Sei sulla pagina 1di 137

lOMoARcPSD|10523036

Diritto del lavoro e sindacale ultima edizione 2020


diritto-del-lavoro-e-sindacale-a-zoppoli-l-zoppoli-l-gaeta-m-es
posito-1
Diritto Del Lavoro Ii (Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro)

Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

DISPENSA - Diritto del lavoro


(ULTIMA EDIZIONE 2020) :
"Diritto del lavoro e sindacale"
(A. Zoppoli, L. Zoppoli, L.
Gaeta, M. Esposito)
Diritto Del Lavoro
Università degli Studi di Napoli Federico II
135 pag.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Diritto del lavoro (dispensa)

[SEZIONE 1]
CAP 1 - Il percorso storico del diritto del lavoro italiano
1) Lo sviluppo del diritto del lavoro industriale
Il diritto del lavoro rappresenta un complesso di regole giuridiche destinate a regolare il mondo del lavoro.
È caratterizzato da un’ampia formulazione extra-legislativa, dato che molte delle sue norme sono
desumibili da fonti meno formalizzate  ex: accordi collettivi
Il diritto del lavoro in analisi è definito “industriale”, cioè formatosi a seguito della Rivoluzione industriale
che introdusse la macchina nei processi produttivi. Da questo momento in poi, il diritto del lavoro ha
vissuto una serie di fasi diverse, dipendenti da differenti assetti produttivi, ideologici, ecc.

2) Lavoro e diritto nei primi decenni dell’Italia liberale


Negli anni dell’Unità di Italia, vi era una relazione lavorativa tra proprietario-lavoratore, che da un punto di
vista economico era a vantaggio di chi offriva il posto di lavoro e da un punto di vista giuridico vi era una
concezione liberale del diritto privato, come espresso nei postulati liberali del Codice civile del 1865. Il
vero perno della disciplina lavoristica era infatti il contratto, che era improntato al liberismo puro, in cui
ognuna delle parti del rapporto poteva regolarlo liberamente secondo la propria volontà e tutto ciò
determinò delle pessime condizioni lavorative per il lavoratore (lavoro fino a 18 ore, salario da fame,
rapporto di lavoro risolvibile in qualunque momento), il quale era formalmente “libero” di sottoscrivere o
meno il contratto, ma la sua libertà finiva lì.
L’unico modo per i lavoratori di opporsi a questo sistema era quello di unirsi in coalizioni, le quali però
furono rigorosamente proibite, imponendosi quindi il divieto di coalizione, la cui trasgressione era punita
penalmente.

3) La legislazione sociale a cavallo tra Otto e Novecento


Verso la fine del 1800, la visione liberale perse di importanza e contestualmente si sviluppò un “movimento
di opinione” alimentato dai difensori dell’ideologia marxista (in maniera più estrema) e dal pensiero della
Chiesa cattolica, più moderato, che auspicava ad una collaborazione tra le classi. Assunse importanza la
legislazione sociale allo scopo di contrastare le conseguenze aberranti del liberismo puro: tra le leggi più
importanti abbiamo la tutela del lavoro dei fanciulli o l’obbligo di assicurarsi contro gli infortuni sul lavoro,
ecc.
Inoltre, i lavoratori poterono tranquillamente dar vita a proprie associazioni, venendo meno quel divieto
che prima impediva loro di coalizzarsi, grazie al codice Zanardelli (1899), che consentì ad esse di stipulare
dei contratti “collettivi” con i datori di lavoro, in modo da regolare più equamente le condizioni lavorative.
Agli inizi nel 1900, nacquero i sindacati, cioè delle “federazioni” che raggruppavano a livello nazionale tutte
le associazioni dei lavoratori dello stesso settore. Infatti nel 1906 nacque la “CGDL” a sostegno di tutte le
federazioni di mestiere e che si proponeva come guida del movimento proletario [N.B. contestualmente
nacquero i c.d. “sindacati bianchi” di matrice cattolica, che rifiutavano l’ideologia marxista della lotta di classe  per
una più moderata collaborazione tra le parti].
Invece, in rappresentanza degli interessi imprenditoriali, fu fondata nel 1910 la “CONFINDUSTRIA”.
Questa fase storica fu caratterizzata dall’inderogabilità delle norme sociali, cioè che ogni disposizione che
andava a limitare il potere contrattuale del datore del lavoro non poteva poi essere annullata da una
successiva pattuizione individuale, in senso peggiorativo per il lavoratore e assunsero importanza i collegi
dei probiviri, cioè la magistratura non togata, allo scopo di risolvere equitativamente le controversie di
lavoro nell’industria e creando molte “regole innovative”, che poi sarebbero state successivamente
recepite dal legislatore.
1

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

4) Il corporativismo fascista
Nel 1922 l’Italia divenne fascista, che subito si impose con una repressione brutale dell’associazionismo
sindacale.
Si impose quindi un’ideologia corporativa, che aggregava tutti coloro che svolgevano un mestiere allo
scopo di realizzare l’unico interesse superiore dello Stato, cioè la “produzione nazionale”.
In questo periodo vennero rafforzati i poteri datoriali del rapporto del lavoro (prevedendosi, ad esempio,
l’assoluta libertà di licenziamento). Tuttavia vi furono degli interventi di politica sociale, con lo scopo di
ottenere quel forte consenso che consentiva al fascismo di radicarsi nel paese: ad esempio fu introdotta
una legge nel 1924 che disciplinò organicamente il rapporto di lavoro degli impiegati nelle aziende private.
Non bisogna dimenticare lo schifo assoluto che produsse il fascismo, in primis mediante il vergognoso
allontanamento di tutti gli ebrei dal mondo del lavoro a seguito delle schifose leggi razziali del 1938,
nonché il trattamento diversificato delle colonie africane, il cui lavoro era prossimo alla schiavitù. Venne
inoltre abolita la libertà sindacale in favore di un unico sindacato che stipulava i contratti collettivi, recepiti
come vere e proprie leggi, essendo applicati automaticamente a tutti. Inoltre fu vietato lo sciopero,
sanzionato penalmente dal codice Rocco del 1930. Nel 1942 fu introdotto il nuovo Codice civile, che
ricomprendeva molte norme che regolavano l’impresa e poche norme che regolavano il lavoro, essendo la
parte lavoristica quasi completamente incentrata sulla regolazione del rapporto individuale.
Con la caduta del regime fascista (1943), abbiamo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo e il ripristino
della libertà sindacale.

5) La Costituzione e le sue inattuazioni


Con la fine della seconda guerra mondiale, l’Italia divenne una repubblica democratica con una
Costituzione innovativa che, mediante i suoi principi fondamentali, diede grande importanza al concetto
del lavoro, come citato dall’art.1  “fondata sul lavoro” e soprattutto dall’art.4 che ne costituì proprio un
diritto imprescindibile:
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” Inoltre, uno dei
principi fondamenti dello Stato italiano è quello di rimuovere tutte le diseguaglianze e promuovere tutte le
condizioni per realizzare una vera uguaglianza sostanziale (art. 3 co.2).
Per cui, vennero introdotti tutta una serie di diritti a favore dei lavoratori come ad esempio: retribuzione
adeguata, tutela del lavoro femminile e minorile, assistenza e previdenza sociale, organizzazione sindacale e
sciopero (artt.35-40)
Tuttavia non sempre il modello ideale prefigurato dalla Costituzione trovò piena applicazione concreta nella
realtà: infatti negli anni ’50 si impose una concezione autoritaria dei poteri privati, mediante ricostruzione
teoriche dell’autonomia privata e individuale, e i rapporti di lavoro furono caratterizzati da una serie di
prerogative di carattere direttivo a favore del datore di lavoro. In questo contesto assistiamo a una
limitazione dell’aggregazione sociale e delle manifestazioni di autotutela, con conseguente perdita
dell’unitarietà del sindacato, in favore di una sua frammentazione a seconda delle differenti scelte
politiche.

6) Gli anni Sessanta e l’età del garantismo


Con gli anni ’60 assistiamo ad un “boom economico” e crescita della produzione del Paese, soprattutto
grazie alla disapplicazione dei diritti dei lavoratori, avutosi durante il decennio precedente.
Tuttavia in questo decennio si iniziarono ad avere le prime avvisaglie di un cambiamento, con una serie di
provvedimenti a tutela dei lavoratori, tra cui ricordiamo soprattutto la legge del 1966 che imponeva la
“sussistenza di un valido motivo per poter licenziare il dipendente”. Ci troviamo, inoltre, in un periodo
storico attraversato da una contestazione globale, che mise in discussione i rapporti di forza nella
società, famiglia e scuola (il “68”).
2

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Fu chiesta a gran voce una “democratizzazione e costituzionalizzazione” di tali relazioni e si attuarono una
serie di riforme garantiste nel diritto del lavoro. Nel 1970 si giunse, infatti, allo Statuto dei lavoratori, che
era un provvedimento organico che disciplinava e limitava i poteri del datore di lavoro, a sostegno
dell’azione dei sindacati maggiormente rappresentativi. Altro importante provvedimento fu la legge sul
nuovo processo del lavoro del 1973, più veloce e informale, indispensabile per garantire l’effettiva tutela dei
diritti dei lavoratori.
Ci troviamo, quindi, in una fase storica caratterizzata dalla “cultura delle garanzie”, sostenuta soprattutto
dagli studiosi del diritto del lavoro (ex: “la teoria dell’ordinamento intersindacale” di Gino Giugni,
imperniata sul riconoscimento dell’ordinamento fatto di regole non codificate, ma autoprodotte, efficaci e
vincolanti nel sistema di relazioni industriali, spesso confliggenti con l’ordinamento statale) e quindi
assistiamo all’affermazione di un diritto sindacale “di fatto” che dava ampio spazio ai giudici, studiosi e alla
prassi, sacrificando la legislazione.

7) Il diritto del lavoro “dell’emergenza”


Nel 1973 tuttavia, si verificò una forte crisi economica a cui si dovette far fronte allo scopo di arginare la
disoccupazione e la difficile sostenibilità delle imprese. Si configurò quindi un “diritto del lavoro
dell’emergenza”, che era maggiormente interessato alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro,
corrispondente alle esigenze delle imprese di non vincolarsi con rapporti troppo stabili, a scapito delle
esigenze dei lavoratori di dimensionare i propri tempi di lavoro.
Tra le caratteristiche principali di questo tipo di diritto “emergenziale” ricordiamo l’attenzione agli
“ammortizzatori sociali” (per contenere la perdita o la riduzione di lavoro), tra cui la cassa integrazione e
un sacrificio del principio assoluto dell’inderogabilità della norma lavoristica di tutela. Inoltre assistiamo ad
un ridimensionamento del ruolo del sindacato, che dopo essere uscito da trionfatore nelle lotte del
decennio precedente, entrò in una crisi di adesioni e una rottura dell’unità precedentemente conquistata.

8) La concertazione sociale e le novità degli anni Ottanta


Negli anni ’80 assistiamo a nuove strategie di gestione delle relazioni di lavoro, fondate sulla prassi della
concertazione sociale, un accordo trilaterale tra governo, sindacati e associazioni imprenditoriali, che li
vincolavano a comportamenti corrispondenti agli impegni presi: le parti sociali dovevano dare attuazione
all’accordo e il governo si impegnava a trasfondere questi accordi in provvedimenti normativi vincolanti.
Tale modello fu definito “neo-corporativo”. Contestualmente, mentre i sindacati maggioritari videro
riconoscersi un ruolo “istituzionale”, essi continuarono a perdere iscritti, spesso a favore del sindacalismo
autonomo, molto più combattivo e critico nei confronti del sindacalismo tradizionale, imborghesito e
burocratizzato.
Inoltre assistiamo, in questi anni, ad importanti fenomeni di rivoluzione tecnologica, con l’introduzione
dell’elettronica e informatica nei processi produttivi, i quali vennero frammentati e articolati sempre di più,
e il fenomeno della globalizzazione, con l’allargamento dei mercati, compreso quello del lavoro, alla
concorrenza mondiale. Inoltre ricordiamo il fenomeno della europeizzazione delle singole politiche
nazionali con il ruolo chiave degli organismi istituzionali europei dell’Unione europea, che con la caduta del
muro di Berlino (1989) si estese verso i paesi dell’est.
In questa fase storica, ebbero un ruolo residuale e secondario le norme che rispondevano ancora a logiche
garantiste nei confronti dei lavoratori.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

9) Il “postmoderno” e le tendenze alla frammentazione


Negli anni ’90 assistiamo ad una grande crisi politica legata al collasso dei grandi partiti politici
(soprattutto a seguito dei fatti di “Tangentopoli”). In questo periodo vi furono una serie di riforme del
centrosinistra, influenzate dai contributi dei giuslavoristi in Parlamento. Tra i vari interventi normativi si
annoverano:
- privatizzazione del lavoro pubblico (1993);
- sicurezza sul lavoro (1994);
- vari interventi nel mercato del lavoro, tra cui la tutela del lavoro degli extracomunitari (1998).
Tali interventi avvennero sempre con lo scopo della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, mentre sul
versante collettivo assistiamo ad una continua crisi di adesioni al sindacato confederale.
In questo periodo il diritto del lavoro visse uno scenario “post-moderno” caratterizzato da un’estrema
frammentazione e destrutturazione, con l’affermarsi del liberismo economico e dell’esaltazione del
pensiero unico di impresa.
Nel 1999 e 2002, va segnalato che le Nuove Brigate Rosse (NBR) uccisero spietatamente Massimo D’Antona
e Marco Biagi, giuslavoristi, collaboratori dei ministri del lavoro, individuando in loro il simbolo della
mediazione, della concertazione, del dialogo tra capitale e lavoro.

10) Il neoliberismo del XXI secolo


Negli anni 2000 il paese fu governato dal centrodestra in un’ottica neoliberale sempre più spinta. Questo
periodo fu caratterizzato da uno sviluppo sempre maggiore dei fenomeni di globalizzazione ed
europeizzazione e dell’esaltazione del ruolo sempre più centrale dell’Unione europea, che tramite la sua
Banca centrale, controllava ampiamente le economie nazionali e tramite il suo organo governativo (la
Commissione) condizionava le politiche legislative.
Mediante la “legge Biagi” (2003) si realizzò una significativa liberalizzazione e deregolamentazione del
mercato del lavoro, mediante la previsione di una molteplicità di tipi contrattuali, contrassegnati da
temporaneità ed indebolimento delle garanzie, mentre la contrattazione collettiva divenne sempre più
marginalizzata e derogabile a favore di un potere decisionale e disciplinare maggiore della dirigenza. Come
conseguenza di tutto ciò, assistiamo ad un deterioramento della prassi della concertazione e
contestualmente ad un fenomeno di “aziendalizzazione” delle relazioni sindacali e della disciplina dei
rapporti di lavoro.
Nel 2008, a seguito della crisi finanziaria mondiale, molte economie nazionali incontrarono una serie di
problematiche che causarono alti tassi di disoccupazione e impoverimento di larghi strati di lavoratori.
Inoltre, a causa dell’invadente presenza di vincoli di bilancio imposti dagli organismi europei e
internazionali, gli Stati risentirono di una sempre più accentuata “sovranità limitata” che costrinse loro di
adottare politiche recessive, molto più attente agli interessi finanziari e produttivi del capitale, che a
interessi economici-sociali della classe dei lavoratori (ex: governo tecnico 2011).
Tra i vari interventi normativi ricordiamo la “legge Fornero” (2012) che rivide il sistema degli
ammortizzatori sociali, liberalizzando di fatto il licenziamento senza fondato motivo, assoggettato a mero
indennizzo monetario; oppure ricordiamo il “Jobs Act” (2015) che introdusse un sistema di rapporti
lavorativi estremamente flessibile e con tutele ampiamente derogabili (riscrivendo in senso liberale molte
norme del diritto del lavoro). Infine abbiamo il “decreto dignità” (2018) che operò, in minima parte, in
materia di lavoro a termine, somministrazione, delocalizzazioni, ecc.

11) La nuova funzione del diritto del lavoro e le priorità della Costituzione
Quindi, il diritto del lavoro attuale si trova condizionato da tendenze neoliberiste e da una profonda
precarietà del lavoro. Si passa da una fase precedente di regole di tutela espansiva nei confronti del
lavoratore  a regole di riflusso e regresso protettivo in linea con i fragili rapporti dell’autonomia collettiva
“aziendalizzata”.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Cioè, si passa dalla figura del lavoratore subordinato ma forte del suo lavoro stabile e duraturo  alla
figura del lavoratore precario e insicuro del suo lavoro instabile e impoverito dalla discontinuità retributiva.
In questa configurazione, quindi, il diritto del lavoro perde il suo originario spirito di tutela imperativa 
per diventare un’appendice del diritto commerciale e quindi un diritto del lavoro fondato sulle
diseguaglianze, derogabile e mercificato. Tuttavia, va ricordato che in questa cornice angosciante appena
raffigurata, c’è la nostra Costituzione che assume un ruolo centrale e un punto di riferimento della materia
del diritto del lavoro e che assegna a quest’ultimo il ruolo determinante del patto fondativo della nostra
Repubblica, quale fattore di emancipazione verso l’uguaglianza sostanziale dei cittadini.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 2 - Le fonti: Costituzione, legge e contratto nella disciplina del rapporto di lavoro.
I Diritti fondamentali

1) Lavoro, persona, cittadinanza nell’impianto costituzionale


L’origine delle regole del rapporto di lavoro presenta alcune peculiarità derivanti dalle caratteristiche della
subordinazione. Subito c’è da segnalare il marcato tratto di specificità nell’assetto delle fonti del diritto
del lavoro dato dal contratto collettivo, elemento proprio del diritto del lavoro, il quale presenta un
problematico inquadramento teorico-sistematico.
Partendo dalla Costituzione, in essa si ritrovano le ragioni interne dell’origine delle regole lavoristiche: il
lavoro occupa una posizione fondamentale all’interno della Costituzione (artt.1 e 4) che ne fa del lavoro un
fondamento dell’Italia come Repubblica democratica. Con l’avvio dell’era industriale, il lavoro assume il
ruolo di interlocutore dei possessori di capitale e delle strutture produttive e quindi protagonista della
“questione sociale”, e a seguito dei conflitti mondiale del ‘900, diventa vero motore della ricostruzione
economica, sociale e cultura del Paese.
Analizzando l’art.4 subito ci accorgiamo della duplice valenza individuale e relazionale del lavoro:
- nel comma 1  si evince il diritto di libera scelta del lavoro e anche il diritto a una serie di prestazioni
pubbliche funzionali all’occupazione e altre istanze di tutela;
- nel comma 2  si evince il dovere di svolgere un’attività che concorra al progresso materiale e spirituale
della società.
Il lavoro viene inoltre ad essere una componente essenziale della “cittadinanza” come segnale
dell’appartenenza dell’individuo alla comunità statuale.
Inoltre il lavoro è tutelato “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art.35) ed è investito da un altro principio
fondamentale, cioè quello dell’uguaglianza sostanziale (art.3 co.2), fulcro dei diritti sociali, che sono quelle
situazioni soggettive attraverso le quali lo Stato attua la funzione equilibratrice e moderatrice delle
disparità sociali.
La condizione di subordinazione del lavoratore si riscontra tipicamente nel contratto di lavoro subordinato,
in una situazione di dipendenza socio-economica in cui il soggetto mette a disposizione le proprie energie
lavorative a favore di un altro soggetto. Quindi è importante sottolineare come l’obiettivo del nostro
ordinamento sia promuovere una precisa concezione del lavoro allo scopo di “assicurare il pieno sviluppo
della persona umana e la sua partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
(art.3 comma 2 parte finale).

2) La priorità della Costituzione nella prospettiva esterna e interna


Mettendoci in una prospettiva esterna, emblematico è il raffronto della Costituzione con l’ordinamento
europeo. È indiscussa la limitazione della sovranità nazionale (come espresso dall’art.11) e a questa va
contrapposta la “teoria dei controlimiti” che pone un confine invalicabile anche per le fonti “esterne”,
rappresentato dai principi fondamentali dell’ordinamento. Tuttavia va segnalato che la prospettiva di
integrazione tra l’ordinamento nazionale e quello europeo presenta spesso problematiche e
incompatibilità, soprattutto a causa dell’impostazione dell’ordinamento europeo che talvolta ha messo in
discussione principi per l’ordinamento interno imprescindibili, come ad esempio il principio di libertà
sindacale (art.39).
Mettendoci invece in una prospettiva interna, attinente alle peculiarità dell’origine delle regole lavoristiche,
si nota che il diritto del lavoro viene a rappresentare una delle manifestazioni più importanti della
Costituzione economica. Infatti il diritto del lavoro ha lo scopo di mettere il lavoratore, che versa in una
situazione di debolezza socio-economica, in grado di integrarsi realmente come persone nella società e,
quindi, di attivarsi come cittadino. Si evince quindi una stretta interrelazione tra tutela del lavoratore e
l’elemento della cittadinanza.
Bisogna tener conto del fatto che la Costituzione ha tracciato una duplice linea di tutela del lavoro:

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

- statica  attraverso tutele dirette, il cui contenuto è già delineato normativamente (ex: diritto alla
retribuzione art.36)
- dinamica  mediante il soggetto collettivo-sindacale (espressamente indicato negli artt.39 e 40) il cui
scopo è definire gli interessi e gli assetti da perseguire per il lavoratore. Da qui emerge l’elemento del
contratto collettivo, come emblematica espressione del pluralismo sociale. La componente sindacale viene
quindi ad assumere un rilievo di primissimo piano, mediante la quale il contratto collettivo diventerà uno
strumento per contemperare esigenze di tutela di lavoro e di produttività dell’impresa e che svolgerà il
compito di produzione dinamica delle regole del lavoro.

3) Subordinazione, organizzazione, inderogabilità


Nel corso degli anni si è assistito ad un ampliamento e una intensificazione delle tutele del lavoro
subordinato, culminato nella seconda metà degli anni ’60 con lo Statuto dei lavoratori (legge 300/1970).
Tale percorso ha incrociato una delle caratteristiche principali delle norme lavoristiche, ossia
l’inderogabilità unilaterale, a protezione del soggetto debole del rapporto, divenuta la più immediata e
concreta espressione giuridica dell’intervento dell’ordinamento diretto alla regolazione dei vari aspetti del
rapporto di lavoro e che ha restituito al lavoratore la propria identità di persona.
In altre parole, tale inderogabilità delle tutele previste dal diritto del lavoro riflette direttamente l’istanza di
protezione del contraente debole nella tutela dei valori costituzionali fondamentali di lavoro-persona-
cittadinanza.
Inoltre tale inderogabilità assolve anche allo scopo, di minor rilievo ma non per questo trascurabile, di
definire il quadro di regole necessario per la leale concorrenza tra imprese, per evitare un’eventuale
tentazione di competizione al ribasso sulle condizioni di lavoro. Da ciò derivano due conseguenze:
a) il diritto del lavoro, mediante l’inderogabilità, ha definito la differenza rispetto al diritto comune dei
privati, dato che quest’ultimo si concentra maggiormente sul principio dell’autonomia negoziale
individuale, anche quando vi è una forte attenzione alla tutela della parte debole del contraente (ex: nullità
a favore del consumatore). Infatti, a differenza del diritto del lavoro, l’inderogabilità non è un tratto
intrinseco della norma del diritto privato, ma è frutto di una specifica previsione del legislatore;
b) l’inderogabilità unilaterale trova applicazione sull’intero sistema di produzione delle regole del lavoro e
finisce per estendersi alla legge e quindi al contratto collettivo.
Dalla rimozione dello squilibrio tra le parti del contratto ne deriva un necessario contemperamento tra
lavoro e impresa, nel quale l’intervento dello Stato è fondamentale per delimitare l’azione economica allo
scopo di favorire, appunto, il contemperamento dei principi nelle relazioni di lavoro.
È importante sottolineare quindi il vincolo derivante dall’inderogabilità del diritto del lavoro: cioè la
indisponibilità del tipo. Da ciò ne deriva che il “tipo” contrattuale si presenta rigido nei confronti delle
parti, cioè che non possono apportare modifiche e integrazioni, e che sono proibiti schemi “atipici”, che
vincolano anche l’operato del legislatore nel rispetto dei principi, diritti e garanzie costituzionali in materia
di lavoro. Inoltre il legislatore non ha la possibilità di attribuire alle parti la facoltà di escludere, mediante
dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori, la
quale, appunto, deve essere sottratta alla disponibilità delle parti.
4) Legislazione speciale e attuazione costituzionale
La fonte di diritto oggettivo della regolazione del contratto di lavoro è la legge. Prima di tutto va specificato
che essa ha un carattere inderogabile “in peius”, cioè in mancanza di diversa esplicita indicazione
normativa, essa non può essere modificata in senso peggiorativo per il lavoratore. Sul piano tecnico, la
legge prevale sulla pattuizione difforme individuale, sostituendola con le generali regole in materia dei
contratti, secondo vari articoli fondamenti del cod.civ.
Inoltre, assistiamo un progressivo sviluppo del ruolo della legge, in cui in primo luogo il legislatore ha
provveduto ad ampliare le tutele minimali e a disciplinare una serie di specifici rapporti di lavoro, e poi,
mediante lo Statuto dei lavoratori, si è mirato a creare un “contrappeso” sindacale al potere assoluto
dell’imprenditore in azienda dando maggiore forza ad alcune posizioni individuali del lavoratore.
7

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

In questo senso, lo Statuto pone in evidenza la centralità della realtà effettuale dei rapporti di forza nei
luoghi lavorativi.
Infatti, l’art.18 dello Statuto, sottolinea l’importanza della protezione contro il licenziamento, segnando la
massima distanza dal codice civile, il quale è poco attento alla situazione di subordinazione del lavoratore,
dato che prevede la libera recedibilità, la quale è vista sicuramente come arma a favore del datore di
lavoro. Perciò, il legislatore statutario si è posto l’obiettivo di rafforzare gli interessi del lavoratore per
raggiungere l’equilibrio del contratto di lavoro e per consentire al lavoratore di esprimere sé stesso come
“persona” all’interno dell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Tuttavia, con la crisi petrolifera del 1973 e l’avvio della “legislazione d’emergenza”, cambiano gli scenari
economici e i contesti culturali e il tratto distintivo di questo periodo sarà dato dalla flessibilità, intesa
come una riduzione dei vincoli alle scelte e ai poteri del datore del lavoro. Infatti, il filo conduttore non sarà
più la tutela del lavoratore come visto nei decenni precedenti, ma tuttalpiù ci si concentrerà sul
contenimento del costo del lavoro a sostegno delle imprese in crisi e ai relativi processi di ristrutturazione,
sino ad arrivare all’ampliamento delle figure contrattuali e alla riduzione della spesa previdenziale.
[Secondo una tesi sostenuta in quel periodo, maggior flessibilità significa appunto minore tutela del lavoratore, ma può
significare anche maggior possibilità di impiego per coloro che sono privi del lavoro. Tuttavia, empiricamente, tale tesi sarà
rigettata a partire dall’esperienza italiana, che ha visto tassi bassi e alti di disoccupazione a parità di livelli di tutela].
Negli ultimi anni, a seguito della difficilissima situazione economica, assistiamo ad un indebolimento
fattuale dell’inderogabilità, come è avvenuto mediante il “Jobs act”, che ha introdotto regole riguardanti
l’apposizione del termine al contratto di lavoro e il licenziamento ingiustificato nel contratto a tempo
indeterminato.
Infatti, il carattere flessibile della disciplina del contratto a termine e la compressione della tutela reale per
il licenziamento ingiustificato, indeboliscono sensibilmente la posizione del lavoratore circa la possibilità di
mantenere il proprio impiego lavorativo, sacrificando le regole poste a sua tutela, e quindi l’inderogabilità.

5) La declinazione della relazione legge-contratto collettivo


Vi sono tre aspetti della legislazione da considerare, relativi al rapporto legge-contratto collettivo:
a) il primo aspetto riguarda i frequenti rinvii della legge al contratto collettivo, cioè a quelle ipotesi in cui al
contratto collettivo sono eccezionalmente attribuiti poteri derogatori “in peius” per i lavoratori rispetto a
quanto disposto dalla legge. Questa tecnica è definita “garantismo collettivo”, che riguarda vari aspetti
del rapporto di lavoro, come per esempio: la retribuzione all’orario, mutamento di mansioni al
trattamento in caso di trasferimento di azienda, ecc. A tale tecnica di contrattazione collettiva il
legislatore ricorre per trovare soluzioni tempestive ed adeguate a differenti contesti.
b) il secondo aspetto riguarda il modello di relazioni tra poteri pubblici e parti sociali, improntato a una
stretta collaborazione, cioè la c.d. concertazione: un metodo utilizzato dall’azione politica volto alla
ricerca del massimo consenso possibile delle parti sociali, contraddistinto da un sostanziale
coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle politiche economica. Negli ultimi anni tuttavia, col
mutare degli scenari politici, la concertazione ha perso il suo ruolo importante, sino a sparire del tutto.
c) il terzo aspetto riguarda il limite posto dal legislatore alla contrattazione collettiva, configurato
un’inderogabilità “bilaterale” della norma legale, che esclude qualsiasi tipo di modifica ad opera
dell’autonomia negoziale, seppur in favore del lavoratore. L’intento è, in questo caso, di affrontare alcune
problematiche economiche mediante l’introduzione di politiche dei redditi volte a contenere i costi del
lavoro, oppure politiche volte a rendere maggiormente flessibili gli impeghi lavorativi. La Corte
costituzionale ha dichiarato legittima questa compressione bilaterale dell’autonomia collettiva laddove si
verifichi una reale esigenza di salvaguardia di interessi generali.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

6) La centralità del contratto collettivo


Iniziando ad analizzare meglio il ruolo del contratto collettivo, la sua importanza è testimoniata già dal
XIX sec, quando si coglie pienamente l’importanza dell’aggregazione collettiva dei lavoratori, al fine della
determinazione di una componente centrale dei rapporti di lavoro, cioè la retribuzione.
Nella Costituzione, la contrattazione collettiva racchiude le caratteristiche della libera attività sindacale
(art.39 Cost) e viene ad essere uno strumento volto a compensare la debolezza del singolo lavoratore che si
colloca al di là del singolo e della sua autonomia negoziale, poiché è necessaria un’adeguata efficacia sul
piano soggettivo (produzione di vincoli nei confronti della generalità dei lavoratori interessati, la c.d.
efficacia “erga omnes”) e oggettivo (cioè la sostituzione automatica nei confronti delle difformi pattuizioni
individuali) allo scopo di garantire la tutela del lavoratore.
Infatti, nella seconda parte dell’art.39 vi è un’espressa previsione dell’efficacia nei confronti di tutti gli
appartenenti alla categoria riferita. Tuttavia quest’ultima parte dell’art.39 non troverà mai attuazione, e a
ciò conseguiranno la ricostruzione privatistica dell’autonomia collettiva e l’inquadramento del contratto
collettivo negli schemi del diritto comune, che evidenzieranno problemi di conciliazione con alcune delle
caratteristiche del contratto stesso, come appunto l’applicazione generale a tutti gli interessati. Tuttavia si
riuscirà a risolvere tale problematica, e a regolare una pluralità di rapporti anche tra soggetti diversi
rispetto a coloro che stipulano gli stessi contratti.

Per quanto riguarda l’efficacia “erga omnes” dei contratti si cercherà una soluzione basandosi
sull’effettività delle relazioni che le parti sociali riusciranno di fatto a sviluppare facendo perno sull’unità
delle confederazioni sindacali, le quali sono giunte a darsi, per la prima volta, un quadro di regole sul
funzionamento della rappresentanza sindacale: “Testo Unico sulla rappresentanza” (2014).
Anche se l’inderogabilità unilaterale non sarà mai messa in discussione, molta più incertezza si evince dal
rapporto tra contratti collettivi di diverso livello a causa dell’accentuarsi della tendenza al decentramento
dell’attività contrattuale, che ha generato un’articolazione ulteriore dei contenuti dei contratti collettivi e
quindi una configurazione di diverse figure contrattuali. Inoltre, va segnalata la nuova figura di contratto
collettivo “di prossimità” che attribuisce il potere di derogare alla legge e al contratto collettivo nazionale,
anche “in peius” e con efficacia generale. Ciò ha posto dubbi di legittimità costituzionale.

7.1) Il ruolo del contratto individuale


Centrandoci adesso sul ruolo del contratto individuale, possiamo notare come inizialmente il contratto
di scambio risponde a intenti conservatori e legittima l’autocrazia aziendale, piegando il contratto alla
funzione di strumento di costrizione. Successivamente la concezione contrattualistica assumerà un’altra
valenza. La critica a questa concezione sfocerà nelle c.d “Teorie istituzionalistiche-comunitarie” in cui il
rapporto di lavoro trarrebbe origine dall’inserimento del lavoratore nell’impresa (istituzione contraddistinta
da una comunione di scopo tra il datore di lavoro e il lavoratore). Questa impostazione apparirà in sintonia
con l’ideologia corporativa così da sembrare accolta nel codice civile che:
- regolerà la subordinazione nel Titolo II “Del lavoro nell’impresa” anziché nel libro IV delle obbligazioni,
dove trovano disciplina i più rilevanti contratti di scambio.
- inserirà la prestazione di lavoro nell’impresa, intesa come struttura gerarchica e funzionalizzata
all’interesse superiore della produzione nazionale.
Tuttavia la dottrina ha considerato questi aspetti tali da non intaccare la natura contrattuale e di scambio
dei rapporti di lavoro. Per quanto riguarda la prevalenza dell’eteronomia è ormai opinione comune che il
contratto non sia più di esclusivo dominio della volontà delle parti, prestandosi a contenere anche regole
provenienti da altre fonti in ragione della pluralità delle esigenze da soddisfare. Per quanto riguarda le
caratteristiche della subordinazione e gli speculari poteri del datore del lavoro, la dottrina ne ha affermato
la compatibilità con lo schema contrattuale.
In definitiva, il rapporto di lavoro nasce da un contratto, e tale opinione è indiscussa.
9

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Spesso si è richiamata l’attenzione su un maggiore spazio per l’autonomia individuale, consentendo alle
parti di modificare in senso migliorativo (per il lavoratore) le norme di legge e il contratto collettivo.
Perché?
a) Dal lato del datore di lavoro, la possibilità di contrattare con il lavoratore su vari aspetti della disciplina
della prestazione, consente una massima elasticità del lavoro.
b) Dal lato del lavoratore, egli può realizzare più facilmente i propri interessi e le proprie scelte.
Negli ultimi anni, la possibilità di ridurre la rigidità del contratto collettivo o della legge è risultata
necessaria per affrontare le difficoltà della crisi economica. Ad assumere rilevanza è l’indebolimento della
posizione del lavoratore in seguito alla riduzione dei vincoli nella disciplina del contratto a termine e in
seguito alla restrizione della tutela reale contro il licenziamento ingiustificato. Entrambe vanno a intaccare il
principio dell’inderogabilità, offrendo al datore di lavoro il potere di attenuare i vincoli normativi apposti
dall’ordinamento proprio per limitarne il potere.
Bisogna, infine, fare due considerazioni importanti: va ribadita l’importanza delle condizioni di uguaglianza
tra le parti nella negoziazione; bisogna considerare la relazione “individuale-collettivo” sotto il piano
giuridico-istituzionale (come fatto anche nella Costituzione nell’art.39, prevedendo un sistema di diritti
individuali nei confronti della rappresentanza collettiva e per dar vita a una solida democrazia sindacale,
per salvaguardare la dimensione individuale della libertà sindacale ex art 39 co.1)

8) L’articolazione del potere legislativo tra Stato e Regioni


Esaminiamo adesso l’articolazione delle competenze tra Stato e Regioni, profondamente riviste dalla
“Riforma del titolo V del 2001”, la quale ha prodotto effetti anche sul sistema delle fonti del diritto del
lavoro, oltre al rapporto tra legge statale e legge regionale, con un ampliamento degli spazi attribuiti a
quest’ultima in materia di diritto del lavoro.
Infatti, il nuovo testo dell’art.117 ho visto un cambiamento di scenario anche al suo interno, e ha distinto
tre tipi di potestà legislativa:
esclusiva dello Stato (co.2); concorrente Stato-Regioni, con lo Stato che indica i principi fondamenti e le
Regioni dispongono la disciplina di dettaglio (co.3); residuale delle Regioni, virtù della “clausola di
residualità” (co.4) nelle materie non espressamente riservata allo Stato.
La novità per il diritto del lavoro riguarda la comparsa della tutela e sicurezza del lavoro, di competenza
concorrente.
La dottrina si è preoccupata di stabilire il rapporto tra ordinamento civile (materia di competenza esclusiva
statale) alla quale sarebbe affidata la disciplina del contratto individuale di lavoro, le garanzie minime di
tutela del lavoro e il diritto sindacale e tutela e sicurezza del lavoro (come abbiamo visto, di competenza
concorrente) alla quale sarebbe affidato il diritto amministrativo del lavoro e la disciplina del mercato del
lavoro. Tale interpretazione è stata recepita dalla
Corte costituzionale che ha confermato la tesi della dottrina. In particolare, la Corte ha individuato la
disciplina dei servizi per l’impiego, specialmente quella del collocamento, alla potestà concorrente tra
Stato-Regioni.
Per quanto riguarda la competenza “residuale”, l’ambito di applicazione è limitato, dato che è ad essa è
attribuibile solo l’istruzione e formazione personale. Un ulteriore riparto delle competenze prevede che la
previdenza sociale sia attribuita alla potestà esclusiva statale, mentre la previdenza complementare e
integrativa è affidata alla competenza concorrente.

9) Le fonti di diritto internazionale


Per quanto riguarda il diritto internazionale, le fonti relative al diritto del lavoro sono: i principi generali
e le norme di carattere consuetudinario, che hanno efficacia vincolante ed entrano direttamente
nell’ordinamento (come previsto dall’art.10 co.1 Cost) e i trattati internazionali, la cui efficacia è
subordinata ad un atto formale di ratifica ed esecuzione, in assenza del quale non sorgono obblighi per gli
Stati contraenti.
10

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Tra le fonti di diritto interazionale contenenti previsioni rilevanti per il diritto del lavoro, ricordiamo:
- Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo; Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU); la Carta sociale europea; altre Convenzioni in tema di lavoro
forzato, lavoro minorile, schiavitù, parità di trattamento retributivo uomo-donna, ecc.

10) Il diritto del lavoro europeo: la periodizzazione in tre fasi


Analizzando meglio il diritto del lavoro europeo, possiamo procedere ad una periodizzazione in tre fasi:
 fase mercantile  va dall’istituzione della CEE (Comunità economia europea) con il Trattato di Roma fino
alla metà degli anni ’80: fase caratterizzata dalla prevalenza delle esigenze di mercato e della libera
concorrenza su quelle sociali. Da qui l’attenzione per regolare aspetti legati alla creazione e
mantenimento del mercato comune;
 fase delle politiche sociali  si inizia a dare maggior importanza ai diritti sociali. Vi saranno delle
modifiche al “Trattato istitutivo” della CEE che riguardano: l’accrescimento delle competenze comunitarie
in ambito di politica sociale; la nascita e il consolidamento della contrattazione collettiva europea; il
ricorso a fonti normative non vincolanti “soft-law”.
 fase della “costituzionalizzazione” dei diritti sociali  il cui inizio coincide con il Trattato di Nizza (2000)
e con la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La grande novità consiste
in una catalogazione in un unico documento normativo dei diritti fondamentali, in cui vengono posti sullo
stesso piano diritti civili, politici da un lato e diritti sociali dall’altro.
Tuttavia questo procedimento di “costituzionalizzazione” ha subito una battuta d’arresto nel 2004, quando
il Trattato costituzionale europeo non fu completato, prendendo poi nuovamente vigore nel 2009 con il
Trattato di Lisbona. Alcuni paesi hanno scelto di limitare il rilievo della Carta europea nei propri
ordinamenti. Tra tutti il Regno Unito che dapprima ha escluso il proprio ordinamento dalle modifiche
apportate dai Trattati di Maastricht e Amsterdam (1992 e 1997) e successivamente nel 2016 si è attivato il
procedimento di fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione europea (“Brexit”).
Vanno infine ricordati i frequenti interventi normativi degli ultimi anni da parte delle istituzioni europee,
mediante atti non vincolanti formalmente ma politicamente incisivi, attenti soprattutto in materia
finanziaria piuttosto che alla tutela dei diritti, allo scopo di contenere il deficit di bilancio dei Paesi membri.
A ciò aggiungiamo che nel 2017 è stato proclamato il c.d. “Pilastro europeo dei diritti sociali” (“Pillar for
Social Rights”) da parte degli organismi europei, che comprende un’elencazione di principi e diritti
fondamentali, nonostante esso non sia un atto formalmente vincolante.
Inoltre, a causa della crisi degli ultimi anni, ha avuto luogo un “aggiustamento” del metodo di
coordinamento delle politiche occupazionali, attraverso l’articolazione su base triennale e la nascita di
misure di c.d. “flexicurity” volte a combinare la flessibilità e sicurezza nel rapporto di lavoro e nel mercato
di lavoro. Tuttavia, ultimamente è stata messa in discussione l’adeguatezza di tali misure in relazione a
contesti nazionali diversi.

11) Il conseguente assetto delle fonti


Per quanto riguarda l’assetto delle fonti, bisogna distinguere le fonti primarie (ex: Trattato sull’Unione
europea TUE, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea TFUE, Carta di Nizza) dalle fonti secondarie
(ex: regolamento, direttiva, raccomandazioni, pareri, ecc.  più precisamente: i regolamenti sono fonti
vincolanti direttamente applicabili, le direttive sono fonti vincolanti non direttamente applicabili, essendo
necessario un atto di trasposizione da parte dell’ordinamento nazionale. Tuttavia, va specificato che la
direttiva non trasposta ma enunciata in maniera incondizionata e sufficientemente precisa può produrre lo
stesso effetti giuridici (c.d. “effetto utile” o “direttiva self-executing” mentre le raccomandazioni e pareri
non sono fonti vincolanti).
La regolamentazione delle materie di politica sociale può avvenire anche mediante la contrattazione
collettiva europea, che assume quindi un ruolo istituzionale, con un procedimento normativo speciale.

11

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Ruolo importante sull’osservanza e applicazione del diritto comunitario è svolto dalla Corte di giustizia che
agisce come Corte internazionale quando vi siano controversie tra stati membri e opera come Corte
europea negli altri casi.
Negli ultimi anni, con l’aumento delle competenze comunitarie e il numero di Stati membri, è risultato
molto difficile approvare nuove direttive, e perciò ci si è spostati verso misure non vincolanti, soprattutto
per le politiche occupazionali.

12) Le competenze dell’Unione europea in materia di politiche sociali e diritto del lavoro
Vi sono una serie di materie di politica sociale e diritto del lavoro di competenza dell’Unione europea
 (esempio: miglioramento dell’ambiente di lavoro, condizioni di lavoro, sicurezza sociale e protezione
sociale, protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro, informazione e consultazione,
rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, condizioni di impiego
dei cittadini dei paesi terzi soggiornanti legalmente nell’UE, ecc..)
Inoltre, per ripartire meglio le competenze tra Unione e Stati membri si ricorre al principio di sussidiarietà
sia verticale, che orizzontale (in quest’ultimo, l’Unione interviene in materia di politica sociale con un
proprio atto normativo solo se questo è più efficace rispetto alla contrattazione collettiva europea).
Per la gran parte dei settori si utilizza la procedura legislativa ordinaria, attraverso la co-decisione del
Consiglio e del Parlamento europeo. In 4 settori specifici invece opera la procedura legislativa speciale in
cui il Consiglio delibera all’unanimità, previa consultazione del Parlamento. Le materie di retribuzione, diritti
di associazione, diritto di sciopero e diritto di serrata sono escluse dalla competenza dell’Unione europea.

13) I diritti fondamentali dei lavoratori. Fonti e “catalogo” dei diritti fondamentali
Per quanto riguarda i diritti fondamentali, si può affermare che la loro qualificazione distingue
determinati diritti per il “rango” che occupano nella gerarchia delle tutele. Quindi nell’ambito dei diritti
previsti dalla Costituzione bisogna distinguere quelli fondamentali e tali diritti fondamentali vanno cercati al
di fuori delle Costituzioni nazionali.
In merito, si può affermare che vi sia un dibattito assai ricco tra gli studiosi in merito ai diritti fondamentali.
- Secondo alcuni è importante circoscrivere la categoria di tali diritti, ritenendo “fondamentali” i diritti di
libertà dei lavoratori, articolando attorno a essi valori come uguaglianza, dignità della persona, libertà
sindacale, ecc. e tenendoli distinti dai diritti scaturenti dal contratto.
- Secondo altri, i diritti fondamentali sono quelli rinvenibili nel “nucleo duro” dei diritti inviolabili dei
lavoratori.
Quest’ultimo orientamento sembra quello più idoneo ad evidenziare la funzione “conservativa” che assume
la categoria dei diritti fondamentali nel diritto del lavoro. Tuttavia, questo approccio è comunque riduttivo
perché individua solo “in negativo” i diritti fondamentali, trascurando il fatto che il loro riconoscimento nel
diritto sopranazionale può comportare un’estensione o una trasformazione delle tutele in alcuni
ordinamenti nazionali, e così via.
Perciò l’orientamento preferibile si basa essenzialmente su due aspetti:
formale  pone in rilievo la tipologia delle fonti che riconoscono i diritti fondamentali;
sostanziale  rimarca la connessione dei diritti fondamentali con determinati valori irrinunciabili.
Tale approccio sembra ben sintetizzato in una sentenza della Corte di Cassazione, che individua i diritti
inviolabili dalla “valenza costituzionale”, che emergono anche dai documenti sopranazionali. Tali diritti sono
garantiti e tutelati con efficacia “erga omnes”, proprio perché fondanti della persona umana. Inoltre la
sentenza elenca anche i documenti sopranazionali da cui dedurre tali diritti: norme della Convenzione
europea sui diritti dell’uomo; Trattato di Lisbona; Carta di Nizza; la Carta sociale europea (aggiornata al
1999).
Parlando di tutele fondamentali di rilevanza costituzionale, bisogna menzionare la sintesi della dottrina a
proposito di una “visione tripartita” della Costituzione, cioè come testo normativo prima di tutto, ma che
vive di un contesto fattuale (cioè l’esperienza sociale in cui il testo si cala) e di contesto normativo (cioè
12

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

l’ordinamento giuridico che è continuamente ricreato da giudici e legislatore). In altre parole, il


costituzionalismo moderno appare molto più dinamico, complesso e instabile rispetto a quello classico, e
quindi riferirsi solo al testo costituzionale nazionale per proteggere effettivamente i diritti fondamentali
appare irrealistico.
Bisogna riconsiderare alcuni approcci metodologici e concettuali sorti durante la “fase della
costituzionalizzazione nazionale”, la quale è stata caratterizzata dalla contrapposizione di due scuole di
pensiero:
- la prima che voleva tradurre in tutele rigide legali tutti i diritti riconosciuti ai singoli lavoratori dalla
Costituzione;
- la seconda che voleva puntare sul “pluralismo sociale” come base del diritto del lavoro e da intendersi
come riconoscimento graduale dei diritti dei lavoratori affidato soprattutto alla contrattazione collettiva.
Questa seconda linea di pensiero sarebbe poi stata quella prevalente.Ad esempio, prendendo in
considerazione l’art.36 della Costituzione (che riconosce il diritto ad una retribuzione sufficiente), secondo
la prima linea di pensiero era necessaria una legislazione diretta a garantire il livello salariale minimo,
mentre secondo l’altra linea di pensiero sarebbe stato più coerente affidare interamente alla
contrattazione collettiva la determinazione dei salari minimi].
Tutto questo discorso per affermare l’importanza del fondamento costituzionale del potere collettivo, e in
particolare la tutela delle libertà sindacali, del diritto di sciopero e il riconoscimento di una particolare forza
al contratto collettivo sono necessari per affidare al pluralismo sociale la concreta tutela dei diritti dei
lavoratori.
Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico sovranazionale, il processo di “giuridificazione internazionale”
dei diritti dei lavoratori è andato nella stessa direzione della formazione delle costituzioni nazionali, in cui
nelle varie Carte internazionali dei diritti (ex: Carta dei diritti Onu) vengono affermati i diritti dei lavoratori
paritariamente con i diritti collettivi della libertà sindacale e dello sciopero. Diversamente, invece, è andata
con la costruzione del diritto dell’Unione europea. Infatti solo nel 2009 si è giunti alla costruzione di una
Carta dei diritti, in cui precedentemente il fulcro erano le quattro libertà economiche e la cultura politica-
economica liberista. E ciò ha caratterizzato 2 fenomeni:
• la costruzione del mercato unico europeo ha coinvolto solo limitatamente le istituzioni sociali;
• scarsa attenzione per i diritti sociali, con la convinzione che tale tematica fosse appannaggio dei diritti
nazionali.
Seppur l’Europa tenga conto dei diritti collettivi, non esistono ad oggi i presupposti per affidare la tutela dei
diritti dei lavoratori alle dinamiche regolative della “dimensione europea”.
Dal 2000, tuttavia ci si è dedicati a stilare una Carta contenente i diritti fondamentali degli europei, tra cui si
trovano coinvolti anche i diritti sociali individuali e collettivi, da bilanciare comunque con le quattro libertà
fondamentali. Ovviamente, in ambito internazionale, bisogna sempre considerare le problematiche di
un’economia sempre più globalizzata, che affida un ruolo fondamentale alle multinazionali, limitando il
ruolo delle istituzioni.Da questo punto di vista, l’OIL rilancia il proprio ruolo attraverso la Dichiarazione
relativa ai principi e ai diritti fondamentali del lavoro (1998) con i quali sono stati definiti i “core labour
standards” ricavati da otto convenzioni inerenti, appunto, ai diritti sociali dei lavoratori. A livello
internazionale vi è una intensa produzione di regole volte a liberalizzare gli scambi commerciali mondiali,
seppur nel rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori. Dal 2016, tuttavia, in vari continenti si stanno
affermando movimenti politici che sottolineano l’importanza dei propri Stati nazionali (“sovranismo”). In
Europa una prima reazione a tali chiusure nazionalistiche è avvenuta nel 2017, con la proclamazione del c.d.
“Pilastro europeo dei diritti sociali” che auspica ad un rilancio dell’Europa sociale.
3) Quindi, possiamo affermare che i diritti fondamentali dei lavoratori vanno oltre i diritti espressamente
menzionati nelle costituzioni nazionali. Le fonti da cui ricavare il “catalogo” dei diritti fondamentali sono
varie. Si potrebbe partire dalla Costituzione e raccordarlo ad altri testi normativi. Bisogna poi tener conto
del ruolo importante che assume la Corte costituzionale, che svolge la funzione di salvaguardare i principi e
diritti fondamentali, anche per delineare i tratti basilari dell’ordinamento costituzionale nazionale (“teoria

13

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

dei controlimiti”). In realtà è opportuno partire dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, nella quale sono ricompresi i diritti sociali fondamentali. Tale carta, come affermato nel suo
preambolo, è fondata sui principi universali di:
dignità, libertà, eguaglianza, e solidarietà. Inoltre istituisce la “cittadinanza dell’Unione” e riafferma i diritti
derivanti dalle tradizioni costituzionali, dagli obblighi internazionali, dalla Convezione per la salvaguardia dei
diritti dell’Uomo, ecc.
Tale “catalogo” dei diritti fondamentali parte dalla qualificazione come “inviolabile” della dignità umana
Collegata a questo valore abbiamo la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato (art.5)
Inerente alla libertà deriva il diritto di ogni persona alla protezione dei dati di carattere personale (art.6).
Alla tutela della libertà abbiamo poi il riconoscimento del diritto alla libertà di riunione e di associazione
(art.12), il diritto all’accesso alla formazione professionale e continua (art.14),
il diritto di esercitare una professione liberamente scelta o accettata, di cercare un lavoro, di lavorare, di
stabilirsi o prestare servizi in qualunque Stato dell’Unione e il diritto dei cittadini di paesi terzi, autorizzati a
lavorare, a condizioni di lavoro equivalenti a quelle dei cittadini dell’Ue.
Abbiamo poi la tutela della libertà di impresa (art.16), in cui è precisato che la tutela deve conformarsi al
diritto dell’Ue, alle legislazioni e alle prassi nazionali.
Tale rinvio alle legislazioni nazionali pone un problema di compatibilità. Infatti nella nostra Costituzione
(art.41 Cost) vi è una previsione differente in quanto si riconosce la libertà dell’iniziativa economica privata,
ma è precisato che tale libertà non può contrastare l’utilità sociale, e non deve danneggiare la sicurezza, la
libertà e la dignità umana.
Per quanto riguarda i diritti connessi all’uguaglianza, partiamo dall’uguaglianza formale, la quale è
formulata diversamente dall’art.3 della Costituzione italiana. Va precisato che tale diritto riconosciuto
dall’Ue ha un’ampiezza maggiore rispetto a come è configurata dalla Carta italiana, infatti è riferito a tutte
le persone ed ha un elenco molto più vasto di fattori di discriminazione vietati. Su questa falsariga, va
sottolineata l’importanza del diritto dei disabili all’inserimento sociale e professionale (art.26). Una
profonda differenza tra la Carta Ue e la Costituzione italiana si rinviene analizzando l’art.3 co. 2 della
Costituzione.
Infatti il concetto di uguaglianza sostanziale, così come previsto da questo comma, non è menzionata nella
Carta Ue, che riguarda tanti Stati con tradizioni e ispirazioni assai diverse.
La parte più interessante e innovativa della Carta Ue sicuramente si rinviene nel Titolo IV della Carta Ue,
dedicato alla solidarietà. In esso compaiono i veri e propri diritti sociali fondamentali, nei quali si riflettono
i diritti della Costituzione.
Grande novità riguarda i diritti sociali collettivi che fondano relazioni industriali, tra i quali ricordiamo i
diritti all’informazione e consultazione nell’ambito di impresa (art.27); i diritti di negoziazione e di azioni
collettive (art.28).
Nella Carta Ue, va precisato, che non vi è menzione della libertà di organizzazione sindacale, seppur questa
risulta garantita da alcune Convenzioni OIL che tutelano il diritto di organizzazione collettiva. Inoltre, nelle
interpretazioni dell’art.39 della Costituzione vi è un’estensione della libertà sindacale anche a forme
organizzative che non assumano la veste giuridica di vere e proprie associazioni.
La Carta Ue, quindi, va oltre la tutela della libertà e del pluralismo sociale, garantendo ai lavoratori o alle
loro rappresentanze il diritto di informazione e di consultazione in tempo utile, il quale però appare
riconosciuto in modo generico ai soggetti attivi e ai soggetti passivi.
Inoltre bisogna tener conto del collegamento che si instaura tra l’art.27 della Carta Ue e l’art.46 della
Costituzione (che sancisce il diritto dei lavoratori di collaborare alla gestione delle aziende). In quest’ottica,
la norma nazionale appare più ampia ma anche più generica rispetto alla norma europea, che invece
riconosce dei diritti a carattere partecipativo, più blandi ma anche ben individuabili e soprattutto già
disciplinati dettagliatamente in altre fonti del diritto Ue.
L’art.28 della Carta Ue riconosce il diritto della contrattazione collettiva, sciopero e serrata, ma ne attenua
il riconoscimento di rango costituzionale europeo, affidandolo a conformarsi al diritto dell’Unione e alle
14

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

legislazioni e prassi nazionali. Ovviamente, al di là della disciplina prevista dalla Carta Ue, abbiamo anche
l’art.6 della Carta sociale europea che riconosce il diritto alle negoziazioni collettive, tra cui è compreso
anche il diritto di sciopero. In Italia ci sono poi gli artt.39 e 40 della Costituzione che tutelano la libertà
sindacale, da cui deriva un’ampia tutela costituzionale del diritto alla contrattazione collettiva. L’art.40 della
Costituzione riconosce specificamente il diritto di sciopero.
L’art.29 della Carta Ue riconosce il diritto di accedere ad un servizio di collocamento gratuito, e in tale
ambito si riconosce il merito della Carta Ue di aver precisato il carattere gratuito di tale servizio, rimanendo
però indifferente se il servizio venga affidato a soggetti pubblici o privati.
Per quanto riguarda le tutele del minore, l’art.32 della Carta Ue sancisce il divieto di lavoro minorile,
facendo coincidere l’età minima per lavorare con l’età in cui termina la scuola dell’obbligo. Ciò risponde ad
una delle più rilevanti esigenze della società industriale.
La lotta al lavoro minore è uno dei più importanti obiettivi dell’OIL, mediante alcune sue Convenzioni. Ma è
con la “Dichiarazione dei core labour standards” del 1998 che l’effettiva eliminazione del lavoro minorile
diventa uno dei terreni privilegiati dell’azione politica delle istituzioni internazionali del lavoro.
Tuttavia, da un punto di vista fattuale, il lavoro minorile resta una grave e diffusa piaga.
La Carta Ue e la Costituzione prevedono una serie di tutele riconducibili ai diritti fondamentali, sia per i
minori che per i giovani nel mondo del lavoro. Per quanto riguarda la prima: l’art.21 sancisce il divieto di
discriminare in ragione dell’età; l’art.32 garantisce ai giovani condizioni di lavoro appropriate all’età e
protezione contro lo sfruttamento economico; l’art.31 riconosce ad ogni lavoratore il diritto a condizione di
lavoro sane, sicure e dignitose e attribuendogli il diritto ad una limitazione della durata massima del lavoro,
riconoscendogli periodi di riposo e ferie annuali retribuite.
Per la Costituzione l’art. 37 co.3 Cost. garantisce ai minori, a parità di lavoro, il diritto alla parità di
retribuzione.
Ciò che segna una differenza tra la Carta Ue e la Costituzione è che quest’ultima prevede all’art.36 co.1 il
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità di lavoro…”, mentre nella prima manca
un riferimento a tale diritto, seppur venga previsto da alcune Convenzioni OIL la garanzia di un minimo
salariale.
Tuttavia vi è da segnalare la grave debolezza delle regole giuridiche internazionali per quanto riguarda le
minime garanzie salariali, che in un’economia globalizzata, si ripercuote sulle politiche sociali degli Stati.
L’art.33 della Carta Ue riconosce ad ogni persona il diritto ad un congedo di maternità retribuito e a un
congedo parentale dopo la nascita o adozione di un figlio.
In materia di licenziamento, la tutela contro il licenziamento ingiustificato rappresenta per la Carta Ue un
diritto fondamentale del lavoratore: l’art.30 prevede il diritto alla tutela contro ogni licenziamento
ingiustificato, mentre l’art.33 co.2 prevede la tutela contro il licenziamento in caso di maternità.
Inoltre, l’art.24 prevede una forma di tutela contro il licenziamento ingiustificato, attribuendo al lavoratore
licenziato il diritto ad un congruo indennizzo, oltre alla possibilità di impugnare il licenziamento dinanzi ad
un organo imparziale.
L’art.4 della Carta sociale europea riconosce il diritto dei lavoratori ad un ragionevole periodo di preavviso
nel caso di cessazione del rapporto di lavoro.
I diritti sociali sono da collegare al Welfare State, il quale soprattutto in Italia, è costruito essenzialmente
intorno ai diritti dei lavoratori. Infatti lo “Stato sociale” è una peculiarità del modello europeo dopo la
seconda guerra mondiale, il quale, storicamente, ha convissuto e si è relazionato con il progetto di
un’integrazione europea economico-mercantile, e ciò ha comportato lo sviluppo di Stati sociali ben diversi
tra loro, con tradizioni e fondamenti normativi non omogenei.
Tuttavia, col passare del tempo, si è avvertita la necessità di superare tali diversità e di delineare i tratti
comuni dello “Stato sociale” dei diritti riconosciuti da tutti gli Stati europei. Tali diritti sono l’art.34 Carta
Ue, che assicura a tutti i cittadini comunitari il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai
servizi sociali che assicurano protezione in presenza di generatori di bisogno quali: maternità, malattia,
infortuni sul lavoro, perdita del posto di lavoro, ecc.

15

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

L’art. 35 riconosce invece il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche.
Tali norme hanno una corrispondenza con gli artt. 32 e 38 della Costituzione, che fondano il sistema
sanitario e l’assistenza sociale, cioè quel servizi e benefici di welfare di cui sono destinatari tutti i cittadini,
non solo i lavoratori.
Bisogna però porre l’accento anche suoi limiti posti alle tutele previdenziali e assistenziali, legati al fatto che
non possono essere garantiti in modo incondizionato, dato che soprattutto negli ultimi periodi l’Unione ha
dovuto fare i conti con le ristrettezze finanziarie (imponendo ad ex: il vincolo di pareggio di bilancio) che
hanno in qualche modo inciso sui servizi sociali erogati dagli apparati nazionali.

14) Il livello di protezione e il “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali nel


costituzionalismo multilivello
Una volta elencati ed individuati tali diritti fondamentali, occorre approfondire il loro contenuto specifico e
la loro “realizzabilità giuridica”. Per ogni diritto ovviamente bisogna verificare in concreto l’articolazione
della legislazione di dettaglio, l’adeguatezza degli apparati amministrativi che intervengono, i meccanismi
sanzionatori, ecc. e da questo punto di vista si creano spazi di ampia differenziazione tra i vari diritti
nazionali.
Il problema di fondo è che vi è un intreccio di fonti che intervengono sui medesimi diritti fondamentali. Per
risolv
ere questo problema ci si affida a due principi che possano orientare e risolvere le varie complicazioni.
• il primo principio riguarda la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art.53)
riconosciuto dal diritto Ue, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali, dalla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dalle Costituzioni nazionali. Inoltre tale principio è
rafforzato da due regole interpretative:
- i diritti fondamentali della Carta Ue, che corrispondono a quelli garantiti dalla CEDU, hanno significato e
portata uguali a quelli conferiti nella CEDU stessa;
- i diritti fondamentali della Carta Ue sono interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali degli Stati
membri.
• il secondo principio possiamo denominarlo “garanzia del contenuto essenziale del diritto” (art.52).
Bisogna aver chiaro che i diritti riconosciuti dalla Carta Ue e quelli riconosciuti dalla Costituzione italiana,
possono subire delle limitazioni al loro esercizio. Però tali limitazioni devono essere innanzitutto “previste
dalla legge” e poi devono essere “necessarie” (in base al principio di proporzionalità) e rispondere a finalità
di interesse generale oppure all’esigenza di proteggere i diritti e libertà altrui.
A presidio di tale “contenuto essenziale” vi è la Corte di Giustizia dell’Unione, in accordo con il ruolo delle
Corti nazionali a tutela dei diritti fondamentali riconosciuti in ciascun ordinamento giuridico.
Per quanto riguarda, infine, l’ambito di applicazione della Carta Ue, l’art.51 lo definisce, prevedendo che:
le disposizioni della Carta “si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione … come pure agli Stati
membri nell’attuazione del diritto dell’Unione.” Quindi, i diritti fondamentali riconosciuti da tale Carta non
possono essere imposti ai singoli Stati se sullo specifico istituto non vi siano già altre norme del diritto
dell’Unione già vincolanti.

15) Il ruolo dei diritti fondamentali nel diritto del lavoro in trasformazione
[N.B. Il diritto del lavoro odierno è in profonda trasformazione, poiché il lavoro è oggetto di una relazione
contrattuale che si ritrova in un contesto di mercato, esso rischia da qualche anno di essere dominato da teorie o
ideologie di tipo iperliberista, le quali si richiamano alla c.d. analisi economica del diritto, che rende il contratto uno
strumento più funzionale al mercato che alla garanzia di determinati diritti, anche fondamentali, in capo al lavoratore.
Una reazione a queste teorie di manifesta nel tentativo di considerare il lavoro come un “bene comune”, cioè una
cosa (res) posseduta da tutti e da garantire indipendentemente dalla relazione contrattuale. Inoltre, i diritti
fondamentali svolgono funzioni importanti sotto il profilo “pratico”.
Al riguardo, c’è chi li considera idonei per costituire una piattaforma irrinunciabile, sottratta al dominio della politica e
dell’economia, creando un programma generale di politica del diritto valido soprattutto per il legislatore].
16

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 3 - L’organizzazione e l’ordine del mercato del lavoro

1) Premessa: il mercato e il diritto del lavoro


Il diritto del lavoro è influenzato da numerosi fattori micro e macroeconomici. È una connessione
complessa e sfaccettata dal quale dipendono: la realizzazione e il soddisfacimento di alcuni fondamentali
bisogni e diritti della persona; l’andamento della ricchezza del Paese; la produttività delle imprese; la tenuta
delle relazioni industriali e il ruolo delle rappresentanze sociali; la saldezza della convivenza civile. Il diritto
del lavoro non può comprendersi senza conoscere alcune fondamentali grandezze socio economiche che
interagiscono con la dimensione normativa e giurisprudenziale propria dell’ordinamento.

2) Occupati, disoccupati e pensionati


Il tasso di occupazione della popolazione indica quante persone, tra quelle potenzialmente impiegabili,
svolgono effettivamente un’attività lavorativa. È un indicatore importante di ricchezza e sviluppo poiché
misura una fetta importante di percettori di reddito che contribuiscono al finanziamento e alla tenuta del
welfare (cioè beni, servizi, prestazioni). Dagli ultimi dati statistici (2017) il tasso di occupazione tra le
persone tra i 15 e 64 anni è del 58%. L’andamento è in linea di massima positivo rispetto ad un ciclo buio
che si è avuto dal 2008 in poi.
Tali cifre dovrebbero essere disaggregate o dettagliate in base a vari fattori come le dimensioni
dell’impresa, al tipo di contratto, etc. In questo modo scopriremmo che:
a) la maggioranza degli occupati si concentra in piccole e medie imprese
b) buona parte delle occasioni di lavoro è a termine o intermittente
c) i tassi di occupazione dei giovani sono molto bassi rispetto al resto d’Europa
d) la percentuale più alta di occupati si concentra nel Nord.
Fenomeno speculare all’occupazione è il tasso di disoccupazione che misura il rapporto tra la
popolazione tra i 15 e i 64 anni in cerca di occupazione e la somma della popolazione occupata, compresa
in quella fascia di età, e in cerca di lavoro (forza lavoro). Secondo l’ISTAT, la categoria “in cerca di
occupazione” riguarda le persone che cercano attivamente un lavoro o che hanno compiuto un’attività di
ricerca nelle 4 settimane che precedono la raccolta dei dati e sono disposte a lavorare nelle due settimane
successive. È utile inoltre dar conto delle persone in pensione.
Non sono più attive sul mercato del lavoro ma la loro misurazione serve a comprendere la fragilità
dell’equilibrio socio demografico italiano dove si corre il rischio che saranno più i pensionati che i lavoratori
in servizio, con gravi ricadute sul finanziamento della previdenza sociale. La relazione del presidente
dell’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) sostiene, con preoccupazione, che oggi abbiamo 2
pensionati ogni 3 lavoratori attivi e le stime ci dicono che nel 2045 avremo un solo lavoratore per un
pensionato. Da qui l’invito a progettare sia politiche di allargamento della platea dei contribuenti con un
ruolo importante degli immigrati, quali coprono quote significative di posti di lavoro spesso non
considerate dai lavoratori nazionali e contribuiscono a frenare il declino demografico.
Il tasso di inattività indica il rapporto tra le non forze lavoro della popolazione di un’età compresa tra i 15
e i 64 anni e il totale della popolazione corrispondente. Ne fanno parte tutte quelle persone che non sono
occupate ma non cercano lavoro (disoccupazione volontaria). In Italia il numero degli inattivi è
considerevole: nel 2017 poco meno di 13,4 milioni (le donne più degli uomini). Tra gli inattivi e i disoccupati
si distinguono i giovani che non lavorano e non partecipano a nessun ciclo di istruzione o formazione: i Neet
( Not in Education, Employment or Training), che è un fenomeno diffuso e in Italia si caratterizza con tratti
di maggiore emergenzialità, in ragione degli alti tassi di disoccupazione giovanile, maggiormente nel
Mezzogiorno (l’incidenza è circa del 34,4%).

3) All’ombra del mercato: il lavoro sommerso

17

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Ogni medaglia ha purtroppo il suo rovescio. Non possiamo di certo ignorare i numerosi raggiri, elusioni,
frodi di varia natura che caratterizzano l’ambito economico illecito (c.d. economia non osservata), che
sfugge alle regole del diritto e della reale concorrenza imprenditoriale.
In tale ambito non esistono dati univoci, e perciò si tratterà di elaborare stime e previsioni e perciò tutte le
rappresentazioni più accreditate non possono essere mai contestualizzabili ad una fase economica in corso.

4) I principali attori istituzionali del mercato del lavoro


Adesso parleremo di quei soggetti la cui azione presenta ricadute dirette ed essenziali sulle principali
dinamiche dell’occupazione e del lavoro: amministrazioni pubbliche e apparati istituzionali; imprese e
sindacati, con ruoli diversi ma tra con un filo conduttore unico: la Costituzione, che li colloca all’interno di
una cornice di riferimento unitaria e puntuale, dove primeggia la funzione di promozione e sostegno del
fondamentale diritto del lavoro (art.4 Cost.)
4.1) Le amministrazioni dello Stato, le Regioni e gli altri enti pubblici sono:
• CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro)  organo ausiliario disciplinato dall’art 99 cost:
esso è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in
misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. E` organo di consulenza delle Camere
e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l'iniziativa
legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed
entro i limiti stabiliti dalla legge.
- È un organo di consulenza delle Camere e del Governo.
- Esprime valutazioni e proposte sui più importanti documenti e atti di politica e programmazione
economica, sociale e delle politiche comunitarie ed esprime valutazioni sull’andamento della congiuntura
economica in sessioni semestrali.
- Può contribuire all’elaborazione della legislazione quando comporti indirizzi di politica sociale ed
economica. esprimendo pareri e compiendo studi e indagini richieste dalle Camere, Governo o regioni.
- Redige una relazione annuale consegnata al Parlamento e al Governo sui livelli e la qualità dei servizi
erogati delle pubbliche amministrazioni centrali e locali alle imprese e ai cittadini.
- Cura e gestisce l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi.
- Non ha competenze operative, che spettano ad altri organi
• Ministero del lavoro e delle politiche sociali → sede operativa in cui si svolge la effettiva
programmazione politica in materia di lavoro e sicurezza sociale e dove si dà ad essa esecuzione. È organo
del Governo e ha competenze che spaziano dalle politiche del lavoro e dell’occupazione alla tutela dei
lavoratori. Per quanto riguarda le politiche sociali e previdenziali esercita le funzioni di:
- definizione dei criteri generali per la programmazione della rete degli interventi di integrazione sociale e
dei criteri di ripartizione delle risorse del fondo nazionale per le politiche sociali.
- assistenza tecnica
- controllo e vigilanza amministrativa e tecnico finanziaria sugli enti di previdenza e assistenza obbligatoria.
È affiancato da due importanti Agenzie: ANPAL E INL.
Dal 1997 molte funzioni amministrative riguardanti l’incontro tra domanda e offerta di lavoro sono affidate
alle Regioni e Province.
Inoltre, lo Stato affianca all’azione del Ministero del Lavoro quella di ulteriori enti pubblici che curano i
compiti di sicurezza sociale che riguardano le misure di previdenza, assistenza e di protezione dei lavoratori,
in piena attuazione dell’art.38 Cost: “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per
vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento
professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo
Stato.”

18

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

• L’ente principale è l’INPS (Istituto nazionale della previdenza sociale, che nel 2012 ha visto confluire in
esso tutte le competenze di altri enti, quali l’INPDAP ed ENPALS, dato che la creazione di un unico grande
ente dovrebbe previdenziale dovrebbe rendere più efficiente il servizio pubblico): la sua attività principale
consiste nella liquidazione e nel pagamento delle pensioni e delle indennità di natura previdenziale, basate
su rapporti assicurativi e finanziate con i contributi dei lavoratori e aziende pubbliche e private, e nella
erogazione delle prestazioni di natura assistenziale.
• L’INAIL → (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) che è un altro ente sulla
sicurezza sociale. È ad oggi un ente deputato alla tutela e alla salute negli ambienti di lavoro e di vita,
fornendo assicurazione e indennizzo; prevenzione e ricerca scientifica; interventi di cura, riabilitazione,
inserimento ai lavoratori infortunati e servizi di consulenza, certificazione e verifica delle imprese.

4.2) Per quanto riguarda le imprese  il panorama delle imprese italiane è molto frastagliato. Non sono
presenti dati recenti, consolidati e verificati. Da un punto di vista strutturale il sistema è caratterizzato da
piccole e piccolissime dimensioni: prevalgono più le ditte individuali e le micro imprese con 0-9 addetti
(95%), mentre le piccole e medie imprese con 10-49 addetti rappresentano il 4%. La Lombardia e il Lazio
sono le regioni che presentano il maggior numero di imprese e addetti impiegati. Le relazioni di lavoro,
quindi, si caratterizzano per una dimensione quasi domestica o personalistica dell’ambiente di lavoro.
Possiamo vedere che la gestione dei rapporti di lavoro e le rispettive regole, siano influenzate dalla
dimensione e dal settore imprenditoriale in cui esse si svolgono: eppure il diritto del lavoro difficilmente
tiene conto di questa variabile.
Più importante è la contrattazione tra rappresentante collettive a incidere sulle discipline e spesso l’ambito
di applicazione dei contratti collettivi viene distinto in base alle caratteristiche e dimensioni delle imprese.

4.3) I sindacati
Essendo fondamentale la dimensione collettiva e negoziale del diritto del lavoro, analizziamo le varie
rappresentanze collettive degli interessi delle categorie professionali, entrando nel campo del diritto
sindacale.
I sindacati sono associazioni di diritto privato e storicamente abbiamo 3 protagonisti storici in questo
ambito:
• CGIL→ Confederazione generale italiana del lavoro (1944)
• UIL → Unione italiana del lavoro, di ispirazione laica, democratica e socialista (1950)
• CISL → Confederazione italiana sindacati dei lavoratori, di ispirazione cristiana (1950)
Vi sono altre confederazioni di portata nazionale: UGL (unione generale del lavoro) orientata politicamente
a destra, CISAL (confederazione italiana sindacati autonomi), COBAS (confederazione dei comitati di base).
Per quanto il sindacalismo datoriale ha origini più recenti:
• CONFINDUSTRIA (1910) → principale associazione di rappresentanza delle imprese manifatturiere
e dei servizi.
È ad adesione volontaria e può contare su una base di oltre 150 mila imprese e un totale di 5 milioni e
mezzo di addetti.
• CONFAPI (1947) → (Confederazione italiana della piccola e media industria privata)
• CONFOCOMMERCIO (1945) → (Confederazione generale italiana delle imprese, delle attività
professionali e del lavoro autonomo), tra le maggiori rappresentanze d’impresa italiane, con oltre 700.000
imprese italiane.
• Le amministrazioni pubbliche sono rappresentate dall’ARAN → (agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni).
Il ruolo del sindacato ha un importante riconoscimento anche nell’UE: opera la Confederazione europea dei
sindacati (CES o ETUC). Ne fanno parte 85 Confederazioni sindacali nazionali e 10 Federazioni industriali
europee.

19

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Tale Confederazione lavora con le altre parti sociali e istituzioni per sviluppare l’occupazione e individuare
le politiche sociali e macroeconomiche che riflettano gli interessi dei lavoratori europei. L’importanza del
CES è data dal fatto che il Trattato attribuisce alle parti sociali il diritto di formulare proposte legislative
proprie, attraverso accordi intersettoriali, sulle principali questioni di politica sociale.

4.4) La dimensione internazionale:


• Posto principale è assegnato all’OIL → (Organizzazione internazionale del lavoro). Si occupa di
promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana.
Riunisce rappresentanti dei governi, dei datori di lavoro e lavoratori nei suoi organi esecutivi. Opera
attraverso:
- Confederazione internazionale del lavoro → sede in cui stabiliscono gli standard internazionale del lavoro,
si approva il budget e si elegge il consiglio di amministrazione (cadenza annuale).
- Consiglio di amministrazione → organo esecutivo di durata triennale che decide la politica
dell’organizzazione definendone il programma e il budget.
- Ufficio internazionale del lavoro → opera come segretario permanente dell’OIL e realizza i programmi e le
attività.
Strumenti normativi propri dell’OIL sono le convenzioni internazionali che devono essere recepite dai
singoli stati e le raccomandazioni, adottate in alternativa alle prime.
• Altra istituzione di rilievo a livello internazionale è il Consiglio d’Europa (5 maggio 1949, Trattato di
Londra) → scopo principale è promuovere la democrazia, i diritti dell’uomo, l’identità culturale. A tale
Consiglio d’Europa sono da ricondurre la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e la Carta
sociale europea.
A presidio della corretta applicazione di tali norme è istituita la Corte europea dei diritti dell’uomo, organo
importante sia perché alcune norme della Carta sociale e della Convenzione riguardano direttamente il
mondo lavorativo, sia per l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea, con conseguente ingresso nel
diritto euro unitario delle previsioni contenute nella Convenzione medesima.

4.5) Parliamo adesso dell’Unione europea: nei suoi Trattati e nella Carta dei diritti fondamentali hanno
una collocazione importante la promozione di regole per la tutela del lavoro e lo svolgimento di politiche per
incrementare l’occupazione ed il benessere dei lavoratori. Si aggiunge inoltre la copiosa produzione
normativa (direttive e regolamenti) in materia sociale e il dinamico ruolo di interpretazione rivestito dalla
Corte di Giustizia.
Per le questioni attinenti all’occupazione e alla politica sociale, una funzione consultiva è svolta dal
Comitato economico e sociale che è chiamato a coinvolgere i gruppi di interesse economico sociale in un
sistema di consultazione caratterizzato dal fatto che le opinioni espresse dal Comitato sono indirizzate al
Consiglio, Commissione e Parlamento. Sono invece configurate come Agenzie dell’Unione e la Fondazione
europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che ha lo scopo di contribuire alla
pianificazione e alla messa in atto di migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa, e l’Agenzia europea
per la sicurezza e la salute sul lavoro che svolge attività di sensibilizzazione e di informazione
sull’importanza della salute e della sicurezza dei lavoratori per la stabilita e crescita sociale ed economica.
Le insidie e le asimmetrie del mercato
Gli istituti del diritto del lavoro si muovono nell’articolato contesto socio-economico del “mercato del lavoro”. Tale
espressione rimanda alla logica dello “scambio”, ed infatti il contratto di lavoro è uno strumento di transizioni di
mercato, cioè il principale negozio attraverso cui si formano gli interessi a seguito dell’incontro tra la proposta di
lavoro e la sua accettazione (domanda/offerta di lavoro). L’ordinamento giuridico infatti delinea i contenuti e le
finalità operative che comportano una regolamentazione delle dinamiche del mercato del lavoro.
Vi è una problematica di fondo, comune in tutto il mondo, di regolare il funzionamento del mercato del lavoro,
caratterizzato dall’instabilità e dall’estrema precarietà dell’equilibrio tra domanda/offerta. Infatti, la scarsità
dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda occupazionale è, ad oggi, molto evidente, soprattutto se si concepisce
l’impiego lavorativo come stabile e a tempo pieno. Perciò, le implicazioni sociali e collettive insite nella
20

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

regolamentazione dei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro spiegano perché a livello globale vi sia una
grande attenzione ai fenomeni della disoccupazione. Gli ordinamenti del mondo sono quindi indirizzati nello
svolgimento di un ruolo attivo nel governare le dinamiche economico-sociali, attraverso soggetti pubblici, sistema di
servizi e istituzioni deputate a “promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto del lavoro” (art.4 Cost.).

5) Le azioni e gli strumenti per promuovere le occupazioni: politiche attive e passive


Questo ambito analizzato appartiene a quelle politiche di “Welfare”, in cui lo Stato assume oneri specifici a
garanzia del benessere sociale. Va sottolineato che i compiti e le attività richieste sono cresciuti, e nel corso
del tempo siamo passati da una prospettiva statica (maggiormente incentrata al momento dell’avviamento
delle persone al lavoro)  ad una prospettiva più complessa che propone l’integrazione delle c.d. politiche
attive e passive del lavoro. Cioè abbiamo un raccordo tra:
- i servizi utili a consentire e facilitare l’occupazione e garantire l’incontro tra domanda e offerta
- le misure di sostegno al reddito
Tutto ciò allo scopo di soddisfare interessi diversi che caratterizzano le dinamiche occupazionali in un
contesto di grande incertezza dei flussi di lavoro. Si è passati dai servizi tradizionali ai servizi di agevolazione
al fine di evitare di passare velocemente dall’occupazione alla disoccupazione. Per questo motivo,
attualmente, si parla di servizi per l’impiego: tale definizione spiega il passaggio dai vecchi modelli
concentrati sul collocamento/avviamento del lavoro  a modelli nuovi e recenti, la cui composizione è
articolata di soggetti, strutture e attività che si pongono l’obiettivo di aiutare il cittadino nell’esercizio del
suo fondamentale diritto di lavorare.

6) Lo scenario internazionale
Il carattere globale delle problematiche affrontate fin ora spiega perché vi sia l’interessamento di molte
Convenzioni internazionali intorno all’importanza della promozione dell’occupazione e dell’attuazione delle
politiche che garantiscono a tutti la possibilità di ottenere un lavoro dignitoso. Ciò presuppone che il lavoro
sia teso allo sviluppo spirituale delle persone, in condizioni di libertà, dignità, ecc. dando particolare
attenzione alle categorie deboli.
Le nazioni devono quindi elaborare programmi mirati al pieno impiego dei lavoratori e introdurre forme di
indennizzo in caso di disoccupazione. Devono provvedere affinché il sistema di protezione contro la
disoccupazione contribuisca effettivamente alla promozione del pieno impiego non scoraggiando i datori di
lavoro dall’offrirlo.
• La Convenzione OIL n.88 ha previsto che gli Stati predispongano un servizio di collocamento gratuito
organizzato in modo da garantire l’efficacia del reclutamento e dell’impiego dei lavoratori, aiutando
quest’ultimi a trovare un’occupazione conveniente e aiutando i datori di lavoro a reclutare lavoratori adatti
ai bisogni delle imprese.
Inizialmente quest’attività era ad appannaggio esclusivo degli enti pubblici, per evitare che i privati
abusassero di tale attività. Successivamente è stata riconosciuta anche all’agenzie per l’impiego private una
funzione utile nelle dinamiche del mercato del lavoro, legittimandole a svolgere una serie di servizi.
Inoltre lo Stato deve accertarsi dell’assenza di ogni forma di discriminazione nell’erogazione di tali servizi.
Infatti i principi di parità e di non discriminazione sono alla base del concetto di pieno impiego, connessi al
riconoscimento del diritto di lavorare in condizioni adeguate e dignitose.

7) Il contesto europeo
La normativa europeo ha incorporato i più importanti principi alla base delle proprie iniziative normative e
politiche. Tali principi si rinvengono nei Trattati e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Una delle priorità nelle politiche europee e nazionali è sicuramente la promozione del lavoro dignitoso, in
quanto ogni individuo ha il diritto di lavorare ed esercitare una professione liberamente scelta, e la libertà
di cercare un lavoro o prestare servizi in qualunque Stato membro. Oltre al già citato diritto di accedere ai
servizi di collocamento, l’Unione garantisce il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e servizi sociali,
21

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

assicurando la protezione in casi di maternità, malattia, infortuni, vecchiaia, ecc. e misure specifiche in
favore dei disabili, per assicurarne il loro inserimento sociale.
L’Unione europea ha quindi l’obiettivo di creare un’economia sociale di mercato fortemente competitiva,
che assicuri piena occupazione, protezione sociale e formazione.
Concretamente l’UE elabora programmi che mirano a raggiungere gli obiettivi prefissati mediante il Fondo
sociale europeo, un portale informatico europeo per lo scambio di informazioni a livello transazionale.
Mediante il Regolamento UE 2016/589 è stata resa obbligatoria la rete europea dei servizi pubblici per
l’impiego, al fine di sostenere effettivamente la libera circolazione dei lavoratori e contribuire all’attuazione
di iniziative strategiche nel settore dell’occupazione, sostenendo maggiormente i gruppi sociali più
vulnerabili, con alto tasso di disoccupazione.

8) L’influenza internazionale ed europea sull’ordinamento giuridico nazionale: dal


collocamento pubblico ai servizi per l’impiego
La disciplina giuridica sull’organizzazione del mercato del lavoro e la sua regolamentazione fa leva
principalmente sulla funzione del collocamento pubblico: selezione dei lavoratori, controllo sulle
assunzioni e sui licenziamenti e certificazione del tasso di disoccupazione. Inizialmente, come abbiamo
visto, tale attività era affidata esclusivamente agli uffici del Ministero del lavoro.
I contraenti avevano una discrezionalità limitata e infatti la scelta del lavoratore da assumere era affidata al
Collocamento e non al datore di lavoro: era l’ufficio competente a decidere quale fosse il soggetto da
assumere, in base alle “liste di collocamento”.
Tuttavia questo sistema ben presto risulterà essere inidoneo e con la legge 608/1996 verranno liberalizzate
le assunzioni, mediante l’introduzione della regola generale delle assunzioni dirette. Fu previsto pero
l’obbligo di comunicazione dell’avvenuta assunzione alle strutture pubbliche.

9) Gli ambiti interessati dalle riforme degli anni 1997-2003


Negli anni tra il 1997 e il 2003, avviene un mutamento radicale dell’organizzazione giuridica del mercato del
lavoro.
Prima di tutto abbiamo il superamento del monopolio pubblico, assegnando un ruolo importante ai
soggetti privati, i quali possono esercitare attività di intermediazione, ricerca e selezione del personale e
ricollocazione.
L’assetto degli Uffici di collocamento fu stravolto e scomparve a seguito della creazione dei Centri per
l’impiego, ai quali furono attribuite funzioni di sostegno e promozione dell’occupazione.
Nel 2002 inoltre si intervenne nuovamente sul funzionamento del mercato del lavoro, sopprimendo le “liste
di collocamento” e introducendo “schede anagrafiche e personali dei lavoratori”. Si è tentato quindi di
creare canali informatici, banche dati attraverso la Borsa Continua Nazionale del Lavoro (BCNL).
Dal 2003 furono fatti poi ulteriori interventi di modifica, correzione e integrazione.

10) I livelli essenziali delle prestazioni, i destinatari delle misure e i principi alla base delle
politiche attive
Affinché le politiche del lavoro potessero essere più efficaci sin dal livello territoriale, ci si è avvalsi del
principio di sussidiarietà. Le Regioni hanno ereditato funzioni precedentemente attribuite al Ministero del
Lavoro, come il collocamento o la promozione dell’occupazione femminile, coordinamento di incentivi
finalizzati all’occupazione, ecc.
Restano invece in capo allo Stato i compiti di vigilanza in materia di lavoro dei flussi di lavoratori
extracomunitari, oppure la soluzione di controversie di rilevanza pluriregionale.
Con la riforma 56/2014 e la conseguente “soppressione delle Province”, la gestione di tali attività è affidata
congiuntamente tra lo Stato, le Regioni e le Provincie autonome, rafforzata dall’istituzione dell’ANPAL.

22

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Elencando gli enti, associazioni e istituzioni che svolgono attività di mediazione, ricerca e selezione del
personale, dobbiamo sicuramente menzionare le Agenzie private per il lavoro, iscritte in un apposito
elenco, diviso in sezioni in base alle attività svolta (ex: somministrazione, intermediazione, selezione,
ricollocazione personale, ecc.)
Gran parte di tali attività può essere svolta anche da Università, Comuni, Camere di commercio, istituti
scolastici, associazioni di datori e lavoratori, patronati, ecc. L’iscrizione all’Albo richiede il rilascio di
un’apposita autorizzazione, subordinata alla sussistenza di precisi requisiti. Diverso dall’autorizzazione è
l’accreditamento (a carico dell’ANPAL) che è un provvedimento con cui un soggetto viene riconosciuto
idoneo a operare nell’ambito della rete dei servizi per l’impiego territoriali.

Con il d.lgs 150/15 è stato assegnato un ruolo fondamentale nella gestione dei servizi per l’impiego
all’ANPAL, il quale è il centro di coordinamento della rete dei servizi per le politiche del lavoro. Tale rete è
costituita anche dalle strutture regionali, l’INPS, l’INAIL (con competenze in materia di reinserimento
lavorativo di persone con disabilità), Agenzie private per il lavoro, ecc.
Il Ministero del lavoro definisce le linee di indirizzo e gli obiettivi annuali delle politiche attive, ed è
ovviamente necessario assicurare l’esistenza dei Centri per l’impiego aperti al pubblico, oltre ai servizi di
politica attiva a tutti i residenti italiani. Devono inoltre essere predisposte attività di orientamento, ausilio e
avviamento alla formazione per il lavoro.
I servizi per l’impiego devono essere garantiti ai disoccupati, cioè coloro privi di impiego che danno
immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e partecipazione alle misure di politica attiva
del lavoro.
Per beneficiare di tali misure, è necessario, da parte dei lavoratori lo svolgimento di una serie di impegni
(oneri e obblighi), dai quali deriva l’erogazione di prestazioni da parte dei servizi per l’impiego
(“condizionalità”).
I soggetti interessati alle misure delle politiche attive/passive sono tenuti a registrarsi telematicamente al
“portale nazionale” e sulla base delle informazioni fornite, gli utenti verranno assegnati in una “classe di
profilazione”.
Per confermare lo status di disoccupati vengono convocati dai Centri per l’impiego entro 60 giorni per
stipulare un “patto di servizio personalizzato”, un accordo per la definizione di un piano di azione
individuale all'interno del quale sono contenute tutte le azioni da fare per l'inserimento o reinserimento nel
mondo del lavoro. A tal fine è necessario che nel patto sia riportata la disponibilità del disoccupato a
partecipare a proposte per rafforzare le competenze nella ricerca del lavoro, oltre al suo impegno di
accettare un’offerta di lavoro congrua. Per definire un’offerta di lavoro “congrua” vi sono dei parametri
stabiliti dal Ministero del Lavoro, in base alle competenze già maturate, la distanza dal domicilio, la durata
della disoccupazione e l’ammontare della retribuzione offerta per quel lavoro.
La non comparizione/non accettazione dell’offerta, preclude la possibilità di fruire degli ammortizzatori
sociali. Inoltre, i lavoratori titolari di strumenti di sostegno del reddito possono essere chiamati a svolgere
attività di servizio nei confronti della collettività nel territorio del Comune di residenza.
11) Gli strumenti operativi per l’incontro tra domanda ed offerta: in particolare, le
“banche dati”
È da sottolineare l’importanza di un luogo telematico tendenzialmente unitario, dove convergono richieste
e offerte di lavoro e dove il disoccupato possa registrarsi. Si avverte, anche a livello europeo, l’importanza
della tecnologia per lo scambio di dati: nell’EURES vi è un servizio informativo e di orientamento sul
mercato del lavoro nella UE, per favorire la mobilità geografica dei lavoratori. In ambito nazionale, invece,
abbiamo avuto vari portali come il SIL, poi sostituito dalla BCL. Inoltre anche l’INPS ha istituito una “banca
dati” di coloro che ricevono trattamenti previdenziali o altri sussidi o indennità pubbliche, nella quale
abbiamo tutti i dati disponibili e informazioni utili. Con ciò si mira allo scambio di informazioni tra servizi
per l’impiego ed enti previdenziali. Anche nel 2013 è stato rinnovato il sistema informativo, al fine di

23

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

razionalizzare gli interventi di politica attiva di tutti gli organismi centrali e territoriali coinvolti e raccogliere
info.

12) L’accesso al mercato del lavoro della gente di mare, dei lavoratori dello spettacolo
e in agricoltura
Esistono alcune discipline speciali per l’accesso al mercato del lavoro:
a) il collocamento della gente di mare  riguarda i lavoratori marittimi disponibili a prestare lavoro a bordi
di navi italiane o per conto di un armatore. L’attività di arruolamento è gestita dagli uffici di collocamento
della gente di mare.
Ruolo importante è svolto dagli “enti bilaterali” che sono autorizzati per svolgere l’attività di
intermediazione e allo svolgimento di tutti gli adempimenti/certificazioni affidati ai competenti uffici di
collocamento della gente di mare.
b) i lavoratori dello spettacolo  per tali lavoratori, in materia di collocamento, era stata istituita una lista
unica per il personale artistico e tecnico, tuttavia l’Ufficio speciale dei lavoratori dello spettacolo è stato
abrogato, uniformando le procedure di assunzione a quelle degli altri settori.
c) i lavoratori agricoli  coloro che prestano lavoro alle dipendenze degli imprenditori agricoli. La
peculiarità della loro attività è data dalla saltuarietà e della poca programmabilità dello svolgimento della
prestazione. Era stato previsto un sistema di norme per il collocamento dei lavoratori agricoli, adesso quasi
completamente modificato e abrogato.

13) Il c.d. collocamento dei disabili


Vi sono alcune categorie che meritano particolare attenzione, tra cui i disabili. Con la legge n.68/1999 è
stato posto l’obiettivo di promuovere l’inserimento e l’effettiva integrazione delle persone disabili nel
mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato. Con quest’ultima accezione si
intendono quelle misure tecniche finalizzate ad una valutazione adeguata delle persone con disabilità e
delle loro capacità lavorative al fine di inserire nel posto adatto, attraverso anche forme di sostegno.
Possono richiedere l’iscrizione nelle liste di collocamento “obbligatorio” le persone disabili non occupate:
tra loro invalidi civili (incapacità ridotta del 45%), invalidi del lavoro, sordomuti e ciechi.
Tutti i datori di lavoro (pubblici e privati) sono tenuti ad avere nelle proprie dipendenze lavoratori
appartenenti a quelle categorie in misura diversificata a seconda della dimensione dell’azienda. Per i datori
di lavoro che occupano da 15 a 35 persone tale obbligo sorge solo quando vi sia una “nuova assunzione”
per esempio il passaggio di personale a seguito di un’operazione societaria (ex: trasferimento d’azienda,
cessione o fusione).
I criteri per l’accertamento dello stato di invalidità si basano sul profilo socio-lavorativo e sulla diagnosi
funzionale nonché sulla valutazione della documentazione medica preesistente (da parte delle istituzioni
pubbliche).
Inoltre, l’art.5 della legge 68/1999 stabilisce che gli obblighi di assunzione di disabili e di categorie
equiparate devono essere rispettati a livello nazionale.
L’avviamento al lavoro dei disabili può essere attuato mediante convenzioni stipulate tra datori di lavoro.
Ovviamente ai lavoratori di questa particolare categoria si applica il trattamento economico e normativo
previsto da leggi e contratti collettivi, e vige il principio di parità di trattamento. Inoltre il datore di lavoro
non può chiedere prestazioni non compatibili con le minorazioni del disabile. Inoltre se viene riscontrata
una situazione di aggravamento che impedisca la prestazione lavorativa, il disabile ha diritto a un periodo di
sospensione non retribuito, fino a che la situazione persista.
[N.B. Inoltre, è stato potenziato il sistema di controlli per evitare l’abuso di ricorsi all’istituto dell’esonero totale o
parziale dell’obbligo di assunzione dei disabili. Infatti i Centri per l’impiego hanno l’obbligo di comunicare alle
competenti Direzioni territoriali del lavoro il mancato rispetto delle quote di riserva o dei vincoli previsti dalla
disposizione in materia di esoneri.]

24

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

14) Il lavoro dei cittadini non appartenenti all’Unione europea


Per quanto riguarda il lavoratore extracomunitario, vi sono delle norme speciali in tema di collocamento,
rinvenibili nel “Testo unico sull’immigrazione” (d.lgs 286/1998). Ovviamente, per poter accedere e lavorare
nel territorio italiano è necessario che il soggetto abbia diritto ad un permesso di soggiorno regolare, e per
ottenerlo è necessario attivare un lungo percorso burocratico volto all’accertamento della sussistenza di
tutti i requisiti.
L’ingresso per motivi di lavoro subordinato richiede il rispetto delle quote massime di stranieri ammessi dal
territorio dello Stato italiano annualmente, mediate il c.d. “decreto flussi d’ingresso” e i criteri per
determinare tali flussi sono individuati nel documento programmatico relativo alla politica
dell’immigrazione e degli stranieri predisposto da PdC.
Per ottenere l’autorizzazione al lavoro, è necessario che il datore di lavoro si attivi presso la Prefettura e
presenti allo sportello unico per l’immigrazione una richiesta nominativa di nulla osta al lavoro, oltre a
presentare documentazione idonea relativa alle modalità di sistemazione alloggiativa per il lavoratore
straniero, e la dichiarazione di impegno nella comunicazione di ogni variazione del rapporto di lavoro.
Una volta ottenuto il permesso di soggiorno, i lavoratori extracomunitari hanno diritto a un trattamento
economico e normativo pari a quello dei lavoratori comunitari, e nel caso di interruzione del rapporto
lavorativo, il soggetto ha diritto a essere iscritto nelle liste di collocamento.

15) Il lavoro sommerso: le coordinate del tema


Vi è purtroppo da constatare che una parte consistente delle relazioni di lavoro si instaura al di fuori delle
regole e della disciplina protettiva e di tutela del Diritto del lavoro. Questi tipi di relazioni lavorative
prendono il nome di “lavoro sommerso/nero/irregolare” che viene costantemente contrastato
dall’ordinamento giuridico, sebbene si annidi tra le piaghe delle economie di tutti i paesi del mondo. C’è
una varietà cospicua di fenomeni appartenenti al lavoro sommerso e perciò si comprendono le difficoltà di
impostare politiche e modelli al fine di contrastare il fenomeno, oltre al fatto che si alternano varie tecniche
e rimedi, adoperati nel corso del tempo. Vi è, quindi, un processo regolamentare dinamico, quasi
sperimentale che deve fare i conti con un contesto reale assai complesso e stratificato.
La certezza è che tali fenomeni devono essere costantemente osservati e perseguiti, dato che essi possono
ledere i diritti, le libertà e la dignità delle persone, solidarietà fiscale, oltre che la libera concorrenza tra le
imprese.

 Per trovare una definizione di tale fenomeno la Commissione Europea ci suggerisce:


“sommersa è qualsiasi attività retribuita di per sé lecita ma non dichiarata alle autorità pubbliche,
tenendo conto delle diversità dei sistemi giuridici vigenti negli Stati membri”

L’Europa inoltre interviene anche dalla prospettiva, più recente, del flusso migratorio diretto nei paesi
europei.
A tal proposito abbiamo una direttiva del 2009 che vieta l’impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è
irregolare, al fine di contrastare l’immigrazione illegale: essa stabilisce, inoltre, norme minimi e sanzioni
applicabili nei confronti di coloro che violano tale divieto. È stata inoltre istituita una piattaforma per
prevenire e scoraggiare il lavoro nero.

16) Tecniche e modelli di intervento per il contrasto e la prevenzione del lavoro


sommerso
Possiamo delineare tre tecniche e modelli di intervento:
- primo tipo  diretto e impostato sull’intensificazione delle attività ispettive degli organi di vigilanza e
sull’inasprimento delle sanzioni;

25

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

- secondo tipo  promozionale, diretto e finalizzato ad agevolare la regolarizzazione delle attività non
dichiarate, inducendo i datori di lavoro ad osservare le leggi e i contratti collettivi
- terzo tipo  serie di interventi, indiretti e molto variegata: flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e
semplificazione delle procedure di avviamento al lavoro.
Per quanto concerne le misure dirette, abbiamo la previsione sui contratti di riallineamento, definiti anche
“accordi di gradualità” che prevedeva un’applicazione graduale dei contratti collettivi nazionali di lavoro da
realizzare entro un certo numero di anni. Tale “riallineamento retributivo” si fonda su un sistema
concertativo di scambio tra aziende, sindacati e autorità pubbliche (ex: INPS).
Nel 2001 tale tecnica del riallineamento viene messa da parte e ci si inizia a concentrare sull’impresa,
riconoscendo al datore di lavoro incentivi fiscali e contribuitivi nel caso essi effettuino “dichiarazione
spontanea” circa la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare col un proprio dipendente. Tuttavia
questo modello ha mostrato limiti operativi.
Nel 2006 si apre una nuova fase: con la legge finanziaria per il 2007 si prescrivono numerose misure al fine
di contrastare il lavoro nero e migliorare il livello di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Tra le novità si introducono gli “indici di congruità” che rapportano la qualità dei servizi e beni prodotti
dalle imprese con la quantità delle ore necessarie per produrli. Inoltre, operativamente abbiamo la
previsione di meccanismi di rafforzamento della capacità ispettiva, e ci si inizia a preoccupare anche degli
aspetti di sicurezza sul lavoro.
Nel 2008, con l’insediamento di un nuovo esecutivo, si assiste ad un “reset” di alcune iniziative in materia di
sommerso: per esempio verrà abrogata la previsione sugli indici di congruità. Infatti, in questo periodo, gli
interventi legislativi saranno maggiormente mirati lungo il filo conduttore finanziario e fiscale, per esigenze
contabili di riduzione del debito pubblico e a causa della presenza della recessione economica
particolarmente grave nel nostro Paese.
Le politiche adottate dal 2011 ad ora, si concentreranno maggiormente sui profili ispettivi e sanzionatori,
lasciando però anche spazio all’emersione.
In ambito penale va menzionato il reato legato allo sfruttamento della manodopera: il “caporalato”
(art.603-bis c.p.)
Tale fattispecie si realizza nei casi di reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso
terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno dei lavoratori, oppure nelle
ipotesi di utilizzazione, assunzione e impiego di manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di
sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno. Tuttavia va segnalata anche la tendenza alla
depenalizzazione di alcuni reati attinenti al diritto del lavoro, come ad ex: reato di omesso versamento delle
ritenute previdenziali. Negli ultimi anni bisogna sottolineare come, oltre all’approccio repressivo della lotta
al sommerso, vi sia una tendenza innovativa per incentivare l’emersione e quindi la regolarizzazione dei
rapporti di lavoro subordinato.

17) Le attività ispettive


Le ispezioni sul lavoro rappresentano un’attività fondamentale del sistema delle garanzie dei diritti del
lavoratore.
Si tratta di controlli amministrativi, svolti da funzionari pubblici e finalizzati alla prevenzione e
all’osservanza delle norme della legislazione sociale, dei contratti collettivi di lavoro e della disciplina
previdenziale.
Tale attività è attribuita all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, la cui funzione principale è il coordinamento
della vigilanza in materia di lavoro, contribuzione e assicurazione obbligatoria. Inoltre definisce tutte la
programmazione ispettiva e le specifiche modalità di accertamento, dettando linee di condotta e linee di
carattere operativo per il suo personale.

26

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

I loro poteri ispettivi consistono in procedimenti di tipo istruttorio, finalizzati all’acquisizione di elementi di
fatto e di diritto e in procedimenti di tipo sanzionatoria, con lo scopo di ripristinare le condizioni di legalità.
Un ruolo fondamentale è occupato dai d.lgs. 124/2004 e d.lgs. 149/2015 che hanno riformato e
razionalizzato l’intero assetto dei servizi ispettivi e ridefinito alcuni poteri già esistenti in capo agli organi di
vigilanza, oltre a attribuirne nuovi.
Tra l’altro le ispezioni comprendono anche controlli in materia di previdenza sociali e quelli sull’igiene e
sicurezza del lavoro. Gli ispettori possono visitare ogni parte dei luoghi di lavoro, tranne quelli locali che
non sono collegati all’esercizio dell’azienda, sebbene possano comunque ispezionarli nell’ipotesi in cui vi sia
sospetto che in quei luoghi si compiano comunque esercizi lavorativi in violazione della legge, oppure
chiedere informazioni a qualsiasi soggetto, ente e persino ai lavoratori.

■ In ambito penale, abbiamo il provvedimento della prescrizione obbligatoria che l’organo ispettivo
emette ogniqualvolta si ravvisino gli estremi di reato di natura contravvenzionale in materia di lavoro, e
consiste nell’emanazione di direttive per rimuovere o far cessare la violazione. Il trasgressore, per
beneficiare dell’estinzione del reato, deve adempiere entro un termine stabilito e successivamente pagare
una somma pecuniaria, di natura amministrativa.
■ In ambito amministrativo, assume rilievo la contestazione di illecito amministrativo, che comporta una
sanzione pecuniaria e se vi è inadempimento comporta anche un’ordinanza-ingiunzione:
- La diffida precettiva è un atto amministrativo con cui si ordina al datore di lavoro di regolarizzare
inosservanze sanabili. Se vi è adempimento, l’importo della sanzione è minimo. Inoltre la diffida è
condizione di procedibilità per la contestazione dell’illecito amministrativo.
- La diffida accertativa (per crediti) consegue all’accertamento di violazione da cui risultino somme
spettanti ai lavoratori. Il datore di lavoro può adempiere, corrispondendo le somme direttamente al
lavoratore, oppure promuovere entro 30 giorni la conciliazione. Decorso questo termine e fallita la
conciliazione, la diffida acquista “valore di accertamento tecnico” con efficacia di titolo esecutivo.
- La disposizione è un atto emanato dagli ispettori per integrare le norme generiche in materia di lavoro,
obbligatorio ed immediatamente esecutivo per il datore di lavoro.
- La conciliazione monocratica è un meccanismo, invece, finalizzato alla soluzione conciliativa di eventuali
infrazioni e riguarda sostanzialmente i diritti patrimoniali del lavoratore, quando vi sia un mancato
rispetto degli obblighi retributivi e contributivi.
Va infine specificato che tra gli obiettivi dell’autorità ispettiva vi è sicuramente il contrasto al lavoro
“sommerso” prevedendo l’applicazione della “maxisanzione” contro il lavoro nero, nel caso di mancata
comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Altro strumento essenziale è la sospensione
dell’attività, adottato quando si accerti l’impiego di personale non risultante dalla documentazione in
misura pari o superiore al 20% del totale.

27

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 4 - I contratti di lavoro: subordinazione, organizzazione e rapporti speciali

1) Il contratto di lavoro come espressione di autonomia negoziale privata:


potenzialità e limiti
Col termine contratto intendiamo la fonte volontaria dei diritti e doveri connessi ad un rapporto di lavoro.
Mediante questo strumento ci si libera dai sistemi precedenti caratterizzati dalla schiavitù e dai sistemi
servili, basati su profonde restrizioni della libertà personale. Supiot parla infatti di “missione civilizzatrice del
contratto individuale”, per affermare fino in fondo la distinzione tra persone e cose. Alla base c’è infatti
l’affermazione del principio “il lavoro non è merce”.
Soffermandoci sul concetto di giustizia da porre alla base della regolamentazione del contratto individuale,
questo essendo connesso ad un’economia di mercato, segue le logiche della giustizia commutativa.
Tuttavia, avendo alla base il concetto essenziale del lavoro, che è inscindibile dalla persona fisica, risponde
anche a logiche di giustizia distributiva.
Al di là di tutto, ci troviamo di fronte ad un contratto “sbilanciato”, che richiede il ripristino della parità
formale dei contraenti, ed è proprio l’intervento della legislazione inderogabile a mitigare le
preoccupazioni di un uso strumentale della funzione organizzativa del contratto. A tal motivo, i suoi
contenuti negoziali vengono determinati dalle leggi o dalla contrattazione collettiva.

2) Le parti
Tra gli elementi essenziali del contratto individuale di lavoro abbiamo sicuramente le parti. Partendo dalla
figura del datore di lavoro, il quale può essere sia “imprenditore” che “non imprenditore”, l’art.2086 c.c. fa
coincidere il datore di lavoro con la figura del capo dell’impresa da cui dipendono gerarchicamente i suoi
collaboratori. L’art.2239 c.c. estende poi l’applicazione della disciplina sul lavoro subordinato ai rapporti
non inerenti all’esercizio di un’impresa, in quanto compatibile con la specialità del lavoro. Spesso rilevante
è la dimensione dell’organizzazione datoriale, in base al numero di dipendenti, che condiziona il campo di
applicazione delle discipline o specifiche tutele.
Per quanto riguarda la disciplina più articolata che riguarda il lavoratore, prima di tutto assume rilievo la
sua capacità giuridica essere parte del contratto. Poi l’art.2 c.c. riconosce solo a chi ha compiuto la
maggiore età la normale capacità di agire, mentre al comma 2 sono fatte salve le leggi speciali che
stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare lavoro (capacità giuridica speciale). Sempre
per le leggi speciali, l’età minima lavorare è sottoposta al duplice requisito: compimento dell’età minima
prevista (16 anni) e l’assolvimento dell’obbligo di istruzione (per almeno 10 anni), vietando di adibire al
lavoro chi non ha tali requisiti.

3) La disciplina della forma e della volontà negoziale


Al contratto si applica il principio generale della libertà della forma: la stipulazione del contratto non
richiede particolari requisiti formali e può essere anche pattuita verbalmente. Rilevanti eccezioni si trovato
nella disciplina dei contratti di lavoro flessibili, per i quali è richiesta la forma scritta come requisito “ad
substantiam” (a pena di nullità, come ad esempio: patti di prova/contratti a termine) o “ad probationem”
(non condiziona la validità, però è rilevante la forma ai fini della prova dell’esistenza del contratto).
In capo al datore di lavoro vi sono una serie di obblighi di informazione, da fornire al lavoratore entro 30
giorni dalla data di assunzione per quanto concerne: luogo di lavoro, durata, qualifica attribuita, orario di
lavoro, durata delle ferie retribuite, ecc.) oltre all’obbligo di consegnare ai lavoratori una copia della
comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro, prima dell’inizio dell’attività lavorativa.
Inoltre è imposto l’obbligo ai datori di lavoro privati (tranne quelli domestici) di tenere un libro unico del
lavoro, dove iscrivere tutti i lavoratori subordinati, collaboratori, gli associati, ecc.
Per quanto riguarda l’accordo, si applicano gli artt.1321 e 1325, dato che senza l’accordo delle parti il
contratto non nasce. Del tutto libera deve essere la scelta di stipulare il contratto e di scegliere l’altro
28

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

contraente, ad eccezione del lavoro pubblico la cui scelta del contraente incontra il limite previsto
dall’art.97 della Cost: la stipulazione del contratto deve avvenire a seguito di formali procedure selettive e
direttive per accertare la professionalità del lavoratore e la scelta del contraente è subordinata alla
collocazione nella graduatoria.

Inoltre l’accordo deve essere immune da vizi del consenso:


- non vi deve essere errore che possa incidere sul processo di formazione del consenso, dando vita ad una
distorta rappresentazione della realtà. Ai fini della sua rilevazione, esso deve essere essenziale (se cade su
aspetti determinati della fattispecie negoziale) e riconoscibile (riguardo l’astratta possibilità di ravvisare
l’errore con diligenza).
- non vi deve essere dolo che consiste in raggiri ai quali ricorre uno dei contraenti per indurre in errore
l’altra parte. Affinché sia rilevante è sufficiente provare che, senza dolo, la parte indotta non avrebbe mai
concluso l’accordo.
- per quanto riguarda la simulazione, si applica la disciplina codicistica art.1414: si distingue l’ipotesi di
simulazione relativa in cui è valido l’accordo dissimulato, perché ne sussistano i requisiti di forma e
sostanza; e l’ipotesi di simulazione assoluta in cui il contratto non produce effetti tra le parti.
Frequentemente, infatti, capita che le parti dichiarino di stipulare un contratto di lavoro autonomo,
seppure invece intendano stipulare un contratto subordinato, e tale ipotesi configura una simulazione
relativa. Non sempre è necessario provare la simulazione, dato che è più pratico dare rilievo alle modalità
dell’esecuzione del contratto, piuttosto che alla volontà delle parti.

4) Il patto di prova consiste nella previsione di un periodo iniziale in cui le parti possono recedere senza
obbligo di preavviso (art.2096 cc). Si tratta di un elemento accidentale previsto dal contratto di lavoro, da
considerare come una condizione risolutiva del contratto, dato che la sua prosecuzione viene preclusa
dall’esito negativo della prova.
Tale patto deve risultare da atto scritto, la cui mancanza determina una nullità solo parziale del contratto.
Inoltre, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni da espletare, senza la quale non è possibile
un’effettiva valutazione di capacità e professionalità. Seppure tuteli l’interesse di entrambe le parti circa la
sperimentazione della convenienza del contratto, in pratica è utile maggiormente per il datore del lavoro
per scegliere meglio i suoi lavoratori. La durata della prova è stabilita dai contratti collettivi e non può
eccedere i 6 mesi. Pur non essendo necessaria una motivazione sulla valutazione finale della prova, occorre
che si consenta un effettivo svolgimento della prova. In caso contrario, il lavoratore può impugnare il
licenziamento se determinato da motivi illeciti, e se vi è interruzione del periodo prima dei 6 mesi, il
lavoratore può chiedere di proseguirla fino alla scadenza del periodo pattuito, oppure vedersi risarcito il
danno, quantificato con riguardo alle retribuzioni dovute durante la prova.
[N.B. la sua importanza si è ridotta a causa della possibilità di stipulare contratti flessibili, seppure a questi può apporsi
il patto di prova].

5) La fattispecie contrattuale sotto il profilo causale: subordinazione, funzione


organizzativa, corrispettività. I c.d. indici sintomatici della subordinazione
Passando alla causa del contratto di lavoro, il punto di riferimento è l’art.2094 c.c. secondo cui: “è
prestatore di lavoro subordinato colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa,
prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
[N.B. Seppur tale articolo ha un ruolo centrale in tal senso, occorre tenere in considerazione il fatto che esso non è
l’unico diretto ad individuare fattispecie contrattuali in vengono dedotte obbligazioni lavorative e che la nozione di
subordinazione si rinviene anche in altre fonti sovraordinate a tale articolo, come ad esempio le norme delle
Costituzione italiana o quelle del diritto dell’Ue].

29

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Tuttavia i tratti caratterizzanti del contratto di lavoro subordinato vanno ricavati attraverso un’attenta
interpretazione dell’art.2094:
- il contratto di lavoro è un contratto di scambio, nel quale una parte si obbliga a collaborare con l’altra
mediante una retribuzione, da fissare in maniera proporzionata alla quantità e la qualità del lavoro prestato
e sufficiente a garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa.
- il contratto di lavoro ha un’intrinseca funzione organizzatrice, in quanto l’adempimento della prestazione
lavorativa deve realizzarsi sotto la direzione dell’imprenditore, rispettando tutte le disposizioni impartite
per l’esecuzione della prestazione ed assoggettandosi ai restanti poteri datoriali (conformativo, di controllo
e disciplinare).
Il tratto caratterizzante della subordinazione sta nella strutturale sottoposizione funzionale del lavoratore
ai poteri datoriali, intesa come continuità giuridica dell’essere a disposizione adottando tutti i
comportamenti richiesti dal contratto. Quindi, il contratto di lavoro subordinato garantisce l’organizzabilità
giuridica della prestazione professionale.
Analizzando le differenze tra lavoro subordinato e lavoro autonomo: nel primo la prestazione deve
essere eseguita personalmente dal lavoratore ed è definita solo a grandi linee dal contratto, cioè sono
proprio le modalità attraverso cui dev’essere eseguita la prestazione (definite con l’espressione “sotto la
direzione”) a caratterizzare il contratto;
nel secondo, invece, sono sempre e solo le “condizioni stabilite dal contratto” a legittimare eventuali
interventi del datore del lavoro (o creditore) volti a verificare che la prestazione non si discosti dagli
impegni negoziali presi.
L’esercizio effettivo dei poteri datoriali o l’esercizio di concrete modalità nella gestione dell’esecuzione del
contratto sono indici da cui poter desumere la subordinazione del lavoratore (mediante i c.d. indici
sintomatici, che possono consistere sia nel rilevare precise modalità di impartire direttive, fissare la durata
della prestazione, sia nel comprare uno specifico rapporto di lavoro ad altri, dedotti in contratti di lavoro
subordinato).
In ordine alla qualificazione pattizia del rapporto, si è introdotto l’istituto della certificazione, una sorta di
qualificazione forzata, che comporta che il contratto può essere sempre sottoposto a verifica giudiziale per
difformità tra il programma negoziale e la sua successiva attuazione, con la conseguenza che prevale, in
ogni caso e anche retroattivamente, la qualificazione giudizialmente accertata.

6) La fattispecie contrattuale e le sue inevitabili ricadute socio-strutturali: la


dipendenza del lavoratore
L’attività lavorativa subordinata determina la dipendenza dall’organizzazione, cioè che il lavoratore,
strutturalmente e giuridicamente, dipende dall’attività organizzatrice del suo datore di lavoro, per tutto
quello che attiene al soddisfacimento delle esigenze personali e professionali. Tale espressione “alle
dipendenze” è contenuta testualmente nell’art.2094 c.c. il quale configura nella fattispecie contrattuale
uno “sbilanciamento contestualizzato”, cioè connesso al radicamento organizzativo della prestazione
lavorativa, indipendentemente dal ruolo e dalla gerarchia del lavoratore.
La funzione organizzatrice del contratto di lavoro genera inevitabilmente subordinazione, e quindi
“dipendenza”.
L’ordinamento, in virtù dell’art.35 Cost è tenuto a tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, e
perciò deve tener conto della “dipendenza” come tratto caratterizzante di un contratto che richiede regole
peculiari per far sì che la necessaria subordinazione non generi un eccesso di dipendenza inaccettabile.

30

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

7) Tendenze del terzo millennio: più collaborazione, meno subordinazione, più


dipendenza
Anche se inevitabile, la dipendenza non è un valore né una relazione giuridicamente meritevole di sostegno
legislativo ed anzi essa richiede interventi “correttivi” perché contraddice il dogma contrattuale e perché
confligge con i valori costituzionali di uguaglianza, libertà, solidarietà ecc.
Allo scopo di bilanciare tale dipendenza del lavoratore subordinato, si è intervenuti in maniera incisiva sulla
fattispecie contrattuale, sottoponendo a limiti penetranti tutti i poteri organizzati del datore di lavoro.
Tali interventi configurano la modernizzazione del diritto del lavoro italiano, dando piena attuazione ai
principi costituzionali e affermando il c.d. Welfare State, basato sul riconoscimento dei diritti sociali dei
lavoratori.
L’ordinamento ha prodotto un potenziamento degli strumenti legali per garantire ai lavoratori una
rappresentanza collettiva, garantendo ampiamente il diritto di sciopero e la contrattazione collettiva.
Tutto ciò ha comportato la nascita di altre fattispecie dirette a realizzare una collaborazione coordinata
e continuativa tra impresa e lavoro (i c.d. “co.co.co.” previsti dall’art.409 c.p.c.).
Da ciò abbiamo una progressiva “fuga dalla subordinazione”, intesa come propensione delle imprese a
scegliere tipi contrattuali diversi da quello classico previsto dall’art.2094 c.c. , caratterizzando una tendenza
a dislocare l’organizzazione imprenditoriale in “luoghi” ordinamentali in cui le regole da applicare erano
diverse da quelle previste dalla fattispecie centrale.
Quindi, è stata registrata una domanda crescente di collaborazione senza subordinazione, e in Italia la
reazione legislativa a tale “fuga” ha generato una notevole frammentazione del mercato del lavoro,
proprio perché la fattispecie contrattuale si è spostata verso molti rapporti atipici (come ad esempio i
contratti a termine o i contratti a progetto), rendendo più complesso il diritto del lavoro.
Va anche detto che sotto un altro punto di vista la collaborazione senza subordinazione genera comunque
dipendenza dall’organizzazione cui la prestazione è raccordata e quindi la tendenza a riequilibrare gli effetti
della dipendenza stessa.
Mediante la Riforma Fornero (2012) si pose l’obiettivo di rendere di nuovo “dominante” il contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato e di incentivare i contratti flessibili con più garanzie (cioè
incentivare i contratti a termine rispetto a quelli parasubordinati). Tuttavia, va notato che il tentativo di
questa riforma, cioè di ridurre la dipendenza anche nei lavori “atipici”, finì per intervenire sulla flessibilità
del lavoro, andando a ridurre i vincoli al licenziamento che rappresentano il vero strumento contro la
subordinazione che degenera in dipendenza. Da questo punto di vista, vediamo che il diritto del lavoro
procede in “retromarcia” verso la centralità della fattispecie contrattuale che provoca di nuovo uno
sbilanciamento delle posizioni tra le due parti, questa volta a favore del datore di lavoro.
Nel 2015 con il Jobs Act è stata rivisitata la Riforma Fornero, con lo scopo di rendere più chiara e lineare la
riduzione dei vincoli al potere di licenziamento per tutti gli assunti con il contratto a tutele crescenti, il
quale è l’unico contratto utilizzabile per assumere lavoratori subordinati a tempo indeterminato dal marzo
2015: tutto ciò significa attenuare fortemente la protezione del lavoratore rispetto alla sua condizione di
eccessiva dipendenza.
Quindi, in sintesi possiamo dire che attualmente il diritto del lavoro si sta muovendo verso un
riassestamento intorno ad una fattispecie contrattuale che coniuga subordinazione e dipendenza
personale, con un forte rischio di regresso, rinunciando ad attenuare tale condizione di dipendenza del
lavoratore.
[N.B. Tale scelta del diritto del lavoro potrebbe essere compatibile con l’affermazione dei valori costituzionali e dei
diritti sociali riconosciuti sia in Europa che dal punto di vista internazionale. Ovviamente il rischio di perdere
arbitrariamente il lavoro deve essere bilanciato da una rete di risorse collettive volte a sostenere adeguatamente il
reddito dei disoccupati e farli transitare rapidamente verso un altro lavoro che restituisca al cittadino reddito e
dignità. Tale nuovo equilibrio, in Italia, sembra essere ancora lontano].

31

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

8) La parasubordinazione, ovvero la collaborazione dipendente ai confini della subordinazione:


le collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 c.p.c. prima e dopo il d.lgs. 81/2015
Analizzando dettagliatamente la disciplina dei diversi contratti di lavoro, vediamo che l’art.409 c.p.c.
estendeva le regole del processo sul lavoro anche a prestazioni lavorative coordinate e continuative senza
vincolo di subordinazione (cioè i “co.co.co.”) che aprono la strada della c.d. “parasubordinazione”, cioè
un’area intermedia tra subordinazione vera e propria e lavoro autonomo. Vi sono dei requisiti per
l’applicazione dell’art.409:
- la continuità  ricorre quando la prestazione non sia occasionale, ma perduri nel tempo e richieda un
impegno costante del prestatore a favore del committente;
- coordinazione  cioè la connessione funzionale derivante da un prolungato inserimento
nell’organizzazione aziendale;
- personalità  si ha nel caso di prevalenza del lavoro personale del contraente sull’opera svolta da
collaboratori;
Tali “co.co.co.” hanno il vantaggio di non avere nessuna rigidità legislativa e di essere meno costose,
perché non vi è applicazione delle elevate aliquote degli oneri previdenziali.
Inoltre tra gli anni ’70 e ’80 cresce l’impiego di contratti di lavoro autonomo (c.d. partite IVA), insieme
all’affermazione di nuove professionalità che utilizzano forme contrattuali diverse dal lavoro subordinato
(contratti a termine, part-time).

Negli anni ’90 si accentua il fenomeno della “fuga dalla subordinazione”, con il ricorso a rapporti di lavoro
meno costosi, spesso arginata dal sistema giudiziario e sindacale che danno più attenzione ai rischi di
lesioni alle garanzie del lavoro subordinato. Ci troviamo di fronte ad un dibattito sull’esigenza di
flessibilizzare la legislazione in materia di lavoro subordinato e, al contempo, di adeguare le regole i costi
complessivi del c.d. lavoro atipico.
Nel 2003 la Riforma Biagi introduce le collaborazioni coordinate a progetto, dette anche “co.co.pro.” che
vengono affiancate alle “co.co.co.”
In entrambi i casi parliamo di lavoro autonomo, ma vi sono delle differenze concernenti i requisiti per la
stipulazione del contratto: per i “co.co.pro.” è prevista espressamente la forma scritta ad substantiam e il
lavoro a progetto deve essere riconducibile a uno o più progetti specifici determinati dal committente e
gestiti autonomamente dal collaboratore. Inoltre vengono previste alcune precauzioni per evitare l’abuso
dei co.co.pro: il progetto deve essere funzionalmente legato ad un determinato risultato finale e non può
comportare svolgimento di compiti esecutivi e ripetitivi, oltre ad avere una durata predeterminata o
determinabile].
Comunque, il “co.co.pro.” verrà abrogato dal d.lgs. 81/2015 (Jobs Act), rimanendo intatta la possibilità di
stipulare invece i “co.co.co.” e lo stesso d.lgs. ha introdotto un’ulteriore articolazione della loro disciplina,
tripartendoli in:
- “co.co.co.” liberamente stipulabili anche a tempo indeterminato da tutti i datori di lavoro privati, purché
abbiano determinate caratteristiche da distinguerli dalla prestazione di lavoro subordinato;
- “co.co.co.” che si concretizzano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimenti a tempi e luogo di lavoro,
ai quali si applica la disciplina del contratto di lavoro subordinato;
[N.B. va specificato che tale tipologia di “co.co.co.” si pone in una zona di confine tra subordinazione e lavoro
autonomo/parasubordinato, e perciò tali contratti si caratterizzano per una “etero-organizzazione”, che pur non
presentando poteri tipici direttivi del datore, limita la libertà del lavoratore nello scegliere tempi e luogo della
prestazione].
- “co.co.co.” individuati o in virtù di specifiche discipline sul trattamento economico, contenute in accordi
collettivi stipulati dai sindacati o perché riguardanti esercizio di professioni intellettuali, prestazioni svolte
in ambito di organismi collegiali, prestazioni a fini istituzionali in favore di associazioni ed enti che
svolgono attività sportiva.

32

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

9) Il lavoro occasionale
Per quanto riguarda il lavoro occasionale, che ha sostituito il vecchio rapporto definito “lavoro
accessorio”, si può fare ricorso se lo svolgimento della prestazione dà luogo a compensi di importo
complessivamente non superiori a 5000€ e per ciascun lavoratore o utilizzatore oppure per le prestazioni
complessivamente rese da ogni lavoratore in favore del medesimo utilizzatore che diano luogo a compensi
di importo non superiore a 2500€.
A tale lavoro possono ricorrere sia le persone fisiche che non esercitino attività d’impresa/professionale,
che società sportive mediante il “Libretto Famiglia”, il quale è un libretto nominativo prefinanziato,
acquistabile mediante la piattaforma informatica INPS per il pagamento di prestazioni occasionali rese per
lavori domestici, assistenza domiciliare, insegnamento privato o attività di “steward” negli impianti sportivi.
Gli altri utilizzatori privati che non possono utilizzare il “Libretto”, fanno ricorso al contratto di prestazione
occasionale, sempre attraverso la piattaforma INPS, alla quale l’utilizzatore deve dichiarare: i dati anagrafici
e identificativi del prestatore, il luogo di svolgimento della prestazione, la data e l’ora di inizio e di termine,
oggetto della prestazione, ecc.
È vietato ricorrere al lavoro occasionale per: gli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 5
lavoratori subordinati; le imprese del settore agricolo; imprese dell’edilizia; nell’ambito dell’esecuzione di
appalti di opere/servizi.
Le amministrazioni pubbliche possono adottare questa forma di lavoro in caso di ipotesi temporanee o
eccezionali come: progetti speciali per categorie di poveri, disabili, detenuti; lavori di emergenza a seguito
di calamità naturali; attività di solidarietà; manifestazioni sociali, sportive, culturali.
Sono riconosciute determinate tutele come l’assicurazione per l’invalidità, vecchiaia, contro gli infortuni sul
lavoro o malattie; diritto al riposo giornaliero e pause e riposi settimanali.
Sono sanzionati pecuniariamente violazioni del divieto di utilizzare il lavoro occasionale o ricorso al
contratto di prestazione occasionale senza comunicare all’INPS i dati precedentemente elencati.

10) Il lavoro autonomo. In particolare i riders autonomi


Per quanto riguarda il lavoro autonomo al di là dell’applicazione delle poche regole codicistiche (art.2222
ss.) si segnalano ulteriori sviluppi legislativi derivanti dallo Statuto del lavoro autonomo l.81/2017, che
garantisce a tutti i lavoratori autonomi una serie di tutele come:
- considerare abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto per iscritto;
- considerare inefficaci le clausole contrattuali che attribuiscono unilateralmente il potere di modificare il
contratto o di recedere senza congruo preavviso nei contratti di durata, o ancora di prevedere termini di
pagamento superiori ai 60 giorni dal ricevimento della fattura;
- si applica l’abuso della dipendenza economica, che sanziona con nullità condizioni contrattuali
ingiustamente gravose o discriminatorie;
- si rafforzano o estendono protezioni legate alla sicurezza sul lavoro, maternità, malattia ecc.
Nel 2019 sono poi introdotte alcune specifiche garanzie per i riders autonomi. Questi, seppur in modo poco
soddisfacente, sono definiti dal legislatore come: “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di bene
per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi a motore … attraverso anche piattaforme digitali”.
Per questi riders, la legge impone:
a) un contratto stipulato per iscritto “ad probationem”;
b) criteri per la determinazione di un compenso complessivo fissato da specifici contratti collettivi, o in
alternativa, il diritto ad un compenso minimo orario pari ai minimi tabellari previsti dai contratti collettivi
nazionali di settori affini/equivalenti;
c) indennità per lavoro notturno, festivo o con cattivo tempo;
d) divieti di discriminazione, protezione dei dati personali e coperture assicurative contro infortuni sul lavoro.
[N.B. l’equo compenso, introdotto nel 2017, riguarda solo avvocati e liberi professionisti titolari di contratti di lavoro
autonomo e soggetti a convenzioni con grandi imprese].

33

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

11) Il lavoro agile (smart work)


Inoltre, la legge 81/2017 ha introdotto un istituto per favorire la flessibilità dei tempi e dei luoghi di
svolgimento del lavoro subordinato: il c.d. lavoro agile (smart work), caratterizzato da:
- un’assenza di precisi vincoli riguardanti il lavoro, che può essere svolto sia all’interno dei locali aziendali,
sia al di fuori di essi;
- l’assenza di precisi vincoli di orario di lavoro;
- il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività.
Tale istituto è stato introdotto per incrementare la competitività delle imprese ed agevolare la conciliazione
tra tempi di lavoro e non lavoro nel contesto della rivoluzione digitale, che sta cambiando i processi
produttivi ed introduce una dose di autonomia del lavoratore che riflette la modernità socio-economica e
culturale.
La modalità di tale lavoro è stabilita con un accordo tra le parti stipulato in forma scritta, mentre la legge
rimette alla volontà delle parti le forme di esercizio (non i contenuti) del potere direttivo e potere di
controllo sulla prestazione.
[N.B. Rispetto a questa disciplina “fisiologica”, occorre tener conto di una disciplina eccezionale che, per promuovere
ancor di più il lavoro agile al fine di contenere le difficoltà organizzative causa dalla necessità di prevenire il contagio
da virus SARS-CoV-2, elimina fino al 31/07/2020 ogni necessità di pattuizione individuale sulle modalità di esecuzione
della prestazione. Nella stessa logica, il lavoro agile viene definito “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione
lavorativa nelle pubbliche amministrazioni” e ogni amministrazione deve adottare entro il 31 gennaio il POLA (Piano
Organizzativo Lavoro Agile). La disciplina derogatoria, in quanto strettamente connessa all’emergenza
epidemiologica, dovrebbe venir meno con la fine dello stato di emergenza (per ora prorogata al 31 gennaio 2021).
Non è da escludere che questa fase influenzerà la previgente disciplina, inducendo nuove modifich e].
Dal punto di vista delle garanzie abbiamo la protezione della salute e dal rischio di confusione tra tempi di
lavoro e non lavoro, con la previsione obbligatoria dei tempi di riposo e delle misure utili alla
“disconnessione” del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche del lavoro.

12) Il lavoro e le organizzazioni in forma associativa


Per quanto riguarda il lavoro a favore di organizzazioni che ricorrono alle forme di tipo associativo,
parliamo di contratto di associazione in partecipazione (art.2549 c.c.) in cui frequentemente questo
contratto dissimula un rapporto di lavoro subordinato, nel quale l’associante compensa l’associato con una
quota degli utili derivanti dalla gestione dell’impresa, piuttosto che corrispondere la retribuzione. Tale
regolamento degli interessi è compatibile con il contratto di lavoro subordinato, nel quale l’art.2099 c.c.
consente che l’obbligazione retributiva venga determinata con una partecipazione degli utili all’impresa. Va
anche precisato che è stato introdotto successivamente un comma all’art.2549 che vieta che l’apporto
della persona fisica associata possa consistere in una prestazione di lavoro.
Per il lavoro in cooperativa si pone il problema simile laddove ci troviamo in presenza di un socio-
lavoratore che conferisca la sua quota associativa in termini di una prestazione lavorativa.
La giurisprudenza, a differenza del contratto di associazione in partecipazione, ha affermato la prevalenza
del rapporto associativo, richiedendo requisiti restrittivi per la sussistenza di un contratto di lavoro
subordinato.
Il “regolamento sulla tipologia dei rapporti di lavoro” assume un ruolo centrale per ciascuna cooperativa
che deve adottare, e la conformità a tale regolamento sarà il primo elemento da considerare per qualificare
concretamente ciascun rapporto di lavoro].
Quindi nel caso in cui venga riconosciuta la natura subordinata, al rapporto del socio-lavoratore vengono
riconosciute regole speciali in materia di licenziamento, retribuzione, diritti sindacali, ecc.

34

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

13) I rapporti speciali di lavoro


Possiamo affermare che il diritto del lavoro è attraversato da una duplice tensione:
- da un lato tende a garantire i diritti e le tutele omogenee per tutti i lavoratori, prescindendo dalle qualità
soggettive, dal tipo contrattuale, dal contesto organizzativo, ecc.
- dall’altro, tende a differenziare la regolazione del diritto del lavoro in relazione a una serie di variabili,
ritenute meritevoli di rilevanza, da configurare addirittura regimi giuridici piuttosto diversi.
Frequentemente, la presenza di normative differenti si spiega andando ad analizzare la storia di queste.
Seppure si rinvia ad altri approfondimenti specifici la trattazione di queste specifiche discipline, per la
disciplina dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni si registra immediatamente la sua
importanza, data la sua ampiezza e la particolare “specialità” della loro disciplina.

14) Contratto di lavoro e pubbliche amministrazioni


Passando, quindi, all’analisi della disciplina dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, subito
ci rendiamo conto che, fino alla riforma sulla privatizzazione, essa era caratterizzata da tratti di marcata
specialità, giustificata dalle peculiarità giuridiche, istituzionali e organizzative del datore di lavoro, e quindi
incentrata su una disciplina contenuta in leggi o in fonti unilaterali, con l’esclusione delle pattuizioni
individuali o collettive.
Questa configurazione giuridica era sensata nel momento nel quale le pubbliche amministrazioni erano
costituite essenzialmente dai Ministeri o da organizzazioni simili, accentrate e con funzioni
prevalentemente regolative.
Ma quando i Ministeri iniziarono a perdere la loro centralità, allora divenne evidente il problema che
sorgeva dalla concezione giuridica organicistica del lavoro pubblico, che irrigidiva i modelli organizzativi e le
procedure degli apparati statali e mostrava la propria obsolescenza, non a passo con i principi innovativi del
diritto sindacale, al quale poterono invece rivolgersi tutti gli altri lavoratori subordinati. Dopo vari tentativi
di modernizzare l’assetto pubblicistico del lavoro, inserendo tra le fonti anche le fonti negoziate (mediante
la c.d. delegificazione) si giunge nell’annata 1992/1993 ad una scelta storica e drastica, cioè la
privatizzazione del pubblico impiego. Da ciò abbiamo che una buona parte dei rapporti di lavoro con le
pubbliche amministrazione viene assoggettata alla stessa disciplina che si applica ai rapporti di lavoro
subordinato all’impresa. Inoltre, si stabilisce che:
• i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono regolati contrattualmente,
abbandonando la specialità pubblicistica e ponendo a fondamento del sistema regolativo il contratto
individuale e il contratto collettivo;
• tutti gli atti di organizzazione degli uffici e di gestione dei rapporti di lavoro sono assunti secondo le
regole del codice civile e delle leggi sul lavoro nell’impresa, salva alcune eccezioni per specifiche
amministrazioni pubbliche;
• i rapporti di lavoro possono, e in alcuni casi devono, essere regolati da contratti collettivi;
Quindi la privatizzazione riguarda tutte le pubbliche amministrazioni, centrali e periferiche, e tutti i
dipendenti pubblici, compresi i dirigenti. Ne restano escluse alcune figure di dipendenti pubblici, perché in
vista della delicatezza della loro funzione pubblica, si preferisce la disciplina pubblicistica (ex: magistrati,
personale militare, forze dell’ordine, persone della Banca d’Italia per funzioni di vigilanza sul sistema
finanziario e creditizio, ecc.).
In definitiva si può affermare che la regolamentazione del lavoro pubblico può essere incentrata sul
contratto individuale di lavoro privatistico, che è funzionale a garantire un buon andamento e maggiore
flessibilità gestionale.

35

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[SEZIONE 2] CAP 5 - Fenomeno sindacale e Costituzione

1) Lavoro e interesse collettivo-sindacale


Il singolo lavoratore, per far fronte alla sua situazione di debolezza e di “subordinazione”, tende a unirsi ad
altri individui che si trovano nelle sue stesse condizioni, col fine principale di contrattare le regole del
rapporto di lavoro.
La scelta di aggregarsi corrisponde ad una necessità dei lavoratori di difendersi dal potere del datore di
lavoro, contro ogni forma di sfruttamento e di sopruso.
Da questo punto di vista, il fenomeno sindacale è finalizzato a garantire ai suoi membri la capacità di
contrattare, in una situazione di libertà, le condizioni di lavoro senza subire le pressioni del datore di lavoro.
Bisogna osservare che tale fenomeno sindacale, seppur nasca per sostenere la dimensione individuale, si
basa comunque sul concetto di “interesse collettivo”. Da qui parte la convinzione che l’interesse sotteso
all’aggregazione sindacale sia, differente rispetto ai singoli interessi individuali. Infatti si fa riferimento ad
una classica definizione, secondo la quale l’interesse collettivo è una sintesi (e non una somma) degli
interessi individuali. Perciò, il singolo deve essere disposto a mettere in discussione il proprio interesse,
poiché aggregandosi accetta di coordinarsi con gli altri.
Da ciò consegue la definizione “interrelazionale” dell’interesse da perseguire e il coordinamento
presuppone che gli interessi individuali costituiscano un punto di partenza per il raccordo intersoggettivo,
nel quale le originarie impostazioni acquistano un nuovo contenuto. Perciò l’interesse collettivo “è altro”
rispetto ai singoli interessi.
Quindi, in sintesi, abbiamo una tensione dialettica tra l’interesse del singolo lavoratore subordinato, che
necessita però del collettivo, che però non coincide necessariamente con l’interesse individuale, e che
quindi la “protezione” del collettivo richiede un sacrificio della libertà di scelta dei singoli.
Tuttavia non va dimenticato che il singolo ha la libertà di fuoriuscire da un gruppo, per entrare in un altro
oppure rimanere inattivo, senza aggregarsi. Con ciò, quindi, anticipiamo la coesistenza di diverse
organizzazioni sindacali.

2) Soggetti sindacali e moduli organizzativi


Introduciamo le varie forme di organizzazione e i soggetti sindacali rilevanti. Bisogna anzitutto partire dal
principio costituzionale dell’art.39 comma 1 (libertà sindacale), che assicura al soggetto sindacale la
massima apertura e la più ampia scelta di moduli e strutture.
 Prima distinzione:
- sindacato “di mestiere”  fa riferimento al mestiere esercitato dai lavoratori;
- sindacato “per ramo d’industria”  fa riferimento all’attività svolta dalle imprese e quindi al settore
produttivo.
 Altra distinzione, sui tipi di sindacato:
 Sindacati confederali  CGIL, CISL, UIL. In esse sono poi “confederate” diverse organizzazioni
sindacali di categoria (federazioni). Ad esempio: nella CGIL ricordiamo la FIOM; nella CISL ricordiamo la
FIM; nella UIL ricordiamo la UILM, ecc.
A livello europeo, tali sindacati confederali aderiscono alla Confederazione europea dei sindacati (CES) e alla
Confederazione sindacale internazionale (CIS).
 Sindacati autonomi  organizzazioni sindacali sorte per la tutela degli interessi più circoscritti, di
specifiche professionalità, o determinati settori, soprattutto nei servizi e nelle pubbliche amministrazioni.
Tuttavia, nel corso del tempo la distinzione tra i due tipi di sindacati è andata scemando, infatti anche le
federazioni sindacali autonome a loro volta hanno dato luogo a fenomeni di accorpamento in strutture
confederali, soprattutto allo scopo di conseguire requisiti utili per il riconoscimento della rappresentatività
richiesta dal legislatore.

36

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Inoltre, per completare il discorso, conviene anche delineare il collegamento tra sindacati e partiti politici. Dall’inizio della
storia repubblicana, sino alla “crisi dei partiti politici” degli anni ’90, vi era un nesso assai evidente tra questi grandi sindacati
e la loro ideologica politica. Infatti la CISL era di area cattolica (Partito Popolare, poi Democrazia Cristiana);
la CGIL apparteneva alla Sinistra (Partito Socialista e Partito Comunista); la UIL apparteneva all’area di centro-sinistra.
 Per meglio specificare la distinzione tra federazioni e confederazioni, le prime esercitano la
rappresentanza dei lavoratori del settore di riferimento e svolgono l’attività di contrattazione collettiva per
la categoria produttiva (cioè il contratto nazionale di categoria - CCNL). Le seconde, invece, si occupano di
definire le strategie dell’azione politica e sindacale e del conseguente indirizzo e coordinamento delle
federazioni aderenti. La loro attività si concreta nella stipulazione degli accordi interconfederali, cioè gli
accordi sindacali di massimo livello, volti a indicare e definire discipline uniformi per una pluralità di
categorie.
 Ultima distinzione:
- strutture sindacali verticali  riflettono l’articolazione interna sul territorio di ciascuna federazione di
categoria;
- strutture sindacali orizzontali  si riferiscono alle corrispondenti articolazioni intercategoriali delle
Confederazioni, a loro volta strutturate in livelli regionali e provinciali.
Per quanto riguarda le organizzazioni dei datori di lavoro, troviamo un’articolazione verticale
(associazioni/federazioni di categoria) e una orizzontale (confederazioni). In relazione ai principali settori
economici possiamo ricordare Confindustria, Confcommercio e Confagricoltura, ciascuna con le proprie
articolazioni sul territorio. Anche per questo ambito troviamo organizzazioni a livello europeo, come la
Business Europe o la UAPME, che operano rispettivamente per le imprese medio-grandi e le imprese
medio-piccole. Alle imprese pubbliche invece è rivolta la CEEP. Negli ultimi anni vi sono due tendenze
opposte per quanto riguarda l’organizzazione datoriale:
- da un lato abbiamo l’aggregazione in strutture associative che accorpano ambiti sempre più estesi di
rappresentanza;
- dall’altro abbiamo una tendenza verso l’articolazione e la frammentazione organizzativa
(ex: uscita FIAT nel 2012)

3) Contrattazione collettiva e sua struttura


Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e datori di lavoro danno vita a una rete di relazioni, mirate alla
regolazione dei rapporti di lavoro, mediante la contrattazione collettiva, che rappresenta quindi il
principale metodo per regolare in maniera congiunta rapporti di lavoro individuali e collettivi, costituendo
parte fondamentale del sistema di relazioni industriali. Tale sistema infatti indica la trama di
comportamenti e prassi tra associazioni sindacali, soggetti politici e pubblici poteri. La struttura della
contrattazione collettiva riflette l’articolazione dell’organizzazione sindacale, e nel suo sviluppo, assume
una struttura con diversi livelli, soggetti, competenze e procedure.
L’esperienza italiana mostra 3 livelli di contrattazione:
a) interconfederale  gli accordi interconfederali sono stipulati dalle confederazioni al fine di indicazioni o
regolazioni normative uniformi per più categorie.
b) di categoria  il contratto di categoria (CCNL) ha lo scopo di regolare, a livello nazionale, i rapporti
individuali di lavoro (c.d. parte normativa) e le relazioni collettive (c.d. parte obbligatoria). In tale contesto
sono stesso le parti sociali che individuano concretamente i confini della categoria che si identifica con la
categoria produttiva.
c) decentrato  questo è il livello utilizzato per definire gli istituti del rapporto di lavoro più strettamente
legati ai singoli contesti produttivi e organizzativi. Il contratto territoriale si stipula nei settori dell’edilizia,
del commercio e dell’agricoltura. Il contratto aziendale riguarda maggiormente la singola impresa, o anche
ambiti più piccoli come uno stabilimento o una filiale.
La struttura contrattuale, nel corso del tempo, ha presentato caratteri mutevoli a seconda del contesto
storico e politico in cui si trovava. Da qui abbiamo quindi una contrapposizione tra un accentramento della
struttura contrattuale, nelle fasi di difficoltà o scarso sviluppo economico, che riflettono anche una
37

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

debolezza sindacale e il decentramento della struttura contrattuale, nei casi di andamento positivo
dell’economia, maggiore competitività delle imprese, crescita occupazionale e l’instaurarsi della forza
sindacale.

■ Analizzando storicamente le varie fasi della contrattazione collettiva:


- Negli anni ’50 assistiamo ad un predominio del livello interconfederale, e poi successivamente ad una
graduale apertura per i contratti di categoria stipulati dalle varie Federazioni. Nel 1962 avremo
l’affermazione della contrattazione collettiva articolata, di carattere gerarchico, dominata dal CCNL, che
rimette attraverso il rinvio alcune materie al livello di contrattazione aziendale.
- Negli anni del boom economico e delle crescenti contestazioni durante il c.d. “autunno caldo”, abbiamo la
fine della contrattazione articolata, a favore di un’autonomia tra i vari livelli contrattuali e una
contrattazione decentrata;
- Negli anni ’70, con la crisi petrolifera, si assiste ad una nuova tendenza di accentramento, ad esempio
mediante l’accordo interconfederale sulla scala mobile (1975).
- Con l’ampliamento dei mercati e della competizione tra imprese si verificherà una rinnovata spinta al
decentramento, e grazie al Protocollo del 1993, si riproporrà un’ordinata struttura contrattuale, nel
tentativo di ridefinire il sistema sindacale nel suo complesso, assegnando al CCNL un ruolo centrale.
- Agli inizi del nuovo secolo, col passaggio al “dialogo sociale”, ha inizia la marginalizzazione dei grandi
sindacati confederali, segnati dalla rottura dell’unità di azione tra le tre storiche confederazioni. Infatti
assume rilievo l’Accordo quadro del 2009, definito “separato” perché non sottoscritto dalla CGIL,
caratterizzato dalla riconferma dei due livelli di contrattazione, in cui il livello decentrato resta competente
per la retribuzione incentivante, e per tutte le materie “delegati” dal livello centrale nazionale.
- Nel 2014, con il T.U. sulla rappresentanza sindacale (nel quale è confluito l’accordo intersindacale del
2011) abbiamo un ripristino dell’unità sindacale, grazie alla sottoscrizione delle tre grandi confederazione
storiche. Anche in tale circostanza sono ribaditi sia la struttura gerarchica, che il ruolo cardine del CCNL, il
quale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi per tutti i lavoratori.
Contestualmente le parti condividono l’obiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione
collettiva di secondo livello, le cui competenze sono delegate dal CCNL per l’attivazione di strumenti utili
per soddisfare le esigenze degli specifici contesti produttivi, e gestire situazioni di crisi o per favorire lo
sviluppo economico e occupazionale.
- Nel 2018, con l’accordo interconfederale c.d. “Patto della fabbrica”, le parti sociali hanno confermato il
contenuto del T.U del 2014, nonché il sistema sindacale nel suo complessa. Viene ribadita l’articolazione in
due livelli della struttura contrattuale, con il CCNL perno regolatore; poi viene dato rilievo alla
rappresentatività dei datori di lavoro, al fine di contrastare la frammentazione datoriale; infine l’accordo si
propone di incentivare lo sviluppo della contrattazione di secondo livello, orientando le intese aziendali
verso il riconoscimento di trattamenti economici legati a reali e concordati obiettivi di crescita della
produttività aziendale.
Infine, la tendenza al decentramento si è avuta anche con l’introduzione del c.d. contratto collettivo di
prossimità, dall’inedita disciplina dal potere derogatorio nei confronti della legge e del CCNL.

4) La libertà di organizzazione sindacale (art. 39, co. 1, Cost.)


Analizzando la norma fondamentale del nostro ordinamento per quanto riguarda l’organizzazione sindacale
e cioè l’art.39 co.1 della Costituzione, subito ci rendiamo conto della centralità del fenomeno sindacale
nella formula sintetica: “l’organizzazione sindacale è libera”. Tenendo conto del contesto storico in cui
si inserisce l’art.39, subito ci rendiamo conto dell’intenzione del costituente di affermare il principio di
libertà sindacale nella sua massima ampiezza, in netta discontinuità rispetto al passato, caratterizzato dal
ventennio fascista, che applicò una compressione forte della libertà e del pluralismo, sino all’eliminazione
fisica dei maggiori esponenti del sindacato che si opposero a tale regime.

38

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Anche l’art.40 (il diritto di sciopero) si inserisce in questo contesto, nel quale vengono riconosciuti e
tutelati la libertà massima e limitata quanto possibile l’ingerenza dell’ordinamento.
Tale principio di libertà sindacale è contemplato anche da alcune fonti internazionali, come le Convenzioni
OIL n.87 e 98, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
la Carta sociale europea, ecc… mentre in ambito europeo abbiamo la Carta dei diritti sociali fondamenti di
Strasburgo e la Carta dei diritti fondamentali di Nizza].
Quindi l’art.39 co.1 consente l’aggregazione tra i lavoratori e ne riconosce il fondamentale rilievo giuridico,
in funzione di un riequilibrio tra le parti del rapporto di lavoro. Vi è poi da segnalare uno stretto
collegamento con gli artt.2 e 3 cost.
poiché l’organizzazione sindacale è riconosciuta come formazione sociale dove si svolge la personalità del
singolo ed è riconosciuta come strumenti imprescindibile per l’uguaglianza sostanziale.
► Sul piano individuale, la libertà copre l’intero fenomeno sindacale, dalla manifestazione del pensiero
all’attività sindacale in senso stretto: il singolo può costituire il sindacato, contribuire allo sviluppo, ma può
anche (in negativo) non aderire ad alcun sindacato o recedere da quello a cui appartiene.
Connessi a tale libertà sono due articoli dello Statuto dei lavoratori: l’art.14 che riconosce ai suoi
lavoratori di costituire associazioni sindacali e di svolgere l’attività sindacale; l’art.15 che vieta qualsiasi
patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore all’adesione o alla non adesione al
sindacato, discriminandolo a causa della sua affiliazione. Ne deriva da ciò il divieto dell’ordinamento
italiano per le c.d. “clausole closed shop” diffuse, invece, nell’ordinamento americano, attraverso le quali
l’occupazione di un lavoratore è subordinata alla sua affiliazione.
Inoltre, l’art.16 dello Statuto vieta trattamenti economici collettivi discriminatori per effetto di un’adesione
o non adesione al sindacato.
► Sul piano collettivo, abbiamo il riconoscimento della libertà della forma del sindacato e delle regole che
disciplinano gli assetti e la sua organizzazione. Vi è l’impedimento di intervento/interferenza esterna per
l’individuazione di obiettivi, strategie e strumenti dell’azione sindacale. La limitazione dell’autonomia
negoziale dell’organizzazione sindacale è riconosciuta al legislatore solo per la salvaguardia di interessi
generali e in situazioni circoscritte.
Ovviamente, l’ordinamento non può mai imporre ai sindacati di contrattare obbligatoriamente.
Per quanto riguarda la forma giuridica che il sindacato può assumere, anche qui vi è la libertà della scelta,
soprattutto se si collega a tale libertà l’art.18 della Costituzione (libertà di associazione).
La forma associativa (“associazione non riconosciuta”) è la forma più comune, sebbene siano configurabili
altre forme, più informali, quali ad esempio i “comitati di lotta, le delegazioni di lavoratori”, ecc.

5) L’ambito soggettivo
Ci si è chiesti se la libertà sindacale a norma dell’art.39 potesse ricomprendere anche le organizzazioni
dei datori di lavoro, secondo una concezione definita “bilaterale della libertà sindacale”.
A ben vedere, da un punto di vista storico, tale libertà è riferita soprattutto alle esperienze tutela del lavoro
subordinato e quindi soltanto all’aggregazione dei lavoratori, mentre l’associazione datoriale è da
ricondurre maggiormente negli artt.18 e 41 Cost. Inoltre l’associazionismo datoriale si connota anche per lo
svolgimento di attività di servizi e supporto alle imprese, laddove diversamente, questo genere di attività
non era inizialmente svolto dai sindacati dei lavoratori.
L’art.17 dello Statuto dei lavoratori vieta ai datori e alle loro associazioni di costituire o sostenere
finanziariamente o altrimenti, associazioni sindacali dei lavoratori, allo scopo di evitare ogni distorsione
della dialettica datori-sindacati.
Per quanto riguarda le limitazioni della libertà sindacale, il caso più famoso è quello dei dipendenti pubblici,
seppure tali limitazioni sono state gradualmente superate. Diversamente è stato per i lavoratori della
Polizia e delle Forze armate, i quali hanno sì il diritto di aderire a organizzazioni sindacali, ma solo se
costituite e rappresentate da appartenenti alla loro categoria, col divieto di affiliarsi a confederazioni
esterne. Inoltre è vietato l’esercizio del diritto di sciopero.
39

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

6) Sindacato e contratto collettivo con efficacia generale (art. 39, seconda parte, Cost.)
Il pluralismo sindacale e quindi la coesistenza tra più organizzazioni sindacali ci portano ad una questione
assai delicata, ovvero la necessità di una regolazione al fine di conciliare le molteplici posizioni di ciascuna
organizzazione, oppure tener conto della libertà individuale di non attivarsi sindacalmente e le ripercussioni
sugli altri lavoratori.
Per dare una soluzione a queste problematiche, il Costituente ha provato a configurare un micro-sistema
funzionale all’attribuzione di efficacia soggettiva generalizzata al contratto collettivo, mediante
l’art.39 seconda parte Cost.
Come previsto dalla disciplina di tale articolo, i sindacati sono chiamati a chiedere la registrazione, e al tal
fine è necessaria l’adozione di uno statuto interno a base democratica. I sindacati registrati acquistano
personalità giuridica. Inoltre i sindacati possono stipulare il contratto collettivo con efficacia generale per
tutti gli appartenenti alla categoria.
Come ben sappiamo, sarebbe stata necessaria una legislazione d’attuazione che non avrà mai luogo
(parliamo in tal caso di “anomia del diritto sindacale”, cioè assenza di norme sugli aspetti cruciali di tale
fenomeno).
Le ragioni di tale inattuazione della seconda parte dell’art.39 sono molteplici, a partire dall’avversione delle
organizzazioni sindacali sul controllo del numero degli iscritti e sulla democraticità dello statuto necessario
per la registrazione. E più in generale, le grandi confederazioni si trovarono d’accordo nel preferire lo
sviluppo del sistema sindacale di fatto, basato sulla pariteticità e unità di azione fattuale tra le grandi
confederazioni di lavoratori e il reciproco riconoscimento della controparte datoriale.

7) La partecipazione sindacale (art. 46 Cost.)


Nel nostro ordinamento, l’art.46 della Costituzione sancisce il fondamento della partecipazione
sindacale, in cui si riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi,
alla gestione delle aziende.
La sua formulazione riflette, però, i contrasti già avuti in Assemblea costituente tra l’area marxista e
democristiana, e da questi conflitti ne emerse una norma programmatica, compromissoria e poco incisiva,
affidando al legislatore il compito di specificare i contenuti, i modi e gli strumenti per la sua attuazione.
Tuttavia lo sviluppo ha incontrato scarso interesse della classe politica e delle forze sociali, e il disaccordo i
sindacati principali sulle forme in cui la partecipazione avrebbe dovuto esprimersi e l’ostilità delle principali
organizzazioni datoriali, hanno impedito l’adozione di forme incisive di partecipazione sociale.
Solo grazie alla contrattazione collettiva degli anni ’70 avremo le prime forme di partecipazione sindacale
alla gestione delle imprese, però esclusivamente nell’ambito della “partecipazione debole”, circoscritta
solo all’attribuzione di diritti di informazione o consultazione, senza mai coinvolgere la “partecipazione
forte” nelle decisioni aziendali.

8) La ricostruzione privatistica del fenomeno sindacale


Quindi, a causa del vuoto normativo venutosi a creare negli anni ’50, assistiamo ad una ricostruzione
privatistica del fenomeno sindacale, nonostante la distanza tra il diritto privato e le peculiarità
dell’interesse collettivo.
Le organizzazioni sindacali hanno scelto di assumere la forma scarsamente regolata di associazione non
riconosciuta, risultando autoregolate e dotate solo di soggettività giuridica, piuttosto che della più incisiva
personalità giuridica, seguendo principalmente la disciplina degli artt.36,37,38 del Codice civile.
Analizzando tale esperienza associativa, l’ordinamento interno e l’amministrazione sono regolate dagli
accordi tra gli associati. L’associazione può stare in giudizio tramite coloro a cui è conferita la presidenza o
direzione (art.36). Da un punto di vista patrimoniale abbiamo il fondo comune (art.37) formato dai
contributi degli associati, che costituisce la garanzia patrimoniale per le obbligazioni assunte per conto
40

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

dell’associazione, pur restando ferma la responsabilità personale e solidale di coloro che hanno agito per
nome e per conto dell’associazione (art.38).
Per quanto riguarda l’attività contrattuale dell’associazione, essa dovrà basarsi sul potere di
rappresentanza che il singolo lavoratore attribuisce alla stessa associazione, mediante conferimento del
mandato, riconducendo l’interesse collettivo del fenomeno sindacale ad una dimensione individuale, che
come abbiamo visto prima, è ad essi estranea.

9) La teoria dell’ordinamento intersindacale


Con la “Teoria dell’ordinamento intersindacale”, abbiamo l’inquadramento del sistema sindacale di
fatto, ad opera di Gino Giugni, che si propone di superare i limiti conseguenti all’inattuazione della seconda
parte dell’art.39 Cost.
In tale prospettiva, egli sostiene che il fenomeno sindacale rappresenta qualcosa di nuovo per
l’ordinamento e le categorie dell’autonomia individuale non possono “comprenderlo”. Quindi propone un
cambio di prospettiva.
Ci troviamo in un contesto storico di un Paese in pieno sviluppo economico, e di sostanzialmente
omogeneità degli interessi del lavoro indipendente, al cui centro vi è la figura dell’operaio-massa e
l’esperienza sindacale è giovane e destinata a crescere. Giugni si concentrerà maggiormente sul piano
effettuale, sulla realtà dei fatti, in merito alle relazioni e alle regole che le parti sociali si danno nella loro
autonomia. È la realtà a conformare la norma.
Quindi le grandi organizzazioni sindacali e datoriali hanno dato vita a un sistema “fattuale” di produzione di
norme, finalizzato a garantire un equilibrio dinamico tra gli interessi delle parti, dove assumono rilievo le
regole sui rapporti individuali di lavoro e quelle concernenti le relazioni tra soggetti collettivi (facenti parte
della parte obbligatoria del contratto collettivo).
Il fulcro di tutto è il “reciproco riconoscimento” delle parti: ciascuna riconosce l’altra e la legittima come
portavoce nell’ambito di riferimento, in quanto è certa che essa sia in grado di garantire il rispetto delle
regole pattuite.
Sul versante dei lavoratori, le tre grandi confederazioni si caratterizzano per “l’unità di azione”, improntata
su un criterio di parità tra le stesse: da ciò ne deriva un fronte sindacale compatto, con grande potere
attrattivo dei consensi dei lavoratori.
Assume, quindi, rilievo il concetto di “rappresentatività”, cioè la capacità del sindacato di interpretare e
tutelare in concreto gli interessi dei prestatori di lavoro, riconducendoli ad unità e acquisendo sempre più
consensi.
Non va dimenticato che vi sono anche dei rimedi “autosanzionatori”: il maggiore è lo sciopero, come
strumento di garanzia sociale degli equilibri definiti, al quale ricorrere quando la controparte datoriale non
rispetti le regole pattuite.

In definitiva, tale sistema è stato l’asse fondamentale e portate di un articolato e complesso assetto,
compensando l’inattuazione della seconda parte dell’art.39 Cost.
Giugni ebbe un importante ruolo legislativo: in qualità di consulente governativo, dette un contributo
decisivo allo Statuto dei lavoratori, che nella sua veste originaria mirava proprio a sostenere il sistema
sindacale di fatto.
Nel nuovo secolo, invece, il sistema sindacale di fatto è in difficoltà, e il concetto di “unità di azione” risulta
fortemente indebolito soprattutto a seguito della vicenda FIAT del 2009 che vedremo in seguito.

41

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 6 - Soggetti e attività sindacale nei luoghi di lavoro

1) Rappresentanza dei lavoratori e rappresentanza del sindacato. Cenni storici


I lavoratori nei luoghi di lavoro possono dar vita a varie forme di associazione sindacale: dalla coalizione
occasionale, al sindacato strutturato che opera anche all’esterno dell’impresa, e così via. Infatti, l’art.39
co.1 Cost. copre qualsiasi esperienza di tutela dei lavoratori in condizione di debolezza socio-economica, a
prescindere dalla forma organizzativa.
Possiamo individuare due principali modelli di rappresentanza in azienda:
- modello a canale unico  caratterizzato da un’unica struttura organizzativa di rappresentanza, a cui sono
attribuite sia attività di tutela partecipativa dei lavoratori, sia quelle di vera e propria contrattazione;
- modello a canale doppio  caratterizzato da due strutture, una “associativa” a cui è rimessa la
contrattazione, l’altra di origine “elettiva” che si occupa della partecipazione.
In Italia il modello prevalente è stato il primo elencato e la storia delle rappresentanze nei luoghi di lavoro
ha inizio con la costituzione delle Commissioni interne (1906), un organismo disciplinato dalla
contrattazione collettiva, soppresso durante il periodo corporativo, che era di costituzione “elettiva” e
rappresentativo dei lavoratori d’impresa.
Tale assetto è durato fino agli anni ’60, quando le istanze movimentiste e contestatarie incisero
sull’affermazione di nuovi soggetti, di espressione diretta dei lavoratori: i delegati (cioè rappresentanti di
gruppi omogenei di lavoratori dell’azienda) e i Consigli delegati (ai quali, con il Patto federativo del 1972,
furono riconosciuti poteri di contrattazione).

2) Statuto dei lavoratori e rappresentanza sindacale aziendale


Nella vicenda appena accennata, ruolo fondamentale lo assume lo Statuto dei lavoratori, con cui si è
consolidata la presenza e l’attività del sindacato nei luoghi di lavoro. In particolare, l’art.19 dello Statuto,
con cui il legislatore prevede, per la prima volta, l’istituzione di rappresentanze nei luoghi di lavoro, ossia
le Rappresentanze sindacali aziendali (RSA), costituibili solo nelle unità produttive con più di 15
dipendenti (5 se agricole), le quali sono titolari dei diritti sindacali di cui al Titolo III dello Statuto. Questi
ultimi diritti rappresentano un ulteriore livello di tutela sindacale, che si aggiunge alla generale libertà di
organizzazione e di azione.
Mediante l’introduzione di tali diritti, il legislatore si è limitato ad intervenire sul rapporto tra “base” e
“vertice” dei sindacati, cercando di rafforzarlo in chiave democratica, combinando l’istanza “movimentista-
diretta” e quella “associativo-istituzionale”.
Secondo l’originario testo della norma, le RSA potevano essere costituite ad “iniziativa dei lavoratori” e
nell’ambito di:
- organizzazioni aderenti alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative, assicurando un
collegamento tra le nuove rappresentanze e le principali e storiche Confederazioni;
- altre associazioni sindacali, le quali però risultassero firmatarie dei contratti collettivi nazionali o
provinciali.

Per quanto riguarda la verifica della rappresentatività, è stata decisiva l’elaborazione dottrinale che ha
valorizzato alcuni indici: numero degli iscritti, diffusione sul territorio nazionale, esercizio costante
dell’attività, ecc. (basandosi spesso su dati non misurabili quantitativamente, tale rappresentatività è stata
infatti definita “presunta”.
Con ciò, il legislatore ottiene il doppio obiettivo di agevolare una sorta di riassorbimento delle
rappresentanze spontanee nate in quegli anni da parte delle RSA e poi di “istituzionalizzare” la presenza del
sindacato in azienda, a sostengo del sistema sindacale di fatto.
[N.B. Più volte adìta sulla costituzionalità di tale progetto statutario, la Corte costituzionale ha affermato la piena
compatibilità di tale disposizione con gli artt. 39 e 3 Cost. In particolare, afferma che l’istituzione della RSA non lede il
principio di libertà sindacale (art.39 Cost) e non impedisce che vengano organizzate altre e diverse forme di

42

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

rappresentanza dei lavoratori in azienda, ma anzi, tale norma si limitava solo a circoscrivere i soggetti sindacali a cui
riconoscere la titolarità dei diritti sindacali previsti dal Titolo III dello Statuto. Ovviamente, la stessa Corte ha negato la
possibilità di estendere la titolarità di tali diritti sindacali a rappresentanze non dotate dei requisiti dell’art.19 Statuto.
Ad un certo punto, però, a seguito dei mutamenti dei contesti produttivi e di organizzazione e della conseguente
eterogeneità degli interessi collettivi, tale disposizione non ha retto più, non essendo più adatta a rispecchiare
l’effettiva rappresentatività delle associazioni sindacali. La stessa Corte costituzionale, nel 1990, ha segnalato la
necessità di dettare nuove regole, adeguate alla situazione nuova, per garantire la possibilità di attribuire tali diritti
sindacali del Titolo III anche ad altre associazioni sindacali, in grado di dimostrare effettivi livelli di consenso].
La Corte era consapevole della “crisi” delle grandi Confederazioni sindacali che era maturata in quegli anni,
e a seguito di ciò l’art.19 fu sottoposto a due referendum abrogativi nel 1995, l’esito dei quali provocò una
riformulazione completa della norma, in cui prima di tutto venne eliminato il tanto discusso “criterio della
maggiore rappresentatività confederale” (così come tutta la lettera “a” della disposizione), e il “criterio
della stipula di contratti collettivi” venne esteso anche ai contratti collettivi di livello aziendale (con
l’eliminazione delle parole “nazionali” e “provinciali”).
In tal modo si rompe il monopolio dei grandi sindacati confederati e l’effetto maggiore di tale modifica si
finisce per dare unicamente rilevanza ai sindacati che firmano il contratto collettivo.
Inevitabilmente, quindi, la Corte costituzionale è chiamata nuovamente ad intervenire, che con la
sent.231/2013 (originata dalla vicenda FIAT), dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.19 co.1 lett.b per
contrasto con gli artt.2,3, e 39 Cost. mediante una sentenza additiva che salva la norma ma ne modifica il
contenuto e la portata, prevedendo l’incostituzionalità nella parte in cui non prevede che la rappresentanza
sindacale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali, che pur non firmatarie dei
contratti collettivi, abbiamo partecipato alla negoziazione di tali contratti in qualità di rappresentanti dei
lavoratori dell’azienda.
3) Autonomia collettiva e rappresentanze sindacali unitarie
A causa delle difficoltà delle grandi Confederazioni sindacali negli anni ’80, è stata avanzata un’altra
importante riforma della rappresentanza sui luoghi di lavoro, che ha dato vita ad un nuovo modello di
rappresentanza, con lo scopo di coniugare l’istanza di un fondamento effettivo dell’azione sindacale, con
l’esigenza di mantenere saldo il raccordo con le grandi confederazioni e con il sistema di contrattazione
collettiva. Hanno così avuto origine le Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU), previsti e disciplinati
dal Protocollo del luglio 1993, e disciplinate dall’Accordo interconfederale del dicembre 1993.
Rappresentano un organo di rappresentanza sindacale interna all'azienda unitaria tra le varie sigle
sindacali. Non sono imposti dalla legge, ma sono frutto della volontà dei singoli sindacati e RSA di confluire
in un unico soggetto. La loro costituzione avviene tramite elezioni con un elettorato attivo a suffragio
universale (possono partecipare ad esse anche i non iscritti a sindacati) i quali scelgono tra varie liste.
I sindacati e i datori che non si riconoscono nell'Accordo non sono tenuti a rispettarlo.

 Per chiarire le differenze tra RSU e RSA dobbiamo prima di tutto anticipare che le prime sono di natura
negoziale, mentre le seconde sono di natura legislativa. Nel caso di conflitto/concorrenza tra i due modelli,
la scelta del modello RSU preclude l’altro modello. Inoltre le RSU sono caratterizzate dalla previsione
“dell’unicità” dell’organismo per ciascuna unità produttiva, rispetto alla “pluralità” delle RSA, e per la loro
natura elettiva. Per quanto concerne le elezioni: l’elettorato attivo è formato da tutti i lavoratori dell’unità
produttiva, mentre l’elettorato passivo è formato dai candidati, di cui le liste sono presentabili da:
- associazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale istitutivo;
- altre associazioni sindacali, che accettano espressamente i contenuti del TU del 2014, e raccolgono un
certo numero di adesioni dei lavoratori all’unità produttiva.
All’esito delle elezioni, l’assegnazione avviene integralmente in maniera proporzionale ai voti ricevuti.
Inoltre la RSU approva il contratto collettivo aziendale a maggioranza dei componenti e va detto, infine,
che la RSU subentra alla RSA nella titolarità dei diritti sindacali ex Titolo III dello Statuto.

43

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

4) Le rappresentanze sindacali nel lavoro pubblico


Per quanto riguarda le Rappresentanze sindacali nel settore pubblico, vi sono alcune differenze, dato
che seppur sono prevedibili due differenti strutture rappresentative (cioè RSA oppure organismi di
rappresentanza unitaria del personale RSU), queste sono entrambe previste per legge, così come
contemplato dal d.lgs. 165/2001.
► Per quanto riguarda le RSA, abbiamo una disciplina diversa che legittima solo le organizzazioni sindacali
ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi per costituirle.
► Per quanto riguarda invece le rappresentanze unitarie, si ripropone il modello elettivo, con liste
presentate sia dai sindacati rappresentativi, sia da altre organizzazioni sindacali aderenti agli accordi
istitutivi delle stesse RSU, purché entrambe le organizzazioni raggiungano un certo numero di firme di
lavoratori dipendenti.
Inoltre alle RSU vengono trasferiti diritti sindacali delle RSA e la titolarità dei diritti di partecipazione (info,
consultazione, ecc.)

5) I diritti sindacali ex titolo III dello Statuto dei lavoratori


Passando all’analisi dei diritti sindacali previsti dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, con i quali il
legislatore si proponeva di sostenere il c.d. “sistema sindacale di fatto”, asse portate dell’esperienza
lavorativa italiana.
Tali diritti pongono a carico dell’imprenditore una serie di obblighi di soggezione e cooperazione, che
possono anche sfociare nel sacrificio delle esigenze produttive, per creare un bilanciamento con le esigenze
collettive dei lavoratori. Tra questi ricordiamo:
A] Assemblea  il luogo nel quale i singoli partecipano alle decisioni e contribuiscono collettivamente alla
formazione delle scelte dell’azione sindacale. In base all’art.20 i lavoratori di ciascuna unità produttiva
possono riunirsi in assemblea fuori dall’orario di lavoro, oppure nei limiti delle 10 ore annue di lavoro, per
le quali ricevono comunque la retribuzione.
Essa è indetta singolarmente o congiuntamente dalle RSA, che hanno l’atto d’impulso. Se invece vi sia la
rappresentanza delle RSU, quest’ultima ha il diritto di indire l’assemblea, ma solo nella sua collegialità e
non singolarmente.
Oggetto dell’assemblea sono tutte le “materie di interesse sindacale del lavoro o qualunque argomento
ritenuto rilevante dai lavoratori”.
B] Referendum  con l’art.21 si impone al datore di consentire, in ambito aziendale, lo svolgimento di
referendum, che possono aver luogo (solo) fuori dall’orario di lavoro e su iniziativa di tutte le RSA, con il
diritto di partecipazione dei lavoratori dell’unità produttiva o che appartengano alla categoria interessata.
L’oggetto è più specifico, in quanto si riferisce “a materie inerenti l’attività sindacale”. Solitamente il
referendum viene utilizzato in momenti dei quali si registra un maggiore distacco tra sindacati e lavoratori.
C] Trasferimento dei dirigenti RSA  l’art.22 prevede che il trasferimento dall’unità produttiva dei
dirigenti delle RSA possa essere disposto solo previo “nulla osta” delle associazioni di appartenenza. Tale
previsione è finalizzata a garantire il libero e incontrastato esercizio dell’attività sindacale nei luoghi di
lavoro. Un ipotetico diniego del “nulla osta” non può essere impugnato giudizialmente.
D] Permessi sindacali  retribuiti e riconosciuti ai dirigenti RSA per espletare il loro mandato, in misura
proporzionale alla dimensione occupazionale dell’unità produttiva (art.23). È necessaria una comunicazione
scritta al datore di lavoro entro 24 prima, trasmessa attraverso la stessa RSA.
Inoltre, l’art.24 riconosce ai dirigenti sindacali il diritto a permessi non retribuiti per la partecipazione a
trattative sindacali, oppure a congressi e convegni di natura sindacale, in misura non inferiore a 8 giorni
all’anno.
E] Affissione  in base all’art.25, le RSA hanno diritto di affiggere pubblicazioni, testi e comunicazioni
inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro in appositi spazi che il datore di lavoro predispone
obbligatoriamente in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva. Il datore non può
impedire le affissioni o manomettere le bacheche o rimuovere da esse il materiale affisso. Inoltre la
44

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

giurisprudenza ha esteso tale obbligo anche nel caso in cui il datore di lavoro utilizzi piattaforme
informatiche per comunicare con i suoi dipendenti, e perciò è tenuto a mettere a disposizione delle RSA tali
spazi virtuali all’interno del sistema telematico.
F] Proselitismo e contributi sindacali  con l’art.26 si riconosce il diritto dei singoli lavoratori di raccogliere
contributi e svolgere attività di proselitismo all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudicare però il
normale svolgimento dell’attività aziendale. In questo caso la norma riserva il sostegno a qualunque
sindacato, che attraverso l’attività dei singoli lavoratori può beneficiare dell’attività di raccolta dei
contributi. Mentre per proselitismo si intende quella serie combinata di attività finalizzate ad avvicinare i
lavoratori al sindacato, informandoli sulle azioni programmate.
In precedenza, il datore di lavoro era obbligato ad operare una trattenuta sulla retribuzione richiesta dal
lavoratore, per poi versarla successivamente all’organizzazione sindacale indicata. Adesso, invece, tale
meccanismo è rimesso all’autonomia delle parti e disciplinato dal diritto comune.
G] Locali sindacali  Secondo l’art.27, il datore di lavoro deve mettere a disposizione in maniera
permanente un locale idoneo all’esercizio delle funzioni delle RSA, all’interno dell’unità produttiva o nelle
immediate vicinanze. Tutto ciò vale per le unità produttive con almeno 200 dipendenti.

6) Diritti sindacali e pubbliche amministrazioni


In coerenza con la sua “privatizzazione” il lavoro pubblico rinvia allo Statuto dei lavoratori la tutela delle
libertà e dell’attività sindacale, con alcuni adattamenti specifici, come ad esempio l’applicazione dello
Statuto prescinde dal numero di dipendenti dell’amministrazione. La contrattazione collettiva stessa ha
provveduto all’adozione di una disciplina peculiare per le pubbliche amministrazioni: cioè quella del
Contratto Collettivo Nazionale Quadro (CCNQ).
Tra le più importanti previsioni ricordiamo che i dipendenti pubblici hanno diritto a partecipare, durante
l’orario di lavoro, ad assemblee sindacali in idonei locali concordati. Le assemblee possono essere indette
dai dirigenti sindacali o RSU, singolarmente o congiuntamente, con specifico ordine del giorno su materie di
interesse sindacale e del lavoro. Ovviamente, durante lo svolgimento dell’assemblea, si deve garantire la
continuità delle prestazioni indispensabili.
È previsto anche in questo caso il diritto di affissione, con l’utilizzo di ausili informatici nel caso questi siano
disponibili, e l’amministrazione con almeno 200 dipendenti è obbligata a mettere a disposizione dei
dirigenti sindacali un idoneo locale comune per consentire lo svolgimento delle proprie attività, mentre per
quelle con un numero inferiore a 200 è previsto l’utilizzo di un locale all’interno della struttura.
Infine, il CCNQ prevede un’articolata disciplina dei distacchi sindacali per i lavoratori che svolgono funzioni
sindacali, con mantenimento della retribuzione, e dei permessi retribuiti per l’espletamento del mandato
sindacale o partecipazione agli organismi direttivi delle associazioni sindacali rappresentative.

7) L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori: la repressione della condotta antisindacale


L’art.28 è la vera e propria norma di chiusura dello Statuto dei lavoratori, prevedendo uno speciale
procedimento giurisdizionale dedicato alla repressione della condotta antisindacale del datore di
lavoro, cioè in presenza di comportamenti diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà o dell’attività
sindacale e del diritto di sciopero.
Va subito detto che il comportamento vietato non è identificato per le sue caratteristiche oggettive, ma va
individuato in relazione all’idoneità lesiva rispetto ai beni protetti.
La legittimazione attiva spetta agli organismi locali delle associazioni che vi abbiano interesse, cui requisito
essenziale è il carattere nazionale dell’organizzazione sindacale, mentre i singoli lavoratori sono privi di
legittimazione attiva, cioè non potranno utilizzare questo speciale procedimento singolarmente, ma solo
mediante il soggetto collettivo previsto.
Perché? La Corte costituzionale, dichiarandone la legittimità, ha affermato che tale previsione legislativa sia
razionale e consapevole, perché affida tale strumento ad organizzazioni che abbiano un’effettiva

45

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

rappresentatività e perché sostanzialmente un’estensione della legittimazione potrebbe solo appesantire il


sistema dei ricorsi ed ostacolare, l’azione dell’impresa.
La legittimazione passiva spetta invece al datore di lavoro, che risponde anche dei comportamenti dei
propri collaboratori, che svolgono attività a lui imputabile.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, si sono contrapposti due diversi orientamenti: da un lato chi
sostiene che sia necessaria la sussistenza dell’animus (l’intenzione) di antisindacalità, e dall’altro chi
sostiene che sia irrilevante l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. La Cassazione, con decisione a
Sezioni Unite ha affermato che sia sufficiente l’accertamento dell’oggettiva idoneità lesiva del
comportamento datoriale.
Inoltre, il legislatore ha previsto alcune tipizzate ipotesi di comportamento antisindacale: come ad esempio
la violazione delle previsioni degli accordi e contratti collettivi di lavoro che riguardino i diritti e l’attività del
sindacato.
Sono considerate “antisindacali”, inoltre, le reazioni datoriali alle azioni di sciopero realizzate nel rispetto
dei limiti legali.
Per quanto riguarda il comportamento del datore di lavoro nelle trattative, l’ordinamento non prevede un
obbligo a trattare a carico del datore di lavoro, e infatti il rifiuto di negoziare con la controparte per la
stipulazione di contratti collettivi è un esempio classico di condotta che non è antisindacale.
Il procedimento (previsto dall’art.28) è una procedura giudiziale a cognizione sommaria, caratterizzata da
un’attività istruttoria rapida e limiti ad accertamenti minimi indispensabili. L’azione è introdotta con ricorso
al Tribunale del luogo in cui si è verificato il comportamento denunciato, abbiamo poi la convocazione delle
parti, e all’esito degli accertamenti svolti, il giudice emette un decreto motivato immediatamente esecutivo
con il quale ordina la cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti. La parte soccombente può
proporre un giudizio di opposizione entro 15 gg, che si svolge mediante le regole del processo ordinario del
lavoro, e si conclude con una sentenza impugnabile.
La non esecuzione dell’ordine giudiziale è sanzionata penalmente (art 650 c.p.) ed il datore di lavoro è
colpito dalla revoca delle agevolazioni fiscali concesse per incentivare la creazione di nuova occupazione.

8) La c.d. partecipazione debole: i diritti di informazione e consultazione


Esaminiamo, infine, i diritti volti a coinvolgere i lavoratori e le loro rappresentanze nei processi decisionali e
gestionali dell’azienda. Si fa riferimento, in tal caso, alla c.d. partecipazione debole, cioè ai diritti di
informazione, consultazione ed esame congiunto, con i quali, ai lavoratori e alle loro rappresentanze viene
data la possibilità di essere interpellati su momenti importanti della vita aziendale, pur senza giungere al
riconoscimento di veri e propri diritti di codecisione, che invece fanno parte della c.d. partecipazione forte.
Ricordiamo, infatti, che nel nostro Paese dagli anni ’70 si è concessa tanta attenzione a tale materia,
soprattutto grazie alla contrattazione collettiva (parte “obbligatoria” dei contratti collettivi), e poi alcune
volte grazie alla legge.
Un importante impulso di tale ampliamento della partecipazione è sicuramente pervenuto dalla Unione
Europea.
Infatti, un generale riconoscimento dei diritti di informazione e consultazione è contenuto nella Carta di
Nizza, dove si prevede espressamente che ai lavoratori e loro rappresentanti vengano garantite
l’informazione e la consultazione nei casi e alle condizioni previsti.
Abbiamo anche direttive europee, come quella 2002/14 (attuata con d.lgs 25/2007) che ha introdotto un
generale obbligo di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori nelle imprese con oltre
50 dipendenti, rinviando alla contrattazione collettiva la concreta articolazione ed implementazione di tali
diritti.
Ultimo cenno meritano la partecipazione azionaria dei lavoratori e gli enti bilaterali:
• Per quanto riguarda la prima, essa rappresenta ancora materia controversa in Italia, dato che spesso è
stata circoscritta alla partecipazione economica, ed è quindi necessario un intervento legislativo volto ad
accordare una specifica forma di tutela e di rappresentanza all’interesse collettivo dei lavoratori azionisti,
46

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

riconoscendo a questi ultimi un accesso privilegiato negli organismi societari, oltre che alla richiesta di
sostegno all’azionariato collettivo, che consentirebbe ai lavoratori interessi di partecipare indirettamente al
capitale della società mediante un fondo istituito appositamente.
• Per quanto riguarda i secondi, questi sono enti privati costituiti da associazioni dei datori di lavoro e dei
lavoratori e sono sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso una serie di
proposte e attività come: la promozione di un’occupazione regolare e di qualità, intermediazione
nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, programmazione di attività formative e determinazione di
modalità di attuazione della formazione professionale in azienda, ecc.

47

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 7 - Il contratto collettivo tra anomia ed effettività

1) Individuale, collettivo e anomia del diritto sindacale


Il nostro ordinamento, sinora, non ha avuto un quadro normativo effettivo circa la disciplina del fenomeno
sindacale.
Le ragioni di tale “anomia” vanno considerate storicamente in relazione all’evoluzione dell’esperienza
italiana, e sono tutte riconducibili alla difficoltà di conciliare le diverse dimensioni in gioco, da quella socio-
economica a quella politica e culturale. Da ciò consideriamo l’apporto rilevante offerto da dottrina e
giurisprudenza, i cui contributi maggiormente significativi si sono intrecciati per dare vita ad un quadro
“suppletivo” di regole e prassi sul contratto collettivo. Esso è stato definito infatti “ibrido” e come tale
assai problematico e lacunoso: parliamo, in questo caso, di un diritto vivente più o meno stabile nei periodi
di crescita e sviluppo, ma incline a vacillare nei momenti di conflittualità sociale e di difficoltà generale.

2) Il potere sindacale nel prisma dell’efficacia del contratto collettivo; le ragioni


strutturali dell’efficacia ultra partes del contratto collettivo
Cominciamo ad analizzare le concrete dinamiche del contratto collettivo. Come già visto, il singolo
lavoratore ha la necessità di aggregarsi per poter contrattare le regole del proprio rapporto di lavoro
rispetto al suo datore di lavoro. Questa è una dinamica funzionale per dare integrità all’individuo, perché
mirata a restituirgli la capacità di negoziare con la sua controparte contrattuale, in piena libertà.
[N.B. Ricordiamo che il contratto collettivo viene analizzato sia considerando la sua funzione “tradizionale” normativa di regolare il
contenuto dei rapporti individuali di lavoro, sia per la funzione obbligatoria, che produce regole e vincoli in capo ai soggetti
collettivi].
Dunque, i singoli lavoratori si aggregano, e tramite le proprie rappresentanze, stipulano contratti collettivi
per disciplinare i relativi rapporti di lavoro.
 Primo problema: che tipo di efficacia “soggettiva” hanno questi contratti?
Se ci soffermiamo sull’origine individuale del fenomeno di aggregazione, allora immediatamente potremmo
pensare che i vincolati a tali contratti sarebbero solo coloro i quali hanno conferito al soggetto collettivo di
poter stipularli, e quindi ci potremmo riferire ad un’efficacia soggettiva “relativa” (tra l’altro perfettamente
coerente con la qualificazione del contratto come “atto di autonomia individuale che ha forza di legge tra le
parti” ex art.1372 c.c.). Tuttavia, seguendo questa prospettiva, sarebbero compromesse una serie di
esigenze, tra cui: l’universalità delle tutele, l’indivisibilità degli interessi, la corretta concorrenza sia tra
lavoratori, sia tra datori di lavoro.
Da ciò è facile intuire come è più corretto parlare di efficacia “ultra partes”, che si traduce nell’esistenza di
un solo contratto collettivo. Tale impostazione comunque genera dei sacrifici da pagare in termini di
libertà: come ad esempio chi non si aggrega a nessun sindacato o dissente da esso, vedrà comunque
applicarsi regole definite dalle organizzazioni.

3) … e dell’efficacia “reale”
 Il secondo problema riguarda invece l’efficacia “oggettiva” del contratto collettivo, cioè il suo
rapporto con il contratto individuale. Si tratta di efficacia obbligatoria o reale?
Se consideriamo nuovamente la dimensione individuale del fenomeno, potremmo pensare che il singolo
lavoratore abbia la possibilità di rivedere quanto pattuito nel contratto collettivo, mediante un nuovo
accordo individuale.
Ma ovviamente dobbiamo considerare che le esigenze di tutela del lavoro subordinato si oppongano a tale
conclusione: infatti non ha senso consentire alle parti, in maniera individuale, di rivedere la tutela
apprestata dal contratto collettivo se questa stessa tutela è giustificata proprio dalla necessità di evitare
negoziazioni individuali.

48

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

È lampante, quindi, il divieto di prevedere regole difforme da quelle del contratto collettivo, in piena
coerenza col principio di inderogabilità o efficacia reale del contratto collettivo. E ovviamente, in ultima
analisi, dobbiamo tener conto del fatto che anche in questo caso vi sia un compromesso in termini di libertà
individuale, cioè l’impossibilità, per il singolo, di tornare sui propri passi successivamente alla stipula del
contratto collettivo.
Tuttavia, bisogna tener conto del fatto che il regime giuridico del contratto collettivo non assicuri
automaticamente la sua efficacia. Essa nasce dalla tensione dialettica tra interessi “individuali” e “collettivi”
Piuttosto si può affermare che l’efficacia del contratto collettivo dimostri la completa inadeguatezza della
dimensione contrattuale individuale per sorreggere, sul piano giuridico, il fenomeno sindacale.
L’aggregazione collettiva, al fine di realizzarsi, deve diventare “altro” rispetto alla dimensione individuale,
avendo bisogno di qualcosa che il singolo non può dare, perché semplicemente, non ne è in possesso:
infatti non è in possesso della forza giuridica di vincolare soggetti terzi (cioè intendiamo l’efficacia ultra
partes) e non è in possesso del potere di attribuire conseguenze diverse da quelle meramente risarcitorie
per l’inadempimento delle obbligazioni contratte.

4) Il periodo liberale: categorie giuridiche e novità del fenomeno sindacale


Parlando adesso delle origini del fenomeno sindacale, come sappiamo, esso nasce con la rivoluzione
industriale, in Italia, nella seconda metà del XIX secolo, quando i singoli lavoratori, braccianti e artigiani,
iniziarono a mettersi a disposizione di chi aveva avviato un’impresa, e si uniscono tra di loro, al fine di
rafforzarsi e difendersi dalle richieste e dalle pressioni dei datori di lavoro. La prima forma di contratto
collettivo si chiama “concordati di tariffa”, con i quali si determina quella che oggi conosciamo come
retribuzione. Il giurista Messina vide in tali concordati la loro idoneità a formare “un unico contratto”,
riducendo ad unità il gruppo, all’interno del quale i singoli risultano vincolati tra loro.
Ovviamente si mostrano subito i limiti dell’approccio privatistico di tali strumenti: infatti la violazione del
vincolo formatosi tra i lavoratori produceva conseguenze solo obbligatorie-risarcitorie, e non reale, senza
quindi la sostituzione della clausola individuale difforme da quella collettiva.
Stesso in quegli anni, ricordiamo il ruolo importante lasciato dai collegi dei probiviri, cioè una magistratura
non togata che era chiamata a pronunciarsi su controversie meramente individuali, senza occuparsi del
fenomeno collettivo.
Grazie ad essa, che era chiamata a giudicare secondo “equità”, si iniziò a richiamare i principi dell’efficacia
generale e dell’inderogabilità (questo passaggio costituì un elemento di apertura dell’ordinamento).

5) La (mistificatoria) “parentesi” del contratto collettivo di diritto corporativo


Nel periodo corporativo (fascista) lo scenario cambia completamente, dato che vi è la sovrapposizione
del contesto ideologico-politico al fenomeno sindacale, assorbendolo completamente nell’ambito
pubblicistico. È questo, infatti, l’unico periodo storico in cui si ha una compiuta regolazione del fenomeno
sindacale, seppur perdendo le caratteristiche sue originarie, così come accadde al contratto collettivo.
Mediante il “Patto di Palazzo Vidoni” tra la Confederazione generale dell’industria e Confederazione
nazionale delle corporazioni fasciste, abbiamo l’abolizione delle Commissioni interne. Nel 1939 fu
riconosciuto il c.d. fiduciario d’azienda, cioè l’unica forma di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di
lavoro. Ricordiamo che fu negata sia la libertà sindacale, che il diritto di sciopero. Infatti la concezione
dell’aggregazione sociale era quella di svolgere la funzione di sostegno al singolo lavoratore per realizzare
l’interesse (collettivo) superiore della produzione nazionale, mentre il contratto collettivo doveva
essenzialmente attuare i principi della Carta del lavoro e dare esecuzione alle norme del codice civile circa
la disciplina del lavoro (art.2071 c.c.).
Il sindacato quindi diventa un soggetto di diritto pubblico, sottoposto ad un penetrante controllo, e per
ciascuna categoria il sindacato è “unico”. Infatti, il potere sindacale di stipulare il contratto di diritto
corporativo trova il suo fondamento nella legge, e quindi il contratto produce un’efficacia soggettiva ultra
partes ed oggettiva reale. L’ordinamento corporativo sarà poi abrogato col d.lgs. 369/1944.
49

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

6) Autonomia ed eteronomia nella disciplina ad hoc dell’art. 39 Cost.; la valenza


“negativa” dei co. 2-4 e l’anomia del diritto sindacale
Con l’introduzione della Costituzione del 1948, e quindi del suo art.39, si volta completamente pagina.
Il co.1 sancisce in maniera netta la libertà dell’organizzazione sindacale. Libertà, per il lavoratore, di
organizzarsi, e quindi, libertà dell’organizzazione che è risultato dell’aggregazione tra lavoratori. Libertà
anche nello scegliere la forma dell’aggregazione, anche quella più elementare, per consentire alla persona
di esprimersi agevolmente.
Perciò, il costituente non utilizza la figura dell’associazione, bensì quella dell’organizzazione, che
comprende anche coalizioni occasionali.
La seconda parte dell’art.39 prevede l’attribuzione della personalità giuridica ai sindacati, e la
conseguente formazione di rappresentanze unitarie, costituite in proporzione agli iscritti, prevedendo la
stipulazione di contratti collettivi con efficacia ultra partes, vincolanti per tutti gli appartenenti alla
categoria di riferimento, cioè anche per coloro che non sono iscritti alle associazioni che lo stipulano: non
più un atto di autonomia, bensì un atto di eteronomia.
Bisogna quindi evidenziare un delicato equilibrio tra autonomia ed eteronomia, in cui abbiamo l’apporto
del singolo che si sostanzia nel dare origine all’organizzazione sindacale e nel conferire peso
all’organizzazione stessa.
Da qui in poi finisce l’autonomia ed entra in gioco l’eteronomia: l’interesse del singolo trova soddisfazione
attraverso la partecipazione al procedimento democratico di formazione dell’interesse collettivo.
La non attuazione della seconda parte di tale articolo segnerà fortemente la strada del diritto sindacale
italiano, caratterizzato dalla mancanza di previsioni legislative nella regolazione del potere di stipula del
contratto collettivo.

7) Il contratto collettivo c.d. di diritto comune nella (inadeguata) ricostruzione


privatistica dell’autonomia collettiva
Verso gli anni ’50, molti studiosi iniziano a porre l’attenzione verso l’art.39 Cost, e inizia a prendere sempre
più forza il ricorso a schemi giuridici già consolidati, mediante la prospettiva privatistica. Si delinea,
quindi, la figura del contratto collettivo di diritto comune (ex art.1322 c.c.). Abbiamo il ricorso
all’autonomia dei privati, considerata però riferibile anche al gruppo sociale. Emerge quindi il concetto di
autonomia collettiva, cioè il potere dell’aggregazione di tutelare e regolare il proprio interesse collettivo.
Tuttavia, tale tesi presenta un difetto strutturale non indifferente, cioè il suo radicamento in istituti di
carattere individuale-privatistico. Secondo tale costruzione, il potere del sindacato di stipulare il contrato
collettivo si fonda sulla rappresentanza volontaria: il singolo, iscrivendosi al sindacato, gli conferisce un
mandato a compiere atti giuridici per conto proprio.
Dal punto di vista dell’efficacia soggettiva, abbiamo la delimitazione dell’ambito di applicazione del
contratto collettivo ai soli lavoratori iscritti ai sindacati che lo stipulano. Dal punto di vista dell’efficacia
oggettiva, si trova un riscontro normativo negli artt. 1723 e 1726 c.c. laddove si prevede che vi sia
irrevocabilità del mandato. Cioè i singoli non possono modificare la regola del contratto collettivo,
anteponendo il proprio interesse a quello realizzato dal contratto. Solo che tale soluzione non è
soddisfacente, perché eventuali violazioni delle regole del mandato ci riportano a rimedi di carattere
obbligatorio e risarcitorio per la sua inosservanza della regola collettiva, e ciò risulta essere inadeguato per
le esigenze della tutela del lavoro del fenomeno sindacale, che richiedono una sostituzione automatica di
quanto previsto dal contratto collettivo al patto individuale difforme.

8) La fondamentale prospettiva dell’ordinamento intersindacale: l’effettività e il sistema


sindacale “di fatto”
Arriviamo alla fondamentale prospettiva dell’ordinamento inter-sindacale: l’effettività e il sistema
sindacale di fatto.
50

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

La teoria dell’ordinamento inter-sindacale di Giugni cambiò la prospettiva metodologica, spostando


l’attenzione dal diritto positivo a ciò che “effettivamente” accade. Si è giunti quindi a configurare un
ordinamento autonomo, orientandosi nel sistema “di fatto” rilevato nella realtà, capace di esprimere in
maniera adeguata la componente collettiva del fenomeno sindacale. Lo scopo di tale ordinamento è
garantire un equilibrio dinamico tra gli interessi delle parti sociali, retto dal “reciproco riconoscimento”,
conseguenza della loro rappresentatività. Infatti, a ben vedere, il fondamento del potere di stipulare il
contratto non sta nella rappresentanza (come nell’ordinamento statale), ma nella rappresentatività, cioè
nell’effettiva forza del sindacato, conseguente al consenso riscosso tra i lavoratori.
Il contratto assume quindi un’efficacia soggettiva tendenzialmente generale, estesa a tutto l’ambito di
riferimento (differentemente dall’ordinamento statale, in cui si produceva solo nei confronti degli iscritti al
sindacato stipulante).
Inoltre non dimentichiamo che tale assetto presenta dei rimedi “autosanzionatori”: tra tutti lo sciopero,
che va al di là del piano individuale, per assumere la veste di “garanzia sociale” degli equilibri definiti dalle
parti collettive. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori ricorreranno a tale strumento nel caso in cui la
controparte datoriale non rispetti le regole pattuite e non applichi il contratto collettivo.
Quindi, la realtà osservata da Giugni è costituita da queste grandi Confederazioni sindacali, le quali, in virtù
della capacità di aggregare consenso, si scelgono reciprocamente per regolare i rapporti di lavoro,
stipulando, prima di tutto, il contratto collettivo. Questa scelta è motivata dall’affidabilità che le parti sociali
si danno reciprocamente. È in quest’ottica che il contratto collettivo assumerà efficacia generale, poiché
saranno le parti sociali dei datori di lavoro e i lavoratori ad assicurare la sua applicazione, dato che essa
realizzerà i loro interessi.
[N.B. facciamo l’esempio di avere un sindacato “estraneo” al sistema di fatto, che attraverso una serie di iniziative, tra cui lo
sciopero, può mettere in discussione i negoziati intrapresi tra il datore di lavoro e un sindacato di lavoratori, al fine di sostenere la
propria piattaforma contrattuale. Tutto ciò creerà problemi al datore di lavoro, che comincerà a dubitare che i sindacati con i quali
negozia sia davvero in grado di rappresentare i lavoratori e magari cambierà le proprie scelte sul contratto di stipulare, preferendo
il sindacato “estraneo”. Di conseguenza, anche i sindacati firmatari, a loro volta, attiveranno gli strumenti sanzionatori. Ci troviamo
davanti due fronti sindacali, e prevarrà chi, concretamente, riuscirà ad avere più seguito nell’azione di sciopero].
È l’effettività dei concreti comportamenti dei soggetti sociali ad essere decisiva, ed è fuori discussione che
tale dimensione abbiamo avuto un ruolo fondamentale nella storia del diritto sindacale italiano, con le
grandi Confederazioni che hanno sostanzialmente controllato il sistema “di fatto”, soprattutto mediante il
contratto collettivo.

9) Gli eterogenei sostegni dell’ordinamento statuale all’efficacia del contratto collettivo:


l’intervento legislativo
Per quanto riguarda i sostegni dell’ordinamento statuale all’efficacia del contratto collettivo, dobbiamo
distinguere tra i sostegni legislativi (■) e quelli giurisprudenziali (◊).
■ Partendo dai primi, il primo sostegno da menzionare è quello previsto dalla legge Vigorelli del 1959, con
il quale il legislatore, consapevole dell’improbabile attuazione dell’art.39 seconda parte, decise di optare
per una legge delega che conferisse al governo il potere di emanare decreti legislativi con cui determinare i
minimi di trattamento economico e normativo per ciascuna categoria dei lavoratori, però il governo era
vincolato a recepire i contratti collettivi nazionali e provinciali stipulati antecedentemente. Con tale
provvedimento, si raggiungeva il risultato dell’efficacia soggettiva generale del contratto collettivo, non
più relativa, ma estesa a tutti gli appartenenti della categoria.
Tale soluzione presentò subito perplessità sulla sua legittimità costituzionale in riferimento all’art.39 Cost, e
la Corte costituzionale riconobbe che l’estensione dell’efficacia fosse una caratteristica propria dei contratti
collettivi, ma rilevò la sua non conformità all’art.39, anche se non ne dichiarò l’incostituzionalità, in virtù
del carattere temporaneo ed eccezionale della legge. Dichiarò illegittimo un articolo di una legge successiva
del 1960, che prorogava di 15 mesi la delega, con conseguente “caducazione” dei decreti di recezione dei
contratti collettivi stipulati dopo la legge Vigorelli.

51

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

■ Un altro rilevante supporto legislativo è dato dall’incentivazione indiretta all’applicazione del


contratto collettivo, mediante agevolazioni (finanziarie, creditizie, fiscali, normative) condizionate però
all’erogazione di trattamenti non inferiori a quanto previsto dai contratti collettivi [N.B. come ad esempio
l’art.36 dello Statuto dei lavoratori, che imponeva agli enti pubblici e amministrazioni statali, che concedessero
benefici a favore di imprenditori e nei capitolati d’appalto, di inserire una clausola che imponeva ai beneficiari di
applicare o far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultati dai contratti
collettivi di lavoro della categoria, e in caso di violazione vi era la revoca del beneficio o dell’appalto, sino all’esclusione
per 5 anni da qualsiasi concessione di agevolazioni].

10) L’apporto della giurisprudenza: in particolare, art. 36 Cost. ed efficacia ultra


partes (indiretta) delle clausole retributive
◊ Per quanto riguarda gli apporti forniti dalla giurisprudenza, ricordiamo prima di tutto che è ritenuto
pacifico il fatto che nel caso in cui, nel contratto individuale, le parti operino un rinvio al contratto
collettivo, quest’ultimo è da intendersi recepito dal datore di lavoro, il quale non può unilateralmente
sottrarsi.
◊ Altro orientamento simile è quello che prevede che il datore di lavoro aderente all’associazione
stipulante sia tenuto ad applicare il contratto collettivo nei confronti di tutti i dipendenti, a prescindere
dallo loro iscrizione al sindacato. Tuttavia tale soluzione appare di scarsa praticità, perché difficilmente il
datore di lavoro differenzierà il trattamento dei dipendenti in base alla loro iscrizione al sindacato, per
evitare comportamenti discriminatori.
◊ Altro tentativo riguarda l’individuazione del contratto applicabile, riferendosi all’art.2070 c.c. che
riguarda il criterio di applicazione del contratto collettivo di diritto corporativo. Secondo l’opinione, il
contratto cui riferirsi sarebbe necessariamente quello della categoria corrispondente all’attività
effettivamente esercitata dall’imprenditore. L’orientamento però è stato superato da una diversa
giurisprudenza che ha affermato che tale criterio contrasta con il principio di libertà sindacale, così da non
potersi sovrapporre all’affiliazione sindacale delle parti e alla loro volontà.
◊ Altro contributo riguarda l’efficacia soggettiva, con il quale si è proposta un’estensione indiretta ultras
partes delle clausole retributive dei contratti collettivi. Più precisamente, in riferimento all’art.36 Cost,
viene individuato nei “minimi retributivi” definiti dal contratto collettivo, il parametro per determinare la
retribuzione proporzionata e sufficiente secondi i principi indicati dalla Costituzione. Si tratta, appunto, di
un’estensione indiretta dell’efficacia soggettiva del contratto.

11) Art. 2077 c.c. ed efficacia “reale” del contratto collettivo


◊ Altro contributo riguarda direttamente l’efficacia oggettiva del contratto collettivo, cioè al suo rapporto
col contratto individuale. La giurisprudenza ha recuperato l’art.2077 c.c. che espressamente prevede:
“contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo
devono uniformarsi alle disposizioni di questo” sottolineandone la funzione di tutela del lavoratore,
ritenendo l’efficacia reale espressione dell’essenza del contratto collettivo, e come tale, riferibile anche al
contratto collettivo di diritto comune.
In questo modo, si è aperta la strada dell’inderogabilità “in peius” del contratto collettivo di carattere
reale. Nonostante l’avversione iniziale della dottrina, tale efficacia è ormai consolidata nel diritto vivente.

◊ Sempre in merito all’art.2077 c.c., vi è da sottolineare l’altra posizione della giurisprudenza, che tende ad
attenuare la forza del contratto collettivo, recuperando una prospettiva meramente individuale. Inoltre ha
riaffermato la speculare derogabilità unilaterale “in melius”, cioè la possibilità di pattuizioni individuali più
favorevoli per il lavoratore. Infatti, i contratti collettivi contengono le clausole di inscindibilità, che
impongono il criterio del c.d. “conglobamento” che opera un raffronto di ciascun istituto (es. retribuzione,
orario di lavoro), al fine di valutare il trattamento più favorevole.

52

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

◊ In merito alla relazione tra contratti collettivi di diverso livello, vi è una mancanza di uno specifico
quadro normativo, dettato dal problema di individuare un criterio ordinatore tra i contratti di livello
diverso.
Perciò è opportuno ritornare al sistema sindacale di fatto, cercando la soluzione sul piano dell’effettività:
la prevalenza di un livello contrattuale sull’altro dipenderà dalla forza (rappresentatività) di chi governa tale
sistema, cioè la superiorità gerarchica del contratto nazionale di categoria reggerà fin quando le grandi
Confederazioni riusciranno ad evitare che ai livelli decentrati altri sindacati aggreghino sufficiente consenso
tra i lavoratori.
[N.B. Dal punto di vista dell’ordinamento statale, il discorso è più complesso, e vi è chi sostiene l’applicabilità
dell’art.2077 c.c. prevedendo inderogabile “in peius” il contratto collettivo nazionale da parte di quello inferiore. Altro
tentativo riguarda il criterio di specialità, con la prevalenza del contratto più vicino alla situazione da regolare, oppure
il criterio della successione temporale, mettendo i contratti su uno stesso piano e prevedendo deroghe anche
peggiorative del contratto aziendale a quello nazionale].

12) Il profilo temporale del contratto collettivo: le altalenanti soluzioni


◊ Sempre con riferimento all’art.2077 c.c. la giurisprudenza ha cercato di superare anche un altro
problema: la successione nel tempo dei contratti collettivi di pari livello.
[N.B. Se ci basiamo sullo schema del mandato, dobbiamo tenere in considerazione l’inserimento, nel contratto
individuale, dei diritti derivanti dal contratto collettivo: parliamo in tal caso della c.d. teoria dell’incorporazione, che
comporterebbe l’attribuzione del potere di modificare il trattamento previsto dal contratto collettivo, ormai divenuto
parte di quello individuale, solo al singolo rappresentato. Con ciò, ne deriva la conseguenza di costringere la
contrattazione collettiva a prevedere costantemente dei trattamenti migliorativi, pena l’insuperabile dissenso del
singolo. Tale scenario appare quindi improponibile e non compatibile col fenomeno sindacale, producendo un enorme
irrigidimento della contrattazione collettiva].
Prima di tutto ha affermato che la derogabilità “in melius” prevista da questo art. si applica solo nel
rapporto tra contratto collettivo e individuale, escludendola invece per quanto riguarda il rapporto tra
contratti collettivi di pari livello. Sulla base di questa argomentazione, ha ammesso la modifica “in peius”
del contratto collettivo di pari livello, rispetto a quello precedente, collocando lo stesso contratto collettivo
su un piano esterno al contratto individuale, cioè tra le fonti normative “eteronome”.
Va comunque precisato che il contratto collettivo successivo assorbe anche eventuali trattamenti
migliorativi previsti dal contratto individuale (i c.d. “superminimi”), salvo diversa pattuizione individuale.
Tuttavia, esso trova un limite insuperabile nei c.d. “diritti quesiti”, cioè i diritti maturati in relazione a
prestazioni già svolte e appartenenti al patrimonio del lavoratore.
Altro aspetto da considerare è la produzione di efficacia del contratto dopo la sua scadenza: prima di tutto
bisogna dire che anche per il contratto collettivo vale il principio secondo il quale i vincoli obbligatori non
possono essere perpetui. Le parti, comunque, stabiliscono un termine di scadenza, in caso di eventuali
mutamenti del contesto socio-economico. Inoltre è previsto anche il rinnovo tacito del contratto collettivo
di anno in anno, salvo disdetta.
Comunque sia, in riferimento all’art.2074 (“il contratto collettivo, anche quando è stato denunziato,
continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, fino a che sia intervenuto un nuovo regolamento
collettivo”.), lo ha ritenuto non applicabile al contratto collettivo di diritto comune. Infatti, sono gli stressi
contratti ad evitare il problema, prevedendo delle “clausole di ultrattività”, secondo le quali il contratto
produce effetti sino a quello successivo che lo sostituisce.
Inoltre, il contratto collettivo può produrre effetti anche per il periodo antecedente alla propria
stipulazione, e non soltanto in relazione a trattamenti migliorativi.

53

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

13) L’ibrido quadro normativo e il progressivo indebolimento del sistema sindacale “di
fatto”: i cc.dd. accordi separati e il caso Fiat
Facendo un piccolo riepilogo, a seguito dell’inattuazione dell’art.39 Cost parte seconda:
- lo schema giuridico di fondo è dato dal diritto comune dei contratti, inadeguato con le regole
dell’autonomia individuale;
- vi sono una serie di sostegni giuridici, sia del legislatore, sia dalla giurisprudenza, i quali sostengono la tesi
dell’efficacia ultras partes e l’efficacia reale del contratto collettivo, seppur entrambe incompatibili con il
diritto privato;
- si instaura il sistema sindacale “di fatto”, in cui trova applicazione il piano dell’effettività.
Da questo riepilogo possiamo affermare di trovarci di fronte ad un quadro colmo di incongruenze ed
incertezze, e come tale definito “ibrido”, che è costituito da 3 poteri: i primi due di carattere giuridico
(autonomia individuale e fonte del diritto: direttamente art.2077 c.c. e indirettamente art.36 Cost), il terzo
di carattere sociale (rappresentatività sindacale).
Come ben sappiamo, il contesto socio-economico che abbiamo analizzato, matura tra gli anni ’50 e ’60,
periodo caratterizzato dal maggior sviluppo economico del Paese, in cui la figura di spicco è l’operaio,
rappresentato dalle grandi Confederazioni, che nel sistema sindacale “di fatto” (teoria dell’ordinamento
intersindacale) coprono parte significativa del tessuto economico-produttivo del paese. Il sindacato è
riuscito a mantenere il proprio ruolo di referente delle vicende riguardanti il mondo del lavoro, e poi
interlocutore del potere politico-legislativo mediante la “concertazione”.
Poi vi sono stati periodi di difficoltà, sia sociale, che economica: a partire dalle contestazioni di fine anni ’60,
sino ad arrivare alla crisi economica petrolifera di inizio anni ’70, in cui prende piede una nuova fase storica.
Tuttavia va detto che tale sistema è andato avanti per decenni, e con esso il contratto collettivo.
Sul finire del primo decennio degli anni 2000, lo scenario è completamente mutato. Infatti, già agli inizi del
2000, si iniziano a registrare divergenze tra le grandi Confederazioni: si arriverà ai famosi “accordi
separati” come il Patto per l’Italia 2002 e il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici 2003, che
vedranno la mancanza della sottoscrizione della CGIL. Tale rottura esploderà alla fine del primo decennio, in
riferimento specifico al caso Fiat 2009.
Infatti, tale caso metterà in rilievo le carenze a causa dell’anomia del diritto sindacale italiano, prima tra
tutte l’assenza di regole sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo dei lavoratori, dinnanzi
all’aumentare del loro dissenso, soprattutto a seguito dell’aggravarsi della situazione economica.
La FIAT, il cui rilievo è indiscutibile nel panorama industriale italiano, a causa della concorrenza derivante
dalla sempre più spinta globalizzazione dei mercati, richiede cambiamenti delle condizioni organizzative e di
lavoro, minacciando di dislocare gli impianti produttivi in altri paesi. Tali richieste si tramutano in contratti
aziendali (es. Pomigliano) che puntualmente la FIOM-CIGL si rifiuta di firmare.
Inutili saranno i referendum sui contratti collettivi, nella speranza di raggiungere un sufficiente consenso dei
lavoratori in azienda, ma comunque tali strumenti non avrebbero potuto garantire una solida efficacia
giuridica ultra partes.
Nel settembre 2010 viene aggiunto un articolo che attribuisce più spazio al contratto decentrato, e nello
stesso mese CONFINDUSTRIA decide di recedere dal precedente CCNL del 2008, con l’intento di soddisfare
la richiesta di maggiore libertà contrattuale a livello aziendale della FIAT.
Nonostante ciò, la FIAT decide di uscire dal sistema contrattuale, creando nuove società, stipulando di
nuovo un contratto denominato “specifico di primo livello” e uscendo da CONFINDUSTRIA nel 2012.
Tutto ciò provocherà problemi in ordine all’efficacia del contratto collettivo, che riguardano soprattutto
l’incerta efficacia soggettiva dei contratti collettivi nazionali (non applicabili ai lavoratori iscritti al CGIL) e
l’esistenza di eventuali comportamenti discriminatori da parte di FIAT nei riguardi dei lavoratori iscritti alla
FIOM.

54

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

14) La regolazione contrattuale del potere di stipulare il contratto collettivo: dall’unità di


azione sindacale all’unità procedurale (il c.d. Testo Unico sulla rappresentanza sindacale
del 14 gennaio 2014)
In questo periodo abbiamo l’Accordo interconfederale del 2011 e il Protocollo d’Intesa del 2013,
concernenti la stipulazione del contratto collettivo, aziendale per il primo e nazionale per il secondo, che
ritrovano anche la firma CGIL.
Tali accordi sono poi confluiti nel Testo Unico sulla rappresentanza sindacale 2014, in cui per la prima volta
nel diritto sindacale, il potere di stipulare il contratto collettivo viene regolato nel settore privato.
Le nuove regole del contratto collettivo aziendale, saranno:
- legittimati alla stipulazione  rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali
convenute con il T.U. oppure le rappresentanze sindacali aziendali costituite ex art.19 Statuto lavoratori;
- l’efficacia riguarda  tutte le associazioni sindacali (quali espressione delle Confederazioni sindacali
firmatarie, o che comunque tali accordi li abbiano formalmente accettati), che sono operanti in azienda.
Tale efficacia è subordinata alla condizione che:
- nel caso di stipulazione da parte delle RSU, il contratto aziendale deve essere approvato dalla
maggioranza dei componenti della stessa RSU;
- nel caso di stipulazione da parte delle RSA, esse devono essere costituite nell’ambito delle associazioni
sindacali che risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali, conferite
dai lavoratori.
Per quanto riguarda, invece, il contratto collettivo nazionale:
- legittimati alla contrattazione  sono ammesse le Federazioni delle organizzazioni sindacali firmatarie
che abbiano una rappresentatività non inferiore al 5%.
Inoltre tali contratti, se sottoscritti dalle organizzazioni sindacali che rappresentino il 50% + 1 della
rappresentanza, e previa consultazione dei lavoratori, vincoleranno entrambe le parti e saranno
pienamente esigibili per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie.
Soprattutto il T.U. darà ampia importanza al concetto di esigibilità del contratto collettivo, istituendo una
Commissione interconfederale permanente, mirando ad assicurare l’applicazione delle regole contrattuali,
esprimendo prima di tutto un obbligo di pace sindacale, allo scopo di evitare gli scioperi per manifestare il
proprio dissenso. Tuttavia tale esigibilità indica la palese preoccupazione delle difficoltà di aggregare consenso].
Ovviamente vi saranno una serie di problemi per quanto riguarda l’efficacia di tali contratti. Infatti i
suddetti Accordi e il T.U., avendo natura contrattuale, saranno intrepretati secondo lo schema privatistico,
quindi solo con efficacia relativa.
Infine, va segnalato il nuovo accordo interconfederale (“Patto della fabbrica” del 2018) che ha rilanciato il
contenuto del T.U. del 2014, che è considerato come “pilastro delle relazioni industriali” e come
presupposto della definizione di un quadro normativo in materia, oltre alla necessità di una misurazione
della rappresentanza anche datoriale.
[In definitiva, possiamo affermare che è evidentemente indispensabile un potere sindacale dalla piena
legittimazione democratica e dall’adeguata forma giuridica, in grado di produrre regole che vincolino tutti
gli interessati. A tal fine è indispensabile un intervento di stampo legislativo per risolvere tali lacune del
diritto sindacale italiano, segnato da un forte dissenso dei singoli e dei gruppi].

15) Il contratto collettivo “di prossimità”: i radicali dubbi di legittimità costituzionale


Il caso FIAT ha spinto il legislatore a disciplinare il poter di stipulare il contratto collettivo, in maniera
particolare, cioè mediante la figura del contratto collettivo “di prossimità” (cioè di livello territoriale o
aziendale), e si prevede:
- i soggetti legittimati alla stipulazione, la necessaria sottoscrizione sulla base di un criterio maggioritario
(che non è ben definito), le specifiche finalità, le materie;
- potere di derogare alle disposizioni di legge e alle regole del CCNL, nel rispetto della Costituzione e le
normative comunitarie e internazionali;
55

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

- l’efficacia ultra partes nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si
riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza.
Ovviamente tale soluzione legislativa ha presentato vari dubbi di legittimità costituzionale, sia in
riferimento all’art.3 per violazione del principio di eguaglianza, sia in riferimento all’art.39 per violazione
del principio di libertà sindacale e per difformità alla seconda parte dello stesso articolo, in merito alla
disciplina di attribuzione dell’efficacia ultra partes.
È significativo che l’art. 8 del d.lgs 138/2011 (con il quale è stata prevista questa figura contrattuale) ha
avuto una ridotta applicazione, perché nell’Accordo interconfederale 2011 viene ribadito che le materie
della contrattazione siano affidate all’autonoma determinazione delle parti e quindi, impegnandosi ad
attenersi a tale accordo.
Tuttavia, vi è da osservare che l’art.8 mostri carenze strutturali del diritto sindacale, mostrando come il
tradizionale rapporto legge-contratto collettivo all’insegna del principio di inderogabilità unilaterale risulti
essere troppo rigido.
Inoltre, il comma 3 di tale articolo (definito “salva FIAT”) mira a risolvere i problemi degli accordi aziendali
FIAT, prevedendo che i contratti collettivi aziendali sottoscritti prima dell’Accordo del 2011, siano efficaci
nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto si riferisce, a condizione del voto di
maggioranza dei lavoratori.
Anche questa disposizione appare in contrasto con alcuni principi costituzionali, tra cui con il principio di
eguaglianza dell’art.3 e con il diritto di difesa ex art.24.

16) L’articolazione funzionale del contratto collettivo e gli escamotages sull’efficacia


ultra partes
Possiamo affermare che l’efficacia generale del contratto collettivo con funzioni diverse da quella
tradizionale si regge su “escamotages” e non su una solida legittimazione democratica, cercando anche in
questo caso la “forza regolativa” sul piano dell’effettività. Infatti, negli anni sono stati numerosi i rinvii
legislativi che hanno legittimato la contrattazione collettiva ad integrare e derogare al precetto legale in
relazione a singoli segmenti della disciplina in materia (es. orario di lavoro, lavoro femminile, trasferimento
d’azienda, mutamento di mansioni, ecc.).
È opinione diffusa quella che afferma che l’estensione dei contenuti avrebbe determinato un’articolazione
funzionale del contratto collettivo, al quale in varie ipotesi (di cui diremo) sarebbe attribuito il compito di
adottare regole che incidono solo indirettamente sui rapporti di lavoro, intervenendo soprattutto in altre
materie (es. mercato del lavoro, potere di gestione dell’organizzazione, servizi essenziali, ecc.), e più
specificamente ricordiamo:
- gli interventi delimitazione del potere organizzativo del datore di lavoro, grazie ai quali il contratto
collettivo ha assunto la denominazione di “gestionale”;
- la disciplina dello sciopero nei servizi essenziali, dove la regolamentazione di rilevanti profili è rimessa agli
accordi sindacali, in primo luogo le c.d. “prestazioni indispensabili” da assicurare durante lo sciopero;
- possibilità da parte di uno Stato di affidare alle parti sociali il compito di mettere in atto le direttive
europee, cioè rimettendo al contratto collettivo l’attuazione di una direttiva dell’Unione (art.153.3 TFUE).
Per tutte queste ipotesi, si è riproposta la questione dell’efficacia soggettiva generale del contratto
collettivo, che continua a non essere né menzionata, né disciplinata dal legislatore.
[N.B. Una delle soluzioni più ricorrenti si basa sull’origine del potere del contratto collettivo: parliamo in questo caso
della c.d. “efficacia derivata”, nel senso che la norma “delegata” del contratto, deve avere la stessa efficacia della
norma “delegante” della legge. Tuttavia la questione è controversa, perché si è considerato che tali contratti, essendo
diversi dal tradizionale contratto “normativo”, non rientrerebbero nella disciplina costituzionale art.39.].
• Inoltre, l’art.51 del d.lgs 81/2015 attribuisce il potere di deroga alla legge anche in merito al contratto
aziendale, stipulato non solo dalla RSU, ma anche da una RSA (se riconducibile ad associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale). Tale previsione ha posto sicuramente dubbi in

56

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

merito all’attribuzione del potere di deroga ad un organismo sindacale, quale espressione solo parziale
degli interessi dei soggetti destinatari della deroga.

17) La specificità del contratto collettivo nel lavoro pubblico


Un altro ambito dove il contratto collettivo ha esteso la sua presenza riguarda le pubbliche
amministrazioni.
Infatti, quest’area del lavoro subordinato caratterizzata dalla natura pubblicistica del datore di lavoro si
ispira anzitutto ai principi di imparzialità e buon andamento dell’art.97 Cost. Va sicuramente detto che
l’estensione è avvenuta pienamente grazie alla privatizzazione (realizzata con il d.lgs. 29/1993 poi trasfuso
con modifiche del d.lgs. 165/2001).
Come sappiamo, quest’area, in ragione dell’interesse pubblico del datore di lavoro, ha sempre avuto regole
peculiari, previste dalla legge al fine di garantire l’omogeneità delle regole e controllo delle risorse
finanziare pubbliche, riguardando vari profili della contrattazione collettiva generale.
Prima di tutto, la legge prevede il contratto collettivo nazionale a livello di comparto e il contratto collettivo
decentrato integrativo, stipulato a livello di singole amministrazioni.
- Per quanto riguarda l’amministrazione, il potere di stipulare il contratto collettivo nazionale è attributo
all’ARAN.
Poi le legge istituisce i comitati di settore, ai quali attribuisce il potere di indirizzo nei confronti dell’ARAN.
In particolare, il Presidente del Consiglio opera come comitato di settore tramite il Ministro per la p.a.
insieme al Ministro dell’economia e finanze. È espressamente previsto che le amministrazioni pubbliche
debbano adempiere agli obblighi assunti con i contratti collettivi e ne assicurino l’osservanza nelle forme
previste, e che garantiscano parità di trattamento contrattuale o comunque trattamenti non inferiori a
quelli previsti dai contratti collettivi.
- Per quanto riguarda i lavoratori, sono legittimati a stipulare il contratto integrativo le rappresentanze
sindacali unitarie e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo
nazionale.
Ovviamente, anche in questo caso il legislatore non ha attribuito espressamente efficacia ultra partes al
contratto collettivo, ma si raggiunge tale risultato indirettamente:
- attraverso il conferimento del potere negoziale all’ARAN, che vincolerà tutte le amministrazioni pubbliche;
- attraverso gli specifici obblighi detti prima in capo alle pubbliche amministrazioni.
Si è sostenuto che la regolazione del potere di stipulare il contratto collettivo anche dal lato dei lavoratori
soddisfi pienamente i principi fondamentali dell’art.39 e in tal modo l’efficacia ultra partes del contratto
collettivo acquisterebbe solidità, trovando un idoneo fondamento giuridico, e anche se nel d.lgs. del 2001
non vi è alcuna disposizione sull’efficacia oggettiva del contratto collettivo, sicuramente vale tutto ciò che è
stato già detto per il lavoro privato, per esempio a proposito dell’inderogabilità unilaterale reale del
contratto collettivo o della parità di trattamento.

18) La questione del contratto collettivo “fonte del diritto”


In merito all’interrogativo sulla natura del contratto collettivo è prevalente l’opinione che lo riconduce
alla categoria del contratto di diritto di privato, anche se abbiamo la tesi diversa che lo inquadra tra le fonti
del diritto, e più specificamente, tra le fonti extra ordinem. A sostegno di quest’ultima tesi, si ricordano le
sue caratteristiche peculiari, tra cui la regolazione dall’esterno (eteronoma) del contratto individuale, le
ipotesi di efficacia soggettiva ultra partes e l’efficacia oggettiva reale.
In generale è indiscutibile la posizione di chi afferma che il potere di stipulare il contratto collettivo va oltre
a ciò che è scritto nella seconda parte dell’art.39 Cost. e che lo stesso contratto collettivo regola una
pluralità aperta di rapporti.
Si può affermare che tale atto sia “ambivalente” laddove la dimensione dell’autonomia e dell’eteronomia si
intrecciano.

57

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Ovviamente va anche detto che la base dell’eteronomia è carente e necessiterebbe di una solita base
giuridica (ancora mancante), laddove l’elemento dell’efficacia ultra partes, elemento fondamentale per
ricondurre il contratto collettivo tra le fonti del diritto, è ancora oggi assente o comunque difficile da
configurare con certezza.
► In definitiva, il nostro contratto collettivo attuale presenterebbe (solo) la “vocazione di fonte del diritto”

INTEGRAZIONE (non presente sul libro): Protocolli e accordi interconfederali più importanti:

- Protocollo 23 luglio 1993  l'accordo del luglio '93 tra sindacati, imprenditori e governo, viene siglato dopo due anni
di conflitti tra sindacati e Confindustria, due anni di scontri seguiti alla decisione dell'associazione degli industriali di
dare disdetta alla scala mobile (il meccanismo che adeguava automaticamente il salario all'inflazione). L'accordo
sancisce il criterio della concertazione tra le parti sociali e dà nuove linee alla politica dei redditi. Inoltre, fissa le regole
della contrattazione definendo un modello contrattuale articolato su due livelli: il contratto nazionale e il contratto
integrativo aziendale o territoriale.
Infine, prevede l’introduzione del nuovo modello di rappresentanza nei luoghi di lavoro, cioè l’RSU, con composizione
elettiva.

- Accordo interconfederale dicembre 1993  Il presente accordo assume la disciplina generale in materia di
rappresentanze sindacali unitarie, contenuta nel Protocollo stipulato fra Governo e parti sociali il 23 luglio 1993.

- Accordo quadro 2009  definito “accordo separato” perché non sottoscritto da CGIL, ridefinisce gli assetti
contrattuali.
Prevede una durata triennale dei contratti e riconferma due livelli di contrattazione. Il livello decentrato, competente
per la le materie delegate dal livello nazionale o dalla legge. Inoltre, il contratto decentrato può anche derogare alla
disciplina di singoli istituti del contratto nazionale, per far fronte a situazioni di crisi oppure per favorire lo sviluppo
economico e occupazionale.

- Accordo interconfederale giugno 2011  Dopo una lunga trattativa, è stato raggiunto un importante accordo
interconfederale in materia di relazioni sindacali. Si è ricostituita una “unità sindacale” che si era persa da lungo
tempo: si sono sedute allo stesso tavolo CONFINDUSTRIA e CGIL, CISL e UIL, stabilendo:
 La previsione di un sistema di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali, che tiene conto del
dato associativo e di quello elettorale.
 La legittimazione a negoziare è subordinata al raggiungimento di un dato di rappresentatività superiore al 5% del
totale
dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro.
 Se approvati dalla maggioranza dei componenti delle RSU, i contratti collettivi aziendali sono efficaci (ad eccezione
della c.d. parte obbligatoria), per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali firmatarie
dell’accordo.
 Per quanto riguarda l’esigibilità dei contratti collettivi aziendali, le parti hanno convenuto di limitare la efficacia
delle eventuali clausole di tregua sindacale, stabilite a livello aziendale alle rappresentanze sindacali dei lavoratori
ed associazioni sindacali operanti all’interno dell’azienda, firmatarie dell’accordo interconfederale, escludendo
quindi la vincolatività delle stesse per i singoli lavoratori.
- Protocollo d’Intesa 2013  dà attuazione all’Accordo Interconfederale del giugno 2011. In particolare, si concentra
sulla regolazione e sulla semplificazione delle procedure di rinnovo dei contratti di categoria (cioè nazionale).
L’obiettivo è quello di arrivare alla definizione di rinnovi dei CCNL che, oltre ad essere applicabili alla generalità dei
lavoratori, siano esigibili sia nei confronti dei sindacati di categoria che sottoscrivono il contratto, sia nei confronti di
quelli non firmatari il rinnovo ma appartenenti a organizzazioni che hanno sottoscritto tale protocollo.
 titolarità: sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le federazioni delle organizzazioni sindacali con una
rappresentatività almeno pari al 5%

58

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

 esigibilità: gli accordi sono pienamente esigibili nei confronti di tutte le organizzazioni sindacali confederali che
abbiano firmato il Protocollo d’Intesa e le rispettive federazioni. Pertanto tutte queste si impegnano a non
promuovere iniziative di
contrasto agli accordi così definiti”. Inoltre, i contratti collettivi pienamente esigibili dovranno definire:
- clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti;
- le conseguenze di eventuali inadempimenti (sanzioni) per le organizzazioni che violino gli accordi.

- T.U sulla rappresentanza 2014  recepisce e dà attuazione ai contenuti dell' Accordo interconfederale del 2011 e
del Protocollo d’intesa 2013. Esso costituisce un vero e proprio testo unico in tema di rappresentanza sindacale
composto da quattro parti che regolano, in cinque capitoli:
- la misurazione e certificazione della rappresentanza sindacale a livello nazionale e aziendale;
- la titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale ed aziendale;
- le clausole e le procedure di raffreddamento e le clausole sulle conseguenze dell’inadempimento;
- le modalità volte a garantire l'effettiva applicazione degli accordi sottoscritti nel rispetto delle regole concordate.

- Accordo interconfederale 2018 (“Patto della fabbrica”)  fissa le condizioni per realizzare un sistema di relazioni
industriali più efficace e partecipativo che consenta di sostenere i processi di trasformazione e di digitalizzazione nella
manifattura e nei servizi innovativi, tecnologici e di supporto all'industria. Ha l’obiettivo di contribuire, attraverso le
relazioni industriali e della contrattazione collettiva, alla crescita del Paese, al miglioramento della competitività
attraverso l’incremento della produttività delle imprese, alla correlata crescita dei salari, alla creazione di posti di
lavoro qualificati.
Tappe centrali di questo percorso sono la definizione di regole sulla democrazia e misura della rappresentanza nonché
dei principi per regolare assetti e contenuti della contrattazione. L’accordo fissa anche delle linee guida di intervento
sui temi del welfare, della formazione e delle competenze, della sicurezza sul lavoro, del mercato del lavoro e della
partecipazione.

59

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 8 – Lo sciopero

1) L’autotutela collettiva
Lo sciopero è la principale arma nelle mani dei lavoratori e delle loro organizzazioni rappresentative per
sostenere le proprie rivendicazioni e infatti, quando le volontà delle parti non si incontrano, o quando
interessi non coincidono, la parte dei lavoratori ha a disposizione questo strumento per convincere la
controparte (datoriale) della correttezza delle proprie posizioni, astenendosi dal lavoro e procurando ad
essa un danno. Si tratta di uno strumento squilibrato perché è attribuito a una sola delle parti del rapporto
di lavoro (ossia ai lavoratori; infatti, la “serrata” dei datori si pone su un piano giuridico diverso), ma
costituzionalmente si giustifica proprio per la particolarità del diritto del lavoro (definito come diritto
diseguale) volto a predisporre tutele a favore della parte debole di un rapporto socio-economicamente
squilibrato, al fine di rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Lo sciopero è, dunque, un mezzo di autotutela
che i lavoratori esercitano collettivamente contro potenziali vessazioni da parte del soggetto forte del
rapporto.
Nel nostro ordinamento non esiste una definizione giuridica di sciopero, la cui fonte principale è l'art. 40
Cost. che recita "il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano".

2) Il conflitto collettivo: dall’unificazione alla Costituzione


Ripercorrendo la storia, inizialmente vi erano norme indirizzate a reprimere od ostacolare tale strumento, in quanto si
temevano i suoi forti contraccolpi sociali (il codice penale del Regno di Sardegna del 1859 comminava pene detentive
a tutte le intese degli operai volte allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole
causa). Il codice Zanardelli del 1889 rese, invece, libera l'astensione collettiva dal lavoro ma comunque integrava un
inadempimento contrattuale, che comportava quindi l'eventuale obbligo al a risarcimento dei danni subiti dalla
controparte. Seppure libero, lo sciopero continuava però ad essere sanzionato anche con pene detentive quando era
condotto con violenza o minaccia; tra l'altro esso era ritenuto illegittimo ogni volta in cui venivano interrotti servizi di
immediata utilità pubblica. Successivamente, le forti agitazioni del biennio rosso (1919-1920), caratterizzato da ondate
di scioperi e manifestazioni, fecero sentire la necessità di leggi maggiormente repressive di tale fenomeno. Ciò
avvenne nel periodo fascista in cui, con una serie di leggi "fascistissime", fu abolita la libertà sindacale e vietato
penalmente lo sciopero (unitamente alla serrata). Caduto il fascismo, la Costituzione del 1948 ridiede dignità al diritto
di sciopero.

3) Il ruolo della giurisprudenza e delle parti sociali


Dopo l’entrata in vigore, ci fu chi attribuì all'art. 40 Cost. un valore programmatico, ma ciò non ebbe
successo e allora tale articolo venne riconosciuto come norma precettiva e lo sciopero fu sin da subito
ritenuto un diritto (diversamente dal vecchio Stato liberale che "tollerava" lo sciopero, con la conseguenza
dì dover poi risarcire i danni prodotti alla controparte); con la Costituzione, esso è considerato, un'arma
posta nelle mani della parte di debole del rapporto, dove l'unica conseguenza negativa per i lavoratori che
esercitano tale diritto è la perdita della retribuzione, senza alcuna conseguenza in tema di responsabilità
civile.
La mancanza di leggi che lo regolano, però, ha suscitato molti problemi e l'individuazione delle condizioni e
dei limiti entro cui esercitare tale diritto è spettata alla giurisprudenza, che inizialmente era aversa allo
sciopero dei dipendenti pubblici. In relazione allo sciopero nei servizi essenziali, negli anni ‘70 le
confederazioni sindacali si assunsero la responsabilità di disciplinare autonomamente l'esercizio delle azioni
di autotutela, vincolando i propri iscritti all'osservanza di una serie di regole contenute in appositi "codici di
autoregolamentazione". Tali norme, però, impegnavano solo i lavoratori iscritti all'associazione sindacale
che le aveva adottate e, dunque, non rispondevano all'esigenza di una disciplina effettiva che regolasse tale
diritto.

60

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

A livello europeo, la Corte di giustizia europea ha, anche in tempi recenti, subordinato la legittimità dello
sciopero a prevalenti logiche d'impresa (nelle sentenze del 2007 Viking e Laval, la Corte ha messo tale
mezzo di autotutela sullo stesso piano della libertà d'impresa) ed ha affermato che l'azione collettiva può
essere ritenuta prevalente solo quando incarni interessi generali di tutela dei lavoratori e sia proporzionata
rispetto al fine perseguito (che d'altronde deve essere compatibile con le fonti del diritto dell'UE).
Tale visione è molto lontana (≠) da quella italiana che, invece, vede il diritto di sciopero come fondamentale
strumento di realizzazione dell'uguaglianza sostanziale di cui all'art.3 co.2 Cost

4) La titolarità del diritto di sciopero


Quanto alla titolarità del diritto di sciopero, si sono succedute varie ipotesi a seconda della fase storica.
Dopo la Costituzione, si propendeva per la "titolarità collettiva" (ossia del sindacato) del diritto di sciopero,
impedendo così lo sciopero spontaneo che gruppi di lavoratori attuavano indipendentemente dalla linea
strategica dei grandi sindacati. Successivamente, si fece strada la teoria del "diritto individuale ad esercizio
collettivo" in base alla quale, la proclamazione dello sciopero da parte del sindacato non costituiva più un
requisito di legittimità dell'esercizio del dritto, ma assumeva il semplice valore di un invito a scioperare
(ossia una mera funzione propagandistica).
Attualmente, il campo si divide fra queste 2 teorie che andrebbero rielaborate in tal senso:
del diritto di sciopero è titolare il singolo lavoratore, mentre il suo esercizio deve necessariamente essere
collettivo.
L'accoglimento di tale prospettiva avrebbe le seguenti conseguenze: non è indispensabile alcuna
proclamazione dello sciopero; non conta il numero dei lavoratori che vi prendono parte; gli atti con cui un
sindacato dispone del diritto di sciopero, sono validi solo per il sindacato firmatario e non per i singoli
lavoratori. Un esempio di tali atti è dato dalle clausole di tregua o di pace sindacale (nate negli anni ‘70), in
virtù delle quali ci si impegna a non scioperare prima della scadenza del contratto collettivo o a esperire
tentativi di conciliazione. Tali clausole sono meramente obbligatorie per i soli sindacati stipulanti e non per i
singoli lavoratori, che rimarrebbero titolari del loro diritto di sciopero (così è detto nell'Accordo
interconfederale del 2011).
Ad oggi, la titolarità soggettiva del diritto di sciopero spetta, sicuramente ad ogni lavoratore dipendente con
2 sole eccezioni: i militari a cui è attribuito solo il diritto sindacale di rappresentanza e gli appartenenti alla
polizia di Stato a cui è espressamente vietato scioperare. Il diritto è esteso poi a tutti quei lavoratori che,
pur formalmente autonomi, presentino una subordinazione socio-economica nei confronti del
committente.
[N.B. la Corte Costituzionale ha riconosciuto la titolarità del diritto di sciopero ai piccoli imprenditori senza lavoratori
alle proprie dipendenze e, quindi, socio-economicamente soggetti ai propri committenti. Tale diritto e stato
riconosciuto; anche ai lavoratori autonomi con contratto di collaborazione coordinata e continuativa ed altresì ad
alcuni lavoratori autonomi e piccoli imprenditori].

5) I limiti: la liceità degli scioperi “anomali” e politici


Una difficoltà che incontra lo sciopero è quella di definirne l'ambito di liceità (atteso che non esiste una
legge attuativa dell'art. 40 Cost.). Il compito della loro individuazione è toccato alla giurisprudenza.
Per molto tempo ebbe successo la teoria di Passarelli secondo cui lo sciopero-diritto consisteva in
un'astensione dal lavoro continuativa, concertata e completa, a tutela di un interesse professionale
collettivo. Sfuggivano, dunque, alla garanzia costituzionale quegli scioperi che apparissero "anomali"
rispetto alla nozione anzidetta di sciopero normale: non sussisteva, quindi, uno sciopero-diritto quando
mancavano i requisiti della continuità (come lo “sciopero a singhiozzo”, in cui momenti di astensione si
alternano a momenti di lavoro), concertazione (lo “sciopero a sorpresa”, senza preavviso) e completezza (lo
“sciopero a scacchiera”, che vede l'agitazione solo di alcuni reparti), oppure non rientrava nell'art. 40 Cost.
lo “sciopero di solidarietà” con altri lavoratori.

61

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Inoltre, Passarelli riteneva lo sciopero un diritto soggettivo potestativo in quanto il titolare poteva
modificare, con la sua volontà, una situazione giuridica di un altro soggetto, ossia il datore (costretto a
sottostare agli esiti dell'esercizio di tale diritto). Da ciò ne derivava che era possibile scioperare solo per
ottenere pretese che il datore potesse soddisfare, con la conseguente illegittimità dello sciopero diretto a
perseguire una pretesa non disponibile da parte del datore (in primo luogo, ad es. lo sciopero con
motivazioni politiche). In tali casi, poiché l'astensione dal lavoro non rientrava nel diritto tutelato dall'art.
40 Cost, gli scioperanti erano responsabili civilmente e quindi tenuti al risarcimento dei danni provocati al
datore, nonché esposti all'eventualità di essere licenziati.
Negli anni ‘60, invece, la giurisprudenza, sempre per valutare la legittimità dello sciopero "anomalo",
introdusse dei criteri del danno ingiusto e della corrispettività dei sacrifici, cioè si riconosceva il danno che
gli scioperanti procuravano al datore, ma si ritenne che esso non potesse essere maggiore di quello sofferto
dal lavoratore, consistente nella perdita della retribuzione. Con una sentenza degli anni 80, la Cassazione
prescindendo dalle modalità di effettuazione dello sciopero, poneva il limite del danno inferto alla capacità
produttiva dell'azienda: non si parla più di limiti interni (riferiti al danno alla produzione) ma di limiti esterni
(riferiti alla produttività).
Questa giurisprudenza è in linea con la ricostruzione di Giugni, che vide nello sciopero un "diritto pubblico
di libertà" in relazione al quale: i pubblici poteri non possono emettere provvedimenti in contrasto col
diritto di sciopero e i datori non possono compiere atti diretti a mortificarne l'esercizio.
Circa lo sciopero effettuato per fini non economici, la Corte Costituzionale affermò però la liceità dello
sciopero di solidarietà condotto dai lavoratori di un'azienda allo scopo di sostenere rivendicazioni di
colleghi di altre aziende, a condizione che fossero riscontrabili affinità delle esigenze e comunanza degli
interessi dei lavoratori in sciopero.
Quanto invece allo sciopero politico, la Corte intervenne nel senso di affermarne la costituzionalità, a meno
che esso fosse diretto a sovvertire l'ordinamento costituzionale oppure a impedire od ostacolare il libero
esercizio dei diritti e dei poteri nei quali si esprime la sovranità popolare. La Corte, inoltre, ne individuò 2
tipologie: a) lo sciopero "politico-economico", in cui alla base della rivendicazione politica vi era comunque
una qualche motivazione economica, che rientrava nell'ambito di applicazione dell'art. 40 Cost.; b) lo
sciopero "politico puro", animato solo da ragioni di stampo politico, pur lecito, ma soggetto alle ordinarie
regole dell'illecito civile (responsabilità per danni cagionati al datore). Col tempo, tale distinzione è andata
scemando e la Corte Costituzionale ha finito anche col dichiarare l'illegittimità dell'art. 504 c.p., che
prevedeva il reato di sciopero di coazione nei confronti della pubblica autorità.

6) Le modalità dello sciopero e le altre forme di autotutela


Passiamo ora alle forme di esercizio dello sciopero. Anche nei momenti in cui si sciopera, il lavoratore
conserva tutti i suoi diritti e tutti i suoi obblighi, non strettamente connessi all'effettuazione della
prestazione lavorativa.
Ma, non sempre, le modalità di esercizio del diritto di sciopero sono lineari. Infatti a volte il lavoratore si
astiene solo dallo svolgimento del lavoro straordinario richiesto dal contratto collettivo (sciopero dello
straordinario), oppure si rifiuta di eseguire mansioni ulteriori rispetto a quelle di propria competenza
(sciopero delle mansioni) o, ancora, rallenta i ritmi produttivi richiesti (sciopero del cottimo o del
rendimento). In tali casi, alcuni ritengono che manchi un elemento fondamentale per poter ritenere
operante l'art. 40 Cost., ossia mancherebbe l'abbandono del lavoro, con la conseguenza che per
determinare la legittimità del comportamento, dovrà stabilirsi se lo svolgimento dell'attività fosse o meno
obbligatorio per legge o per contratto. In altri casi, invece, lo sciopero viene effettuato continuando il
lavoro ma rallentando notevolmente l'attività, in conseguenza dell'applicazione rigidissima di disposizioni
legislative, regolamentari e contrattuali (sciopero pignolo); oppure lo sciopero alla rovescia, quando i
dipendenti svolgono lavori non richiesti.
Vi sono, infatti, ipotesi in cui l'agitazione collettiva si svolge non allontanandosi dall'impresa: lo sciopero
bianco quando i lavoratori si astengono dal lavoro ma non lasciano l'impresa.

62

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Forma più estrema è l'occupazione d'azienda che presuppone la permanenza dei lavoratori anche oltre
l'ordinario orario lavorativo (la Corte Costituzionale l'ha ritenuta legittima solo in presenza di una debita
giustificazione, come ad es: un'assemblea regolarmente convocata). Nello sciopero virtuale, che comporta
anch'esso la permanenza in azienda, i dipendenti affermano di essere in sciopero, ma svolgono
regolarmente le loro mansioni.
Alcuni comportamenti esulano, invece, dal concetto di sciopero: il picchettaggio (attività strumentale
all’esercizio dello sciopero) che consiste in un blocco effettuato dai lavoratori l'azienda dissuadono i
colleghi che vogliono entrare a lavoro (se questo degenera in azioni violente, scatta la sanzione penale). Il
picchetto di lavoratori può agire anche in senso inverso, ossia impedire l'uscita dall'azienda dei suoi
prodotti (blocco delle merci che risulta lecito sempre che non sfoci in comportamenti violenti o minacciosi).
Il boicottaggio dei lavoratori, invece, consiste nella propaganda volta ad indurre terzi a non fornire
all'impresa materie prime o strumenti, ovvero a non acquistarne i prodotti.
[N.B. Il boicottaggio è punito dall'art. 507 c.p., infatti la Corte Costituzionale ritiene lecita la sola attività di propaganda
esercitata come libera manifestazione del pensiero ex art 21 Cost. Anche il sabotaggio, che si sostanzia nel
danneggiamento dei locali dell'azienda o dei suoi strumenti o macchinari, è sanzionato penalmente dall'art. 508, co.2.].

7) Lo sciopero dalla parte del datore di lavoro: la serrata, la “messa in libertà”, il crumiraggio
Vediamo ora quali sono i comportamenti che può assumere il datore di lavoro in conseguenza di uno
sciopero.
Tipico strumento nelle mani del datore è la serrata, ovvero la chiusura totale o parziale dell'azienda, per un
periodo di tempo più o meno lungo. Per molto tempo la legge ha trattato la serrata e lo sciopero allo
stesso modo (idea della parità delle armi) ma, la Costituzione ha poi finalmente diversificato le due
fattispecie, riconoscendo lo sciopero come diritto e non facendo alcuna menzione della serrata. A livello
europeo, la Carta dei diritti fondamentali continua, invece a porre tali strumenti sullo stesso piatto
affermando un principio di parità. La Corte Costituzionale ha dichiarato che la serrata è una mera libertà,
dichiarando illegittima la norma penale (art. 502 c p.) che la puniva se effettuata per fini contrattuali, ma
ribadendo la differenza di rango costituzionale rispetto allo sciopero.
[N.B. In ogni caso, la serrata configura un illecito civile che può essere inquadrato o come mora del creditore (art.
1206 c.c.) consistente nel rifiuto di ricevere le prestazioni dei dipendenti, o come inadempimento del contratto di
lavoro. In entrambi i casi comunque il datore è tenuto a versare la retribuzione al lavoratore. Si ricorda, però, che l'art.
1206 c.c. esclude la mora del creditore se questi rifiuta di ricevere la prestazione per un motivo legittimo (consistente
nell'impossibilità di riceverla), come nel caso della "messo in libertà" (serrata di ritorsione) cioè il rifiuto del datore di
ricevere la prestazione quando è in atto uno sciopero articolato].
Un altro tradizionale strumento nelle mani del datore è il crumiraggio, comportamento anch'esso (come la
serrata) ai limiti della condotta antisindacale ex art.28 dello Statuto dei lavoratori. Il crumiro è il lavoratore
che non intende aderire allo sciopero e che, quindi, vuole recarsi normalmente al lavoro: tale
comportamento è il lecito alla luce della libertà sindacale negativa. Altro è il crumiraggio "indiretto", cioè
quello realizzato dal datore con la sostituzione dei dipendenti in sciopero, attuata o spostando
temporaneamente propri dipendenti da un reparto a quello in sciopero oppure reclutando lavoratori
esterni. Per quest’ultimo caso, detto crumiraggio "esterno", vi sono dei divieti legislativi di ricorrere a
determinati istituti (come ad es. lavoro a termine o intermittente) per sostituite i lavoratori in sciopero.
Nel caso del crumiraggio "interno", invece, c'è chi sostiene i che, una volta rispettati i precetti legali circa il
divieto di adibizione a mansioni inferiori, il datore ben potrebbe rispondere allo sciopero con
provvedimenti di tipo sostitutivo.

8) Lo sciopero nei servizi pubblici: a. la definizione


Esame a parte va fatto per lo sciopero nei settori che forniscono servizi (pubblici) ritenuti essenziali.
In tal caso si danneggia non solo il datore, ma anche l'utente del servizio (estraneo al rapporto di lavoro)
anzi, spesso lo scopo è proprio creare disagio agli utenti per ottenere il soddisfacimento delle proprie
pretese.
63

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

In questo campo, l'art. 40 Cost, ha ricevuto attuazione con la legge 146/1990 (ritoccata poi dalla legge
83/2000) in cui principio cardine è quello di garantire che il diritto di sciopero sia esercitato in modo da
assicurare al contempo il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Si tratta, del diritto
alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza.
sociale, all'istruzione, ecc.
Possono, dunque, definirsi essenziali tutti quei servizi che, pur non nominati dal legislatore, consentono
l'esercizio di taluni dei diritti fondamentali da esso considerati. Ai fini dell'essenzialità del servizio, non
rileva la natura pubblica o privata del rapporto di lavoro. La legge 83/2000 ha esteso l’ambito applicativo di
tale disciplina all'astensione collettiva dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che
incida sulla funzionalità dei servizi.

9) b. le condizioni di esercizio
Sempre nell'ambito dello sciopero nei servizi pubblici, la legge fissa specifiche condizioni di esercizio del
diritto di sciopero. In primo luogo, prima della proclamazione dello sciopero, le parti devono espletare
procedure di raffreddamento e conciliazione: lo sciopero può aversi solo se il tentativo di raffreddamento
ha avuto esito negativo. Altresì, i soggetti che proclamano lo sciopero hanno l'obbligo di darne preavviso
almeno 10 giorni prima: in tal modo si consente all'azienda erogatrice del servizio di predisporre le misure
indispensabili. Nello stesso lasso di tempo, chi proclama lo sciopero deve comunicarne la data, le modalità
di attuazione e le motivazioni sia all'azienda che eroga il servizio sia alle autorità governative. Le aziende
erogatrici hanno l'obbligo di comunicare agli utenti almeno 5 giorni prima dell'inizio dello sciopero, modi e
tempi di erogazione dei servizi.
Una delle caratteristiche peculiari di tale sciopero è che, anche il semplice annuncio dell'astensione può
essere di per sé sufficiente a realizzare lo scopo perseguito dai lavoratori (la sola diffusione della notizia
può, infatti, provocare disagi per gli utenti del servizio interessato, determinando una forte pressione nei
confronti della controparte datoriale). Di qui la scelta del legislatore del 2000 di vietare il "c.d. effetto
annuncio", prevedendo che la revoca spontanea dello sciopero proclamato, dopo che ne è stata data
informazione all'utenza, costituisce di forma sleale di azione sindacale che legittima un intervento
sanzionatorio. Inoltre è stato introdotto "l'obbligo di rarefazione": può accadere, infatti, che gli scioperi in
determinati periodi dell'anno o in successione nello stesso settore, possano mettere a serio rischio la
continuità nell'erogazione del servizio pubblico, e per evitare ciò, si è disposto che i contratti collettivi e i
codici di autoregolamentazione prevedano "periodi di franchigia", ossia lassi temporali in cui è di fatto
proibita l'astensione (ad es. in coincidenza con le festività), nonché il rispetto di intervalli minimi tra uno
sciopero e un altro.
[N.B. Tali intervalli si dividono in: soggettivi, ossia relativi al divieto di proclamare scioperi successivi da parte dello
stesso soggetto sindacale, se non nel rispetto di un determinato arco temporale tra l'uno e l'altro; ed oggettivi,
riguardanti il divieto di proclamare, da parte di sindacati diversi, astensioni simultanee o eccessivamente ravvicinate
nel tempo nello stesso settore].

10) c. le prestazioni indispensabili e il ruolo della Commissione di garanzia


Altro aspetto dello sciopero nei servizi pubblici è rappresentato dal fatto che, bisogna contemperare il
diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati e perciò i lavoratori,
unitamente a coloro che hanno proclamato lo sciopero e alle aziende che erogano il servizio pubblico,
devono comunque garantire durante l'astensione la fornitura delle prestazioni indispensabili.
Spetta ai contratti collettivi e ai codici di autoregolamentazione il compito di specificare le prestazioni
indispensabili (tenendo conto della natura del servizio e delle esigenze della sicurezza e dell'integrità degli
impianti), le modalità e le procedure di erogazione e ogni misura diretta a salvaguardare ì diritti
costituzionalmente tutelati. Quanto all'efficacia soggettiva di tali contratti, le previsioni relative alle
prestazioni minime, per poter assolvere la loro funzione garantista, devono necessariamente avere

64

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

efficacia generale ovvero essere vincolanti anche per i lavoratori non scritti ai sindacati stipulanti. Ciò vale
anche per le imprese private che erogano servizi pubblici.
Gli accordi o contratti collettivi e i codici di autoregolamentazione che specificano le prestazioni
indispensabili che vanno assicurate durante lo sciopero nei sevizi (pubblici) essenziali, devono essere
sottoposti alla valutazione di idoneità della Commissione di garanzia, (autorità amministrativa composta da
5 esperti in diritto costituzionale, diritto del lavoro e relazioni industriali, designati dai presidenti della
Camera e del Senato e nominati dal Presidente della Repubblica). Se essa non reputa l'accordo idoneo a
garantire l'effettivo bilanciamento tra il diritto di sciopero e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti,
con provvedimento motivato sottopone alle parti una “proposta” sulle prestazioni da considerarsi
indispensabili. Se le parti non l'accettano o non si pronunciano nei successivi 15 giorni, la Commissione
formula una "regolamentazione provvisoria" delle prestazioni indispensabili, vincolante per le parti fino
all'approvazione dell'accordo o del codice di autoregolamentazione ritenuto idoneo.
[N.B. La Commissione svolge anche compiti consultivi e di mediazione e può, infatti, dare il proprio giudizio sull'interpretazione o
applicazione degli accordi o dei codici di autoregolamentazione. Altresì può pronunciarsi sull'interpretazione di fonti sulle
prestazioni indispensabili. Infine, la Commissione si occupa della prevenzione degli scioperi illegittimi, nel caso in cui ravvisi profili
di criticità nella proclamazione dello sciopero, e dà immediata comunicazione ai soggetti interessi, invitandoli a riformularla].

11) d. le sanzioni e la precettazione


L'effettività della disciplina ora descritta è assicurata attraverso il potere sanzionatorio affidato alla
Commissione di garanzia. Il procedimento può aprirsi, oltre che su iniziativa della Commissione, anche su
richiesta delle parti interessate, delle associazioni rappresentative degli utenti, delle autorità nazionali o
locali che vi abbiano interesse.
La Commissione delibera le sanzioni nel caso in cui rilevi inadempienze o violazioni degli obblighi di legge o
degli accordi collettivi sulle prestazioni indispensabili, ma anche se riscontra violazioni delle procedure di
raffreddamento e conciliazione o violazioni dei codici di autoregolamentazione.
La legge 83/2000 ha accordato un ruolo importante alle associazioni rappresentative degli utenti che, oltre
ad avere il potere di iniziativa, devono essere sentite dalla Commissione di garanzia prima della valutazione
di idoneità delle prestazioni minime e sono legittimate ad agire in giudizio contro i sindacati che revocano
uno sciopero dopo averlo proclamato o che disattendono l'invito della Commissione a differirlo.
Sono previsti 3 tipi di sanzioni:
 Contro le organizzazioni dei lavoratori che proclamano uno sciopero in violazione delle disposizioni su
preavviso, comunicazione scritta, prestazioni minime ed esperimento delle procedure di raffreddamento
e conciliazione, possono incorrere nella sanzione della sospensione dei permessi sindacali, retribuiti e
della mancata percezione dei contributi associativi trattenuti sulla retribuzione; nonché nella sanzione
dell'esclusione dalle trattative alle quali l'organizzazione partecipa, per un periodo di 2 mesi.
 Contro dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche e i legali rappresentanti delle aziende,
che se non garantiscono le prestazioni indispensabili, non prestano correttamente l'informazione agli
utenti o non adempiono gli obblighi comunque derivanti dagli accordi collettivi o dalla regolamentazione
provvisoria della Commissione, sono soggetti a una sanzione amministrativa pecuniaria.
 Contro i lavoratori che si astengono dal lavoro in violazione degli obblighi legali o che non effettuano le
prestazioni minime richieste, sotto soggetti a sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità
dell'infrazione, con esclusione delle misure estintive del rapporto (es. licenziamento).
[N.B. Tali sanzioni non possono effettivamente essere considerate disciplinati visto che, sono irrogate per reprimere la violazione di norme
a tutela di interessi di carattere generale, e non dell’interesse del datore].

La realizzazione dello scopo di contemperare l'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti
della persona costituzionalmente tutelati, è affidata allo strumento (di natura amministrativa) della
precettazione. Si tratta di un provvedimento amministrativo, adottato dal Prefetto se lo sciopero ha
carattere locale, ovvero dal Presidente del Consiglio o da un ministro da lui delegato in caso di conflitto di
rilevanza nazionale interregionale. Un presupposto per l'utilizzo di tale strumento è rappresentato dal

65

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati,
che potrebbe derivare dall’interruzione o dall'alterazione del funzionamento dei servizi pubblici essenziali
in conseguenza della proclamazione dello sciopero. Deve, dunque, trattarsi di un pericolo probabile di un
pregiudizio di non lieve entità, nonché di prossima verificazione, per uno dei diritti tutelati.
[Una volta avviato il procedimento, l'autorità competente deve invitare le parti a desistere dai comportamenti che
determinano la situazione di pericolo. Viene, quindi, esperito un tentativo di conciliazione e solo se questo ha esito
negativo possono essere adottate con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona
costituzionalmente tutelati. In particolare, il provvedimento di precettazione può disporre il differimento dello
sciopero ad altra data, ridurne la durata o prescrivere misure idonee ad assicurare livelli di funzionamento del servizio
compatibili con la salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. L'inosservanza del provvedimento
di precettazione comporta l'applicazione dì sanzioni pecuniarie.]

66

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[SEZIONE 3] CAP 9 - Doveri del lavoratore e poteri datoriali

1) Principi e tecniche del contemperamento: poteri, obblighi e diritti


Abbiamo visto i caratteri essenziali della subordinazione, la cui essenza sta nell’assoggettamento ai poteri
del datore di lavoro e nella previsione di specifici obblighi in capo al lavoratore. Sul piano normativo, tali
elementi si traducono nel vincolo di collaborazione e di cooperazione che reciprocamente lega il datore e il
lavoratore.
Analizziamo, quindi, il contratto di lavoro come fonte di diritti, obblighi e poteri a cui si ritengono applicabili
gli artt.1175 e 1375 del c.c. che impongono al debitore e creditore un comportamento improntato sulla
“correttezza ed esecuzione del contratto secondo buona fede”.
Il diritto del lavoro, in realtà, rispetto al diritto privato, mostra la sua autonomia mediante una codificazione
più specifica, soprattutto in riferimento al contenimento e limitazione dell’esercizio dei poteri datoriali
(mediante la
c.d. “procedimentalizzazione dei poteri del datore di lavoro”, il cui esercizio dei poteri è sottoposto a
regole, condizioni e oneri e criteri, rinvenibili soprattutto nello Statuto dei lavoratori).

2) La specificazione dell’obbligazione di lavoro: diligenza, obbedienza e potere direttivo


Iniziamo ad analizzare gli obblighi a carico del lavoratore, a partire da quello della diligenza
(ex art 2104 c.c.), in base al quale “il lavoratore, nell’adempiere la propria prestazione, è tenuto ad usare la
diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e dall’interesse della
produzione nazionale”. Quindi, non è sufficiente la generica diligenza del padre di buona famiglia ex
art.1176 c.c. ma vi è l’imposizione di un comportamento molto più specifico e definito. Da questa
disposizione si evincono ben 3 parametri qualitativi e quantitativi:
- natura della prestazione  da cui si deduce l’oggetto del contratto di lavoro, è un parametro tecnico-
professionale legato alle abilità e alla preparazione richieste per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Tale indice si caratterizza per una certa oggettività che si ricava dal complesso delle regole teorico-
pratiche entro cui l’esperienza, la scienza e gli usi riconducono il compimento materiale dell’attività
(molto vicino al concetto di diligenza professionale ex art.1176 co.2).
- interesse dell’impresa  cioè il raccordo della prestazione con la specifica organizzazione imprenditoriale
nella quale la prestazione deve svolgersi.
- interesse della produzione nazionale  legato all’ideologia fascista corporativo, adesso privo di rilievo.
Il comma 2 del 2104 c.c. impone anche l’obbligo di obbedienza, cioè di osservare le disposizioni per
l’esecuzione e per la disciplina del lavoro che il datore di lavoro impartisce al lavoratore anche attraverso i
suoi collaboratori gerarchicamente in posizione di supremazia rispetto al lavoratore stesso. Questa
disposizione è bene leggerla in combinazione con l’art.2094 (che ricordiamo, definisce il concetto generale
di lavoratore subordinato), in quanto ci dice chiaramente che la prestazione si svolge sotto la direzione
dell’imprenditore. Da ciò quindi si evince la centralità del potere direttivo del datore di lavoro, cioè di
dirigere la prestazione lavorativa.
[N.B. l’obbligo di obbedienza non è assoluto, nel momento nel quale il lavoratore può rifiutarsi di
adempiere se vi siano ordini illeciti oppure per un’autotutela conservativa (cioè quando l’osservanza della
disposizione datoriale dovesse pregiudicare alcuni diritti fondamentali del lavoratore, come il diritto di
salute, ad esempio)].

3) L’obbligo di fedeltà
Parliamo adesso dell’obbligo di fedeltà (ex art 2105 c.c.) che impone un divieto di fare, a garanzia di
specifici valori aziendali, come la capacità competitiva. In base a tale disposizione, il lavoratore non deve
trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti
all’organizzazione e ai metodi di produzione, o farne uso per arrecare pregiudizio all’impresa.

67

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Abbiamo quindi due diversi divieti, previsti dalla norma:


- divieto di concorrenza  vieta qualsiasi condotta del lavoratore potenzialmente pregiudizievole per
l’imprenditore e che si traduca in un vantaggio competitivo a favore di un’altra impresa.
Tale divieto mira a proteggere il datore dalla “concorrenza differenziale”, cioè quella favorita dalla
ricorrenza dello specifico rapporto di lavoro. Allo stesso tempo, però, non è preclusa la possibilità per il
prestatore di svolgere un’altra attività lavorativa (anche nello stesso settore) purché non rechi pregiudizio
al datore di lavoro;
- divieto di divulgazione delle notizie relative all’impresa  inibisce la diffusione di tutte le informazioni
aziendali che possano pregiudicare l’impresa in qualsiasi modo, a prescindere dal realizzarsi il danno, ad
eccezione delle informazioni entrate nel patrimonio del lavoratore. Tale eccezione non sussiste quando le
informazioni riguardino segreti aziendali.
Bisogna distinguere le informazioni apprese da qualsiasi lavoratore, al di là dalle mansioni, da quelle in cui
vi sia un vero e proprio obbligo di segreto professionale/industriale di cui le informazioni sono conosciute
proprio in ragione delle mansioni svolte o dal ruolo ricoperto in azienda: nel primo caso abbiamo
conseguenze di tipo civilistico, nel secondo abbiamo una responsabilità penale ex artt. 622 e 623 c.p.
Infine, va detto che l’obbligo di fedeltà vincola il lavoratore per tutta la durata del rapporto, mentre al
momento della cessazione si ritiene che l’obbligo non debba essere più rispettato, ad eccezione del “patto
di non concorrenza”, che comunque non può essere prorogato per oltre 3 anni (o 5 per i dirigenti) dalla
cessazione. Invece, per quanto riguarda le informazioni del segreto professionale si ritiene che il divieto
continui anche dopo la cessazione del rapporto.

4) Il potere di controllo: ambiti e limiti


Nella gestione dei rapporti di lavoro, il datore necessita di vigilare e controllare l’andamento
dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Infatti l’ordinamento riconosce al datore di lavoro uno speciale
potere di controllo, con un’intensità da modulare al fine di limitare i tratti invasivi nella sfera personale
del lavoratore (valori come la riservatezza, dignità e diritti fondamentali rischiano di essere pregiudicati
durante l’esercizio di tale potere, e perciò vengono previste una serie di tutele e garanzie nella prima parte
dello Statuto dei lavoratori).
Uno dei divieti in questo ambito riguarda le possibili forme di controllo occulto, infatti la prima forma di
garanzia per i lavoratori attiene alla loro conoscibilità delle fonti del controllo stesso.
L’art.3 dello Statuto riguarda il personale di vigilanza, adibito appositamente per tale funzione, il cui
nominativo e le cui mansioni devono essere comunicate ai dipendenti interessati. L’art.4 non consente di
controllare in maniera occulta l’attività lavorativa del dipendente attraverso dispositivi funzionanti a
distanza.
Possibili controlli a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere consentite solo per esigenze
organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la salvaguardia del patrimonio aziendale. Infatti
è disposto dall’art.4 che tali impianti/strumenti possano essere installati previo accordo collettivo stipulato
dalla rappresentanza sindacale.
Le informazioni raccolte sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data
al lavoratore l’adeguata informazione delle modalità d’uso, nel rispetto della normativa sulla privacy.
Altre modalità di controllo possono riguardare gli accertamenti dello stato di salute del lavoratore, cioè i
c.d. accertamenti sanitari, che possono riguardare varie fasi del rapporto lavorativo, dai controlli
preliminari all’assunzione per verificare l’idoneità fisica, a quelli per accertare lo stato di malattia o per la
permanenza dell’idoneità psico-fisica.
L’art.5 dispone che è vietato al datore di lavoro compiere accertamenti sull’idoneità e sull’infermità per
malattia o infortunio del dipendente, essendo possibile fare ciò solo attraverso servizi ispettivi degli Istituti
previdenziali. Si mira, infatti, ad evitare che i controlli siano effettuati da un “medico di parte (di fiducia)”,
affidandoli ad istituti pubblici, assicurando l’equo bilanciamento tra diritto della salute riconosciuto al

68

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

lavoratore, e diritto all’adempimento dell’obbligazione, per le ragioni del datore di lavoro e garantendo
l’imparzialità dell’accertamento.
Inoltre, nelle fasce orarie di reperibilità il lavoratore ha l’onere di restare presso il proprio domicilio per la
visita medica, che necessita del consenso del lavoratore, il cui diniego produce conseguenze disciplinari.
L’irreperibilità ingiustificata è causa di perdita o riduzione del trattamento economico previsto in caso di
malattia.
Per quanto riguarda le guardie giurate, impiegate per scopi di controllo e salvaguardia del patrimonio
aziendale, esse non possono contestare ragioni o fatti inerenti all’attività lavorativa diversi da vicende che
riguardano la lesione dei beni aziendali, e perciò non possono accedere nei locali dove si svolge l’attività
lavorativa durante il suo svolgimento.
Per la medesima esigenza di salvaguardia dei beni aziendali, si potrebbe ricorrere a visite personali di
controllo (cioè le “ispezioni personali”) vietate in via generale dall’art.6, ma eccezionalmente ammesse
solo in caso in cui esse siano indispensabili. Perciò è prevista una rigida disciplina: devono essere eseguite
all’uscita dei luoghi di lavoro, tutelando la dignità e la riservatezza del lavoratore, e i lavoratori da
sottoporre a controllo devono essere selezionati in maniera imparziale (con sistemi di selezione
automatica), restando comunque inammissibili quelle ispezioni che possano ledere l’intimità dei lavoratori,
altrimenti il datore di lavoro incorre in una sanzione penale.
Inoltre, le modalità di svolgimento di tali visite personali devono essere concordate tra datore di lavoro e
RSA.

5) Privacy e rapporto di lavoro


Arriviamo al tema della tutela della privacy, abbastanza centrale nei tempi moderni, richiamata dall’art.4
co.3 che rinvia alla disciplina sulla riservatezza al fine di regolare l’utilizzo delle informazioni raccolte.
Perciò, il legislatore interviene sempre di più per arginare condotte del datore di lavoro invadenti nella
sfera personale del lavoratore.
L’art. 8 consente al datore di lavoro esclusivamente la conoscenza di quelle informazioni personali del
lavoratore inerenti alla valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore. Inoltre sancisce un duplice
divieto:
- assoluto  relativamente alle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore;
- relativo  per fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore
stesso.
[N.B. Ovviamente tale disposizione va letta in combinazione con l’art.1 che sancisce il diritto dei lavoratori
di manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi di lavoro, così come con l’art.15 che vieta atti
discriminatori].
Inoltre, il d.lgs 196/2003 interviene con un ulteriore tutela per il lavoratore, che si aggiunge a quella dettata
dalla normativa in materia di lavoro, disciplinando però un diverso aspetto (sempre legato alla protezione
dei dati del lavoratore), maggiormente incentrato sulla modalità di raccolta e di trattamento dei dati.
Grande attenzione va rivolta alla tutela dei “dati sensibili”, cioè quei dati idonei a rivelare l’origine razziale,
la fede religiosa, opinioni politiche, stato di salute, orientamento sessuale, ecc. e dei “dati giudiziali” che
possono costituire fonte di discriminazione, che vengono protetti da una serie di limitazioni e divieti al
potere datoriale di conoscerli e utilizzarli, circoscrivendo l’ambito di operatività della disciplina generale sul
trattamento di questi dati.
Ultimo cenno va fatto alla tutela dei “whisteblowers”, cioè quei lavoratori che segnalino reati o irregolarità
di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro (sia pubblico che privato). Ad essi è
garantito l’anonimato e una speciale protezione contro i rischi di ritorsione e discriminazione derivanti dalle
loro segnalazioni.

69

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

6) Il potere e la responsabilità disciplinare


Nel caso di violazione degli artt.2104 e 2105 c.c. al datore di lavoro è attribuito un altro potere, quello
disciplinare, a norma dell’art.2106 c.c. che prescrive regole molto precise, prevedendo principi sostanziali
mirati a scongiurare gli eccessi di discrezionalità datoriale. Prima di tutto viene sancito il principio di
proporzionalità, secondo il quale la misura delle sanzioni disciplinari dev’essere proporzionata alla gravità
dell’infrazione. Pertanto la norma non fa riferimento alcuno all’entità del danno provocato dall’illecito
disciplinare, che potrebbe mancare del tutto, ma in ogni caso il datore di lavoro potrà attivare tutte le
azioni previste a risarcimento del danno patito a causa dell’inadempimento del lavoratore.
Ritornando nell’ambito del potere disciplinare, abbiamo un riconoscimento formale all’art.7 dello Statuto
lavoratori, che interviene per implementare le condizioni sostanziali e procedurali del legittimo esercizio
del potere disciplinare.
Al co.1 si prevede che tutte le norme disciplinari relative a sanzioni, infrazioni e procedura di contestazione
debbano essere contenute in un apposito codice e portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione
in luogo accessibile a tutti, in modo da garantire l’unica forma possibile di pubblicità e quindi di
conoscibilità di esse.
Al co.4 è disposto che non possono essere previste sanzioni disciplinari che comportano mutamenti
definitivi del rapporto, ad eccezione per il licenziamento. Le sanzioni previste sono: rimprovero verbale,
ammonizione scritta, multa (che non può essere superiore a 4 ore di lavoro retribuito) e sospensione (che
non può durare più di 10 giorni).
Ovviamente, le norme sulle infrazioni devono avere un contenuto sufficientemente determinato per
comprendere quali siano le violazioni non consentite.
Il procedimento disciplinare si deve aprire con la contestazione del fatto, tempestive e completa di tutti gli
elementi idonei al fine di consentire al lavoratore di esercitare le sue difese. L’applicazione della sanzione
disciplinare può avvenire solo se il lavoratore sia stato convocato per essere ascoltato o per giustificarsi, e
nel caso in cui decida di difendersi, seguendo tale modalità, potrà anche essere assistito da un
rappresentante sindacale dell’associazione.
Decorsi i 5 giorni previsti, il datore di lavoro, se lo riterrà opportuno, procederà all’irrogazione della
sanzione.
Tale provvedimento disciplinare può essere impugnato stragiudizialmente entro 20 gg, innanzi ad un
collegio di conciliazione e arbitrato da costituire “ad hoc”. In questo caso, l’efficacia della sanzione è
sospesa fino al momento della decisione del collegio.
In alternative alla procedura stragiudiziale è possibile ricorrere dinanzi all’autorità giudiziale (di cui l’azione
si prescrive nel termine di 5 anni), che preclude l’altra procedura conciliativa e arbitrale.

Per quanto riguarda il pubblico impiego, la disciplina è molto più analitica e dettagliata. Per quanto
riguarda la competenza: per le infrazioni meno gravi (es. rimprovero verbale) provvede il responsabile della
struttura; per le infrazioni più gravi provvede un apposito ufficio competente per i procedimenti
disciplinari.
Il responsabile della struttura segnala entro 10 giorni all’ufficio competente i fatti ritenuti rilevanti; l’ufficio
competente provvede alla contestazione scritta dell’addebito e convoca l’interessato (con preavviso di
almeno 20 gg), per l’audizione in contraddittorio in sua difesa, che in caso di grave impedimento, può
chiedere di differire l’audizione a sua difesa.
Alla fine, l’ufficio chiuderà il procedimento con l’atto di archiviazione o con l’irrogazione della sanzione.
In caso di trasferimento del lavoratore, il procedimento è concluso dalla nuova amministrazione, e può
proseguire anche in caso di dimissioni.
A differenza di quanto visto prima, per tali procedimenti non è ammessa la procedura arbitrale: l’unico
modo per impugnare questi provvedimenti è il rimedio giurisdizionale.

70

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 10 - Professionalità del lavoratore e dinamiche organizzative e jus variandi

1) Oggetto del contratto, poteri datoriali e diritti del lavoratore


L’oggetto del contratto dev’essere lecito, possibile, determinato o determinabile (artt.1346, 1349 c.c.),
senza di che il contratto è nullo, salvo che la nullità non riguardi singole clausole sostituite di diritto da
norme imperative.
Nel caso del contratto di lavoro subordinato, abbiamo due importanti precisazioni da fare:
- l’oggetto non è facilmente definibile all’atto di stipulazione del contratto, perché da un lato abbiamo la
persona del lavoratore, con l’imprevedibilità nell’intreccio tra essere umano e prestazione professionale, e
dall’altro lato abbiamo la finalità di consentire il funzionamento di un’organizzazione come quella
dell’impresa, perciò nel contratto di lavoro va prestata attenzione alla predeterminazione dei criteri per
individuare l’oggetto;
- raramente, nel contratto di lavoro, si fa ricorso alla nullità assoluta, essendo più frequente la necessità di
sostituire le clausole nulle, in quanto lesive degli interessi e diritti del lavoratore.

2) La prestazione professionale: statica e dinamica


Il contenuto del contratto di lavoro si definisce innanzitutto con riguardo alla prestazione, oggetto
dell’obbligazione del lavoratore, la quale non è generica, ma viene individuata attraverso la categoria e la
qualifica assegnati al lavoratore in relazione alle mansioni per cui è assunto. Infatti sono le mansioni ad
individuare i compiti specifici del lavoratore, in relazione al ruolo nell’organizzazione, e quindi sono definite
in ciascun contratto collettivo.
La definizione di tali mansioni comporta poi che al lavoratore vada assegnata la “qualifica oggettiva” (che
riguarda i compiti effettivamente svolti in una determinata organizzazione, e quindi le mansioni da
svolgere) da distinguersi con la “qualifica soggettiva” (che è definita in relazione alla qualificazione
personale del lavoratore).
L’insieme delle qualifiche dà vita al sistema di inquadramento dei lavoratori, che è appunta una
graduazione delle qualifiche. In Italia, i contratti collettivi nazionali definiscono i sistemi di inquadramento,
mentre la legge 148/2011 prevede che le mansioni del lavoratore, così come inquadramento e
classificazione del personale, possano essere oggetti di contratti collettivi di prossimità.
Ad ogni modo, le qualifiche devono essere ricondotte alle “categorie legali” dei prestatori di lavoro, che
sono: dirigenti, quadri, impiegati e operai (art.2095 c.c.).
Le mansioni quindi determinano il contenuto del contratto di lavoro al momento della stipulazione (profilo
statico), mentre il resto della disciplina professionale assolve inoltre ad altre funzioni (es. la retribuzione per
i compiti assegnati, collocare il lavoratore nell’organizzazione aziendale, definire i parametri per misurare la
diligenza del lavoratore, ecc. che assolvono invece ad un profilo dinamico della prestazione professionale.

3) Le categorie legali
Tornando all’art.2095, esso distingue i lavoratori in 4 categorie legali, che riflette un’organizzazione
aziendale basata su gerarchie sociali nelle quali gli operai andavano tenuti separati dagli altri dipendenti. A
ben vedere, si afferma che l’impiegato è colui che svolge attività professionale al servizio dell’azienda, con
funzioni di collaborazione.
Tutte le altre definizioni sono rimesse alla contrattazione collettiva. Per i dirigenti è determinante la
definizione di origine giurisprudenziale che lo considera un “alter ego dell’imprenditore”, cioè colui che è
preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, investito di poteri che gli consentano di
orientare il governo complessivo dell’azienda o di una sua parte, pur nell’osservanza di quanto deciso
dall’imprenditore.

71

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Va specificato che fino ai primi anni ’70 anche il sistema di inquadramento in qualifiche era distinto tra impiegati e
operai, mentre con i contratti collettivi del ’73 e ’74 è stato utilizzato il c.d. “inquadramento unico”, per cui oggi la
scala classificatoria è unica e alcuni livelli di inquadramento raggruppano qualifiche impiegatizie e operaie.
A questo tipo di classificazione reagirono i quadri, contrari a questo tipo di appiattimento, e da qui nacque
un loro movimento che sfociò nel riconoscimento legale della nuova categoria di quadri intermedi, e
mediante la l.190/85, si impose alle imprese di riconoscere le specifiche qualifiche di quadro. Si tratta però
di una definizione generica, mentre l’individuazione dei requisiti di appartenenza e delle effettive
differenziazioni nei trattamenti economico-normativi viene rimessa alla contrattazione nazionale o
aziendale. Si ribadisce, in particolare, che i quadri non sono dirigenti, con la conseguente impossibilità di
confederi ad essi le stesse funzioni direttive di cui è investito il dirigente. Il tratto che più caratterizza le
mansioni del quadro sarebbero le elevate responsabilità riguardanti la direzione, coordinamento e
controllo di altri lavoratori, fermo restando che comunque tali compiti non possono condizionare la vita
dell’impresa o di un suo ramo, che resta prerogativa del dirigente.

4) Il diritto alla formazione e all’aggiornamento professionale del lavoratore


Si pongono una serie di problematiche e quesiti connessi ad una precisa delimitazione del contenuto
negoziale, e più precisamente, ci si chiede se dal contratto collettivo derivi un diritto del lavoratore alla
formazione e aggiornamento professionale. Tale questione ha avuto sempre più rilevanza e perciò è
divenuto consistente un indirizzo dottrinale secondo cui ogni lavoratore avrebbe diritto a prendere dal proprio
datore di lavoro azioni concrete volte a consentirgli il continuo aggiornamento professionale, anche se a tale
orientamento sono state poste una serie di questioni, come ad esempio in cosa consisterebbe tale aggiornamento
professionale, oppure perché il datore di lavoro dovrebbe pagare a spese sue tale aggiornamento, ecc.
La soluzione a tutti questi quesiti trova risposta mediante il diritto dell’Unione europea: più precisamente,
l’art.14 della Carta dei diritti fondamentali Ue riconosce ad ogni persona il diritto all’istruzione e all’accesso
alla formazione professionale e continua, dalla quale norma non scaturisce però una precisa configurazione del
diritto in questione, soprattutto negli specifici ordinamenti nazionali, dato che tali politiche del lavoro in tema di
formazionale professionale divergono molto da paese a paese, con diverse strutture e diversi istituti giuridici.
[N.B. Nell’ambito dell’Unione europea importanza crescente assume la formazione professionale e continua nelle
politiche del lavoro, in cui si concretizza la “Strategia europea per l’occupazione” a partire dagli anni ’90, ma anche
della c.d. “flexicurity”. Da ultimo, il principio del “Social Pillar” 2017 che prevede che “ogni persona ha diritto ad
un’assistenza tempestiva e su misura per migliorare le prospettive di occupazione o di attività autonoma. Ciò include
anche il diritto a ricevere un sostegno per la ricerca di un impiego, la formazione e la qualificazione].
In Italia, sono rinvenibili norme che sostengono diritti di ciascun lavoratore alla formazione e
all’aggiornamento professionale (art.10 Statuto lavoratori), laddove si ritrovano strumenti interessanti
come i piani formativi aziendali o territoriali concordati tra le parti sociali e finanziabili attraverso specifici
fondi diretti a garantire ai lavoratori percorsi di formazione. Tuttavia, gran parte di questo diritto è ancora
rimesso alle istituzioni pubbliche e alla contrattazione collettiva.
In conclusione, si può dire che, nonostante il diritto del lavoro italiano tuteli sempre di più tale diritto alla
formazione e aggiornamento professionale, sembra difficile sostenere che da ogni contratto di lavoro
scaturisca un diritto sempre e comunque azionabile nei confronti del datore di lavoro.
Può invece sostenersi che, in via generale, rientri un obbligo in capo al datore di tutelare il patrimonio
professionale del lavoratore come parte della sua integrità psico-fisica (art.2087), e di conseguenza, in caso
di danni comportati al lavoratore per comportamenti datoriali insensibili a tale esigenza, abbiamo una
tutela di tipo risarcitorio, diretta a rivalere il lavoratore dei danni a lui arrecati da comportamenti datoriali
del tutto insensibili all’esigenza di mantenere la professionalità del lavoratore.
[N.B. Molto interessante dell’art.2103 c.c. (modificato nel 2015) secondo cui “il mutamento di mansioni è
accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo”. Anche se non è chiaro se l’obbligo è a carico
del datore o del lavoratore, pare preferibile ritenere che la norma ponga l’obbligo in capo al primo, perché il secondo
sarebbe comunque tenuto a rispettare eventuali direttive impartite dal datore di lavoro. In ogni caso, nel nuovo
art.2013 non si rinviene un chiaro ed efficace apparato sanzionatorio in caso di violazione dell’obbligo datoriale].

72

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

5) Lo jus variandi previsto e regolato dalla legge


La maggiore rilevanza giuridica dell'esigenza di una professionalità dinamica si rinviene anche più
globalmente nell'art.2103 c.c. laddove la norma afferma che il prestatore di lavoro non può restare
"inchiodato" alle mansioni di assunzione (e alle correlate qualifica e categoria). Il datore di lavoro, in base
all'art.2103 c.c., novellato dall'art.81/2015, ha il potere di variare le mansioni iniziali (c.d. jus variandi),
adibendo lavoratore a:
a) mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte (c.d. mobilità orizzontale) o a mansioni corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia
successivamente acquisito (co.1)
b) mansioni appartenenti ad un solo livello di inquadramento inferiore, purché nell'ambito della
medesima categoria legale, solo “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla
posizione del lavoratore” (co.2) e purché comunicate per iscritto (co.5) (c.d. mobilità verticale discendente);
c) mansioni superiori a quelle in cui è inquadrato (co.7) (c.d. mobilità verticale ascendente).
Mentre però, l'assegnazione a mansioni superiori incontrare limiti non codificati ex art.2103 (ad esempio, la
mancanza di competenze adatte alle mansioni di destinazione che espone il lavoratore al rischio di non corretto
adempimento), negli altri casi "livello di inquadramento" e "categoria" sono le nozioni legali che delimitano
la massima estensione della prestazione professionale.
Oltre al rilievo attribuito alla categoria legale, occorrerà quindi verificare sempre quali mansioni sono
ricomprese in ciascun livello di inquadramento, previsto in genere dai contratti collettivi.
Così vengono ora contemperate due opposte esigenze:
- quella datoriale di poter disporre di una "flessibilità interna" delle competenze del lavoratore, che non può
pretendere di conservare indefinitamente le proprie mansioni;
- quella del lavoratore di non vedersi spostato e, in particolare, assegnato a mansioni meno pregiate sotto il
profilo professionale (“declassamento”) senza che vi sia un nesso tra le posizioni diverse ricoperte.
Questa è una forma di tutela dinamica della professionalità.
[Approfondimento vecchia edizione 2018 (non presente nella 2020): In tal modo si garantisce il contemperamento
dell’esigenza datoriale di disporre di una “flessibilità interna” delle competenze del lavoratore, e dell’esigenza del lavoratore
di non vedersi spostato senza vi sia alcun nesso tra le posizioni ricoperte. Tuttavia, non è sempre facile individuare in
maniera precisa quando le mansioni siano “interscambiabili”, e perciò vi sono state tante discussioni ed evoluzioni
giurisprudenziali per definire il limite allo jus variandi. Si è passati dalla nozione tradizionale di “equivalenza” (cioè che si
consentiva di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte)  alla prospettiva dinamica di
valorizzazione delle capacità del singolo e di arricchimento dell’insieme di conoscenze ed esperienze, verificando la
sussistenza di caratteristiche professionali comuni ed accertare che i nuovi compiti potessero garantire lo svolgimento e
accrescimento delle capacità del lavoratore.
Da ricordare è la presenza di “clausole di fungibilità”, secondo le quali si considerano interscambiabili ruoli in cui si svolgono
solo temporaneamente mansioni non “equiordinate” nella scala classificatoria, per sopperire a esigenze aziendali. Però
bisogna tener conto che l’art.2103 costringe a mantenersi più rigidamente all’interno dei sistemi di inquadramento, e stesso
questa disposizione contiene una sanzione esplicita e drastica di nullità dei patti contrari, anche in caso, per esempio, di
declassamenti pattuiti con il lavoratore al fine di evitare il licenziamento].
Va inoltre notato che il mutamento di mansioni può comportare variazioni nei trattamenti retributivi:
infatti l’art.2103 co.5 prevede che in caso di declassamento il lavoratore abbia diritto alla conservazione
del livello di inquadramento e del trattamento retributivo (ad eccezione degli elementi retributivi collegati
a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa).
Infine, l’imprenditore incontra il limite temporale massimo entro cui può adibire il lavoratore a mansioni
superiori, fissato nel periodo di 6 mesi continuativi. Decorso questo periodo, il lavoratore acquisisce il
diritto alla qualifica corrispondente alle mansioni superiori alle quali è stato assegnato (si tratta dell’unico
caso in cui viene prevista un diritto alla promozione, ad opera della legge). Inoltre l’effettivo svolgimento
delle mansioni superiori conferisce al dipendente il diritto alla corresponsione delle differenze retributive
corrispondenti alle mansioni effettivamente svolte, in accordo col principio costituzionale dell’art.36.

73

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

6) Art. 2103 e modifiche pattizie allo jus variandi e all'inquadramento del lavoratore
L'art.2103 contiene una sanzione esplicita di nullità dei patti contrari, in passato talvolta rigidamente
applicata dalla giurisprudenza anche in caso di declassamento pattuito con il lavoratore allo scopo di
evitare il licenziamento.
Già prima del 2015 in molti casi la legge aveva consentito più ampiamente il declassamento, anche a
seguito di pattuizioni collettive: per le lavoratrici madri, durante la gestione e fino a 7 mesi dopo il parto;
qualora per infortunio o malattia il lavoratore non fosse più in grado di svolgere le proprie mansioni; in
presenza di accordi sindacali diretti a ridurre gli esuberi di personale.
[N.B. Anche la giurisprudenza tendeva a interpretare la norma codicistica “alla stregua della regola del bilanciamento
del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del
lavoratore al mantenimento del posto”]
L'art.2103 c.c. novellato nel 2015 razionalizza queste ipotesi, andando anche oltre e sottraendo alla nullità
alcune modifiche pattizie all'inquadramento dei lavoratori. Patti derogatori ai limiti legali, collettivi o
individuali, sono ammessi in due casi:
a) se il declassamento, cioè l'adibizione a mansioni appartenenti a livello di inquadramento inferiore ma pur
sempre compreso nella medesima categoria legale, venga previsto da contratti collettivi, anche in assenza
di qualsiasi modifica organizzativa.
[N.B. Questa non è una modifica pattizia diretta dell'inquadramento del lavoratore, ma un ampliamento del potere
datoriale di declassamento delegato alla disciplina dei contratti collettivi. Anche in questo caso il concreto esercizio
dello jus variandi ad opera del datore di lavoro deve essere comunicato per iscritto "a pena di nullità" (co.5);
b) se le modifiche avvengono con accordi individuali aventi ad oggetto mansioni, categoria legale, livelli di
inquadramento, retribuzione, alla duplice condizione che:
- siano stipulati nelle sedi di conciliazione di cui all'art.2113 co.4 o davanti alle Commissioni di certificazione
- siano stipulati nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una
diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
(In questo caso sembrano consentite modifiche anche oltre i limiti previsti nell'esercizio dello jus variandi)

7) La tutela della professionalità nel lavoro pubblico


Regole simili sono previste per il lavoro pubblico, con un maggiore ruolo svolto dalla legge soprattutto circa
l'individuazione dei ruoli dirigenziali nelle varie amministrazioni. Dagli anni 90 comunque anche nel lavoro
pubblico, il sistema di inquadramento è in buona parte affidato alla contrattazione collettiva: in merito il
d.lgs. 150/2009 ha fissato una serie di vincoli al fine di introdurre criteri di selezione meritocratici, specie
nelle promozioni (per la giurisprudenza costituzionale le regole in materia di progressione di carriera sono
equiparate a quelle in tema di assunzione e, dunque, assoggettate alla regola del concorso ex art. 97, co.3
Cost.). Quanto allo jus variandi, sono previste regole simili a quelle vigenti per il settore privato ma con
delle varianti.
- In primo luogo, si continua a prevedere che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a quelle equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento. Si mantiene, dunque, il
concetto di “equivalenza” (ormai abolito nel settore privato) la cui valutazione però vene affidata ai
contratti collettivi e non è sindacabile dal giudice.
- In secondo luogo, l'assegnazione a mansioni superiori può avvenire solo in 2 casi (regola questa
derogabile dai contratti collettivi):
 per sostituire un altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro;
 per coprire un vuoto organico, ma al massimo per 12 mesi e in tale caso, all'assegnazione a mansioni
superiori deve immediatamente seguire l'avvio delle procedure per coprire definitivamente il posto in
organico.
[N.B. Inoltre, i contratti collettivi prevedono vari tipo di progressione, distinguendolo quella orizzontale, che comporta
solo incrementi economici, e quella verticale, che invece consente al lavoratore di conseguire anche un livello di
inquadramento superiore. Ovviamente, per le seconde occorre bandire dei veri e propri concorsi].

74

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 11 - La sicurezza nei luoghi di lavoro

1) La tutela dell’integrità psico-fisica nei luoghi di lavoro: lo sviluppo normativo. Dall’art.


2087 c.c. sino al d.lgs. 81/2008
La sicurezza dei dipendenti è stata una delle principali preoccupazioni del legislatore in materia di lavoro.
Con l'art. 2087 c.c. viene codificato l'obbligo del datore di garantire la sicurezza dei suoi dipendenti
(tale articolo così recita: “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che,
secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”).
Quanto alla Costituzione, questa riconosce la previdenza sociale come un diritto per i lavoratori
garantendo loro, tramite strutture pubbliche e private, mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di
infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione volontaria (art. 38 Cost.).
Con lo Statuto dei lavoratori si inizia anche a parlare di tutela collettiva circa la sicurezza sul lavoro, ma
comunque è continuata a prevalere una tutela volta alla riparazione dell'evento dannoso subito dal
lavoratore piuttosto che alla sua prevenzione (c.d. "monetizzazione" del rischio). Solo negli anni 90 (con il
d.lgs. 626/1994), in adeguamento alle direttive europee, fu rivisto il sistema generale di prevenzione e
sicurezza, prevedendo anche un ruolo attivo dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Ultima tappa è il c.d.
Testo Unico del 2008 (d.lgs. 81/2008), aggiornato e modificato varie volte.
1.2) Esaminando la normativa oggi vigente, dobbiamo dire che il principio fondamentale resta quello dell’
art.2087 c.c. che stabilisce, in via generale, l'obbligo del datore di predispone le misure necessarie a tutela
dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore. Per “necessarie” si intendono, anzitutto le
misure espressamente stabilite dalle norme antinfortunistiche e, comunque, tutte quelle imposte
dall'obbligo generale incombente sul datore che, in mancanza di una specifica previsione, è tenuto a
valutare quali misure si debbano ritenere in concreto indispensabili, valutando i rischi e le nocività della
lavorazione, le conseguenze dannose prevedibili sulla base dell'esperienza ed i necessari aggiornamenti
delle misure di sicurezza  “criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile”.)
Oggetto della tutela non è soltanto il danno fisico subito dal lavoratore, ma anche quello morale.
- Dal punto di vista civilistico, il danno patito riconosce al lavoratore varie possibilità: invero, questi può
chiedere l'esecuzione coattiva (per via giudiziale) delle misure di sicurezza; può rifiutare legittimamente la
prestazione senza timore di ritorsioni (art. 1460 c.c.), può costituirsi parte civile nei procedimenti
contravvenzionali;
- Dal punto di vista penalistico, possono configurarsi i reati di lesioni colpose o di omicidio colposo.
Ad ogni modo, l'inosservanza dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. costituisce inadempimento contrattuale,
con conseguente obbligo del risarcimento del danno.
[N.B. A livello europeo, viene stabilito che gli Stati membri devono adoperarsi per promuovere il miglioramento, in particolare
dell'ambiente di lavoro e per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori. La Carta sociale europea del 1961 fissa, inoltre,
l'impegno per gli Stati ad emanare norma sulla sicurezza e sull'igiene. Sulla scorta di tali principi, I'UE ha emanato una serie di
direttive che in Italia hanno avuto attuazione con i d.lgs. 626/1994 e 81/2008 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro).]

2) Il Testo Unico del 2008-2009 347


Analizziamo, dunque, il Testo Unico (d.lgs 81/2008), che da ultimo ha operato il riordino e il
coordinamento delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro in un unico testo normativo. La
principale finalità del T.U. è quella di garantire l'uniformità della tutela dei lavoratori.
Una delle novità più rilevanti (che trova applicazione in tutti i settori di attività, privati e pubblici) è
costituita dalle nozioni di lavoratore e di datore di lavoro:
- Infatti, il lavoratore destinatario delle tutele è definito come la persona che, indipendentemente dalla
tipologia contrattuale (quindi sia subordinato che autonomo), svolge un'attività lavorativa nell'ambito
dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al sol fine di
apprendere un mestiere, un'arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari.
75

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

- Quanto alla nozione di datore di lavoro, è definito tale il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il
lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il
lavoratore presta la propria attività, ne ha la responsabilità, in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.
Il T.U. dispone, inoltre, che gli obblighi di igiene e sicurezza fanno carico anche ai dirigenti e ai preposti: è
definito "dirigente" la persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e
funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore, organizzando l'attività
lavorativa e vigilando su di essa; invece, "preposto" è la persona che, sempre in ragione delle competenze
professionali e nei limiti dei suoi poteri gerarchici, sovrintende all'attività lavorativa e garantisce
l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori.
Il T.U, impone anche al datore di dotarsi di uno staff tecnico e medico che lo supporti nella realizzazione del
sistema di prevenzione in azienda.
Tale staff consiste:
- nel servizio di prevenzione e protezione, composto da un responsabile e da uno o più addetti;
- in un medico competente, cui è affidata la sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti a rischi per la
salute, attraverso visite sia preventive sia periodiche.
Passando ai principali obblighi di prevenzione imposti dal T.U. In primo luogo, il datore è tenuto ad
effettuare la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e a redigere un documento di
valutazione dei rischi (DVR).
Altro obbligo per il datore è quello di fornire a ciascun lavoratore adeguata informazione, formazione e
addestramento.
Il T.U. attribuisce però obblighi e doveri anche ai lavoratori. Questi infatti devono collaborare
all'applicazione della normativa (attenendosi alle disposizioni impartite), utilizzare correttamente
attrezzature, materiali, mezzi di trasporto e dispositivi di sicurezza, nonché partecipare ai programmi di
formazione e di addestramento e sottoporsi ai controlli sanitari.
Il T.U., inoltre, prevede l'istituzione in tutte le aziende dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza
(RLS), nei cui confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per i rappresentanti sindacali.
Gli RLS sono eletti direttamente tra i lavoratori, ma nelle aziende di maggiori dimensioni in cui vi siano
rappresentanze sindacali (RSA o RSU), la scelta del RSL avviene tramite elezione o designazione nell'ambito
delle rappresentanze sindacali esistenti.
La vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta in
prevalenza dall'Azienda sanitaria locale competente per territorio e la mancata osservanza di tali norme
può integrare gli estremi di reati: costituisce reato contravvenzionale la semplice violazione della disciplina
in esame, a prescindere dal fatto che se ne sia derivato o meno un infortunio per i lavoratori.

3) Le tutele contro le vessazioni sul lavoro. Il mobbing


Terminato l'esame del T.U., è opportuno soffermarci su un'altra problematica inerente sempre la sicurezza
nei luoghi di lavoro, il mobbing. Un'interpretazione evolutiva dell'art. 2087 c.c., in relazione all'art. 32 Cost.
che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo, consente di affermare che oggi ad essere
puniti sono anche tutti quei comportamenti odiosi (vessazioni o molestie) lesivi dell'integrità psichica dei
lavoratori.
[N.B. Il termine mobbing (dall'inglese to mob: aggredire, accerchiare, assalire) venne per la prima volta utilizzato negli anni 70 per
descrivere il comportamento di alcune specie che circondano un proprio simile e lo assalgono in gruppo].
Dato che nel diritto del lavoro italiano manca una normativa di riferimento, è stato compito della
giurisprudenza dunque occuparsi di tale fenomeno. Secondo la giurisprudenza per mobbing deve
intendersi la condotta tenuta nei confronti di un lavoratore da parte del datore o del superiore gerarchico
(mobbing verticale) oppure del collega o pari grado (mobbing orizzontale), protratta nel tempo e che si
risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o
di persecuzione psicologica, da cui consegue la mortificazione morale e l'emarginazione del lavoratore, con
effetto lesivo del suo equilibrio fisico-psichico e del complesso della sua personalità. Tali condotte possono

76

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

consistere sia in atti già di per sé illeciti (ad es. trasferimento illegittimo, svuotamento di mansioni) sia in
atti leciti (ad es. atteggiamento ostile, disconoscimento di meriti, critiche).
Gli elementi caratterizzanti tale fenomeno sarebbero: reiterazione delle condotte, intenzionalità del
comportamento da parte dell'autore, emersione di un danno a carico della vittima, nesso di causalità tra
tali condotte ed il danno.
Quanto al danno, questo deve essere accertato dal punto di vista medico in quanto, deve determinare
un'alterazione psichica della vittima suscettibile di misurazione medica. Sempre secondo la giurisprudenza,
il datore ha, per l’art. 2087 c.c., una responsabilità diretta in caso di mobbing verticale ed una
responsabilità indiretta (per omessa vigilanza nei confronti del dipendente che ha tenuto il comportamento
vessatorio) in caso di mobbing orizzontale.

4) Il risarcimento del danno alla salute


Tornando all'argomento di questo capitolo, ossia la sicurezza nei luoghi di lavoro, problematico risulta il
risarcimento del danno non patrimoniale (sofferto dal lavoratore), che l'art. 2059 c.c. prevede "solo nei
casi determinati dalla legge".
Nel 2003 la Corte Costituzionale ritenne che in tale articolo dovesse essere ricompreso il danno morale, il
danno biologico e il danno esistenziale. Quanto al danno biologico, il d.lgs. 38/2000 accolla all’INAIL
l'onere di corrispondere al lavoratore che subisce un infortunio sul lavoro o una malattia professionale, una
somma per risarcire il danno biologico patito. A tal fine la legge definisce il danno biologico come una
lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, che determina un'incidenza
negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato,
indipendentemente dalla sua capacità di produrre o meno reddito. Il lavoratore che invoca il ristoro del
danno biologico dovrà, dunque, fornire la prova dell'esistenza di una lesione all'integrità psico-fisica
accertabile in via medica e riceverà la somma dall'INAIL, in via automatica (cioè prescindendo da qualsiasi
profilo di responsabilità). Se invece il lavoratore intende ottenere una somma ulteriore a quella ricevuta
dall'INAIL (c.d. danno differenziale), dovrà provare che l'infortunio o la malattia derivino da una condotta
penalmente rilevante del datare. Per il danno esistenziale manca una definizione legislativa; esso va inteso
come ogni pregiudizio, oggettivamente accertabile, che alteri abitudini e assetti relazionai di un soggetto,
manifestandosi in disagi e turbamenti di tipo soggettivo (malessere psichico diffuso) che compromettono i
normali ritmi di vita del danneggiato che si vede costretto a modificare le normali attività quotidiane e ad
operare scelte di vita diverse, in particolare nella rinuncia forzata allo svolgimento di un'attività non
reddituale. Mentre, quindi, il danno morale attiene alla sfera intima del soggetto, il danno esistenziale
riguarda gli effetti che il patimento ha sulla vita quotidiana dell'interessato. Oggi la Cassazione appare
orientata per la risarcibilità del danno esistenziale.

77

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 12 - Il diritto alla retribuzione e la produttività del lavoro

1) L’obbligazione retributiva: natura e struttura giuridica


Come il lavoratore è tenuto ad effettuare la prestazione lavorativa, cosi il datore è per contratto obbligato a
corrispondere la retribuzione (art. 2094 c.c. che recita così: "è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga
mediante retribuzione a collaborare nell'impesa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e
sotto la direzione dell'imprenditore". Ricordiamo anche l'art. 36 Cost : "il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Ha diritto al riposo
settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi").
La retribuzione per il lavoratore costituisce un’insostituibile fonte di reddito personale e familiare, e per il
datore di lavoro rappresenta un’importante voce di costo della sua attività.
 Ma intorno alla retribuzione vi sono altre funzioni:
- costituisce la base imponibile per calcolare l'imposta sul reddito (IRPEF), dovuta dal lavoratore e anticipata
dal datore, e i contributi previdenziali (c.d. oneri sociali) ripartiti tra il datore in quota prevalente) e il
lavoratore (in quota minore). Ciò determina il fenomeno del “cuneo fiscale”, cioè la differenza tra quanto
viene corrisposto al lavoratore in cifra netta e quanto risulta dalla busta paga che il datore deve consegnare
ogni mese.
- è un elemento decisivo per gli equilibri occupazionali del mercato del lavoro, è un fattore di inflazione,
una delle voci fondamentali della spesa pubblica, ecc..) ed è per questo che la sua regolazione spetta oltre
che al diritto del lavoro, anche ad altre branche del diritto (pubblico, tributario e commerciale).
Primo problema da affrontare circa l'obbligazione retributiva è la sua natura giuridica. Da tempo c'è una
tesi dottrinale che sottolinea come la retribuzione, pur generandosi da un negozio, sia collegata a bisogni
elementari della persona, si da potersi configurare come "diritto personale o alimentare". Questa teoria,
però, trascura come il diritto alla retribuzione sia condizionato dal contratto e da ciò ne discenderebbe la
sua natura di "obbligazione negoziale":
in virtù dell'art. 36 Cost. tale obbligazione, inoltre, avrebbe struttura bipartita, nel senso che si compone di
un'obbligazione sociale (diretta a garantire al lavoratore un'esistenza libera e dignitosa) e di
un'obbligazione corrispettiva (diretta a correlare l'entità della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro
prestato).
Tale bipartizione non contrasta con la natura giuridica unitaria della retribuzione di obbligazione generata
da un contratto di solito ritenuto a prestazioni corrispettive.

2) Sistemi di calcolo, garanzia dei minimi retributivi ex art. 36 Cost. e articolazione


funzionale dei salari
Quanto ai sistemi in base ai quali può essere calcolata e corrisposta la retribuzione, l'art. 2099 c.c.
distingue 3 sistemi: a tempo, a cottimo e con una partecipazione più o meno diretta ai risultati
dell’impresa (utili, prodotti, provvigioni).
Tali sistemi individuano gradi diversi di coinvolgimento del lavoratore rispetto al rischio di impresa. Questo
coinvolgimento è minimo quando la retribuzione viene percepita in misura fissa a cadenze periodiche (la
retribuzione viene calcolata dopo che la prestazione lavorativa è stata svolta); il coinvolgimento del
lavoratore cresce nei sistemi a cottimo (dove la retribuzione è distinta in una quota fissa e una quota
variabile denominata “utile di cottimo”, che viene calcolata a seguito di una misurazione quantitativa dei
risultati di ciascuna prestazione lavorativa);
infine, il coinvolgimento del lavoratore nel rischio di impresa è massimo nei sistemi in cui il calcolo della
retribuzione è agganciato ai risultati dell'impresa.
Il codice civile prevede regole specifiche in caso di retribuzione a cottimo, sancendone l'obbligatorietà
quando il lavoratore sia vincolato all'osservanza di un determinato ritmo produttivo o la valutazione della

78

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

sua prestazione sia basata sulla misurazione dei tempi di lavorazione (art. 2100 c.c.): successivamente la
retribuzione a cottimo è stata resa obbligatoria anche per il lavoro a domicilio.
Ad ogni modo, la giurisprudenza ha ritenuto vincolante per tutti i sistemi salariali l'art. 36 Cost, con la
conseguenza che vanno sempre e comunque garantiti i minimi retributivi previsti da tale articolo. Infatti,
secondo i giudici questa norma costituzionale può essere invocata in giudizio al fine di rendere nulle le
clausole dei contratti di lavoro che determinano la retribuzione in violazione appunto dei criteri fissati dalla
norma costituzionale, e al fine di consentire al giudice di integrare il contenuto del contratto facendo
riferimento alle “tabelle salariali” definite dai contratti collettivi.
È evidente però che i giudici non sono in grado di garantire un salario minimo certo, dovendo piuttosto
combinare la garanzia costituzionale con la disciplina dei contratti collettivi che, invece, differenzia la
retribuzione a seconda del livello di inquadramento (ossia, i minimi retributivi si differenziano a seconda
della qualifica del lavoratore e, talvolta, anche a seconda delle dimensioni dell'impresa o del luogo in cui
viene effettuata la prestazione).

3) Costituzione, legge e contratto nella disciplina della retribuzione


Premessa: come visto, il codice civile dedica una specifica attenzione alla concorrenza di regole legali e contrattuali in materia,
regole che vanno ad aggiungersi a quelle più generali sul rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale (art.2077 c.c.).
Con l'entrata in vigore della Costituzione e la singolare metabolizzazione sistematica di una contrattazione collettiva di natura
privatistica fornita di robuste garanzie costituzionali, sempre più si è delineato un equilibrio in cui, se si esclude il pubblico impiego
a disciplina pubblicistica (fino agli anni '80/'90), la retribuzione è parsa materia di competenza della contrattazione collettiva,
quasi sottratta ad interventi del legislatore, soprattutto se limitativi di norme più favorevoli.
Tale assetto, mai tradotto in una disciplina organica, riceve però una assai significativa smentita al verificarsi di una vicenda
giuridico-istituzionale della metà degli anni '80, quando si manifestano pienamente le potenziali conseguenze del modello
concertativo (o neo-corporativo), basato sulla concertazione trilaterale delle politiche economiche e sociali.
In questo disegno la contrattazione collettiva ha un ruolo fondamentale, purché abbia una struttura centralizzata e sia rigidamente
rispettosa dei vincoli economico-finanziari pattuiti in sede di macro-concertazione. Accordi e contratti collettivi maturati all'interno
di questo modello modificano sensibilmente le regole legali e negoziali intorno alle quali si era andato formando il diritto del lavoro
degli anni '70. In particolare, pur confermando la necessità di una legittimazione sociale aggiuntiva ai circuiti della rappresentanza
politica, il modello concertativo mostra un limite invalicabile nell'intreccio tra governo politico e concertazione sociale.
Tale limite è emerso nei momenti di maggior tensione politico-sociale, cioè quando sul piano concertativo non tutto ha funzionato
ed è stato necessario "blindare" in norme di legge alcuni contenuti negoziali riguardanti proprio istituti retributivi contestati da
alcune parti sociali (in particolare, Cgil), in quanto diretti a limitare gli incrementi salariali che, in virtù di accordi interconfederali,
andavano riconosciuti ai lavoratori a seguito dell’aumento del costo della vita.
Nel regolare la retribuzione si è verificato, soprattutto dagli anni ’80, un conflitto tra legge e contratto
collettivo, sui cui si è pronunciata la Corte Costituzionale, che ha toccato un vero e proprio “tabù” del
diritto sindacale italiano riguardante l'esistenza, da molti affermata, di una riserva costituzionale di
competenza a favore della contrattazione collettiva nella disciplina dei rapporti di lavoro e, in particolare,
dei trattamenti retributivi, e con la sent.34/1985 frantumò quel tabù affermando che, fin quando l'art. 39
Cost, non sarà attuato, non si può ipotizzare alcun conflitto tra attività normativa dei sindacati e attività
legislativa del Parlamento atteso che, il contratto collettivo quale atto di autonomia negoziale è posto in
una posizione gerarchicamente subordinata rispetto alla legge.
Dunque la “concertazione” è un meccanismo semplicemente politico che non incide molto sulla
costituzionalità delle leggi limitative della contrattazione collettiva.
La Corte, inoltre, aggiunge che anche se l'autonomia collettiva non può essere annullata o compressa, è
anche vero che compressione e annullamento possono verificarsi a salvaguardia di interessi generali (il cui
apprezzamento è rimesso alle scelte del legislatore, sindacabili dalla sola Corte Costituzionale, se in
violazione delle norme costituzionali).
[N.B. In un’altra sentenza (n.51/2015) sul rapporto tra legge e contratto in materia salariale, la Corte ha ritenuto
conforme alla Costituzione il rinvio ai contratti collettivi operato da una legge per determinare la retribuzione dei
dipendenti di una cooperativa].

79

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

4) Differenze tra pubblico e privato


Il rapporto tra legge e contratto collettivo nel lavoro pubblico, invece, con la riforma sulla privatizzazione
poggia su delle innovazioni. In primis, legge e contratto collettivo sono considerate fonti del diritto
equiparate:
• al riguardo fondamentale è la regola (di nuovo vigente a seguito della riforma Madia del 2017, che l'ha
ripristinata dopo 8 anni in cui era stata modificata dalla riforma Brunetta del 2009) che consente al
contratto collettivo successivo di prevalere sulla norma di legge che introduca una particolare disciplina dei
rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, garantendo
così la permanenza della “delegificazione”, ossia è la stessa legge che autorizza il contratto collettivo a
derogare ai precetti legali circa talune discipline dei rapporti di lavoro).
Tale regola, per i trattamenti retributivi prevede che "le disposizioni di legge, regolamenti o atti
amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratto, cessano di avere efficacia a
far data dall'entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale".
• Altra regola innovativa nell'ambito del lavoro pubblico, è la riserva di competenza quanto ai trattamenti
economici a favore della contrattazione collettiva (in sostanza, quindi, la materia retributiva è di
competenza dei contratti collettivi). [N.B. diversamente dal privato dove abbiamo già visto sopra che la
riserva per la contrattazione collettiva in materia retributiva è stata esclusa dalla Corte Costituzionale con la
sent.34/1985].
Inoltre, il d.lgs. 165/2001, prevede anche che le pubbliche amministrazioni debbano garantire la parità di
trattamento contrattuale, regola che riguarda soprattutto la materia retributiva: ciò significa che le
amministrazioni devono applicare i trattamenti economici previsti dai contratti collettivi a tutti i propri
dipendenti (iscritti o no ai sindacati che stipulano i contratti stessi). [N.B. Per quanto riguarda il privato,
anche qui vi è una differenza dovuta al fatto che, in mancanza di una regola di legge esplicita, prevale
l’autonomia negoziale privata.]

5) La tutela del salario reale e la politica dei redditi


Rispetto alla quantificazione dei salari, ricordiamo che l'art. 36 Cost. dispone che "il lavoratore ha diritto ad
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla
famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Una particolare attenzione merita la questione degli strumenti
attraverso i quali l'ordinamento ha garantito e garantisce il principio della sufficienza della retribuzione.
A seguito della seconda guerra mondiale, vi era un sistema di indicizzazione dei salari incentrato sulla c.d.
“scala mobile”, cioè su un meccanismo di calcolo di una indennità di contingenza costituita dal valore dei
"punti di contingenza" che periodicamente scattavano a seguito del variare dei prezzi di un "paniere" di
beni di cui si monitorava costantemente l'andamento. Tale sistema è stato poi abbandonato, e con il
Protocollo del 1993 si attribuiva al CCNL (contratto collettivo nazionale di lavoro), da rinnovare per la parte
retributiva ogni 2 anni (ogni 4 anni, invece, per la parte normativa), la funzione di garantire che gli effetti
economici del contratto siano coerenti con i tassi di inflazione programmata (TIP) assunti. Inoltre, sempre
nel 1993 il Protocollo introduceva l'istituto delle indennità di vacanza contrattuale, unico per tutti i
lavoratori, che garantiva l'automatica copertura dopo la scadenza del CCNL in caso di "vacanza
contrattuale", cioè di un periodo in cui non vi era un contratto collettivo valido e applicabile.
Tutto questo sistema mirava alla salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni, ma viene modificato
da un Accordo interconfederale del 2009, al quale non aderisce la CGIL, con cui si introduce per il CCNL la
funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del
settore.
Viene superata la distinzione del rinnovo contrattuale tra parte retributiva e normativa e tale rinnovo viene
fissato per entrambe le parti del contratto a 3 anni. Inoltre, viene scelto come indicatore per gli effetti
economici del contratto l'IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l'Italia)
elaborato dall'ISTAT a cui viene anche affidato il compito di monitorare eventuali scostamenti tra
l'inflazione prevista e quella reale effettivamente osservata. L'indennità di vacanza contrattuale viene
80

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

sostituita dalla previsione di un meccanismo che, alla data di scadenza del contratto precedente, riconosca
una copertura economica, che sarà stabilita nei singoli contratti collettivi, a favore di tutti i lavoratori in
servizio alla data di raggiungimento dell'accordo.
Con l'Accordo interconfederale 2012 (a cui la CGIL non aderisce) sì interviene nuovamente sulla disciplina
ora descritta. Tale accordo attribuisce di nuovo al CCNL il compito di rendere gli effetti economici del
contratto coerenti con le tendenze dell'economia, del mercato del lavoro e degli andamenti specifici del
settore. Il CCNL acquista cosi l'obiettivo mirato di tutelare il potere d'acquisto della retribuzione.
Tutto ciò viene confermato dall'Accordo Interconfederale del 2018 (stipulato stavolta anche dalla CGIL), in
cui si prevede un rapporto dinamico tra il “trattamento economico minimo” (TEM) e il “trattamento
economico complessivo” (TEC), il quale però, data soprattutto la sua complessità, potrebbe scontrarsi con
l'art. 36 Cost. Ma di questa norma però va tenuta conto l’interpretazione giurisprudenziale evolutiva che
ritiene che i meccanismi di indicizzazione non abbiano rilevanza di rango costituzionale, come si evince
dalla sent.126/2000 che afferma: “gli strumenti di adeguamento perequativo non devono garantire un
costante allineamento (…) ma solo assicurare che non si verifichi un macroscopico scostamento che
sarebbe indice sintomatico di violazione del principio di sufficienza retributiva”.
Stando così le cose, può allora affermarsi che, appare costituzionalmente legittimo il superamento sia
della “scala mobile” che dell'indennità di vacanza contrattuale.
[N.B. Ricordiamo che nel lavoro pubblico il sistema di tutela del salario reale mediante contrattazione collettiva ha
incontrato limiti drastici, a causa di un blocco vero e proprio della contrattazione nazionale “per la parte economica”
dal 2010 sino al 2014, e per il 2015. In particolare fu bloccata irreversibilmente l’indennità di vacanza contrattuale per
gli anni 2013,2014 e fino al 2018.
Quindi gli stipendi tabellari di tutti i dipendenti pubblici sono stati congelati per un periodo maggiore di due anni,
mediante la cancellazione dell’erosione salariale verificatesi in questo periodo considerato, e in questo modo
impedendo all’ordinamento nazionale di utilizzare qualsiasi strumento per mantenere le retribuzioni sui parametri
indicati dall’art.36 Cost. Tuttavia, nel 2015, vi fu una pronuncia di incostituzionalità, però orientata più nel senso della
violazione dell’art.39 Cost per “l’eccessiva compressione del diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva”, che
per qualche violazione dell’art.36].

6) Retribuzione e produttività
Quindi, attualmente, bisogna tener conto che i principi e categoriche giuridiche non sono più né quelle del
codice civile, né quelle assestatesi nei 30 anni successivi alla Costituzione, seppur queste continuino ad
essere un importante riferimento.
Particolare attenzione va prestata anche alla più recente regolazione della c.d. parte variabile della
retribuzione, talvolta detto “salario accessorio” (solo di rado va oltre il 10-15% della retribuzione
complessiva).
[N.B. si tratta cioè della possibilità di variare la retribuzione complessiva in considerazione dei risultati realizzati
individualmente o dall'organizzazione aziendale nel suo complesso].
Infatti, nel settore privato negli ultimi anni sono state introdotte voci retributive che riflettono la
produttività o la redditività collettiva, fino ad arrivare a forme di compensi legate all'azionariato dei
lavoratori. Già nel Protocollo del 1993 si prevede che "le erogazioni del livello di contrattazione aziendale
sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi aventi come obiettivo
incrementi di produttività, nonché ai risultati legati all'andamento economico dell'impresa".
Nel 2007 per promuovere la contrattazione sul salario variabile, furono introdotti sgravi contributivi e nel
2008 si aggiunse a questi anche un regime fiscale agevolato basato sulla “detassazione” di una quota del
salario in quanto corrisposto come "retribuzione di produttività".
[Non presente nella nuova edizione:
Con l'accordo interconfederale del 2012 fu poi introdotta la regola dello “sdoppiamento funzionale” degli aumenti
salariali (che mirano a salvaguardare il potere di acquisto della retribuzione) in base alla quale, tali aumenti derivanti
dai rinnovi dei CCNL sono in parte rimessi alla “contrattazione periferica” (cioè significa che una parte degli aumenti
salariali viene prevista dai contratti collettivi nazionali, e una parte dai contratti decentrati, sulla base degli incrementi
di produttività dell'impresa, per poter fruire della detassazione prevista dalla legge).
81

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Tale regola pero è stata criticata: infatti, si è detto che se gli aumenti salariali rappresentano una garanzia per tutti i
lavoratori, non possono essere distinti in una “quota fissa” (stabilita dai CCNL) e in una “quota variabile” da collegarsi
ad incrementi di produttività e redditività definiti dai contratti decentrati (contratti di secondo livello).
Si può sostenere che, la quota di salario da poter collegare alla produttività/redditività dell'impresa è solo quella che
residua dopo aver garantito la tutela del salario reale (in questo caso sarebbe conforme alla disciplina art.36 Cost)].
L'accordo del 2012 è stato infatti seguito da una normativa articolata e complessa, che ha dato luogo a delicati
problemi interpretativi non solo di carattere giuslavoristico (art.1 co.481, Iegge 228/2012; d.P.C.M. 22 gennaio
2013; circolare Inps n.15/2013; circolare Agenzia delle entrate n.11/E/2013). Tale normativa è stata accolta con
favore anche dalla Cgil, che ha firmato con Cisl e Uil alcuni successivi accordi interconfederali (aprile 2103 con
Confindustria e agosto 2013 con Confimi) diretti a predisporre un modello di accordo quadro territoriale per
consentire ad imprese prive di rappresentanza aziendale di introdurre retribuzioni di produttività detassabili.
Sulla stessa lunghezza d'onda sì sono avuti ulteriori, provvedimenti legislativi (art.1, legge 232/2016) nonché
indicazioni autorevoli delle parti sociali (accordo interconfederale del 9 marzo 2018).

7) Retribuzione e merito nel lavoro pubblico


La tematica del salario variabile si propone anche nel lavoro pubblico. Dopo la riforma della
privatizzazione si è, infatti, insistito nel promuovere un’articolazione della retribuzione, nel senso di
garantire che una quota di questa venisse corrisposta a seguito di una valutazione formale dei risultati
realizzati da ciascun dipendente (sistema premiale). Tale sistema in un primo momento fu reso obbligatorio
solo per i dirigenti, poi dal 2009 è stato esteso a tutti i dipendenti pubblici, all’insegna di una vera e propria
“ideologia meritocratica”. Inoltre, vari d.lgs. rientranti nella Riforma Madia del 2015, hanno ridotto la
disciplina legale nel senso che, oggi è la contrattazione collettiva nazionale che si occupa di definire il
sistema premiale nelle pubbliche amministrazioni.

8) La retribuzione differita: in particolare il trattamento di fine rapporto


Ultimo aspetto legato all'obbligazione retributiva è il trattamento di fine rapporto (TFR).
Esso è disciplinato dall'art. 2120 c.c. (collegato al più antico istituto dell’ “indennità di anzianità” che,
inizialmente non veniva corrisposta al lavoratore licenziato per colpa o per dimissioni volontarie poi, tale
aspetto fu dichiarato incostituzionale) e assume la natura giuridica di "retribuzione differita": significa che,
è un elemento del trattamento retributivo che, pur essendo correlato con il quotidiano svolgersi della
prestazione lavorativa, viene corrisposto in un momento diverso rispetto a quello della sua maturazione,
che è l'estinzione del rapporto di lavoro.
Nel 1982 (con la legge n. 297), dunque, l'indennità di anzianità si trasforma in TFR e la riforma consente
anche la riscossione anticipata di un importo non superiore al 70% del trattamento maturato al momento
della richiesta. Le ragioni di tale trasformazione erano date dal fatto che “l'indennità di anzianità” veniva
calcolata in base ad un “automatismo retributivo composto” (cioè si intende una voce salariale che viene
determinata e accresciuta prevalentemente in virtù di meccanismi di calcolo non negoziati tra le parti
collettive in cui si calcolava moltiplicando l’ultima retribuzione maturata per il numero di anni di anzianità
di servizio presso la stessa impresa) e tale sistema dava luogo ad impennate della somma da corrispondere,
che poteva mettere in difficoltà le imprese).
Con la riforma del 1982, cambiano le regole di calcolo del TFR:
- esso si calcola mediante addizione, le cui componenti sono le retribuzioni dovute per ciascun anno di
servizio divise per 13,5 (art. 2120, co. 1 c.c.) e, per evitare che le somme risultino erose dall'inflazione, si
prevede che l'accantonamento annuo sia incrementato al 31 dicembre di ogni anno con l'applicazione di
un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le
famiglie di operai e impiegati calcolato dall'ISTAT;
- la base di calcolo del TFR è costituita da tutte le somme annualmente corrisposte in dipendenza del
rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con esclusione di quanto corrisposto come rimborso spese
(tale base di calcolo può essere modificata dai contratti collettivi — art. 2120, co. 2 c.c.).

82

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

A partire dal 2005, si è previsto che il TFR venga destinato al finanziamento di fondi di previdenza
complementare,
(salvo che il lavoratore non manifesti, entro 6 mesi dall'assunzione, la volontà di mantenere il TFR presso il
proprio datore di lavoro). In realtà, il TFR rimane presso il datore solo se questi ha meno di 50 dipendenti;
negli altri casi, viene accantonato in un apposito fondo gestito dall'INPS secondo le regole dell'art. 2120 c.c.
In tal modo il TFR diviene un importante fonte di finanziamento del sistema previdenziale pubblico.
[N.B. I dipendenti pubblici, assunti dal 31 dicembre 2000, hanno diritto al TFR così come regolato per i privati, mentre
coloro che erano già in servizio prima di quella data, se non aderiscono ad un fondo pensione di comparto entro il
31/12/2015, è previsto per loro la conservazione dei trattamenti di fine sevizio regolati dalle varie discipline di
comparto].
[N.B. Abbiamo anche altri istituti di retribuzione differita, come ad esempio le c.d. mensilità aggiuntive (la
tredicesima, che va corrisposta di solito alla fine dell’anno solare)].

83

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 13 – Luogo, durata della prestazione e sospensione del rapporto di


lavoro per ragioni riguardanti il lavoratore

1) Il luogo della prestazione, il trasferimento e la trasferta


In base alle regole civilistiche (art.1182 c.c.) la determinazione del luogo della prestazione lavorativa è
rimessa alla libera determinazione delle parti e di solito viene fissata in locali che rientrano nella
disponibilità del datore. Tuttavia il luogo della prestazione può essere convenuto altrove, ad es. presso il
domicilio del lavoratore (in tal caso si applica la disciplina del lavoro a domicilio), oppure può stabilirsi che la
prestazione sia svolta al di fuori dei locali dell'azienda (come nel caso del telelavoro, del lavoro agile o dei
lavoratori itineranti, ecc.)
In tale ambito ci si chiede se, in caso di trasferimento del lavoratore (ossia di mutamento definitivo del
luogo di lavoro in costanza del rapporto) occorra o meno il suo consenso. La norma che rileva è l’art.2103
co.8, secondo il quale:“il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva all'altra se non per comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Da tale disposizione si ricava che il trasferimento rientra nel
potere direttiva del datore, purché sussista una delle ragioni oggettive indicate (prescindendo dunque dal
consenso del lavoratore).
[N.B. Merita un cenno la vicenda relativa all'incompatibilità ambientale come causa del trasferimento del singolo
lavoratore, ossia quando il trasferimento ha luogo in seguito a difficoltà relazionali fra il lavoratore ed i colleghi o i
superiori, considerata dalla giurisprudenza come una ragione oggettiva di trasferimento. In tal caso però, atteso che
l’art.7 co.4 dello Statuto dei lavoratori esclude il trasferimento come sanzione disciplinare (ricordiamo: è vietato
imporre sanzioni disciplinari che comportano mutamenti definitivi del rapporto di lavoro, tra cui rientra proprio il
trasferimento), la giurisprudenza lo consente quando l'incompatibilità si traduce in un'oggettiva difficoltà
organizzativa e gestionale nell'unità produttiva
- Maggiori garanzie sono previste per il sindacalista interno (dirigente della rappresentanza sindacale aziendale) che,
in base allo Statuto, non può essere trasferito in mancanza del nulla osta dell'associazione sindacale di appartenenza,
la cui concessione è rimessa alla discrezionalità del sindacato. É ovvio che il nulla osta è previsto per tutelare il
dirigente sindacale che altrimenti sarebbe esposto a ritorsioni da parte del datore].
La trasferta, invece, è uno spostamento temporaneo del lavoratore dal luogo di adempimento della
prestazione, a cui non si applica la disciplina codicistica in tema di trasferimento (non è dunque necessaria
alcuna giustificazione visto che si tratta di un mutamento provvisorio). Di solito è riconosciuta al lavoratore
un'apposita indennità.

2) L’orario di lavoro
Passiamo all'orario di lavoro, che nella prima regolamentazione del 1923 era fissato in 48 ore settimanali,
poi ridotte a 40 nel 1997. Secondo il d.lgs. 66/2003 è orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia
al lavoro, a disposizione del datore e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni (per tale definizione
è necessario, dunque, che il lavoratore contemporaneamente sia sul luogo di lavoro, soggetto ai poteri
datoriali e nelle mansioni assegnategli). La legge fissa l'orario di lavoro nel limite delle 40 ore settimanali,
con la possibilità per i contratti collettivi di stabilire una durata minore e di riferire l'orario normale alla
durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno
[N.B. significa che la contrattazione collettiva può stabilire che la media vada calcolata su un periodo di 6 mesi, di
modo che in un mese l'orario normale può eccedere le 40 ore settimanali, purché tale eccedenza sia poi compensata
da una riduzione nel mese successivo così da rispettare il valore medio]. È anche stabilita la durata massima
settimanale dell'orario, ovvero quella che include l'eventuale lavoro straordinario. Anche in tal caso la
legge fissa solo il valore medio a 48 ore nell'arco di 7 giorni [N.B. vuol dire che anche qui, la contrattazione
collettiva può fissare l'orario massimo in modo da variare da giornata a giornata, purché sia rispettato il valore medio
di 48 ore fissato dalla legge].
Per quanto riguarda l'orario giornaliero, viene fissato in 13 ore, derogabile comunque dalla contrattazione
collettiva.

84

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

 Ci si chiede se la variazione dell’orario di lavoro e la collocazione oraria richiedano o meno il consenso del
lavoratore. La giurisprudenza anteriore al 2003 ritiene che entrambi gli aspetti rientrano nel potere direttivo del
datore e quindi si prescinderebbe dal consenso del lavoratore (ciò nel caso dei rapporti di lavoro a tempo pieno;
mentre, il consenso sarebbe necessario solo nei rapporti di lavoro a tempo parziale, in cui la programmazione del
tempo libero assume carattere essenziale).
Al contrario, c’è chi ritiene che il datore non possa variare a suo arbitrio l'orario di lavoro pretendendo la completa e
totale disponibilità del lavoratore (sia a tempo pieno che a tempo parziale).
La legge invece, con riferimento alla variazione (quantitativa) dell'orario di lavoro, propendere per la
necessità del consenso delle parti contrattuali (visto che l'orario, se non regolato collettivamente, viene
fissato individualmente).
Quanto alla collocazione della prestazione lavorativa, si ritiene invece che rientri nel potere unilaterale del
datore la collocazione temporale della prestazione lavorativa.
[N.B. a tal proposito si richiama la regolamentazione del lavoro notturno che prevede, in alcuni casi un divieto ed in
altri un "non obbligo" per il lavoratore al lavoro notturno, da ciò deducendosi che in tutte le altre ipotesi il lavoratore
è tenuto a prestare il lavoro notturno in quanto tale obbligo discenderebbe dal potere datoriale].
In definitiva, collocazione dell'orario non determina alcun mutamento dell'oggetto del contratto (che è il
tempo-orario e non la sua collocazione).

3) Il lavoro straordinario, notturno e a turni


Come già accennato il lavoro straordinario è quello svolto oltre i limiti dell'orario normale di lavoro.
La legge assegna alla contrattazione collettiva la regolamentazione delle modalità di esecuzione delle
prestazioni di lavoro straordinario, prevedendo che, in mancanza della disciplina negoziale, il lavoro
straordinario sia ammesso solo previo accordo tra datore e lavoratore e non oltre le 250 ore annuali. Il
consenso del lavoratore allo svolgimento dello straordinario è, dunque, necessario solo in assenza della
contrattazione collettiva: in alcune ipotesi previste dalla legge, il consenso però non è richiesto. Per quanto
riguarda la remunerazione dello straordinario, dal 2003 non è più previsto il diritto ad una maggiorazione
retributiva, ma vi è la possibilità che tale maggiorazione possa essere prevista dalla contrattazione collettiva
e possa essere sostituita da riposi compensativi. [N.B. tale rinvio legale si consolida nella pratica della c.d. “banca
delle ore”, un meccanismo che consente al lavoratore l’accantonamento su una sorta di “conto-orario” delle ore di
lavoro eccedenti, decidendo se utilizzarle come riposo compensativo oppure richiedere il pagamento della
retribuzione maggiorata].
• Passando poi al lavoro notturno, bisogna distinguere due nozioni:
- "periodo notturno", ossia qualsiasi periodo di almeno 7 ore comprendente l'intervallo fra 00:00 e 05:00
- "lavoratore notturno", intendendosi come tale qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga
almeno 3 ore del suo orario giornaliero normale.
É la contrattazione collettiva che determina il periodo di lavoro notturno, prevedendo però un massimo di 8
ore di lavoro nell'intervallo fra 00:00 e 05:00, così come prescritto dalla normativa europea.
[N.B. Non presente nell’edizione 2020: Va fatto poi una differenza tra lavoratore notturno "orizzontale" che svolge
almeno 3 ore del suo nomale orario di lavoro nel periodo notturno, e lavoratore notturno "verticale" che, invece,
svolge nel periodo notturno una parte del suo orario di lavoro secondo quanto previsto dai contratti collettivi o, in
assenza, almeno 3 ore per un minimo di 80 giorni l'anno].
Sempre con riferimento al lavoro notturno, maggiore tutela è assicurata ad alcune categorie di lavoratori.
In primis, per i minori viene sancito un espresso divieto di lavoro notturno, derogabile parzialmente per
tutti i minori (che possono lavorare fino alla mezzanotte) e, in via eccezionale e solo a determinate
condizioni, per quanto riguarda gli adolescenti che hanno compiuto 16 anni. Altro divieto esiste per le
lavoratrici madri (in stato di gravidanza fino al compimento di 1 anno di età del bambino), mentre esiste il
"non obbligo" a svolgere il lavoro notturno per i lavoratori genitori (con figli di età inferiore ai 3 anni
oppure genitori affidatari di un figlio convivente con età inferiore ai 12 anni) e per i lavoratori che hanno a
proprio carico un disabile.

85

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[N.B. Abbiamo già detto che, spetta alla contrattazione collettiva regolamentare il lavoro notturno, anche con
riferimento all'individuazione dei requisiti dei lavoratori che possono essere esclusi dall'obbligo di effettuare il lavoro
notturno, ciò però può essere fatto solo in senso di migliorare i requisiti soggettivi già previsti dalla legge].
• Aspetti comuni al lavoro notturno li ritroviamo nel lavoro a turni, a cui però sono dedicate meno norme
(lavoro notturno e lavoro a turni sona accomunati dalla gravosità della prestazione, ma il primo è
considerato più oneroso). Lavoro a turni è qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro, anche a squadre.
Anche tale materia è rimessa alla contrattazione collettiva che la regola nel rispetto della legge, in primis
dell’art.10 dello Statuto, che dispone che i lavoratori studenti hanno diritto a turni di lavoro che agevolino
la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami.
È stato poi riconosciuto a tutti i lavoratori subordinati il diritto a usufruire delle turnazioni previste dalla
contrattazione collettiva, se intendono svolgere attività di volontariato in enti del terzo settore.
La minore attenzione prestata al lavoro a turni rispetto a quello notturno è data dal fatto che, pur essendo
la gravosità della prestazione un tratto comune a entrambi, il lavoro notturno è più oneroso del lavoro a
turni. Emblematica al riguardo è la normativa in materia di accesso anticipato al pensionamento, con-
sentito per il lavoro notturno svolto durante tutto l'anno, oppure nell'ambito di un regime di turni e non per
il lavoro a turni “tout court”.

4) Il riposo giornaliero e settimanale


Il d.lgs. 66/2003 prevede anche il riposo giornaliero fissandolo in 11 ore consecutive ogni 24, limite
derogabile dalla contrattazione collettiva. Tale riposo deve essere fruito in modo consecutivo, tranne i casi
in cui il lavoratore è obbligato a tenersi a disposizione del datore anche al di fuori dell'orario di lavoro (la
reperibilità è un obbligo solo accessorio).
L'art. 36 co.3 Cost, riconosce poi al lavoratore il diritto irrinunciabile al riposo settimanale e si specifica
che tale riposo deve essere almeno di 24 ore consecutive ogni 7 giorni (esso rappresenta un valore medio
nel senso che, è sufficiente che nell'arco di 14 giorni ci siano due periodi di riposo consecutivo di 24 ore).
[N.B. La direttiva europea 88/2003 stabilisce che il giorno di riposo settimanale di regola coincide con la domenica (in omaggio alla
tradizione religiosa del nostro paese) consentendo, per i lavoratori appartenenti a confessioni religiose diverse dalla cattolica, la
collocazione del riposo in un giorno settimanale diverso dalla domenica. È scontato che non vi è retribuzione nel giorno di riposo
settimanale e non è previsto il diritto ad un compenso ulteriore per il lavoro prestato di domenica (tuttavia, tale compenso è spesso
previsto dalla contrattazione collettiva attesa la maggiore gravosità della prestazione lavorativa svolta in quella giornata
La legge 260/1949 riconosce anche il diritto a non lavorare nelle festività infrasettimanali, al quale il lavoratore può rinunciare solo
con esplicita manifestazione di volontà individuale)].

5) Le ferie
L'art.36 co.3 Cost. garantisce anche il diritto irrinunciabile alle ferie annuali retribuite, la cui funzione è
quella di assicurare il necessario ristoro psico-fisico e di consentire al lavoratore di svolgere attività extra-
lavorative ritenute meritevoli di tutela.
La legge stabilisce che il lavoratore ha diritto a un periodo minimo annuale inderogabile di ferie retribuite
non inferiore a 4 settimane, inclusi i giorni non lavorativi. Anche il lavoratore che abbia meno di un anno
continuativo di servizio, ha il diritto a usufruire di una frazione proporzionata di periodo feriale (c.d.
“intrannualità del godimento delle ferie”).
La collocazione del periodo feriale rientra nel potere direttivo del datore (art. 2019 c. 2 c.c.), anche se tale
potere deve essere esercitato tenendo conto anche degli interessi del lavoratore. Inoltre, il periodo minimo
di 4 settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie (previsione non derogabile dalla
contrattazione collettiva), tranne nel caso in cui non possono essere consumate a causa della risoluzione
del rapporto di lavoro.
[N.B. La malattia sopravvenuta durante il periodo feriale (se è tale da impedire la fruizione delle ferie o se comporta almeno
3 giorni di prognosi), ne sospende il decorso in modo che il lavoratore possa recuperare i giorni di ferie persi].

86

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

6) Il part-time
Sempre con riferimento all'orario di lavoro, esaminiamo ora due particolari tipi di rapporti di lavoro:
■ lavoro part-time, di cui l’attuale disciplina è contenuta nel d.lgs.81/2015, uno dei decreti attuativi del Jobs Act.
Il rapporto di lavoro a tempo parziale ha una forma scritta ad probationem, cioè ai fini della prova
dell'orario ridotto e nel contratto di lavoro deve anche essere indicata la durata e la collocazione temporale
della prestazione lavorativa con riguardo al giorno, alla settimana, al mese o all'anno (indicazione, invece,
non richiesta nel contratto di lavoro a tempo pieno). Le parti, dunque, nel contratto sono libere di stabilire
che il part-time sia orizzontale, verticale o misto:
- la riduzione di orario sia in relazione all'orario normale giornaliero  part-time orizzontale
[Es: anziché delle normali 8 ore lavorative al giorno, la prestazione sarà di 6 ore giornaliere distribuite su tutti i giorni
lavorativi della settimana];
- l'attività lavorativa sia svolta a tempo pieno solo però in determinati periodi della settimana, del mese o
dell'amo  part-time verticale
[Es. il lavoratore svolge l'orario di lavoro settimanale ridotto su 3 giorni la settimana e non su 5 e nelle giornate
lavorative l'orario giornaliero sarà pari a quello dei lavoratori a tempo pieno];
- un mix delle due figure  part-time misto [Es: una settimana in part-time orizzontale e un’altra in part-time
verticale].
La legge, inoltre, non prevede l'entità della riduzione d'orario, né tantomeno pone limiti al ricorso al lavoro
part-time.
Può accadere che vi sia una trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno  a part-time , e in tal
caso è richiesto un accordo far le parti risultante da atto scritto.
È previsto un diritto nella trasformazione del contratto di lavoro da full-time a part-time solo per i
lavoratori affetti da patologie oncologiche o cronico-degenerative gravi (purché conservino una ridotta
capacità lavorativa accertata da un'apposita commissione medica). In altri casi, invece, sussiste una priorità
(non un diritto) alla trasformazione del rapporto da full-time a part-time per il lavoratore o la lavoratrice
che ha coniuge, figli o genitori affetti da patologie oncologiche o cronico-degenerative gravi; oppure ha un
figlio convivente di età non superiore a 13 anni o portatore di handicap; oppure assiste una persona
convivente con totale inabilità lavorativa grave e con necessità di sostegno continuo].
Il legislatore, invece, non prevede alcuna formalità nel caso di trasformazione da part-time  a full-time,
che può avvenire in qualsiasi momento sempre previo accordo con il datore e senza particolari obblighi per
il lavoratore: in merito va però detto che, sussiste un diritto di precedenza per lavoratori a tempo parziale
in caso di assunzione di nuovo personale a tempo pieno. Inoltre, il rifiuto del lavoratore alla trasformazione
del rapporto di lavoro (in entrambe le direzioni) non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Nei rapporti di lavoro a tempo parziale può anche essere effettuato il lavoro supplementare (svolto oltre
l'orario concordato, ma entro i limiti del tempo pieno e segue le stesse regole previste per il lavoro
straordinario nei rapporti di lavoro full-time) che, in mancanza di una disciplina prevista dalla
contrattazione collettiva, richiede il consenso del lavoratore che può rifiutarlo solo se giustificato da
comprovate esigenze di salute, familiari o di formazione professionale (dunque il consenso del lavoratore
non è necessario se sussiste una contrattazione collettiva, cosi come accade nei rapporti di lavoro a tempo
pieno). La legge consente anche la previsione di “clausole elastiche” che consentono al datore di
modificare la collocazione temporale della prestazione lavorativa o l'aumento della sua durata entro i limiti
del tempo pieno (si tratta di clausole accessorie che richiedono il consenso del lavoratore una sola volta
per tutte e non di volta in volta).
[N.B. Se in presenza della contrattazione collettiva, le parti possono pattuire clausole elastiche e il lavoratore ha diritto ad un
preavviso di due giorni, mentre in caso di mancanza di contrattazione collettiva, esse possono essere pattuite solo davanti
alla commissione di certificazione e prevedere le condizioni con le quali il datore di lavoro può modificare la collocazione
temporale della prestazione, durata, ecc. con preavviso di due giorni lavorativi].
La direttiva CE 97/81 prevede il principio di non discriminazione fra lavoratori part-time e lavoratori a
tempo pieno, cosa diversa dalla disciplina la normativa italiana, che prevede che il lavoratore a tempo
parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari

87

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

inquadramento e ha i medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile. Tale regola però è
depotenziata dal fatto che al trattamento economico si applica il “criterio del riproporzionamento” (cioè la
riduzione dei trattamenti in proporzione al minor orario svolto).

7) il lavoro intermittente
Al contrario del lavoro part-time, ha una storia molto più recente. Attualmente la disciplina di questo
istituto è contenuta nel d.lgs. 81/2015, secondo cui il lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo
determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore che ne può utilizzare la
prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti
collettivi.
Tale contratto può essere stipulato anche in mancanza di una fonte collettiva, ma solo nei casi previsti da
un decreto del Ministro del lavoro.
[N.B. In alcuni casi il lavoro intermittente può essere concluso anche in mancanza sia della contrattazione collettiva sia
del decreto ministeriale: quando si tratta di soggetti con meno di 24 anni e con più di 55 anni di età in quanto va loro
assicurata l'occupazione anche mediante fattispecie meno garantite (dato che si collocano nei segmenti deboli del
mercato del lavoro].
Per evitare però abusi di tale istituto, la legge introduce un limite temporale al suo utilizzo: non può
superare complessivamente le 400 giornate di effettivo lavoro nell'arco di 3 anni (per ciascun lavoratore
con il medesimo datore), ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.
Analogamente la legge vieta il ricorso al lavoro intermittente in una serie di casi:
- per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
- presso unità produttive in cui, nei 6 mesi precedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi;
- presso unità produttive in cui sono operanti il regime di cassa integrazione o una sospensione del lavoro;
- ai datori che non hanno effettuato la valutazione dei rischi previsti dalla normativa sulla salute e
sicurezza.
Esistono 2 tipi di lavoro intermittente:
■ il primo è caratterizzato dalla stipula di un contratto con cui il lavoratore non solo si impegna a mettersi a
disposizione, ma si obbliga anche a rispondere all'eventuale chiamata del datore, in cambio di un'indennità
di disponibilità, di cui il rifiuto ingiustificato di rispondere può costituire motivo di licenziamento e
comporta la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto;
■ il secondo, invece, è caratterizzato dal fatto che con il contratto il lavoratore non si obbliga a rispondere
alla chiamata del datore e non riceve quindi alcuna indennità [N.B. in tal caso mancando la messa a
disposizione dietro pagamento di un corrispettivo, non può parlarsi di lavoro subordinato].
Infine, in ogni contratto di lavoro intermittente devono essere regolamentati in forma scritta vari elementi
tra cui, durata e ipotesi che consentono la stipula del contratto, luogo e modalità della disponibilità e del
preavviso di chiamata del lavoratore, trattamento economico e normativo, ecc.
[Alcune cose trattate in questo paragrafo, nella nuova edizione vengono solo accennate].

8) Contratto di lavoro e sospensioni della prestazione lavorativa. In particolare, le


sospensioni per cause relative al lavoratore: malattia e infortunio
I casi di sospensione dal lavoro sono quelli in cui il rapporto resta giuridicamente in vita, pur non
potendo avere corso la prestazione. La sospensione del rapporto di lavoro si distingue dai riposi che
rappresentano, invece, pause fisiologiche e programmate della prestazione lavorativa.
Il problema principale legato a questa tematica riguarda la permanenza delle rispettive obbligazioni
contrattuali delle parti (es. retribuzione, obblighi accessori). Le sospensioni possono sia attenere la sfera del
lavoratore che la sfera del datore e possono avere fonte legale o concordate (rimesse in tale ultimo caso
alla libera determinazione delle parti)
[Le ipotesi di sospensione per cause inerenti il datore verranno trattate nel cap.19.]

88

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Esaminiamo le più importanti ipotesi legali di sospensione dal lavoro relative al lavoratore:
la più diffusa è la malattia e l'infortunio disciplinati dall'art.2110 c.c., che garantisce il lavoratore in tre modi:
- assicurando la conservazione della retribuzione (un'indennità oppure forme equivalenti di
assistenza/previdenza;
- garantendo la conservazione del posto di lavoro (per un periodo c.d. “di comporto” determinato dalla
legge o dalla contrattazione collettiva, trascorso il quale il datore è libero di esercitare il potere di recesso.
Inoltre,
questo periodo di comporto può essere "secco" ossia nel caso di un'unica e ininterrotta malattia,
o "per sommatoria" ossia quando l'assenza riguarda più periodi di malattia);
- prevedendo il computo del periodo di assenza nell'anzianità di servizio.
Inoltre, sono previsti taluni obblighi e oneri in capo ai lavoratori. Anzitutto, la malattia va comunicata al
datore tempestivamente (attraverso una procedura, oggi, telematica) e provata con apposito certificato
medico, con indicazione del domicilio in modo da consentire l'effettuazione dei controlli (anche all'ente
previdenziale se questi è tenuto ad erogare il trattamento di malattia). Se il lavoratore non provvede alla
comunicazione, l'assenza si ritiene ingiustificata con le relative conseguenze disciplinari e la perdita del
trattamento retributivo o previdenziale.
[N.B. Al fine di garantire l'imparzialità, ricordiamo, il datore può controllare la malattia del dipendente solo attraverso
medici fiscali, a seguito della visita, possono confermare, modificare o smentire la prognosi del medico curante del
lavoratore].
Quest'ultimo ha l'obbligo di reperibilità in talune fasce orarie, salvo giustificato motivo, pena la decadenza
del lavoratore da ogni trattamento economico fino a 10 giorni e l'irrogazione di sanzioni disciplinari.

9) Gravidanza, maternità, paternità


Nell'ambito della sospensione del rapporto di lavoro, la legge garantisce adeguate tutele anche alla
maternità, dato che l'art.31 Cost. impegna la Repubblica a proteggere la maternità e l’art.37 richiede che
“le condizioni di lavoro della donna lavoratrice debbano consentire l'adempimento della sua essenziale
funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Inoltre, l'art.33
della Carta dei diritti fondamentali dell'UE sancisce il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un
congedo parentale dopo la nascita o l'adozione di un figlio.
Il d.lgs. 151/2001 prevede il congedo di maternità che si compone di un congedo precedente e uno
successivo al parto.
Il primo (ossia il congedo di maternità pre-parto) comporta il divieto di lavoro nei 2 mesi precedenti la data
presunta del parto (se il parto avviene oltre tale data, nel periodo intercorrente la data presunta e quella
effettiva). Tale interdizione dal lavoro è anticipata nel caso di complicanze della gravidanza o quando le
condizioni di lavoro o ambientali risultino pregiudizievoli per la salute della gestante e del nascituro. Per il
secondo, deve astenersi dal lavoro anche immediatamente dopo il parto, per i 3 mesi successivi e per gli
ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora questo sia avvenuto prima della data presunta. Nel
complesso alla lavoratrice madre spetta un congedo di maternità di 5 mesi.
Durante il periodo di astensione obbligatoria per maternità, le lavoratrici hanno diritto ad una indennità
giornaliera, a carico dell'INPS, pari all'80% della retribuzione normale e il periodo di congedo è a tutti gli
effetti computato all'anzianità di servizio. [N.B. Le ferie e le assenze spettanti alla lavoratrice, non vanno godute
contemporaneamente al congedo].
Il congedo di maternità (sempre per un periodo massimo di 5 mesi) spetta, inoltre, anche alle lavoratrici
che hanno adottato un minore ed è fruito durante i primi 5 mesi successivi all'effettivo ingresso del minore
nella famiglia della lavoratrice. Nel caso, invece, dell'affidamento di minore il congedo può essere goduto
entro 5 mesi dall'affidamento, per un periodo massimo di 3 mesi.
Al termine del congedo di maternità la lavoratrice ha diritto di rientrare con l'adibizione alle precedenti
mansioni o ad altre equivalenti nella stessa unità produttiva.

89

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[N.B. Il congedo post-parto spetta anche al padre lavoratore (biologico, adottivo e affidatario), ma solo in casi
particolarmente gravi e tassativamente previsti dalla legge: morte o grave infermità della madre; abbandono del
minore; affidamento esclusivo al padre. Inoltre, diversamente da quello di maternità, è facoltativo (non obbligatorio)
e può essere esercitato solo in alternativa alla madre].

10) Esigenze personali e familiari


Vi sono poi i congedi parentali previsti per consentire ad entrambi i genitori di conciliare il lavoro con la
cura dei figli (spettano per ciascun bambino nei suoi primi 12 anni di età). Diversamente dal congedo di
maternità, tali congedi sono facoltativi ed i genitori possono fluirne sia separatamente che
contemporaneamente.
Inoltre, essi non possono eccedere il limite complessivo di 10 mesi.
[N.B. tali congedi non sono molto convenienti nel senso che, i genitori che ne fruiscono hanno diritto a un'indennità
pari al 30% della retribuzione, corrisposta dall'INPS fino al 6° anno di vita del bambino e per un periodo complessivo
pari a 6 mesi (invece, dal 7° al 12°anno di vita del bambino l'indennità fino all'8° anno è dovuta solo se il reddito del
genitore sia inferiore ad una soglia minima].
Per i minori portatori di handicap in situazioni di gravità, il congedo parentale è prolungato e, inoltre, tale
congedo spetta anche nel caso di adozione ed affidamento, qualunque sia l'età del minore. I genitori,
hanno poi diritto di astenersi dal lavoro durante le malattie di ciascun figlio di età non superiore a 3 anni e,
nel limite di 5 giorni all'anno, per le malattie di ogni figlio di età compresa tra 3 e 8 anni. Le assenze del
lavoro non sono retribuite ma tali periodi sono computati all'anzianità di servizio.
La legge 104/1992 prevede anche la possibilità di ottenere permessi e congedi straordinari per genitori, figli
e coniugi che assistono persone con gravi disabilità.
Vi sono poi altre esigenze, diverse da quelle familiari, che l'ordinamento tutela, considerando legittima
l'astensione dal lavoro  è il caso del diritto riconosciuto al disabile circa la sospensione non retribuita del
rapporto di lavoro nel caso di aggravamento delle proprie condizioni di salute o di significative variazioni
dell'organizzazione del lavoro, incompatibili con la prosecuzione dell'attività lavorativa, e la sospensione
perdura fino a quando l’incompatibilità sussista. Tuttavia, il rapporto di lavoro si risolve nel caso in cui le
competenti commissioni accertino la definitiva impossibilità di reinserire il lavoratore disabile nell'azienda.
[N.B. Quasi tutti i congedi per figli sin qui descritti sono stati potenziati per il periodo in cui nel 2020 vi è stata l'emergenza
sanitaria dovuta al Covid-19 (febbraio-luglio e poi chissà in futuro…) che ha costretto a ritmi di lavoro molto intensi il
personale sanitario, a sospendere le attività scolastiche in presenza, a riorganizzare molte altre attività lavorative spesso
bloccate per impedire il contagio].
Altresì, vi sono i permessi giornalieri retribuiti per ragioni di studio, previsti dallo Statuto dei lavoratori e
riconosciuti a tutti i lavoratori, pubblici e privati; oppure congedi per la formazione che possono essere richiesti
dai lavoratori con almeno 5 anni di anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro, finalizzato al
completamento della scuola dell’obbligo, al conseguimento del titolo di studio di secondo grado, laurea, ecc.

11) Diritti e doveri politici


Il legislatore è anche intervenuto per dare attuazione all'art.51 co.3 Cost. secondo il quale "chi è chiamato a
funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare
il suo posto di lavoro" ed ha previsto per questo delle ipotesi di astensione dal lavoro. L'art.31 dello Statuto
infatti garantisce ai lavoratori eletti nel Parlamento nazionale ed europeo, nelle assemblee regionali o per
altre funzioni pubbliche elettive, un'aspettativa non retribuita per tutta la durata del mandato.
Il diritto all'elettorato passivo del lavoratore prevale sull'obbligo dell'adempimento della prestazione
lavorativa.

90

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 14 – Estinzione del contratto di lavoro: risoluzione, dimissioni, licenziamenti

1) Le modalità di estinzione dei rapporti di lavoro: morte dei contraenti, risoluzione


consensuale, clausola risolutiva espressa
Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato può estinguersi per il verificarsi di 4 vicende (diversamente, il
contratto a termine si estingue anche per scadenza del termine).
► la morte di uno dei 2 contraenti  nel caso del lavoratore, siccome si tratta di prestazione personale
infungibile, la morte determina automaticamente l'estinzione del contratto, seppure con la maturazione
all'indennità di preavviso (un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per
il periodo di preavviso, art.2118.2 e 3) Nel caso di morte del datore, se si tratta di persona fisica, la morte
estingue il contratto. Se, invece, si tratta di un imprenditore individuale occorre distinguere:
- per il piccolo imprenditore, vale sempre il principio dell'estinzione del contratto (art. 2083)
- negli altri casi, il contratto di lavoro può proseguire con l’organizzazione imprenditoriale, fermo restando
che si dovrà tenere conto delle regole sulla successione mortis causa.
► La seconda vicenda estintiva è la risoluzione consensuale, detta anche mutuo consenso (art.1372 c.c.
che recita: "il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per
cause ammesse dalla legge"), pienamente legittima se sussiste una genuina volontà di entrambe le parti.
Dubbia è la legittimità della clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c. che dispone: "i contraenti possono
convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta
secondo le modalità stabilite. In questa caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara
all'altra che intende valersi della clausola risolutiva"), ritenuta in contrasto con la disciplina inderogabile del
licenziamento. Anche la cessione del contratto, che pure estingue il rapporto con il datore, richiede il
genuino consenso del lavoratore (art. 1406 c.c. secondo il quale: "ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei
rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché
l’altra parte vi consenta").

2) Licenziamento, dimissioni, altre ipotesi di estinzione legale


Le altre 2 vicende sono riconducibili al recesso, atto unilaterale recettizio, che assume una diversa
denominazione a seconda che a porlo in essere sia il datore o il lavoratore.
►Nel primo caso siamo in presenza di un licenziamento;
► nel secondo caso invece abbiamo le dimissioni.
Il codice civile del 1942 prevedeva una disciplina unitaria per questi 2 istituti, solo la successiva evoluzione
legislativa ha differenziato le 2 discipline.
[N.B. Al di là di queste 4 vicende estintive di carattere generale, vi sono altre specifiche ipotesi espressamente
previste dal legislatore che determinano la fine del contratto di lavoro: es: la mancata ripresa del lavoro dopo l'invito
del datore in esecuzione dell'ordine di reintegrazione; per buona parte dei dipendenti pubblici, il pensionamento
anticipato per raggiungimento del massimo dell'anzianità contributiva e del trattamento pensionistico].

3) La “formalizzazione” delle dimissioni e della risoluzione consensuale


Analizziamo, dunque, la terza vicenda estintiva: le dimissioni.
Le regole generali applicabili sono gli artt. 2118 e 2119 c.c., in base ai quali “ciascuna delle parti può
normalmente recedere dal contratto dando semplicemente un congruo preavviso all'altra” (art. 2118); “del
preavviso può poi farsi a meno ove ricorra una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria,
del rapporto, detta giusta causa” (art. 2119).
[N.B. non rientrano nella giusta causa di risoluzione il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta
dell’azienda]
Nel caso di soggetti in condizioni di particolare debolezza come le lavoratrici nel primo anno di matrimonio,
le dimissioni sono nulle salvo conferma entro 1 mese dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro. Una
disciplina restrittiva è prevista anche per le dimissioni della lavoratrice durante il periodo di gravidanza e di
91

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

entrambi i genitori durante i primi 3 anni di vita del bambino: in tali casi le dimissioni non hanno bisogno di
preavviso e danno diritto alle indennità previste dalla legge e dal contratto per il caso di licenziamento, ma
che devono essere convalidate dal servizio ispettivo.
Oggi desta sempre più allarme il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco”, cioè predisposte senza
l'indicazione iniziale di una data, su iniziativa del datore e sottoscritte dal lavoratore all'atto della sua
assunzione o durante il rapporto, con la possibilità per il datore di utilizzarle discrezionalmente per simulare
un licenziamento.
Proprio per tale motivo le dimissioni sono state circondate da una serie di cautele.
Con il d.lgs. 151/2015 sono state previste 2 modalità per dimettersi o risolvere consensualmente il
contratto:
- attraverso modalità telematiche su appositi moduli disponibili sul sito del Ministero del lavoro e trasmessi
dal lavoratore al datore e alla direzione territoriale, rispettando l’identificazione del rapporto e la datazione
certa dell'atto;
- formalizzandole nelle sedi conciliative di cui all'art. 2113 c.c. o dinanzi alle commissioni di certificazione.
Con le stesse modalità il lavoratore può, entro 7 giorni, revocare le dimissioni o il consenso prestato alla
risoluzione consensuale.

4) La disciplina del licenziamento: dal codice civile alla l. 604/1966


Passiamo ora alla quarta vicenda estintiva del contratto di lavoro: il licenziamento.
Esso non riceve una specifica regolamentazione, ma si applicano le regole generali sul recesso dal contratto
di lavoro subordinato (artt. 2118 e 2119 c.c.).
L’art.2118 disciplina il recesso ordinario dal contratto a tempo indeterminato, prevedendo unicamente la
necessità di dare un congruo preavviso all'altra parte senza alcun vincolo di forma o di motivazione:
riconosce, dunque, ad entrambe le parti la facoltà di recedere unilateralmente e liberamente dal contratto,
con il solo obbligo del preavviso peraltro, surrogabile dal pagamento di un'indennità equivalente
all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso ai sensi dell’art. 2118 co.2).
Tale norma consente un vero e proprio “licenziamento arbitrario” cioè un licenziamento di cui unico arbitro
è il datore, a cui la legge impone solo l'obbligo del preavviso al lavoratore. Addirittura tale tutela poi viene
meno nel caso disposto dall'art.2119 secondo il quale, se sussiste una causa che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto (cioè una giusta causa) il datore può licenziare il lavoratore
senza preavviso (ciò sia nei contratti a tempo indeterminato sia, nei contratti a tempo determinato).
Solo con la legge 604/1966 (che segna un distacco dalla disciplina prevista dal codice civile) il legislatore
interviene con una nuova normativa molto più limitativa del potere imprenditoriale di licenziare da
momento che, viene disposto che l'atto estintivo deve essere scritto a pena di nullità e basarsi su un
giustificato motivo soggettivo od oggettivo (che se non comunicato insieme al licenziamento, va reso noto
entro un breve termine su richiesta del lavoratore). Il legislatore, inoltre, accolla al datore l'onere di
provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo.
La legge 604/1966 si occupa anche dei licenziamenti nulli per motivo illecito, disponendo che è nullo, al di
là dalla motivazione addotta, il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa,
dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali. Si tratta, dunque, del
“licenziamento discriminatorio” che però va interamente provato dal lavoratore. Quanto alle sanzioni, la
legge in caso di licenziamento illegittimo, dispone la riassunzione del lavoratore oppure, a scelta del datore,
il pagamento di un'indennità (obbligazione dunque facoltativa nella quale, l'importo dell'indennità va da un
minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità) e spetta al datore la scelta fra le due sanzioni alternative.
Si può in sintesi affermare, che la disciplina prevista dalla legge 604/1966 nel regolamentare il
licenziamento lo fa nel pieno rispetto della nostra Costituzione (che sappiamo bene tutela il lavoro) in
quanto, non era più accettabile che il contratto di lavoro fosse nella libera disponibilità del datore, ponendo
fine così all'epoca della libera recedibilità.

92

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

5) Giusta causa e giustificato motivo (soggettivo e oggettivo) di licenziamento


Continuando nell'esame del licenziamento, distinguiamo tra giusta causa e giustificato motivo di
licenziamento.
■ Quanto alla giusta causa, l'art. 2119 c.c. semplicemente fa riferimento ad una qualunque causa che non
consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
■ Il significato, invece, di giustificato motivo è riportato nella legge 604/1966: quello "oggettivo" si
concretizza in ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa (in tal caso il giudice dovrà verificare la sussistenza del motivo addotto e il nesso
eziologico tra ragioni e postazione di lavoro del dipendente); quello soggettivo" riguarda un notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, riferendosi dunque a condotte poste in essere da
quest'ultimo.

La differenza tra giusta causa e giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) sta nel fatto che: nel caso della
giusta causa il datore non ha l'obbligo del preavviso (infatti si parla di “licenziamento in tronco”); obbligo
che, invece, sussiste nel caso di licenziamento per giustificato motivo. Tale differenza si spiega in quanto, di
norma la giusta causa determina una lesione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, ed
è riferita a tutti quei comportamenti che, per la loro gravità, fanno venire meno la fiducia del datore, in
modo tale da far ritenere pregiudizievole la prosecuzione anche provvisoria del rapporto. Nella giusta
causa, dunque, si valorizza l'elemento fiduciario (che secondo la giurisprudenza va valutato alla luce dì una
serie di fattori quali: posizione delle parti, danno eventualmente arrecato, motivi ed intensità dell'elemento
intenzionale, ecc..) al punto che si ritengono rilevanti anche condotte estranee all'esecuzione della
prestazione lavorativa, ma che comunque incidono sull'integrità del vincolo fiduciario (c.d. “concezione
oggettiva della giusta causa”).
C'è, al contrario, chi sostiene la c.d. “concezione soggettiva della giusta causa” (detta anche
“contrattuale”), che evidenzia la maggiore gravità dell'inadempimento costituente giusta causa di
licenziamento (l'elemento fiduciario viene così ricondotto al rapporto contrattuale, evidenziando
l’inconciliabilità della concezione oggettiva con la nozione moderna di contratto di lavoro.
In tal caso la giusta causa si differenzierebbe dal giustificato motivo soggettivo (che ricordiamo fa
riferimento anch'esso all'inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore) solo
“quantitativamente” e ad essa vanno ricondotti soltanto quei comportamenti del lavoratore di gravità tale
da incidere sull'elemento fiduciario.

6) Lo Statuto dei lavoratori: equilibri originari e successivi aggiustamenti


Dopo la legge 604/1966, arriva lo Statuto dei lavoratori (del 1970) che introduce una tutela rafforzata
dei rappresentanti sindacali contro il licenziamento illegittimo (art. 18). Si tratta di una tutela c.d. reale
ossia, la sostituzione della sanzione alternativa della riassunzione o del pagamento dell'indennità (chiamata
“tutela obbligatoria” e prevista dalla legge 604/1966) con la sanzione esclusiva della reintegrazione, da
applicarsi in tutti i casi in cui il giudice con sentenza dichiara inefficace il licenziamento (ai sensi dell’art.2
legge 604/1966) o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne
dichiara la nullità a norma della stessa legge.
Ma il campo di applicazione di questa tutela reale è limitato "a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o
reparto autonomo che occupa più di 15 dipendenti o 5 nelle imprese agricole” (art. 35 dello Statuto).
Dunque, tale tutela apprestata dall'art.18 dello Statuto è riservata solo alle grandi imprese; mentre, per le
piccole imprese si applica la tutela prevista dalla l. 604/1966 — ossia la tutela obbligatoria citata prima, che
come sanzione al licenziamento illegittimo prevede l'alternativa riassunzione/pagamento indennità (a tal
proposito si parlava di "parallelismo delle tutele").
Il meccanismo sanzionatorio di cui all'art.18 garantisce però al lavoratore reintegrato soltanto il
pagamento delle retribuzioni dovute dal momento in cui il giudice pronuncia la sentenza, integrato da un
risarcimento del danno subito fissato in una misura minima di 5 mensilità, ma non l'effettivo reinserimento
93

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

al lavoro (in pratica, l'art.18 non assicura l'effettività della reintegrazione).


Infatti il co.4 dell'art. così recita: "il datore che non ottempera alla sentenza di cui sopra, è tenuto inoltre a
corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza
fino a quella della reintegrazione".
In poche parole, il datore ben potrebbe decidere di corrispondere le retribuzioni al dipendente ma senza
richiedere la controprestazione, e dunque senza reintegrarlo. [N.B. La Corte di Cassazione in proposito ribadisce
che: “l'odine di reintegrazione non è suscettibile di esecuzione in forma specifica in quanto, la reintegrazione comporta
non solo la riammissione del lavoratore, ma necessita di un comportamento attivo da parte del datore, consistente
nell'impartirgli le opportune direttive”.]
Se, invece, a seguito dell'ordine di reintegrazione disposto dal giudice, il datore invita il lavoratore a
riprendere servizio, questi è tenuto a farlo entro 30 giorni, altrimenti il rapporto di lavoro si intende risolto.
Altresì lo Statuto dei lavoratori incide sul licenziamento disciplinare: i licenziamenti per giusta causa e
giustificato motivo soggettivo vengono considerati tutti disciplinari e quindi, prima di essere adottati,
devono essere preceduti da una procedura disciplinare (art.7 dello Statuto di cui si è detto nel cap.11).
Quindi si è passati da una fase precedente in cui la recedibilità era vincolata in maniera blanda  ad una
fase statutaria in cui viene data grande attenzione al licenziamento, in modo da bilanciare i poteri datoriali
con altri valori presenti in azienda.

• Arriva poi la legge 108/1990 che estende la tutela reale (che ricordiamo prevede la sanzione della
reintegrazione) a tutti i casi di licenziamento discriminatorio e a tutti i datori che abbiano
complessivamente più di 60 dipendenti, anche se occupati in unità produttive non meno di 15 o, se
agricole, di 5 dipendenti. Si prevede anche la possibilità che il lavoratore reintegrato possa, in alternativa
alla reintegrazione, ottenere un'indennità di 15 mensilità aggiuntiva al risarcimento del danno (c.d.
monetizzazione). Tale legge interviene anche sull'onere della prova in materia di licenziamento
discriminatorio (che ricordo ricade sul lavoratore) prevedendo la c.d. “prova statistica”: ossia, se il
ricorrente (lavoratore) fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a
fondare la presunzione dell'esistenza di comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al
convenuto (datore) provare l'insussistenza della discriminazione.
• Inoltre, vi è la legge 223/1991 con cui si dà attuazione alle direttive europee in tema di licenziamenti
collettivi (cioè quelli riguardanti almeno 5 lavoratori, effettuati nell'arco di 120 giorni e basati su riduzioni o
trasformazioni dell'attività o del lavoro), che vengono rigorosamente regolati assicurando ai sindacati un
ruolo di primo piano.

[N.B. È bene ricordare che ci troviamo in un decennio che si chiuderà con polemiche sempre più crescenti verso una
disciplina piuttosto complessa e vincolata, anche a causa delle maggiori difficoltà nel promuovere incrementi
occupazionali. Ciò sfocerà poi, nel decennio successivo, in una disciplina dei licenziamenti che subirà la pressione delle
politiche di flessibilizzazione delle regole, alimentate anche dalle politiche di “flexicutiy” formulate dall’UE negli anni
2006/2007, con lo scopo di convincere le imprese ad incrementare l’occupazione, piuttosto che a razionalizzare la
normativa e cercare un equilibrio tra flessibilità e sicurezza nel lavoro].

• Per completare il quadro normativo in materia di licenziamenti, occorre esaminare anche le modifiche
apportate dalla legge 183/2010 c.d. “collegato lavoro” (perché collegata alla legge di stabilità finanziaria
per il 2009). Tale legge impone ai giudici di tenere conto della contrattazione collettiva nel definire le
nozioni di giusta causa e giustificato motivo (tentativo questo di condizionare i giudici, che però non trova
spazio, atteso che questi sono vincolati unicamente dalle nozioni fissate dalla legge). Altresì, questa legge
cerca di depotenziare l'art.18 dello Statuto, prevedendo che le conseguenze del recesso dal rapporto di
lavoro possono essere oggetto di intese sindacali con efficacia erga omnes/generale (eccezion fatta per il
licenziamento discriminatorio, quello della lavoratrice in stato di gravidanza, quello causato dalla fruizione
di un congedo parentale, quello della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, ecc.).

94

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

In sostanza, il legislatore così deroga alle norme in tema di sanzioni per i licenziamenti illegittimi, affidando
ad accordi aziendali o territoriali il compito appunto di individuare tali sanzioni, tranne che in alcuni casi in
cui i licenziamenti sono particolarmente lesivi della dignità del lavoratore ("licenziamenti con rilevanza
familiare").
È chiaro che questa legge determini incertezza (tant'è vero che in effetti è rimasta inattuata) e soprattutto
mina il sistema giuridico fino ad allora costruito sul delicato tema dei licenziamenti.
Proprio per questo, ad essa sono seguiti 2 interventi legislativi: nel 2012 la riforma Fornero (legge 92/2012,
che ha modificato l'art. 18 dello Statuto) e nel 2015 la riforma Renzi (d.lgs. 23/2015 c.d. Jobs Act).

7) Le riforme del 2012 e del 2014/2015: nuovi approcci sistematici e nuovo


pragmatismo giuridico
La riforma Fornero del 2012 si innesta in un periodo storico caratterizzato da grandi difficoltà
economiche a seguito della crisi. Abbiamo una sorta di “reviviscenza” di una visione liberale, in un certo
senso evidenzia una sorta di conflitto tra i diritti dei lavoratori e dei sindacati contro la funzione positiva
dell’imprenditore di creare occupazione.
Tale riforma dedica specifica attenzione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, assicurando la
tutela reintegratoria solo nell’ipotesi che il licenziamento sia affetto da un vizio particolarmente grave:
- se il licenziamento è discriminatorio (e dunque nullo);
- se si fonda su fatto insussistente (cioè ad esempio il datore, su cui incombe l'onere probatorio, non è
stato in grado di dimostrare il giustificato motivo);
- se il datore ha adottato il licenziamento in un’ipotesi in cui la contrattazione collettiva prevedeva una
sanzione conservativa.
[N.B. Le sanzioni disciplinari conservative del rapporto di lavoro sono quelle diverse dal licenziamento e consistono nel
rimprovero verbale, il rimprovero scritto, la multa per un importo non superiore a 4 ore della retribuzione di base, la
sospensione dalla prestazione lavorativa e dalla retribuzione sino ad un massimo di 10 giorni].
Inoltre, se il licenziamento è di tipo economico, il lavoratore è reintegrato solo se la ragione del
provvedimento è “manifestamente insussistente”. In tutti gli altri casi, seppure sussiste un licenziamento
illegittimo, il legislatore consente al datore di conseguire l'effetto estintivo del contratto di lavoro
sanzionandolo con un mero indennizzo economico.

8) I licenziamenti viziati prima e dopo il 7 marzo 2015: discriminatori, nulli o annullabili


per ragioni particolarmente gravi (art. 18, co. 1, 4 e 7; art. 2, d.lgs. 23/2015); inefficaci o
annullabili per ragioni meno gravi (art. 18, co. 5, 6 e 7; art. 3 e 4, d.lgs. 23/2015)
Si evince che la riforma Fornero risulta molto articolata, prevedendo le specifiche ipotesi di nullità,
annullabilità o inefficacia del licenziamento, tra loro accomunate o differenziate con riferimento al regime
sanzionatorio.
[X] In primo luogo, sono affetti da nullità (non vi sono in tale caso differenze con la successiva riforma
Renzi del 2015):
- licenziamenti discriminatori;
- licenziamenti intimati in concomitanza con il matrimonio o in violazione dei divieti previsti sui congedi
parentali;
- licenziamenti dovuti a motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. (il quale recita: “il contratto è illecito
quando le parti si sono determinate a concluderlo per un motivo illecito comune ad entrambe”);
- licenziamenti riconducibili ad altri casi di nullità previsti dalla legge, tra i quali vi è la carenza di forma
scritta;
- licenziamenti collettivi per riduzione di personale viziati per ragioni di forma.

95

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[X] Poi, la legge prevede ipotesi in cui il licenziamento sia affetto da un vizio che ne determina
l'annullabilità:
- licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) annullabile per
insussistenza del fatto, oppure perché il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con sanzioni
conservative;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo annullabile per manifesta insussistenza del fatto;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore
viziato per difetto di giustificazione;
- licenziamento intimato in violazione dell'art.2110 co.2 (il quale prevede che nei casi di infortunio,
malattia e gravidanza, il datore può recedere dal contratto di lavoro solo decorso il periodo previsto per il
preavviso);
- licenziamento collettivo per riduzione di personale viziato per violazione dei criteri di scelta.
[N.B. In tale caso riscontriamo differenze con la riforma Renzi del 2015, che ricomprende nel gruppo
"dell'annullabilità" solo l'ipotesi del licenziamento disciplinare, mentre il licenziamento illegittimo per violazione
dell’art.2110 lo colloca nel gruppo "delle nullità" e, infine, i licenziamenti per giustificato motivo e quelli collettivi li
colloca nel terzo gruppo che vedremo ora.]
[X] Ci sono, infatti, vizi meno gravi in cui il licenziamento, seppur illegittimo, è comunque idoneo ad
estinguere il rapporto di lavoro:
- licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione (formalmente immotivato);
- licenziamento disciplinare inefficace per violazione della procedura ex art. 7 dello Statuto;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa, genericamente privo di
estremi, e perciò annullabile dal giudice che “dichiara risolto il rapporto di lavoro”;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo inefficace per violazione della procedura di conciliazione;
- licenziamento collettivo per riduzione di personale viziato per ragioni procedurali.

9) La molteplicità dei regimi sanzionatori e dei regimi probatori


Partiamo dal presupposto che la riforma Fornero del 2012 si applica ai rapporti di lavoro stipulati prima
della riforma Renzi del 2015, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (in cui si applicherà il nuovo
art. 18 Statuto lav. così come modificato appunto dalla riforma Fornero). A tali lavoratori si assicurano i
seguenti regimi sanzionatori:
► la tutela reintegratoria forte, che prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e un
risarcimento del danno con un limite minimo di 5 mensilità. Trova applicazione anche alle piccole imprese e
ai dirigenti, ed è assicurata: al licenziamento discriminatorio; al licenziamento nullo per causa di
matrimonio o maternità (e paternità);
al licenziamento basato su motivo illecito determinante; al licenziamento inefficace perché intimato in
forma orale;

► la tutela reintegratoria debole, che prevede sempre la reintegrazione e un risarcimento del danno fissato
nel limite massimo di 12 mensilità, che è assicurata: in tutte le ipotesi sopra previste che determinano
l'annullabilità del licenziamento, tranne quella sui licenziamenti collettivi;

► la tutela obbligatoria rafforzata, che prevede solo un indennizzo che va da 12 a 24 mensilità e si


applica:
a tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo;

► la tutela obbligatoria ordinaria, che prevede solo un indennizzo che va da 6 a 12 mensilità e si applica:
alle ipotesi di licenziamento inefficace per: mancanza di motivazione, per violazione della procedura ex art.
7 dello Statuto o per violazione della procedura di conciliazione.

96

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Abbiamo già detto che alla riforma Fornero è seguita la riforma Renzi d.lgs.23/2015, che prevede una
diversa disciplina delle sanzioni previste per i licenziamenti illegittimi, applicabile ai dipendenti assunti dopo
il 7 marzo 2015.
Tale decreto dispone che (fatta eccezione per i licenziamenti nulli, discriminatori e per alcune ipotesi di
disciplinari), l'illegittimità non può mai comportare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma
solo un indennizzo economico “certo e crescente” con l'anzianità di servizio.
Altresì, la legge impone di caratterizzare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato come contratti
a tutele crescenti (detti “CATUC”). Questa è, dunque, la disciplina dettata dal d.lgs.23/2015 per il CATUC:
► è assicurata la reintegrazione forte solo ai casi di licenziamenti nulli o discriminatori;
► è assicurata la reintegrazione debole in alcune ipotesi di licenziamento per giustificato motivo
soggettivo o giusta causa. Infatti, in tali casi se il lavoratore dimostra direttamente in giudizio
l'insussistenza del fatto materiale contestato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore alla
reintegrazione.
Al riguardo sono previste due regole:
- la prima, consente al datore di addurre anche solo un fatto materiale, purché esistente, per evitare
sempre e comunque la reintegrazione (è previsto però che tale fatto debba avere una pur minima rilevanza
disciplinare e non può essere valutato secondo principio di proporzionalità);
- la seconda regola necessita che l'insussistenza del fatto debba essere provata direttamente dal lavoratore;

► si esclude che possa esserci la reintegrazione nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
e di licenziamento collettivi.
Le vere e proprie “tutele crescenti” consistono nelle modalità di calcolo dell'indennità cui ha diritto il
lavoratore che viene licenziato con un atto affetto da vizi formali o sostanziali diversi dalla discriminazione e
che non determinano nullità dell'atto stesso per contrarietà a norme di legge.
[N.B. parliamo dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa, nonché dei licenziamenti
economici dovuti a ragioni di organizzazione del lavoro e attività produttiva].
In tali casi, se il lavoratore impugna nei termini il licenziamento e il giudice ne accerta l'illegittimità, questi deve
condannare il datore a pagare una/due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio del
lavoratore, a partire da un minimo di 2/6 e fino ad un massimo di 12/36 (varia a seconda del vizio del licenziamento).
La sanzione dunque ha una rigidità quantitativa che non consente di adattarla a nessun elemento interno o
esterno al contratto (il giudice dovrà solo fare una moltiplicazione, senza alcun margine di discrezionalità).
[Vecchia edizione 2018: In merito però è intervenuta la Corte Costituzionale che con la sentenza n.194 del 2018 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale del “catuc”. La Corte ha infatti disposto che, la previsione secondo cui
l'indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato vada determinata solo sulla base dell'anzianità di servizio è
contraria ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e alla tutela del lavoro ex artt. 4 e 35 Cost.
Con precisione, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.3 del d.lgs. 23/2015 limitatamente alle parole "di importo pari
a 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio").
A seguito di tale pronuncia, la determinazione dell'indennità è riaffidata dunque ai giudici i quali per quantificare l'indennità
potranno adattare la sanzione sulla base di altri elementi, quale anche l'anzianità di servizio (in aggiunta a questa, gli altri elementi
che il giudice potrà prendere in considerazione sono, per esempio, il contesto territoriale, il comportamento e le condizioni delle
parti, la dimensione dell'impresa), e quindi viene nuovamente prevista la discrezionalità del giudice circa la determinazione del
quantum dell'indennità per licenziamento illegittimo].
[Nuova edizione 2020: La Corte costituzionale con un’altra importante sentenza, la n.150/2020 (16 luglio) ha ritenuto
che determinare l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato per motivi sostanziali o procedurali
sulla base della sola anzianità è contrario ai principi costituzionali di ragionevolezza e uguaglianza e alla del lavoro ex
art.4 e 33 Cost. La determinazione dell'indennità viene così affidata ai giudici che potranno calibrare la sanzione sulla
base anche di altri elementi: gravità delle infrazioni, comportamento e condizioni delle parti, dimensioni dell'impresa
contesto territoriale, ecc.). seppur tenendo conto “innanzitutto dell'anzianità di servizio”.)]

97

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Un'altra norma della riforma Renzi (d.lgs. 23/2015) prevede la possibilità, per il datore che voglia evitare il
giudizio, di formulare una "offerta di conciliazione", che consiste nel corrispondere subito al lavoratore una
mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità (con un minimo di 3 ed un massimo di 27), non
assoggettata ad alcun onere fiscale o contributivo.
[N.B. Quanto alle piccole imprese, la riforma del 2012 e quella del 2015 non cambiano il regime sanzionatorio:
ai licenziamenti discriminatori o nulli si applica la reintegrazione piena, negli altri casi di licenziamento illegittimo si applica la tutela
obbligatoria (legge 604/1966) che prevede l'alternativa tra riassunzione e pagamento di una penale con indennizzo].
Circa la disciplina degli oneri probatori, in seguito alle riforme, essa oggi è imperniata su 3 regole:
- spetta al datore provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento
(art.2697 c.c.)
- è ammessa la prova presuntiva statistica per il licenziamento discriminatorio;
- l’inversione dell’onere della prova ai sensi dell’art.5 l.604/1966
Quindi, per gli assunti con CATUC, spetta al lavoratore provare l'insussistenza del fatto posto alla base del
licenziamento.

10) La qualificazione del licenziamento e i relativi problemi esegetici: la nozione di


“fatto” nella l. 92/2012 e nel d.lgs. 23/2015
Un'insidia che contiene la riforma Fornero del 2012 è il significato del termine "fatto" che ricorre spesso,
come per esempio nelle ipotesi dell'annullabilità per “insussistenza del fatto” o perché è punito con
sanzioni conservative. Bisogna specificare che la connessione è tecnico-giuridica, e quindi la parola “fatto”
va interpretata in senso giuridico.
Anche la Corte di Cassazione ha chiarito che il termine fatto va inteso in senso giuridico e non meramente
materiale.
Rispetto al testo dell'art.18 novellato nel 2012, il legislatore del 2015 consente al datore di lavoro di addurre
anche solo un "fatto materiale". purché esistente, per evitare sempre e comunque la reintegrazione.
Qui l'uso dell'aggettivo “materiale” sembra indicare che si voglia sfrondare il "fatto" di ogni componente
costitutiva di carattere giuridico; tuttavia, il secondo inciso, secondo cui deve restare “estranea ogni valutazione
circa la sproporzione del licenziamento", porta a ritenere che il fatto debba avere anche una minima rilevanza
disciplinare (e quindi giuridica), e tuttavia non può essere valutato con la lente del principio di proporzionalità.
[N.B. Altra specificazione va fatta in merito alla qualificazione del licenziamento come “discriminatorio” (che rimane
sanzionato con la piena reintegrazione) e sul suo rapporto con licenziamento motivato, che invece non si basa sulla
nullità: per quanto riguarda quest’ultimo, il datore di lavoro deve trovare a fondamento un fatto che abbia gli
“estremi” di giustificato motivo/giusta causa, altrimenti, se tali “estremi” non risultino fondati, il lavoratore dovrà
provare che il licenziamento sia stato determinato da uno dei fattori di discriminazione affinché tale licenziamento si
trasformi in “discriminatorio”].

11) Ulteriori tratti di specialità della disciplina dei licenziamenti: i termini di


decadenza per l’impugnazione, la revoca e i residui casi di libera recedibilità
Altro aspetto regolato per la prima volta dalla riforma del 2012, e contenuto anche nella riforma Renzi, è la
revoca del licenziamento. In sostanza, si riconosce al datore una sorta di diritto al ripensamento sulla
decisione di licenziare, da esercitarsi entro 15 giorni dalla comunicazione dell'impugnazione del
licenziamento da parte del lavoratore:
[N.B. l'impugnazione va, inoltre, proposta entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, dopo di
che il lavoratore ha ulteriori 180 giorni (dall'impugnazione) per depositare il ricorso al giudice o comunicare
la richiesta di conciliazione ed arbitrato].
In conclusione può dirsi che oggi restano liberamente licenziabili solo: i lavoratori in prova (il patto di prova
deve però essere stipulato per iscritto e può durare massimo 6 mesi); gli apprendisti, alla fine del periodo
di formazione; i lavoratori ultrasessantenni che hanno maturato i requisiti pensionistici (a meno che non
optino per la prosecuzione del rapporto); i lavoratori domestici in riferimento ai quali è ammesso anche il
licenziamento orale.
98

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Sono liberamente licenziabili anche i dirigenti per i quali l’assenza di stabilità è compensata da una
consistente tutela economica prevista dai contratti collettivi, nel momento in cui il licenziamento sia privo
di qualsiasi giustificazione.

12) I licenziamenti collettivi


Costituiscono fattispecie a sé stante i licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Abbiamo già
detto che questi sono disciplinati dalla legge 223/1991, con cui si dà attuazione alle direttive europee in
tema appunto di licenziamenti collettivi. Essi ricorrono quando:
- i lavoratori da licenziare sono almeno 5 in un lasso temporale di 120 giorni;
- il licenziamento sia conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro o della cessazione
dell'attività.
In presenza di tali presupposti, i datori occupano più di 15 dipendenti sono tenuti ad osservare una serie di
obblighi procedurali e sostanziali. In primo luogo, è previsto un doppio controllo sulla decisione datoriale,
prima ad opera dei sindacati e poi, se non si raggiunge un accordo, ad opera di organismi amministrativi.
Quanto al primo controllo, ossia quello sindacale, vi è l'obbligo dell'impresa di comunicare per iscritto ai
soggetti aziendali (RSA/RSU) una serie di informazioni per consentire una verifica sulle motivazioni dei
licenziamenti, quantità e qualità dei lavoratori coinvolti, sui tempi della riduzione di personale, sulle misure
previste per ridimensionarne le conseguenze sociali.
[N.B. fino al primo gennaio 2017 il solo avvio della procedura costava al datore una somma (da versare all'INPS) pari a
6 volte il trattamento mensile di mobilità dovuto per ciascun lavoratore].
Ma dal gennaio 2017 è previsto il c.d. "ticket licenziamento" pari al 41% del massimale mensile di Naspi (indennità
mensile di disoccupazione) per ogni anno di anzianità aziendale, fino ad un massimo di tre.
Le rappresentanze sindacali, entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione del datore,
possono chiedere l'esame congiunto durante il quale può raggiungersi un accordo (che deve intervenire al
massimo entro 45 giorni). L'esame congiunto e l'accordo devono riguardare: tutte le misure utilizzabili per
evitare o contenere i licenziamenti, anche ricorrendo a misure di flessibilità interna e prevedere i criteri per
l'individuazione dei lavoratori da licenziare.
Se l'accordo non si raggiunge, ha luogo il controllo da parte degli organi amministrativi. Infatti, le parti
vengono convocate dal direttore della direzione provinciale del lavoro per un ulteriore tentativo di
raggiungere un accordo.
[N.B. Tale controllo amministrativo in realtà non aggiunge molto a quanto già fatto con la procedura sindacale].
Che vi sia o meno l'accordo, al termine di questa procedura il datore ha facoltà di licenziare, dandone
comunicazione nel rispetto dei termini di preavviso. In caso di accordo, inoltre, si parla di licenziamento
collettivo “acausale”, in quanto, il controllo giudiziale circa l'esistenza dei presupposti sostanziali del
licenziamento è escluso.
Al contrario, non è escluso il controllo giudiziale se l'accordo non è raggiunto: il singolo lavoratore può
impugnare il singolo licenziamento contestandone la fondatezza oggettiva.
Quanto ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, abbiamo già detto che questi possono essere previsti
dall'accordo sindacale; se invece non vi è l'accordo, il datore dovrà, ispirarsi a 3 criteri legali sussidiari in
concorso tra loro, licenziando prioritariamente i lavoratori: con maggiori carichi di famiglia; meno anziani;
più direttamente toccati dalle esigenze tecnico-produttive che inducono alla riduzione di personale. Nel
caso di licenziamenti di dirigenti, a questi è assicurata una tutela obbligatoria rafforzata compresa tra le 12
e le 24 mensilità.

13) La segmentazione delle tutele: vecchi/nuovi assunti; imprese minori e lavoro pubblico
Tutto quanto fin qui detto, ci fa capire che oggi vi è una moltiplicazione dei regimi sanzionatori in ragione
della dimensione dell'impresa e della data di stipula del contratto di lavoro, che ha portato a delle
segmentazioni, soprattutto con riguardo al lavoro pubblico. Infatti, ai rapporti di lavoro con le p.a. trova
sempre applicazione la tutela reintegratoria piena. Dopo dubbie interpretazioni sull’applicabilità dell’art.18

99

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

dello Statuto a seguito della riforma 2012, si trova una soluzione con il d.lgs.75/2017, che ha dettato una
diversa ed autonoma disciplina. Essa si applica a tutto il settore pubblico, a prescindere dai motivi di
illegittimità del licenziamento e dalle dimensioni dell'amministrazione, e prevede che il licenziamento
illegittimo comporti sempre la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e il riconoscimento di un
risarcimento danni rapportato alla retribuzione (per il periodo tra il licenziamento e il provvedimento del
giudice, per un massimo di 24 mensilità).
Si tratta di differenze che allontanano il settore pubblico da quello privato, differenze giustificate però dal
fatto che nel settore pubblico, all'interesse del dipendente si affianca anche l'interesse generale al
rispristino di un rapporto di lavoro cui si accede mediante concorso e dove è tutelata l'imparzialità
dell'azione amministrativa (art. 97 Cost).

14) Il regime speciale dei licenziamenti durante l’emergenza sanitaria dovuta al CoVid
Nel 2020 la disciplina dei licenziamenti ha conosciuto un regime straordinario in concomitanza con il blocco delle
attività produttive disposto dalle autorità politiche per contenere i danni dovuti all'epidemia causata da un virus
sconosciuto e, quindi, ad alta letalità (Covid-19).
In qualche modo si è riproposta una situazione simile a quella del dopoguerra in cui ci fu, come si è visto, un
divieto di licenziare. Nel 2020, anche per l'esistenza di un quadro normativo infinitamente più complesso, il
legislatore ha adottato misure riguardanti solo i licenziamenti economici. Sono rimaste dunque in piedi tutte le
regole sui licenziamenti disciplinari. Invece sono state sospese le procedure di licenziamento collettivo e di
licenziamento individuale partite dopo il 23 febbraio 2020 e sono stati vietati tutti i licenziamenti economici da
adottare tra il 17 marzo - 17 agosto 2020. Tali norme sono state prorogate, seppure con rilevantissime eccezioni
(imprese che abbiano interamente fruito di cassa integrazione guadagni o sgravi degli oneri sociali con causale
Covid; cessazione definitiva di attività; fallimento; stipulazione di accordo collettivo aziendale per risoluzione
consensuale rapporti di lavoro) e in modo assai contorto, dall'art.14 del d.l. 14 agosto 2020, n.104 fino al 31
dicembre 2020.
[N.B. L'intervento ha un'applicazione generalizzata, prescinde dalle dimensioni del datore di lavoro, lasciando fuori solo
pochi casi: dirigenti, lavoratori in prova, apprendisti, lavoratori che hanno maturato i requisiti pensionistici e lavoratori
domestici]
Un licenziamento adottato in violazione di tale divieto è da considerare radicalmente nullo, con
applicazione della tutela reintegratoria piena.

100

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 15 - Il lavoro a termine e i contratti con finalità formative

1) Evoluzione dell’istituto
Il contratto di lavoro a termine è stato al centro di continui interventi legislativi, l'ultimo è costituito dal
d.l.87/2018 (c.d. decreto dignità), anche se l'intervento di maggior ampiezza è precedente (ci riferiamo al
decreto attuativo della legge delega sul Jobs Act) che ha abrogato quasi totalmente la disciplina
precedente, ridefinendo i confini dell’istituto e i margini di utilizzo, di cui solo una parte della normativa è
stata modificata dal decreto dignità.
La ragione per la quale tale contratto è stato oggetto di numerose modifiche risiede nel suo elemento
caratteristico: l'automatismo estintivo per il quale, il rapporto di lavoro si estingue allo scadere del termine
senza che sia necessario alcun atto di volontà o motivo a tal fine, e per questo il legislatore è da sempre
intervenuto per evitare abusi o l'elusione delle norme previste a tutela del lavoratore.
[EVOLUZIONE ISTITUTO: In origine, l'art. 2097 c.c. prevedeva la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro
solo se giustificata del rapporto o se risultante da atto scritto: in mancanza di ciò scattava una presunzione di tempo
indeterminato.
La legge 230/1962 abrogò l'art. 2097 c.c. e, oltre alla necessità della forma scritta, dispose un'elencazione tassativa di
una serie di cause giustificatrici, rispondenti ad occasioni di lavoro oggettivamente temporanee, che legittimavano
l'apposizione del termine:
(le ipotesi erano: ad es., carattere stagionale dell'attività lavorativa; sostituzione di lavoratori assentì che hanno diritto
alla conservazione del posto; assunzione di personale per specifici spettacoli o programmi radiotelevisivi.) Si adottava,
dunque, una “tecnica antifraudolenta” che configurava il contratto a termine come eccezione in senso stretto rispetto
all'assunzione a tempo indeterminato e si prevedevano, altresì, diritti e tutele quali: il principio di non discriminazione
e la previsione della trasformazione in contratto a tempo indeterminato in caso di successive assunzioni a termine.
Successivamente, il d.lgs. 368/2001 (in attuazione di una direttiva CE) abroga la legge 230/1962 e prevede per la
stipula legittima di un contratto a termine la semplice sussistenza e formalizzazione per iscritto di ragioni di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo, pena la trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Fu sancito,
inoltre, che "il contratto di lavoro è stipulato di regola a tempo indeterminato" (con la conseguenza che il contratto a
termine rappresenta un'eccezione), prevedendo anche un limite temporale pari a 36 mesi di durata massima del
rapporto a termine.
Poi, alla luce dell'esigenza di flessibilizzazione del mercato del lavoro, la legge 92/2012 (riforma Fornero) semplificò il
ricorso a tale istituto, consentendo di stipulare un primo contratto a termine, di durata non superiore a 12 mesi, senza
la necessità di alcuna ragione giustificatrice. Con il d.lgs. 81/2015 (uno dei decreti attuativi del Jobs Act) tale
"acausalità" fu generalizzata nel senso che, non era più richiesta una causa che giustificasse il ricorso al contratto a
termine, ma veniva introdotta una restrizione quantitativa: si poteva ricorrere a tale istituto solo entro il limite
quantitativo stabilito dalla clausola legale c.d. di contingentamento, derogabile dalla contrattazione collettiva. Fu,
invece, confermata a 36 mesi la durata massima dei contratti a termine].

2) Le ipotesi di legittima apposizione del termine e i requisiti per la valida costituzione


del rapporto. La c.d. clausola di contingentamento
II d.lgs 81/2015 viene poi modificato dal d.l. 87/2018. Al co.1 è previsto che il termine di durata apposto
non può essere superiore 12 mesi e la durata massima di tali contratti viene ridotta a 24 mesi (non più 36),
prevista però solo per alcune condizioni: esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività,
ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei dell'attività
ordinaria, significativi e non programmabili.
Viene anche specificato che la disciplina dettata da questo decreto si applica solo ai contratti di lavoro a
tempo determinato stipulati dopo la sua entrata in vigore, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali
successivi al 31 ottobre 2018. Ciò significa che ai contratti conclusi sino a quella data continua ad applicarsi
la precedente disciplina con la possibilità di prorogarli (anche in maniera “acausale” sino a 5 volte) nonché
di rinnovarli per una durata complessiva di 36 mesi

101

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[N.B. Bisogna specificare che a causa dell’emergenza epidemiologica del CoVid-19, l’art.93 del “Decreto Rilancio”
prevede la possibilità di derogare all’obbligo dell’inserimento delle causali, qualora si intenda prorogare (superando i
12 mesi) o rinnovare, sino al 30 agosto 2020, i contratti a tempo determinato in essere al 23 febbraio 2020)].
Oggi comunque il contratto a tempo indeterminato resta la forma comune del rapporto di lavoro mentre, il
contratto a termine resta vincolato, oltre ai requisiti legali di forma “ad substantiam” (il termine deve
risultare da atto scritto, pena l'invalidità del contratto), anche a limiti di durata quantitativi: si può ricorrere
al contratto a termine entro il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato (c.d.
clausola di contingentamento già prevista dal d.lgs. 81/2015) in forza al primo gennaio dell'anno di
assunzione. Per i datori che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare il contratto a tempo
determinato. Tale limite è derogabile dalla contrattazione collettiva e in alcune ipotesi non trova
applicazione, come ad esempio: nella fase di avvio di nuove attività per periodi definiti dai contratti
collettivi, per le imprese start-up innovative, per ragioni di carattere sostitutivo, con lavoratori di età
maggiore ai 50 anni.
Spetta poi alla contrattazione collettiva definire le modalità e i contenuti delle informazioni da rendere alle
rappresentanze sindacali circa l'utilizzo del lavoro a tempo determinato.

3) Decorrenza del termine: limiti di durata, proroga del contratto e riassunzione


Quindi il legislatore fissa la durata massima del contratto a termine in 24 mesi (ricordiamo che per i
contratti a termine precedenti al 31 ottobre 2018 tale durata è di 36 mesi), esso si preoccupa anche di
disciplinare le ipotesi eventuali in cui vi sia la proroga, riassunzione o la prosecuzione di fatto del lavoro
dopo la scadenza del termine.
• Quanto alla prosecuzione di fatto, è riconosciuta la possibilità che, allo scadere del termine, vi sia
un'esigenza di continuazione dell'attività.
In tal caso, per i contratti a tempo determinato inferiori a 6 mesi è consentito che il rapporto continui per
un periodo che non può superare i 30 giorni (periodo di tolleranza); per i contratti di durata superiore ai 6
mesi, tale periodo è elevato a 50 giorni. Ad ogni modo, il datore dovrà corrispondere al lavoratore una
maggiorazione retributiva per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno
successivo, al 40% per ciascun giorno ulteriore.
• Diversa è la proroga del contratto a termine. [N.B. Prima della modifica operata dal d.l. 87/2018, il d.lgs.
81/2015 prevedeva la possibilità per il datore di prorogare il rapporto oltre la scadenza fissata a condizione che la
durata iniziale del contratto fosse inferiore a 3 anni, per un massimo di 5 volte, consensualmente e purché vi fossero
ragioni oggettive; inoltre, la proroga doveva riferirsi alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato
l'originario contratto].
Dopo le modifiche apportate nel 2018, si dispone che il contratto a tempo determinato può essere prorogato
con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a 2 anni, per un massimo
di 4 volte nell'arco di 24 mesi a prescindere dal numero di contratti. Viene anche previsto che, nei primi 12 mesi
il contratto può essere liberamente prorogato, mentre successivamente sono richieste le condizioni che
abbiamo elencato sopra che legittimano la stipula di contratti a termine di durata superiore a 12 mesi.
[N.B. Ovviamente, come già detto, a causa dell’emergenza legata al CoVid-19, tale normativa è stata parzialmente derogata].
• Per la riassunzione del lavoratore (che si distingue dalla proroga perché quest'ultima comporta
l'allungamento del rapporto in atto, la riassunzione presuppone l'avvenuta estinzione del rapporto a
termine precedente) sono previsti dei limiti.
Prima di procedere alla nuova assunzione è necessario che intercorrano 10 giorni se il contratto a termine
non superi i 6 mesi, 20 giorni se invece il contratto superi i 6 mesi. Tale limite, oltre a poter essere derogato
dalla contrattazione collettiva, può essere superato stipulando un ulteriore contratto a tempo determinato
tra gli stessi soggetti, della durata massima di 12 mesi, presso la Direzione territoriale del lavoro
competente per territorio (DTL). Ad ogni modo, tale limite non trova applicazione: per le assunzioni
stagionali e per le assunzioni a termine effettuate dalle imprese start-up per i primi 4 anni della loro
costituzione, nonché, per tutte le ipotesi in cui la contrattazione collettiva lo disponga.

102

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

4) Divieti di assunzione a termine


Passiamo ora ai divieti di assunzione a termine (ex art. 20 d.lgs. 81/2015). Invero, in alcuni casi il legislatore
vieta l'assunzione con contratto a tempo determinato ritenendo prevalente determinati diritti ed interessi
rispetto all'apposizione del termine. Dunque, l'assunzione a tempo determinato non è ammessa quando:
- attraverso essa si miri alla sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero (in tal caso si vuole
evitare che si vanifichi lo scopo dell'esercizio di questo diritto);
- qualora le imprese non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa della
tutela e della sicurezza dei lavoratori (si vuole cosi incentivare la sicurezza sui luoghi di lavoro);
- presso unità produttive nelle quali si è proceduto, nei 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che
hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a termine (in tali casi
infatti, se l'impresa ha avuto l'esigenza di ridurre il personale appare contraddittoria la necessità di
assumere nuovi lavoratori).
[N.B. L’emergenza pandemica ha imposto una tregua e quindi un allentamento temporaneo di tale regola, concedendo la
possibilità di prorogare e rinnovare i contratti a tempo determinato, nel momento in cui l’azienda ha in atto una
sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni].

5) I diritti dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato: in particolare il


diritto di precedenza
Il legislatore si è anche preoccupato di garantire una serie di diritti ai lavoratori assunti a termine.
Ad essi si applica il trattamento economico e normativo in atto nell'impresa per i lavoratori a tempo
indeterminato comparabili, in quanto compatibili (sono comparabili i lavoratori inquadrati nello stesso
livello): sussistono, dunque, i principi di non discriminazione e di uniformità di trattamento economico e
normativo tra tutti i lavoratori, a prescindere dal tipo di contratto. É anche previsto un c.d. diritto di
precedenza, garantito sia nei confronti di coloro che esercitano attività stagionali, nel caso di successive
assunzioni a termine per le stesse attività, sia nei confronti dei lavoratori a tempo determinato in caso di
assunzioni con contratti a tempo indeterminato per le mansioni già espletate, quando essi abbiano prestato
attività lavorativa per più di 6 mesi. Tale diritto deve essere espressamente richiamato nell'atto scritto ed è
riconosciuto solo laddove il lavoratore, entro 3 e 6 mesi dalla cessazione del rapporto, manifesti la volontà
di goderne. Il diritto si estingue entro un anno dalla scadenza del contratto.
[N.B. Per le lavoratrici madri, il congedo di maternità fruito durante il contratto a termine presso lo stesso datore,
concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza. Anche per tale
materia, la contrattazione collettiva può intervenire per integrare e puntualizzare i margini di tale diritto].

6) Violazioni delle norme sul contratto a tempo determinato, sanzioni e rimedi


Laddove il datore violi la disciplina inerente i contratti a tempo determinato, sono previste delle sanzioni.
In primo luogo, vi è la trasformazione legale del rapporto in contratto a tempo indeterminato:
- se viene violata la forma scritta ad substantiam (ai fini della validità del contratto);
- quando, superati i 12 mesi non si è in presenza di una delle ipotesi che ne legittimano la proroga o la
riassunzione;
- nelle ipotesi di superamento del limite massimo del termine di 24 mesi (il contratto si trasforma dopo la
scadenza);
- nel caso della riassunzione non si rispetta la procedura di stipula presso la direzione territoriale del lavoro;
- oppure si supera il termine apposto nel contratto o se vengono violati i divieti di assunzione a termine;
- e altre ipotesi…
In tutte queste ipotesi di trasformazione, il giudice condanna anche il datore al risarcimento del danno a
favore del lavoratore: si tratta di un'indennità (nella misura compresa tar un minimo di 2,5 e un massimo di
12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento) che ristora il lavoratore anche di tutte le conseguenze
retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con cui il
giudice ordina la ricostituzione del rapporto.
103

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Inoltre, è prevista anche una responsabilità amministrativa: se il datore supera il limite previsto dalle c.d.
clausole di contingentamento, è tenuto a pagare una sanzione amministrativa per ciascun lavoratore pari al
20% della retribuzione, se il numero di lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non è
superiore a 1; se, invece, tale numero è superiore a 1, l'importo da pagare sarà pari al 50% della
retribuzione (in tal caso è esclusa la sanzione della trasformazione a tempo indeterminato). La sanzione
amministrativa è prevista anche se il datore non osserva obblighi di parità di trattamento tra i lavoratori a
termine e quelli a tempo indeterminato.
Ad ogni modo, i vari vizi imputabili alla stipula del contratto a termine devono essere fatti valere dal
lavoratore, che è tenuto ad impugnare la nullità del termine e la violazione delle norme previste sul
rapporto di lavoro a tempo determinato, entro 180 giorni dalla scadenza del contratto e, nei successivi 180
giorni, deve depositare l'eventuale ricorso giudiziale o comunicare alla controparte la richiesta di tentativo
di conciliazione o arbitrato.

7) Discipline speciali
Sono poi previste discipline speciali per determinati lavoratori. Infatti, sono esclusi dall'ambito di
applicabilità della disciplina del contratto a tempo determinato (in quanto già regolamentati da norme
speciali):
i rapporti di lavoro stipulati con lavoratori in mobilità; quelli tra datori dell'agricoltura e gli operai a tempo
determinato; i richiami in servizio del personale volontario del corpo nazionale dei vigili del fuoco; contratti
a tempo determinato stipulati con il personale docente ed ATA (per le supplenze) e con il personale
sanitario del Servizio sanitario nazionale.
Circa i contratti di lavoro a tempo determinato riguardanti i dirigenti ed i lavoratori della pubblica
amministrazione, la disciplina speciale (d.lgs. 165/2001) applicabile prevede che: quanto ai contratti a
termine con i dirigenti, non possono avere durata superiore a 5 anni, salvo il diritto del dirigente di recedere
trascorsi 3 anni; è previsto che le pubbliche amministrazioni possano ricorrere a contratti a termine
esclusivamente per rispondere ad esigenze temporanee o eccezionali. I contratti illegittimi sono nulli, ma
non è prevista la sanzione della trasformazione legale, però sussiste la sanzione del risarcimento del danno
da parte dei dirigenti per i lavoratori illegittimamente assunti.
[N.B. ricordiamo, non vi è la sanzione della trasformazione in quanto le assunzioni nel pubblico impiego devono
avvenire esclusivamente mediante concorso ex art. 97 Cost.)
La Corte di giustizia europea è intervenuta nel 2018 legittimando la non applicazione al lavoro pubblico della sanzione
della trasformazione del contratto prevista per il lavoro privato, pur sottolineando la necessità di prevedere effettive
misure volte a prevenire e punire eventuali usi abusi del contratto a tempo determinato.
Si è ritenuto che la normativa nazionale prevede altre misure destinate a prevenire e sanzionare il ricorso abusivo a
contratti a tempo determinato: difatti, il d.lgs. 165/2001 dispone che le amministrazioni sono tenute a recuperare, nei
confronti dei dirigenti responsabili, le somme pagate ai lavoratori a titolo di risarcimento del danno nel caso di
violazioni dovute a dolo o colpa grave; oppure, lo stesso decreto prevede che le amministrazioni che abbiano violato
le norme sul reclutamento, non possono procedere ad assunzioni peri successivi 3 anni].

8) L’apprendistato e il contratto di formazione e lavoro. Dal Testo Unico del 2011 al Jobs Act
Passiamo ora ad analizzare l'apprendistato che è un contratto mirato a consentire l'apprendimento di un
mestiere.
Esso riceveva una regolamentazione già nel codice civile del 1942, agli artt.2130 ss : all'apprendista il
codice riconosce una retribuzione, il diritto all'istruzione professionale, un attestato del tirocinio compiuto,
nonché l'applicazione di tutte le norme sul contratto di lavoro compatibili con la specialità del rapporto e
non derogate da leggi speciali.
La dottrina e la giurisprudenza hanno definito l'apprendistato come un contratto a causa mista, dal
momento che lo scambio contrattuale non si esaurisce nell'erogazione di lavori in cambio di una
retribuzione, ma vi è anche un obbligo, che grava anzitutto sul datore, di formare o far formare il
lavoratore: è proprio questo che giustifica la riduzione del costo dell'apprendista (in termini di oneri sociali
104

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

e retributivi). Se da un lato, l'apprendistato rappresenta uno strumento prezioso per formare i lavoratori
(soprattutto giovani), è anche vero che questo potrebbe diventare anche uno strumento utilizzato dai
datori per risparmiare sul costo del lavoro. Per conciliare questi due aspetti, il contratto di apprendistato è
stato regolato attraverso una specifica disciplina dettata dalla legge 25/1955.
In primis, fu prevista l'età degli apprendisti che doveva essere compresa tra i 15 ed i 21 anni; fu sancita la
durata massima del contratto di apprendistato (ossia 5 anni); e norme furono dettate anche circa le
autorizzazioni ed i controlli da parte delle amministrazioni pubbliche. Questa legislazione, però, non fu in
grado di impedire che l'apprendistato divenisse uno strumento di legittimazione formale dello
sfruttamento del lavoro giovanile.

Così negli anni ‘80 il contratto di apprendistato lasciò spazio a nuovi tipi contrattuali, come il contratto di
formazione lavoro (CFL), istituito con una legge speciale del 1977 e poi perfezionato nel 1984. Tale
contratto è durato una ventina di anni, per poi essere affossato dalla normativa comunitaria.

Nel 1997 fu nuovamente valorizzato l'apprendistato, che venne rilanciato con la riforma Biagi realizzata
con il d.lgs. 276/2001, e vennero introdotti due tipi di contratto:
- il primo rivolto a consentire l'acquisizione di una formazione professionale negli ultimi anni del percorso
scolastico, destinato ai giovani di età compresa fra i 15 e i 18 anni;
- il secondo diretto a consentire un intreccio tra alta formazione post-scolare ed esperienza lavorativa,
utilizzabile anche fino ai 29 anni.
Il decollo di questi nuovi contratti di apprendistato dovette fare i conti però con la riforma del Titolo V della
nostra Costituzione che, a seguito della modifica dell'art.117 Cost, aveva determinato confusione su quali
fossero le competenze dello Stato e quali quelle delle Regioni in materia di lavoro e formazione
professionale.
Fu fatta chiarezza con due sentenze della Corte Costituzionale, con cui fu disposto che:
- il legislatore statale ha competenza esclusiva in materia di regolazione degli istituti del contratto di
apprendistato;
- la legge regionale può intervenire al fine di regolare la formazione professionale extra-aziendale;
- la contrattazione collettiva interviene negli ambiti ad essa riconosciuti dal legislatore statale e non può
essere compressa dalle legislazioni regionali;
- l'attività in materia deve ispirarsi al principio della leale collaborazione tra tutti i soggetti pubblici e le
parti sociali.
Il T.U. 167/2011 ha attribuito notevole rilevanza alla contrattazione collettiva, a cui è rimessa la disciplina
del contratto nel rispetto dei principi indicati dallo stesso T.U. e, per incrementare l'utilizzo
dell'apprendistato come importante strumento per l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ne
incrementò il numero (3 ogni 2 lavoratori qualificati o specializzati). Infine, il d.lgs. 81/2015 ha poi previsto
3 tipologie di contratto di apprendistato:
• l'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e
il certificato di specializzazione tecnica superiore, destinato ai giovani tra i 15 e i 25 anni privi di qualifica che
vogliano acquisirla: per essi la formazione deve avere durata di 400 ore, integrabile da una formazione
aziendale;
• l'apprendistato professionalizzante, destinato ai giovani tra i 18 e i 29 anni che vogliano acquisire una
qualifica contrattuale (cioè un titolo non rilasciato dal sistema educativo, ma connesso all'inquadramento
previsto dalla contrattazione collettiva): in tal caso la formazione può arrivare a 120 ore nel triennio;
• l'apprendistato di alta formazione e di ricerca, destinato ai giovani tra i 18 e i 29 anni, coniugabile con i
percorsi di diploma di scuola superiore, la laurea, il dottorato di ricerca, il praticantato professionale: tale
apprendistato può essere attivato a seguito di convenzioni tra datori e istituzioni educative e la formazione
è regolata dal sistema pubblico.

105

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Per tutti e 3 i tipi di apprendistato è prevista la forma scritta “ad probationem” (ossia ai fini della validità
del contratto) con la previsione di un sintetico piano formativo individuale, l'indicazione di un tutor e della
qualifica da conseguire al termine del rapporto e la previsione di ina durata del contratto non inferiore a 6
mesi.
La disciplina oggi vigente, inoltre, conferma la configurazione dell'apprendistato come contratto a tempo
indeterminato, con limitata licenziabilità nel suo svolgimento, ma con libera recedibilità alla scadenza del
periodo in apprendistato (se alla scadenza di tale periodo nessuna delle 2 parti recede, il contratto di
apprendistato si converte in un contratto a tempo indeterminato standard).
[N.B. Si noti che, come per il contratto a tempo determinato, anche per l’apprendistato l’emergenza epidemiologica
ha reso necessaria la proroga del termine di una durata pari al periodo di sospensione dell’attività lavorativa].
Se lo prevedono i contatti collettivi, l'apprendista può essere retribuito in una misura percentuale, e in
modo graduato all'anzianità di servizio, rispetto alla retribuzione spettante al lavoratore del corrispondente
inquadramento professionale. La riforma del 2015 ha però escluso l’obbligo retributivo a carico del datore
nel caso di contratto di apprendistato del terzo tipo (di alta formazione e di ricerca), mentre per il contratto
per la qualifica e il diploma professionale, il datore dovrà corrispondere una retribuzione pari al 10% di
quella ordinaria. Sono, inoltre, previste riduzioni degli oneri previdenziali (10% della retribuzione dovuta).
Quanto alle sanzioni previste in caso di violazione della disciplina in esame, il d.lgs. 81/2015 impone al
datore l'obbligo di integrare la contribuzione versata con riferimento alla qualifica da acquisire, maggiorata
del 100%.
[N.B. Non è chiaro se come sanzione sia anche prevista la trasformazione del rapporto in contratto a tempo
indeterminato, ma dovrebbe propendersi in tal senso: nella realtà, a seguito dell'intervento degli ispettori del lavoro,
viene dato al datore un congruo termine per adempiere agli obblighi previsti dal piano formativo, se persiste
nell’inadempimento, appare inevitabile la conversione in un normale contratto di lavoro attesa la differenza esistente
tra il contratto dichiarato e quello effettivamente eseguito].

106

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 16 - Lavoro esternalizzato, articolazioni dell’impresa e codatorialità

1) Lavoro esternalizzato e articolazione dell’attività d’impresa: dal divieto di


interposizione alla legittima codatorialità
L’osservazione di vari fenomeni economici consente di cogliere una tendenza delle imprese a modulare
l’acquisizione della manodopera necessaria al funzionamento delle proprie organizzazioni secondo schemi
di convenienza, finalizzati soprattutto ad ottimizzare o ridurre i costi di produzione.
Molto spesso accade che le imprese beneficino di manodopera assunta da altri o, comunque, posta
all'esterno dell'impresa, determinando un aumento dei profitti ed una riduzione dei costi, ciò però a
scapito delle normative poste a tutela del lavoro (o perché queste vengono raggirate, o perché vengono
applicate fraudolentemente).
Sono 3 le ipotesi attraverso cui le imprese operano questa "frammentazione" delle fasi di utilizzo della
manodopera:
- decentrando alcune attività del loro ciclo produttivo attraverso l'affidamento a soggetti terzi;
- impiegando indirettamente manodopera, attraverso un soggetto c.d. interposto, che formalmente
assume la funzione di datore in quanto si fa carico dell'assunzione dei lavoratori;
- diversificando e distribuendo le attività produttive tra più soggetti economici, secondo gli schemi di
collegamento e controllo societario tipici dei gruppi di imprese.
Il diritto del lavoro si prefigge di contenere tale fenomeno. In passato, il legislatore con la legge 1369/1960
introdusse un divieto generale ed assoluto di interposizione nel rapporto di lavoro, in virtù del quale
venivano considerate “nulle” tutte le intese o pratiche economiche aventi ad oggetto, esclusivo o
prevalente, la mera fornitura di manodopera (definite “appalto di manodopera” o “appalto di mere
prestazioni di lavoro”): in pratica, era fatto divieto agli imprenditori di utilizzare personale assunto da
soggetti terzi (si colpiva l'utilizzo indiretto di manodopera).
Dunque, la regola legale (non derogabile) era quella della necessaria coincidenza tra titolare del contratto
di lavoro, creditore delle opere e beneficiario delle stesse. Infatti, secondo tale legge, nel caso in cui vi fosse
un'interposizione (ossia quando la manodopera era assunta da un soggetto terzo/interposto), il rapporto
veniva comunque imputato al soggetto (interponente) che ne avesse utilizzato le prestazioni e che per
questo diventava l’effettivo datore di lavoro. Inoltre, dato che nella realtà la pratica interpositoria può
agevolmente confondersi dietro lo schema di un appalto vero e proprio (rendendo molto sottile la
distinzione tra il personale dell'appaltante e quello dell'appaltatore), tale legge prevedeva a tutela dei
lavoratori una speciale forma di solidarietà tra questi 2 soggetti (appaltante e appaltatore) per i crediti di
lavoro, nonché l'obbligo di un trattamento equivalente tra i lavoratori dell'appaltante e quelli
dell'appaltatore.
Come vedremo, questo sistema verrà integralmente superato mediante le modifiche apportate dalla
riforma Biagi (d.lgs.276/2003) che riscriverà interamente l’insieme della fattispecie interpositorie.

2) Il lavoro a domicilio: uno strumento antico e tradizionale di decentramento produttivo


La prassi più antica di esternalizzazione è il lavoro a domicilio in cui, il datore affida ad un collaboratore
posto all'esterno dei luoghi di lavoro la realizzazione di prodotti ovvero lo svolgimento di attività pertinenti
e connesse alla propria attività d'impresa. Tale rapporto di lavoro si inquadra nella categoria della
specialità, nel senso che ad esso si applicano le norme del codice civile "in quanto compatibili con la
specialità del rapporto": in pratica, deve tenersi conto della specificità e delle peculiarità dell'esecuzione
della prestazione lavorativa tipiche del rapporto di lavoro a domicilio. Ciò è chiarito con la legge 877/1973,
in cui si specifica che la subordinazione del lavoratore a domicilio ricorre quando quest'ultimo “è tenuto ad
osservare le direttive dell'imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del
lavoro da svolgere nell'esecuzione parziale, nel completamento o nell'intera lavorazione di prodotti oggetto
dell'attività dell'imprenditore committente” (con precisione, l'art.1 legge 877/1973 dà questa seguente

107

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

definizione: "è lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in
locale di cui abbia disponibilità, anche con l'aiuto accessorio di membri della sua famiglia, ma con esclusione di
manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie
prime o accessorie e attrezzature proprie e dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi. ").
Viceversa, non si rientra in tale fattispecie lavorativa qualora la prestazione di lavoro è svolta pur sempre
all'esterno, ma in locali di pertinenza del committente (nel qual caso il lavoratore a domicilio sarà
considerato a tutti gli effetti dipendente dell'impresa committente).
Dunque, al lavoro a domicilio non si applicano tutte le norme previste per il lavoro subordinato, ma al
contrario, attenuandosi i poteri datoriali, si attenuano anche le relative responsabilità: in tema di sicurezza
è annullato il potere/onere di vigilanza; in tema retribuzione questa viene erogata secondo la tecnica del
cottimo e quindi in relazione ai risultati e alla produttività del lavoratore; altresì, i lavoratori a domicilio non
si conteggiano ai fini della valutazione della dimensione aziendale.
Perciò, il legislatore fissa una serie di regole tese a ridurre i rischi di un ricorso eccessivo a tale forma di
lavoro (che deresponsabilizza il datore): si parla a tal proposito di “normativa antifraudolenta”.
Ad esempio: non possono affidarsi a domicilio lavorazioni che comportino l'utilizzo di sostanze o materiali nocivi o
pericolosi per la salute o l'incolumità del lavoratore e dei suoi familiari; vi è divieto di ricorrere a tale rapporto di
lavoro, per le aziende che hanno attivato procedure di licenziamento o di sospensione del rapporto; altresì, è fatto
obbligo al datore di rendicontazione e di pubblicità inerenti il numero dei lavoratori a domicilio impiegati e i termini
del loro utilizzo.

3) L’evoluzione: il telelavoro, lo smartworking e la diffusione delle piattaforme digitali


Oggigiorno, il rapporto di lavoro a domicilio conserva una certa rilevanza, ma v'è da dire che il progresso
delle tecnologie informatiche ha fatto in modo che si concentrino all'esterno dell'azienda attività di lavoro
contraddistinte dal ricorso a strumenti digitali e telematici. In tal caso si parla di telelavoro, per intendere
quelle collaborazioni che, pur svolgendosi in locali esterni all'azienda (domicilio del collaboratore ma non solo:
quindi lo schema del telelavoro non sempre si identifica in quello del lavoro a domicilio), sono direttamente
connesse ad essa, e con essa si integrano attraverso supporti tecnologici di natura informatica.
[N.B. Tale fattispecie di lavoro si distingue dal lavoro agile (c.d. smartworking), che ricordiamo si caratterizza per
essere una modalità di esecuzione del lavoro mediante accordo tra le parti, senza necessariamente precisi vincoli di
orario o di luogo di lavoro e con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici: diciamo che a differenza del lavoro agile, il
telelavoro dà luogo ad un'esecuzione della prestazione più stabilmente collocata al di fuori della sede fisica
dell'azienda.
La sovrapposizione, e tendenziale confusione, è sorta in corrispondenza del lockdown legato all’emergenza epidemica. In questo
periodo si è definito come “smartwork” ciò che spesso non è stato altro che “telelavoro domiciliare coatto”].
Non esiste una disciplina organica per questa forma di collaborazione, ma qualche aspetto interessante lo
rinveniamo per il solo lavoro pubblico: in tale settore è, infatti, prevista la possibilità di avviare
collaborazioni in telelavoro su base volontaria (legge 191/1998) ed è anche fornita la definizione di
telelavoro, vale a dire: “quella prestazione di lavoro eseguita in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al
di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di
tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l'amministrazione
cui la prestazione stessa inerisce".
Nel settore privato, invece, troviamo riferimenti sparsi al telelavoro: esempio, la legge 183/2011 che
qualifica il telelavoro come uno strumento utile a conciliare i tempi di vita e di lavoro, nonché a incentivare
l'impiego di soggetti con disabilità; ancora, il d.lgs. 80/2015 che consente ai datori che ricorrono al
telelavoro di escludere tali lavoratori dal computo dei limiti numerici previsti dalla legge e contratti
collettivi per l'applicazione di particolati norme ed istituti. [N.B. Oggi, inoltre, vi è la diffusione del lavoro
intermediario attraverso le c.d. piattaforme digitali (es. Amazon, Uber). In pratica attraverso un sistema informatico
integrato, gli utenti sono messi in contatto con gli operatori economici per ottenere servizi resi da loro collaboratori
collegati, in tempo reale, con l'operatore stesso. Inoltre, come già visto in precedenza, il legislatore nel 2019 ha
previsto una disciplina basilare per i collaboratori delle piattaforme: ma i possibili eccessi interpositori, legati a questa
modalità di impiego della manodopera, non sono ancora adeguatamente considerati].

108

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

4) La somministrazione di lavoro
Analizziamo adesso il contratto di somministrazione di lavoro oggetto di un sostanziale riordino
operato dal decreto 81/2015 e dal decreto dignità 87/2018. Esso è definito come "il contratto, a tempo
indeterminato o determinato, con il quale un’Agenzia di somministrazione autorizzata ai sensi della legge
276/2003 mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la
durata del lavoro svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo
dell'utilizzatore". In pratica, vi sono apposite Agenzie il cui servizio consiste nell'assumere i lavoratori per
poi metterli a disposizione dei propri clienti/utilizzatori.
[N.B. L'istituto della somministrazione trova un precedente nella legge 276/2003, che introdusse la fornitura di lavoro
temporaneo: tale legge prevedeva alcune ipotesi tassative (previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva), in cui le
imprese potevano ricorrere a società specializzate, ma solo per fronteggiare esigenze temporanee. In un certo senso, in tal
modo si aggirava il divieto di interposizione (spiegato all'inizio), anche se l'istituto della fornitura di lavoro temporaneo si
poneva come unica eccezionale deroga a tale divieto, ragion per cui il suo utilizzo risultava molto circoscritto].
Oggi il nostro ordinamento dedica un'attenzione particolare alla somministrazione di lavoro. In primis, le
Agenzie di somministrazione sono società che possono operare nel campo della somministrazione solo
dietro apposita autorizzazione, rilasciata in presenza di particolari requisiti organizzativi e patrimoniali.
La somministrazione è contraddistinta dal fatto che abbiamo 2 contratti:
- un contratto commerciale tra Agenzia di somministrazione e utilizzatore (appunto detto di
somministrazione di lavoro) può essere concluso sia a tempo indeterminato che determinato, deve
essere stipulato in forma scritta (altrimenti è nullo ed i lavoratori si considerano a tutti gli effetti alle
dipendenze dell'utilizzatore) e contenere tali elementi: gli estremi dell'autorizzazione rilasciata
all'Agenzia; il numero dei lavoratori da somministrare; la data di inizio e la durata prevista del contratto;
le mansioni e l'inquadramento del lavoratore; luogo, orario e trattamento economico/normativo delle
prestazioni; indicazione di eventuali rischi per la salute e sicurezza e le misure da adottare.

Inoltre, l’utilizzatore assume l’obbligo di comunicare al somministratore il trattamento economico e


normativo applicabile ai suoi lavoratori dipendenti che svolgono le stesse mansioni dei lavoratori da
somministrare e si obbliga di rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da
quest’ultimo sostenuti.
- Quanto al contratto di lavoro tra Agenzia e lavoratore, anche questo può essere sia a tempo
indeterminato che a tempo determinato. Nel primo caso, si applica la disciplina generale dei rapporti di
lavoro a tempo indeterminato; nel secondo caso, invece, si applica la disciplina del contratto a termine
(Capo III del d.lgs. 81/2015).
Sono escluse le norme sui termini di riassunzione, nonché quelle in tema di numero complessivo di contratti
a termine e di diritti di precedenza.
II d.lgs. 81/2015 sancisce una serie di limiti applicativi. Per il contratto di somministrazione a tempo
indeterminato, il numero dei lavoratori somministrati non può eccedere il 20% del numero di lavoratori a
tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al primo gennaio dell'anno di stipula del contratto. Per il
contratto di somministrazione a tempo determinato, salva diversa previsione dei contratti collettivi, il
numero di lavoratori assunti con contratto di somministrazione a tempo determinato non può eccedere
complessivamente il 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al
primo gennaio dell'anno di stipula di tali contratti
[N.B. limite escluso se i lavoratori somministrati sono: in mobilità; disoccupati da almeno 6 mesi e che godono di
trattamenti di disoccupazione; svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi del regolamento UE 651/2014].

In merito, ci si chiede se debba esserci perfetta coincidenza tra il contratto di tipo commerciale stipulato
tra l'Agenzia e l'utilizzatore e il contratto di lavoro concluso tra l'Agenzia e il lavoratore (ossia nel caso in cui
il primo è a tempo indeterminato ci si chiede se anche il secondo debba essere allo stesso modo a tempo
indeterminato o se, al contrario possa essere anche a tempo determinato). [N.B. In passato, visto che in
proposito la legge nulla dice, si riteneva che non fosse necessaria la perfetta coincidenza fra i due contratti: dunque,

109

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

ad un contratto di somministrazione a tempo indeterminato stipulato fra l'Agenzia e l'utilizzatore, poteva


corrispondere poi un contratto di lavoro a tempo determinato tra l'Agenzia e il lavoratore].
Oggi, invece, il d.lgs. 81/2015 stabilisce chiaramente che "possono essere somministrati a tempo
indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato"  è chiesta
dunque la perfetta coincidenza fra due contratti.
La legge prevede poi una serie di divieti di ricorrere al contratto di somministrazione di lavoro quando
questo si pone in contrasto con diritti fondamentali dei lavoratori: ad esempio, non vi si può ricorrere per
sostituire lavoratori in sciopero; oppure, non può essere utilizzato dalle imprese che non hanno effettuato
la valutazione dei rischi prescritta dalla legge in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro; ancora,
non può essere impiegato (stavolta tale divieto può essere superato da un accordo sindacale) in unità
produttive nelle quali si è proceduto nei 6 mesi prima a licenziamenti collettivi o sia operante una
sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario.
In generale, si nota che il tratto che caratterizza la somministrazione è la dissociazione soggettiva della
figura del datore:
- da un lato il somministratore (l'Agenzia), titolare del contratto di lavoro e dei principali obblighi, che
ovviamente percepisce un profitto per l'attività svolta;
- dall'altro l'utilizzatore, nel cui interesse i lavoratori svolgono la propria attività, sottoponendosi ai suoi
poteri di direzione e di controllo. Il d.lgs. 81/2015 prevede però il principio generale di responsabilità civile
per il quale, l'utilizzatore risponde nei confronti di terzi dei danni a essi arrecati dal lavoratore nello
svolgimento delle sue mansioni: (l'utilizzatore viene così responsabilizzato per l'impiego dei lavoratori in
somministrazione).
Molti studiosi definiscono tale situazione col termine codatorialità.

Quanto alle tutele assicurate al lavoratore, in primis è garantita la parità di trattamento secondo cui, i
lavoratori del somministratore (Agenzia) hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche
e normative pari a quelle dei dipendenti di pari livello dell'utilizzatore. A ciò si aggiunge, che l'utilizzatore è
obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e a versare i
relativi contributi previdenziali. Nonché, ai lavoratori delle società di somministrazione si applicano i diritti
sindacali sanciti dallo Statuto dei lavoratori.
Vi sono poi norme che garantiscono il rispetto degli obblighi in materia di sicurezza e salute sui luoghi di
lavoro, con adempimenti suddivisi tra somministratore e utilizzatore. Altresì, se l'utilizzatore adibisce il
lavoratore a mansioni superiori rispetto a quelle indicate nel contratto, deve comunicarlo per iscritto al
somministratore. Inoltre, al fine di favorire la stabilizzazione della condizione lavorativa dei lavoratori
somministrati, questi devono essere informati dall'utilizzatore (attraverso avvisi affissi nei locali aziendali)
dei posti vacanti in azienda affinché, al pari dei dipendenti dello stesso utilizzatore, possano aspirare a
ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato.
Quanto alle sanzioni previste a presidio di tali regole, nel caso di somministrazione irregolare (violazione
dei divieti o degli elementi essenziali del contratto) il lavoratore può chiedere (mediante ricorso giudiziale)
la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore (quest'ultimo diventa dunque
l'effettivo datore): in tal caso, al lavoratore spetta anche un indennizzo a titolo di risarcimento del danno
(tra un mino di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità riferite all'ultima retribuzione). Inoltre, tali violazioni sono
punite anche con la sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1250 euro.
[N.B. Nel 2018 è stara reintrodotta l'ipotesi della somministrazione fraudolenta: si tratta di condotte poste in essere
con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore].

5) Le tutele del lavoro negli appalti


Il legislatore ha rivisto anche la disciplina degli appalti. In primo luogo, bisogna individuare la differenza tra
appalto e somministrazione: secondo la legge 276/2003, il contratto di appalto (disciplinato dall'art.1655
c.c.) si distingue dalla somministrazione per l'organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore,

110

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

che può anche risultare dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori
utilizzati nell'appalto, nonché per l'assunzione da parte dello stesso appaltatore del rischio d'impresa
(nell'appalto i poteri di direzione spettano all'appaltatore, nella somministrazione spettano
all'utilizzatore/committente e non al somministratore).
Nell'appalto vige anche la regola della solidarietà: il committente è obbligato in solido con l'appaltatore a
corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e previdenziali.
Tale garanzia di solidarietà si applica anche ai rapporti di subfornitura (ciò a seguito di una pronuncia della
Corte Costituzionale del 2017) ossia, “ai contratti con cui un imprenditore si impegna a effettuare per conto di
un'impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o si impegna a fornire all'impresa prodotti o servizi
destinati ad essere utilizzati nell'ambito dell'attività economica del committente”.
La subfornitura può essere considerata come un “sottotipo” di contratto di appalto, motivo per il quale
anche in tal caso vi sono esigenze di tutela, ciò al fine di evitare che la dissociazione fra titolarità del
contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vada a danno dei lavoratori.
Viceversa, le disposizioni previste per il contratto di appalto non si applicano ai contratti di appalto stipulati
dalle pubbliche amministrazioni dove si prevedono altre tutele e garanzie (vedremo nel paragrafo 8).
Quando il contratto di appalto non possiede le condizioni dette sopra (ossia l'appaltatore non esercita il
potere organizzativo e direttivo o non si assume il rischio d'impresa), il lavoratore può chiedere, con ricorso
giudiziale, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la
prestazione (si instaura un rapporto di lavoro tra il lavoratore e chi in effetti ha utilizzato la sua prestazione
lavorativa, ossia il committente).
Inoltre, al fine del calcolo delle indennità, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze
dell’impresa subentrante nell’appalto, si computa tenendo conto dell’intero periodo durante il quale questi
è stato impiegato nell’attività appaltata.
[N.B. ciò vale ad evitare la possibile limitazione fraudolenta della tutela attraverso successivi subentri di ditte
appaltatrici della stessa attività, che comporterebbero una diminuzione dell’anzianità del lavoratore, con una
corrispondente diminuzione dell’indennità o del rapporto di conciliazione. Ciò è stato poi confermato dalla legge
comunitaria 122/2016: “l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo
appaltatore dotato di una propria struttura organizzativa ed operativa, ove siano presenti elementi di discontinuità,
non costituisce trasferimento d'azienda o di una sua parte”].

6) Distacco, gruppi e reti di imprese


Analizziamo ora l'istituto del distacco, regolamentato dal d.lgs. 276/2003 (riforma Biagi). Esso si configura
quando un datore, per soddisfare un proprio interesse, pone (temporaneamente) uno o più lavoratori a
disposizione di un altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa. Anche l'Unione
Europea si occupa di tale istituto: vi sono direttive, infatti, che prevedono obblighi inerenti la tutela della
sicurezza e della salute dei lavoratori.
L'area di maggior utilizzo di questo schema negoziale è quello dei gruppi di società collegate.
Aspetto fondamentale di questa fattispecie è la presenza di un interesse lecito del datore di spostare il
lavoratore presso un altro imprenditore: deve trattarsi di un interesse produttivo, ossia volto ad utilizzare la
manodopera in un contesto che consente un'esecuzione della prestazione lavorativa pur sempre utile al
datore originario, interesse che dunque non può coincidere con la mera somministrazione di lavoro altrui
(cioè il datore opera il distacco in virtù di un suo interesse produttivo).
[N.B. Il che, ovviamente, non vale a negare o escludere la possibile sussistenza di un interesse al distacco anche in
capo all'impresa ospitante (il distaccatane) così come una condivisione di interessi tra distaccante e distaccatario.
In particolare, proprio quest'ultima circostanza assume addirittura oggi una sua specifica e aperta rilevanza normativa,
nell'ipotesi di distacco tra imprese unite da un contratto di rete ai sensi del d.l. 10 febbraio 2009, convertito in legge.
Difatti, in tal caso, «l'interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell'operare della rete»: così
dispone il co.4-ter art.30, d.lgs. 276/2003.
Vi è poi l'ipotesi degli accordi sindacali finalizzati a salvaguardare i livelli occupazionali nel contesto di procedure di
licenziamenti collettivi; in questo caso il legislatore estende i margini della nozione di interesse evidentemente in
funzione del perseguimento di una finalità di ordine vo più ampio.
111

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Questa prospettiva sembra caratterizzare anche una recente normativa che, inserendosi nel solco delle disposizioni
emergenziali pandemia da CoVid-19, dispone in merito al contratto di rete.
In particolare, l’art.43 d.l. 34/2020 integra la disciplina delle reti, prevedendo la possibilità di stipulare, per tutto il
2020, un contratto di rete con causale di solidarietà, per favorire il mantenimento dei livelli occupazionali delle
imprese appartenenti alle filiere che si sono trovate in particolare difficoltà economica a causa dello stato di crisi o di
emergenza. Quindi, le imprese che stipulano il contratto di rete per lo svolgimento di prestazioni lavorative presso le
partecipanti potranno ricorrere agli istituti del distacco e della codatorialità, per perseguire le seguenti finalità:
a) impiego di lavoratori delle imprese partecipanti alla rete che sono a rischio di perdita del posto di lavoro;
b) inserimento di persone che hanno perso il posto di lavoro per chiusura di attività o per crisi di impresa
c) assunzione di figure professionali necessarie a rilanciare le attività produttive nella fase di uscita dalla crisi].
Per questo, si ritiene che il distacco sia una modalità di esercizio del potere direttivo del datore. Il d.lgs.
276/2003, inoltre, puntualizza che il distacco deve essere motivato da comprovate ragioni tecniche,
organizzative, produttive e sostitutive nel caso di spostamenti a un'unità produttiva collocata a più di 50 km
da quella in cui il lavoratore è adibito.
Altro requisito del distacco è quello della temporaneità che lo rende compatibile con la continuità del
vincolo della subordinazione fra il lavoratore distaccato e il datore originario. Infatti, il lavoratore viene
distaccato solo per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa la quale, se non corrisponde alle
mansioni svolte dal lavoratore cioè, se l'esecuzione dell'attività richiede che questi svolga mansioni diverse
da quelle per le quali è adibito, è necessario il suo consenso (il lavoratore può rifiutarsi di adempiere
all'attività). La legge chiarisce anche che il datore originario resta responsabile del trattamento economico e
normativo spettante al lavoratore.
Il legislatore ha poi predisposto uno specifico apparato sanzionatorio nel caso in cui su violano le regole
imposte dal d.lgs. 276/2003: è previsto che il lavoratore possa chiedere (mediante ricorso giudiziale) la
costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la prestazione lavorativa
da questi resa.
[N.B. Sinora abbiamo visto gli istituti del telelavoro e del lavoro a domicilio che consentono di ottimizzare e
alleggerire l'organizzazione aziendale ed i suoi costi, decentrando all'esterno lo svolgimento delle prestazioni
lavorative di collaboratori, che restano comunque alle dipendenze del datore; poi abbiamo visto tutti gli altri istituti
che consentono al datore di beneficiare di lavoratori assunti da altri].

7) Il trasferimento di azienda
A questo punto, invece, dobbiamo esaminare il trasferimento di azienda come modalità estrema di
alleggerimento del complesso aziendale (anch'esso rivisto dalla riforma Biagi). Infatti, la circolazione
dell’azienda (intesa come “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art.2555
c.c.)” è al centro di una specifica disciplina del lavoro. Anche il diritto dell'Unione Europea si è occupato di tale
fenomeno per evitare che il trasferimento sia determinato solo per ragioni dettate dalle differenze di disciplina
protettiva (ad es. il datore che trasferisce l'azienda in un posto dove è assicurata una minore tutela sindacale).
L'art. 2112 c.c. (intitolato "mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda") è la
norma base sul trasferimento d'azienda: il co.1 prevede che "in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto
di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano". Si mette così al
sicuro la posizione del lavoratore, ma si consente che il contratto di lavoro passi dal cedente al cessionario
senza il consenso del lavoratore stesso, derogando all'art. 1406 c.c. (sulla “cessione del contratto”) che
invece lo impone (deroga magari spiegata data l'indifferenza circa la persona del datore). In tal modo si
assicura celerità al trasferimento, ma è ovvio che questo (intendo il trasferimento) potrebbe peggiorare il
contesto lavorativo e professionale del lavoratore.
Infatti, a seguito della cessione è garantito il posto di lavoro, ma non le sue condizioni economico-
normative anzi, il co.3 dell'art.2112 prevede che il cessionario applichi i trattamenti economici e normativi
previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento. Proprio per questo, il legislatore ha
previsto quale giusta causa di dimissioni nei 3 mesi successivi al trasferimento d'azienda, la sostanziale
modifica delle condizioni di lavoro.

112

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Il co.2 dell'art.2112 offre poi una garanzia di solidarietà: sancisce che cedente e cessionario sono obbligati
in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento e prevede la possibile
liberazione del cedente attraverso le procedure conciliative.
Il co.5, invece ci chiarisce cosa si intende per trasferimento: “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione
contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di
lucro, preesistente al trasferimento e che conserva la propria identità (prescindendo dal tipo di negozio con cui si opera il
trasferimento”.
Poi continua: “tali disposizioni si applicano anche al trasferimento di parte dell'azienda, da intendersi come
un'articolazione autonoma dì un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal
cessionario al momento del suo trasferimento” (il c.d. ramo d'azienda).
Seppure, dunque, il trasferimento non necessiti del consenso del lavoratore, il nostro ordinamento prevede
un coinvolgimento dei sindacati nel caso di trasferimento di azienda in cui sono occupati più di 15
dipendenti, avendo la possibilità di sottoscrivere accordi derogatori alla disciplina ex art.2112.
[N.B. Dopo l’approvazione del Codice della crisi di impresa (d.l.14/2019), ormai, la materia del trasferimento delle aziende in crisi
rappresenta quasi un capitolo a sé stante; Sulla falsariga di quanto detto, il d.l.14 prevede un preciso collegamento tra questi ambiti
disciplinari. Vi sono varie modifiche: in particolare per le imprese «per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura del
concordato preventivo in regime di continuità indiretta, cont rsferimento di azienda successivo all’apertura del concordato stesso …
l’art.2112 c.c., fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di
lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo». Diversamente quello che diventerà il nuovo art.47, co.5,
dispone, a proposito del concordato preventivo liquidatorio, che possono essere stipulati «contratti collettivi in deroga all'articolo
2112, commi primo, terzo e quarto, del codice civile»].
Inoltre, cedente e cessionario hanno l’obbligo di informare le rappresentanze sindacali prima di concludere
l'accordo definitivo sulla cessione, dando conto: della data del trasferimento; dei suoi motivi; delle sue
conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori; delle eventuali misure previste nei loro
confronti. Laddove non venga rispettato tale obbligo, si configura una condotta antisindacale con la
possibilità di adire il giudice affinché questi ordini al datore la cessazione del comportamento illegittimo e la
rimozione dei suoi effetti.
[N.B. In tal caso ci si chiede se ciò infici anche la validità del negozio con cui si opera il trasferimento: bisogna escludere che
l'accertamento della condotta antisindacale coinvolga anche le legittimità del trasferimento, mentre un tempo ciò era giustificato
dal fatto che non si voleva imporre al cedente una pronuncia che riguardasse esclusivamente una condotta del cessionario. Oggi
tale giustificazione non regge più tanto, visto che l'obbligo di informazione incombe non solo sul cessionario ma anche sul cedente].

8) Istituti interpositori, esternalizzazioni e lavoro nelle pubbliche amministrazioni


Tutto ciò che abbiamo appena analizzato ha anche delle ripercussioni sul lavoro pubblico. Il d.lgs.276/2003
esclude dalla sua applicazione le amministrazioni pubbliche ed il loro personale, in quanto sono soggetti a
discipline speciali.
Quanto al distacco, esso ha origine proprio dalla normativa del pubblico impiego che ha sempre
riconosciuto la possibilità di spostare temporaneamente lavoratori da un'amministrazione all'altra, per
esigenze organizzative: oggi il suo equivalente è il comando e si differenzia rispetto al distacco nel lavoro
privato per il fatto che, l'interesse a distaccare è molte volte un interesse dello stesso lavoratore o
dell'amministrazione destinataria (e non di quella originaria che opera il distacco). Inoltre, è richiesto il
consenso del lavoratore.
Quanto alla somministrazione, è esclusa quella a tempo indeterminato, mentre quella a tempo
determinato soggiace alla disciplina speciale del lavoro pubblico. [N.B. in caso di un uso illecito della
somministrazione, non sarà possibile la sanzione dell’imputazione del rapporto di lavoro all’effettivo
utilizzatore, perché il principio generale è che il rapporto di lavoro pubblico possa costituirsi solo attraverso
la forma del concorso ai sensi dell’art.97 Cost].
Per gli appalti, questi sono sottoposti ad una disciplina ad hoc contenuta nel d.lgs.50/2016.
Infine, quanto al trasferimento d'azienda, prima del 2003 si riteneva applicabile anche al settore pubblico
l'art.2112 c.c., ciò in quanto era previsto da una norma oggi però abrogata (ossia l'art. 31 del d.lgs.
165/2001 che espressamente riconosceva l'applicabilità della norma civilistica anche al lavoro pubblico).

113

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 17 – Cassa integrazione guadagni, trattamenti di disoccupazione e


strumenti per l’inserimento e la ricollocazione nel mercato del lavoro

1) Ammortizzatori sociali
Il nostro ordinamento prevede una serie di strumenti per fronteggiare alcuni eventi traumatici del percorso
lavorativo, quali la perdita del posto di lavoro o la riduzione e la sospensione dell'attività.
In tali ipotesi il lavoratore è destinatario di indennizzi e provvidenze di carattere previdenziale (legati ai
pregressi versamenti contributivi) e, talvolta, addirittura assistenziale (sganciati, invece, da qualunque
rapporto contributivo).
[N.B. L'art.38 Cost. riconosce il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale di ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere (co.1) nonché, il diritto dei lavoratori affinché siano preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria (co.2)].
A tali compiti provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. Si parla, cioè, di
ammortizzatori sociali proprio per intendere quegli istituti finalizzati a contenere e rendere meno
drammatiche le conseguenze del venir meno della retribuzione (fonte alimentare primaria), a causa della
perdita del lavoro o della sua sospensione.
Lo stato di disoccupazione di cui parla l'art. 38 Cost. è, dunque, da intendersi in senso ampio: ciò consente
di accomunare sotto il termine ammortizzatori sociali, sia le indennità di disoccupazione in senso stretto
(per chi aveva lavoro, ma lo ha perso), sia la cassa integrazione guadagni (che presuppone la
sospensione del rapporto di lavoro, non la sua perdita). Ciò che conta è che i lavoratori destinatari di tali
concessioni siano titolari o lo sono stati di un contratto di lavoro subordinato. Accanto alla figura
tradizionale del disoccupato vi sono poi altre categorie: quella dei inoccupati, ossia coloro che non hanno
mai trovato lavoro; poi ci sono i disoccupati di lunga durata, cioè i lavoratori che dopo aver perso il lavoro
non sono più riusciti a trovarne un altro; poi ci sono anche i disoccupati intermittenti o sottoccupati, cioè
quei soggetti che, in mancanza di un'occupazione stabile, accettano lavori occasionali o ad orario ridotto.
Ebbene, anche in relazione a queste nuove figure di disoccupati si è avvertita la necessità di una protezione
sociale. Proprio a tal fine, nel 2012 ci sono state una serie di riforme: la riforma Fornero del 2012, che ha
previsto la disciplina dei trattamenti di disoccupazione denominati Aspi e Mini Aspi; poi la legge delega
183/2014 (c.d. Jobs Act), che ha previsto la revisione delle misure di sostegno al reddito introducendo 3
nuovi trattamenti di disoccupazione, che sono: la Naspi (elle sostituisce l'Aspi e Mini Aspi); la Dis-Coll
(rivolta ai collaboratori coordinati e continuativi); l'Asdi (un assegno di disoccupazione di tipo assistenziale
finanziato dalla fiscalità generale) abrogato e inglobato dal ReI nel 2018.
[N.B. Una particolare entasi meritano le misure adottate durante il periodo di emergenza CoVid. In tale frangente storico la
funzione sociale dell’ordinamento è stata in da subito evidente: il legislatore ha predisposto strumenti che, in attuazione
dell’art.38 Cost, concorrono sia a prevenire la disoccupazione (si pensi alle misure dirette alla mera conservazione dei livelli
occupazionali esistenti, anche attraverso la temporanea sospensione dei licenziamenti, sia a rafforzare gli ammortizzatori
sociali nei confronti di tutte le categorie di lavoratori e le misure di contrasto alla povertà. Al contempo, considerata la
situazione di emergenza sul territorio nazionale relativa al rischio di diffondersi del virus CoVid-19, e date le misure di
restrizione della libertà di circolazione, adottate allo scopo di contrastare la diffusione del virus, la stessa condizionalità è
stata temporaneamente sospesa.
Nella medesima prospettiva, va segnalato che la UE ha istituito uno strumento di sostegno temporaneo per attenuare i
rischi di disoccupazione nello stato di emergenza (SURE). Il Regolamento UE 2020/672 consente agli Stati membri di
richiedere uno sostegno finanziario, anzitutto al fine di predisporre misure volte a ridurre i rischi della perdita di lavoro, sia
dei dipendenti sia degli autonomi, ma anche per la predisposizione di misure di carattere sanitario, in particolare sul luogo
di lavoro].

2) Il sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro: la CIG


Il nostro sistema legislativo mira a tutelare ad ampio raggio il reddito dei lavoratori attraverso la
predisposizione di strumenti previdenziali riconosciuti in costanza di rapporto di lavoro, al fine di
fronteggiare i rischi derivanti anche da eventi temporanei di sospensione o riduzione dell’attività
114

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

dell’impresa dovuti da impossibilità sopravvenuta o forza maggiore. Lo strumento principale volto a far
fronte a tale esigenza è la Cassa integrazione guadagni (CIG), utile sia per i lavoratori sia per i datori di
lavoro. Infatti, proprio in ragione della non imputabilità a entrambe le parti delle cause della temporanea
sospensione del rapporto, essa evita:
- da un lato, che i prestatori perdano la retribuzione;
- dall’altro che l’azienda sostenga ulteriori costi di manodopera.
La CIG consiste in una valida alternativa al licenziamento e fornisce la possibilità di avere alle proprie
dipendenze i lavoratori, una volta cessata la regione di sospensione dell’attività.
Nel tempo, il suo ambito di applicazione è stato esteso, sia dal punto di vista oggettivo che dal punto di
vista soggettivo, articolandosi, in CIG ordinaria e CIG straordinaria/mobilità.
In concreto, la prestazione CIG consiste in un’indennità:
- sostitutiva della retribuzione in caso di sospensione del rapporto lavorativo;
- integrativa, qualora dovesse esserci solamente una riduzione dell’attività lavorativa.
Ovviamente, il provvedimento amministrativo dell’INPS di autorizzazione dell’intervento è condizione
necessaria per goderne.
L’indennità sarà anticipata dall’impresa e poi rimborsata dall’INPS, attraverso il conguaglio tra contributi
dovuti e prestazioni corrisposte, entro un termine di decadenza di 6 mesi.
La somma erogata è equiparata alla retribuzione corrisposta in costanza di rapporto di lavoro, e di
conseguenza, sarà soggetta ad imposizione fiscale e contributiva.
[N.B. I fondi per finanziare tale indennità sono reperiti sia attraverso contributi a carico degli imprenditori e con
partecipazione dei lavoratori, sia mediante finanziamento statale. A ciò si aggiunge un contributo addizionale
imposto alle imprese che presentano istanza per la CIG].
Il quadro attuale si rinviene nel d.lgs.148/2015, che ha razionalizzato e unificato l’articolato assetto della CIG.
Essa si divide in:
- CIGO (Cassa integrazione ordinaria), finalizzata alla conservazione dell’occupazione e del reddito;
- CIGS (Cassa integrazione straordinaria), il cui finanziamento grava prevalentemente sullo Stato, ed è
destinata a fronteggiare situazioni strutturali di eccedenze di personale che non compromettono la
continuazione dell’attività aziendale.
Le differenze tra le due si ravvisano nell’ambito di applicazione, per le causali per le quali è possibile presentare
istanza, per i criteri di scelta dei lavoratori, per la procedura sindacale da avviare per poter avere accesso alla misura e
per la durata della prestazione.
[N.B. Vanno poi considerate la c.d. “indennità di mobilità” e la CIG-CoVid, di cui si parlerà dopo].
Indichiamo adesso alcune norme comuni, che valgono sia per la CIGO che per la CIGS:
Sono beneficiari di entrambe le integrazioni salariali tutti i lavoratori subordinati (compresi apprendisti con
contratto di apprendistato professionalizzante, con esclusione dei dirigenti e lavoratori a domicilio), a
condizione che abbiano conseguito un’anzianità effettiva di lavoro, presso l’unità produttiva per la quale è
richiesto l’intervento di almeno 90 giorni.
La misura del trattamento è pari all’80% della retribuzione totale che spetterebbe per le ore di lavoro non
prestate, compreso fra le zero ore e il limite orario contrattuale. Tuttavia, nell’integrazione salariale non
sono incluse festività, assenze non retribuite, come permessi orari e giornalieri o di sciopero.
[N.B. Come per tutti gli ammortizzatori sociali, anche per la CIG è stato potenziato il profilo di condizionalità al fine di
evitare che vi siano abusi dell’istituto e di consentire, al contempo l’occupazione dei soggetti uscenti dal mercato del lavoro.
I lavoratori beneficiari di integrazioni salariali per i quali è programmata una sospensione o riduzione superiore al 50%
dell’orario di lavoro, devono stipulare con i centri per l’impiego un patto di servizio personalizzato e sono assoggettati al
regime di condizionalità previsto dall’art.22 d.lgs. 150/2015].

2.1) La Cassa integrazione guadagni ordinaria


Per quanto riguarda l’ambito di applicazione, la CIGO si applica al settore industriale, edile e agricolo.
Le cause che consentono di accedere alle prestazioni della CIGO sono riconducibili agli eventi transitori e
non imputabili all’imprenditore o agli operai, ovvero in situazioni temporanee di mercato.
Il ricorso alle integrazioni salariali è assoggettato al rispetto di un’articolata procedura sindacale
115

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

(informazione – esame congiunto; non vi è obbligo di raggiungere un accordo).


Nel caso della CIGO la procedura è abbreviata in presenza di eventi oggettivamente non evitabili che
rendano non differibile la contrazione o la sospensione dell’attività produttiva. Chiusa la procedura, per
l’intervento ordinario il datore di lavoro è tenuto a comunicare all’INPS l’avvenuto adempimento della
procedura, il cui espletamento costituisce condizione di procedibilità alla domanda di ammissione al
trattamento. Per quanto concerne i criteri, per la CIGO valgono i tradizionali parametri di buona fede,
correttezza e non discriminazione.
Il trattamento ordinario può essere corrisposto fino a un massimo di 13 settimane continuative, con
eventuali proroghe trimestrali fino ad un massimo complessivo di 52 settimane.
[N.B. Nel caso in cui l’azienda fruisca del trattamento per periodi non consecutivi, l’intervento non può superare 52
settimane in un biennio mobile. È previsto anche un limite di ore autorizzabili, non superiore ad 1/3 di quelle ordinarie
lavorabili nel biennio mobile, con riferimento a tutti i lavoratori mediamente occupati nel semestre precedente].

2.2) La cassa integrazione guadagni straordinaria


La CIGS si applica alle imprese industriali, dell'edilizia e del settore lapideo (lavorazioni della pietra) con più
di 15 addetti, alle imprese esercenti attività commerciali con più di 50 addetti, alle agenzie di viaggio e
turismo con più di 50 addetti, alle imprese di vigilanza con più di 15 addetti, alle imprese del trasporto
aereo e del settore aeroportuale indipendentemente dal numero di addetti, alle imprese del settore
dell'editoria.
Per quanto riguarda le causali, il d.lgs.148/2015 ha eliminato la causale della crisi per cessazione
dell'attività aziendale o di un ramo di essa, mentre restano come causali: la crisi aziendale, la
riorganizzazione aziendale e il contratto di solidarietà difensivo (che stabilisce una riduzione dell'orario al
fine di evitare in tutto o in parte il licenziamento collettivo del personale).
[N.B. In deroga alla previsione del d.lgs.148/2015, per il biennio 2019-2020, il d.l.109/2018 ha consentito il ricorso
all’intervento dell’integrazione salariale straordinaria, per una durata massima di 12 mesi, a favore dei lavoratori
dipendenti da aziende che abbiano cessato o stiano cessando l’attività produttiva].
Per quanto riguarda la procedura di consultazione sindacale, l’esame congiunto consiste in una
concertazione obbligatoria presso la Regione. Chiusa la procedura sindacale, la domanda è inoltrata al
Ministero del lavoro entro un termine predeterminato.
La scelta dei lavoratori da collocare in CIGS e le relative garanzie sono rimesse al sistema di consultazione
sindacale, essendo previsto che oggetto dell’esame congiunto debbano essere i criteri di scelta dei
lavoratori da sospendere, che devono essere coerenti con le ragioni per le quali è richiesto l’intervento.
Il criterio della rotazione impone al datore di lavoro di ripartire il periodo di sospensione/riduzione
dell’attività tra tutti i dipendenti che, nell’unità produttiva interessata, svolgono le medesime mansioni.
[N.B. Il mancato rispetto delle modalità di rotazione concordate in sede di esame congiunto comporta l’incremento
del contributo addizionale dovuto per i singoli lavoratori ai quali la rotazione non è stata applicata].
Per quanto riguarda la durata della CIGS, è stato ridimensionato l’utilizzo del trattamento di integrazione
straordinario, riconosciuto entro limiti temporali tassativi di 12-24 mesi, variabili in base alla causale
integrabile e che premiano comunque il ricorso a contratti di solidarietà difensivi, a decorrere da 24 mesi
dall’entrata in vigore del decreto e per i soli programmi di riorganizzazione e per crisi aziendale, di un tetto
massimo di ore autorizzabili, non superiore all’80% lavorabili nell’unità produttiva.

2.3) La Cassa integrazione in deroga


Il nuovo assetto delineato dal legislatore del 2015, avrebbe dovuto comportare il superamento dei c.d.
interventi in deroga, originariamente istituiti per i settori produttivi non coperti da CIG, spesso utilizzati in
settori già coperti dalle integrazioni salariali, con lo scopo di prorogare la tutela oltre i limiti temporali
massimi fissati per legge. A questi trattamenti si è fatto ricorso soprattutto negli anni della crisi economica,
affidandone la gestione quasi interamente all’azione amministrativa, con progressivo coinvolgimento delle
regioni, di concerto con le parti sociali, nell’utilizzo delle ingenti risorse statali e del fondo sociale europeo.
In realtà, le leggi di bilancio successive al 2015, per agevolare il passaggio verso il riformato sistema di

116

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

ammortizzatori sociali, hanno continuato a finanziare questi trattamenti, soprattutto per le imprese operati in
territori soggetti a recessione economica e rilevante perdita occupazionale.
[N.B. Un accenno si può fare anche alla legge 26/2019, che all’art.26-sexies prevede una disciplina “ad hoc” per la CIG in
deroga per i call center].
Per adesso, è un trattamento ancora operativo. Infatti, anche l’art.87 del d.l.34/2020 ha riconosciuto ai
lavoratori che hanno cessato la CIG in deroga nel periodo tra il 1 dicembre 2017 al 31 dicembre 2018 e che non
hanno diritto alla NASpI, nel limite massimo di 12 mesi e con termine entro 31/12/2020, un’indennità pari al
trattamento di mobilità in deroga, comprensiva della contribuzione figurativa.

2.4) La cassa integrazione guadagni Covid


L’emergenza Covid ha messo in risalto il ruolo essenziale di questo sistema di sicurezza in caso di situazioni
di bisogno derivanti da forza maggiore. L’ordinamento italiano, al fine di tutelare l’occupazione ha
introdotto (contestualmente alla sospensione di tutte le procedure di licenziamento) molte misure utili a
supportare aziende e lavoratori in questo periodo di emergenza. Tra queste abbiamo la CIG Covid.
Il d.l.18/2020 convertito in legge 27/2020, all’art.19 ha introdotto norme speciali in materia di trattamento
ordinario di integrazione salariale e assegno ordinario erogato dai Fondi di solidarietà bilaterale.
Secondo la norma, i datori di lavoro che nell’anno 2020 sospendono o riducono l’attività lavorativa per
eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da CoVid-19, possono presentare domanda di
concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale o di accesso all’assegno ordinario con
causale “emergenza Covid-19” per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020 per una durata massima di 9
settimane e comunque entro il mese di agosto 2020.
[N.B. Tale durata, è stata dapprima ulteriormente incrementata di 5 settimane nel medesimo periodo per i soli datori di
lavoro che abbiano interamente fruito il periodo precedentemente concesso fino alla durata massima di 9 settimane.
Poi, in aggiunta, è stato riconosciuto un ulteriore periodo di 4 settimane di trattamento il cui godimento, inizialmente
fruibile, dal 1 settembre 2020 al 31 ottobre 2020, è stato esteso a tutti i datori di lavoro, anche per i periodi
antecedenti a tale data, a condizione che i medesimi abbiano interamente fruito il periodo precedentemente concesso
sino alla durata di 14 settimane. Ancora, con il d.l.104/2020 (c.d. “decreto di agosto”) tale durata è stata estesa a
18 settimane, sino al 31 dicembre 2020].
Molti tratti di specialità: prima di tutto, tale assegno è riconosciuto ad una più amplia platea di aziende
rispetto alla CIGO. Esso, è corrisposto anche ai lavoratori dipendenti presso datori di lavoro iscritti al Fondo
di integrazione salariale (FIS) che occupano mediamente più di 5 dipendenti o ai Fondi di solidarietà
bilaterali e a Fondi alternativi. Tale assegno, su istanza del datore di lavoro, può essere concesso con la
modalità di pagamento diretto della prestazione da parte dell’INPS.
Inoltre, questa misura può essere riconosciuta anche nel caso in cui le aziende si trovino già in CIGS o abbiano
trattamenti di solidarietà in corso. In tal caso, la concessione del trattamento ordinario sospende e sostituisce il
trattamento già un corso.
Essendo uno strumento eccezionale correlato al solo periodo di emergenza, si deroga ai termini ordinari di
presentazione della domanda per l’indennità. Con il d.l. 16 giugno n.52 e confermato dal d.l. 104/2020 è
stato disposto che deve essere presentata, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello
in cui ha avuto inizio il periodo sospensione o di riduzione dell’attività lavorativa.
Non vi sono requisiti di anzianità per potervi accedere, ma è solo prescritto che il lavoratore per il quale si
richiedesse l’intervento, dovesse essere in forza dalla data di inizio del periodo emergenziale, o, più
specificamente che i lavoratori siano stati assunti tra il 24 febbraio e il 17 marzo 2020.
La causale ovviamente è relativa solo all’emergenza epidemiologica e alla sua vigenza.
Quanto al finanziamento, in tal caso il contributo addizionale a carico delle imprese che chiedono la misura
segue un regime speciale. In effetti, dopo una prima fase in cui esso non era previsto, il d.l.104/2020
prevede un regime parzialmente diverso, dove, in taluni casi, il contributo va comunque versato.
Inoltre il datore di lavoro è esonerato dalla procedura di informazione e consultazione sindacale.
[N.B. Una disciplina “ad hoc” è stata prevista per gli operai e impiegati a tempo indeterminato dipendenti da imprese
agricole, attraverso l’introduzione di una nuova e specifica causale, denominata “COVID-19 CISOA” (che sta per “Cassa
integrazione salariale operai agricoli”). Anche tale trattamento è riconducibile all’emergenza epidemiologica da Covid-19 ed

117

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

è concesso in deroga ai limiti di fruizione riferiti al singolo lavoratore e al numero di giornate lavorative da svolgere presso la
stessa azienda. Il “decreto di agosto” estende il trattamento anche agli sportivi professionisti, in presenza di alcune
condizioni retributive].
Va, infine, aggiunto che l’emergenza ha posto anche la necessità di introdurre nuove disposizioni per la
cassa integrazione in deroga. Infatti, l’art.22 d.l. 18/2020 ha previsto che i datori di lavoro del settore
privato – a prescindere dal numero di dipendenti, inclusi quelli agricoli, della pesca e del terzo settore
tranne i datori di lavoro domestico – non rientranti nel campo di applicazione di ammortizzatori sociali in
costanza di rapporto, possono richiedere trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga.
[N.B. Va rilevato, comunque, che per il funzionamento delle integrazioni salariali vi è un “platfond” finanziario limitato, ma
incrementato, qualora necessario, per il prolungarsi degli effetti sul piano occupazionale dell'emergenza epidemiologica da
Covid-19, al fine di garantire la possibilità di una più ampia forma di tutela delle posizioni lavorative rispetto a quella
assicurata. Le risorse stanziate costituiscono, però, il limite massimo di spesa].

2.5) I fondi di solidarietà bilaterali


Passiamo ora ai fondi di solidarietà bilaterali. Tale modello viene istituito nel 2012 (con la riforma
Fornero) per far fronte alle sospensioni o riduzioni dell'orario di lavoro dei dipendenti di aziende con più di
15 addetti, non coperte dalla cassa integrazione guadagni (né ordinaria né straordinaria).
Il d.lgs. 148/2015 rivede anche tale istituto prevedendo 3 tipi di fondi:
- fondi di solidarietà bilaterali di nuova costituzione;
- fondi di solidarietà alternativi;
- fondo di solidarietà residuale, che dal 2016 ha assunto la denominazione di fondo di integrazione
salariale.
Per tutti i tipi di fondi valgono le regole in materia di equilibrio finanziario, ossia vi è, l'obbligo generale di
bilancio in pareggio e il divieto di erogare le prestazioni in carenza di disponibilità.
Analizzando la nuova disciplina, i fondi di solidarietà bilaterali e alternativi si applicano a tutti i datori che
occupano più di 5 dipendenti (non più 15 come era previsto prima). Circa le causali (ossia gli eventi in
relazione ai quali è possibile accedere a tali fondi), sono le stesse previste per la CIG.
L'importo dell'assegno dovrà essere pari a quello previsto per la cassa integrazione (che ricordiamo è pari
all'80% della retribuzione globale) e la durata di erogazione non può essere inferiore a 13 settimane nel
biennio né superiore, in base alla causale, alle durate massime previste per la cassa integrazione (52
settimane per la Cigo, 24 mesi per la Cigs)
[N.B. Per i fondi di solidarietà bilaterali e alternativi, che operano nei settori della somministrazione e
dell'artigianato, è previsto che essi devono assicurare un assegno di importo pari all'assegno ordinario,
oppure l'assegno di solidarietà per un periodo non inferiore a 26 settimane nel biennio. Inoltre, sono
finanziati dal datore e dal lavoratore in base ai criteri decisi dalle parti sociali.]
Infine, il decreto innova anche il fondo di solidarietà residuale che, a partire dal primo gennaio 2016,
acquista la denominazione di fondo di integrazione salariale: viene disposto che sono obbligati ad iscriversi
a tale fondo tutti i datori con più di 5 dipendenti che non rientrano nel campo di applicazione della cassa
integrazione guadagni. Inoltre, viene prevista l'erogazione di una nuova prestazione, l'assegno di
solidarietà corrisposto per un massimo di 12 mesi nel biennio; accanto ad esso, vi è poi l'assegno ordinario
garantito solo ai datori con più di 15 dipendenti e per un periodo massimo di 24 settimane. Il fondo di
integrazione salariale è finanziato dalle imprese in base alla consistenza dell'organico aziendale, a cui si
aggiunge un contributo addizionale omogeneo per tutti i datori.
[N.B. Ai sensi dell’art.22 d.l. 4/2019 convertito in legge 26/2019, i fondi di solidarietà bilaterali possono altresì erogare
un assegno straordinario per il sostegno del reddito a favore dei lavoratori che entro il 31 dicembre 2021 maturino i
requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico anticipato (la c.d. “quota 100”)].

118

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

3) Il sostegno al reddito alla cessazione del rapporto di lavoro.


L’origine dell’assicurazione sociale per l’impiego e l’indennità di mobilità
Finora, dunque, abbiamo analizzato le ipotesi in cui il lavoratore vede sospendersi o ridursi l'attività
lavorativa adesso, invece, occupiamoci del caso in cui il lavoratore perde il lavoro (disoccupazione
involontaria).
[X] La riforma Fornero ha eliminato l'indennità di mobilità (soppressa a partire dal primo gennaio 2017),
che tutelava: i lavoratori licenziati da imprese industriali con più di 15 dipendenti o da imprese commerciali,
con più di 50 dipendenti, ma rientranti nel campo di applicazione della Cigs. Il suo importo era variabile:
per i primi 12 mesi, era pari al 100% del trattamento di Cigs percepito o che sarebbe spettato nel periodo
immediatamente precedente il licenziamento; per i periodi successivi era, invece, pari all'80% del predetto
importo. La durata del trattamento, variava a seconda dell'età anagrafica del lavoratore e dell'ambito
territoriale in cui si trovava l'unità produttiva che aveva operato il licenziamento.

3.1) La Nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi)


Con l'abrogazione di tale istituto, è prevista esclusivamente la Naspi (nuova assicurazione sociale per
l’impegno) come unica misura di sostegno al reddito in caso di perdita del posto di lavoro (unificando i due
precedenti trattamenti che erano Aspi e Mini Aspi), applicabile agli eventi di disoccupazione verificatisi dal
1° gennaio 2015 (la Naspi nasce a seguito della legge delega del 2014 c.d. Jobs Act).
Beneficiari del trattamento sono i lavoratori subordinati, inclusi i soci di cooperativa e gli apprendisti,
nonché il personale subordinato artistico, teatrale e cinematografico, mentre ne sono esclusi i dipendenti a
tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni (quelli a tempo determinato invece sono inclusi)
atteso il carattere stabile dell'impiego, e gli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato a cui si
applica l'indennità di disoccupazione agricola. Restano anche esclusi i lavoratori con un contratto di lavoro a
tempo parziale verticale su base annua.
Quanto ai requisiti per poter accedere alla Naspi, sono richiesti congiuntamente:
- almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione;
- almeno 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione.
Tale trattamento non spetta se il rapporto cessa per dimissioni o risoluzione consensuale.
Invece, ha diritto a ciò, il lavoratore dimesso durante il periodo di maternità, oppure nel caso di dimissioni
per giusta causa (non riconducibili alla volontà del lavoratore, ma di comportamenti che non rendono
proseguibili il rapporto). Altresì, spetta nel caso di licenziamento disciplinare.
Per quanto riguarda la durata, diversamente dall'Aspi, si prescinde dall'età anagrafica e viene previsto che
la Naspi sia corrisposta mensilmente, per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di
contribuzione degli ultimi 4 anni: ne consegue che il periodo massimo di corresponsione è di 24 mesi.
[N.B. L'importo corrisposto è rapportato alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi 4anni divisa per
numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero 4,33. La norma fornisce puntuali indicazioni
sull'importo e la rivalutazione annuale; è fissato, quindi, un importo come limite soglia, su cui viene effettuato il
relativo calcolo. Rispetto a tale limite (1.195€, rivalutato annualmente) si prevede che quando la retribuzione mensile
sia pari o inferiore a detto ammontare, la Naspi ammonta al 75% della retribuzione mensile. Nei casi in cui la
retribuzione mensile sia superiore al limite suddetto l'indennità è pari al 75% dell'importo stesso incrementato del
25% calcolato sulla differenza tra la retribuzione mensile e il limite soglia. La Naspi non può in ogni caso superare, nel
2020, l'importo mensile massimo di 1.335,40€; somma che si riduce del 3% ogni mese a decorrere dal primo giorno
del quarto mese di fruizione].
Il diritto alla prestazione matura a partire dall'ottavo giorno successivo alla data di cessazione dell'ultimo
rapporto di lavoro, oppure dal giorno successivo a quello in cui l'avente diritto ha presentato domanda. Vi è
poi un termine, previsto a pena di decadenza, entro cui presentare domanda che corrisponde a 68 giorni
dalla data di cessazione del rapporto.
La domanda va presentata telematicamente all'INPS. L'indennità viene interrotta d'ufficio se il lavoratore
riprende a lavorare con un contratto di lavoro subordinato (la ripresa dell'attività lavorativa viene desunta
dalle comunicazioni obbligatorie che i datori inviano al Centro per l'impiego).
119

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

La Naspi può essere sospesa per massimo 6 mesi e riprende a decorrere se il lavoratore, prima che scadano
i 6 mesi di sospensione, termina il periodo lavorativo; se, invece, il periodo lavorativo supera i 6 mesi, il
lavoratore ovviamente perde il diritto al trattamento. Se però il lavoratore instaura un nuovo rapporto di
lavoro subordinato, presso un datore diverso dal precedente e che con questi non è collegato, e il cui
reddito sia inferiore a quello minimo escluso da imposizione fiscale (pari a 8.000 euro), mantiene il diritto
alla prestazione, che però viene ridotta in misura pari all'80% del reddito che si prevede di percepire]
È previsto, inoltre, che il lavoratore destinatario della Naspi possa richiedere la liquidazione anticipata di
tutto l'importo non ancora percepito, allo scopo di iniziare un'attività lavorativa autonoma o di impresa
individuale o per associarsi in cooperativa. Ai datori che assumono a tempo pieno e indeterminato i
beneficiari della Naspi, è riconosciuta una dote economica pari al 20% dell'indennità mensile residua di
Naspi che sarebbe spettata al lavoratore.
I casi in cui si decade dal trattamento sono i seguenti:
- perdita dello stato di disoccupazione;
- inizio di un'attività lavorativa subordinata o in forma autonoma senza provvedere alle comunicazioni
previste
- raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
- acquisizione del diritto all'assegno ordinario di invalidità, a meno che il lavoratore non scelga la Naspi;
- violazione delle regole di condizionalità (l'erogazione della Naspi, infatti, è subordinata, oltre che allo stato
di disoccupazione, anche alla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa nonché ai
percorsi di riqualificazione professionale proposti dai servizi competenti).
Vi è quindi l'obbligo di restituire l'indennità che il soggetto eventualmente ha continuato a percepire dopo
tali cause.
[N.B. Qualche elemento di specialità è stato previsto a causa dell'emergenza Covid-19. Innanzitutto per la cessazione
involontaria dei rapporti di lavoro intervenuta dal 1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2020, il termine di presentazione
delle indennità Naspi e Dis-Coll è stato prorogato di 60 giorni, estendendo così il termine ordinario da 68 a 128 giorni,
decorrente dalla data di cessazione involontaria del rapporto di lavoro. Oltretutto, l'art.92 del d.l.34/2020 ha disposto
la proroga di 2mesi delle indennità di disoccupazione Naspi e Dis-Coll, a condizione che il soggetto non sia percettore
delle altre indennità introdotte per tutelare il reddito durante l'emergenza Covid. Tale proroga non viene riconosciuta
a coloro che hanno fruito della Naspi in forma anticipata.
Ancora, i percettori di ammortizzatori sociali, limitatamente al periodo di sospensione a zero ore della prestazione
lavorativa, nonché i percettori di Naspi e Dis-Coll e di Reddito di cittadinanza possono stipulare con datori di lavoro del
settore agricolo contratti a termine non superiori a 30 giorni, rinnovabili per ulteriori 30 giorni, senza subire la perdita
o la riduzione dei benefici previsti, nel limite di 2.000€ per l'anno 2020.
Un ulteriore aspetto particolarmente rilevante, poi, come anticipato è la sospensione della condizionalità.
E infatti, in ragione della situazione di emergenza sul territorio nazionale relativa al rischio di diffusione del virus
(Covid-19) conseguenti misure adottate per limitare gli spostamenti delle persone strettamente n sari sono state
sospese per 4 mesi le misure di condizionalità e i relativi termini previsti per i percettori di Naspi e Dis-Coll].

3.2) L’assegno di ricollocazione


Allo scopo di creare le condizioni per una rapida ed efficiente transizione dallo stato di disoccupazione al
reimpiego lavorativo, è stato introdotto anche l'assegno di ricollocazione, destinato ai percettori della
Naspi e consente agli interessati di registrarsi presso il portale unico dei servizi per l'impiego. A seguito di
tale registrazione, i servizi per l'impiego si attivano con un patto di servizio personalizzato con cui si delinea
il profilo di occupabilità e si definiscono le azioni da porre in essere per trovare lavoro. A questi lavoratori è
destinato, dietro domanda, un assegno individuale di ricollocazione se la disoccupazione eccede i 4 mesi,
spendibile presso i soggetti accreditati a svolgere funzioni in materia di politiche attive del lavoro. Il
pagamento avviene solo se l'interessato riesce ad ottenere un contratto a tempo indeterminato, a tempo
determinato, d'apprendistato o part-time (in base al contratto, varia l'importo dell'assegno).
La legge di bilancio del 2018 ha esteso i soggetti beneficiari dell'assegno di ricollocazione anche ai
percettori del Reddito di inclusione ReI (oggi abrogato dal Reddito di cittadinanza) e ai lavoratori in Cigs.

120

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Inoltre, con il d.l. 4/2019 è stato disposto che fino alla data del 31 dicembre 2021, l’erogazione dell’assegno
di ricollocazione è esclusivamente destinata ai percettori del Reddito di cittadinanza.

3.3) L’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione


coordinata e continuativa (Dis-Coll)
Per i lavoratori coordinati e continuativi come indennità di disoccupazione è, prevista la Dis-Coll.
Destinatari di tale istituto sono i lavoratori coordinati e continuativi (con esclusione degli amministratori e
dei sindaci), che hanno perso involontariamente la propria occupazione e che sono iscritti in via esclusiva
alla gestione separata INPS, non pensionati e privi di partita IVA (dal primo luglio 2017 tale misura è estesa
anche aì dottorandi di ricerca con borsa di studio). È anche necessaria la sussistenza di almeno 3 mesi di
contribuzione dal 1 gennaio dell'anno precedente l'evento di cessazione del lavoro. L'indennità è
corrisposta mensilmente per un numero di mesi pari alla metà dei mesi di contribuzione, per una durata
che non può superare i 6 mesi.
Nel caso di nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato, si decade dal diritto all'indennità se di
durata superiore a 5 giorni.

3.4) Ammortizzatori sociali per far fronte alla disoccupazione causata dal Covid
Arrivati a questo punto, è doveroso analizzare i vari ammortizzatori sociali introdotti a sostegno di tutte le
categorie di lavoratori al fine di tutelare il reddito a seguito del lockdown causato dall'emergenza
epidemiologica Covid-19. Oltre alla CIG Covid, sono state introdotte, infatti, indennità a vario titolo, nei
confronti dei lavoratori dipendenti del settore privato, dei lavoratori iscritti alla Gestione separata, dei
lavoratori domestici e dei lavoratori autonomi.
Prima di tutto, considerate le articolari esigenze di conciliazione vita-lavoro e l’impatto del non-lavoro sulla
gestione dei figli minori, oltre a particolari norme volte ad estendere i periodi di congedi parentali, sono
stati previsti bonus l'acquisto di servizi di babysitting da utilizzare per prestazioni, effettuate nel periodo
emergenziale. Sono stati aumentati giorni di permessi retribuiti per l'assistenza di familiari disabili.
Ancora, ai liberi professionisti titolari di partita IVA attiva dal 23 febbraio 2020 e ai lavoratori titolari di
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa attivi alla medesima data, iscritti alla Gestione
separata, nonché ai lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali dell'Ago, non titolari di pensione e non
iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, è riconosciuta un'indennità per il mese di marzo e aprile
2020, pari a 600 € (artt. 27 e 28, d.l. 18/2020).
Analoga indennità è stata poi corrisposta ai lavoratori dipendenti stagionali del settore del turismo e degli
stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il
1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del d.l. 18/2020; agli operai agricoli a tempo determinato, non
titolari di pensione, che nel 2019 abbiano effettuato almeno 50 giornate effettive di attività di lavoro
agricolo; ai lavoratori iscritti ai Fondo pensioni Lavoratori dello spettacolo, con almeno 30 contributi
giornalieri versati nell'anno 2019 al medesimo Fondo, cui deriva un reddito non superiore a 50.000€, e non
titolari di pensione. L'art. 85 del d.l.34/2020 ha poi introdotto un'indennità per i lavoratori domestici, non
conviventi con il datore di lavoro. Ancora nel c.d. decreto di agosto sono contemplate nuove indennità,
destinate a varie categorie di lavoratori sia subordinati (addetti al turismo, agli stabilimenti termali,
stagionali e intermittenti) sia autonomi occasionali. Le varie indennità non sono tra esse cumulabili e
non sono altresì riconosciute ai percettori di reddito di cittadinanza.
[N.B. Al di fuori delle tutele riconosciute nei confronti di coloro che tradizionalmente sono inclusi ormai nel novero dei
beneficiari degli ammortizzatori sociali, va messa in evidenza la misura riconosciuta ai sensi dell'art.44 d.l. 18/2020,
volta a garantire strumenti di sostegno al reddito per i lavoratori dipendenti e autonomi che, in conseguenza
dell'emergenza epidemiologica da Covid-19, hanno cessato, ridotto o sospeso la loro attività o il loro rapporto di
lavoro. Si tratta di quei lavoratori che non sono iscritti alle Gestioni previdenziali INPS e peri quali, dunque, non vi
sarebbe alcuna tutela al reddito in caso di disoccupazione, nonostante l'entrata in vigore della legge 81/2017.

121

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Per questi lavoratori è istituito, nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, un Fondo
denominato “Fondo per il reddito di ultima istanza”, volto a garantire una indennità, nel limite di spesa 1.150 milioni
di € per l'anno 2020. I criteri di priorità ed il metodo di calcolo di tali indennità è stato rimesso ad uno o più decreti del
Ministro del Lavoro e politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e finanze.
Per i lavoratori autonomi che lavorano nei comuni con alto tasso di contagio è stata prevista anche un'indennità aggiuntiva].
[NON PRESENTE NELLA NUOVA EDIZIONE]: Sempre analizzando le misure di sostegno al reddito, ricordiamo che dal primo gennaio
2018 è stata introdotta una misura universale e strutturale di sostegno al reddito ai soggetti in condizioni economiche disagiate, a
fronte della loro disponibilità a intraprendere percorsi di inserimento sociale e lavorativo:
il ReI (Reddito di inclusione).
[N.B. Un precedente lo ritroviamo in un d.lgs. del 1998 che introdusse il reddito minimo di inserimento, che ha rappresentato la prima
sperimentazione nazionale di reddito minimo attuata in Italia. Dopo di che, nel 2008 fu introdotta la c.d. social card, una misura di contrasto alla
povertà assoluta, destinata ai cittadini italiani inabili al lavoro, e concessa in base al criterio selettivo della loro età anagrafica (ultra65enni o famiglie
povere con un bambino di età inferiore ai 3 anni)].
In ultimo, il d.lgs. 147/2017 ha istituito il ReI che, a decorrere dal primo gennaio 2018, ha sostituito il SIA (sostegno per l'inclusione
attiva) e l'ASDI (assegno di disoccupazione) e costituisce un'unica misura nazionale di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale
a carattere universale, basata sul principio dell'inclusione attiva (che prevede la predisposizione per i beneficiari di un progetto
personalizzato di inclusione sociale e lavorativa).
[N.B. Inizialmente, il REI è stato erogato alle famiglie in possesso di determinati requisiti:
1) di residenza e soggiorno, ossia il richiedente doveva essere cittadino dell'UE o avere un permesso di soggiorno UE di lungo periodo, e residente in
Italia in via continuativa da più di 2 anni;
2) familiari, cioè si richiedevi la presenza di un minore, di una persona disabile, di una donna incinta, di un disoccupato ultra55enne;
3) economici, ossia un valore ISEE non superiore a 6.000 euro].
Dal primo luglio 2018 sono venuti meno i requisiti familiari (2) e la misura ha acquistato carattere universale, ossia è rivolta a tutti i
nuclei familiari in condizioni economiche particolarmente disagiate.
Il REI si compone di due parti:
- un sostegno economico, erogato dall'INPS attraverso la Carta REI il cui importo varia a seconda del numero dei componenti della
famiglia (e va da un minimo di 187,50 euro ad un massimo dí 539,82 euro);
- un progetto personalizzato di inclusione attiva che coinvolge l'intero nucleo familiare, affidato ai servizi sociali dei comuni.
La durata di tale misura può arrivare fino ad un massimo di 18 mesi, rinnovabili di altri 12.

4) L’evoluzione delle misure di inclusione sociale


Sebbene il nostro sistema continui indubbiamente ad essere legato ad un modello di Welfare c.d. lavoristico,
dove è lavoratore più che il cittadino al centro delle misure di sicurezza sociale, negli ultimi anni è stata più volte
mostrata l'intenzione di introdurre una misura universalistica di reddito di base, che ha condotto prima
all'adozione del c.d. Reddito di inclusione (ReI) e poi del c.d. Reddito di cittadinanza (RdC, che ha abrogato il ReI).
Si tratta di misure volte specificamente al sostegno del reddito di soggetti in condizioni economiche disagiate, a
fronte della loro disponibilità a intraprendere percorsi di inserimento sociale e lavorativo.
[N.B. Su questi temi, comunque, c'è stato un netto ritardo regolativo, per molte ragioni: esiguità delle risorse disponibili,
difficoltà a gestire queste misure, un complesso riparto di competenze tra Stato e Regioni, giacché la materia dell'assistenza
sociale si ritiene devoluta in via esclusiva alle Regioni, nei limiti della competenza statale per la «determinazione delle
prestazioni corrispondenti ai livelli essenziali delle prestazioni», da garantirsi in tutto il territorio nazionale (art.117 Cost.).
Questo spiega perché le sperimentazioni legislative più rilevanti in materia di reddito di base ovvero di cittadinanza si siano
sviluppate a livello regionale (Campania, Lazio, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Puglia); e ciò anche a seguito della dichiarata
incostituzionalità dell'art.3 co. 101-103, legge 350/2003, che aveva previsto il "reddito di ultima istanza", sulla cui falsariga si
sono poi mosse la gran parte delle Regioni].
Altri istituti tendenti ad attuare, a livello nazionale, una politica di inclusione sociale più avanzata e coerente
con una lettura evoluta dell'art.38 Cost. sono stati la "Carta acquisti ordinaria" (c.d. social card) e la "Carta per
l'inclusione". Nel primo caso si è trattato di una misura di contrasto alla povertà assoluta, istituita dal
d.l.112/2008 (art.81 co.32) e destinata a cittadini italiani "inabili al lavoro", in ragione del criterio selettivo della
loro età anagrafica (ultrasessantacinquenni, o famiglie povere con un bambino di età inferiore ai tre anni).
La seconda misura è stata prevista inizialmente con l'originario nome di "Carta acquisti sperimentale" e poi con
l’art.3 d.l.76/2013, convertito in legge 99/2013 ed ha rappresentato la versione sperimentale e prodromica di un
ulteriore strumento nazionale di contrasto alla povertà, il c.d. SIA (Sostengo per l'inclusione attiva), introdotto
anch'esso in via sperimentale in 12 grandi città italiane, esteso a livello nazionale con la legge di stabilità 2016.
La stessa legge ha istituito il Fondo nazionale per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale, finalizzato a
finanziare, insieme alle risorse provenienti dai Fondi europei, l'attuazione del Piano nazionale di lotta alla
povertà e, in particolare, gli interventi e i servizi sociali territoriali di contrasto alla povertà.
122

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

5) Reddito di cittadinanza
Con l'entrata in vigore del d.l. 4/2019 è stata introdotto via sperimentale, a dal mese di aprile 2019, il
Reddito di cittadinanza. Questa nuova misura costituisce, innanzitutto, un livello essenziale delle
prestazioni ex art.117 co.2 lett.m Cost., il cui godimento deve essere garantito in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale. Nel suo disegno complessivo, essa presenta le tipologie di intervento proprie di una
politica di contrasto alla povertà, per i nuclei familiari che versano in condizioni di bisogno, garantendo un
sostegno economico a integrazione dei redditi familiari precipuamente finalizzato al reinserimento
lavorativo e sociale, La struttura del RdC è marcatamente polifunzionale, grazie alla sua duplice
articolazione quale:
- misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro
- misura di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all'esclusione sociale (ex art.1 co.1 d.l. 4/2019).
[N.B. A ben guardare, il RdC può essere "sdoppiato". Esso, infatti, da un lato, consiste in una misura di contrasto alla povertà
delle persone anziane, riconosciuta nei confronti dei nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di
età pari o superiore a 67 anni, adeguata agli incrementi della speranza di vita o nei casi in cui il componente o i componenti
del nucleo familiare di età pari o superiore a 67 anni convivano esclusivamente con una o più persone in condizione di
disabilitai grave o di non autosufficienza  in tal caso si parla della c.d. “Pensione di cittadinanza”.
Dall'altro lato, poi, abbiamo poi il vero e proprio RdC, garantito ai nuclei familiari in possesso cumulativamente, al momento
della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, di requisiti di cittadinanza, residenza e
soggiorno di lungo periodo, oltre che requisiti reddituali e patrimoniali.
Oltretutto, il percettore non deve essere sottoposto a misure cautelare penali o a condanne definitive nei 10 anni precedenti
la richiesta].
Il RdC si compone di una parte economica, anzitutto, consistente in due elementi:
1) una componente ad integrazione del reddito familiare (come definito dall’art.2, co.6, fino alla soglia di
6000€ annui moltiplicata per il corrispondente parametro della scala di equivalenza ex art.2 co.4
2) una componente, ad integrazione del reddito nei nuclei familiari residenti in abitazione in locazione, pari
all’ammontare del canone annuo previsto nel contratto di locazione, fino ad un massimo di 3.360€ annui.
[N.B. Ai fini della definizione della Pensione di cittadinanza, la soglia al co.1 lett.a è incrementata di 7560€, mentre il massimo di cui
al co.1 lett.b è pari a 1800€ annui].
A seguito della procedura di richiesta della prestazione e accertata la sussistenza dei requisiti, il beneficio
economico è erogato attraverso la Carta RdC, utilizzabile per i per prelievi e acquisto di beni essenziali,
nonché per pagamento del canone di locazione.
Alla parte economica, però, si accompagna il diritto-dovere di essere coinvolto nei percorsi di inserimento
professionale. L'erogazione del beneficio è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al
lavoro, da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, nonché all'adesione ad un percorso
personalizzato di accompagnamento all'inserimento lavorativo e d'inclusione sociale che prevede attività
al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, oltre che altri impegni
individuati dai servizi competenti finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro e all'inclusione sociale.
[N.B. Tale percorso è definito mediante un Patto per il lavoro, stipulato dai beneficiari con i Centri per l'impiego, ovvero un
Patto per l'inclusione sociale, stipulato con i servizi sociali dedicati al contrasto alla povertà].
Così, i nuclei familiari in cui sia presente almeno un componente uscito da poco dal mercato del lavoro,
sono convocati dai Centri per l'impiego; i restanti nuclei sono convocati dai Servizi sociali competenti in
materia di contrasto alla povertà, al fine di effettuare una valutazione in grado di identificare í bisogni
dell'intero nucleo familiare.
[N.B. La valutazione consente di orientare il percorso successivo, per la definizione dei Patti per l'inclusione sociale
ovvero, nel caso in cui i bisogni del nucleo familiare e dei suoi componenti siano prevalentemente connessi alla
situazione lavorativa, per la definizione dei Patti per il lavoro con i competenti centri per l'impiego].
È interessante notare che, essendo una misura riconosciuta nei confronti dei nuclei familiari, sono tenuti a
tali obblighi tutti i componenti del nucleo familiare che siano maggiorenni, non già occupati e non
frequentanti un regolare corso di studi.
Sono esclusi da tali obblighi i beneficiari della Pensione di cittadinanza, oppure i beneficiari del RdC titolari
di pensione diretta o comunque di età pari o superiore a 65 anni, nonché i componenti con disabili, fatta
salva ogni iniziativa di collocamento mirato mirato e i conseguenti obblighi della stessa disciplina.
123

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Il richiedente e i componenti il nucleo riconosciuti beneficiari del RdC e non esclusi dagli obblighi connessi
alla fruizione del beneficio, tenuti a rendere dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro entro 30
giorni dal riconoscimento del beneficio, sono individuati e resi noti ai Centri per l'impiego per il tramite
della piattaforma digitale affinché siano convocati entro 30 giorni dal riconoscimento del beneficio, se in
possesso di uno o più dei seguenti requisiti al momento della richiesta del RdC:
a) assenza di occupazione da non più di due anni;
b) essere beneficiario della Naspi ovvero di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria
o averne terminato la fruizione da non più di 1 anno;
c) aver sottoscritto negli ultimi 2 anni un Patto di servizio attivo presso i Centri per l'impiego;
d) non aver sottoscritto un progetto personalizzato.
[N.B. Sono altresì resi noti ai Centri per l'impiego i beneficiari del RdC maggiorenni e di età pari o inferiore a 29 anni, a
prescindere dal possesso degli altri requisiti, affinché siano convocati entro 30 giorni dal riconoscimento del beneficio].
Tali beneficiari del RdC non esclusi o esonerati dagli obblighi stipulano presso i Centri per l'impiego un
Patto per il lavoro, che equivale al patto di servizio personalizzato.
[Ai fini del RdC e ad ogni altro fine, il “Patto di servizio” assume la denominazione di “Patto per il lavoro”.
I beneficiari sono tenuti a:
a) collaborare alla definizione del Patto per il lavoro;
b) accettare espressamente gli obblighi e rispettare impegni gli impegni previsti Patto per il lavoro e, in particolare:
registrarsi sull'apposita piattaforma, anche per il tramite di portali regionali, se presenti e consultarla
quotidianamente, verificando la presenza di nuove offerte di lavoro; accettare di essere avviato alle attività
individuate nel Patto per il lavoro; sostenere colloqui psicoattitudinali ed eventuali prove di selezione.
Infine, accettare almeno una delle 3 offerte di lavoro congrue; in caso di rinnovo del beneficio, deve essere accettata,
a pena di decadenza dal beneficio stesso, la prima offerta di lavoro congrua].
La “congruità” dell’offerta di lavoro è definita anche con riferimento alla durata di fruizione del beneficio del RdC
e al numero di offerte rifiutate.
[N.B. In particolare, è definita “congrua” un'offerta dalle caratteristiche seguenti:
a) nei primi 12 mesi di fruizione del beneficio, è congrua un’offerta entro 100 km di distanza dalla residenza del beneficiario
o comunque raggiungibile nel tempo massimo di 100 minuti con mezzi di trasporto pubblico, se si tratta di prima offerta,
oppure 250 km se si tratta di seconda offerta, oppure ovunque collocata nel territorio se si tratta di terza offerta;
b) decorsi 12 mesi, è congrua un’offerta entro 250 km di distanza dalla residenza del beneficiario;
c) in caso di rinnovo del beneficio, è congrua un’offerta ovunque sia collocata nel territorio italiano anche nel caso si tratti di
prima offerta.
- Si noti che esclusivamente nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti con disabilità, come definita ai
fini dell'ISEE, non operano le previsioni di cui alle lettere b) e c) e, in deroga alle previsioni di cui alla lettera a), relative alle
offerte successive alla prima, indipendentemente dal periodo di funzione del beneficio, l'offerta è congrua se non eccede la
distanza 100 km dalla residenza del beneficiario.
- Ancora, esclusivamente nel caso in cui nel nucleo familiari siano presenti figli minori, anche qualora i genitori siano
legalmente separati, non operano le previsioni di cui alla lettera c) e in deroga alle previsioni di cui alle lettere a) e b) con
esclusivo riferimento alla terza offerta, l'offerta è congrua se non eccede la distanza di 250 km dalla residenza del
beneficiario. Tale previsione opera esclusivamente nei primi 24 mesi dall’inizio della fruizione del beneficio, anche in caso di
rinnovo dello stesso].
Il Patto per l'inclusione sociale, ove non diversamente specificato, assume le caratteristiche del progetto
personalizzato, e conseguentemente, ai fini del RdC e ad ogni altro fine, il progetto personalizzato medesimo ne
assume la denominazione. Nel Patto per l’inclusione sociale sono inclusi, oltre agli interventi per
l'accompagnamento all’inserimento lavorativo, ove opportuni e fermo restando gli obblighi di cui al co.8, gli
interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà, che, conseguentemente, si intendono riferiti al RdC.
[N.B. Gli interventi e servizi sociali di contrasto alla povertà sono comunque attivati, anche in favore dei beneficiari che
sottoscrivono il Patto per il lavoro].
In coerenza con le competenze del beneficiario e con quelle acquisite formalmente o non, egli è tenuto ad offrire
nell’ambito del Patto per il lavoro e del Patto per l’inclusione sociale, la propria disponibilità per la
partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in vari ambiti, da svolgere nel medesimo
comune di residenza. Egli dovrà mettere a disposizione un numero di ore compatibile con altre attività del
beneficiario, e comunque non inferiore alle 8 ore settimanali, aumentabili fino ad un massimo di 16 ore
complessive settimanali con il consenso di entrambe le parti.
124

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[N.B. Per finalità antielusive, il legislatore ha introdotto diverse fattispecie sanzionatorie:


- alcune comportanti la perdita o la revoca del beneficio, come nel caso in cui non si effettui la dichiarazione di immediata
disponibilità al lavoro;
- altre rilevanti invece sul piano penale, ad esempio per dichiarazioni mendaci o produzione di documenti falsi al fine di
ottenere indebitamente il beneficio (artt.7 ss. d.l.4/2019)].

6) Reddito di cittadinanza, Covid e Rem


Considerando le difficoltà derivate dall'emergenza Covid, l'art.40 d.l. 18/2020 ha sospeso per 4 mesi dall'entrata
in vigore del decreto gli obblighi connessi alla fruizione del RdC.
[N.B. Tenuto conto della necessità di assicurare assistenza di carattere sociale o socio-assistenziale in relazione alle esigenze
connesse all'emergenza epidemiologica, per un periodo di 2 mesi i comuni e gli ambiti territoriali delle regioni possono destinare gli
interventi e servizi sociali, finanziati con le risorse del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, ai bisognosi di
assistenza che emergessero nella situazione emergenziale].
Inoltre, è stata introdotta una misura di sostegno economico (Reddito di emergenza - REM) in favore dei
nuclei familiari in difficoltà, considerando il reddito familiare e patrimoniale mobiliare.
Come per il RdC, il beneficiario della prestazione non è il singolo richiedente, ma l’intero nucleo familiare.
Tale REM è erogato per 2 mensilità a decorrere dal mese della presentazione della domanda. L’importo del
beneficio economico, non può comunque superare gli 800 euro mensili, elevabili a 840€ solo in presenza di
disabili gravi o non autosufficienti.
[N.B. Il REM non è compatibile con le altre indennità CoVid, né con i titolari di pensione diretta/indiretta, né con titolari di
un rapporto di lavoro dipendente la cui retribuzione sia superiore agli importi al co.5; né con percettori del RdC].

7) Tirocini formativi e di orientamento


Tra le misure che hanno l'obiettivo di ricollocare sul mercato del lavoro chi non ha un'occupazione, il nostro
ordinamento prevede anche iniziative di inserimento lavorativo, di formazione o di riqualificazione
professionale. Il c.d. pacchetto Treu (legge 196/1997) ha disciplinato i tirocini formativi e di
orientamento (detti anche stages).
Si tratta di forme di inserimento temporaneo all'interno di un'azienda pubblica o privata di neo-diplomati o
neo-laureati, o appartenenti a categorie disagiate, per realizzare un'alternanza scuola/lavoro e agevolare le
scelte professionali attraverso la conoscenza diretta del mondo del lavoro e la creazione di una concreta
opportunità per acquisire una specifica professionalità (c.d. tirocini non curriculari).
A differenza dei rapporti di lavoro con finalità formative, nei tirocini fra il datore e i tirocinanti non sussiste
alcun rapporto dì lavoro, anche se a volte il tirocinio maschera fittizie forme di lavoro subordinato.
Al fine di evitare un uso sproporzionato e non corretto dei tirocini, il legislatore è intervenuto prevedendo
alcune novità, tenendo conto delle disposizioni europee in materia che individuano il tirocinio quale
strumento fondamentale di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. L'accordo Stato-Regione del
2017 ha adottato le nuove linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento: è previsto un
progetto formativo individuale (Pfi), concordato fra un soggetto promotore, un soggetto ospitante e il
tirocinante, in cui sono definiti gli obiettivi formativi da perseguire e le modalità di attuazione.
I tirocini sono misure formative di politica attiva, rivolte a:
- soggetti in stato di disoccupazione;
- lavoratori beneficiari di strumenti di sostegno al reddito;
- lavoratori a rischio di disoccupazione;
- soggetti già occupati che sono in cerca di altra occupazione;
- soggetti disabili e svantaggiati.
La durata del tirocinio deve essere indicata nel Pfi e non può essere inferiore a 2 mesi e superare a 12 mesi.
Il tirocinante ha diritto a una sospensione del tirocinio per maternità, infortunio o malattia di lunga durata
e per periodi di chiusura aziendale della durata di almeno 15 giorni.
L'attivazione dei tirocini avviene sulla base di apposite convenzioni stipulate tra soggetti promotori e i
soggetti (pubblici e privati) ospitanti dei tirocinanti:

125

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

a) i soggetti promotori, sono soggetti (pubblici e privati) accreditati o autorizzati a promuovere il tirocinio
nel proprio territorio, sui quali grava l'obbligo assicurativo per il tirocinante contro gli infortuni sul lavoro.
Promotori possono essere anche i servizi per l'impiego, le agenzie regionali del lavoro, le università, gli
istituti scolastici, le cooperative sociali, ecc.
b) soggetti ospitanti sono, invece, gli enti pubblici o privati presso i quali viene realizzato il tirocinio, i quali
devono essere in regola con le norme sulla sicurezza sul lavoro; rispettare la normativa sul collocamento
obbligatorio dei disabili; non aver effettuato licenziamenti nei 12 mesi precedenti l'attivazione del tirocinio;
non avere procedure di Cigs, ecc.
[N.B. Il numero dei tirocini attivabile contemporaneamente dipende dalle dimensioni dell'unità produttiva in cui è
inserito il tirocinante: i datori fino a 5 dipendenti a tempo indeterminato possono ospitare un tirocinante; quelli che
ne occupano da 6 a 20, possono avere non più di 2 tirocinanti; quelli con più di 20 dipendenti, possono avere come
tirocinanti non più del 10% dell'organico].
Al tirocinante va corrisposta un'indennità di partecipazione, che non può essere inferiore a 300 euro mensili
e che le leggi regionali possono aumentare. Al termine del tirocinio, viene rilasciata al tirocinante
un'attestazione dei risultati formativi raggiunti, con l'eventuale indicazione delle competenze acquisite.

8) Gli incentivi all’occupazione


In conclusione di questo capitolo, diciamo brevemente che il nostro ordinamento, al fine di agevolare la
costituzione di nuovi rapporti di lavoro, prevede varie tipologie di incentivi all'assunzione (per lo più di
carattere economico, di solito sgravi contributivi o fiscali) riconosciuti ai datori che assumono determinati
soggetti, svantaggiati e molto svantaggiati che presentano particolari difficoltà a collocarsi nel mercato del
lavoro.
Per assicurare la trasparenza di tali incentivi, presso l'Anpal è istituito il repertorio nazionale degli incentivi
occupazionali e del lavoro.
[N.B. La legge di bilancio 2018 ha riservato alcune misure a favore di determinati datori, in ragione dell’ubicazione
territoriale dell’impresa (es. il c.d. “bonus Sud”) o della forma giuridica].
Un altro concreto esempio di incentivi volti a promuovere l’occupazione è fornito dall’art.8 d.l. 4/2019.
Al datore di lavoro privato che comunichi alla piattaforma digitale dedicata al RdC, presso l’ANPAL, le
disponibilità dei posti vacanti e che su tali posti assuma a tempo pieno e indeterminato soggetti beneficiari
RdC, è riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali; ciò nel limite
dell’importo mensile del RdC percepito dal lavoratore all’atto di assunzione e per un periodo pari alla
differenza tra 18 mensilità e le mensilità già godute dal beneficiario stesso e, comunque, per un importo
non superiore a 780€ mensili e per un periodo non inferiore a 5 mensilità.
[N.B. Per concludere, il tema degli incentivi è stato discusso a seguito dell’emergenza pandemica. Una nuova forma di sostegno
economico alle imprese è stata prevista per coprire una parte dei costi sostenuti dalle stesse, allo scopo di evitare i licenziamenti.
La sovvenzione, non può comunque superare l’80% dello stipendio mensile lordo (inclusi contributi) e può durare massimo 12 mesi.
L’azienda potrà attivarla anche in modo retroattivo dal 1 febbraio 2020, e tale misura è possibile solo in tale periodo ed in via del
tutto eccezionale. Anche il “decreto agosto” ha previsto esoneri e sgravi fiscali per favorire assunzioni a tempo indeterminato].

126

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 18 - Le discriminazioni sul lavoro

1) Fonti e istituzioni del diritto antidiscriminatorio


La tutela contro le discriminazioni sul lavoro rappresenta un principio su cui si fondano i moderni
ordinamenti giuridici. Nella nostra Costituzione, all'art.37, è affermata la parità di trattamento retributivo
tra lavoratrici e lavoratori che obbliga tutte le ulteriori norme a prevenire ogni eventuale differenziazione
delle condizioni di lavoro basata su fattori di genere (ossia sul sesso). Nel 1957 poi il Trattato di Roma
estese a tutta l'Europa la regola della parità retributiva di genere, a cui sono seguite varie direttive europee
tese a promuovere le pari opportunità uomo/donna. Oggi, in riferimento a tale materia abbiamo il
d.lgs.151/2001 (testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) e il
d.lgs.198/2006 (codice delle pari opportunità tra uomo e donna).
Quanto alle discriminazioni dovute a fattori diversi dal genere, negli anni ‘60/70 fu riconosciuta la
discriminazione sindacale, politica e religiosa e per motivi legati al matrimonio, fino poi a riconoscere
anche la discriminazione dei lavoratori extracomunitari e per i portatori di handicap.
L'insieme di queste norme dà vita al diritto antidiscriminatorio che funziona secondo tale apparato:
- vi è il Comitato nazionale (CNP) per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di
opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il Ministero del lavoro e composto da esponenti del
Governo, dalle parti sociali e da esperti in materie giuridiche, economiche e sociologiche;
- i Consiglieri di parità, che sono pubblici ufficiali tenuti a segnalare all'autorità giudiziaria i reati di cui
vengono a conoscenza e hanno il potere di agire in giudizio (in via autonoma) nel caso di discriminazioni
collettive.
Sia tali Consiglieri che il CNP hanno anche funzioni consultive per rimuovere i comportamenti
antidiscriminatori per sesso nei luoghi di lavoro e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l'uguaglianza di
genere;
- la Conferenza nazionale delle Consigliere e dei Consiglieri di parità, che ha la finalità di realizzare scambi
di informazione ed esperienze;
- il Comitato unico di garanzia (CUG) per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e
contro le discriminazioni, che ha compiti propositivi, consultivi e di verifica volti a realizzare i principi di pari
opportunità e a contrastare qualsiasi forma di discriminazione e di violenza morale o psichica per i
lavoratori;
- l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR), che promuove la parità di trattamento e rimuove
le discriminazioni fondate su motivi attinenti alla razza o all'origine etnica ed è istituito presso la presidenza
del CdM.

2) Le nozioni di discriminazione e gli strumenti per realizzare le pari opportunità


La normativa si occupa anche di dare le definizioni di discriminazione diretta e discriminazione indiretta.
■ Per discriminazione diretta si intende qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o
comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un
pregiudizio discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e che, comunque, determini
un trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o lavoratore nella stessa
situazione.
La discriminazione diretta deve avere carattere oggettivo: ciò che rilevano, dunque, sono gli effetti e non
l'intenzione dell'agente. Oltre al genere, le discriminazioni dirette possono essere dovute anche ad altri
fattori: infatti, i d.lgs. 215 e 216/2003 prevede che si verifica una discriminazione diretta anche quando una
persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia o sia stata trattata un'altra in una situazione
analoga per fattori legati: alla razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età (in tal
caso la discriminazione non sussiste se il differente trattamento è espressamente previsto ed è

127

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

oggettivamente giustificato da finalità legittime) od orientamento sessuale, Il divieto di discriminazioni


dirette non è però assoluto, atteso che sono previste delle eccezioni in casi precisi:
ad es: per i concorsi pubblici, quando il sesso costituisce requisito essenziale per la natura del lavoro;
oppure, nel caso di mansioni particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva.

■ La discriminazione indiretta, invece, si verifica quando una disposizione, un criterio, un atto, o un


comportamento apparentemente neutri mettono, o possono mettere, i lavoratori in una posizione di
particolare svantaggio rispetto a: lavoratori dell'altro sesso o rispetto a persona di una data razza od
origine etnica o che professano una diversa religione o ideologia, o che sono portatrici di handicap o che
hanno una particolare età, o un orientamento sessuale.
Anche in tal caso la discriminazione ha carattere oggettivo ed ammette eccezioni quando le differenze
riguardano requisiti essenziali allo svolgimento del lavoro e sono giustificate oggettivamente da finalità
legittime (che non possono consistere in mere ragioni di mercato o essere fondate su considerazioni di
massima redditività aziendale).
■ Accanto a queste 2 forme di discriminazione se ne aggiungono altre: le discriminazioni collettive (quando
non è facile individuare precisamente le persone lese dalle discriminazioni); quella per causa di matrimonio
(che determina la nullità di qualsiasi clausola che prevede la risoluzione del contratto delle donne
lavoratrici in conseguenza del matrimonio); le discriminazioni per gravidanza, maternità o paternità (nullo
è il licenziamento intimato dall'inizio dello stato di gravidanza e fino ad 1 anno di età del bambino);
discriminazioni doppie o multiple (in cui le discriminazioni per razza, origine etnica, religione, si intrecciano
con quelle di genere).
Da qualche anno alle discriminazioni sono paragonate le molestie: comportamenti indesiderati, posti in
essere per ragioni connesse al sesso, ovvero per motivi di razza, di origine etnica, di religione, di convinzioni
o personali, di handicap, di età di orientamento sessuale, che hanno lo scopo o l'effetto di violare la dignità
di una lavoratrice o di un lavoratore o di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante o offensivo. In
particolare, la molestia sessuale è definita come un comportamento indesiderato, a connotazione sessuale,
espresso in forma fisica, verbale o non verbale.
Nelle molestie, a differenza delle discriminazioni, si sottolinea l'indesiderabilità dello specifico
comportamento.
[N.B. Una disciplina speciale esiste poi per i dipendenti (privati e pubblici) autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui
sono venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro (c.d. whistleblowers): in tali casi si presume che gli atti o le
misure organizzative, adottati dopo la segnalazione, con effetti negativi per il dipendente, siano discriminatori].

Circa le differenze di genere, le pari opportunità (da ricondursi all'art. 3 comma 2 Cost.) oggi
rappresentano una garanzia ben radicata nel diritto europeo. La Carta dei diritti fondamentali dell'UE
prevede, infatti, che va assicurata la parità tra uomini e donne in tutti i campi e, a tal fine, sono previste
anche misure che assegnino vantaggi specifici a favore del genere sottorappresentato: sono le c.d. azioni
positive che sono dirette a prevenire discriminazioni, eliminare le disparità, promuovere le parità di chance
nella vita lavorativa, potendo anche attribuire vantaggi atti a conciliare tempi di vita e di lavoro (tali azioni
positive, oltre al genere, possono riguardare anche la razza o l'origine etnica).
Costituiscono azioni positive le c.d. quote cioè riserve di trattamenti preferenziali nell'acceso al lavoro, nella
progressione di carriera o nella conservazione del posto di lavoro a favore del genere in situazione
svantaggiata. A tal riguardo si parla anche di “discriminazione alla rovescia”

3) L’onere della prova e la tutela giudiziaria


Uno degli aspetti più delicati di questa materia, è la prova delle discriminazioni sul lavoro, decisiva
quando si intende far valere la discriminazione davanti un giudice. In deroga al principio generale, secondo
cui l'onere della prova grava su chi agisce in giudizio (in questo caso graverebbe sul lavoratore), per le
discriminazioni esiste una disciplina speciale: se il ricorrente (lavoratore) fornisce elementi di fatto, desunti

128

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

anche da dati statistici, idonei a fondare la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori, spetta al convenuto (datore) provare l'insussistenza della discriminazione. Tale regime
particolare appare difficilmente applicabile alle discriminazioni dovute per ragioni politiche e sindacali,
non essendo collegato all’art.15 (Statuto lavoratori) e alle molestie sessuali, ma la giurisprudenza le ha
equiparate (solo quanto a tale regime probatorio) alle discriminazioni per motivi di sesso
[N.B. Per i whistleblowers, spetta al datore provare che la misura organizzativa, con effetti negativi, adottata dopo la
segnalazione sia fondata su ragioni estranee alla segnalazione].
La discriminazione può essere fatta valere sia con rito ordinario (in tal caso il lavoratore ottiene una
dichiarazione di nullità di ogni patto o atto discriminatorio) sia con un procedimento speciale (più
efficace) che ha carattere urgente, e finalità inibitoria e ripristinatoria il quale può concludersi con un
decreto immediatamente esecutivo, contenente l'ordine di cessazione del comportamento discriminatorio
e di rimozione degli effetti, ed è corredato da sanzione penale (riferendosi all’art.28 Statuto lavoratori, e in
quel caso la legittimazione attiva è collettiva), ma può comprendere anche il risarcimento dei danni
patrimoniali e non.
Contro tutte le discriminazioni è prevista, altresì, un'azione di carattere istituzionale, cui è legittimato il
Consigliere di parità competente per territorio, proponibile al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al
tribunale amministrativo regionale. In tal caso, il giudice può riconoscere il risarcimento dei danni
patrimoniali e non, oltre che ordinare di definire un piano rivolto alla rimozione delle discriminazioni
accertate.
Nel caso di discriminazioni diverse dal genere, il soggetto discriminato può rivolgersi al giudice scegliendo
anche il rito sommario di cui all'art.702-bis c.p.c.
Generalmente, la possibilità di agire in giudizio spetta al soggetto discriminato che, a tal proposito, può
anche delegare le organizzazioni sindacali. Nel caso di discriminazione collettiva, qualora non siano
individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione, associazioni ed enti
(inseriti in un apposito elenco approvato dal Ministero per le pari opportunità) sono legittimati ad agire
autonomamente.

129

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

CAP 19 – Negozi dispositivi, prescrizione e decadenza dei diritti del


lavoratore. Prevenzione del contenzioso e cenni al processo del lavoro

1) L’art. 2113 c.c. e le sue origini


Già sappiamo che una delle caratteristiche del diritto del lavoro è il principio di inderogabilità delle sue
norme, ciò significa che le parti non possono pattuire in senso contrario e peggiorativo per il lavoratore
rispetto alla regola stabilita dalla legge o dalla contrattazione collettiva [Es: se la legge o il contratto
collettivo prevede per la retribuzione un trattamento minimo, le parti non possono pattuire una
retribuzione inferiore a tale trattamento; possono farlo solo in senso migliorativo per il lavoratore, ossia
pattuire una retribuzione superiore al minimo garantito dalla disciplina inderogabile].
A questo punto ci si chiede se possa essere il lavoratore stesso a poter disporre del diritto che gli riconosce
la legge o la contrattazione collettiva (sempre prendendo come esempio la retribuzione, ci si domanda se il
lavoratore possa disporre diritto retributivo, magari rinunciando a questo). La risposta è data dall'art.2113
che fa espresso riferimento alla rinunzia (atto unilaterale recettizio dismissivo del diritto) quanto alla
transazione (contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lita o
ne prevengono l’insorgere, ex art.1366 c.c.), sancendone l’invalidità di questi due negozi: "le rinunzie e le
transazioni, che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge e
dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art.409 c.p.c. non sono valide".
Questo vuol dire che se il lavoratore dispone (tramite rinuncia o transazione), la norma dice che il relativo
negozio non è valido: nel senso che è annullabile e il lavoratore può, entro il termine di decadenza di 6
mesi, impugnarlo (cioè, si tutela sempre la situazione di debolezza socio-economica del lavoratore,
consentendogli in un secondo momento di cambiare idea sul negozio che ha stipulato — ad es. rinuncia alla
retribuzione — impugnandolo nel termine di decadenza di 6 mesi come dice il co.2 dell'art.2113 c.c.). È
ovvio che se il lavoratore non propone impugnazione nei termini, il negozio dispositivo che ha concluso
(rinuncia o transazione) avrà piena efficacia (e, dunque, sempre nell'esempio di prima, la rinuncia alla
retribuzione sarà definitiva).
L’art.2113 ultimo co. infine, contempla un'ipotesi in cui il negozio con cui il lavoratore dispone di un suo
diritto riconosciutogli da una diposizione inderogabile è perfettamente valido sin dall'inizio (senza perciò la
possibilità di impugnarlo): si tratta dei casi in cui tali negozi sono stipulati dal lavoratore assistito da un
soggetto terzo (giudice, Commissione di conciliazione, collegio di conciliazione o arbitrato).

2) La ricostruzione teorico-sistematica della norma


Infatti, proprio perché il lavoratore non stipula il negozio da solo ma con l'assistenza di un soggetto esterno,
il legislatore ritiene che sia sufficientemente consapevole di ciò che sta facendo e, dunque, non viene in
rilievo la sua situazione di debolezza socio-economica (quindi, sempre nel caso della rinuncia alla
retribuzione, se l'atto dispositivo è compiuto con l'assistenza di un terzo, sarà pienamente valido sin
dall'inizio, il lavoratore non ha diritto al termine di decadenza per impugnarlo). Da ciò si evince, che tale
norma non si riferisce tanto all’indisponibilità del diritto da parte del lavoratore, quanto più ad una
disponibilità limitata dall’assistenza di un terzo, necessaria per dare piena validità al negozio dispositivo.

Approfondendo la ricostruzione teorico-sistematica della norma dell’art.2113 c.c. bisogna partire dal tipo di
invalidità prevista dal legislatore. Come abbiamo visto, si opta per il meccanismo dell’annullabilità dei
negozi in contrasto con tale disposizione. Questa è sicuramente più svantaggiosa, per il lavoratore, rispetto
alla nullità. Le ragioni che spiegano tale scelta si possono spiegare così:
bisogna tener distinto il piano della “regolazione” del rapporto da cui nascerà il diritto, dal piano del suo
“svolgimento” che riguarda maggiormente all’esercizio del diritto e quindi alla sua disposizioni  nel primo
caso si parlerà di nullità per la violazione della regola, nel secondo caso si parlerà di annullabilità del
negozio dispositivo del diritto.
130

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

In realtà, le soluzioni adottate dalla norma si spiegano sulla base di un criterio funzionale, attento alla
combinazione tra principi giuridici e concreti interessi, cioè abbiamo una duplice tutela:
- tutela del contraente debole (carattere soggettivo)
- garanzia dei valori fondanti dell’ordinamento (carattere oggettivo).
Quindi per quanto riguarda l’esercizio dei diritti derivanti dall’applicazione della disciplina e quindi dallo
“svolgimento” del rapporto, bisogna partire dal presupposto che il legislatore abbia voluto conciliare
l’istanza protettiva del lavoratore con l’esigenza di una risoluzione delle controversie mediante
composizioni stragiudiziali solide, dando rilievo contemporaneamente alla debolezza del lavoratore e alla
finalità protettiva dell’ordinamento.
Solo così si può spiegare il motivo per il quale le rinunzie e le transazioni, che risultino essere in contrasto
con la situazione di debolezza del lavoratore, siano invalidi e quindi annullabili. Si ritiene sufficiente, ai fini
della sua stessa tutela, la possibilità per il lavoratore di ritornare sulla sua decisione, e per tale motivo la
norma si concentra sulla scelta dell’impugnazione del negozio, ai fini dell’annullabilità dello stesso.
Specularmente, però, il legislatore esclude la nullità, ritenendo che l’azione avrebbe generato una
situazione di eccessiva incertezza, essendo imprescrittibile, e avrebbe quindi complicato la possibilità di
composizione stragiudiziale: cioè una conciliazione nulla, mediante l’imprescrittibilità dell’azione di
impugnazione, avrebbe pregiudicato l’interesse del datore di lavoro nel cercare una conciliazione.

3) L’ambito di applicazione della disciplina e le modalità di impugnazione delle rinunce e


transazioni invalide
Precisazione: ovviamente il lavoratore non può disporre dei c.d. diritti futuri, ossia dei diritti relativi
un'attività lavorativa non ancora svolta e quindi non ancora maturati, e non può disporre della
contribuzione relativa il rapporto di previdenza, poiché in tal caso di essa ne è titolare l'ente previdenziale.
[N.B. Non hanno natura dispositiva le c.d. quietanze a saldo o liberatorie: sono dichiarazioni con cui il lavoratore
afferma di aver percepito tutto quello che gli spettava e di non avere quindi null' altro a pretendere (in tal caso il
lavoratore non rinuncia a nulla)].
Altra precisazione: l'art. 2113 c.c. trova applicazione nei rapporti di lavoro subordinato; nei contratti agrari;
di agenzia; nei rapporti parasubordinati; e anche nei rapporti con i lavoratori autonomi.

4) La prescrizione: i termini
Parliamo ora prescrizione: ossia, un istituto di carattere generale che produce l’estinzione del diritto là
dove il suo titolare rimanga inerte per un dato tempo (art.2934 c.c.) A essa sono sottratti solo i diritti
indisponibili e altri diritti indicati dalla legge. Quindi, si applica anche per diritti dei lavoratori che sono
disponibili, seppur limitatamente.
I diritti del lavoratore si prescrivono in 10 anni. A ciò fanno eccezione il diritto alle indennità spettanti per la
cessazione del rapporto di lavoro e i crediti retributivi che si prescrivono nel termine breve di 5 anni.

5) Il dies a quo
Inoltre, normalmente il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere
esercitato (facciamo un esempio, il lavoratore non riceve la retribuzione di gennaio, questo credito
retributivo, che si prescrive in 5 anni, potrà farlo valere a decorrere dal successivo mese di febbraio). Però è
intervenuta una sentenza della Corte Costituzionale n. 63/1966 la quale, partendo dal presupposto che il
lavoratore può essere indotto a non esercitare il diritto di cui è titolare per paura di un licenziamento, ha
disposto che per i soli diritti che hanno natura retributiva
il termine per la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del rapporto di lavoro, in tal modo il
lavoratore non avrà più alcun timore a farlo valere (quindi, sempre con riferimento all'esempio di prima, il
credito circa la retribuzione di gennaio che il lavoratore non ha percepito si prescriverà sempre in 5 anni,
ma tale periodo inizierà a decorrere solo dalla data di cessazione del rapporto di lavoro e non prima).

131

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

[N.B. Da ciò si deduce che quando il rapporto di lavoro gode di una “stabilità” di tipo reale (cioè quando la legittimità
del licenziamento sia subordinata alla sussistenza di circostanze oggettive e predeterminate) allora la prescrizione
comincia a decorrere durante il rapporto di lavoro. Diversamente, quando vi è una tutela di tipo obbligatoria (in cui è
prevista la libera recedibilità), allora abbiamo lo slittamento del dies a quo al momento della cessazione del rapporto
lavorativo].

6) La decadenza
Altro istituto di carattere generale è la decadenza, che a differenza della prescrizione, deve essere
tassativamente e specificamente indicata dalla legge o dall’autonomia privata. Per esigenze di certezza in
relazione ad alcune situazioni, l’esercizio del diritto si sottopone ad un termine più breve e perentorio,
trascorso il quale sarà precluso.
Tra le ipotesi più significative ricordiamo: l’impugnazione del licenziamento individuale e collettivo,
l’impugnazione del termine illegittimo posto al contratto di lavoro, ecc.
Il termine di decadenza può anche essere introdotto dall’autonomia privata, con la regola che: “è nullo il
patto in cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono difficile l’esercizio del diritto ad una delle
parti” (art.2965 c.c.)

7) La certificazione
La certificazione dei contratti è un istituto con cui le parti ottengono una qualificazione giuridica ufficiale
dei contratti che hanno ad oggetto una prestazione lavorativa. Dunque, la certificazione può essere chiesta
sia in materia di qualificazione giuridica del contratto (ad es: si certifica che il contratto ha natura
subordinata, autonoma o parasubordinata), sia per accertare la genuinità di clausole interne al contratto.
Essa ha la finalità di individuare la coerenza formale tra la volontà espressa dalle parti stipulanti e le
clausole contenute nel contratto da certificare.
Gli organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro sono 5 diverse commissioni, che possono essere
costituite presso: gli ispettorati del lavoro; il ministero del lavoro; le università; gli enti bilaterali; i consigli
provinciali dei consulenti del lavoro.
Essa viene chiesta in forma scritta, da entrambe le parti del contratto ed è, dunque, una procedura che ha
carattere volontario. Durante la procedura le parti devono presentarsi dinanzi alla Commissione
(l'eventuale assenza di uno dei due rende l'istanza improcedibile) e deve concludersi entro 30 giorni dal
ricevimento dell'istanza, con l'atto di certificazione che ha natura amministrativa e motivato. Se la
certificazione viene negata le parti possono presentare una nuova istanza fondata però su presupposti e
motivi nuovi.
[Quindi, con l’emissione del provvedimento di certificazione si realizza la fattispecie del contratto di lavoro
certificato, che consta in due atti distinti:
- il contratto, già perfezionato oppure che si perfeziona durante il procedimento di certificazione;
- l’atto amministrativo, che lo qualifica.]

8) La conciliazione
La conciliazione è, invece, un istituto che consente di risolvere in modo consensuale (e senza ricorrere ad
un giudice del lavoro) le controversie che possono sorgere durante il rapporto di lavoro. Un tempo il
tentativo di conciliazione era obbligatorio, la legge 183/2010 ne ha nuovamente previsto il carattere
meramente facoltativo.
La conciliazione può essere giudiziale o stragiudiziale:
- quella giudiziale avviene nel corso del processo e il giudice è tenuto a tentarla sin dalla prima udienza. Se
la proposta di conciliazione viene rifiutata senza un giustificato motivo, il giudice valuta questo
comportamento ai fini del giudizio.
Se, invece, la proposta va a buon fine, il relativo verbale ha efficacia di titolo esecutivo;

132

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

- quella stragiudiziale può avvenire solo in sede amministrativa dinanzi alla Commissione di conciliazione
costituita presso l'Ispettorato del lavoro. Può aversi, inoltre, in sede sindacale, secondo le modalità previste
dai contratti collettivi.
Si redige un verbale che il giudice, una volta accertata la regolarità formale, dichiara esecutivo con decreto.
[N.B. è prevista anche la conciliazione monocratica, che viene condotta dal personale del Ministero del lavoro
nell’ambito dell’intervento ispettivo o di vigilanza].

9) L’arbitrato
Accanto alla conciliazione, l'altra via per risolvere in modo consensuale una controversia di lavoro è
l'arbitrato.
Con esso le parti conferiscono ad un terzo soggetto (l'arbitro) il potere di decidere la lite.
L'arbitrato si distingue in rituale e irrituale:
- in quello rituale, il lodo pronunciato dall'arbitro ed omologato dal giudice, produce gli stessi effetti della
sentenza;
- in quello irrituale, invece, il lodo rimane sul piano negoziale (non ha valore di sentenza).
In generale, può ricorrersi all'arbitrato:
- per la risoluzione di una controversia già insorta, stipulando il contratto di compromesso;
- attraverso la clausola compromissoria, ossia obbligandosi a far decidere all'arbitro le eventuali
controversie che possono sorgere dopo la conclusione del contratto.
[N.B. tale clausola compromissoria è validamente pattuita dalle parti individuali qualora:
- sia prevista da accordi interconfederali e contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più
rappresentative;
- sia sottoscritta non prima della conclusione del periodo di prova o dopo 30 giorni dalla stipulazione del contratto di
lavoro;
- sia certificata da una Commissione di certificazione].
Ad ogni modo, in materia di lavoro l'arbitrato è possibile solo se è previsto dalla legge o dai contratti
collettivi.

10) Arbitrato irrituale e norma inderogabile


Dopo la legge 183/2010, sia nel caso di compromesso che per la clausola compromissoria, è stato
previsto che le parti possono chiedere che la decisione dell'arbitro avvenga secondo equità, che per molti,
ciò consentirebbe all'arbitro di superare i limiti derivanti dalle norme inderogabili: in realtà, tale timore non
ha motivo di esserci: l’arbitrato, come ogni altro atto di autonomia privata, non può essere contrario a
norme imperative, pena la sua nullità.
Infatti, la Corte costituzionale ha stabilito che l'inderogabilità delle norme del diritto del lavoro rappresenta
un limite in negativo della decisione dell'arbitro, diretto a proibirne il contrasto con gli interessi che si
impongono all’autonomia individuale (cioè, quest'ultimo, anche quanto decide secondo equità, incontra il
limite invalicabile dell'inderogabilità della norma lavoristica).

11) La giustizia del lavoro: specializzazione e specialità della tutela giudiziaria.


L’ambito della competenza: materie e rapporti
Ora passiamo al processo del lavoro. Questo nasce con la legge 533/1973 che introduce un rito dedicato
specificamente alle controversie di lavoro.
[N.B. Tramite questa riforma si affermava il carattere proprio del diritto del lavoro, rispetto al sistema generale del
diritto comune delle obbligazioni e dei contratti, contraddistinto da oggetti e funzioni particolari da richiedere,
appunto, una trattazione con principi e regole diverse da quelle del rito ordinario. Infatti, con tale riforma, si realizzava
la missione che l’ordinamento aveva attribuito al diritto del lavoro, cioè di garantire ai lavoratori percorsi di tutela
mirati all’uguaglianza sostanziale].

133

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Il processo di lavoro si caratterizzava per: speditezza, immediatezza, oralità, ampiezza dei poteri del
giudice.
Ovviamente, nel corso del tempo la situazione si è modificata, e anche il processo del lavoro si è trovato
coinvolto dai problemi della giustizia italiana: eccessiva lunghezza dei tempi, costi, burocratizzazione, ecc.
■ Tale processo è stato poi innovato dalla riforma Fornero (legge 92/2012), che ha introdotto un rito
speciale ad hoc.
In base all'art.409 c.p.c., le norme sul processo del lavoro si applicano alle controversie relative a:
rapporti di lavoro subordinato; rapporti derivanti da contratti agrari; rapporti di agenzia, rappresentanza
commerciale, rapporti di collaborazione continuativa e coordinata; rapporti di lavoro dei dipendenti di enti
pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica; altri rapporti di lavoro
pubblico, se non devoluti ad altro giudice.
In primo grado la competenza spetta al Tribunale in funzione di giudice del lavoro.
[N.B. Anche se l’art.413 co.2 individua i “fori speciali” attribuendo la competenza per territorio al giudice nella cui
circoscrizione è sorto il rapporto. Il ricorrente può scegliere tra i vari fori, dimostrando la sussistenza della circostanza
imposta dalla legge, altrimenti si ricorre al “foro generale”, per cui la competenza ricade sul giudice del luogo dove il
convenuto ha la residenza o domicilio. Dunque, nel processo le parti non possono convenire fori diversi da quelli
previsti dalla legge, pena la nullità di convenzioni in deroga.]

12) Concentrazione ed economia del procedimento, onere della prova, poteri del
giudice e dialogo con l’ordinamento intersindacale
La domanda giudiziale si propone con ricorso (e non con citazione che è l'atto tipico introduttivo del
processo civile) che deve contenere: generalità del ricorrente e del convenuto, determinazione dell'oggetto
della domanda (petitum), esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si fonda la domanda,
indicazione dei mezzi di prova e dei documenti offerti (se manca, si decade dalla possibilità di dedurre le
prove nel corso del processo).
Alcuni di questi elementi sono essenziali, la cui omissione conduce alla nullità del ricorso.
Il convenuto, invece, si costituisce almeno 10 giorni prima dell'udienza di discussione, mediante memoria
difensiva (in cui dovrà indicare, a pena di decadenza, i mezzi di prova e i documenti che deve depositare
contestualmente). Nell'udienza fissata per la discussione il giudice interroga liberamente le parti presenti e
tenta la conciliazione della lite formulando a queste una proposta transattiva. Se questa viene rifiutata, si
va avanti con l'istruttoria durante la quale il giudice ha molti poteri che vanno anche oltre i limiti stabiliti dal
codice civile [ad es., può sempre chiedere l'ammissione di ogni mezzo di prova, richiedere informazioni ai
sindacati indicati dalle parti, ecc.]
Esaurita la discussione, la causa è pronta per la decisione e il giudice pronuncia sentenza con cui definisce il
giudizio, dando lettura del dispositivo e della motivazione. Tale sentenza è provvisoriamente esecutiva
(ossia non bisogna attendere il giudicato, ma può subito procedersi anche all'esecuzione forzata).
[N.B. Abbiamo detto che la riforma Fornero ha introdotto un procedimento speciale (sommario, con trattazione
semplificata) per l'impugnazione dei licenziamenti individuali. Questo si applica ai licenziamenti che rientrano
nell'ambito di applicazione dell'art.18 dello Statuto, nonché: ai licenziamenti discriminatori, a quelli intimati in
concomitanza di matrimonio, a quelli con un motivo illecito determinante e ai licenziamenti riconducibili ad altra
nullità prevista dalla legge. Invece, tale procedimento non si applica ai licenziamenti dei lavoratori assunti con il
contratto a tutele crescenti (riforma del 2015 c.d. Jobs Act)].

13) Il ricorso in appello e in Cassazione


Ovviamente la parte soccombente può impugnare la sentenza di primo grado. Quanto all'appello, è
consentito l'appello con riserva di motivi (cioè l'appello è proposto solo sulla base del dispositivo, quindi
prima del deposito della sentenza o della sua notifica. Dopo di che, viene integrato quando la sentenza
viene pubblicata o notificata, indicando le ragioni su cui l'appello stesso si fonda); e nell'appello può
chiedersi anche la sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza (che il giudice concede quando dalla
stessa può derivare alla controparte un gravissimo danno).
134

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)
lOMoARcPSD|10523036

Quanto al ricorso per Cassazione, possibile solo per motivi di legittimità, questo è esperibile contro le
sentenze rese in appello o in un unico grado per violazione e falsa applicazione non solo di norme di diritto,
ma anche di norme dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.

14) Le particolari garanzie dei crediti del prestatore di lavoro


Il nostro ordinamento attribuisce al lavoratore subordinato una serie di garanzie a tutela dei suoi diritti di
credito, anzitutto in ragione della funzione della retribuzione (art.36 Cost).
Regole particolari si rinvengono, prima di tutto, in materia di privilegi.
Com'è noto, il privilegio è una causa legittima di prelazione accordata dalla legge, che costituisce garanzia
patrimoniale sui beni del debitore in relazione alla causa del credito. Il titolare di un privilegio potrà
precedere gli altri creditori chirografari per essere soddisfatto del proprio credito.
I "privilegi generali" riguardano tutti i beni mobili del debitore.
L'art. 2751-bis (inserito nel codice civile dalla legge 426/1975) prevede un privilegio generale per le
retribuzioni dovute sotto qualsiasi forma, per le indennità derivanti dalla cessazione del rapporto di lavoro,
nonché per il credito per i danni conseguenti a omissione contributiva o per licenziamento illegittimo.
[N.B. In caso di insolvenza del datore dì lavoro, poi, il lavoratore che ha cessato rapporto di lavoro senza ricevere
soddisfazione del TFR e dei crediti retributivi, può richiederne il pagamento al Fondo di garanzia, istituito presso l'INPS].

La protezione del credito retributivo viene estesa anche nei confronti dei terzi, ai quali vengono imposte per
legge numerose limitazioni alla possibilità di aggredire il patrimonio del lavoratore.
Infatti, in deroga alle norme generali stabilite dall'art.2740 c.c. ex art.545 co.3 e 4 c.p.c., le somme percepite dal
lavoratore a titolo di stipendio e le altre indennità relative alla cessazione del rapporto di lavoro possono essere
oggetto di pignoramento nella misura stabilita dal giudice nel caso si debba soddisfare un credito alimentare di
terzi; mai comunque in misura superiore alla metà (1/2) dello stipendio.

--- END ---

C.D.A.

135

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: daniele-zini (razorbak360@hotmail.it)
Scaricato da Kevritt Calvino (kevrittcal@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche