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[SEZIONE 1]
CAP 1 - Il percorso storico del diritto del lavoro italiano
1) Lo sviluppo del diritto del lavoro industriale
Il diritto del lavoro rappresenta un complesso di regole giuridiche destinate a regolare il mondo del lavoro.
È caratterizzato da un’ampia formulazione extra-legislativa, dato che molte delle sue norme sono
desumibili da fonti meno formalizzate ex: accordi collettivi
Il diritto del lavoro in analisi è definito “industriale”, cioè formatosi a seguito della Rivoluzione industriale
che introdusse la macchina nei processi produttivi. Da questo momento in poi, il diritto del lavoro ha
vissuto una serie di fasi diverse, dipendenti da differenti assetti produttivi, ideologici, ecc.
4) Il corporativismo fascista
Nel 1922 l’Italia divenne fascista, che subito si impose con una repressione brutale dell’associazionismo
sindacale.
Si impose quindi un’ideologia corporativa, che aggregava tutti coloro che svolgevano un mestiere allo
scopo di realizzare l’unico interesse superiore dello Stato, cioè la “produzione nazionale”.
In questo periodo vennero rafforzati i poteri datoriali del rapporto del lavoro (prevedendosi, ad esempio,
l’assoluta libertà di licenziamento). Tuttavia vi furono degli interventi di politica sociale, con lo scopo di
ottenere quel forte consenso che consentiva al fascismo di radicarsi nel paese: ad esempio fu introdotta
una legge nel 1924 che disciplinò organicamente il rapporto di lavoro degli impiegati nelle aziende private.
Non bisogna dimenticare lo schifo assoluto che produsse il fascismo, in primis mediante il vergognoso
allontanamento di tutti gli ebrei dal mondo del lavoro a seguito delle schifose leggi razziali del 1938,
nonché il trattamento diversificato delle colonie africane, il cui lavoro era prossimo alla schiavitù. Venne
inoltre abolita la libertà sindacale in favore di un unico sindacato che stipulava i contratti collettivi, recepiti
come vere e proprie leggi, essendo applicati automaticamente a tutti. Inoltre fu vietato lo sciopero,
sanzionato penalmente dal codice Rocco del 1930. Nel 1942 fu introdotto il nuovo Codice civile, che
ricomprendeva molte norme che regolavano l’impresa e poche norme che regolavano il lavoro, essendo la
parte lavoristica quasi completamente incentrata sulla regolazione del rapporto individuale.
Con la caduta del regime fascista (1943), abbiamo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo e il ripristino
della libertà sindacale.
Fu chiesta a gran voce una “democratizzazione e costituzionalizzazione” di tali relazioni e si attuarono una
serie di riforme garantiste nel diritto del lavoro. Nel 1970 si giunse, infatti, allo Statuto dei lavoratori, che
era un provvedimento organico che disciplinava e limitava i poteri del datore di lavoro, a sostegno
dell’azione dei sindacati maggiormente rappresentativi. Altro importante provvedimento fu la legge sul
nuovo processo del lavoro del 1973, più veloce e informale, indispensabile per garantire l’effettiva tutela dei
diritti dei lavoratori.
Ci troviamo, quindi, in una fase storica caratterizzata dalla “cultura delle garanzie”, sostenuta soprattutto
dagli studiosi del diritto del lavoro (ex: “la teoria dell’ordinamento intersindacale” di Gino Giugni,
imperniata sul riconoscimento dell’ordinamento fatto di regole non codificate, ma autoprodotte, efficaci e
vincolanti nel sistema di relazioni industriali, spesso confliggenti con l’ordinamento statale) e quindi
assistiamo all’affermazione di un diritto sindacale “di fatto” che dava ampio spazio ai giudici, studiosi e alla
prassi, sacrificando la legislazione.
11) La nuova funzione del diritto del lavoro e le priorità della Costituzione
Quindi, il diritto del lavoro attuale si trova condizionato da tendenze neoliberiste e da una profonda
precarietà del lavoro. Si passa da una fase precedente di regole di tutela espansiva nei confronti del
lavoratore a regole di riflusso e regresso protettivo in linea con i fragili rapporti dell’autonomia collettiva
“aziendalizzata”.
Cioè, si passa dalla figura del lavoratore subordinato ma forte del suo lavoro stabile e duraturo alla
figura del lavoratore precario e insicuro del suo lavoro instabile e impoverito dalla discontinuità retributiva.
In questa configurazione, quindi, il diritto del lavoro perde il suo originario spirito di tutela imperativa
per diventare un’appendice del diritto commerciale e quindi un diritto del lavoro fondato sulle
diseguaglianze, derogabile e mercificato. Tuttavia, va ricordato che in questa cornice angosciante appena
raffigurata, c’è la nostra Costituzione che assume un ruolo centrale e un punto di riferimento della materia
del diritto del lavoro e che assegna a quest’ultimo il ruolo determinante del patto fondativo della nostra
Repubblica, quale fattore di emancipazione verso l’uguaglianza sostanziale dei cittadini.
CAP 2 - Le fonti: Costituzione, legge e contratto nella disciplina del rapporto di lavoro.
I Diritti fondamentali
- statica attraverso tutele dirette, il cui contenuto è già delineato normativamente (ex: diritto alla
retribuzione art.36)
- dinamica mediante il soggetto collettivo-sindacale (espressamente indicato negli artt.39 e 40) il cui
scopo è definire gli interessi e gli assetti da perseguire per il lavoratore. Da qui emerge l’elemento del
contratto collettivo, come emblematica espressione del pluralismo sociale. La componente sindacale viene
quindi ad assumere un rilievo di primissimo piano, mediante la quale il contratto collettivo diventerà uno
strumento per contemperare esigenze di tutela di lavoro e di produttività dell’impresa e che svolgerà il
compito di produzione dinamica delle regole del lavoro.
In questo senso, lo Statuto pone in evidenza la centralità della realtà effettuale dei rapporti di forza nei
luoghi lavorativi.
Infatti, l’art.18 dello Statuto, sottolinea l’importanza della protezione contro il licenziamento, segnando la
massima distanza dal codice civile, il quale è poco attento alla situazione di subordinazione del lavoratore,
dato che prevede la libera recedibilità, la quale è vista sicuramente come arma a favore del datore di
lavoro. Perciò, il legislatore statutario si è posto l’obiettivo di rafforzare gli interessi del lavoratore per
raggiungere l’equilibrio del contratto di lavoro e per consentire al lavoratore di esprimere sé stesso come
“persona” all’interno dell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Tuttavia, con la crisi petrolifera del 1973 e l’avvio della “legislazione d’emergenza”, cambiano gli scenari
economici e i contesti culturali e il tratto distintivo di questo periodo sarà dato dalla flessibilità, intesa
come una riduzione dei vincoli alle scelte e ai poteri del datore del lavoro. Infatti, il filo conduttore non sarà
più la tutela del lavoratore come visto nei decenni precedenti, ma tuttalpiù ci si concentrerà sul
contenimento del costo del lavoro a sostegno delle imprese in crisi e ai relativi processi di ristrutturazione,
sino ad arrivare all’ampliamento delle figure contrattuali e alla riduzione della spesa previdenziale.
[Secondo una tesi sostenuta in quel periodo, maggior flessibilità significa appunto minore tutela del lavoratore, ma può
significare anche maggior possibilità di impiego per coloro che sono privi del lavoro. Tuttavia, empiricamente, tale tesi sarà
rigettata a partire dall’esperienza italiana, che ha visto tassi bassi e alti di disoccupazione a parità di livelli di tutela].
Negli ultimi anni, a seguito della difficilissima situazione economica, assistiamo ad un indebolimento
fattuale dell’inderogabilità, come è avvenuto mediante il “Jobs act”, che ha introdotto regole riguardanti
l’apposizione del termine al contratto di lavoro e il licenziamento ingiustificato nel contratto a tempo
indeterminato.
Infatti, il carattere flessibile della disciplina del contratto a termine e la compressione della tutela reale per
il licenziamento ingiustificato, indeboliscono sensibilmente la posizione del lavoratore circa la possibilità di
mantenere il proprio impiego lavorativo, sacrificando le regole poste a sua tutela, e quindi l’inderogabilità.
Per quanto riguarda l’efficacia “erga omnes” dei contratti si cercherà una soluzione basandosi
sull’effettività delle relazioni che le parti sociali riusciranno di fatto a sviluppare facendo perno sull’unità
delle confederazioni sindacali, le quali sono giunte a darsi, per la prima volta, un quadro di regole sul
funzionamento della rappresentanza sindacale: “Testo Unico sulla rappresentanza” (2014).
Anche se l’inderogabilità unilaterale non sarà mai messa in discussione, molta più incertezza si evince dal
rapporto tra contratti collettivi di diverso livello a causa dell’accentuarsi della tendenza al decentramento
dell’attività contrattuale, che ha generato un’articolazione ulteriore dei contenuti dei contratti collettivi e
quindi una configurazione di diverse figure contrattuali. Inoltre, va segnalata la nuova figura di contratto
collettivo “di prossimità” che attribuisce il potere di derogare alla legge e al contratto collettivo nazionale,
anche “in peius” e con efficacia generale. Ciò ha posto dubbi di legittimità costituzionale.
Spesso si è richiamata l’attenzione su un maggiore spazio per l’autonomia individuale, consentendo alle
parti di modificare in senso migliorativo (per il lavoratore) le norme di legge e il contratto collettivo.
Perché?
a) Dal lato del datore di lavoro, la possibilità di contrattare con il lavoratore su vari aspetti della disciplina
della prestazione, consente una massima elasticità del lavoro.
b) Dal lato del lavoratore, egli può realizzare più facilmente i propri interessi e le proprie scelte.
Negli ultimi anni, la possibilità di ridurre la rigidità del contratto collettivo o della legge è risultata
necessaria per affrontare le difficoltà della crisi economica. Ad assumere rilevanza è l’indebolimento della
posizione del lavoratore in seguito alla riduzione dei vincoli nella disciplina del contratto a termine e in
seguito alla restrizione della tutela reale contro il licenziamento ingiustificato. Entrambe vanno a intaccare il
principio dell’inderogabilità, offrendo al datore di lavoro il potere di attenuare i vincoli normativi apposti
dall’ordinamento proprio per limitarne il potere.
Bisogna, infine, fare due considerazioni importanti: va ribadita l’importanza delle condizioni di uguaglianza
tra le parti nella negoziazione; bisogna considerare la relazione “individuale-collettivo” sotto il piano
giuridico-istituzionale (come fatto anche nella Costituzione nell’art.39, prevedendo un sistema di diritti
individuali nei confronti della rappresentanza collettiva e per dar vita a una solida democrazia sindacale,
per salvaguardare la dimensione individuale della libertà sindacale ex art 39 co.1)
Tra le fonti di diritto interazionale contenenti previsioni rilevanti per il diritto del lavoro, ricordiamo:
- Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo; Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU); la Carta sociale europea; altre Convenzioni in tema di lavoro
forzato, lavoro minorile, schiavitù, parità di trattamento retributivo uomo-donna, ecc.
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Ruolo importante sull’osservanza e applicazione del diritto comunitario è svolto dalla Corte di giustizia che
agisce come Corte internazionale quando vi siano controversie tra stati membri e opera come Corte
europea negli altri casi.
Negli ultimi anni, con l’aumento delle competenze comunitarie e il numero di Stati membri, è risultato
molto difficile approvare nuove direttive, e perciò ci si è spostati verso misure non vincolanti, soprattutto
per le politiche occupazionali.
12) Le competenze dell’Unione europea in materia di politiche sociali e diritto del lavoro
Vi sono una serie di materie di politica sociale e diritto del lavoro di competenza dell’Unione europea
(esempio: miglioramento dell’ambiente di lavoro, condizioni di lavoro, sicurezza sociale e protezione
sociale, protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro, informazione e consultazione,
rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, condizioni di impiego
dei cittadini dei paesi terzi soggiornanti legalmente nell’UE, ecc..)
Inoltre, per ripartire meglio le competenze tra Unione e Stati membri si ricorre al principio di sussidiarietà
sia verticale, che orizzontale (in quest’ultimo, l’Unione interviene in materia di politica sociale con un
proprio atto normativo solo se questo è più efficace rispetto alla contrattazione collettiva europea).
Per la gran parte dei settori si utilizza la procedura legislativa ordinaria, attraverso la co-decisione del
Consiglio e del Parlamento europeo. In 4 settori specifici invece opera la procedura legislativa speciale in
cui il Consiglio delibera all’unanimità, previa consultazione del Parlamento. Le materie di retribuzione, diritti
di associazione, diritto di sciopero e diritto di serrata sono escluse dalla competenza dell’Unione europea.
13) I diritti fondamentali dei lavoratori. Fonti e “catalogo” dei diritti fondamentali
Per quanto riguarda i diritti fondamentali, si può affermare che la loro qualificazione distingue
determinati diritti per il “rango” che occupano nella gerarchia delle tutele. Quindi nell’ambito dei diritti
previsti dalla Costituzione bisogna distinguere quelli fondamentali e tali diritti fondamentali vanno cercati al
di fuori delle Costituzioni nazionali.
In merito, si può affermare che vi sia un dibattito assai ricco tra gli studiosi in merito ai diritti fondamentali.
- Secondo alcuni è importante circoscrivere la categoria di tali diritti, ritenendo “fondamentali” i diritti di
libertà dei lavoratori, articolando attorno a essi valori come uguaglianza, dignità della persona, libertà
sindacale, ecc. e tenendoli distinti dai diritti scaturenti dal contratto.
- Secondo altri, i diritti fondamentali sono quelli rinvenibili nel “nucleo duro” dei diritti inviolabili dei
lavoratori.
Quest’ultimo orientamento sembra quello più idoneo ad evidenziare la funzione “conservativa” che assume
la categoria dei diritti fondamentali nel diritto del lavoro. Tuttavia, questo approccio è comunque riduttivo
perché individua solo “in negativo” i diritti fondamentali, trascurando il fatto che il loro riconoscimento nel
diritto sopranazionale può comportare un’estensione o una trasformazione delle tutele in alcuni
ordinamenti nazionali, e così via.
Perciò l’orientamento preferibile si basa essenzialmente su due aspetti:
formale pone in rilievo la tipologia delle fonti che riconoscono i diritti fondamentali;
sostanziale rimarca la connessione dei diritti fondamentali con determinati valori irrinunciabili.
Tale approccio sembra ben sintetizzato in una sentenza della Corte di Cassazione, che individua i diritti
inviolabili dalla “valenza costituzionale”, che emergono anche dai documenti sopranazionali. Tali diritti sono
garantiti e tutelati con efficacia “erga omnes”, proprio perché fondanti della persona umana. Inoltre la
sentenza elenca anche i documenti sopranazionali da cui dedurre tali diritti: norme della Convenzione
europea sui diritti dell’uomo; Trattato di Lisbona; Carta di Nizza; la Carta sociale europea (aggiornata al
1999).
Parlando di tutele fondamentali di rilevanza costituzionale, bisogna menzionare la sintesi della dottrina a
proposito di una “visione tripartita” della Costituzione, cioè come testo normativo prima di tutto, ma che
vive di un contesto fattuale (cioè l’esperienza sociale in cui il testo si cala) e di contesto normativo (cioè
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dei controlimiti”). In realtà è opportuno partire dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, nella quale sono ricompresi i diritti sociali fondamentali. Tale carta, come affermato nel suo
preambolo, è fondata sui principi universali di:
dignità, libertà, eguaglianza, e solidarietà. Inoltre istituisce la “cittadinanza dell’Unione” e riafferma i diritti
derivanti dalle tradizioni costituzionali, dagli obblighi internazionali, dalla Convezione per la salvaguardia dei
diritti dell’Uomo, ecc.
Tale “catalogo” dei diritti fondamentali parte dalla qualificazione come “inviolabile” della dignità umana
Collegata a questo valore abbiamo la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato (art.5)
Inerente alla libertà deriva il diritto di ogni persona alla protezione dei dati di carattere personale (art.6).
Alla tutela della libertà abbiamo poi il riconoscimento del diritto alla libertà di riunione e di associazione
(art.12), il diritto all’accesso alla formazione professionale e continua (art.14),
il diritto di esercitare una professione liberamente scelta o accettata, di cercare un lavoro, di lavorare, di
stabilirsi o prestare servizi in qualunque Stato dell’Unione e il diritto dei cittadini di paesi terzi, autorizzati a
lavorare, a condizioni di lavoro equivalenti a quelle dei cittadini dell’Ue.
Abbiamo poi la tutela della libertà di impresa (art.16), in cui è precisato che la tutela deve conformarsi al
diritto dell’Ue, alle legislazioni e alle prassi nazionali.
Tale rinvio alle legislazioni nazionali pone un problema di compatibilità. Infatti nella nostra Costituzione
(art.41 Cost) vi è una previsione differente in quanto si riconosce la libertà dell’iniziativa economica privata,
ma è precisato che tale libertà non può contrastare l’utilità sociale, e non deve danneggiare la sicurezza, la
libertà e la dignità umana.
Per quanto riguarda i diritti connessi all’uguaglianza, partiamo dall’uguaglianza formale, la quale è
formulata diversamente dall’art.3 della Costituzione italiana. Va precisato che tale diritto riconosciuto
dall’Ue ha un’ampiezza maggiore rispetto a come è configurata dalla Carta italiana, infatti è riferito a tutte
le persone ed ha un elenco molto più vasto di fattori di discriminazione vietati. Su questa falsariga, va
sottolineata l’importanza del diritto dei disabili all’inserimento sociale e professionale (art.26). Una
profonda differenza tra la Carta Ue e la Costituzione italiana si rinviene analizzando l’art.3 co. 2 della
Costituzione.
Infatti il concetto di uguaglianza sostanziale, così come previsto da questo comma, non è menzionata nella
Carta Ue, che riguarda tanti Stati con tradizioni e ispirazioni assai diverse.
La parte più interessante e innovativa della Carta Ue sicuramente si rinviene nel Titolo IV della Carta Ue,
dedicato alla solidarietà. In esso compaiono i veri e propri diritti sociali fondamentali, nei quali si riflettono
i diritti della Costituzione.
Grande novità riguarda i diritti sociali collettivi che fondano relazioni industriali, tra i quali ricordiamo i
diritti all’informazione e consultazione nell’ambito di impresa (art.27); i diritti di negoziazione e di azioni
collettive (art.28).
Nella Carta Ue, va precisato, che non vi è menzione della libertà di organizzazione sindacale, seppur questa
risulta garantita da alcune Convenzioni OIL che tutelano il diritto di organizzazione collettiva. Inoltre, nelle
interpretazioni dell’art.39 della Costituzione vi è un’estensione della libertà sindacale anche a forme
organizzative che non assumano la veste giuridica di vere e proprie associazioni.
La Carta Ue, quindi, va oltre la tutela della libertà e del pluralismo sociale, garantendo ai lavoratori o alle
loro rappresentanze il diritto di informazione e di consultazione in tempo utile, il quale però appare
riconosciuto in modo generico ai soggetti attivi e ai soggetti passivi.
Inoltre bisogna tener conto del collegamento che si instaura tra l’art.27 della Carta Ue e l’art.46 della
Costituzione (che sancisce il diritto dei lavoratori di collaborare alla gestione delle aziende). In quest’ottica,
la norma nazionale appare più ampia ma anche più generica rispetto alla norma europea, che invece
riconosce dei diritti a carattere partecipativo, più blandi ma anche ben individuabili e soprattutto già
disciplinati dettagliatamente in altre fonti del diritto Ue.
L’art.28 della Carta Ue riconosce il diritto della contrattazione collettiva, sciopero e serrata, ma ne attenua
il riconoscimento di rango costituzionale europeo, affidandolo a conformarsi al diritto dell’Unione e alle
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legislazioni e prassi nazionali. Ovviamente, al di là della disciplina prevista dalla Carta Ue, abbiamo anche
l’art.6 della Carta sociale europea che riconosce il diritto alle negoziazioni collettive, tra cui è compreso
anche il diritto di sciopero. In Italia ci sono poi gli artt.39 e 40 della Costituzione che tutelano la libertà
sindacale, da cui deriva un’ampia tutela costituzionale del diritto alla contrattazione collettiva. L’art.40 della
Costituzione riconosce specificamente il diritto di sciopero.
L’art.29 della Carta Ue riconosce il diritto di accedere ad un servizio di collocamento gratuito, e in tale
ambito si riconosce il merito della Carta Ue di aver precisato il carattere gratuito di tale servizio, rimanendo
però indifferente se il servizio venga affidato a soggetti pubblici o privati.
Per quanto riguarda le tutele del minore, l’art.32 della Carta Ue sancisce il divieto di lavoro minorile,
facendo coincidere l’età minima per lavorare con l’età in cui termina la scuola dell’obbligo. Ciò risponde ad
una delle più rilevanti esigenze della società industriale.
La lotta al lavoro minore è uno dei più importanti obiettivi dell’OIL, mediante alcune sue Convenzioni. Ma è
con la “Dichiarazione dei core labour standards” del 1998 che l’effettiva eliminazione del lavoro minorile
diventa uno dei terreni privilegiati dell’azione politica delle istituzioni internazionali del lavoro.
Tuttavia, da un punto di vista fattuale, il lavoro minorile resta una grave e diffusa piaga.
La Carta Ue e la Costituzione prevedono una serie di tutele riconducibili ai diritti fondamentali, sia per i
minori che per i giovani nel mondo del lavoro. Per quanto riguarda la prima: l’art.21 sancisce il divieto di
discriminare in ragione dell’età; l’art.32 garantisce ai giovani condizioni di lavoro appropriate all’età e
protezione contro lo sfruttamento economico; l’art.31 riconosce ad ogni lavoratore il diritto a condizione di
lavoro sane, sicure e dignitose e attribuendogli il diritto ad una limitazione della durata massima del lavoro,
riconoscendogli periodi di riposo e ferie annuali retribuite.
Per la Costituzione l’art. 37 co.3 Cost. garantisce ai minori, a parità di lavoro, il diritto alla parità di
retribuzione.
Ciò che segna una differenza tra la Carta Ue e la Costituzione è che quest’ultima prevede all’art.36 co.1 il
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità di lavoro…”, mentre nella prima manca
un riferimento a tale diritto, seppur venga previsto da alcune Convenzioni OIL la garanzia di un minimo
salariale.
Tuttavia vi è da segnalare la grave debolezza delle regole giuridiche internazionali per quanto riguarda le
minime garanzie salariali, che in un’economia globalizzata, si ripercuote sulle politiche sociali degli Stati.
L’art.33 della Carta Ue riconosce ad ogni persona il diritto ad un congedo di maternità retribuito e a un
congedo parentale dopo la nascita o adozione di un figlio.
In materia di licenziamento, la tutela contro il licenziamento ingiustificato rappresenta per la Carta Ue un
diritto fondamentale del lavoratore: l’art.30 prevede il diritto alla tutela contro ogni licenziamento
ingiustificato, mentre l’art.33 co.2 prevede la tutela contro il licenziamento in caso di maternità.
Inoltre, l’art.24 prevede una forma di tutela contro il licenziamento ingiustificato, attribuendo al lavoratore
licenziato il diritto ad un congruo indennizzo, oltre alla possibilità di impugnare il licenziamento dinanzi ad
un organo imparziale.
L’art.4 della Carta sociale europea riconosce il diritto dei lavoratori ad un ragionevole periodo di preavviso
nel caso di cessazione del rapporto di lavoro.
I diritti sociali sono da collegare al Welfare State, il quale soprattutto in Italia, è costruito essenzialmente
intorno ai diritti dei lavoratori. Infatti lo “Stato sociale” è una peculiarità del modello europeo dopo la
seconda guerra mondiale, il quale, storicamente, ha convissuto e si è relazionato con il progetto di
un’integrazione europea economico-mercantile, e ciò ha comportato lo sviluppo di Stati sociali ben diversi
tra loro, con tradizioni e fondamenti normativi non omogenei.
Tuttavia, col passare del tempo, si è avvertita la necessità di superare tali diversità e di delineare i tratti
comuni dello “Stato sociale” dei diritti riconosciuti da tutti gli Stati europei. Tali diritti sono l’art.34 Carta
Ue, che assicura a tutti i cittadini comunitari il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai
servizi sociali che assicurano protezione in presenza di generatori di bisogno quali: maternità, malattia,
infortuni sul lavoro, perdita del posto di lavoro, ecc.
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L’art. 35 riconosce invece il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche.
Tali norme hanno una corrispondenza con gli artt. 32 e 38 della Costituzione, che fondano il sistema
sanitario e l’assistenza sociale, cioè quel servizi e benefici di welfare di cui sono destinatari tutti i cittadini,
non solo i lavoratori.
Bisogna però porre l’accento anche suoi limiti posti alle tutele previdenziali e assistenziali, legati al fatto che
non possono essere garantiti in modo incondizionato, dato che soprattutto negli ultimi periodi l’Unione ha
dovuto fare i conti con le ristrettezze finanziarie (imponendo ad ex: il vincolo di pareggio di bilancio) che
hanno in qualche modo inciso sui servizi sociali erogati dagli apparati nazionali.
15) Il ruolo dei diritti fondamentali nel diritto del lavoro in trasformazione
[N.B. Il diritto del lavoro odierno è in profonda trasformazione, poiché il lavoro è oggetto di una relazione
contrattuale che si ritrova in un contesto di mercato, esso rischia da qualche anno di essere dominato da teorie o
ideologie di tipo iperliberista, le quali si richiamano alla c.d. analisi economica del diritto, che rende il contratto uno
strumento più funzionale al mercato che alla garanzia di determinati diritti, anche fondamentali, in capo al lavoratore.
Una reazione a queste teorie di manifesta nel tentativo di considerare il lavoro come un “bene comune”, cioè una
cosa (res) posseduta da tutti e da garantire indipendentemente dalla relazione contrattuale. Inoltre, i diritti
fondamentali svolgono funzioni importanti sotto il profilo “pratico”.
Al riguardo, c’è chi li considera idonei per costituire una piattaforma irrinunciabile, sottratta al dominio della politica e
dell’economia, creando un programma generale di politica del diritto valido soprattutto per il legislatore].
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Ogni medaglia ha purtroppo il suo rovescio. Non possiamo di certo ignorare i numerosi raggiri, elusioni,
frodi di varia natura che caratterizzano l’ambito economico illecito (c.d. economia non osservata), che
sfugge alle regole del diritto e della reale concorrenza imprenditoriale.
In tale ambito non esistono dati univoci, e perciò si tratterà di elaborare stime e previsioni e perciò tutte le
rappresentazioni più accreditate non possono essere mai contestualizzabili ad una fase economica in corso.
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• L’ente principale è l’INPS (Istituto nazionale della previdenza sociale, che nel 2012 ha visto confluire in
esso tutte le competenze di altri enti, quali l’INPDAP ed ENPALS, dato che la creazione di un unico grande
ente dovrebbe previdenziale dovrebbe rendere più efficiente il servizio pubblico): la sua attività principale
consiste nella liquidazione e nel pagamento delle pensioni e delle indennità di natura previdenziale, basate
su rapporti assicurativi e finanziate con i contributi dei lavoratori e aziende pubbliche e private, e nella
erogazione delle prestazioni di natura assistenziale.
• L’INAIL → (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) che è un altro ente sulla
sicurezza sociale. È ad oggi un ente deputato alla tutela e alla salute negli ambienti di lavoro e di vita,
fornendo assicurazione e indennizzo; prevenzione e ricerca scientifica; interventi di cura, riabilitazione,
inserimento ai lavoratori infortunati e servizi di consulenza, certificazione e verifica delle imprese.
4.2) Per quanto riguarda le imprese il panorama delle imprese italiane è molto frastagliato. Non sono
presenti dati recenti, consolidati e verificati. Da un punto di vista strutturale il sistema è caratterizzato da
piccole e piccolissime dimensioni: prevalgono più le ditte individuali e le micro imprese con 0-9 addetti
(95%), mentre le piccole e medie imprese con 10-49 addetti rappresentano il 4%. La Lombardia e il Lazio
sono le regioni che presentano il maggior numero di imprese e addetti impiegati. Le relazioni di lavoro,
quindi, si caratterizzano per una dimensione quasi domestica o personalistica dell’ambiente di lavoro.
Possiamo vedere che la gestione dei rapporti di lavoro e le rispettive regole, siano influenzate dalla
dimensione e dal settore imprenditoriale in cui esse si svolgono: eppure il diritto del lavoro difficilmente
tiene conto di questa variabile.
Più importante è la contrattazione tra rappresentante collettive a incidere sulle discipline e spesso l’ambito
di applicazione dei contratti collettivi viene distinto in base alle caratteristiche e dimensioni delle imprese.
4.3) I sindacati
Essendo fondamentale la dimensione collettiva e negoziale del diritto del lavoro, analizziamo le varie
rappresentanze collettive degli interessi delle categorie professionali, entrando nel campo del diritto
sindacale.
I sindacati sono associazioni di diritto privato e storicamente abbiamo 3 protagonisti storici in questo
ambito:
• CGIL→ Confederazione generale italiana del lavoro (1944)
• UIL → Unione italiana del lavoro, di ispirazione laica, democratica e socialista (1950)
• CISL → Confederazione italiana sindacati dei lavoratori, di ispirazione cristiana (1950)
Vi sono altre confederazioni di portata nazionale: UGL (unione generale del lavoro) orientata politicamente
a destra, CISAL (confederazione italiana sindacati autonomi), COBAS (confederazione dei comitati di base).
Per quanto il sindacalismo datoriale ha origini più recenti:
• CONFINDUSTRIA (1910) → principale associazione di rappresentanza delle imprese manifatturiere
e dei servizi.
È ad adesione volontaria e può contare su una base di oltre 150 mila imprese e un totale di 5 milioni e
mezzo di addetti.
• CONFAPI (1947) → (Confederazione italiana della piccola e media industria privata)
• CONFOCOMMERCIO (1945) → (Confederazione generale italiana delle imprese, delle attività
professionali e del lavoro autonomo), tra le maggiori rappresentanze d’impresa italiane, con oltre 700.000
imprese italiane.
• Le amministrazioni pubbliche sono rappresentate dall’ARAN → (agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni).
Il ruolo del sindacato ha un importante riconoscimento anche nell’UE: opera la Confederazione europea dei
sindacati (CES o ETUC). Ne fanno parte 85 Confederazioni sindacali nazionali e 10 Federazioni industriali
europee.
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Tale Confederazione lavora con le altre parti sociali e istituzioni per sviluppare l’occupazione e individuare
le politiche sociali e macroeconomiche che riflettano gli interessi dei lavoratori europei. L’importanza del
CES è data dal fatto che il Trattato attribuisce alle parti sociali il diritto di formulare proposte legislative
proprie, attraverso accordi intersettoriali, sulle principali questioni di politica sociale.
4.5) Parliamo adesso dell’Unione europea: nei suoi Trattati e nella Carta dei diritti fondamentali hanno
una collocazione importante la promozione di regole per la tutela del lavoro e lo svolgimento di politiche per
incrementare l’occupazione ed il benessere dei lavoratori. Si aggiunge inoltre la copiosa produzione
normativa (direttive e regolamenti) in materia sociale e il dinamico ruolo di interpretazione rivestito dalla
Corte di Giustizia.
Per le questioni attinenti all’occupazione e alla politica sociale, una funzione consultiva è svolta dal
Comitato economico e sociale che è chiamato a coinvolgere i gruppi di interesse economico sociale in un
sistema di consultazione caratterizzato dal fatto che le opinioni espresse dal Comitato sono indirizzate al
Consiglio, Commissione e Parlamento. Sono invece configurate come Agenzie dell’Unione e la Fondazione
europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che ha lo scopo di contribuire alla
pianificazione e alla messa in atto di migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa, e l’Agenzia europea
per la sicurezza e la salute sul lavoro che svolge attività di sensibilizzazione e di informazione
sull’importanza della salute e della sicurezza dei lavoratori per la stabilita e crescita sociale ed economica.
Le insidie e le asimmetrie del mercato
Gli istituti del diritto del lavoro si muovono nell’articolato contesto socio-economico del “mercato del lavoro”. Tale
espressione rimanda alla logica dello “scambio”, ed infatti il contratto di lavoro è uno strumento di transizioni di
mercato, cioè il principale negozio attraverso cui si formano gli interessi a seguito dell’incontro tra la proposta di
lavoro e la sua accettazione (domanda/offerta di lavoro). L’ordinamento giuridico infatti delinea i contenuti e le
finalità operative che comportano una regolamentazione delle dinamiche del mercato del lavoro.
Vi è una problematica di fondo, comune in tutto il mondo, di regolare il funzionamento del mercato del lavoro,
caratterizzato dall’instabilità e dall’estrema precarietà dell’equilibrio tra domanda/offerta. Infatti, la scarsità
dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda occupazionale è, ad oggi, molto evidente, soprattutto se si concepisce
l’impiego lavorativo come stabile e a tempo pieno. Perciò, le implicazioni sociali e collettive insite nella
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regolamentazione dei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro spiegano perché a livello globale vi sia una
grande attenzione ai fenomeni della disoccupazione. Gli ordinamenti del mondo sono quindi indirizzati nello
svolgimento di un ruolo attivo nel governare le dinamiche economico-sociali, attraverso soggetti pubblici, sistema di
servizi e istituzioni deputate a “promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto del lavoro” (art.4 Cost.).
6) Lo scenario internazionale
Il carattere globale delle problematiche affrontate fin ora spiega perché vi sia l’interessamento di molte
Convenzioni internazionali intorno all’importanza della promozione dell’occupazione e dell’attuazione delle
politiche che garantiscono a tutti la possibilità di ottenere un lavoro dignitoso. Ciò presuppone che il lavoro
sia teso allo sviluppo spirituale delle persone, in condizioni di libertà, dignità, ecc. dando particolare
attenzione alle categorie deboli.
Le nazioni devono quindi elaborare programmi mirati al pieno impiego dei lavoratori e introdurre forme di
indennizzo in caso di disoccupazione. Devono provvedere affinché il sistema di protezione contro la
disoccupazione contribuisca effettivamente alla promozione del pieno impiego non scoraggiando i datori di
lavoro dall’offrirlo.
• La Convenzione OIL n.88 ha previsto che gli Stati predispongano un servizio di collocamento gratuito
organizzato in modo da garantire l’efficacia del reclutamento e dell’impiego dei lavoratori, aiutando
quest’ultimi a trovare un’occupazione conveniente e aiutando i datori di lavoro a reclutare lavoratori adatti
ai bisogni delle imprese.
Inizialmente quest’attività era ad appannaggio esclusivo degli enti pubblici, per evitare che i privati
abusassero di tale attività. Successivamente è stata riconosciuta anche all’agenzie per l’impiego private una
funzione utile nelle dinamiche del mercato del lavoro, legittimandole a svolgere una serie di servizi.
Inoltre lo Stato deve accertarsi dell’assenza di ogni forma di discriminazione nell’erogazione di tali servizi.
Infatti i principi di parità e di non discriminazione sono alla base del concetto di pieno impiego, connessi al
riconoscimento del diritto di lavorare in condizioni adeguate e dignitose.
7) Il contesto europeo
La normativa europeo ha incorporato i più importanti principi alla base delle proprie iniziative normative e
politiche. Tali principi si rinvengono nei Trattati e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Una delle priorità nelle politiche europee e nazionali è sicuramente la promozione del lavoro dignitoso, in
quanto ogni individuo ha il diritto di lavorare ed esercitare una professione liberamente scelta, e la libertà
di cercare un lavoro o prestare servizi in qualunque Stato membro. Oltre al già citato diritto di accedere ai
servizi di collocamento, l’Unione garantisce il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e servizi sociali,
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assicurando la protezione in casi di maternità, malattia, infortuni, vecchiaia, ecc. e misure specifiche in
favore dei disabili, per assicurarne il loro inserimento sociale.
L’Unione europea ha quindi l’obiettivo di creare un’economia sociale di mercato fortemente competitiva,
che assicuri piena occupazione, protezione sociale e formazione.
Concretamente l’UE elabora programmi che mirano a raggiungere gli obiettivi prefissati mediante il Fondo
sociale europeo, un portale informatico europeo per lo scambio di informazioni a livello transazionale.
Mediante il Regolamento UE 2016/589 è stata resa obbligatoria la rete europea dei servizi pubblici per
l’impiego, al fine di sostenere effettivamente la libera circolazione dei lavoratori e contribuire all’attuazione
di iniziative strategiche nel settore dell’occupazione, sostenendo maggiormente i gruppi sociali più
vulnerabili, con alto tasso di disoccupazione.
10) I livelli essenziali delle prestazioni, i destinatari delle misure e i principi alla base delle
politiche attive
Affinché le politiche del lavoro potessero essere più efficaci sin dal livello territoriale, ci si è avvalsi del
principio di sussidiarietà. Le Regioni hanno ereditato funzioni precedentemente attribuite al Ministero del
Lavoro, come il collocamento o la promozione dell’occupazione femminile, coordinamento di incentivi
finalizzati all’occupazione, ecc.
Restano invece in capo allo Stato i compiti di vigilanza in materia di lavoro dei flussi di lavoratori
extracomunitari, oppure la soluzione di controversie di rilevanza pluriregionale.
Con la riforma 56/2014 e la conseguente “soppressione delle Province”, la gestione di tali attività è affidata
congiuntamente tra lo Stato, le Regioni e le Provincie autonome, rafforzata dall’istituzione dell’ANPAL.
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Elencando gli enti, associazioni e istituzioni che svolgono attività di mediazione, ricerca e selezione del
personale, dobbiamo sicuramente menzionare le Agenzie private per il lavoro, iscritte in un apposito
elenco, diviso in sezioni in base alle attività svolta (ex: somministrazione, intermediazione, selezione,
ricollocazione personale, ecc.)
Gran parte di tali attività può essere svolta anche da Università, Comuni, Camere di commercio, istituti
scolastici, associazioni di datori e lavoratori, patronati, ecc. L’iscrizione all’Albo richiede il rilascio di
un’apposita autorizzazione, subordinata alla sussistenza di precisi requisiti. Diverso dall’autorizzazione è
l’accreditamento (a carico dell’ANPAL) che è un provvedimento con cui un soggetto viene riconosciuto
idoneo a operare nell’ambito della rete dei servizi per l’impiego territoriali.
Con il d.lgs 150/15 è stato assegnato un ruolo fondamentale nella gestione dei servizi per l’impiego
all’ANPAL, il quale è il centro di coordinamento della rete dei servizi per le politiche del lavoro. Tale rete è
costituita anche dalle strutture regionali, l’INPS, l’INAIL (con competenze in materia di reinserimento
lavorativo di persone con disabilità), Agenzie private per il lavoro, ecc.
Il Ministero del lavoro definisce le linee di indirizzo e gli obiettivi annuali delle politiche attive, ed è
ovviamente necessario assicurare l’esistenza dei Centri per l’impiego aperti al pubblico, oltre ai servizi di
politica attiva a tutti i residenti italiani. Devono inoltre essere predisposte attività di orientamento, ausilio e
avviamento alla formazione per il lavoro.
I servizi per l’impiego devono essere garantiti ai disoccupati, cioè coloro privi di impiego che danno
immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e partecipazione alle misure di politica attiva
del lavoro.
Per beneficiare di tali misure, è necessario, da parte dei lavoratori lo svolgimento di una serie di impegni
(oneri e obblighi), dai quali deriva l’erogazione di prestazioni da parte dei servizi per l’impiego
(“condizionalità”).
I soggetti interessati alle misure delle politiche attive/passive sono tenuti a registrarsi telematicamente al
“portale nazionale” e sulla base delle informazioni fornite, gli utenti verranno assegnati in una “classe di
profilazione”.
Per confermare lo status di disoccupati vengono convocati dai Centri per l’impiego entro 60 giorni per
stipulare un “patto di servizio personalizzato”, un accordo per la definizione di un piano di azione
individuale all'interno del quale sono contenute tutte le azioni da fare per l'inserimento o reinserimento nel
mondo del lavoro. A tal fine è necessario che nel patto sia riportata la disponibilità del disoccupato a
partecipare a proposte per rafforzare le competenze nella ricerca del lavoro, oltre al suo impegno di
accettare un’offerta di lavoro congrua. Per definire un’offerta di lavoro “congrua” vi sono dei parametri
stabiliti dal Ministero del Lavoro, in base alle competenze già maturate, la distanza dal domicilio, la durata
della disoccupazione e l’ammontare della retribuzione offerta per quel lavoro.
La non comparizione/non accettazione dell’offerta, preclude la possibilità di fruire degli ammortizzatori
sociali. Inoltre, i lavoratori titolari di strumenti di sostegno del reddito possono essere chiamati a svolgere
attività di servizio nei confronti della collettività nel territorio del Comune di residenza.
11) Gli strumenti operativi per l’incontro tra domanda ed offerta: in particolare, le
“banche dati”
È da sottolineare l’importanza di un luogo telematico tendenzialmente unitario, dove convergono richieste
e offerte di lavoro e dove il disoccupato possa registrarsi. Si avverte, anche a livello europeo, l’importanza
della tecnologia per lo scambio di dati: nell’EURES vi è un servizio informativo e di orientamento sul
mercato del lavoro nella UE, per favorire la mobilità geografica dei lavoratori. In ambito nazionale, invece,
abbiamo avuto vari portali come il SIL, poi sostituito dalla BCL. Inoltre anche l’INPS ha istituito una “banca
dati” di coloro che ricevono trattamenti previdenziali o altri sussidi o indennità pubbliche, nella quale
abbiamo tutti i dati disponibili e informazioni utili. Con ciò si mira allo scambio di informazioni tra servizi
per l’impiego ed enti previdenziali. Anche nel 2013 è stato rinnovato il sistema informativo, al fine di
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razionalizzare gli interventi di politica attiva di tutti gli organismi centrali e territoriali coinvolti e raccogliere
info.
12) L’accesso al mercato del lavoro della gente di mare, dei lavoratori dello spettacolo
e in agricoltura
Esistono alcune discipline speciali per l’accesso al mercato del lavoro:
a) il collocamento della gente di mare riguarda i lavoratori marittimi disponibili a prestare lavoro a bordi
di navi italiane o per conto di un armatore. L’attività di arruolamento è gestita dagli uffici di collocamento
della gente di mare.
Ruolo importante è svolto dagli “enti bilaterali” che sono autorizzati per svolgere l’attività di
intermediazione e allo svolgimento di tutti gli adempimenti/certificazioni affidati ai competenti uffici di
collocamento della gente di mare.
b) i lavoratori dello spettacolo per tali lavoratori, in materia di collocamento, era stata istituita una lista
unica per il personale artistico e tecnico, tuttavia l’Ufficio speciale dei lavoratori dello spettacolo è stato
abrogato, uniformando le procedure di assunzione a quelle degli altri settori.
c) i lavoratori agricoli coloro che prestano lavoro alle dipendenze degli imprenditori agricoli. La
peculiarità della loro attività è data dalla saltuarietà e della poca programmabilità dello svolgimento della
prestazione. Era stato previsto un sistema di norme per il collocamento dei lavoratori agricoli, adesso quasi
completamente modificato e abrogato.
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L’Europa inoltre interviene anche dalla prospettiva, più recente, del flusso migratorio diretto nei paesi
europei.
A tal proposito abbiamo una direttiva del 2009 che vieta l’impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è
irregolare, al fine di contrastare l’immigrazione illegale: essa stabilisce, inoltre, norme minimi e sanzioni
applicabili nei confronti di coloro che violano tale divieto. È stata inoltre istituita una piattaforma per
prevenire e scoraggiare il lavoro nero.
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- secondo tipo promozionale, diretto e finalizzato ad agevolare la regolarizzazione delle attività non
dichiarate, inducendo i datori di lavoro ad osservare le leggi e i contratti collettivi
- terzo tipo serie di interventi, indiretti e molto variegata: flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e
semplificazione delle procedure di avviamento al lavoro.
Per quanto concerne le misure dirette, abbiamo la previsione sui contratti di riallineamento, definiti anche
“accordi di gradualità” che prevedeva un’applicazione graduale dei contratti collettivi nazionali di lavoro da
realizzare entro un certo numero di anni. Tale “riallineamento retributivo” si fonda su un sistema
concertativo di scambio tra aziende, sindacati e autorità pubbliche (ex: INPS).
Nel 2001 tale tecnica del riallineamento viene messa da parte e ci si inizia a concentrare sull’impresa,
riconoscendo al datore di lavoro incentivi fiscali e contribuitivi nel caso essi effettuino “dichiarazione
spontanea” circa la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare col un proprio dipendente. Tuttavia
questo modello ha mostrato limiti operativi.
Nel 2006 si apre una nuova fase: con la legge finanziaria per il 2007 si prescrivono numerose misure al fine
di contrastare il lavoro nero e migliorare il livello di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Tra le novità si introducono gli “indici di congruità” che rapportano la qualità dei servizi e beni prodotti
dalle imprese con la quantità delle ore necessarie per produrli. Inoltre, operativamente abbiamo la
previsione di meccanismi di rafforzamento della capacità ispettiva, e ci si inizia a preoccupare anche degli
aspetti di sicurezza sul lavoro.
Nel 2008, con l’insediamento di un nuovo esecutivo, si assiste ad un “reset” di alcune iniziative in materia di
sommerso: per esempio verrà abrogata la previsione sugli indici di congruità. Infatti, in questo periodo, gli
interventi legislativi saranno maggiormente mirati lungo il filo conduttore finanziario e fiscale, per esigenze
contabili di riduzione del debito pubblico e a causa della presenza della recessione economica
particolarmente grave nel nostro Paese.
Le politiche adottate dal 2011 ad ora, si concentreranno maggiormente sui profili ispettivi e sanzionatori,
lasciando però anche spazio all’emersione.
In ambito penale va menzionato il reato legato allo sfruttamento della manodopera: il “caporalato”
(art.603-bis c.p.)
Tale fattispecie si realizza nei casi di reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso
terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno dei lavoratori, oppure nelle
ipotesi di utilizzazione, assunzione e impiego di manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di
sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno. Tuttavia va segnalata anche la tendenza alla
depenalizzazione di alcuni reati attinenti al diritto del lavoro, come ad ex: reato di omesso versamento delle
ritenute previdenziali. Negli ultimi anni bisogna sottolineare come, oltre all’approccio repressivo della lotta
al sommerso, vi sia una tendenza innovativa per incentivare l’emersione e quindi la regolarizzazione dei
rapporti di lavoro subordinato.
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I loro poteri ispettivi consistono in procedimenti di tipo istruttorio, finalizzati all’acquisizione di elementi di
fatto e di diritto e in procedimenti di tipo sanzionatoria, con lo scopo di ripristinare le condizioni di legalità.
Un ruolo fondamentale è occupato dai d.lgs. 124/2004 e d.lgs. 149/2015 che hanno riformato e
razionalizzato l’intero assetto dei servizi ispettivi e ridefinito alcuni poteri già esistenti in capo agli organi di
vigilanza, oltre a attribuirne nuovi.
Tra l’altro le ispezioni comprendono anche controlli in materia di previdenza sociali e quelli sull’igiene e
sicurezza del lavoro. Gli ispettori possono visitare ogni parte dei luoghi di lavoro, tranne quelli locali che
non sono collegati all’esercizio dell’azienda, sebbene possano comunque ispezionarli nell’ipotesi in cui vi sia
sospetto che in quei luoghi si compiano comunque esercizi lavorativi in violazione della legge, oppure
chiedere informazioni a qualsiasi soggetto, ente e persino ai lavoratori.
■ In ambito penale, abbiamo il provvedimento della prescrizione obbligatoria che l’organo ispettivo
emette ogniqualvolta si ravvisino gli estremi di reato di natura contravvenzionale in materia di lavoro, e
consiste nell’emanazione di direttive per rimuovere o far cessare la violazione. Il trasgressore, per
beneficiare dell’estinzione del reato, deve adempiere entro un termine stabilito e successivamente pagare
una somma pecuniaria, di natura amministrativa.
■ In ambito amministrativo, assume rilievo la contestazione di illecito amministrativo, che comporta una
sanzione pecuniaria e se vi è inadempimento comporta anche un’ordinanza-ingiunzione:
- La diffida precettiva è un atto amministrativo con cui si ordina al datore di lavoro di regolarizzare
inosservanze sanabili. Se vi è adempimento, l’importo della sanzione è minimo. Inoltre la diffida è
condizione di procedibilità per la contestazione dell’illecito amministrativo.
- La diffida accertativa (per crediti) consegue all’accertamento di violazione da cui risultino somme
spettanti ai lavoratori. Il datore di lavoro può adempiere, corrispondendo le somme direttamente al
lavoratore, oppure promuovere entro 30 giorni la conciliazione. Decorso questo termine e fallita la
conciliazione, la diffida acquista “valore di accertamento tecnico” con efficacia di titolo esecutivo.
- La disposizione è un atto emanato dagli ispettori per integrare le norme generiche in materia di lavoro,
obbligatorio ed immediatamente esecutivo per il datore di lavoro.
- La conciliazione monocratica è un meccanismo, invece, finalizzato alla soluzione conciliativa di eventuali
infrazioni e riguarda sostanzialmente i diritti patrimoniali del lavoratore, quando vi sia un mancato
rispetto degli obblighi retributivi e contributivi.
Va infine specificato che tra gli obiettivi dell’autorità ispettiva vi è sicuramente il contrasto al lavoro
“sommerso” prevedendo l’applicazione della “maxisanzione” contro il lavoro nero, nel caso di mancata
comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Altro strumento essenziale è la sospensione
dell’attività, adottato quando si accerti l’impiego di personale non risultante dalla documentazione in
misura pari o superiore al 20% del totale.
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2) Le parti
Tra gli elementi essenziali del contratto individuale di lavoro abbiamo sicuramente le parti. Partendo dalla
figura del datore di lavoro, il quale può essere sia “imprenditore” che “non imprenditore”, l’art.2086 c.c. fa
coincidere il datore di lavoro con la figura del capo dell’impresa da cui dipendono gerarchicamente i suoi
collaboratori. L’art.2239 c.c. estende poi l’applicazione della disciplina sul lavoro subordinato ai rapporti
non inerenti all’esercizio di un’impresa, in quanto compatibile con la specialità del lavoro. Spesso rilevante
è la dimensione dell’organizzazione datoriale, in base al numero di dipendenti, che condiziona il campo di
applicazione delle discipline o specifiche tutele.
Per quanto riguarda la disciplina più articolata che riguarda il lavoratore, prima di tutto assume rilievo la
sua capacità giuridica essere parte del contratto. Poi l’art.2 c.c. riconosce solo a chi ha compiuto la
maggiore età la normale capacità di agire, mentre al comma 2 sono fatte salve le leggi speciali che
stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare lavoro (capacità giuridica speciale). Sempre
per le leggi speciali, l’età minima lavorare è sottoposta al duplice requisito: compimento dell’età minima
prevista (16 anni) e l’assolvimento dell’obbligo di istruzione (per almeno 10 anni), vietando di adibire al
lavoro chi non ha tali requisiti.
contraente, ad eccezione del lavoro pubblico la cui scelta del contraente incontra il limite previsto
dall’art.97 della Cost: la stipulazione del contratto deve avvenire a seguito di formali procedure selettive e
direttive per accertare la professionalità del lavoratore e la scelta del contraente è subordinata alla
collocazione nella graduatoria.
4) Il patto di prova consiste nella previsione di un periodo iniziale in cui le parti possono recedere senza
obbligo di preavviso (art.2096 cc). Si tratta di un elemento accidentale previsto dal contratto di lavoro, da
considerare come una condizione risolutiva del contratto, dato che la sua prosecuzione viene preclusa
dall’esito negativo della prova.
Tale patto deve risultare da atto scritto, la cui mancanza determina una nullità solo parziale del contratto.
Inoltre, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni da espletare, senza la quale non è possibile
un’effettiva valutazione di capacità e professionalità. Seppure tuteli l’interesse di entrambe le parti circa la
sperimentazione della convenienza del contratto, in pratica è utile maggiormente per il datore del lavoro
per scegliere meglio i suoi lavoratori. La durata della prova è stabilita dai contratti collettivi e non può
eccedere i 6 mesi. Pur non essendo necessaria una motivazione sulla valutazione finale della prova, occorre
che si consenta un effettivo svolgimento della prova. In caso contrario, il lavoratore può impugnare il
licenziamento se determinato da motivi illeciti, e se vi è interruzione del periodo prima dei 6 mesi, il
lavoratore può chiedere di proseguirla fino alla scadenza del periodo pattuito, oppure vedersi risarcito il
danno, quantificato con riguardo alle retribuzioni dovute durante la prova.
[N.B. la sua importanza si è ridotta a causa della possibilità di stipulare contratti flessibili, seppure a questi può apporsi
il patto di prova].
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Tuttavia i tratti caratterizzanti del contratto di lavoro subordinato vanno ricavati attraverso un’attenta
interpretazione dell’art.2094:
- il contratto di lavoro è un contratto di scambio, nel quale una parte si obbliga a collaborare con l’altra
mediante una retribuzione, da fissare in maniera proporzionata alla quantità e la qualità del lavoro prestato
e sufficiente a garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa.
- il contratto di lavoro ha un’intrinseca funzione organizzatrice, in quanto l’adempimento della prestazione
lavorativa deve realizzarsi sotto la direzione dell’imprenditore, rispettando tutte le disposizioni impartite
per l’esecuzione della prestazione ed assoggettandosi ai restanti poteri datoriali (conformativo, di controllo
e disciplinare).
Il tratto caratterizzante della subordinazione sta nella strutturale sottoposizione funzionale del lavoratore
ai poteri datoriali, intesa come continuità giuridica dell’essere a disposizione adottando tutti i
comportamenti richiesti dal contratto. Quindi, il contratto di lavoro subordinato garantisce l’organizzabilità
giuridica della prestazione professionale.
Analizzando le differenze tra lavoro subordinato e lavoro autonomo: nel primo la prestazione deve
essere eseguita personalmente dal lavoratore ed è definita solo a grandi linee dal contratto, cioè sono
proprio le modalità attraverso cui dev’essere eseguita la prestazione (definite con l’espressione “sotto la
direzione”) a caratterizzare il contratto;
nel secondo, invece, sono sempre e solo le “condizioni stabilite dal contratto” a legittimare eventuali
interventi del datore del lavoro (o creditore) volti a verificare che la prestazione non si discosti dagli
impegni negoziali presi.
L’esercizio effettivo dei poteri datoriali o l’esercizio di concrete modalità nella gestione dell’esecuzione del
contratto sono indici da cui poter desumere la subordinazione del lavoratore (mediante i c.d. indici
sintomatici, che possono consistere sia nel rilevare precise modalità di impartire direttive, fissare la durata
della prestazione, sia nel comprare uno specifico rapporto di lavoro ad altri, dedotti in contratti di lavoro
subordinato).
In ordine alla qualificazione pattizia del rapporto, si è introdotto l’istituto della certificazione, una sorta di
qualificazione forzata, che comporta che il contratto può essere sempre sottoposto a verifica giudiziale per
difformità tra il programma negoziale e la sua successiva attuazione, con la conseguenza che prevale, in
ogni caso e anche retroattivamente, la qualificazione giudizialmente accertata.
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Negli anni ’90 si accentua il fenomeno della “fuga dalla subordinazione”, con il ricorso a rapporti di lavoro
meno costosi, spesso arginata dal sistema giudiziario e sindacale che danno più attenzione ai rischi di
lesioni alle garanzie del lavoro subordinato. Ci troviamo di fronte ad un dibattito sull’esigenza di
flessibilizzare la legislazione in materia di lavoro subordinato e, al contempo, di adeguare le regole i costi
complessivi del c.d. lavoro atipico.
Nel 2003 la Riforma Biagi introduce le collaborazioni coordinate a progetto, dette anche “co.co.pro.” che
vengono affiancate alle “co.co.co.”
In entrambi i casi parliamo di lavoro autonomo, ma vi sono delle differenze concernenti i requisiti per la
stipulazione del contratto: per i “co.co.pro.” è prevista espressamente la forma scritta ad substantiam e il
lavoro a progetto deve essere riconducibile a uno o più progetti specifici determinati dal committente e
gestiti autonomamente dal collaboratore. Inoltre vengono previste alcune precauzioni per evitare l’abuso
dei co.co.pro: il progetto deve essere funzionalmente legato ad un determinato risultato finale e non può
comportare svolgimento di compiti esecutivi e ripetitivi, oltre ad avere una durata predeterminata o
determinabile].
Comunque, il “co.co.pro.” verrà abrogato dal d.lgs. 81/2015 (Jobs Act), rimanendo intatta la possibilità di
stipulare invece i “co.co.co.” e lo stesso d.lgs. ha introdotto un’ulteriore articolazione della loro disciplina,
tripartendoli in:
- “co.co.co.” liberamente stipulabili anche a tempo indeterminato da tutti i datori di lavoro privati, purché
abbiano determinate caratteristiche da distinguerli dalla prestazione di lavoro subordinato;
- “co.co.co.” che si concretizzano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimenti a tempi e luogo di lavoro,
ai quali si applica la disciplina del contratto di lavoro subordinato;
[N.B. va specificato che tale tipologia di “co.co.co.” si pone in una zona di confine tra subordinazione e lavoro
autonomo/parasubordinato, e perciò tali contratti si caratterizzano per una “etero-organizzazione”, che pur non
presentando poteri tipici direttivi del datore, limita la libertà del lavoratore nello scegliere tempi e luogo della
prestazione].
- “co.co.co.” individuati o in virtù di specifiche discipline sul trattamento economico, contenute in accordi
collettivi stipulati dai sindacati o perché riguardanti esercizio di professioni intellettuali, prestazioni svolte
in ambito di organismi collegiali, prestazioni a fini istituzionali in favore di associazioni ed enti che
svolgono attività sportiva.
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9) Il lavoro occasionale
Per quanto riguarda il lavoro occasionale, che ha sostituito il vecchio rapporto definito “lavoro
accessorio”, si può fare ricorso se lo svolgimento della prestazione dà luogo a compensi di importo
complessivamente non superiori a 5000€ e per ciascun lavoratore o utilizzatore oppure per le prestazioni
complessivamente rese da ogni lavoratore in favore del medesimo utilizzatore che diano luogo a compensi
di importo non superiore a 2500€.
A tale lavoro possono ricorrere sia le persone fisiche che non esercitino attività d’impresa/professionale,
che società sportive mediante il “Libretto Famiglia”, il quale è un libretto nominativo prefinanziato,
acquistabile mediante la piattaforma informatica INPS per il pagamento di prestazioni occasionali rese per
lavori domestici, assistenza domiciliare, insegnamento privato o attività di “steward” negli impianti sportivi.
Gli altri utilizzatori privati che non possono utilizzare il “Libretto”, fanno ricorso al contratto di prestazione
occasionale, sempre attraverso la piattaforma INPS, alla quale l’utilizzatore deve dichiarare: i dati anagrafici
e identificativi del prestatore, il luogo di svolgimento della prestazione, la data e l’ora di inizio e di termine,
oggetto della prestazione, ecc.
È vietato ricorrere al lavoro occasionale per: gli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 5
lavoratori subordinati; le imprese del settore agricolo; imprese dell’edilizia; nell’ambito dell’esecuzione di
appalti di opere/servizi.
Le amministrazioni pubbliche possono adottare questa forma di lavoro in caso di ipotesi temporanee o
eccezionali come: progetti speciali per categorie di poveri, disabili, detenuti; lavori di emergenza a seguito
di calamità naturali; attività di solidarietà; manifestazioni sociali, sportive, culturali.
Sono riconosciute determinate tutele come l’assicurazione per l’invalidità, vecchiaia, contro gli infortuni sul
lavoro o malattie; diritto al riposo giornaliero e pause e riposi settimanali.
Sono sanzionati pecuniariamente violazioni del divieto di utilizzare il lavoro occasionale o ricorso al
contratto di prestazione occasionale senza comunicare all’INPS i dati precedentemente elencati.
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Inoltre, per completare il discorso, conviene anche delineare il collegamento tra sindacati e partiti politici. Dall’inizio della
storia repubblicana, sino alla “crisi dei partiti politici” degli anni ’90, vi era un nesso assai evidente tra questi grandi sindacati
e la loro ideologica politica. Infatti la CISL era di area cattolica (Partito Popolare, poi Democrazia Cristiana);
la CGIL apparteneva alla Sinistra (Partito Socialista e Partito Comunista); la UIL apparteneva all’area di centro-sinistra.
Per meglio specificare la distinzione tra federazioni e confederazioni, le prime esercitano la
rappresentanza dei lavoratori del settore di riferimento e svolgono l’attività di contrattazione collettiva per
la categoria produttiva (cioè il contratto nazionale di categoria - CCNL). Le seconde, invece, si occupano di
definire le strategie dell’azione politica e sindacale e del conseguente indirizzo e coordinamento delle
federazioni aderenti. La loro attività si concreta nella stipulazione degli accordi interconfederali, cioè gli
accordi sindacali di massimo livello, volti a indicare e definire discipline uniformi per una pluralità di
categorie.
Ultima distinzione:
- strutture sindacali verticali riflettono l’articolazione interna sul territorio di ciascuna federazione di
categoria;
- strutture sindacali orizzontali si riferiscono alle corrispondenti articolazioni intercategoriali delle
Confederazioni, a loro volta strutturate in livelli regionali e provinciali.
Per quanto riguarda le organizzazioni dei datori di lavoro, troviamo un’articolazione verticale
(associazioni/federazioni di categoria) e una orizzontale (confederazioni). In relazione ai principali settori
economici possiamo ricordare Confindustria, Confcommercio e Confagricoltura, ciascuna con le proprie
articolazioni sul territorio. Anche per questo ambito troviamo organizzazioni a livello europeo, come la
Business Europe o la UAPME, che operano rispettivamente per le imprese medio-grandi e le imprese
medio-piccole. Alle imprese pubbliche invece è rivolta la CEEP. Negli ultimi anni vi sono due tendenze
opposte per quanto riguarda l’organizzazione datoriale:
- da un lato abbiamo l’aggregazione in strutture associative che accorpano ambiti sempre più estesi di
rappresentanza;
- dall’altro abbiamo una tendenza verso l’articolazione e la frammentazione organizzativa
(ex: uscita FIAT nel 2012)
debolezza sindacale e il decentramento della struttura contrattuale, nei casi di andamento positivo
dell’economia, maggiore competitività delle imprese, crescita occupazionale e l’instaurarsi della forza
sindacale.
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Anche l’art.40 (il diritto di sciopero) si inserisce in questo contesto, nel quale vengono riconosciuti e
tutelati la libertà massima e limitata quanto possibile l’ingerenza dell’ordinamento.
Tale principio di libertà sindacale è contemplato anche da alcune fonti internazionali, come le Convenzioni
OIL n.87 e 98, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
la Carta sociale europea, ecc… mentre in ambito europeo abbiamo la Carta dei diritti sociali fondamenti di
Strasburgo e la Carta dei diritti fondamentali di Nizza].
Quindi l’art.39 co.1 consente l’aggregazione tra i lavoratori e ne riconosce il fondamentale rilievo giuridico,
in funzione di un riequilibrio tra le parti del rapporto di lavoro. Vi è poi da segnalare uno stretto
collegamento con gli artt.2 e 3 cost.
poiché l’organizzazione sindacale è riconosciuta come formazione sociale dove si svolge la personalità del
singolo ed è riconosciuta come strumenti imprescindibile per l’uguaglianza sostanziale.
► Sul piano individuale, la libertà copre l’intero fenomeno sindacale, dalla manifestazione del pensiero
all’attività sindacale in senso stretto: il singolo può costituire il sindacato, contribuire allo sviluppo, ma può
anche (in negativo) non aderire ad alcun sindacato o recedere da quello a cui appartiene.
Connessi a tale libertà sono due articoli dello Statuto dei lavoratori: l’art.14 che riconosce ai suoi
lavoratori di costituire associazioni sindacali e di svolgere l’attività sindacale; l’art.15 che vieta qualsiasi
patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore all’adesione o alla non adesione al
sindacato, discriminandolo a causa della sua affiliazione. Ne deriva da ciò il divieto dell’ordinamento
italiano per le c.d. “clausole closed shop” diffuse, invece, nell’ordinamento americano, attraverso le quali
l’occupazione di un lavoratore è subordinata alla sua affiliazione.
Inoltre, l’art.16 dello Statuto vieta trattamenti economici collettivi discriminatori per effetto di un’adesione
o non adesione al sindacato.
► Sul piano collettivo, abbiamo il riconoscimento della libertà della forma del sindacato e delle regole che
disciplinano gli assetti e la sua organizzazione. Vi è l’impedimento di intervento/interferenza esterna per
l’individuazione di obiettivi, strategie e strumenti dell’azione sindacale. La limitazione dell’autonomia
negoziale dell’organizzazione sindacale è riconosciuta al legislatore solo per la salvaguardia di interessi
generali e in situazioni circoscritte.
Ovviamente, l’ordinamento non può mai imporre ai sindacati di contrattare obbligatoriamente.
Per quanto riguarda la forma giuridica che il sindacato può assumere, anche qui vi è la libertà della scelta,
soprattutto se si collega a tale libertà l’art.18 della Costituzione (libertà di associazione).
La forma associativa (“associazione non riconosciuta”) è la forma più comune, sebbene siano configurabili
altre forme, più informali, quali ad esempio i “comitati di lotta, le delegazioni di lavoratori”, ecc.
5) L’ambito soggettivo
Ci si è chiesti se la libertà sindacale a norma dell’art.39 potesse ricomprendere anche le organizzazioni
dei datori di lavoro, secondo una concezione definita “bilaterale della libertà sindacale”.
A ben vedere, da un punto di vista storico, tale libertà è riferita soprattutto alle esperienze tutela del lavoro
subordinato e quindi soltanto all’aggregazione dei lavoratori, mentre l’associazione datoriale è da
ricondurre maggiormente negli artt.18 e 41 Cost. Inoltre l’associazionismo datoriale si connota anche per lo
svolgimento di attività di servizi e supporto alle imprese, laddove diversamente, questo genere di attività
non era inizialmente svolto dai sindacati dei lavoratori.
L’art.17 dello Statuto dei lavoratori vieta ai datori e alle loro associazioni di costituire o sostenere
finanziariamente o altrimenti, associazioni sindacali dei lavoratori, allo scopo di evitare ogni distorsione
della dialettica datori-sindacati.
Per quanto riguarda le limitazioni della libertà sindacale, il caso più famoso è quello dei dipendenti pubblici,
seppure tali limitazioni sono state gradualmente superate. Diversamente è stato per i lavoratori della
Polizia e delle Forze armate, i quali hanno sì il diritto di aderire a organizzazioni sindacali, ma solo se
costituite e rappresentate da appartenenti alla loro categoria, col divieto di affiliarsi a confederazioni
esterne. Inoltre è vietato l’esercizio del diritto di sciopero.
39
6) Sindacato e contratto collettivo con efficacia generale (art. 39, seconda parte, Cost.)
Il pluralismo sindacale e quindi la coesistenza tra più organizzazioni sindacali ci portano ad una questione
assai delicata, ovvero la necessità di una regolazione al fine di conciliare le molteplici posizioni di ciascuna
organizzazione, oppure tener conto della libertà individuale di non attivarsi sindacalmente e le ripercussioni
sugli altri lavoratori.
Per dare una soluzione a queste problematiche, il Costituente ha provato a configurare un micro-sistema
funzionale all’attribuzione di efficacia soggettiva generalizzata al contratto collettivo, mediante
l’art.39 seconda parte Cost.
Come previsto dalla disciplina di tale articolo, i sindacati sono chiamati a chiedere la registrazione, e al tal
fine è necessaria l’adozione di uno statuto interno a base democratica. I sindacati registrati acquistano
personalità giuridica. Inoltre i sindacati possono stipulare il contratto collettivo con efficacia generale per
tutti gli appartenenti alla categoria.
Come ben sappiamo, sarebbe stata necessaria una legislazione d’attuazione che non avrà mai luogo
(parliamo in tal caso di “anomia del diritto sindacale”, cioè assenza di norme sugli aspetti cruciali di tale
fenomeno).
Le ragioni di tale inattuazione della seconda parte dell’art.39 sono molteplici, a partire dall’avversione delle
organizzazioni sindacali sul controllo del numero degli iscritti e sulla democraticità dello statuto necessario
per la registrazione. E più in generale, le grandi confederazioni si trovarono d’accordo nel preferire lo
sviluppo del sistema sindacale di fatto, basato sulla pariteticità e unità di azione fattuale tra le grandi
confederazioni di lavoratori e il reciproco riconoscimento della controparte datoriale.
dell’associazione, pur restando ferma la responsabilità personale e solidale di coloro che hanno agito per
nome e per conto dell’associazione (art.38).
Per quanto riguarda l’attività contrattuale dell’associazione, essa dovrà basarsi sul potere di
rappresentanza che il singolo lavoratore attribuisce alla stessa associazione, mediante conferimento del
mandato, riconducendo l’interesse collettivo del fenomeno sindacale ad una dimensione individuale, che
come abbiamo visto prima, è ad essi estranea.
In definitiva, tale sistema è stato l’asse fondamentale e portate di un articolato e complesso assetto,
compensando l’inattuazione della seconda parte dell’art.39 Cost.
Giugni ebbe un importante ruolo legislativo: in qualità di consulente governativo, dette un contributo
decisivo allo Statuto dei lavoratori, che nella sua veste originaria mirava proprio a sostenere il sistema
sindacale di fatto.
Nel nuovo secolo, invece, il sistema sindacale di fatto è in difficoltà, e il concetto di “unità di azione” risulta
fortemente indebolito soprattutto a seguito della vicenda FIAT del 2009 che vedremo in seguito.
41
Per quanto riguarda la verifica della rappresentatività, è stata decisiva l’elaborazione dottrinale che ha
valorizzato alcuni indici: numero degli iscritti, diffusione sul territorio nazionale, esercizio costante
dell’attività, ecc. (basandosi spesso su dati non misurabili quantitativamente, tale rappresentatività è stata
infatti definita “presunta”.
Con ciò, il legislatore ottiene il doppio obiettivo di agevolare una sorta di riassorbimento delle
rappresentanze spontanee nate in quegli anni da parte delle RSA e poi di “istituzionalizzare” la presenza del
sindacato in azienda, a sostengo del sistema sindacale di fatto.
[N.B. Più volte adìta sulla costituzionalità di tale progetto statutario, la Corte costituzionale ha affermato la piena
compatibilità di tale disposizione con gli artt. 39 e 3 Cost. In particolare, afferma che l’istituzione della RSA non lede il
principio di libertà sindacale (art.39 Cost) e non impedisce che vengano organizzate altre e diverse forme di
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rappresentanza dei lavoratori in azienda, ma anzi, tale norma si limitava solo a circoscrivere i soggetti sindacali a cui
riconoscere la titolarità dei diritti sindacali previsti dal Titolo III dello Statuto. Ovviamente, la stessa Corte ha negato la
possibilità di estendere la titolarità di tali diritti sindacali a rappresentanze non dotate dei requisiti dell’art.19 Statuto.
Ad un certo punto, però, a seguito dei mutamenti dei contesti produttivi e di organizzazione e della conseguente
eterogeneità degli interessi collettivi, tale disposizione non ha retto più, non essendo più adatta a rispecchiare
l’effettiva rappresentatività delle associazioni sindacali. La stessa Corte costituzionale, nel 1990, ha segnalato la
necessità di dettare nuove regole, adeguate alla situazione nuova, per garantire la possibilità di attribuire tali diritti
sindacali del Titolo III anche ad altre associazioni sindacali, in grado di dimostrare effettivi livelli di consenso].
La Corte era consapevole della “crisi” delle grandi Confederazioni sindacali che era maturata in quegli anni,
e a seguito di ciò l’art.19 fu sottoposto a due referendum abrogativi nel 1995, l’esito dei quali provocò una
riformulazione completa della norma, in cui prima di tutto venne eliminato il tanto discusso “criterio della
maggiore rappresentatività confederale” (così come tutta la lettera “a” della disposizione), e il “criterio
della stipula di contratti collettivi” venne esteso anche ai contratti collettivi di livello aziendale (con
l’eliminazione delle parole “nazionali” e “provinciali”).
In tal modo si rompe il monopolio dei grandi sindacati confederati e l’effetto maggiore di tale modifica si
finisce per dare unicamente rilevanza ai sindacati che firmano il contratto collettivo.
Inevitabilmente, quindi, la Corte costituzionale è chiamata nuovamente ad intervenire, che con la
sent.231/2013 (originata dalla vicenda FIAT), dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.19 co.1 lett.b per
contrasto con gli artt.2,3, e 39 Cost. mediante una sentenza additiva che salva la norma ma ne modifica il
contenuto e la portata, prevedendo l’incostituzionalità nella parte in cui non prevede che la rappresentanza
sindacale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali, che pur non firmatarie dei
contratti collettivi, abbiamo partecipato alla negoziazione di tali contratti in qualità di rappresentanti dei
lavoratori dell’azienda.
3) Autonomia collettiva e rappresentanze sindacali unitarie
A causa delle difficoltà delle grandi Confederazioni sindacali negli anni ’80, è stata avanzata un’altra
importante riforma della rappresentanza sui luoghi di lavoro, che ha dato vita ad un nuovo modello di
rappresentanza, con lo scopo di coniugare l’istanza di un fondamento effettivo dell’azione sindacale, con
l’esigenza di mantenere saldo il raccordo con le grandi confederazioni e con il sistema di contrattazione
collettiva. Hanno così avuto origine le Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU), previsti e disciplinati
dal Protocollo del luglio 1993, e disciplinate dall’Accordo interconfederale del dicembre 1993.
Rappresentano un organo di rappresentanza sindacale interna all'azienda unitaria tra le varie sigle
sindacali. Non sono imposti dalla legge, ma sono frutto della volontà dei singoli sindacati e RSA di confluire
in un unico soggetto. La loro costituzione avviene tramite elezioni con un elettorato attivo a suffragio
universale (possono partecipare ad esse anche i non iscritti a sindacati) i quali scelgono tra varie liste.
I sindacati e i datori che non si riconoscono nell'Accordo non sono tenuti a rispettarlo.
Per chiarire le differenze tra RSU e RSA dobbiamo prima di tutto anticipare che le prime sono di natura
negoziale, mentre le seconde sono di natura legislativa. Nel caso di conflitto/concorrenza tra i due modelli,
la scelta del modello RSU preclude l’altro modello. Inoltre le RSU sono caratterizzate dalla previsione
“dell’unicità” dell’organismo per ciascuna unità produttiva, rispetto alla “pluralità” delle RSA, e per la loro
natura elettiva. Per quanto concerne le elezioni: l’elettorato attivo è formato da tutti i lavoratori dell’unità
produttiva, mentre l’elettorato passivo è formato dai candidati, di cui le liste sono presentabili da:
- associazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale istitutivo;
- altre associazioni sindacali, che accettano espressamente i contenuti del TU del 2014, e raccolgono un
certo numero di adesioni dei lavoratori all’unità produttiva.
All’esito delle elezioni, l’assegnazione avviene integralmente in maniera proporzionale ai voti ricevuti.
Inoltre la RSU approva il contratto collettivo aziendale a maggioranza dei componenti e va detto, infine,
che la RSU subentra alla RSA nella titolarità dei diritti sindacali ex Titolo III dello Statuto.
43
giurisprudenza ha esteso tale obbligo anche nel caso in cui il datore di lavoro utilizzi piattaforme
informatiche per comunicare con i suoi dipendenti, e perciò è tenuto a mettere a disposizione delle RSA tali
spazi virtuali all’interno del sistema telematico.
F] Proselitismo e contributi sindacali con l’art.26 si riconosce il diritto dei singoli lavoratori di raccogliere
contributi e svolgere attività di proselitismo all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudicare però il
normale svolgimento dell’attività aziendale. In questo caso la norma riserva il sostegno a qualunque
sindacato, che attraverso l’attività dei singoli lavoratori può beneficiare dell’attività di raccolta dei
contributi. Mentre per proselitismo si intende quella serie combinata di attività finalizzate ad avvicinare i
lavoratori al sindacato, informandoli sulle azioni programmate.
In precedenza, il datore di lavoro era obbligato ad operare una trattenuta sulla retribuzione richiesta dal
lavoratore, per poi versarla successivamente all’organizzazione sindacale indicata. Adesso, invece, tale
meccanismo è rimesso all’autonomia delle parti e disciplinato dal diritto comune.
G] Locali sindacali Secondo l’art.27, il datore di lavoro deve mettere a disposizione in maniera
permanente un locale idoneo all’esercizio delle funzioni delle RSA, all’interno dell’unità produttiva o nelle
immediate vicinanze. Tutto ciò vale per le unità produttive con almeno 200 dipendenti.
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riconoscendo a questi ultimi un accesso privilegiato negli organismi societari, oltre che alla richiesta di
sostegno all’azionariato collettivo, che consentirebbe ai lavoratori interessi di partecipare indirettamente al
capitale della società mediante un fondo istituito appositamente.
• Per quanto riguarda i secondi, questi sono enti privati costituiti da associazioni dei datori di lavoro e dei
lavoratori e sono sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso una serie di
proposte e attività come: la promozione di un’occupazione regolare e di qualità, intermediazione
nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, programmazione di attività formative e determinazione di
modalità di attuazione della formazione professionale in azienda, ecc.
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3) … e dell’efficacia “reale”
Il secondo problema riguarda invece l’efficacia “oggettiva” del contratto collettivo, cioè il suo
rapporto con il contratto individuale. Si tratta di efficacia obbligatoria o reale?
Se consideriamo nuovamente la dimensione individuale del fenomeno, potremmo pensare che il singolo
lavoratore abbia la possibilità di rivedere quanto pattuito nel contratto collettivo, mediante un nuovo
accordo individuale.
Ma ovviamente dobbiamo considerare che le esigenze di tutela del lavoro subordinato si oppongano a tale
conclusione: infatti non ha senso consentire alle parti, in maniera individuale, di rivedere la tutela
apprestata dal contratto collettivo se questa stessa tutela è giustificata proprio dalla necessità di evitare
negoziazioni individuali.
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È lampante, quindi, il divieto di prevedere regole difforme da quelle del contratto collettivo, in piena
coerenza col principio di inderogabilità o efficacia reale del contratto collettivo. E ovviamente, in ultima
analisi, dobbiamo tener conto del fatto che anche in questo caso vi sia un compromesso in termini di libertà
individuale, cioè l’impossibilità, per il singolo, di tornare sui propri passi successivamente alla stipula del
contratto collettivo.
Tuttavia, bisogna tener conto del fatto che il regime giuridico del contratto collettivo non assicuri
automaticamente la sua efficacia. Essa nasce dalla tensione dialettica tra interessi “individuali” e “collettivi”
Piuttosto si può affermare che l’efficacia del contratto collettivo dimostri la completa inadeguatezza della
dimensione contrattuale individuale per sorreggere, sul piano giuridico, il fenomeno sindacale.
L’aggregazione collettiva, al fine di realizzarsi, deve diventare “altro” rispetto alla dimensione individuale,
avendo bisogno di qualcosa che il singolo non può dare, perché semplicemente, non ne è in possesso:
infatti non è in possesso della forza giuridica di vincolare soggetti terzi (cioè intendiamo l’efficacia ultra
partes) e non è in possesso del potere di attribuire conseguenze diverse da quelle meramente risarcitorie
per l’inadempimento delle obbligazioni contratte.
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◊ Sempre in merito all’art.2077 c.c., vi è da sottolineare l’altra posizione della giurisprudenza, che tende ad
attenuare la forza del contratto collettivo, recuperando una prospettiva meramente individuale. Inoltre ha
riaffermato la speculare derogabilità unilaterale “in melius”, cioè la possibilità di pattuizioni individuali più
favorevoli per il lavoratore. Infatti, i contratti collettivi contengono le clausole di inscindibilità, che
impongono il criterio del c.d. “conglobamento” che opera un raffronto di ciascun istituto (es. retribuzione,
orario di lavoro), al fine di valutare il trattamento più favorevole.
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◊ In merito alla relazione tra contratti collettivi di diverso livello, vi è una mancanza di uno specifico
quadro normativo, dettato dal problema di individuare un criterio ordinatore tra i contratti di livello
diverso.
Perciò è opportuno ritornare al sistema sindacale di fatto, cercando la soluzione sul piano dell’effettività:
la prevalenza di un livello contrattuale sull’altro dipenderà dalla forza (rappresentatività) di chi governa tale
sistema, cioè la superiorità gerarchica del contratto nazionale di categoria reggerà fin quando le grandi
Confederazioni riusciranno ad evitare che ai livelli decentrati altri sindacati aggreghino sufficiente consenso
tra i lavoratori.
[N.B. Dal punto di vista dell’ordinamento statale, il discorso è più complesso, e vi è chi sostiene l’applicabilità
dell’art.2077 c.c. prevedendo inderogabile “in peius” il contratto collettivo nazionale da parte di quello inferiore. Altro
tentativo riguarda il criterio di specialità, con la prevalenza del contratto più vicino alla situazione da regolare, oppure
il criterio della successione temporale, mettendo i contratti su uno stesso piano e prevedendo deroghe anche
peggiorative del contratto aziendale a quello nazionale].
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13) L’ibrido quadro normativo e il progressivo indebolimento del sistema sindacale “di
fatto”: i cc.dd. accordi separati e il caso Fiat
Facendo un piccolo riepilogo, a seguito dell’inattuazione dell’art.39 Cost parte seconda:
- lo schema giuridico di fondo è dato dal diritto comune dei contratti, inadeguato con le regole
dell’autonomia individuale;
- vi sono una serie di sostegni giuridici, sia del legislatore, sia dalla giurisprudenza, i quali sostengono la tesi
dell’efficacia ultras partes e l’efficacia reale del contratto collettivo, seppur entrambe incompatibili con il
diritto privato;
- si instaura il sistema sindacale “di fatto”, in cui trova applicazione il piano dell’effettività.
Da questo riepilogo possiamo affermare di trovarci di fronte ad un quadro colmo di incongruenze ed
incertezze, e come tale definito “ibrido”, che è costituito da 3 poteri: i primi due di carattere giuridico
(autonomia individuale e fonte del diritto: direttamente art.2077 c.c. e indirettamente art.36 Cost), il terzo
di carattere sociale (rappresentatività sindacale).
Come ben sappiamo, il contesto socio-economico che abbiamo analizzato, matura tra gli anni ’50 e ’60,
periodo caratterizzato dal maggior sviluppo economico del Paese, in cui la figura di spicco è l’operaio,
rappresentato dalle grandi Confederazioni, che nel sistema sindacale “di fatto” (teoria dell’ordinamento
intersindacale) coprono parte significativa del tessuto economico-produttivo del paese. Il sindacato è
riuscito a mantenere il proprio ruolo di referente delle vicende riguardanti il mondo del lavoro, e poi
interlocutore del potere politico-legislativo mediante la “concertazione”.
Poi vi sono stati periodi di difficoltà, sia sociale, che economica: a partire dalle contestazioni di fine anni ’60,
sino ad arrivare alla crisi economica petrolifera di inizio anni ’70, in cui prende piede una nuova fase storica.
Tuttavia va detto che tale sistema è andato avanti per decenni, e con esso il contratto collettivo.
Sul finire del primo decennio degli anni 2000, lo scenario è completamente mutato. Infatti, già agli inizi del
2000, si iniziano a registrare divergenze tra le grandi Confederazioni: si arriverà ai famosi “accordi
separati” come il Patto per l’Italia 2002 e il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici 2003, che
vedranno la mancanza della sottoscrizione della CGIL. Tale rottura esploderà alla fine del primo decennio, in
riferimento specifico al caso Fiat 2009.
Infatti, tale caso metterà in rilievo le carenze a causa dell’anomia del diritto sindacale italiano, prima tra
tutte l’assenza di regole sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo dei lavoratori, dinnanzi
all’aumentare del loro dissenso, soprattutto a seguito dell’aggravarsi della situazione economica.
La FIAT, il cui rilievo è indiscutibile nel panorama industriale italiano, a causa della concorrenza derivante
dalla sempre più spinta globalizzazione dei mercati, richiede cambiamenti delle condizioni organizzative e di
lavoro, minacciando di dislocare gli impianti produttivi in altri paesi. Tali richieste si tramutano in contratti
aziendali (es. Pomigliano) che puntualmente la FIOM-CIGL si rifiuta di firmare.
Inutili saranno i referendum sui contratti collettivi, nella speranza di raggiungere un sufficiente consenso dei
lavoratori in azienda, ma comunque tali strumenti non avrebbero potuto garantire una solida efficacia
giuridica ultra partes.
Nel settembre 2010 viene aggiunto un articolo che attribuisce più spazio al contratto decentrato, e nello
stesso mese CONFINDUSTRIA decide di recedere dal precedente CCNL del 2008, con l’intento di soddisfare
la richiesta di maggiore libertà contrattuale a livello aziendale della FIAT.
Nonostante ciò, la FIAT decide di uscire dal sistema contrattuale, creando nuove società, stipulando di
nuovo un contratto denominato “specifico di primo livello” e uscendo da CONFINDUSTRIA nel 2012.
Tutto ciò provocherà problemi in ordine all’efficacia del contratto collettivo, che riguardano soprattutto
l’incerta efficacia soggettiva dei contratti collettivi nazionali (non applicabili ai lavoratori iscritti al CGIL) e
l’esistenza di eventuali comportamenti discriminatori da parte di FIAT nei riguardi dei lavoratori iscritti alla
FIOM.
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- l’efficacia ultra partes nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si
riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza.
Ovviamente tale soluzione legislativa ha presentato vari dubbi di legittimità costituzionale, sia in
riferimento all’art.3 per violazione del principio di eguaglianza, sia in riferimento all’art.39 per violazione
del principio di libertà sindacale e per difformità alla seconda parte dello stesso articolo, in merito alla
disciplina di attribuzione dell’efficacia ultra partes.
È significativo che l’art. 8 del d.lgs 138/2011 (con il quale è stata prevista questa figura contrattuale) ha
avuto una ridotta applicazione, perché nell’Accordo interconfederale 2011 viene ribadito che le materie
della contrattazione siano affidate all’autonoma determinazione delle parti e quindi, impegnandosi ad
attenersi a tale accordo.
Tuttavia, vi è da osservare che l’art.8 mostri carenze strutturali del diritto sindacale, mostrando come il
tradizionale rapporto legge-contratto collettivo all’insegna del principio di inderogabilità unilaterale risulti
essere troppo rigido.
Inoltre, il comma 3 di tale articolo (definito “salva FIAT”) mira a risolvere i problemi degli accordi aziendali
FIAT, prevedendo che i contratti collettivi aziendali sottoscritti prima dell’Accordo del 2011, siano efficaci
nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto si riferisce, a condizione del voto di
maggioranza dei lavoratori.
Anche questa disposizione appare in contrasto con alcuni principi costituzionali, tra cui con il principio di
eguaglianza dell’art.3 e con il diritto di difesa ex art.24.
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merito all’attribuzione del potere di deroga ad un organismo sindacale, quale espressione solo parziale
degli interessi dei soggetti destinatari della deroga.
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Ovviamente va anche detto che la base dell’eteronomia è carente e necessiterebbe di una solita base
giuridica (ancora mancante), laddove l’elemento dell’efficacia ultra partes, elemento fondamentale per
ricondurre il contratto collettivo tra le fonti del diritto, è ancora oggi assente o comunque difficile da
configurare con certezza.
► In definitiva, il nostro contratto collettivo attuale presenterebbe (solo) la “vocazione di fonte del diritto”
INTEGRAZIONE (non presente sul libro): Protocolli e accordi interconfederali più importanti:
- Protocollo 23 luglio 1993 l'accordo del luglio '93 tra sindacati, imprenditori e governo, viene siglato dopo due anni
di conflitti tra sindacati e Confindustria, due anni di scontri seguiti alla decisione dell'associazione degli industriali di
dare disdetta alla scala mobile (il meccanismo che adeguava automaticamente il salario all'inflazione). L'accordo
sancisce il criterio della concertazione tra le parti sociali e dà nuove linee alla politica dei redditi. Inoltre, fissa le regole
della contrattazione definendo un modello contrattuale articolato su due livelli: il contratto nazionale e il contratto
integrativo aziendale o territoriale.
Infine, prevede l’introduzione del nuovo modello di rappresentanza nei luoghi di lavoro, cioè l’RSU, con composizione
elettiva.
- Accordo interconfederale dicembre 1993 Il presente accordo assume la disciplina generale in materia di
rappresentanze sindacali unitarie, contenuta nel Protocollo stipulato fra Governo e parti sociali il 23 luglio 1993.
- Accordo quadro 2009 definito “accordo separato” perché non sottoscritto da CGIL, ridefinisce gli assetti
contrattuali.
Prevede una durata triennale dei contratti e riconferma due livelli di contrattazione. Il livello decentrato, competente
per la le materie delegate dal livello nazionale o dalla legge. Inoltre, il contratto decentrato può anche derogare alla
disciplina di singoli istituti del contratto nazionale, per far fronte a situazioni di crisi oppure per favorire lo sviluppo
economico e occupazionale.
- Accordo interconfederale giugno 2011 Dopo una lunga trattativa, è stato raggiunto un importante accordo
interconfederale in materia di relazioni sindacali. Si è ricostituita una “unità sindacale” che si era persa da lungo
tempo: si sono sedute allo stesso tavolo CONFINDUSTRIA e CGIL, CISL e UIL, stabilendo:
La previsione di un sistema di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali, che tiene conto del
dato associativo e di quello elettorale.
La legittimazione a negoziare è subordinata al raggiungimento di un dato di rappresentatività superiore al 5% del
totale
dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Se approvati dalla maggioranza dei componenti delle RSU, i contratti collettivi aziendali sono efficaci (ad eccezione
della c.d. parte obbligatoria), per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali firmatarie
dell’accordo.
Per quanto riguarda l’esigibilità dei contratti collettivi aziendali, le parti hanno convenuto di limitare la efficacia
delle eventuali clausole di tregua sindacale, stabilite a livello aziendale alle rappresentanze sindacali dei lavoratori
ed associazioni sindacali operanti all’interno dell’azienda, firmatarie dell’accordo interconfederale, escludendo
quindi la vincolatività delle stesse per i singoli lavoratori.
- Protocollo d’Intesa 2013 dà attuazione all’Accordo Interconfederale del giugno 2011. In particolare, si concentra
sulla regolazione e sulla semplificazione delle procedure di rinnovo dei contratti di categoria (cioè nazionale).
L’obiettivo è quello di arrivare alla definizione di rinnovi dei CCNL che, oltre ad essere applicabili alla generalità dei
lavoratori, siano esigibili sia nei confronti dei sindacati di categoria che sottoscrivono il contratto, sia nei confronti di
quelli non firmatari il rinnovo ma appartenenti a organizzazioni che hanno sottoscritto tale protocollo.
titolarità: sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le federazioni delle organizzazioni sindacali con una
rappresentatività almeno pari al 5%
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esigibilità: gli accordi sono pienamente esigibili nei confronti di tutte le organizzazioni sindacali confederali che
abbiano firmato il Protocollo d’Intesa e le rispettive federazioni. Pertanto tutte queste si impegnano a non
promuovere iniziative di
contrasto agli accordi così definiti”. Inoltre, i contratti collettivi pienamente esigibili dovranno definire:
- clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti;
- le conseguenze di eventuali inadempimenti (sanzioni) per le organizzazioni che violino gli accordi.
- T.U sulla rappresentanza 2014 recepisce e dà attuazione ai contenuti dell' Accordo interconfederale del 2011 e
del Protocollo d’intesa 2013. Esso costituisce un vero e proprio testo unico in tema di rappresentanza sindacale
composto da quattro parti che regolano, in cinque capitoli:
- la misurazione e certificazione della rappresentanza sindacale a livello nazionale e aziendale;
- la titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale ed aziendale;
- le clausole e le procedure di raffreddamento e le clausole sulle conseguenze dell’inadempimento;
- le modalità volte a garantire l'effettiva applicazione degli accordi sottoscritti nel rispetto delle regole concordate.
- Accordo interconfederale 2018 (“Patto della fabbrica”) fissa le condizioni per realizzare un sistema di relazioni
industriali più efficace e partecipativo che consenta di sostenere i processi di trasformazione e di digitalizzazione nella
manifattura e nei servizi innovativi, tecnologici e di supporto all'industria. Ha l’obiettivo di contribuire, attraverso le
relazioni industriali e della contrattazione collettiva, alla crescita del Paese, al miglioramento della competitività
attraverso l’incremento della produttività delle imprese, alla correlata crescita dei salari, alla creazione di posti di
lavoro qualificati.
Tappe centrali di questo percorso sono la definizione di regole sulla democrazia e misura della rappresentanza nonché
dei principi per regolare assetti e contenuti della contrattazione. L’accordo fissa anche delle linee guida di intervento
sui temi del welfare, della formazione e delle competenze, della sicurezza sul lavoro, del mercato del lavoro e della
partecipazione.
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CAP 8 – Lo sciopero
1) L’autotutela collettiva
Lo sciopero è la principale arma nelle mani dei lavoratori e delle loro organizzazioni rappresentative per
sostenere le proprie rivendicazioni e infatti, quando le volontà delle parti non si incontrano, o quando
interessi non coincidono, la parte dei lavoratori ha a disposizione questo strumento per convincere la
controparte (datoriale) della correttezza delle proprie posizioni, astenendosi dal lavoro e procurando ad
essa un danno. Si tratta di uno strumento squilibrato perché è attribuito a una sola delle parti del rapporto
di lavoro (ossia ai lavoratori; infatti, la “serrata” dei datori si pone su un piano giuridico diverso), ma
costituzionalmente si giustifica proprio per la particolarità del diritto del lavoro (definito come diritto
diseguale) volto a predisporre tutele a favore della parte debole di un rapporto socio-economicamente
squilibrato, al fine di rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Lo sciopero è, dunque, un mezzo di autotutela
che i lavoratori esercitano collettivamente contro potenziali vessazioni da parte del soggetto forte del
rapporto.
Nel nostro ordinamento non esiste una definizione giuridica di sciopero, la cui fonte principale è l'art. 40
Cost. che recita "il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano".
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A livello europeo, la Corte di giustizia europea ha, anche in tempi recenti, subordinato la legittimità dello
sciopero a prevalenti logiche d'impresa (nelle sentenze del 2007 Viking e Laval, la Corte ha messo tale
mezzo di autotutela sullo stesso piano della libertà d'impresa) ed ha affermato che l'azione collettiva può
essere ritenuta prevalente solo quando incarni interessi generali di tutela dei lavoratori e sia proporzionata
rispetto al fine perseguito (che d'altronde deve essere compatibile con le fonti del diritto dell'UE).
Tale visione è molto lontana (≠) da quella italiana che, invece, vede il diritto di sciopero come fondamentale
strumento di realizzazione dell'uguaglianza sostanziale di cui all'art.3 co.2 Cost
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Inoltre, Passarelli riteneva lo sciopero un diritto soggettivo potestativo in quanto il titolare poteva
modificare, con la sua volontà, una situazione giuridica di un altro soggetto, ossia il datore (costretto a
sottostare agli esiti dell'esercizio di tale diritto). Da ciò ne derivava che era possibile scioperare solo per
ottenere pretese che il datore potesse soddisfare, con la conseguente illegittimità dello sciopero diretto a
perseguire una pretesa non disponibile da parte del datore (in primo luogo, ad es. lo sciopero con
motivazioni politiche). In tali casi, poiché l'astensione dal lavoro non rientrava nel diritto tutelato dall'art.
40 Cost, gli scioperanti erano responsabili civilmente e quindi tenuti al risarcimento dei danni provocati al
datore, nonché esposti all'eventualità di essere licenziati.
Negli anni ‘60, invece, la giurisprudenza, sempre per valutare la legittimità dello sciopero "anomalo",
introdusse dei criteri del danno ingiusto e della corrispettività dei sacrifici, cioè si riconosceva il danno che
gli scioperanti procuravano al datore, ma si ritenne che esso non potesse essere maggiore di quello sofferto
dal lavoratore, consistente nella perdita della retribuzione. Con una sentenza degli anni 80, la Cassazione
prescindendo dalle modalità di effettuazione dello sciopero, poneva il limite del danno inferto alla capacità
produttiva dell'azienda: non si parla più di limiti interni (riferiti al danno alla produzione) ma di limiti esterni
(riferiti alla produttività).
Questa giurisprudenza è in linea con la ricostruzione di Giugni, che vide nello sciopero un "diritto pubblico
di libertà" in relazione al quale: i pubblici poteri non possono emettere provvedimenti in contrasto col
diritto di sciopero e i datori non possono compiere atti diretti a mortificarne l'esercizio.
Circa lo sciopero effettuato per fini non economici, la Corte Costituzionale affermò però la liceità dello
sciopero di solidarietà condotto dai lavoratori di un'azienda allo scopo di sostenere rivendicazioni di
colleghi di altre aziende, a condizione che fossero riscontrabili affinità delle esigenze e comunanza degli
interessi dei lavoratori in sciopero.
Quanto invece allo sciopero politico, la Corte intervenne nel senso di affermarne la costituzionalità, a meno
che esso fosse diretto a sovvertire l'ordinamento costituzionale oppure a impedire od ostacolare il libero
esercizio dei diritti e dei poteri nei quali si esprime la sovranità popolare. La Corte, inoltre, ne individuò 2
tipologie: a) lo sciopero "politico-economico", in cui alla base della rivendicazione politica vi era comunque
una qualche motivazione economica, che rientrava nell'ambito di applicazione dell'art. 40 Cost.; b) lo
sciopero "politico puro", animato solo da ragioni di stampo politico, pur lecito, ma soggetto alle ordinarie
regole dell'illecito civile (responsabilità per danni cagionati al datore). Col tempo, tale distinzione è andata
scemando e la Corte Costituzionale ha finito anche col dichiarare l'illegittimità dell'art. 504 c.p., che
prevedeva il reato di sciopero di coazione nei confronti della pubblica autorità.
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Forma più estrema è l'occupazione d'azienda che presuppone la permanenza dei lavoratori anche oltre
l'ordinario orario lavorativo (la Corte Costituzionale l'ha ritenuta legittima solo in presenza di una debita
giustificazione, come ad es: un'assemblea regolarmente convocata). Nello sciopero virtuale, che comporta
anch'esso la permanenza in azienda, i dipendenti affermano di essere in sciopero, ma svolgono
regolarmente le loro mansioni.
Alcuni comportamenti esulano, invece, dal concetto di sciopero: il picchettaggio (attività strumentale
all’esercizio dello sciopero) che consiste in un blocco effettuato dai lavoratori l'azienda dissuadono i
colleghi che vogliono entrare a lavoro (se questo degenera in azioni violente, scatta la sanzione penale). Il
picchetto di lavoratori può agire anche in senso inverso, ossia impedire l'uscita dall'azienda dei suoi
prodotti (blocco delle merci che risulta lecito sempre che non sfoci in comportamenti violenti o minacciosi).
Il boicottaggio dei lavoratori, invece, consiste nella propaganda volta ad indurre terzi a non fornire
all'impresa materie prime o strumenti, ovvero a non acquistarne i prodotti.
[N.B. Il boicottaggio è punito dall'art. 507 c.p., infatti la Corte Costituzionale ritiene lecita la sola attività di propaganda
esercitata come libera manifestazione del pensiero ex art 21 Cost. Anche il sabotaggio, che si sostanzia nel
danneggiamento dei locali dell'azienda o dei suoi strumenti o macchinari, è sanzionato penalmente dall'art. 508, co.2.].
7) Lo sciopero dalla parte del datore di lavoro: la serrata, la “messa in libertà”, il crumiraggio
Vediamo ora quali sono i comportamenti che può assumere il datore di lavoro in conseguenza di uno
sciopero.
Tipico strumento nelle mani del datore è la serrata, ovvero la chiusura totale o parziale dell'azienda, per un
periodo di tempo più o meno lungo. Per molto tempo la legge ha trattato la serrata e lo sciopero allo
stesso modo (idea della parità delle armi) ma, la Costituzione ha poi finalmente diversificato le due
fattispecie, riconoscendo lo sciopero come diritto e non facendo alcuna menzione della serrata. A livello
europeo, la Carta dei diritti fondamentali continua, invece a porre tali strumenti sullo stesso piatto
affermando un principio di parità. La Corte Costituzionale ha dichiarato che la serrata è una mera libertà,
dichiarando illegittima la norma penale (art. 502 c p.) che la puniva se effettuata per fini contrattuali, ma
ribadendo la differenza di rango costituzionale rispetto allo sciopero.
[N.B. In ogni caso, la serrata configura un illecito civile che può essere inquadrato o come mora del creditore (art.
1206 c.c.) consistente nel rifiuto di ricevere le prestazioni dei dipendenti, o come inadempimento del contratto di
lavoro. In entrambi i casi comunque il datore è tenuto a versare la retribuzione al lavoratore. Si ricorda, però, che l'art.
1206 c.c. esclude la mora del creditore se questi rifiuta di ricevere la prestazione per un motivo legittimo (consistente
nell'impossibilità di riceverla), come nel caso della "messo in libertà" (serrata di ritorsione) cioè il rifiuto del datore di
ricevere la prestazione quando è in atto uno sciopero articolato].
Un altro tradizionale strumento nelle mani del datore è il crumiraggio, comportamento anch'esso (come la
serrata) ai limiti della condotta antisindacale ex art.28 dello Statuto dei lavoratori. Il crumiro è il lavoratore
che non intende aderire allo sciopero e che, quindi, vuole recarsi normalmente al lavoro: tale
comportamento è il lecito alla luce della libertà sindacale negativa. Altro è il crumiraggio "indiretto", cioè
quello realizzato dal datore con la sostituzione dei dipendenti in sciopero, attuata o spostando
temporaneamente propri dipendenti da un reparto a quello in sciopero oppure reclutando lavoratori
esterni. Per quest’ultimo caso, detto crumiraggio "esterno", vi sono dei divieti legislativi di ricorrere a
determinati istituti (come ad es. lavoro a termine o intermittente) per sostituite i lavoratori in sciopero.
Nel caso del crumiraggio "interno", invece, c'è chi sostiene i che, una volta rispettati i precetti legali circa il
divieto di adibizione a mansioni inferiori, il datore ben potrebbe rispondere allo sciopero con
provvedimenti di tipo sostitutivo.
In questo campo, l'art. 40 Cost, ha ricevuto attuazione con la legge 146/1990 (ritoccata poi dalla legge
83/2000) in cui principio cardine è quello di garantire che il diritto di sciopero sia esercitato in modo da
assicurare al contempo il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Si tratta, del diritto
alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza.
sociale, all'istruzione, ecc.
Possono, dunque, definirsi essenziali tutti quei servizi che, pur non nominati dal legislatore, consentono
l'esercizio di taluni dei diritti fondamentali da esso considerati. Ai fini dell'essenzialità del servizio, non
rileva la natura pubblica o privata del rapporto di lavoro. La legge 83/2000 ha esteso l’ambito applicativo di
tale disciplina all'astensione collettiva dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che
incida sulla funzionalità dei servizi.
9) b. le condizioni di esercizio
Sempre nell'ambito dello sciopero nei servizi pubblici, la legge fissa specifiche condizioni di esercizio del
diritto di sciopero. In primo luogo, prima della proclamazione dello sciopero, le parti devono espletare
procedure di raffreddamento e conciliazione: lo sciopero può aversi solo se il tentativo di raffreddamento
ha avuto esito negativo. Altresì, i soggetti che proclamano lo sciopero hanno l'obbligo di darne preavviso
almeno 10 giorni prima: in tal modo si consente all'azienda erogatrice del servizio di predisporre le misure
indispensabili. Nello stesso lasso di tempo, chi proclama lo sciopero deve comunicarne la data, le modalità
di attuazione e le motivazioni sia all'azienda che eroga il servizio sia alle autorità governative. Le aziende
erogatrici hanno l'obbligo di comunicare agli utenti almeno 5 giorni prima dell'inizio dello sciopero, modi e
tempi di erogazione dei servizi.
Una delle caratteristiche peculiari di tale sciopero è che, anche il semplice annuncio dell'astensione può
essere di per sé sufficiente a realizzare lo scopo perseguito dai lavoratori (la sola diffusione della notizia
può, infatti, provocare disagi per gli utenti del servizio interessato, determinando una forte pressione nei
confronti della controparte datoriale). Di qui la scelta del legislatore del 2000 di vietare il "c.d. effetto
annuncio", prevedendo che la revoca spontanea dello sciopero proclamato, dopo che ne è stata data
informazione all'utenza, costituisce di forma sleale di azione sindacale che legittima un intervento
sanzionatorio. Inoltre è stato introdotto "l'obbligo di rarefazione": può accadere, infatti, che gli scioperi in
determinati periodi dell'anno o in successione nello stesso settore, possano mettere a serio rischio la
continuità nell'erogazione del servizio pubblico, e per evitare ciò, si è disposto che i contratti collettivi e i
codici di autoregolamentazione prevedano "periodi di franchigia", ossia lassi temporali in cui è di fatto
proibita l'astensione (ad es. in coincidenza con le festività), nonché il rispetto di intervalli minimi tra uno
sciopero e un altro.
[N.B. Tali intervalli si dividono in: soggettivi, ossia relativi al divieto di proclamare scioperi successivi da parte dello
stesso soggetto sindacale, se non nel rispetto di un determinato arco temporale tra l'uno e l'altro; ed oggettivi,
riguardanti il divieto di proclamare, da parte di sindacati diversi, astensioni simultanee o eccessivamente ravvicinate
nel tempo nello stesso settore].
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efficacia generale ovvero essere vincolanti anche per i lavoratori non scritti ai sindacati stipulanti. Ciò vale
anche per le imprese private che erogano servizi pubblici.
Gli accordi o contratti collettivi e i codici di autoregolamentazione che specificano le prestazioni
indispensabili che vanno assicurate durante lo sciopero nei sevizi (pubblici) essenziali, devono essere
sottoposti alla valutazione di idoneità della Commissione di garanzia, (autorità amministrativa composta da
5 esperti in diritto costituzionale, diritto del lavoro e relazioni industriali, designati dai presidenti della
Camera e del Senato e nominati dal Presidente della Repubblica). Se essa non reputa l'accordo idoneo a
garantire l'effettivo bilanciamento tra il diritto di sciopero e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti,
con provvedimento motivato sottopone alle parti una “proposta” sulle prestazioni da considerarsi
indispensabili. Se le parti non l'accettano o non si pronunciano nei successivi 15 giorni, la Commissione
formula una "regolamentazione provvisoria" delle prestazioni indispensabili, vincolante per le parti fino
all'approvazione dell'accordo o del codice di autoregolamentazione ritenuto idoneo.
[N.B. La Commissione svolge anche compiti consultivi e di mediazione e può, infatti, dare il proprio giudizio sull'interpretazione o
applicazione degli accordi o dei codici di autoregolamentazione. Altresì può pronunciarsi sull'interpretazione di fonti sulle
prestazioni indispensabili. Infine, la Commissione si occupa della prevenzione degli scioperi illegittimi, nel caso in cui ravvisi profili
di criticità nella proclamazione dello sciopero, e dà immediata comunicazione ai soggetti interessi, invitandoli a riformularla].
La realizzazione dello scopo di contemperare l'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti
della persona costituzionalmente tutelati, è affidata allo strumento (di natura amministrativa) della
precettazione. Si tratta di un provvedimento amministrativo, adottato dal Prefetto se lo sciopero ha
carattere locale, ovvero dal Presidente del Consiglio o da un ministro da lui delegato in caso di conflitto di
rilevanza nazionale interregionale. Un presupposto per l'utilizzo di tale strumento è rappresentato dal
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fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati,
che potrebbe derivare dall’interruzione o dall'alterazione del funzionamento dei servizi pubblici essenziali
in conseguenza della proclamazione dello sciopero. Deve, dunque, trattarsi di un pericolo probabile di un
pregiudizio di non lieve entità, nonché di prossima verificazione, per uno dei diritti tutelati.
[Una volta avviato il procedimento, l'autorità competente deve invitare le parti a desistere dai comportamenti che
determinano la situazione di pericolo. Viene, quindi, esperito un tentativo di conciliazione e solo se questo ha esito
negativo possono essere adottate con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona
costituzionalmente tutelati. In particolare, il provvedimento di precettazione può disporre il differimento dello
sciopero ad altra data, ridurne la durata o prescrivere misure idonee ad assicurare livelli di funzionamento del servizio
compatibili con la salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. L'inosservanza del provvedimento
di precettazione comporta l'applicazione dì sanzioni pecuniarie.]
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3) L’obbligo di fedeltà
Parliamo adesso dell’obbligo di fedeltà (ex art 2105 c.c.) che impone un divieto di fare, a garanzia di
specifici valori aziendali, come la capacità competitiva. In base a tale disposizione, il lavoratore non deve
trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti
all’organizzazione e ai metodi di produzione, o farne uso per arrecare pregiudizio all’impresa.
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lavoratore, e diritto all’adempimento dell’obbligazione, per le ragioni del datore di lavoro e garantendo
l’imparzialità dell’accertamento.
Inoltre, nelle fasce orarie di reperibilità il lavoratore ha l’onere di restare presso il proprio domicilio per la
visita medica, che necessita del consenso del lavoratore, il cui diniego produce conseguenze disciplinari.
L’irreperibilità ingiustificata è causa di perdita o riduzione del trattamento economico previsto in caso di
malattia.
Per quanto riguarda le guardie giurate, impiegate per scopi di controllo e salvaguardia del patrimonio
aziendale, esse non possono contestare ragioni o fatti inerenti all’attività lavorativa diversi da vicende che
riguardano la lesione dei beni aziendali, e perciò non possono accedere nei locali dove si svolge l’attività
lavorativa durante il suo svolgimento.
Per la medesima esigenza di salvaguardia dei beni aziendali, si potrebbe ricorrere a visite personali di
controllo (cioè le “ispezioni personali”) vietate in via generale dall’art.6, ma eccezionalmente ammesse
solo in caso in cui esse siano indispensabili. Perciò è prevista una rigida disciplina: devono essere eseguite
all’uscita dei luoghi di lavoro, tutelando la dignità e la riservatezza del lavoratore, e i lavoratori da
sottoporre a controllo devono essere selezionati in maniera imparziale (con sistemi di selezione
automatica), restando comunque inammissibili quelle ispezioni che possano ledere l’intimità dei lavoratori,
altrimenti il datore di lavoro incorre in una sanzione penale.
Inoltre, le modalità di svolgimento di tali visite personali devono essere concordate tra datore di lavoro e
RSA.
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Per quanto riguarda il pubblico impiego, la disciplina è molto più analitica e dettagliata. Per quanto
riguarda la competenza: per le infrazioni meno gravi (es. rimprovero verbale) provvede il responsabile della
struttura; per le infrazioni più gravi provvede un apposito ufficio competente per i procedimenti
disciplinari.
Il responsabile della struttura segnala entro 10 giorni all’ufficio competente i fatti ritenuti rilevanti; l’ufficio
competente provvede alla contestazione scritta dell’addebito e convoca l’interessato (con preavviso di
almeno 20 gg), per l’audizione in contraddittorio in sua difesa, che in caso di grave impedimento, può
chiedere di differire l’audizione a sua difesa.
Alla fine, l’ufficio chiuderà il procedimento con l’atto di archiviazione o con l’irrogazione della sanzione.
In caso di trasferimento del lavoratore, il procedimento è concluso dalla nuova amministrazione, e può
proseguire anche in caso di dimissioni.
A differenza di quanto visto prima, per tali procedimenti non è ammessa la procedura arbitrale: l’unico
modo per impugnare questi provvedimenti è il rimedio giurisdizionale.
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3) Le categorie legali
Tornando all’art.2095, esso distingue i lavoratori in 4 categorie legali, che riflette un’organizzazione
aziendale basata su gerarchie sociali nelle quali gli operai andavano tenuti separati dagli altri dipendenti. A
ben vedere, si afferma che l’impiegato è colui che svolge attività professionale al servizio dell’azienda, con
funzioni di collaborazione.
Tutte le altre definizioni sono rimesse alla contrattazione collettiva. Per i dirigenti è determinante la
definizione di origine giurisprudenziale che lo considera un “alter ego dell’imprenditore”, cioè colui che è
preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, investito di poteri che gli consentano di
orientare il governo complessivo dell’azienda o di una sua parte, pur nell’osservanza di quanto deciso
dall’imprenditore.
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Va specificato che fino ai primi anni ’70 anche il sistema di inquadramento in qualifiche era distinto tra impiegati e
operai, mentre con i contratti collettivi del ’73 e ’74 è stato utilizzato il c.d. “inquadramento unico”, per cui oggi la
scala classificatoria è unica e alcuni livelli di inquadramento raggruppano qualifiche impiegatizie e operaie.
A questo tipo di classificazione reagirono i quadri, contrari a questo tipo di appiattimento, e da qui nacque
un loro movimento che sfociò nel riconoscimento legale della nuova categoria di quadri intermedi, e
mediante la l.190/85, si impose alle imprese di riconoscere le specifiche qualifiche di quadro. Si tratta però
di una definizione generica, mentre l’individuazione dei requisiti di appartenenza e delle effettive
differenziazioni nei trattamenti economico-normativi viene rimessa alla contrattazione nazionale o
aziendale. Si ribadisce, in particolare, che i quadri non sono dirigenti, con la conseguente impossibilità di
confederi ad essi le stesse funzioni direttive di cui è investito il dirigente. Il tratto che più caratterizza le
mansioni del quadro sarebbero le elevate responsabilità riguardanti la direzione, coordinamento e
controllo di altri lavoratori, fermo restando che comunque tali compiti non possono condizionare la vita
dell’impresa o di un suo ramo, che resta prerogativa del dirigente.
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6) Art. 2103 e modifiche pattizie allo jus variandi e all'inquadramento del lavoratore
L'art.2103 contiene una sanzione esplicita di nullità dei patti contrari, in passato talvolta rigidamente
applicata dalla giurisprudenza anche in caso di declassamento pattuito con il lavoratore allo scopo di
evitare il licenziamento.
Già prima del 2015 in molti casi la legge aveva consentito più ampiamente il declassamento, anche a
seguito di pattuizioni collettive: per le lavoratrici madri, durante la gestione e fino a 7 mesi dopo il parto;
qualora per infortunio o malattia il lavoratore non fosse più in grado di svolgere le proprie mansioni; in
presenza di accordi sindacali diretti a ridurre gli esuberi di personale.
[N.B. Anche la giurisprudenza tendeva a interpretare la norma codicistica “alla stregua della regola del bilanciamento
del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del
lavoratore al mantenimento del posto”]
L'art.2103 c.c. novellato nel 2015 razionalizza queste ipotesi, andando anche oltre e sottraendo alla nullità
alcune modifiche pattizie all'inquadramento dei lavoratori. Patti derogatori ai limiti legali, collettivi o
individuali, sono ammessi in due casi:
a) se il declassamento, cioè l'adibizione a mansioni appartenenti a livello di inquadramento inferiore ma pur
sempre compreso nella medesima categoria legale, venga previsto da contratti collettivi, anche in assenza
di qualsiasi modifica organizzativa.
[N.B. Questa non è una modifica pattizia diretta dell'inquadramento del lavoratore, ma un ampliamento del potere
datoriale di declassamento delegato alla disciplina dei contratti collettivi. Anche in questo caso il concreto esercizio
dello jus variandi ad opera del datore di lavoro deve essere comunicato per iscritto "a pena di nullità" (co.5);
b) se le modifiche avvengono con accordi individuali aventi ad oggetto mansioni, categoria legale, livelli di
inquadramento, retribuzione, alla duplice condizione che:
- siano stipulati nelle sedi di conciliazione di cui all'art.2113 co.4 o davanti alle Commissioni di certificazione
- siano stipulati nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una
diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
(In questo caso sembrano consentite modifiche anche oltre i limiti previsti nell'esercizio dello jus variandi)
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- Quanto alla nozione di datore di lavoro, è definito tale il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il
lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il
lavoratore presta la propria attività, ne ha la responsabilità, in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.
Il T.U. dispone, inoltre, che gli obblighi di igiene e sicurezza fanno carico anche ai dirigenti e ai preposti: è
definito "dirigente" la persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e
funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore, organizzando l'attività
lavorativa e vigilando su di essa; invece, "preposto" è la persona che, sempre in ragione delle competenze
professionali e nei limiti dei suoi poteri gerarchici, sovrintende all'attività lavorativa e garantisce
l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori.
Il T.U, impone anche al datore di dotarsi di uno staff tecnico e medico che lo supporti nella realizzazione del
sistema di prevenzione in azienda.
Tale staff consiste:
- nel servizio di prevenzione e protezione, composto da un responsabile e da uno o più addetti;
- in un medico competente, cui è affidata la sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti a rischi per la
salute, attraverso visite sia preventive sia periodiche.
Passando ai principali obblighi di prevenzione imposti dal T.U. In primo luogo, il datore è tenuto ad
effettuare la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e a redigere un documento di
valutazione dei rischi (DVR).
Altro obbligo per il datore è quello di fornire a ciascun lavoratore adeguata informazione, formazione e
addestramento.
Il T.U. attribuisce però obblighi e doveri anche ai lavoratori. Questi infatti devono collaborare
all'applicazione della normativa (attenendosi alle disposizioni impartite), utilizzare correttamente
attrezzature, materiali, mezzi di trasporto e dispositivi di sicurezza, nonché partecipare ai programmi di
formazione e di addestramento e sottoporsi ai controlli sanitari.
Il T.U., inoltre, prevede l'istituzione in tutte le aziende dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza
(RLS), nei cui confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per i rappresentanti sindacali.
Gli RLS sono eletti direttamente tra i lavoratori, ma nelle aziende di maggiori dimensioni in cui vi siano
rappresentanze sindacali (RSA o RSU), la scelta del RSL avviene tramite elezione o designazione nell'ambito
delle rappresentanze sindacali esistenti.
La vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta in
prevalenza dall'Azienda sanitaria locale competente per territorio e la mancata osservanza di tali norme
può integrare gli estremi di reati: costituisce reato contravvenzionale la semplice violazione della disciplina
in esame, a prescindere dal fatto che se ne sia derivato o meno un infortunio per i lavoratori.
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consistere sia in atti già di per sé illeciti (ad es. trasferimento illegittimo, svuotamento di mansioni) sia in
atti leciti (ad es. atteggiamento ostile, disconoscimento di meriti, critiche).
Gli elementi caratterizzanti tale fenomeno sarebbero: reiterazione delle condotte, intenzionalità del
comportamento da parte dell'autore, emersione di un danno a carico della vittima, nesso di causalità tra
tali condotte ed il danno.
Quanto al danno, questo deve essere accertato dal punto di vista medico in quanto, deve determinare
un'alterazione psichica della vittima suscettibile di misurazione medica. Sempre secondo la giurisprudenza,
il datore ha, per l’art. 2087 c.c., una responsabilità diretta in caso di mobbing verticale ed una
responsabilità indiretta (per omessa vigilanza nei confronti del dipendente che ha tenuto il comportamento
vessatorio) in caso di mobbing orizzontale.
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sua prestazione sia basata sulla misurazione dei tempi di lavorazione (art. 2100 c.c.): successivamente la
retribuzione a cottimo è stata resa obbligatoria anche per il lavoro a domicilio.
Ad ogni modo, la giurisprudenza ha ritenuto vincolante per tutti i sistemi salariali l'art. 36 Cost, con la
conseguenza che vanno sempre e comunque garantiti i minimi retributivi previsti da tale articolo. Infatti,
secondo i giudici questa norma costituzionale può essere invocata in giudizio al fine di rendere nulle le
clausole dei contratti di lavoro che determinano la retribuzione in violazione appunto dei criteri fissati dalla
norma costituzionale, e al fine di consentire al giudice di integrare il contenuto del contratto facendo
riferimento alle “tabelle salariali” definite dai contratti collettivi.
È evidente però che i giudici non sono in grado di garantire un salario minimo certo, dovendo piuttosto
combinare la garanzia costituzionale con la disciplina dei contratti collettivi che, invece, differenzia la
retribuzione a seconda del livello di inquadramento (ossia, i minimi retributivi si differenziano a seconda
della qualifica del lavoratore e, talvolta, anche a seconda delle dimensioni dell'impresa o del luogo in cui
viene effettuata la prestazione).
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sostituita dalla previsione di un meccanismo che, alla data di scadenza del contratto precedente, riconosca
una copertura economica, che sarà stabilita nei singoli contratti collettivi, a favore di tutti i lavoratori in
servizio alla data di raggiungimento dell'accordo.
Con l'Accordo interconfederale 2012 (a cui la CGIL non aderisce) sì interviene nuovamente sulla disciplina
ora descritta. Tale accordo attribuisce di nuovo al CCNL il compito di rendere gli effetti economici del
contratto coerenti con le tendenze dell'economia, del mercato del lavoro e degli andamenti specifici del
settore. Il CCNL acquista cosi l'obiettivo mirato di tutelare il potere d'acquisto della retribuzione.
Tutto ciò viene confermato dall'Accordo Interconfederale del 2018 (stipulato stavolta anche dalla CGIL), in
cui si prevede un rapporto dinamico tra il “trattamento economico minimo” (TEM) e il “trattamento
economico complessivo” (TEC), il quale però, data soprattutto la sua complessità, potrebbe scontrarsi con
l'art. 36 Cost. Ma di questa norma però va tenuta conto l’interpretazione giurisprudenziale evolutiva che
ritiene che i meccanismi di indicizzazione non abbiano rilevanza di rango costituzionale, come si evince
dalla sent.126/2000 che afferma: “gli strumenti di adeguamento perequativo non devono garantire un
costante allineamento (…) ma solo assicurare che non si verifichi un macroscopico scostamento che
sarebbe indice sintomatico di violazione del principio di sufficienza retributiva”.
Stando così le cose, può allora affermarsi che, appare costituzionalmente legittimo il superamento sia
della “scala mobile” che dell'indennità di vacanza contrattuale.
[N.B. Ricordiamo che nel lavoro pubblico il sistema di tutela del salario reale mediante contrattazione collettiva ha
incontrato limiti drastici, a causa di un blocco vero e proprio della contrattazione nazionale “per la parte economica”
dal 2010 sino al 2014, e per il 2015. In particolare fu bloccata irreversibilmente l’indennità di vacanza contrattuale per
gli anni 2013,2014 e fino al 2018.
Quindi gli stipendi tabellari di tutti i dipendenti pubblici sono stati congelati per un periodo maggiore di due anni,
mediante la cancellazione dell’erosione salariale verificatesi in questo periodo considerato, e in questo modo
impedendo all’ordinamento nazionale di utilizzare qualsiasi strumento per mantenere le retribuzioni sui parametri
indicati dall’art.36 Cost. Tuttavia, nel 2015, vi fu una pronuncia di incostituzionalità, però orientata più nel senso della
violazione dell’art.39 Cost per “l’eccessiva compressione del diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva”, che
per qualche violazione dell’art.36].
6) Retribuzione e produttività
Quindi, attualmente, bisogna tener conto che i principi e categoriche giuridiche non sono più né quelle del
codice civile, né quelle assestatesi nei 30 anni successivi alla Costituzione, seppur queste continuino ad
essere un importante riferimento.
Particolare attenzione va prestata anche alla più recente regolazione della c.d. parte variabile della
retribuzione, talvolta detto “salario accessorio” (solo di rado va oltre il 10-15% della retribuzione
complessiva).
[N.B. si tratta cioè della possibilità di variare la retribuzione complessiva in considerazione dei risultati realizzati
individualmente o dall'organizzazione aziendale nel suo complesso].
Infatti, nel settore privato negli ultimi anni sono state introdotte voci retributive che riflettono la
produttività o la redditività collettiva, fino ad arrivare a forme di compensi legate all'azionariato dei
lavoratori. Già nel Protocollo del 1993 si prevede che "le erogazioni del livello di contrattazione aziendale
sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi aventi come obiettivo
incrementi di produttività, nonché ai risultati legati all'andamento economico dell'impresa".
Nel 2007 per promuovere la contrattazione sul salario variabile, furono introdotti sgravi contributivi e nel
2008 si aggiunse a questi anche un regime fiscale agevolato basato sulla “detassazione” di una quota del
salario in quanto corrisposto come "retribuzione di produttività".
[Non presente nella nuova edizione:
Con l'accordo interconfederale del 2012 fu poi introdotta la regola dello “sdoppiamento funzionale” degli aumenti
salariali (che mirano a salvaguardare il potere di acquisto della retribuzione) in base alla quale, tali aumenti derivanti
dai rinnovi dei CCNL sono in parte rimessi alla “contrattazione periferica” (cioè significa che una parte degli aumenti
salariali viene prevista dai contratti collettivi nazionali, e una parte dai contratti decentrati, sulla base degli incrementi
di produttività dell'impresa, per poter fruire della detassazione prevista dalla legge).
81
Tale regola pero è stata criticata: infatti, si è detto che se gli aumenti salariali rappresentano una garanzia per tutti i
lavoratori, non possono essere distinti in una “quota fissa” (stabilita dai CCNL) e in una “quota variabile” da collegarsi
ad incrementi di produttività e redditività definiti dai contratti decentrati (contratti di secondo livello).
Si può sostenere che, la quota di salario da poter collegare alla produttività/redditività dell'impresa è solo quella che
residua dopo aver garantito la tutela del salario reale (in questo caso sarebbe conforme alla disciplina art.36 Cost)].
L'accordo del 2012 è stato infatti seguito da una normativa articolata e complessa, che ha dato luogo a delicati
problemi interpretativi non solo di carattere giuslavoristico (art.1 co.481, Iegge 228/2012; d.P.C.M. 22 gennaio
2013; circolare Inps n.15/2013; circolare Agenzia delle entrate n.11/E/2013). Tale normativa è stata accolta con
favore anche dalla Cgil, che ha firmato con Cisl e Uil alcuni successivi accordi interconfederali (aprile 2103 con
Confindustria e agosto 2013 con Confimi) diretti a predisporre un modello di accordo quadro territoriale per
consentire ad imprese prive di rappresentanza aziendale di introdurre retribuzioni di produttività detassabili.
Sulla stessa lunghezza d'onda sì sono avuti ulteriori, provvedimenti legislativi (art.1, legge 232/2016) nonché
indicazioni autorevoli delle parti sociali (accordo interconfederale del 9 marzo 2018).
82
A partire dal 2005, si è previsto che il TFR venga destinato al finanziamento di fondi di previdenza
complementare,
(salvo che il lavoratore non manifesti, entro 6 mesi dall'assunzione, la volontà di mantenere il TFR presso il
proprio datore di lavoro). In realtà, il TFR rimane presso il datore solo se questi ha meno di 50 dipendenti;
negli altri casi, viene accantonato in un apposito fondo gestito dall'INPS secondo le regole dell'art. 2120 c.c.
In tal modo il TFR diviene un importante fonte di finanziamento del sistema previdenziale pubblico.
[N.B. I dipendenti pubblici, assunti dal 31 dicembre 2000, hanno diritto al TFR così come regolato per i privati, mentre
coloro che erano già in servizio prima di quella data, se non aderiscono ad un fondo pensione di comparto entro il
31/12/2015, è previsto per loro la conservazione dei trattamenti di fine sevizio regolati dalle varie discipline di
comparto].
[N.B. Abbiamo anche altri istituti di retribuzione differita, come ad esempio le c.d. mensilità aggiuntive (la
tredicesima, che va corrisposta di solito alla fine dell’anno solare)].
83
2) L’orario di lavoro
Passiamo all'orario di lavoro, che nella prima regolamentazione del 1923 era fissato in 48 ore settimanali,
poi ridotte a 40 nel 1997. Secondo il d.lgs. 66/2003 è orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia
al lavoro, a disposizione del datore e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni (per tale definizione
è necessario, dunque, che il lavoratore contemporaneamente sia sul luogo di lavoro, soggetto ai poteri
datoriali e nelle mansioni assegnategli). La legge fissa l'orario di lavoro nel limite delle 40 ore settimanali,
con la possibilità per i contratti collettivi di stabilire una durata minore e di riferire l'orario normale alla
durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno
[N.B. significa che la contrattazione collettiva può stabilire che la media vada calcolata su un periodo di 6 mesi, di
modo che in un mese l'orario normale può eccedere le 40 ore settimanali, purché tale eccedenza sia poi compensata
da una riduzione nel mese successivo così da rispettare il valore medio]. È anche stabilita la durata massima
settimanale dell'orario, ovvero quella che include l'eventuale lavoro straordinario. Anche in tal caso la
legge fissa solo il valore medio a 48 ore nell'arco di 7 giorni [N.B. vuol dire che anche qui, la contrattazione
collettiva può fissare l'orario massimo in modo da variare da giornata a giornata, purché sia rispettato il valore medio
di 48 ore fissato dalla legge].
Per quanto riguarda l'orario giornaliero, viene fissato in 13 ore, derogabile comunque dalla contrattazione
collettiva.
84
Ci si chiede se la variazione dell’orario di lavoro e la collocazione oraria richiedano o meno il consenso del
lavoratore. La giurisprudenza anteriore al 2003 ritiene che entrambi gli aspetti rientrano nel potere direttivo del
datore e quindi si prescinderebbe dal consenso del lavoratore (ciò nel caso dei rapporti di lavoro a tempo pieno;
mentre, il consenso sarebbe necessario solo nei rapporti di lavoro a tempo parziale, in cui la programmazione del
tempo libero assume carattere essenziale).
Al contrario, c’è chi ritiene che il datore non possa variare a suo arbitrio l'orario di lavoro pretendendo la completa e
totale disponibilità del lavoratore (sia a tempo pieno che a tempo parziale).
La legge invece, con riferimento alla variazione (quantitativa) dell'orario di lavoro, propendere per la
necessità del consenso delle parti contrattuali (visto che l'orario, se non regolato collettivamente, viene
fissato individualmente).
Quanto alla collocazione della prestazione lavorativa, si ritiene invece che rientri nel potere unilaterale del
datore la collocazione temporale della prestazione lavorativa.
[N.B. a tal proposito si richiama la regolamentazione del lavoro notturno che prevede, in alcuni casi un divieto ed in
altri un "non obbligo" per il lavoratore al lavoro notturno, da ciò deducendosi che in tutte le altre ipotesi il lavoratore
è tenuto a prestare il lavoro notturno in quanto tale obbligo discenderebbe dal potere datoriale].
In definitiva, collocazione dell'orario non determina alcun mutamento dell'oggetto del contratto (che è il
tempo-orario e non la sua collocazione).
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[N.B. Abbiamo già detto che, spetta alla contrattazione collettiva regolamentare il lavoro notturno, anche con
riferimento all'individuazione dei requisiti dei lavoratori che possono essere esclusi dall'obbligo di effettuare il lavoro
notturno, ciò però può essere fatto solo in senso di migliorare i requisiti soggettivi già previsti dalla legge].
• Aspetti comuni al lavoro notturno li ritroviamo nel lavoro a turni, a cui però sono dedicate meno norme
(lavoro notturno e lavoro a turni sona accomunati dalla gravosità della prestazione, ma il primo è
considerato più oneroso). Lavoro a turni è qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro, anche a squadre.
Anche tale materia è rimessa alla contrattazione collettiva che la regola nel rispetto della legge, in primis
dell’art.10 dello Statuto, che dispone che i lavoratori studenti hanno diritto a turni di lavoro che agevolino
la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami.
È stato poi riconosciuto a tutti i lavoratori subordinati il diritto a usufruire delle turnazioni previste dalla
contrattazione collettiva, se intendono svolgere attività di volontariato in enti del terzo settore.
La minore attenzione prestata al lavoro a turni rispetto a quello notturno è data dal fatto che, pur essendo
la gravosità della prestazione un tratto comune a entrambi, il lavoro notturno è più oneroso del lavoro a
turni. Emblematica al riguardo è la normativa in materia di accesso anticipato al pensionamento, con-
sentito per il lavoro notturno svolto durante tutto l'anno, oppure nell'ambito di un regime di turni e non per
il lavoro a turni “tout court”.
5) Le ferie
L'art.36 co.3 Cost. garantisce anche il diritto irrinunciabile alle ferie annuali retribuite, la cui funzione è
quella di assicurare il necessario ristoro psico-fisico e di consentire al lavoratore di svolgere attività extra-
lavorative ritenute meritevoli di tutela.
La legge stabilisce che il lavoratore ha diritto a un periodo minimo annuale inderogabile di ferie retribuite
non inferiore a 4 settimane, inclusi i giorni non lavorativi. Anche il lavoratore che abbia meno di un anno
continuativo di servizio, ha il diritto a usufruire di una frazione proporzionata di periodo feriale (c.d.
“intrannualità del godimento delle ferie”).
La collocazione del periodo feriale rientra nel potere direttivo del datore (art. 2019 c. 2 c.c.), anche se tale
potere deve essere esercitato tenendo conto anche degli interessi del lavoratore. Inoltre, il periodo minimo
di 4 settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie (previsione non derogabile dalla
contrattazione collettiva), tranne nel caso in cui non possono essere consumate a causa della risoluzione
del rapporto di lavoro.
[N.B. La malattia sopravvenuta durante il periodo feriale (se è tale da impedire la fruizione delle ferie o se comporta almeno
3 giorni di prognosi), ne sospende il decorso in modo che il lavoratore possa recuperare i giorni di ferie persi].
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6) Il part-time
Sempre con riferimento all'orario di lavoro, esaminiamo ora due particolari tipi di rapporti di lavoro:
■ lavoro part-time, di cui l’attuale disciplina è contenuta nel d.lgs.81/2015, uno dei decreti attuativi del Jobs Act.
Il rapporto di lavoro a tempo parziale ha una forma scritta ad probationem, cioè ai fini della prova
dell'orario ridotto e nel contratto di lavoro deve anche essere indicata la durata e la collocazione temporale
della prestazione lavorativa con riguardo al giorno, alla settimana, al mese o all'anno (indicazione, invece,
non richiesta nel contratto di lavoro a tempo pieno). Le parti, dunque, nel contratto sono libere di stabilire
che il part-time sia orizzontale, verticale o misto:
- la riduzione di orario sia in relazione all'orario normale giornaliero part-time orizzontale
[Es: anziché delle normali 8 ore lavorative al giorno, la prestazione sarà di 6 ore giornaliere distribuite su tutti i giorni
lavorativi della settimana];
- l'attività lavorativa sia svolta a tempo pieno solo però in determinati periodi della settimana, del mese o
dell'amo part-time verticale
[Es. il lavoratore svolge l'orario di lavoro settimanale ridotto su 3 giorni la settimana e non su 5 e nelle giornate
lavorative l'orario giornaliero sarà pari a quello dei lavoratori a tempo pieno];
- un mix delle due figure part-time misto [Es: una settimana in part-time orizzontale e un’altra in part-time
verticale].
La legge, inoltre, non prevede l'entità della riduzione d'orario, né tantomeno pone limiti al ricorso al lavoro
part-time.
Può accadere che vi sia una trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time , e in tal
caso è richiesto un accordo far le parti risultante da atto scritto.
È previsto un diritto nella trasformazione del contratto di lavoro da full-time a part-time solo per i
lavoratori affetti da patologie oncologiche o cronico-degenerative gravi (purché conservino una ridotta
capacità lavorativa accertata da un'apposita commissione medica). In altri casi, invece, sussiste una priorità
(non un diritto) alla trasformazione del rapporto da full-time a part-time per il lavoratore o la lavoratrice
che ha coniuge, figli o genitori affetti da patologie oncologiche o cronico-degenerative gravi; oppure ha un
figlio convivente di età non superiore a 13 anni o portatore di handicap; oppure assiste una persona
convivente con totale inabilità lavorativa grave e con necessità di sostegno continuo].
Il legislatore, invece, non prevede alcuna formalità nel caso di trasformazione da part-time a full-time,
che può avvenire in qualsiasi momento sempre previo accordo con il datore e senza particolari obblighi per
il lavoratore: in merito va però detto che, sussiste un diritto di precedenza per lavoratori a tempo parziale
in caso di assunzione di nuovo personale a tempo pieno. Inoltre, il rifiuto del lavoratore alla trasformazione
del rapporto di lavoro (in entrambe le direzioni) non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Nei rapporti di lavoro a tempo parziale può anche essere effettuato il lavoro supplementare (svolto oltre
l'orario concordato, ma entro i limiti del tempo pieno e segue le stesse regole previste per il lavoro
straordinario nei rapporti di lavoro full-time) che, in mancanza di una disciplina prevista dalla
contrattazione collettiva, richiede il consenso del lavoratore che può rifiutarlo solo se giustificato da
comprovate esigenze di salute, familiari o di formazione professionale (dunque il consenso del lavoratore
non è necessario se sussiste una contrattazione collettiva, cosi come accade nei rapporti di lavoro a tempo
pieno). La legge consente anche la previsione di “clausole elastiche” che consentono al datore di
modificare la collocazione temporale della prestazione lavorativa o l'aumento della sua durata entro i limiti
del tempo pieno (si tratta di clausole accessorie che richiedono il consenso del lavoratore una sola volta
per tutte e non di volta in volta).
[N.B. Se in presenza della contrattazione collettiva, le parti possono pattuire clausole elastiche e il lavoratore ha diritto ad un
preavviso di due giorni, mentre in caso di mancanza di contrattazione collettiva, esse possono essere pattuite solo davanti
alla commissione di certificazione e prevedere le condizioni con le quali il datore di lavoro può modificare la collocazione
temporale della prestazione, durata, ecc. con preavviso di due giorni lavorativi].
La direttiva CE 97/81 prevede il principio di non discriminazione fra lavoratori part-time e lavoratori a
tempo pieno, cosa diversa dalla disciplina la normativa italiana, che prevede che il lavoratore a tempo
parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari
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inquadramento e ha i medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile. Tale regola però è
depotenziata dal fatto che al trattamento economico si applica il “criterio del riproporzionamento” (cioè la
riduzione dei trattamenti in proporzione al minor orario svolto).
7) il lavoro intermittente
Al contrario del lavoro part-time, ha una storia molto più recente. Attualmente la disciplina di questo
istituto è contenuta nel d.lgs. 81/2015, secondo cui il lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo
determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore che ne può utilizzare la
prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti
collettivi.
Tale contratto può essere stipulato anche in mancanza di una fonte collettiva, ma solo nei casi previsti da
un decreto del Ministro del lavoro.
[N.B. In alcuni casi il lavoro intermittente può essere concluso anche in mancanza sia della contrattazione collettiva sia
del decreto ministeriale: quando si tratta di soggetti con meno di 24 anni e con più di 55 anni di età in quanto va loro
assicurata l'occupazione anche mediante fattispecie meno garantite (dato che si collocano nei segmenti deboli del
mercato del lavoro].
Per evitare però abusi di tale istituto, la legge introduce un limite temporale al suo utilizzo: non può
superare complessivamente le 400 giornate di effettivo lavoro nell'arco di 3 anni (per ciascun lavoratore
con il medesimo datore), ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.
Analogamente la legge vieta il ricorso al lavoro intermittente in una serie di casi:
- per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
- presso unità produttive in cui, nei 6 mesi precedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi;
- presso unità produttive in cui sono operanti il regime di cassa integrazione o una sospensione del lavoro;
- ai datori che non hanno effettuato la valutazione dei rischi previsti dalla normativa sulla salute e
sicurezza.
Esistono 2 tipi di lavoro intermittente:
■ il primo è caratterizzato dalla stipula di un contratto con cui il lavoratore non solo si impegna a mettersi a
disposizione, ma si obbliga anche a rispondere all'eventuale chiamata del datore, in cambio di un'indennità
di disponibilità, di cui il rifiuto ingiustificato di rispondere può costituire motivo di licenziamento e
comporta la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto;
■ il secondo, invece, è caratterizzato dal fatto che con il contratto il lavoratore non si obbliga a rispondere
alla chiamata del datore e non riceve quindi alcuna indennità [N.B. in tal caso mancando la messa a
disposizione dietro pagamento di un corrispettivo, non può parlarsi di lavoro subordinato].
Infine, in ogni contratto di lavoro intermittente devono essere regolamentati in forma scritta vari elementi
tra cui, durata e ipotesi che consentono la stipula del contratto, luogo e modalità della disponibilità e del
preavviso di chiamata del lavoratore, trattamento economico e normativo, ecc.
[Alcune cose trattate in questo paragrafo, nella nuova edizione vengono solo accennate].
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Esaminiamo le più importanti ipotesi legali di sospensione dal lavoro relative al lavoratore:
la più diffusa è la malattia e l'infortunio disciplinati dall'art.2110 c.c., che garantisce il lavoratore in tre modi:
- assicurando la conservazione della retribuzione (un'indennità oppure forme equivalenti di
assistenza/previdenza;
- garantendo la conservazione del posto di lavoro (per un periodo c.d. “di comporto” determinato dalla
legge o dalla contrattazione collettiva, trascorso il quale il datore è libero di esercitare il potere di recesso.
Inoltre,
questo periodo di comporto può essere "secco" ossia nel caso di un'unica e ininterrotta malattia,
o "per sommatoria" ossia quando l'assenza riguarda più periodi di malattia);
- prevedendo il computo del periodo di assenza nell'anzianità di servizio.
Inoltre, sono previsti taluni obblighi e oneri in capo ai lavoratori. Anzitutto, la malattia va comunicata al
datore tempestivamente (attraverso una procedura, oggi, telematica) e provata con apposito certificato
medico, con indicazione del domicilio in modo da consentire l'effettuazione dei controlli (anche all'ente
previdenziale se questi è tenuto ad erogare il trattamento di malattia). Se il lavoratore non provvede alla
comunicazione, l'assenza si ritiene ingiustificata con le relative conseguenze disciplinari e la perdita del
trattamento retributivo o previdenziale.
[N.B. Al fine di garantire l'imparzialità, ricordiamo, il datore può controllare la malattia del dipendente solo attraverso
medici fiscali, a seguito della visita, possono confermare, modificare o smentire la prognosi del medico curante del
lavoratore].
Quest'ultimo ha l'obbligo di reperibilità in talune fasce orarie, salvo giustificato motivo, pena la decadenza
del lavoratore da ogni trattamento economico fino a 10 giorni e l'irrogazione di sanzioni disciplinari.
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[N.B. Il congedo post-parto spetta anche al padre lavoratore (biologico, adottivo e affidatario), ma solo in casi
particolarmente gravi e tassativamente previsti dalla legge: morte o grave infermità della madre; abbandono del
minore; affidamento esclusivo al padre. Inoltre, diversamente da quello di maternità, è facoltativo (non obbligatorio)
e può essere esercitato solo in alternativa alla madre].
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entrambi i genitori durante i primi 3 anni di vita del bambino: in tali casi le dimissioni non hanno bisogno di
preavviso e danno diritto alle indennità previste dalla legge e dal contratto per il caso di licenziamento, ma
che devono essere convalidate dal servizio ispettivo.
Oggi desta sempre più allarme il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco”, cioè predisposte senza
l'indicazione iniziale di una data, su iniziativa del datore e sottoscritte dal lavoratore all'atto della sua
assunzione o durante il rapporto, con la possibilità per il datore di utilizzarle discrezionalmente per simulare
un licenziamento.
Proprio per tale motivo le dimissioni sono state circondate da una serie di cautele.
Con il d.lgs. 151/2015 sono state previste 2 modalità per dimettersi o risolvere consensualmente il
contratto:
- attraverso modalità telematiche su appositi moduli disponibili sul sito del Ministero del lavoro e trasmessi
dal lavoratore al datore e alla direzione territoriale, rispettando l’identificazione del rapporto e la datazione
certa dell'atto;
- formalizzandole nelle sedi conciliative di cui all'art. 2113 c.c. o dinanzi alle commissioni di certificazione.
Con le stesse modalità il lavoratore può, entro 7 giorni, revocare le dimissioni o il consenso prestato alla
risoluzione consensuale.
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La differenza tra giusta causa e giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) sta nel fatto che: nel caso della
giusta causa il datore non ha l'obbligo del preavviso (infatti si parla di “licenziamento in tronco”); obbligo
che, invece, sussiste nel caso di licenziamento per giustificato motivo. Tale differenza si spiega in quanto, di
norma la giusta causa determina una lesione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, ed
è riferita a tutti quei comportamenti che, per la loro gravità, fanno venire meno la fiducia del datore, in
modo tale da far ritenere pregiudizievole la prosecuzione anche provvisoria del rapporto. Nella giusta
causa, dunque, si valorizza l'elemento fiduciario (che secondo la giurisprudenza va valutato alla luce dì una
serie di fattori quali: posizione delle parti, danno eventualmente arrecato, motivi ed intensità dell'elemento
intenzionale, ecc..) al punto che si ritengono rilevanti anche condotte estranee all'esecuzione della
prestazione lavorativa, ma che comunque incidono sull'integrità del vincolo fiduciario (c.d. “concezione
oggettiva della giusta causa”).
C'è, al contrario, chi sostiene la c.d. “concezione soggettiva della giusta causa” (detta anche
“contrattuale”), che evidenzia la maggiore gravità dell'inadempimento costituente giusta causa di
licenziamento (l'elemento fiduciario viene così ricondotto al rapporto contrattuale, evidenziando
l’inconciliabilità della concezione oggettiva con la nozione moderna di contratto di lavoro.
In tal caso la giusta causa si differenzierebbe dal giustificato motivo soggettivo (che ricordiamo fa
riferimento anch'esso all'inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore) solo
“quantitativamente” e ad essa vanno ricondotti soltanto quei comportamenti del lavoratore di gravità tale
da incidere sull'elemento fiduciario.
• Arriva poi la legge 108/1990 che estende la tutela reale (che ricordiamo prevede la sanzione della
reintegrazione) a tutti i casi di licenziamento discriminatorio e a tutti i datori che abbiano
complessivamente più di 60 dipendenti, anche se occupati in unità produttive non meno di 15 o, se
agricole, di 5 dipendenti. Si prevede anche la possibilità che il lavoratore reintegrato possa, in alternativa
alla reintegrazione, ottenere un'indennità di 15 mensilità aggiuntiva al risarcimento del danno (c.d.
monetizzazione). Tale legge interviene anche sull'onere della prova in materia di licenziamento
discriminatorio (che ricordo ricade sul lavoratore) prevedendo la c.d. “prova statistica”: ossia, se il
ricorrente (lavoratore) fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a
fondare la presunzione dell'esistenza di comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al
convenuto (datore) provare l'insussistenza della discriminazione.
• Inoltre, vi è la legge 223/1991 con cui si dà attuazione alle direttive europee in tema di licenziamenti
collettivi (cioè quelli riguardanti almeno 5 lavoratori, effettuati nell'arco di 120 giorni e basati su riduzioni o
trasformazioni dell'attività o del lavoro), che vengono rigorosamente regolati assicurando ai sindacati un
ruolo di primo piano.
[N.B. È bene ricordare che ci troviamo in un decennio che si chiuderà con polemiche sempre più crescenti verso una
disciplina piuttosto complessa e vincolata, anche a causa delle maggiori difficoltà nel promuovere incrementi
occupazionali. Ciò sfocerà poi, nel decennio successivo, in una disciplina dei licenziamenti che subirà la pressione delle
politiche di flessibilizzazione delle regole, alimentate anche dalle politiche di “flexicutiy” formulate dall’UE negli anni
2006/2007, con lo scopo di convincere le imprese ad incrementare l’occupazione, piuttosto che a razionalizzare la
normativa e cercare un equilibrio tra flessibilità e sicurezza nel lavoro].
• Per completare il quadro normativo in materia di licenziamenti, occorre esaminare anche le modifiche
apportate dalla legge 183/2010 c.d. “collegato lavoro” (perché collegata alla legge di stabilità finanziaria
per il 2009). Tale legge impone ai giudici di tenere conto della contrattazione collettiva nel definire le
nozioni di giusta causa e giustificato motivo (tentativo questo di condizionare i giudici, che però non trova
spazio, atteso che questi sono vincolati unicamente dalle nozioni fissate dalla legge). Altresì, questa legge
cerca di depotenziare l'art.18 dello Statuto, prevedendo che le conseguenze del recesso dal rapporto di
lavoro possono essere oggetto di intese sindacali con efficacia erga omnes/generale (eccezion fatta per il
licenziamento discriminatorio, quello della lavoratrice in stato di gravidanza, quello causato dalla fruizione
di un congedo parentale, quello della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, ecc.).
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In sostanza, il legislatore così deroga alle norme in tema di sanzioni per i licenziamenti illegittimi, affidando
ad accordi aziendali o territoriali il compito appunto di individuare tali sanzioni, tranne che in alcuni casi in
cui i licenziamenti sono particolarmente lesivi della dignità del lavoratore ("licenziamenti con rilevanza
familiare").
È chiaro che questa legge determini incertezza (tant'è vero che in effetti è rimasta inattuata) e soprattutto
mina il sistema giuridico fino ad allora costruito sul delicato tema dei licenziamenti.
Proprio per questo, ad essa sono seguiti 2 interventi legislativi: nel 2012 la riforma Fornero (legge 92/2012,
che ha modificato l'art. 18 dello Statuto) e nel 2015 la riforma Renzi (d.lgs. 23/2015 c.d. Jobs Act).
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[X] Poi, la legge prevede ipotesi in cui il licenziamento sia affetto da un vizio che ne determina
l'annullabilità:
- licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) annullabile per
insussistenza del fatto, oppure perché il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con sanzioni
conservative;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo annullabile per manifesta insussistenza del fatto;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore
viziato per difetto di giustificazione;
- licenziamento intimato in violazione dell'art.2110 co.2 (il quale prevede che nei casi di infortunio,
malattia e gravidanza, il datore può recedere dal contratto di lavoro solo decorso il periodo previsto per il
preavviso);
- licenziamento collettivo per riduzione di personale viziato per violazione dei criteri di scelta.
[N.B. In tale caso riscontriamo differenze con la riforma Renzi del 2015, che ricomprende nel gruppo
"dell'annullabilità" solo l'ipotesi del licenziamento disciplinare, mentre il licenziamento illegittimo per violazione
dell’art.2110 lo colloca nel gruppo "delle nullità" e, infine, i licenziamenti per giustificato motivo e quelli collettivi li
colloca nel terzo gruppo che vedremo ora.]
[X] Ci sono, infatti, vizi meno gravi in cui il licenziamento, seppur illegittimo, è comunque idoneo ad
estinguere il rapporto di lavoro:
- licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione (formalmente immotivato);
- licenziamento disciplinare inefficace per violazione della procedura ex art. 7 dello Statuto;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa, genericamente privo di
estremi, e perciò annullabile dal giudice che “dichiara risolto il rapporto di lavoro”;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo inefficace per violazione della procedura di conciliazione;
- licenziamento collettivo per riduzione di personale viziato per ragioni procedurali.
► la tutela reintegratoria debole, che prevede sempre la reintegrazione e un risarcimento del danno fissato
nel limite massimo di 12 mensilità, che è assicurata: in tutte le ipotesi sopra previste che determinano
l'annullabilità del licenziamento, tranne quella sui licenziamenti collettivi;
► la tutela obbligatoria ordinaria, che prevede solo un indennizzo che va da 6 a 12 mensilità e si applica:
alle ipotesi di licenziamento inefficace per: mancanza di motivazione, per violazione della procedura ex art.
7 dello Statuto o per violazione della procedura di conciliazione.
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Abbiamo già detto che alla riforma Fornero è seguita la riforma Renzi d.lgs.23/2015, che prevede una
diversa disciplina delle sanzioni previste per i licenziamenti illegittimi, applicabile ai dipendenti assunti dopo
il 7 marzo 2015.
Tale decreto dispone che (fatta eccezione per i licenziamenti nulli, discriminatori e per alcune ipotesi di
disciplinari), l'illegittimità non può mai comportare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma
solo un indennizzo economico “certo e crescente” con l'anzianità di servizio.
Altresì, la legge impone di caratterizzare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato come contratti
a tutele crescenti (detti “CATUC”). Questa è, dunque, la disciplina dettata dal d.lgs.23/2015 per il CATUC:
► è assicurata la reintegrazione forte solo ai casi di licenziamenti nulli o discriminatori;
► è assicurata la reintegrazione debole in alcune ipotesi di licenziamento per giustificato motivo
soggettivo o giusta causa. Infatti, in tali casi se il lavoratore dimostra direttamente in giudizio
l'insussistenza del fatto materiale contestato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore alla
reintegrazione.
Al riguardo sono previste due regole:
- la prima, consente al datore di addurre anche solo un fatto materiale, purché esistente, per evitare
sempre e comunque la reintegrazione (è previsto però che tale fatto debba avere una pur minima rilevanza
disciplinare e non può essere valutato secondo principio di proporzionalità);
- la seconda regola necessita che l'insussistenza del fatto debba essere provata direttamente dal lavoratore;
► si esclude che possa esserci la reintegrazione nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
e di licenziamento collettivi.
Le vere e proprie “tutele crescenti” consistono nelle modalità di calcolo dell'indennità cui ha diritto il
lavoratore che viene licenziato con un atto affetto da vizi formali o sostanziali diversi dalla discriminazione e
che non determinano nullità dell'atto stesso per contrarietà a norme di legge.
[N.B. parliamo dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa, nonché dei licenziamenti
economici dovuti a ragioni di organizzazione del lavoro e attività produttiva].
In tali casi, se il lavoratore impugna nei termini il licenziamento e il giudice ne accerta l'illegittimità, questi deve
condannare il datore a pagare una/due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio del
lavoratore, a partire da un minimo di 2/6 e fino ad un massimo di 12/36 (varia a seconda del vizio del licenziamento).
La sanzione dunque ha una rigidità quantitativa che non consente di adattarla a nessun elemento interno o
esterno al contratto (il giudice dovrà solo fare una moltiplicazione, senza alcun margine di discrezionalità).
[Vecchia edizione 2018: In merito però è intervenuta la Corte Costituzionale che con la sentenza n.194 del 2018 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale del “catuc”. La Corte ha infatti disposto che, la previsione secondo cui
l'indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato vada determinata solo sulla base dell'anzianità di servizio è
contraria ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e alla tutela del lavoro ex artt. 4 e 35 Cost.
Con precisione, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.3 del d.lgs. 23/2015 limitatamente alle parole "di importo pari
a 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio").
A seguito di tale pronuncia, la determinazione dell'indennità è riaffidata dunque ai giudici i quali per quantificare l'indennità
potranno adattare la sanzione sulla base di altri elementi, quale anche l'anzianità di servizio (in aggiunta a questa, gli altri elementi
che il giudice potrà prendere in considerazione sono, per esempio, il contesto territoriale, il comportamento e le condizioni delle
parti, la dimensione dell'impresa), e quindi viene nuovamente prevista la discrezionalità del giudice circa la determinazione del
quantum dell'indennità per licenziamento illegittimo].
[Nuova edizione 2020: La Corte costituzionale con un’altra importante sentenza, la n.150/2020 (16 luglio) ha ritenuto
che determinare l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato per motivi sostanziali o procedurali
sulla base della sola anzianità è contrario ai principi costituzionali di ragionevolezza e uguaglianza e alla del lavoro ex
art.4 e 33 Cost. La determinazione dell'indennità viene così affidata ai giudici che potranno calibrare la sanzione sulla
base anche di altri elementi: gravità delle infrazioni, comportamento e condizioni delle parti, dimensioni dell'impresa
contesto territoriale, ecc.). seppur tenendo conto “innanzitutto dell'anzianità di servizio”.)]
97
Un'altra norma della riforma Renzi (d.lgs. 23/2015) prevede la possibilità, per il datore che voglia evitare il
giudizio, di formulare una "offerta di conciliazione", che consiste nel corrispondere subito al lavoratore una
mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità (con un minimo di 3 ed un massimo di 27), non
assoggettata ad alcun onere fiscale o contributivo.
[N.B. Quanto alle piccole imprese, la riforma del 2012 e quella del 2015 non cambiano il regime sanzionatorio:
ai licenziamenti discriminatori o nulli si applica la reintegrazione piena, negli altri casi di licenziamento illegittimo si applica la tutela
obbligatoria (legge 604/1966) che prevede l'alternativa tra riassunzione e pagamento di una penale con indennizzo].
Circa la disciplina degli oneri probatori, in seguito alle riforme, essa oggi è imperniata su 3 regole:
- spetta al datore provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento
(art.2697 c.c.)
- è ammessa la prova presuntiva statistica per il licenziamento discriminatorio;
- l’inversione dell’onere della prova ai sensi dell’art.5 l.604/1966
Quindi, per gli assunti con CATUC, spetta al lavoratore provare l'insussistenza del fatto posto alla base del
licenziamento.
Sono liberamente licenziabili anche i dirigenti per i quali l’assenza di stabilità è compensata da una
consistente tutela economica prevista dai contratti collettivi, nel momento in cui il licenziamento sia privo
di qualsiasi giustificazione.
13) La segmentazione delle tutele: vecchi/nuovi assunti; imprese minori e lavoro pubblico
Tutto quanto fin qui detto, ci fa capire che oggi vi è una moltiplicazione dei regimi sanzionatori in ragione
della dimensione dell'impresa e della data di stipula del contratto di lavoro, che ha portato a delle
segmentazioni, soprattutto con riguardo al lavoro pubblico. Infatti, ai rapporti di lavoro con le p.a. trova
sempre applicazione la tutela reintegratoria piena. Dopo dubbie interpretazioni sull’applicabilità dell’art.18
99
dello Statuto a seguito della riforma 2012, si trova una soluzione con il d.lgs.75/2017, che ha dettato una
diversa ed autonoma disciplina. Essa si applica a tutto il settore pubblico, a prescindere dai motivi di
illegittimità del licenziamento e dalle dimensioni dell'amministrazione, e prevede che il licenziamento
illegittimo comporti sempre la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e il riconoscimento di un
risarcimento danni rapportato alla retribuzione (per il periodo tra il licenziamento e il provvedimento del
giudice, per un massimo di 24 mensilità).
Si tratta di differenze che allontanano il settore pubblico da quello privato, differenze giustificate però dal
fatto che nel settore pubblico, all'interesse del dipendente si affianca anche l'interesse generale al
rispristino di un rapporto di lavoro cui si accede mediante concorso e dove è tutelata l'imparzialità
dell'azione amministrativa (art. 97 Cost).
14) Il regime speciale dei licenziamenti durante l’emergenza sanitaria dovuta al CoVid
Nel 2020 la disciplina dei licenziamenti ha conosciuto un regime straordinario in concomitanza con il blocco delle
attività produttive disposto dalle autorità politiche per contenere i danni dovuti all'epidemia causata da un virus
sconosciuto e, quindi, ad alta letalità (Covid-19).
In qualche modo si è riproposta una situazione simile a quella del dopoguerra in cui ci fu, come si è visto, un
divieto di licenziare. Nel 2020, anche per l'esistenza di un quadro normativo infinitamente più complesso, il
legislatore ha adottato misure riguardanti solo i licenziamenti economici. Sono rimaste dunque in piedi tutte le
regole sui licenziamenti disciplinari. Invece sono state sospese le procedure di licenziamento collettivo e di
licenziamento individuale partite dopo il 23 febbraio 2020 e sono stati vietati tutti i licenziamenti economici da
adottare tra il 17 marzo - 17 agosto 2020. Tali norme sono state prorogate, seppure con rilevantissime eccezioni
(imprese che abbiano interamente fruito di cassa integrazione guadagni o sgravi degli oneri sociali con causale
Covid; cessazione definitiva di attività; fallimento; stipulazione di accordo collettivo aziendale per risoluzione
consensuale rapporti di lavoro) e in modo assai contorto, dall'art.14 del d.l. 14 agosto 2020, n.104 fino al 31
dicembre 2020.
[N.B. L'intervento ha un'applicazione generalizzata, prescinde dalle dimensioni del datore di lavoro, lasciando fuori solo
pochi casi: dirigenti, lavoratori in prova, apprendisti, lavoratori che hanno maturato i requisiti pensionistici e lavoratori
domestici]
Un licenziamento adottato in violazione di tale divieto è da considerare radicalmente nullo, con
applicazione della tutela reintegratoria piena.
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1) Evoluzione dell’istituto
Il contratto di lavoro a termine è stato al centro di continui interventi legislativi, l'ultimo è costituito dal
d.l.87/2018 (c.d. decreto dignità), anche se l'intervento di maggior ampiezza è precedente (ci riferiamo al
decreto attuativo della legge delega sul Jobs Act) che ha abrogato quasi totalmente la disciplina
precedente, ridefinendo i confini dell’istituto e i margini di utilizzo, di cui solo una parte della normativa è
stata modificata dal decreto dignità.
La ragione per la quale tale contratto è stato oggetto di numerose modifiche risiede nel suo elemento
caratteristico: l'automatismo estintivo per il quale, il rapporto di lavoro si estingue allo scadere del termine
senza che sia necessario alcun atto di volontà o motivo a tal fine, e per questo il legislatore è da sempre
intervenuto per evitare abusi o l'elusione delle norme previste a tutela del lavoratore.
[EVOLUZIONE ISTITUTO: In origine, l'art. 2097 c.c. prevedeva la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro
solo se giustificata del rapporto o se risultante da atto scritto: in mancanza di ciò scattava una presunzione di tempo
indeterminato.
La legge 230/1962 abrogò l'art. 2097 c.c. e, oltre alla necessità della forma scritta, dispose un'elencazione tassativa di
una serie di cause giustificatrici, rispondenti ad occasioni di lavoro oggettivamente temporanee, che legittimavano
l'apposizione del termine:
(le ipotesi erano: ad es., carattere stagionale dell'attività lavorativa; sostituzione di lavoratori assentì che hanno diritto
alla conservazione del posto; assunzione di personale per specifici spettacoli o programmi radiotelevisivi.) Si adottava,
dunque, una “tecnica antifraudolenta” che configurava il contratto a termine come eccezione in senso stretto rispetto
all'assunzione a tempo indeterminato e si prevedevano, altresì, diritti e tutele quali: il principio di non discriminazione
e la previsione della trasformazione in contratto a tempo indeterminato in caso di successive assunzioni a termine.
Successivamente, il d.lgs. 368/2001 (in attuazione di una direttiva CE) abroga la legge 230/1962 e prevede per la
stipula legittima di un contratto a termine la semplice sussistenza e formalizzazione per iscritto di ragioni di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo, pena la trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Fu sancito,
inoltre, che "il contratto di lavoro è stipulato di regola a tempo indeterminato" (con la conseguenza che il contratto a
termine rappresenta un'eccezione), prevedendo anche un limite temporale pari a 36 mesi di durata massima del
rapporto a termine.
Poi, alla luce dell'esigenza di flessibilizzazione del mercato del lavoro, la legge 92/2012 (riforma Fornero) semplificò il
ricorso a tale istituto, consentendo di stipulare un primo contratto a termine, di durata non superiore a 12 mesi, senza
la necessità di alcuna ragione giustificatrice. Con il d.lgs. 81/2015 (uno dei decreti attuativi del Jobs Act) tale
"acausalità" fu generalizzata nel senso che, non era più richiesta una causa che giustificasse il ricorso al contratto a
termine, ma veniva introdotta una restrizione quantitativa: si poteva ricorrere a tale istituto solo entro il limite
quantitativo stabilito dalla clausola legale c.d. di contingentamento, derogabile dalla contrattazione collettiva. Fu,
invece, confermata a 36 mesi la durata massima dei contratti a termine].
101
[N.B. Bisogna specificare che a causa dell’emergenza epidemiologica del CoVid-19, l’art.93 del “Decreto Rilancio”
prevede la possibilità di derogare all’obbligo dell’inserimento delle causali, qualora si intenda prorogare (superando i
12 mesi) o rinnovare, sino al 30 agosto 2020, i contratti a tempo determinato in essere al 23 febbraio 2020)].
Oggi comunque il contratto a tempo indeterminato resta la forma comune del rapporto di lavoro mentre, il
contratto a termine resta vincolato, oltre ai requisiti legali di forma “ad substantiam” (il termine deve
risultare da atto scritto, pena l'invalidità del contratto), anche a limiti di durata quantitativi: si può ricorrere
al contratto a termine entro il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato (c.d.
clausola di contingentamento già prevista dal d.lgs. 81/2015) in forza al primo gennaio dell'anno di
assunzione. Per i datori che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare il contratto a tempo
determinato. Tale limite è derogabile dalla contrattazione collettiva e in alcune ipotesi non trova
applicazione, come ad esempio: nella fase di avvio di nuove attività per periodi definiti dai contratti
collettivi, per le imprese start-up innovative, per ragioni di carattere sostitutivo, con lavoratori di età
maggiore ai 50 anni.
Spetta poi alla contrattazione collettiva definire le modalità e i contenuti delle informazioni da rendere alle
rappresentanze sindacali circa l'utilizzo del lavoro a tempo determinato.
102
Inoltre, è prevista anche una responsabilità amministrativa: se il datore supera il limite previsto dalle c.d.
clausole di contingentamento, è tenuto a pagare una sanzione amministrativa per ciascun lavoratore pari al
20% della retribuzione, se il numero di lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non è
superiore a 1; se, invece, tale numero è superiore a 1, l'importo da pagare sarà pari al 50% della
retribuzione (in tal caso è esclusa la sanzione della trasformazione a tempo indeterminato). La sanzione
amministrativa è prevista anche se il datore non osserva obblighi di parità di trattamento tra i lavoratori a
termine e quelli a tempo indeterminato.
Ad ogni modo, i vari vizi imputabili alla stipula del contratto a termine devono essere fatti valere dal
lavoratore, che è tenuto ad impugnare la nullità del termine e la violazione delle norme previste sul
rapporto di lavoro a tempo determinato, entro 180 giorni dalla scadenza del contratto e, nei successivi 180
giorni, deve depositare l'eventuale ricorso giudiziale o comunicare alla controparte la richiesta di tentativo
di conciliazione o arbitrato.
7) Discipline speciali
Sono poi previste discipline speciali per determinati lavoratori. Infatti, sono esclusi dall'ambito di
applicabilità della disciplina del contratto a tempo determinato (in quanto già regolamentati da norme
speciali):
i rapporti di lavoro stipulati con lavoratori in mobilità; quelli tra datori dell'agricoltura e gli operai a tempo
determinato; i richiami in servizio del personale volontario del corpo nazionale dei vigili del fuoco; contratti
a tempo determinato stipulati con il personale docente ed ATA (per le supplenze) e con il personale
sanitario del Servizio sanitario nazionale.
Circa i contratti di lavoro a tempo determinato riguardanti i dirigenti ed i lavoratori della pubblica
amministrazione, la disciplina speciale (d.lgs. 165/2001) applicabile prevede che: quanto ai contratti a
termine con i dirigenti, non possono avere durata superiore a 5 anni, salvo il diritto del dirigente di recedere
trascorsi 3 anni; è previsto che le pubbliche amministrazioni possano ricorrere a contratti a termine
esclusivamente per rispondere ad esigenze temporanee o eccezionali. I contratti illegittimi sono nulli, ma
non è prevista la sanzione della trasformazione legale, però sussiste la sanzione del risarcimento del danno
da parte dei dirigenti per i lavoratori illegittimamente assunti.
[N.B. ricordiamo, non vi è la sanzione della trasformazione in quanto le assunzioni nel pubblico impiego devono
avvenire esclusivamente mediante concorso ex art. 97 Cost.)
La Corte di giustizia europea è intervenuta nel 2018 legittimando la non applicazione al lavoro pubblico della sanzione
della trasformazione del contratto prevista per il lavoro privato, pur sottolineando la necessità di prevedere effettive
misure volte a prevenire e punire eventuali usi abusi del contratto a tempo determinato.
Si è ritenuto che la normativa nazionale prevede altre misure destinate a prevenire e sanzionare il ricorso abusivo a
contratti a tempo determinato: difatti, il d.lgs. 165/2001 dispone che le amministrazioni sono tenute a recuperare, nei
confronti dei dirigenti responsabili, le somme pagate ai lavoratori a titolo di risarcimento del danno nel caso di
violazioni dovute a dolo o colpa grave; oppure, lo stesso decreto prevede che le amministrazioni che abbiano violato
le norme sul reclutamento, non possono procedere ad assunzioni peri successivi 3 anni].
8) L’apprendistato e il contratto di formazione e lavoro. Dal Testo Unico del 2011 al Jobs Act
Passiamo ora ad analizzare l'apprendistato che è un contratto mirato a consentire l'apprendimento di un
mestiere.
Esso riceveva una regolamentazione già nel codice civile del 1942, agli artt.2130 ss : all'apprendista il
codice riconosce una retribuzione, il diritto all'istruzione professionale, un attestato del tirocinio compiuto,
nonché l'applicazione di tutte le norme sul contratto di lavoro compatibili con la specialità del rapporto e
non derogate da leggi speciali.
La dottrina e la giurisprudenza hanno definito l'apprendistato come un contratto a causa mista, dal
momento che lo scambio contrattuale non si esaurisce nell'erogazione di lavori in cambio di una
retribuzione, ma vi è anche un obbligo, che grava anzitutto sul datore, di formare o far formare il
lavoratore: è proprio questo che giustifica la riduzione del costo dell'apprendista (in termini di oneri sociali
104
e retributivi). Se da un lato, l'apprendistato rappresenta uno strumento prezioso per formare i lavoratori
(soprattutto giovani), è anche vero che questo potrebbe diventare anche uno strumento utilizzato dai
datori per risparmiare sul costo del lavoro. Per conciliare questi due aspetti, il contratto di apprendistato è
stato regolato attraverso una specifica disciplina dettata dalla legge 25/1955.
In primis, fu prevista l'età degli apprendisti che doveva essere compresa tra i 15 ed i 21 anni; fu sancita la
durata massima del contratto di apprendistato (ossia 5 anni); e norme furono dettate anche circa le
autorizzazioni ed i controlli da parte delle amministrazioni pubbliche. Questa legislazione, però, non fu in
grado di impedire che l'apprendistato divenisse uno strumento di legittimazione formale dello
sfruttamento del lavoro giovanile.
Così negli anni ‘80 il contratto di apprendistato lasciò spazio a nuovi tipi contrattuali, come il contratto di
formazione lavoro (CFL), istituito con una legge speciale del 1977 e poi perfezionato nel 1984. Tale
contratto è durato una ventina di anni, per poi essere affossato dalla normativa comunitaria.
Nel 1997 fu nuovamente valorizzato l'apprendistato, che venne rilanciato con la riforma Biagi realizzata
con il d.lgs. 276/2001, e vennero introdotti due tipi di contratto:
- il primo rivolto a consentire l'acquisizione di una formazione professionale negli ultimi anni del percorso
scolastico, destinato ai giovani di età compresa fra i 15 e i 18 anni;
- il secondo diretto a consentire un intreccio tra alta formazione post-scolare ed esperienza lavorativa,
utilizzabile anche fino ai 29 anni.
Il decollo di questi nuovi contratti di apprendistato dovette fare i conti però con la riforma del Titolo V della
nostra Costituzione che, a seguito della modifica dell'art.117 Cost, aveva determinato confusione su quali
fossero le competenze dello Stato e quali quelle delle Regioni in materia di lavoro e formazione
professionale.
Fu fatta chiarezza con due sentenze della Corte Costituzionale, con cui fu disposto che:
- il legislatore statale ha competenza esclusiva in materia di regolazione degli istituti del contratto di
apprendistato;
- la legge regionale può intervenire al fine di regolare la formazione professionale extra-aziendale;
- la contrattazione collettiva interviene negli ambiti ad essa riconosciuti dal legislatore statale e non può
essere compressa dalle legislazioni regionali;
- l'attività in materia deve ispirarsi al principio della leale collaborazione tra tutti i soggetti pubblici e le
parti sociali.
Il T.U. 167/2011 ha attribuito notevole rilevanza alla contrattazione collettiva, a cui è rimessa la disciplina
del contratto nel rispetto dei principi indicati dallo stesso T.U. e, per incrementare l'utilizzo
dell'apprendistato come importante strumento per l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ne
incrementò il numero (3 ogni 2 lavoratori qualificati o specializzati). Infine, il d.lgs. 81/2015 ha poi previsto
3 tipologie di contratto di apprendistato:
• l'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e
il certificato di specializzazione tecnica superiore, destinato ai giovani tra i 15 e i 25 anni privi di qualifica che
vogliano acquisirla: per essi la formazione deve avere durata di 400 ore, integrabile da una formazione
aziendale;
• l'apprendistato professionalizzante, destinato ai giovani tra i 18 e i 29 anni che vogliano acquisire una
qualifica contrattuale (cioè un titolo non rilasciato dal sistema educativo, ma connesso all'inquadramento
previsto dalla contrattazione collettiva): in tal caso la formazione può arrivare a 120 ore nel triennio;
• l'apprendistato di alta formazione e di ricerca, destinato ai giovani tra i 18 e i 29 anni, coniugabile con i
percorsi di diploma di scuola superiore, la laurea, il dottorato di ricerca, il praticantato professionale: tale
apprendistato può essere attivato a seguito di convenzioni tra datori e istituzioni educative e la formazione
è regolata dal sistema pubblico.
105
Per tutti e 3 i tipi di apprendistato è prevista la forma scritta “ad probationem” (ossia ai fini della validità
del contratto) con la previsione di un sintetico piano formativo individuale, l'indicazione di un tutor e della
qualifica da conseguire al termine del rapporto e la previsione di ina durata del contratto non inferiore a 6
mesi.
La disciplina oggi vigente, inoltre, conferma la configurazione dell'apprendistato come contratto a tempo
indeterminato, con limitata licenziabilità nel suo svolgimento, ma con libera recedibilità alla scadenza del
periodo in apprendistato (se alla scadenza di tale periodo nessuna delle 2 parti recede, il contratto di
apprendistato si converte in un contratto a tempo indeterminato standard).
[N.B. Si noti che, come per il contratto a tempo determinato, anche per l’apprendistato l’emergenza epidemiologica
ha reso necessaria la proroga del termine di una durata pari al periodo di sospensione dell’attività lavorativa].
Se lo prevedono i contatti collettivi, l'apprendista può essere retribuito in una misura percentuale, e in
modo graduato all'anzianità di servizio, rispetto alla retribuzione spettante al lavoratore del corrispondente
inquadramento professionale. La riforma del 2015 ha però escluso l’obbligo retributivo a carico del datore
nel caso di contratto di apprendistato del terzo tipo (di alta formazione e di ricerca), mentre per il contratto
per la qualifica e il diploma professionale, il datore dovrà corrispondere una retribuzione pari al 10% di
quella ordinaria. Sono, inoltre, previste riduzioni degli oneri previdenziali (10% della retribuzione dovuta).
Quanto alle sanzioni previste in caso di violazione della disciplina in esame, il d.lgs. 81/2015 impone al
datore l'obbligo di integrare la contribuzione versata con riferimento alla qualifica da acquisire, maggiorata
del 100%.
[N.B. Non è chiaro se come sanzione sia anche prevista la trasformazione del rapporto in contratto a tempo
indeterminato, ma dovrebbe propendersi in tal senso: nella realtà, a seguito dell'intervento degli ispettori del lavoro,
viene dato al datore un congruo termine per adempiere agli obblighi previsti dal piano formativo, se persiste
nell’inadempimento, appare inevitabile la conversione in un normale contratto di lavoro attesa la differenza esistente
tra il contratto dichiarato e quello effettivamente eseguito].
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definizione: "è lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in
locale di cui abbia disponibilità, anche con l'aiuto accessorio di membri della sua famiglia, ma con esclusione di
manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie
prime o accessorie e attrezzature proprie e dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi. ").
Viceversa, non si rientra in tale fattispecie lavorativa qualora la prestazione di lavoro è svolta pur sempre
all'esterno, ma in locali di pertinenza del committente (nel qual caso il lavoratore a domicilio sarà
considerato a tutti gli effetti dipendente dell'impresa committente).
Dunque, al lavoro a domicilio non si applicano tutte le norme previste per il lavoro subordinato, ma al
contrario, attenuandosi i poteri datoriali, si attenuano anche le relative responsabilità: in tema di sicurezza
è annullato il potere/onere di vigilanza; in tema retribuzione questa viene erogata secondo la tecnica del
cottimo e quindi in relazione ai risultati e alla produttività del lavoratore; altresì, i lavoratori a domicilio non
si conteggiano ai fini della valutazione della dimensione aziendale.
Perciò, il legislatore fissa una serie di regole tese a ridurre i rischi di un ricorso eccessivo a tale forma di
lavoro (che deresponsabilizza il datore): si parla a tal proposito di “normativa antifraudolenta”.
Ad esempio: non possono affidarsi a domicilio lavorazioni che comportino l'utilizzo di sostanze o materiali nocivi o
pericolosi per la salute o l'incolumità del lavoratore e dei suoi familiari; vi è divieto di ricorrere a tale rapporto di
lavoro, per le aziende che hanno attivato procedure di licenziamento o di sospensione del rapporto; altresì, è fatto
obbligo al datore di rendicontazione e di pubblicità inerenti il numero dei lavoratori a domicilio impiegati e i termini
del loro utilizzo.
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4) La somministrazione di lavoro
Analizziamo adesso il contratto di somministrazione di lavoro oggetto di un sostanziale riordino
operato dal decreto 81/2015 e dal decreto dignità 87/2018. Esso è definito come "il contratto, a tempo
indeterminato o determinato, con il quale un’Agenzia di somministrazione autorizzata ai sensi della legge
276/2003 mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la
durata del lavoro svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo
dell'utilizzatore". In pratica, vi sono apposite Agenzie il cui servizio consiste nell'assumere i lavoratori per
poi metterli a disposizione dei propri clienti/utilizzatori.
[N.B. L'istituto della somministrazione trova un precedente nella legge 276/2003, che introdusse la fornitura di lavoro
temporaneo: tale legge prevedeva alcune ipotesi tassative (previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva), in cui le
imprese potevano ricorrere a società specializzate, ma solo per fronteggiare esigenze temporanee. In un certo senso, in tal
modo si aggirava il divieto di interposizione (spiegato all'inizio), anche se l'istituto della fornitura di lavoro temporaneo si
poneva come unica eccezionale deroga a tale divieto, ragion per cui il suo utilizzo risultava molto circoscritto].
Oggi il nostro ordinamento dedica un'attenzione particolare alla somministrazione di lavoro. In primis, le
Agenzie di somministrazione sono società che possono operare nel campo della somministrazione solo
dietro apposita autorizzazione, rilasciata in presenza di particolari requisiti organizzativi e patrimoniali.
La somministrazione è contraddistinta dal fatto che abbiamo 2 contratti:
- un contratto commerciale tra Agenzia di somministrazione e utilizzatore (appunto detto di
somministrazione di lavoro) può essere concluso sia a tempo indeterminato che determinato, deve
essere stipulato in forma scritta (altrimenti è nullo ed i lavoratori si considerano a tutti gli effetti alle
dipendenze dell'utilizzatore) e contenere tali elementi: gli estremi dell'autorizzazione rilasciata
all'Agenzia; il numero dei lavoratori da somministrare; la data di inizio e la durata prevista del contratto;
le mansioni e l'inquadramento del lavoratore; luogo, orario e trattamento economico/normativo delle
prestazioni; indicazione di eventuali rischi per la salute e sicurezza e le misure da adottare.
In merito, ci si chiede se debba esserci perfetta coincidenza tra il contratto di tipo commerciale stipulato
tra l'Agenzia e l'utilizzatore e il contratto di lavoro concluso tra l'Agenzia e il lavoratore (ossia nel caso in cui
il primo è a tempo indeterminato ci si chiede se anche il secondo debba essere allo stesso modo a tempo
indeterminato o se, al contrario possa essere anche a tempo determinato). [N.B. In passato, visto che in
proposito la legge nulla dice, si riteneva che non fosse necessaria la perfetta coincidenza fra i due contratti: dunque,
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Quanto alle tutele assicurate al lavoratore, in primis è garantita la parità di trattamento secondo cui, i
lavoratori del somministratore (Agenzia) hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche
e normative pari a quelle dei dipendenti di pari livello dell'utilizzatore. A ciò si aggiunge, che l'utilizzatore è
obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e a versare i
relativi contributi previdenziali. Nonché, ai lavoratori delle società di somministrazione si applicano i diritti
sindacali sanciti dallo Statuto dei lavoratori.
Vi sono poi norme che garantiscono il rispetto degli obblighi in materia di sicurezza e salute sui luoghi di
lavoro, con adempimenti suddivisi tra somministratore e utilizzatore. Altresì, se l'utilizzatore adibisce il
lavoratore a mansioni superiori rispetto a quelle indicate nel contratto, deve comunicarlo per iscritto al
somministratore. Inoltre, al fine di favorire la stabilizzazione della condizione lavorativa dei lavoratori
somministrati, questi devono essere informati dall'utilizzatore (attraverso avvisi affissi nei locali aziendali)
dei posti vacanti in azienda affinché, al pari dei dipendenti dello stesso utilizzatore, possano aspirare a
ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato.
Quanto alle sanzioni previste a presidio di tali regole, nel caso di somministrazione irregolare (violazione
dei divieti o degli elementi essenziali del contratto) il lavoratore può chiedere (mediante ricorso giudiziale)
la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore (quest'ultimo diventa dunque
l'effettivo datore): in tal caso, al lavoratore spetta anche un indennizzo a titolo di risarcimento del danno
(tra un mino di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità riferite all'ultima retribuzione). Inoltre, tali violazioni sono
punite anche con la sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1250 euro.
[N.B. Nel 2018 è stara reintrodotta l'ipotesi della somministrazione fraudolenta: si tratta di condotte poste in essere
con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore].
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che può anche risultare dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori
utilizzati nell'appalto, nonché per l'assunzione da parte dello stesso appaltatore del rischio d'impresa
(nell'appalto i poteri di direzione spettano all'appaltatore, nella somministrazione spettano
all'utilizzatore/committente e non al somministratore).
Nell'appalto vige anche la regola della solidarietà: il committente è obbligato in solido con l'appaltatore a
corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e previdenziali.
Tale garanzia di solidarietà si applica anche ai rapporti di subfornitura (ciò a seguito di una pronuncia della
Corte Costituzionale del 2017) ossia, “ai contratti con cui un imprenditore si impegna a effettuare per conto di
un'impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o si impegna a fornire all'impresa prodotti o servizi
destinati ad essere utilizzati nell'ambito dell'attività economica del committente”.
La subfornitura può essere considerata come un “sottotipo” di contratto di appalto, motivo per il quale
anche in tal caso vi sono esigenze di tutela, ciò al fine di evitare che la dissociazione fra titolarità del
contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vada a danno dei lavoratori.
Viceversa, le disposizioni previste per il contratto di appalto non si applicano ai contratti di appalto stipulati
dalle pubbliche amministrazioni dove si prevedono altre tutele e garanzie (vedremo nel paragrafo 8).
Quando il contratto di appalto non possiede le condizioni dette sopra (ossia l'appaltatore non esercita il
potere organizzativo e direttivo o non si assume il rischio d'impresa), il lavoratore può chiedere, con ricorso
giudiziale, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la
prestazione (si instaura un rapporto di lavoro tra il lavoratore e chi in effetti ha utilizzato la sua prestazione
lavorativa, ossia il committente).
Inoltre, al fine del calcolo delle indennità, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze
dell’impresa subentrante nell’appalto, si computa tenendo conto dell’intero periodo durante il quale questi
è stato impiegato nell’attività appaltata.
[N.B. ciò vale ad evitare la possibile limitazione fraudolenta della tutela attraverso successivi subentri di ditte
appaltatrici della stessa attività, che comporterebbero una diminuzione dell’anzianità del lavoratore, con una
corrispondente diminuzione dell’indennità o del rapporto di conciliazione. Ciò è stato poi confermato dalla legge
comunitaria 122/2016: “l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo
appaltatore dotato di una propria struttura organizzativa ed operativa, ove siano presenti elementi di discontinuità,
non costituisce trasferimento d'azienda o di una sua parte”].
Questa prospettiva sembra caratterizzare anche una recente normativa che, inserendosi nel solco delle disposizioni
emergenziali pandemia da CoVid-19, dispone in merito al contratto di rete.
In particolare, l’art.43 d.l. 34/2020 integra la disciplina delle reti, prevedendo la possibilità di stipulare, per tutto il
2020, un contratto di rete con causale di solidarietà, per favorire il mantenimento dei livelli occupazionali delle
imprese appartenenti alle filiere che si sono trovate in particolare difficoltà economica a causa dello stato di crisi o di
emergenza. Quindi, le imprese che stipulano il contratto di rete per lo svolgimento di prestazioni lavorative presso le
partecipanti potranno ricorrere agli istituti del distacco e della codatorialità, per perseguire le seguenti finalità:
a) impiego di lavoratori delle imprese partecipanti alla rete che sono a rischio di perdita del posto di lavoro;
b) inserimento di persone che hanno perso il posto di lavoro per chiusura di attività o per crisi di impresa
c) assunzione di figure professionali necessarie a rilanciare le attività produttive nella fase di uscita dalla crisi].
Per questo, si ritiene che il distacco sia una modalità di esercizio del potere direttivo del datore. Il d.lgs.
276/2003, inoltre, puntualizza che il distacco deve essere motivato da comprovate ragioni tecniche,
organizzative, produttive e sostitutive nel caso di spostamenti a un'unità produttiva collocata a più di 50 km
da quella in cui il lavoratore è adibito.
Altro requisito del distacco è quello della temporaneità che lo rende compatibile con la continuità del
vincolo della subordinazione fra il lavoratore distaccato e il datore originario. Infatti, il lavoratore viene
distaccato solo per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa la quale, se non corrisponde alle
mansioni svolte dal lavoratore cioè, se l'esecuzione dell'attività richiede che questi svolga mansioni diverse
da quelle per le quali è adibito, è necessario il suo consenso (il lavoratore può rifiutarsi di adempiere
all'attività). La legge chiarisce anche che il datore originario resta responsabile del trattamento economico e
normativo spettante al lavoratore.
Il legislatore ha poi predisposto uno specifico apparato sanzionatorio nel caso in cui su violano le regole
imposte dal d.lgs. 276/2003: è previsto che il lavoratore possa chiedere (mediante ricorso giudiziale) la
costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la prestazione lavorativa
da questi resa.
[N.B. Sinora abbiamo visto gli istituti del telelavoro e del lavoro a domicilio che consentono di ottimizzare e
alleggerire l'organizzazione aziendale ed i suoi costi, decentrando all'esterno lo svolgimento delle prestazioni
lavorative di collaboratori, che restano comunque alle dipendenze del datore; poi abbiamo visto tutti gli altri istituti
che consentono al datore di beneficiare di lavoratori assunti da altri].
7) Il trasferimento di azienda
A questo punto, invece, dobbiamo esaminare il trasferimento di azienda come modalità estrema di
alleggerimento del complesso aziendale (anch'esso rivisto dalla riforma Biagi). Infatti, la circolazione
dell’azienda (intesa come “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art.2555
c.c.)” è al centro di una specifica disciplina del lavoro. Anche il diritto dell'Unione Europea si è occupato di tale
fenomeno per evitare che il trasferimento sia determinato solo per ragioni dettate dalle differenze di disciplina
protettiva (ad es. il datore che trasferisce l'azienda in un posto dove è assicurata una minore tutela sindacale).
L'art. 2112 c.c. (intitolato "mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda") è la
norma base sul trasferimento d'azienda: il co.1 prevede che "in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto
di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano". Si mette così al
sicuro la posizione del lavoratore, ma si consente che il contratto di lavoro passi dal cedente al cessionario
senza il consenso del lavoratore stesso, derogando all'art. 1406 c.c. (sulla “cessione del contratto”) che
invece lo impone (deroga magari spiegata data l'indifferenza circa la persona del datore). In tal modo si
assicura celerità al trasferimento, ma è ovvio che questo (intendo il trasferimento) potrebbe peggiorare il
contesto lavorativo e professionale del lavoratore.
Infatti, a seguito della cessione è garantito il posto di lavoro, ma non le sue condizioni economico-
normative anzi, il co.3 dell'art.2112 prevede che il cessionario applichi i trattamenti economici e normativi
previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento. Proprio per questo, il legislatore ha
previsto quale giusta causa di dimissioni nei 3 mesi successivi al trasferimento d'azienda, la sostanziale
modifica delle condizioni di lavoro.
112
Il co.2 dell'art.2112 offre poi una garanzia di solidarietà: sancisce che cedente e cessionario sono obbligati
in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento e prevede la possibile
liberazione del cedente attraverso le procedure conciliative.
Il co.5, invece ci chiarisce cosa si intende per trasferimento: “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione
contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di
lucro, preesistente al trasferimento e che conserva la propria identità (prescindendo dal tipo di negozio con cui si opera il
trasferimento”.
Poi continua: “tali disposizioni si applicano anche al trasferimento di parte dell'azienda, da intendersi come
un'articolazione autonoma dì un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal
cessionario al momento del suo trasferimento” (il c.d. ramo d'azienda).
Seppure, dunque, il trasferimento non necessiti del consenso del lavoratore, il nostro ordinamento prevede
un coinvolgimento dei sindacati nel caso di trasferimento di azienda in cui sono occupati più di 15
dipendenti, avendo la possibilità di sottoscrivere accordi derogatori alla disciplina ex art.2112.
[N.B. Dopo l’approvazione del Codice della crisi di impresa (d.l.14/2019), ormai, la materia del trasferimento delle aziende in crisi
rappresenta quasi un capitolo a sé stante; Sulla falsariga di quanto detto, il d.l.14 prevede un preciso collegamento tra questi ambiti
disciplinari. Vi sono varie modifiche: in particolare per le imprese «per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura del
concordato preventivo in regime di continuità indiretta, cont rsferimento di azienda successivo all’apertura del concordato stesso …
l’art.2112 c.c., fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di
lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo». Diversamente quello che diventerà il nuovo art.47, co.5,
dispone, a proposito del concordato preventivo liquidatorio, che possono essere stipulati «contratti collettivi in deroga all'articolo
2112, commi primo, terzo e quarto, del codice civile»].
Inoltre, cedente e cessionario hanno l’obbligo di informare le rappresentanze sindacali prima di concludere
l'accordo definitivo sulla cessione, dando conto: della data del trasferimento; dei suoi motivi; delle sue
conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori; delle eventuali misure previste nei loro
confronti. Laddove non venga rispettato tale obbligo, si configura una condotta antisindacale con la
possibilità di adire il giudice affinché questi ordini al datore la cessazione del comportamento illegittimo e la
rimozione dei suoi effetti.
[N.B. In tal caso ci si chiede se ciò infici anche la validità del negozio con cui si opera il trasferimento: bisogna escludere che
l'accertamento della condotta antisindacale coinvolga anche le legittimità del trasferimento, mentre un tempo ciò era giustificato
dal fatto che non si voleva imporre al cedente una pronuncia che riguardasse esclusivamente una condotta del cessionario. Oggi
tale giustificazione non regge più tanto, visto che l'obbligo di informazione incombe non solo sul cessionario ma anche sul cedente].
113
1) Ammortizzatori sociali
Il nostro ordinamento prevede una serie di strumenti per fronteggiare alcuni eventi traumatici del percorso
lavorativo, quali la perdita del posto di lavoro o la riduzione e la sospensione dell'attività.
In tali ipotesi il lavoratore è destinatario di indennizzi e provvidenze di carattere previdenziale (legati ai
pregressi versamenti contributivi) e, talvolta, addirittura assistenziale (sganciati, invece, da qualunque
rapporto contributivo).
[N.B. L'art.38 Cost. riconosce il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale di ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere (co.1) nonché, il diritto dei lavoratori affinché siano preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria (co.2)].
A tali compiti provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. Si parla, cioè, di
ammortizzatori sociali proprio per intendere quegli istituti finalizzati a contenere e rendere meno
drammatiche le conseguenze del venir meno della retribuzione (fonte alimentare primaria), a causa della
perdita del lavoro o della sua sospensione.
Lo stato di disoccupazione di cui parla l'art. 38 Cost. è, dunque, da intendersi in senso ampio: ciò consente
di accomunare sotto il termine ammortizzatori sociali, sia le indennità di disoccupazione in senso stretto
(per chi aveva lavoro, ma lo ha perso), sia la cassa integrazione guadagni (che presuppone la
sospensione del rapporto di lavoro, non la sua perdita). Ciò che conta è che i lavoratori destinatari di tali
concessioni siano titolari o lo sono stati di un contratto di lavoro subordinato. Accanto alla figura
tradizionale del disoccupato vi sono poi altre categorie: quella dei inoccupati, ossia coloro che non hanno
mai trovato lavoro; poi ci sono i disoccupati di lunga durata, cioè i lavoratori che dopo aver perso il lavoro
non sono più riusciti a trovarne un altro; poi ci sono anche i disoccupati intermittenti o sottoccupati, cioè
quei soggetti che, in mancanza di un'occupazione stabile, accettano lavori occasionali o ad orario ridotto.
Ebbene, anche in relazione a queste nuove figure di disoccupati si è avvertita la necessità di una protezione
sociale. Proprio a tal fine, nel 2012 ci sono state una serie di riforme: la riforma Fornero del 2012, che ha
previsto la disciplina dei trattamenti di disoccupazione denominati Aspi e Mini Aspi; poi la legge delega
183/2014 (c.d. Jobs Act), che ha previsto la revisione delle misure di sostegno al reddito introducendo 3
nuovi trattamenti di disoccupazione, che sono: la Naspi (elle sostituisce l'Aspi e Mini Aspi); la Dis-Coll
(rivolta ai collaboratori coordinati e continuativi); l'Asdi (un assegno di disoccupazione di tipo assistenziale
finanziato dalla fiscalità generale) abrogato e inglobato dal ReI nel 2018.
[N.B. Una particolare entasi meritano le misure adottate durante il periodo di emergenza CoVid. In tale frangente storico la
funzione sociale dell’ordinamento è stata in da subito evidente: il legislatore ha predisposto strumenti che, in attuazione
dell’art.38 Cost, concorrono sia a prevenire la disoccupazione (si pensi alle misure dirette alla mera conservazione dei livelli
occupazionali esistenti, anche attraverso la temporanea sospensione dei licenziamenti, sia a rafforzare gli ammortizzatori
sociali nei confronti di tutte le categorie di lavoratori e le misure di contrasto alla povertà. Al contempo, considerata la
situazione di emergenza sul territorio nazionale relativa al rischio di diffondersi del virus CoVid-19, e date le misure di
restrizione della libertà di circolazione, adottate allo scopo di contrastare la diffusione del virus, la stessa condizionalità è
stata temporaneamente sospesa.
Nella medesima prospettiva, va segnalato che la UE ha istituito uno strumento di sostegno temporaneo per attenuare i
rischi di disoccupazione nello stato di emergenza (SURE). Il Regolamento UE 2020/672 consente agli Stati membri di
richiedere uno sostegno finanziario, anzitutto al fine di predisporre misure volte a ridurre i rischi della perdita di lavoro, sia
dei dipendenti sia degli autonomi, ma anche per la predisposizione di misure di carattere sanitario, in particolare sul luogo
di lavoro].
dell’impresa dovuti da impossibilità sopravvenuta o forza maggiore. Lo strumento principale volto a far
fronte a tale esigenza è la Cassa integrazione guadagni (CIG), utile sia per i lavoratori sia per i datori di
lavoro. Infatti, proprio in ragione della non imputabilità a entrambe le parti delle cause della temporanea
sospensione del rapporto, essa evita:
- da un lato, che i prestatori perdano la retribuzione;
- dall’altro che l’azienda sostenga ulteriori costi di manodopera.
La CIG consiste in una valida alternativa al licenziamento e fornisce la possibilità di avere alle proprie
dipendenze i lavoratori, una volta cessata la regione di sospensione dell’attività.
Nel tempo, il suo ambito di applicazione è stato esteso, sia dal punto di vista oggettivo che dal punto di
vista soggettivo, articolandosi, in CIG ordinaria e CIG straordinaria/mobilità.
In concreto, la prestazione CIG consiste in un’indennità:
- sostitutiva della retribuzione in caso di sospensione del rapporto lavorativo;
- integrativa, qualora dovesse esserci solamente una riduzione dell’attività lavorativa.
Ovviamente, il provvedimento amministrativo dell’INPS di autorizzazione dell’intervento è condizione
necessaria per goderne.
L’indennità sarà anticipata dall’impresa e poi rimborsata dall’INPS, attraverso il conguaglio tra contributi
dovuti e prestazioni corrisposte, entro un termine di decadenza di 6 mesi.
La somma erogata è equiparata alla retribuzione corrisposta in costanza di rapporto di lavoro, e di
conseguenza, sarà soggetta ad imposizione fiscale e contributiva.
[N.B. I fondi per finanziare tale indennità sono reperiti sia attraverso contributi a carico degli imprenditori e con
partecipazione dei lavoratori, sia mediante finanziamento statale. A ciò si aggiunge un contributo addizionale
imposto alle imprese che presentano istanza per la CIG].
Il quadro attuale si rinviene nel d.lgs.148/2015, che ha razionalizzato e unificato l’articolato assetto della CIG.
Essa si divide in:
- CIGO (Cassa integrazione ordinaria), finalizzata alla conservazione dell’occupazione e del reddito;
- CIGS (Cassa integrazione straordinaria), il cui finanziamento grava prevalentemente sullo Stato, ed è
destinata a fronteggiare situazioni strutturali di eccedenze di personale che non compromettono la
continuazione dell’attività aziendale.
Le differenze tra le due si ravvisano nell’ambito di applicazione, per le causali per le quali è possibile presentare
istanza, per i criteri di scelta dei lavoratori, per la procedura sindacale da avviare per poter avere accesso alla misura e
per la durata della prestazione.
[N.B. Vanno poi considerate la c.d. “indennità di mobilità” e la CIG-CoVid, di cui si parlerà dopo].
Indichiamo adesso alcune norme comuni, che valgono sia per la CIGO che per la CIGS:
Sono beneficiari di entrambe le integrazioni salariali tutti i lavoratori subordinati (compresi apprendisti con
contratto di apprendistato professionalizzante, con esclusione dei dirigenti e lavoratori a domicilio), a
condizione che abbiano conseguito un’anzianità effettiva di lavoro, presso l’unità produttiva per la quale è
richiesto l’intervento di almeno 90 giorni.
La misura del trattamento è pari all’80% della retribuzione totale che spetterebbe per le ore di lavoro non
prestate, compreso fra le zero ore e il limite orario contrattuale. Tuttavia, nell’integrazione salariale non
sono incluse festività, assenze non retribuite, come permessi orari e giornalieri o di sciopero.
[N.B. Come per tutti gli ammortizzatori sociali, anche per la CIG è stato potenziato il profilo di condizionalità al fine di
evitare che vi siano abusi dell’istituto e di consentire, al contempo l’occupazione dei soggetti uscenti dal mercato del lavoro.
I lavoratori beneficiari di integrazioni salariali per i quali è programmata una sospensione o riduzione superiore al 50%
dell’orario di lavoro, devono stipulare con i centri per l’impiego un patto di servizio personalizzato e sono assoggettati al
regime di condizionalità previsto dall’art.22 d.lgs. 150/2015].
116
ammortizzatori sociali, hanno continuato a finanziare questi trattamenti, soprattutto per le imprese operati in
territori soggetti a recessione economica e rilevante perdita occupazionale.
[N.B. Un accenno si può fare anche alla legge 26/2019, che all’art.26-sexies prevede una disciplina “ad hoc” per la CIG in
deroga per i call center].
Per adesso, è un trattamento ancora operativo. Infatti, anche l’art.87 del d.l.34/2020 ha riconosciuto ai
lavoratori che hanno cessato la CIG in deroga nel periodo tra il 1 dicembre 2017 al 31 dicembre 2018 e che non
hanno diritto alla NASpI, nel limite massimo di 12 mesi e con termine entro 31/12/2020, un’indennità pari al
trattamento di mobilità in deroga, comprensiva della contribuzione figurativa.
117
è concesso in deroga ai limiti di fruizione riferiti al singolo lavoratore e al numero di giornate lavorative da svolgere presso la
stessa azienda. Il “decreto di agosto” estende il trattamento anche agli sportivi professionisti, in presenza di alcune
condizioni retributive].
Va, infine, aggiunto che l’emergenza ha posto anche la necessità di introdurre nuove disposizioni per la
cassa integrazione in deroga. Infatti, l’art.22 d.l. 18/2020 ha previsto che i datori di lavoro del settore
privato – a prescindere dal numero di dipendenti, inclusi quelli agricoli, della pesca e del terzo settore
tranne i datori di lavoro domestico – non rientranti nel campo di applicazione di ammortizzatori sociali in
costanza di rapporto, possono richiedere trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga.
[N.B. Va rilevato, comunque, che per il funzionamento delle integrazioni salariali vi è un “platfond” finanziario limitato, ma
incrementato, qualora necessario, per il prolungarsi degli effetti sul piano occupazionale dell'emergenza epidemiologica da
Covid-19, al fine di garantire la possibilità di una più ampia forma di tutela delle posizioni lavorative rispetto a quella
assicurata. Le risorse stanziate costituiscono, però, il limite massimo di spesa].
118
La Naspi può essere sospesa per massimo 6 mesi e riprende a decorrere se il lavoratore, prima che scadano
i 6 mesi di sospensione, termina il periodo lavorativo; se, invece, il periodo lavorativo supera i 6 mesi, il
lavoratore ovviamente perde il diritto al trattamento. Se però il lavoratore instaura un nuovo rapporto di
lavoro subordinato, presso un datore diverso dal precedente e che con questi non è collegato, e il cui
reddito sia inferiore a quello minimo escluso da imposizione fiscale (pari a 8.000 euro), mantiene il diritto
alla prestazione, che però viene ridotta in misura pari all'80% del reddito che si prevede di percepire]
È previsto, inoltre, che il lavoratore destinatario della Naspi possa richiedere la liquidazione anticipata di
tutto l'importo non ancora percepito, allo scopo di iniziare un'attività lavorativa autonoma o di impresa
individuale o per associarsi in cooperativa. Ai datori che assumono a tempo pieno e indeterminato i
beneficiari della Naspi, è riconosciuta una dote economica pari al 20% dell'indennità mensile residua di
Naspi che sarebbe spettata al lavoratore.
I casi in cui si decade dal trattamento sono i seguenti:
- perdita dello stato di disoccupazione;
- inizio di un'attività lavorativa subordinata o in forma autonoma senza provvedere alle comunicazioni
previste
- raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
- acquisizione del diritto all'assegno ordinario di invalidità, a meno che il lavoratore non scelga la Naspi;
- violazione delle regole di condizionalità (l'erogazione della Naspi, infatti, è subordinata, oltre che allo stato
di disoccupazione, anche alla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa nonché ai
percorsi di riqualificazione professionale proposti dai servizi competenti).
Vi è quindi l'obbligo di restituire l'indennità che il soggetto eventualmente ha continuato a percepire dopo
tali cause.
[N.B. Qualche elemento di specialità è stato previsto a causa dell'emergenza Covid-19. Innanzitutto per la cessazione
involontaria dei rapporti di lavoro intervenuta dal 1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2020, il termine di presentazione
delle indennità Naspi e Dis-Coll è stato prorogato di 60 giorni, estendendo così il termine ordinario da 68 a 128 giorni,
decorrente dalla data di cessazione involontaria del rapporto di lavoro. Oltretutto, l'art.92 del d.l.34/2020 ha disposto
la proroga di 2mesi delle indennità di disoccupazione Naspi e Dis-Coll, a condizione che il soggetto non sia percettore
delle altre indennità introdotte per tutelare il reddito durante l'emergenza Covid. Tale proroga non viene riconosciuta
a coloro che hanno fruito della Naspi in forma anticipata.
Ancora, i percettori di ammortizzatori sociali, limitatamente al periodo di sospensione a zero ore della prestazione
lavorativa, nonché i percettori di Naspi e Dis-Coll e di Reddito di cittadinanza possono stipulare con datori di lavoro del
settore agricolo contratti a termine non superiori a 30 giorni, rinnovabili per ulteriori 30 giorni, senza subire la perdita
o la riduzione dei benefici previsti, nel limite di 2.000€ per l'anno 2020.
Un ulteriore aspetto particolarmente rilevante, poi, come anticipato è la sospensione della condizionalità.
E infatti, in ragione della situazione di emergenza sul territorio nazionale relativa al rischio di diffusione del virus
(Covid-19) conseguenti misure adottate per limitare gli spostamenti delle persone strettamente n sari sono state
sospese per 4 mesi le misure di condizionalità e i relativi termini previsti per i percettori di Naspi e Dis-Coll].
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Inoltre, con il d.l. 4/2019 è stato disposto che fino alla data del 31 dicembre 2021, l’erogazione dell’assegno
di ricollocazione è esclusivamente destinata ai percettori del Reddito di cittadinanza.
3.4) Ammortizzatori sociali per far fronte alla disoccupazione causata dal Covid
Arrivati a questo punto, è doveroso analizzare i vari ammortizzatori sociali introdotti a sostegno di tutte le
categorie di lavoratori al fine di tutelare il reddito a seguito del lockdown causato dall'emergenza
epidemiologica Covid-19. Oltre alla CIG Covid, sono state introdotte, infatti, indennità a vario titolo, nei
confronti dei lavoratori dipendenti del settore privato, dei lavoratori iscritti alla Gestione separata, dei
lavoratori domestici e dei lavoratori autonomi.
Prima di tutto, considerate le articolari esigenze di conciliazione vita-lavoro e l’impatto del non-lavoro sulla
gestione dei figli minori, oltre a particolari norme volte ad estendere i periodi di congedi parentali, sono
stati previsti bonus l'acquisto di servizi di babysitting da utilizzare per prestazioni, effettuate nel periodo
emergenziale. Sono stati aumentati giorni di permessi retribuiti per l'assistenza di familiari disabili.
Ancora, ai liberi professionisti titolari di partita IVA attiva dal 23 febbraio 2020 e ai lavoratori titolari di
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa attivi alla medesima data, iscritti alla Gestione
separata, nonché ai lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali dell'Ago, non titolari di pensione e non
iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, è riconosciuta un'indennità per il mese di marzo e aprile
2020, pari a 600 € (artt. 27 e 28, d.l. 18/2020).
Analoga indennità è stata poi corrisposta ai lavoratori dipendenti stagionali del settore del turismo e degli
stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il
1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del d.l. 18/2020; agli operai agricoli a tempo determinato, non
titolari di pensione, che nel 2019 abbiano effettuato almeno 50 giornate effettive di attività di lavoro
agricolo; ai lavoratori iscritti ai Fondo pensioni Lavoratori dello spettacolo, con almeno 30 contributi
giornalieri versati nell'anno 2019 al medesimo Fondo, cui deriva un reddito non superiore a 50.000€, e non
titolari di pensione. L'art. 85 del d.l.34/2020 ha poi introdotto un'indennità per i lavoratori domestici, non
conviventi con il datore di lavoro. Ancora nel c.d. decreto di agosto sono contemplate nuove indennità,
destinate a varie categorie di lavoratori sia subordinati (addetti al turismo, agli stabilimenti termali,
stagionali e intermittenti) sia autonomi occasionali. Le varie indennità non sono tra esse cumulabili e
non sono altresì riconosciute ai percettori di reddito di cittadinanza.
[N.B. Al di fuori delle tutele riconosciute nei confronti di coloro che tradizionalmente sono inclusi ormai nel novero dei
beneficiari degli ammortizzatori sociali, va messa in evidenza la misura riconosciuta ai sensi dell'art.44 d.l. 18/2020,
volta a garantire strumenti di sostegno al reddito per i lavoratori dipendenti e autonomi che, in conseguenza
dell'emergenza epidemiologica da Covid-19, hanno cessato, ridotto o sospeso la loro attività o il loro rapporto di
lavoro. Si tratta di quei lavoratori che non sono iscritti alle Gestioni previdenziali INPS e peri quali, dunque, non vi
sarebbe alcuna tutela al reddito in caso di disoccupazione, nonostante l'entrata in vigore della legge 81/2017.
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Per questi lavoratori è istituito, nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, un Fondo
denominato “Fondo per il reddito di ultima istanza”, volto a garantire una indennità, nel limite di spesa 1.150 milioni
di € per l'anno 2020. I criteri di priorità ed il metodo di calcolo di tali indennità è stato rimesso ad uno o più decreti del
Ministro del Lavoro e politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e finanze.
Per i lavoratori autonomi che lavorano nei comuni con alto tasso di contagio è stata prevista anche un'indennità aggiuntiva].
[NON PRESENTE NELLA NUOVA EDIZIONE]: Sempre analizzando le misure di sostegno al reddito, ricordiamo che dal primo gennaio
2018 è stata introdotta una misura universale e strutturale di sostegno al reddito ai soggetti in condizioni economiche disagiate, a
fronte della loro disponibilità a intraprendere percorsi di inserimento sociale e lavorativo:
il ReI (Reddito di inclusione).
[N.B. Un precedente lo ritroviamo in un d.lgs. del 1998 che introdusse il reddito minimo di inserimento, che ha rappresentato la prima
sperimentazione nazionale di reddito minimo attuata in Italia. Dopo di che, nel 2008 fu introdotta la c.d. social card, una misura di contrasto alla
povertà assoluta, destinata ai cittadini italiani inabili al lavoro, e concessa in base al criterio selettivo della loro età anagrafica (ultra65enni o famiglie
povere con un bambino di età inferiore ai 3 anni)].
In ultimo, il d.lgs. 147/2017 ha istituito il ReI che, a decorrere dal primo gennaio 2018, ha sostituito il SIA (sostegno per l'inclusione
attiva) e l'ASDI (assegno di disoccupazione) e costituisce un'unica misura nazionale di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale
a carattere universale, basata sul principio dell'inclusione attiva (che prevede la predisposizione per i beneficiari di un progetto
personalizzato di inclusione sociale e lavorativa).
[N.B. Inizialmente, il REI è stato erogato alle famiglie in possesso di determinati requisiti:
1) di residenza e soggiorno, ossia il richiedente doveva essere cittadino dell'UE o avere un permesso di soggiorno UE di lungo periodo, e residente in
Italia in via continuativa da più di 2 anni;
2) familiari, cioè si richiedevi la presenza di un minore, di una persona disabile, di una donna incinta, di un disoccupato ultra55enne;
3) economici, ossia un valore ISEE non superiore a 6.000 euro].
Dal primo luglio 2018 sono venuti meno i requisiti familiari (2) e la misura ha acquistato carattere universale, ossia è rivolta a tutti i
nuclei familiari in condizioni economiche particolarmente disagiate.
Il REI si compone di due parti:
- un sostegno economico, erogato dall'INPS attraverso la Carta REI il cui importo varia a seconda del numero dei componenti della
famiglia (e va da un minimo di 187,50 euro ad un massimo dí 539,82 euro);
- un progetto personalizzato di inclusione attiva che coinvolge l'intero nucleo familiare, affidato ai servizi sociali dei comuni.
La durata di tale misura può arrivare fino ad un massimo di 18 mesi, rinnovabili di altri 12.
5) Reddito di cittadinanza
Con l'entrata in vigore del d.l. 4/2019 è stata introdotto via sperimentale, a dal mese di aprile 2019, il
Reddito di cittadinanza. Questa nuova misura costituisce, innanzitutto, un livello essenziale delle
prestazioni ex art.117 co.2 lett.m Cost., il cui godimento deve essere garantito in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale. Nel suo disegno complessivo, essa presenta le tipologie di intervento proprie di una
politica di contrasto alla povertà, per i nuclei familiari che versano in condizioni di bisogno, garantendo un
sostegno economico a integrazione dei redditi familiari precipuamente finalizzato al reinserimento
lavorativo e sociale, La struttura del RdC è marcatamente polifunzionale, grazie alla sua duplice
articolazione quale:
- misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro
- misura di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all'esclusione sociale (ex art.1 co.1 d.l. 4/2019).
[N.B. A ben guardare, il RdC può essere "sdoppiato". Esso, infatti, da un lato, consiste in una misura di contrasto alla povertà
delle persone anziane, riconosciuta nei confronti dei nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di
età pari o superiore a 67 anni, adeguata agli incrementi della speranza di vita o nei casi in cui il componente o i componenti
del nucleo familiare di età pari o superiore a 67 anni convivano esclusivamente con una o più persone in condizione di
disabilitai grave o di non autosufficienza in tal caso si parla della c.d. “Pensione di cittadinanza”.
Dall'altro lato, poi, abbiamo poi il vero e proprio RdC, garantito ai nuclei familiari in possesso cumulativamente, al momento
della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, di requisiti di cittadinanza, residenza e
soggiorno di lungo periodo, oltre che requisiti reddituali e patrimoniali.
Oltretutto, il percettore non deve essere sottoposto a misure cautelare penali o a condanne definitive nei 10 anni precedenti
la richiesta].
Il RdC si compone di una parte economica, anzitutto, consistente in due elementi:
1) una componente ad integrazione del reddito familiare (come definito dall’art.2, co.6, fino alla soglia di
6000€ annui moltiplicata per il corrispondente parametro della scala di equivalenza ex art.2 co.4
2) una componente, ad integrazione del reddito nei nuclei familiari residenti in abitazione in locazione, pari
all’ammontare del canone annuo previsto nel contratto di locazione, fino ad un massimo di 3.360€ annui.
[N.B. Ai fini della definizione della Pensione di cittadinanza, la soglia al co.1 lett.a è incrementata di 7560€, mentre il massimo di cui
al co.1 lett.b è pari a 1800€ annui].
A seguito della procedura di richiesta della prestazione e accertata la sussistenza dei requisiti, il beneficio
economico è erogato attraverso la Carta RdC, utilizzabile per i per prelievi e acquisto di beni essenziali,
nonché per pagamento del canone di locazione.
Alla parte economica, però, si accompagna il diritto-dovere di essere coinvolto nei percorsi di inserimento
professionale. L'erogazione del beneficio è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al
lavoro, da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, nonché all'adesione ad un percorso
personalizzato di accompagnamento all'inserimento lavorativo e d'inclusione sociale che prevede attività
al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, oltre che altri impegni
individuati dai servizi competenti finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro e all'inclusione sociale.
[N.B. Tale percorso è definito mediante un Patto per il lavoro, stipulato dai beneficiari con i Centri per l'impiego, ovvero un
Patto per l'inclusione sociale, stipulato con i servizi sociali dedicati al contrasto alla povertà].
Così, i nuclei familiari in cui sia presente almeno un componente uscito da poco dal mercato del lavoro,
sono convocati dai Centri per l'impiego; i restanti nuclei sono convocati dai Servizi sociali competenti in
materia di contrasto alla povertà, al fine di effettuare una valutazione in grado di identificare í bisogni
dell'intero nucleo familiare.
[N.B. La valutazione consente di orientare il percorso successivo, per la definizione dei Patti per l'inclusione sociale
ovvero, nel caso in cui i bisogni del nucleo familiare e dei suoi componenti siano prevalentemente connessi alla
situazione lavorativa, per la definizione dei Patti per il lavoro con i competenti centri per l'impiego].
È interessante notare che, essendo una misura riconosciuta nei confronti dei nuclei familiari, sono tenuti a
tali obblighi tutti i componenti del nucleo familiare che siano maggiorenni, non già occupati e non
frequentanti un regolare corso di studi.
Sono esclusi da tali obblighi i beneficiari della Pensione di cittadinanza, oppure i beneficiari del RdC titolari
di pensione diretta o comunque di età pari o superiore a 65 anni, nonché i componenti con disabili, fatta
salva ogni iniziativa di collocamento mirato mirato e i conseguenti obblighi della stessa disciplina.
123
Il richiedente e i componenti il nucleo riconosciuti beneficiari del RdC e non esclusi dagli obblighi connessi
alla fruizione del beneficio, tenuti a rendere dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro entro 30
giorni dal riconoscimento del beneficio, sono individuati e resi noti ai Centri per l'impiego per il tramite
della piattaforma digitale affinché siano convocati entro 30 giorni dal riconoscimento del beneficio, se in
possesso di uno o più dei seguenti requisiti al momento della richiesta del RdC:
a) assenza di occupazione da non più di due anni;
b) essere beneficiario della Naspi ovvero di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria
o averne terminato la fruizione da non più di 1 anno;
c) aver sottoscritto negli ultimi 2 anni un Patto di servizio attivo presso i Centri per l'impiego;
d) non aver sottoscritto un progetto personalizzato.
[N.B. Sono altresì resi noti ai Centri per l'impiego i beneficiari del RdC maggiorenni e di età pari o inferiore a 29 anni, a
prescindere dal possesso degli altri requisiti, affinché siano convocati entro 30 giorni dal riconoscimento del beneficio].
Tali beneficiari del RdC non esclusi o esonerati dagli obblighi stipulano presso i Centri per l'impiego un
Patto per il lavoro, che equivale al patto di servizio personalizzato.
[Ai fini del RdC e ad ogni altro fine, il “Patto di servizio” assume la denominazione di “Patto per il lavoro”.
I beneficiari sono tenuti a:
a) collaborare alla definizione del Patto per il lavoro;
b) accettare espressamente gli obblighi e rispettare impegni gli impegni previsti Patto per il lavoro e, in particolare:
registrarsi sull'apposita piattaforma, anche per il tramite di portali regionali, se presenti e consultarla
quotidianamente, verificando la presenza di nuove offerte di lavoro; accettare di essere avviato alle attività
individuate nel Patto per il lavoro; sostenere colloqui psicoattitudinali ed eventuali prove di selezione.
Infine, accettare almeno una delle 3 offerte di lavoro congrue; in caso di rinnovo del beneficio, deve essere accettata,
a pena di decadenza dal beneficio stesso, la prima offerta di lavoro congrua].
La “congruità” dell’offerta di lavoro è definita anche con riferimento alla durata di fruizione del beneficio del RdC
e al numero di offerte rifiutate.
[N.B. In particolare, è definita “congrua” un'offerta dalle caratteristiche seguenti:
a) nei primi 12 mesi di fruizione del beneficio, è congrua un’offerta entro 100 km di distanza dalla residenza del beneficiario
o comunque raggiungibile nel tempo massimo di 100 minuti con mezzi di trasporto pubblico, se si tratta di prima offerta,
oppure 250 km se si tratta di seconda offerta, oppure ovunque collocata nel territorio se si tratta di terza offerta;
b) decorsi 12 mesi, è congrua un’offerta entro 250 km di distanza dalla residenza del beneficiario;
c) in caso di rinnovo del beneficio, è congrua un’offerta ovunque sia collocata nel territorio italiano anche nel caso si tratti di
prima offerta.
- Si noti che esclusivamente nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti con disabilità, come definita ai
fini dell'ISEE, non operano le previsioni di cui alle lettere b) e c) e, in deroga alle previsioni di cui alla lettera a), relative alle
offerte successive alla prima, indipendentemente dal periodo di funzione del beneficio, l'offerta è congrua se non eccede la
distanza 100 km dalla residenza del beneficiario.
- Ancora, esclusivamente nel caso in cui nel nucleo familiari siano presenti figli minori, anche qualora i genitori siano
legalmente separati, non operano le previsioni di cui alla lettera c) e in deroga alle previsioni di cui alle lettere a) e b) con
esclusivo riferimento alla terza offerta, l'offerta è congrua se non eccede la distanza di 250 km dalla residenza del
beneficiario. Tale previsione opera esclusivamente nei primi 24 mesi dall’inizio della fruizione del beneficio, anche in caso di
rinnovo dello stesso].
Il Patto per l'inclusione sociale, ove non diversamente specificato, assume le caratteristiche del progetto
personalizzato, e conseguentemente, ai fini del RdC e ad ogni altro fine, il progetto personalizzato medesimo ne
assume la denominazione. Nel Patto per l’inclusione sociale sono inclusi, oltre agli interventi per
l'accompagnamento all’inserimento lavorativo, ove opportuni e fermo restando gli obblighi di cui al co.8, gli
interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà, che, conseguentemente, si intendono riferiti al RdC.
[N.B. Gli interventi e servizi sociali di contrasto alla povertà sono comunque attivati, anche in favore dei beneficiari che
sottoscrivono il Patto per il lavoro].
In coerenza con le competenze del beneficiario e con quelle acquisite formalmente o non, egli è tenuto ad offrire
nell’ambito del Patto per il lavoro e del Patto per l’inclusione sociale, la propria disponibilità per la
partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in vari ambiti, da svolgere nel medesimo
comune di residenza. Egli dovrà mettere a disposizione un numero di ore compatibile con altre attività del
beneficiario, e comunque non inferiore alle 8 ore settimanali, aumentabili fino ad un massimo di 16 ore
complessive settimanali con il consenso di entrambe le parti.
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a) i soggetti promotori, sono soggetti (pubblici e privati) accreditati o autorizzati a promuovere il tirocinio
nel proprio territorio, sui quali grava l'obbligo assicurativo per il tirocinante contro gli infortuni sul lavoro.
Promotori possono essere anche i servizi per l'impiego, le agenzie regionali del lavoro, le università, gli
istituti scolastici, le cooperative sociali, ecc.
b) soggetti ospitanti sono, invece, gli enti pubblici o privati presso i quali viene realizzato il tirocinio, i quali
devono essere in regola con le norme sulla sicurezza sul lavoro; rispettare la normativa sul collocamento
obbligatorio dei disabili; non aver effettuato licenziamenti nei 12 mesi precedenti l'attivazione del tirocinio;
non avere procedure di Cigs, ecc.
[N.B. Il numero dei tirocini attivabile contemporaneamente dipende dalle dimensioni dell'unità produttiva in cui è
inserito il tirocinante: i datori fino a 5 dipendenti a tempo indeterminato possono ospitare un tirocinante; quelli che
ne occupano da 6 a 20, possono avere non più di 2 tirocinanti; quelli con più di 20 dipendenti, possono avere come
tirocinanti non più del 10% dell'organico].
Al tirocinante va corrisposta un'indennità di partecipazione, che non può essere inferiore a 300 euro mensili
e che le leggi regionali possono aumentare. Al termine del tirocinio, viene rilasciata al tirocinante
un'attestazione dei risultati formativi raggiunti, con l'eventuale indicazione delle competenze acquisite.
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Circa le differenze di genere, le pari opportunità (da ricondursi all'art. 3 comma 2 Cost.) oggi
rappresentano una garanzia ben radicata nel diritto europeo. La Carta dei diritti fondamentali dell'UE
prevede, infatti, che va assicurata la parità tra uomini e donne in tutti i campi e, a tal fine, sono previste
anche misure che assegnino vantaggi specifici a favore del genere sottorappresentato: sono le c.d. azioni
positive che sono dirette a prevenire discriminazioni, eliminare le disparità, promuovere le parità di chance
nella vita lavorativa, potendo anche attribuire vantaggi atti a conciliare tempi di vita e di lavoro (tali azioni
positive, oltre al genere, possono riguardare anche la razza o l'origine etnica).
Costituiscono azioni positive le c.d. quote cioè riserve di trattamenti preferenziali nell'acceso al lavoro, nella
progressione di carriera o nella conservazione del posto di lavoro a favore del genere in situazione
svantaggiata. A tal riguardo si parla anche di “discriminazione alla rovescia”
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anche da dati statistici, idonei a fondare la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori, spetta al convenuto (datore) provare l'insussistenza della discriminazione. Tale regime
particolare appare difficilmente applicabile alle discriminazioni dovute per ragioni politiche e sindacali,
non essendo collegato all’art.15 (Statuto lavoratori) e alle molestie sessuali, ma la giurisprudenza le ha
equiparate (solo quanto a tale regime probatorio) alle discriminazioni per motivi di sesso
[N.B. Per i whistleblowers, spetta al datore provare che la misura organizzativa, con effetti negativi, adottata dopo la
segnalazione sia fondata su ragioni estranee alla segnalazione].
La discriminazione può essere fatta valere sia con rito ordinario (in tal caso il lavoratore ottiene una
dichiarazione di nullità di ogni patto o atto discriminatorio) sia con un procedimento speciale (più
efficace) che ha carattere urgente, e finalità inibitoria e ripristinatoria il quale può concludersi con un
decreto immediatamente esecutivo, contenente l'ordine di cessazione del comportamento discriminatorio
e di rimozione degli effetti, ed è corredato da sanzione penale (riferendosi all’art.28 Statuto lavoratori, e in
quel caso la legittimazione attiva è collettiva), ma può comprendere anche il risarcimento dei danni
patrimoniali e non.
Contro tutte le discriminazioni è prevista, altresì, un'azione di carattere istituzionale, cui è legittimato il
Consigliere di parità competente per territorio, proponibile al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al
tribunale amministrativo regionale. In tal caso, il giudice può riconoscere il risarcimento dei danni
patrimoniali e non, oltre che ordinare di definire un piano rivolto alla rimozione delle discriminazioni
accertate.
Nel caso di discriminazioni diverse dal genere, il soggetto discriminato può rivolgersi al giudice scegliendo
anche il rito sommario di cui all'art.702-bis c.p.c.
Generalmente, la possibilità di agire in giudizio spetta al soggetto discriminato che, a tal proposito, può
anche delegare le organizzazioni sindacali. Nel caso di discriminazione collettiva, qualora non siano
individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione, associazioni ed enti
(inseriti in un apposito elenco approvato dal Ministero per le pari opportunità) sono legittimati ad agire
autonomamente.
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Approfondendo la ricostruzione teorico-sistematica della norma dell’art.2113 c.c. bisogna partire dal tipo di
invalidità prevista dal legislatore. Come abbiamo visto, si opta per il meccanismo dell’annullabilità dei
negozi in contrasto con tale disposizione. Questa è sicuramente più svantaggiosa, per il lavoratore, rispetto
alla nullità. Le ragioni che spiegano tale scelta si possono spiegare così:
bisogna tener distinto il piano della “regolazione” del rapporto da cui nascerà il diritto, dal piano del suo
“svolgimento” che riguarda maggiormente all’esercizio del diritto e quindi alla sua disposizioni nel primo
caso si parlerà di nullità per la violazione della regola, nel secondo caso si parlerà di annullabilità del
negozio dispositivo del diritto.
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In realtà, le soluzioni adottate dalla norma si spiegano sulla base di un criterio funzionale, attento alla
combinazione tra principi giuridici e concreti interessi, cioè abbiamo una duplice tutela:
- tutela del contraente debole (carattere soggettivo)
- garanzia dei valori fondanti dell’ordinamento (carattere oggettivo).
Quindi per quanto riguarda l’esercizio dei diritti derivanti dall’applicazione della disciplina e quindi dallo
“svolgimento” del rapporto, bisogna partire dal presupposto che il legislatore abbia voluto conciliare
l’istanza protettiva del lavoratore con l’esigenza di una risoluzione delle controversie mediante
composizioni stragiudiziali solide, dando rilievo contemporaneamente alla debolezza del lavoratore e alla
finalità protettiva dell’ordinamento.
Solo così si può spiegare il motivo per il quale le rinunzie e le transazioni, che risultino essere in contrasto
con la situazione di debolezza del lavoratore, siano invalidi e quindi annullabili. Si ritiene sufficiente, ai fini
della sua stessa tutela, la possibilità per il lavoratore di ritornare sulla sua decisione, e per tale motivo la
norma si concentra sulla scelta dell’impugnazione del negozio, ai fini dell’annullabilità dello stesso.
Specularmente, però, il legislatore esclude la nullità, ritenendo che l’azione avrebbe generato una
situazione di eccessiva incertezza, essendo imprescrittibile, e avrebbe quindi complicato la possibilità di
composizione stragiudiziale: cioè una conciliazione nulla, mediante l’imprescrittibilità dell’azione di
impugnazione, avrebbe pregiudicato l’interesse del datore di lavoro nel cercare una conciliazione.
4) La prescrizione: i termini
Parliamo ora prescrizione: ossia, un istituto di carattere generale che produce l’estinzione del diritto là
dove il suo titolare rimanga inerte per un dato tempo (art.2934 c.c.) A essa sono sottratti solo i diritti
indisponibili e altri diritti indicati dalla legge. Quindi, si applica anche per diritti dei lavoratori che sono
disponibili, seppur limitatamente.
I diritti del lavoratore si prescrivono in 10 anni. A ciò fanno eccezione il diritto alle indennità spettanti per la
cessazione del rapporto di lavoro e i crediti retributivi che si prescrivono nel termine breve di 5 anni.
5) Il dies a quo
Inoltre, normalmente il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere
esercitato (facciamo un esempio, il lavoratore non riceve la retribuzione di gennaio, questo credito
retributivo, che si prescrive in 5 anni, potrà farlo valere a decorrere dal successivo mese di febbraio). Però è
intervenuta una sentenza della Corte Costituzionale n. 63/1966 la quale, partendo dal presupposto che il
lavoratore può essere indotto a non esercitare il diritto di cui è titolare per paura di un licenziamento, ha
disposto che per i soli diritti che hanno natura retributiva
il termine per la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del rapporto di lavoro, in tal modo il
lavoratore non avrà più alcun timore a farlo valere (quindi, sempre con riferimento all'esempio di prima, il
credito circa la retribuzione di gennaio che il lavoratore non ha percepito si prescriverà sempre in 5 anni,
ma tale periodo inizierà a decorrere solo dalla data di cessazione del rapporto di lavoro e non prima).
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[N.B. Da ciò si deduce che quando il rapporto di lavoro gode di una “stabilità” di tipo reale (cioè quando la legittimità
del licenziamento sia subordinata alla sussistenza di circostanze oggettive e predeterminate) allora la prescrizione
comincia a decorrere durante il rapporto di lavoro. Diversamente, quando vi è una tutela di tipo obbligatoria (in cui è
prevista la libera recedibilità), allora abbiamo lo slittamento del dies a quo al momento della cessazione del rapporto
lavorativo].
6) La decadenza
Altro istituto di carattere generale è la decadenza, che a differenza della prescrizione, deve essere
tassativamente e specificamente indicata dalla legge o dall’autonomia privata. Per esigenze di certezza in
relazione ad alcune situazioni, l’esercizio del diritto si sottopone ad un termine più breve e perentorio,
trascorso il quale sarà precluso.
Tra le ipotesi più significative ricordiamo: l’impugnazione del licenziamento individuale e collettivo,
l’impugnazione del termine illegittimo posto al contratto di lavoro, ecc.
Il termine di decadenza può anche essere introdotto dall’autonomia privata, con la regola che: “è nullo il
patto in cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono difficile l’esercizio del diritto ad una delle
parti” (art.2965 c.c.)
7) La certificazione
La certificazione dei contratti è un istituto con cui le parti ottengono una qualificazione giuridica ufficiale
dei contratti che hanno ad oggetto una prestazione lavorativa. Dunque, la certificazione può essere chiesta
sia in materia di qualificazione giuridica del contratto (ad es: si certifica che il contratto ha natura
subordinata, autonoma o parasubordinata), sia per accertare la genuinità di clausole interne al contratto.
Essa ha la finalità di individuare la coerenza formale tra la volontà espressa dalle parti stipulanti e le
clausole contenute nel contratto da certificare.
Gli organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro sono 5 diverse commissioni, che possono essere
costituite presso: gli ispettorati del lavoro; il ministero del lavoro; le università; gli enti bilaterali; i consigli
provinciali dei consulenti del lavoro.
Essa viene chiesta in forma scritta, da entrambe le parti del contratto ed è, dunque, una procedura che ha
carattere volontario. Durante la procedura le parti devono presentarsi dinanzi alla Commissione
(l'eventuale assenza di uno dei due rende l'istanza improcedibile) e deve concludersi entro 30 giorni dal
ricevimento dell'istanza, con l'atto di certificazione che ha natura amministrativa e motivato. Se la
certificazione viene negata le parti possono presentare una nuova istanza fondata però su presupposti e
motivi nuovi.
[Quindi, con l’emissione del provvedimento di certificazione si realizza la fattispecie del contratto di lavoro
certificato, che consta in due atti distinti:
- il contratto, già perfezionato oppure che si perfeziona durante il procedimento di certificazione;
- l’atto amministrativo, che lo qualifica.]
8) La conciliazione
La conciliazione è, invece, un istituto che consente di risolvere in modo consensuale (e senza ricorrere ad
un giudice del lavoro) le controversie che possono sorgere durante il rapporto di lavoro. Un tempo il
tentativo di conciliazione era obbligatorio, la legge 183/2010 ne ha nuovamente previsto il carattere
meramente facoltativo.
La conciliazione può essere giudiziale o stragiudiziale:
- quella giudiziale avviene nel corso del processo e il giudice è tenuto a tentarla sin dalla prima udienza. Se
la proposta di conciliazione viene rifiutata senza un giustificato motivo, il giudice valuta questo
comportamento ai fini del giudizio.
Se, invece, la proposta va a buon fine, il relativo verbale ha efficacia di titolo esecutivo;
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- quella stragiudiziale può avvenire solo in sede amministrativa dinanzi alla Commissione di conciliazione
costituita presso l'Ispettorato del lavoro. Può aversi, inoltre, in sede sindacale, secondo le modalità previste
dai contratti collettivi.
Si redige un verbale che il giudice, una volta accertata la regolarità formale, dichiara esecutivo con decreto.
[N.B. è prevista anche la conciliazione monocratica, che viene condotta dal personale del Ministero del lavoro
nell’ambito dell’intervento ispettivo o di vigilanza].
9) L’arbitrato
Accanto alla conciliazione, l'altra via per risolvere in modo consensuale una controversia di lavoro è
l'arbitrato.
Con esso le parti conferiscono ad un terzo soggetto (l'arbitro) il potere di decidere la lite.
L'arbitrato si distingue in rituale e irrituale:
- in quello rituale, il lodo pronunciato dall'arbitro ed omologato dal giudice, produce gli stessi effetti della
sentenza;
- in quello irrituale, invece, il lodo rimane sul piano negoziale (non ha valore di sentenza).
In generale, può ricorrersi all'arbitrato:
- per la risoluzione di una controversia già insorta, stipulando il contratto di compromesso;
- attraverso la clausola compromissoria, ossia obbligandosi a far decidere all'arbitro le eventuali
controversie che possono sorgere dopo la conclusione del contratto.
[N.B. tale clausola compromissoria è validamente pattuita dalle parti individuali qualora:
- sia prevista da accordi interconfederali e contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più
rappresentative;
- sia sottoscritta non prima della conclusione del periodo di prova o dopo 30 giorni dalla stipulazione del contratto di
lavoro;
- sia certificata da una Commissione di certificazione].
Ad ogni modo, in materia di lavoro l'arbitrato è possibile solo se è previsto dalla legge o dai contratti
collettivi.
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Il processo di lavoro si caratterizzava per: speditezza, immediatezza, oralità, ampiezza dei poteri del
giudice.
Ovviamente, nel corso del tempo la situazione si è modificata, e anche il processo del lavoro si è trovato
coinvolto dai problemi della giustizia italiana: eccessiva lunghezza dei tempi, costi, burocratizzazione, ecc.
■ Tale processo è stato poi innovato dalla riforma Fornero (legge 92/2012), che ha introdotto un rito
speciale ad hoc.
In base all'art.409 c.p.c., le norme sul processo del lavoro si applicano alle controversie relative a:
rapporti di lavoro subordinato; rapporti derivanti da contratti agrari; rapporti di agenzia, rappresentanza
commerciale, rapporti di collaborazione continuativa e coordinata; rapporti di lavoro dei dipendenti di enti
pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica; altri rapporti di lavoro
pubblico, se non devoluti ad altro giudice.
In primo grado la competenza spetta al Tribunale in funzione di giudice del lavoro.
[N.B. Anche se l’art.413 co.2 individua i “fori speciali” attribuendo la competenza per territorio al giudice nella cui
circoscrizione è sorto il rapporto. Il ricorrente può scegliere tra i vari fori, dimostrando la sussistenza della circostanza
imposta dalla legge, altrimenti si ricorre al “foro generale”, per cui la competenza ricade sul giudice del luogo dove il
convenuto ha la residenza o domicilio. Dunque, nel processo le parti non possono convenire fori diversi da quelli
previsti dalla legge, pena la nullità di convenzioni in deroga.]
12) Concentrazione ed economia del procedimento, onere della prova, poteri del
giudice e dialogo con l’ordinamento intersindacale
La domanda giudiziale si propone con ricorso (e non con citazione che è l'atto tipico introduttivo del
processo civile) che deve contenere: generalità del ricorrente e del convenuto, determinazione dell'oggetto
della domanda (petitum), esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si fonda la domanda,
indicazione dei mezzi di prova e dei documenti offerti (se manca, si decade dalla possibilità di dedurre le
prove nel corso del processo).
Alcuni di questi elementi sono essenziali, la cui omissione conduce alla nullità del ricorso.
Il convenuto, invece, si costituisce almeno 10 giorni prima dell'udienza di discussione, mediante memoria
difensiva (in cui dovrà indicare, a pena di decadenza, i mezzi di prova e i documenti che deve depositare
contestualmente). Nell'udienza fissata per la discussione il giudice interroga liberamente le parti presenti e
tenta la conciliazione della lite formulando a queste una proposta transattiva. Se questa viene rifiutata, si
va avanti con l'istruttoria durante la quale il giudice ha molti poteri che vanno anche oltre i limiti stabiliti dal
codice civile [ad es., può sempre chiedere l'ammissione di ogni mezzo di prova, richiedere informazioni ai
sindacati indicati dalle parti, ecc.]
Esaurita la discussione, la causa è pronta per la decisione e il giudice pronuncia sentenza con cui definisce il
giudizio, dando lettura del dispositivo e della motivazione. Tale sentenza è provvisoriamente esecutiva
(ossia non bisogna attendere il giudicato, ma può subito procedersi anche all'esecuzione forzata).
[N.B. Abbiamo detto che la riforma Fornero ha introdotto un procedimento speciale (sommario, con trattazione
semplificata) per l'impugnazione dei licenziamenti individuali. Questo si applica ai licenziamenti che rientrano
nell'ambito di applicazione dell'art.18 dello Statuto, nonché: ai licenziamenti discriminatori, a quelli intimati in
concomitanza di matrimonio, a quelli con un motivo illecito determinante e ai licenziamenti riconducibili ad altra
nullità prevista dalla legge. Invece, tale procedimento non si applica ai licenziamenti dei lavoratori assunti con il
contratto a tutele crescenti (riforma del 2015 c.d. Jobs Act)].
Quanto al ricorso per Cassazione, possibile solo per motivi di legittimità, questo è esperibile contro le
sentenze rese in appello o in un unico grado per violazione e falsa applicazione non solo di norme di diritto,
ma anche di norme dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.
La protezione del credito retributivo viene estesa anche nei confronti dei terzi, ai quali vengono imposte per
legge numerose limitazioni alla possibilità di aggredire il patrimonio del lavoratore.
Infatti, in deroga alle norme generali stabilite dall'art.2740 c.c. ex art.545 co.3 e 4 c.p.c., le somme percepite dal
lavoratore a titolo di stipendio e le altre indennità relative alla cessazione del rapporto di lavoro possono essere
oggetto di pignoramento nella misura stabilita dal giudice nel caso si debba soddisfare un credito alimentare di
terzi; mai comunque in misura superiore alla metà (1/2) dello stipendio.
C.D.A.
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