alle esigenze economiche e sociali. Queste
sono diverse in momenti e luoghi diversi. Nel
tempo, si
registra un’evoluzione degli stili di vita per cui, ad esempio,
abilità e
competenze rilevanti nelle società agricole
tradizionali, come la forza fisica o la
resistenza alla fatica,
sono diventate via via meno importanti; viceversa altre
competenze, come ad esempio il saper leggere e scrivere e,
sempre più,
l’alfabetizzazione informatica, sono oggi divenute
essenziali. Anche nello spazio, la
produttività dipende dalla
corrispondenza tra abilità possedute dall’individuo e compiti
da eseguire: questa funzione di abbinamento è affidata al
mercato del lavoro, cioè a
quell’insieme di regole, procedure e
comportamenti che assegna gli individui alle
diverse
posizioni lavorative; un mercato del lavoro efficiente,
cioè
capace di abbinare i lavoratori con le attività dove meglio
esprimono il loro
potenziale, aumenta la produttività
complessiva e valorizza le competenze esistenti. Al
contrario,
un cattivo funzionamento di questo mercato può ridurre la
produttività del
capitale umano e la sua remunerazione
(finendo con lo scoraggiarne l’accumulazione).
Questi effetti
negativi si producono ad esempio quando molti lavoratori
sono costretti a
confrontarsi con un solo datore di lavoro
perché non godono di una piena libertà di
movimento e
perciò non possono cogliere le opportunità lavorative offerte
da altre
imprese; questa circostanza, nota nella letteratura
economica come una «situazione di
monopsonio», fiacca gli
incentivi ad accumulare capitale umano perché i lavoratori
sono
«sfruttati» e ricevono un salario inferiore al valore di
quello che producono.

La variabilità nel tempo e nello spazio del


rapporto tra
capitale umano e produttività ha come conseguenza che la
gerarchia dei
mestieri, in termini di remunerazioni pagate,
muta anch’essa nel tempo e nello spazio.
Tutto ciò
indipendentemente da qualsiasi considerazione circa il valore
etico delle
diverse professioni: in un dato momento e in un
dato mercato il valore delle competenze
di un ingegnere potrà
essere maggiore o minore di quello delle competenze di un
medico a
seconda delle relative condizioni della domanda e
dell’offerta e non perché un mestiere
sia in assoluto più o
meno «nobile» dell’altro. In altri momenti – perché gli
equilibri
di mercato sono variati – può accadere l’opposto. Al
di là della possibile erraticità di
questi equilibri nel breve
periodo (o della possibilità per una determinata professione
di
appropriarsi di rendite, restringendo ad esempio l’accesso a
quella professione), a
lungo andare è l’evoluzione della
tecnologia che determina quali saranno le competenze
di
volta in volta più rilevanti. Il paradigma tecnologico
prevalente definisce, infatti,
quali siano le competenze più
richieste in un certo periodo e in un dato mercato.

La relazione tra tecnologie e capitale umano


non va però in
una sola direzione. Da un lato, come appena visto, lo stock di
competenze e di conoscenze esistenti acquisisce un dato
valore
economico in funzione delle tecnologie esistenti;
dall’altro, lo stock di competenze e
conoscenze è la leva che
consente di innovare le tecnologie esistenti, rappresenta cioè
il patrimonio di conoscenze collettivo che alimenta l’attività
di innovazione e che
porta a definire nuove tecniche di
produzione o nuovi prodotti.

Nell’esaminare i canali attraverso cui il


capitale umano
influenza lo sviluppo tecnologico di un paese è importante
tenere
distinte le competenze possedute dai singoli lavoratori
dalle conoscenze accumulate
dalla società nel suo insieme. Le
prime sono patrimonio dei singoli lavoratori che soli
potranno
adoperarle in impieghi tra loro mutualmente esclusivi: tanto
il medico quanto
l’ingegnere possiedono alcune competenze
scientifiche di base comuni che però sono
utilizzate, in un
dato momento, per fare un mestiere o l’altro. Al contrario, le
conoscenze accumulate da una società potranno essere
adoperate da chiunque senza che ciò
ne sottragga la
disponibilità ad altri: la teoria della relatività non è pertinenza
esclusiva di determinati individui e soprattutto il fatto che
qualcuno l’adoperi per
comprendere e utilizzare certi
fenomeni non ne impedisce l’uso da parte di altri. Lo
stock di
conoscenze disponibili costituisce quello che gli economisti
tecnicamente
definiscono «un bene pubblico dotato di
esternalità». In termini definitori, si ha
un’esternalità quando
le conseguenze delle azioni di un individuo travalicano la sua
stretta sfera personale per coinvolgere direttamente anche
quella di alcuni altri
individui.

Questa distinzione tra competenze individuali


(utilizzabili
per uno scopo o per un altro) e conoscenze collettive
(sfruttabili senza
detrimento reciproco da più persone e in
diverse attività) è estremamente importante. I
benefici
dell’ampliamento dello stock di competenze di un
determinato individuo
sottostanno a una sorta di legge dei
rendimenti decrescenti perché il miglioramento che
si può
ottenere dall’accrescere le proprie competenze in un
determinato ambito decresce
oltre una certa soglia; nulla del
genere avviene invece nel
caso delle conoscenze accumulate
dalla società nel suo insieme. La letteratura economica
più
recente ha utilizzato questa distinzione per spiegare la
crescita economica. Più in
particolare si è immaginato che le
competenze degli individui, il loro capitale umano,
possano
essere adoperate sia in attività di ricerca – che produrrebbero
«idee» e
innovazioni utilizzabili in via generale – sia in attività
di produzione diretta. Le
prime, pur prive di effetti produttivi
immediati, sposterebbero la frontiera della
conoscenza e della
tecnologia, con ricadute sulla produttività complessiva
dell’economia. Proprio questo avanzamento della frontiera
tecnologica è il motore della
crescita economica.

La distinzione ora fatta è molto netta a


livello logico.
Empiricamente, essa è però spesso una semplice questione di
gradi,
perché la separazione tra attività di ricerca e di
produzione, tra attività in cui si fa
avanzare la frontiera della
conoscenza e attività in cui la si utilizza, non è sempre
così
precisa. Molte scoperte sono un by-product di attività
ordinarie, un loro prodotto casuale. In ogni caso, tra
conoscenze generali disponibili
per la società e competenze
possedute dai singoli lavoratori vi è un intrinseco legame,
anche fisico. Quelle conoscenze, per quanto cristallizzate,
hanno bisogno di persone concrete che sappiano
decodificarle
e utilizzarle. Per quanto, parafrasando Newton (e prima di lui
Bernardo di
Chartres), i singoli ricercatori possano essere
definiti «nani sulle spalle di giganti»,
cioè persone che
applicano un patrimonio consolidato di competenze, anche
metodologiche,
è essenziale che questo patrimonio sia stato
da essi acquisito e che sia per essi
intelligibile. In altri termini,
quei nani devono essere in grado di arrampicarsi sulle
spalle
dei giganti.
Queste considerazioni hanno importanti
implicazioni per le
politiche pubbliche in tema d’innovazione. Sostenere la
ricerca e
gli sforzi di avanzamento della frontiera della
conoscenza è un utile obiettivo. Una
politica pubblica che vi
investa risorse è da considerare lungimirante per via delle
ricadute diffuse che ne possono derivare. Accrescere, con un
qualche atto di volontà
di un attore pubblico, le risorse
investite in qualche
ricerca di base per poter compiere un
salto nella frontiera della conoscenza è però cosa
più facile a
dirsi che a farsi. Occorre infatti che il paese in questione abbia
a
disposizione un numero sufficiente di ricercatori capaci (di
salire sulle spalle dei
giganti) e stimolati, dai giusti incentivi,
ad agire e innovare. L’investimento di
risorse nella ricerca di
base inoltre non basta; per favorire la generazione di nuove
idee e la ricezione e lo sviluppo dei risultati della ricerca di
base conta anche la
dinamicità del sistema economico e delle
strutture di ricerca. Una questione, su cui
però qui non
entriamo, è in quali casi tale dinamicità sia favorita dalla
brevettabilità
dei nuovi dispositivi tecnici – più in generale dal
vantaggio temporaneo che comunque
consegue dall’essere
tra i primi utilizzatori dell’innovazione – e in quali casi,
invece, essa sia favorita da logiche quali quelle dell’open
source,
in cui la possibilità di usare liberamente le scoperte
fatte da altri innovatori stimola
la produzione di applicazioni
su cui altrimenti l’investimento sarebbe fortemente
limitato
dal timore di rimanere «prigionieri» (il cosidetto
hold-up) del
proprietario del brevetto.
Anche ammesso di poter con precisione
distinguere le
attività che spostano la frontiera della conoscenza dalla
produzione
diretta di beni e servizi, la ripartizione «ottimale»
delle risorse esistenti tra i due
poli non è immutabile. Essa
dipenderà dal grado di sviluppo dei singoli paesi o,
all’interno
di una stessa economia, dei singoli settori. Chi è lontano dalla
frontiera
della tecnologia può conseguire importanti guadagni
di efficienza semplicemente
«copiando» e introducendo le
migliori tecnologie scoperte e già utilizzate altrove. Gli
economisti parlano in questo caso di meccanismi di catching-
up,
attribuendo a questi buona parte della crescita che i paesi
in origine meno sviluppati
riescono a ottenere una volta che
abbiano imboccato un sentiero di sviluppo (l’altra
componente di questa maggior crescita è legata
all’innalzamento del capitale fisico per
occupato, che pure
parte da livelli più contenuti). Beninteso, per porre in essere
un
processo di catching-up è necessario disporre di lavoratori
che comunque abbiano
un minimo di competenze: i
macchinari più moderni potranno essere importati, anziché
inventati ex novo, ma chi li adopera dovrà essere in grado di
seguirne le istruzioni d’uso. Nel tempo la situazione però
cambia: proprio i paesi che
inizialmente si sono dedicati a
«copiare» i prodotti e le innovazioni degli altri –
tramite il
reverse engineering (un famoso esempio è quanto fatto
negli
anni ’50 e ’60 dello scorso secolo dai giapponesi
nell’elettronica di consumo) –
possono sviluppare una
capacità tecnica che poi li porterà all’avanguardia nella
tecnologia. Nel tempo, potranno e dovranno di conseguenza
mutare anche gli orientamenti
in tema di sistema educativo.
Le competenze richieste per mettere in atto un processo di
catching-up sono, almeno allo stadio iniziale, meno sofisticate
di quelle necessarie per avviare processi di vera e propria
innovazione:
l’alfabetizzazione di massa e la diffusione della
scolarità ai livelli primario e
secondario saranno
indispensabili per la fase di catching-up.
Viceversa, università e
centri di ricerca di élite
diventano essenziali per aver successo
nell’innovazione.

Su queste considerazioni si basa una diffusa


lettura dei
problemi dell’economia europea dell’ultimo decennio
secondo la quale i paesi
europei avrebbero beneficiato, dopo
la Seconda guerra mondiale, delle grandi opportunità
di
crescita conseguenti alla possibilità di applicare innovazioni
introdotte altrove, in
particolare negli Stati Uniti, paese «sulla
frontiera tecnologica». Il successo in
questo processo
d’ammodernamento li avrebbe però avvicinati a quella
frontiera,
annullando i margini di ulteriore miglioramento
conseguibili tramite la semplice
imitazione; in assenza di un
riorientamento verso un più intenso processo autonomo di
innovazione, il potenziale di crescita si sarebbe affievolito,
laddove gli Stati Uniti
avrebbero invece conseguito importanti
successi.

La crisi finanziaria globale iniziata nel 2007


ha evidenziato
la caducità di taluni dei supposti primati del modello
nordamericano. Ciò
nonostante sono indubbi la capacità
d’innovazione delle imprese
statunitensi e il dinamismo del
mondo accademico e della ricerca – che oltretutto attira
e
mette a frutto risorse umane provenienti da tutto il mondo
(basti dire che la metà dei
dottorati scientifici in quel paese
sono assegnati a individui che non sono cittadini
statunitensi). Viceversa in Europa il mondo dell’università e
della ricerca scientifica
appare eccessivamente frammentato
e segmentato su basi nazionali con assenza di
selettività del
finanziamento da parte della mano pubblica, aspetti questi
che hanno
sfavorito lo sviluppo di processi d’emulazione e
competizione finalizzati al
perseguimento dell’eccellenza. In
tale ambito l’Italia è un caso estremo. Sulla scarsa
propensione all’innovazione italiana potrebbero aver anche
giocato molti fattori come:
gli assetti poco favorevoli alla
concorrenza nei mercati dei prodotti; le regole del
mercato del
lavoro; la scarsa attitudine a finanziare, con capitale di rischio
e non
solo con normali strumenti creditizi, lo sviluppo
d’imprese innovative. In effetti
l’Italia è un paese che ha
evidenziato una forte difficoltà a mutare il proprio modello
produttivo e a spostarsi verso la frontiera tecnologica. Le
nostre imprese sono rimaste
ancorate ai settori tradizionali
del made in Italy (va però detto
che molte si sono abilmente
spostate verso i segmenti della filiera
produttiva a più alto
valore aggiunto). Le nostre università e il mondo della ricerca,
sia pure con eccezioni legate all’iniziativa di singoli, sono
chiusi in una logica
provinciale ed autoreferenziale, con
scarso orientamento all’eccellenza.

Senza entrare nel dibattito sull’innovazione


in Italia, è qui
utile sottolineare due cose. La prima è una nota di ottimismo,
perché
negli anni a venire, proprio in quanto «imitatori», gli
italiani e gli europei potranno
beneficiare degli sviluppi
recenti nell’Ict (Information and communication technology).
La seconda considerazione è che, come già detto, l’essere
imitatori o innovatori non è
qualcosa che si possa decidere a
tavolino, con un semplice atto di volontà. Banalmente,
immaginando che il possesso di un titolo di studio
universitario segnali il passaggio
allo status di potenziale
innovatore, non si potranno licenziare
buoni laureati se prima
non si sono formati dei buoni
diplomati. Inoltre, accrescere le
risorse pubbliche stanziate nel mondo dell’università
e della
ricerca è poco utile se prima non si modifica l’orientamento di
quel mondo,
indirizzandolo all’eccellenza.

Pur con queste precisazioni, possiamo perciò


concludere
sottolineando come il capitale umano per un paese come
l’Italia sia sempre
più importante. Ad esso, inteso come stock
di conoscenze e competenze, e non solo
all’uso di determinati
titoli di studio come credenziali per l’accesso a determinate
posizioni di potere, si deve il legame tra redditi e istruzione. In
prospettiva l’avere
una migliore dotazione di capitale umano
sta diventando ancora più importante che in
passato, sia per
gli individui sia per la collettività: al capitale umano si associa
infatti tanto la capacità di produrre meglio beni e servizi
quanto la capacità di
innovare.
2.

Il capitale umano dell’Italia

La scolarità
Secondo il censimento della popolazione condotto nel 1951
il 13% della popolazione italiana di età superiore a 6 anni era
analfabeta (nel 1901 si trattava addirittura del 48%). Il
fenomeno è pressoché scomparso nel censimento del 2001
(1,5%). Il risultato è il frutto della crescita della
scolarizzazione, che nell’ultimo dopoguerra ha visto il
completamento della partecipazione universale alla scuola
elementare, l’effettività dell’istruzione obbligatoria, impartita
per almeno 8 anni – con la creazione della media unica nel
1963 – elevata poi a 10 anni, a partire dal 2007, e la
significativa crescita, nell’ultimo trentennio del secolo scorso,
degli studi superiori e universitari.

La crescita della scolarizzazione è stata trainata dalle


decisioni spontanee delle famiglie, ma si è sempre anche
fortemente intrecciata con provvedimenti normativi, in primis
quelli in tema di obbligo scolastico. La crescita quantitativa
non è però andata di pari passo con modifiche organizzative e
dell’iter degli studi volte ad adeguare la scuola alla sua nuova
natura di «scuola di massa». La stessa creazione della scuola
media unica, che ha reso effettivo l’obbligo scolastico sino a
14 anni di età e ha unificato corsi di studio che avevano
natura preparatoria per percorsi radicalmente diversi,
avvenne dopo un dibattito lungo e confuso, spesso dominato
dalle pressioni corporative dei gruppi di insegnanti
direttamente coinvolti, più che da obiettivi di ordine
pedagogico. Nella scuola secondaria di secondo grado,
nonostante il suo sempre rinviato riordino – che, però, forse
ora vedrà la luce a seguito dei piani di riforma dell’attuale
esecutivo –, si è assistito a una progressiva esplosione della
frequenza a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Dapprima
l’espansione ha riguardato gli istituti tecnici e professionali,
percepiti come «più facili» al fine dell’ottenimento di un
diploma; ma negli ultimi anni la crescita ha interessato
soprattutto i licei, percepiti come più idonei al successivo
passaggio all’università. La crescita quantitativa si è così
innestata su strutture pensate per un mondo in cui gli studi
superiori avevano una natura elitaria. Il contrasto ha
contribuito a indebolire la tensione verso la qualità.
Distribuzione della popolazione per titolo di studio
FIG. 1.
(punti percentuali).

Fonte: Istat, rilevazioni effettuate su vari anni.

Tornando agli aspetti meramente quantitativi, nel 2006 in


Italia la popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni che
aveva conseguito almeno un diploma di scuola secondaria
superiore era solo il 51% del totale, contro una media dei
paesi dell’Ocse del 68%. Nella popolazione tra i 25 e i 34 anni il
ritardo rispetto alla media Ocse si ridimensiona a 11 punti
percentuali (67 contro 78%) a testimonianza del fatto che la
crescita della scolarizzazione di massa è per l’Italia
relativamente recente; ancora negli ultimissimi anni, il flusso
dei nuovi diplomati in rapporto alla popolazione di 19 anni è
salito dal 64 (anno scolastico 1995-96) al 77% (anno scolastico
2006-07). Nella fascia di età tra i 55 e i 64 anni il ritardo è
invece molto elevato (32 contro 55%) specialmente per le
donne, nel nostro paese molto meno scolarizzate che negli
altri paesi Ocse, a differenza dei maschi (tra i più giovani vi è
al contrario una maggiore scolarizzazione delle donne).

Questo ritardo italiano nella scolarità di base si riflette


anche nella partecipazione ad attività di formazione degli
adulti: secondo i dati Eurostat, in Italia la quota della
popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni che nel 2006
dichiarava di aver partecipato a un corso di formazione era il
6,1%, contro il 10,1 della media dei paesi dell’Unione Europea
a 15 membri. Che le attività formative non compensino i
ritardi nella scolarità di base non deve peraltro stupire. Ci
sono infatti almeno due ragioni che scoraggiano dall’investire
nella formazione. Da un lato il basso livello di scolarità dei
nostri lavoratori, che ne riduce la capacità di essere formati
(l’accumulazione di capitale umano obbedisce del resto al
principio che chi più sa, più impara; si veda il cap. 4).
Dall’altro la ridotta dimensione delle nostre imprese che
rende più difficile trattenere i lavoratori una volta formati.

I progressi compiuti nel tempo dall’Italia, sebbene rilevanti,


non appaiono peraltro eccezionali nel panorama
internazionale: un paese come la Corea del Sud ad esempio,
pur partendo in passato da livelli ancor più bassi dell’Italia,
mostra oggi livelli ben più elevati, sia nel totale della
popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni (con una
quota di diplomati al 2006 del 77%) sia per chi abbia tra i 25 e i
34 anni d’età (97%). Questo è un risultato tanto più
straordinario in quanto non è stato conseguito a discapito
della qualità: gli studenti coreani di 15 anni sono, nel
panorama dei paesi dell’Ocse, tra quelli con più elevati livelli
di competenze.

In prospettiva, sull’evoluzione del capitale umano avranno


peso anche importanti fattori demografici. Da un punto di
vista meramente quantitativo si ridurrà il contributo che al
dato medio complessivo potrà provenire dalla maggiore
scolarizzazione delle nuove leve rispetto a quelle anziane, in
via di pensionamento: le nuove coorti sono numericamente
molto più piccole di quelle anziane (nei prossimi vent’anni
entrerà nel mercato del lavoro un numero di persone pari
all’incirca alla metà del numero di persone prossime al
pensionamento). Inoltre, mentre sino a oggi le nuove leve
giovanili prendevano il posto di lavoratori in uscita
nettamente meno scolarizzati, a partire dal prossimo
decennio il ricambio generazionale interverrà su coorti, i
soggetti nati negli anni ’60 del secolo scorso, già interessate
dalla scolarizzazione di massa. In altri termini, solo
un’ulteriore crescita della scolarità tra i più giovani potrà
portare a una crescita significativa del dato medio
complessivo. Un altro dato demografico rilevante è che la
condizione perché tale crescita ulteriore si realizzi è che al
fenomeno partecipino anche i figli degli immigrati, le seconde
generazioni, che oggi si caratterizzano per partecipazione e
risultati scolastici alquanto deludenti: nel 2050 il 38% dei
giovani tra i 15 e i 24 anni, presenti in Italia, saranno
immigrati o figli di immigrati (oggi sono meno del 9%,
essendo in prevalenza immigrati di prima generazione).

I divari rispetto agli altri paesi Ocse si amplificano


comunque quando si consideri il livello universitario. Inoltre
nel confronto tra generazioni, il divario della quota di laureati
tra l’Italia e la media dei paesi dell’Ocse si amplia quando si
passa dalla classe di età tra i 55 e i 64 anni a quella tra i 45 e i
54 anni e a quella ancora più giovane.

Nel corso dell’ultimo decennio dello scorso secolo ci sono


state peraltro due importanti trasformazioni del nostro
sistema universitario che avrebbero potuto aiutare a chiudere
questo divario: l’aumento delle sedi universitarie e la riforma
degli ordinamenti, con il cosiddetto 3+2. L’aumento delle sedi
avrebbe dovuto rendere più facile e meno costoso accedere a
(e frequentare con successo) gli studi universitari; nella stessa
direzione avrebbe dovuto operare la prospettiva di poter
conseguire un titolo di studio intermedio (la laurea di primo
livello). A beneficiare maggiormente di queste innovazioni
avrebbero dovuto essere i giovani provenienti da famiglie
economicamente meno abbienti, per i quali il vincolo
economico alla frequenza dell’università e l’urgenza di
entrare nel mercato del lavoro sono più stringenti.

All’atto pratico, dal 2000 al 2006 le immatricolazioni


universitarie sono aumentate di quasi 24 mila unità,
passando come quota del totale dei diciannovenni dal 43 al
54%. Il tasso di completamento degli studi universitari sembra
essere migliorato rispetto ai valori tradizionalmente molto
bassi: secondo gli ultimi dati disponibili il numero dei nuovi
laureati per cento ragazzi di 25 anni d’età è passato da circa
19 a oltre 23 nell’anno accademico 2005-06. Al di là degli
aspetti qualitativi, su cui torneremo a breve, anche il mero
computo quantitativo ora citato va però considerato con una
certa cautela. Il forte aumento delle immatricolazioni si è
verificato in gran parte nei primissimi anni dopo la riforma
degli ordinamenti, in particolare fino all’anno accademico
2003-04; da allora si è avuto un certo calo dei nuovi iscritti. Il
forte aumento iniziale era in parte dovuto all’iscrizione ai
nuovi corsi triennali di quanti desideravano mettere a frutto
gli esami sostenuti nei vecchi corsi quadriennali, che avevano
ormai abbandonato. Quasi metà delle maggiori
immatricolazioni tra l’anno accademico 2000-01 e il 2003-04
(25 mila su 54 mila) erano dovute a giovani con più di 21 anni;
la successiva scomparsa di questo fenomeno transitorio
spiega buona parte del successivo calo verificatosi tra il 2003-
04 e il 2006-07 (pari a quasi 30 mila unità, di cui 18 mila
collocabili in questa fascia d’età; fig. 2).

Il dato quantitativo non può inoltre fare premio su quello


qualitativo. La diffusione di nuove sedi (spesso come
distaccamenti di atenei già esistenti) e nuovi atenei è stata
spesso vista come sintomo di uno scadimento dell’università,
una sua pericolosa «licealizzazione». Senz’altro vi sono stati
aspetti negativi: la creazione di corsi poco meditati, di
dimensioni subottimali e inadatti a fornire un syllabus
completo ed efficace. Di per sé una maggiore diffusione e un
ampliamento dell’offerta universitaria è però inevitabile ove
si voglia aumentare la partecipazione agli studi universitari.
Ciò che più è discutibile è il fatto che l’espansione sia
avvenuta senza attivare una vera competizione tra sedi
universitarie basata sulla qualità, a causa del persistere di un
sistema di rette indifferenziato, di una scarsa mobilità degli
studenti e dello stesso permanere del valore legale del titolo
di studio. L’aumento dell’offerta a livello geografico non ha
inoltre portato a una chiara distinzione tra università con
finalità prevalentemente educative, da considerarsi una sorta
di «superlicei», e università di punta a forte vocazione per la
ricerca.
FIG. 2. Immatricolazioni all’università per classe di età e
anno accademico.

Considerazioni per molti aspetti simili possono farsi per


quanto riguarda il cosiddetto 3+2. L’ampliamento della
gamma di titoli offerti – non più necessariamente tutti di
livello accademico «alto» – favorisce la partecipazione di
quanti vogliano arricchire le proprie conoscenze ma senza
dedicarsi a un percorso più propriamente accademico.
Risponde all’esigenza delle imprese di avere tecnici
qualificati, non necessariamente di profilo squisitamente
accademico. Il concreto disegno dei nuovi corsi triennali,
specie all’inizio, ha però portato spesso a replicare il vecchio
syllabus quadriennale comprimendo semplicemente il
contenuto di ciascuno dei vecchi insegnamenti; in molti casi i
successivi corsi di laurea specialistica hanno perciò assunto il
connotato di corsi suppletivi per il recupero di quanto non
adeguatamente trattato nei corsi triennali. La previsione delle
due lauree ha finito così per ufficializzare la durata abnorme
degli studi universitari nel nostro paese, legata anche alla loro
scarsa selettività e al costo relativamente contenuto delle
rette d’iscrizione, che consentono di rimanere iscritti anche
ove sia scarso l’impegno e il profitto tratto dagli studi. Solo col
tempo si è iniziato a prestare attenzione all’esigenza di
programmare una nuova offerta di corsi triennali,
distinguendo fra chi voglia fermarsi a questi e chi voglia
proseguire con la laurea specialistica. Non è un caso che ciò
sia avvenuto più di frequente laddove il mercato del lavoro ha
espresso una reale domanda di tecnici qualificati. Nelle
situazioni geografiche dove ciò non si è realizzato e per quelle
professioni nelle quali gli ordini professionali governano
l’accesso al mestiere con finalità spesso corporative, la
riforma o non è stata proprio realizzata, perché si è rimasti al
vecchio ordinamento, o ha ufficializzato a un allungamento
dei tempi minimi di accesso alla professione. Una confusione
non piccola è stata poi generata dal fatto che alla laurea
specialistica, che in concreto rappresenta quel che in altri
paesi è il master postuniversitario, hanno continuato ad
affiancarsi, disordinatamente, master di primo e di secondo
livello (successivi cioè, rispettivamente, alla laurea di base e a
quella specialistica).

Le competenze dell’individuo e la qualità della scuola


Nel capitolo 1 si è definito il capitale umano come un
insieme di conoscenze e competenze, il sapere e il saper fare
delle persone. Abbiamo anche spiegato che misurare questo
concetto così complesso in termini di anni di scuola
frequentati o di titolo di studio conseguito è in realtà
piuttosto riduttivo. L’idea che la semplice frequenza delle aule
scolastiche di per sé produca un accrescimento del capitale
umano, indipendentemente dalle caratteristiche del sistema
scolastico, della singola scuola e dell’individuo, è del tutto
fuorviante. Adottare questa prospettiva impedirebbe di
valutare l’efficacia sia del sistema scolastico sia delle singole
scuole. Non stupisce perciò che è proprio a partire dal
dibattito sulla qualità della scuola che si sono sviluppate le
diverse iniziative di misurazione diretta del capitale umano,
illustrate nel box 1.

Una valutazione d’insieme delle competenze della


popolazione adulta è fornita dai risultati delle indagini Ials
(International adult literacy survey) e All (Adult literacy and
lifeskills). In particolare l’indagine All mette in evidenza che
la popolazione adulta italiana, presa nel suo complesso, non
possiede una competenza alfabetica funzionale adeguata alle
esigenze d’un paese avanzato: l’80% circa degli italiani di età
compresa tra i 16 e i 64 anni ha un livello di padronanza della
lingua madre giudicato sostanzialmente insufficiente (al di
sotto del livello 3 della scala di All). Per confronto, nei paesi
con competenze più elevate (come la Norvegia) questa quota
non supera il 30% mentre in quelli in posizione intermedia
(Svizzera, Canada, Stati Uniti) non va oltre il 50%. Su questo
dato influisce lo sviluppo relativamente recente della scolarità
di massa in Italia. Ma non sembra che questa sia l’unica
causa: la stessa indagine All infatti mostra come nella fascia
d’età tra i 16 e i 25 anni l’Italia evidenzi un ritardo rispetto agli
altri paesi solo marginalmente inferiore a quello che
caratterizza la classe di età tra i 46 e i 65 anni.

Informazioni più interessanti, ancorché parziali, sono poi


desumibili concentrandosi sulle generazioni più giovani e
utilizzando l’indagine Pisa, che considera i soli studenti
quindicenni. Il dato sui quindicenni è importante perché
quella è l’età in prossimità della fine dell’obbligo scolastico,
anche se va ricordato che in Italia ai 15 anni di età non
corrisponde con precisione alcun momento di passaggio
istituzionale del nostro sistema scolastico.

Se si volesse avere un’idea più precisa delle competenze di


chi esce dal sistema scolastico, per valutare il contributo che
questo porta al capitale umano del nostro paese, occorrerebbe
infatti concentrare l’attenzione su: i laureati (un flusso di
circa 160 mila persone nel 2006 al netto delle lauree triennali,
pari al 23,1% dei giovani di 25 anni); quanti abbandonano gli
studi universitari (un numero superiore al 50% degli
immatricolati); i diplomati che non s’iscrivono affatto
all’università (circa il 30% del totale); quanti non hanno
ottenuto un diploma di scuola secondaria superiore (il 20,8%
dei giovani tra i 18 e i 24 anni nel 2006 risultava privo di
diploma e non ne stava perseguendo il conseguimento). In
assenza d’informazioni specifiche su questi gruppi, la
rilevazione sui quindicenni, ancora inseriti nel mondo della
scuola (la stragrande maggioranza) è quanto di più prossimo a
dare un’idea sulla qualità dell’output delle scuole italiane.

Nei dati delle tre indagini Pisa ad oggi disponibili – condotte


nel 2000, 2003 e 2006 – l’Italia ha sempre evidenziato un
significativo ritardo in ciascuno degli ambiti indagati (ritardo
peraltro un po’ più marcato nel caso delle competenze
matematiche). Disaggregando all’interno di ciascun ambito, si
nota inoltre che i quindicenni italiani si trovano più a loro
agio con i quesiti «scolastici». Questo dato viene a volte
adoperato per contestare la validità delle indagini Pisa come
misura dell’output della scuola italiana. La scuola, si
argomenta, farebbe bene il suo mestiere di scuola, che non
sarebbe evidenziato sufficientemente da misurazioni di
stampo «anglosassone». Va detto però che dal punto di vista
della tecnica di misurazione le indagini internazionali (Pisa,
così come Timss e Pirls) adottano le metodiche più avanzate e
offrono le più ampie garanzie di qualità. All’atto pratico
vanno fatte due considerazioni. In primo luogo le differenze
tra i vari sottoambiti sono estremamente piccole e
statisticamente poco significative. In secondo luogo esse
segnalano la particolare difficoltà dei nostri studenti nel
servirsi delle loro conoscenze in situazioni difformi da quelle
più tipicamente scolastiche. A nostro avviso si tratta di un
tratto, della scuola, certo, ma anche della nostra «cultura
nazionale»: non instillare l’abitudine ad applicare nella vita
quotidiana gli apprendimenti scolastici può essere segnale di
una separatezza e autoreferenzialità del mondo della scuola e
di una sottovalutazione del saper fare a vantaggio del sapere
«astratto».

Il ritardo italiano (rimandiamo al prossimo capitolo la


discussione sui divari interni all’Italia) è dovuto alla presenza
di molti studenti dalle performance deludenti (specie per la
lettura e comprensione dei testi), ma anche alla scarsità di
quelli dalle performance molto brillanti. Esso non appare
invece ascrivibile al background familiare, in particolare al
fatto che i genitori dei nostri quindicenni siano, più spesso
che in altri paesi, soggetti a loro volta poco scolarizzati. La
spiegazione di quest’apparente contraddizione sta nel fatto
che il legame positivo tra scolarità dei genitori e competenze
dei quindicenni è in Italia un po’ più debole che nella media
dei paesi dell’Ocse. Oltre che per una scarsa presenza di
politiche dell’eguaglianza a favore dei meno abbienti (si veda
il cap. 3), il nostro paese si caratterizza per una ridotta
tensione verso la qualità che probabilmente comporta che
anche gli studenti potenzialmente più brillanti, magari per via
d’un background familiare favorevole, siano poco stimolati ad
eccellere.

I risultati di Pisa, riferiti a studenti quindicenni (in Italia per


il 92% all’interno della scuola media superiore – con lo 0,8%
nella scuola media e il 7,3% nei centri di formazione
professionale, da non confondere con gli istituti professionali
che sono uno degli indirizzi della scuola secondaria
superiore), naturalmente non dipendono solo dalla scuola
frequentata al momento dell’indagine. Essi sono piuttosto il
frutto del progressivo procedere dei processi di
apprendimento e quindi di tutte le scuole frequentate (oltre
che dell’ambiente familiare e di quello sociale più in
generale). Dal confronto tra Pisa e le altre indagini
internazionali relative a momenti precedenti dell’iter
scolastico appare però evidente come ci sia una sorta di
progressivo deterioramento qualitativo con il procedere dei
vari ordini di scuola (si veda a questo proposito la tab. 2). Alla
fine della primaria i nostri ragazzi hanno livelli di
apprendimento abbastanza elevati nel confronto
internazionale (come rilevato da Pirls, per le competenze
linguistiche, e, meno nettamente, da Timss per quelle
matematiche e scientifiche); questo vantaggio scompare già
in terza media (almeno per quanto rilevato da Timss in tema
di competenze matematiche e scientifiche), e i dati di Pisa
sanciscono poi il grave svantaggio nella scuola secondaria
superiore.

TAB. 1. Risultati Pisa: la situazione dell’Italia

Lettura e
Matematica
  comprensione Scienze 2006
2003
dei testi 2000

Media: Italia (Ocse) 487 (500) 466 (500) 475 (500)

25° percentile: Italia (Ocse) 429 (435) 400 (432) 409 (434)

75° percentile: Italia (Ocse) 552 (571) 530 (571) 543 (568)

Quota dei poveri di


competenze (sotto il livello
2): Italia (Ocse) 18,9 (17,9) 31,9 (21,4) 25,3 (19,3)

Quota delle eccellenze

(sopra il livello 4):

Italia (Ocse) 5,3 (9,5) 7,0 (14,6) 4,6 (9,0)

Gap di genere (mas-fem):

Italia (Ocse) –38 (–32) 18 (11) 3 (2)

Punteggio dell’Italia al netto


dell’effetto background
socioeconomico e culturale
(con l’indice di background
alla media Ocse) 487 470 478
Lettura e
Matematica
  comprensione Scienze 2006
2003
dei testi 2000

Legame tra risultati e


background familiare:

Italia (Ocse) 32 (41) 34 (45) 31 (40)

Ambiti cognitivi considerati Individuare Spazio e forma, Individuare


(in corsivo quello con informazioni cambiamenti e questioni di
migliore performance nel testo, relazioni, carattere
interpretare il quantità, scientifico, dare
in Italia)
testo, riflettere incertezza spiegazione
sul e valutare il scientifica dei
testo fenomeni, usare
prove basate su
dati di carattere
scientifico,
conoscenza
sulla scienza

Nota: I dati in parentesi riferiti al complesso dei paesi (Ocse) partecipanti a Pisa sono una media
semplice dei dati relativi ai singoli paesi partecipanti. Il punteggio al netto dell’effetto del background
familiare è quello che si avrebbe se l’indice di background fosse uguale a quello medio dei paesi Ocse. Il
legame tra background familiare e risultati Pisa è il coefficiente standardizzato della regressione dei
secondi sul primo, in una regressione che considera solo l’Italia (in parentesi è lo stesso coefficiente
nella media dei paesi Ocse, in una regressione in cui i risultati Pisa sono regrediti sul background
familiare e su un set di dummies di paese).

Anche se bisogna tener presente la progressività nel tempo


dei processi di apprendimento (si veda il cap. 4), l’evidenza
presentata è congruente con la diffusa opinione di una buona
qualità delle nostre scuole elementari e dell’infanzia e di una
deludente qualità della scuola media inferiore. Di fatto la
scuola elementare sembra molto efficace nel favorire
l’apprendimento della lettura e delle scienze,
indipendentemente dal set di paesi presi a riferimento. Per la
matematica il giudizio è meno lusinghiero perché i dati dei
nostri ragazzi sono marginalmente più bassi di quelli dei
paesi europei, che non sono comunque i primi della classe.
Nella scuola secondaria di primo grado i risultati in scienze
sono peggiori della media delle indagini internazionali,
indipendentemente dal gruppo di paesi scelti come
riferimento, e le difficoltà nella matematica si aggravano.
Secondo l’analisi dell’Ocse questo peggioramento dei risultati
nelle scuole medie dipende da almeno due tipi di cause: una
prima ragione andrebbe ricercata nel cambio del modulo
didattico da quello centrato su poche figure di riferimento
nella scuola primaria al modulo con una molteplicità di
insegnanti nella secondaria di primo grado. Una seconda
ragione riguarda la modalità di reclutamento degli insegnanti
nei due tipi di scuola: quelli delle scuole primarie sono in
genere soggetti particolarmente motivati, mentre i professori
delle scuole secondarie non sempre lo sono. In assenza di
adeguati riscontri empirici, ci limitiamo però a riportare tali
tesi, per quanto ragionevoli possano sembrare, senza
necessariamente sottoscriverle.

TAB. 2. La qualità dell’istruzione in Italia

Media Media dei paesi partecipanti


Indagine Età/classe Materia
dell’indagine all’indagine
membri membri
membri
        della Ue della Ue
dell’Ocse
27 15

Iea Pirls Quarta Lettura 110 103 103 103


2006 elementare
Media Media dei paesi partecipanti
Indagine Età/classe Materia
dell’indagine all’indagine
membri membri
membri
        della Ue della Ue
dell’Ocse
27 15

Iea Timss Quarta Matematica 101 99 99 98


2007 elementare
Scienze 107 102 102 102

Iea Timss Terza Matematica 96 95 98 98


2007 media
Scienze 99 96 99 97

Ocse Pisa Studenti di Lettura 95 95 97 95


2006 15 anni
Matematica 93 93 93 93

Scienze 95 95 95 95

Nota: Punteggi ottenuti dai ragazzi italiani; media complessiva dei paesi partecipanti all’indagine pari a
100.

Il finanziamento e le performance del sistema


scolastico
Come quota del proprio Pil, l’Italia spende poco meno della
media dei paesi Ocse nell’istruzione primaria e secondaria (il
3,3%, contro il 3,8%). Un divario marcato si ha solo per gli
studi universitari, per i quali l’Italia spende lo 0,9% contro una
media Ocse di 1,5 punti percentuali, tanto nella componente
pubblica (0,6% del Pil contro l’1,1 della media Ocse) quanto
nella modesta spesa sostenuta dai privati (0,3 del Pil contro lo
0,4% nella media dei paesi Ocse, con un picco negli Stati Uniti,
ove la spesa complessiva, pari all’1,9% del Pil, per ben due
terzi viene dal settore privato).

Le informazioni sulla spesa rischiano però di dare una


visione distorta. Infatti la spesa per l’istruzione è trainata dal
numero di studenti; se si considera anche questo aspetto si
vede come la differenza tra l’Italia e la media dei paesi Ocse
sia tutta ascrivibile al fatto che da noi ci sono meno studenti,
come quota della popolazione complessiva. Considerando la
spesa media per studente, quella dell’Italia balza al di sopra
della media dei paesi dell’Ocse: spendiamo circa il 10% in più
per ogni bambino della scuola primaria e l’8,7% in più per i
ragazzi dalle elementari fino alle superiori. Queste indicazioni
non cambiano se si considera la spesa per studente in
rapporto al Pil pro capite, un indicatore utilizzato per
neutralizzare l’effetto di gonfiamento della spesa che si
verifica per i paesi più ricchi, nei quali il livello di benessere
economico tende ad innalzare anche gli stipendi degli
insegnanti relativamente a quelli di altri paesi. Nel
complesso, a giudicare soltanto dal livello della spesa, il
ritardo dell’Italia evidenziato nel paragrafo precedente non
pare ascrivibile a uno scarso impegno finanziario.

Se si guardano le cose più da vicino si può osservare che


l’elevata spesa per l’istruzione primaria e secondaria dipende
dal fatto che il numero di insegnanti in rapporto a quello degli
studenti è in Italia sensibilmente più elevato che in altri paesi;
su di esso incidono il basso numero di studenti per classe e
l’elevato numero di insegnanti che comunque servono per far
funzionare una classe (quest’ultimo dato deriva tanto da un
tempo scuola più elevato, un maggior numero di ore di
insegnamento frontale garantito agli studenti, quanto da un
impegno orario a carico di ciascun insegnante più basso che
nella media Ocse). Tanto sul primo che sul secondo fattore
incide anche la scelta di garantire, con classi più piccole e la
presenza di insegnanti di sostegno, l’inserimento degli
studenti diversamente abili nelle classi ordinarie. Questa
scelta di civiltà, che non sembra peraltro aver garantito
risultati particolarmente soddisfacenti dal punto di vista
dell’integrazione, non è comunque l’unica causa dell’elevato
numero di insegnanti. Sul numero di studenti per classe
incide anche la frammentazione delle scuole: circa 18 mila
plessi nella scuola primaria la cui presenza si registra anche
nei comuni più piccoli (non da ultimo a causa di forti carenze
nel trasporto locale), e l’assenza di incentivi, per le scuole, a
risparmiare sul numero di classi e di cattedre.

Le difficoltà in cui da anni si dibatte la nostra finanza


pubblica hanno finito per esercitare una forte pressione verso
il contenimento della dinamica della spesa in istruzione. Si è
cercato di controllare in maniera più stringente i processi di
definizione del fabbisogno del personale della scuola
(insegnanti e personale di supporto, Ata), agendo sul numero
di studenti per classe e sul tempo scuola (il numero delle ore
di insegnamento garantito agli studenti). Questa strategia ha
finora dato frutti piuttosto parziali: tra la metà degli anni ’90 e
la metà del corrente decennio il numero degli insegnanti si è
ridotto del 3,2% a fronte di una sostanziale stazionarietà del
numero degli studenti. Ciò nonostante, è soprattutto per via
di questi interventi, e di mancati investimenti in altri aspetti
del mondo della scuola, che la spesa totale per l’istruzione, al
netto di quella universitaria, è cresciuta in Italia molto meno
che negli altri paesi Ocse (nel quinquennio 2000-05, ultimo
anno per cui sono disponibili dati su base comparata, la
crescita in termini reali è stata del 7% in Italia, prossima al
19% nella media Ocse).

Il controllo della spesa


Un rinnovato sforzo per il controllo della spesa è stato
messo in campo nella prima finanziaria dell’attuale
legislatura, che prevede risparmi, nel triennio 2009-11,
piuttosto ambiziosi, per complessivi 8,7 miliardi di euro; le
strade individuate sono ancora una volta l’innalzamento
graduale del rapporto alunni/docente di una unità e una
riduzione del 17% del personale Ata. La realizzazione di questi
obiettivi viene affidata a un piano programmatico triennale
che punta essenzialmente sulla revisione degli ordinamenti
scolastici ovvero su una riduzione del tempo scuola offerto,
ma anche sulla razionalizzazione ed accorpamento delle
classi di concorso (per una maggiore flessibilità nell’impiego
dei docenti), e sulla razionalizzazione della rete scolastica (nel
duplice aspetto di dimensionamento degli istituti e di
polverizzazione dei punti di erogazione del servizio). Nella
scuola primaria, l’orario di base – quello che definisce le ore di
insegnamento minime necessarie a coprire il curricolo di ogni
alunno – è stato fissato in 24 ore settimanali (dalle 27
precedenti) – allineandolo all’orario contrattuale vigente, di 24
ore (per l’esattezza 22 ore di insegnamento e 2 di
programmazione delle attività didattiche) – cosa che ha reso
possibile l’affidamento della classe a un unico docente (il
cosiddetto «maestro unico»). L’effettiva possibilità di
conseguire i risultati programmatici è legata alle concrete
azioni messe in campo. Con l’anno scolastico 2009-10 è stato
effettivamente prodotto un regolamento per l’attuazione di
nuovi ventagli di orari nella scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria di primo grado. Non è però detto che i risultati
immaginati siano tutti facilmente conseguibili. Le scelte delle
famiglie relativamente alla scuola primaria sembrano ad
esempio andare in direzione opposta: secondo dati relativi ad
un campione significativo di iscrizioni, in un terzo dei casi le
famiglie hanno optato per il tempo pieno (40 ore settimanali)
e più della metà per un modello di 30 ore (invece del modello
minimo pari a 24 ore). Più in generale va detto che i tagli del
tempo scuola, anche se non irragionevoli alla luce del fatto
che l’Italia si caratterizza per un tempo scuola
comparativamente piuttosto elevato, sono spesso operati
senza un’attenta riflessione sui curricoli e sull’organizzazione
dell’attività didattica.

Insegnanti di ruolo e precari. Il contenimento della spesa è


stato perseguito anche attraverso il mancato adeguamento
dei posti di ruolo ai fabbisogni che risultano dall’applicazione
delle regole per la formazione delle classi. A questa mancanza
si è fatto fronte con il ricorso al personale tratto dalle
graduatorie permanenti degli aspiranti all’immissione in
ruolo, assunti però con contratti a tempo determinato. Questa
scelta, oltre a ridurre il rischio di avere poi personale di ruolo
in eccesso (la storia italiana è costellata di esempi di come la
presenza di personale da sistemare abbia condizionato le
scelte pedagogiche e organizzative), calmiera nell’immediato i
costi perché, fino all’ingresso in ruolo, il personale in
questione non percepisce scatti di anzianità.

Si tratta però di una strategia di corto respiro che non incide


sugli incentivi e quindi sui comportamenti di chi opera nella
scuola così da orientarli verso un contenimento della spesa e
un contemporaneo accrescimento della qualità del servizio.
Al contrario si produce una giostra infernale, in cui il numero
di insegnanti non è stabilmente contenuto e la loro
motivazione finisce con l’essere compromessa.

Sul piano della quantità delle risorse, le scuole hanno ben


pochi incentivi ad economizzarle; anzi in alcune aree del
paese la scuola continua ad essere sottoposta a una forte
pressione sociale a «creare qualche posto di lavoro in più». Sul
piano della qualità, gli insegnanti non hanno alcun incentivo
a operare bene nella loro scuola, fatto salvo ovviamente il
personale senso del dovere e quello spirito di servizio che per
fortuna spesso suppliscono alla mancanza di altri incentivi.
Le loro prospettive di «carriera» sono del tutto svincolate dai
loro comportamenti nella scuola dove insegnano. Si tratta
peraltro di una carriera del tutto peculiare che si concretizza
nell’avanzamento nelle graduatorie permanenti, verso un
contratto a tempo indeterminato, per quelli non ancora in
ruolo, nell’avvicinamento alla località e alla scuola preferite
per quelli già di ruolo. Tanto l’accesso e la posizione nella lista
degli aspiranti al ruolo, quanto le successive chances di
mobilità su domanda per quelli in ruolo, si basano su criteri
amministrativi, in gran parte legati all’anzianità di servizio. La
qualità del servizio prestato, l’impegno e la motivazione che
ne sono alla base, sono del tutto ininfluenti ai fini della
carriera. Così come sono del tutto irrilevanti i giudizi da parte
del dirigente scolastico, degli studenti e delle loro famiglie e
della comunità di riferimento, che non vengono mai neppure
registrati. Inoltre, dal punto di vista economico, il progressivo
aumento salariale è relativamente modesto e interamente
vincolato a criteri di anzianità.

Il lento avvicinamento alla sede preferita rischia di divenire


l’unica vera forma di carriera degli insegnanti e la stella
polare che ne guida i comportamenti. Per dare una
rappresentazione visiva della peregrinazione cui i nostri
insegnanti sono indotti dall’attuale sistema di reclutamento è
stato calcolato che in media ciascuno di essi ricopre un posto
di lavoro che dista poco più di 50 chilometri da casa se è nato
nel Nord Italia, poco più di 170 se è nato nel Sud. L’aspetto
interessante di questa rappresentazione è però il suo profilo
per età. Per gli insegnanti nati nel Centro-Nord, la distanza tra
posto di lavoro e comune di origine cambia poco o nulla con
l’età. Per quelli nati nel Sud (pari a circa il 42%), essa si riduce
invece con l’età: quanti hanno meno di 30 anni lavorano a
oltre 400 chilometri da casa per poi avvicinarsi negli anni
successivi. Ma lo spostamento verso casa di molti insegnanti
(non tutti) di origine meridionale non è l’unica né la
principale fonte dell’elevato turnover dei docenti: in media
più di uno su cinque si muove ogni anno, con cifre ancor più
ampie ove si considerassero anche i molti avvicendamenti
che hanno luogo nel corso dell’anno scolastico, per via delle
assegnazioni provvisorie e dei ricorsi amministrativi mossi
alle assegnazioni stesse. In cifra assoluta si tratta di circa 160
mila insegnanti che cambiano sede ogni anno: sono tutti quei
docenti (circa 100 mila) assunti con contratti di durata al
massimo annuale e che quindi l’anno successivo devono
cambiare scuola ma ci sono anche i circa 60 mila insegnanti
di ruolo che ogni anno vedono approvata la domanda di
mobilità volontaria, e i nuovi insegnanti di ruolo che arrivano
nella loro sede di assegnazione. Questi si muovono per
tornare al Sud ma anche per fuggire dalle scuole più difficili
(anche all’interno della stessa provincia, del Sud o del Nord a
seconda dei casi).

In conseguenza di tutto ciò è estremamente difficile per le


scuole perseguire con continuità un progetto educativo; molti
insegnanti programmano la loro attività su un orizzonte
temporale molto breve perché obbligati o interessati ad andar
via l’anno dopo. A soffrirne sono soprattutto le scuole più
bisognose e inserite in contesti difficili, quelle dalle quali più
si cerca di fuggire. Non è quindi un caso che nelle scuole più
difficili sia più diffusa la presenza di insegnanti precari – sono
le sedi con cattedre vacanti – e più alta l’incidenza di docenti
di ruolo che attendono il trasferimento; esaminando le (150
mila) richieste di cambiamento di sede formulate ogni anno
dai docenti di ruolo, abilitati a chiedere uno spostamento, si
evidenzia come le scuole in cui nessuno vuole restare sono
quelle con più alunni disabili, più alunni con precedenti
bocciature, più alunni extracomunitari e quelle inserite in
contesti socioeconomici meno favoriti. A queste «preferenze»
– umanamente comprensibili, ma che privano le scuole più
difficili di personale motivato – si sommano quei movimenti,
di cui abbiamo detto sopra, della nutrita pattuglia di docenti
di origine meridionale che, trovando un posto al Nord, poi
cercano di avvicinarsi al luogo di origine.

Un semplice esercizio di sovrapposizione tra questi


indicatori di turnover e le competenze acquisite dai ragazzi
mostra una elevata correlazione tra i fenomeni: le
competenze misurate dall’Invalsi (in particolare quelle in
matematica) degli studenti della terza classe della secondaria
superiore migliorano di meno rispetto alle competenze degli
studenti della prima classe in quelle scuole dove è più alto il
turnover degli insegnanti. Dove è più elevata la presenza di
docenti di ruolo che hanno espresso il desiderio di cambiare
scuola peggiori sono anche i risultati dei test Pisa.

Le retribuzioni degli insegnanti. A contenere i costi del nostro


sistema di istruzione opera un livello piuttosto basso delle
retribuzioni unitarie degli insegnanti, inferiori a quelle medie
dei paesi dell’Ocse di circa il 10% (tenendo conto del livello del
Pil pro capite il divario peraltro si inverte, sia pur di poco). In
coerenza con il meccanismo allocativo tutto amministrativo
prima descritto, la struttura e l’entità delle retribuzioni nel
corso della carriera non subiscono grandi cambiamenti. La
stessa anzianità ha poco impatto sulla retribuzione. In tutti i
cicli, la retribuzione media dopo quindici anni
dall’immissione in ruolo supera quella di entrata di una
percentuale fra il 21 e il 26% (nella media dei paesi Ocse gli
incrementi di retribuzione oscillano fra il 36 e il 39% a
seconda degli ordini di scuola). La differenza nella crescita
delle retribuzioni è ancora più ampia se considerata al
termine della carriera.

L’appiattimento retributivo si collega anche a


un’organizzazione del lavoro sostanzialmente indifferenziata,
che fronteggia poco efficacemente i numerosi compiti, non
esclusivamente didattici, assegnati alla scuola. Un esempio
classico in proposito è quello degli alunni diversamente abili.
L’Italia ha in materia una legislazione molto avanzata che ne
prevede la piena integrazione. Questa scelta di civiltà è molto
costosa per la collettività perché comporta un numero
aggiuntivo di docenti stimabile nell’ordine dei 100-150 mila
(su un totale di circa 800 mila). Nel concreto le singole scuole
non hanno però a disposizione strutture e personale non
docente specializzato nel favorire l’integrazione: molti degli
insegnanti di sostegno sono docenti precari alla ricerca di una
via d’accesso alla professione, preclusa per la via ordinaria
dall’esiguo numero dei posti disponibili. Nelle scuole, data
l’assenza di risorse per intervenire a fronte di difficoltà
d’integrazione e disagio psicologico degli alunni, l’insegnante
di sostegno finisce per essere l’unica via per far fronte a «casi
difficili». Di fatto, non si hanno valutazioni circa l’efficacia di
un simile assetto organizzativo; tanto meno si sa se esso sia o
meno da preferire ad assetti alternativi (ad esempio un
maggior ricorso ad assistenti sociali, figure di supporto
psicologico o altro).

Questi tratti del mercato del lavoro degli insegnanti,


estremamente rilevanti per le implicazioni dirette sulla
(mancata) selezione qualitativa e sulla motivazione del corpo
docente, sono una delle conseguenze della mancata piena
attuazione dell’autonomia delle scuole italiane. Sul piano
normativo, essa è stata in realtà prevista già dal 1997. Un
precedente è addirittura rintracciabile nei provvedimenti del
1974 sugli organi collegiali che, prevedendo la partecipazione
al governo delle singole scuole dei rappresentanti dei genitori
(e degli studenti, nel caso delle superiori), in teoria le
sottraevano alla logica di comando ministeriale. Nei fatti gli
organi collegiali, privi di pregnanti poteri di controllo o di
indirizzo, hanno finito con l’essere poco partecipati dai
genitori. Questi tendono ad occuparsi della scuola solo
«privatamente», cercando di perorare la causa del proprio
figlio e non facendo pressioni a favore del miglioramento
della qualità e del rigore della scuola. Il budget governato
dalle singole scuole è alquanto limitato. I presidi, pur
ribattezzati dirigenti scolastici (e comunque quasi mai
addestrati e selezionati per una funzione che non è quella di
insegnante), vedono il loro tempo assorbito in prevalenza da
adempimenti burocratico-amministrativi, con scarsa
possibilità di sviluppare una funzione manageriale e di
leadership educativa. Soprattutto le scuole non hanno nessuna
voce in capitolo nella scelta del loro corpo docente. Anche le
scuole tecniche, che fino al 1974 godevano di amplissima
autonomia, compresa quella di reclutare i loro insegnanti,
sono state uniformate alle altre scuole e private di tutti i
margini di autodeterminazione. Solo da ultimo, ma si tratta di
indirizzi ancora tutti da implementare e sui quali non
possiamo perciò qui esprimere un giudizio compiuto, si è
cercato di recuperare una maggiore autonomia per le scuole
tecniche.

Alla scarsa autonomia si associa una sostanziale assenza di


meccanismi di valutazione degli apprendimenti su base
omogenea. Gli stessi esami di Stato non sono basati su criteri
uniformi e standardizzati. In conseguenza di ciò, le differenze
tra scuole, che emergono invece dai risultati delle indagini
che adottano criteri di valutazione standardizzati e uniformi,
non trovano riflesso nelle risultanze degli scrutini e degli
esami. Come vedremo meglio nei capitoli successivi, si ritiene
che questa combinazione di scarsa autonomia operativa e di
scarsa omogeneità nelle valutazioni possa avere un effetto
depressivo sulla qualità degli apprendimenti.
3.

L’Italia e i paradossi di un sistema


accentrato

I divari territoriali
L’Italia è un paese con profonde
differenze interne. La
dotazione attuale di capitale umano e i suoi processi di
formazione non fanno eccezione: anche in questi ambiti si
ritrova un marcato ritardo
delle regioni del Mezzogiorno. Nel
2006 i residenti con almeno il diploma di scuola
secondaria
superiore erano nel Sud il 44%, 10 punti percentuali in meno
che nel
Centro-Nord; i livelli assoluti sono più alti quando si
circoscrive l’attenzione ai più
giovani, tra i 25 e i 34 anni, ma il
divario geografico resta invariato.

Non tutto è eredità del passato: a


15-16 anni la quota dei
ragazzi che hanno già lasciato la scuola nel Mezzogiorno è di
4
punti superiore a quella del Nord e di oltre 7 a quella del
Centro. La quota dei giovani
tra i 18 e i 24 anni che hanno
progressivamente abbandonato gli studi, senza avere
conseguito un diploma di scuola superiore, è nel Sud pari al
26%, 8 punti percentuali in
più che nel Centro-Nord. La
differenza tra aree geografiche non è dovuta solo alla
minore
scolarità della generazione dei genitori nel Mezzogiorno (la
partecipazione alla
scuola dipende positivamente dalla
scolarità dei genitori). Al Sud i figli di genitori
poco
scolarizzati abbandonano infatti la scuola con maggiore
probabilità che nel resto
del paese. Differenze vi sono anche
nella composizione dei diplomati della scuola
secondaria
superiore: nel meridione è più marcata che nel resto del paese
la preferenza per i licei a scapito delle scuole tecniche, anche
come riflesso della peculiare struttura produttiva.

Più complessa è la quantificazione


delle differenze
territoriali con riferimento al perseguimento della laurea.
Sebbene
l’università italiana si connoti per un forte localismo
(solo il 20% degli studenti è
iscritto in una sede universitaria
al di fuori della regione d’origine), i giovani
meridionali sono
quelli che apparentemente meno soffrono di questa sindrome
(per oltre
un quarto si iscrivono in sedi universitarie al di fuori
della propria regione). Questa
maggiore propensione alla
mobilità deriva anche dal fatto che nel Mezzogiorno le sedi
universitarie sono relativamente poche sia nel segmento dei
centri universitari di
eccellenza, che mirano ad attrarre
studenti e attività di ricerca dall’esterno, sia nel
segmento
degli atenei «locali» – quelli proliferati ultimamente e di cui
abbiamo parlato
nel capitolo 2. Questa debolezza dell’offerta
universitaria in parte riflette e in parte
causa la debolezza del
sistema delle imprese, in un circolo che aggrava la distanza
con
il resto del paese. L’effetto più immediato ed evidente di
questo intreccio è che già
nella fase degli studi universitari,
ma ancor più dopo questi, il Mezzogiorno viene
depauperato
della propria dotazione di capitale umano.
Questa caratterizzazione delle
migrazioni interne è tra
l’altro una novità dell’ultimo trentennio. Sino alla metà degli
anni ’70 del secolo scorso, i flussi migratori tendevano a
riequilibrare la
distribuzione del capitale umano nelle due
aree del paese. Da Sud a Nord emigravano
soprattutto soggetti
a bassissima scolarità, che lasciavano le campagne per le città

soprattutto quelle del vecchio triangolo industriale. Da
allora il saldo migratorio
netto annuo dal Sud al Nord è prima
calato, a 20-30 mila unità all’inizio degli anni ’90
dello scorso
secolo – contro le 100 mila unità degli anni ’60 – per poi
tornare a salire
alle 60-70 mila unità annue dell’ultimo
quinquennio. Nel frattempo però è profondamente
mutata la
sua composizione. Tra il 2000 e il 2005 ogni anno quasi 7
laureati su 1.000
hanno lasciato il Mezzogiorno per il Centro-
Nord (in valore assoluto si tratta di circa
50 mila persone nel
quinquennio). Il fenomeno ha riguardato
anche i centri
urbani, che di solito importano laureati nati in altri comuni
per via
delle forti tendenze agglomerative delle attività
economiche e professionali più
qualificate. Nel quinquennio
citato, mentre una città come Bologna ha accresciuto ogni
anno dell’1% circa il proprio stock di laureati, «importandoli»
da altre zone d’Italia,
Napoli ha visto una perdita annua
dell’1,1% (circa il doppio di quella registrata nel
quinquennio
precedente).

Il ritardo del Sud è confermato ove


si consideri non il
semplice possesso di un determinato titolo di studio bensì le
competenze effettivamente possedute. Particolarmente
emblematiche sono infatti le
risultanze che emergono nelle
rilevazioni nazionali e internazionali sugli studenti dei
diversi
ordini e gradi e di diversa età, che mostrano un serio divario
tra Mezzogiorno e
resto del paese. Al procedere dell’età, e col
passaggio da rilevazioni maggiormente
legate al syllabus
scolastico (quelle Invalsi, Pirls e Timss) a
rilevazioni più
centrate sulle competenze rilevanti nella vita (Pisa), il ritardo
del
Mezzogiorno si accentua (tab. 3). I divari territoriali sono
nella scuola primaria
modesti in matematica e scienze e
praticamente inesistenti in lettura e comprensione dei
testi; si
ampliano nella scuola secondaria di primo grado, dove
oscillano tra il 6 e 10%
del valore medio dell’Italia; nella
secondaria di secondo grado questa tendenza si
consolida o
addirittura si rafforza, a seconda degli ambiti.

Qualche informazione più precisa può


venire dall’analisi dei
primi dati elaborati dall’Invalsi relativi alle rilevazioni
degli
apprendimenti che questo istituto ha avviato nell’anno
scolastico 2008-09 dopo
alcuni anni di interruzione. Al
momento in cui scriviamo i dati pubblicati dall’Invalsi
si
riferiscono alle rilevazioni degli apprendimenti dei ragazzi di
seconda e quinta
elementare e terza media. Le indicazioni
desumibili da questa fonte lasciano pensare che
le differenze
geografiche tra i livelli di apprendimento dei ragazzi si
aggravino via
via che si procede nella carriera scolastica. Il
fenomeno è particolarmente evidente
negli apprendimenti di
matematica dove le differenze territoriali
tra Nord e Sud sono
nulle nella seconda classe della scuola
primaria, salgono
intorno al 7% della media nazionale in quinta elementare,
superano i
15 punti percentuali in terza media.
TAB. 3.
I divari territoriali nei livelli di
competenza/conoscenza

Lettura e
comprensione Matematica Scienze
  testi
Nord Centro Sud Nord Centro Sud Nord Centro Sud

Scuola primaria 100,8 101,2 99,1 101,9 100,0 97,7 102,5 100,2 97,1

Scuola secondaria
di primo
grado 103,9 101,7 95,2 104,6 102,2 94,8
     

Scuola secondaria
di secondo
grado 106,6 103 92,9 107,2 101,1 93,2 107,1 102,3 92,7

Nota: Le indagini prese in considerazione sono


Pisa 2006 (studenti di 15 anni, in prevalenza iscritti
alla scuola
secondaria di secondo grado), Pirls 2006 (scuola primaria), Timss 2007
(scuola primaria e
secondaria di primo grado): per ciascuna rilevazione e
ambito disciplinare il dato medio Italia è posto
pari a 100.

Diversamente da quanto comunemente si


pensa queste
differenze geografiche non sono ascrivibili esclusivamente al
diverso
background delle famiglie di origine. Sebbene il
retaggio storico della minore scolarità
dei genitori operi a
svantaggio degli studenti del Mezzogiorno, un ritardo emerge
anche
a parità di background socioeconomico della famiglia
dello studente. Un’interessante
ricerca condotta da
Massimiliano Bratti, Daniele Checchi e Antonio Filippin sui
dati
Pisa 2003 mostrerebbe come il ritardo del Sud, anche a
parità di background familiare,
venga statisticamente
«spiegato» da indicatori relativi al contesto socioeconomico
locale (essenzialmente la più alta disoccupazione
meridionale) e dalla più bassa spesa
aggiuntiva destinata
dagli enti locali alla scuola. Si noti che questa non è la spesa
statale, che copre principalmente il costo del personale e che,
rapportata al numero di
studenti, è grosso modo uguale su
tutto il territorio (se non addirittura un po’ più
elevata nel
Mezzogiorno, per via del maggior numero e della maggiore
anzianità di
servizio degli insegnanti), bensì la spesa in conto
capitale
degli enti locali, destinata principalmente all’edilizia
scolastica, che in effetti è in
condizioni alquanto più
disastrate al Sud.

Come interpretare queste associazioni


statistiche tra
contesto socioeconomico ed apprendimenti dei ragazzi? È
possibile in
particolare leggervi un legame di causa-effetto?
Quanto alla disoccupazione, la teoria
economica (si vedano i
capp. 4 e 5) ci dice in effetti che la prospettiva di quanto
ottenibile nel mercato del lavoro stimola e indirizza
l’investimento in capitale umano e
quindi anche la
propensione a ben fare nella scuola. La maggiore
disoccupazione che
prevale in un’area come il Mezzogiorno
potrebbe però avere effetti non univoci: potrebbe
scoraggiare
l’investimento in istruzione perché ne abbassa il rendimento
monetario
atteso (se si resta disoccupati anche da laureati
non c’è nessun motivo per studiare con
impegno); e al
contempo potrebbe però ridurne il costo-opportunità (la
scelta di
rimanere a scuola non si contrappone a quella di
guadagnare un salario, vista la penuria
di opportunità di
lavoro). Inoltre, le competenze acquisite a scuola potrebbero
anche
essere una leva per ridurre il rischio di disoccupazione
(cap. 5) e quindi stimolare
l’impegno scolastico.
Nella specifica situazione italiana,
a noi sembra più
convincente l’ipotesi che gli equilibri del mercato del lavoro
incidano
sugli apprendimenti soprattutto per via della
percezione che, ai fini dell’affermazione
nella vita adulta,
conti più il titolo di studio, inteso come pezzo di carta e
certificazione burocratica, che non le competenze
effettivamente acquisite. La nostra
impressione è che questa
percezione sia più diffusa nel Sud, area dove la domanda di
lavoro nel settore privato è debole (e la disoccupazione
elevata) e l’impiego pubblico,
in cui a contare è il titolo di
studio formale (e magari la famosa raccomandazione),
rappresenta lo sbocco più ambito. In un simile contesto
l’attenzione sarà infatti
concentrata sull’ottenimento del
pezzo di carta, indipendentemente dalla qualità a esso
associata: gli studenti e le loro famiglie troppo spesso
finiscono con il chiedere alla
scuola la promozione e non una
migliore qualità dell’istruzione
ricevuta. Questo meccanismo
è piuttosto pervasivo, perché interessa quella parte di
popolazione, maggioritaria anche nel Mezzogiorno, che
comunque frequenta la scuola
(quantomeno fino al livello
della scuola secondaria superiore). Tutto sommato
minoritarie sono invece le forme di disinteresse assoluto,
certamente più diffuse nel
Sud (come prova il maggior livello
degli abbandoni scolastici), comunque circoscritte a
ragazzi
coinvolti in attività criminali – poco interessati alla scuola e
alle sue
credenziali formali – o adolescenti che, avendo come
prospettiva l’ingresso nel mercato
del lavoro con occupazioni
a bassissima qualifica nel settore agricolo o edile,
preferiscono una formazione sul campo piuttosto che sui
banchi.

Lo stesso legame statistico, prima


richiamato, tra spesa in
edilizia scolastica degli enti locali e risultati delle scuole,
richiede di essere interpretato. Può essere originato da
un’effettiva importanza della
qualità dell’edilizia scolastica,
che in una qualche misura sarà senz’altro rilevante,
ma anche
dal fatto che laddove gli enti locali e le comunità nel
complesso dimostrano
attenzione al mondo della scuola,
dotandola tra l’altro di buone infrastrutture, questa
è
incentivata a «fare bene». Le due diverse interpretazioni
dell’associazione statistica
hanno implicazioni difformi. Nel
primo caso, potrebbe ad esempio aver senso accentrare
le
responsabilità in materia scolastica in modo da pareggiare le
disponibilità di
risorse sul territorio. Nel secondo caso, un
accentramento potrebbe accentuare la
deresponsabilizzazione e il disinteresse delle comunità locali,
peggiorando la
situazione, mentre potrebbe essere più
opportuno accentuare il coinvolgimento delle
comunità locali,
al limite anche a costo di accettare qualche disparità nelle
risorse. A
nostro avviso entrambi i canali sono rilevanti
(perché, comunque, la dotazione di
risorse materiali un
qualche impatto lo ha), e quindi meglio sarebbe operare
trasferimenti dal centro, col fine di pareggiare il gap di risorse,
ma condizionando gli
stessi all’impegno delle comunità locali,
evitando di
deresponsabilizzarle.

L’eterogeneità tra scuole


Le differenze geografiche finora
discusse devono in realtà
esser lette in connessione con una più generale elevata
eterogeneità tra scuole, anche all’interno della stessa area
geografica. Nei dati Pisa
relativi alla scuola secondaria di
secondo grado, l’Italia si caratterizza non solo per
un’elevata
variabilità di risultati tra i propri studenti, ma anche per il
fatto che
un’elevata quota di tale varianza è rappresentata
dalla differenza
tra scuole anziché da differenze
all’interno di
ciascuna singola scuola.

Nei dati Pisa, relativi alla scuola


secondaria superiore,
questa peculiarità dell’Italia è in parte legata al nostro
modello
scolastico che, già prima dei 15 anni di età, canalizza
gli studenti verso scuole
percepite di fatto come di serie A e di
serie B. Non a caso anche altri paesi, come il
Giappone e la
Germania, in cui la canalizzazione tra diversi indirizzi
scolastici
avviene a età relativamente precoci, presentano
un’ampia dispersione dei risultati tra
scuole. La tabella 4
mette in luce come per l’intero paese la differenza di
punteggio
(nelle rilevazioni Pisa) tra i licei e gli istituti tecnici
sia dell’ordine di oltre 60
punti in lettura, oltre 30 in
matematica e oltre 40 in scienze. Si tratta di differenze
enormi se si considera che l’Ocse stima che in un anno di
scuola le competenze di un
ragazzo aumentino di circa 40
punti. I ragazzi che frequentano gli istituti
professionali
ottengono punteggi inferiori a quelli dei tecnici di circa 70
punti in
lettura, di 40 in matematica e di oltre 50 punti in
scienze. Queste differenze tra tipi
di scuole si cumulano a
quelle geografiche discusse finora; in lettura ad esempio la
distanza tra i licei del Nord-Est e quelli del Mezzogiorno è
dell’ordine dei 70 punti,
solo marginalmente inferiore a quella
che si riscontra tra gli istituti tecnici.

Non tutta la variabilità tra scuole è


però legata al tipo di
scuola e all’area geografica. Anche all’interno di ciascuna area
e tipologia di scuola superiore vi è un’elevata variabilità che è
di regola più ampia
nel Mezzogiorno. Il fenomeno della
variabilità tra scuole,
inoltre, non si riscontra solo nella
secondaria superiore, ma nel meridione è evidente
anche
nella scuola media unica.

TAB. 4.
Eterogeneità dei risultati Pisa tra aree geografiche e tipi di
scuola

  Tipo di scuola Lettura Matematica Scienze


    Media D.S. Media D.S. Media D.S.

Nord-Ovest Licei 556 74 531 75 554 75

 
Istituti Tecnici 490 82 495 75 501 77

 
Istituti Professionali 431 95 429 75 444 81

 
Scuole Medie 358 111 385 94 355 92

 
Formazione 357 102 374 83 377 72
Professionale

 
Totale 494 103 487 90 501 94

Nord-Est Licei 565 73 548 78 567 77

 
Istituti Tecnici 502 84 521 79 527 78
  Tipo di scuola Lettura Matematica Scienze
    Media D.S. Media D.S. Media D.S.
 
Istituti Professionali 441 87 432 79 454 79

 
Scuole Medie 367 95 426 60 415 84

 
Formazione 421 91 425 76 441 76
Professionale

 
Totale 506 97 505 92 520 91

Centro Licei 535 76 509 76 530 77

 
Istituti Tecnici 479 87 462 67 482 72

 
Istituti Professionali 401 99 407 68 422 71

 
Scuole Medie 358 99 324 70 345 46

 
Formazione – – – – – –
Professionale

 
Totale 482 102 467 84 486 88

Sud Licei 496 83 473 87 485 77

 
Istituti Tecnici 431 89 443 78 442 73

 
Istituti Professionali 362 91 376 74 387 69

 
Scuole Medie 263 137 290 161 343 74

 
Formazione – – – – – –
Professionale
  Tipo di scuola Lettura Matematica Scienze
    Media D.S. Media D.S. Media D.S.
 
Totale 443 104 440 92 448 84

Sud-Isole Licei 490 82 454 86 476 81

 
Istituti Tecnici 413 89 410 79 426 75

 
Istituti Professionali 332 117 369 96 373 83

 
Scuole Medie 333 100 342 92 315 102

 
Formazione 320 97 356 71 342 67
Professionale

 
Totale 425 114 417 95 432 94

Italia Licei 525 84 499 88 518 85

 
Istituti Tecnici 463 93 467 85 475 83

 
Istituti Professionali 391 106 400 83 414 82

 
Scuole Medie 336 111 348 105 340 93

 
Formazione 385 102 397 84 405 80
Professionale

 
Totale 469 109 462 96 475 96

Totale
Ocse 484 107 484 98 491 104

Media
Ocse 492 99 498 92 500 95
  Tipo di scuola Lettura Matematica Scienze
    Media D.S. Media D.S. Media D.S.
Nota: Nord-Ovest (Valle d’Aosta, Piemonte,
Lombardia, Liguria); Nord-Est (Trentino-Alto Adige, Friuli-
Venezia Giulia,
Veneto, Emilia-Romagna); Centro (Toscana, Umbria, Marche, Lazio); Sud
(Abruzzo,
Molise, Campania, Puglia); Sud-Isole (Basilicata, Calabria,
Sicilia, Sardegna).

Fonte: Invalsi 2007,


elaborazioni su dati Pisa 2006.

Nella tabella 5 abbiamo riportato la


varianza dei risultati in
matematica e italiano per area geografica in rapporto a quella
nazionale, calcolata sulla base della prova condotta
nell’ambito dell’esame di Stato
della secondaria di primo
grado (si tratta quindi di dati censuari, raccolti ed
elaborati
dall’Invalsi). In italiano la variabilità complessiva è più elevata
tra i
ragazzi del Mezzogiorno che tra quelli del Nord e del
Centro. La variabilità tra ragazzi
meridionali riflette inoltre
una forte eterogeneità tra scuole: posta pari a 100 la
varianza
complessiva (all’interno di ciascuna macro-area), quella
dovuta alle differenze
tra scuole è dell’ordine del 9-12% al
Nord, a seconda della materia, del 10-14 nelle
regioni centrali
e del 19-25% al Sud. Inoltre, va notato che la variabilità
interna alle
scuole del Nord è dovuta a differenze all’interno
delle singole classi, mentre al Sud
anche la variabilità tra
classi diverse della stessa scuola è piuttosto ampia, come se
anche all’interno di una stessa scuola operasse un
meccanismo di segregazione tra classi
(e sezioni) di qualità
più e meno elevata.

La variabilità tra scuole è


apparentemente paradossale alla
luce della natura centralizzata del nostro sistema
scolastico.
Benché il finanziamento centralizzato e l’assenza di rette
differenziate
faccia sì che non vi siano scuole ricche e scuole
povere in conseguenza della diversa
identità dei loro utenti-
finanziatori – fatto peraltro salvo quanto già visto in tema di
edilizia scolastica e supporto economico da parte degli enti
locali – le regole di
funzionamento del sistema, in particolare
nell’assegnazione del personale discussa nel
capitolo
precedente, tendono a rafforzare la variabilità tra le scuole.
Sono proprio le
realtà più difficili, quelle da cui si sfugge, a
subire con maggiore pesantezza le
conseguenze dei
meccanismi che governano la mobilità degli insegnanti.

Contrariamente a quanto accade in


altri paesi, in Italia non
si produce invece una chiara divisione in termini di qualità
tra
scuole statali e non statali a favore di queste ultime: la
frequenza di scuole non statali non è prerogativa, almeno
nella generalità dei casi, di
famiglie benestanti alla ricerca di
una qualità che non trovano nelle scuole statali. La
possibilità
offerta a tutti, indipendentemente dal reddito familiare, di
frequentare
gratuitamente scuole statali di qualità, spiazza di
fatto la domanda di scuole private
d’élite a pagamento. Nella
maggior parte dei casi, chi è molto capace e motivato, trova
adeguata risposta anche nelle scuole pubbliche,
paradossalmente, soprattutto se
benestante e residente nei
centri storici delle città dove di solito sono localizzate le
scuole di più elevata qualità.

TAB. 5.
Variabilità delle conoscenze in matematica e italiano tra
alunni per area
geografica, scuola e classi

  Varianza in Totale Scomposizione della varianza


  rapporto in
Varianza a Totale tra scuole
Scomposizionenelle
scuole
della varianza
quella
nazionalea
rapporto   totale tra classi nelle classi
tra scuole nelle
scuole
quella
nazionale   totale tra classi nelle classi

Italia

Matematica 100 100 16,1 83,9 17,2 66,7

Italiano 100 100 15,8 84,2 17,3 67,0

Nord

Matematica 100,5 100 8,7 91,3 10,2 81,1

Italiano 95,3 100 12,4 87,5 12,1 75,5

Centro

Matematica 97,2 100 10,4 89,6 14,7 74,9

Italiano 98,8 100 13,9 86,1 15,9 70,2

Sud

Matematica 100,6 100 25,4 74,6 25,3 49,3

Italiano 104,9 100 19,2 80,8 22,0 58,8

Fonte: Elaborazioni su dati


Invalsi 2009 relativi agli esiti della prova nazionale nell’ambito
dell’esame di
Stato della secondaria di primo grado nell’anno
2008-09.

Le scuole non statali rispondono


invece a bisogni molto
differenziati. Da un lato c’è il segmento di quelle
caratterizzate da un particolare indirizzo religioso o legate a
scelte pedagogiche peculiari, che attraggono studenti attenti a
queste dimensioni ma
simili, per il resto, all’insieme degli
studenti frequentanti le scuole statali.
Dall’altro vi è un
consistente segmento di scuole non statali che rivolge la
propria
offerta a chi, avendone le possibilità economiche, sia
interessato al recupero di anni
scolastici perduti: una platea
di alunni in media meno brillanti e dotati.

Si noti che questa peculiare


composizione degli studenti
delle scuole non statali, anche di quelle di secondo tipo,
non
necessariamente dovrebbe implicare una loro minore
efficacia. La scuola privata di
per sé dovrebbe anzi potersi
meglio smarcare dalle rigidità dei programmi ministeriali e
dai vincoli burocratici in sede di selezione, allocazione e
retribuzione del personale.
In senso opposto, però, potrebbe
giocare la motivazione del personale: nelle scuole
statali la
motivazione, come abbiamo visto, è spesso scarsa, ma è
possibile ritrovare la
stessa situazione anche nelle scuole non
statali – con l’eccezione delle poche scuole
d’élite e di quelle
che, magari perché confessionali, potrebbero avere docenti
con una
peculiare motivazione, ideale e professionale. È
plausibile, infatti, che, la scarsa
propensione all’eccellenza
delle scuole si ripercuota sul personale; molto spesso del
resto si tratta di insegnanti precari che anelano a un impiego
più sicuro nella scuola
statale.

A esser franchi non conosciamo


ricerche robuste che ci
dicano se il bilanciamento dei vari aspetti ora citati si
traduca
in una maggiore o in una minore efficacia delle scuole private
rispetto alle
scuole statali. Come detto, è plausibile che
l’utenza a cui si rivolge l’offerta
formativa delle scuole non
statali, specie di quelle che non abbiano motivazioni
particolari come quelle confessionali, sia spesso composta da
giovani meno motivati e
meno capaci, magari in ritardo con
gli studi. Non avendo dati certi circa i livelli di
competenza in
entrata e in uscita degli studenti che le frequentano non
siamo in grado
di conoscerne il valore aggiunto (concetto su
cui torneremo nei capitoli successivi).

Valutazioni interne ed esterne e il ruolo


dell’autonomia
L’ampia variabilità tra scuole (e tra
aree geografiche) nelle
competenze misurate dalle indagini internazionali e da quelle
dell’Invalsi non si abbina a un’analoga variabilità dei risultati
delle valutazioni
interne effettuate dalle singole scuole. La
distribuzione tra aree geografiche dei voti
all’esame di Stato al
termine del primo ciclo (l’esame di terza media) dà
indicazioni
opposte a quelle fornite dalle indagini
internazionali e nazionali condotte sui ragazzi
della stessa
età. La quota dei licenziati con un giudizio di «ottimo» è pari
ad esempio
al 20% nelle regioni meridionali e al 13 in quelle
settentrionali.

Il fenomeno si ritrova anche nel caso


della scuola
secondaria di secondo grado. Usando i dati Pisa 2003, che
chiedono al
singolo studente quali siano i voti ricevuti a
scuola e ne misurano poi le competenze
effettive, si evidenzia
infatti che le due grandezze sono correlate positivamente
all’interno di ciascuna scuola, mentre a scadenti risultati Pisa
nella media di una
scuola non sempre corrispondono voti e
scrutini più bassi. Per effetto di questa
discrasia, il livello
medio di competenza di uno studente che abbia raggiunto
una
votazione pari a 7/10 nel Mezzogiorno equivale al livello
di competenze medio di uno
studente che abbia conseguito
un voto inferiore alla sufficienza nel Centro-Nord (fig.
3).

La causa di tutto ciò sembra essere


che voti e scrutini sono
sostanzialmente affidati alle singole scuole: i voti attribuiti
rispecchiano (in linea di massima) la gerarchia di valori
all’interno della singola
scuola (o della singola classe o nel
gruppo di alunni di un singolo docente), ma non una
graduatoria assoluta. In effetti, la distribuzione dei voti
assegnati dagli insegnanti è
assolutamente identica per area
geografica: in altre parole la quota dei ragazzi che
riceve un 7
al Nord è molto simile a quella del Sud.

A dispetto della loro natura di


verifica finale dell’intero
corso di studi, che dovrebbe basarsi quindi su criteri di
valutazione uniformi su tutto il territorio nazionale, gli
stessi
esami di Stato della quinta classe della scuola secondaria
superiore presentano
risultanze, in termini di voti e di tassi di
bocciatura, piuttosto difformi
dall’immagine della nostra
scuola fornita dalle indagini standardizzate (quelle
internazionali o anche quelle dell’Invalsi). I voti degli esami di
Stato sono molto
uniformi tra aree geografiche e in alcuni casi
sovvertono l’ordinamento delle aree
fornite dalla valutazione
esterna.
FIG. 3. Valutazione interna
ed esterna degli apprendimenti
dei quindicenni.
Fonte: Banca d’Italia 2007.

La discrasia tra le valutazioni su


basi standardizzate e
quelle effettuate dalle singole scuole (o addirittura dai singoli
insegnanti) costituisce un serio problema. Gli studenti
tendono a tarare il loro impegno
relativamente a quello del
gruppo di pari e alla necessità di superare comunque certi
standard minimi. Da questo punto di vista, l’assenza di un
parametro oggettivo non fa
emergere negli studenti migliori
tutto il loro potenziale, e priva anche i meno bravi di
uno
stimolo e di un esempio da imitare. Per questi ultimi
l’asticella risulterà
apparentemente alla portata delle proprie
capacità, senza che
mai si abbia davvero contezza delle
proprie carenze.
Lo stesso discorso vale per la
valutazione delle scuole. La
mancanza di uniformità delle risultanze nei criteri
sottostanti
scrutini ed esami di Stato si traduce in una scarsa
significatività
dell’informazione e delle credenziali che la
scuola invia al mondo esterno, in
primis al mondo del lavoro.
Ne risulta uno scadimento del significato
anche segnaletico
del titolo di studio, paradossale in un paese in cui questo
mantiene
un suo valore certificativo legale. I voti negli esami
finali e gli stessi titoli di
studio vengono «scontati» dal
mercato, che semplicemente non crede al loro valore, che
continuerà ad avere rilevanza solo in quelle situazioni
(impiego pubblico o formale
accesso a certe professioni) in cui
il titolo è esplicitamente imposto dalla legge. Ne
discende una
tendenza all’inflazione dei titoli di studio e una scarsa
pressione a
chiedere qualità alle scuole: per le famiglie, come
già anticipato, conta ottenere un
titolo – che avrà un valore,
sia pur ridotto, ad esempio nei rapporti con la Pubblica
amministrazione – e non una migliore qualità del servizio
scolastico. Il risultato
finale sarà quello di una ridotta
tensione emulativa al miglioramento all’interno del
sistema
scolastico.

L’opacità del sistema – che rende


difficile dire se, ad
esempio, la presenza di molti debiti scolastici in una data
scuola
dipenda dal suo rigore o dalla sua inefficacia – opererà
soprattutto a svantaggio delle
famiglie meno abbienti e con
accesso meno facile a canali informativi informali. Nel
dubbio, anche una famiglia seriamente preoccupata delle
conseguenze di lungo termine di
una scuola che non educhi
adeguatamente, sarà comunque spinta a non rischiare di
inserire i propri figli in scuole dove potrebbero essere bocciati.
4.

Come si produce il capitale umano

I fattori che presiedono all’acquisizione di conoscenze,


abilità e competenze sono molti e articolati. Secondo la teoria
economica, il capitale umano è il prodotto di una decisione
d’investimento, in base alla quale si rinuncia a qualcosa oggi
per ottenere qualcos’altro, di maggior valore, domani. Dalla
valutazione di costi e benefici dipendono le decisioni in tema
d’acquisizione delle competenze e, più in generale, del
capitale umano.

La letteratura psicologica e sociologica, che si occupa dello


sviluppo della personalità umana, tende invece a sottolineare
altri fattori, quali l’eredità genetica e l’ambiente sociale e
familiare. In questo filone di pensiero l’elemento di calcolo e
di scelta razionale, tipicamente enfatizzato dagli economisti,
viene ridimensionato, dando importanza a tratti emotivi del
carattere, che rendono un individuo più o meno propenso a
compiere scelte «razionali».

In realtà la contrapposizione tra scelta razionale e fattori


dati, ambientali o caratteriali, tende a essere superata nella
più recente letteratura, che sottolinea l’importanza congiunta
e l’interazione di tutti questi elementi. Vedremo che è
possibile rileggere nel linguaggio dell’economia i processi
cumulativi che caratterizzano lo sviluppo della personalità
umana su cui si concentrano la letteratura psicologica e le
neuroscienze; è così possibile tenere conto dell’interazione tra
patrimonio genetico e ambiente, nonché del fatto che i tratti
emotivi della personalità condizionano e interagiscono con lo
sviluppo delle capacità cognitive e delle competenze. Ne
risulta un arricchimento del quadro analitico della scienza
economica – con il superamento dell’idea che i
comportamenti e i processi decisionali umani siano
interpretabili attraverso la chiave di lettura dell’homo
oeconomicus – e una rafforzata capacità di lettura del ruolo e
dell’impatto del sistema educativo su una molteplicità di
fenomeni economici e sociali.

In questo capitolo seguiremo proprio questo percorso:


partiremo con l’esame della più semplice modellistica
economica in materia di investimento in istruzione e
formazione. Vedremo poi come essa possa e debba essere
arricchita per tenere in conto la realtà dei processi di sviluppo
della personalità. Concluderemo combinando i diversi
approcci analitici presentati per illustrare il ruolo del sistema
educativo in quanto «fabbrica del capitale umano»,
riprendendo alcune delle criticità già incontrate parlando del
caso italiano nei due capitoli precedenti.

Investire in capitale umano


Secondo la teoria economica, le persone investono in
istruzione (più in generale in capitale umano) fintantoché i
benefici dell’investimento sono superiori ai costi. Il confronto è
reso difficoltoso dal fatto che mentre i costi sono certi e
immediati, i benefici sono dilazionati nel tempo e possono
essere incerti. Occorre quindi rendere le due grandezze
comparabili, applicando ai secondi un fattore di sconto e
tenendo conto della loro possibile aleatorietà.

In questo quadro concettuale le persone effettuano scelte


diverse in ragione della diversità nei parametri relativi a costi,
benefici, preferenze intertemporali e (valutazione della)
rischiosità. I fattori genetici ed ambientali sono presi in
considerazione solo in quanto possibili determinanti di uno o
più tra questi parametri fondamentali: costi, benefici,
rischiosità dell’investimento, tasso di sconto intertemporale.
Ad esempio le abilità innate entrano nella decisione di
istruirsi da un lato attraverso la riduzione del costo
dell’investimento, perché le persone più dotate imparano più
facilmente e rapidamente; dall’altro attraverso un aumento
dei rendimenti futuri, perché interagiscono positivamente con
il capitale umano nell’innalzare la produttività e la futura
capacità di guadagno. Taluni tratti della personalità, come
l’impazienza e l’impulsività, di origine genetica e/o sociale,
potranno influire sullo sconto intertemporale applicato
dall’individuo nel comparare costi odierni e benefici futuri: un
individuo impaziente e impulsivo, per il quale il prezzo
dell’attesa dei futuri benefici è troppo elevato, sceglierà di non
investire in capitale umano, comportandosi come la cicala del
famoso apologo. In sintesi tenere fuori dal modello gli
elementi legati all’ambiente sociofamiliare e alla ereditarietà
genetica non significa perciò ritenerli irrilevanti.

Per l’individuo che compie la scelta, contano non solo i costi


e i rendimenti ma anche, quanto quei costi e quei rendimenti
siano rispettivamente a suo carico e beneficio. Nel nostro,
come nella maggior parte dei paesi, molti dei costi espliciti
della decisione d’istruirsi, almeno fino alla scuola secondaria
superiore, sono sostenuti dalla collettività. Oltre ai costi
espliciti vanno però conteggiati anche i costi impliciti, i costi-
opportunità, legati al fatto che frequentare un corso di studi
rende impossibile ottenere un reddito da lavoro.

Parimenti non tutti i benefici associati all’investimento in


capitale umano sono appannaggio dell’individuo che lo
effettua. I rendimenti sociali dell’istruzione potrebbero essere
diversi da quelli privati, vale a dire quelli di cui l’individuo si
appropria direttamente e integralmente. I rendimenti sociali
potrebbero essere più bassi, laddove ad esempio la scolarità
abbia anche una funzione di credenziale e di segnale, o
potrebbero essere più alti, per via di esternalità favorevoli (si
veda il cap. 5). Nel primo caso l’investimento determinato
dall’individuo – guidato esclusivamente dal suo tornaconto
diretto – sarebbe «eccessivo» rispetto a quello ottimale per la
collettività, nel secondo caso invece sarebbe più basso. Poiché
si ritiene che questo secondo caso sia quello più frequente, lo
Stato interviene a sostenere parte dei costi dell’istruzione,
così da favorire un investimento più elevato da parte dei
singoli.

Un altro elemento fondamentale che influenza la decisione


di investire in capitale umano è il tasso di sconto adoperato
per rendere confrontabili costi e benefici. Se, per semplicità,
immaginiamo che tutti i costi e tutti i benefici siano
monetizzabili (o comunque esprimibili in una metrica
monetaria), i benefici futuri associati a una maggiore
istruzione dovrebbero essere attualizzati usando il tasso di
interesse a cui l’individuo può prendere e dare a prestito. Per
chiunque sarà conveniente investire in capitale umano
fintantoché i benefici, scontati a quel tasso d’interesse, siano
superiori ai costi attuali. Normalmente però il tasso a cui ci si
può indebitare (che misura il costo esplicito delle risorse da
acquisire per finanziare l’investimento) è superiore a quello a
cui si possono investire le risorse finanziarie di cui si dispone
(che è il costo-opportunità per chi possedendo risorse decida
di investirle in capitale umano, sottraendole implicitamente a
qualche altro investimento). Chi ha maggiore disponibilità di
risorse finanziarie di fatto ha un minore costo associato con il
finanziamento della sua scelta di istruzione e tende perciò a
investire di più in capitale umano. Più in generale se un
individuo o una famiglia senza le necessarie risorse non
riescono a indebitarsi per investire, soffrono di una forma di
privazione che nella letteratura economica viene definita
«razionamento del credito». Per una famiglia povera, la
decisione di avviare al lavoro il proprio figlio minorenne
(rispetto all’alternativa di mandarlo a scuola) potrebbe essere
indotta non tanto dal fatto che la scelta di istruirlo non sia di
per sé remunerativa, quanto dal fatto che non vi è nessuno
oggi disposto a finanziarla.

Le politiche pubbliche di sostegno alla scolarità possono


perciò concretizzarsi in una sovvenzione dei costi espliciti
dell’istruzione, come accade per esempio in Italia dove i costi
diretti pagati dalle famiglie, per tutti gli ordini di scuola, sono
nulli o ampiamente inferiori ai costi totali. Un’altra possibilità
è quella di allentare il razionamento del credito mettendo a
disposizione risorse finanziarie per quegli studenti che non
riescono ad accedere a prestiti di finanziamento dei loro
studi. Questa seconda strategia è per molti versi preferibile se
dell’investimento in scolarità beneficia principalmente chi lo
effettua e se a istruirsi sono comunque i figli di famiglie
relativamente ricche. L’esempio classico riguarda gli studi
universitari che coinvolgono comunque pochi giovani, in gran
parte provenienti da classi sociali relativamente agiate.
Sovvenzionare gli studi universitari con fondi pubblici, come
di fatto avviene in Italia dove il livello delle tasse universitarie
rimane piuttosto contenuto, finisce col trasferire risorse a
soggetti destinati a ottenere un alto reddito (grazie ai loro
studi universitari) e che in media vengono da famiglie
relativamente benestanti. Una politica di prestiti d’onore a
favore degli studenti universitari (con restituzione a valere sui
futuri redditi da lavoro) potrebbe più equamente promuovere
la partecipazione agli studi accademici dei «capaci e
meritevoli, anche se privi di mezzi» (come recita il nostro
dettato costituzionale).
La necessità di considerare i benefici futuri
dell’investimento in capitale umano – un investimento che ha
per di più la caratteristica di essere incorporato in un
individuo e quindi di non essere facilmente e prontamente
realizzabile sul mercato – introduce naturalmente un
elemento d’incertezza dovuto al fatto che si parla di eventi
futuri. Al di là della comparazione di valori finanziari a
momenti diversi del tempo, cioè il confronto dei costi
sostenuti oggi con i benefici futuri, si deve tener conto del
grado di rischiosità di quei benefici futuri. Nello scegliere tra
diversi percorsi di studio conterà perciò non solo il reddito
medio che ciascuno di essi consentirà di ottenere, ma anche
la sicurezza con la quale quel reddito potrà ragionevolmente
essere conseguito. La diversa predisposizione al rischio di
ciascun individuo (misurata da quello che gli economisti
chiamano «grado di avversione al rischio») sarà perciò un
ulteriore, importante parametro che determina come e
quanto investire: vi sarà chi sceglie carriere (e percorsi di
studio) poco redditizie ma sicure e chi sceglierà di cimentarsi
in mestieri esposti a più elevati rischi, dai forti ma incerti
guadagni. Incertezza e rischio possono essere connessi con lo
stesso percorso di studio: vi sarà chi sceglie di testarsi in una
scuola di grande reputazione ed efficacia, ma molto selettiva,
e chi più tranquillamente sceglierà una scuola che offre meno
opportunità e stimoli ma in cui sicuramente potrà riuscire.

Le decisioni d’investimento in capitale umano non sono


solo quelle che si effettuano nella scuola. L’addestramento sul
posto di lavoro è un altro caso molto rilevante: per esempio,
oggi, in Italia ci sono circa 42 mila giovani tra i 15 e i 17 anni
che lavorano come apprendisti presso imprese. Va detto che il
sistema italiano dell’apprendistato differisce dagli schemi di
eguale nome propri di altri paesi, in primis la Germania, dove
questo canale ha una più consolidata tradizione di
formazione alternativa alla scuola (secondaria superiore) per
l’acquisizione di un mestiere. In Italia, gli aspetti formativi
dell’apprendistato sono spesso carenti – anche perché vi è
normalmente un notevole iato tra attività formative esplicite,
predisposte dalle regioni competenti in materia, e vita
aziendale – e mancano prassi di effettiva certificazione delle
competenze effettivamente acquisite sul posto di lavoro; di
fatto l’uso dell’apprendistato è spesso un mero strumento
contrattuale per ridurre il costo del lavoro e rendere non
vincolante – non a tempo indeterminato – il rapporto tra
impresa e lavoratore. A noi qui però interessa discutere
dell’apprendistato in quanto fenomeno più generale, esempio
di un meccanismo di acquisizione di capitale umano fuori
dalla scuola, in cui conta la decisione del lavoratore di
sottoporsi all’addestramento, ma anche quella dell’impresa di
fornirlo.

Dal lato dei costi va qui considerato il salario pagato


all’apprendista e la mancata o ridotta produzione del
lavoratore esperto che in genere lo affianca. Dal lato dei
benefici va considerata la maggiore produttività futura del
lavoratore formato. La scelta di assumere o meno un
apprendista dipende quindi certamente da parametri
«tecnologici», vale a dire quanto si perde oggi per impiegare e
addestrare quel lavoratore e quanto è grande l’accrescimento
di produzione ottenibile in futuro. Poiché i soggetti coinvolti
sono due, l’impresa e il lavoratore, contano però anche le
modalità con cui vengono condivisi costi e benefici.

Dal primo punto di vista, due elementi sono importanti: la


capacità del lavoratore di imparare, che di solito già
presuppone un certo livello di conoscenze, e quanto a lungo
quel lavoratore continuerà ad operare, poiché addestrare chi
negli anni immediatamente successivi uscirà dal mercato del
lavoro sarebbe poco profittevole. Questi elementi aiutano a
capire perché i soggetti in genere meno coinvolti in attività di
formazione siano gli individui meno scolarizzati, quindi meno
«allenati» ad apprendere, le donne in età fertile, che per
maternità potrebbero uscire temporaneamente dal mercato
del lavoro, e i lavoratori anziani, più prossimi al
pensionamento.

La suddivisione tra impresa e lavoratore dei costi e dei


benefici condiziona gli incentivi reciproci ad effettuare
l’addestramento. Tale ripartizione dipende dalle
caratteristiche istituzionali e di funzionamento del mercato
del lavoro, ma anche dalla natura stessa dell’investimento.
Nel caso in cui le regole contrattuali prevedano che il
lavoratore meno esperto comunque riceva lo stesso salario
del lavoratore più esperto, per l’impresa può essere
profittevole l’assunzione dell’apprendista se anche in futuro il
lavoratore, addestrato e divenuto più produttivo ma con
salario immutato, continuerà a lavorare per quell’impresa:
l’imprenditore sosterrà il costo immediato
dell’addestramento ma otterrà i benefici futuri dello stesso
(una produttività maggiore a fronte di un salario costante). La
possibilità che l’impresa si faccia carico dei costi iniziali viene
però meno se le competenze acquisite sono di natura generale,
utilizzabili anche in altri contesti lavorativi; in questo caso il
lavoratore, una volta finito il periodo di addestramento,
potrebbe trovare un altro datore di lavoro disposto a pagarlo
di più. In questo caso l’unica suddivisione possibile di costi e
benefici dell’addestramento tra impresa e lavoratore è che sia
il lavoratore, l’unico in grado di appropriarsi dei benefici, ad
accollarsi i costi dell’investimento, magari sotto forma di un
salario iniziale più basso rispetto a un lavoratore già
qualificato. All’estremo opposto, laddove l’addestramento
riguarda essenzialmente l’acquisizione di una serie di
conoscenze specifiche all’organizzazione aziendale (le sue
procedure interne, i suoi ritmi di lavoro ecc.) non spendibili
sul mercato esterno, per l’impresa non c’è alcun rischio e
perciò potrà farsene carico (laddove non si preveda che, per
altri motivi, il lavoratore sia comunque destinato ad
abbandonare presto l’impresa). L’importanza della distinzione
tra capitale umano generale, che può essere impiegato
ovunque, e specifico, utilizzabile solo in determinati contesti, è
confermata dalle diverse consuetudini dei vari mestieri. Ad
esempio, per molte professioni liberali, in cui s’impara un
mestiere esercitabile ovunque, è piuttosto diffusa la presenza
di periodi di tirocinio in cui il giovane praticante lavora senza
ricevere alcun salario (o addirittura pagando per imparare il
mestiere). Per quanto spesso possano esservi abusi, impedire
del tutto tale meccanismo in nome d’un principio di equità,
rischierebbe di impedire la trasmissione delle «competenze
professionali».

Nella pratica, la distinzione tra capitale umano specifico e


generale non è però sempre così netta. Molto spesso, vi sono
conoscenze accumulate in un determinato ambiente di lavoro
che hanno una portata più generale e che vengono acquisite
in via del tutto casuale e senza costi. D’altro canto, per quanto
il lavoratore possa cercare di utilizzare altrove le conoscenze
generali acquisite in un determinato contesto lavorativo, il
datore di lavoro può contare su un certo potere di mercato
perché muoversi da un’impresa a un’altra comporta,
comunque, costi di vario ordine (si devono cambiare
abitudini, colleghi ecc.). L’impresa può quindi riuscire ad
appropriarsi anche di elementi di capitale umano in teoria
definibili come generali ed essere così indotta a investire
nell’addestramento dei propri lavoratori se il mercato del
lavoro non è perfettamente fluido. Si noti che un mercato del
lavoro molto fluido, cioè dove si cambia lavoro con grande
facilità, potrebbe invece indurre l’impresa a non effettuare i
necessari investimenti in capitale umano; questo è uno dei
rischi a cui va incontro un mercato del lavoro estremamente
flessibile.

Lo sviluppo della personalità lungo il ciclo della vita


Trattare lo sviluppo della personalità non rientra nello
scopo di questo libro e va oltre le competenze degli autori,
economisti per formazione. Vi sono però alcune questioni
ineludibili perché qualificano lo schema astratto
dell’investimento in capitale umano descritto nel paragrafo
precedente. La loro discussione, anche solo superficiale,
consente inoltre di individuare nodi importanti del sistema
educativo, della sua efficacia ed efficienza.

Un primo elemento, già in parte introdotto nel paragrafo


precedente, è la cumulabilità dei processi di apprendimento:
nei termini della saggezza popolare «chi più sa più impara».
Chi possiede un bagaglio adeguato di conoscenze è in grado di
accrescerlo ulteriormente e con maggiore rapidità, perché
l’apprendimento è più semplice e perché il possesso di
strumenti metodologici adeguati consente una migliore
sistematizzazione delle nuove conoscenze acquisite.

Beninteso, si tratta di una regola generale con eccezioni e


qualificazioni: chi sia abituato a pensare con certi schemi
mentali può trovare difficoltoso acquisire e padroneggiare una
nuova teoria scientifica; similmente, ad un livello di
conoscenze più empiriche, chi sia abituato a operare con una
certa macchina o un certo utensile potrebbe trovarsi male con
nuovi strumenti. È perciò importante non solo acquisire delle
conoscenze specifiche, ma anche «apprendere ad apprendere»
(learn to learn), soprattutto in fasi, come quella attuale, in cui
l’allungamento della vita media e il veloce ritmo
d’innovazione scientifica e tecnologica accrescono il rischio
che le conoscenze specifiche acquisite sui banchi di scuola
divengano obsolete. Da questo punto di vista, vi è chi sostiene
che sistemi educativi come quello tedesco, basati su una
grande capacità di addestrare specialisti di vaglia
indirizzando abbastanza precocemente una larga fetta dei
propri giovani all’acquisizione di un mestiere, possa andare
incontro nei decenni a venire a crescenti difficoltà: questi
giovani, addestrati a un mestiere specifico, poco flessibili e
relativamente meno solidi dal punto di vista delle conoscenze
e delle abilità di tipo generale, un domani, in un mondo in cui
i confini di molti mestieri saranno meno predeterminati e
costanti, potrebbero non essere capaci di riconvertirsi. Senza
voler qui dirimere la questione – più complessa e articolata di
quanto possa apparire in poche righe – ci limiteremo a
sottolineare il possibile trade off esistente tra profondità e
flessibilità delle competenze, un trade off che del resto si
riconnette alla distinzione, già discussa nel capitolo 1, tra
attività che tendono a spostare la frontiera della conoscenza e
attività in cui si utilizza un set di conoscenze date.

Tornando al principio generale, la regola empirica è quella


dell’interazione positiva tra (efficacia nell’acquisizione di)
nuovi apprendimenti e livelli di conoscenze già acquisite.
L’addestramento sul posto di lavoro presuppone che
l’individuo sia già abbastanza istruito così come la proficua
partecipazione a corsi universitari avanzati richiede il
possesso di conoscenze di base. Una implicazione di questa
cumulabilità nei processi di investimento in capitale umano è
che essi tendono a produrre ineguaglianze: chi parte
avvantaggiato, per un motivo o un altro (per eredità genetica,
qualità dell’ambiente familiare e prescolare nell’infanzia o
delle scuole di base frequentate) si troverà in seguito sempre
più favorito. Ne discende inoltre che l’efficacia
dell’investimento di un dato ammontare di risorse tende a
essere maggiore se questo viene effettuato nelle prime fasi
della vita. Una politica pubblica volta a contenere le
ineguaglianze attraverso l’aumento del capitale umano dei
soggetti meno dotati e/o provenienti da famiglie meno ricche
sarà più efficace se si concentra sulle primissime fasi di
sviluppo della persona, per esempio in quella prescolare.
Viceversa, intervenire con programmi di educazione degli
adulti, come suggerito dalla retorica del life long learning e
dalla sistematica richiesta di interventi per la formazione
professionale, può essere estremamente costoso e poco
efficace nel migliorare le prospettive reddituali e
occupazionali degli interessati. Questi interventi potrebbero
essere molto utili da altri punti di vista, ad esempio garantire
a tutti condizioni minime per la partecipazione alla vita
democratica o favorire le generazioni successive, migliorando
l’ambiente familiare in cui queste muovono i loro primi,
essenziali, passi. Lo saranno però molto meno in termini di
effetti diretti sul capitale umano e sulla produttività di queste
persone. Queste considerazioni consigliano un ripensamento
delle finalità dell’educazione degli adulti, da orientare meno
all’addestramento e di più a scopi di socializzazione, a
sostegno della partecipazione alla vita civica e al ruolo di
genitori, con ricadute sulla formazione delle nuove
generazioni; in ogni caso c’è da interrogarsi sulla validità di
un modello, come quello italiano, in cui la formazione
professionale ha caratteristiche di autoreferenzialità.

Il secondo elemento da sottolineare, anch’esso connesso


alla cumulabilità nel tempo dei processi di apprendimento, è
la presenza di alcuni momenti del ciclo di vita che appaiono
come fasi salienti, fasi cioè in cui si apprende con grande
rapidità ed efficacia. Ad esempio, l’apprendimento di una
lingua straniera è molto più facile ed efficace quando
realizzato nei primissimi anni di vita e invece molto più
difficile e dagli esiti incerti se intrapreso in età matura. Il
fenomeno è in ultima analisi collegato alla realtà biologica e
neurologica del cervello umano, che non è un organo già
completamente formato alla nascita – che nel tempo si
limiterebbe ad accumulare una serie di input e conoscenze
successive – ma è esso stesso plasmato dai processi di
sviluppo dell’individuo. La plasticità del cervello umano non è
però un processo temporalmente infinito – gradi e
caratteristiche differiscono tra infanzia, adolescenza ed età
matura – e ha implicazioni rilevanti in tema di importanza dei
fattori genetici e di quelli ambientali (familiari e non).
Rispetto alla contrapposizione e al tentativo di quantificare
l’importanza degli uni e degli altri che ha caratterizzato molto
del dibattito scientifico dell’ultimo secolo e mezzo oggi si
ritiene che la genetica fornisca una sorta di blueprint degli
sviluppi successivi, il cui effettivo successivo evolversi è però
condizionato da fattori esterni, in ultima istanza
dall’ambiente circostante. Lo sviluppo della personalità è
quindi visto come un processo condizionato da dati sia
genetici sia ambientali – non intendendo per questi ultimi
esclusivamente quelli familiari, ma anche quelli connessi con
la scuola e più in generale con i gruppi amicali – ma non
influenzato deterministicamente dagli uni e/o dagli altri. Dati
genetici e ambientali, inoltre, interagiscono tra loro. Avere
certi tratti caratteriali spingerà a frequentare determinati
ambienti e gruppi amicali. Lo stesso comportamento dei
genitori nei confronti di ciascuno dei figli dipenderà dalla
(percezione che gli stessi genitori hanno della) personalità di
ciascuno di loro, per cui figli diversi (e si ricordi che solo
fratelli e sorelle omozigoti condividono lo stesso patrimonio
genetico) saranno sottoposti dagli stessi genitori a regimi
educativi diversi (oltre ad avere poi infinite occasioni di
diversificarsi nell’ambiente sociale e scolare).

Il terzo e ultimo aspetto di questa letteratura non


economica, che è qui utile riprendere, è la forte interrelazione
tra tratti emotivi e cognitivi della personalità. Questa
condiziona sia i processi di apprendimento, come ben sanno
tutti gli educatori che cercano innanzitutto di «motivare» i
propri allievi, sia la vita adulta, quando poi il capitale umano
di un individuo viene «messo a frutto». In altre parole le fasi
salienti dell’apprendimento e dello sviluppo della personalità
sono strettamente connesse con l’interazione tra tratti
emotivi e cognitivi: vi sono fasi critiche e difficili della vita (la
prima infanzia, il passaggio adolescenziale) in cui la serenità
emotiva ha un effetto positivo sullo sviluppo cognitivo
propriamente detto. Quanto poi alla valorizzazione e all’uso
del capitale umano, di cui parleremo meglio nel capitolo 5, il
successo economico degli individui non è legato
esclusivamente allo stock di conoscenze teoriche acquisite e
neppure alle competenze tecnico-professionali in senso
stretto. C’è un’evidenza crescente ad esempio dell’importanza
delle capacità relazionali. Addirittura, gli economisti hanno
quantificato l’esistenza di premi salariali legati alla statura e
alla bella presenza (l’esistenza cioè di una regolarità per cui le
persone più alte guadagnano salari ceteris paribus più elevati),
la cui più probabile interpretazione è proprio legata all’effetto
che queste variabili hanno nelle interazioni sociali.

Qui di seguito ci concentreremo sulle implicazioni per


l’analisi del sistema scolastico ed educativo che derivano
dall’innesto tra gli schemi economici tradizionali con la
letteratura psicologica e le neuroscienze. Questo innesto di
psicologia, neuroscienze e scienza economica sta mutando il
modo con cui gli economisti guardano più in generale alle
scelte degli individui, anche al di là del campo di analisi qui
considerato. I modelli degli economisti, che tradizionalmente
ipotizzavano una capacità di decisione razionale dell’homo
oeconomicus pressoché illimitata, sono oggi ormai resi più
realistici tanto dalle considerazioni circa l’incompletezza
delle informazioni a disposizione dell’attore economico,
quanto dalla considerazione del processo decisionale degli
individui come di un processo complesso, un meccanismo
che, come tutti i congegni e le macchine esistenti, ha proprie
regole e limitazioni «tecnologiche». Nell’analisi economica
ormai è ben riconosciuta la presenza di scelte
apparentemente «aberranti» rispetto al paradigma della piena
razionalità; basti dire che lo psicologo Daniel Kahneman ha
vinto il premio Nobel per l’economia per le sue esplorazioni in
questo campo. Inoltre, si esplorano le radici di tali
comportamenti, in prevalenza ricondotti al fatto che il
processo decisionale umano risulta dalla combinazione di più
meccanismi elementari, alcuni dei quali – probabilmente
selezionati nel corso dell’evoluzione biologica dell’uomo
come animale sociale – sono fondamentalmente immediati e
istintivi, basati alle volte sulla mera imitazione del
comportamento altrui e non sulla preventiva ponderazione
razionale dei vari elementi in gioco. Sempre più, si analizzano
le conseguenze di tali comportamenti cosiddetti «aberranti»
rispetto al paradigma della razionalità per molti contesti di
scambio: le recenti violente oscillazioni dei mercati finanziari
hanno ad esempio reso quanto mai visibile l’importanza che
anche tali aberrazioni possono avere nel creare bolle
speculative.

Il ruolo del sistema educativo


La prospettiva abituale con cui gli economisti hanno
guardato al sistema educativo è quella di una macchina dai
contorni indistinti che contribuisce a produrre capitale
umano, sovrapponendosi all’impatto dell’eredità genetica e
dell’ambiente (familiare e non solo). L’unica caratteristica dei
sistemi d’istruzione tradizionalmente discussa dagli
economisti riguarda le regole di finanziamento della scuola. Si
tratta, beninteso, d’una questione rilevante di cui abbiamo già
detto spiegando le motivazioni che possono giustificare l’uso
di fondi pubblici a sostegno della scuola. Si sovvenzionano i
costi dell’istruzione per sfruttarne le esternalità, cioè per
indurre gli individui a investire in capitale umano più di
quanto farebbero sulla base della sola considerazione dei loro
rendimenti privati, rendimenti che, per definizione, non
tengono conto dei possibili benefici sociali della scolarità. Si
mettono a disposizione risorse per rimuovere i vincoli di
credito, cioè per finanziare i costi della scolarità di chi non ha
accesso al credito. È da sottolineare che il finanziamento
pubblico del sistema scolastico non deve necessariamente
associarsi a una gestione diretta delle scuole all’interno del
settore pubblico, come accade nel nostro paese. Non a caso
forme di sovvenzionamento pubblico della scuola –
soprattutto fino alla scuola secondaria superiore – e
meccanismi di agevolazione creditizia per favorire la
partecipazione alle attività scolari – soprattutto a livello
universitario – si riscontrano pressoché dappertutto, seppur
con intensità diverse, anche laddove le scuole operano in una
logica più decentrata o addirittura in una logica di mercato. Di
fatto, anche dove le scuole private giocano un ruolo
significativo, esse lo fanno grazie al sostegno pubblico. Un
caso significativo è quello svedese dove da circa vent’anni
esiste un fiorente comparto di scuole private finanziate (come
quelle pubbliche) dallo Stato: è utile perciò ricordare che un
modello sociale fortemente egualitario – socialdemocratico –
non è quindi sinonimo di monopolio pubblico nel sistema
scolastico.
L’abbinamento di finanziamento pubblico e gestione
pubblica diretta del sistema scolastico – o comunque di un
forte controllo dello Stato sulle singole scuole, ivi incluse
quelle private – ha spesso avuto a che fare con motivazioni
politico-istituzionali, legate allo sforzo dello Stato di
controllare i contenuti della formazione, fino al caso limite di
«indottrinare» i futuri cittadini, o comunque con una
tradizione più o meno interventista dello Stato nell’economia.
Esempi li ritroviamo nel caso francese, in cui contano la
tradizione centralista e il modello interventista dello Stato in
economia. Nel prosieguo, non distingueremo perciò
volutamente tra sistemi scolastici pubblici e sistemi in cui vi
sia una significativa presenza di scuole private paritarie; molti
degli aspetti organizzativi di sistema rilevanti su cui
richiameremo l’attenzione – grado di centralismo e di
autonomia delle singole scuole, meccanismo di reclutamento
e progressione degli insegnanti, comparabilità della
performance degli studenti nelle diverse scuole – sono
indipendenti dalla natura pubblica o privata delle singole
scuole. In particolare ci soffermeremo sulla governance del
sistema scolastico e sugli incentivi che da essa discendono a
chi nella scuola concretamente opera, studenti e insegnanti in
primis.

L’attenzione relativamente recente degli economisti a


queste questioni senz’altro ha a che fare con il fatto che la
spesa per l’istruzione ha raggiunto livelli ragguardevoli,
divenendo una grandezza significativa da un punto di vista
macroeconomico. Una seconda motivazione è però legata alla
«scoperta» del dato di fatto empirico per cui la quantità di
risorse spese nella scuola non sembra correlata ai risultati
della stessa.

Guardando agli ormai numerosi studi empirici che


considerano il dettaglio dei singoli sistemi scolastici, il
numero di alunni per insegnante o il tempo scuola – proxy
della quantità di input immessi nel sistema – sembrano non
influenzare granché la qualità degli apprendimenti. Almeno
nel range abituale di fluttuazione di tali variabili osservato nei
paesi avanzati (cosa diversa sarebbe evidentemente un
drastico innalzamento del numero di alunni per insegnante),
aumentare le ore di insegnamento frontale o ridurre gli alunni
che ogni insegnante deve seguire non migliora granché la
qualità degli apprendimenti e il capitale umano. L’attenzione
si è perciò spostata da un lato sul legame tra qualità degli
apprendimenti e identità (e caratteristiche) degli insegnanti
e/o delle singole scuole, dall’altro sui meccanismi istituzionali
e di mercato che possono favorire i processi di apprendimento
degli studenti nel sistema nel suo complesso (riducendo o
ampliando le differenze tra gli studenti stessi). Nel farlo gli
economisti hanno dovuto necessariamente tenere in conto le
realtà del processo di sviluppo della personalità discusse nel
precedente paragrafo.

Dal primo punto di vista si è in sostanza misurato se le


differenze tra studenti, così come risultanti da vari test
standardizzati, fossero sistematicamente connesse con la loro
scuola e/o, a livello ancora più disaggregato, con il loro
insegnante. In sintesi, il risultato è che le differenze in
questione sono notevoli, e segnalano come la qualità (e la
motivazione) degli insegnanti (e delle scuole) conti ben più
della mera quantità di input usati dal sistema educativo.
Come visto, in Italia le competenze misurate dall’indagine
Pisa risultano piuttosto disperse tra studenti e circa metà di
tale variabilità si ricollega a differenze sistematiche tra scuole.
Un recente studio riferito agli Stati Uniti ha evidenziato come
una differenza di una deviazione standard nella distribuzione
dell’abilità degli insegnanti (basata sui progressi medi
registrati dagli studenti da essi seguiti) comporti una
variazione della performance degli studenti equivalente
all’effetto di circa 1/5 di anno scolastico.

Nell’effettuare tali stime ci si è scontrati col fatto che, ad


esempio, i risultati conseguiti in un dato anno (di corso o di
età anagrafica) da un determinato studente dipendono dagli
apprendimenti conseguiti in passato (si tratta della
cumulabilità discussa in precedenza), nonché dall’eredità
genetica e dall’ambiente familiare ed extrascolastico. Trovare
che gli studenti della scuola x, o dell’insegnante y,
conseguano in media risultati migliori non significa
necessariamente che la scuola x, o l’insegnante y, ne siano i
responsabili: potrebbe darsi che il gruppo in questione sia
stato favorevolmente selezionato. Per eliminare l’effetto di
queste variabili di contesto e misurare il reale contributo degli
insegnanti si è fatto ricorso a tecniche di regressione multipla
o a misure di «valore aggiunto» degli apprendimenti, definito
come la differenza nei livelli di apprendimenti dei singoli
studenti in ingresso e in uscita da una scuola. Gli esercizi così
avviati (per precisione va detto che il dato prima citato sugli
Stati Uniti tiene conto di tali problemi perché considera i
progressi dei singoli studenti, mentre così non è per il dato
relativo all’Italia tratto dall’indagine Pisa) confermano di
massima la rilevanza delle differenze ascrivibili a scuole e
insegnanti.

Collegare la performance degli studenti con l’identità dei


loro insegnanti e delle loro scuole è però solo l’inizio della
storia. Gli studi che hanno cercato di rintracciare quali fossero
le caratteristiche osservabili che permettono di identificare i
buoni insegnanti (dove, come già detto, essere un buon
insegnante significa avere avuto studenti che in media
abbiano registrato significativi progressi nel tempo) hanno
trovato poche evidenze chiare e robuste. L’accumulo di
esperienza didattica ad esempio sembra contare ma solo fino
al raggiungimento di una soglia minima e non oltre. Qualche
evidenza debole, e molto dibattuta, è stata riscontrata con
riferimento all’identità di sesso tra studente e docente, a
sostegno della tesi di chi vede nella femminilizzazione
crescente della professione docente un possibile problema per
gli alunni maschi, che si ritroverebbero privi nella scuola di
figure di riferimento adulte. La stessa acquisizione di
particolari credenziali ottenuta grazie alla frequenza con
profitto di corsi di specializzazione e al superamento di esami
specifici – previsti in molti sistemi come barriera all’accesso
alla professione di insegnante – solo in parte risulta essere un
buon predittore delle future capacità didattiche. In altri
termini, disegnare sistemi di reclutamento e accesso alla
professione di insegnante che cerchino di identificare, sulla
base di regole automatiche e impersonali, il futuro buon
docente, sono importanti ma non sembrano essere una
panacea.

Chi vive nel mondo della scuola del resto sa bene che
questa assenza di evidenze robuste sul chi e cosa renda un
insegnante un buon insegnante si ricolleghi a due vecchie e
mai sopite diatribe riguardo questa professione. La prima
concerne il fatto se il buon insegnante sia colui che meglio
conosce la propria materia o colui che la sa presentare e
porgere meglio ai propri allievi; la seconda riguarda il fatto se
buoni insegnanti si nasca – nel senso di avere doti caratteriali
di un certo tipo, anche se queste non necessariamente
devono essere innate nel senso letterale del termine – o si
diventi – per effetto di un addestramento specifico alla
funzione di insegnante. Non è nostra intenzione risolvere
nessuna delle due questioni. La lettura che diamo delle
evidenze empiriche prima richiamate è che per molti aspetti
esse non siano risolvibili in generale: buoni insegnanti un po’
si nasce ed un po’ si diventa – con la prassi oltre che con la
mera formazione pedagogica – così come conoscere una
materia e saperla porgere ai propri allievi sono, almeno entro
certi livelli minimi, entrambi fattori rilevanti e
interdipendenti.

Non basta perciò selezionare all’ingresso i migliori – atto


che comunque presuppone di incentivare le persone adatte a
sottoporsi alla selezione – o di prevedere iniziative di
formazione vere e non rituali. Per quanto entrambe le cose
siano importanti, ci pare essenziale considerare anche le
motivazioni e gli incentivi del corpo docente, comunque in
qualche modo selezionato e formato, e più in generale di tutti
gli attori del sistema. Evidentemente molti aspetti del
funzionamento del sistema scuola hanno a che fare con altre
cose, ivi inclusa la cultura generale di un paese. Ad esempio
sono fattori importanti il prestigio della scuola, per un verso,
la sua apertura al mondo esterno, per l’altro. In un mondo ad
alto ritmo di rinnovamento in cui gli eventi mediatici e
culturali bombardano gli studenti in tempo reale, una scuola
chiusa in se stessa rischierebbe di essere percepita come
un’istituzione vecchia e datata. In maniera simile può essere
importante avere prassi educative e pedagogiche in cui gli
insegnanti siano educatori e sappiano coinvolgere gli
studenti, non solo «cultori» di una data materia o, peggio
ancora, stanchi somministratori di nozioni, magari anche
ostaggi di genitori che pretendano la promozione dei propri
figli pena il ricorso amministrativo. Qui illustreremo non
questi aspetti «culturali», ma motivazioni e incentivi, degli
insegnanti così come delle famiglie e degli studenti, da un
punto di vista economico. Due sono in particolare le
indicazioni che possono derivarsi dall’analisi economica della
governance del sistema scolastico.

Una prima indicazione è che una buona performance media


degli studenti è ottenuta da quei sistemi che sono
caratterizzati, al tempo stesso, da una notevole autonomia
operativa delle scuole e da una forte comparabilità dei
risultati degli studenti, intesi come livelli di apprendimento
misurati sulla base di un metro omogeneo. L’autonomia
consente alle scuole di assolvere i propri compiti adattando
tecniche e modelli organizzativi alle specificità dei singoli
contesti; ciò è forse tanto più importante oggi, in un mondo in
cui si tratta di sviluppare la consapevolezza degli allievi e non
più di impartire, in assenza di altri stimoli culturali e
informativi, poche e semplici nozioni di base. La presenza di
misurazioni su basi omogenee degli apprendimenti degli
studenti, unitamente all’obbligo da parte delle scuole di dare
conto dei risultati ottenuti (l’accountability), stimola l’impegno
di tutti i soggetti coinvolti verso un miglioramento
dell’apprendimento. Per gli operatori coinvolti nelle singole
scuole, l’assenza di accountability comporta un forte rischio di
autoreferenzialità, senza nessun processo di emulazione e
competizione col mondo esterno.

Il secondo elemento da considerare è l’effetto dei sistemi di


governo del sistema scolastico sulla variabilità del livello degli
apprendimenti degli studenti. Qui il quadro è più articolato. A
priori sembrerebbe logico aspettarsi una maggiore variabilità
dei risultati tra scuole in quei sistemi in cui l’autonomia
innesca una vera e propria concorrenza nell’attirare iscrizioni
e nel reclutare personale. È plausibile infatti che la
competizione conduca a una sorta di segmentazione del
mercato tra scuole di diversa qualità in cui alcune selezionino
gli studenti (e le famiglie) più motivati e disposti a investire
anche risorse aggiuntive (finanziarie e non). I differenziali
sarebbero ancor più ampi nel (molto probabile) caso in cui la
qualità dei compagni di scuola influisca sugli apprendimenti
dei singoli, magari tramite un effetto motivazionale di tipo
emulativo. In pratica, però, questa maggiore dispersione dei
livelli di apprendimento non è un esito sempre scontato;
molto dipende dalle caratteristiche della competizione, dalle
modalità di finanziamento del sistema e dalla reale possibilità
di scegliere la scuola. Innanzitutto la comparabilità e la stessa
competizione tra scuole potrebbe consentire anche alle
famiglie meno informate di verificare la qualità dell’istituto
scolastico frequentato dai propri figli; inoltre se l’accesso alle
scuole migliori non è precluso da rette elevate (perché le
scuole sono pubbliche, o comunque gratuite per le famiglie, e
non possono scegliere i propri studenti) o da vincoli di
distanza e di mobilità geografica, la competizione avrà effetti
stimolanti proprio per le scuole di qualità più bassa, costrette
a migliorarsi, sempre che ne abbiano i mezzi o il potere reale
di mettere in atto comportamenti virtuosi.

In questo capitolo abbiamo discusso come l’accumulazione


di capitale umano dipenda da motivazioni di natura
economica e da fattori di carattere psicologico-emotivo.
Abbiamo quindi evidenziato l’importanza degli assetti
istituzionali del sistema scolastico. Nei prossimi due capitoli
cercheremo di valutare come alcune di queste determinanti
possano aiutare a spiegare il ritardo del nostro paese.
Parleremo prima del mercato del lavoro e in esso dei
rendimenti del capitale umano, chiedendoci se oggi una sua
scarsa valorizzazione in Italia riduca gli stimoli
all’accumulazione dello stesso da un punto di vista
quantitativo e, anche e soprattutto, qualitativo. Illustreremo
quindi le regole che governano la scuola con particolare
riferimento al sistema di valutazione.
5.

La valorizzazione del capitale umano

Nel capitolo precedente abbiamo spiegato come una


delle
ragioni fondamentali che inducono le persone a investire in
capitale umano sia
l’aspettativa che questo ne migliori le
prospettive di vita. Perché un ragazzo dopo la
scuola
dell’obbligo dovrebbe rinunciare al proprio tempo libero o alla
possibilità di
guadagnare da subito un salario, per frequentare
i banchi di scuola se da questa scelta non
dovesse averne
alcun tornaconto? Perché un lavoratore dovrebbe passare
parte del proprio
tempo libero ad aggiornarsi, per esempio
seguendo un corso di riqualificazione? Parimenti,
perché una
collettività dovrebbe devolvere una quota rilevante delle
proprie risorse per
finanziare l’istruzione pubblica se da
questa decisione non dovesse trarne nessun
giovamento? Le
risposte a queste domande sono molto semplici: spendere
denaro per accrescere
il capitale umano conviene.
L’immediata conseguenza logica di questa risposta è che
l’investimento in capitale umano sarà tanto più elevato
quanto più alto è il suo rendimento.

Come sempre i fatti concreti presentano delle


complicazioni assenti negli schemi teorici. Così quando si
prova a valutare concretamente
quanto rende il capitale
umano occorre preliminarmente chiarire chi è il soggetto
rispetto
al quale si valuta tale convenienza e quali elementi
concreti si prendono in considerazione
per valutarla.
Relativamente ai soggetti, si parla di rendimenti privati o
sociali a seconda
che ci si ponga dal punto di vista del singolo
o della collettività. Relativamente agli
elementi che entrano
nel computo c’è da domandarsi se non si debba andare oltre
gli aspetti reddituali ed estendere lo sguardo a tutti quegli
effetti
indotti dall’accresciuto livello di capitale umano. Per
esempio, e per anticipare qualche
considerazione sviluppata
più oltre, è noto che le persone più istruite godono una
maggiore
longevità; come tenerne conto nel computo dei
rendimenti dell’istruzione?

In questo capitolo cercheremo di fare il punto


della
situazione su quello che si sa in merito a quanto rende
l’investimento in capitale
umano dal punto di vista dei privati
e della collettività, esaminando in primo luogo le sole
componenti reddituali e strettamente economiche, per poi
allargare lo sguardo alle
componenti non monetarie. Nel farlo
ci concentreremo sull’istruzione che, come detto, è una
misura piuttosto imperfetta del capitale umano, su cui però
più ricca è la letteratura
esistente. Cercheremo di
sintetizzarne i principali risultati, discutendo i problemi
esistenti nelle stime dei rendimenti. Ci soffermeremo infine
sul confronto tra rendimenti
del capitale umano in Italia e
negli altri paesi avanzati allo scopo di capire soprattutto
se i
ritardi del nostro paese nell’accumulazione di capitale
umano, documentati nei capitoli
2 e 3, possano dipendere da
una sua scarsa valorizzazione oggi in Italia.

Quanto rende ai privati accumulare capitale umano?


L’aspetto senz’altro più indagato dagli
economisti è quello
dei benefici monetari del capitale umano, più in particolare
l’incremento di salario, inteso come misura della produttività,
che si consegue
aumentando il proprio livello di istruzione.
L’idea di usare la paga come indicatore
della produttività del
lavoratore discende dai fondamenti della teoria economica,
secondo cui, a lungo andare, ogni lavoratore viene retribuito
per il suo contributo alla
produzione (ma si ricordi quanto
detto nel capitolo 1 sulla possibilità di monopsonio e
sfruttamento dei lavoratori). Lo studio della relazione tra
salari e istruzione è di
fatto diventato il cavallo di battaglia dei
lavori empirici basati sulla teoria del
capitale umano.

Se la teoria del capitale umano è associata al


nome di Gary
Becker, la stima dei rendimenti dell’istruzione è associata al
nome di
Jacob Mincer, a riconoscimento delle sue
fondamentali ricerche condotte negli anni ’70
del secolo
scorso: ancora oggi il parametro che associa i salari agli anni
di scuola
frequentati è conosciuto con il nome di «rendimento
minceriano» dell’istruzione. Mincer
a suo tempo stimò, per i
lavoratori maschi (bianchi nel settore non agricolo) negli
Stati
Uniti, che un anno in più di istruzione si associava a un
aumento del salario pari
a circa il 10%. Oggi sono disponibili
stime dei rendimenti minceriani dell’istruzione
per
moltissimi paesi e gruppi della popolazione; esse indicano
che un anno in più di
scuola si associa a un salario più elevato
di una percentuale che può variare dal 5 al
10% a seconda dei
contesti. In altri termini, confrontando due lavoratori identici
sotto
tutti i profili, ad eccezione del livello di scolarità, il
salario di quello più
istruito sarà in media superiore di una
percentuale tra il 5 e il 10% per ciascuno degli
anni di scuola
in più frequentati. Quindi un lavoratore con una laurea
quinquennale
guadagnerà tra il 28 e il 60% in più rispetto a un
diplomato, a parità di altre
condizioni quali ad esempio
esperienza sul mercato del lavoro, genere, area di
residenza,
l’essere entrambi lavoratori dipendenti.

La valorizzazione del capitale umano risponde,


come
abbiamo visto nel capitolo 1, alle condizioni della sua
domanda e della sua
offerta. Così, per quanto pervasive, le
differenze di reddito tra persone con diversi
livelli di
istruzione non sono affatto costanti. Negli ultimi vent’anni
queste
differenze si sono ampliate in quasi tutti i paesi
dell’Ocse, sebbene in modo asincrono
e con intensità diverse.
Questa variabilità nel tempo è naturale perché i rendimenti
minceriani colgono la diversa valorizzazione che il sistema
economico attribuisce agli
anni di istruzione. Questa varia in
funzione della diffusione della scolarità, che
rappresenta
l’offerta di capitale umano, e delle modifiche nelle tecnologie
prevalenti,
che invece influiscono sulla domanda. Le cause
dell’ampliamento dei differenziali ora
ricordato sono state
perciò individuate nella diffusione d’innovazioni tecnologiche
che
avrebbero accresciuto la domanda di lavoratori qualificati
più
di quanto l’aumento della scolarità non ne abbia
accresciuto l’offerta. Parte di questa
maggiore domanda di
lavoratori qualificati sarebbe legata alla complementarità tra
nuove
tecnologie e capitale umano e in parte alla novità delle
tecnologie in quanto tali: in
genere l’introduzione di una
nuova tecnologia comporta infatti, specie in una fase
iniziale,
attività lavorative concrete relativamente poco
standardizzate, che per essere
svolte con successo richiedono
un maggior livello di conoscenze e una maggiore
adattabilità
da parte dei lavoratori impegnati. Per esempio nella prima
fase di
diffusione dei personal computer, i lavoratori in grado
di utilizzarli godevano di un
consistente premio salariale.
Questo premio sembra essere scomparso, man mano che il
semplice uso del computer è divenuto un’attività lavorativa
sufficientemente
standardizzata e relativamente semplice. A
spingere nel senso di un ampliamento dei
differenziali
salariali è perciò non solo e non tanto l’esistenza di alcune
tecnologie
in quanto tali, ma piuttosto la frequenza con la
quale le novità tecnologiche vengono
introdotte.
L’innovazione comporta, infatti, una continua necessità di
aggiornamento e
di adattamento che premia chi più sa
(ritorna qui il proverbio sul «chi più sa più
impara» richiamato
in precedenza).

Gli altri due fenomeni sovente individuati


quali cause
dell’ampliamento del rendimento dell’istruzione sono la
globalizzazione e le
modifiche degli assetti contrattuali sul
mercato del lavoro, che si sono peraltro
sovrapposti ai
mutamenti tecnologici prima richiamati. La globalizzazione e
la
conseguente maggiore pressione concorrenziale esercitata
sui lavoratori meno qualificati
dall’ingresso nei mercati
mondiali dei paesi di nuova industrializzazione è stata resa
possibile anche dalla diffusione di tecnologie
dell’informazione e della comunicazione,
che hanno
consentito il coordinamento di attività lavorative localizzate
in luoghi
fisici anche molto distanti. La produzione di un
singolo prodotto è oggi scomposta in
una molteplicità di
operazioni elementari che non devono necessariamente
essere eseguite
sotto lo stesso tetto (o nella stessa area): i
compiti più facilmente standardizzabili,
e controllabili a
distanza, sono progressivamente emigrati nei
paesi dai salari
più bassi; in quelli avanzati sono rimasti solo i compiti più
«creativi», di direzione e coordinamento (oltre a quelli relativi
ai servizi alla
persona che per definizione devono essere
prossimi all’utente finale). Le stesse
modifiche degli assetti
istituzionali del mercato del lavoro e delle relazioni
industriali, responsabili di una crescente
«individualizzazione» nella modalità di
determinazione delle
retribuzioni, si ricollegano alle modifiche organizzative e
tecnologiche ora richiamate: un sistema produttivo in cui il
coordinamento su scala
globale e l’adattabilità alle
innovazioni tecnologiche sono rilevanti è un sistema che
mal
digerisce le scale retributive e gerarchiche predeterminate del
taylorismo e delle
grandi organizzazioni burocratiche della
metà del secolo scorso. Naturalmente è
difficile dire quali di
queste tendenze continueranno a operare nel prossimo
futuro:
l’accresciuta importanza delle competenze connesse
col coordinamento e il premio a chi
sappia adattarsi ad un
sistema in continuo mutamento tecnologico e organizzativo è
però
probabile che continuino ad alimentare la domanda di
lavoratori più qualificati.

Venendo all’Italia, i differenziali salariali


per livelli di
istruzione nel nostro paese sono significativi ma inferiori a
quelli medi
dei paesi Ocse. Secondo i dati raccolti dalla Banca
d’Italia nell’Indagine sui
bilanci delle famiglie i laureati
guadagnano mediamente il 35% in più dei
diplomati e questi
ultimi il 24% in più di chi ha conseguito al massimo una
licenza
media. Sebbene con qualche sfasamento temporale, il
profilo nel tempo dei rendimenti
dell’istruzione è abbastanza
simile a quello prima ricordato per la generalità dei paesi
Ocse. Contrattisi per tutti gli anni ’80, anche per via dei
meccanismi di indicizzazione
automatica dei salari, sono
tornati ad ampliarsi tra il 1989 e il 1993. Da allora sono
rimasti
sostanzialmente invariati.

I minori rendimenti dell’istruzione in Italia,


su cui
ritorneremo in conclusione di questo capitolo, non vanno
visti come indicazione
di una distribuzione del reddito più
egualitaria (che a sua volta può essere per alcuni
apprezzabile
in quanto tale, mentre per altri è da considerare
negativamente in quanto frutto di vincoli alla «naturale»
differenziazione dei salari
richiesta dalle tendenze prima
descritte). La presenza di ridotti rendimenti
dell’istruzione
non comporta infatti una minore diseguaglianza dei salari e
dei redditi:
tra i paesi europei l’Italia presenta anzi una
distribuzione del reddito alquanto
diseguale, più simile in
questo agli Stati Uniti e al Regno Unito che ai paesi
scandinavi. Più che un modello sociale egualitario, i
rendimenti contenuti
dell’istruzione e del capitale umano
nascondono perciò una bassa domanda di capitale
umano e il
fatto che la nostra specializzazione produttiva è in attività
poco avanzate e
innovative.

Tornando al quadro generale, va osservato che


importanti e
sistematiche differenze sono presenti nei rendimenti
associati ai diversi
ordini di scuola. Nella maggioranza dei
paesi Ocse il guadagno supplementare associato
ad
un’istruzione equivalente alla nostra laurea specialistica (il
50% in più di quanto
ottenuto da chi si fermi al diploma di
scuola secondaria) supera il guadagno
supplementare
associato al diploma (la differenza tra i salari dei diplomati e
di coloro
che detengono solo un diploma di scuola media è
circa il 27%). Il rendimento minceriano
sembrerebbe così
suggerire che il passaggio alla laurea è più remunerativo di
quello al
solo diploma di scuola secondaria superiore. Anche
se più difficilmente riassumibili,
differenze ulteriori vi sono
poi tra diversi tipi di scuola (ad esempio i diversi corsi
di
laurea o i diversi diplomi). Che possano emergere differenze
di tale tipo non deve
stupire, visto che il mutare delle
tecnologie porta a far emergere la domanda di
competenze
diverse maggiormente connesse con questo o con quel tipo di
scuola. Non deve
però neppure stupire la persistenza nel
tempo di talune di queste differenze. I
rendimenti minceriani
stimano i guadagni aggiuntivi derivanti da un determinato
tipo di
istruzione. Come abbiamo spiegato nel capitolo 4, la
decisione effettuata dall’individuo
(e/o dalla sua famiglia) si
basa su questi ma anche sui costi dell’investimento in quel
certo tipo di istruzione. Gli studi universitari in genere
costano all’individuo – sia
direttamente (in termini di costo di
iscrizione e frequenza dell’università) sia in
termini di costo-
opportunità, cioè del reddito da lavoro a
cui si rinuncia per
perseguire quegli studi – più di quanto non costino gli studi di
livello inferiore. È perciò naturale che i rendimenti minceriani
siano in generale più
elevati nel caso degli studi universitari:
devono infatti compensare costi più elevati.

Una misura più precisa del rendimento


implicito
dell’investimento in scolarità è perciò ottenibile calcolando
quel tasso di
sconto che eguaglia il valore attuale dei costi
sostenuti (oggi) e quello di tutti i
benefici (futuri) connessi con
una certa istruzione. Nella letteratura economica questo
indicatore è noto come «rendimento interno»
dell’investimento (in istruzione in questo
caso). I costi
considerati sono prevalentemente costituiti dai costi-
opportunità, cioè
dai salari a cui si rinuncia mentre si studia,
e dai costi espliciti direttamente
sostenuti per la formazione
scolastica; i benefici sono quelli monetari e consistono in
maggiori redditi da lavoro, già considerati, ma anche nella più
elevata probabilità di
essere occupati e dai migliori
trattamenti pensionistici e di altro tipo cui si potrà
avere
accesso. Dei diversi benefici aggiuntivi, ora enumerati, è da
sottolineare in
particolare quello relativo alla maggiore
probabilità di occupazione: per gli individui
più scolarizzati è
minore il rischio di restare disoccupati.

Le stime disponibili dei rendimenti interni


dell’istruzione –
un indicatore in linea di principio più completo, ma di fatto
più
soggetto ad arbitrarietà nelle assunzioni necessarie per
poterlo calcolare – confermano
peraltro le indicazioni fornite
dai semplici differenziali retributivi e dai rendimenti
minceriani. In Italia l’investimento in istruzione è redditizio
ma meno che nella media
dei paesi dell’Unione Europea e
dell’Ocse. Questa conclusione è piuttosto robusta
sebbene
l’entità del divario tra i rendimenti italiani e quelli di altri
paesi vari a
seconda delle ipotesi adottate, dei metodi di
stima e del titolo di studio considerato.
Con riferimento a tutti
i gradi di istruzione, il rendimento stimato per l’Italia è pari
all’8,6%, poco meno della media per i paesi dell’Unione
Europea (8,8%); rendimenti molto
più elevati di quelli italiani
si ottengono in Irlanda (12,3%), nel Regno Unito (11%),
in
Finlandia (10,3%), in Spagna (10%), in Germania (9,2%).
I divari
sono ancor più ampi quando si esaminano i titoli di studio
universitari i cui
rendimenti in Italia (6 e 4% per uomini e
donne rispettivamente) sono inferiori a tutti
quelli dei paesi
inclusi nel campione; in particolare, sono circa la metà di
quelli
americani, francesi e inglesi, situati in un range tra il 9 e
il
12%.

I rendimenti minceriani dell’istruzione, o


anche i più
completi rendimenti interni poc’anzi descritti, sono
comunque focalizzati
sui benefici reddituali dell’istruzione.
Ciò riflette la tendenza diffusa tra gli
economisti a misurare il
benessere delle persone prevalentemente in termini di
reddito.
Si trascurano così i possibili effetti della maggiore
istruzione su altre dimensioni del
benessere, come la salute o
l’assunzione di comportamenti rischiosi, per sé e per gli
altri
(ad esempio la partecipazione ad attività criminali). Si
tralascia in ultima
istanza il fatto che l’istruzione, e più in
generale l’accumulazione di capitale umano,
ha un effetto che
pervade il modo d’essere e di vivere degli individui. Avendo
presente
la caratterizzazione ben più ricca dell’agire umano, e
dello sviluppo della personalità,
discussi nel capitolo
precedente. La scolarità aiuta le persone a compiere scelte più
consapevoli e basate su dati oggettivi e meno soggette ad
errori sistematici, rispetto
per esempio al proprio stile di vita,
alla cura delle proprie condizioni di salute, ai
comportamenti
in quanto consumatore e risparmiatore, alla stessa
partecipazione alla
vita politica e sociale.

Alla scarsa disponibilità d’informazioni


sistematiche e
comparabili su molte di queste dimensioni non reddituali si
aggiunge
peraltro la difficoltà logica di precisare quali siano i
nessi causali rilevanti e di
dover tenere conto di quei fattori di
distorsione statistica illustrati nel box 2. Ad
esempio esiste
un’ampia evidenza che le persone più istruite godano in
genere di
migliore salute. Ma quale è il legame? È la migliore
salute di un individuo che conduce
ad una più elevata
istruzione o, viceversa, è la maggiore istruzione che ne
favorisce le
condizioni di salute, migliorando il grado di
consapevolezza sul proprio stile di vita o
l’accesso a cure
sanitarie appropriate?

Box 2. I problemi di
stima dei rendimenti dell’istruzione

Quanto siamo sicuri del fatto che le stime


minceriane
colgano un nesso di causa-effetto tra istruzione e redditi
e non
nascondano invece quella che gli statistici
definiscono una correlazione spuria,
cioè un’apparente
connessione tra due fenomeni dipendente dal fatto che
entrambi
hanno una comune determinante? Questi
problemi di stima nascono dal fatto che
l’individuazione
del vantaggio salariale fornito dall’istruzione
richiederebbe di
poter confrontare due persone del tutto
identiche tra loro, relativamente a tutte le
caratteristiche
che influenzano il salario, eccetto che per il diverso titolo
di
scuola conseguito. Questo esperimento logico è per
definizione impossibile da
effettuare in pratica. Di fatto si
confrontano persone simili, ovvero si tiene conto
delle
loro differenze attraverso l’uso di tecniche di regressione
multipla. Questa
capacità di rendere simili le persone
attraverso tecniche statistiche è però
limitata. In
particolare le persone hanno abilità innate diverse che
sono
difficilmente misurabili e che, plausibilmente,
hanno un impatto sui salari ma anche
sulla scolarità,
poiché le persone più abili conseguono con maggiore
facilità titoli
di studio più elevati. L’uso della scolarità
come credenziale e come segnale, di cui
abbiamo già
parlato come possibile alternativa alla teoria del capitale
umano, è
anzi basato proprio sul fatto che la scolarità
«segnala» l’abilità. Chi osserva
dall’esterno
un’associazione positiva tra redditi individuali e livelli di
istruzione, potrebbe perciò tendere a stabilire un rapporto
di causa-effetto tra i
due fenomeni laddove invece essi
sono entrambi frutto dell’abilità individuale. Più
in
generale, il fatto che l’istruzione è una variabile che è
stata scelta
dall’individuo e dalla sua famiglia genera una
distorsione nella stima dei suoi
effetti sul reddito. Infatti
se l’abilità della persona ha favorito la scelta di una
maggiore istruzione, la stima del rendimento minceriano
degli anni di scuola
risulterebbe sovradimensionata. In
altri termini, il semplice confronto tra
individui più e
meno scolarizzati porterebbe a quantificare un effetto
della
scolarità più elevato di quello effettivamente dovuto
al nesso di causa-effetto
ipotizzato dalla teoria del
capitale umano.
A complicare il quadro sta il fatto che ci
possono essere
anche distorsioni di segno opposto, come nel caso in cui i
genitori
investano più risorse nell’istruzione dei figli
meno dotati, magari nel tentativo di
compensarne la
minore abilità. Di conseguenza persone molto
scolarizzate potrebbero
godere di redditi non elevati a
causa della loro scarsa abilità e non per via del
basso
rendimento dell’istruzione. In questo caso i rendimenti
stimati sarebbero
inferiori a quelli veri. Un ulteriore
importante problema che abbassa la stima di
questi
rendimenti trova origine nel fatto che la scolarità è
spesso misurata con
errore nelle statistiche a nostra
disposizione (la statistica insegna che l’errore
classico di
misurazione in una data variabile tende a produrre stime
degli effetti
di quella variabile più basse, in valore
assoluto, dei valori veri).
I numerosissimi sforzi fatti per ottenere
stime corrette
suggeriscono che le distorsioni negative probabilmente
prevalgono (i
rendimenti sarebbero così sottostimati). Nel
complesso però, anche se sarebbe
comunque preferibile
esplicitamente correggere tutte le singole possibili fonti
di
distorsione citate, le semplici stime minceriane
effettuate senza alcun
aggiustamento appaiono
abbastanza affidabili come misura dell’impatto della
scolarità sui salari degli individui.

Anche se i risultati su queste dimensioni non


reddituali
sono meno consolidati e robusti, le prime semplici
correlazioni indicano
differenze sistematiche tra soggetti con
diversi gradi di istruzione nel gestire alcuni
aspetti relativi
alle condizioni di salute. Ad esempio tra le persone più
scolarizzate è
meno diffuso il tabagismo. Più in generale,
meno necessario e quindi meno frequente è il
ricorso ai
servizi sanitari. Alcune prime valutazioni suggeriscono che il
rendimento di
un anno in più di istruzione per maggiore
longevità è equivalente a poco meno del 10%
del salario
medio di una persona con licenza media. Similmente rilevanti
sono i nessi
tra istruzione e comportamenti «virtuosi»: alcune
valutazioni condotte negli Stati Uniti
stimano in 2.100 dollari
(a prezzi 1996) il risparmio dovuto alla riduzione di attività
criminali connessa a ogni ragazzo in più che completa la
scuola secondaria superiore.
Questa cifra equivale a circa il
20% dell’aumento di reddito associato al conseguimento
di un
diploma di scuola superiore. Ad oggi non si dispone però di
valutazioni sufficientemente diffuse, robuste e condivise.
Molte di
queste evidenze derivano tra l’altro da ricerche
condotte sugli Stati Uniti, dove il
sistema sanitario a
finanziamento privato potrebbe ampliare le differenze tra
individui
nelle condizioni di salute. Nonostante queste
incertezze è tuttavia probabile che i
rendimenti complessivi
dell’istruzione siano sottostimati dalla considerazione dei soli
dati reddituali.

Quanto rende alla collettività investire in capitale


umano?
A differenza di altre scienze sociali,
l’approccio degli
economisti di solito enfatizza le scelte individuali; i
rendimenti di
cui i singoli si appropriano, cioè i rendimenti
privati discussi nel paragrafo
precedente, sono perciò posti
alla base delle scelte d’investire in capitale umano.
Proprio
perché questi rendimenti privati sono la sola stella polare
degli individui, può
accadere che una collettività di individui
possa scegliere di investire assai poco in
istruzione, perdendo
di vista i benefici complessivi di cui potrebbe appropriarsi.
Ciò,
come detto nel capitolo precedente, giustifica il fatto che
lo Stato, per conto di
quella collettività, intervenga
finanziariamente a sostegno della scolarità. Ma cosa
sappiamo della rilevanza empirica di casi come questo, di casi
in sostanza in cui vi
sono dei benefici collettivi dell’istruzione
di cui i singoli individui non si
appropriano e di cui essi non
tengono conto nelle loro scelte?

Casi del genere fanno riferimento a quelle che


gli
economisti definiscono «esternalità». In termini definitori,
ricordiamo che si ha
una esternalità quando le conseguenze
delle azioni di un individuo travalicano la sua
stretta sfera
personale per coinvolgere direttamente anche quella di alcuni
altri. Un
esempio viene da quanto discusso nel paragrafo
precedente, con riferimento agli aspetti
non monetari
dell’istruzione: se questa induce comportamenti più virtuosi
riducendo ad
esempio il crimine, ne trae beneficio il singolo
individuo direttamente interessato, ma
anche, e soprattutto,
le persone con cui questi interagisce,
che meno incorreranno
nel rischio di essere rapinate o assalite. Un altro esempio
simile
riguarda gli stili di vita e le condizioni di salute: un
minore tabagismo, secondo molti
studi correlato
negativamente con la scolarità, riduce i rischi per la salute dei
diretti interessati ma anche per le persone con cui convive,
coinvolte dal fumo passivo,
nonché, più complessivamente,
riduce le spese sanitarie che la società sarà poi chiamata
a
sostenere. Si noti che esternalità positive e rendimenti sociali
dell’istruzione non
hanno solo a che fare con gli aspetti non
economico-reddituali del capitale umano. Anche
nella
tradizionale sfera economica, si può ad esempio immaginare
che interagire sul
posto di lavoro con colleghi più istruiti e
capaci renda più produttivi, attivando un
processo di
emulazione e/o di apprendimento. Nel capitolo 1, abbiamo già
discusso del
fatto che le conoscenze scientifiche sono un
patrimonio utilizzabile non solo per
svolgere questa o quella
attività lavorativa concreta, ma anche per accrescere il set di
conoscenze ed innovare le tecnologie concretamente
disponibili.

Sebbene possano facilmente venire alla mente


esempi di
esternalità positive, altrettanto facilmente possono esservi
casi di
esternalità negative, in cui i benefici che un individuo
trae dalla propria scolarità si
associano a danni creati ad altri.
La possibilità già discussa, sin dal capitolo 1, che
la scuola e i
titoli di studio siano esclusivamente un segnale, operando
solo come
criterio di screening per l’accesso a posizioni di
rendita e di
potere, comporta in effetti che elevare la scolarità
di un dato individuo non ne
modifichi la produttività, ma solo
i redditi (facilitandone l’accesso a certe posizioni
di privilegio).
In un caso del genere, se tutti gli individui di una data società,
attratti dal rendimento apparente dell’istruzione,
conseguissero un più alto livello di
studi, nulla muterebbe in
quel sistema produttivo e la maggiore spesa in istruzione
sarebbe (almeno da un punto di vista strettamente
produttivo) soltanto un enorme spreco
(si avrebbe quella che
gli economisti definiscono una rats race).

Allo stato attuale della ricerca empirica non


si dispone in
realtà di stime affidabili delle diverse esternalità. L’evidenza è
sporadica e non sufficientemente solida da consentire di
arrivare ad una
quantificazione, per aggregazione dei singoli
canali citati, della loro rilevanza
complessiva. L’idea che
l’istruzione generi rendimenti per la collettività
sistematicamente superiori a quelli presenti per il singolo
individuo non gode perciò
tra gli addetti ai lavori di un
consenso universale.

Indizi, ma non ancora risposte puntuali,


vengono dagli
studi che hanno considerato gli effetti dell’istruzione
direttamente a
livello aggregato, per un intero paese. A tale
livello le stime ottenibili rappresentano
direttamente i
rendimenti sociali dell’istruzione. Queste analisi sono state di
fatto
avviate dagli economisti che si occupano della crescita
economica. A partire dagli anni
’80 del secolo scorso il
capitale umano ha occupato un posto centrale nella teoria
della
crescita economica. Nelle valutazioni empiriche, si è
così fatto ricorso agli anni di
istruzione (o ad altre variabili
simili) per spiegare i diversi livelli e tassi di
crescita della
produttività del lavoro (tenendo conto di altri fattori quali il
livello
del capitale fisico per addetto e gli investimenti
in
macchinari, impianti e tutti quei beni che costituiscono il
capitale fisico di un paese). L’esperimento logico di questi
esercizi
empirici è del tutto simile a quello adottato per
verificare l’effetto degli anni
d’istruzione sulla produttività e
sul salario di un singolo lavoratore. Si confronta il
livello di
produttività, o di crescita della produttività, di paesi in tutto
simili
eccetto che nel livello di istruzione medio della
popolazione per inferire se e di
quanto i paesi con maggiore
istruzione godano di una produttività più elevata.
I risultati ottenuti confermano la rilevanza
dell’istruzione e
del capitale umano. Non vi sono però stime puntuali di
consenso; tanto
meno si può derivare, dal confronto con le
valutazioni condotte sui singoli individui
discusse nel
paragrafo precedente, una valutazione sulla differenza tra
rendimenti
sociali e rendimenti privati. Anche per le stime
condotte a livello aggregato – che in
quanto tali misurano i
rendimenti sociali – vi sono del resto problemi statistici non
piccoli. Quello maggiore è connesso col notevole errore
di
misurazione nelle statistiche sulla scolarità (e sulle variazioni
della stessa),
specie per quanto riguarda i paesi del Terzo
Mondo, errore di misurazione che, come
visto nel box 2, tende
di per sé a ridurre gli effetti stimati (rispetto a quelli veri).

L’imprecisione delle statistiche esistenti sul


capitale umano
non consente neppure di fornire quantificazioni precise del
contributo
alla crescita che viene dai diversi tipi d’istruzione e
di capitale umano. I dati,
imprecisi già a livello aggregato,
tanto meno consentono di precisare cosa rilevi nelle
attività
più propriamente innovative – quelle che nel capitolo 1
abbiamo definito di
avanzamento della frontiera tecnologica e
della conoscenza – e cosa rilevi invece
nell’introdurre e
diffondere nell’economia le tecnologie più avanzate,
«copiandole» da
altri contesti. Sappiamo che vi sono
differenze tra tipi diversi di capitale umano e la
natura
qualitativa di queste differenze e dei loro nessi con la crescita
economica, ma
non ne sappiamo dare una precisa
quantificazione.
Rendimenti e accumulazione del capitale umano: il
«caso» italiano
In questo libro abbiamo trattato il capitale
umano con le
categorie tipiche dell’economia, alla stregua di un bene
economico un po’
speciale ma pur sempre un bene
economico. Abbiamo visto nel capitolo 2 come l’Italia sia
in
ritardo nell’accumulazione di questo bene e, nel primo
paragrafo di questo capitolo,
come in Italia esso venga
valorizzato e remunerato meno che in altri paesi avanzati. Il
paradosso è che nel nostro paese il capitale umano è un bene
scarso a cui però,
nonostante questa scarsità, non si
attribuisce grande valore. Esemplificativa di questa
situazione
è la figura 4, dove si riporta sull’asse orizzontale il salario dei
laureati
in percentuale di quello dei diplomati e sull’asse
verticale la quota della popolazione
relativamente giovane in
possesso di una laurea.
FIG. 4. Quota dei laureati e
loro retribuzioni (persone di età
inferiore a 45 anni, anno 2005).
Fonte: I. Visco,
Investire in conoscenza, Bologna, Il Mulino, 2009, p.
63.

La figura evidenzia come in genere a bassi


tassi di
istruzione corrisponda, ceteris paribus, un rendimento più
elevato, in ragione per l’appunto della scarsità relativa.
Questa regolarità sembra
verificata nei paesi Ocse; se per
questi paesi si confronta il rapporto tra il reddito
da lavoro dei
laureati di età compresa tra i 30 e i 44 anni e quello dei
diplomati della
stessa età (un indicatore di prima
approssimazione del rendimento degli studi
universitari) con
la quota della popolazione di età compresa tra i 25 e i 44 anni
in
possesso di una laurea, si nota che tra le due variabili
sussiste una sia pur debole
relazione inversa: più è grande la
porzione di popolazione in possesso di una laurea
minore è il
valore dell’istruzione, misurato come divario tra il reddito
medio dei
laureati e dei diplomati. L’Italia appare invece come
una eccezione, un’eccezione tanto
più peculiare ove si
considerino le tendenze, anziché il dato puntuale. Recenti
studi
effettuati dalla Banca d’Italia mostrano infatti che a
partire dalla seconda metà degli anni ’80 si è avuta una
diminuzione dei salari d’ingresso dei
giovani laureati non
compensata da una maggiore crescita delle loro retribuzioni
al
progredire della loro vita lavorativa. Il divario retributivo tra
vecchi e giovani si è
anzi ampliato tra i laureati, ma non tra i
diplomati, col risultato di affievolire
ulteriormente l’incentivo
per i più giovani a conseguire una laurea.

Dietro al deterioramento della situazione


retributiva dei
giovani laureati vi sono numerosi fattori: in parte il fenomeno
nasconde
il fatto che l’accresciuta flessibilità del mercato del
lavoro italiano è in prevalenza
stata introdotta «al margine»,
finendo così col gravare sugli ultimi arrivati, laddove
le coorti
precedenti ne sono rimaste in gran parte esentate (in altri
termini, gli
insiders, già occupati, si sarebbero efficacemente
protetti col
risultato di far gravare larga parte
dell’aggiustamento sugli ultimi arrivati). Questo
iato tra
lavoratori senza grandi tutele, al limite della precarietà, e
lavoratori
ipergarantiti è tra l’altro particolarmente
accentuato nel settore pubblico; laddove nel
settore privato i
lavoratori più precari sanno comunque che il loro
comportamento può
favorire una stabilizzazione delle
condizioni contrattuali, nel comparto pubblico – che
in Italia
comunque rappresenta una fetta alquanto ampia della
domanda di lavoro più
qualificato – i precari sanno che
superare la propria precarietà e ottenere l’agognato
«posto
fisso» dipenderà più da vicende politiche e amministrative
(avere o no un certo
titolo di studio, essere in una annualità o
in un’altra) che dall’impegno lavorativo
concreto o
dall’effettivo livello di competenze. Più in generale, le
condizioni di
accesso alla professione in Italia sono in molti
campi presidiate da ordini
professionali che difendono i
propri privilegi e frappongono ostacoli tanto alla
concorrenza
all’interno del comparto, quanto all’accesso alla professione
di quei
giovani che non siano «figli d’arte».

Quello che qui interessa porre in evidenza è


che il
paradosso d’associare a un basso livello di istruzione una sua
bassa
remunerazione rischia di essere parte di un vero e
proprio circolo vizioso: bassi rendimenti scoraggiano gli
investimenti in capitale
umano e ne deprimono la dotazione,
riducendo la capacità della nostra economia
d’innovare e
adottare quelle tecnologie che ne sosterrebbero la crescita e
che, per via
della loro complementarità con lo stesso capitale
umano, ne accrescerebbero la domanda e
i rendimenti.
Arretratezza del sistema produttivo e gap nel capitale umano
tenderebbero
così a consolidarsi reciprocamente.

Questa non è la sede per esaminare le numerose


possibili
cause di questo circolo vizioso. Molte hanno a che fare con la
struttura
produttiva dell’Italia. Ad esempio, il prevalere delle
piccole imprese – e quindi tutti
i fattori che ostacolano la
crescita delle imprese – può contribuire a spiegare perché
sia
scarsa la richiesta di capitale umano la cui importanza nella
società non viene così
sufficientemente segnalata alle
famiglie e ai più giovani. Le piccole imprese tendono
infatti a
privilegiare l’esperienza lavorativa concreta rispetto alla
preparazione
accademica e a non investire in attività
innovative e di ricerca e sviluppo, considerate
troppo
rischiose; per molti piccoli imprenditori italiani, essi stessi
(per ragioni
anagrafiche) poco scolarizzati, la stessa
assunzione di laureati è cosa quantomeno
imbarazzante.

Un’ulteriore spiegazione di questo circolo


vizioso può però
rinvenirsi nella bassa qualità del nostro sistema scolastico e
nella
sua accentuata separatezza dal resto della società e dal
mondo del lavoro. L’una e
l’altra deprimono la domanda di
capitale umano da parte delle imprese. Queste hanno
difficoltà ad inserire nella propria compagine persone prive di
esperienza e con scarsa
socializzazione lavorativa (gli stages si
sono di recente
sviluppati, ma più come strumento per
ridurre sino a livelli incredibilmente irrisori il
salario dei
neoassunti che come strumento di conoscenza del mondo del
lavoro da parte di
chi stia ancora studiando). Una certa
reticenza ad assumere neolaureati – a cui si
preferiscono
soggetti comunque dotati di una qualche esperienza
lavorativa – deriva
anche dal fatto che è ignota la qualità
certificata dai titoli di studio distribuiti dal
nostro sistema
scolastico. Tutto ciò contribuisce a deprimere i rendimenti
associati ai diversi diplomi e rende importante, agli occhi
delle famiglie
e degli studenti, il darsi da fare alla ricerca del
contatto giusto più che l’impegno
fattivo all’interno della
scuola. Questa potrà essere importante, per le famiglie, in
termini di conseguimento di un titolo che formalmente
consenta l’accesso al settore
pubblico, ma non tanto per le
conoscenze e competenze trasmesse e che dovrebbero
rendere
l’individuo più ricercato nel mercato del lavoro.

La valorizzazione del capitale umano sembra


perciò essere
la strada maestra per riattivarne il meccanismo di accumulo e
avviare le
necessarie trasformazioni dell’economia italiana.
La difficoltà sta nel fatto che non si
può premiare il capitale
umano per decreto o per un atto di volontà. Si tratta piuttosto
di rimettere in moto quei meccanismi che producono i giusti
incentivi all’impegno e
all’investimento nel futuro.

Un primo passo è quello di ridurre la


differenza tra il valore
della scelta di istruzione come percepito dagli studenti e
dalle
loro famiglie e come, invece, percepito dal mercato del lavoro:
in altre parole
esiste uno iato tra quello che gli studenti
pensano di aver imparato, anche sulla scorta
delle valutazioni
ricevute a scuola, e quello che realmente sono in grado di fare
una
volta inseriti nel mondo lavorativo. Questa differenza si
genera dentro il sistema
scolastico e in gran parte a causa, noi
crediamo, della perdita di credibilità del
sistema di
valutazione degli studenti nelle singole scuole. Voti e titoli di
studio
hanno perso progressivamente potere informativo per
il mercato del lavoro che non li usa
più come segnale di
qualità dello studente. Per uscire da questa situazione occorre
ragionare sul sistema di valutazione del nostro sistema
scolastico. A questo è dedicato
il prossimo capitolo.
6.

La valutazione del sistema scolastico

Nei capitoli 2 e 3 abbiamo descritto lo stato


dell’accumulazione di capitale umano in Italia affiancando
alle statistiche più tradizionali sui livelli di scolarità alcune
misurazioni delle competenze della popolazione nel suo
complesso e, in particolare, di quelle effettivamente acquisite
dagli studenti. Nella descrizione abbiamo usato sia le indagini
internazionali, dalle quali abbiamo appreso un’idea dell’entità
del ritardo dell’Italia, sia quelle progettate e condotte nel
nostro paese. Sulla base di queste abbiamo implicitamente
valutato come poco soddisfacente la performance del sistema
scolastico italiano. Al suo interno, e sempre sulla base di
quelle indagini, abbiamo comparato la situazione delle
diverse aree geografiche italiane.

Questi confronti non sarebbero stati possibili e significativi


ove condotti sulla base dei risultati degli scrutini, degli esami
e delle certificazioni formali prodotte dalle nostre scuole. Solo
molto di recente le prove di esame (della terza media inferiore
in particolare, si veda oltre) hanno acquisito degli elementi di
prova nazionale veramente comparabile tra scuole e
commissioni di esame e, più in generale, la severità degli
esaminatori sembra essersi accresciuta. L’assenza di
comparabilità implica che, sulla base dei risultati «ufficiali»,
gli studenti, le loro famiglie e i loro insegnanti non sono in
grado di valutare le conoscenze e le competenze di un singolo
studente. A riprova di ciò sta il fatto che in Italia, le università,
specie le facoltà più richieste, usano fare test di ammissione
del tutto scollegati dal risultato degli esami di maturità, il cui
espletamento costa alla collettività oltre 200 milioni di euro
all’anno.

I risultati delle comparazioni internazionali segnalano


inoltre un singolare paradosso: nonostante gli scarsi livelli di
competenze degli studenti le famiglie italiane apprezzano, più
di quanto non facciano quelle di altri paesi, le scuole dei loro
figli. Secondo l’indagine Pisa 2006, il 91% dei genitori (di
studenti quindicenni) considera in gran parte competenti e
motivati gli insegnanti dei propri figli; i punteggi oggettivi
ottenuti nel test Pisa dai figli di genitori soddisfatti della
scuola non sono diversi, o sono addirittura peggiori, di quelli
dei figli di genitori che invece lamentano una scarsa qualità
della scuola con cui hanno a che fare. In altri termini,
studenti e famiglie spesso non riescono a rendersi conto del
fatto che le scuole frequentate siano insoddisfacenti: del
resto, la promozione e il titolo di studio vengono alla fin fine
strappati, e di questo si è soddisfatti (magari perché si
immagina che a contare nella vita sia il solo titolo di studio
formale, cosa peraltro senz’altro vera nel settore pubblico),
senza che le conoscenze e competenze effettive vengano
davvero accresciute.
Questa mancanza di consapevolezza dipende da un’assenza
di misurazioni oggettive e comparabili tra le diverse scuole
dei risultati degli studenti, il che non è privo di conseguenza
sulla performance del sistema scolastico complessivo. Come
abbiamo già argomentato nel capitolo 4, ne discende uno
scarso stimolo all’impegno da parte dei singoli studenti di
una data classe e una tendenza all’autoreferenzialità della
singola scuola. A livello aggregato la scarsa consapevolezza
dei problemi riduce la possibilità di intervento sulle criticità
del sistema, per esempio comparando diverse possibili
opzioni e politiche educative. Ne discende un dibattito sulle
politiche scolastiche privo di solide basi empiriche, in cui si
propone di tagliare o di aumentare le risorse disponibili, ma
senza mai considerarne l’efficacia educativa. Ne è
testimonianza il dibattito sul ritorno al maestro unico nella
scuola elementare: tanto l’introduzione a suo tempo del
modulo con tre maestri (su due classi) quanto l’odierno
ritorno al maestro unico sono sempre stati discussi in termini
di posti di lavoro persi e di costi – questione ovviamente
importante – ma senza nessuna attenzione agli effetti
educativi dell’una e dell’altra opzione.

Segnali a nostro avviso più incoraggianti sono ravvisabili


nella recente ripresa di attenzione ai temi della
valorizzazione del merito, degli alunni e dei singoli
insegnanti: si tratta di un fatto di per sé positivo, in quanto
stimolo al ben fare. È però grande il rischio che tale tendenza
«culturale» si affievolisca anche per una certa confusione
semantica. Misurare gli apprendimenti degli alunni, valutare
la performance delle diverse scuole – il valore aggiunto da
esse apportato – individuare le capacità educative dei docenti
e analizzare le differenti politiche scolastiche sono tutti temi
rilevanti. Si tratta però di aspetti distinti della valutazione
delle scuole. Prima di entrare nel dettaglio della nostra
trattazione, che vuole considerare come tale valutazione
possa contribuire a migliorare la performance del sistema
scolastico italiano, è perciò opportuno dipanare la nube
connessa coi diversi significati semantici del termine
valutazione.

Un primo significato è quello di misurazione dei risultati;


nell’ambito scolastico si tratta della
«valutazione/misurazione» del profitto degli allievi. In questa
prima accezione al termine valutazione non è associato
nessun giudizio di merito, perché ci si riferisce
esclusivamente a una «pesatura», oggettiva e comparabile, di
una qualche variabile.

Si parla però anche di valutazione con riferimento a


un’azione di ordinamento e selezione a partire da una qualche
graduatoria basata su qualche titolo di merito (si può
«valutare/selezionare» ex ante per stabilire quali progetti di
ricerca finanziare o quali candidati ammettere a una certa
prova o si può «valutare/selezionare» ex post per decidere
quali amministratori o responsabili di progetto premiare
partendo dai risultati conseguiti). Misurazione e selezione
sono connesse, nel senso che la selezione dovrebbe
auspicabilmente basarsi su una misurazione oggettiva e
comparabile dei diversi candidati; inoltre la selezione può
centrarsi sui livelli di apprendimento ma anche sui loro
miglioramenti nel tempo, per premiare l’impegno più che i
risultati.

Un terzo significato della parola è quello di rendicontazione,


vale a dire un’attività rivolta ad individuare la conformità
dell’operare di un individuo, o di una specifica istituzione, ad
un qualche schema di riferimento definito ex ante. Si noti che
la «valutazione/rendicontazione» non necessariamente si
esaurisce in un puro controllo del rispetto formale di norme
procedurali (che è l’aspetto su cui, purtroppo a nostro avviso,
si insiste tradizionalmente nel sistema amministrativo
italiano); potrebbe al contrario estendersi a quella che, con
termine inglese, viene definita accountability, attività nella
quale una certa autorità o agenzia rende conto del rispetto
sostanziale di una mission istituzionale, motivando le scelte
fatte. Nel caso delle scuole, il passaggio dalla logica di rispetto
formale di norme – finalizzato essenzialmente a impedire
ricorsi amministrativi – a una logica di accountability sarebbe
una rivoluzione non piccola.

Un quarto concetto associato al termine valutazione è


quello di monitoraggio (critico) dei processi di realizzazione e
implementazione di un’attività, finalizzato anche a realizzare,
ove necessario, tempestive correzioni di rotta.

Un ultimo modo di intendere la valutazione è quello di


stima degli effetti di un programma o di una politica, cioè
individuazione e quantificazione della modifica che alcune
variabili oggetto di interesse hanno subito a seguito e per
conseguenza di un intervento o di una politica (l’archetipo è
nel campo medico, quando si stima l’effetto della
somministrazione di un dato farmaco rispetto a una
patologia). Sono evidenti i collegamenti tra rendicontazione,
monitoraggio e stima degli effetti di un programma: tutti
hanno bisogno di informazioni (misurazioni!) dettagliate e
certificate. Rendicontare in «forma libera» e scegliendo da sé,
di volta in volta, i numeri che si raccontano non garantisce
l’accountability; monitorare i processi senza attenzione ai
fenomeni e alle grandezze rilevanti – agli effetti previsti e
desiderati sulla performance finale di un dato programma –
ha poco senso, così come ha poco senso stimare gli effetti di
un programma senza conoscerne l’effettivo modus operandi. La
logica delle tre tipologie di valutazione però chiaramente
differisce.

In quanto segue, ci occuperemo innanzitutto della


valutazione nel suo primo significato, quello di misurazione
degli apprendimenti degli studenti, per poi parlare della
accountability delle scuole e dei loro singoli insegnanti,
concludendo con alcuni cenni sulla valutazione delle
politiche scolastiche. In tutti i casi la nostra ottica sarà legata
non tanto ai dettagli tecnici del cosa e come valutare quanto
all’uso che della valutazione si può e si deve fare come parte
della governance del sistema scolastico. L’argomento centrale
di questo capitolo è che la misurazione (su base oggettiva e
comparabile) degli apprendimenti degli studenti e
l’accountability delle singole scuole possono contribuire al
miglioramento della qualità dell’intero sistema scolastico.
L’idea fondamentale è che il miglioramento di ogni singola
scuola non può che partire da una chiara consapevolezza,
fondata su misurazioni affidabili degli apprendimenti degli
alunni, della propria condizione. A questo proposito torna
illuminante citare una famosa frase di Seneca: «nessun vento
è favorevole a chi non sa in che porto vuole andare», la nostra
sensazione è che molte nostre scuole non sanno, non solo in
che porto andare, ma neanche in quale porto sono.

Argomenteremo la validità di questo principio


indipendentemente dagli assetti istituzionali del sistema
scolastico: per molti versi la misurazione degli apprendimenti
degli alunni e l’accountability delle scuole sono tasselli
essenziali di un qualunque assetto di governance del sistema
scolastico, sia che ci si voglia affidare a forme di quasi
mercato – in cui la concorrenza tra scuole è il pungolo verso la
qualità – sia che ci si basi su una forte azione di vigilanza
dall’alto sulle diverse scuole. Vedremo però che valutazione e
modelli di governance devono essere tra loro congruenti.

I livelli di apprendimento degli studenti


La valutazione degli apprendimenti degli studenti viene
regolarmente compiuta nelle scuole a due fini: la verifica,
all’inizio di un percorso scolastico o in itinere, degli
apprendimenti e delle difficoltà di ogni studente (o di
un’intera classe); la certificazione e l’attestazione finale degli
apprendimenti conseguiti. Nel primo caso, la valutazione ha
una valenza essenzialmente strumentale, di indicazione dei
problemi che l’insegnante e l’alunno devono affrontare, ma
anche di pungolo per gli studenti. Questa pratica quotidiana
di apprezzamento dello sviluppo cognitivo e umano dello
studente è parte stessa della funzione educativa degli
insegnanti; la pretesa di imbrigliarla dentro criteri rigidi per
conseguire una misurazione oggettiva rischierebbe di essere
controproducente e di anteporre la necessità di misurare a
quella di insegnare. Ci paiono perciò ragionevoli, anche se alle
volte un po’ forzate, alcune delle critiche alle pretese di
standardizzazione docimologica che vengono da tanti
operatori del mondo della scuola.

Nel secondo caso la valutazione dovrebbe però fornire


oggettività e comparabilità, quindi potere segnaletico, al titolo
di studio. È soprattutto in questo secondo aspetto che appare
problematica l’attuale prassi di una misurazione degli
apprendimenti realizzata a livello di singola classe e/o
commissione d’esame in modo del tutto scollegato dal resto
del sistema e senza un ancoraggio a un dato nazionale. È per
questo che tutta la discussione successiva farà riferimento
alle certificazioni periodiche prodotte dalle scuole e non a
tutto il resto.

Nel capitolo precedente abbiamo visto come la scarsa


credibilità delle valutazioni prodotte dalle scuole possa
indebolirne la portata segnaletica nel mercato del lavoro,
accrescendo le difficoltà del passaggio tra scuola e mondo del
lavoro, soprattutto per gli studenti provenienti da gruppi
sociali meno avvantaggiati. All’avvio di questo capitolo,
abbiamo già illustrato come l’assenza di comparabilità dei
risultati possa anche confondere la percezione che le famiglie
hanno della qualità delle scuole. Il rischio maggiore è però
che le stesse scuole vengano spinte verso un equilibrio a
bassa qualità. Per gli studenti di una stessa classe o di una
stessa scuola, l’assenza di un benchmark esterno rischia di
indebolire la tensione verso il continuo miglioramento. Quelli
più capaci avranno scarsi stimoli a impegnarsi perché sanno
comunque di potersela cavare con poca fatica nel loro
ristretto gruppo di riferimento; perché mai dovrebbero
impegnarsi (e si tenga conto della scarsa considerazione in
cui l’impegno e lo sforzo nelle attività scolastiche sono di
solito considerate nella cultura giovanile) se già sono i primi?
Gli altri ragazzi moduleranno il loro impegno al fine di
raggiungere una soglia minima che, se fissata al livello di
singola classe, sarà funzione della qualità e dell’impegno
medi della classe medesima, abbassata quindi dal fatto che i
più capaci avranno ridotto il loro impegno. Per gli stessi
insegnanti viene meno lo stimolo a proporre nuove sfide che
inevitabilmente richiedono un maggiore sforzo.

Solo di recente il nostro paese sembra aver riconosciuto


l’importanza della questione e aver preso iniziative per ridare
rigore e credibilità alle prove degli esami di Stato e per
provvedere a costruire un sistema nazionale di valutazione
degli apprendimenti. Nel 2007 si è modificata la composizione
delle commissioni degli esami di Stato della quinta superiore
aumentando il numero dei commissari esterni, dal solo
presidente a metà dei membri. Nello stesso anno si è
introdotta all’interno dell’esame al termine del primo ciclo (il
vecchio esame di terza media) una prova nazionale uguale
per tutti i ragazzi nei quesiti e nelle modalità di correzione
con caratteristiche simili a quelle delle indagini
internazionali; la prova è stata somministrata per la prima
volta nell’anno scolastico 2007-08, lasciando libere le
commissioni d’esame di decidere se e in che misura tenerne
conto al fine di stabilire il giudizio finale da attribuire al
candidato; nell’anno scolastico 2008-09 la discrezione delle
commissioni è stata ristretta alla decisione del valore da
attribuire alla prova, che comunque doveva essere maggiore
di zero; così le prove, prodotte e somministrate dall’Invalsi,
relative a matematica e italiano, hanno contribuito a far
media, assieme alle più tradizionali prove scritte e orali (e al
voto di ammissione). Dall’anno scolastico 2009-10 la prova
nazionale contribuirà per un sesto al voto finale.

Si noti che la costruzione di tali prove avviene a


coronamento di diversi tentativi avviati nell’ultimo decennio,
non sempre però tra loro omogenei, anche perché
caratterizzati da finalità e metodologie diverse. In alcuni casi
si era trattato di esperienze parallele a quelle delle indagini
internazionali, aventi quindi una funzione di descrizione su
base campionaria del sistema scolastico nel suo assieme. In
altri casi si è trattato di esercizi immaginati a diretto supporto
delle scuole nel loro sforzo di valutare le conoscenze e le
difficoltà iniziali dei loro studenti (per certi aspetti quindi più
lungo la linea di quella valutazione iniziale che ogni
insegnante comunque compie per rendersi conto di chi siano
i suoi interlocutori). In alcuni casi le scelte metodologiche e le
modalità concrete di conduzione delle rilevazioni sono state
fortemente criticate. Più in concreto, i primi tentativi
risalgono al Cede (Centro europeo dell’educazione) e al
riconoscimento del fatto che una funzione di valutazione
centralizzata fosse necessario pendant dell’autonomia
scolastica, appena sancita (con la legge 59 del 1997). Una
prima indagine di natura campionaria, condotta alla fine degli
anni ’90, investigava gli apprendimenti in matematica e
comprensione del testo per gli studenti della prima e della
terza classe della scuola secondaria inferiore e della seconda
e quinta classe della scuola secondaria superiore. Negli anni
scolastici 2004-05 e 2005-06, l’Invalsi, nel frattempo nato dalla
trasformazione del Cede, ha curato, dopo tre anni di
sperimentazione, una rilevazione su base censuaria degli
apprendimenti in lettura e comprensione del testo,
matematica e scienze, di tutti gli studenti della seconda e
quarta classe della scuola primaria, della prima classe della
scuola secondaria inferiore e, su base volontaria, della prima
e terza classe della scuola secondaria superiore. Di questa
iniziativa va segnalata la natura strumentale all’idea, propria
della cosiddetta «riforma Moratti», di fornire alle scuole
informazioni sulle conoscenze degli studenti all’inizio di un
percorso scolastico. Sul piano pratico, le difficoltà e le
resistenze incontrate nella somministrazione delle prove
hanno messo a repentaglio la qualità dei risultati; in
particolare per le scuole elementari gli esiti sono ritenuti in
generale poco attendibili, anche se i dati, opportunamente
trattati con metodologie statistiche, sono diventati oggetto di
studi e approfondimenti. Nel 2006-07 l’Invalsi è tornato alla
rilevazione su base campionaria con somministratori esterni
per garantire un maggior controllo in fase di raccolta dei dati.
Nel 2007 il legislatore ha di nuovo modificato le classi da
sottoporre a test individuandole nella seconda e quinta della
scuola primaria, prima e terza della secondaria inferiore,
nonché seconda e quinta della secondaria superiore. La scelta
delle classi è basata sull’idea di misurare quanto ogni scuola
contribuisce ad accrescere il livello di apprendimento dei
propri alunni tra il momento di ingresso e il momento di
uscita.

Il quadro normativo rimane in evoluzione. Nell’anno


scolastico 2008-09, a circa due anni dall’entrata in vigore della
legge, non era ancora chiaro se la partecipazione delle scuole
alla rilevazione degli apprendimenti fosse obbligatoria e se le
prove dovessero essere proposte a tutti gli studenti. In questo
quadro d’incertezza nel maggio del 2009 l’Invalsi ha
somministrato i test a un campione di allievi di ognuna delle
5.300 scuole (sulle circa 7.800) aderenti volontariamente alla
rilevazione degli apprendimenti della scuola primaria. Per
l’anno 2009-10 una circolare ministeriale ha richiesto a tutte
le scuole di partecipare alle rilevazioni Invalsi con tutti gli
studenti delle classi indicate dalla legge.

La gradualità di tali processi può essere giustificata nella


fase di avvio di un sistema nazionale di valutazione, perché
permette agli attori coinvolti di adattarsi al nuovo paradigma.
In effetti ci si sta così avvicinando a un modello generalmente
condiviso, su finalità, contenuti e modalità di conduzione
delle verifiche e si sta affievolendo il rifiuto culturale delle
prove valutative. Ma a regime, nella prospettiva qui
considerata dell’uso della misurazione dei livelli di
apprendimento degli studenti come strumento di governance,
soprattutto a fini di stimolo agli allievi e alle scuole
all’impegno e all’emulazione, rilevazioni limitate a poche
scuole non sarebbero naturalmente sufficienti. Servirebbero
infatti valutazioni degli apprendimenti su tutte le scuole, in
modo da fornire informazioni sulle conoscenze in
corrispondenza dell’ingresso e dell’uscita da ogni ciclo
scolastico e da accrescere uniformità e comparabilità agli
scrutini ufficiali. Questa ideale indagine censuaria su tutti gli
studenti di tutte le scuole in alcuni momenti di passaggio,
realizzata sotto il controllo di un soggetto esterno alla singola
scuola e facente parte della valutazione complessiva degli
studenti, si realizza per il momento solo in occasione della
richiamata prova nazionale nell’ambito dell’esame di Stato al
termine del primo ciclo. La strada è però ancora lunga e irta di
difficoltà. A parte la questione delle risorse necessarie per
definire la panoplia di prove prima richiamate, vanno
evidenziate almeno altre quattro aree problematiche.

La prima, già menzionata, attiene l’accettazione, culturale


in primo luogo, delle prove stesse da parte delle scuole.
Qualunque sia la decisione finale in merito alla obbligatorietà
della partecipazione delle scuole alla rilevazione, la qualità
dei dati rilevati e l’utilità ultima dell’intera operazione
passano per il convincimento delle singole scuole in merito
alla serietà dello sforzo di misurazione. A questo scopo è
certamente essenziale migliorare costantemente la qualità
delle prove somministrate, ma è altrettanto importante
rafforzare la percezione che l’intero progetto, gestito da
un’istituzione autonoma e indipendente, sia al servizio della
scuola e non sia un rigurgito di controllo burocratico da parte
delle strutture ministeriali.

Una seconda criticità, che anche richiama l’esigenza di


terzietà dell’Invalsi, riguarda il contenuto concreto delle prove
valutative che devono riflettere il consenso del mondo della
scuola e della società nel suo complesso sul cosa gli alunni
debbano sapere e saper fare. Questo consenso richiede un
trasparente processo che coniughi le esperienze
internazionali, le indicazioni di legge e la pratica didattica
quotidiana, con uno stretto collegamento tra chi gestisce il
processo di valutazione e le singole scuole. Una efficace
definizione del contenuto delle prove è anche essenziale alla
luce del rischio del cosiddetto teaching to the test, la possibilità
cioè che l’insegnamento venga orientato esclusivamente al
raggiungimento di buoni punteggi nei test. Le prove esterne e
i test, anche quelli con risposte aperte, possono misurare solo
alcuni aspetti degli apprendimenti e non esauriscono certo la
gamma delle conoscenze, abilità, e competenze che la scuola
deve trasmettere agli studenti.
Un terzo elemento critico riguarda la conduzione vera e
propria delle prove. Le esperienze degli anni passati
segnalano che l’assenza di un sistema rigoroso di controllo in
fase di somministrazione dei test ne mina la credibilità.
Tuttavia un uso generalizzato di soggetti esterni
comporterebbe costi finanziari e organizzativi molto elevati: si
pensi che i plessi (cioè i punti di erogazione del servizio) nelle
scuole elementari sono circa 18 mila. La via d’uscita non può
che passare attraverso un coinvolgimento delle scuole e degli
insegnanti che devono esser convinti dell’utilità di test di
misurazione degli apprendimenti.

Vi è infine una criticità legata al fatto che se le misurazioni


degli apprendimenti vengono utilizzate per il calcolo del
valore aggiunto fornito da ogni singola scuola, e non solo per
dare un quadro statistico del sistema nel suo complesso,
allora è importante raccogliere informazioni sulle condizioni
di contesto – famiglia di origine degli studenti, contesto
ambientale in senso lato ecc. – in cui la scuola opera. Questa
esigenza si scontra spesso con la scarsità delle fonti
statistiche e con la necessità di non gravare eccessivamente
con richieste di dati sulle scuole e sulle stesse famiglie.

L’«accountability» delle scuole


La finalità ultima di un sistema d’istruzione è quella di
offrire opportunità di una buona istruzione a tutti i giovani
cittadini di un paese. L’istituzione a cui la collettività ha
demandato questo compito è la scuola. A seconda dei
contesti, questo affidamento può avvenire più in una logica di
mercato – la famiglia sceglie la scuola pubblica o privata, che
è spinta a fare bene al fine di accrescere la propria
reputazione e la propria quota di mercato – o in una logica
collettiva – le scuole sono istituzioni dello Stato, che vigila sul
loro operato. All’atto pratico, molto spesso i due approcci si
combinano in varia misura. Tanto in un caso quanto nell’altro
è importante valutare, nel senso di misurare, l’output della
scuola (in sostanza gli apprendimenti degli alunni), tenendo
conto delle risorse che questa ha impiegato (ore di
insegnamento, numero di docenti, risorse finanziarie,
infrastrutture come i laboratori scientifici o linguistici,
palestre ecc.) e del contesto in cui essa opera (in primis la
composizione dei suoi alunni).

Valutazione e assetti istituzionali del sistema. La misurazione


degli apprendimenti degli alunni, effettuata sulla base di un
metro oggettivo e comparabile (facciamo riferimento al
paragrafo precedente), è innanzitutto lo strumento che
consente alle scuole e agli studenti di posizionarsi e di
confrontarsi con i propri pari. Come tale essa dovrebbe
innescare meccanismi di emulazione atti a innalzare la
qualità complessiva del servizio di istruzione;
metaforicamente la valutazione è la marea che dovrebbe
alzare tutte le barche; così almeno è stata concepita e
utilizzata in altri contesti istituzionali.

Una misurazione oggettiva e comparabile con l’esterno dei


risultati dei propri alunni è tra l’altro un importante pendant
dell’autonomia delle scuole. Il binomio autonomia-
valutazione è considerato nel dibattito internazionale
l’architrave su cui si basa una scuola di qualità. L’autonomia è
diventata una scelta obbligata, al fine di adeguare le scelte
educative al contesto concreto, ed è ritenuta importante
soprattutto alla luce del fatto che la scuola non è più l’unico
attore della formazione dei più giovani e non è più solo
chiamata a trasmettere un corpus prestabilito e immutabile di
nozioni predefinite. In questo quadro, la necessità di «rendere
conto», la cosiddetta accountability, è un elemento essenziale
per evitare che l’autonomia diventi arbitrio e
autoreferenzialità. Essa è essenziale in una governance del
sistema in cui si associno orientamento al risultato e alla
performance, soprattutto in senso qualitativo, e forte
decentramento decisionale. Ma quali sono i meccanismi di
correzione e autocorrezione che la valutazione dovrebbe
innescare? Conoscerli è necessario anche per disegnare il
modello di valutazione più congruente. Un primo importante
meccanismo è per l’appunto quello che passa per la semplice
emulazione e imitazione tra scuole. Il fatto che ciascuna
scuola possa conoscere la propria performance in confronto
con altre è la premessa per un’autonoma decisione di un
impegnarsi maggiore e, soprattutto, per l’identificazione delle
aree dove si annidano le carenze. Tuttavia non è affatto detto
che la percezione delle proprie deficienze induca
immediatamente azioni di correzione. Queste devono a volte
essere stimolate, perché è più facile che la singola scuola
inneschi processi di miglioramento se esposta ai corretti
incentivi, siano essi di natura premiale o basati sulla
pressione dagli utenti o sul controllo ispettivo o sulla
competizione con le altre scuole. L’operare di questi stimoli
dipende molto dagli assetti istituzionali in cui le scuole
operano, in particolare dalla presenza o meno di meccanismi
di vera e propria competizione, tra scuole, nel mercato dei
servizi educativi.

Nella concreta esperienza i sistemi di incentivazione delle


scuole si sono ispirati a due modelli. Il primo modello
raggruppa quei sistemi in cui le scuole (tutte le scuole, statali
e non statali) competono tra loro, sia nell’attrarre studenti (e
quindi risorse finanziarie) sia nel reclutare e motivare i propri
insegnanti; in questo caso i meccanismi di correzione
saranno innanzitutto quelli del mercato, legati in ultima
istanza alla scelta della scuola da parte delle famiglie in base
alla qualità percepita. La logica qui operante è del tutto simile
a quella, più generale, dell’importanza della concorrenza tra
diversi fornitori di un servizio quale meccanismo di tutela dei
diritti dell’utente finale. Anche nel caso scolastico ci sono
valide ragioni teoriche per sostenere che un sistema in cui
soggetti diversi competono tra loro nella fornitura di servizi,
in questo caso di istruzione, possa avere effetti positivi sugli
apprendimenti degli studenti e in generale sull’efficienza del
sistema. In presenza di scuole con un diverso livello di
qualità, la libertà di scelta da parte delle famiglie sposterebbe
le iscrizioni verso le scuole migliori aumentando la qualità
complessiva dell’offerta scolastica e il livello medio degli
apprendimenti dei ragazzi. La qualità media complessiva
crescerebbe non solo per via del maggior peso che
acquisirebbero le scuole migliori, ma anche perché le scuole
di qualità inferiore sarebbero comunque stimolate a fare
meglio dalla preoccupazione di perdere i propri studenti. Vi
sono però possibili ostacoli e impedimenti al pieno
funzionamento di questo schema. La risposta delle famiglie,
che è il motore del meccanismo di miglioramento prima
descritto, è spesso concretamente limitata da molti fattori;
innanzitutto c’è la concreta difficoltà di reperire informazioni
sulla qualità della singola scuola, qualità che non si esaurisce
nel livello e nei progressi degli apprendimenti, così come
misurati da test standardizzati, ma include anche altre
dimensioni, quali ad esempio la sicurezza e la socialità, la
misura delle quali non è sempre e immediatamente
disponibile; la possibilità delle famiglie di scegliere la scuola è
anche limitata dagli ostacoli alla mobilità geografica e dalla
possibile scarsità di alternative nello stesso territorio. A
questo si aggiunga che la risposta delle scuole non sempre va
nella direzione di un innalzamento della loro qualità; per
esempio non è affatto detto che gli istituti «migliori» siano in
grado di ampliare la propria scala operativa senza intaccare la
qualità del servizio o che si possa procedere alla chiusura
delle scuole meno efficienti perché a pagarne il prezzo
sarebbero innanzitutto i loro incolpevoli alunni. Infine, la
possibilità di scelta delle famiglie in contesti in cui le scuole
hanno la possibilità di sottrarsi all’obbligo di servizio,
selezionando gli studenti migliori, potrebbe accrescere la
segregazione senza migliorare la performance delle scuole:
anzi, gli studenti delle scuole meno preferite sarebbero privati
del valido stimolo dei loro pari migliori. Spesso, alla logica di
mercato puro prima descritto, vengono perciò affiancati altri
strumenti: ad esempio si mantengono interventi di natura
ispettiva, con meccanismi di vigilanza dall’alto e l’opzione di
«commissariamento» della scuola (pubblica) che stia andando
alla deriva, evitandone un esplicito «fallimento» come si
trattasse d’una normale impresa commerciale. In molti casi la
logica concorrenziale e della libera scelta viene inoltre resa
asimmetrica: le famiglie possono scegliere le scuole ma
queste non possono rifiutare l’iscrizione degli studenti (ove,
come plausibile, le scuole migliori finiscano con l’avere un
eccesso di iscrizioni, queste devono applicare complicati
sistemi di razionamento casuale; è questo il caso delle charter
schools americane o delle scuole paritarie in Svezia).

Quali che siano potenzialità e difficoltà della logica di


mercato la valutazione, e la diffusione dei suoi risultati, è
essenziale per innescarla. L’assenza di trasparenza
informativa minerebbe infatti il gioco della concorrenza.

All’altro estremo dello spettro dei possibili assetti


istituzionali ci sono quelli in cui le scuole non competono tra
loro, essendo tenute a iscrivere gli studenti residenti in una
certa zona e ricevendo il personale loro assegnato dallo Stato,
ma siano vigilate da una qualche autorità superiore con
poteri di intervento sanzionatorio sulla singola realtà. In
questo caso i meccanismi sarebbero di tipo autoritativo,
anche prevedendo il commissariamento della scuola che,
sulla base delle valutazioni effettuate, sembri incapace di
soddisfare livelli minimi di qualità del servizio offerto. In
linea di principio, in questo caso la diffusione dei risultati
della valutazione potrebbe essere limitata agli insegnanti, ai
dirigenti scolastici e alle autorità di sorveglianza. È però
evidente che, all’atto pratico, la diffusione d’informazioni,
opportunamente elaborate e rese intelligibili anche al
pubblico di non specialisti e agli utenti interessati – le singole
famiglie e più in generale la società civile e le comunità locali
– potrebbe essere di notevole aiuto, evitando il rischio di
autoreferenzialità della scuola. Dopo tutto, anche chi detiene
il potere ispettivo, per intervenire ed esercitare i suoi poteri,
deve essere sollecitato e la pressione dell’utenza è di solito la
migliore garanzia che ciò davvero avvenga.

Il prodotto e il «valore aggiunto» delle scuole. Sinora abbiamo


genericamente parlato di prodotto delle scuole e della loro
valutazione effettuata comparando quell’output alle risorse
adoperate e al contesto operativo. Il prodotto delle scuole,
sulla base di quanto sinora detto, non può essere basato sulla
generica soddisfazione dell’utenza – che pure può fornire
indicazioni utili e segnalare carenze e problemi (così da
sensibilizzare le scuole sulle opinioni degli stakeholders in
merito all’attività degli insegnanti, alle iniziative intraprese,
agli esiti degli studenti sul mercato del lavoro). Come
argomentato nel capitolo 4, il compito del sistema scolastico è
quello di fornire opportunità educative, in una parola di
innalzare il capitale umano di chi transita al suo interno. Al
momento abbiamo una grave carenza di strumenti volti a
misurare la capacità della singola scuola di svolgere questo
compito. In assenza di queste misure non stupisce che in
Italia vi siano ben poche esperienze sistematiche in questo
campo, anche a livello di studi analitici. Certo negli anni
passati ci sono state molte iniziative di autovalutazione da
parte dei singoli istituti, a testimonianza del fatto che
l’esigenza di definire un punto di riferimento è piuttosto
diffusa. Si tratta però di esperienze limitate a poche scuole o
reti di scuole (sorte spesso nelle aree del paese dove la qualità
del servizio scolastico raggiunge comunque livelli già
adeguati). Sul piano nazionale si è fatto e si fa ben poco. La
stessa vigilanza è piuttosto debole: basti dire che gli ispettori
ministeriali in servizio sono meno di 150 e che comunque
nella funzione ispettiva prevale tuttora un approccio di
verifica del rispetto delle regole procedurali più che di esame
dei risultati.

Lo stesso utilizzo delle indagini campionarie sulle


competenze degli studenti per ragionare sull’efficacia delle
singole scuole è abbastanza ai primordi. La difficoltà è legata
alla limitata copertura di istituti scolastici fornita dalle
indagini internazionali: in Pisa 2006 le scuole identificabili
sono circa 800 e 1.200 in Pisa 2009, mentre Pirls e Timss ne
coinvolgono meno di 200. Al di là della valenza analitica,
sarebbe del resto discutibile lo stesso uso di una metrica
internazionale nel valutare in maniera sistematica l’efficacia
delle scuole italiane.
Tanto le indagini internazionali quanto quelle nazionali,
sinora ancor meno sfruttate, presentano in ogni caso
l’inconveniente di fornire informazioni solo sezionali. Esse
non consentono in altri termini di quantificare l’incremento
nel tempo delle competenze degli studenti. Come già
sottolineato nei capitoli precedenti è piuttosto arbitrario
attribuire i risultati nei test Pisa di uno studente quindicenne
alla scuola che frequenta da non più di 18 mesi. Così le
maggiori competenze degli studenti dei licei, rispetto ai
tecnici e ancor più ai professionali, non è detto che indichino
una loro migliore efficacia (o efficienza), potendo
semplicemente dipendere dalla selezione favorevole della
popolazione di studenti di questo tipo di scuole. Prime analisi
che esplicitamente cercano di guardare al valore aggiunto
delle scuole sembrano indicare che in effetti l’apporto dei licei
alle competenze dei ragazzi non è sempre superiore a quello
delle altre tipologie di scuola. Se a livello analitico e di studio
qualcosa può comunque esser fatto – perché si possono
stimare modelli in cui il risultato della scuola è calcolato
depurandolo, con tecniche di regressione multipla, da una
serie di fattori di controllo relativi al contesto operativo (la
composizione degli studenti) e alle risorse impiegate – più
difficile, se non impossibile, è basare su un simile approccio la
definizione operativa del valore aggiunto d’una scuola da
impiegare nel governo concreto d’un sistema scolastico.
L’implementazione di schemi di valutazione delle scuole da
adoperare come leve nella governance del sistema deve
preferibilmente fare ricorso a dati semplici, affidabili e
d’immediata lettura, come ad esempio una misura delle
competenze in entrata e in uscita da una determinata scuola.
Da quest’ultimo punto di vista va ricordato che poiché la
misura di valore aggiunto di una data scuola è soggetta a forte
erraticità e a errori di misurazione è forse opportuno
utilizzare strumenti statistici che ne attenuino gli effetti sui
risultati. Altri importanti elementi da incorporare nel giudizio
sulla qualità dei servizi offerti da una scuola sono inoltre gli
esiti medi degli studenti negli ordini di scuola successivi e nel
mercato del lavoro.

In ogni caso va ricordato che la valutazione di una scuola


non può essere affidata a meccanismi automatici, ovvero
basata sui test di apprendimento. Le informazioni statistiche
necessarie a caratterizzarne il profilo sono solo una parte del
patrimonio informativo necessario a definirne la qualità. E in
effetti nella maggior parte dei sistemi scolastici dei paesi Ocse
la valutazione della singola scuola è affidata a corpi ispettivi
che basano il loro giudizio, oltre che sui dati rilevabili
esternamente in modo centralizzato, soprattutto su visite
ispettive presso le scuole finalizzate a individuarne le
carenze, ma soprattutto le modalità per il loro superamento.

La diffusione dei risultati. Abbiamo già visto come in linea di


principio la diffusione dei risultati dei test degli
apprendimenti a soggetti diversi dalle scuole può, date certe
condizioni, essere utile tanto in una «logica di mercato», in
cui le scelte delle famiglie di iscrivere in questa o quella
scuola i propri figli fungono da stimolo per la qualità, quanto
in un «sistema gerarchico», in cui comunque gli utenti
possono e debbono avere una funzione di pungolo azionando
la loro voice. Tra le logiche insite in questi due assetti estremi
vi sono però importanti differenze anche per quanto attiene il
contenuto delle valutazioni da diffondere.

In un sistema centralizzato, l’interesse prioritario


dell’organo di vigilanza sul sistema educativo è quello di
misurare il valore aggiunto delle singole scuole. Una scuola
che, perché inserita in un contesto sociale favorevole o perché
abbia posto in essere un’elevata selettività all’ingresso, abbia
studenti con eccellenti risultati non necessariamente è una
scuola eccellente; viceversa potrebbe essere eccellente una
scuola i cui studenti ottengano risultati in assoluto poco
brillanti, ma comunque migliori di quelli che si sarebbero
potuti prevedere sulla base delle loro caratteristiche e del
contesto di riferimento.

D’altro canto le famiglie saranno necessariamente attratte


da quelle scuole con migliori livelli medi degli apprendimenti
degli studenti, nell’aspettativa che i propri figli conseguano
quegli stessi risultati, grazie anche alla possibile presenza di
esternalità nei processi di apprendimento che favoriscono
(per spirito di emulazione e/o di efficace supporto reciproco)
chi si trovi a convivere con altri studenti competenti (si tratta
di quelli che nella letteratura economica e psicologica
vengono definiti peer effects).

Perciò divulgare i livelli degli apprendimenti per singola


scuola è una strategia di comunicazione coerente con un
assetto istituzionale basato sulla competizione. Questa infatti
non funziona se le famiglie, preferibilmente tutte e non solo
quelle con accesso privilegiato all’informazione, non sono al
corrente dei risultati raggiunti dalle diverse scuole. Va detto
però che in questi sistemi è più elevato il rischio che la pratica
didattica venga piegata al fine di ottenere buoni risultati nei
test.

Come già detto, nella realtà della maggior parte dei sistemi
scolastici concreti l’approccio di mercato e quello gerarchico
si combinano in vario modo nel tentativo di minimizzare le
implicazioni negative dell’uno e dell’altro. In particolare nei
sistemi centralizzati, i genitori cercano comunque di sfruttare
tutti i margini concessi per esercitare la loro libertà di scelta,
per esempio cambiando residenza, e le singole scuole
tenteranno comunque di attrarre iscrizioni in numero
sufficiente (quantomeno per poter mantenere il proprio
personale). Così, affinché questi aggiustamenti siano guidati
da reali misure di qualità delle scuole, anche in questi
contesti è importante che gli utenti e la collettività siano
informati per poter esercitare quanto meno la loro voice.
Confidare esclusivamente nell’intervento d’una autorità
pubblica può non essere prudente; l’azione di quest’ultima
sarà anzi più efficace se opportunamente pungolata da
famiglie adeguatamente informate.

Specularmente, anche in un sistema di mercato puro non


sempre e non tutte le famiglie vogliono o possono reagire alla
percezione della performance delle diverse scuole: il raggio
geografico delle concrete opzioni di scelta può essere
relativamente contenuto e al suo interno offrire ben poche
alternative; le famiglie potrebbero avere accesso a
informazioni poco leggibili e comunque perseguire obiettivi
diversi dalla qualità dell’insegnamento. Così, anche in questo
tipo di sistemi è opportuno che un’autorità pubblica
intervenga quanto meno nel dare adeguata informazione
circa il valore aggiunto delle singole scuole per contrastarne
possibili tendenze alla segmentazione, per identificare e dare
supporto agli istituti operanti in contesti difficili senza
alterare la forza attrattiva degli incentivi per il miglioramento
dei risultati.

Il personale della scuola


Si è parlato di misurazione degli apprendimenti degli
studenti e dell’efficacia e dell’efficienza delle singole scuole.
Entrambi costituiscono tasselli importanti nei meccanismi di
stimolo alla qualità. Data la centralità della figura del docente
nella scuola vi è da chiedersi in che misura lo stesso schema
concettuale sia adoperabile con riferimento ai singoli
insegnanti e in generale al personale della scuola. Il singolo
istituto scolastico del resto è l’organizzatore dello sforzo
didattico – di insegnamento, motivazione degli alunni ecc. –
concretamente posto dal personale della scuola. Ha senso
usare le misure degli apprendimenti degli studenti
(derivandone misure del valore aggiunto apportato dai loro
insegnanti) per misurare le prestazioni del personale
scolastico?
La nostra lettura dell’evidenza esistente in proposito, a
partire dalle esperienze condotte in ambito internazionale, è
che occorra distinguere tra insegnanti e dirigenti scolastici.
Per questi ultimi, il giudizio sull’efficacia e l’efficienza delle
singole scuole – pur con tutti gli aggiustamenti tecnici
necessari – è in ultima istanza una valutazione della loro
abilità manageriale. I dirigenti scolastici costituiscono del
resto la figura centrale che, nella scuola dell’autonomia,
dovrebbe innescare i processi di miglioramento. Sembrerebbe
perciò naturale valutare i singoli dirigenti scolastici a partire
dai risultati della loro scuola; del resto, il miglioramento della
qualità del servizio educativo e non il rispetto di questa o
quella procedura formale, è l’obiettivo assegnato al dirigente e
del cui adempimento questi dovrebbe essere ritenuto
responsabile. L’accountability della singola scuola quindi in
buona misura coincide con l’accountability del dirigente che ne
è responsabile.

Nella concreta esperienza italiana la valutazione dei


dirigenti scolastici resta ancora un obiettivo lontano sebbene
se ne parli da quasi dieci anni e vi siano indicazioni
normative e intese sindacali. Su questo ritardo ha senz’altro
influito la mancata piena attuazione dell’autonomia delle
scuole all’interno della quale attribuire ai dirigenti
responsabilità manageriali e di leadership. È evidentemente
difficile assegnare meriti e responsabilità a chi non ha un
reale potere organizzativo e di indirizzo.
Diverso è il discorso per i singoli insegnanti. Le famiglie, per
ovvi motivi, non reclutano direttamente i singoli insegnanti,
anche nei sistemi basati prevalentemente su una logica di
mercato. In questi contesti esse si rivolgono a una scuola cui
domandano servizi educativi di qualità, lasciando ad essa la
piena responsabilità di reclutare gli insegnanti ritenuti più
adeguati, organizzarne e coordinarne il lavoro ecc. Lo stesso
principio vale, più in generale, in sistemi che lasciano grande
autonomia alle scuole, pur senza giungere a vere e proprie
forme di competizione. Nella logica dell’autonomia dovrebbe
essere compito delle scuole scegliere, entro certi ambiti e
confini generali, quantità e qualità del personale. Alla scuola
dovrebbe spettare di motivare, controllare e valutare il
personale: solo così pare del resto possibile pervenire a
valutazioni sul contributo dei singoli docenti alla crescita
degli apprendimenti degli studenti. Ci sono diverse evidenze
che suggeriscono come sia particolarmente complesso se non
impossibile, tranne che in casi eclatanti, identificare
all’interno di un team di docenti i più e i meno capaci a
partire dai risultati conseguiti dagli alunni. Oltre alle difficoltà
tecniche, crediamo esista un problema più profondo che si
riconnette al fatto che gli apprendimenti sono il risultato di
un lavoro di team e andrebbero valutati anche tenendo conto
di questo. In altri termini e per dirla nel gergo degli
economisti, è proprio il fatto che la produzione del servizio sia
naturalmente affidata a un team che suggerisce di evitare
meccanismi rozzi e automatici di valutazione (ed eventuali
connesse premialità) dei singoli membri della squadra,
affidando invece al team stesso, e a chi lo dirige, il compito di
monitorare e valutare i comportamenti dei singoli.

Il sistema e le politiche scolastiche


Abbiamo detto all’inizio del capitolo che vi è un altro e
diverso significato della parola valutazione, che può riferirsi
alle politiche scolastiche. Queste possono essere intese come
modus operandi del sistema scuola nel suo complesso, e come
tali richiedono una valutazione «macro», ma si può però
anche trattare di specifiche politiche messe in atto da alcune
scuole, che richiedono una valutazione che potremmo
chiamare «micro». Così intesa la valutazione non è parte della
governance quotidiana del sistema ma della capacità della
società e della politica nazionale di indirizzare tale sistema,
riflettendo sul suo funzionamento e sulla sua efficacia,
riformandolo ove occorre, seguendo un approccio
sperimentale in cui le singole innovazioni vengono proposte,
disegnate e testate, prima di essere generalizzate.

L’attenzione valutativa così intesa è anch’essa gravemente


sottosviluppata nel nostro paese, dove al momento manca
anche un documento unitario che informi la collettività sui
costi e sui risultati del nostro sistema scolastico. Non si può
perciò giudicarne né l’efficacia, cioè i risultati ottenuti dal
sistema, né l’efficienza, cioè i risultati riferiti alle risorse
impiegate.

Per un sistema scolastico un metodo standard di


valutazione è quello di tipo comparativo, in cui costi e
benefici d’un dato sistema vengono confrontati con quelli di
altri paesi, in una logica spesso definita di benchmarking.
Implicitamente abbiamo fatto riferimento a questa logica
comparativa nei capitoli precedenti, sia direttamente,
confrontando alcune misurazioni degli apprendimenti degli
studenti italiani – su cui il sistema scuola, i suoi assetti e il
suo modus operandi hanno certamente influito – sia ricavando
dalla letteratura internazionale alcune indicazioni di larga
massima sull’impatto di diversi assetti istituzionali sulla
performance scolastica.

Soprattutto grazie alla recente disponibilità delle grandi


indagini internazionali usate nei capitoli 2 e 3, l’analisi macro
del funzionamento del pianeta scuola si è negli ultimi anni
arricchita, anche nel nostro paese. Il dibattito ha iniziato a
ricollegarsi ai filoni analitici adoperati internazionalmente, sia
in campo pedagogico-educativo sia in campo economico e
sociologico. Il grande vantaggio delle indagini internazionali
in questione sta del resto soprattutto nel fatto che esse
forniscono una misura del prodotto del sistema scolastico, e
delle conoscenze e/o le competenze raggiunte dagli alunni,
sufficientemente uniforme e comparabile tra paesi e tra
scuole diverse di ciascun paese. Naturalmente va da sé che
anche altri aspetti, magari più rilevanti in singoli contesti
nazionali, potrebbero e dovrebbero essere utilmente misurati
e valutati. Per quanto semplicistico, considerare i punteggi di
Pisa come una misura di output della scuola è però un grosso
passo in avanti rispetto alla mera considerazione dei titoli di
studio o dei rendimenti economici della scolarità (che
dipendono anche dal funzionamento del sistema economico e
del mercato del lavoro e non possono soddisfare chi voglia
analizzare l’efficacia della scuola in quanto tale).

Analisi comparative di questo tipo sono state condotte di


recente dall’Ocse e confrontano i costi del sistema scuola con
i suoi risultati così come misurati da Pisa. Secondo queste
misure se l’Italia sfruttasse al meglio le proprie risorse
potrebbe ottenere punteggi Pisa più elevati di circa il 20%;
specularmente, gli stessi punteggi Pisa potrebbero essere
ottenuti spendendo il 36% in meno.

Analizzare le politiche scolastiche nel loro complesso, cioè


l’intero assetto d’un sistema scolastico, è peraltro
un’operazione analitica sempre un po’ ardita.
Necessariamente ci si deve basare su una teoria e un modello
interpretativo del funzionamento della scuola. L’analisi
empirica diviene più semplice e meno controversa quando si
restringe il campo alla valutazione di una singola politica o di
un singolo aspetto di funzionamento del sistema. Dati gli
assetti complessivi d’un sistema, ci si chiede in sostanza, in
una logica di sperimentazione, se una determinata singola
innovazione – relativamente piccola, perché altrimenti
sarebbe impossibile circoscriverne gli effetti e l’analisi – porti
a effetti positivi o meno. Questa domanda nasce dal fatto che
vi è incertezza reale sul segno degli effetti della singola
innovazione, perché le teorie su cui vi è accordo e i modelli
interpretativi esistenti non forniscono risposte precise (sul
segno degli effetti) e/o puntuali (sull’intensità degli effetti). Si
cerca perciò di sperimentare l’innovazione – ben
documentando in cosa questa davvero consista e verificando
la corretta implementazione della stessa – e di confrontare
poi i casi così «trattati» dall’innovazione con altri casi «non
trattati», che dovrebbero differire dai primi solo per la
mancata applicazione dell’innovazione sperimentata.
L’esempio forse più noto di sperimentazioni di questo tipo –
di quelle che abbiamo chiamato all’inizio di questo capitolo
«valutazioni degli effetti di un programma» – si ha in campo
sanitario, dove ai soggetti non sottoposti alla procedura
medica o farmacologia in sperimentazione vengono
somministrati preparati privi di sostanze attive (effetto
placebo) per valutare l’effettiva efficacia del farmaco o della
procedura sperimentale.

In Italia vi è in realtà poca abitudine a questa modalità di


sperimentazione, non solo nel campo delle politiche
scolastiche ma anche in altri campi (come le politiche sociali
o del lavoro). Le sperimentazioni di norma attuate, nella
realtà scuola come in altri ambiti di policy, sono spesso
innovazioni, di cui, ben che vada (e anche questo accade
raramente), viene monitorata solo l’implementazione. In ogni
caso, nel procedere all’innovazione non si segue un approccio
propriamente sperimentale, che miri al confronto
controfattuale tra i casi esposti all’innovazione e quelli non
esposti. Nel mondo specifico della scuola a fronte di una
lunga tradizione e vivacità nella sperimentazione didattica –
si pensi ad esempio all’estrema eterogeneità di indirizzi
concreti che nell’ultimo ventennio ha progressivamente
caratterizzato le scuole medie superiori – non si è mai
provveduto ad analizzarne sperimentalmente i risultati. Tanto
meno, come ricordato all’inizio di questo capitolo, l’approccio
logico ora richiamato è stato invocato nel dibattito su modulo
versus maestro unico.
Conclusioni

In questo volume si è discusso di capitale umano e di


sistema scolastico.

Si è cercato innanzitutto di chiarire cosa si intenda per


capitale umano e se ne è descritta la rilevanza nella vita
economica e sociale, rilevanza che attiene tanto i singoli
individui – che accumulando capitale umano normalmente
diventano più produttivi, e quindi meglio pagati e più spesso
occupati, e dediti a comportamenti più «virtuosi» (ad esempio
per la propria salute) – quanto la collettività nel suo
complesso. Si è quindi sottolineato come la rilevanza del
capitale umano (e delle sue diverse componenti) sia
«storicamente determinata» dalla tecnologia in uso,
risultando però, al tempo stesso, elemento essenziale
nell’innovazione e nel mutamento delle tecnologie. Se ne è
dedotta un’estrema rilevanza del capitale umano per una
società che come l’Italia aspira a rimanere nel plotone di testa
delle economie e delle società avanzate e si è mostrato come
la situazione dell’Italia sia per molti versi insoddisfacente,
specie se posta a confronto con tali ambizioni. Il gap
dell’Italia si rivela soprattutto negli aspetti di qualità del
capitale umano, più che in quelli puramente quantitativi
relativi al conseguimento di determinati titoli di studio. Ancor
più gravi appaiono le differenze interne al nostro paese:
dotazione e accumulazione di capitale umano (negli aspetti
quantitativi ed ancor più in quelli qualitativi) sfavoriscono
nettamente il Mezzogiorno. Si tratta di un aspetto che
interagisce col più complessivo ritardo del Sud, perché si
tratta di qualcosa che nel tempo consolida e rafforza quel
ritardo. Tali gap territoriali, e più in generale le differenze tra
le singole scuole anche all’interno di ciascuna area geografica,
appaiono tra l’altro paradossali alla luce del modus operandi
organizzativo tuttora fortemente centralizzato del sistema
scolastico italiano. Nell’analisi delle cause della deludente e
molto differenziata performance del nostro sistema scolastico
il ruolo principale è stato attribuito non già alla scarsità di
risorse – perché il costo del nostro sistema è pari, se non più
alto, a quello medio dei paesi Ocse – ma a una ridotta
tensione alla qualità – conseguenza della scarsa autonomia
delle scuole, ingessate da una logica burocratica, e
dell’assenza di una valutazione uniforme e standardizzata dei
loro risultati.

È per meglio spiegare questi elementi di assetto


istituzionale che nel libro si è approfondito il «come si
produce» capitale umano e in particolare il ruolo del sistema
educativo, tenendo conto tanto della logica economica
dell’investimento in capitale umano – influenzata dai benefici e
dai costi dello stesso, dalla possibilità di finanziare quei costi
e di appropriarsi di quei benefici, elementi che giustificano il
sostegno pubblico alla scolarità – quanto dei processi
psicologici di sviluppo della personalità – da cui discende la
natura cumulativa dei processi di apprendimento e la loro
forte dipendenza da fattori genetici e sociali. Sulla base di tali
concetti il libro individua una relazione tra la scarsa
attenzione alla qualità nel mondo della scuola con la scarsa
valorizzazione del capitale umano nella società e
nell’economia, nonché del merito nella scuola. Tale
valorizzazione è infatti una molla essenziale per
l’investimento in capitale umano e l’impegno degli studenti (e
delle loro famiglie) e degli insegnanti, prima ancora che il
«giusto compenso» per i più bravi. È in quest’ottica che ci si è
infine concentrati sul ruolo della valutazione degli studenti e
delle scuole e sull’importanza che tale valutazione ha nella
governance del sistema scolastico.
Per saperne di più

Le pubblicazioni in materia di capitale


umano sono
moltissime. Abbiamo privilegiato quelle con carattere più
divulgativo e con uno
sguardo rivolto anche all’Italia.

Per gli aspetti più concettuali sulla


teoria del capitale
umano, sulle scelte di istruzione, le implicazioni per gli
individui e
la collettività si rimanda a Brucchi Luchino (a cura
di), Manuale di economia del
lavoro, Bologna, Il Mulino, 2001.

Tra gli economisti, il premio Nobel J.


Heckman è tra quanti
hanno dedicato massima attenzione all’interazione tra
motivazioni
economiche di investimento in capitale umano e
caratteristiche degli individui, inclusi i
tratti caratteriali ed
emotivi; la sua produzione scientifica al riguardo è
imponente,
segnaliamo a titolo puramente esemplificativo il
recente lavoro di F. Chuna e J. Heckman,
The economics and
psychology of inequality and human development,
disponibile nel
sito: http://ftp.iza.org/dp4001.pdf.

Per un approfondimento sulla particolare


rilevanza di
misure oggettive di competenze anche ai fini della stima
dell’importanza del
capitale umano per la crescita economica
si può guardare E. Hanusheck e L. Woessman,
Do better schools
lead to more growth? Cognitive skills, economic outcomes,
and
causation, disponibile tra l’altro sul sito
http://www.ifo.de/pls/guestci/download/CESifo%20Working%2
0Papers%202009/CESifo%20Working%20Papers%20January%20
2009/cesifo1_wp2524.pdf.
Può anche essere utile consultare il
recentissimo lavoro dell’Ocse, The high
cost of low educational
performance, disponibile sul sito
http://www.oecd.org/dataoecd/11/28/44417824.pdf.

Per una visione dell’importanza del


capitale umano per lo
sviluppo, specialmente dell’Italia alla luce delle debolezze
della sua
economia, è particolarmente utile la lettura del libro
di I. Visco, Investire in
conoscenza. Per la crescita economica,
Bologna, Il Mulino, 2009. In quel
libro, sono citati molti lavori
di approfondimento su questioni specifiche della scuola
redatti in Banca d’Italia e pubblicati nelle collane «Temi di
discussione» e «Questioni di
economia e finanza»; tra i più
recenti figurano lavori relativi ai rendimenti privati e
sociali
dell’istruzione, agli effetti dell’istruzione sulla probabilità di
morte,
all’esistenza e la rilevanza dei peer effects e ad alcune
caratteristiche del mercato del lavoro degli insegnanti.

Daniele Checchi coordina un gruppo di


ricercatori delle
università milanesi che dedicano grande attenzione ai temi
della scuola e
dell’università. Tra le sue numerose
pubblicazioni al riguardo segnaliamo M. Bratti, D.
Checchi e A.
Filippin, Da dove vengono le competenze degli studenti? I divari
territoriali nell’indagine Ocse Pisa 2003, Bologna, Il Mulino, 2008,
dedicato
a spiegare le differenze tra scuole dei risultati
dell’indagine Pisa 2003.

Sulle questioni relative ai problemi della


scuola italiana
esistono poi una serie di rapporti istituzionali. Tra questi
segnaliamo
innanzitutto il Quaderno bianco sulla scuola (2007)
curato dal
ministero della Pubblica istruzione e dal ministero
dell’Economia e Finanze reperibile sul
sito
http://62.77.63.181/ISN_Istruzionesicilia_it/Upload/c8db0f85-
d67b-44ac-9776-baedd549c438.pdf

Nel 2009 l’Oecd, nella sua periodica


valutazione
dell’economia italiana, ha dedicato ampio spazio ai problemi
della nostra
scuola. Una sintesi del volume è disponibile sul
sito
http://www.oecd.org/document/48/0,3343,en_2649_34569_4298
7824_1_1_1_1,00.html.

Dal 2008 la Fondazione Giovanni Agnelli sta


dedicando una
grande attenzione ai temi della scuola: segnaliamo in
particolare
il suo Rapporto sulla scuola in Italia 2009,
Roma-Bari,
Laterza, 20092, dedicato principalmente al ruolo
chiave degli
insegnanti nella nostra scuola.

Le informazioni statistiche sui principali


fenomeni della
scuola e dell’università sono reperibili nella pubblicazione del
Miur,
La scuola e l’università in cifre, disponibile sul sito
dell’ufficio statistico del ministero dell’Università e della
Ricerca scientifica. La
pubblicazione Education at a glance
curata dall’Ocse, e resa
disponibile ogni anno nel mese di
settembre riporta indicatori standardizzati sui principali
aspetti della scuola per i 30 paesi dell’Oecd.

Le informazioni sui livelli di


apprendimento dei ragazzi
italiani nel confronto internazionale possono essere reperite
sul
sito dell’Iea per Timss e Pirls (http://www.iea.nl/) e
dell’Oecd per Pisa
(http://www.pisa.oecd.org/pages/0,2987,en_32252351_3223573
1_1_1_1_1_1,00.html).

Sul sito dell’Invalsi (www.invalsi.it),


l’Istituto che per l’Italia
cura queste indagini, sono presenti i relativi rapporti dedicati
ai risultati dei ragazzi italiani. Accanto a questi rapporti, sono
disponibili anche quelli
relativi ad altre indagini
internazionali, in particolare All.

Per le indagini nazionali più volte


menzionate nel testo, sul
sito dell’Invalsi sono disponibili i rapporti relativi agli esiti
della prova nazionale nell’ambito dell’esame di Stato al
termine del primo ciclo per l’anno
2007-08
(http://www.invalsi.it/EsamiDiStato/risultati/risfree.php), per
l’anno 2008-09
(http://www.invalsi.it/download/rapporto/sintesi.pdf), per la
rilevazione sugli
apprendimenti degli alunni della scuola
primaria
(http://www.invalsi.it/download/Rapporto_SNV_08_09.pdf).

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