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Di Roberto Serpieri
2
Prima di entrare, dunque, nel vivo della discussione vorrei richiamare
dall’attualità un paio episodi/eventi che, sia su scala nazionale e delle mi-
cropolitiche della leadership di una singola scuola, che su scala internazio-
nale e delle politiche di sistema, sono assurti di recente agli onori della cro-
naca. E ciò proprio quale testimonianza delle conseguenze della rimoraliz-
zazione comportata dalle politiche neoliberali, acuite dall’emergenza pan-
demica. Si tratta di due casi che, in estrema sintesi, permetteranno di intro-
durre due figure concettuali, di leader e di contesto che, come si tenterà di
mostrare, hanno rappresentato degli snodi cruciali per fondare sia le “nuo-
ve” teorie della leadership educativa ispirate dal discorso neoliberale, che
degli approcci che di tali teorie hanno rappresentato, piuttosto, il versante
“critico”.
Il primo episodio1 riguarda la contestazione di una delibera di Consiglio
di Istituto di un noto liceo, il Manzoni, di Milano da parte degli studenti in-
nanzitutto, ma non solo, che prevedeva un forte restringimento dei criteri di
accesso, apparentemente come scelta esitata dalla emergenza covid. Criteri
che avrebbero richiesto una votazione media molto elevata ed una residen-
za nel pieno centro cittadino da parte dei futuri iscritti; in seguito a tale con-
testazione, la dirigente scolastica ha emesso una circolare per sospendere
tali criteri.
Il secondo evento2 che, per taluni versi, potrebbe essere letto come por-
tatore di implicazioni addirittura epocali, riguarda il sistema d’istruzione
finlandese che, in piena crisi pandemica, ha optato per l’obbligo scolastico
fino ai 18 anni e del tutto gratuito anche per i costosi libri di testo. In questo
caso, due politiche, la Premier e la Ministra dell’Istruzione sono state le
protagoniste di una sfida condotta contro le pressioni neoliberali che, nella
Finlandia del successo di sistema certificato pure da organismi internazio-
nali3, pure iniziavano a fare breccia.
In Finlandia, nonostante le opposizioni politiche, la emergenza pande-
mica e le costose implicazioni finanziarie, la leadership di sistema decide,
dunque, di sfidare il vento neoliberale pure giunto in tale nazione, nono-
stante l’opzione pubblica abbia sempre garantito sia una ampia fiducia ed
altrettanto solida valorizzazione della professione docente, che scelte di
equità educativa di matrice welfarista sociale e democratica. Anche in que-
sto evento macro, di portata storica per l’istruzione in occidente, si confron-
tano una leadership con un contesto che dimostra ampia legittimazione po-
1
Cfr. La Repubblica del 25.10.2020.
2
Cfr. La Repubblica del 19.12.2020.
3
Si pensi alla indagine Ocse-Pisa, per cui la Finlandia è al primo posto da decenni.
3
litica, sociale e, in definitiva, morale alla decisione per la politica del-
l’obbligo gratuito a 18 anni. Contesto che, cionondimeno, mostra anche al-
tri attori che si oppongono nella misura in cui, pur in quella cultura nazio-
nale così radicata nei valori welfaristi educativi, il discorso globale neolibe-
rale eveva già iniziati a fare irruzione; anche sulla spinta dei cedimenti in
tale direzione delle altre due nazioni, Svezia e Norvegia, che dal secondo
dopoguerra hanno caratterizzato il cosiddetto modello scandinavo di ispira-
zione welfarista4.
Ecco, dunque, come questi eventi recenti, portati anche all’onore della
cronaca nazionale nel nostro paese, si prestino bene ad introdurre la presen-
tazione e la discussione delle teorie e ricerche sulla leadership educativa, in
termini di questione etica, proprio laddove si metta a fuoco la crucialità del-
la relazione attore-contesto.
4
Per una presentazione del modello scandinavo così come “penetrato” dal discorso neo-
liberale, in particolare in Svezia e Norvegia, cfr. Gunter et al. 2016.
4
sione sistematica del dibattitto, prevalentemente internazionale e soprattutto
anglofono, sulla leadership educativa svoltasi in quel ventennio. Basandomi
su mappe concettuali proposte per una lettura sistematica, almeno dal punto
di vista critico (cfr. Gronn, Ribbins 1996), delle “nuove” teorie sulla lea-
dership educativa che accompagnavano le politiche neoliberali di ristruttu-
razione e, come si vedrà, di rimoralizzazione delle istituzioni e professioni
educative, ho elaborato una chiave di lettura che mi permetto di riprendere
qui, dopo averla offerta al dibattitto nazionale e internazionale (Serpieri
2008; Serpieri et al. 2009; Serpieri 2016), perché a mio modesto avviso
quella riflessione teorica risulta ancora carente tutt’oggi.
Per tale obiettivo, dunque, si è trattato innanzitutto di trovare dei criteri
tipologici che rispondessero al duplice obiettivo di classificare quella cono-
scenza sia in base alla ispirazione politico-culturale più ampia, che secondo
la pertinenza a paradigmi scientifici distinti. A tal fine, mi sono rivolto alla
categoria foucaultiana di discorso, nella doppia accezione di pratiche di-
scorsive e non, pur non potendo, in questa sede, sgranare la complessità di
un quadro-teorico concettuale tanto denso e ricco, quanto progressivamente
rielaborato dallo stesso Foucault5. L’analisi delle formazioni discorsive si
rileva particolarmente appropriata proprio perché pone la questione delle
soggettività che vengono costituite: a) tanto nelle pratiche di conoscenza
scientifica, costituendo allo stesso tempo il soggetto conoscente (lo scien-
ziato, il ricercatore) e quello oggetto di conoscenza (in questo caso il leader
educativo); b) quanto anche nei «saperi» e nelle pratiche, con le loro tecno-
logie e le identità costituite da e per il discorso (gli stessi professionisti
educativi, ma sempre più spesso esperti e consulenti, provenienti ormai an-
che da altri settori).
Il primo criterio proposto, allora, tenta di fare luce anche rispetto a quel-
la scarsa consapevolezza di «ology» (Fitz 1999) che caratterizza ampia par-
te della conoscenza sulla leadership di matrice neoliberale e si fonda su due
presupposti epistemologicamente ed ontologicamente distinti e privilegiati
dei contesti educativi analizzati. In primo luogo, quello che si riscontra nel
mainframe di ricerca positivista e neo-positivista, quello nel cui ambito si
ritrovano gli approcci dell’Educational Administration e dell’Educational
Effeciteness and Improvement Research (Gunter 2016), prevalentemente
quantitativi nella logica della misurazione. Da tale punto di vista, il leader
5
Naturalmente, i testi cui rimandare sono innanzitutto quelli del cosiddetto metodo ar-
cheologico e poi quelli delle problematizzazioni genealogiche e dell’ultimo perido del go-
verno etico; cfr. Dean 1999 per l’analitica della governamentalità e per più specifici riferi-
menti al campo educativo Ball 2013, 2017; Grimaldi 2019; Serpieri 2018.
5
s-oggetto di conoscenza è l’individuo, con i suoi tratti distintivi, anche di
personalità, le sue motivazioni e strategie e, più in particolare, il suo stile di
leadership. Ontologicamente fondato sulla categoria degli umani questo
contesto finisce per includere, tutt’al più, le caratteristiche e, quindi, le mo-
dalità di interazione con altri umani: i followers, docenti, studenti, genitori,
ecc.; ho prposto, pertanto, di definirlo contesto categoriale.
L’altro pressupposto, invece, si ricava un altro contesto, laddove preval-
gono logiche di indagine ermeneutico-genealogica e soprattutto metodolo-
gie tipicamente qualitativa come le etnografie (cfr. Tamboukou, Ball 2003).
In questo caso, basate su una interrogazione del contesto in termini proces-
suali, di rete di pratiche discorsive e non, così come di attori umani e non,
quali gli artefatti testuali, tecnologici, di edilizia, ecc. (cfr. Landri, Viteritti
2016). I s-oggetti di conoscenza, ovvero gli stessi leader e follower, vengo-
no decentrati in favore di una ontologia della prassi. Questo contesto che
Gronn e Ribbins (1996) definiscono «contestuale» (ma un po’ rischiando, a
mio avviso, un truismo) in quanto, come mostreranno Ball e colleghi
(2012), «bisogna prendere il contesto sul serio», ho proposto di definirlo,
invece, contesto di reti di pratiche.
Nel merito del secondo criterio tipologico si è, invece, fatto riferimento
alla dimensione non propriamente epistemica del discorso, ma a quella più
ampia che può farsi risalire anche a una concezione politico-culturale, con
una certa analogia con l’egemonia gramsciana; implicando, quindi, anche
una moralizzazione in termini di regimi di verità (per definire la normalità
accettabile dei comportamenti), attraverso un ordine del discorso che sta-
tuisce come si deve, chi può, per conto di chi, parlare. Il discorso finisce,
cioè, per attribuire valenza e significato anche alle politiche che attualizza-
no vere e proprie tecnologie di governo (ad es., per la valutazione cfr. Gri-
maldi 2019) e costituiscono le soggettività in termini di identità attribuite,
come quella appunto del “buon” leader, del “buon” docente, del “buono”
studente, ecc. Attingendo ad alcune tipologie della letteratura critica
(Gewirtz, Ball 2000; Grace 2000), si possono così distinguere tre discorsi:
welfarista, managerialista (neoliberale) e democratico-critico, che si sono
confrontati e si confrontano nel campo educativo e non solo e i cui caratteri
distintivi sono riassunti nella tabella 1.
Sulla base dei suddetti criteri di classificazione delle teorie e, in genera-
le, delle forme di conoscenza della leadership educativa è quindi possibile
ricavare una mappa che chiarisce quali sono le linee di tensione e di ten-
denza che si sono affermate almeno dagli anni ’90 del secolo scorso in poi;
quando, cioè, il neoliberalismo ha decisamente preso il sopravvento nei si-
stemi di istruzione su scala globale e non solo nei paesi anglofoni (Serpieri
6
2018). Il che, nel campo della conoscenza e delle politiche per la leader-
ship, ha provocato una vera e propria corsa all’aggettivazione del termine
leadership. Nel senso che, così come per quel regime di quasi-competizione
invocato per le scuole, allo stesso modo si è aperto un vero e proprio mer-
cato della conoscenza, delle ricerche, delle ricette, delle tecniche, della
formazione, della consulenza, ecc., “dedicato” alla leadership educativa ed
ogni aggettivo pretendeva la sua nicchia di mercato. Con ciò, significando
anche quella entrata in scena di attori dal settore privato e/o tradizionalmen-
te anche fuori dal campo educativo, che è stata interpretata in termini di una
maggiore/minore vicinanza ai centri decisionali dei pubblici poteri e di una
maggiore/minore vicinanza al business di marca privatistica (Gunter 2012);
individuando anche quelli che sono stati gli «attori imprenditoriali e volga-
rizzatori» della vendita di conoscenza sulla leadership educativa (Gunter
2016).
7
2. Della leadership distribuita è possibile individuare almeno tre va-
rianti:
a. una di tipo contestuale (Spillane 2006) nell’ambito del di-
scorso welfarista, molto attenta alle pratiche dei professio-
nisti dell’educazione ed allo stesso tempo focalizzata sui
processi in divenire, valorizzando la dimensione diacronica
e la rete di interazioni tra attori umani e artefatti, come il
curriculum, le tecnologie, gli spazi, ecc.; in questa variante,
tuttavia, la critica delle forme di potere rimane sostanzial-
mente silente, pur enfatizzandosi l’ethos professionale;
b. la prima versione citata, quella categoriale, espelle qualsiasi
considerazione della dimensione del potere (cara, invece, al-
le teorie nell’alveo del discorso democratico); così, della di-
stribuzione concepisce al più una delega del leader ai suoi
followers o se si vuole ai suoi più immediati collaboratori;
in questo caso il potere non è una relazione vera e propria
ma solo una “entità”, come il quantum decisionale, che si
può cedere e sempre revocare da parte del leader detentore
di tale potere; una simile situazione viene proposta per la
system leadership, che propone una sorta di superleader su
altri leader in una rete di scuole;
c. una concezione della distribuzione vera e propria (Gronn
2003) del carico gravoso (greedy) di lavoro che interessa,
appunto, un contesto educativo nel suo complesso di rela-
zioni processuali anche con artefatti; laddove le dinamiche
di potere, di diseguaglianza, non risultano, tuttavia, neglette
come per la prima variante citata e la componente etico-
democratica risulta decisiva.
3. Generalmente parlando, nelle varie forme di conoscenza della lea-
dership del discorso democratico-critico, tanto nelle versioni catego-
riali risalenti soprattutto agli anni ’90, quanto in quelle dei contesti
di reti di pratiche, vi è una tensione, più o meno marcata, verso la
dimensione etico-politica.
La questione del potere, in particolare, risulta particolarmente interes-
sante in un autore che più di chiunque altro della lezione foucaltiana ha fat-
to la sua principale e continuativa fonte di ispirazione, ovvero Ball, che non
a caso rappresenta il più radicale punto di svolta nelle concezioni sulla lea-
dership di tipo critico. Dalla sua iniziale trattazione della leadership in ter-
mini di micropolitiche (Ball 1987), attraverso la enucleazione di quattro
«stili» prevalenti («autoritario, manageriale, interpersonale e conflittuale»);
8
passando per ricerche volte ad evidenziare il ruolo del leader come interpre-
te-mediatore dei discorsi welfarista e neomanagerialista in conflitto
(Gewirtz, Ball 2000); giunge sino ad espellere la leadership dal lavoro em-
pirico, come si discuterà più avanti parlando delle sue ultime ricerche, ma
anche dalla riflessione teorica come testimoniato dall’assenza di questo te-
ma nel ‘critico’ Handbook of Sociology of Education (Apple, Ball, Gandin
2010). Più precisamente, anzi, la include tra le diverse «tirannie», come i
sistemi di accountability, imposte dal discorso managerialista e dalle politi-
che neoliberali e di cui sarebbe urgente liberarsi (Ball 2007): il potere è una
dimensione sistemica, quindi, e non individuale-relazionale.
Distribuita Femminista
Distribuita
(Greedy work)
Ecologica
Ironico-temperata
Non tematizzata
(tirannica)
6
Per un riferimento alle teorie di autori qui non citati cfr. Serpieri 2008; 2009; 2016.
9
paradosso che le politiche neoliberali, che cercando di fare della leadership
la “soluzione” per il cambiamento in senso managerialista delle organizza-
zioni scolastiche, hanno prodotto una vera e propria ri-moralizzazione delle
culture professionali e provocato un «terrore» della performatività (Ball
2013). Come osserva Gunter, a proposito della «cultura leader-centrica» in
Inghilterra: «una caratteristica centrale di questi modelli [di ispirazione
neoliberale] era la strategia di budget e di collocamento del management
nella scuola dove la composizione e il numero del personale sarebbe stata
decisa localmente [essenzialmente dal leader-manager], con il potere di as-
sumere e licenziare7. Mentre è stato introdotto un curricolo nazionale, la
scuola avrebbe potuto vendere [commodify] la sua particolare specializza-
zione, offrendo così diversità e scelta ai genitori» (2012, p. 8).
In definitiva, non è certo un caso che le teorie e le ricerche condotte da
una prospettiva democratico-critica abbiano ripreso e mantenuto l’atten-
zione alla questione morale. Ciò nella misura in cui si sono preoccupate di
mostrare le conseguenze in termini di opzioni etiche che le politiche mana-
gerialiste andavano provocando, trovando il suo punto di maggiore coagu-
lazione, probabilmente, nelle riflessioni e interpretazioni di Ball e colleghi
che interrogano le soggettività degli educatori, come si vedrà più avanti.
Una vera e propria ondata di «reculturing», infatti, si è in pratica accompa-
gnata in Inghilterra a due contrapposte tendenze, paradossalmente, conver-
genti per finalità: a) una nuova professionalizzazione dei leader in senso
manageriale, con la necessità, già nel 2000 di una nuova istituzione, para-
dossalmente, “pubblica” dedicata, il National College for School Leader-
ship; b) una retorica sul «professionalismo e la libertà di insegnamento ac-
cordata ai docenti che in realtà [copriva] un processo di deprofessionalizza-
zione con una assenza di attenzione verso un difendibile modello di pratica
pedagogica» (Gunter 2012, pp., 22-23).
Se questo, dunque, è il panorama sulle teorie neomanageriali della lea-
dership educativa, così come si sono imposte attraverso la diffusione del
discorso neoliberale su scala globale a partire dai paesi anglofoni, pur con
alcune eccezioni come la Scozia, si potrebbe affermare che, da un punto di
vista “critico”, la leadership non è la soluzione, ma il problema.
7
Nel nostro paese si è paventato qualcosa di simile con la La Buona Scuola di Renzi.
10
litiche di matrice neoliberale e, forse, insufficiente per sostenere le opzioni
etiche alternative per i professionisti dell’educazione e degli stessi leader.
8
Spesso, infatti, i rifermenti alla letteratura internazionale in materia di leadership edu-
cativa appaiono alquanto limitati, e spesso anche datati, pur da parte di chi ha condotto rile-
vanti ricerche empiriche (con rilevanti eccezioni: cfr. Barzanò 2008).
11
traverso un modello statistico raffinato; buttandovi, così, dentro circa una
ventina tra variabili indipendenti e intervenienti per arrivare a predire la va-
riabile dipendente, ovvero i risultati. Nonostante le retoriche sulla impor-
tanza del contesto, quest’ultimo viene però solo sfiorato nella trattazione
degli studi di caso, poiché il core principale di questa ricerca è la dimostra-
zione del “valore” della leadership in termini di accountability e cioè in che
misura questa può funzionare, come si diceva, quale soluzione ai problemi
del rendimento delle scuole in Inghilterra.
Sempre rimanendo in Inghilterra, all’estremo opposto si ritrovano le ri-
cerche genealogiche ed etnografiche di Ball e collaboratori; come si è già
detto, dopo esordi dedicati alle micropolitiche nella scuola e dove
l’approccio, pur fuori dai canoni neopositivisti, rimaneva centrato su una
categorizzazione ontologica dell’umano, gli stili del leader nella sua intera-
zione con gli insegnanti, nelle ricerche successive vi è un chiaro sposta-
mento sul contesto di reti di pratiche. Una delle ultime significative ricer-
che, infatti, è stata dedicata all’«enactment» delle politiche, inteso quale
decodifica e ricodifica delle stesse praticata nelle scuole, per cui, come già
accennato, si raccomanda di «prendere il contesto sul serio» (Ball et al.
2012). Questo lavorio di enactment che va oltre la mera messa in atto, infat-
ti, viene studiato attraverso alcuni studi di caso di scuole “normali”, in chia-
ra polemica con la classificazione da League tables delle Bad Schools e
Good Schools promulgata dalle politiche managerialiste e condotti con un
tempo prolungato coerente (circa quattro anni), con etnografie degne di
questo nome.
La logica dell’approccio categoriale viene del tutto superata ponendo il
focus sulla natura processuale delle reti che si vengono a creare tra attori
umani, spazi fisici, testi e norme, tecnologie e metodologie didattiche, ecc.,
rinunciando a tematizzare un centro di attenzione non solo sul leader, ma
neanche su una più ampia funzione di leadership distribuita. Nella figura
finale, che rappresenta lo spazio indagato con questo frame concettuale, si
rappresentano assemblaggi di dimensioni, eventi, senza frecce di causalità
ma solo di relazioni reciproche, rinunciando al tipico paraphernalia dei di-
scorsi managerialisti, come climi e/o culture organizzative, performance e
procedure di accountability e, soprattutto, dove non c’è alcun riferimento
ad una leadership né in termini individuali, né di collettività.
L’attenzione alla dimensione etica viene, quindi, prestata alle forme in
cui le soggettività prendono forma quando i dirigenti e/o gli insegnanti si
impegnano in pratiche di soggettivazione, assumendo e rielaborando quelle
tecniche managerialiste del professional development, come ad es., il coa-
ching, il mentoring, lo scaffolding, e così via. Così, da un lato partecipando
12
consapevolmente alla s-oggettivazione affibbiatagli dalla identificazione
implicata dalle politiche neoliberali e, dall’altro, sottoponendosi ad una pra-
tica di interpretazione riflessiva con l’ “altro” ricercatore, collega, dirigente,
genitore e perfino studente, si attua una esperienza etica, di tras-formazione
del sé attraverso tali pratiche di vissute riflessivo, in quanto tecniche per la
cura di sé. «Gli insegnanti impegnati in una scuola possono ora non essere
governati da un dirigente autocratico e né essere sottoposti ai vincoli di una
performatività che terrorizza le loro anime […], ma saranno governati da se
stessi, attraverso un divenire autentico di praticante riflessivo sotto la sottile
persuasione governamentale, dominati ma ancora liberi» (Perryman et al.
2017, p. 755).
E questa forma di soggettivazione e non di assoggettamento viene poi
testimoniata ulteriormente da Ball analizzando un altro aspetto delle tecni-
che del sé che, con riferimento all’ultimo Foucault, vengono viste come
pratiche per il governo etico di se stessi e degli altri, ovvero quello della
scrittura (cfr. Serpieri 2018). Una ampia analisi viene, infatti, dedicata alle
forme di scrittura come blog, diari, lettere, ecc., che dirigenti e insegnanti
praticano per distanziarsi dalla identificazione imposta dal discorso neoli-
berale ai professionisti dell’educazione; utilizzando, quindi, questa tecnica
di cura del sé per una soggettivazione, relativamente autonoma, in chiave di
resistenza, ma anche come possibilità di libertà (Ball 2017)9. Come si vede,
qui la distanza rispetto al contesto categoriale e al discorso managerialista è
drastica, sia in termini di presupposti ontologici ed epistemologici che in
chiave di posizionamento politico comune ai Critical Leadership Studies
che, per dirla con Gunter, si trova però escluso dalla decisione pubblica e
sottodotato in termini di risorse10.
E per quanto riguarda l’Italia? Come si accennava, anche nel nostro pae-
se si è sviluppata perlomeno una certa messe di ricerche sulla dirigenza
scolastica; di cui si deve gran merito a Fischer e colleghi che hanno svilup-
pato un programma almeno decennale di indagine, attraverso survey su
campioni nazionali dalla istituzione della neo-dirigenza scolastica sul finire
degli anni ’90 (Fischer, Masuelli 1998; Fischer, Fischer, Masuelli 2002;
Cavalli, Fischer 2012). Queste ricerche possono venir collocate senz’altro
9
Per una più ampia trattazione sia delle ricerche di Ball e colleghi sulla formazione etica
delle soggettività in educazione, che delle tecniche del sé come tematizzate da Foucault co-
me sperimentazioni di altre possibilità, cfr. Serpieri 2018.
10
Qui ci sarebbe un ampio discorso da fare sulle condizioni di accesso ai fondi di ricerca
sperimentate nelle università inglesi, ma potrebbe dirsi anche italiane, per ricerche fuori dal
mainstream.
13
sul versante categoriale e mainstreaming con ampio ricorso a sofisticate
tecniche statistiche: si interrogano i leader e, a complemento, gli insegnanti
come attori sociali e se ne indagano, per così dire le «buone ragioni», anche
in termini di orientamenti valoriali (cfr. Sciolla 2005). Non mi sentirei di
affermare che ci sia una piena adesione al discorso e alle politiche neolibe-
rali, anche se qua e là (come per Cavalli nella ricerca del 2012), pur in pre-
senza di una tensione democratica ad una scuola più equa e di qualità, di-
verse assonanze si ritrovano con la ricetta managerialista di una scuola resa
più efficace, efficiente e, magari, innovativa ed imprenditoriale attraverso
una leadership più ‘forte’ (ad es., nel sottolineare una ridotta disponibilità
di poteri, come per la scelta del personale insegnante, a fronte delle nuove
responsabilità della scuola dell’autonomia). E, d’altronde, non può passare
inosservato come, sempre per rimanere sul terreno dei luoghi dove si forma
la conoscenza sulla leadership educativa e sui sistemi scolastici, la Fonda-
zione per la Scuola della Compagnia di San Paolo appaia come l’ente fi-
nanziatore, ovvero un attore ben posizionato sia in termini di vicinanza al
potere decisionale che di risorse economiche.
Bisogna, tuttavia, riconoscere che la finalità non è mai esplicitamente
quella di fare della leadership educativa il deus ex machina solitario e onni-
potente per la soluzione dei problemi che pure affliggono il tormentato pae-
saggio scolastico italiano (si pensi solo, ad es., alle persistenti e forti dise-
guaglianze, non solo performative, ma anche di dotazione di risorse, tra le
aree territoriali, Nord e Sud in primo luogo, aree urbanizzate e aree interne,
centri urbani e periferie, ecc.). Anche la raffinata strumentazione statistica,
più che causalistica è più rivolta, in linea con una concezione weberiana,
alla costruzione di una tipologia della dirigenza; associando, quindi, per
ciascun tipo oltre le classiche variabili categoriali anche la rilevazione di
motivazioni ed opzioni latamente valoriali e degli atteggiamenti verso la
professione, la propria e quella degli insegnanti. Interessante, in tal senso, il
vissuto di genere che viene fuori dalle indagini, in particolare l’ultima, pro-
prio perché usualmente nelle retoriche che accompagnano le politiche edu-
cative del nostro paese, insieme con la senilizzazione della categoria, se ne
lamenta in qualche misura l’eccesso di femminilizzazione. Ebbene, forse
contro intuitivamente (aggiungerei per chi conosce in genere poco il mondo
della scuola), il genere femminile interpreta una leadership educativa parti-
colarmente motivata e con una tensione etica significtiva.
Non essendo qui possibile esaminare nel dettaglio i tipi venuti fuori dal-
le ricerche, tuttavia, proprio per rimarcare in quale misura le pressioni ma-
nagerialiste si facciano sentire sempre più, attraverso i vari cicli di riforma
che il nostro sistema scolastico ha sperimentato con l’autonomia e la istitu-
14
zione della dirigenza, è possibile profittare di alcuni primi risultati di una
nuova ricerca – ancora in fase di elaborazione dei dati – che si pone nel sol-
co di quelle condotte da Fischer e con la sua collaborazione, offrendo
l’opportunità di una rappresentazione diacronica della dirigenza scolastica
(Barberis, Carbone 2020)11. Si riprendono qui solo alcuni dati tratti da un
paper molto recente relativi ad alcuni elementi della professione che mo-
strano in qual misura ci si stia allontanando da una funzione più propria-
mente educativa a favore di una più manageriale nella esplicazione del ruo-
lo dirigenziale.
In particolare, dal confronto tra le due ricerche svolte a distanza di un
decennio (2008-18), un primo dato sembra interessante riportare: quello re-
lativo al quadro di motivazioni che hanno portato alla scelta di divenire di-
rigente. Si consideri, infatti, che proprie le pressioni delle politiche neolibe-
rali hanno provocato in Inghilterra una vera e propria caduta delle aspira-
zioni alla dirigenza, tanto è vero che le scuole inglesi si contendono i mi-
gliori, tra i pochi aspiranti dirigenti, con fior di inserzioni, dal tono etica-
mente denso, sui quotidiani e online in cerca di leader più o meno ‘eroici’
e/o ‘visionari’, ecc. Mentre, come è ampiamente noto, i vari cicli di sele-
zione nel nostro paese vedono migliaia di candidati presentarsi in una orda-
lia di corsi di formazione offerti, di manualistica continuamente aggiornata,
di prolusione di test e prove preselettive, e così via per selezionare quei for-
tunati che potranno accedere ai relativamente pochi posti messi a concorso.
Quindi, cosa è che continua a motivare i futuri dirigenti scolastici nel
nostro paese è sicuramente un aspetto cui prestare particolare attenzione. Il
dato relativamente sorprendente a dieci anni di distanza è che il quadro del-
le motivazioni emerso dalle due indagini sostanzialmente resta immutato.
Sembrerebbe, quindi, confermato che l’insieme dei motivi più pressanti sia
riconducibile proprio ad una sorta di salto professionale verso una direzio-
ne appunto più manageriale: l’innovazione, la responsabilità, una profes-
sionalità “diversa”, dirigere una organizzazione complessa. Insomma, sem-
bra che ciò che ha da tempo iniziato seriamente a spaventare in Inghilterra
da noi sia ancora particolarmente ambito e, in tal senso, ci si potrebbe chie-
dere se e in quale misura chi ci candida sia già orientato favorevolmente
verso e dal discorso neoliberale.
Ora, gli autori ci offrono una lettura di questo quadro motivazionale, ar-
ticolato per tre fattori: quello prioritario, appunto, definito come «Implica-
zioni legate al nuovo ruolo», il secondo di «Mobilità di carriera» (retribu-
11
Una comparazione tra i tipi di dirigenza emersi nelle indagini precedenti non è ancora
disponibile. Si ringraziano gli autori per la disponibilità a fornire i primi risultati di ricerca.
15
zione, carriera prestigio e funzione sociale) ed il terzo «Insoddisfazione per
il ruolo d’insegnante»; ma tale lettura è, almeno per il momento, ancora ar-
ticolata per le sole variabili categoriali (sesso, età, area geografica, titolo di
studio, ecc.). C’è da ritenere che una lettura per tipi di leader, comprenden-
te la minore o maggiore sintonia esibita con il discorso neoliberale, potrà
portare una ancor più significativa comprensione anche delle adesioni valo-
riali e delle opzioni etiche come vengono rappresentate dai nuovi dirigenti:
per dirla con un es., una riforma come La Buona Scuola può avere costitui-
to una “buona ragione” per aver scelto di diventare dirigente? Rimane, poi,
da considerare che qui siamo in presenza del “dichiarato” e, allora, non
sembrerebbe un caso che, per quanto riguarda il fattore di mobilità, alcune
categorie strutturali, per così dire, pesino particolarmente: il genere maschi-
le, la minore età, la meridionalità, il titolo di studio più elevato sono fattori,
infatti, che spiegano come per taluni versi la opzione dirigenziale venga vi-
sta come “ascensore” sociale (anche qui una lettura per tipi raffinerà sicu-
ramente il frame interpretativo12).
Un secondo dato sembra di particolare interesse discutere in questa sede
e cioè quello relativo al cambiamento nel tempo registrato per le attività di-
rigenziali e cioè il netto arretramento della funzione più propriamente edu-
cativa, di guida, di esperto, ove si consideri che a calare sono: le riunioni
con i collaboratori (forse si distribuisce/delega loro maggior potere decisio-
nale o invece lo si accentra di più?); lo scambio professionale coi docenti
anche per progetti didattici innovativi, per spazi laboratoriali; la propria au-
to-formazione; l’auto-esposizione in pubblico come oratori. Allo stesso
tempo crescono in questo ultimo decennio tutte le attività più propriamente
manageriali, compreso quelle “imprenditoriali” di partnership (un sintomo
di system leadership?).
In definitiva, sembrerebbe di poter parzialmente concludere è che verso
un nuovo ethos manageriale della dirigenza scolastica è maggiormente pre-
disposto (quasi un habitus alla Bourdieu) chi, probabilmente, risulta già
mosso anche da opzioni politico-valoriali sintoniche con il discorso neoli-
berale e che, non a caso, si troverà effettivamente a svolgere prevalente-
mente funzioni manageriali, più che di leadership educativa vera e propria.
Va ricordato, paradossalmente, che la vocazione verso quest’ultima sembra
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Rimane il dubbio, considerata la vera e propria corsa a salire sul carro che si ripresen-
ta immancabilmente in tutti i concorsi a dirigente da venti anni con migliaia di candidati per
ciascuna selezione, che tutta questa ‘passione’ intrinseca per il nuovo ruolo sia molto più
una motivazione di facciata, anche inconsapevolmente in buona fede – una sorta di raziona-
lizzazione ex-post – e che gli altri due fattori, mobilità e insoddisfazione siano molto più
incidenti di quanto non appaia.
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rientrare in termini di bisogni formativi: l’area che raccoglie maggior suc-
cesso è, infatti, quella che viene definita della «programmazione didattica»,
ovvero, riguardante l’etica pubblica, la sostenibilità, la cittadinanza, la tol-
leranza, la comunità di pratica. Una area che guarda al sociale o, perlome-
no, ai piani e programmi da realizzare in tal senso: che ci sia anche qualche
sintomo di ripensamento in termini di opzioni etiche?
Per quanto riguarda, inoltre, il ruolo esplicitato da attori “forti” nel con-
testo italiano in materia di ricerche sulla dirigenza va necessariamente ri-
cordato quello giocato da un’altra fondazione, la Giovanni Agnelli, che sui
dirigenti scolastici ha prodotto diverse indagini in una prospettiva analoga
rispetto a quella della citata indagine inglese sulla valutazione del ruolo e
delle competenze ivi espresse in termini di risultati13. Ma, qui, oltre queste
indagini quantitative, ovviamente categoriali e di ispirazione managerialista
sembra opportuno ricordare una delle poche, se non forse l’unica, indagini
qualitative di tipo etnografico sponsorizzate da attori forti come le fonda-
zioni, quella condotta da Cerulo (2015) su quattro casi di dirigenti seguiti,
attraverso la tecnica dello shadowing, per una settimana ciascuno.
Ometto, per il momento, considerazioni metodologiche sul se possa
“bastare” un tempo così limitato di osservazione per delle etnografie in ge-
nerale e per comprendere la complessità della leader educativa prendendo
seriamente in considerazione i processi e i contesti; rimane il fatto, però,
che l’interrogativo più ampio e degno di nota, ovvero verificare se e in qua-
le misura il ruolo “vissuto” si estrinsecasse in un conflitto tra la funzione
educativa e quella manageriale ha trovato piena conferma, soprattutto con-
cludendo che è essenzialmente la prima che viene sacrificata, così come del
resto anche le survey precedentemente citate confermavano. Non a caso
Gavosto, direttore della Fondazione, nella prefazione si chiede se la solu-
zione proposta da Cerulo di fornire uno sbocco dirigenziale al collaboratore
amministrativo (DSGA) non possa rischiare , tuttavia, di rompere la linea
gerarchica, chiaramente cara al discorso sposato dalla Fondazione stessa.
Ed, inoltre, si chiede con una domanda davvero cruciale cui le ricerche di
impronta categoriale hanno per la verità fornito scarse risposte, se la «man-
canza di leadership educativa» non sia dovuta proprio al fatto che «sempli-
cemente ai Ds mancano il tempo, gli stimoli o le competenze per dedicarsi
agli aspetti didattici» (Cerulo 2015, p. 6).
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Avendo buoni dati da una survey e giocando con un po’ di elaborazioni è relativamen-
te semplice tirare fuori delle risposte, pur in un frame categoriale, sul ‘valore’ della leader-
ship e perfino nell’ambito di una interpretazione coerente con il discorso democratico, come
per il clima collaborativo dirigente-insegnati (Serpieri, Vatrella 2017).
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E ci sarebbe da aggiungere, se sia venuto meno e/o fosse, già prima del-
la dirigenza, debole un ethos professionale di tipo non managerialista (così
come anche le survey lasciano ipotizzare). Per quanto ricca di spunti e,
probabilmente, anche a causa dei limiti strutturali di una etnografia troppo
“rapida” e/o di una scarsa consapevolezza anche teorica esibita dall’autore
sui dilemmi della leadership educativa, l’indagine di Cerulo non offre in
buona sostanza risposte sulle opzioni etiche dei dirigenti presi in osserva-
zione.
Per brevità in questa sede (e anche per pudore) non si presentano, se non
appena richiamandole, una serie di indagini qualitative che da solo e/o con
altri autori ho condotto con un approccio ai contesti di pratica e di ispira-
zione critica, per le quali tutte segnalo una permanenza sul campo molto
prolungata nel tempo, talvolta persino pluriennale. Si va dalla riforma della
scuola elementare attuata in un circolo didattico, per poi seguire per oltre
dieci anni la direttrice didattica fino all’assunzione del ruolo dirigenziale
(Serpieri 2002); ai percorsi di formazione per la dirigenza scolastica (Ser-
pieri 2012); di traduzione in pratica (una metafora che rimanda a forti ana-
logie con il concetto di enactment) di politiche della qualità e della valuta-
zione (Grimaldi, Serpieri 2013); per finire con ricerche sulla leadership
contestuale in materia di disuguaglianza etnica e culturale (Serpieri, Gri-
maldi 2014).
Un ulteriore spazio di ricerca è stato specificamente destinato alla co-
struzione della dirigenza scolastica, non solo in termini di selezione-
formazione, ma anche di valutazione della stessa per s-oggettivare il diri-
gente più performante, quello in grado di garantire valore aggiunto (Serpie-
ri 2012). Evidenziando, peraltro e con diverse analogie con i citati lavori di
Gunter sulla produzione di conoscenza, in qual modo anche nel nostro pae-
se la ricerca per le politiche della leadership educativa avvenga in un cam-
po di relazioni di potere, anche simbolico, e di interessi economici in gioco;
laddove lo spazio occupato dalle fondazioni assume un rilievo sempre più
importante per promuovere un ethos dirigenziale congruente con il discorso
neoliberale e managerialista.
Con ciò – quale riflessione conclusiva che, in realtà, apre ulteriori inter-
rogativi di ricerca ed anche etici per il lavoro intellettuale –, notando che
anche nel nostro paese lo spazio per il discorso critico non solo tende a re-
stringersi nelle università, ma finisce per essere sempre meno “ascoltato”
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nei luoghi delle decisioni politiche e di influenza sulle stesse. Eppure, già
dalla analisi dei testi, attraverso il contributo di una lettura critica, è possi-
bile discernere il tipo di oggettivazione delle identità professionali in edu-
cazione – si pensi anche allo stesso ricercatore universitario concepito in
termini di, sempre più precario, imprenditore di se stesso – che sono propo-
ste dal discorso neoliberale. Nel testo di legge La Buona Scuola (si noti, già
in questo enunciato, “buona” e non normale) è chiaramente riconoscibile,
ad es., l’intento di ulteriore managerializzazione e imprenditorializzazione
del dirigente, a danno proprio della funzione educativa e del suo ethos (Ta-
glietti et al. 2018).
E da qui, dunque, la seguente domanda: in quale misura e quali produt-
tori di conoscenza sulla leadership educativa possono fornire un supporto ai
professionisti, come quello di Ball e colleghi, per interpretare l’ “altro” con
cui è possibile convertire le oggettivazioni in soggettivazioni verso spazi di
autonomia sempre più ampi, oltre quelli che già si praticano attraverso
l’enactment? Come il valore della conoscenza, anche attraverso la messa in
pratica di tecnologie del sé come la scrittura da soli insieme ad e per altri,
potrebbe essere di aiuto per tracciare un percorso di libertà, sostenendo la
riflessione etica (per Foucault «l’etica è la forma riflessa che assume la li-
bertà», 2020, p. 276), oltre quella professionale, se si riducono le risorse per
un pensiero critico? Certo questi interrogativi rimandano alla questione
complementare della traduzione politica di soggettivazioni etiche resistenti
e che rimanda anche alla costituzione di un Noi (che Foucault non voleva
che affrontare ex-post, se non in forme di sperimentazioni), alla necessità di
alleanze tra “soggetti” non solo individuali. Nel mentre, è forse un dovere
morale, oltre che un’azione politica, il tentare come professionisti e ricerca-
tori di mantenere aperta la via della sperimentazione di una conoscenza e di
una pratica altrimenti possibili per una leadership educativa diversa da
quella dominante del discorso neoliberale, nella scuola così come
nell’università, ormai anche nel nostro paese.
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