Sei sulla pagina 1di 21

I diversi significati di sviluppo

Per poter parlare di economia dello sviluppo, ovvero quel ramo dell’economia politica che si è affermato come
disciplina autonoma dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e che si è occupata dello studio delle economie meno
sviluppate, della loro evoluzione e del divario tra di esse e le economie più avanzate, è necessario aver ben presente il
concetto di sviluppo stesso. Nel corso della storia il concetto di sviluppo è stato accostato a diversi termini assumendo
significati differenti: sviluppo come crescita, sviluppo come trasformazione strutturale, sviluppo umano e sviluppo
sostenibile. Questi 4 significati che si sono affermati nel corso del tempo non rappresentano 4 stadi, bensì 4
prospettive tutte ancora valide attraverso le quali guardare allo sviluppo.

Innanzitutto, se dobbiamo definire lo sviluppo in maniera generale, non legata all’economia, esso è l’accrescimento
nel tempo e generalmente graduale di un’entità visibile (un essere vivente) o percepibile (le conoscenze). Dal punto di
vista delle scienze sociali di cui l’economia fa parte, per studiare un fenomeno come lo sviluppo è necessario definire
inizialmente l’oggetto di studio di cui si vuole studiare lo sviluppo, un oggetto che deve presentare dei caratteri
permanenti (che non scompaiono, ma che si sviluppano nel tempo). Nel caso dell’economia, l’oggetto di studio che
storicamente è stato scelto dagli economisti, sin dalla “Ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith, economista classico
scozzese considerato il fondatore della disciplina economica, è stato un “paese”, una “nazione” o una “regione del
mondo”. Oggi questo oggetto di studio non è più lo strumento più adeguato attraverso il quale studiare lo sviluppo,
infatti più recentemente è stata affermata l’importanza del singolo individuo, sebbene le nazioni vengano ancora in
molti casi utilizzate come principali oggetti di studio. Bisogna poi individuare dei criteri realistici attraverso i quali
studiare i fenomeni relativi allo sviluppo, essi però sono difficili da individuare a causa della complessità di tali
fenomeni: sono contesti in forte evoluzione, gli attori che li popolano si comportano in modo soggettivo e interattivo
tra di loro, spesso a causa della razionalità limitata per esempio data un fattore come il tempo, o a causa
dell’asimmetria informativa, ovvero quando alcuni attori sono più informati di altri portando a scelte differenti; i nessi
causali tra variabili sono spesso ambigui, non si capisce cosa impatta su cosa (offerta di moneta e aumento del pil,
aumento del reddito e aumento degli investimenti) e se si riesce a capire il nesso spesso è difficile misurarne l’effetto
(aumento del reddito e aumento dei consumi); infine il rapporto tra gli analisti, i burocratici e i politici spesso è
confusionario perché i loro compiti si sovrappongono.

1. Sviluppo come crescita

il primo significato che si afferma nel corso della storia è quello di sviluppo come crescita del PIL o del PNL. In questa
concezione quindi il PIL e il PNL sono gli indicatori principali per misurare la crescita.

Per capire questa concezione di sviluppo è necessario spiegare il flusso circolare del reddito e dei beni e servizi, che
essenzialmente ci descrive come funziona un sistema economico. In un sistema economico chiuso, esistono
essenzialmente due soggetti: le famiglie e le imprese. Le famiglie offrono fattori produttivi alle imprese (lavoro,
capitale, terra) in cambio di redditi; le imprese offrono beni e servizi alle famiglie in cambio della spesa. Se tutto il
reddito delle famiglie è speso e se tutta la produzione delle imprese è venduto (condizione di equilibrio) ciò significa
che il reddito di un paese è uguale al proprio PIL. Quindi in queste condizioni possiamo calcolare la produzione (il PIL)
di un paese attraverso tre differenti percorsi che ci portano tutti allo stesso risultato: calcolando la remunerazione
totale ottenuta dalle famiglie per la cessione dei fattori produttivi, calcolando il valore dei beni e dei servizi prodotti
dalle imprese, calcolando il valore della spesa delle famiglie per l’acquisto dei beni e dei servizi. In condizioni di
economia aperta si aggiungono nuovi soggetti all’interno del sistema economico: le banche, il settore pubblico e
l’estero. Anche in economia aperta si può raggiungere una condizione di equilibrio: le famiglie offrono i propri risparmi
alle banche che lo reimmettono nel sistema attraverso i prestiti, il settore pubblico preleva le imposte dalle famiglie e
le reimmette attraverso la spesa pubblica, l’estero preleva dalle famiglie le importazioni (beni e servizi che le famiglie
comprano dall’estero) e le reimmette attraverso le nostre esportazioni (comprando i beni e servizi prodotti
internamente). Quindi se le decisioni complessive di prelievo e immissione coincidono siamo in una condizione di
equilibrio. S+T+M = I+G+X

PIL = il PIL è il valore dei beni e dei servizi ottenuti da fattori produttivi nazionali, indipendentemente dalla nazionalità
dei proprietari dei fattori. È tutto ciò che viene prodotto nel territorio nazionale (anche da stranieri), ma non
comprende i beni e servizi prodotti all’estero da cittadini della nostra nazione in questione. Nella formula le
importazioni vengono sottratte perché tutte le componenti precedenti le includono già. L’investimento in scorte viene
considerato come nullo in questa formula, altrimenti verrebbe meno l’ipotesi che tutto ciò che viene prodotto viene
consumato, investito, usato per la spesa pubblica o esportato. Y = C+I+G+X-M

Attraverso diversi passaggi, partendo dal PIL possiamo arrivare al valore del RN (reddito nazionale).

1) PNL= PIL + redditi netti dall’estero. Il PNL invece è il valore dei beni e servizi ottenuti da fattori produttivi
nazionali sommato ai redditi netti dall’estero (i redditi guadagnati all’estero da cittadini della data nazione
meno i redditi guadagnati dagli stranieri nella nazione in questione). Questa formula dunque tiene conto
anche dei beni e servizi prodotti all’estero da cittadini della nostra nazione in questione, ma non tiene conto
invece quelli prodotti da stranieri nella nostra nazione.
2) PNN (prodotto nazionale netto) = PNL – ammortamento. Le spese di ammortamento sono una quota
dell’investimento che si mette a bilancio ogni anno come consumo stesso dell’investimento. Infatti, ogni anno
che passa l’investimento si deteriora e vale meno dell’anno precedente.
3) PNN al costo dei fattori= PNN ai prezzi di mercato – Ti. Il prezzo ai costi dei fattori è il prezzo all’uscita della
fabbrica. Successivamente vengono applicate delle Ti, ovvero delle imposte indirette che fanno aumentare il
prezzo finale di un bene o un servizio, un esempio di imposta indiretta è l’IVA (imposta sul valore aggiunto),
una tassa sui consumi in quanto pesa maggiormente sul consumatore.
4) PNN al costo dei fattori= RN. Il reddito nazionale equivale al prodotto nazionale netto al costo dei fattori
5) RD= RN+B-Td. Il reddito disponibile è il reddito nazionale più i trasferimenti dalla pubblica amministrazione
meno le tasse dirette. Le tasse dirette vengono applicate direttamente al reddito, si pagano perché si dispone
di un reddito.
6) RD= C+S. Il reddito disponibile è ciò che rimane effettivamente nelle tasche dei cittadini e che quindi è
destinato a consumo e risparmio.

Riscrivendo queste formule si può illustrare come sono connessi tra di loro i bilanci dei diversi settori:

(G+B-Ti-Td) = (S-I) + (M-X)

- bilancio del settore pubblico -> G+B-Ti-Td = uscite – entrate del settore pubblico. Se le uscite sono maggiori
delle entrate si parla di disavanzo pubblico, un problema che può essere risolto dall’eccesso di risparmio sugli
investimenti – si usa il risparmio in eccesso per comprare titoli di stato causando uno spiazzamento degli
investimenti privati- o da un eccesso di esportazioni sulle importazioni. Il debito pubblico è l’accumularsi dei
disavanzi anno dopo anno. A causa dei tassi di interesse il debito pubblico cresce fino a raggiungere
proporzioni elevate rendendo i paesi indebitati inaffidabili agli occhi degli altri paesi che non saranno
incentivati a vendere loro titoli di stato
- bilancio del settore privato -> S-I = risparmio - investimenti del settore privato
- bilancio del settore estero -> M-X = importazioni- esportazioni. Se le importazioni sono maggiori delle
esportazioni ci troviamo in disavanzo commerciale, che dobbiamo finanziare attraverso il risparmio
interno/privato o chiedendo prestiti all’estero).

Differenza tra PIL nominale, PIL reale e PIL pro capite

- PIL nominale: misura il PIL ai prezzi correnti in un determinato periodo di tempo, non si può dunque usare
per confrontare la produzione di due anni differenti perché non tiene in considerazione degli aumenti o delle
riduzioni di prezzo (inflazione o deflazione)
- PIL reale: si usa per misurare il PIL in differenti anni ai prezzi di uno stesso anno base, tenendo dunque conto
dell’inflazione.
- PIL pro capite: PIL reale/popolazione
- Deflatore del PIL: PIL nominale/PIL reale.

Il concetto di sviluppo come crescita del PIL mostra dei limiti: 1) il PIL è difficile da misurare, ci sono beni e servizi
come quelli prodotti dalla pubblica amministrazione che non hanno un prezzo di mercato e il loro valore viene
calcolato sulla base del costo dei fattori per la loro produzione, poi ci sono attività produttive dell’economia
sommersa che non vengono rilevate dalle statistiche ufficiali (attività lecite non dichiarate, attività illecite come
vendita di droga e prostituzione, attività delle casalinghe e autoproduzione), altre difficoltà nelle rivelazioni
statistiche. 2) È difficile fare confronti in un’unica valuta perché il potere di acquisto di un dollaro in un
determinato paese è diverso da quello che avrebbe in un altro paese e si cerca di risolvere questo problema con il
dollaro PPP (purchasing power parity) che però è molto complesso da costruire dato che bisogna prendere in
considerazione un esteso paniere di beni per elaborarlo. 3) Inoltre, non cattura la variazione qualitativa della
produzione, ma solo la variazione quantitativa (la qualità di un prodotto potrebbe aumentare da un anno all’altro,
e in conseguenza a ciò il suo prezzo e il beneficio che i compratori ne trarrebbero potrebbe variare, ma tutto ciò
non viene preso in considerazione dal PIL. 4) Mi permette di fare confronti sono nel breve periodo, appunto
perché non prende in considerazioni le variazioni qualitative e tecnologiche. 5) Non dà informazioni su come il
reddito o prodotto venga distribuito tra la popolazione.

2. Sviluppo come mutamento strutturale

Secondo questo approccio lo sviluppo si verifica quando la struttura soprattutto economica di un paese, nazione o
regione del mondo subisce dei cambiamenti. Questa nuova visione prende in considerazione differenti fattori della
struttura economica che ci informano sul livello di sviluppo di un paese: 1. la composizione della produzione (da quale
settore proviene prevalentemente la produzione: agricoltura, industria o servizi); 2. le tecniche (arretrate o avanzate-
livello di tecnologia) e organizzazione della produzione (come vengono organizzati i processi, le risorse); 3. la
distribuzione dei prodotti (grande distribuzione organizzata, pochi grandi canali distributivi, tanti piccoli canali
distributivi sparpagliati); 4. il ruolo dei soggetti economici che contribuiscono alla produzione (multinazionali, piccole
imprese, soggetti no profit, ruolo dello stato); 5. il ruolo dei soggetti sociali (offrono dei servizi che possono essere
anche misurati economicamente e creano elementi di circolarità virtuosa); 6. il ruolo dei soggetti istituzionali (sia
istituzioni pubbliche che istituzioni informali come la famiglia); 7. il comportamento di tutti questi soggetti (che cambia
a seconda del contesto).

Questo approccio ha come modello di riferimento storico la teoria degli stadi dello sviluppo economico di Rostow del
1962, secondo la quale lo sviluppo avviene sempre e avverrà inevitabilmente in tutti i paesi del mondo nello stesso
modo seguendo un percorso composto da 5 stadi: 1. società tradizionale (punto di partenza, società basata
sull’agricoltura di sussistenza); 2. precondizioni per il decollo (qualcuno intuisce i vantaggi dell’attività commerciale e
incomincia a fare scambi commerciali con altre persone, ricavando guadagni dal commercio); 3. il decollo (la
disponibilità di capitale viene investita in attività manifatturiere e per rinforzare le infrastrutture di trasporto e di
comunicazione, generando maggiore produttività e maggiori redditi; 4. la spinta verso la maturità (viene introdotto il
settore bancario che finanzia ulteriormente le attività che diventano sempre più produttive); 5. l’era dei consumi di
massa (la struttura economica è cambiata: diversa composizione del prodotto, diverse tecniche produttive, nuovi
soggetti economici, i prodotti diventano alla portata di tutti).

Questa teoria si basa sul paradigma della modernizzazione secondo il quale fra i Paesi non sviluppati e quelli
sviluppati non ci sono differenze, semplicemente, nei paesi sviluppati, si sono verificate prima le precondizioni per il
decollo. L’unica cosa che li differenzia è la distanza temporale che può essere accorciata attraverso un processo di
imitazione. I paesi non sviluppati devono imitare quelli sviluppati, seguire il loro stesso percorso. Quindi la
modernizzazione è un’evoluzione storica necessaria e che si compirà inevitabilmente, è solo una questione di tempo.
Questa teoria però non riesce a spiegare come mai ancora oggi ci sia un divario così grande in termini di sviluppo tra
paesi ricchi e paesi poveri.

I principali indicatori di riferimento di questo approccio sono: 1. PIL e PNL pro capite (infatti è un’evoluzione
dell’approccio precedente, non un superamento); 2. dotazione dei diversi fattori produttivi (quali solo i fattori
produttivi più utilizzati e in che quantità); 3. quota dei diversi settori nella produzione complessiva; 4. quota dei diversi
settori nell’occupazione complessiva (in quali settori viene impiegata più forza lavoro); 5. composizione delle
esportazioni (a quali settori appartengono le esportazioni del paese).

I meriti di questo approccio sono l’aver messo il reddito in relazione con la trasformazione della struttura economica e
tutti i fattori che la compongono e l’aver collegato lo sviluppo economico al mutamento sociale e istituzionale (avere
introdotto fattori come il ruolo dei soggetti sociali e istituzionali come fattori trainanti dello sviluppo).

I limiti di questo approccio sono: gli stessi limiti dell’approccio precedente essendo il PIL ancora un indicatore
importante in questo approccio (difficoltà di misurazione, difficoltà confronti in un’unica valuta, confronti solo nel
breve periodo, solo variazione quantitativa e non qualitativa); non considera la distribuzione del prodotto/reddito; il
punto di partenza della teoria è troppo appiattito sul modello europeo (contesti come quello africano e asiatico
partono da una società tradizionale molto diversa rispetto a quella europea e hanno seguito percorsi differenti da
quello europeo); l’evoluzione viene descritta come qualcosa di meccanico, automatico e omogeneo che nella realtà
dei fatto non avviene, come dimostra l’esistenza di paesi ancora fortemente arretrati.

3. Lo sviluppo come miglioramento del benessere collettivo e della qualità della vita

Questo nuovo approccio ha come principi cardine il benessere collettivo, prendendo in considerazione dunque la
collettività e gli aspetti distributivi del prodotto che non venivano considerati negli approcci precedenti, e la qualità
della vita, dando maggiore considerazione all’aspetto sociale dello sviluppo. Gli aspetti fondamentali degli approcci
precedenti, crescita del reddito e trasformazione strutturale, non vengono superati, bensì vengono visti come mezzi
per raggiungere altri fini, ovvero il benessere collettivo e la qualità della vita. Misurare questi due elementi è però
molto complesso: la collettività implica la presenza di individui diversi difficili da confrontare, ognuno con la propria
concezione di giustizia, equità e uguaglianza, e con una diversa concezione dello sviluppo.

Per capire cosa sia il benessere e come si raggiunge dobbiamo introdurre il concetto di ottimo paretiano: una
situazione in cui non è possibile, attraverso modificazioni di produzione e scambio, migliorare il benessere di un
individuo senza diminuire quello di un altro. Questo concetto è strettamente legato a quello di efficienza allocativa
delle risorse: si ha efficienza quando si allocano le risorse in modo tale che non posso trovare un altro modo di
distribuirle senza diminuire il benessere di qualcuno. L’efficienza viene misurata in termini di produttività che deriva
dai fattori produttivi, si ha efficienza quando si riesce a produrre un’unità di prodotto al costo minimo possibile,
allocando al meglio i fattori produttivi.

Le condizioni individuate per l’ottimo paretiano sono:

- efficienza tecnica nella produzione (SMSTx = SMSTy). Il saggio marginale di sostituzione tecnica tra i fattori
produttivi nella produzione del bene x è uguale al saggio di sostituzione tecnica tra i fattori produttivi nella produzione
del bene y. Se consideriamo due sole imprese che producono e due soli fattori produttivi (lavoro e capitale). Gli
isoquanti sono le curve sulle quali ci sono le diverse combinazioni di lavoro e capitale con le quali ottengo sempre la
stessa produzione. I due produttori tenderanno a dividersi lavoro e capitale in modo da raggiungere la massima
produzione per entrambi, ovvero dove gli isoquanti dei due soggetti sono tangenti. I punti di tangenza tra gli isoquanti
sono punti di efficienza tecnica nella produzione. L’inclinazione è il saggio marginale di sostituzione tecnica: esso indica
quante unità di lavoro posso rinunciare per utilizzare un’unità in più di capitale mantenendo fissa la produzione.
Quando i processi economici di produzione sono stati svolti in maniera efficiente ci si colloca sulla frontiera delle
possibilità produttive (efficienza economica). Il saggio marginale di trasformazione è l’inclinazione della frontiera delle
possibilità produttive e mi indica la quantità di bene y a cui devo rinunciare per produrre un’unità in più di x.

- efficienza nello scambio (SMS1=SMS2). Il saggio marginale di sostituzione dell’agente 1 è uguale al saggio marginale
di sostituzione dell’agente 2. Ipotizziamo ci siano solo due agenti che si scambiano i beni prodotti. Le curve di
indifferenza mostrano le diverse combinazioni di bene x e y con le quali si ottiene sempre la stessa utilità. I due agenti
tenderanno a dividersi i due bene in modo da raggiungere la massima utilità per entrambi, ovvero dove le curve di
indifferenza dei due agenti sono tangenti. I punti di tangenza tra le curve di indifferenza sono punti di efficienza nello
scambio.

- efficienza complessiva nella composizione del prodotto (SMS1=SMS2=SMT). I due saggi marginali di sostituzione
degli agenti sono uguali al saggio marginale di trasformazione che deriva dall’efficienza tecnica nella produzione.

-> ci sono infiniti punti di equilibrio (sulla grande frontiera delle utilità) che corrispondono all’ottimo paretiano ovvero
all’allocazione efficiente delle risorse

Per individuare tra gli infiniti punti di efficienza quale è il punto di ottimo sociale bisogna introdurre una funzione del
benessere sociale. La funzione del benessere sociale è una funzione di utilità che include le utilità di tutti gli individui,
aggrega le preferenze individuali, maggiore è l’utilità degli individui, maggiore è il benessere sociale. Viene disegnata
sulla base di giudizi di valore sull’equità e la giustizia che una società si dà. La funzione del benessere sociale viene
generalmente elaborata dal governo di un paese (quindi richiede l’intervento dello stato) che dovrebbe rispecchiare la
volontà popolare e rappresentare l’idea di giustizia ed equità che viene condivisa dalla maggioranza, ma nella realtà
dei fatti i governatori hanno spesso inclinazioni personali che a volte tendono a seguire. La funzione del benessere
sociale può in generale essere rappresentata da un sistema di curve di indifferenza decrescenti e concave verso l’alto,
più ci si allontana dall’origine, più il benessere aumenta. Il punto di ottimo sociale è il punto compatibile con la
funzione di benessere più esterna tangente con la grande frontiera delle utilità. Alcuni esempi di funzione di benessere
sociale sono: 1. Benthamiana (è una retta lungo la quale il benessere della società non cambia ed è quindi compatibile
con forti disuguaglianze – una persona può avere un’utilità altissima, mentre l’altra bassissima - è semplicemente la
somma delle due utilità); 2. Egualitaria/Rawlsiana (il livello di benessere dell’intera società corrisponde al benessere
della persona che ha utilità minore, aumentando l’utilità di quest’ultima l’utilità dell’altro rimane uguale); 3. Cobb-
Douglas (è un incrocio tra quella Rawlsiana e quella Benthamiana, a seconda del valore dei parametri può assomigliare
a una o l’altra).

I teoremi dell’economia del benessere individuano le relazioni esistenti tra efficacia, produzione e scambio in
condizioni di concorrenza perfetta. Primo teorema: ogni equilibrio di mercato è un ottimo paretiano, il mercato in
condizioni di concorrenza perfetta se lasciato a se stesso porta all’ottimo paretiano. È una formalizzazione della
proposizione della mano invisibile di Adam Smith. Il mercato garantisce solo l’efficienza paretiana e non porta a una
distribuzione equa, per quello c’è la necessità che intervenga lo stato introducendo una funzione di benessere sociale.

Secondo teorema: se le preferenze di tutti gli agenti sono convesse e la tecnologia non esibisce rendimenti di scala
crescenti, allora ogni allocazione pareto-efficiente è ottenibile come equilibrio di mercato a partire da opportune
dotazioni iniziali di risorse. Questo teorema afferma dunque che esiste separazione tra efficienza ed equità. La
modifica delle dotazioni iniziali di risorse (la ridistribuzione delle risorse) è compito dello Stato che lo fa utilizzando il
sistema fiscale, imponendo tasse ed erogando sussidi in somma fissa (lump sum), il cui valore non dipende da
variabili che modificano il comportamento degli agenti inducendoli a modificare le proprie scelte al margine (non sono
distorsive dei meccanismi di mercato. Es. imposta commisurata al colore degli occhi). Siamo dunque in condizioni di
first best perché si rimane sulla frontiera delle utilità e quindi ancora in efficienza paretiana). Invece tasse e sussidi
non lump sum possono portare a un benessere maggiore pagando però un costo in termini di efficienza (sono
distorsive dei meccanismi di mercato. Es. iva modifica i prezzi relativi dell’equilibrio di concorrenza perfetta). Siamo
dunque in condizioni di second best e si è creato un trade-off tra efficienza ed equità.

Quindi l’intervento dello stato è giustificato: per portare all’ottimo sociale e per risolvere i fallimenti di mercato. Tra
di essi ci sono le esternalità (interazioni tra gli agenti al di fuori del mercato), i beni pubblici, la presenza di monopoli e
le asimmetrie informative. Se compaiono questi fallimenti di mercato i due teoremi dell’economia del benessere non
valgono e viene meno anche l’efficienza paretiana, per questo è previsto l’intervento dello stato sebbene esso
raramente riesca a rimanere in condizioni di first best.

Relazione tra distribuzione del reddito, crescita e sviluppo

La distribuzione funzionale si riferisce a come il reddito nazionale si ripartisce in salari, profitti, rendite e interessi che
sono le remunerazioni dei fattori produttivi. È collegata al fatto che il reddito venga distribuito a diverse classi di
soggetti che svolgono funzioni differenti e che impiegano il reddito a loro disposizione in modo differente.
Storicamente sono state analizzate come classi i proprietari terrieri, i proprietari del capitale e i proprietari del lavoro e
a cosa questi soggetti destinavano il loro reddito. Il reddito dei lavoratori, che era esiguo, veniva destinato all’acquisto
di beni essenziali; il reddito dei proprietari di capitali veniva destinato all’investimento; il reddito dei proprietari
terrieri, che era una rendita, veniva destinato maggiormente all’acquisto di beni non strettamente necessari.

La distribuzione interpersonale si riferisce a come il reddito viene distribuito tra i singoli individui. Essa secondo il
nuovo approccio che vede lo sviluppo come miglioramento del benessere collettivo e della qualità della vita deve
perseguire i fini di equità e giustizia. Gli strumenti utilizzati per misurare la distribuzione interpersonale del reddito
sono la curva di Lorenz e l’indice di Gini.

La curva di Lorenz si costruisce ponendo sull’ascissa il totale della popolazione di un sistema e sull’ordinata il totale del
reddito generato in quel sistema entrambi espressi in percentuale. La popolazione viene poi ordinata in base al
proprio reddito. La diagonale/bisettrice che unisce il punto di origine al punto 100 identifica una situazione di estrema
uguaglianza, una situazione ideale che non si verifica mai nella realtà. Se la curva all’inizio è piatta e poi cresce molto
significa che siamo in una forte situazione di disuguaglianza, il reddito è distribuito in modo non equo perché una
maggioranza della popolazione guadagna poco, mentre una minoranza guadagna tanto.

L’indice di Gini è l’indicatore della curva di Lorenz ed è un numero compreso tra 0 e 1 che si calcola facendo il
rapporto tra l’area b (l’area compresa tra la curva di Lorenz e la diagonale) e l’area a (tutta l’area al di sotto della
diagonale). Tanto più grande è b tanto più l’indice di Gini tenderà ad 1 e ci troveremo dunque in una condizione di
forte disuguaglianza, tanto più piccolo è b (la curva è più vicina alla diagonale) tanto più l’indice di Gini tenderà a 0 e ci
troveremo in una condizione di uguaglianza nella distribuzione del reddito.

La relazione tra distribuzione del reddito, crescita e sviluppo può essere vista da due prospettive: una che vede la
crescita e lo sviluppo come variabili che impattano sulla distribuzione del reddito e un’altra che invece vede la
distribuzione del reddito come variabile che impatta sulla crescita e lo sviluppo.

1. Il primo approccio che vede la crescita e lo sviluppo impattare sulla distribuzione del reddito si basa sulla
teoria del trickle-down o del gocciolamento, secondo la quale in un sistema se si lascia operare il mercato in
maniera libera si raggiunge l’efficienza paretiana e vengono prodotti ricchezza e benessere che nel tempo
goccioleranno su tutta la popolazione. Si è cercato di verificare questa teoria attraverso analisi empiriche
condotte in differenti sistemi economici che hanno portato all’elaborazione della curva di Kuznet. La curva di
Kuznet si costruisce ponendo sull’ascissa il reddito pro capite e sull’ordinata l’indice di Gini. Si è osservato che
nelle prime fasi dello sviluppo l’indice di Gini cresce all’aumentare del reddito pro capite, aumentano quindi
le disuguaglianze nella distribuzione del reddito. Dopo un certo punto però, all’aumentare del reddito pro
capite l’indice di Gini diminuisce, e quindi diminuiscono le disuguaglianze. Sembrerebbe quindi che l’aumento
del reddito nel lungo periodo porti a una distribuzione più egualitaria del reddito, ma ciò che queste analisi
non ci dicono è quale sia la ragione dell’inversione della curva di Kuznet. Essa potrebbe essere infatti
conseguenza dell’intervento dello Stato e non confermare dunque la teoria del trickle-down.

2. Il secondo approccio che vede la distribuzione del reddito come variabile che impatta sulla crescita e lo
sviluppo è stato confermato da numerosi studi empirici condotti su diverse variabili sia sul lato della
domanda che sul lato dell’offerta: consumi (domanda- l’aumento della distribuzione del reddito favorisce
l’aumento dei consumi e quindi della crescita e lo sviluppo), agricoltura (offerta- l’aumento della
distribuzione del reddito favorisce l’aumento dell’efficienza della produzione e quindi della crescita e dello
sviluppo) e capitale umano (offerta- l’aumento della distribuzione del reddito favorisce l’aumento della
formazione e delle competenze- capitale umano- e quindi della crescita e dello sviluppo). Le analisi empiriche
effettuate in diversi sistemi economici mettendo in relazione l’indice di Gini (ascissa) con il tasso di crescita
(ordinata) hanno mostrato che l’Indice di Gini che corrisponde ai tassi di crescita più alta è quello compreso
tra 0,25 e 0,40. Se l’indice di Gini è inferiore a 0,25 ci troviamo in una condizione di forte uguaglianza ma il
tasso di crescita è basso, questo è dovuto all’assenza di incentivi per le persone più competenti a dirigersi
verso professioni più produttive e impegnative perché non remunerate adeguatamente (es. società di stampo
comunista). Se l’indice di Gini è maggiore di 0,4 ci troviamo in una condizione di forte disuguaglianza e i tassi
di crescita sono bassi, questo è dovuto al fatto che le persone incontrano più ostacoli nel cambiare la propria
condizione e non sono motivati a farlo perché richiederebbe sforzi enormi (es. società strutturata in caste).
L’ideale sarebbe dunque organizzare la società in modo che ci siano incentivi per le persone a intraprendere
professioni più produttive perché remunerate adeguatamente e che vengano date loro le possibilità di poter
fare tali scelte. Quindi l’equità non corrisponde a una totale eguaglianza nella distribuzione del reddito.

A partire dagli anni 80 del secolo scorso si verifica un cambio di rotta che punta l’attenzione sopra il tema della
povertà, problema vero di cui preoccuparsi perché è solo risolvendo la povertà che essa potrà prendersi cura del PIL,
come affermò Mahbub Ul Haq, un importante esponente delle Nazioni Unite. Secondo la teoria dei bisogni essenziali
che si afferma in quegli anni lo sviluppo consiste nel soddisfacimento delle condizioni essenziali per la realizzazione del
potenziale di ogni personalità umana. Tra i bisogni essenziali vengono citati: cibo, vestiario, alloggio, acqua, sanità,
istruzione, occupazione, assenza di barriere sociali, partecipazione alla vita civile, libertà di parola, di cittadinanza. I
principali limiti di questa teoria sono la soggettività degli individui che hanno una propria percezione personale del
soddisfacimento di un bisogno, spesso influenzata anche dal contesto in cui vivono, la immaterialità di alcuni bisogni,
che risultano dunque difficili da misurare e le resistenze politiche che le teoria ha incontrato da parte dei paesi
industrializzati (con forti interessi politici nei pvs), ma anche da parte dei pvs stessi (timore che le politiche effettuate
per realizzare i bisogni essenziali fosse un metodo per deviare risorse nei pvs non controllabili, difficoltà di misurazione
dei bisogni, lobby politiche che volevano mantenere status quo e condizione privilegiata).

In questa nuova visione la crescita economica e il possesso di beni e servizi non sono più i fini dello sviluppo, ma i
mezzi per raggiungere altri fini, il benessere collettivo e la qualità della vita che si ottengono con un processo di
espansione della libertà delle persone. Le variabili che incidono sul benessere e sulla qualità della vita sono: 1.
Entitlements (beni sui quali le persone hanno il comando); 2. Capabilities (capacità di convertire gli entitlements); 3.
Functionings (realizzazioni funzionali in cui gli entitlements sono stati convertiti attraverso le capabilities). È necessario
fare una distinzione tra possibilità di scelta (alternative tra stili di consumo, occupazioni) che sono oggettive, alla
portata di tutti e dipendono dal contesto economico e sociale in cui si vive; e le capacità di scelta che sono soggettive
e dipendono dalla salute, dall’istruzione e da altri fattori. Lo scopo del governo non è dunque solo quello di offrire
tante possibilità di scelta, ma anche di aiutare le persone a maturare le capacità di scelta tra le possibilità offerte.

Sono state individuate tre scelte che vengono ritenuti essenziali e senza le quali altre scelte non sarebbero possibili:
1. Possibilità di vivere una vita lunga e sana; 2. Possibilità di acquisire conoscenza; 3. Possibilità di avere accesso alle
risorse necessarie per condurre uno standard di vita dignitoso. Altre possibilità importanti ma non reputate essenziali
sono: libertà politiche, economiche e sociali, opportunità di essere creativi e produttivi, godere del rispetto di se stessi,
diritti umani garantiti.

L’indice di sviluppo umano è l’indicatore di riferimento per definire lo sviluppo di una nazione che viene introdotto nel
1990. Si tratta di un compromesso perché tiene in considerazione solo quelle dimensioni che hanno a che fare con i
tre bisogni considerati essenziali, mentre sceglie deliberatamente di ignorare le tantissime altre dimensioni che
compongono lo sviluppo umano. Infatti, un indicatore per essere efficace deve essere semplice, facilmente costruibile,
sintetico, esplicativo, sensibile agli elementi più importanti. Prende in considerazione tre variabili:

1- Aspettativa di vita-> è l’aspettativa media di vita che un bambino ha nel contesto in cui nasce. Si basa sul
valore intrinseco della longevità che gli viene conferito dalla società (vivere a lungo ha un effetto positivo sul
benessere, abilita a perseguire più obiettivi ed è associata ad altri valori positivi come la salute e
l’alimentazione. Per questo è vista come una misura proxy, ovvero che indica la presenza anche di altri
variabili (salute e alimetazione).
2- Grado di alfabetizzazione di un paese.
3- Livello di reddito adeguato per uno standard di vita dignitoso. Nell’indice di sviluppo umano le stime del PIL
pro capite vengono adeguate al potere di acquisto per poter fare confronti internazionali ovviando alle
differenze nazionali nel potere d’acquisto e all’effetto distorsivo dei tassi di cambio. Inoltre, vengono
trasformate nei loro logaritmi perché ci sono rendimenti decrescenti nella conversione del reddito nel
soddisfacimento dei bisogni umani (all’aumentare del reddito il benessere/utilità che ricavo dalla conversione
del reddito in soddisfacimento dei miei bisogni cresce meno che proporzionalmente).

Per ogni variabile sono stati specificati un valore minimo (valori nazionali più bassi del 1987 per ogni indicatore) e un
valore desiderabile o adeguato:

1- Valore minimo: 41,8 anni (Afghanistan, Etiopia, Sierra Leone) - Valore desiderabile: 78,4 (Giappone).
2- Valore minimo: 12,3% (Somalia) – Valore desiderabile: 100%
3- Valore minimo: $ 220 (Zaire) – Valore desiderabile: $ 4861 (media delle soglie di povertà di 9 paesi
industrializzati: Australia, Canada, Repubblica Federale Tedesca, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno
Unito, Stati Uniti).

Come si calcola l’indice di sviluppo umano:

 si calcolano le misure di deprivazione per ogni variabile:


Valore massimo – valore nazionale / Valore massimo – valore minimo = numero compreso tra 0 e 1.
 Indicatore di deprivazione medio: si calcola facendo la media delle misure di deprivazione ottenute per ogni
variabile.
 1 – indice di deprivazione medio

Un problema che non permette di perfezionare le misure di questo indice è l’assenza di dati comparabili adeguati,
diventa difficile dunque effettuare confronti. Un altro limite è che ci dà poche informazioni sulla capability in alcuni
settori (sanità, istruzione, ambiente, accesso alle informazioni, partecipazione alla vita culturale, sociale, economica e
politica) e soprattutto nella social capability (giustizia sociale, disponibilità di beni pubblici, cooperazione e azione
collettiva). Viene dunque considerata una misura rozza. Inoltre, dato che il livello del reddito (PIL pro capite) è una
delle variabili prese in considerazione dall’indice di sviluppo umano, si è notato che le graduatorie delle nazioni
ordinate per indice di sviluppo umano erano molto simili a quelle ordinate per PIL pro capite. Ciò ha creato dibattito e
molti hanno ribadito la necessità di includere nuove variabili che rendano l’indice più rappresentativo di tutte le
sfaccettature dello sviluppo umano.

Il primo decennio di rapporti delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano (1990-1999) si caratterizza per l’avere
indagato le diverse sfaccettature dello sviluppo umano, spesso relazionandolo a diversi temi come: genere, crescita
economica, sicurezza, consumo, povertà, globalizzazione etc.

Nel 2000 le Nazioni Unite redigono la Dichiarazione del Millennio con lo scopo di promuovere e sostenere la dignità
umana, l’uguaglianza e l’equità a livello globale. Si articola in 8 obiettivi (MDGs) da raggiungere entro il 2015:

1- Sradicare la povertà estrema e la fame


2- Raggiungere l’educazione primaria a livello mondiale
3- Promuovere uguaglianza di genere ed emancipazione delle donne
4- Ridurre la mortalità infantile
5- Migliorare la salute materna
6- Combattere aids, malaria e altre malattie
7- Assicurare la sostenibilità ambientale
8- Partenariato globale per lo sviluppo (collaborazioni tra nazioni)

Nel 2015 è stato pubblicato il rapporto sugli obiettivi di sviluppo del Millennio che rappresenta il bilancio degli sforzi
per il miglioramento della condizione umana a livello mondiale dal 2000 al 2015. Risultati negli 8 obiettivi:

1- Drastico calo della percentuale delle persone in estrema povertà, aumento classe lavoratrice con disponibilità
di più di 4 dollari, riduzione delle persone denutrite.
2- Aumento del tasso netto di iscrizioni alla scuola primaria soprattutto in Africa Subsahariana, riduzione del
divario tra maschi e femmine nel tasso di alfabetizzazione.
3- Aumento delle ragazze scolarizzate, eliminazione nei pvs del divario di genere nell’istruzione primaria,
secondaria e terziaria (in Asia 103 bambine per ogni 100 bambini iscritti), aumento della percentuale delle
donne tra i lavoratori salariati non impiegati nell’agricoltura (da 35% a 41%), diminuzione di donne impiegate
in lavoro a rischio, aumento delle donne in parlamento nel 90% del mondo anche se ancora oggi 1/5
parlamentari è donna.
4- Riduzione della mortalità infantile soprattutto in Africa subsahariana, merito anche della vaccinazione contro
il morbillo.
5- Miglioramento della salute materna e diminuzione del tasso di mortalità materno con grandi risultati in Asia
meridionale e Africa Subsahariana grazie a aumento di assistenza di personale sanitario alla nascita, visite
prenatali, incentivo all’uso dei contraccettivi.
6- Riduzione del tasso di mortalità legato a queste malattie grazie a terapia antiretrovirale per l’aids, zanzariere
trattate con insetticidi per la malaria, prevenzione, diagnosi e cura per la tubercolosi.
7- Eliminazione virtuale delle sostanze suscettibili di esaurire l’ozono atmosferico, aumento aree protette
terrestri e marine, miglioramento accesso a fonti idriche, a acqua potabile, dotazione di acquedotti, servizi
igienici e fognature, diminuzione popolazione urbana residente nei bassi fondi.
8- Aumento degli aiuti allo sviluppo (Danimarca, Lussemburgo, Norvegia, Svezia e Regno Unito sopra lo 0,7 del
RNL), ammissione senza dazi doganali delle esportazioni dei pvs, aumento abbonamenti a telefoni cellulari,
aumento penetrazione rete internet.

I rapporti delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano dal 2000 al 2020 affiancano allo sviluppo umano temi come: diritti
umani, nuove tecnologie, democrazia, povertà, libertà culturale, cooperazione internazionale, crisi globale dell’acqua,
mobilità umana, sostenibilità, the rise of the South, resilienza, lavoro, aggiornamento statistico nel 2018,
disuguaglianza, impatto ambientale 2020-> nuovo indice che tiene conto delle emissioni di CO2 per misurare lo
sviluppo, relazione tra indice di sviluppo umano elevato e forte impatto sul pianeta, - es. Panama, Costa Rica e
Moldavia- cambiamento climatico, perdita della biodiversità.

Nel 2015, al termine della fase degli obiettivi del Millennio, è stata adottata dalle Nazioni Unite l’Agenda 2030 per lo
Sviluppo sostenibile che prevede 17 obiettivi da raggiungere entro il 2030. La sostenibilità acquisisce un’importanza
sempre maggiore.

1- Sconfiggere la povertà
2- Sconfiggere la fame
3- Salute e benessere
4- Istruzione di qualità
5- Parità di genere
6- Acqua pulita e servizi igienico-sanitari
7- Energia pulita e accessibile
8- Lavoro dignitoso e crescita economica
9- Imprese, innovazione e infrastrutture
10- Ridurre le disuguaglianze
11- Città e comunità sostenibili
12- Consumo e produzione responsabili
13- Lotta contro il cambiamento climatico
14- Vita sott’acqua
15- Vita sulla terra
16- Pace, giustizia e istituzioni solide
17- Partnership per gli obiettivi

Io ho deciso di approfondire il 5° obiettivo, la parità di genere, nei suoi sotto-obiettivi:

1- Porre fine ovunque a ogni forma di discriminazione nei confronti di donne e ragazze.
2- Eliminare ogni forma di violenza nei confronti di donne e bambine, sia nella sfera privata che in quella
pubblica, compreso il traffico di donne e lo sfruttamento sessuale e di altro tipo.
3- Eliminare ogni pratica abusiva come il matrimonio combinato, il fenomeno delle spose bambine e le
mutilazioni genitali femminili.
4- Riconoscere e valorizzare la cura e il lavoro domestico non retribuito, fornendo un servizio pubblico,
infrastrutture e politiche di protezione sociale, promozione di responsabilità condivise all’interno della
famiglia, conformemente agli standard nazionali.
5- Garantire piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership ad ogni livello
decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica.
6- Garantire accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti in ambito riproduttivo.
7- Avviare riforme per dare alle donne uguali diritti di accesso alle risorse economiche, alla titolarità e al
controllo della terra e altre forme di proprietà, ai servizi finanziari, eredità e risorse naturali.
8- Rafforzare l’utilizzo di tecnologie abilitanti, in particolare le tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, per promuovere l’emancipazione della donna.
9- Adottare e intensificare una politica sana ed una legislazione applicabile per la promozione della parità di
genere e l’emancipazione di tutte le donne a tutti i livelli.

Nel 2018 è stato pubblicato l’aggiornamento statistico degli indici e indicatori di sviluppo umano. Il grafico che
appare nella copertina del rapporto è un grafico a torta suddiviso in 4 categorie di sviluppo umano (basso, medio,
elevato e molto elevato) e mostra che la popolazione a basso sviluppo umano è sceso da 3 miliardi a circa 900 milioni
e che la popolazione a elevato e molto elevato sviluppo umano è passato da 1 miliardo a quasi 4 miliardi. In questo
rapporto vengono illustrati diversi indicatori: oltre all’indice di sviluppo umano, vi sono l’indice di sviluppo umano
adeguato alla disuguaglianza, l’indice di sviluppo di genere (fa la distinzione di genere nel misurare le stesse variabili
dell’indice di sviluppo umano), l’indice di disuguaglianza di genere (misura lo svantaggio di genere in 3 dimensioni –
salute riproduttiva, emancipazione e mercato del lavoro), l’indice di povertà multidimensionale (indica il numero di
persone multidimensionalmente povere sulla base di 10 indicatori compresi nella salute, educazione e standard di
vita).

Il Sustainable Development Goals Index and Dashboard Report è lo studio globale di maggiore rilievo sullo stato di
avanzamento di ciascun Paese rispetto agli obiettivi di sviluppo sostenibile. Quello del 2019 affermava che la
situazione fosse critica in quanto nessuno Stato era sulla buona strada per raggiungere tutti e 17 gli obiettivi. Anche
nelle nazioni più sviluppate infatti c’erano lacune soprattutto in termini di consumo e produzione responsabile, lotta
contro il cambiamento climatico, vita sott’acqua e vita sulla terra. Nei pvs invece sono ancora problemi di grandi
proporzioni: le disuguaglianze di reddito, la salute e l’istruzione. L’Italia si trova al 30esimo posto su 162 nella classifica
mondiale. Solo 162 paesi su 208 offrono dati confrontabili.
Annualmente in Italia viene prodotto un Rapporto sui Sustainable Development Goals dall’Istat (istituto nazionale di
statistica) che ha il compito di produrre nuovi indicatori per la misurazione dello sviluppo sostenibile e per il
monitoraggio dei suoi obiettivi in Italia, quindi raccoglie dati e informazioni statistiche sull’Italia e produce indicatori
specifici per il contesto nazionale. Per es. per l’obiettivo n°1 (sconfiggere la povertà) è stato introdotto l’indicatore di
povertà o esclusione sociale e multidimensionale le cui variabili sono povertà di reddito, deprivazione materiale, bassa
intensità lavorativa. Io ho deciso di analizzare l’avanzamento del Goal 5 in Italia come descritto da questo rapporto:
diminuisce la violenza contro le donne, ma ne aumenta la gravità e rimane stabile la violenza estrema; il divario di
genere è ampio, pur se in diminuzione nel lavoro domestico e di cura non retribuiti; riguardo alle donne nei luoghi
decisionali, economici e politici, emergono segnali positivi, ma la presenza resta bassa; per quanto riguarda la salute
sessuale e riproduttiva delle donne e i diritti riproduttivi, è in continuo calo il tasso di abortività volontaria; permane lo
svantaggio di genere nell’utilizzo delle tecnologie digitali tra le donne anziane.

Ogni anno viene anche pubblicato il Rapporto Asvis (alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) che fornisce un
quadro delle iniziative messe in campo nel mondo, in Europa e in Italia a favore dello sviluppo sostenibile, valuta le
politiche realizzate nell’ultimo anno e fa proposte per attuare più velocemente gli obiettivi dell’Agenda 2030. Il
percorso verso uno sviluppo sostenibile sta avvenendo con una velocità e un’intensità insufficienti e il quadro globale
è peggiore, con tensioni e conflitti crescenti. peggiora in alcuni campi (povertà, alimentazione e agricoltura sostenibili,
acqua e strutture igienico-sanitarie, sistema energetico, condizione dei mari ed ecosistemi terrestri); o è stabile per
l’educazione e la lotta al cambiamento climatico; o migliora in altri (salute, uguaglianza di genere, condizione
economica e occupazionale, innovazione, disuguaglianze, condizioni delle città, modelli sostenibili di produzione e
consumo, qualità della governance e cooperazione internazionale). A livello comunale, per promuovere lo sviluppo
sostenibile è stato pubblicato il Manifesto di Milano, mentre a livello nazionale con il governo di Conte sono stati presi
impegni in termini di carbon neutrality e di agenda urbana per lo sviluppo sostenibile (importanza delle città).

Anche il programma politico della Nuova Commissione Europea ha subito una svolta verso lo sviluppo sostenibile
perché vede come obiettivo principale il Green deal: un processo di transizione energetica, sostituzione di energie che
producono carbonio con fonti di energia rinnovabile da raggiungere entro il 2027.

Le cause di natura storica del sottosviluppo

Il termine “sottosviluppo”, contrapposto a quello di “sviluppo” si è diffuso a partire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale, me il concetto di “sottosviluppo” era già stato affrontato nel corso della storia. Infatti, sin dalla scoperta
dell’America e dai primi contatti con gli indigeni, gli europei avevano definito la loro cultura arretrata rispetto a quella
dei paesi occidentali. Anche la teoria degli stadi di Rostow prevedeva una visione fortemente eurocentrica che vedeva
i paesi occidentali più avanzati e da prendere come unico modello praticabile da parte delle civiltà considerate
sottosviluppate. Tuttavia, questa teoria non riusciva a spiegare come potessero esistere società con diverso livello di
sviluppo nello stesso momento storico. Per lungo tempo le principali motivazioni ritenute all’origine del
sottosviluppo furono le differenze razziali (discusse da de Gobineaux nel suo saggio sulla disuguaglianza delle razze
umane del 1853) e il clima, ma questi fattori da soli non erano sufficienti a spiegare il divario economico, sociale e
culturale esistente tra le diverse regioni del pianeta. Infatti, le cause del sottosviluppo sono di natura
prevalentemente storica.

Per questo motivo, per poter comprendere da cosa derivino le differenze a livello globale in termini di divario, è
necessario analizzare gli eventi storici, in primis il processo di colonizzazione. Infatti, quasi tutte le ex-colonie ancora
oggi rispecchiano le strutture organizzative, istituzionali e sociali della madre patria che li aveva colonizzati: per es.
Portogallo e Spagna hanno trasferito il loro sistema di tipo para-feudale nelle loro colonie, mentre Inghilterra, Olanda
e Francia trasferirono il loro sistema di tipo capitalistico-mercantile nelle proprie.

Un altro evento storico importante che ha influito sull’ampliamento del divario tra paesi ricchi e poveri è stato il
processo di industrializzazione occidentale e l’affermarsi del modello di produzione capitalistico. Questi due
condizioni hanno portato alla formazione di una struttura gerarchica nel mondo che vedeva al centro i paesi
colonizzatori (in primis Inghilterra) e in una posizione periferica le colonie che venivano depauperate per rifornire di
materie prime a basso costo le industrie europee. Con la seconda rivoluzione industriale Stati Uniti e Germania
diventarono le maggiori potenze economiche del mondo. Infine, con la fine della Seconda Guerra Mondiale il mondo
si è diviso in due sistemi economici: quello capitalista e quello sovietico comunista.
Con gli accordi di Bretton Woods del 1944 il dollaro statunitense viene dichiarato convertibile in oro e scambiabile a
tasso fisso con le valute degli Stati che hanno aderito agli accorsi, trasformandosi nel mezzo di pagamento
universalmente accettato e dalla cui stabilità dipende quella dei mercati finanziari internazionali. Gli stati Uniti giocano
sempre di più un ruolo decisivo nell’economia mondiale, e quest’ultima è sempre più interconnessa, come dimostra la
nascita di organizzazioni internazionali e di accordi multilaterali:

 Fondo monetario internazionale -> assicurare la stabilità monetaria


 Banca Mondiale -> ricostruire l’Europa e incentivare lo sviluppo dei Pvs
 Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio -> promuovere la liberalizzazione degli scambi

Inizia in questi anni il processo di decolonizzazione, promosso dalle Nazioni Unite, che viene seguito dall’introduzione
di programmi di industrializzazione che però non portarono a una significativa crescita economica e sviluppo a causa
degli ostacoli di tipo politico, economico e sociale lasciati in eredità dai paesi colonizzatori.

Per gli stati occidentali invece il secondo dopoguerra rappresentò un periodo di grande espansione economica,
favorita dal basso costo delle materie prime, in primis il petrolio, la cui domanda aumentò favorendo la crescita anche
nei paesi periferici, ma creando allo stesso tempo le premesse per la crisi economica degli anni 70. Nel 1971 venne
eliminata la convertibilità del dollaro in oro e il sistema a tassi fissi viene sostituito con uno a tassi variabili quindi il
valore relativo del dollaro cambia rispetto alle altre monete. Nel 1974 si verificò la prima crisi petrolifera a causa
dell’aumento del prezzo del petrolio arrestando la crescita economica dei paesi occidentali. Intanto gli stati produttori
di petrolio, confidando in una sempre maggiore domanda di petrolio, si lanciano in grandi progetti. I paesi con
economie deboli chiedono enormi prestiti alle banche europee e statunitensi per saldare il debito interno
approfittando dei tassi di interesse bassi. Nel 1979 si verifica il secondo shock petrolifero che induce Inghilterra e Stati
Uniti a adottare politiche che causano l’aumento dei tassi di interesse e molti stati si ritrovano insolventi con debiti
esteri enormi (Messico, Brasile e Argentina). In pochi anni più di 40 stati si rivolgono alle istituzioni internazionali per
rinegoziare o cancellare il loro debito.

Negli anni del dopoguerra le politiche erano di forte impronta keynesiana: lo sviluppo era stato favorito attraverso
forti investimenti da parte dello Stato che aveva introdotto politiche fiscali espansive in modo che la domanda
trainasse l’offerta. Negli anni 80 e 90 si affermano invece i principi neoclassici che vanno contro l’intervento dello
Stato e sono invece a favore della liberalizzazione economica, della deregolamentazione, della privatizzazione delle
imprese pubbliche e della diminuzione della pressione fiscale e della spesa per i servizi pubblici. Questi principi sono
anche alla base dei programmi di aggiustamento strutturale a cui paesi sottosviluppati devono aderire per accedere a
prestiti internazionali.

Nel 1989 la caduta dell’Unione Sovietica segna la fine del progetto socialista e il consolidamento degli Stati Uniti come
potenza economica predominante. Oggi però si stanno affermando sempre di più centri di potere non statali, prime
tra tutte le imprese multinazionali.

Terminologia del sottosviluppo

Il termine “Terzo Mondo” venne introdotto nel 1955 in seno alla Conferenza afroasiatica di Bandung (Indonesia) per
indicare tutti i paesi che sperimentavano una condizione di arretratezza economica e sociale, contrapposti al “Primo
Mondo”, ovvero gli stati sviluppati del blocco occidentale e al “Secondo Mondo”, gli stati socialisti del blocco sotto
l’influenza dell’Unione Sovietica. Alla fine degli anni 80 viene introdotta l’espressione “Quarto Mondo” per indicare gli
stati più indigenti del pianeta dove si vive con un reddito pro-capite inferiore a 1 dollaro al giorno, cioè sotto il livello di
sopravvivenza. Viene introdotto per differenziare questi paesi estremamente poveri dalle “tigri asiatiche” (Taiwan,
Singapore, Hong Kong e Corea del Sud), inizialmente sottosviluppati ma con ora un alto livello di crescita.

Inoltre, ancora oggi si distingue tra “Paesi in via di sviluppo” dove il processo di sviluppo era stato effettivamente
avviato (Asia e America latina) e “Paesi sottosviluppati” (Africa Subsahariana) che presentavano una serie di
caratteristiche ben definite:

1. Basso livello di reddito come definito dalla Banca Mondiale (inferiore ai $995 pro capite).
2. Elevati livelli di povertà assoluta ovvero elevata percentuale di popolazione che vive al di sotto della linea di
povertà.
3. Difficoltà di soddisfacimento dei bisogni essenziali.
4. Prevalenza del settore primario nella composizione della produzione.
5. Disuguaglianza nella distribuzione del reddito.
6. Carenza di risorse finanziarie (carenza di risparmio interno e incapacità di attirare risorse finanziarie estere)
7. Elevata crescita demografica.
8. Fragilità del contesto macroeconomico (tasso di crescita reale del PIL, determinanti della domanda
aggregata: spesa per consumo, spesa per investimenti, spesa pubblica, esportazioni nette; determinanti
dell’offerta aggregata: prezzi dei fattori produttivi, produttività, contesto legale istituzionale- se è in grado di
controllare l’inflazione).
9. Fragilità delle istituzioni politiche, amministrative e di mercato.
10. Cattivo funzionamento dell’amministrazione giudiziaria.

Economia dello sviluppo

La povertà e il divario tra ricchi e poveri sono problemi politici che sono sempre stati affrontati nel corso della storia:
per es. già nell’antica Roma una parte delle entrate del sistema tributario era destinata al mantenimento della plebe,
Inghilterra del ‘700 cercava di tutelare i ceti più poveri, nella Germania Bismarckiana si attuavano politiche sociali,
infine tutte le grandi religioni prevedono il concetto di solidarietà che corrisponde al dovere morale di aiutare i
soggetti più bisognosi. Quindi, sebbene l’economia dello sviluppo si sia affermata come disciplina autonoma solo
dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto con il processo di decolonizzazione che aveva accentuato il
divario tra paesi ricchi e paesi poveri, i problemi inerenti allo sviluppo erano già stati presi in considerazione anche
dagli economisti precedenti.

Gli economisti classici concentrarono la propria analisi sui meccanismi di produzione, incremento e distribuzione della
ricchezza delle nazioni partendo da due presupposti: la società era divisa in classi (quindi l’oggetto di studio per loro
erano le classi o le categorie economiche di appartenenza) e il contesto storico, sociale ed istituzionale sono
strettamente collegati a quello economico.

 Adam Smith, economista scozzese che operò nel ‘700 e considerato fondatore della disciplina economica,
basava la propria visione sulla divisione del lavoro in due categorie: produttivo e improduttivo. Il lavoro
produttivo era il lavoro manifatturiero in quanto conferiva valore aggiuntivo alla materia su cui veniva
applicato, mentre altri tipi di lavoro svolto da prestatori come domestici, impiegati pubblici e professionisti
veniva considerato improduttivo in quanto non si fissava su un oggetto, ma costituiva un servizio. In questa
visione dunque gli imprenditori capitalisti assumono un ruolo importante in quanto, dopo aver soddisfatto i
propri bisogni economici, investono il capitale risparmiato/sovrappiù in nuove attività che necessitano di
nuovi lavoratori produttivi, innescando così un processo di crescita. Smith identifica la ricchezza di un paese
con il suo PIL pro capite e individua come fattori di crescita: l’impiego del capitale risparmiato
nell’occupazione di lavoratori produttivi, il capitale umano e il progresso tecnico. Nel suo scritto “indagine
sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni” del 1776 afferma che l’ampliamento del mercato
nazionale porterà ricchezza e sviluppo anche nei paesi precedentemente sfruttati dai paesi europei (visione
ottimistica). Egli, pur essendo un sostenitore del libero mercato, sostiene l’intervento dello stato quando
necessario per promuovere il processo di sviluppo.
 Malthus scrisse nel 1798 “saggio sul principio della popolazione” nel quale illustra una visione più
pessimistica: gli imprenditori accumulano capitale e fanno investimenti che inizialmente generano una
crescita della produzione che fa aumentare la domanda di lavoro e di conseguenza i salari. La maggiore
disponibilità economica dei lavoratori porta a una crescita demografica che fa aumentare il prezzo dei beni
necessari e diminuire quindi il potere d’acquisto reale dei salari (il salario reale che tiene conto delle
variazioni di prezzo diminuisce). La popolazione aumenta più rapidamente dei mezzi di sussistenza generando
un eccesso di domanda rispetto all’offerta. Malthus propone come soluzione la limitazione volontaria delle
nascite, specialmente tra i poveri.
 Ricardo invece introduce il problema della distribuzione del reddito tra capitalisti, lavoratori e proprietari
terrieri. Anche per Ricardo la crescita dipende dall’accumulazione del capitale che è determinata dal livello di
profitto dei capitalisti e delle incidenze delle imposte su di esso (il profitto deve essere alto per poter avere
più capitale da investire e ci dovrebbero essere poche imposte perché fanno diminuire il profitto, infatti egli è
contro i dazi posti sui beni agricoli). Dato che il profitto è il reddito totale, meno le rendite e i salari, egli
identifica un problema nella messa a coltura di terre sempre meno fertili che fa aumentare le rendite dei
proprietari terrieri e diminuire invece il profitto dei capitalisti, facendo diminuire il capitale a loro disposizione
per gli investimenti che porterebbero maggiore produttività e maggiore accumulazione di capitale. Quindi
anche per Ricardo l’accumulazione di capitale è il fattore determinante per la crescita.
 Marx invece focalizza la propria analisi sulla modalità di produzione che stava cambiando l’intera
organizzazione della società e dell’economia ai suoi tempi: il sistema capitalistico. In esso si distinguono
principalmente due classi: i capitalisti industriali, che detengono i mezzi di produzione, e i proletari che
dispongono solo della loro forza-lavoro. Tra queste due classi si è instaurata una relazione di sfruttamento dei
proletari da parte dei capitalisti industriali, quindi la ricchezza è determinata da questo sfruttamento. Tra i
fattori di crescita nel sistema capitalistico egli indica: il progresso scientifico, la moneta e il commercio
internazionale. Egli è inoltre consapevole del divario tra paesi ricchi e paesi poveri ma vede il colonialismo
come un passaggio necessario per la crescita economica perché permette di introdurre tecniche più avanzate
e produttive nelle civiltà arretrate.

Alla fine dell’800 si affermano gli economisti neoclassici, che danno meno rilievo alle tematiche legate allo sviluppo, e
si caratterizzano per alcuni tratti: individualismo metodologico (convinzione che i fenomeni economici siano sempre
riconducibili alle scelte degli individui); convinzione che il valore di un prodotto dipenda sia dai costi di produzione che
dall’utilità marginale attribuitagli dai consumatori.

Schumpeter invece si discosta dagli economisti neoclassici per l’interesse nel tema dello sviluppo tanto da dedicarvi
anche un’opera (“teoria dello sviluppo economico”) in cui egli afferma che lo sviluppo non sia semplice crescita
economica, ma una trasformazione profonda di tutto il sistema. Inoltre, identifica delle figure importanti per lo
sviluppo: quella del produttore-innovatore che introduce innovazioni tecnologiche nel processo produttivo e quella
del banchiere che selezionale tra tutte le richieste di finanziamenti quelle che porterebbero secondo a innovazioni
migliori.

Anche per Keynes gli investimenti giocano un ruolo importante per la crescita del reddito nazionale e infatti saranno
utilizzati per innescare il processo di sviluppo anche nei paesi arretrati. Egli afferma l’importanza dell’intervento dello
stato e delle politiche macroeconomiche e le sue teorie verranno applicate soprattutto nel secondo dopoguerra con
forti investimenti da parte dello stato e politiche fiscali espansive (taglio delle imposte o aumento della spesa
pubblica) per fare in modo che la domanda aggregate trainasse l’offerta aggregata.

Gli effetti delle teorie economiche dello sviluppo

Gli interventi di politica economica, resi necessari dall’ampliamento del divario tra pesi ricchi e paesi poveri alla fine
della Seconda Guerra Mondiale, sono influenzati dalle teorie dello sviluppo che a loro volta sono influenzate da diversi
aspetti storici, politici e culturale. Studiare gli effetti delle teorie economiche dello sviluppo diventa importante per
capire il loro impatto, se sono efficienti per innescare il processo di crescita e di sviluppo oppure se necessitano di
modifiche o correzioni.

Le teorie dello sviluppo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale seguono 5 diversi approcci:

1- Paradigma della crescita lineare: prevalente negli anni 50 e 60, gli economisti in questo approccio non
elaborano nessun apparato concettuale per proporre formule che inneschino il processo di sviluppo a
crescita, ma prendono semplicemente come modello l’esperienza positiva del Piano di Marshall avviata nei
paesi occidentali alla fine del conflitto e affermano che possa essere applicato anche ad altre regioni del
mondo supportato da forti investimenti stranieri. Questo approccio vede lo sviluppo come rapida crescita
economica ed è supportato dal modello della crescita di Harrod e Domar. Nel loro modello i due economisti
affermano che un sistema economico ha bisogno di investimenti i quali derivano dal risparmio, la parte di
reddito non destinata al consumo. Il tasso di crescita del Prodotto Nazionale Lordo dipende sia dal risparmio
(a cui è direttamente proporzionale) che dalla produttività degli investimenti, ovvero il rapporto
prodotto/capitale (a cui è inversamente proporzionale). Inoltre, il tasso di crescita del PNL è anche uguale alla
somma tra il tasso di crescita della popolazione attiva e il tasso di crescita della produttività del lavoro.
Quindi perché il sistema continui a crescere deve verificarsi una situazione in cui domanda e offerta di beni
sono uguali alla domanda e offerta di lavoro (equilibrio di piena occupazione). Tuttavia, non esiste un
meccanismo che possa assicurare questa uguaglianza e se ci si allontana da essa non esiste un metodo per
riportare il sistema a questa situazione. Questo modello è stato applicato in diversi paesi sottosviluppati del
mondo dalla Banca Mondiale ma non ha portato ad esiti particolarmente positivi perché risparmio e
investimenti sono condizioni necessarie ma non sufficienti a innescare una crescita economica.

2- Paradigma della crescita/trasformazione strutturale: prevalente negli anni 70 tiene conto dei cambiamenti
strutturali che caratterizzano il passaggio da un’economia di sussistenza a un sistema economico sociale
moderno basato sulla maggiore incidenza dell’industria e dei servizi e caratterizzato da una rapida
urbanizzazione. Esso si basa sul modello teorico di Lewis secondo il quale i paesi sottosviluppati si
caratterizzano per la presenza di una struttura economica dualistica basata su due settori: un settore
tradizionale basato su un’agricoltura di sussistenza e un settore moderno industriale. Il settore moderno
aumenta la propria produzione grazie agli investimenti e all’accumulazione di capitale/risparmio che
derivano dall’aumento del profitto. Dato che il lavoro nel settore moderno ha una produttività più elevata la
domanda di lavoro aumenterà e i lavoratori del settore tradizionale si sposteranno verso il settore moderno
fino a quando la produttività marginale eguaglierà il salario. La differenza tra produttività e salario, ovvero il
profitto, sarà ancora investita dagli imprenditori innescando un processo di crescita che avrà allo stesso
tempo provocato un mutamento nella struttura economica (da tradizionale a industriale). Questo modello
descrive bene il percorso dei paesi europei, ma non prende in considerazione le condizioni attuali dei pvs
(sono ormai parte di un sistema economico internazionale e interconnesso) e per questo viene criticato da
economisti più recenti. Essi considerano l’aumento dei risparmi investiti una condizione necessaria, ma non
sufficiente per la crescita economica e individuano altri cambiamenti necessari nella struttura economica
per la crescita: cambiamento dei modi di produzione, miglioramento condizioni di accesso al mercato
internazionale, diversificazione della domanda, riduzione demografica e diversa distribuzione della
popolazione, superamento di ostacoli interni (politiche scorrette) ed esterni (vincoli che limitano accesso a
risorse, capitali, tecnologie) che bloccano le possibilità di crescita.

3- Paradigma sulle teorie della dipendenza: si diffonde a partire dagli anni 70 ed è sostenuto soprattutto da
economisti provenienti dai pvs che identificano la causa del sottosviluppo nelle relazioni di potere: i paesi
sottosviluppati si caratterizzano per una forte rigidità di tipo istituzionale, politico ed economica e da un
rapporto di sudditanza e dipendenza dai paesi sviluppati. Rifiutano i modelli e le teorie precedenti.
Sostengono che il modo per innescare lo sviluppo e la crescita sia attraverso riforme di tipo politico,
economico ed istituzionale a livello nazionale e internazionale. Ci sono tre principali linee di pensiero in
questo approccio: 1. Il modello della dipendenza neo-coloniale: il sottosviluppo è frutto dell’evoluzione
storica e il divario tra paesi ricchi e poveri della diffusione del sistema capitalistico. il sistema capitalistico ha
portato alla formazione nei pvs di elites locali (costituite da proprietari terrieri, imprenditori, militari etc.) che
vogliono conservare lo status quo da cui traggono benefici e per questo bloccano ogni tentativo di riforma
volta a rendere i pvs autosufficienti e indipendenti. I sostenitori di questo approccio ritengono che il
sottosviluppo sia indotto dall’esterno e vede come unica soluzione per la libertà dei pvs una ristrutturazione
profonda del sistema capitalistico. 2. Il modello del falso paradigma: bisogna tenere conto delle istituzioni
tradizionali che caratterizzano le realtà sottosviluppate (per es. divisione in tribù, caste e clan) e la formazione
acquisita nelle università occidentali dagli economisti e intellettuali non può essere applicata in tali realtà. Il
sottosviluppo è dunque causato dall’inadeguatezza dei programmi di aiuto allo sviluppo concepiti da persone
con un punto di vista occidentale. 3. Tesi dello sviluppo non dualistico: i sostenitori di questo approccio
affermano che il mondo sia caratterizzato da un dualismo di fondo non superabile. Il mondo è diviso tra paesi
ricchi e paesi poveri e anche nel contesto nazionale c’è un divario tra ricchezza e povertà. Secondo questi
economisti è difficile che i paesi più sviluppati trovino gli stimoli per migliorare le condizioni di vita di chi vive
in condizioni meno favorevoli.

4- Il paradigma della controrivoluzione neoclassica: emerge negli anni 80 quando si affermano governi
conservatori in Germania, Inghilterra e Stati Uniti e su di esso si basano molte decisioni prese dal Fondo
Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale in quegli anni. I sostenitori di questo approccio affermano
che lo sviluppo sia dovuto all’eccessiva presenza dello stato nell’economia. Quindi sono favorevoli alla
liberalizzazione del mercato e alla privatizzazione delle imprese pubbliche. Il modello di Solow è il più
rappresentativo di questo approccio e si basa su due assunti centrali: il sottosviluppo è causato dalla cattiva
allocazione delle risorse dovuta a politiche di prezzi incorrette ed eccessiva regolamentazione da parte dello
stato; anche nei paesi meno avanzati gli agenti economici agiscono razionalmente e rispondono a un principio
improntato alla crescita. Il sottosviluppo è dunque causato da intervento dello stato, dilagante corruzione e
assenza di incentivi economici alla crescita. Può essere risolto attraverso investimenti esteri e promozione del
mercato libero. Questo approccio non ha dato esiti positivi perché non si sono verificati miglioramenti delle
condizioni nei pvs né aumento degli investimenti esteri, anzi si è assistito nei pvs una fuga di capitali dalle
classi più ricche verso l’estero.

5- Il paradigma della nuova economia dello sviluppo: si diffonde alla fine degli anni 80 e inizi degli anni 90. Esso
pone l’attenzione sul ruolo dei governi nel processo di sviluppo in mondo organizzato in modo
concorrenziale. Si diffondono in questi anni nuove teorie della crescita o teoria della crescita endogena che si
distinguono per le seguenti novità: importanza del capitale umano come fattore di crescita, l’ipotesi di
rendimenti di scala crescenti, l’abbandono dell’ipotesi della concorrenza perfetta, il progresso tecnico come
variabile endogena. Si distinguono due principali varianti strutturali: 1. Modelli del tipo AK (considerano il
capitale formato sia da capitale umano che da capitale fisico e il suo aumento sia quantitativo che qualitativo
deriva dall’accumulazione di stock di capitale nell’economia. 2. Modelli del tipo R&D (sostengono che gli
imprenditori investono in attività di ricerca e sviluppo per ridurre i costi e aumentare la produttività dei fattori
produttivi, quindi il progresso tecnico è visto come una variabile endogena). I meriti di queste teorie sono
l’importanza dell’attività di ricerca e degli investimenti in essa nel determinare il processo di sviluppo;
l’importanza degli investimenti nel capitale umano senza il quale gli altri investimenti vengono annullati; il
ruolo importante dei governi nell’adottare politiche che favoriscano la formazione di capitale umano e la
realizzazione di infrastrutture adeguate. Il limite importante di queste teorie è che le istituzioni sono una
variabile esogena e pertanto non è possibile spiegare il funzionamento di economie diverse.
La nuova economia istituzionale invece sostiene l’importanza dello studio delle istituzioni e dei loro effetti
economici. La loro funzione principale è rendere il comportamento dei soggetti più efficiente così da
accrescerne il benessere, quindi è necessario un insieme di istituzioni che collaborando guidino il
comportamento dei singoli.

Cooperazione internazionale allo sviluppo

La cooperazione allo sviluppo si differenza dal mero aiuto allo sviluppo per la connotazione più politica e centrata sugli
attori. Gli attori della cooperazione allo sviluppo sono numerosissimi e spesso si sovrappongono tra di loro. In base al
tipo di attori che vi operano possiamo distinguere tre tipi di cooperazione allo sviluppo:

 Cooperazione non governativa: gli attori principali sono le organizzazioni non governativo che si
caratterizzano per i fini solidaristici non lucrativi, hanno personalità giuridica solo interna (e non anche
internazionale, collaborano con i governi e le istituzioni internazionali nonostante siano indipendenti da essi. I
loro obiettivi sono: portare aiuto finanziario, tecnico e materiale ai paesi in cui operano, sostenere la
formazione e il trasferimento di know-how tecnologico, intervenire in situazioni di emergenza sanitaria e
militare. Essi realizzano progetti utilizzando sia risorse proprie che raccolgono attraverso opere di
sensibilizzazione e donazioni da parte dei paesi sviluppati, sia fondi pubblici erogati da organizzazioni
internazionali come l’Unione Europea, da i ministeri degli affari esteri nazionali o da enti della cooperazione
decentrata.
 Cooperazione governativa: gli attori principali son i governi nazionali, spesso nell’ambito delle organizzazioni
internazionali. Ha alla base l’aiuto pubblico allo sviluppo. Dato che gli attori coinvolti sono attori politici
spesso i motivi che spingono a determinati interventi a favore dei pvs sono dettati da interessi geo-economici
o politico-strategici e non solo da motivi solidaristici.
Essa si realizza attraverso differenti canali: 1. La cooperazione bilaterale: i fondi passano dal governo del
paese donatori al governo del paese ricevente e poi arrivano al beneficiario locale (diversi passaggi). Gli attori
che erogano i fondi sono i ministeri degli affari esteri nazionali o le agenzie nazionali di cooperazione allo
sviluppo. 2. La cooperazione multilaterale: i fondi passano dai paesi donatori alle organizzazioni
internazionali che li erogano direttamente al beneficiario locale. Questo tipo di cooperazione viene
fortemente criticato perché prevede alti costi di mantenimento degli apparati internazionali che riducono
l’entità dei fondi. Questo canale è utilizzato da diverse organizzazioni internazionali: quelle che fanno capo
agli accordi di Bretton Woods, le agenzie specializzate delle Nazioni Unite, le istituzioni regionali. 3. La
cooperazione multi-bilaterale: un singolo paese donatore si serve di un’organizzazione internazionale come
mediatrice per passare i fondi al paese ricevente (per motivazione politiche, economiche, di trasparenza,
perché lo reputa più efficiente).
 Cooperazione decentrata: gli enti locali di un paese donatore creano un progetto di sviluppo locale con un
ente dello stesso livello, ma situato geograficamente in un paese in via di sviluppo.

Le motivazioni dei paesi sviluppati possono essere: politiche, economiche, ambientali, umanitarie e di emergenza. I
trasferimenti di risorse possono essere classificati a seconda della fonte (pubblica o privata), i fini che perseguono, il
livello di sviluppo del destinatario, le eventuali condizioni di rimborso. La cooperazione può essere finanziaria (doni e
credito di aiuto); materiale (beni, soprattutto alimentari); tecnica (consulenza da parte di esperti e trasferimento di
tecnologie).

L’aiuto pubblico allo sviluppo è lo strumento principale della cooperazione internazionale ed è definito come
l’insieme di aiuti provenienti dal settore pubblico indirizzati ai pvs che hanno come obiettivo la promozione dello
sviluppo economico e del benessere dei paesi riceventi e che offre condizioni finanziarie agevolate (quindi con un
elemento di dono patri almeno al 25%). L’aiuto allo sviluppo include due importanti strumenti finanziari: 1. Il dono: le
risorse elargite a titolo gratuito al 100% senza obbligo di restituzione o pagamento di interessi che può essere erogato
in valuta, come beni di consumo o come servizi (consulenza o formazione). Gli aiuti umanitari e di emergenza fanno
parte del dono. 2. I crediti di aiuto: prestiti concessi a condizione agevolate con un elemento di dono. Devono avere
un tasso di interesse molto basso, un periodo di maturità maggiore rispetto a quello di mercato (scadenza), un periodo
di grazia maggiore rispetto a quello di mercato (il periodo tra il momento in cui il prestito viene erogato e il rimborso
del primo capitale).

L’aiuto legato è un aiuto progetto che può essere molto vantaggioso per il paese donatore. Ci possono essere due tipi
di legame: stretto quando l’aiuto è in natura, ovvero consiste in beni o servizi acquistati nel paese donatore e trasferiti
al beneficiario pronti per l’uso, legame meno stretto quando l’aiuto consiste in un dono o prestito che comporta
l’acquisto di beni o servizi del paese donatore o da un certo gruppo di paesi. L’aiuto per programma invece è
destinato genericamente allo sviluppo del paese beneficiario che può impiegarlo liberamente come meglio ritiene. Ciò
però non avviene se l’aiuto è condizionato, come avviene nella maggioranza dei casi. Un aiuto condizionato è quando
il paese donatore pone delle condizioni a cui il paese beneficiario deve sottostare perché gli venga erogato l’aiuto. La
condizionalità può essere: ex ante, stabilita prima insieme al paese donatore che concede subito i fondi ma che può
sospenderli se vede che il paese beneficiario non rispetta le condizioni, è stata criticata perché a volte il paese
beneficiario non potrebbe mettere in atto certi comportamenti a causa di eventi esterni e sarebbe ingiusto
sospendere l’aiuto per questi motivi, inoltre spesso tra le condizioni imposte dal paese donatore vi erano
trasformazioni strutturali che impattavano fortemente la popolazione più povera; ex post, se il paese donatore eroga i
fondi solo una volta che le condizioni da lui previste in concordanza con il paese beneficiario siano state soddisfatte,
anche in questo caso criticata per gli eventi esterni che potrebbero impedire di continuare i comportamenti richiesti e
anche perché obbliga a rischiare usando risorse interne senza sapere se poi gli aiuti verranno erogati o no; sottoforma
di paper strategici, ovvero il paese beneficiario se vuole ottenere l’aiuto deve elaborare questi paper in cui individua
obiettivi e percorsi in cui intende indirizzare i fondi. Anche i paper sono stati criticati perché sono considerati una
forma di condizionalità ex-ante e perché l’influenza del paese donatore nella redazione di questi paper è molto forte.

Il comitato di aiuto allo sviluppo (DAC= development assistance committee) dell’organizzazione per la cooperazione
e lo sviluppo economico è un organo composto da 30 membri (più tre osservatori) che si occupa di stilare un elenco
dei paesi in via di sviluppo a cui i paesi membri fanno riferimento quando vogliono erogare aiuti allo sviluppo e di
esaminare ogni 5 anni il sistema di cooperazione allo sviluppo di ciascun paese membro attraverso una peer review
(esame tra pari), ovvero con incontri e visite sul campo alla fine dei quali viene redatto un rapporto con
raccomandazioni e suggerimenti che si assicura vengano seguiti con un processo di follow-up. Nel 2019 il Comitato di
aiuto allo sviluppo ha prodotto il rapporto di peer review della Commissione Europea, che è il primo donatore al
mondo in materia di cooperazione allo sviluppo e tra le raccomandazioni più significative vi erano semplificare le
procedure, utilizzare meglio le valutazioni dei precedenti Peer review per migliorarsi, migliorare la trasparenza,
incoraggiare maggiormente gli Stati membri all’aiuto, ma soprattutto assegnare più risorse ai paesi meno sviluppati
(least developed countries).

La DAC list misura e classifica gli aiuti dai paesi donatori. Essa comprende tutti i paesi a basso, medio-basso e medio-
alto reddito, come definiti dalla Banca Mondiale (1.005-3.955-12.235), tranne quelli membri del G8 e dell’Unione
Europea, e i paesi meno avanzati (LDC) come definiti dalle Nazioni Unite (criteri LDC= reddito, capitale umano, grado
di vulnerabilità dell’economia). Inizialmente la lista prevedeva anche l’elenco degli stati ex-socialisti in transizione che
è stato rimosso nel 2005. La lista viene aggiornata ogni 3 anni e l’ultima revisione è avvenuta nel 2020. I paesi che per
3 anni consecutivi presentano un reddito medio-alto non vengono più considerati in via di sviluppo e rimossi dalla
lista. Se i paesi donatori donano a paesi che non sono sulla lista il loro aiuto non viene considerato aiuto allo sviluppo.
Dagli anni 60 i paesi donatori si sono impegnati a destinare lo 0,7% del proprio Reddito Nazionale Lordo alla
cooperazione allo sviluppo, nel 2005 gli stati membri dell’Unione Europea che hanno aderito prima del 2002 si sono
impegnati a raggiungere questo obiettivo entro il 2015 che però non è stato raggiunto ed è stato posticipato al 2030,
anno in cui l’UE si è impegnata anche a raggiungere lo 0,3% del RNL per i paesi meno sviluppati. Tuttavia, si è verificato
un calo negli aiuti allo sviluppo nel 2018 del 2,7% rispetto all’anno precedente molto probabilmente per la riduzione
degli aiuti per ospitare i rifugiati e i richiedenti asilo a seguito del rallentamento degli arrivi. Questa voce viene infatti
contabilizzata come aiuto allo sviluppo (spese per rifugiati), ma le norme a riguardo stanno cambiando. Nel 2018 è
stata utilizzata per contabilizzare i prestiti la metodologia “grant equivalent” che non considera più l’intera cifra del
prestito, ma solo la quota che il paese donatore perde prestando il denaro al di sotto dei tassi di mercato. Usando il
metodo precedente “cash flow” è stato riscontrato il calo in termini reali citato prima.

Excursus storico sull’andamento degli aiuti:

 seconda metà anni 60 e dal 1985 al 1992 -> cifre rilevanti


 dal 1993 al 2000 (fine guerra fredda) -> minor volume di aiuti
 dal 2002 (Dichiarazione del millennio e attacchi terroristici) -> incremento aiuti
 dal 2004 (interventi di emergenza post-tsumani sud est asiatico, cancellazione debito di Iraq e Nigeria) ->
impennata
 dal 2010 -> incremento aiuti (comunque inferiore agli interessi pagati dai pvs per i prestiti passati)

Ci sono diverse logiche dietro gli aiuti bilaterali: generalmente i paesi un tempo colonizzatori seguono i legami ex
coloniali e tendono a destinare gli aiuti alle vecchie colonie; gli Stati Uniti destinano gli aiuti a paesi con importanza
strategico- militare; il Giappone destina gli aiuti ai paesi della regione asiatica dove ha interessi economici. Ciò
dimostra che gli aiuti ancora oggi rappresentano uno strumento di politica estera e non sono usati solo per motivi
solidaristici. Invece i paesi del dac e degli organismi multilaterale tendono a destinare i propri aiuti ai paesi dell’Africa
Subsahariana e all’Asia.

Sul sito dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico è possibile visualizzare l’ammontare degli
aiuti erogati da ogni singolo stato, i paesi e i settori beneficiari dei suoi aiuti. L’Italia era all’8° posto per volume totale
di aiuto pubblico allo sviluppo: i principali settori sono le spese per i rifugiati, le infrastrutture sociali, l’aiuto
umanitario, il debt relief (aiuto nella cancellazione del debito) e l’infrastruttura economica; mentre il principale paese
beneficiario è l’Iraq nel settore dell’infrastruttura economica. Nel 2019 è stato pubblicato il rapporto “Cooperazione
Italia – ritorno al passato” in cui si denuncia la riduzione degli aiuti allo sviluppo italiani probabilmente a causa del
debito pubblico significativo in rapporto al PIL e alla diminuzione dei costi di assistenza ai rifugiati (dallo 0,30% di RNL
nel 2017, allo 0,23% del 2018). L’Italia si era impegnata a raggiungere lo 0,3% entro il 2020, lo ha raggiunto nel 2017,
ma ora sta diminuendo, e le previsioni, già prima della pandemia, annunciavano che non lo avrebbe raggiunto,
attestandosi nel 2020 allo 0,26%. Inoltre, l’aiuto pubblico allo sviluppo italiano viene denominato “aiuto gonfiato” in
quanto contabilizza sotto la voce “rifugiati nel paese donatore” le spese per l’accoglienza dei rifugiati, si tratta di un
aiuto che non finanzia direttamente i progetti di contrasto alla povertà del mondo, e le norme riguardanti il
riconoscimento di tale voce come parte dell’aiuto pubblico allo sviluppo stanno cambiando.

Ci sono due principali visioni tra gli economisti riguardo alle politiche di aiuto allo sviluppo:

1) Condanna della politica agli aiuti: gli aiuti causano distorsioni dei meccanismi di mercato e la
sopravvalutazione del tasso di cambio della valuta dei Paesi beneficiari; alimentano forme di dipendenza nei
confronti dei paesi sviluppati; impediscono la formazione di risparmio interno; ostacolano le riforme locali;
sostengono governi corrotti che trattengono le risorse che non arrivano a chi ne ha veramente bisogno.
2) Aiuti come importante forma di contributo: soddisfano i bisogni primari di milioni di poveri; migliorano le
politiche economiche e la distribuzione delle risorse; rafforzano le capacità tecniche, istituzionali,
amministrative e gestionali per aumentare la produttività; rimediano ai fallimenti di mercato.
Dal punto di vista empirico invece i risultati sono spesso contraddittori e non definitivi anche per la difficoltà di
comprendere le relazioni di causa ed effetto. Tra i successi riscontrati dalle ricerche ci sono: l’alleviamento dei disagi
causati da emergenze umanitarie e da disastri naturali, l’allungamento della vita media; il miglioramento della vita nei
paesi beneficiari (aumento tasso di scolarizzazione, sconfitta malattie endemiche x es. vaiolo). Tra i fallimenti che si
celano dietro al successo abbiamo: la crescita in termini assoluti di poveri nel mondo derivata dall’allungamento della
vita; l’aumento registrato nel 2019 di persone denutrite. Tra le cause dei fallimenti individuate ci sono: la
sovrapposizione e la mancanza di coordinamento delle politiche, l’incoerenza tra le diverse politiche, la scarsa
selettività dei beneficiari e dei progetti da sostenere, l’inefficacia dei canali di trasferimento dei flussi di aiuto.

Per aumentare l’efficacia degli aiuti sono stati organizzati dei Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti:

 Roma (2003)-> impegno delle agenzie di donazione ad armonizzare le proprie politiche e procedure
operative.
 Parigi (2005)-> Dichiarazione di Parigi che introduce 5 principi fondamentali orientati all’efficacia degli aiuti:
1. Ownership (i paesi beneficiari devono indipendentemente individuare le proprie strategie e
politiche di sviluppo);
2. Allineamento (i paesi donatori devono accettare le strategie dei paesi beneficiari);
3. Armonizzazione (i donatori devono coordinarsi tra di loro evitando spese di transazione
eccessive);
4. Gestione orientata ai risultati (i paesi beneficiari devono dotarsi di sistemi di valutazione dei
progressi, aiutati dai paesi donatori);
5. Mutual accountability (sia donatori che beneficiari devono essere responsabili e trasparenti l’uno
nei confronti dell’altro).
 Accra (Ghana- 2008)-> Accra Agenda for Action individua quattro aree di miglioramento rispetto alla
dichiarazione di Parigi:
1. Ownership (maggiore partecipazione dei paesi beneficiari nella formulazione delle politiche e nel
coordinamento degli aiuti);
2. Inclusive partnership (tutti i partner devono partecipare pienamente e importanza del
coinvolgimento di sempre più stakeholders);
3. Delivering results (impegnarsi perché le politiche portino risultati reali e misurabili sullo sviluppo);
4. Capacity development (aumentare la capacità dei paesi beneficiari di gestire il proprio futuro.
 Busan (Corea- 2011) -> riunione per esaminare i progressi delle politiche attuate dopo le due dichiarazioni
precedenti. Culmina nella firma del Busan Partnership for Effective Development in cui l’attenzione viene
spostata dall’efficacia sugli aiuti all’efficacia dello sviluppo stesso. Vengono dunque individuati 4 principi per
rendere efficacia la cooperazione allo sviluppo:
1. Ownership delle priorità di sviluppo da parte dei paesi beneficiari;
2. Focus sui risultati (le politiche devono avere un impatto sostenibile, ovvero durare nel tempo);
3. Partnership per lo sviluppo (partecipazione di tutti gli attori);
4. Trasparenza e responsabilità condivisa.

È stata elaborata una dashboard di monitoraggio del partenariato globale nella quale si possono visualizzare i
progressi relativi a 10 indicatori nella cooperazione allo sviluppo.

Gli effetti macroeconomici dell’aiuto allo sviluppo

Quando si studiano gli effetti macroeconomici dell’aiuto allo sviluppo si va ad analizzare prevalentemente l’effetto che
l’aiuto allo sviluppo ha sul livello del PIL e sul suo tasso di crescita nei paesi in via di sviluppo che hanno beneficiato
degli aiuti. Gli aiuti vengono erogati ai paesi in via di sviluppo che si trovano in una situazione di arretratezza perché
presentano dei gap che devono per forza essere colmati:

- risparmio (saving gaps): il settore privato non riesce a generare un risparmio adeguato (S-I)
- gap di valuta (foreign exchange gap): le importazioni sono maggiori delle esportazioni e bisogna quindi
finanziare l’eccesso di importazioni (M-X)
- gap fiscale (fiscal gap): le spese del settore pubblico sono maggiori rispetto alle sue entrate (G+B-Td-Ti).
A partire dagli anni ’60 sono stati sviluppati una serie di modelli teorici: ad un gap (che prendevano come riferimento
un solo gap, quello del risparmio); a due gap e a tre gap. Successivamente sono stati identificati anche altri gap ed è
stato analizzato l’effetto degli aiuti allo sviluppo anche su di essi: gap nelle capacità tecniche, gap tecnologico, gap
delle capacità imprenditoriali, gap nella disponibilità e accessibilità agli alimenti. Per potere risolvere questi gap sono
state proposte delle ipotesi complementari di altre politiche per lo sviluppo che potrebbero migliorare ancor di più la
situazione: redistribuire il reddito verso classi con maggiore propensione al risparmio, allargare la base per la raccolta
del credito, investimenti pubblici o privati per apportare progresso tecnico, etc.

I modelli del gap presentano però dei limiti: i fattori produttivi all’interno di un paese non sono sostituibili, è un
modello monosettoriale, la fungibilità dell’aiuto. Quest’ultima si verifica quando il governo del paese beneficiario
destina l’aiuto che gli è stato concesso per fini diversi da quelli prestabiliti. Per questo motivo il monitoraggio degli
aiuti è importante, perché i paesi potrebbero utilizzarli per fini che non promuovono lo sviluppo, per esempio fini
militari. La fungibilità dell’aiuto può avvenire per esempio quando il bilancio di previsione di un Paese è flessibile e
quindi le autorità si possono muovere liberamente e allocare le risorse come meglio reputano. Quando un bilancio di
previsione è flessibile è possibile far fronte a imprevisti e destinare risorse per risolverli (un esempio di imprevisto
potrebbe essere la pandemia). La fungibilità può avvenire anche quando il paese donatore ha difficoltà nel monitorare
la destinazione dei finanziamenti e nell’imporre il rispetto degli accordi. Per questo è importante che i pvs che
ricevono aiuti siano trasparenti nel fornire il bilancio ai paesi donatori.

Per poter risolvere il problema della fungibilità i paesi donatori si possono servire della condizionalità agli aiuti, il cui
obbiettivo è garantire loro che le politiche concordate con il pvs vengano effettivamente attuate. Essi possono porre
dei vincoli, delle condizioni che devono essere rispettate, come per esempio la realizzazione di alcune riforme che
vengono previamente concordate insieme- e qualora queste non vengano rispettate possono sospendere l’erogazione
dei mezzi finanziari. La condizionalità viene applicata se per esempio il paese donatore crede che il pvs non reputi
l’obiettivo importante oppure se il paese donatore reputa inadeguate le politiche economiche del paese beneficiario.

Tuttavia, la condizionalità potrebbe risultare inefficace per esempio se sopraggiungono shock endogeni o esogeni per
le quali il governo del paese beneficiario non riesce a sottostare alle condizioni prestabilite, un esempio di shock
esogeno è un evento catastrofico come un terremoto, in casi come questo il paese donatore non dovrebbe
sospendere l’aiuto. Anche in caso di una capacità di monitoraggio debole da parte del paese donatore o nel caso in cui
le politiche e le riforme previste non siano sostenibili (troppo costose) l’applicazione della condizionalità non
servirebbe a molto. Inoltre, se il paese donatore viola la sovranità del paese beneficiario e il principio di appropriabilità
(ownership) delle riforme, secondo il quale è lo stato beneficiario a definire il modello di sviluppo che vuole applicare,
niente deve essergli imposto. Anche se le ipotesi previste dalla condizionalità sono troppo astratte o se viene
applicata indiscriminatamente senza tenere conto della diversità della situazione economica del paese beneficiario, la
condizionalità sarebbe inopportuna.

Per risolvere i problemi elencati si propone la condizionalità ex-post con la quale è il governo beneficiario a scegliere
le politiche più efficaci per lo sviluppo del proprio paese e una volta realizzate erogare gli aiuti. Però, anche questo
metodo viene criticato perché, innanzitutto i gap non vengono coperti, e dovrebbero essere coperti prima di applicare
politiche per lo sviluppo, inoltre, la possibilità di ricevere il finanziamento è incerta: solo se si raggiunge l’obiettivo le
risorse vengono erogate e quindi il paese beneficiario deve mettere in campo risorse proprie, rischiando. In più per
rilevare i risultati ci vogliono tempi lunghi e procedure complicate che farebbero ritardare l’erogazione degli aiuti.
Infine, anche in questo caso c’è la possibilità che shock endogeni ed esogeni impediscano di realizzare gli obiettivi.

Un altro metodo proposto per risolvere la fungibilità degli aiuti è la selettività degli aiuti: i paesi donatori scelgono di
aiutare solo i paesi che adottano volontariamente delle buone politiche. Questo metodo viene criticato perché i poveri
dei paesi non finanziati rischiano di essere penalizzati, in linea di massima i paesi che adottano buone politiche hanno
meno necessità di ricevere aiuti, non evita i problemi di incentivi sottostanti la condizionalità ex ante (il paese
donatore può sospendere gli aiuti se non vengono rispettate le condizioni prestabilite).

Dal 1999 viene introdotta la nuova condizionalità che prevede che i paesi beneficiari producano di Poverty Reduction
Strategy Paper, assicurando la partecipazione della società civile e il principio di ownership dei paesi beneficiari. Viene
criticata perché considerata come una forma di condizionalità ex-ante, in quanto si obbligano i paesi beneficiari a
redigere tali rapporti e se tale condizione non viene rispettata si potrebbero sospendere gli aiuti, il contenuto ampio
del documento favorisce la tradizionale ingerenza dei donatori nel definire gli obiettivi e le politiche da seguire, viene
vista solo come una procedura d’immagine in quanto alla fine la partecipazione della società civile risulta bassa, inoltre
è difficile individuare i soggetti adeguati per rappresentare la società civile.

Dalle analisi empiriche si vede come gli effetti dell’aiuto sulla crescita siano stati modesti e con rendimenti
decrescenti: al crescere dell’aiuto, il PIL aumenta meno che proporzionalmente. Ciò può essere ricondotto a diverse
cause: la fungibilità dell’aiuto, le forme erronee di condizionalità, la presenza di effetti indiretti su altre variabili
macroeconomiche che non vengono misurate dalla verifica empirica, i finanziamenti possono essere poco assorbiti dai
soggetti riceventi perché potrebbero perdere parte del loro valore nei vari passaggi o per carenza di infrastrutture o
istituzioni da cui possano essere assorbiti.

L’aiuto ha effetto diretto sulla crescita del prodotto/reddito, ma può avere anche effetti indiretti su altre variabili
macroeconomiche: sul settore pubblico (sulle finanze pubbliche interne, sull’indebitamento estero), sulla struttura dei
prezzi e sul tasso di cambio, sull’investimento del settore privato (e sugli investimenti totali).

Andando ad analizzare attraverso studi paese, gli effetti diretti dell’aiuto sulla crescita su singoli progetti e programmi
a livello microeconomico si osservano effetti significativi, con un ragionevole tasso di rendimento; mentre come detto
precedentemente a livello macroeconomico gli effetti sulla crescita sono modesti e con rendimenti decrescenti: da qui
deriva il paradosso micro-macro, la contraddizione tra i risultati degli studi microeconomici e quelli macroeconomici.

Dalle analisi cross-country (livello macroeconomico) invece, che hanno utilizzato dati panel su un certo numero di
paesi beneficiari è emerso un impatto positivo dell’aiuto sulla crescita, prevalentemente attraverso la relazione
causale risparmio-investimento (è aumentato il risparmio nei paesi beneficiari e di conseguenza gli investimenti che
hanno innescato la crescita), ma è comunque un impatto modesto perché proporzionalmente inferiore a 1. Ulteriori
analisi empiriche hanno confermato l’impatto positivo dell’aiuto sulla crescita, ma differenziato a seconda dei paesi,
del tipo di aiuto, del framework istituzionale in cui viene gestito l’aiuto.

Effetti sul settore pubblico: 1. effetti sulle finanze pubbliche interne: Effetto sull’ammontare e la composizione delle
spese pubbliche (varietà di esiti, spiazzamento dell’investimento pubblico nazionale?); Effetti sulle entrate correnti
(dilazione delle necessarie riforme per una maggiore disciplina fiscale?); Effetti sul saldo del bilancio statale (che
dipendono dal tipo di aiuto: aiuto che copre solo parzialmente un progetto, aiuto condizionato, volatilità dell’aiuto);
Effetti sull’ammontare complessivo del debito pubblico, interno ed estero. 2. Effetti sull’indebitamento estero: un
paese indebitato perché riesca a far fronte al debito contratto (pagamento degli interessi e rimborso del capitale alle
scadenze pattuite), occorre che si verifichino tre condizioni: il tasso di crescita dell’economia deve essere almeno pari
al saggio di interesse prevalente sui mercati internazionali; il tasso di crescita delle esportazioni deve essere almeno
pari al saggio di interesse prevalente sui mercati internazionali, la struttura e il funzionamento del sistema fiscale
devono essere in grado di far aumentare la base impositiva e il gettito delle imposte. Quando l’aiuto non produce
crescita del reddito, delle esportazioni, delle entrate fiscali, l’onere per il paese indebitato può diventare uno dei
maggiori ostacoli allo sviluppo, in quanto il paese: dovrà limitare le importazioni e ridurre le spese pubbliche; si
troverà nella condizione di debt overhang, che consiste nell’inibizione degli incentivi all’investimento causata dal
trasferimento di risorse dal settore privato a quello pubblico (trasferimento interno) e dal settore domestico a quello
internazionale (trasferimento esterno). Una soluzione potrebbe essere il condono del debito estero (annullamento del
debito estero)

Effetti indiretti sulla struttura dei prezzi e sul tasso di cambio: oltre una certa soglia, specifica per ciascun sistema
economico, crescenti volumi di aiuto rischiano di provocare un apprezzamento del tasso di cambio reale (Dutch
Disease): il prezzo in valuta domestica delle esportazioni diminuisce e anche quello dei beni sostituti delle
importazioni, disincentivando la produzione interna di beni tradable e con un conseguente peggioramento della
bilancia commerciale e delle disponibilità valutarie. Tasso di cambio reale: e = EPf/Pd (prezzi al consumo esteri e
domestici) e’ = EPt/Pnt (prezzi dei beni tradable e non tradable)

Effetti indiretti sull’investimento del settore privato: 1. Spiazzamento (crowding out) degli investimenti privati:
sottrae opportunità di investimento analogo; aumenta il prezzo degli input locali (lavoro qualificato e non);
aumentano i tassi di interesse. 2. Incoraggiamento (crowding in) degli investimenti privati (maggiormente confermati
dalle ricerche empiriche): migliora la dotazione di capitale fisico e umano; allenta i vincoli di finanziamento del settore
creditizio locale; riduce le imposte distorsive; mette a disposizione tecnologia avanzata e macchinari specializzati;
migliora il clima economico-politico-istituzionale, inducendo maggiore fiducia.
Effetti microeconomici dell’aiuto allo sviluppo

Una politica di aiuto, a livello microeconomico, può contribuire a innescare un processo di sviluppo se è in grado di
influenzare positivamente sui comportamenti degli agenti economici producendo risultati sostenibili nel tempo e che
portino a non dipendere più dall’aiuto esterno.

Effetti sul comportamento dei soggetti:

1. Effetti dell’aiuto sui governi beneficiari: le verifiche empiriche risultano inconcludenti perché sono diversi da
paese a paese.
2. Effetti dell’aiuto sui donatori: si è notata una maggioranza di programmi e progetti dell’aiuto bilaterale spesso
iniziati dai paesi donatori per interesse politico o perché il paese beneficiario fa parte di una coalizione, è un
governo amico.
3. Effetti sui consumatori, produttori e lavoratori: le verifiche empiriche hanno portato a queste conclusioni: gli
aiuti producono dipendenza dalle importazioni, favoriscono la transazione verso settori orientati alle
esportazioni, favoriscono le differenze retributive ( le persone coinvolte nei programmi hanno spesso salari
maggiori di quelli normali nel paese beneficiario), ridotto trasferimento di know-how (il know-how non viene
trasferito in modo adeguato) con il rischio di tensioni sociali dovute al fatto che il personale espatriato
incaricato di trasferire know-how rimanga nel paese beneficiario per tempi lunghi portando a un clima di
diffidenza da parte del governo beneficiario che si sente controllato e in pericolo.

A partire dagli anni 90 il ruolo del sistema istituzionale viene considerato sempre più importante per ottenere effetti
positivi più consistenti dall’aiuto allo sviluppo. Le istituzioni dei pvs sono troppo deboli, c’è bisogno di istituzioni
pubbliche più autorevoli, stabili ed efficienti. Questa nuova visione è influenzata sia dalla Nuova Economia istituzionale
che riconosce l’importanza delle istituzioni per determinare gli incentivi e minori costi di transazione, sia dal successo
di alcuni paesi del Sud-est asiatico in cui il ruolo dello stato era stato decisivo. Un sistema istituzionale forte assicura:
disciplina sociale, sicurezza del diritto, trasparenza delle norme e delle procedure, minori costi di transazione,
soppressione di discriminazioni etniche, politiche, religiose e di genere o mobilità sociale. I cambiamenti nel sistema
istituzionale porteranno maggiore efficacia delle politiche economiche, un atteggiamento positivo nei confronti
dell’innovazione e dell’assunzione di rischio, aumento e diffusione delle conoscenze e della capacità, tutti elementi
favorevoli alla crescita. Quindi l’institutions building, ovvero la capacità di costruire istituzioni adeguate diventa
sempre più importante ed è infatti stato incluso tra uno gli obiettivi dell’agenda di cooperazione (n°16) in termini di
condizionalità (il paese beneficiario degli aiuti deve attivare adeguatamente l’institutions building se vuole che il paese
donatore continui a finanziarlo). Si è cercato di perseguire questo obiettivo attraverso la cooperazione tecnica nei
seguenti settori: amministrazione centrale e locale, sistema giudiziario, istituti di statistica e ricerca, servizio pubblico.
Per essere efficace la cooperazione tecnica deve prevedere ciò: tenere conto delle esigenze dei beneficiari, il
personale espatriato non deve rimanere per lungo tempo e la formazione deve essere adeguata.

Effetti dei progetti

Un progetto si sviluppa in 6 fasi (seguendo il cosiddetto ciclo del progetto): programmazione, identificazione,
progettazione, finanziamento, realizzazione, monitoraggio esterno e valutazione.

Valutare gli effetti dei progetti è difficile sia ex ante, quando bisogna scegliere tra diversi progetti elaborati per uno
stesso scopo, sia ex post, quando bisogna misurare i risultati raggiunti dagli effetti. A lungo è stato utilizzato il metodo
dell’analisi costi-benefici sociali (costi opportunità e tasso di rendimento interno per la società). Però misurare costi e
benefici sociali è difficile perché includono prezzi di mercato, prezzi ombra, prezzi internazionali ed effetti indiretti,
difficili da identificare e da raggruppare insieme. Spesso poi gli obiettivi dei progetti sono molteplici, non solo
l’aumento del PIL.

Potrebbero piacerti anche